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MittelFest musica e arti visive Cividale del Friuli Scuola Normale Superiore Pisa Grecia MittelFest MittelFest atti del convegno MittelFest 2001 · inaugurazione

Transcript of suoni in corso pisa mio - SAIt.it · Inno paleocristiano, Ossirinco , III sec. d.C. (Pap. Oxy....

MittelFestmusica e arti visiveCividale del Friuli

Scuola Normale SuperiorePisa

Grecia

M i t t e l F e s tM i t t e l F e s t

atti del convegno

MittelFest 2001 · inaugurazione

MittelFest · Settore Musica e Arti Visive

Scuola Normale Superiore di Pisa

MITTELFEST

AT T I D E L C O N V E G N OM I T T E L F E S T 2 0 0 1 · I N A U G U R A Z I O N E

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Gustav Klimt, Musik, in “Ver Sacrum”, 1901

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Relazioni di:

Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Introduzione

Chiara Martinelli, ricercatrice della Scuola NormaleMusica e poesia in Grecia

Carlo Pernigotti e Luisa Prauscello, dottorandi di ricerca della Scuola Normale‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica: pluralità delle occasioni del cantoe discontinuità della tradizione

François Lissarrague, centre Louis Gernet, ParigiIconografia musicale

Michael Stüve, direttore Musica RicercataGli strumenti musicali dell’antica Grecia

Eugenio Lo Sardo, Ministero Beni Culturali Vincenzo Galilei, Athanasius Kircher e la musica greca

Concerto:

Dialogo della musica antica et della moderna

IACOPO PERI (1561-1633)Euridice (1600): Finale “Biond’arcier”

JACOPO CORSI (1561-1604)Dafne (1596-1597): Aria di Apollo “Non curi la mia piant”

Grecia CIVIDALE DEL FRIULI, VENERDÌ 20 LUGLIO 2001CHIESA DI SAN FRANCESCO

MITTELFEST IN COPRODUZIONE CON LA SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA

MICHAEL STÜVE (1953)

Hellenika:

EURIPIDE

Frammento dell’Oreste , 408 a.C.(Pap. Vienna G 2315)

ANONIMO

Peana “Keklyth’, Helikôna bathydendron”, 138 a.C.(Delfi Inv. N. 515, 526, 494, 499)

ANONIMO

Interludio, IV sec. d. C.(Anonimo Bellermann § 104)

SEIKILOS

Epigramma e scolion “Hóson zês”, I sec. a.C.(“Epitafio di Sicilo”, Copenaghen Inv. n. 14897

MESOMEDE DI CRETA

Proemio alla Musa “Áeide mûsá moi phíle” , 117-138 d.C.(pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et dellamoderna, Firenze 1581)

MESOMEDE DI CRETA

Proemio a Calliope “Kalliópeia sophá”, 117-138 d.C.(pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et dellamoderna, Firenze 1581)

ANONIMO

Interludio, IV sec. d. C.(Anonimi Bellermann § 100 e 97)

ANONIMO

Lamento sulla morte di Aiace “Autophóno cherí”, II sec. d.C.(Pap. Berlino 6870)

ANONIMO

“Chryséa phórminx” (Contraffazione del preludio della prima ode pitica diPindaro, Athanasius Kircher, Musurgia universalis...., Roma 1650)

LIMENIO

Prosodion del peana, 128 a.C. (Delfi Inv. 214)

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MESOMEDE DI CRETA

Inno a Nemesi “Némesi pteróessa”, 117-138 d.C.(pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et dellamoderna, Firenze 1581)

ANONIMO

Frammento strumentale di Contrapollinopolis, II sec. d.C.(Pap. Berlino 6870)

ANONIMO

Inno paleocristiano, Ossirinco , III sec. d.C. (Pap. Oxy. 1786)

MESOMEDE DI CRETA

Inno al Sole “Chionoblephárou pater Aûs”, 117-138 d.C.(pubblicato da Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et dellamoderna, Firenze 1581)

GIULIO CACCINI (1550-1618)

Il rapimento di Cefalo (1600)coro finale:

Ineffabile ardoreMuove sì dolceQuand il bell’anno

EMILIO DE’ CAVALIERI (1550-1602)

La Pellegrina (1589)VI Intermedio

Ballo del Granduca “O che nuovo miracolo”

Musica RicercataMichael Stüve, direttore

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Introduzione SALVATORE SETTIS

Il mº Carlo de Incontrera, che ha invitato la Scuola Normale Superiore di Pisaa presentare, nel quadro di questo Mittelfest, qualche riflessione sulla musicadegli antichi Greci, conosce benissimo i rischi che correva se noi avessimo accet-tato di venire a parlare qui a Cividale. Sono due rischi in qualche modo oppo-sti, e legati a quello che la Normale è e a quello che essa non è. La Normale ‘nonè’ un istituto di studi musicali, e pertanto parlare davanti a un pubblico con for-te e marcata cultura musicologica come quello di Cividale è un rischio, special-mente per me che di musica non so proprio nulla. D’altra parte, la Normale èun luogo di segnalata e alta tradizione in molti campi del sapere, fra cui propriogli studi sul mondo antico, greco e romano: e pertanto c’è il rischio che quelloche vi presenteremo possa eccedere in specialismo. Ma il mº de Incontrera saanche che la Normale ha un fortissimo interesse per la musica e la sua storia, einfatti organizza da trent’anni la serie “I concerti della Normale”, offerti nonsolo ai normalisti ma alla città di Pisa, e organizzati prima con la consulenza delmº Piero Farulli e da alcuni anni proprio con l’aiuto di Carlo de Incontrera. Ilquale sa anche che proprio in Normale è stato progettato e diretto l’ultimogrande sforzo di sintesi interpretativa della cultura greca, un’opera in cinquevolumi pubblicata da Einaudi col titolo “I Greci. Storia Arte Cultura Società”(il quinto volume uscirà in novembre di quest’anno); un’opera il cui successo simisura dal solo fatto che a partire dall’anno prossimo verrà integralmente tra-dotta in tedesco, e subito dopo in inglese.Se abbiamo accettato di partecipare, è stato dunque non solo per la gioia di esse-re qui con voi oggi, ma anche per l’interesse che abbiamo al confronto fra lenostre ricerche specialistiche e un pubblico più vasto, il cui profilo culturale ètale da garantire non solo e non tanto l’attenzione al messaggio che intendiamodare, quanto il controllo della sua qualità. Di tutti, quello che meno conosce il tema proposto sono proprio io: tutto ciòche potrò fare sarà dunque introdurre gli altri relatori con qualche riflessione sudue punti diversi e convergenti: da un lato, sul ruolo della civiltà greca nella sto-ria recente dell’Europa e nella stessa idea di una civiltà comune europea; dal-l’altro, sul ruolo della musica nella cultura greca antica.

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< Delfi, le rovine del santuario di Atena Pronaia

Cominciamo dal primo punto. Vorrei affrontarlo partendo da una piccola seriedi citazioni, scelte a caso fra migliaia (letteralmente) di testi simili, che rivendi-cano una discendenza dai Greci delle nostre coordinate culturali. Cominciamodalla famosa sentenza di Hegel, secondo cui “Al nome Grecia l’uomo colto euro-peo subito si sente in patria”. Con spirito non troppo diverso, Hannah Arendtpoteva sostenere che nè la rivoluzione americana nè quella francese sarebberomai state possibili senza l’esempio che veniva dall’antichità classica, e Popperrichiamava i filosofi presocratici come modello della dinamica moderna del pen-siero scientifico fra congettura e confutazione. John Stuart Mill scrisse che “labattaglia di Maratona, anche come evento della storia inglese, è più importan-te della battaglia di Hastings. Se in quel remoto giorno il risultato dello scontrofosse stato diverso (se i Greci non avessero vinto), Britanni e Sassoni forsevagherebbero ancora per le selve”. In queste e mille altre citazioni, i Greci com-paiono con significato ‘fondante’: e non solo di risultati o di azioni o di memo-rie, ma di ‘valori’ ancora attuali. Lo vediamo ancor meglio nel contrasto fra duealtre citazioni, le ultime: da un lato Gilbert Murray, Regius Professor di greco aOxford, che assegnava ai Greci “la ricerca di Verità, Libertà, Bellezza, Ragioneed Eccellenza nella vita individuale, e di fratellanza nella vita internazionale”, epiù in generale l’origine stessa del “Pensiero Equilibrato”; dall’altro lato, AlbertHofmann (noto come “il padre dell’LSD”, che proprio in questi anni ha argo-mentato in favore degli stimolatori della psiche sostenendo che anche i Greci,nei misteri di Eleusi, usassero un allucinogeno simile all’LSD. Tutti questi esempi sono accomunati da una tendenza implicita, tanto piùpotentemente operativa quanto più essa vien data per scontata: la tendenza aconsiderare i Greci come la radice ultima e unica di tutta la civiltà “occidenta-le”, e ‘dunque’ aventi titolo a legittimare valori e pratiche del nostro tempo,anche opposte fra loro quanto lo sono il “pensiero equilibrato” e gli “stati alte-rati di coscienza”. Si dà così per dimostrato il valore preternazionale e fondati-vo della cultura greca, e la storia dei Greci (come nella citazione di Stuart Millsulla battaglia di Maratona) assume lo status di storia universale, non solo neces-saria a intendere il mondo moderno, ma anche fonte di legittimazione e di ispi-razione per il suo (per il nostro) futuro. I Greci, come “primi inventori” dellafilosofia e dell’arte, della scienza e della bellezza; i Greci, che seppero sperimen-tare sopra di sé in forma originaria tutte le passioni del mondo e dell’uomo,quelle di Edipo e di Medea, di Antigone e di Odisseo. Un paesaggio culturalefatto di sentenze arcane e pregnanti pronunciate una volta per tutte, d’impec-cabili monumenti contro un cielo sempre azzurro dietro il quale s’indovinanodèi benigni pronti a incarnarsi in bronzi e in marmi di bellezza irraggiungibile.Una civiltà popolata di modelli e di archetipi, di pietre di fondazione e di cifreuniversali, di motti delfici e di colonne doriche, di atleti che s’incoronano e diartisti dediti alla Bellezza, di passioni politiche da cui emerge una polis cristalli-

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na e una democrazia che dà spazio alla libertà e all’individuo, di filosofi che trac-ciano con stilo implacabile l’agenda di tutte le filosofie possibili. Paradossalmente, una tale immagine dei Greci resiste, e anzi si consolida, pro-prio mentre il posto della cultura classica nei percorsi educativi e nella culturagenerale sembra restringersi ogni giorno di più. Meno sappiamo il greco, piùparliamo dei Greci. Quanto più filosofi e saggisti perdono la capacità di con-trollare criticamente in prima persona lo spessore e il senso originario dei testidella cultura greca, tanto più marcatamente essa diventa, in uno spirito tutto“postmoderno”, il serbatoio ideale a cui attingere elementi staccati, da rimonta-re poi ad arbitrio in più o meno gratuiti collages. La patria di quello che con lin-guaggio degno di un mito di fondazione si volle chiamare “miracolo greco” èdiventata così come un retrobottega da cui prelevare a piacimento questo oquell’arnese, quasi fosse attrezzeria di teatro da riciclare di continuo. Ma quan-to più arbitrari e meno colti sono questi esercizi di accanito citazionismo, tan-to più essi innalzano la cultura greca sopra un piedistallo irraggiungibile, estir-pandola dalla storia per proiettarla su un piano che si pretende “universale”.Non è questa l’immagine dei Greci che vogliamo oggi proporvi. Come unmonumento provato dagli anni, essa è infatti attraversata da crepe numerose eprofonde. Per esempio, se vogliamo simboleggiare il carattere fondante dellaciviltà greca nella giornata di Maratona, lo identifichiamo implicitamente conuna vittoria dei Greci (leggi: degli Europei) sui Persiani, che stanno qui per unOriente indeterminato e statico, l’ “altro” -perennemente uguale a se stesso-rispetto a un’Europa caratterizzata, a partire dalla grecità, da un accentuatodinamismo e da un continuo progresso; e per questo radice e madre della moder-nità. Formulazioni come queste ci appaiono oggi non solo strettamente euro-centriche, ma anche limitative e “datate”; “datate”, intendo, in quanto coesten-sive a una concezione della civiltà europea come culminazione d’ogni altra, epertanto legittimata al colonialismo, all’annessione, alla “missione civilizzatri-ce”. L’opposizione Greci/barbari veniva in tal modo a tradursi in quella Euro-pa/”altri”, riattualizzata e proiettata ora verso le Americhe, ora in Asia o in Afri-ca, ribadendo l’identità fra un “noi” orgogliosamente europeo e i Greci, padri emaestri di una stessa civiltà. Proprio questa identificazione, che sembrò garantire alla cultura greca un ruoloperpetuamente vitale nel mondo moderno -quasi dovesse diffondervisi con learmi, le merci e le tecniche dell’Occidente-, suona oggi al contrario come uncanto funebre. Quale può essere il posto dei Greci in un mondo caratterizzatosempre di più dalla mescolanza dei popoli e delle culture, dalla condanna del-l’imperialismo e dalla fine delle ideologie, dalla fiera rivendicazione delle iden-tità etniche e nazionali e delle tradizioni locali contro ogni tentazione “annes-sionistica”? Che senso ha cercare radici “comuni”, quando tutti sembrano piut-tosto impegnati a distinguere le proprie da quelle del vicino? Come possiamo

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vantarci di aver vinto sugli “altri” a Maratona senza pensare all’Algeria o al Viet-nam? Con quale ostinata presunzione potremmo mai chiedere ai Cinesi o agliIndiani di riconoscersi nei Greci, implicandone l’identità con un “noi” tuttoeuropeo, senza offrire in cambio il desiderio di identificarci, noi, nella loro anti-chità? Se quella è la nostra immagine dei Greci, se quello è il loro ruolo nella“storia universale” che vogliamo costruire, riducendo la storia universale a sto-ria dell’Europa e dell’espansione europea, allora davvero i Greci sono destinatia diventare il primo bersaglio di una cultura vicina a soccombere, il prototipodei dead white males da uccidere domani. Dobbiamo ricordarci, al contrario, che i Greci (i “Greci senza miracolo” diLouis Gernet) non sempre innalzarono monumenti e pronunciarono dettimemorabili, nè furono indaffarati a fondare la coscienza dell’Europa modernaper distinzione dall’Oriente, ma anzi nell’Oriente si mossero con gioia e disin-voltura e ansia di scoperta, cercandovi merci e miti e saggezza, imparando einsegnando. Li troviamo sulle coste del Mar Nero o della Spagna, in Sicilia o inIndia, a costruire un’infinita varietà di culture locali, o a immaginare viaggi deiloro eroi oltre le colonne d’Ercole; sempre curiosi di vedere e di conoscere, conquello spirito che un sacerdote egizio, parlando con Solone, riconobbe comeuna loro caratteristica: “un Greco vecchio non esiste, voi Greci siete sempre fan-ciulli” (lo racconta Platone nel Timeo ). Li troveremo sempre pronti a “ibridiz-zarsi” con le civiltà e i popoli che incontravano, ponendo e ricevendone doman-de, creando oggetti culturali a volte davvero assai poco “classici”. Potremo, perquesta strada, apprezzarli di più e meglio proprio sentendoli meno “uguali anoi”, più “altri”, più “stranieri”. Questo nuovo processo di comprensione, qua-le è in corso ai livelli più alti degli studi specialistici, significa relativizzare lacompattezza della civiltà greca, significa evidenziarne i debiti e i contatti conaltre culture e le numerose varianti regionali; significa, in ultimo, incrinareprofondamente, fino a distruggerla, quella “rotonda” classicità a cui pure siancorarono tanti discorsi e tanti progetti della storia e della cultura moderna.Dovremo porre in rilievo l’‘alterità’ dei Greci rispetto alla nostra cultura (quan-to sia diversa la loro dalla nostra libertà, la loro dalla nostra politica, la loro dal-la nostra uguaglianza), ma anche analizzare di volta in volta le ragioni per cui,anzichè riconoscerne l’alterità, si è preferito così spesso costruirne un’identitàfittizia con “noi”. Ogni volta che lo si è fatto non è stato mai per caso, bensìrispetto a una posta in gioco estranea, come è ovvio, ai Greci, alle loro preoc-cupazioni e pensieri; e costantemente propria, invece, di questo o di quell’altro“noi”: perciò è stato ed è possibile invocare l’esempio greco per ragioni assolu-tamente opposte fra loro. Perciò le ragioni di quelle identificazioni aiuterannoanche a intendere l’uno o l’altro “noi” di volta in volta in azione, che sia in Ger-mania, in Italia o in America: identità e alterità entreranno in gioco quasi a ognipasso, in perpetua tensione fra loro. Insomma, i Greci senza miracolo saranno

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molto più interessanti dei Greci del “miracolo”. Forse anche la loro musica ciapparirà più interessante e ricca di spunti se non la vedremo come una proie-zione all’indietro della musica europea, ma nel contesto delle pratiche musicalidel Mediterraneo orientale, greco e non-greco.Vengo così al mio secondo punto. Quale era il ruolo della musica nella civiltàgreca? Una premessa è necessaria: ‘tutto’ quello che sappiamo dei Greci è filtratoattraverso il gigantesco naufragio della maggior parte della loro “produzione cul-turale”. I testi letterari che abbiamo sono forse il 5, forse il 10 per cento di quel-li che si potevano trovare nelle biblioteche di Pergamo o di Alessandria; se pas-siamo alle arti figurative, la pittura, che vi aveva un ruolo centralissimo (bastipensare ai nomi di Apelle o di Parrasio), è interamente perduta; quanto alla scul-tura, i Greci avevano ben chiara una gerarchia dei materiali secondo cui la scul-tura in bronzo era considerata più “nobile” e pregiata di quella in marmo, ma dibronzi greci ne abbiamo pochissimi, meno di cento, quando sappiamo che nel-la sola Olimpia ce n’erano molte migliaia; quanto alle sculture in marmo, non neabbiamo che una minima parte. Dell’intero patrimonio figurativo dell’antichità,in altri termini, abbiamo oggi probabilmente meno dell’1-2 per cento. Con lamusica, le cose stanno ancora peggio: i resti che ne abbiamo sono certamentemolto, molto meno dell’1 per mille. È per porre rimedio a questa documenta-zione così drammaticamente lacunosa che gli studiosi del mondo antico hannoelaborato negli ultimi secoli le sofisticate tecniche e metodologie della filologiatestuale e dell’archeologia, finalizzate a ricostituire un quadro meno incompletodella civiltà antica, della sua cultura letteraria e artistica come della sua storiapolitica ed economica e della sua cultura “materiale” (gli oggetti della vita quoti-diana). Si può anche dire che l’estrema lacunosità della documentazione ha gio-cato come un potente stimolo all’interpretazione, obbligando a mettere a puntostrategie interpretative non solo diverse, ma talora opposte fra loro.Ma è importante osservare che, al di là delle perdite e delle lacune, quello chepiù si è modificato con l’inesorabile trascorrere del tempo è proprio l’immagi-ne generale della cultura greca. Le enormi perdite di documentazione hannoinfatti provocato una ‘dislocazione della percezione’ dei Greci in aree estrema-mente significative. Farò solo due esempi. Se c’è qualcosa che a tutti viene inmente parlando dei Greci, è l’immagine di un tempio (come il Partenone o itempli di Paestum o di Agrigento), o di una scultura, come i marmi del Parte-none al British Museum, o il Laocoonte in Vaticano. Sono immagini ‘mono-crome’, dominate dal candore del marmo delle qualità più pregiate: eppure, l’ar-chitettura e la scultura greca erano coloratissime, arricchite di una policromiavivace e multiforme, di cui solo un limitato numero di sculture reca una qual-che pallida traccia. Immaginiamo di entrare in un grande museo di sculturaantica, per esempio ai Musei Vaticani, e di trovarci in una grande sala con cen-tinaia di sculture bianchissime, di quel bianco abbagliante che tanto appartiene

