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1 Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova Dipartimento di FISPPA - FILOSOFIA SOCIOLOGIA PEDAGOGIA E PSICOLOGIA APPLICATA CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione CICLO XXIX SUL PRESENTE DELLE NOSTRE SCUOLE Lettura inattuale delle politiche scolastiche contemporanee Coordinatore: Ch.mo Prof.ssa Marina Santi Supervisore: Ch.mo Prof. Mino Conte Dottoranda: Sara Magaraggia

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Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova

Dipartimento di

FISPPA - FILOSOFIA SOCIOLOGIA PEDAGOGIA E PSICOLOGIA APPLICATA

CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN

Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione

CICLO XXIX

SUL PRESENTE DELLE NOSTRE SCUOLE

Lettura inattuale delle politiche scolastiche contemporanee

Coordinatore: Ch.mo Prof.ssa Marina Santi

Supervisore: Ch.mo Prof. Mino Conte

Dottoranda: Sara Magaraggia

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ABSTRACT

La ricerca mira ad interrogare la struttura e il senso che l’istituzione scolastica assume nel nostro tempo, considerando il contesto storico e politico che la comprende. Assumendo una postura critica nei confronti del presente, la ricerca prova ad analizzare il discorso che, a partire degli anni Novanta, ha riconfigurato la scuola entro la società e l’economia della conoscenza. Che forma assume la scuola nell’epoca del lifelong learning? Materiale privilegiato di questo studio sono le politiche educative europee e nazionali (in modo particolare La Buona Scuola), le quali sono esaminate alla luce della prospettiva analitica dei Governmentality Studies. L’intento della ricerca è di rendere visibile la razionalità implicita e i meccanismi di potere che caratterizzano le pratiche educative entro la scuola così riformata, perché siano oggetto di un più ampio dibattito pedagogico.

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INDICE

PROLOGO ................................................................................................................. 9

NOTA INTRODUTTIVA ............................................................................................. 11

UNA TRADIZIONE DI RIFERIMENTO ......................................................................... 23

1. Una postura critica ................................................................................................. 23

1.1 Quale pensiero alla fine della storia? .............................................................. 24

1.2 La critica nella società capitalistica avanzata .................................................. 33

1.3 Qu’est-ce que la critique? ................................................................................ 39

1.4 Contemporaneo intempestivo ......................................................................... 47

2. Una filosofia politica dell’educazione ................................................................... 51

2.1. Che cos’è la filosofia dell’educazione? ........................................................... 52

2.2 Le istituzioni giudicate .................................................................................... 64

2.3 Convergenze critiche tra Adorno e Foucault ................................................... 84

FOUCAULT E GLI STUDI GOVERNAMENTALI .......................................................... 101

1. La governamentalità nelle ricerche di Foucault .................................................. 106

1.1 Ripensare il potere ......................................................................................... 106

1.2 Genealogia dello Stato moderno ................................................................. 115

1.3 La governamentalità neoliberale ................................................................... 129

1.4 Assunzioni teoretiche di fondo ...................................................................... 136

2. Gli Studi Governamentali ..................................................................................... 141

2. 1 Una ricostruzione storica............................................................................... 141

2.2 Techne, Episteme, Ethos ................................................................................. 148

2.3 Governamentality Studies in Education ........................................................ 158

LEGGERE LE POLITICHE DELLA SCUOLA .................................................................. 189

1. Riformare la scuola: in Italia come in Europa ..................................................... 191

1.1 La volontà di qualità ....................................................................................... 195

1.2 L’invito a cooperare ........................................................................................ 198

1.3 Apprendere per tutta la vita .......................................................................... 201

2. Una rilettura critica .............................................................................................. 219

2.1 Effetti retorici come effetti di potere ............................................................ 220

2.2 Lifelong Learning come mito.......................................................................... 225

2.3 Qualità e apprendimento come dispositivi governamentali ........................ 237

3. Leggere La Buona Scuola ..................................................................................... 249

3.1 La Buona Scuola serve .................................................................................... 251

3.2 Gli strumenti de La Buona Scuola .................................................................. 263

BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................... 285

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Per me, pensare è farmi, disfarmi, rifarmi, o tentare di farlo

Paul Valéry, “Cahiers” (1912)

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PROLOGO

Scholè (σχολή), tempo libero e improduttivo. Tempo dell’ozio (otium), sottratto alle

occupazioni dell’attività familiare, sociale o lavorativa (negotium). Tempo liberato,

disponibile all’esercizio disinteressato del pensiero e delle potenzialità umane.

Spazio d’incontro tra maestri e studenti, luogo di esperienza culturale, occasione di

trasformazione sottratta ad ogni predestinazione. Spazio offerto alle nuove

generazioni per generare forme di vita inedite, capaci di significare in modo eccedente

la propria relazione con il mondo.

Parole custodite nella profondità della lingua greca e latina: radici capaci di preservare

la qualità educativa dell’experimentum scholae. Parole convocate cercando

un’attitudine critica, prendendo eque distanze da uno stato di nostalgia e di

adattamento alle pretese di ciò che è. Rievocare un linguaggio oggi impossibile,

tracciare il gesto di un anacronismo. Inaugurare così, con una sconnessione, il percorso

che qui s’intende avviare: il tentativo, intempestivo quanto moderno, di interrogare

l’attualità, con la premura di allontanarsi un poco da essa, per poterla meglio

osservare.

Che cos’è la scuola e dove sta andando? Come si pensa e si istituisce la formazione dei

giovani nel nostro presente? Quali forme assume il rapporto tra potere e libertà nelle

attuali istituzioni scolastiche? Cosa siamo noi e cosa stiamo diventando abitando ciò

che oggi chiamiamo scuola? Domande che ci interpellano con urgenza, riguardandoci

in modo particolare e comune - quali singoli e koinōnikon zôon. Interrogativi che ci

avvicinano a chi, attraverso i secoli, ha fissato lo sguardo nella cultura del suo tempo: è

a questi pensatori - inattuali, discronici - che ci rivolgeremo, nella necessità di

attrezzare la vista ad esplorare le tenebre della nostra epoca, fuggendo il clamore dello

spettacolo e la tirannia della luce.

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NOTA INTRODUTTIVA

Lo studio che qui introduciamo muove dall’esigenza di prendere una posizione nel

presente, considerando la condizione delle pratiche educative e scolastiche dell’età

contemporanea. Come porsi, in quanto insegnanti, pedagogisti o cittadini, in modo

non indifferente nei confronti di ciò che oggi, in modo familiare, chiamiamo scuola?

Che atteggiamento assumere dinnanzi alla forma istituzionale che essa presenta

nell’epoca attuale? Prima di agire - di implementare l’ultima riforma, di diffondere

“buone pratiche”, di proporre un’alternativa - crediamo necessario sostare in un

tempo ozioso, apparentemente inutile, dedicato all’esercizio del pensiero1. A cosa,

dunque, è urgente rivolgere il nostro pensiero? Fondamentale, in primo luogo, è

un’analisi del pensiero stesso, del modo di pensare che legittima l’impianto

istituzionale delle pratiche scolastiche del nostro tempo: «il nostro pensiero –

riconosce Massimo Baldacci - si inscrive entro un frame particolare e determinato, ed è

perciò importante prendere coscienza della cornice dentro la quale ci muoviamo,

esserne consapevoli per poterla criticare ed eventualmente superare. Lasciandola allo

stato implicito, si corre il rischio di rimanerne prigionieri»2. La presente ricerca si

rivolge a quanti, sottraendosi all’imperativo del fare, accoglieranno l’invito a ripensare

il proprio sguardo sulla scuola e ad interrogarne la cornice di riferimento, a partire dal

linguaggio che la istanzia. Quali sono i presupposti latenti del modo comune di

intendere la scuola? Quale razionalità governa l’istituzione scolastica e il suo rapporto

con la società contemporanea? Quali l’ordine del discorso e l’orizzonte di senso che

negli ultimi decenni abbiamo interiorizzato, recependo ed attuando le diverse riforme

scolastiche? Accanto a queste domande, crediamo sia importante porne altre,

estendendo l’analisi alla materialità dell’istituzione scolastica, considerando le

tecnologie, i dispositivi, gli strumenti con cui una certa razionalità è messa all’opera.

Quali sono gli effetti di potere delle tecnologie e degli strumenti con cui le pratiche

scolastiche sono realizzate? Qual è l’universo di parole, pensieri e azioni in cui

1 Come scrive Riccardo Massa, «solo attraverso il pensiero è possibile generare qualcosa di pratico e di

concreto. La scuola chiede di essere ricreata e rigenerata, non semplicemente abolita o rinnovata», in Cambiare la scuola, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 10

2 M. Baldacci, in A. Salatin, B. Brocca, M. Baldacci, F. Frabboni, La buona scuola. Sguardi critici dal

documento alla legge, Milano, Franco Angeli, 2015, p. 13

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immettono il soggetto? Qual è il loro impatto sulle soggettività e sul carattere

educativo dell’esperienza scolastica? Muovendo dai quesiti formulati, lo studio che

andiamo a presentare vuole contribuire a decostruire e comprendere i sistemi impliciti

che orientano i nostri pensieri e le nostre condotte3, riconoscendo nell’educazione un

ambito non isolabile della realtà, da comprendersi all’interno dell’universo di fattori

che la significano. Trascurando di analizzare la cornice che dà forma al nostro modo di

pensare e di organizzare le pratiche scolastiche, rischieremo di “innovare” senza

mutare la logica implicita del nostro presente, o, ancor peggio, di favorire,

inconsapevolmente, una realtà opposta a quella che vorremmo promuovere. Catturati

dall’ansia di migliorare la qualità delle nostre scuole, potremmo, senza coscienza,

diminuire – arrivando pervertire - la cifra educativa che dovrebbe distinguerle.

Riconosciuto questo pericolo, prima di gettarci a capofitto sulla pianificazione degli

interventi di miglioramento, crediamo sia indispensabile riconoscere la pedagogia

implicita alla forma scolastica contemporanea: qual è la soggettività umana che la

pedagogia istituzionalizzata sembra oggi favorire? Quale forma di vita, di relazione con

il mondo, contribuisce a promuovere? Rispondere a queste domande è cruciale per

poter esercitare, in modo pieno e consapevole, una responsabilità educativa, politica e

culturale. Per scegliere, con conoscenza e coscienza, come porsi nei confronti del

proprio tempo.

Durante gli anni in cui la ricerca si è svolta, nel panorama editoriale nazionale

sono apparsi una molteplicità di saggi dedicati alla scuola, segno di una rinnovata

attenzione a questa antica istituzione4. In modo particolare, un dibattito piuttosto

3 M. Foucault, “Relazione prima”, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2004, p. 56

4 Tra i diversi volumi pubblicati troviamo A. Bajani, La scuola non serve a niente, Roma, Editori Laterza,

2014; F. Frabboni e F. P. Minerva, Una scuola per il Duemila. L‘avventura del conocere tra banchi e mondi ecologici, Roma-Bari, Laterza, 2014; M. Veladiano, Parole di scuola, Trento, Erickson, 2014; G. Ferroni, La scuola impossibile, Roma, Salerno Editrice, 2015; F. Clementi e L. Serianni, Quale scuola? Le proposte dei Lincei per l’italiano, la matematica, le scienze, Roma, Carocci, 2015; M. Ambra (a cura di) Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola, e-book de “Il lavoro culturale”, 2015; W. Tocci, La scuola, le api e le formiche, Roma, Donzelli Editore, 2015; A. Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi della scuola 2.0, Bologna, il Mulino, 2015; M. Rossi-Doria, La scuola è mondo. Conversazioni su strada e istituzioni, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2015, A. Salatin, B. Brocca, M. Baldacci, F. Frabboni, La buona scuola. Sguardi critici dal documento alla legge, Milano, Franco Angeli, 2015; M. Conte, Didattica minima. Anacronismi della scuola rinnovata, Padova, Libreria Universitaria, 2017; C. Raimo, Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è, Torino, Einaudi, 2017. Di qualche anno prima N. Bottani, Requiem per la scuola? Ripensare il futuro dell’istruzione, Bologna, il Mulino, 2013 e G. De Michele, La scuola è di tutti. Ripensarla, costruirla, difenderla, Roma, Minimum Fax, 2010

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acceso è seguito alla pubblicazione del documento governativo intitolato La Buona

Scuola nel 2014 e all’approvazione della seguente riforma scolastica, la legge n.

107/2015, coinvolgendo sia gli addetti ai lavori che la società civile5. In molti hanno

biasimato le scelte della riforma, suggerendo altri mezzi - più efficaci o più efficienti -

per raggiungere gli obiettivi dichiarati (introducendo discipline differenti, modalità di

apprendimento più inclusive, una procedura più meritocratica per la selezione dei

docenti, un aumento dei fondi di investimento...). Più raramente, la riflessione si è

concentrata sul quadro di riferimento entro cui la riforma si sviluppa, sulla logica che

innerva l’intero processo riformistico: qual è la forma scolastica che l’ultima riforma

intende promuovere? Secondo quale razionalità l’istituzione riformata sarebbe una

buona scuola? E, paradossalmente, in che senso possiamo considerarla una scuola? È

in questa direzione che il presente studio intende contribuire al confronto culturale

scaturito negli ultimi anni, elaborando una prospettiva interpretativa di tipo critico, che

interroghi l’istituzione scolastica alla luce del più ampio scenario storico e politico6. Per

fare questo, la ricerca ritiene necessario sospendere (temporaneamente) la

valutazione dei risultati di apprendimento, la ricerca di soluzioni all’abbandono

scolastico, la creazione di “kit formativi” per i docenti, per indagare la struttura e il

senso dell’istituzione scolastica nell’età contemporanea7. È in relazione a questi,

proveremo ad argomentare, che ogni ricerca e ogni iniziativa pedagogica definisce il

proprio valore. Al termine dell’analisi, il lettore non dovrà, perciò, attendersi - quasi

come risultato - dei prospetti8: la ricerca mira ad offrire uno sguardo inatteso sul

5 Il numero delle iniziative di riflessione collettiva promosse dagli insegnanti, dalle associazioni

studentesche, dai comitati dei genitori, dai sindacati è impossibile da indicare. A queste si affianca una molteplicità di articoli giornalistici a firma di studiosi e pensatori di riferimento nel panorama nazionale. A titolo di esempio si segnala l’Appello per la Scuola Pubblica promosso da otto insegnanti e sottoscritto da centinaia di docenti, studiosi e cittadini, che trova spazio nel sito web dell’associazione ROARS, https://www.roars.it/online/appello-per-la-scuola-pubblica/ ultima consultazione 27/01/2018

6 La ricerca assume come presupposto preliminare che l’educazione scolastica non sia ipostatizzabile,

ossia non possa essere isolata dall’universo di fattori che la significano. Questa assunzione è debitrice della riflessione di Adorno.

7 Come scrive Franco Cambi, la riflessione sulle pratiche educative è – e deve essere – anche «teoria,

teorizzazione noetica, pura riflessività, che fa – deve fare – epochè rispetto alla pratica, anche se sa che questa la attraversa e la intenziona», Introduzione alla filosofia dell’educazione, Editori Laterza, Bari, 2008, p. 115

8 Questi devono costituire il risultato di discussioni e deliberazioni collettive da parte dei lettori-

interlocutori e non dello studioso, come suggerisce G. M. Bertin, in Nietzsche: l'inattuale, idea pedagogica, Firenze, La nuova Italia, 1977, p. 5

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presente dell’educazione scolastica, aprendo una fenditura in ciò che appare naturale

e inevitabile, con la finalità di ampliare lo spazio del pensiero e dell’immaginazione

pedagogica. Prendendo a prestito la voce di Nietzsche potremmo dire: «io non

prometto né prospetti né nuovi orari per licei e per scuole tecniche *…+; mi contento di

aver scalato – ansimando – una discreta montagna, e di potermi rallegrare per una

vista più aperta: quanto agli amici dei prospetti, in questo libro, non li potrò davvero

accontentare»9. Queste parole si trovano nel volume intitolato Sull’avvenire delle

nostre scuole, in cui Nietzsche intende esaminare «le viscere del [suo] presente»10:

analizzando la forma degli istituti scolastici divenuti “moderni” egli scruta, con

speranza, la possibilità di una rinascita della loro «nobile tendenza costitutiva»11. Qual

è lo spirito che Nietzsche riconosce nelle scuole tedesche di fine Ottocento? In che

modo vede corrotto lo «spirito ideale da cui esse sono sorte»12? Secondo Nietzsche, le

scuole “attuali” sono «istituzioni che si propongono di vincere le necessità della vita»13.