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alla più comune immagine della classicità. Chiudiamo gli occhi per un istante,immaginiamo le carni degli Apolli e delle Veneri colorarsi come d’incanto, colo-rarsi i loro panneggi, i loro capelli, i tronchi d’albero a cui a volte si appoggia-no, i serpenti che stringono fra le loro spire Laocoonte e i suoi figli. Ci parrà, seriapriamo gli occhi davanti a uno spettacolo tanto mutato, di essere in un’altradimensione, “non-classica”: ebbene, è solo in questa dimensione sorprendente-mente, quasi fastidiosamente estranea, che possiamo riconoscere l’autentico“colore” della grecità. Lo stesso accade coi bronzi: siamo così abituati a vedere ibronzi antichi con la patina verdastra creata dai secoli di abbandono, che tuttala scultura in bronzo europea, dal Rinascimento in qua, ha adottato ‘quel’ ver-de come il colore del bronzo. Eppure, sappiamo che i bronzi antichi erano, inve-ce, lucidi e splendenti, di un colore dorato quasi più vicino all’oro che alla‘nostra’ immagine del bronzo; che quelle statue sorridevano da labbra di ramerossastro, mostrando denti d’argento; che i loro occhi erano di pietre e vetricolorati. Un’immagine, per la sua violenta policromia, che ci appare quasi “bar-barica”, per contrasto alla monocroma compostezza dei bronzi come li vediamonei musei: ma quell’immagine violenta ed estranea, così difficile da accettare, èla sola immagine autentica dell’arte greca.Non diversamente stanno le cose nella musica greca. Qui, come ho detto, laperdita della documentazione è tanto vasta e radicale da farcene dimenticareperfino l’esistenza. Quasi non sappiamo più quanto profondamente la musicapermeasse ogni aspetto della vita pubblica e privata dei Greci; quasi abbiamodimenticato che le tragedie di Eschilo Sofocle Euripide erano drammi in musi-ca, e che quando leggiamo Pindaro e gli altri poeti lirici dobbiamo immagina-re i loro testi non “accompagnati” dalla musica, ma ‘intrisi’ di musica, pensaticon la musica e per la musica (visto che l’autore della musica, dei testi e delledanze era di solito la stessa persona, quasi in un grandioso e originarioGesamtkunstwerk). È un’immagine drammaticamente perduta per sempre:come la scultura greca, nata policroma, è “diventata” monocroma, così la paro-la poetica greca, nata come squisitamente e intimamente musicale, ha perdutoper sempre la propria “colonna sonora”. Il potere della musica nella città grecaera ritenuto così grande, che i diversi generi della musica furono non solo codi-ficati, ma anche associati a valori etici e civici che si ritennero ‘costitutivi’ dellanatura stessa del cittadino, della vita associata nella polis, del rapporto fra le variegenerazioni all’interno della società. Si spiega così come Platone abbia tantoinsistito (in particolare nella Repubblica e nelle Leggi ) sulla necessità di codifi-care la musica e la danza, e di impedire e punire le innovazioni troppo audaci,considerandole distruttive per la vita politica della città. Si spiega così come lamusica non vi fosse intesa come qualcosa di aggiuntivo, un’arte fra le altre, macome quella che, coinvolgendo emotivamente più di ogni altra, doveva aiutarea comprendere le altre; e come nei testi antichi è molto più facile trovare il lin-

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guaggio musicale, o metafore tratte dalla pratica musicale, per spiegare le artifigurative, piuttosto che il contrario.Un quadro come questo, del quale le relazioni che seguiranno vi offriranno altrie più ricchi elementi, ha un’enorme potenza evocativa, in nulla diminuita dallaquasi totale assenza di documentazione. Basta a dimostrarlo il fatto stesso cheun genere musicale centrale nella tradizione europea, l’opera, sia nato all’origi-ne proprio come un tentativo di “ricreare” la tragedia greca nella sua intimacommistione di parola e musica. Se riflettiamo a questa origine dell’opera, pos-siamo ben comprendere quanto anche le assenze nella documentazione, le per-dite anche dolorose, possano alla fine provocare una vitale tensione creativa;quanto persino i processi di distruzione possano, in una storia delle civiltà vistanel lungo periodo, innescare un opposto e fecondo processo produttivo. Ma checosa può darci, ‘oggi’, la memoria della musica greca antica? Era, essa, più simi-le alla “nostra”, o a musiche “altre” (per esempio “orientali”)? Come possiamointerpretare, in senso non solo filologico, ma propriamente musicale, le pochis-sime tracce di partiture musicali che ci sono rimaste? Torna qui la tensione cheabbiamo visto fra “identità” e “alterità” dei Greci, e lo si potrebbe mostrare met-tendo a confronto le rare esecuzioni della musica greca antica conservata, cheora cercano di rendercela più accettabile col farla più simile a musica a noi giàfamiliare, e ora invece puntano sulla sua totale diversità.Di questi ed altri temi altri parleranno meglio di me. Vorrei concludere conun’ultima citazione, che ‘non’ riguarda i Greci, ma riguarda la musica. La primaregistrazione fonografica di un’esecuzione musicale (il pianista era un bambinodi undici anni) fu fatta nello studio di Thomas Edison nel 1887, e tutti sappia-mo quanta strada si sia fatta da allora ai nostri CD. Ma già nel 1888, l’editoria-le (non firmato) dello Spectator si preoccupava del fatto che ascoltare le esecu-zioni degli altri potesse limitare la creatività dei musicisti del futuro. “L’inge-gnosità scientifica del nostro tempo -scrive l’editorialista- finirà col creare nelmondo che ci lasceremo dietro un “troppo pieno”: forse lasceremo di noi ‘trop-po’, e con ciò finiremo col limitare la libera crescita della nostra posterità”. Nonintendo, concludendo con questa citazione, implicare che è meglio che la musi-ca greca antica sia andata perduta nei gorghi della storia; ma solo suggerirvi diriflettere alla tensione drammatica fra quello che sappiamo del nostro passato equello che ne ignoriamo (la più gran parte); a quanto possa essere fecondo ecreativo il nostro desiderio di riempire le lacune della documentazione, l’im-pulso irresistibile a interrogarci su quello che abbiamo perduto per sempre.

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Musica e poesia in Grecia MARIA CHIARA MARTINELLI

Della musica della civiltà greca antica ci sono giunti pochissimi documenti, edel periodo in cui essa fu indissolubilmente legata alla grande produzione lette-raria non ci è arrivato praticamente niente1. Eppure il significato che essa avevanella vita dei Greci dei più vari livelli sociali, a partire dal momento della loroformazione culturale e, via via, nelle diverse occasioni della vita quotidiana, lopossiamo ricavare da una serie molteplice di testimonianze dall’arte figurativa,dalla riflessione filosofica, e, in modo particolare, dalla letteratura.Più di una volta nelle parole dei poeti per connotare qualcosa di negativo, ladiscordia, la guerra, la morte, lo si associa alla mancanza di musica: così, adesempio, Sofocle, nell’Edipo a Colono2, definisce il destino di morte “senza dan-ze, senza lira, senza canti” e nelle Fenicie di Euripide3 si rimprovera ad Ares, ladivinità della guerra che causa enormi sofferenze, di contrapporsi alle feste incui i giovani danzano accompagnati dal canto, guidando invece una processio-ne dove la musica non ha posto. La gioia e la festa sono, al contrario, indisso-lubilmente legate alla musica; così i vecchi che formano il coro di un’altra tra-gedia di Euripide, l’Eracle, si augurano (v. 676) di non dover mai vivere senza idoni delle Muse, appunto la musica, il canto, la danza.Nei più vari tipi di celebrazione i Greci di ogni classe sociale godevano della musi-ca, non solo e non tanto ascoltando l’esibizione di artisti ‘professionali’, ma suo-nando, cantando e danzando. Il termine da cui è derivato lo stesso nome di “musi-ca”, mouçikhv (sott. tevcnh, “l’arte delle Muse”) definiva infatti non solo l’arte deisuoni, ma anche la poesia e la danza: il giovane, che doveva diventare un mouçiko;çajnhvr, veniva formato dunque a saper praticare quest’arte e allo stesso tempo adessere in grado di recepire il messaggio di una cultura che veniva proposta dai poe-ti, nei canti per le feste come nelle opere drammatiche, attraverso la parola, che siuniva più volte strettamente alla musica e talora all’azione gestuale.Il periodo della grande fioritura della poesia legata al canto e spesso alla danzaè quello arcaico e tardo-arcaico della grande lirica (che va dal VII secolo a.C.all’inizio del V secolo) e quello ‘classico’ del dramma attico (V secolo). Si trattain entrambi i casi di un tipo di poesia che non riusciremmo a capire senza tener

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< Fig. 1, anfora attica a figure rosse del pittore Brygos, 430 a.C. ca.: citarodo (particolare)(Boston, Museum of Fine Arts 26.61).

presente che essa venne composta e “pubblicata”, a differenza di quelle moder-ne (dove l’occasione è un evento interiore e il destinatario è per lo più l’indefi-nibile lettore che l’autore immagina o desidera, ma non vede), per una ben indi-viduabile occasione sociale, con precisi committenti, e fece per lo più parte inte-grante di un cerimoniale.La lirica, che si sviluppa in un contesto storico del tutto rinnovato rispetto a

quello dell’epica,4 è composta ed eseguita per particolari occasioni, che la distin-guono chiaramente in generi, già chiari alla coscienza degli antichi.Così la lirica corale si rivolge ad un pubblico vasto, riunito in occasione di partico-lari cerimonie (ad esempio grandi feste pubbliche legate al culto degli dei e agli ago-ni sportivi). Conosciamo, in parte anche grazie alle testimonianze dirette di quantoci è arrivato dell’opera di grandi poeti come Pindaro e Bacchilide, diversi generi dicanti, alcuni dei quali dovevano affondare le loro radici in epoche precedenti. Così, ad esempio, il peana, per lo più legato al culto di Apollo (con il quale veni-va comunemente identificata la divinità “salvifica” Peana o Peone, originaria-mente indipendente), con la funzione fondamentale di invocare la salvezza daun male o esprimere gratitudine per uno scampato pericolo (nel primo librodell’Iliade ci viene riferito che lo intonano gli Achei, dopo aver restituito alsacerdote Crise la figlia, fonte dell’ira di Apollo, con il quale si vuole attraversoil canto ribadire appunto la riconciliazione).5

Canti di invocazione o ringraziamento alla divinità, i prosodi, venivano intona-ti durante solenni processioni ai templi e agli altari degli dei, ad accompagnaredunque le parti introduttive dei riti (ne abbiamo, con ogni probabilità, diversetestimonianze figurative, che mostrano processioni o danze processionaliaccompagnate da strumenti musicali).Del ditirambo, dedicato a Dioniso, sappiamo che conobbe un’evoluzione insenso fortemente spettacolare: nelle Grandi Dionisie celebrate ad Atene, alme-no dalla fine del VI secolo si svolgevano gare6 in cui dieci cori di cinquantaragazzi e altrettanti di cinquanta uomini, tratti da ciascuna delle tribù in cui eraarticolata la polis (quindi 20 cori, in tutto un migliaio di cittadini), si esibivanocantando e danzando. Cori entravano in azione anche in vari momenti della cerimonia nuziale: nelcorteo di amici che accompagnava la sposa dalla casa di suo padre alla sua nuo-va casa (l’imeneo: già nell’Iliade 7 ne troviamo una descrizione fra le raffigura-zioni dello scudo di Achille, e Saffo ce ne dà un’altra, relativa alle nozze di Etto-re e Andromaca8) e, più avanti, durante la notte di nozze, davanti alla cameradegli sposi (l’epitalamio).Cori cantano e danzano anche per festeggiare i vincitori delle grandi gare panel-leniche (i giochi Olimpici, Pitici, Nemei ed Istmici) e non: ciò avviene con lecomposizioni dette epinici, di cui abbiamo notevoli esempi soprattutto da Bac-chilide e Pindaro, che ci testimoniano quale livello di raffinatezza e anche di

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magnificenza nell’allestimento un ricco com-mittente poteva aspettarsi. Il coro era in genere formato da individui dellastessa classe di età e dello stesso sesso, in nume-ro variabile: dei cori maschili del ditirambo si ègià detto, e si possono ricordare anche cantiriservati a cori di fanciulle, i cosiddetti parteni,di cui abbiamo testimonianze in alcune odi diAlcmane e di Pindaro. Per alcuni ambiti, adesempio la Sparta di Alcmane, dove l’istruzionedei cori doveva essere istituzionalizzata, siamoinformati che essi erano guidati da un corego(che si distingueva in genere per un abbiglia-mento più ricco ed era scelto in base a caratteri-stiche di eccellenza fisica e tecnica). Nei cori chevenivano formati di volta in volta per le varieoccasioni (come accadeva di solito ad Atene),normalmente erano i poeti-musicisti ad occu-parsi dell’addestramento dei cantanti. E ingenere i poeti curavano anche l’istruzionecoreografica del coro.L’accompagnamento era eseguito precipuamen-te, a quanto sembra, con la kiqavra [fig. 1, vedi p.18], uno strumento della famiglia delle lire9, tal-volta invece con l’aujlovç [fig. 2]10 (così ad esem-pio nel ditirambo eseguito alle Grandi Dionisie)e probabilmente, qualche volta, con entrambi11. Ad un ambito più ristretto si rivolgeva la liricamonodica: suo luogo era soprattutto il simposio[fig. 3], dove si riunivano e si intrattenevanodopo un pasto comune persone della stessa cer-chia. Si tratta di una vera e propria istituzione,dove, insieme alle varie occupazioni ritualizzateper l’occasione (la preghiera, lo stesso beresecondo precise regole, il gioco, l’amore), si ese-guivano canti ora con l’accompagnamento distrumenti a corde, in particolar modo la luvra[fig. 4]12 e il bavrbitoç [fig. 5, vedi p. 27]13, oraal suono dell’ aujlovç. Spesso il simposio avevaun carattere marcatamente politico: in questocaso allora costituiva il momento d’incontro dei

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Fig. 3, coppa attica a figure rosse diDouris (?), 480 a.C. ca.: scenasimposiale.(München, StaatlicheAntikensammlung inv. nr. 2361).

Fig. 4, cratere attico a figure rosse daGela, 440 a.C. ca.: Orfeo suona la lirafra i Traci.(Berlin, Staatliche Museen 3172).

Fig. 2, anfora attica a figure rosse delpittore Kleophrades, 480 a.C., auleta(particolare).(London, British Museum E 270).

partecipanti ad una fazione dove si deliberavano decisioni comuni e venivanoeseguite composizioni legate all’hic et nunc della situazione politica: una testi-monianza di questo tipo di produzione l’abbiamo nelle odi di Alceo. Ma nelsimposio si agitavano anche altre tematiche e così altrove troviamo dominanti itemi dell’amore o della riflessione etica più generale, temi cari soprattutto all’e-legia (che pure non disdegnava anche argomenti politici), in epoca arcaicaanch’essa cantata con l’accompagnamento dell’aujlovç, mentre in una sorta direcitativo accompagnato ancora dell’aujlovç era eseguita la poesia giambica, chesi incentrava sui temi dell’invettiva e della beffa, forse mezzo per risolvere le ten-sioni interne alla comunità. Se poeti creativi in queste occasioni eseguivano odidi loro composizione, altri partecipanti al simposio ne potevano ripetere di vec-chie: così Teognide promette al suo amico Cirno che i canti in suo onore da luicomposti avranno un’ampia circolazione nei simposi futuri.14

Ad un ambiente ristretto, che non è il simposio, si rivolgeva anche la produzio-ne di un altro fra i grandi lirici monodici, Saffo: educatrice in una cerchia reli-giosa, detta tiaso, dove, nel culto reso ad Afrodite, alle Muse e alle Cariti, veni-vano formate le ragazze in vista dell’unica funzione che la civiltà del temporiservava alle donne libere, cioè il matrimonio e la vita coniugale.La musica ha un ruolo importante anche nelle rappresentazioni teatrali dell’A-tene del V secolo, tragedia -momento di aggregazione della comunità cittadinae insieme sede di un dibattito appassionato al quale la stessa comunità parteci-pava con profonda adesione- e commedia, dove si rispecchiavano fatti contem-poranei, dibattiti politici e culturali, tensioni sociali e civili. In entrambe sialternavano brani puramente recitati a brani eseguiti in recitativo e a canti cora-li, al suono dell’aujlovç, accompagnati da movenze di danza, oltre a canti solisti-ci degli attori e a dialoghi lirici fra attori e coro. Anche qui l’elemento musica-le non era qualcosa di accidentale, ma costituiva un fattore importante nell’im-patto che ci si aspettava che lo spettacolo avesse sul pubblico. Quando Aristo-fane, nelle Rane, sottopone a critica due diversi modi di comporre tragedie qua-li quello di Eschilo e quello di Euripide, dedica particolare attenzione anche allaloro musica; e, d’altra parte, sappiamo da più di una testimonianza che i branilirici di maggior impatto rimanevano nella memoria degli Ateniesi, che eranoin grado di eseguirli in vari tipi di occasioni.15

In questa unione fra parola, musica e talora danza, dominante fu, nella culturadella Grecia arcaica e classica, il valore della parola, spesso in testi poetici alta-mente sofisticati e complessi. Era la parola che, come ci risulta da esplicite testi-monianze degli stessi poeti (gli inni, dice Pindaro all’inizio della seconda Olim-pica, sono “signori della cetra”), doveva condizionare alle sue esigenze l’espres-sione ritmica e melodica. E così possiamo, pur nella mancanza di documenti dicui si diceva, farci un’idea almeno del ritmo della poesia, che si basava sulla suc-cessione ordinata di sillabe brevi e lunghe: fino al V sec. a.C. l’andamento rit-

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mico era conforme allo schema metrico del testo. La musica che accompagnava questi testi doveva essere molto semplice, consi-stendo in un accompagnamento monodico che non doveva oscurare la com-prensione delle parole. Sembra inoltre che ciascun tipo di pezzo avesse una suaforma e un suo ethos, anche musicale, distinto, con caratteristiche volte a pro-vocare reazioni diverse negli ascoltatori: la fruizione musicale non era infattiqualcosa di meramente estetico, ma, come risulta dall’elaborazione dei filosofi,era considerata avere vere e proprie capacità psicagogiche. Delle caratteristichemusicali più tecniche legate ai tipi di composizione sentiamo parlare dai poetistessi: fra le aJrmonivai (disposizioni degli intervalli in una determinata succes-sione di suoni) si distingueva ad esempio quella dorica, austera e nobile, daquella frigia, tipica dell’entusiasmo dionisiaco e del ditirambo. Usare una alposto dell’altra, come ci dicono i filosofi, sarebbe stato considerato non soloesteticamente sconveniente, ma deleterio sul piano etico. E inoltre sembra di poter affermare che fino al V secolo i poeti-musicisti noncomponessero i loro brani con criteri di originalità assoluta, ma per lo più rie-laborassero e variassero motivi tradizionali ormai impostisi e definiti con unacerta regolarità, secondo un procedimento che ci è noto anche per altre culturemusicali come ad esempio quella dell’India: a questo probabilmente tali motivimusicali dovrebbero il nome di novmoi (cioè “leggi” oppure “modi usuali”). Ipoeti stessi attestano talvolta esplicitamente nelle loro composizioni questo pro-cedimento: così più di una volta Pindaro, ad esempio nella Olimpica I (novmoçi{ppioç)16 e nella Pitica II (Kaçtovreion).17

Anche l’articolazione delle composizioni rispondeva a criteri di regolarità: essaavveniva di solito attraverso la ripetizione (sia nel ritmo che nella melodia) diuna struttura più o meno ampia fatta di versi anche differenti fra loro (la stro-fe); le composizioni più complesse (come alcune odi dei grandi lirici corali)vedevano la ripetizione di una struttura detta triade in cui due strofe uguali traloro erano seguite da una struttura ritmicamente diversa (l’epodo); il drammasviluppa soprattutto un tipo di articolazione in cui si susseguono coppie strofi-che l’una diversa dall’altra, forse legato alle esigenze del teatro (ad esempio lanecessità di introdurre cambiamenti ritmici e melodici in un testo in cui si agi-tano tematiche e finalità di vario genere in rapporto agli avvenimenti scenici).Ma nella seconda metà del V secolo nasce e si va imponendo, grazie all’azionein Atene di alcuni musicisti, la ‘scuola del Nuovo Ditirambo’, il cui esponentepiù noto è Timoteo di Mileto,18 un nuovo modo di intendere i rapporti framusica e poesia: il ritmo e anche il senso del testo sono progressivamente subor-dinati alle nuove idee musicali che vengono ad essere sviluppate di per se stes-se. Nell’ambito di una concezione poetica e musicale tesa soprattutto al mime-tismo, dove testo e musica dovevano corrispondere alla varietà delle situazionie dei sentimenti descritti, la struttura generale tendeva a svincolarsi dall’ordina-

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ta ripetizione di strutture uguali tra loro a favore di forme libere, con continuicambiamenti di ritmo. Le melodie, prima semplici, venivano ad essere arricchi-te da abbellimenti, che snaturavano il ritmo verbale, e modulazioni, sia nellalinea vocale che, anche indipendentemente, nel suo accompagnamento. Leaccresciute potenzialità degli strumenti musicali (un maggior numero di forinegli aujloiv e di corde nella kiqavra) facilitavano la possibilità di modulazioni,in conformità con i mutamenti di carattere delle situazioni descritte. I generipoetici, prima rigorosamente distinti nelle modalità del loro accompagnamen-to e delle loro caratteristiche musicali, venivano a confondersi in forme nuovee indeterminate. Diventata sempre più complessa, la partitura musicale nonpoteva in questi casi essere affidata ai ‘dilettanti’ della tradizione, richiedendo ilvirtuosismo vocale e strumentale di un professionista: così decade la funzione el’importanza del coro negli spettacoli drammatici, mentre si impongono figuredi virtuosi idolatrati dal pubblico.Questa evoluzione, che, insieme alle nuove strutture, individualistiche, di pen-siero portate avanti dai sofisti e da Socrate, andò di pari passo con i radicalimutamenti politici e sociali della fine del V secolo, fin dai suoi momenti inizialinon poté che destare scandalo ed esecrazione in chi vedeva da essa minacciataun’arte profondamente integrata in sé e strettamente funzionale alla tradizionereligiosa e civile. Ne sappiamo qualcosa dalle feroci parodie dedicate dalla com-media di Aristofane ai nuovi poeti (ma già ad Euripide)19: non è casuale,comunque, che lo stesso Aristofane si trovi a ridurre, nel corso della sua carrie-ra, numero e ampiezza delle parti affidate al coro, per dare maggior spazio aicanti degli attori, evidentemente preferiti dal pubblico. Più tardi, quando ormaila “nuova musica” si è affermata, arriverà la decisa condanna di Platone, che giu-dica la nuova arte assolutamente pericolosa, visto che essa suscita nell’uomoemozioni e passioni tali da turbarne l’equilibrio.20

Ma, come si è detto, le nuove tendenze si erano ormai affermate. La rivoluzionemusicale aveva iniziato un processo che comportò alla fine l’emancipazione dellamusica pura dalla poesia, che, gradualmente venne ad essere vista come un’arte asé stante: così è la grande produzione poetica a partire dall’Ellenismo. Il legameparola-musica sopravvisse comunque fino in età romana, soprattutto nella tradi-zione cultuale, solitamente conservativa, ma anche in vari tipi di composizionidestinate allo spettacolo. Continuavano ad essere eseguiti, almeno nell’epoca elle-nistica, brani che passavano per essere (e forse erano veramente) musica dei gran-di del passato come Euripide, comunque per lo più destinati ad una esecuzioneben diversa da quella originaria, e cioè come ‘estratti’, arie da concerto per can-tanti che si esibivano in poutpourri di composizioni. Ormai le personalità che siaffermano nell’ammirazione del pubblico sono gli esecutori, mentre non emergo-no più grandi personalità di poeti-musicisti paragonabili a quelle del passato.

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Note:1. Fino alla metà dell’800 erano noti solo gli inni attribuiti a Mesomede, musico greco vis-suto al tempo di Adriano (II sec. d.C.), che erano stati pubblicati da Vincenzo Galilei nel1581, e i sei brevi brani strumentali posti alla fine di una raccolta di scritti teorici anoni-mi di età tarda pubblicata nel 1841 da F.Bellermann (Anonyma de musica scripta Beller-manniana); altre composizioni, che erano fatte risalire all’antichità, sono oggi per lo piùconsiderate spurie (il più noto è il frammento della prima Pitica di Pindaro, vv. 1-8, che ilgesuita Athanasius Kircher pubblicò nel 1650, dichiarando di averlo scoperto in un mano-scritto nella biblioteca di un convento a Messina, manoscritto la cui esistenza non è statapiù segnalata, anche perché negli anni successivi la biblioteca venne distrutta da un incen-dio). A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo il patrimonio dei testi a noi noti si è rela-tivamente arricchito grazie alla scoperta di alcune iscrizioni (fra cui, particolarmente note-voli, due inni, eseguiti a Delfi nel 128 a.C., di musicisti attici, di nome rispettivamente Ate-neo e Limenio, testimonianza del successo ottenuto da compositore ed esecutori; un can-to che il musico Sicilo fece incidere sulla propria pietra tombale nel II sec. d.C.; il fram-mento di un inno ad Asclepio trovato ad Epidauro su una pietra incisa probabilmente allafine del III secolo d.C., ma più vecchio, forse, di alcuni secoli), e un certo numero di breviframmenti papiracei, il più antico dei quali (P. Leid. inv. 510), contenente una selezione dibrani dall’Ifigenia in Aulide di Euripide, risale al III sec. a.C. Dei documenti musicali greciin nostro possesso esiste una recentissima raccolta con edizione critica e commento(Documents of Ancient Greek Music, edited by E.Pöhlmann and M.L. West, Oxford 2001).

2. Vv. 1221 s.

3. Vv. 784 ss.

4. Lo sviluppo della vita associata a livello aristocratico e- in particolare nella polis demo-cratica- a livello popolare offre ai cittadini motivi sempre più frequenti di partecipare,come spettatori o esecutori, a diverse forme di vita sociale che includevano uno ‘spetta-colo’: nuove feste religiose, cerimonie di associazioni di devoti a particolari divinità, ban-chetti a cui partecipavano gli appartenenti alla stessa fazione politica.

5. Iliade I, vv. 472-474:“Tutto il giorno i Greci placarono il dio con il canto, intonando unpeana bellissimo in onore del dio arciere, che si rallegrava ad udirli” [trad. G. Paduano,Torino 1997].

6. La competizione è una caratteristica strutturale dell’agire dei Greci. E così nelle feste comequelle ora descritte si affrontavano non solo cori, ma anche cantanti solisti e strumentisti,quali suonatori di aujlovç e di kiqavra (che eseguivano brani puramente strumentali).

7. Iliade XVIII, 490-496: “Vi fece poi due città di uomini, bellissime: in una erano nozze ebanchetti; conducevano spose dalle loro stanze alla luce di fiaccole splendenti, in corteoper la città; si levava alto l’imeneo, e giovani danzatori volteggiavano; fra di loro suona-vano flauti e cetre: le donne in piedi, ognuna sulla sua porta, guardavano con stupore”[trad. G.Paduano, cit.].

8. Fr. 44 Voigt.

9. È questo un gruppo di strumenti a corda (per il quale v. M.L.West, Ancient Greek Music,Oxford 1992, 48 ss.), la cui struttura essenziale consisteva in una cassa armonica e in duebracci che, partendo da essa, erano collegati da una traversina su cui si fissavano -innumero variabile- corde di uguale lunghezza, collegate dall’altro capo alla parte inferioredella cassa. Di questi strumenti la kiqavra rappresenta lo stadio più evoluto: la sua grandecassa di risonanza, che continuava anche nelle basi dei due bracci, consentiva un ampiovolume di suono e fece sì che essa diventasse lo strumento professionistico per eccel-lenza. Per il suo impiego nella lirica corale cfr. West, Ancient Greek Music, cit., 336, 346;M.Maas-J.McIntosh Snyder, Stringed Instruments of Ancient Greece, New Haven andLondon 1989, 31, 60.

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10. Di solito tradotto come “flauto”, il termine indica invece uno strumento ad ancia(semplice o doppia); fra gli strumenti moderni il più vicino ad esso nella struttura essen-ziale è l’oboe. Aveva in genere due canne, ciascuna con un certo numero di fori.

11. Si veda ad esempio Pindaro, Olimpica III, 6 ss.: “Ora da me le ghirlande annodatealla chioma reclamano un debito eretto dal dio: che io fonda in giusta misura il vario tonodi cetra e clamore di flauti e una trama di voci per il figlio di Ainesídamos [trad. L.Lehnus,Milano 1981].

12. Lo strumento a corda di uso più comune (normalmente adoperato nell’educazione deigiovani), che consisteva in una cassa armonica costituita in origine da un guscio di tar-taruga e in due bracci che, a differeza della kiqavra, non costituivano un prolungamentodella cassa ma erano a questa applicati.

13. Amato in particolare dai poeti di Lesbo, era uno strumento la cui maggiore differen-za con la luvra consisteva nella presenza di due lunghi bracci ricurvi. Le dimensioni mol-to ridotte della cassa di risonanza e la lunghezza delle corde dovevano produrre un suo-no di volume non ampio e di intonazione grave.

14. Teognide, vv. 239-243: “Sarai presente a tutte le feste e a tutti i banchetti posando sul-le labbra di molti: te celebreranno al suono degli auli brevi d’acuta nota giovani seducentinell’armonia di melodiose canzoni” [trad. F.Ferrari, Milano 1989].

15. Plutarco, ad esempio, racconta (Vita di Nicia, 29, 4) come alcuni Ateniesi sopravvis-suti al disastro militare di Siracusa (413 a.C.) nel corso della guerra del Peloponneso,ottennero cibo e acqua grazie alla loro capacità di cantare brani di Euripide.

16. V. 101.

17. V. 69.

18. Insieme a frammenti minori, di lui ci è giunta una parte piuttosto ampia di una este-sa composizione incentrata sulla battaglia di Salamina (fr. 15 Page).

19. Euripide, almeno nell’ultimo periodo della sua attività, sembra partecipe di alcunedelle nuove tendenze: così si potrebbe interpretare il maggior ricorrere di canti astrofici,per lo più affidati agli attori. Aristofane, d’altro canto, gli rimproverava, non sappiamoquanto a ragione, l’uso di una ridondante aggettivazione e di frequenti anadiplosi comesemplici pretesti per modulazioni musicali. E ancora, ne deprecava la mescolanza dimotivi provenienti da generi musicali diversi (Rane, vv. 1301 ss.: “lui prende il suo mieledappertutto: canti di puttane, canzoni di Meleto, motivetti per l’aulo della Caria, com-pianti funebri, arie di danza”[trad. D.Del Corno, Milano 1985]). D’altra parte variazioni diritmo compaiono in particolare nelle virtuosistiche monodie tardo-euripidee; ed è anco-ra Euripide a introdurre in alcune delle sue ultime tragedie canti corali che sembranoscorrelati dall’azione, basati come sono sulla narrazione di vicende mitiche e sul rincor-rersi di belle immagini, forse precorrendo o rifacendosi al procedimento, che ci vieneattestato per il tragico Agatone, di introdurre al posto degli stasimi della tragedia canticorali privi di aggancio con la situazione scenica, che si configurano come veri e propririempitivi.

20. Ciò si basa sulla concezione diffusa, attestata tra l’altro dai Pitagorici e da Damone,secondo la quale la musica poteva alterare lo stato d’animo di chi la ascoltava, e chequindi collegava a diversi effetti emozionali ed etici ritmi o modi musicali diversi.

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> Fig. 5, vaso attico, 470 a.C. ca.: Alceo e Saffo con barbitoi. (München, StaatlicheAntikensammlung inv. nr. 2416).

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‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica: LUCIA PRAUSCELLO

pluralità delle occasioni del canto e CARLO PERNIGOTTI

discontinuità della tradizione

Nonostante le più antiche testimonianze a noi pervenute, figurative e letterarie,documentino un indissolubile e precoce legame fra elemento musicale, orche-stico e testuale, deponendo così a favore di una diffusione generalizzata di unaprofonda cultura musicale nella società greca fin dai tempi più remoti, il prin-cipale ostacolo per chi voglia tentare di ricostruire gli aspetti più propriamentetecnici di questa intensa attività, come ad es. la tecnica di composizione, lemodalità di diffusione e trasmissione dei testi musicali, è dato, paradossalmen-te, proprio dall’esiguità e parzialità dell’evidenza documentaria. Attualmenteinfatti, sebbene si tratti di un corpus suscettibile di aumentare nel corso deglianni grazie a nuove scoperte papirologiche ed epigrafiche, per fare luce sul siste-ma notazionale della musica greca1 non possediamo più di una quarantina discarni frammenti di tradizione diretta, tutti databili in un periodo compreso frail III sec. a.C. e il IV/V d.C.2 Ci si trova dinanzi ad una selettività della testi-monianza che investe in primo luogo l’asse cronologico: si tratta cioé di docu-menti posteriori almeno di due secoli alla grande stagione della lirica corale edel teatro attico del V sec. a.C. Perché dunque un tale vacat temporale nella nostra evidenza documentaria? Unaprima ragione va sicuramente ricercata nel fatto che sino alla fine del V/inizi delIV sec. a.C. il principale veicolo di conoscenza e diffusione del patrimonio musi-cale era la performance orale, strettamente legata all’hinc et nunc della singolaoccasione del canto, capace di condizionarne l’esecuzione non solo a livellotestuale ma anche ritmico e melodico, rapportandosi in prima istanza all’oriz-zonte di attesa del pubblico di volta in volta presupposto. Questo complessointreccio di improvvisazione secondo le singole istanze performative e di osser-vanza dei novmoi ereditati, unitamente alla conseguente semplicità/ripetitivitàdella linea melodica tradizionale presupposta da una tale realtà, non doveva vero-similmente comportare l’esigenza di un complesso sistema notazionale,3 suppor-to necessario per le fioriture, i melismi e le barocche modulazioni (kampaiv) del-la musica del ‘nuovo ditirambo’.Tale ricostruzione, pur nella sua riconosciuta problematicità per quanto riguarda lapossibilità di stabilire con esattezza i limiti temporali della comparsa degli spartiti,4

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< Fig. 3, Neapolitanus Gr. III C 4, 83r, XV saec. = Mesomede, Inni 4-5.

sembra comunque confortata, nelle sue linee generali, dall’evidenza iconografica(questa volta fortunatamente già di epoca classica). Infatti varie raffigurazionivascolari del VI/V sec. a.C rappresentanti scene di scuola5 mostrano con chiarezzacome l’insegnamento del canto e della pratica strumentale, nei suoi vari livelli(dilettantesco e professionale), fosse, a quanto sembra, interamente orale: l’allievoapprendeva la tecnica per via mimetica, tentando di riprodurre il più fedelmentepossibile la gestualità e prassi esecutiva del maestro. All’evidenza iconografica siaffiancano inoltre significative testimonianze letterarie che, sebbene più tarde, sem-brano confermare la relativa stabilità e continuità6 del sistema educativo musicalenei suoi vari gradi di specializzazione. In tal senso, per un livello di istruzione musi-cale di base (come sembra suggerire l’associazione con la figura del grammatodi-davvçkaloç), una delle testimonianze più esplicite è Plut. Mor. 790 e 7- f 2:

wJç ga;r oiJ gravmmata kai; mouçikh;n didavçkonteç aujtoi; proanakrouvontaikai; proanaginwvçkouçin uJfhgouvmenoi toi'ç manqavnouçin, ou{twç oJpolitiko;ç ouj levgwn movnon oujd juJpagoreuvwn e[xwqen, ajlla; pravttwnta; koina; kai; dioikw'n ejpeuquvnei to;n nevon, e[rgoiç a{ma kai; lovgoiçplattovmenon ejmyuvcwç kai; kataçchmatizovmenon.

“I maestri di grammatica e di musica guidano gli allievi eseguendo loro perprimi il pezzo o dando lettura del testo: così non è solo parlando o dando sug-gerimenti dall’esterno, ma impegnandosi di persona nell’amministrazionedella cosa pubblica, che un politico indirizza sulla giusta via i giovani, chevengono plasmati e formati dall’insegnamento vivo e combinato delle azionie delle parole” (traduz. di G. Pisani, Plutarco, Moralia III, Pordenone 1992).

L’intero passo plutarcheo, istituendo una ben precisa equiparazione tra la figu-ra del maestro (didavçkaloç) e quella dell’uomo pubblico (politikovç), eviden-zia in entrambi i casi la priorità, educativa e maieutica, dell’exemplum pratico:compito del grammatodidavvçkaloç (colui che impartiva i primi rudimenti del-l’istruzione: leggere e scrivere), così come del maestro di musica strumentale(kroumatopoiovç), era quello di guidare l’allievo mostrandogli per primo levarie tecniche esecutive.7 Una distinzione così netta, quella greca, fra teoria eprassi esecutiva, che la tecnica della notazione, in altre parole l’atto stesso di tra-sferire per iscritto il dettato musicale, non veniva considerata come specifica sfe-ra di competenza del futuro compositore-esecutore: la composizione e la nota-zione erano percepite e praticate come due distinte attività professionali (da quila difficoltà di noi moderni a dissociare due pratiche attualmente coincidenti),8

per cui non era sorprendente il caso di un compositore (melopoiovç: letteral-mente “autore di canti”) che non fosse in grado di notare i segni musicali o didecifrare a prima vista uno spartito.9

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Una dimensione ‘educativa’, scolastica, profondamente diversa, dunque, dallanostra, che richiede una progressiva e parallela acquisizione di un bagaglio diinformazioni sia teoriche sia pratiche da parte dell’allievo. Allo stesso modo, l’a-spetto più propriamente teorico come la riflessione matematica sull’ampiezzadegli intervalli, la loro divisibilità interna e scomposizione numerica sono riser-vati, nell’universo culturale greco, esclusivamente all’ambito della speculazionefilosofico-matematica.A questa prima ‘strozzatura’ diacronica si sovrappone un ulteriore ‘filtro’ inter-pretativo: l’estrema settorialità del destinatario di questi scritti. La quasi totalitàdei testi con notazioni musicali a noi pervenuti è costituita infatti da ‘copioni’annotati degli stessi cantanti, strumentisti o maestri: in altri termini da quelliche potremmo chiamare i ‘professionisti della musica’. L’evoluzione del gustomusicale, precorsa e nel contempo testimoniata dalla scuola del ‘nuovo diti-rambo’ (aspramente criticata, sul versante filosofico, da Platone e Aristotele, eridicolizzata, su quello letterario, dal conservatore Aristofane), con il progressi-vo affermarsi della monodia astrofica, dotata di maggiori possibilità espressio-nistiche e mimetiche rispetto alla struttura strofica corale, garante, con la suauniformità ritmico-melodica, anche dell’uniformità dell’ethos, portava con sé,come naturale conseguenza, l’esigenza di un nuovo tipo di virtuoso del canto,di attore professionista (tragwidovç), che, grazie a numerose fonti epigrafichedi età ellenistica, sappiamo facente parte, a partire dal III sec. a.C., di vere e pro-prie compagnie teatrali istituzionalizzate (çuvnodoi o koina; tw'n Dionuçiakw'ntecnitw'n), legalmente riconosciute e articolate secondo una precisa gerarchiainterna. La tecnicità del destinatario presupposta da questi spartiti è per noi estrema-mente interessante sia in quanto strumento privilegiato per ricostruire la com-plessa realtà sociale ed artistica sottesa a nuove forme di spettacolo teatraleproprie dell’età ellenistica (il teatro ormai divenuto luogo di ejpideivxeiç o ajk-roavçeiç, esibizioni pubbliche in cui i virtuosi cantavano, accompagnati dallakiqavra o dall’aujlovç, qualsiasi testo sia lirico sia drammatico),10 sia come pre-zioso elemento di confronto/verifica testuale con quello che per noi è il princi-pale ‘bacino collettore’ della nostra tradizione manoscritta per i testi classici: laprassi editoriale alessandrina.11

Gran parte di questi testi con notazioni musicali rientrano infatti in una omo-genea e ben precisa categoria tipologica: selezioni antologiche di brani tragici(monodie, excerpta corali ma anche sezioni in metri originariamente destinatialla sola recitazione o, tutt’al più, al recitativo: trimetri giambici e sistemi ana-pestici) e non (peani, prosodi, nomoi, accanto a interludi puramente strumen-tali), destinate non tanto ad essere adoperate come testi di lettura ad uso dellascuola, quanto all’ampio spettro di soluzioni esecutive in cui si articolava ilmacrocosmo musicale greco, pubblico e privato, in età ellenistica. Si tratta

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infatti di una tipologia di documenti che pre-suppone una pratica profondamente diversa daquella attuale: la trascrizione fisica della partitu-ra non serviva unicamente a garantirne la diffu-sione e riproducibilità ad opera di ogni poten-ziale fruitore e/o esecutore come avviene oggi,ma rispondeva soprattutto all’esigenza della sin-gola performance puntualmente circoscritta nel-la sua dimensione temporale e spaziale. Da que-sto punto di vista l’alta frequenza di papirimusicali che presentano una successione conti-gua di componimenti di natura spesso moltodiversa, come ad es. il già citato P.Berol. 6870,sembra deporre a favore di un utilizzo del sup-porto scrittorio essenzialmente come promemo-ria specifico del programma da eseguire: più chedi antologia in questo caso sarebbe forse prefe-ribile parlare pertanto di vere e proprie suites dibrani di volta in volta apprestate dal musicista. Tutto questo in un universo estremamentediversificato e pluralista, che comprendeva dun-que non solo ejpideivxeiç teatrali, cavallo di bat-taglia di richiestissimi virtuosi che radunavanofolle oceaniche per i loro recitals,12 così come dipiù umili e periferici mestieranti radunati inassociazioni minori (çumfwnivai) che percorre-vano la cwvra egiziana guadagnandosi a malapena di che vivere,13 ma anche singole esibizio-ni simposiali, in occasione di occorrenze più omeno ufficiali o private che abbracciavano cosìgran parte della vita quotidiana greca,14 cerimo-nie festive e religiose,15 sino a sconfinare inperformances ecletticamente eterodosse.16

Inoltre, come si è già sopra accennato, alcuni diquesti papiri musicali rappresentano per noi lapiù antica fase della tradizione del testo di Euri-pide: si tratta di P.Leid. inv. 510, antologia euri-pidea con excerpta dell’Ifigenia in Aulide dellametà del III sec. a.C. [fig. 7] e P.Vind. G 2315,recante parte del I stasimo dell’Oreste, anch’essotestimone della fine del III sec. a.C [fig. 8].