Esse possono dunque promettere di formare impiegati, o commercianti, o ufficiali, o grossisti, o agricoltori, o medici, o tecnici. A tali istituzioni, in ogni caso, si applicano però leggi e criteri diversi da quelli occorrenti per fondare un istituto di cultura: ciò che nel primo caso è permesso, anzi prescritto in modo rigorosissimo, potrebbe nel secondo caso essere un errore delittuoso.14

La scuola “corrente”, denuncia il pensatore tedesco, non è più istituzione della σχολή,

del tempo libero dedicato alle arti e allo studio, ma dell’άσχολία, del tempo saturato

dalla «lotta per l’esistenza»15, rivolto alle attività banausiche, adattative ed utilitarie16.

Lo spirito disinteressato a cui Nietzsche si riferisce è quella che ha ispirato l’antica

paideia greca, l’humanitas latina e rinascimentale, fino alla Bildung tedesca, nutrendo

un pensiero sulla scuola come istituto del tempo libero, asincrono e inattuale: al suo

9 F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, Milano, Adelphi, 1975, p. 9

10 Ivi., p.5

11 Ibid.

12 Ibid.

13 Ivi., pp. 86-87

14 E ancora, «non è affatto una educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e per difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza. Tale indicazione, senza dubbio, ha un’importanza massima e immediata per la maggioranza degli uomini: quanto più difficile è la lotta, tanto più il giovane deve imparare e tanto più deve tendere le proprie forze. Nessuno però deve credere che gli istituti, i quali lo spronano a questa lotta e lo rendono capace di combattere, possano in qualche modo venir considerati seriamente istituti di cultura», Ibid.

15 Ibid.

16 A. Negri, “Scuola e lavoro; cultura e banausia”, in Nietzsche. Storia e cultura, Roma, Armando Editore, 1978, pp. 143-182

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interno vi è uno spazio per l’insegnamento e lo studio, per la trasformazione del sé, in

un rapporto di tensione critica con la cultura e le richieste sociali del proprio tempo17.

A distanza di più di un secolo dalla pubblicazione del testo nietzscheano viene

spontaneo chiedere: che ne è oggi della speranza di rinascita che animava la scrittura

del pensatore tedesco18? Che rapporto intrattiene l’istituzione scolastica del terzo

millennio con l’esperienza culturale e con i bisogni della vita? Quali sono la forma e lo

spirito che caratterizzano gli istituti scolastici contemporanei?

Nel porre queste domande, la ricerca vuole assumere una postura inattuale,

alimentando una riflessione pedagogica coraggiosa, capace di avanzare questioni

avverse alla prassi corrente. Come scrive Giovanni Maria Bertin, la pedagogia non deve

esaurire «il proprio compito nella problematica epistemologica e didattica, rivolta a

scoprire gli strumenti più idonei a realizzare indirizzi già prefissati dalle ideologie e

dalle contro ideologie, oggi concorrenti», bensì «affrontare lo studio di obiettivi

educativi nuovi, anche se inattuali»19. Ancor più, scrive Bertin,

l’idea pedagogica, in quanto tale, dev’essere inattuale: altrimenti non sarebbe idea, ma costume, prassi, ideologia. Inattuale nel senso nietzscheano: nel senso che essa non coincide né deve coincidere (pur non necessariamente rifiutandole o svalutandole) con le tendenze prevalenti nel presente, con le motivazioni e le sollecitazioni che questo fa valere, con i suoi problemi più urgenti e manifesti. In quanto idea, essa dà evidenza, in primo luogo, alle eventuali incongruenze, parzialità, unilateralità di tali tendenze, ed eventualmente ne smonta l’enfasi e ne denuncia la retorica; in secondo luogo fa valere (al loro interno o contro di esse) istanze alternative, misconosciute, conculcate, deformate o mistificate dell’attualità.20

Alla luce di quanto detto finora si può comprendere, almeno parzialmente, il titolo

attributo a questa nostra ricerca: Sul presente delle nostre scuole. Lettura inattuale

delle politiche scolastiche contemporanee. Quali sono le tendenze prevalenti nelle

pratiche pedagogiche dell’istituzione scolastica contemporanea? Quali le motivazioni e

le sollecitazioni che caratterizzano i processi riformistici dell’ultimo ventennio? Per

riconoscerle, per studiarle, è necessario distaccarsene, guardarle da una certa distanza.

In che modo questo si rende possibile? Commentando ulteriormente le parole del

17 Si rimanda a M. Gennari, Storia della Bildung, Brescia, La Scuola, 1995

18 Scrive Nietzsche: «è soltanto nel senso della speranza, che io parlo di un avvenire delle nostre scuole», Sull’avvenire delle nostre scuole, Op. cit., p. 5

19 G. M. Bertin, in Nietzsche: l'inattuale, idea pedagogica,Op. cit., pp. 3-4

20 Ivi., pp. 5-6

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titolo, vogliamo chiarire in modo più preciso l’articolazione dello studio che andiamo a

presentare.

La ricerca intende analizzare le nostre scuole, assumendo questa espressione

secondo una triplice accezione, che suggerisce uno spazio di comunione tra chi scrive e

chi legge: in primo luogo, si concentra sul sistema scolastico del Paese in cui ci

troviamo, evidenziando i caratteri specifici della scuola italiana; in secondo luogo,

vuole mettere a fuoco le peculiarità delle pratiche scolastiche dell’attuale momento

storico, presente comune alle diverse generazioni; infine, rivolge il proprio interesse

alla scuola pubblica, come scuola di tutti e di nessuno, ovvero scuola di ciascuno21. Nel

fare questo, lo studio non vuole risolvere i “problemi della scuola” (ad esempio,

direbbero alcuni, la sua l'incapacità di stare al passo con il mondo), bensì mettere al

centro la “scuola come problema”, ossia la forma scolastica come problema filosofico e

pedagogico permanente all’interno di un contesto socio-politico contingente (cosa fa

dell’istituzione scolastica un’istituzione educativa? Quale deve essere il suo rapporto

con lo spirito del tempo?). L’istituzione scolastica è un dispositivo materiale e

simbolico con effetti di potere sulla formazione dei singoli e della convivenza tra i

viventi (è un apparato antropopoietico22) e, in quanto tale, crediamo debba essere

oggetto di un dibattito costante, a cui contribuire attraverso l’uso pubblico della

ragione23.

La presenza del termine scuole, al plurale, sottolinea la scelta di non ridurre il

campo di indagine ad un ordine o ad un istituto scolastico specifico: pur riconoscendo

il carattere irriducibile di ogni scuola (e la capacità di ciascun insegnante di comporre

21 Guardando alle istituzioni secondo una prospettiva etica, Paul Ricoeur introduce la categoria del ciascuno per pensare l’auspicio alla vita buona all’interno di istituzioni giuste. La categoria del ciascuno vuole distinguersi dall’impersonale “si” heideggeriano, suggerendo una forma di riconoscimento dell’altro, di “reciprocità degli insostituibili”, che si estende al di là del “faccia a faccia”: un’esigenza di eguaglianza che comprende gli altri in quanto “terzi”. Si rimanda a P. Ricoeur, La persona, Brescia, Morcelliana, 1997, pp.39-40.

22 F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell'antropo-poiesi, Roma-Bari, Laterza, 2013. Elaborando le sue tesi Remotti recupera in modo particolare i pensiero di Herder. Secondo Alessandro Mariani, il processo educativo è una pratica-teorica che “progetta ed esegue mutamenti antropologici”: agisce sul soggetto, “trasformandolo alla radice e intervenendo direttamente sulle sue capacità strutturali, psichiche, cognitive, emotive, relazionali, professionali”, A. Mariani, Elementi di filosofia dell’educazione, Carocci, Roma 2011, p. 60

23 «Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne ha, come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito», I. Kant, “Che cos’è l’illuminismo?”, in I. Kant e M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo?, Milano-Udine, Mimesis, 2012, p.12

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uno spazio educativo singolare e irripetibile), non vogliamo rinunciare ad uno sguardo

ampio, che si sollevi dal particolare cercando di cogliere il generale. Quale prospettiva,

dunque, per osservare la dimensione strutturale dell’istituzione scolastica italiana?

Quali materiali utilizzare per analizzare la forma comune alle tante diverse scuole del

Paese? La scuola non è un’istituzione eterna, immodificabile, neutrale, bensì presenta

una forma storica e politica contingente, che è condizionata dal potere della realtà

extra-pedagogica24. Tra gli elementi che maggiormente ne influenzano la cornice e la

materialità troviamo le politiche educative e scolastiche (le policies), le quali regolano il

perimetro e i meccanismi della vita scolastica.

Con l’espressione politiche scolastiche intendiamo comprendere una

molteplicità di documenti (gli atti legislativi, i regolamenti, le circolari ministeriali, le

Linee d’Indirizzo…) e di dispositivi processuali (i sistemi di valutazione, di reclutamento

dei docenti, di finanziamento dei progetti didattici…) capaci governare la struttura e la

direzione del sistema scolastico nazionale. Alle politiche di carattere locale si

affiancano i consigli e le raccomandazioni europee, i metodi di coordinamento e le

strategie comunitarie. A partire dagli anni Novanta, infatti, l’Unione Europea ha

esercitato un’influenza sempre maggiore nell’ambito delle politiche educative degli

Stati membri, sollecitando la riforma continua dei sistemi scolastici nazionali entro il

progetto dell’apprendimento permanente, del Lifelong Learning. Qual è lo spirito - la

razionalità e l’ethos - che anima questa pressione riformistica? Qual è il significato che

le politiche europee (e quelle nazionali che ad esse rimandano) attribuiscono alla

scuola e alla sua qualità educativa? In che modo la strategia europea del Lifelong

Learning sta ridisegnando la forma dell’istituzione scolastica italiana? Quali sono gli

effetti di potere che porta con sé? Nell’offrire una lettura inattuale delle politiche

scolastiche contemporanee, la ricerca intende elaborare una prospettiva critica

sull’esistente, che permetta di cogliere le disarmonie del tempo presente, provando ad

illuminare le fratture che solitamente non risultano visibili.

Per riflettere sulle questioni introdotte, lo studio assume alcune ipotesi di

lavoro, quali presupposti attorno ai quali organizzare il proprio sviluppo. In primis, la

ricerca muove da una comprensione dialettica del rapporto tra pedagogia e politica, un

24 T. W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Il Melangolo, Genova 2010, pp. 7-8. L’opera è datata 1959.

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nesso che Franco Cambi descrive in termini antinomici. Cambi riconosce «l’inquieto

rapporto che deve e non può non collegare politica e pedagogia; queste difatti restano

tra di loro opposte e complementari, così da essere pensate sia insieme sia separate,

secondo la logica, appunto, dell’antinomia»25. Così, interessandosi alle politiche

scolastiche, la ricerca non intende offrire dei “consigli al Principe” ne proporsi come

ancilla administrationis26, ma rivendicare «la propria autonomia, che è di fatto

esercitata dalla critica, dal fare critica»27, alimentando un rapporto «tensionale»28 con

il governo politico dei processi educativi scolastici. Allo stesso modo, la ricerca vuole

riportare l’attenzione pedagogica al carattere antinomico della relazione tra

educazione scolastica e società, relazione che, dopo aver occupato il dibattito italiano

per quasi un secolo, è oggi pressoché rimossa dal discorso pedagogico dominante29. A

decretare la fine dei dibattiti sul rapporto tra scuola e società sono, in modo

particolare, le istituzioni europee e i ministri nazionali, secondo i quali il fine

dell’educazione (e della scuola) è ormai chiaro a tutti: si tratta di acquisire le

competenze chiave per rinnovare il capitale umano in modo permanente, garantendo

una crescita competitiva e inclusiva nella “società della conoscenza”30. La chiusura di

questo dibattito ci sembra, però, particolarmente pericoloso: mancando di riconoscere

la tensione dialettica che dovrebbe sussistere tra l’educazione scolastica e il modello

sociale attuale, il discorso pedagogico rischia di favorire l’accettazione acritica della

riconfigurazione scolastica, cessando di sorvegliare sul rispetto del suo proprium

educativo31. L’esperienza educativa, infatti, si caratterizza per alcune antinomie

costitutive, in assenza delle quali crediamo sia improprio parlare della scuola come

istituzione educativa. Come osserva Cambi, l’antinomia è la figura logica in grado di

descrivere la struttura specifica dell’esperienza pedagogica32, cogliendo la struttura e

25 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 123

26 M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, Torino, Einaudi, 2000, p. 56

27 T. W. Adorno, Teoria della Halbbildung, p. 124

28 Ibid.

29 Il dibattito che ha animato la riflessione pedagogica nel secolo scorso, dichiara Cambi, è oggi «ormai chiuso e archiviato», Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 123

30 A supporto di questa affermazione offriremo in seguito un’ampia documentazione.

31 Si segue su questo J. Masschelein e M. Simons, In defence of the school. A public issue, Leuven, E-ducation, Culture & Society Publishers, 2013

32 «Antinomica è la vita morale, antinomica è anche l’estetica nei suoi processi produttivi *…+ e antinomica è – in modo eminente – la pedagogia»,F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., p.114

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la problematicità costante del fare educazione, specialmente entro il contesto

scolastico: vi sono rapporti antinomici tra educare e istruire e formare; tra autorità e

libertà; tra cultura e professione; tra esperienze di rottura e di continuità. Come si

presentano queste antinomie nelle pratiche scolastiche e nel panorama pedagogico

contemporaneo? Nell’era dell’apprendimento permanente o, in altri termini, del

capitalismo cognitivo che caratterizza il nostro presente, ogni tensione oppositiva -

«trascendentale, inaggirabile e costitutiva»33 - che dovrebbe assicurare l’apertura e il

dinamismo dell’esperienza educativa, sembra indebolita, se non totalmente annullata.

Ad un primo sguardo, infatti, nello scenario pedagogico attuale la logica antinomica

appare superata, risolvendo una polarità nell’altra, senza soluzione di continuità: la

rottura della tradizione è compresa come innovazione più efficiente dello status quo; il

sapere disinteressato è messo a profitto quale competenza professionale

nell’economia della conoscenza; la libertà diviene uno strumento di potere attraverso

cui condurre le condotte dei singoli. Il sospetto è che a prevalere sia una logica sola,

quella dell’utile, che giudica la scuola secondo parametri funzionalistici, riducendo

entro i suoi limiti ogni possibile eccedenza34. Abbandonata una cornice di riferimento

contrassegnata dall’antinomia, la scuola appare oggi riconfigurata entro la logica

dell’uninomia, indebolendo sempre più l’esperienza educativa a cui dovrebbe

assicurare tempo, spazio e cura. Le scuola appare governata da una norma unica, una

norma governamentale, dimenticando il carattere antinomico e paradossale che la

costituisce: che essa offre un servizio alla società quando non serve la società, quando

non è sincronizzata con gli interessi del mondo, ma il suo tempo resta libero.

La ricerca sviluppa le ipotesi delineate attraverso una scrittura saggistica e

sviscera le questioni presentate componendo un’opera in tre movimenti: il primo

movimento è di carattere esplorativo, il secondo assume un andamento ricostruttivo, il

terzo è di tipo analitico. Prima di rivolgere un’attenzione diretta all’oggetto specifico

della ricerca, lo studio vuole allestire una modalità di lettura critica dell’esistente,

attrezzando lo sguardo perché sia in grado «di svincolarsi dal regime di verità del

nostro tempo e vedere quel che normalmente è celato, osservare ciò a cui,

33 Ibid.

34 G. Bataille, Il limite dell’utile, Milano, Adelphi, 2012

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comunemente, non si presta attenzione»35. Così, nella prima sezione, la ricerca esplora

le possibilità della critica nel tempo del nostro presente, convocando la voce di chi, da

prospettive differenti, ha analizzato la condizione del pensiero nell’epoca del

liberalismo avanzato. Cosa significa assumere una postura critica nel XXI secolo, in

un'età che è stata definita post-storica, post-ideologica e post-moderna?

Attraversando il rapporto sul sapere di Lyotard, le analisi dell’universo ad una

dimensione di Marcuse, le meditazioni sulla società industriale avanzata di Adorno e

Horkheimer e la riflessione di Foucault sul tema del potere, la ricerca viene a comporre

una costellazione concettuale imprevista, offrendo degli strumenti per risignificare

l’esercizio della critica nell’ambito pedagogico contemporaneo. Una tradizione di

riferimento è individuata nell’ambito di studi della filosofia dell’educazione, il quale -

più di altri - mantiene un rapporto tensionale nei confronti di ciò che è, dubitando di

quanto si propone come ovvio, naturale e necessario, comprese le pratiche educative

istituzionalizzate36. È all’interno di questa tradizione che la ricerca intende collocarsi,

avvicinando le istituzioni educative attraverso il linguaggio e gli strumenti dell’analisi

filosofica, attingendo alle riflessioni inattuali e diacroniche dei pensatori già convocati.

Il primo movimento si conclude esplorando alcuni punti di convergenza tra la

prospettiva adorniana e quella foucaultiana, specificando la postura critica che la

ricerca intende assumere, i «tre passi di distanza»37 necessari per mettere a fuoco il

proprio oggetto specifico.

Il secondo movimento è dedicato alla presentazione di una prospettiva che

Foucault sviluppa a partire dalla metà degli anni Settanta, riformulando la propria

concezione del potere attraverso i concetti di condotta e di governo. All’interno di

questo contesto, in modo particolare durante i corsi tenuti al Collège de France negli

anni 1978 e 1979, Foucault recupera un termine di matrice barthesiana, impiegando il

quale elabora un’ipotesi di lavoro originale sui meccanismi di potere nello Stato

moderno, liberale e neoliberale. Il neologismo a cui ci riferiamo è il termine

35 M. Conte, La forma impossibile. Introduzione alla filosofia dell’educazione, Padova, Libreria Universitaria, 2016

36 Come osserva Mariani, la filosofia dell’educazione opera una operazione di defamiliarizzazione, facendo «intervenire una sorta di principio del sospetto in ambito delle procedure, delle strategie e delle dottrine educative considerate normali», A. Mariani, Elementi, op. cit. p. 81,

37 T.W. Adorno, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1954, p. 146. Questo il titolo dell’aforisma 82, in cui leggiamo «è solo nella distanza dalla vita che si svolge la vita del pensiero di cui si può dire che irrompa veramente in quella empirica», p. 147

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governamentalità, un’espressione che rimanda semanticamente al legame tra il

governare (gouverner) e il modo di pensare (mentalité), tra i meccanismi di governo e

la razionalità che li organizza. Attraversando le lezioni, le conferenze, le interviste e le

pubblicazioni di quegli anni, lo studio mira ad evidenziare i passaggi più significativi

della ricerca foucaultiana, illuminando i presupposti teorico-concettuali dell’approccio

governamentale. Una volta ricostruite le tappe fondamentali della riflessione

foucaultiana, la sezione prosegue illustrando le linee di diffusione dell’ipotesi

governamentale, indicandone specificità storiche e sviluppi teoretici. Dopo la morte di

Foucault, avvenuta prematuramente nel 1984, numerosi studiosi hanno assunto la

prospettiva governamentale come oggetto o come approccio di studio, utilizzando il

concetto in vari modi e perseguendo interessi disciplinari divergenti. Queste indagini

hanno contribuito a generare un’area di ricerca che, sorta in modo spontaneo e senza

rigidità di scuola, è oggi sedimentata nelle pratiche e negli indirizzi, trovando

riconoscimento livello internazionale nei Governamentality Studies. Al suo interno

trovano posto indagini di orientamento molto differente, ma accomunate da una

prospettiva analitica comune, che mira ad evidenziare il rapporto che sussiste tra le

forme del sapere e i meccanismi di potere, enfatizzando il modo in cui le pratiche di

governo e il nostro modo di pensare si definiscano a vicenda. Avvalendosi del

contributo dei maggiori studiosi del settore, la ricerca intende presentare i presupposti

teoretico-metodologici che caratterizzano questo stile di indagine, per poi illustrare le

linee di ricerca di quanti, assumendo un approccio governamentale, hanno diretto il

proprio sguardo alle pratiche e alle politiche educative del nostro tempo. L’attenzione

alla prospettiva governamentale è, infatti, motivata dalla sua capacità di innestarsi e

contribuire con valore alla discussione pedagogica, offrendo una prospettiva teorica

utile alla decifrazione critica delle pratiche scolastiche nell’età neoliberale,

riconoscendo la dimensione politica dell’educazione e gli effetti del dispositivo

scolastico sulla formazione delle soggettività. Il carattere ricostruttivo - e a tratti

didattico – di questa sezione è da comprendersi come tentativo, seppur modesto, di

introdurre questo campo di studi nel contesto nazionale, affinché possa essere

conosciuto e apprezzato anche dal mondo pedagogico italiano. In modo particolare, la

ricerca suggerisce la possibilità di utilizzare la prospettiva analitica governamentale per

alimentare un campo di studi critici – e non puramente illustrativi o applicativi – delle

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politiche educative, offrendo nuovi strumenti con cui alimentare la tensione tra

pedagogia e politica, tornando ad interrogando la struttura e il senso delle istituzioni

scolastiche, in relazione ai regimi governamentali contemporanei.

Nel terzo movimento, lo studio avanza con stile analitico, proponendo una

lettura ravvicinata delle politiche che più hanno contribuito a ridisegnare la forma

scolastica del nostro presente. Al fine di comprendere la Buona Scuola entro il più

ampio orizzonte di fattori che la significano, la ricerca assume una prospettiva

diacronica, osservando le trasformazioni che hanno coinvolto la scuola a partire dai

primi anni Novanta, avviando un processo di riforma promosso dalle istituzioni

internazionali (tra cui spicca l’Unione Europea) e messo in opera dai diversi ministri

nazionali (da Berlinguer a Giannini). Assumendo la prospettiva analitica

governamentale, la lettura si concentra sulla razionalità che sorregge il discorso

politico e sulle tecnologie che la implementano: esamina i regimi di verità nei loro

effetti di potere, anche retorici, e i meccanismi di potere nei loro effetti di verità. Dopo

aver evidenziato l’ordine del discorso che accomuna le politiche nazionali ed europee,

la ricerca analizza alcuni dei suoi nodi costitutivi: la volontà di qualità, l’invito a

cooperare, il desiderio di apprendere per tutta la vita. Di questi elementi, che sempre

più abitano il nostro pensiero e il nostro linguaggio sulla scuola, si proporrà una

comprensione critica, avanzando alcuni dubbi nei confronti della loro necessità ed

intrinseca bontà. Infine, assumendo una prospettiva sincronica, la ricerca guarda alla

legge 107/2015 e alla produzione documentale ad essa relativa, mettendo in luce i

meccanismi di potere e le incongruenze latenti. Quali soggettività e quali relazioni sono

favorite dalla cosiddetta Buona Scuola? In che misura preserva la natura antinomica

dell'esperienza educativa? A chiusura del terzo movimento, la ricerca presenta alcune

brevi considerazioni conclusive, indicando nuove prospettive di indagine e suggerendo

ulteriori temi di studio.

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MOVIMENTO I UNA TRADIZIONE DI RIFERIMENTO

1. Una postura critica

Lo scenario che andiamo a tratteggiare è il luogo nel quale ci sentiamo inclusi38.

All’interno di questo contesto, il nostro pensiero cerca una via, un sentiero da

percorrere e da segnare. La volontà che ci guida è quella di trovare una postura,

un’attitudine, che ci consenta di sospettare, di mettere in discussione ciò che di una

certa realtà diamo per assunto, il modo in cui comunemente la pensiamo, il linguaggio

con cui ne parliamo. Nel nostro caso, la realtà che intendiamo assumere quale oggetto

di studio è la scuola. Prima di addentrarci nella ricerca che qui intendiamo presentare,

sentiamo quindi necessaria una ricognizione preliminare: qual è lo spazio entro cui la

nostra riflessione andrà a compiersi? Quali sono, al suo interno, le condizioni di

possibilità di un esercizio critico? Domande che qui andiamo ad esplorare solo

parzialmente, nella forma che questo lavoro consente, senza la possibilità di esaurirne

la forza interrogativa.

Dello scenario indagato offriremo una rappresentazione che potrà dirsi

«esagerante», attribuendo a questo termine il significato metodico suggerito da

Günther Anders. Riflettendo sulle «metamorfosi dell’anima nell’epoca della seconda

rivoluzione industriale»39, Anders osserva che alcuni fenomeni

non si possono trattare senza accentuarli o ingrandirli; e ciò perché senza tale deformazione non si potrebbero identificare né scorgere e, dato che si sottraggono all’osservazione a occhio nudo, essi ci pongono davanti all’alternativa: “esagerarli o rinunciare a conoscerli”40.

La necessità dell’esagerazione deriva dalla realtà stessa che si intende descrivere: è il

contesto di cui noi stessi partecipiamo, l’orizzonte dei nostri a-priori storici, uno

scenario che come tale ci appare familiare, fors’anche naturale. La difficoltà di rendere

38 «Il luogo in cui vogliamo collocarci non è quello che si consiera comunemente «un punto di osservazione», cioè uno spazio d’attività dal quale noi ci escludiamo in quanto indagatori, per esempio, bensì quello nel quale ci sentiamo inclusi», M. Foucault, “Medicina e lotta di classe”, in S. Vaccaro (a cura di), La società disciplinare, Milano – Udine: Mimesis, 2010, p. 45

39 G. Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Torino: Bollati Boringhieri, 2003, p.23

40 Ibid.

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visibile la razionalità del proprio presente, difficoltà comune ad ogni epoca storica, è

accentuata da una tendenza specifica della società del nostro tempo, mostrata nei suoi

albori dalle indagini della Scuola di Francoforte: la tendenza a ridurre lo spazio e il

tempo per pensare il sistema sociale, non nelle sue disfunzioni, ma nelle categorie,

nelle norme e nei meccanicismi che lo definiscono41. Nello sforzo di mostrare questa

tendenza si è inteso prolungarne la direttrice di marcia, rievocando le parole di chi ha

saputo mostrarne la traiettoria: da Fukuyama e Foucault, passando per Lyotard e i

Francofortesi42, ripercorrendo alcuni dei luoghi in cui il pensiero si è confrontato con la

questione dell’ideologia e della critica nella società tardo-liberale. Attraverso un

percorso inedito, che coordina ricerche di pensatori spesso contrapposti, si sviluppa il

tentativo di amplificare i caratteri meno visibili della nostra contemporaneità, con la

speranza di provocare un’interrogazione più ampia, su ciò che siamo e su ciò che -

senza troppa consapevolezza - stiamo diventando.

1.1 Quale pensiero alla fine della storia?

Nell’estate del 1989, la rivista americana The National Interest pubblica un saggio dal

titolo “The end of History?”, scritto dal politologo statunitense Francis Fukuyama.

L’articolo sarà nucleo originario di un volume più ampio, The end of history and the

last man, che Fukuyama darà alle stampe nel 199243, trasformando l’interrogazione

iniziale in piena affermazione. Nel testo dell’89 Fukuyama rielabora le riflessioni

presentate all’Università di Chicago, invitato da Allan Bloom – allievo di Leo Strauss e

suo professore alla Cornell University - a tenere una lezione presso il “John M. Olin

Center for Inquiry Into the Theory and Practice of Democracy”. Ricercatore presso la

RAND Corporation e vice-direttore del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato

durante la presidenza Reagan, Fukuyama osserva il flusso degli eventi che accompagna

41 T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966

42 Lo stesso Adorno, sottolinea come, per esercitare la capacità del pensiero sia «essenziale *…+ un momento di esagerazione, un trapassare oltre le cose, un liberarsi dalla gravità del puro fatto», T. W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino, 1994, p. 147

43 F. Fukuyama, “The end of History?”, The National Interest, Summer 1989. L’articolo è poi raccolto e ripubblicato all’interno del volume F. Fukuyama, The end of history and the last man, 1992. Il testo che qui citiamo (e la numerazione delle pagine a cui si fa riferimento) è consultabile sul sito: https://www.embl.de/aboutus/science_society/discussion/discussion_2006/ref1-22june06.pdf, ultima consultazione 26/01/2015

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la fine del secolo breve: al centro della sua attenzione è il declino dell’universalismo

sovietico e il diffondersi del liberalismo politico ed economico.

Scostandosi dalle analisi di Daniel Bell44 e di Jean-Francois Lyotard45, Fukuyama

indica - con altrettanta carica profetica - quella che considera la cifra del suo tempo: a

caratterizzare il presente non è la fine dell’ideologia, né il declino delle grandi

narrazioni, bensì la conclusione della battaglia tra ideologie differenti. Nella società

industriale avanzata, ad affermarsi è una sola «large unifying world view»46: la liberal-

democrazia. Agli occhi di Fukuyama, il trionfo dell’“Occidente” appare con evidenza:

«the triumph of the West, of the Western idea, is evident first of all in the total

exhaustion of viable systematic alternatives to Western liberalism»47. Fukuyama

preannuncia così le sorti del mondo che, dopo il crollo del muro di Berlino e il

disfacimento dell’URSS, si rendono manifeste: ad imporsi è l’American way of life, «the

consumerist Western culture», capace di conquistare le idee e i mercati di tutto il

mondo, dall’Europa alla Cina, da Mosca al Giappone, passando per Praga, Randoon e

Teheran.

Attraversando la filosofia di Hegel via Alexandre Kojève48, Fukuyama radica la

propria analisi nello storicismo idealista, prendendo le distanze dall’interpretazione

hegeliana di Marx e del materialismo. All’interno di questa tradizione, Fukuyama

riafferma il compimento della storia universale e l’inizio di un’era post-storica:

what we may be witnessing is not just the end of the Cold War, or the passing of a particular period of post-war history, but the end of history as such; that is, the end point of mankind’s ideological evolution and the universalization of Western

liberal democracy as the final form of human government. 49

Contrassegno di questa nuova epoca è il consenso globale attorno a quella che si

presenta come la forma più alta e compiuta di organizzazione del governo degli

uomini:

44 D. Bell, The end of ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, New York, Free Press 1960

45 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano: Feltrinelli, 1985

46 F. Fukuyama, “The end of History?”, Op. cit., p.3

47 Ivi., p.1

48 La ricezione del pensiero hegeliano ad opera di Fukuyama si pone in netta opposizione a quella marxiana e marxista, indicando come cattiva interpretazione quella proposta del materialismo storico. Fu Allan Bloom il primo a tradurre Kojéve in inglese.

49 Ivi., p.1

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[A]t the end of history it is not necessary that all societies become successful liberal societies, merely that they end their ideological pretensions of

representing different and higher forms of human society. 50

Seguendo la lettura kojèviana della Fenomenologia dello spirito di Hegel, Fukuyama

riconosce nei principi della Rivoluzione Francese e nello sviluppo delle democrazie

occidentali il compimento della lotta per il riconoscimento e così dell’evoluzione

storica51. L’accoglienza degli ideali liberali, suggerisce Fukuyama, conduce alla

creazione di un «universal homogenous state», fondato sul consenso dei governati, il

riconoscimento dei diritti universali dell’uomo e un’economia dei consumi fondata sul

libero mercato: «we might summarize the content of the universal homogenous state

as liberal democracy in the political sphere combined with easy access to VCRs and

stereos in the economic». Secondo Kojève, ad incarnare questo modello sono gli stati

europei del secondo dopoguerra, «whose grandest project was nothing more heroic

than the creation of the Common Market»52. Come ricorda Fukuyama, nella

convinzione che la storia e l’evoluzione del pensiero umano avessero raggiunto il

proprio capolinea, Kojéve abbandonò il lavoro filosofico per impegnarsi

nell’amministrazione francese e nella Comunità Economica Europea, posizione che

mantenne fino alla sua morte nel 1968.