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Fig. 8, P. Vind. G 2315 = Eur. Or. 338-344, III a.C.

Fig. 7, P. Leid. inv. 510 = Eur. I. A.1499 (?)-1509, 784-792, III a.C.

Entrambi i testi ci consegnano infatti significative varianti testuali rispetto alresto della tradizione medievale, lasciandoci nel contempo gettare uno sguardosu quello che doveva essere un filone di tradizione tendenzialmente distinto edindipendente da quello testimoniatoci dall’ecdotica alessandrina, strettamentelegato agli aspetti performativi dei testi eseguiti e vincolato a sistemi di orga-nizzazione interna (ritmizzazione e articolazione metrica) più fluidi ed ‘altri’rispetto a quelli codificati dalla moderna prassi colometrica. Nel III sec. a.C. sipossono così osservare già operanti le linee di un graduale, profondo muta-mento culturale che ha di fatto determinato la perdita di gran parte del patri-monio musicale scritto: già per i dotti filologi alessandrini la produzione poeti-ca arcaica e classica (lirica corale, monodica e poesia drammatica) doveva esse-re percepita come destinata esclusivamente alla lettura, con conseguente disin-teresse agli aspetti più propriamente performativi. Lo stretto legame che i testimusicali a noi giunti mostrano con l’alta professionalità e specializzazione pre-supposte devono presumibilmente già da prima avere contribuito ad una pre-coce separazione fra tradizione della musica e tradizione del testo.Un insieme di testimonianze, dunque, quelle offerte dai papiri musicali, chelasciano problematicamente aperte molteplici prospettive di ricerca, chedovranno essere affrontate non solo dagli specialisti dello studio della musicanell’antichità ma da chiunque voglia tentare di avere una visione globale e onni-comprensiva della civiltà greca.

Note:1. La notazione greca comprendeva due diversisistemi semiografici: uno destinato alla musica stru-mentale, presumibilmente più antico, forse derivatoda un alfabeto epicorico argivo, ed un secondodestinato alla musica vocale (tale distinzione, nettanei trattati teorici, sembra in parte sfumare neglispartiti a noi giunti). Entrambi utilizzavano le letteredell’alfabeto ionico classico o nella forma normale(ojrqovn), o disposte orizzontalmente (ajneçtrammevnon:suono innalzato di una diesis enarmonica o croma-tica) o rovesciate (ajpeçtrammevnon: ulteriore innalza-mento di una seconda diesis enarmonica o cromati-ca) o con l’aggiunta di un apex o modificate nellafigura. A ciò va aggiunta la presenza di segni chiro-nomici (indicanti effetti di pausazione, superallun-gamento della sillaba - anche attraverso la redupli-cazione vocale -, legatura etc.) che dovevano servi-re ad interpretare ritmicamente il dettato, spessoandando a modificare la maglia metrica sottostante.Tutti questi çhvmata (segni) venivano solitamenteapposti supra lineam rispetto al testo del mevloç a cui

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Fig. 1, Kopenhagen inv. nr. 14897 =epitafio di Sicilo, II d.C.

si riferivano, cfr. M.L. West, Ancient Greek Music,Oxford 1992, pp. 254-276.

2. Si tratta per lo più di frammenti papiracei, a cui vaaggiunta qualche iscrizione - i peani delfici (128 a.C.),un inno esametrico ad Asclepio (SEG 30. 390) e unoa Sinuri (Mylasa inv. 3) di età ellenistica, l’epitafio diSicilo (II d.C., vd. fig. 1): tutti documenti conosciutisolo a partire dalla metà dell’800 - unitamente allatestimonianza della tradizione manoscritta (gli innicitarodici di Mesomede di Creta, di età adrianea - vd.figg. 2-3 (fig. 3, vedi p. 28) - e numerosi scritti teoricidi tarda età imperiale). L’edizione più recente di talidocumenti è quella di E. Pöhlmann-M.L. West, Docu-ments of Ancient Greek Music, Oxford 2001.

3. Basti pensare all’importanza dell’elemento estem-poraneo nella prassi simposiale e, conseguentemente,alla scarsa rilevanza ed utilità del testo scritto: esegui-re era molto spesso un ricreare, un rifare ogni volta.

4. L’altezza cronologica in cui sarebbe stata introdot-ta e si sarebbe diffusa l’adozione del sistema notazio-nale è uno dei problemi tuttora più dibattuti e su cuimanca un consenso generale da parte degli studiosi,fondamentalmente divisi tra metà V (notazione stru-mentale)/fine V (notazione vocale) e tardo IV sec. a.C.,cfr. e.g. rispettivamente West, op. cit., pp. 269-273 eG. Comotti, La musica nella cultura greca e romana,Torino 19912, p. 9. Per i tentativi di E. Pöhlmann, Bei-träge zur antiken und neueren Musikgeschichte,Frankfurt am Main 1988, pp. 61-69, di individuaretraccia di spartiti musicali in raffigurazioni vascolariantecedenti alla fine del V sec. a.C., rappresentantiscene di canto e di lettura (probabilmente si tratta inrealtà di semplici “libretti”), cfr. le giuste obiezionimosse da A. Bélis, La trasmissione della musica nel-l’antichità, in F. Berti-D. Restani, Lo specchio dellamusica. Iconografia musicale nella ceramica attica diSpina, Bologna 1988, pp. 34-35, West, op. cit., pp.263-264 n. 23 e L.P.E. Parker, Consilium et ratio? Papy-rus A of Bacchylides and Alexandrian Metrical Scho-larship, «CQ» 51 (2001), p. 36 n. 19. Sull’ipotetica esi-stenza, già nel V sec. a.C., di una rudimentale semio-grafia per il solfeggio concorrente a quella “savant”,cfr. Pöhlmann-West, op. cit., p. 8.

5. Cfr. e.g. hydria di Phintias, 500 a.C. ca.: lezione dilira (München, Staatliche Antikensammlung, n. inv.2421); skyphos attico a figure rosse di Pistoxenos,datato al 475 a.C.: Ificle a lezione di lira da Lino(Schwerin, Landesmuseum, n. inv. 708), vd. fig. 4;skyphos attico a figure rosse di Douris, 480 a.C. ca.:lezione di lira ed aulo (Berlin, Staatliche Museen, n.inv. F 2285), vd. fig. 5-6.

6. H.-I. Marrou, Histoire de l’éducation dans l’anti-

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Fig. 2, Neapolitanus Gr. III C 4, 82v,XV saec. = Mesomede, Inni 1-4.

quité, Paris 19656, p. 553 n. 7 ribadisce l’aspetto emi-nentemente orale dell’insegnamento musicale ancheper epoche successive a quella classica.

7. Un livello sempre elementare dell’insegnamentomusicale è testimoniato anche da Ael. V.H. 3. 32(Alessandro Magno impara a suonare la kiqavra): ladinamica del racconto, con il maestro che dice, alcospetto dell’alunno, quale corda pizzicare e l’alunnoche ne indica (deivxaç) un’altra, lascia presupporre unamodalità di apprendimento ugualmente mimetica.Sul versante dell’istruzione professionistica cfr. inve-ce Plut. Demet. 1. 6 (i maestri in questo caso sono itebani Ismenia ed Antigenida, acclamati virtuosi del-l’auletica fra il V/IV sec. a.C.).

8. Cfr. A. Bélis, Les Musiciens dans l’Antiquité, Paris1999, pp. 159 e 163.

9. Conosciamo comunque delle eccezioni significati-ve, vd. ad es. P.Berol. 6870 (antologia musicale del II-III sec. d.C., contenente, nell’ordine, un peana, uninterludio strumentale, un excerptum tragico: anchequesta sola contiguità esecutiva di ‘occasioni’ delcanto così statutariamente diverse in epoca classicatraduce bene la profonda modificazione della perce-zione della dimensione spettacolare in età imperiale).In questo importante papiro infatti la mano che havergato il pezzo strumentale è la medesima che haredatto il testo, e l’interludio strumentale stesso pre-senta tante e tali correzioni, così profondamentediverse dalla prima versione, da fare pensare non adun semplice errore di copiatura ma alle tracce mate-riali di un compositore al lavoro: ci troveremmo dun-que dinanzi addirittura ad un esemplare autografo diuna partitura originale. Il medesimo problema siripresenta anche per P. Mich. 2958 (II d.C.); cfr. Bélis,op. cit., p. 177.

10. Talora con interventi episodici di un coro, quasi ariprodurre, mimeticamente e visivamente, l’integritàdello spazio orchestico del teatro classico del V sec.a.C. L’esempio più noto è quello di S.I.G. 648 B: l’au-leta Satiro di Samo nel 194 a.C., nello stadio di Delfi,si esibì in uno spettacolo comprendente il canto delleparti di Dioniso nelle Baccanti di Euripide, con l’ac-compagnamento della cetra e con l’intervento ame-beo del coro (a\içma meta; corou' Diovnuçon kai; kiqavriçmaejk Bakcw'n Eujripivdou; cfr. B. Gentili, Lo spettacolo nelmondo antico, Roma-Bari 1977, pp. 17-18 n. 39): un’a-bile operazione di antologizzazione musicale, conconversione in canto anche di metri originariamenterecitati (trimetri giambici). Un altro esempio di cantoamebeo fra coro e attore, questa volta nel I sec. a.C.,sempre nell’ambito di una performance che prevede-va selezioni tragiche, ancora una volta dalle Baccanti

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Fig. 4, skyphos attico a figure rossedi Pistoxenos, da Cerveteri, 475 a.C.ca.: Ificle a lezione di lyra da Lino.(Schwerin, Landesmuseum n. inv.708).

Fig. 5, coppa attica a figure rosse diDouris, 480 a.C. ca.: lezione dimusica (lyra).(Berlin, Staatliche Museen F 2285).

Fig. 6, coppa attica a figure rosse diDouris, 480 a.C. ca.: lezione dimusica (aulos).(Berlin, Staatliche Museen F 2285).

di Euripide, è testimoniato da Plut. Crass. 33. 6, sebbene in un contesto significativa-mente diverso (simposiale): quando la testa di Crasso venne portata al cospetto di Oro-de, re dei Parti, durante un banchetto (eJçtiavçeiç kai; povtoi) che comprendeva la rappre-sentazione di molti spettacoli provenienti dalla Grecia (kai; polla; pareiçhvgeto tw'n ajpo;th'ç JEllavdoç ajkouçmavtwn), l’uJpokrithvç (attore) Giasone di Tralle stava per l’appunto intrat-tenendo i convitati con una selezione tragica comprendente parti di Agave che include-vano anche l’intervento del coro: ∆Iavçwn o[noma Tralliano;ç h\iden Eujripivdou Bakcw'n ta; peri;th;n jAgauvhn [...] ajidomevnwn de; tw'n ejfexh'ç ajmoibaivwn pro;ç corovn ktl. (“un attore tragico, dinome Giasone, di Tralle, stava cantando il brano delle Baccanti di Euripide che riguarda-va Agave [...] quando poi fu cantato il dialogo seguente col coro...”, trad. di C. Carena,Plutarco. Le vite di Nicia e di Crasso, Milano 1993).

11. Contro il tentativo di T.J. Fleming-E.C. Kopff, Colometry of Greek Lyric Verses in Tra-gic Texts, «SIFC» s. III 10 (1992), pp. 758-770, e T.J. Fleming, The Survival of Greek Dra-matic Music from the Fifth Century to the Roman Period, in B. Gentili- F. Perusino, Lacolometria antica dei testi poetici greci, Roma 1999, pp. 17-29, di istituire un legame diret-to fra filologia alessandrina e testi con notazioni musicali, cfr. da ultimo le obiezioni del-la Parker, art. cit., pp. 35-36 n. 16.

12. Uno degli elementi più appariscenti della vita culturale ellenistica è proprio una piùaccentuata spettacolarità, insieme con la creazione di nuovi contesti performativi. L’esi-bizione di questi tragwidoiv era vissuta come un momento di puro intrattenimento chegodeva di grande popolarità: è in contesti come questo che il testo poetico continuò adessere espresso in stretto legame con l’elemento musicale, diversamente da quantoavveniva nella cultura ‘alta’, erudita e scritta delle corti ellenistiche, cfr. R. Pretagostini,«Mousike»: poesia e «performance», in S. Settis, I Greci. Storia Cultura Arte Società. 2.III, Torino 1998, p. 626.

13. Il mondo sommerso di questi spesso mediocri ‘artisti di provincia’, secondo la felicedefinizione di P. Collart, Réjouissances, divertissements et artistes de province dansl’Egypte romaine, «RPh» 18 (1944), pp. 132-155, ci è noto soprattutto grazie a papiri egi-ziani di età tolemaica e romana: statutariamente inferiori rispetto alla potente corpora-zione dei tecni'tai dionisiaci, le loro associazioni, interamente profane, erano costituite daeffettivi variabili (essenzialmente strumentisti, danzatori e qualche cantante: da un mini-mo di due a dieci e più elementi) solitamente ingaggiati da committenze private per unperiodo limitato di tempo, cfr. Bélis, op. cit., pp. 61 ss.

14. Si pensi al già citato episodio narrato da Plut. Crass. 33. 2 ss., ancora più significati-vo in quanto attesta il persistere di tale prassi simposiale in zone periferiche della cultu-ra mediterranea del I sec. a.C. Un’altra testimonianza, sempre in un contesto di banchet-to e brindisi privato, è Plut. Lys. 15. 4 ss., in cui si narra della commovente esibizione‘estemporanea’ di un vecchio focese che, per impedire la distruzione di Atene (404 a.C.)dinanzi ai generali spartani brindanti alla sconfitta del nemico, intona un brano euripideo(celebre episodio immortalato anche da J. Milton, Sonn. VIII, 12-14): ei\ta mevntoi çunouçivaçgenomevnhç tw'n hJgemovnwn kai; para; povton tino;ç Fwkevwç a[içantoç ejk th'ç Eujripivdou jHlevktraç

th;n pavrodon, [...] pavntaç ejpiklaçqh'nai, kai; fanh'nai çcevtlion e[rgon th;n ou{twç eujklea' kai;toiouvtouç a[ndraç fevrouçan ajnelei'n kai; diergavçaçqai povlin (“I capi si riunirono allora perdecidere, ma quando, nel corso di una bevuta, un Focese intonò l’inizio della parodo del-l’Elettra di Euripide [...] tutti furono presi da un moto di pietà e compresero l’assurdità divoler distruggere e cancellare dalla faccia della terra una città tanto gloriosa e che dava inatali a uomini di tanto valore”, trad. di G. Pisani, Plutarco, Le vite di Lisandro e di Silla,Milano 1997).

15. Cfr. la celebrazione della panhvguriç tw'n Nemeivwn nel 205 a.C. descritta in Plut. Philop. 11. Qui Pilade, rinomato kiqarwidovç del suo tempo, intona casualmente l’incipit dei Persia-ni di Timoteo proprio durante l’ingresso nel teatro di Filopemene, vincitore di Mantinea:a[rti d j aujtw'n eijçelhluqovtwn, kata; tuvchn Pulavdhn to;n kiqarwido;n a[idonta tou;ç Timoqevou

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Pevrçaç ejnarxavçqai ktl. (“Essi erano appena entrati quando per un caso fortuito il citare-do Pilade, eseguendo i Persiani di Timoteo, cominciò a cantare”, trad. di E. Melandri, Plu-tarco, Vite parallele. Filopemene. Tito Flaminio, Milano 1997).

16. Si pensi soprattutto all’episodio dei prigionieri ateniesi nelle latomie quale descrittoda Plut. Nic. 29. 2 ss., parte dei quali ebbe salva la vita sia per avere insegnato ciò cheessi ricordavano delle tragedie di Euripide (ejkdidavxanteç o{ça tw'n ejkeivnou poihmavtwnejmevmnhto: dunque presumibilmente i pezzi più famosi - quelli che chiameremmo highli-ghts) sulla base della loro esperienza di spettatori tragici e occasionali coreuti, sia into-nando i canti in prima persona (tw'n melw'n a[içanteç). Questo passo plutarcheo è inoltreparticolarmente importante perché testimonia non solo la consolidata fama di Euripidenella Magna Grecia dell’ ultimo squarcio del V sec. a.C., ma sembra anche prevederecome modalità di diffusione della poesia euripidea una qualche forma di operazioneantologizzante: mavliçta ga;r wJç e[oike tw'n ejkto;ç JEllhvnwn ejpovqhçan aujtou' th;n mou'çan oiJperi; Sikelivan kai; mikra; tw'n ajfiknoumevnwn eJkavçtote deivgmata kai; geuvmata komizovntwnejkmanqavnonteç ajgaphtw'ç metedivdoçan ajllhvloiç (“Infatti pare che quelli di Sicilia amasse-ro la poesia di Euripide più di tutti gli altri Greci abitanti fuori della Grecia, studiavano amemoria con amore i brevi brani e saggi che via via giungevano fino a loro, portati daqualcuno, e se li scambiavano a vicenda”, trad. di C. Carena, op. cit., corsivi nostri).