L’analisi di Fukuyama darà vita ad un acceso dibattito, che siamo lontani dal

voler qui ricostruire nelle sue - seppur interessanti - forme accademiche53: in questo

contesto, il riferimento all’articolo dello studioso nippo-americano è funzionale ad

aprire una riflessione altra da quella della filosofia della storia o della teoria politica. La

sua voce è qui convocata a testimonianza di un ordine del discorso che affonda le

50 Ivi., p.12

51 La liberal-democrazia è per Fukuyama una forma di governo priva di contraddizioni formali, arrivando ad equiparare l’egualitarismo americano alla società senza classi. «But surely, the class issue has actually been successfully resolved in the West. As Kojève (among others) noted, the egalitarianism of modern America represents the essential achievement of the classless society envisioned by Marx. *…+ Thus black poverty in the United States is not the inherent product of liberalism, but is rather the “legacy of slavery and racism” which persisted long after the formal abolition of slavery», Ivi., p.8

52 Ivi., p.3

53 La tesi di Fukuyama è stata discussa in modo estensivo in ambito filosofico e politico. Per una ricostruzione del primo dibattito segnaliamo T. Burns, After History? Francis Fukuyama and His Critics, Lanham, Md., Littlefield Adams, 1994. Più recentemente, altri autori hanno ripreso in senso critico la sua affermazione, tra questi segnaliamo A. Badiou, ll risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Firenze, Ponte alle Grazie, 2012; Seumas Milne, The Revenge of History: Crisis, War and Revolution in the Twenty First Century,New York, Verso Book, 2012

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proprie radici in epoche precedenti, ma a partire dalla fine degli anni ’80 trova nuova

linfa e diffusione, venendo ad assumere un ruolo costitutivo nella razionalità politica

che ancor oggi sembra dominare il contesto globale ed europeo, quella del liberalismo

avanzato54. Questo discorso, che è al tempo stesso una descrizione e una prescrizione,

indica alcuni tratti significativi dell’epoca del nostro presente: la chiusura del dibattito

politico-filosofico, la naturalizzazione del capitalismo e la diffusione di una razionalità

tecnica. È sul rapporto tra questi aspetti e l’esercizio della critica che andremo ora a

concentrarci, introducendo, accanto a quella di Fukuyama, la riflessione di chi, più di

altri, ha dedicato le proprie ricerche alle condizioni del pensiero nella società

industriale avanzata.

Quel pensiero alla fine delle storia? Seguendo l’analisi di Fukuyama, nel mondo

post-storico non troverà posto né l’arte né la filosofia:

the worldwide ideological struggle that called forth daring, courage, imagination, and idealism, will be replaced by economic calculation, the endless solving of technical problems, environmental concerns, and the satisfaction of sophisticated

consumer demands. 55

Le energie un tempo dedicate alla critica politica e sociale sono ora assorbite da

questioni di ordine tecno-scientifico ed economico: l’audacia, il coraggio,

l’immaginazione sono impiegate nell’innovazione dei processi produttivi, assorbite dal

settore della tecnologia, della pubblicità o della finanza. La creatività trova i suoi ambiti

di esercizio nell’industria culturale56, nella green economy e nella creazione di sempre

nuove app e start-up.

Dieci anni prima, analizzando la condizione del sapere nella società tardo-

liberale, Lyotard annota osservazioni molto simili: al declino delle grandi narrazioni

corrisponde lo slancio della ragione tecnologica, lo spostamento dell’attenzione dai fini

dell’agire umano (un’attenzione che potremmo definire etica o filosofica) ai soli suoi

mezzi. Nel testo La condizione postmoderna, Lyotard scrive:

[q]uesto declino del narrativo può essere interpretato come un effetto del decollo delle tecniche e delle tecnologie a partire dalla seconda guerra mondiale, che ha posto l’accento sui mezzi piuttosto che sui fini dell’azione; oppure al rinnovato sviluppo del capitalismo liberale avanzato dopo la sua ritirata protetta dal

54 N. Rose, “Governing ‘advanced’ liberal democracies”, in Barry, A., Osborne, T., e Rose, N. (eds.) Foucault and Political Reason, London, University College London Press, 1996, pp. 37-64

55 Ivi., p.17

56 Si veda in particolare, T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Op. cit.

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keynesismo fra gli anni 1930-1960, rinnovamento che ha liquidato l’alternativa comunista e valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi57.

Il legame tra capitalismo liberale avanzato e razionalità tecnica, a cui Fukuyama

accenna nell’articolo dell’89, diventa oggetto di accurata indagine da parte di Lyotard:

una delle tesi costitutive del suo rapporto è la diffusione dell’imperativo

dell’«ottimizzazione delle prestazioni»58. Nella performatività – il cui criterio è

efficiente/inefficiente – Lyotard individua il nuovo principio di legittimazione

universale, un principio capace di risignificare i saperi e le istituzioni, comprese quelle

educative. In questa prospettiva, la ricerca accademica è esaltata come forza tecnica e

produttiva, valorizzata per la previsione e l’utilizzabilità dei risultati59. La qualità delle

istituzioni educative, invece, è identificata con la capacità di migliorare la

performatività del sistema sociale, formando «le competenze di cui quest’ultimo non

può fare a meno»60. Secondo l’ipotesi di Lyotard, queste competenze rientrano in due

ambiti specifici: sono destinate ad affrontare la competizione mondiale (in modo

particolare la formazione “telematica”) e a conservare la coesione sociale interna61.

Quello che Lyotard attesta è la comparsa di uno «spirito di performatività

generalizzata»62, che risignifica in senso baconiano il noto motto marxiano: «i filosofi si

sono limitati ad interpretare il mondo, mentre adesso è ora di cambiarlo»63. Quale

direzione di cambiamento viene promossa? Nello stato omogeneo universale, la

trasformazione «è controllata o in ogni caso utilizzata dal sistema per migliorare la

propria efficienza»64. Da qui l’abbandono del pensiero teorico, capace di trascendere

l’orizzonte in cui ci troviamo immersi, e il sostegno ad un impegno amministrativo à la

Kojève/Fukuyama: largo ai Think Tank, alla stesura di politiche pubbliche,

57 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Op. cit., p. 69

58 Ivi., p. 81

59 Ivi., pp. 81-82

60 Ivi., p. 88

61 Ibid.

62 Ivi., p. 82

63 Scrive Adorno, «Dacchè è stata liquidata l’utopia ed è stata posta l’esigenza dell’unità di teoria e prassi, si è diventati troppo pratici. Il senso angoscioso dell’impotenza della teoria diventa un pretesto per consegnarsi all’onnipotente processo di produzione, e riconoscere così definitivamente l’impotenza della teoria. Tratti di malignità non sono già estranei all’autentico linguaggio marxiano, ed oggi è in corso un processo di assimilazione di spirito affaristico e sobrio giudizio critico, di materialismo volgare e non volgare, in cui è spesso difficile tener distinti il soggetto e l’oggetto», T. W. Adorno, Minima Moralia, Op. cit., p.41

64 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Op. cit., p. 11

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all’imperativo dell’efficienza, al vangelo del problem-solving. «Il criterio di

performatività viene esplicitamente invocato dalle amministrazioni per giustificare il

rifiuto di abilitare determinati centri di ricerca»65, mentre all’interno di quelli

d’eccellenza, giovani studiosi sono chiamati ad essere produttivi e innovativi, a rendere

più funzionale la società in cui vivono, trovando soluzioni ai problemi che ne riducono

stabilità e competitività.

Quale spazio è riservato al pensiero critico all’interno di questo scenario? Quali

sono le forme che l’esercizio della critica sembra assumere nella società post-

industriale? Come osservano Lyotard e Fukuyama, dopo il crollo del muro di Berlino lo

statuto della critica sembra essere mutato. Il pensiero critico è esaltato nei principi

della democrazia liberale, coltivato nella forma del critical thinking, come competenza

utile alla gestione della vita comune, all’amministrazione del sistema sociale. Ciò che

scompare dall’orizzonte del pensiero è una critica dell’ideologia, analisi dismessa

perché “tutto sommato” inutile: l’ideologia sembra oscillare tra uno stato di

affermazione assoluta, apparentemente priva di contraddizioni (secondo l’analisi di

Fukuyama), e uno stato di obsolescenza, nell’incapacità di offrire senso e direzione alle

azioni umane (seguendo l’interpretazione di Lyotard) 66. Qual è, in questo contesto, lo

spazio di azione degli intellettuali? Nella raccolta Moralités Postmoderne del 1993, nel

saggio intitolato “Mur, golfe, système”67, Lyotard attesta la presenza di un cambio di

direzione: la critica, tradizionalmente attività di lotta e pratica offensiva (tesa ad

indicare nell’utopia una via di emancipazione), assume oggi i tratti di una strategia

difensiva, impegnata nella difesa dei diritti delle minoranze e dei gruppi discriminati. La

figura dell’intellettuale parresiastes68, impegnato nella critica del potere a rischio della

propria vita, si dissolve, nel momento in cui è il potere stesso a richiedere il suo

esercizio: «la société nous permet, nous requiert d’agir ainsi: c’est qu’elle a besoin que

nous contribuions, dans l’ordre qui est la nôtre au développement du sysème

65 Ivi., pp. 86-87

66 La fine-delle-ideologie è indicata da alcuni interpreti del tempo presente come ideologia in senso marxiano, quale narrazione capace di sostenere il neoliberalismo e renderlo immune alle critiche più sostanziali. Lo stesso si è detto del postmodernismo. Su questo si rimanda a F. James, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi Editore, 2007.

67 J.F. Lyotard, Moralités postmoderne, Paris, Éditions Galilée, 1993, pp. 65-77

68 Su questo tema si rimanda a M. Foucault, Il coraggio della verità, Milano, Feltrinelli, 2009

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global»69. Nella trasformazione del suo rapporto con il potere, a cambiare è la natura

stessa della critica:

Le résultat n’est pas identique. L’émancipation n’est plus située en alternative à la réalité, comme un idéal à conquérir contre elle et à lui imposer du dehors. Elle est plutôt l’un des objectifs que le système cherche à atteindre dans l’un ou l’autre des secteurs dont il est fait, travail, impôt, marché, famille, sexe, ‘race’, école, culture, communication70.

L’emancipazione si spoglia del suo carattere trascendente divenendo tangibile,

misurabile: se ancora non è raggiunta in ogni settore della società, ciò non dipende da

una contraddizione intrinseca al modello sociale, ma da un ostacolo materiale, che -

come indica Fukuyama - il sistema stesso si incarica di rimuovere. La democrazia

liberale coinvolge in questo compito il mondo accademico, per ottimizzare o innovare

l’esistente, rendendone più flessibili le sue istituzioni. Attraverso progetti di

riqualificazione o futuristici «venture programe»71, la critica diviene una funzione

stessa del sistema sociale:

La critique a précisément pour tâche de repérer et de dénoncer toute défaillance du système en matière d’émancipation. Mais il est remarquable que cette tâche a pour présupposé que l’émancipation est désormais à la charge du système lui-même, et que les critiques, de quelque nature qu’elles soient, sont demandées par lui en vue de rempli cette charge plus efficacement72.

Nell’interpretare questa trasformazione, Lyotard sembra ammettere la sopravvivenza

di una grande narrazione. Offrendo una concessione alla tesi di Fukuyama, Lyotard

riconosce il potere di legittimazione dell’ideologia liberista che, ereditando la

narrazione illuminista, fonde «le discours ‘bourgeois’ de l’émancipation e le type

d’organization de la communauté qui lui est lié à l’époque du ‘capitalisme tardif’»73. Il

potere di legittimazione del liberalismo deriva dalla sua capacità di presentarsi come

unico difensore dei diritti e delle libertà, «y compris ceux de la critique»74. Le

conseguenze sullo statuto della critica sono significative:

69 J.F. Lyotard, Moralités postmoderne, Op. cit., pp. 66-67

70 Ivi., p. 67

71 Ibid.

72 Ivi., pp. 67-68

73 Ivi., p. 70

74 Ibid

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Comment satisfaire la requête d’une critique radicale *…+ s’ils vrai que la critique, le questionnement et l’imagination exigent un espace social et mental ouverte *…+ et que seul le système garantit cette ouverture, parce qu’il en a besoin?75

L’interrogazione di Lyotard sulla critica rimane aperta e travalica in altri saggi della

stessa raccolta. Nel testo “Intime est le terreur”76, Lyotard analizza alcune regole di

quello che, utilizzando la nota espressione di Wittgenstein, definisce il “gioco” del

capitalismo imperialista liberale. Tra la sue regole troviamo la seguente: la società

liberale garantisce sicurezza e sviluppo attraverso la competizione, nel fare ciò

favorisce l’emergere di disparità e divergenze, ma a partire da un consenso iniziale.

Il suscite les disparités, il sollicite les divergences, le multiculturalisme lui convient, mais sous la condition d’un accord sur les règles du désaccord. Ce qui s’appelle consensus. La costitution intrinsèque su système n’est pas sujette à bouleversement radical, seulement à revision77.

All’interno di questa cornice regolativa la società deve essere lasciata aperta, i soggetti

devono essere liberi: libertà, mobilità e flessibilità devono essere garantite, così che la

società cresca in competizione, innovazione ed efficienza. Il sistema può e deve

incoraggiare la ricerca di novità: «essa può apportare al sistema quel supplemento di

performatività che esso non si stanca di ricercare e di consumare»78. Il “progresso”,

oggi presentato nelle forme dell’innovazione, corrisponde all’invenzione di una nuova

mossa, ma si realizza sempre all’interno del quadro delle regole stabilite, tenendosi

lontano dall’invenzione di nuove regole e quindi da un mutamento del gioco79. La

parola libera, parola critica, è incoraggiata, incentivata, richiesta, fintantoché non è

parola contraria alla razionalità del gioco: il pensiero critico è invitato a concentrarsi sui

problemi del sistema, tralasciando di problematizzare il sistema stesso. L’attività degli

intellettuali perde così ogni slancio teorico, riducendosi ad esercizio burocratico, a

funzione amministrativa. Nella produzione di politiche pubbliche, i loro pensieri sono

ridotti a «stratégies gestionnaires»80, finalizzate ad integrare ciò che diverge entro le

maglie del sistema sociale. In questo carattere totale - di inclusione/esclusione -

Lyotard intravede i tratti terroristici del principio di performatività:

75 Ivi., pp. 70-71

76 Ivi., pp. 171-184

77 Ivi., p. 171

78 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Op. cit., p. 33

79 Ivi., p. 79

80 J.F. Lyotard, Moralités postmoderne, Op. cit., p. 172

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l’efficacia della forza si fonda esclusivamente sulla minaccia di eliminare l’interlocutore, e non sulla possibilità di giocare una “mossa” migliore della sua. Ogniqualvolta l’efficienza si fonda sull’ingiunzione “Di’ o fai questo, altrimenti non parlerai più”, siamo di fronte al Terrore81.

Rifacendosi ad uno studio di Niklas Luhmann82, Lyotard indica nella «sostituzione della

normatività delle leggi con la performatività delle procedure» il meccanismo attraverso

cui opera il terrore, generando quella che definisce una «legittimazione di fatto»83, una

«legittimazione attraverso la potenza»84.

È vero che la performatività, aumentando la capacità di amministrazione della prova, aumenta anche la capacità di aver ragione: il criterio tecnico introdotto massicciamente nel sapere scientifico non resta senza influenze sul criterio di verità. Altrettanto dicasi del rapporto tra giustizia e performatività: le probabilità che un ordine sia considerato giusto aumenteranno con quelle che esso ha di essere attuato, e queste ultime con la performatività che lo prescrive85.

La legittimazione attraverso le procedure è una sorta di autolegittimazione, come

quella di un sistema regolato sull’ ottimizzazione delle proprie prestazioni86: è vero,

buono, giusto perché funziona, perché segue una procedura prefissata,

indipendentemente dal senso della procedura.

Nel descrivere questa trasformazione, Lyotard si sofferma brevemente su un aspetto

centrale dell’argomentazione di Luhmann: il sistema non può funzionare senza

suscitare l’adattamento delle aspirazioni individuali ai suoi propri fini, «le procedure

amministrative faranno volere agli individui ciò che il sistema necessita per essere

performativo»87. In questo contesto, la libertà del singolo diventa mezzo del suo stesso

controllo. Un’articolazione di questa ipotesi, rappresentata con abilità narrativa nella

finzione distopica di Orwell88, si può ritrovare negli studi di altri pensatori dell’epoca,

tra i quali Lyotard indica L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse. L’esplicito

81 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Op. cit., p. 85. Su questo ritorna a pagina 116: «Intendiamo per terrore l’efficienza ottenuta attraverso l’eliminazione o la minaccia di eliminazione di un interlocutore dal gioco linguistico in cui si era impegnati con lui. Egli tacerà o darà il suo assenso non perché è stato confutato, ma perché minacciato di esclusione al gioco (esistono diversi tipi di esclusione)».

82 N. Luhmann, Legitimation durch Verfahren, Luchterhand, Neuwied, 1969

83 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Op. cit, p. 85

84 Ivi., p. 86

85 Ivi., p.85

86 Ivi., p. 86

87 Ivi., p. 113

88 «A noi non basta l’obbedienza negativa, né la più abbietta delle sottomissioni. Allorché tu ti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà», in G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1980, p. 283

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riferimento agli studi del pensatore tedesco ci invita ad addentrarci nella tradizione del

pensiero francofortese, nell’ipotesi che la diagnosi della società industriale avanzata

compiuta da pensatori quali Marcuse, Adorno e Horkheimer possa offrirsi a

complemento dell’analisi di Lyotard, favorendo la ricostruzione dello scenario in cui

siamo immersi89. Al tempo stesso, una rapida incursione nei testi più significativi degli

autori citati consentirà di richiamare più ampiamente la tradizione di pensiero a cui

intendiamo ispirarci, riesaminando le condizioni di possibilità di una ricerca critica, che

come tale sia capace di mettere in discussione le forme di razionalità che dominano il

presente.

1.2 La critica nella società capitalistica avanzata

Il saggio intitolato L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale

avanzata è pubblicato da Marcuse nel 1964, pochi anni prima della morte di Kojève.

Ad accomunare i due filosofi è il riferimento a Hegel, a renderli antagonisti è la

tradizione di riferimento: se Kojève e Fukuyama sviluppano il pensiero hegeliano in

chiave idealista, Marcuse e i francofortesi ne ereditano la lettura marxiana,

procedendo in direzione materialista90. Nutriti da interpretazioni differenti, le due

scuole di pensiero illuminano aspetti sociali simili, sviluppando giudizi di valore

radicalmente opposti: Fukuyama esalta il pensiero unico della liberal-democrazia

occidentale quale compimento della storia universale, Marcuse ne attribuisce un

carattere regressivo. Celebre è l’incipit del testo marcusiano: «una confortevole,

levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata,

segno di progresso tecnico»91. Parole a cui affiancare quelle che Marcuse riserva allo

89 È Lyotard stesso, confrontandosi col pensiero di Habermas sulla natura del postmodernismo, a collocare il proprio pensiero nel solco di una tradizione che il filosofo francese vede iniziare con Wittgenstein e Adorno, un esercizio che riesamina severamente le categorie dell’Illuminismo e l’idea di un fine unitario della storia e del soggetto: «That severe reexamination which postmodernity imposes on the thought of the Enlightenment, on the idea of a unitary end of history and of a subject. It is this critique which not only Wittgenstein and Adorno have initiated, but also a few other thinkers (French or other) who do not have the honor to be read by Professor Habermas - which at least saves them from getting a poor grade for their neoconservatism», J.F. Lyotard, “Answering the Question: What is Postmodernism?”, appendice pubblicata nella versione inglese del testo The Postmodern Condition: A Report on Knowledge, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1984, pp. 71-82

90 In “The end of History?”, Fukuyama scrive: «Kojève stands in sharp contrast to contemporary German interpreters of Hegel like Hebert Marcuse who, being more sympathetic to Marx, regarded Hegel ultimately as an historically bound and incomplete philosopher», Op. cit., p. 2

91 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, 1967, Einaudi, Torino, p. 15

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stato della critica, che nella società industriale avanzata appare in una condizione di

preoccupante paralisi.

La libertà di pensiero, di parola e di coscienza erano idee essenzialmente critiche *…+. Una volta istituzionalizzati, questi diritti e queste libertà condivisero il fato della società di cui erano divenuti parte integrante. *...+ L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare il bisogno degli individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo92.

In una società capace di offrire un livello di vita via via più agiato, il non conformarsi,

osserva Marcuse, appare socialmente inutile o pericoloso93, segno di nevrosi e di

impotenza94. La società industriale avanzata produce non solo adattamento, ma

mimesi: «un’identificazione immediata dell’individuo con la sua società e, tramite

questa, con la società come un tutto»95. Come Lyotard, anche Marcuse riconosce alla

società industriale contemporanea un carattere totalitario, capace di

precludere l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di

“poteri controbilanciantisi”96.

Agli occhi di Marcuse, la società post-industriale è una società dalle contraddizioni

falsamente pacificate, incapace di ospitare un pensiero critico trascendente: a

prevalere è «l’identificazione immediata della ragione con il fatto, della verità con la

verità stabilita, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la funzione»97. In questo

contesto, il pensiero critico perde la propria radicalità e sopravvive nella sua forma

trivializzata:

[il pensiero] esprime forme di protesta e di trascendenza che non contraddicono più lo status quo e non hanno più carattere negativo. Esse *…+ sono prontamente assimilate dallo status quo come parte della sua dieta igienica98.

92 Ivi., p. 16

93 Ibid.

94 Ivi., p. 25

95 Ivi., p. 24

96 Ibid.

97 Ivi., p. 97

98 Ivi., p. 28

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Le considerazioni fin qui presentate sono debitrici degli studi di Adorno e

Horkheimer e del lavoro seminale condotto in Dialettica dell’illuminismo. Offrendo un

contributo per la comprensione teoretica dell’oggi, i due autori analizzano gli effetti di

potere della ragione strumentale, denunciando la naturalizzazione del dato sociale e la

metamorfosi della critica in affermazione. Nel fare ciò gettano luce sul processo di

autodistruzione dell’illuminismo che, incapace di salvaguardare il negativo e la

riflessione-su-di-sé, favorisce la reificazione della coscienza e la diffusione di un

pensiero ciecamente pragmatizzato.

Il pensiero si reifica in un processo automatico che si svolge per conto proprio, gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente sostituire. L’illuminismo ha accantonato l’esigenza classica di pensare il pensiero *…+ perché essa lo distrae dall’imperativo di guidare la prassi99.

Adorno e Horkheimer tornano più volte a riflettere su questi temi, dando vita ad

un’inesauribile diagnosi del presente, che si intensifica nella scrittura aforistica di

Minima Moralia, testo in cui Adorno sosta nella meditazione della vita offesa. Tra la

molteplicità di frammenti su cui Adorno sofferma il proprio sguardo vi è la paralisi degli

“intellettuali di opposizione”, la cui coscienza sembra modellata in anticipo, secondo i

bisogni della società. All’interno di questo modello, i critici favoriscono uno stato di

mobilitazione permanente per la difesa di questo stesso universo100: la critica assume,

così, una funzione fondamentale all’interno dei processi di allestimento,

funzionamento e perfezionamento delle istituzioni e dei meccanismi di potere. Ciò che

questo pensiero, supposto critico, dimentica è di criticare le sue stesse categorie, le

proprie lenti interpretative, sussumendo i fenomeni del reale «inglobandoli pari pari in

quelle costellazioni di potere, che spetterebbe allo spirito smascherare».101

L’intellettuale contribuisce in questo modo a rafforzare la costellazione di potere

dominante che avrebbe il compito di esporre e di mettere in discussione: egli

incorpora nel suo pensiero la propria integrazione al sistema. Il verdetto di Adorno è

lapidario: «il pensiero che ha disappreso a pensare se stesso è diventato - nello stesso

tempo l’assoluta istanza di controllo di se stesso»102.

99 T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Op. cit., p. 33

100 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Op. cit., p. 32.

101 T.W. Adorno, “Critica della cultura e società”, in Prismi, Torino, Einaudi, 1972, p. 16

102 T.W. Adorno, Minima Moralia, Op. cit., p. 236

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Lontani dalla “fine delle ideologie”, secondo Marcuse «la cultura industriale

avanzata è, in senso specifico, più ideologica della precedente»103: l’ideologia assume

forme nuove, è assorbita nella realtà, si identifica con uno stile di vita. Questa tesi è

ribadita con forza da Adorno:

dell’ideologia non resta nient’altro se non il riconoscimento di ciò che è, un modello di comportamento che si sottomette al potere schiacciante dello stato di

cose stabilito104.

In che modo sottrarre il pensiero a questa cattura? Qual è, se c’è, lo spazio per un

pensiero critico tout court? In questo contesto storico, «la tradizionale critica

dell’ideologia è invecchiata»105 e chiede di essere ripensata, il pensiero critico deve

essere rinnovato nelle sue stesse categorie.

Ideologia significa oggi: la società come fenomeno. Essa è mediata dalla totalità, dietro la quale sta il dominio del parziale, non tuttavia riducibile senz’altro ad un interesse parziale, e appunto per questo, in certo modo, ugualmente prossima al centro in tutti i suoi settori. *…+ L’ideologia, l’apparenza socialmente necessaria, è oggi la stessa società reale, nella misura in cui la sua integrale potenza e inevitabilità, la sua sopraffatrice esistenza in sé, surruga il senso che

quell’esistenza ha distrutto106.

Nel tentativo di risignificare l’esercizio della critica, Adorno avanza una proposta

precisa: l’intellettuale è chiamato a soffermarsi ad analizzare singoli frammenti della

totalità sociale, decifrando «quanto in essi emerga della tendenza della società nel suo

complesso»107. Se l’ideologia è «la società come fenomeno», la critica deve

trasformarsi in «fisiognomica sociale»108.

Il suggerimento di Adorno è chiaro: si deve tornare ad interpretare il mondo,

rifiutandosi di cambiarlo senza averlo prima interpretato, rifuggendo il rischio di

ridurre la prassi ad «attivismo strumentale»109, di alimentare la «rinnovata produzione

del sempre uguale»110.

103 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Op. cit., p. 24

104 T.W. Adorno, “Ideologie”, in Ideologie a cura di K. Lenk, Neuwied, 1961, pp.262 sgg., citato da H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Op. cit., p.130

105 T.W. Adorno, “Critica della cultura e società”, Op. cit., p. 21

106 Ivi., p.18

107 Ivi., p. 17

108 Ibid.

109 Lyotard cita T. Parsons in riferimento al seguente passaggio, che si concentra sulla trasmissione del sapere, la quale appare finalizzata «a fornire al sistema i giocatori in grado di capire convenientemente i ruoli legati alle posizioni pragmatiche » in J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Op. cit., p. 89.

110 T.W. Adorno, “Critica della cultura e società”, Op. cit., p. 8

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*L+’ostitlità contro la teoria che è nello spirito del nostro tempo, la sua estinzione, la quale non è per nulla accidentale, la sua messa al bando da parte dell’impazienza, che vuole cambiare il mondo senza interpretarlo, avendo dichiarato sull’istante che i filosofi finora avrebbero meramente interpretato il mondo, tale ostilità per la teoria diventa la

debolezza della prassi111.

Nel sospendere la propria collaborazione alla riproduzione della realtà sociale, i

pensatori fin qui interpellati indicano l’urgenza di un pensiero teorico, che sia capace di

leggere la realtà sociale, analizzando i meccanismi di potere e i processi di

soggettivazione che in essa agiscono.

«Che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare?»112, sono

queste le tre domande che Immanuel Kant introduce alla fine della Critica della ragion

pura, interrogativi attorno ai quali, secondo il filosofo, si concentra ogni interesse della

ragione umana. Nell’introduzione alle lezioni di logica, Kant aggiunge una quarta

domanda, che comprende le tre precedenti: «che cos’è l’uomo?»113. Seguendo la

lettura di Marcuse, questa domanda può intendersi come ricerca «di quelle che di

volta in volta sono le possibilità dell’uomo»114. L’età che si definisce post-storica, figlia

dell’epoca borghese analizzata dai Francofortesi, «ha privato del loro significato sia la

domanda sia le risposte, considerando le possibilità dell’uomo come sempre già

realizzate all’interno della società esistente».115 In questo senso the end of history, la

fine dell’arte e della filosofia, porta con sé the last man, ossia l’ultimo uomo: la società

del liberalismo avanzato ostacola ogni suo trascendimento, rendendo impossibile

immaginare una forma di vita altra, possibilmente migliore. Anche da questa

prospettiva, l’illuminismo sembra regredire nelle forme del mito: il mito, scrive Roland

Barthes, è un tentativo di immobilizzare il mondo, vietando di cercare altri modi di

governare se stessi e la vita in comune.

La pseudophysis borghese è integralmente un divieto all’uomo di inventarsi. I miti non sono altro che questa sollecitazione incessante, instancabile, questa esigenza insidiosa e inflessibile secondo cui tutti gli uomini si dovrebbero riconoscere in quella immagine eterna, e tuttavia situata nel tempo, che di essi un giorno è stata costruita come se destinata a valere per sempre. Perché la Natura in cui li si rinchiude sotto pretesto di

111 T.W. Adorno, Parole chiave. Modelli critici, Milano, 1974, pp. 238-239 e 242-244

112 I. Kant, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 495

113 I. Kant, Logica, Roma-Bari, Laterza, 1984, p.19

114 H. Marcuse, “Filosofia e teoria critica”, in E. Donaggio (a cura di), La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Torino, Einaudi, 2005, p. 76

115 Ibid.

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eternarli è solo un “uso”. E proprio quest’uso, per grande che sia, essi devono prendere

in mano per trasformarlo116

.

Nella società del positivo, chi si apprestasse ad avviare un percorso di ricerca sarebbe

presto raggiunto dalla richiesta di collaborare al miglioramento dello status quo. Chi

desiderasse preservare un’interrogazione filosofica potrebbe rivolgersi a Bartleby,

trovando una postura critica nella formula dell’ostinato ed indocile scrivano: I’d rather

prefer not to, preferirei di no117. Il “dire-di-no” resta la matrice di ogni sguardo critico

sul reale - dal “grande rifiuto” di Marcuse alla Dialettica Negativa di Adorno, dallo

“spirito di scissione” di Gramsci alla Teoria Critica di Horkheimer. Negare la possibilità

che il senso si esaurisca nei limiti dell’esistente: solo così, sottraendosi all’imperativo

dell’adattamento con il reale (di cui va ripudiata tanto la presunta ragionevolezza

quanto la conclamata immodificabilità), è possibile proseguire l’esercizio di chi ha

cercato di comprendere il mondo in cui viviamo, sforzandosi di «capirlo nei termini di

ciò che esso ha fatto *…+ e di ciò che può fare all’uomo»118.

Percorrere questo sentiero significa elaborare un pensiero che indaghi come

siamo diventati ciò che siamo119 e come ci stiamo trasformando120, muovendo da una

premessa fondamentale: che ogni trasformazione è contingente e non necessaria, che

potrebbe non essere o essere altrimenti121. È su questo sentiero che si può incontrare

il lavoro di Michel Foucault e il suo tentativo di ripensare il compito della filosofia,

osservando i «diversi modi in cui nella nostra cultura gli esseri umani vengono resi

soggetti»122. Nel paragrafo che segue ricostruiremo per sommi capi la sua riflessione

attorno al tema della critica, un’indagine che cercheremo di presentare nella sua

portata euristica, nel tentativo di risemantizzare le categorie critiche del pensiero

contemporaneo.

116 R. Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 234-235

117 H. Melville, Bartleby lo scrivano, Milano, Fetrinelli, 2015

118 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Op. cit., p. 192

119 T.W. Adorno, “Educazione dopo Auschwitz”, in E. Donaggio (a cura di) La scuola…, Cit., p.273

120 G. Anders, L’uomo è antiquato, Op. cit., p. 99

121 M. Horkheimer, “Teoria tradizionale e teoria critica”, in E. Donaggio (a cura di), La scuola di Francoforte, Op. cit., pp. 9-63

122 M. Foucault, “Perché studiare il potere. La questione del soggetto”, in Poteri e strategie, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p.103

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1.3 Qu’est-ce que la critique?