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Iconografia musicale

Non è facile intervenire dopo queste relazioni,oltretutto parlo in italiano da francese e vi chie-do scusa per i miei errori. Vorrei fare un discor-so un po’ diverso da quelli fatti fino ad ora:anch’io mi lamento della perdita della musicaantica, non voglio però farvi piangere di più,basta così! È però vero, siamo quasi nella condi-zione degli affreschi che si intravedono in que-sta chiesa: qualcosa che c’era, ma che è andataperduta. Quello che abbiamo sulla musica greca sono inprimo luogo i discorsi dei Greci - ovvero i trat-tati teorici -, secondariamente gli elenchi deivincitori nelle competizioni e, infine, bellissimomateriale visivo. Possediamo un intero percorsovisivo sulla musica, che non posso esplorare intutti i particolari in questa mezz’ora; voglio solosceglierne un aspetto: quello dell’inquadramen-to religioso e mitologico. Consideriamo i vasi -che abbiamo già esaminato come ‘documenti’,in quanto permettono di vedere aspetti tecnicidegli strumenti - come ‘monumenti’. Qui [fig.1] abbiamo Apollo con la lyra, raffigurata inmodo molto preciso, che ci aiuta a capire lastruttura degli strumenti; ma questo oggetto èanche un vaso per bere, che viene utilizzato peril simposio. Il simposio è il momento in cui sibeve tra amici, è una attività maschile, pretta-mente maschile, senza la presenza di donne(aspetto di cui bisognerà forse parlare in segui-to); è una attività collettiva in cui la memoriacomune della poesia e della musica viene attiva-ta nei bevitori dagli oggetti d’uso, dai vasi illu-

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FRANÇOIS LISSARRAGUE

Fig. 1, coppa attica a fondo bianco,da Delfi, 470 a. C., Apollo(Delfi, Museo archeologico)

< Fig. 1a, lyra. Ricostruzionedi Giorgos Polyzos, 1991.

strati con i più vari argomenti, comprese le raf-figurazioni della pratica musicale, della didatti-ca, come abbiamo visto, ma anche dei grandimiti e delle divinità legate alla musica, tra le qua-li Apollo, chiaramente, è la figura più cospicua. Faccio un brevissimo elenco di questi casi. Su questo particolare del vaso François a Firenze[fig. 2] c’è una lunga processione di divinità trale quali le Muse. Calliope è vista di fronte, stasuonando la syrinx inventata da Pan, uno stru-mento che nella pratica musicale trasforma ilviso, deformandolo. La Musa, invece, ha unnome molto preciso “colei che ha un bel viso”,che non viene deformata e che quindi controllalo strumento. Altro è la cetra ovvero la kithara -non ne parlerò a lungo perché lo farò in segui-to - che è lo strumento del concertista, del verovirtuoso. Qui [fig. 3] abbiamo un bellissimodisegno del Pittore di Berlino, siamo intorno al500 a. C., che fa vedere la vivacità, la forza del-la musica dalla quale il suonatore è preso. Ulti-mo in questa brevissima lista di strumenti èl’aulos, di cui si è già parlato. Alla figura 4 abbia-mo l’esempio di un cratere per mescolare ilvino, su cui si vede un giovane suonatore che stasalendo su una piccola tribuna, forse una picco-la scena, per un concorso. Queste raffigurazio-ni, dunque, non sono da parte dei Greci fruttodi un interesse da musicologi, ma da bevitori alsimposio, che amano il connubio della musicacol vino. Un secondo scopo delle rappresenta-zioni può essere il voler tramandare il ricordodella vittoria ad un bel concorso, un successo:pertanto è questo che abbiamo, non “documen-ti” ma “monumenti”, che mantengono in circo-lo la memoria di un evento tra i bevitori. Non posso prendere in esame tutte le storiemitiche che circolano sulla musica, poiché ce nesono moltissime; ne ho scelte due: quella diOrfeo e quella di Marsia, giacché tutte e duemettono in questione, problematizzano lo sta-

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Fig. 2, cratere attico a figure nere,firmato da Kleitias, 570 a. C., la MusaCalliope (Firenze, Museoarcheologico 4209)

Fig. 3, anfora attica a figure rosse,pittore di Berlino, 490 a. C.,suonatore di kitara(New York MMA 56. 171.38)

Fig. 4, cratere attico a figure rosse,firmato da Euphronios, 510 a. C.,concorso musicale(Parigi, Louvre G 103)

tuto della musica nella cultura, oppure lo statu-to degli strumenti. Nella cultura moderna noi conosciamo la storiadi Orfeo come legata ad Euridice, al tema dellavittoria sulla morte, della forza superiore dell’a-more, ma nella versione in cui lui la guarda e leisparisce negli Inferi: una storia tristissima sullaquale non voglio insistere anche perché i Grecinon lo fanno. I Greci, o meglio, quelli che han-no prodotto questi vasi, gli Ateniesi del V seco-lo a. C., non hanno creato alcuna iconografia diEuridice; ciò che abbiamo nei vasi del V sec. èla storia di Orfeo divisa in due momenti, quel-lo del potere della sua musica e quello della suamorte. Parto da questo vaso [fig. 5] sul quale èraffigurato un suonatore di kithara in un con-corso, che sta per salire sul bema (piedistallo).C’è una iscrizione “chaire Orpheus” che è unsaluto: “Salve Orfeo”. Non credo che questo siail nome del musicista; lo interpreto come unsaluto, un paragone, una metafora della bravu-ra del musicista paragonabile a quella di Orfeo,ma sono sicuro che questa non sia la raffigura-zione di Orfeo stesso, perché l’iconografia chelo riguarda è diversa: non suonando lui la kitha-ra, come questo musicista, ma la lyra. Un filoneiconografico relativo ad Orfeo è di questo tipo[fig. 6]: un suonatore dall’aspetto perfettamen-te greco, seduto, con la lyra, è attorniato dauomini che lo ascoltano, vestiti da barbari, daTraci: ne hanno i capelli, gli animali, la zeira, ilvestito che li caratterizza come barbari; siamodunque nella Tracia, cioè “fuori” dalla Grecia,luogo in cui Orfeo suona e incanta il mondointorno a lui. Una osservazione va fatta ancheriguardo a questo aspetto: nella pittura moder-na noi siamo abituati a vedere Orfeo che incan-ta gli animali, non i guerrieri, ma l’iconografiadel V secolo non conosce questa rappresenta-zione e al contrario è veramente specifica: met-te in scena Orfeo che immobilizza i cavalieri.

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Fig. 5, oinochoe a figure nere, classedi Briachos, 500 a. C., concorsomusicale (Roma Villa Giulia, M 534)

Fig. 6, cratere attico a figure rosse,pittore di Orfeo, 440 a. C., Orfeo fra iTraci(Berlino Staatliche Museen 3172)

Che siano cavalieri lo si vede dal vestito: di soli-to il guerriero si muove, ma in queste raffigura-zioni essi sono completamente immobilizzati.Osservate come il secondo a sinistra, che vedia-mo frontalmente, tenga gli occhi chiusi, total-mente assorbito nell’ascoltare la musica: è quasipietrificato, immobilizzato, come se il poteredella musica fosse capace di bloccare l’attivitàdei guerrieri. Ci sono molti altri esempi dellostesso periodo (460 a. C.), in cui vediamo alcu-ni guerrieri con il cavallo alla loro destra, dun-que cavalieri che non si muovono. Su questa immagine [fig. 7] c’è un particolaremolto interessante: vediamo Orfeo seduto, conuna corona d’alloro - raffigurato in modo mol-to apollineo, dunque - e sotto di lui ci sono unatartaruga e una pietra. La tartaruga, l’animaleche serve a creare la lyra - e sappiamo da unInno omerico che è stato Ermes a inventare lostrumento - finché è viva non ha voce, maappena muore suona, prende voce. L’oggettostesso, inoltre, è duro come una pietra. Il sim-bolo, però, è più profondo, giacché per i Grecila pietra è simbolo della morte, e pietrificarequalcuno (come nel mito della Gorgone chepietrifica gli uomini) è un tipo di morte. Nuo-vamente dunque le immagini giocano sul con-cetto di “vivo” e sul simbolo della “pietra”, sul-la capacità di immobilizzare gli uomini, su unmondo che si blocca. L’altro aspetto del mito di Orfeo compare qua-si contemporaneamente nell’iconografia. Leprime immagini che abbiamo raccontano lamorte di Orfeo e qui [fig. 8] lo si vede a terraammazzato dalle donne. La forza di Orfeo ècapace di bloccare tutte le attività maschili; perquesta ragione sono le donne ad ammazzarlo ein modo molto violento: a sinistra una tiene unsasso enorme, un’altra ha una pietra, altre han-no dei pestelli e nella coscia di Orfeo c’è unospiedo. Non usano, pertanto, delle armi da

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Fig. 9 e 9a, id, particolare

Fig. 7, cratere attico a figure rosse,pittore di Napoli, 440 a. C., Orfeo frai Traci (Hamburgo 1968. 79)

Fig. 8, stamnos attico a figure rosse,pittore della Dokimasia, 490 a. C., lamorte di Orfeo (Basilea, excollezione Bolla, in deposito all’Antikensammlung)

Fig. 9a.

guerra, ma oggetti, sia naturali (pietre, sassi) siadella vita quotidiana, della cucina, del lavoro,che vengono utilizzati nella violenza istantaneadi questo scatenamento da parte delle donnetracie. Vediamo nei particolari (figg. 9, 9a) i sas-si e il pestello - strumento che serve per lavora-re il grano - diventare un bastone, un’arma vio-lentissima. C’è una distorsione tra l’uso norma-le degli oggetti e quello che accade. Se mettia-mo assieme queste immagini con quelle analiz-zate poco fa, concludiamo che abbiamo da unaparte gli uomini che non fanno più nulla, dal-l’altra le donne che si scatenano: c’è quindi uncontrasto molto forte tra la percezione dellamusica da parte degli uomini e delle donne.Quello che le donne fanno, però, è solo salvarel’oikos e la vita di famiglia, giacché gli uominisono bloccati. In questo racconto - non sono ioa inventarlo, è così che viene raccontato dalleimmagini - l’unico modo per sbloccare questasituazione è sopprimere Orfeo, ammazzarlo. Suquesto vaso [fig. 10], una hydria - un vaso atti-co della metà del V secolo, utilizzato dalle don-ne per prendere l’acqua alla fontana e portarla acasa - vediamo due disegni [figg. 11 e 12] chefanno capire meglio lo svolgersi dell’azione:abbiamo Orfeo al centro, che compare nuova-mente a destra mentre sta cadendo, cercando didifendersi con la lyra - diventata un’arma, inquesto caso - mentre le donne lo aggredisconocon degli spiedi. Dietro un albero c’è un uomoche si nasconde, quindi ne deduco che l’episo-dio non riguardi una lotta tra uomini e donne -giacché gli uomini non fanno nulla, sono anco-ra bloccati - e che il motivo del conflitto sia lostatuto stranissimo della musica nel mondo deibarbari. C’è un eccesso da parte degli uominiche ascoltano e non fanno più nulla e c’è uneccesso da parte delle donne che al posto diascoltarla la distruggono. Ci troviamo, credo,davanti ad una visione del “cattivo uso della

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Fig. 10, idria attica a figure rosse,pittore delle Niobidi, 460 a. C., mortedi Orfeo (Boston MFA 90.156)

Fig. 11 e 12 (sotto), id, disegno

musica”. È di questo che parlano le immaginirelative al “non ascoltare bene”. Sull’altra partedello stesso vaso [fig. 12]: compaiono di nuovoOrfeo, una donna con una spada, poi un’altracon una falce - utensile per il lavoro dei campima anche strumento che serve a tagliare la testae altre… “parti”, pensate a Urano che fu castra-to - poi di nuovo un uomo che non si muove:dunque è veramente insistente la descrizione diquesto contrasto tra il movimento delle donne el’immobilità degli uomini. In un altro vaso [fig. 13], al Museo di Napoli,abbiamo una soluzione grafica un po’ diversa. Sitratta di un cratere in cui l’immagine viene divi-sa su due livelli. Al livello superiore c’è Orfeo,nello stesso schema iconografico, seduto con lalyra e intorno a lui uomini che non si muovonotra i quali uno è un Tracio, con un bel vestitoornato di bende nere e il cappello da cavaliere;al livello inferiore ci sono già le donne che arri-vano correndo di nuovo con un’ascia, una lan-cia e altri strumenti. L’ascia non è un’arma diguerra, chiaramente: veniva usata per tagliare illegno, ma serve anche per il sacrificio e si evi-denziano, dunque, dietro questa storia, anchedelle connotazioni sacrificali. Esaminiamo un altro particolare [fig. 14] dellostesso vaso, con il contrasto già descritto conOrfeo ascoltato da uomini e ammazzato dadonne: versione stranissima per noi. Noi siamoabituati a una mitologia organizzata, da dizio-nario, da libri scolastici, ma di fatto non c’èmitologia al di fuori dei testi o delle immaginiche la fanno funzionare: non c’è nel mondo gre-co una mitologia teorica come la Bibbia, unlibro chiuso, completo, intoccabile; la mitologiagreca è sempre aperta alle trasformazioni, unmito agisce sull’altro, è molto malleabile. Anchela musica funzionava così: si parlava di improv-visare, di ricreare, non di conservare e bloccare,ma di far giocare le possibilità significative di

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Fig. 13, cratere attico a figure rosse,pittore della Centauromachia delLouvre, 440 a. C., Orfeo i Traci e ledonne trace (Napoli, MuseoArcheologico H 2889, inv. 81 868)

Fig. 14, id, particolare

ognuna di queste storie. Il caso di Orfeo è inte-ressante perché vediamo che le storie per noiprestabilite - Euridice, gli animali - in realtà nonappaiono; sappiamo altresì che c’è una tragedia,quasi contemporanea a questi vasi, perduta pernoi, di Eschilo, nella quale le donne che ucci-dono Orfeo sono delle Menadi, cioè delle don-ne della cerchia di Dioniso. In questa raffigura-zione, da quello che vediamo, nessuna delledonne ha il tirso, né gli elementi dionisiaci,quindi i pittori hanno scelto di rappresentarlacome ho cercato di descriverla: con donne euomini “barbari” dal punto di vista greco, eanche se le donne hanno dei tatuaggi, questi lepossono caratterizzare come barbare o comeschiave, ma certamente non come seguaci diDioniso. Poi con il tempo compaiono altri mitiche raccontano la versione eschilea: Orfeo, chevoleva onorare solo Apollo e non aveva alcuninteresse per Dioniso, viene ammazzato dalladonne che sono, in questo caso, delle Menadi.La versione dei vasi, ripeto, è un contrasto trauomini e donne e in questo conflitto ciascunonon usa bene la musica, non la sa “sentire” e“utilizzare” adeguatamente. Ci sono, poi, altri miti attorno ad Orfeo: le don-ne lo ammazzano, lo fanno a pezzi e la testa diOrfeo ha vita sua propria, viene trasportata dalmare e finisce a Lesbo, luogo ove sorge un oraco-lo di Orfeo. Abbiamo pochissime immagini del-la fine del V secolo, tra le quali questa [fig. 15] sucui vediamo alcune delle Muse con gli strumen-ti, una a sinistra con l’aulos, l’altra a destra con lalyra; la testa di Orfeo è al suolo, l’uomo che la staguardando forse è Eumolpo, ma l’identificazionenon è sicura. La testa [fig. 16] è interessantissi-ma: è una testa viva, ha occhi aperti che parla-no. Si è anche insistito sullo statuto della paro-la nella pratica musicale greca e quanto descrit-to è un caso limite, perché riguarda la parola“oracolare”, che profetizza dicendo cose che

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Fig. 15, idria attica a figure rosse,Gruppo di polignoto, 440 a. C.,scoperta della testa di Orfeo (Basilea,in deposito all’ Antikensammlung)

Fig. 16, id, particolare

acquistano senso tramite un’interpretazionespecifica. È proprio ciò che si vede su questovaso [fig. 17] della fine del V secolo, sul qualevediamo la testa “viva”, con occhi e bocca aper-ti e un giovane seduto che scrive le parole del-l’oracolo; a destra il dio Apollo, con un ramod’alloro, indica la testa e lo scrittore. Il poteredella musica di Orfeo diventa, in questo episo-dio, il potere oracolare della parola, sotto il con-trollo di Apollo.Un’altra storia importante nell’iconografia musi-cale e mitologica è quella di Marsia e dell’aulos.L’aulos è uno strumento inventato da Atena almomento della morte di Medusa: quando laGorgone viene decapitata da Perseo, le sorellepiangono, emettendo grida stridenti che Atenacerca di imitare usando una canna e inventandocosì uno strumento simile all’aulos. Suonandoquesto strumento mimetico, che imita un gridonaturale - o quasi naturale - si accorge però cheil suo viso ne viene deformato e quindi lo gettavia, perché, ovviamente, vuole essere una deacon un bel viso - capite adesso perché in prece-denza avevo insistito sull’importanza del signifi-cato del nome della musa Calliope. Gettato daAtena, lo strumento viene raccolto da Marsia ilsatiro, già brutto di viso e che quindi non sipreoccupa della propria bellezza ma solo del suo-no dell’aulos. Qui [fig. 18] abbiamo una dellepoche immagini con Atena che ha da poco get-tato via l’aulos: si vedono i due tubi e il satiro chesembra accorgersi in questo stesso momento diquesto bellissimo strumento. La storia prosegue: Marsia suona l’aulos, diven-ta un suonatore perfetto, eccezionale, e si vantadi poter suonare meglio di Apollo, commetten-do il peccato di hybris, d’orgoglio, nel parago-narsi alla divinità: atto insopportabile, poichénon si deve gareggiare con gli dei (e credo pro-prio che Apollo sia una delle divinità più suscet-tibili). Abbiamo una iconografia specifica sulla

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Fig. 17, coppa attica a figure rosse,pittore della testa di Orfeo, 400 a.C.,la testa oracolare di Orfeo(Cambrige, Corpus Christi College)

Fig. 18, oinochoe attica a figurerosse, 450 a. C., Atena butta l’aulosdi fronte a un satiro (Berlino, F 2418)

gara tra Apollo e Marsia. Questa [fig. 19] è l’u-nica scultura che in questa occasione prendo inesame: è un rilievo di Mantinea della fine del IVsec. a. C., dunque più tardo dei vasi esaminatifino ad ora. Lo faccio vedere perché il disegnocon Marsia che suona somiglia molto allo sche-ma del Marsia che scopre l’aulos, iconografiache sarà probabilmente una citazione, forse daMirone, ma non voglio discutere questo. Inquesto rilievo si vede a sinistra, seduto sulla roc-cia, Apollo con la kithara, il grande strumento,e a destra Marsia, che suona; al centro, infine,uno schiavo in costume barbaro con un coltelloin mano, particolare molto importante, perché- vi ricordate la storia? - Marsia perderà la garae verrà scorticato da Apollo, con una violenzaspaventosa. Non ho portato il quadro di Tizia-no su questo argomento, una delle cose più spa-ventose nella storia dell’arte, una vera e propriamacelleria. Dietro anche a questa pratica musi-cale, pertanto, c’è una violenza pari a quella del-le donne tracie che ho fatto vedere prima: unvero e proprio delirio, lo scatenamento di unfurore incredibile. Non credo, dunque, che lamusica serva sempre ad “adoucir les mœurs”: c’èdi più, dietro a questo semplicistico assunto. Il concorso, dunque, si svolge così: Marsia suo-na, il giudice re Mida stabilisce che lui è piùbravo di Apollo, ma a questo punto il dio glitende un tranello e chiede a Marsia di suonarerovesciando lo strumento, cosa che con la lyra sipuò fare, mentre con l’aulos è impossibile.Un’altra versione dice che Apollo decide di can-tare mentre suona, altra cosa che con l’aulos nonsi può fare. Questo aspetto è molto importante:di nuovo il mito tratta di una riflessione sullaparola del canto legata allo strumento, eviden-ziando come questo sia il limite dell’aulos, colquale non si può cantare e suonare assieme, pos-sibilità che, al contrario, la lyra si ha. Questaconsiderazione ha delle conseguenze rilevanti