La questione del rapporto tra soggetto, potere e verità risulta costitutiva per l’intero

progetto foucaultiano, attraversando in modo trasversale il corpus eterogeneo dei suoi

scritti: dai libri pubblicati ai testi delle lezioni, dalle conferenze internazionali alle

interviste rilasciate. Nel 1972, dialogando con Gilles Deleuze, Foucault attribuisce

all’intellettuale il ruolo

di lottare contro le forme di potere là dove ne è ad un tempo l’oggetto e lo strumento: nell’ordine del «sapere», della «verità», della «conoscenza», «del discorso». È in questo senso che la teoria non sarà l’espressione, la traduzione o l’applicazione di una pratica, ma una pratica essa stessa123.

Nell’elaborazione di una filosofia come contro-potere, Foucault tenta di superare il

dualismo tra pensiero teorico ed azione pratica, in primis ripensando le forme della

critica. «La critica - scrive Foucault - rende possibile e, al tempo stesso, implica già di

per sé una trasformazione»124. La forma della critica è quella di un “pensiero del

fuori”125, al tempo stesso “pensiero-evento” ed “esperienza-limite”: nella sua

espressione essa perturba il discorso dominante e attira il soggetto fuori di sé - fuori

dall’ordine di potere che lo costituisce. In questo spazio inedito, il singolo vive

un’esperienza trasformativa, che Foucault descrive nei termini di una temporanea

desoggettivazione, un’esperienza di libertà126.

La riflessione di Foucault sull’esercizio della critica può essere compresa a partire

dal rapporto che il pensatore intrattiene con il saggio kantiano Was ist die Aufklärung?,

un legame che egli tematizza in modo diretto in più occasioni, in particolare tra il 1978

e il 1984. Confrontandosi, a più riprese, con il testo di Kant, Foucault reinterpreta la

123 M. Foucault, “Gli intellettuali e il potere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze”, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Torino, Einaudi, 2001, p.121

124 M. Cerrato, La filosofia pratica di Michel Foucault. Una critica dei processi di soggettivazione, Milano-Udine, Mimesis, 2015, p. 149

125 M. Foucault, Il pensiero del fuori, Milano, Se, 1998

126 La riflessione di Foucault sembra qui riecheggiare quella adorniana, in modo particolare le parole che Adorno dedica al saggio, forma critica per eccellenza: «la legge formale più intima del saggio è l’eresia. Grazie alla violazione dell’ortodossia del pensiero si rende visibile nella cosa ciò la cui persistenza nell’invisibilità costituisce in segreto lo scopo obiettivo dell’ortodossia». Nel suo esprimersi la critica sospende l’ordine dominante, crea uno spazio di pensiero fuori-tempo, in quanto ad ogni temporalità precostituita. In questo senso, scrive Adorno, «l’attualità del saggio è l’attualità dell’anacronismo». Citazioni da T. W. Adorno, “Il saggio come forma”, in Note per la letteratura. 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, pp.29-30

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tradizione critica della modernità, riconoscendo nella critica un modo specifico di

indagare l’attualità, di porre il presente come problema:

Quando nel 1784 Kant si chiedeva Was heiẞt Aufklärung? intendeva dire: che cosa ci sta succedendo adesso? Che cosa ci sta capitando? Che cos’è questo mondo, questo periodo, questo preciso momento in cui noi stiamo vivendo? Oppure in altre parole: che cosa siamo?”127

La risposta di Kant alla domanda Che cos’è l’illuminismo? è oggetto dell’analisi

foucaultiana in tre momenti specifici: nel recupero dei passaggi più significativi di

questo triplice confronto cercheremo di chiarirne gli aspetti più originali.

Nel 1978, Foucault è invitato a tenere una conferenza alla Société française de

Philosophie il cui titolo sembra delineare un possibile progetto di ricerca: Qu’est-ce que

la critique? L’ipotesi di lavoro che il pensatore francese offre ai suoi interlocutori è così

formulata: vi è un atteggiamento critico che potremmo dire specifico dell’età

moderna128. Nel mondo occidentale, suggerisce Foucault, a partire dal XV e XVI secolo,

si è sviluppato un modo di pensare, di parlare, di agire nei confronti della società, della

cultura, degli altri, che potremmo qualificare come «critico». In questo contesto, la

critica si presenta come una «curiosa attività»129, un’attitudine relazionale, la cui

esistenza deriva dalla contrapposizione a qualcosa di altro da sé: la questione del

governo. Secondo l’analisi di Foucault, che il pensatore sviluppa con maggior dettaglio

nelle lezioni al Collège de France130, l’epoca moderna è caratterizzata dall’imporsi di un

problema fondamentale: «come governare?». Il concetto di governo va qui inteso nel

suo senso più ampio, come arte di destinare qualcosa e qualcuno a un certo fine:

«governare significa strutturare il campo di azione possibile per gli altri»131. Tra il XV e

il XVI secolo assistiamo allo sviluppo di una molteplicità di arti governative (l’arte

politica, l’arte pedagogica, l’arte economica) dando vita ad un processo che Foucault

definisce con un termine nuovo: «governamentalizzazione».

127 M. Foucault, “Perché studiare il potere. La questione del soggetto”, in Poteri e Strategie, Op. cit., p. 103

128 M. Foucault, Illuminismo e critica, Roma, Donzelli Editore, 1997, p. 34. Il testo originale si intitola “Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung) ed è stato pubblicato in Bulletin de la Société française de Philosophie, avril-juin 1990, 2, pp.35-63

129 Ivi., p. 35

130 Ci riferiamo qui ai corsi che Foucault tenne nel 1977-1978 e nel 1978-1979, intitolati rispettivamente Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica.

131 M. Foucault, Illuminismo e critica, Op. cit., p. 37

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La governamentalizzazione designa il movimento attraverso il quale si trattava, nella stessa realtà di una pratica sociale, di assoggettare gli individui mediante meccanismi di potere che si appellano a una verità132.

Nella lettura foucaultiana, la crescita dell’attenzione per il governo non può essere

dissociata dallo sviluppo di una preoccupazione ad essa opposta: «come non essere

governati?»133. Questa domanda, avverte Foucault, non è da intendersi in senso

assoluto (come espressione di una volontà anarchica radicale), ma in senso relativo:

«come non essere governati in questo modo, in nome di questi principi, in vista di tali

obiettivi e attraverso tali procedimenti»134. In sintesi, con la nascita dell’arte del

governo sembra sorgere anche il suo contrappeso:

come contropartita, o piuttosto come partner e al contempo avversario delle arti del governo, diciamo come modo per sospettarne, per rifiutarle, insomma come modo per sfuggire a queste arti di governo, per allentarne comunque la presa, sia sotto forma di rifiuto, ma anche come linea di differente sviluppo135.

Nasce così un’attitudine al tempo stesso politica e morale, che Foucault descrive come

«l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo»136. Un modo

d’essere della soggettività che è contrappunto a quello del governo, il cui compito è

«quello di percepire il limite oltre al quale diviene intollerabile essere governati»137.

Che cos’è la critica? Una definizione provvisoria, suggerisce Foucault, potrebbe essere

questa: «è l’arte di non essere eccessivamente governati»138. Nei confronti

dell’istituzione religiosa, del potere politico o dell’autorità scientifica, essa trova il

punto di ancoraggio nel problema della verità, mettendo ad indagine la verità di volta

in volta presentata come ultima.

[D]irei che la critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità; la critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata139.

Dopo aver offerto una prima definizione di critica, Foucault avanza una seconda ipotesi

di lavoro, ripercorrendo e reinterpretando il testo kantiano:

132 Ivi., p. 40

133 Ivi., p.37

134 Ibid.

135 Ibid.

136 Ivi., p. 38

137 P. Napoli, “Introduzione”, in M. Foucault, Illuminismo e critica, Op. cit., p. 15

138 M. Foucault, Illuminismo e critica, Op. cit., p. 38

139 Ivi., p. 40

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quel che Kant descriverà come Aufklärung è esattamente ciò che intendevo descrivere come critica, ossia quell’atteggiamento critico che è un tratto specifico dell’Occidente a partire, credo, da ciò che è stato storicamente il grande processo di governamentalizzazione della società140.

Di quale atteggiamento sta parlando Foucault? Della «volontà decisoria di non essere

governati, atteggiamento sia individuale sia collettivo di uscire, come diceva Kant, dalla

propria minorità»141. Esplorando il rapporto tra illuminismo e critica, Foucault

riconosce due compresenti direttrici di sviluppo di questo volontà. L’approccio che ha

goduto di maggiore diffusione adotta come canale d’accesso al problema

dell’Aufklärung il tema della conoscenza: critica è la ricerca «sulla legittimità dei modi

storici del conoscere»142, la definizione dei limiti della nostra ragione, che si identifica

con un’indagine analitica della verità. Vi è però un altro approccio possibile, un

atteggiamento critico un po’ defilato143, a cui Kant stesso ha aperto la possibilità: la

domanda Che cos’è l’Illuminismo? può essere assunta dalla prospettiva del potere e

dell’ «evenemenzializzazione». Con questo termine Foucault intende l’indagine delle

condizioni di accettabilità di un sistema, analizzando un insieme di elementi in cui

individuare, in via empirica e provvisoria, delle connessioni tra i meccanismi di

coercizione e i contenuti di conoscenza. Assumendo questo approccio, la questione

della ratio appare intimamente intrecciata a quella del potere: «funzione

fondamentale della critica sarebbe perciò il disassoggettamento nel gioco di quel che si

potrebbe chiamare la politica della verità»144. Questa distinzione è chiarita da Foucault

qualche anno dopo, durante le lezioni tenute all’Università Cattolica di Leuven:

se chiamiamo filosofia critica una filosofia che non muove dallo stupore che ci sia l’essere, ma dalla sorpresa che ci sia la verità, allora abbiamo due forme di filosofia critica. Da una parte quella che si domanda a quali condizioni, formali o trascendentali, un enunciato può essere vero; dall’altra, quella che s’interroga sulle forme di veridition, sulle differenti forme di dire il vero145.

140 Ivi., p. 41

141 Ivi., p. 62

142 Ivi., p. 53

143 Ivi., p. 43

144 Ivi., p. 40

145 M. Foucault, Mal faire, dire vrai. Fonctions de l’aveu, introduzione al corso del 1981, p. 14 del dattiloscritto depositato presso la Bibliothéque du Daulchoir di Parigi, tradotto e citato da P. Napoli in M. Foucault, Illuminismo e Critica, Op. cit., p. 20

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Questo secondo percorso vede nella critica qualcosa di diverso dall’arte del vero

consacrata dal secolo dei Lumi, in questa direzione il modello di una critica come

strumento dualistico non resiste più:

l’obiettivo, pertanto, non è sapere quel che è vero o falso, fondato o infondato, reale o illusorio, scientifico o ideologico, legttimo o abusivo. Ma è quello di sapere quali sono i legami, le connessioni, che possono essere segnalati tra meccanismi di coercizione ed elementi di conoscenza, quali giochi di rimando e sostegno reciproco si instaurano146.

In questa seconda forma, la questione dell’Aufklärung si ripresenta con forza nel XIX e

nel XX secolo, in modo particolare nelle ricerche che indagano il rapporto tra la

razionalizzazione moderna e i suoi effetti di potere - «di coercizione e forse di

obnubilamento»147 - sulle condotte di vita. Il riferimento è tanto a Max Weber quanto

alla Scuola di Francoforte, alle cui indagini lo stesso Foucault accosterà le proprie

ricerche, avviando un campo di studi che condivide l’intento critico dei pensatori

tedeschi, pur sviluppandolo in una prospettiva differente (ad es. frantumando la

ragione monolitica in una molteplicità di razionalità pratiche, l’ideologia in una

pluralità di rapporti strategici di sapere-potere)148.

Veniamo quindi al secondo momento di confronto: il 5 gennaio 1983, durante

le lezioni del corso Il governo di sé e degli altri, Foucault torna ad osservare il testo

kantiano, osservando il modo peculiare con cui l’illuminismo pone il problema della

storia. Agli occhi di Foucault appare centrale la relazione che Kant intrattiene con il

146 Ivi., p. 53

147 Ivi., p. 48

148 «Mi sembra valga la pena di tentare una simile impresa (salvo abbandonarla in seguito), dal momento in cui si voglia fare un’analisi 1) delle formazioni delle razionalità pratiche 2) delle genesi dei saperi e delle tecniche che l’uomo applica alla propria condotta (nel modo di dirigere se stesso e nel modo di dirigere gli altri) 3) del posto che occupano nel gioco dei rapporti di forza e delle lotte. Allo stesso modo in cui si è potuto fare concretamente l’esperienza dei limiti della nozione di ideologia. Il principio di intelligibilità dei rapporti di sapere e potere passa piuttosto attrverso l’analisi delle strategie che non attraverso quella di ideologie» , M. Foucault, “La polvere e la nuvola”, in Poteri e strategie, Op. cit., pp. 101-102. E in un intervista pubblicata in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, Foucault dichiara: «La nozione di ideologia mi sembra difficilmente utilizzabile per tre ragioni. La prima è che, lo si voglia o no, è sempre in opposizione virtuale con qualcosa che sarebbe la verità. Ora, credo che il problema non sia di fare divisioni fra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipenderebbe da altro, ma di vedere come storicamente si producano degli effetti di verità all’interno di discorsi che non sono in sé né veri né falsi. Il secondo inconveniente è ch’essa si riferisce credo necessariamente a qualcosa come un soggetto. E, in terzo luogo, l’ideologia è in posizione subordinata rispetto a qualcosa che deve funzionare nei suoi confronti come struttura o determinazione economica, materiale, ecc. Per queste tre ragioni, credo che sia una nozione che non si possa utilizzare senza precauzioni», “Intervista a Michel Foucault”, pp. 3-28, qui p. 12

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proprio presente: nel domandare cosa sia l’illuminismo, la modernità si pone secondo

un rapporto “sagittale” con la propria attualità. La risposta di Kant è un esempio di

come la filosofia moderna inizi a problematizzare la propria attualità discorsiva: il

filosofo interroga la propria appartenza a un certo “noi”, un certo contesto culturale, in

relazione al quale egli stesso deve situarsi149. Il problema dell’Aufklärung è il problema

della storicità della ragione - «della storicità del pensiero dell’universale»150 - e al

tempo stesso un’interrogazione sui diversi modi di soggettivazione151, su ciò che

siamo. Ripensare l’illuminismo, avverte Foucault, significa preservarne il senso e il

problema, arrivando a domandare: «chi sono dunque io che faccio parte di questa

umanità, forse di questa frangia di umanità che in questo momento è sottomessa al

potere della verità in generale e delle verità in particolare?»152. Porre questo tipo di

interrogazione significa esercitare una virtù critica: riconoscendo la condizione storica

del soggetto e la possibilità di distaccarsi dalla sovranità di un unico modo di essere,

promuovendo, così, la sperimentazione di nuove forme di vita. Per questo la critica è

descritta da Foucault come una virtù: essa avvia e realizza l’etica, che è pratica della

libertà153.

A conclusione della lezione, Foucault ribadisce l’ipotesi avanzata nel 1978: nella

risposta di Kant si rende visibile una tradizione critica che, pur animando la filosofia

moderna fin dalle sue origini, è rimasta poi in secondo piano. Queste le sue parole di

chiarimento:

diciamo che nella sua grande opera critica Kant ha fondato quella tradizione filosofica che solleva il problema delle condizioni alle quali è possibile una conoscenza vera; e si può dire che, a partire da qui, un intero settore della filosofia moderna si è presentata e sviluppata, sin dal XIX secolo, come analitica della verità. Ma esiste un altro tipo di problema, un altro aspetto dell’interrogazione critica: è quello che si vede nascere proprio con la questione dell’Aufklärung o nel testo sulla Rivoluzione; quest’altra tradizione critica si domanda: che cos’è la nostra attualità? Quale è il campo attuale

149 M. Foucault, “Il problema del presente. Una lezione su ‘Che cos’è l’Illuminismo?’”, in Poteri e Strategie, Op. cit., p. 117

150 Ivi., p. 125

151 «Ci sono due significati della parola soggetto: soggetto a qualcuno attraverso il controllo e la dipendenza, oppure legato alla propria identità dalla coscienza o conoscenza di sè», M. Foucault, “Perché studiare il potere. La questione del soggetto”, in Poteri e Strategie, Cit., p. 108

152 M. Foucault, Illuminismo e Critica, Cit., p. 50

153 Su questo si veda il saggio Butler, J., “What is critique? An essay on Foucault’s virtue”, in S. Salih (ed.), The Judith Butler reader, Malden, Oxford e Victoria, Blackwell Publishing, 2004, pp. 302-322

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delle esperienze possibili? Qui non è in gioco un’analitica della verità; si tratta di ciò che si potrebbe chiamare un’ontologia del presente, un’ontologia di noi stessi154.