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Fig. 19, rilievo attico, da Mantinea,350 a. C, Apollo e Marsia (Atene,Museo Archeologico 215)

nella pratica musicale: attorno alla fine del V einizio del IV secolo c’è una forte critica all’aulos,coerentemente con quanto indicato; Alcibiade,ad esempio, dice di non voler suonare l’aulosperché è brutto e rende brutto il viso e, insecondo luogo, impedisce di cantare, mentre laparola è più importante della musica. Dunque, nel mito di Marsia c’è tutto questo,però, se esaminiamo come alla fine del V secoloa. C. i pittori attici hanno trattato l’argomento,facciamo nuovamente alcune scoperte interes-santi. Anche se questa versione del mito è cono-sciuta da tutti, perché già Erodoto nella sua Sto-ria parla di un posto in Frigia in cui si vede, sul-la piazza, appesa ad un albero, la pelle di Mar-sia, testimoniando la diffusione del racconto,l’interesse dei pittori nelle raffigurazioni nonriguarda il momento del castigo, l’aspetto vio-lento della vicenda, ma il mettere insieme, comein questa immagine [fig. 20], un satiro che suo-na l’aulos - che potrebbe essere Marsia - e Apol-lo con l’alloro che tiene la lyra. Viene evidenzia-ta la competizione tra i due strumenti, affianca-ti, però, in una sfida che non finisce in modoviolento. La stessa cosa qui [fig. 21]: siamointorno al 440, 430 a. C.: l’iconografia di Mar-sia viene organizzata in un modo che definirei“pacifico”, con Apollo di fronte ad un satiro e lalyra sotto di esso, dunque non in contrapposi-zione conflittuale, o che addirittura escluda l’u-no o l’altro dei due strumenti, ma in una com-binazione degli stessi. Poi abbiamo alcune don-ne con strumenti musicali, probabilmente leMuse e direi, quindi, che secondo la logica diqueste immagini Marsia risulta essere uno degliesseri della cerchia di Dioniso che viene inte-grato nel mondo di Apollo. Abbiamo un disegno molto bello [fig. 22] - vido forse l’impressione di inventare tutto, ma, alcontrario, è tutto chiaramente espresso - su ungrande cratere del Museo Jatta di Ruvo. Sul col-

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Fig. 20, cratere attico a figure rosse,pittore di Cadmos, 430 a. C., satiroauleta e Apollo con la lira (Bologna,Museo Civico, Pell. 301)

Fig. 21, cratere attico a figure rosse,430 A. C., satiro suonatore e Apollo(mercato antiquario, New York,Sotheby’s 11.XII.1989 n°125)

Fig. 22, cratere attico a figure rosse,pittore di Cadmos, 430 a. C.,particolare del collo con satiro auletae Apollo (Ruvo, Museo Jatta 1093)

lo abbiamo un satiro seduto che suona, Apolloche l’ascolta, un altro satiro che danza e proba-bilmente una Musa a sinistra. Esaminando l’in-sieme del vaso [fig. 23] - un cratere per mesco-lare il vino del banchetto e ribadisco che il con-testo è importantissimo, poiché il vino è Dioni-so e le raffigurazioni di satiri sono legate anchea questo aspetto - al centro abbiamo un satiro,posto di fronte ad Atena, l’inventrice dell’aulose ad Apollo seduto un po’ a destra. Forse il dise-gno è più chiaro [fig. 24]: c’è il satiro Marsiache suona la kithara accanto ad un albero di pal-ma, l’albero di Apollo, poi Atena in piedi, quin-di Apollo - i nomi sono scritti: la cosa notevoleè che Marsia suona lo strumento di Apollo,dunque non è rappresentato alcun conflitto,quanto piuttosto uno scambio. Il pittore hascelto di non far vedere la violenza e la contrap-posizione tra Dioniso e Apollo, ma piuttosto diintegrarli in modo pacificato. C’è poi un tripo-de accanto al satiro, forse è il premio ad un con-corso o una offerta al dio Apollo. Abbiamo mol-tissimi di questi tripodi ad Atene o a Delfi. Inquesta raffigurazione c’è forse l’accenno ad unconcorso musicale, il ditirambo - è una dellepossibilità che possono essere prese in esame -ma la cosa che mi interessa è farvi vedere il gio-co tra Dioniso, Apollo e Marsia, secondo moda-lità che sembrano abbastanza pacifiche. Andando avanti nel tempo ritroviamo nellaceramica italiota, campana e lucana la raffigura-zione del coltello già vista sul rilievo di Manti-nea. In questo vaso [fig. 25], oggi perduto, c’è ilsatiro inginocchiato e Apollo stesso che tiene ilcoltello: è evidente che non è più il momentodella gara ma quello del castigo. Inequivocabil-mente si sta suggerendo il momento dello scor-ticare, che, però, non si fa esplicitamente vede-re (l’esplicitazione avverrà solo nella sculturaromana, mai nella pittura vascolare). Conside-riamo ancora questo cratere per il vino [fig. 26],

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Fig. 23, id, insieme del vaso

Fig. 24, id, disegno

Fig. 25, cratere campano a figurerosse, 360 a. C., Apollo con ilcoltello, (vaso perduto, ex collezioneHope)

di provenienza campana, con evidenziata non laqualità musicale del satiro o di Apollo, ma laforza del dio che è in grado di castigare ogniessere umano che pretenda di essere più bravodi lui. Questo significato del mito, dunque, èdifferente da quelli precedentemente esaminati:il dio tiene uno strumento che è un tipo di har-pe, di falce, lo stesso strumento che Perseo uti-lizza per tagliare la testa della Gorgone. Il pun-to notevole è che, come scrive Erodoto quandoparla della pelle del satiro nella città di Frigiadove è stato scorticato Marsia, questa pelle vie-ne chiamata askos, parola greca molto interes-sante. Askos può essere la pelle di Marsia comein questo caso, oppure può essere la pelle dicapra che serve per fare un otre per il vino, mapuò essere anche la parte che nel sacrificio gre-co viene data al sacerdote, può essere vocabolospecifico legato al rito del sacrificio. Su questaimmagine [fig. 27], infine, di una piccola broc-ca per il vino, abbiamo una donna, Apollo conla lyra e un satiro che tiene egli stesso il coltellodel sacrificio, quasi anticipando il suo castigo.Non c’è più alcuno strumento musicale, solo ilcoltello; il satiro ha un piede su una roccia e difronte a lui, sulla linea del sole, c’è un oggettoche può sembrare due cose: può essere un askos,un otre, ma assomiglia anche molto alla custo-dia di un flauto. È chiaro che il pittore fa unaspecie di anticipazione della conclusione dellavicenda, che acquista senso solo conoscendo ilmito, ovvero è necessario che ci sia qualcuno ingrado di narrarlo, come sto facendo io, o forse,ancora meglio, in grado di cantare questa storiaal simposio. Dunque sono le immagini checreano le possibilità di espressione musicale,poetica o narrativa, e queste possibilità possonovenire o no utilizzate, a seconda della voglia deibevitori: ne traggono ispirazione se lo desidera-no, altrimenti discorrono d’altro. Per non lasciarvi con queste storie così violente

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Fig. 26, cratere campano a figurerosse, 350 a. C., Apollo con la harpe(mercato antiquario, New York, NFA11.XII.1991)

Fig. 27, oinochoe lucana a figurerosse, 360 a. C., Apollo con la lira esatiro con il coltello (Taranto, MuseoNazionale 20305)

e tristi, torniamo ora ad occuparci di satiri emusica esaminando alcune immagini in cui glistrumenti musicali sono diversamente utilizzati.Su questa scena di simposio [fig. 28] il satiroporta sulla spalla un otre pieno di vino; regge untipo di lyra lunga, tipo barbitos, per cantare alsimposio, ma dal suo braccio pende anche unacustodia, la sybene, che serve per custodire l’au-los; porta infine un cestino con gli oggetti e lacoppa necessari al banchetto. Il satiro è unafigura centrale nell’immaginario del simposio(credo che nella realtà non ce ne siano molti,forse alcuni, ma non molti…); questo immagi-nario animale-umano, questo simbolo delbestializzarsi nel bere e nel cantare, viene, mol-to spesso, nell’iconografia del banchetto, colle-gato ad un tipo di musica che combina la lyra el’aulos, ricordando però che l’aulos è uno deglistrumenti più influenti sull’animo umano e cheprovoca la mania dionisiaca più della lyra.Abbiamo anche dei satiri come questo [fig. 29],vestito da concertista, che suona la grandekithara tra Ermes a sinistra e Dionisio a destra:non so se questa sia una versione comica o no,ma chiaramente è un décalage, uno slittamentotra l’iconografia standard del concorso musicaledi cui si è parlato e una versione divina e satire-sca assieme, con molto garbo ed eleganza.Abbiamo altre situazioni musicali di satiri chegiungono all’oscenità, raffigurati nel denudarsie nell’esibire il sesso [fig. 30, vedi p. 49], oppu-re giocate con analogie, sulle quali vi lasciomeditare, tra l’aulos e il sesso [fig. 31]. In que-sto caso la scena è rappresentata con un po’ didiscrezione: la custodia viene appesa al sesso delsatiro che tiene l’aulos in mano... Stiamo esami-nando raffigurazioni antecedenti all’iconografiadi Marsia che abbiamo già visto, ma il mitocompleto esiste già nella cultura greca, perchéErodoto scrive poco dopo questo periodo. Per concludere brevemente: vi ho fatto vedere,

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Fig. 28, idria attica a figure rosse,500 a. C., il satiro sulla strada delsymposio (Monaco,Antikensammlung 2424)

Fig. 29, cratere attico a figure rosse,da Spina, 460 a. C., satiro concertistatra Ermes e Dionisos (Ferrara, MuseoArcheologico, inv. 4110, T55A VP)

Fig. 31, piatto attico a figure rosse,firmato da Epictetos, 510 a. C.(Parigi, Cabinet des Médailles)

passando da Orfeo a Marsia, diverse cose; credo che ci sia una poesia grafica inqueste storie musicali. Altri miti sono più gradevoli, io ho scelto questi due chesono violentissimi, ma legati ai confini del mondo greco, alla Frigia e al mondotracio. Non una Frigia storica, quanto una “Frigia per gli Ateniesi”: è il puntodi vista degli Ateniesi sul mondo estero e quindi sul loro stesso. All’interno diquesto mondo si descrive, destinando la riflessione all’ambito del simposio, ilcattivo uso della musica, ma anche il buon ascolto senza esagerazioni e con l’at-tento controllo della parola, del canto e del gioco con il vino e la musica.

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> Fig. 30, coppa attica a figure nere, 520 a.C., Satiro con l’aulos(Monaco, Antikensammlung WAF 2088)

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Gli strumenti musicali dell’antica Grecia MICHAEL STÜVE

Assai poco sappiamo degli strumenti musicali dell’antica Grecia, come del restodel suono e della musica da essi prodotti. Il turbamento che suscita la consape-volezza che le nostre conoscenze sull’antico stile musicale sono talmente insuf-ficienti da non permetterci neppure di giudicare se la melodia della prima odepitica di Pindaro tramandataci da Athanasius Kircher sia autentica oppure siasolo una contraffazione (anche se indubbiamente molto suggestiva), è parago-nabile al disagio che proverebbe un musicista di oggi, se dovesse spiegare adesempio, come erano fissate le corde dell’antica lyra allo zygon, la traversa fra idue bracci dello strumento, per non parlare del problema della loro accordatu-ra. Gli scarsi reperti archeologici, le tante raffigurazioni e le descrizioni riporta-te in letteratura da Omero (VIII sec. a. C.) a Polluce (II sec. d. C.) ci danno unquadro di grande vivacità musicale, ma dal punto di vista organologico riman-gono aperti molti problemi. Mi limiterò dunque a presentare a grandi linee glistrumenti dei quali esiste maggiore documentazione, suddivisi in tre gruppi inaccordo con la maggior parte dei testi: i cordofoni, gli strumenti a fiato e quel-li a percussione. Occorre precisare che essi erano già noti da molto tempo inMedio-Oriente e che i Greci quindi hanno copiato semplicemente strumentigià in uso fin dai tempi dei Sumeri e degli Assiri (come l’arpa, le lyre a undici ea dodici corde, il liuto, cioè la cosidetta pandoura). Vorrei ricordare anche chel’interesse per la musica greca antica è dovuto alla grande influenza che essa haesercitato sulla nostra musica, la musica dell’Abendland, ed il fatto che a sua vol-ta abbia risentito di numerosi influssi esterni non diminuisce l’importanza cheha avuto per la nostra cultura.

I. Strumenti a cordaLa lyra, con le sue numerose varianti, è lo strumento più antico e rappresen-tativo dell’antica Grecia. Nelle raffigurazioni vascolari l’arpa è rappresentatasoltanto una volta prima della fine del V sec a. C., mentre il liuto vi compa-re dalla metà del IV sec. a. C. Questi strumenti tuttavia erano già presenti inMesopotamia nel 2000 a. C. e venivano suonati con le dita o con il plettro,mai con l’arco.

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< Fig. 2a, kithara, ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1989.

1. La lyra. La lyra era costituita da una cassa dirisonanza con due bracci uniti all’apice median-te una traversa; ad essa venivano assicurate lecorde, tese in mezzo ai bracci, poggiate su unponticello (magas) e fissate ad una cordierasituata alla base della cassa di risonanza. Lo stru-mento veniva sostenuto dal braccio sinistro delsuonatore, infilato in una fascia dello strumen-to stesso; il plettro - come dimostrano molteraffigurazioni - di solito era legato allo strumen-to mediante una cordicella. La parola chelys, tartaruga, nell’antichità signifi-cava anche ‘lyra’. Martin Litchfield West distin-gue fra ‘box lyres’ (lyre a cassa) e ‘bowl lyres’ (lyrea scodella) [vedi fig. 1a, p. 34] e fa rientrare lachelys tra queste ultime: essa consisteva in unguscio di tartaruga chiuso da una pelle, al qualevenivano legate le corna di un animale. Un altrotipo di lyra a scodella era il barbitos [fig. 1 e 1a],con lunghi bracci, quindi con lunghe corde, cheemetteva un suono piuttosto grave. È possibilevederlo raffigutato sul famoso vaso 2416 diMonaco [vedi fig. 5, p. 23] in mano a Saffo edAlceo vissuti tra il VII ed il VI sec. a. C. I poetidi Lesbo lo chiamavano barmos. La chelys appa-re nell’iconografia solo verso la fine dell’VIIIsecolo a. C., il barbitos ancora più tardi. Eranostrumenti suonati per lo più dai dilettanti ed inoccasioni conviviali.Già nelle culture minoica e micenea (dopo il1600 a. C.) era in uso una lyra appartenente allafamiglia delle ‘lyre a cassa’, con una cassa dilegno il cui fondo era di forma rotonda. Di soli-to veniva raffigurata con sette corde. Più tardi,invece, nell’ VIII sec., essa stranamente si pre-sentava con solo tre o quattro corde: si trattadella lyra che Omero chiama phorminx, lo stru-mento dell’aedo, del poeta cantore-narratoreche raccontava le gesta divine degli dei e deglieroi. Certo, il fatto che vi fossero ora tre, oraquattro corde ci fa pensare al tetracordo, all’in-

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Fig. 1, Barbitos e doppio aulos.Pelike a figure rossePittore dell'Angelo VolanteProvenienza: Chiusi (480 a.C. ca)Museo Archeologico di Firenze

Fig. 1a, Barbitos, ricostruzioneGiorgos Polyzos, 1989.

tervallo di quarta, diviso in un primo momentoda una sola nota, più tardi da due. Ma c’è chisostiene, che le quattro corde della phorminxnon si limitassero all’intervallo di quarta, mafossero accordate in re-la-fa-mi; altri ancoraritengono che l’accordatura fosse estremamentevariabile. In verità non ne sappiamo nulla. ATerpandro (VIII - VII sec. a. C.) viene attribui-to il merito di aver riportato le corde a sette.Siamo nel periodo di transizione dalla musicapentatonica a quella eptatonica. Terpandro viene considerato il padre della cita-rodia, del canto accompagnato dalla kithara. Siritiene che i termini kitharis o kithara apparte-nessero ad una lingua diversa dal greco, ma nonsappiamo a quale. La kithara [fig. 2a, p. 50], lalyra più grande e pesante dell’antichità, era lostrumento del virtuoso che si esibiva durante igiochi panellenici. I bracci dello strumento era-no formati da un prolungamento della cassa dilegno. Le volute ed i meccanismi a zig-zag [fig.2], simili a quelli degli strumenti egiziani eminoici, fanno supporre che lo strumento aves-se un sistema di accordatura molto sofisticato. Illoro funzionamento tuttavia non è tuttora noto.Il dorso della kithara non era piatto, ma alquan-to convesso, come evidenziano alcune raffigura-zioni che mostrano lo strumento di lato. Il fon-do invece era piatto.Vi era anche una lyra più piccola con una cassaarmonica il cui fondo era simile ad una cullavista di lato, che viene perciò chiamata dagliorganologi tedeschi ‘Wiegen-Kithara’. Era lostrumento delle Muse e delle donne. La kithara, contrariamente al più leggero barbi-tos ed alla chelys, veniva tenuta in posizione ret-ta, parallela al corpo. La corda più vicina al cor-po era quella più grave, chiamata hypate: ‘la piùalta’. Le corde successive - salendo la scala - era-no denominate:Parhypate: ‘la corda accanto alla più alta’

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Fig. 2, Kithara.Anfora a collo distinto a figure nereProduzione attica (510-500 a.C.)Museo Archeologico di Firenze

Lichanos: ‘dito indice’Mese: ‘la media’Trite: ‘la terza’Paranete: ‘la corda accanto alla più bassa’Nete: ‘la più bassa’La nete, ‘la più bassa’, produceva il suono piùacuto. Tale nomenclatura fu poi utilizzata perindicare i suoni della scala eptatonica.Nel periodo classico nel quale Frinide e Timo-teo invocavano la ‘nuova Musa’, le corde dellakithara vennero aumentate fino ad un massimodi dodici.Nell’antichità esistevano molti altri tipi di lyra edi alcuni conosciamo anche i nomi: la phoinix ophoinikion proveniva probabilmente dalla Feni-cia; il pythikon o daktylikon veniva suonato inoccasione dei giochi pitici, forse con tutte ledita, senza plettro; il pentachordon era una lyramolto antica proveniente dalla Scizia; altri nominoti sono: skindapsos o kindapsos, lyrophoinix olyrophoinikion, spadix, byrte, psaltinx ecc. Mentre di questi tipi di lyra non sappiamo mol-to, conosciamo invece molto bene la forma diuna lyra proveniente dalla Tracia e raffiguratamolte volte: uno strumento simile al barbitos,ma più corto. Di esso tuttavia non conosciamoil nome.

2. L’arpa. L’arpa [fig. 3], sicuramente uno deglistrumenti più antichi, si trova rappresentata inGrecia solo a partire dal V secolo. Tuttavia Saffoed Alceo conoscevano già questo strumento e lochiamavano paktis (pektis nel dialetto ionico-attico). Lo consideravano lo strumento dell’a-more e del piacere. Lo si vede di solito in manoalle Muse o a donne sedute, appoggiato sul loroginocchio sinistro. Il numero delle corde varia-va da nove a venti. Spesso la cassa di risonanzaera appoggiata al seno della suonatrice; le cordeerano tese tra la cassa ed una base sottile chepoggiava sul ginocchio.

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Fig. 3, Trigonon (arpa).Ricostruzione di Giorgos Polyzos,1990.

Fig. 4, Trichordon (Pandoura).Ricostruzione di Giorgos Polyzos,1991.

Il trigonos era un’arpa di forma triangolare e con la cassa di risonanza situata allato opposto della suonatrice. La sambyke (latino sambuca) era invece un’arpadal registro acuto e dal “suono ignobile” (Quintiliano), simile all’omonimamacchina da guerra costituita da due navi sulle quali poggiava una scala incli-nata verso le mura della città assediata.Non sappiamo quale forma avessero le arpe denominate klepsiambos, ennea-chordon, cioè arpa a nove corde, nablas e heptagonon che Aristotele definisce“strumento edonistico”. Alla fine del IV secolo tutti i tipi di arpa erano denominati psalterion, cioè‘strumento pizzicato’. Nel medioevo il termine salterio venne poi attribuito adun tipo di cetra con corde tese su una cassa di risonanza. Strumenti simili, for-se usati soprattutto per impartire lezioni di musica, nell’antichità furono l’epi-goneion con quaranta corde e il simikon con trentacinque. Il termine simikonprobabilmente deriva da Simos, teorico vissuto nel V secolo a. C., mentre l’e-pigoneion indicherebbe la posizione dello strumento, che veniva tenuto sulleginocchia, come nel mondo arabo, turco e greco ancora oggi viene suonato ilkanonaki, strumento il cui nome fa riferimento ai ‘canonisti’, gli antichi teori-ci della musica.