È questa la forma di filosofia a cui la riflessione di Foucault si ispira, inserendosi in una

tradizione di lavoro critico che va «da Hegel alla Scuola di Francoforte, passando

attraverso Nietzsche e Max Weber»155. L’accostamento a questi pensatori può

intendersi nella condivisione di un ethos critico, le cui forme sono al centro del terzo e

più strutturato confronto di Foucault con l’Illuminismo.

Nel 1984, Foucault scrive un saggio dedicato al testo kantiano, scegliendo come

titolo quella che egli considera la domanda costitutiva del pensiero moderno: Che cos’è

l’Illuminismo? 156. In questo saggio Foucault analizza il modo in cui Kant si relaziona alla

questione del presente, soffermandosi in modo puntuale sui termini che il filosofo

tedesco utilizza per descrivere il movimento dell’Aufklärung. Nel rispondere alla

domanda sulla natura dell’illuminismo, osserva Foucault, Kant offre una riflessione

sull’attualità della sua stessa impresa e lo fa in un modo peculiare.

Mi sembra che sia la prima volta che un filosofo colleghi in modo così stretto, e dall’interno, il significato della sua opera in rapporto alla conoscenza con una riflessione sulla storia e un’analisi particolare del momento singolare in cui egli scrive e a causa del quale egli scrive. Mi sembra che la novità di questo testo consista nella riflessione sull’“oggi” come differenza nella storia e come motivo per un compito filosofico particolare.157

In questa prima volta Foucault vede un punto di partenza: «l’abbozzo di ciò che

potremmo chiamare l’atteggiamento moderno»158. Muovendo dal testo kantiano, la

proposta di Foucault è quella di considerare la modernità non come un periodo

storico, ma come un modo di relazionarsi con l’attualità, che è una scelta deliberata,

ma anche un modo di pensare e di sentire, di agire e di comportarsi «che sottolinea

154 M. Foucault, “Il problema del presente. Una lezione su ‘Che cos’è l’Illuminismo?’”, Op. cit., p. 126

155 M. Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?” (1984), in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Milano, Feltrinelli, 1998, p.261 A tal riguardo, però, gli accostamenti possono essere fatti con prudenza. Il filosofo francese condivide l’obiettivo polemico dei pensatori tedeschi, il loro atteggiamento critico, ma sviluppa una prospettiva che presenta delle differenze sostanziali, in modo particolare nei confronti del motivo dell’universale. Per Adorno e Horkheimer la critica per giustificarsi deve far riferimento a certi valori, ritenuti offesi dalla razionalità tecnica, riscattando un autentico umanesimo. Foucault, invece, rifiuta una ragione monolitica, sia pure quella umanista, di cui mostra il risvolto autoritario. Di qui la tendenza a concentrarsi su un insieme di razionalità regionali, connesse al proprio ambito applicativo, e l’invito alla produzione di nuove soggettività. Su questo tema torneremo, fornendo puntuali riferimenti alla letteratura.

156 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, Op. cit., p. 23

157 Ivi., p. 32

158 Ibid.

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un’appartenenza e, al tempo stesso, si presenta come un compito»159. Nell’ipotesi

foucaultiana, la modernità è «un ethos filosofico che potrebbe essere caratterizzato

come critica permanente del nostro essere storico»160, un ethos caratterizzato come

un atteggiamento limite:

la critica è proprio l’analisi dei limiti e la riflessione su di essi. Ma, se la questione kantiana era di sapere quali siano i limiti cha la conoscenza deve rinunciare a superare, mi sembra che, oggi, la questione critica debba essere ribaltata in positivo: qual è la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a condizioni arbitrarie in quello che ci è dato come universale, necessario e obbligatorio? Si tratta, insomma, di trasformare la critica esercitata nella forma della limitazione necessaria in una critica pratica nella forma del superamento possibile. Il che come si vede implica che la critica venga esercitata non più nella ricerca delle strutture formali che hanno valore universale, ma come indagine storica attraverso gli eventi che ci hanno condotto a costruirci e a riconoscerci come soggetti di ciò che facciamo, pensiamo, diciamo.161

Al cuore dell’Aufklärung, vi è il principio di una critica storica e di una creazione

permanente di noi stessi nella nostra autonomia162, un atteggiamento storico-critico e

un atteggiamento sperimentale163: l’ontologia critica di noi stessi è una prova storico-

pratica dei limiti che possiamo superare, quello che Foucault definisce come «un

lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto essere liberi»164. Il lavoro ai limiti deve

afferrare i punti in cui il cambiamento è possibile e auspicabile, decidendo la forma da

dare a questo cambiamento165. Come per Marx, anche per Foucault, è l’uomo a

produrre l’uomo, ma ciò che deve essere prodotto, scrive il pensatore francese, «non è

l’uomo identico a se stesso, tale quale lo avrebbe designato la natura, o secondo la sua

essenza; al contrario noi dobbiamo produrre qualcosa che ancora non esiste e di cui

non possiamo sapere come e cosa sarà»166. Foucault ci invita così a dare forma a

soggettività oggi impossibili, soggetti ancora inediti.

159 Ibid.

160 Ivi., p. 37

161 Ivi., p. 41

162 Ivi., p. 40

163 Ivi., p. 42

164 Ivi., p. 43

165 Ibid.

166 M. Foucault, in D. Trombadori (a cura di), Colloqui con Foucault. Pensieri, opere, omissioni dell’ultimo maître-à-penser, Roma, Castelvecchi, 2005, p. 82

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1.4 Contemporaneo intempestivo

Il percorso fin qui tracciato è stato compiuto nel tentativo di interrogare la propria

attualità, osservando il contesto sociale e culturale più ampio in cui questa stessa

scrittura si inserisce. Lontani dal poter esaurire l’analisi avviata, abbiamo concentrato

la nostra attenzione nel delineare le condizioni del pensiero e della critica nel nostro

tempo, riconoscendo linee di tendenza che affondano le proprie radici nei meccanismi

della società industriale avanzata. Il recupero degli elementi più significativi delle

indagini di Lyotard, della Scuola di Francoforte e di Foucault, è stato realizzato con

l’intenzione di allestire una modalità interpretativa del presente che poggiasse su una

costellazione concettuale composita, in grado di illuminare in modo inusuale ciò che

comunemente diamo per scontato, ciò che accettiamo come normale. Lontani dal

voler forzare le diverse ricerche verso esiti pienamente convergenti, misconoscendone

differenze e punti di contrapposizione, questo esercizio è da intendersi nella volontà di

attraversare sguardi tra loro distinti, ma ugualmente utili ad interrogare il presente

nella sua razionalità. Attorno alla realtà osservata si è così delineato un «poliedro

d’intellegibilità»167, avvalendosi di analisi teoriche differenti, ma accomunate

dall’essere «intempestive», aggettivo con cui Barthes, rifacendosi a Nietzsche168,

descrive il proprium di chi è contemporaneo.

Sul concetto di contemporaneità si sofferma il pensiero di Giorgio Agamben, di

cui vogliamo riportare alcuni passaggi, nel tentativo di chiarire il valore dello studio

svolto in queste pagine.

Nietzsche situa [...] la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma,

167 M. Foucault, “Questions of Method”, in Burchell, G., Gordon, C., Miller, P., (eds.), The Foucault Effect: Studies in Governmentality, Hemel Hempstead, Harvester Wheatsheaf, 1991, pp. 73-86

168 Nella Seconda Inattuale, considerando la coscienza storica del proprio tempo, Nietzsche scrive: «Inattuale è inoltre questa considerazione, perché cerca di intendere qui come danno, colpa e difetto dell’epoca qualcosa di cui l’epoca va a buon diritto fiera, la sua formazione storica; perché credo che noi tutti soffriamo di una febbre storica divorante e dovremmo almeno riconoscere che ne soffriamo», F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia nella vita, Milano, Adelphi, 1974, p. 4. Il testo fu pubblicato originariamente nel 1874.

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proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace piú degli altri di percepire e afferrare il suo tempo169.

Coloro che aderiscono troppo strettamente al proprio tempo, combaciando

perfettamente e in ogni punto con esso, non possono dirsi contemporanei alla propria

epoca, in quanto «non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di

essa»170.

Accanto a questa prima definizione di contemporaneità Agamben ne suggerisce

una seconda: «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per

percepirne non le luci, ma il buio». La percezione del buio non è uno stato di passività,

una forma di inerzia, ma una speciale abilità, che implica un’attività particolare. Questa

equivale a

neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci. Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità. 171

Perché l’oscurità dovrebbe interessarci? Nel rispondere a questo domanda Agamben

compie un’incursione nel campo dell’astrofisica contemporanea. Nell’universo in

espansione, quello che percepiamo come il buio del cielo è in realtà uno spazio denso

di luce, luce di galassie remote, che si allontanano da noi ad una velocità tale che la

loro luce non riesce a raggiungerci.

Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. 172

L’appuntamento della contemporaneità non si svolge nel tempo semplicemente

cronologico: è qualcosa che urge dentro di esso, che lo trasforma, «e questa urgenza è

l’intempestività, l’anacronismo che ci permette di afferrare il nostro tempo nella forma

di un “troppo presto” che è, anche, un “troppo tardi”, di un “già” che è, anche, un “non

ancora”».

169 “Che cos’ il contemporaneo?”, dal testo della lezione inaugurale del corso di Filosofia Teoretica 2006-

2007 presso la Facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia, in G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Roma, Nottetempo, collana I sassi, 2010, pp. 22-33, p.23

170 Ibid.

171 Ivi., p.26

172 Ivi., p.27

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Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia *…+ È qualcosa del genere che doveva avere in mente Michel Foucault, quando scriveva che le sue indagini storiche sul passato sono soltanto l’ombra portata della sua interrogazione teorica del presente. 173

In questo senso, nella volontà di essere contemporanei - di confrontarsi con il proprio

tempo per prendere posizione in esso – l’esercizio critico della modernità, così come

interpretato nel lavoro foucaultiano, ci appare come una possibile tradizione di

riferimento. La critica è qui intesa come politica della verità, abbandonando il carattere

trascendentale e ogni finalità metafisica: essa è da intendersi come «genealogica nelle

sua finalità e archeologica nel suo metodo»174. È archeologica nel trattare le pratiche

che articolano un certo modo di pensare e di agire come altrettanti eventi storici; è

genealogica cogliendo «nella contingenza che ci ha fatto essere quel che siamo, la

possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo,

facciamo o pensiamo»175.

Il lavoro che questa riflessione ha voluto avviare potrà definirsi critico nel senso

rinnovato che questa parola ha fin qui assunto: nella misura in cui rifiuta di contribuire

al perfezionamento di una determinata situazione di potere, cercando di mostrarne i

meccanismi di funzionamento e gli effetti di verità. La postura critica dello studioso –

postura a cui ogni ricercatore universitario crediamo debba poter ambire - può essere

oggi risignificata smarcandosi da una funzione profetica, legislativa o risolutiva, per

riappropriarsi del compito di porre problemi, col maggior rigore possibile176. Ciò

richiede di operare una interpretazione,

una lettura di un certo reale, che sia tale che da un lato quest’interpretazione possa produrre effetti di verità e che dall’altro questi effetti di verità possano diventare strumenti all’interno di lotte possibili. *…+ Decifrare uno strato di realtà

173 Ivi., p.33

174 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, Op. cit., p. 41

175 Ivi., p. 42

176 «Ritengo che il ruolo dell’intellettuale oggi non sia quello di stabilire leggi, proporre soluzioni, profetizzare, dato che così facendo egli non può altro che contribuire al funzionamento di una determinata situazione di potere la quale a mio avviso deve essere criticata. *…+ Il mio ruolo è di porre i problemi effettivamente, davvero: e di porli col maggior rigore possibile, col massimo di complessità e difficoltà in modo tale che la soluzione non nasca così, d’un colpo, per la pensata di qualche riformatore, o anche nel cervello di un partito politico», M. Foucault, in D. Trombadori (a cura di), Colloqui con Foucault, Op. cit., pp. 104-105

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in modo tale che emergano le linee di forza e le linee di fragilità; i punti di resistenza e i punti di attacco possibili, le vie tracciate e le scorciatoie177.

In questo senso, gli effetti di verità che una critica di questo tipo mira a realizzare sono

di «polemizzazione del reale»178, spostando le forme di sensibilità e le soglie di

tolleranza: si tratta di far sì che «certe frasi non siano più dette tanto facilmente o certi

gesti non siano più compiuti, almeno non senza qualche esitazione. *…+ *L+avorare

affinché gli atti, i gesti, i discorsi che fino a quel momento parevano loro ovvi diventino

problematici, rischiosi, difficili»179. Assumendo questa prospettiva, la ricerca che

andiamo a realizzare non vuole essere la premessa di un ragionamento che si concluda

col dire «ecco dunque quel che vi resta da fare. *…+ Non è una tappa all’interno di una

programmazione. [Ma] una sfida nei confronti delle cose così come sono»180. La

necessità della riforma, sottolinea con forza Foucault, non deve funzionare come un

ricatto per limitare, ridurre e bloccare l’esercizio di una critica radicale,

addomesticandola nelle forme di una critica operazionalizzata. È questo lo spirito

critico che intendiamo assumere nel guardare alla realtà scolastica del nostro

presente: rifiutando di risolvere i problemi della scuola senza prima interpretarla,

scegliamo di guardare alla scuola stessa, nella forma che oggi assume, come problema

filosofico. Nel fare questo cercheremo di risignificare le lenti critiche della riflessione

pedagogica, muovendoci intempestivamente all’interno della tradizione di studi della

filosofia dell’educazione. È questa tradizione che ci accingiamo ora a presentare,

suggerendo la possibilità, forse la necessità, di ripoliticizzarla, in primis tornando ad

analizzare i processi istituzionali entro cui le pratiche educative si strutturano e

illuminando i meccanismi di potere che queste istituzioni mettono in atto. In questa

prospettiva, l’ambito di studi che vorremmo contribuire a sviluppare è quello di una

filosofia politica dell’educazione.

177 M. Foucault, “Precisazioni sul potere. Risposta ad alcuni critici”, in Poteri e strategie, Op. cit., p. 39

178 Ivi., p. 41

179 M. Foucault, “Perché la prigione?”, in Poteri e strategie, Op. cit., p. 84

180 Ivi., p. 85

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2. Una filosofia politica dell’educazione181

L’espressione “filosofia dell’educazione” ha acquisito nel tempo significati differenti,

costituendo oggi una formula polisemica, che chiede di precisare il senso con cui la si

intende assumere: ideologia, teoria dell’educazione, pedagogia teoretica, filosofia

applicata, sono questi i principali significati che le sono stati attribuiti. Nel contesto in

cui scriviamo, la filosofia dell’educazione è assunta quale ambito di studi e di ricerca

che, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, è stato riconosciuto dalla comunità

accademica internazionale, trovando una propria collocazione nei dipartimenti182 e

nelle società scientifiche183 di area educativa. Il tentativo di una sua definizione porta

con sé un duplice imbarazzo: la scomodità di dire cos’è la filosofia e quella di spiegare il

legame tra filosofia e pedagogia. Nel paragrafo che seguirà cercheremo di esporre i

caratteri più generali della disciplina denominata “filosofia dell’educazione”,

sottolineando le peculiarità delle sue diverse articolazioni. Nel fare questo attingeremo

alla letteratura italiana e internazionale, consultando i testi di riferimento per

l’introduzione allo studio filosofico dell’educazione184. Mancando lo spazio per

181 L’espressione "filosofia politica dell'educazione" è qui utilizzata con accezione non riconducibile all'opera di Marcel Gauchet, nella quale troviamo impiegata la stessa dizione. La dimensione politica, vogliamo suggerire, è una dimensione eminente della filosofia dell’educazione: l’educazione non è ipostatizzabile (si realizza entro un contesto storico-politico, extra-pedagogico, che la condiziona, un orizzonte di connessioni da spiegare), né politicamente neutrale (favorisce una forma di vita singolare e collettiva rispetto ad altre).