3. Il liuto. Il liuto antico è rappresentato in una dozzina di raffigurazioni fra il330 ed il 200 a. C. Veniva suonato dalle Muse e dalle donne, con il plettro ocon le dita. Il liuto a tre corde era detto trichordon [fig. 4]. Dal III secolo in poiil liuto venne chiamato pandoura. Nel Medioevo la pandoura fu detta mandora.Il liuto bulgaro dal lungo manico viene ancora chiamato tanbura. Nella Bibbia, verso nono del salmo 144 attribuito a Davide (1000-960 a. C.),viene nominato uno strumento a dieci corde:“O Dio, voglio cantare a te un nuovo canto, voglio inneggiare a te sul decacordo.”Sulla base di questo verso durante la riforma cistercense del XII secolo, i mona-ci che codificavano il canto gregoriano costrinsero ogni melodia in un ambitodi decima. L’antico decacordo però era probabilmente uno strumento a cinquecorde doppie accordate in modo pentatonico

II. Strumenti a fiatoFin dall’antichità esistevano i tre tipi di strumenti a fiato che ritroviamo anco-ra oggi: gli strumenti ad ancia (cennamelle), i flauti e gli strumenti a bocchino(trombe). Essi erano detti aulos, syrinx o iynx e salpinx.

1. L’aulos. L’ aulos (termine che inizialmente significava semplicemente ‘tubo’ o‘condotto’) è la cennamella antica, non è quindi un flauto, come spesso viene erro-neamente tradotto. Come la lyra tra gli strumenti a corda, era il più diffuso tra glistrumenti a fiato. Veniva di solito suonato in coppia come doppio aulos [fig. 1,

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vedi p. 52, e 1b]: il suonatore teneva in bocca leancie di due strumenti diversi. Per evitare unafuga d’aria incontrollata (chiudere strettamentele labbra attorno a due ancie non è affatto faci-le) e per sostenere la pressione che occorre persoffiare dentro due strumenti nello stesso tempo,i virtuosi di questo strumento indossavano spes-so la phorbeia (lat. capistrum) [vedi fig. 2, p. 17],una specie di bavaglio con due fori, il cui scopoforse era anche quello di ridurre le inevitabilismorfie. Si narra che l’ aulos fu gettato via dallasua inventrice, la dea Atena, quando si accorsequanto esso deturpasse il suo bel viso; lo stru-mento - dice il mito - fu raccolto da Marsia checome auleta entrò in competizione con Apollo,virtuoso suonatore di lyra. Come i nostri clarinetti ed i nostri oboi, anchel’aulos è composto da più parti: il bocchino conun ancia semplice o - più frequentemente - conuna doppia ancia che il suonatore teneva inbocca, era inserito nella parte superiore dellacanna ornata da un rigonfiamento (holmos), benvisibile nella maggior parte delle raffigurazioni.La canna cilindrica si inseriva all’interno di hol-moi puramente ornamentali, senza cambiarediametro, che di solito era di 8 - 10 mm. L’au-los poteva essere allungato mediante più holmoiche separavano il bocchino dalla canna princi-pale nella quale si trovavano cinque fori, unoper ogni dito di una mano. In questo modo lostrumento poteva essere allungato ed il suonoportato ad un registro più grave.Con Pronomo di Tebe (circa 400 a. C.) i foridell’aulos vennero aumentati fino a 24 e, nonpotendo più essere chiusi contemporaneamentedalle dita, fu introdotto un meccanismo di chia-vi (anelli e chiavistelli) per realizzare con ununico strumento l’intera gamma dei modi e del-le armonie. Tuttavia per i diversi registri eranonecessari più strumenti: secondo Aristosseno(ca. 354 - 300 a. C.) la famiglia dell’ aulos era

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Fig. 1b, Aulos doppio.Ricostruzione di Giorgos Polyzos,1989.

formata da cinque tipi di strumenti:parthenioi, l’ aulos delle fanciulle;paidikoi, dei ragazzi;kitharisterioi, dei suonatori di lyra;teleioi, degli adulti;hyperteleioi, dei più maturi. La nomenclatura più moderna definisce tali registri come soprano, mezzoso-prano, tenore, baritono e basso. L’intervallo fra la nota più grave dell’hyperte-leion e quella più acuta del parthenion era di oltre tre ottave.Gli auloi erano di canna, di osso (tibie di daino), di avorio, di legno o di metal-lo, oppure avevano parti di osso o di legno inserite in strutture metalliche.Quando non veniva usato, lo strumento veniva custodito nella sybene, un saccodi pelle, che spesso vediamo raffigurato, mentre il delicato bocchino era ripostoin una scatolina chiamata glottokomeion. Come la lyra, anche l’aulos comprendeva numerose sottoclassi di strumenticome gli elymoi di origine frigia, un doppio aulos con la canna sinistra allunga-ta mediante l’aggiunta di un corno di bovino. Secondo Aristofane emetteva unsuono piuttosto rozzo, forse simile al ronzio delle vespe. Nato come strumentodi culto, nell’epoca romana venne impiegato nel teatro. Gingros, gingras, gingrias o gingrainos era chiamato un aulos corto, dal registroacuto e dal suono lamentoso, usato spesso per l’insegnamento della musica.Ginglaros era invece il nome di un aulos singolo di provenienza egiziana, che perla sua lunghezza impegnava entrambe le mani. Nell’Italia meridionale fu chia-mato tityrinos. I pythikoi erano auloi dal registro di baritono (teleioi) e venivano suonati duran-te i giochi pitici. Tecnicamente molto elaborati, permettevano di suonare mol-ti modi diversi su una larga scala di registri. In questo si distinguevano dagliauloi dal registro acuto, usati per accompagnare i cori e la poesia ditirambica. Iparoinioi erano auloi con una canna piuttosto corta ed erano usati nei convivi. Gli auloi suonati nello spondeion, la parte più solenne del nomos pitico, eranostrumenti lunghi, dal suono cupo e dal registro grave. Accompagnavano anchegli inni. Nelle processioni invece si suonavano gli embaterioi, mentre la musicada danza era accompagnata dai daktylikoi, nome con il quale vengono indicatisia un tipo di lyra che di aulos. Alcuni auloi avevano il bocchino in posizione laterale. Forse venivano anch’essichiamati plagiauloi, benchè questo termine si riferisse soprattutto al flauto.Tra le cennamelle si può annoverare anche la zampogna, raffigurata per la primavolta su un cammeo del periodo ellenistico. Si dice che fosse lo strumento suo-nato dall’imperatore Nerone.

2. Il flauto. Il flauto dell’antichità era costituito da un’unica canna forata o

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da più canne di diversa lunghezza. La syrinx, il flauto di Pan, è un flauto concanne di diversa lunghezza. Nell’antica Grecia erano di uguale lunghezza all’e-sterno, ma accorciate all’interno mediante tappi di cera. Era lo strumento deipastori e non ha avuto grande importanza nell’antichità, se non come base dipartenza per la costruzione dell’organo. La Musa Calliope rappresentata sulvaso François di Firenze suona proprio la syrinx utilizzata anche in ambito cul-tuale ad Efeso e Delo.Iynx era il nome di un flauto formato da un’unica canna forata. Veniva suo-nato come la syrinx, soffiando l’aria attraverso il taglio apicale, oppure - comenei nostri flauti traversi - attraverso un foro laterale (plagiaulos). Il suono del-l’iynx era dolce ed assomigliava al fruscio del vento.L’epitonion era un piccolo flauto usato dal maestro del coro per indicare ai can-tanti la nota con la quale iniziare.

L’organo. Parlando dei flauti non possiamo non citare l’organo (tyrrhenosaulos), inventato dall’ingegnere Ctesibio di Alessandria (III sec. a. C.), chiama-to anche hydraulis, perché inizialmente funzionava mediante un meccanismoidraulico tramite il quale l’aria veniva forzata in una galleria sottostante ad unaserie di canne di bronzo fissate ad una tastiera. Ogni canna aveva un tappocomunicante con la galleria, che poteva essere aperto attraverso la tastiera, per-mettendo così all’aria di entrare nella canna. Filone di Bisanzio, allievo di Cte-sibio, descrive l’organo come “una syrinx suonata con le mani, detta hydraulis”.Sembra che l’organo fosse lo strumento preferito da Nerone e forse è stata pro-prio sua l’idea di sostituire il meccanismo idraulico con quello pneumatico perdiminuirne le dimensioni. Certo, si parla anche di un organo il cui polmonevenne realizzato con la pelle di due elefanti e che suonava grazie a 12 mantici.Il suo suono poteva essere sentito a distanza di un miglio. Nel VIII secolo l’or-gano pneumatico da Bisanzio si diffuse anche nell’Europa del Nord.

3. La salpinx. La salpinx era la tromba dell’antica Grecia. Non era un vero eproprio strumento musicale come sembra fosse per gli etruschi, ma serviva piut-tosto per fare segnalazioni durante i combattimenti, nei concorsi sportivi comele corse dei cavalli, nel lavoro, in occasione di riunioni ed anche durante le ceri-monie religiose. La salpinx (latino tuba) consiste, appunto, di un tubo cilindri-co di bronzo di lunghezza compresa fra gli 80 ed i 120 cm. Il fondo dello stru-mento, la campana, aveva la forma di un tulipano. Il bocchino era di osso. Latromba era già conosciuta da Omero che la menziona nell’Iliade (XVIII, 219;XXI, 388), ma sembra non fosse nota ai suoi eroi che non la suonano mai. Dopo il IV secolo a. C. vennero istituiti concorsi di salpinx e si dice che alcu-ni virtuosi di questo strumento fossero in grado di farlo sentire dalla distanzadi sei miglia.

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Gli strumenti più comuni per le segnalazionierano tuttavia le conchiglie ed i corni ai qualiveniva aggiunto un bocchino. Il Museo Nazionale degli Strumenti musicali diRoma possiede una bellissima raccolta di stru-menti antichi tra i quali vi sono anche deifischietti in terracotta a forma di cinghiale e digallo, di epoca ellenistica. Passando dagli stru-menti a fiato agli aerofoni in generale, dobbia-mo nominare il rhombos, un pezzo di legnolegato ad una corda che, fatto roteare nell’aria,emetteva un suono simile al muggito del bue.Veniva suonato nel culto di Dioniso assieme altamburo ed ai piatti a sonagli.

III.Strumenti a percussioneGli strumenti a percussione nell’antichità avevanodue diverse funzioni: evidenziare il ritmo e pro-durre suoni chiassosi durante il culto orgiastico.

1. Gli strumenti ritmici. Le melodie dell’auloso della lyra potevano essere accentuate dal batti-to delle mani o dei piedi (specialmente nelledanze, come riportato nell’Odissea, VIII, 256),ma spesso si vedono raffigurate donne che dan-zano accompagnandosi con i krotala [fig. 5a],strumenti simili alle castagnette o nacchere, for-mati da due pezzi di legno uniti da un lato, chevenivano battuti l’uno contro l’altro dalle ditadi una mano [fig. 5]. Erano lunghe circa 12-15cm, quindi il loro ritmo doveva essere più lentodi quello delle castagnette spagnole che sonopiù corte. L’auleta, quando accompagnava il coro, spessoindicava il ritmo battendo per terra il kroupalon(denominato anche kroupeza, lat. scabellum),una calzatura dalla doppia suola di legno.

2. Gli strumenti di culto. Tra gli strumenti apercussione maggiormente usati nelle cerimoniein onore di Dioniso e di Cibele vi era il tympanon

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Fig. 5, Krotala.Coppa attica a figure rossePittore di Antiphon (intorno a 480 a.C.)Museo Archeologico di Firenze

Fig. 5a, Krotala.Ricostruzione di Giorgos Polyzos,1989.

(il nostro tamburello), spesso suonato da donne.Il suo diametro era di 30 - 50 cm ed ambedue ilati erano ricoperti di pelle [fig. 6 e 6a].I kymbala [fig. 7] erano una tipica coppia dipiatti a sonagli di bronzo, di circa 18 cm. di dia-metro, che venivano impugnati tramite unanello situato sul dorso. Sono ancora in uso inMedio Oriente.I rhoptra erano strumenti di metallo simili aikrotala di legno.Nel culto di Iside, che dall’antico Egitto si eradiffuso anche a Roma, venivano suonati i sistri[seistron, fig. 8] dei quali esiste una grande col-lezione nel Museo nazionale di Strumenti musi-cali di Roma. Erano formati da una staffa sor-retta da un manico, alla quale erano fissati deicavetti ricoperti da una spirale di filo di bronzo.Lo strumento produceva un piacevole suonoquando veniva agitato.Alcune raffigurazioni mostrano donne che ten-gono nella mano sinistra uno strumento parti-colare a forma di scala e lo toccano con la manodestra. Si presume che si tratti della psithyraanaloga ai sistri.

Bibliografia:L. Cervelli, (ed.), La Galleria armonica, Catalogo delMuseo degli strumenti musicali di Roma, Roma 1994.G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana,Torino 19912.R.H. Hoppin, Medieval Music, New York, London 1978.D. Minrow, Instruments of the Middle Ages and theRenaissance, London 1976.Soc. Biblica Italiana, La Bibbia concordata, IV, AnticoTestamento, Libri poetici, Milano 1982.M. West, Ancient Greek Music, Oxford 1992.

Le illustrazioni 1, 2, 5, 6, sono qui riprodotte per gen-tile concessione della Soprintendenza Archeologicadella Toscana.

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Fig. 6, Tympanon.Hydria greca a figure rossePittore di Meidias (420-410 a.C.)Museo Archeologico di Firenze

Fig. 6a, Tympanon.Ricostruzione di Giorgos Polyzos,1989.

Fig. 7, Kymbala.Ricostruzione di Giorgos Polyzos,1989.

> Fig. 8, Seistron. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1990.

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Vincenzo Galilei, Athanasius Kircher EUGENIO LO SARDO

e la musica greca

Devo concludere questa bellissima serata e trascinarvi via a malincuore dalmondo greco. L’argomento di cui parlerò è ben lontano dagli eroi di Maratonae dalla splendida armonia dei vasi antichi. Sposterò la leva del tempo di due mil-lenni in una Italia snervata, post-michelangiolesca, con due figure che, a distan-za di tempo, si fronteggiano: Vincenzo Galilei (1520-1591), da un lato, gran-de teorico della musica, fiorentino, padre di Galileo e, dall’altro, AthanasiusKircher, gesuita nato in Germania nel 1602 e vissuto a Roma dove fondò unfamoso Museo e scrisse moltissime opere, di cui una sulla musica, intitolataMusurgia universalis.1 Quella in cui ci troviamo non è più l’Italia dell’alto Rina-scimento percorsa da geni universali, ma è ancora un paese pieno di fermenti,di accademie e di fornitissime biblioteche, tanto che i primi ritrovamenti dimusica greca avvennero proprio nelle nostre collezioni. Vincenzo Galilei e Athanasius Kircher furono i primi a pubblicare i brevi fram-menti di musica antica2 che per secoli restarono le uniche testimonianze di unagrande tradizione artistica, rimasta inesplorata e difficilmente studiabile per lascarsità delle fonti. Nelle loro opere narrano come questi ritrovamenti avvenne-ro e giustificano e teorizzano il motivo per cui hanno ricercato e pubblicato leantiche melodie. Ma, mentre gli Inni attribuiti a Mesomede - pubblicati daVincenzo Galilei - sono in genere ritenuti autentici, poiché esistono più codi-ci che riportano le stesse trascrizioni, diverso è il caso della melodia della Primaode pitica di Pindaro - pubblicata da Kircher - che i filologi per lo più ritengo-no un intelligente falso d’autore. Su tale giudizio pesano dei preconcetti basati su una valutazione poco lusin-ghiera dei lavori del grande gesuita tedesco, spesso accusato di essere un genia-le millantatore per aver propugnato una teoria interpretativa dei geroglificiegizi dimostratasi infondata. In realtà gli egittologi riconoscono a Kircher ilmerito innegabile di essere stato il vero iniziatore della loro disciplina. Il ten-tativo fallito di leggere l’antica scrittura va per loro inquadrato in un precisoambito cronologico, come ha chiarito Sergio Donadoni in un recente artico-lo, per cui il codice di lettura del gesuita non poteva non essere che quello del-

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< Athanasius Kircher, Musurgia universalis, Lib. VII, p. 541, Romae,Typis Ludovici Grignani, 1650.

la sapientia aegyptia, tramandata da Orfeo, Pitagora e Platone e poi dai neo-platonici come Proclo e Giamblico e tradotta da grandi umanisti, della leva-tura di Marsilio Ficino.3

Ritengo, tra l’altro, che nel confronto tra le figure di Athanasius Kircher e diVincenzo Galilei pesi - almeno dal punto di vista di chi si occupa della storiamoderna dell’Italia - un antico discrimine. La definitiva chiusura e la dispersio-ne delle collezioni del museo kircheriano, uno dei più grandi musei scientificid’Europa, furono in parte dovute alla volontà dei liberali italiani di cancellare lamemoria degli studi compiuti nello Stato della Chiesa da insigni ecclesiastici.Chiesa e oscurantismo nella Nuova Italia, dovevano coincidere, Chiesa e con-danna di Galilei, Chiesa e rogo di Giordano Bruno. I Gesuiti erano il simbolopiù evidente della politica controriformista e Kircher ne era stato uno dei mag-giori ideologi nella seconda metà del Seicento. È una disputa antica che non èqui il caso di affrontare, perché molte posizioni che, sentimentalmente o poli-ticamente, si possono condividere, da un punto di vista storiografico andrebbe-ro almeno riviste. Il gesuita di Fulda, che fu una figura centrale del mondo intel-lettuale del secondo Seicento, successore di Clavio e di Scheiner alla cattedra dimatematiche del Collegio Romano, come risulta da una lettera all’amico e pro-tettore Fabri de Peiresc, era ad esempio convinto della fondatezza dell’eliocen-trismo galileiano, teoria che non poteva abbracciare pubblicamente. Galilei e Kircher, quindi, due nomi e due simboli di un radicato dilemma ita-liano, della profonda frattura che attraversa la società civile e che emerge ogni-qualvolta si parla di scuola e di sistema educativo: Galilei da un lato (anche sesi tratta di Vincenzo) e Kircher dall’altro, ragione e oscurantismo, nuova scien-za e aristotelismo. Vedremo come anche in questo caso le generalizzazioni nonaiutino a comprendere la complessità del tema, anche se i pregiudizi continua-no ad avere il loro peso.Da un punto di vista cronologico Vincenzo Galilei fu il primo a pubblicare deitesti musicali greci nell’Occidente europeo. Erano testi trascritti in diversi codici,conservati in biblioteche italiane e straniere. Ma la pubblicazione avvenne nel-l’ambito di una riforma della tradizione musicale, per rafforzare le basi teorichedelle nuove tendenze che la Camerata dei Bardi, di cui Galilei era un importanteesponente, intendeva imporre nel panorama fiorentino del tardo Rinascimento.Vincenzo, liutista e grande virtuoso, era nato a Santa Maria del Monte nel1520, e aveva compiuto i suoi studi musicali a Firenze. Risiedè per un lungoperiodo a Venezia e a Pisa dove sposò Giulia, figlia di Cosimo Ammanati. Nel1568 pubblicò la sua prima opera teorica, il Fronimo, un dialogo Sopra l’arte diben intavolare la musica negli strumenti artificiali sia di corde come di fiato, et inparticolare nel liuto (ripubblicato a Venezia nel 1584) e lì affermava che i Gre-ci erano stati i veri inventori di quell’arte, di cui avevano studiato scientifica-mente gli effetti sull’ascoltatore. Essi pensavano, egli scriveva, che “gli animi

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umani fossero armonia” e “ credeano che da dolci et soavi concenti fossero ecci-tati a temperare i discordanti affetti”. Alcuni anni dopo, nel 1581, dette allestampe il Dialogo sopra la musica antica et moderna, dedicato a Giovanni Bardi,uno dei maggiori esponenti di quella Camerata fiorentina di cui si è detto.Nell’opera, in cui gli interlocutori sono lo stesso Bardi e Pietro Strozzi, Galileiriafferma quanto accennato nel primo dialogo. I Greci sono per lui i veri maestried inventori della musica e presso di loro quell’arte era tenuta in altissima consi-derazione. Nel Dialogo l’autore si soffermava particolarmente sulla riscoperta del-la monodia antica e sulla sua possibile applicazione al panorama musicale con-temporaneo. Esprimeva in tal modo l’avversione “al contrappunto esasperato” eauspicava il ritorno alla presunta semplicità della scuola musicale greca. CitandoPlatone ribadiva la superiorità della parola sulla musica. Questa evoluzione det-te luogo alla nascita degli “intermedi” (messi in scena durante le nozze di Fran-cesco de’ Medici con Bianca Capello nel 1579) e da questo si giunse al melo-dramma. Scrive al riguardo Mario Baroni che il proposito degli intellettuali chedettero vita alla Camerata fiorentina aveva le sue radici nell’idea tipicamenteumanistica di studiare e di ridare circolazione moderna non solo alla concezionemusicale degli antichi greci, ma all’uso che della musica essi avevano fatto nellospettacolo tragico. Ebbe pertanto origine uno stile adatto a sottolineare le situa-zioni emotive, e a studiare gli “affetti” indotti nell’animo di chi ascolta dallamusica. Vedremo come questa linea di sviluppo musicale incontrò tra i suoi mag-giori interpreti personaggi come Marin Mersenne, lo stesso Kircher e Cartesio,nel Seicento, per giungere, nel Settecento a Rameau, a Matheson ecc. Non sitrattava, come avevano teorizzato i primi musicisti e umanisti della Camerata fio-rentina, di una subordinazione della musica alla parola o meglio all’orazione, mapiuttosto di una subordinazione di parola e musica insieme a questo ideale per-vasivo di tutta la civiltà artistica barocca: esprimere o imitare gli affetti al fine disoggiogare il pubblico, per commuoverlo ed emozionarlo.4

Le opere di Vincenzo Galilei, il “lamento del conte Ugolino” e le “lamentazio-ni di Geremia” sono andate perdute, ma ci sono rimaste varie testimonianze del-la produzione della Camerata.Galilei, oltre che sugli strumenti musicali greci, dissertava nel suo dialogo sulsistema di notazione musicale degli antichi. In un volume della seconda metàdel IV secolo dopo Cristo, conservato nella biblioteca del “Cardinal Sant’An-giolo” (ora alla Vaticana), intitolato delle note degli antichi musici greci opera diun autore noto come Alypio, egli trovava i differenti segni che usavano gli “anti-chi per dinotare le corde dello strumento, a differenza”, come egli stesso scrive-va, “di quelli che significavano il suono della voce”.5 In altri termini Galilei rife-riva come nell’antichità si usassero due sistemi di notazione alfabetica: quellastrumentale con le lettere dell’alfabeto fenicio e quella vocale con le lettere del-l’alfabeto attico. Cosa confermata dagli scritti di Boezio.

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Troppo complesso e superiore alle mie capacità sarebbe ora, senza l’aiuto di sup-porti grafici addentrarsi, nell’intricatissimo mondo della musica classica e dellasua notazione. Basta qui ricordare che il sistema descritto da Alypio era noto aimusicisti bizantini e che alcuni dei frammenti di cui trattiamo, tramandatiattraverso Bisanzio, ne rispettavano l’impostazione. Operazione simile a quella di Galilei compì Kircher che, dopo aver già trattatodi musica greca nel suo excursus storico e in particolare alle pagine 212 e 213della Musurgia, pubblicava nel libro VII della stessa opera (iconismo XIII) unatabella tratta dall’Alypio.Alla suddetta tabella aggiungeva un esempio, Musicae veteris Specimen,6 dove,

trascritta con la notazione antica, diciamo Alypiana, apparivano i primi versidell’ode pitica di Pindaro: “o aurea cetra d’Apollo”. Stranamente Kircher, cheaveva citato l’opera di Galilei (ma molte sono le lacune e gli errori delle operedel gesuita!) affermava che quello, per quanto se ne sapeva, era l’unico esempiorimasto di musica antica. L’aveva trovato nella famosa biblioteca del monasterodel S. Salvatore di Messina, durante il viaggio che aveva compiuto da Roma aMalta tra il 1637 e il 1638, viaggio che gli permise di osservare i vulcani sici-liani e di sollevare fondamentali ipotesi sul nucleo ardente della terra e sulladeriva dei continenti. Anche in questo caso è necessario controllare quanto egliafferma, perché di quel frammento da lui pubblicato si è successivamente persaogni traccia. Ciò che scrive appare però, alla luce delle ricerche compiute, quan-to meno verosimile. Il monastero del San Salvatore al Faro era infatti uno deipiù antichi monasteri basiliani della città dello stretto. Nel 1546 Carlo V neordinò lo spostamento per permettere la costruzione di una fortezza che domi-nava il fondamentale specchio d’acqua. Il S. Salvatore trovò una nuova sedepresso il porto di Messina, iuxta portum, come scrive il Kircher nella Musurgia.È proprio lì che i monaci gli avrebbero mostrato questo libro di inni tra le cuipagine era trascritta la prima ode pitica e la relativa melodia. Molti manoscritti provenienti dal S. Salvatore, anche musicali si conservanooggi nel mondo. Alcuni sono alla biblioteca dell’Università di Messina7 altri nelmonastero di San Nilo di Grottaferrata presso Roma, altri ancora in Spagna allaBiblioteca dell’Escurial e alla Biblioteca Reale di Madrid, altri forse si conserva-no, come è avvenuto per le pergamene della città dello stretto, in chissà qualebiblioteca privata. La dispersione di questo ingente patrimonio è dovuta aglieventi connessi alla ribellione anti-spagnola di Messina del 1674 e alla ricon-quista della città nel 1678. Gravissimi furono le distruzioni e i saccheggi. Furaso al suolo il palazzo civico (i cui archivi si sono ritrovati solo di recente) e lapopolazione si ridusse drasticamente da 120.000 a 15.000 abitanti. Kircher

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> Organo idraulico da Musurgia universalis, 1650.

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morì nel 1680, due anni dopo lo svolgersi di questi drammatici eventi, e finoa quel momento nessuno dei suoi tanti acerrimi critici smentì quanto egli ave-va scritto nella Musurgia Universalis, pubblicata nel 1650, trenta anni primaquindi. Il fatto che egli avesse visto un codice di inni risalente al nono secolodopo Cristo a Messina - città di grandi tradizioni greche, dove trovò rifugio nel’400 anche Costantino Lascaris, profugo da Costantinopoli, che vi fondò unascuola - appare assolutamente verosimile. Nella stessa Musurgia,8 affrontando iltema della musica greca nel capitolo dedicato alla polifonia antica, egli riferivache i bibliotecari messinesi, appartenenti all’ordine basiliano presso cui è anco-ra viva la tradizione del canto bizantino, avevano voluto mostrargli quel mano-scritto redatto, egli dice, circa settecento anni prima del momento dell’incon-tro (ergo nel nono-decimo secolo d.C.) e in cui erano trascritti molti inni suotto linee, non su cinque.Con Galilei e con Kircher ci troviamo quindi dinanzi a due casi simili: trascri-zioni certamente bizantine d’antiche musiche greche e sappiamo quanto la cul-tura contemporanea sia in debito per gli accurati lavori compiuti nel “Grecoimpero”.9 Sta di fatto che molti filologi e grecisti, per giusta prudenza, usanodue pesi e due misure perché nel caso di Kircher, non essendosi trovato l’origi-nale, parlano apertamente di contraffazione. Personalmente non ne sarei tanto sicuro. Credo che il gesuita abbia effettiva-mente avuto tra le mani un libro di inni, quello su cui dubiterei è la datazione,sapendo quanto egli fosse poco attento al riguardo, come dimostra il caso del-l’Asclepio e degli Hermetica che egli faceva risalire al mitico Ermete Trismegisto,mentre il Casaubon aveva già dimostrato l’inconsistenza di tale attribuzione.Ma di Kircher non ci si libera facilmente perché l’uomo, con le sue contraddi-zioni, ha dei tratti d’altissimo genio e le sue luci e le sue ombre non sono esclu-sivamente personali. Nei suoi libri la difformità dello stile latino lascia intrave-dere più mani all’opera. Le sue erano posizioni largamente dibattute all’internodella Compagnia di Gesù, che sottoponeva ad attenta verifica i libri dei proprimembri.Abbiamo parlato dei meriti di Kircher nell’egittologia e nella vulcanologia e,senza voler cadere nell’errore dei suoi fautori - di affermare con Antonio “ForBrutus is an honourable man, So are they all, all honourable men”10 - bisognadire che anche in campo musicale molti riconoscono al sapiente gesuita grandivirtù, non ultima quella di altissima testimonianza della scuola musicale roma-na e della pubblicazione filologicamente corretta, riscontrata su altri manoscrit-ti esistenti, di un famoso oratorio di Giacomo Carissimi, lo Jephte. Ciò nonbasterebbe a stabilire l’autenticità della melodia dell’ode pitica, ma rende menoaprioristicamente scettici su quanto da lui pubblicato. Marchingegni e artifizi ad esempio, da lui inventati, che oggi potrebbero sem-brare vacui sogni barocchi, come le cassette matematiche, hanno una invece

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loro perfetta utilità. Mara Miniati, del Museo della scienza di Firenze, descrivenei dettagli l’uso dell’unico originale a noi pervenuto. Si trattava di uno stru-mento da consultare con l’aiuto di un manuale di riferimento, un po’ come ilsestante e le tavole delle effemeridi. Permetteva di compiere una serie di opera-zioni complesse: matematiche, algebriche, astronomiche … musicali. Spostan-do delle barrette inserite in nove differenti alloggiamenti, con un funziona-mento simile a quello di un regolo matematico, si ottenevano le relative rispo-ste. L’ultima fila della cassetta, ideata per soddisfare le necessità di un sovrano eil poco tempo a lui riservato per apprendere, concerneva la musica. Grazie allacombinazione corretta dei “bacoli musurgici” tutti avrebbero potuto scrivere eapprendere differenti stili, anche in quelli dell’antica Grecia.Giancarlo Bizzi, in Enciclopedismo e Roma barocca11 definisce la Musurgia uni-versalis uno straordinario viaggio nell’universo dei suoni e delle macchinesonanti e dedica un interessante articolo alla tabula mirifica, omnia contrapunc-tisticae artis arcana rivelans. Bizzi dimostra come questa Tabula mirifica sia unoschema logico-assiomatico che contiene in sé la rete delle relazioni possibili trai suoni. Non sono in grado di seguire le sue dimostrazioni ma so che Pierre Bou-lez era fortemente attratto da questo aspetto della musicologia kircheriana.Come dimostrano questi due esempi egli comunque aveva una tale padronan-za della tecnica musicale e delle matematiche combinatorie da poter proporre eprodurre musiche derivanti da algoritmi o da schemi logico-assiomatici, proce-dura mutuata in seguito dal grande Bach.Vediamo quindi quasi due partiti contrapporsi: da un lato i grecisti, come ilgrande Bruno Gentili che negli atti del convegno internazionale sulla musicaantica tenuto ad Urbino nel 1985, dichiara che la melodia dell’ode pitica è unfalso12, dall’altro i musicisti. Gentili poi nell’edizione valliana delle Pitiche diPindaro, nel vasto apparato di note di corredo, non ritiene neanche necessariocitare l’esistenza di questo falso che, comunque viene sempre riproposto nelleedizioni di musica greca, almeno nelle due che sono riuscito a trovare.Diversi i giudizi dei musicisti13 che, più attenti all’aspetto estetico, restano affa-scinati dal frammento edito da Kircher. Carlo Del Grande nel suo Dizionariodella musica e dei musicisti ritiene che il brano edito dal gesuita “in quanto melo-dia è bella e degna di Pindaro”14. Potremmo concludere con queste parole e conquello che dice Vlad al riguardo. “La melodia in questione è davvero bellissimaed essere stato capace di inventare una melodia degna di Pindaro è di per sé untitolo di gloria tale da compensare ogni accusa di falso”.Non sapremo mai se Kircher veramente vide quest’antica testimonianza dellamusica greca nel convento di Messina. Forse la famosa ode pitica non è che unadelle tante applicazioni della sua tabula mirifica, un geniale esperimento di artecombinatoria. Ma saremmo oggi, con tutti i nostri strumenti elettronici, capa-ci di padroneggiare con eguale maestria lo sterminato universo dei suoni?

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Note:

1. Musurgia universalis, sive Ars magna consoni et dissoni in X. Libros digesta. Qua uni-versa Sonorum doctrina, et Philosophia, Musicaeque tam theoricae, quam practicaescientia, summa varietate traditur, admirandae Consoni, et Dissoni in mundo, adeòqueuniversâ naturâ vires effectusque, uti noua, ita peregrina variorum speciminum exhibi-tione ad singulares usus, tum in omnipoenè facultate, tum potissimùm in Philologià,Mathematicà, Physicà, Mechanicà, Medecinà, Politicà, Metaphysicà, Theologià, aperiun-tur et demonstrantur. Tomus I. Romae, ex typographia haeredum F. Corbelletti, AnnoJubilaei 1650. 2 vol. In-fol. , 690 pp. tavv., ill..-Tomus II. Qui continet In Lib. VII. MusicamMirificam. In Lib. IX Magiam Consoni et Dissoni, in Lib X. Harmoniam Mundi, Romae,Typis Ludovici Grignani, 1650. In-fol.,462 pp

2. Le opere edite di Vincenzo Galilei sono le seguenti: Intavolatura del liuto, 1563, Fronimo,I ed. 1568, Primo libro di Madrigali a quattro e cinque voci, 1574, Dialogo della musica anti-ca e moderna, 1581 Firenze. Nel Dialogo della musica antica et della moderna alle pp.96-97editò gli inni attribuiti al musicista cretese Mesomede, musicista alla corte di Adriano (II sec.d.C), ritrovati in un codice della “libreria del cardinal Sant’Angiolo a Roma”.Le maggiori opere di storia della musica che trattano del periodo greco, come la NewOxford History of Music, a cura di Egon Wellesz (la sezione dedicata alla musica greca èa firma di Isobel Henderson), annoverano tra i frammenti di musica ellenica anche que-sti testé citati. Kircher compì nella Musurgia universalis (Roma 1650) un’operazione nondissimile stampando il testo e la melodia della prima ode pitica di Pindaro, dando luogoperò ad una infinità di diversi pareri, a tal punto divergenti che un famoso musicologo,R.P. Winnington-Ingram in un articolo uscito nel 1958 su “Lustrum” elencava una paginaintera di studiosi che dibattevano sull’autenticità o meno del frammento musicale editodal gesuita.

3. Sergio Donadoni, I geroglifici di Athanasius Kircher, pp.101-110, p. 104, in AthanasiusKircher. Il Museo del Mondo. Macchine, esoterismo, arte, catalogo a cura di E. Lo Sardo,Edizioni De Luca, Roma 2001, della mostra tenuta a Roma, Palazzo di Venezia, nel feb.-apr. 2001. Del resto con il suo dizionario arabo-copto-latino è considerato oggi dagli egit-tologi l’iniziatore della loro disciplina e il nostro Sergio Donadoni scrive al riguardo cheil Kircher nella sua grandiosa opulenza barocca tentò di “dar voce all’ineffabile, di coglie-re nel passato la potenzialità di un futuro”.

4. Mario Baroni, Enrico Fubini, Paolo Petazzi, Piero Santi, Gianfranco Vinay, Storia dellamusica, Torino, Einaudi 1988, testo di Baroni, p. 119.

5. Dialogo, cit. ed. 1581, pp. 96-97. Scrive al riguardo Kircher: “Duplicemque signorumcharacterum, notarumque ordinem servat: primus ordo significat characteres, qui cantuivoce perficiendo servirent; secundus ordo instrumentis competit, ea fere ratione, quaetiamnum, notae musicae vocalis distinctae sunt a notis, quas tabulaturas vulgo vocantmusicae instrumentali servientibus, quem ordinem Alipij multi non intelligentes binashasce notas pro una sumentes, uti Liardus, et ex eo salomon Caus specimina, quae mun-do exhibere voluerunt, antiquae musicae vitiosissime et falsissime reddiderunt”. Musur-gia univeralis, cit., p. 540.

6. “Inveni autem hoc musicae specimen, ut alias memini in celeberrima illa totius SiciliaeBibliotheca monasterij S. Salvatoris iuxta Portum Messanensem in fragmento Pindariantiquissimo, notis musicis veterum Graecorum insignito, quae quidem notae, sive cha-racteres musici cum iis, quos Alypius in tono Lydio exhibet sunt iidem; verba odes Pin-daricae notis musicis veteribus usitatis expressa sequuntur; tempus non notae; sedquantitas syllabarum dabant “, Musurgia universalis, cit. p. 541.

< Athanasius Kircher, antiporta da De Sepi, Romani Collegii, 1678.

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7. Maria Bianca Foti, in particolare in I codici basiliani del Fondo del SS. Salvatore. Cata-logo della Mostra, Messina 1979.

8. Pp. 212-213.

9. Raffaele Cantarella scrive nell’edizione da lui curata dei Tragici greci edita da Monda-dori a proposito dei ritrovamenti papiracei e delle trascrizioni medievali :”E tuttavia, dopoi comprensibili entusiasmi dei primi ritrovamenti, abbiamo avuto conferma che la qualitàdei testi medievalli più autorevoli non è, in generale, inferiore a quella dei papiri: ciò chetestimonia gli alti meriti filologici dei dotti bizantini”. P. LIII.

10. W. Shakespeare, Julius Caesar, atto III, scena II, l. 79.

11. In Enciclopedismo e Roma barocca: Athanasius Kircher e il Museo del Collegio Roma-no tra Wunderkammer e Museo scientifico, a cura di Mariastella Casciato, Maria GraziaIanniello e Maria Vitale, Venezia, Marsilio 1986.

12. Come dimostrato da A. Rome, secondo Gentili (in La musica in Grecia, a c. di B. Gen-tili e R. Pretagostini, Roma - Bari, 1988, p. VI n 1), nel 1932 in Les études classiques, I,1932, pp.3-11 e IV, 1935, pp. 337-350, cfr. Vlad, infra.

13. Vedi al riguardo gli articoli apparsi di recente in due opere a cura di chi scrive: R. Zar-pellon, La musica degli affetti, in Il Museo del Mondo, cit., pp. 261-276 e R. Vlad, Kirchersapiente musicologo, in Iconismi e Mirabilia da Athanasius Kircher, Edizioni dell’Elefan-te, Roma 1999, pp. 63-67. All’articolo di Vlad devo molte delle informazioni sulle opinio-ni di musicologi e musicisti sull’Ode pitica di Kircher.

14. Cit. in Vlad, p. 65, vedi supra.

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Grecia · Cividale del Friuli, 20 luglio 2001 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Introduzione · Salvatore Settis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

Musica e poesia in Grecia · Maria Chiara Martinelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica:pluralità delle occasioni del canto · Carlo Pernigotti e Luisa Prauscello . . . . . . . . 29

Iconografia musicale · François Lissarrague . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

Gli strumenti musicali dell’antica Grecia · Michael Stüve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55

Vincenzo Galilei, Athanasius Kirchere la musica greca · Eugenio Lo Sardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

Indice

Finito di stamparenel mese di febbraio dell’anno 2002dalla Stella Arti Grafiche di Trieste