182 L’organizzazione delle discipline accademiche per “settori scientifico-disciplinari” (SSD), include la “filosofia dell’educazione” nel SSD M-PED/01, settore scientifico disciplinare denominato “pedagogia generale e sociale”. Anche in ambito internazionale, anglofono e non, la “philosophy of education” trova collocazione nei “departments of education”.

183 In ambito internazionale, e in modo particolare nei paesi anglofoni, la disciplina denominata Philosophy of Education vede la presenza di società e riviste di ambito specifico, come l’americana PES (Philosophy of Education Society) fondata nel 1941, la PESGB (Philosophy of Education Society Great Britain) fondata nel 1966, la CPES (Canadian Philosophy of Education Society) fondata nel 1972, la PESA (Philosophy of Education Society of Australasia) fondata nel 1970 e l’INPE (International Network of Philosophy of Education) fondata nel 1988. Tuttavia, i filosofi dell’educazione trovano un proprio network di riferimento all’interno di società più ampie, dedicate alla ricerca educativa tout court, come l’AERA (American Educational Research Association), l’EERA (European Educational Research Association) o la NERA (Nordic Educational Research Association). Il contesto italiano, erede di una forte tradizione di pensiero e di studio di natura pedagogica, non ha ancora costituito una società di studi dedicata alla filosofia dell’educazione: gli studiosi che fanno riferimento a questa area di ricerca trovano collocazione entro la SIPED (Società Italiana di Pedagogia).

184 Testi di riferimento sono: F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Roma-Bari, Laterza 2008; M. Conte, La forma impossibile. Introduzione alla filosofia dell’educazione, Padova, Libreria Universitaria, 2016; V. Iori, Filosofia dell'educazione. Per una ricerca di senso nell'agire educativo, Milano, Guerini, 2000; A. Kaiser, Filosofia dell’educazione (im Grundriẞ), Genova, Il Melangolo, 2013; R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Milano, Mondadori, 1998; A. Mariani, Elementi di filosofia dell'educazione, Roma, Carocci Editore, 2006; G. Mari, Filosofia dell’educazione: l’agire educativo tra

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approfondire ogni segmentazione storica e teoretica interna a questo campo di

indagine, presenteremo tendenze e differenze ricorrendo ad una classificazione

semplificatoria, ma utile ai fini della ricerca: distingueremo la filosofia dell’educazione

di tradizione continentale da quella di area anglosassone. Successivamente, ci

concentreremo sul rapporto che la filosofia dell’educazione intrattiene con le

istituzioni educative, ripensando gli strumenti filosofici che rendono oggi possibile un

loro studio critico.

2.1. Che cos’è la filosofia dell’educazione?

In un certo senso, la filosofia dell’educazione è antica quanto la filosofia stessa. Sin

dalle sue origini, l’attività filosofica mostra un’interesse per la realtà dell’educazione,

un interesse, precisa Mino Conte, di duplice natura: d’intenzionalità pedagogica e

teoretica185. I primi filosofi fondano scuole e pratiche di discepolato, nella volontà di

testimoniare il valore umano e trasmissivo del proprio sistema (o stile) di pensiero (e di

vita). Al tempo stesso, l’educazione, quale spazio specifico di esperienza della

modificabilità umana, è assunta fin da subito come problema filosofico, all’interno di

una più ampia discussione etica (qual è la vita buona?), politica (quale formazione per

il buon cittadino?) ed epistemologica (come conoscere la verità?). Seguendo la

ricostruzione storica di Raffaele Mantegazza186, nella Grecia classica la riflessione

sull’educazione è guidata da una indagine di carattere etico-politico, rivolta alla cura

dei giovani e della città; con l’avvento del cristianesimo, e per tutto l’arco del

Medioevo, la riflessione etica sull’educazione è curvata in senso spiritualistico,

indicando nell’educazione il campo di perfezionamento della soggettività del cristiano,

facendo della pedagogia un’ancella della pastorale; a seguito del processo di

secolarizzazione che coinvolge l’Europa durante il Rinascimento, la ricerca pedagogica

trova poi una nuova articolazione: l’uomo è costituito come oggetto autonomo di

studio e di riflessione e l’educazione diviene un «campo privilegiato per l’analisi della

modernità e mondo contemporaneo, Brescia, La Scuola 2010;, L.A. Reid, Philosophy of Education, New York, Random House, 1962; O. Reboul, La filosofia dell’educazione, Roma, Armando Editore, 1997; D. Loro, Filosofia dell’educazione. Lineamenti per una riflessione epistemologica, Verona, Libreria Universitaria Editrice, 1998; N. Blake, P. Smeyers, R. Smith, P. Standish (a cura di), The Blackwell Guide to the Philosophy of Education, Balckwell Publishing, 2003

185 M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., p. 10

186 R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Op. cit., pp. 18-19

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costituzione del soggetto, delle sue strutture, della sua specifica modalità di essere-

nel-mondo»187. Caratteristica del Cinquecento è la delimitazione dell’educazione non

più come problema morale, ma come «problema filosofico che, con il passare dei

secoli, farà sempre più valere la sua ineludibile specificità»188. Un problema che, come

abbiamo anticipato e come avremo modo di approfondire, emerge in relazione al

processo di governamentalizzazione dell’età moderna.

La storia dell’Occidente, scrive Anna Kaiser, «è costellata dal pensiero filosofico

e dal pensiero pedagogico, nonché dal loro stretto intreccio»189. Quali sono i

fondamenti e le forme specifiche dell’esperienza e dell’azione educativa? Come

distinguere educazione, istruzione, formazione, addestramento, indottrinamento? Nel

corso della storia, i grandi pensatori non hanno cessato di porre questi stessi

interrogativi, ponendoli in stretta relazione con la questione antropologica: «l’uomo -

scrive Kant - può divenire uomo solo mediante l’educazione: egli sarà quale essa l’avrà

fatto»190. Premessa ineludibile di ogni pensiero filosofico sull’educazione, la questione

antropologica è sottesa alle pratiche della paideia greca, esplicitata dall’Umanesimo di

Pico Della Mirandola e risignificata nella Bildung tedesca. Come spiega Oliver Reboul:

di tutti gli animali, l’uomo è l’unico che deve e può essere educato. Deve essere educato poiché senza educazione non avrebbe niente in sé di umano. Può essere educato, perché le cose che lo distinguono dagli animali – tecnologia, lingua, costumi – egli le ha apprese. È questo legame con l’umanità che rende l’educazione qualcosa di altro che uno sviluppo neuro-psicologico o l’ammaestramento di un animale191.

La tematizzazione dell’educazione come problema filosofico porta, allora, con sé la

necessità di affrontare in modo serio la seguente questione: che cosa significa educare

un uomo? È questa una questione fondamentale quanto inesauribile.

Accanto al tentativo di definire teoreticamente i caratteri generali e specifici

dell’esperienza educativa, il pensiero filosofico ne interroga gli scopi e i processi che

storicamente dovrebbero realizzarla: «il suo campo non è quello del “come” - e fini

dell’educazione non sono mai solo i “come” - ma i “perché”»192. Perché dunque

187 Ivi., p. 19

188 Ibid.

189 A. Kaiser, Filosofia dell’educazione (im Grundriẞ), Op. cit., p. 19

190 I. Kant, L’arte di educare, Roma, Armando, 2001, pp.95-96,

191 O. Reboul, “La filosofia dell’educazione”, in G. Mialaret (a cura di), Introduzione alle scienze dell’educazione, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 41-42

192 Ibid.

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educare? Perché istituire scuola e università quali luoghi dell’esperienza educativa?

Perché questa specifica (ri)forma delle istituzioni educative? Platone, Aristotele,

Agostino e Tommaso, come Comenio, Locke, Herbart, Kant e Rousseau, fino a Dewey e

Gentile193 - filosofi che trovano un posto privilegiato nella storia della pedagogia - sono

tra i pensatori che hanno posto l’educazione al centro della propria filosofia politica e

sociale, esplorando la struttura e il senso delle pratiche educative del loro tempo,

indagandone identità e funzione, forma attuale e possibile. Quale rapporto tra

educazione e società? Quale soggetto per quale società? Nel pensiero kantiano, i

fanciulli non devono «essere educati conformemente allo stato presente della specie

umana, ma per uno stato migliore possibile nell’avvenire»194. Tuttavia, osserva Kant, «i

genitori, in generale, tendono spesso ad educare i loro figli solo affinché si trovino

bene nel loro tempo, sia pure questo un tempo corrotto»195. Inserendosi in una

tradizione di pensiero che riconosce all’educazione un valore intrinseco e una valenza

trascenditiva, il filosofo tedesco assume come ispiratrice “la legge preferenziale del

meglio”196 e avverte il pericolo di una strumentalizzazione delle pratiche educative,

ridotte ad addestramento professionale (maggiore occupazione!) o indottrinamento

politico (coesione e benessere dello stato!). Questo atteggiamento di sospetto -

principio animatore di ogni pensiero critico - è assunto con maestria da Nietzsche,

autore di una vera e propria critica delle istituzioni, educative e non, del suo tempo197.

L’accusa principale che il filosofo col martello muove agli istituti formativi suoi

contemporanei è quella di aver «smarrito l’essenziale: sia il fine che il mezzo per

attuarlo. Si è scordato che l’educazione, la formazione (Bildung), è fine a se stessa - il

fine non è il “Reich”»198. Nel lavoro di Nietzsche, l’attività filosofica impiega con

massimo profitto la sua vocazione critica: analizza le pratiche educative dominanti, ne

individua le assunzioni implicite, i meccanismi e gli effetti sul soggetto. Alla radice di

ogni pratica e istituzione educativa, osserva Mantegazza, si può riconoscere una

193 Allargando l’orizzonte geografico della riflessione sull’educazione dovremmo citare pensatori non occidentali, come Confucio e Lao-Tsu.

194 I. Kant, L’arte di educare, Op. cit., pp.95-96

195 Ibid.

196 R. Resta, citato da Marcello Peretti, in “La filosofia dell’educazione oggi”, Scuola e città, Op.cit., p. 5

197 Si veda anche F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, Op. cit.

198 F. Nietzsche, Frammenti pedagogici, (a cura di) G. Waller, Torino, il Segnalibro, 1996, p. 147. Il frammento originario è in Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, Milano, Adelphi, 2010.

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“filosofia implicita”, la quale comprende una specifica visione antropologica e

antropogenetica:

una determinata concezione dell’uomo e della sua storia, ma anche una teoria implicita o esplicita della possibilità di modificare, strutturare, costruire l’essere umano, di agire sulle strutture del suo essere.199

Quale tipo umano si intende educare? Qual è il bene verso cui la pratica educativa si

orienta? Quale modello di società è favorito? Tentando di rispondere a queste

domande, la riflessione critica porta in luce le premesse “filosofiche” della pratica

educativa, gli assunti impliciti e gli impensati metafisici dei modelli educativi

dominanti. Mettendo in discussione le istituzioni “educative” del suo tempo, Nietzsche

ne rende visibile la razionalità sottostante e i processi di soggettivazione: esse,

denuncia il pensatore tedesco, sono impegnate a dare forma ad un uomo all’altezza

del presente200, istruito per adattarsi alla società attuale, in modo funzionale ed

efficiente. Un uomo così formato, scrive Nietzsche, è un uomo “corrente”, «nel senso

in cui si dice “corrente” una moneta»201. Lo slogan «sapere e cultura nella massima

quantità possibile - produzione e bisogni nella massima quantità possibile - felicità

nella massima quantità possibile»202 è il ritornello delle scuole che si vogliono

moderne: esse dimenticano che le opere della cultura sono nutrimento per la libertà

dello spirito, esaltandone solamente il valore di scambio, la capacità di generare

guadagno203.

Filosofia dell’educazione continentale e anglosassone

Dal XVI secolo fino alla prima metà del Novecento, nell’Europa continentale la

riflessione filosofica sull’educazione ha assunto un carattere rigoroso e sistematico,

identificandosi, in paesi come Germania e Italia, con la parte più formale della

pedagogia generale: indagine sui fini e sui mezzi dell’educazione, contributo alla loro

distinzione e alla loro elaborazione razionale, analisi delle strutture ricorrenti e

oppositive del pensare-agire pedagogico (tra cui le antinomie libertà/autorità,

199 R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 36

200 F. Nietzsche, Frammenti pedagogici, Op. cit., p.7

201 Ibid.

202 Ibid.

203 Ibid.

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società/persona, cultura/natura, tradizione/rottura204). Nel panorama italiano, così

come in quello internazionale, il discorso sull’educazione è stato caratterizzato dal

confronto tra diversi paradigmi di riferimento: paradigmi animati da posizioni

filosofiche concorrenti, spesso antagoniste nei presupposti valoriali e nelle premesse

metafisico-teoriche. Tra le correnti più influenti, Cambi ricorda l’idealismo gentiliano, il

positivismo pedagogico, il neotomismo maritainiano, lo storicismo marxista

gramsciano: sono questi i paradigmi filosofici che hanno ispirato la discussione

pedagogica fino al secondo dopoguerra205. Nel Regno Unito, invece, una riflessione

filosofica disciplinata sull’educazione nasce solamente più tardi, durante il XX secolo,

all’interno del movimento di filosofia analitica britannica e sotto l’influenza della scuola

di Oxford206. Importando il rigore e la supposta neutralità dell’analisi logica e

linguistica, i filosofi analitici dell’educazione hanno favorito un'opera di

razionalizzazione sistematica e coerente delle credenze e delle pratiche educative,

rifiutando ogni discorso metafisico: al centro dell’indagine analitica sono gli scopi e le

strutture logiche dei processi educativi e i caratteri di giustificazione degli ideali

educativi correnti. Nel ricostruire le origini storiche della “philosophy of education” di

tradizione anglofona, Nigel Blake esplicita così i caratteri sopra accennati:

philosophy of education trained in this somewhat austere and uncompromising style learned to identify and expose fallacies in reasoning, to do battle against fundamental errors such as ethical relativism and the epistemological reductivism inspired by work in the sociology of education207.

Philosophy of education came to be seen not as ideologically fundamental to education but rather as epistemologically fundational: as the judge of matters of value and meaning, and the arbiter of appropriate theory for explaining human behavior in the educational sphere.208

È solamente durante gli anni Sessanta e Settanta che, nel mondo anglofono, la filosofia

dell’educazione si afferma come ambito di ricerca riconoscibile e distinto, come campo

di studi autonomo e autocritico. Nascono riviste specialistiche209 e sono pubblicate una

pluralità di opere seminali: The Launguage of Education (1960) di I. Scheffler negli USA,

204 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 85

205 Ibid.

206 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., pp.76-79. Per un riferimento più ampio si rimanda a N. Blake et al. (a cura di), The Blackwell Guide to the Philosophy of Education, Op.cit.

207 Ivi., p.2

208 Ivi., p.3

209 Come Studies in Philosophy and Education fondata nel 1960, Journal of Philosophy of Education fondata nel 1967 e Education Philosophy and Theory nel 1969.

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Ethics and Education (1966) e Philosophy of Education (1973) di R. S. Peters, Education

and the development of Reason (1972) di R.F. Dearden, P.H. Hirst e R.S. Peters in Gran

Bretagna. Grazie ad un’ampia risonanza nel dibattito pubblico, le posizioni di questi

autori contribuirono a creare una costellazione paradigmatica di interessi e argomenti

condivisi: il recupero dell’universalismo kantiano, il riconoscimento dell’educazione

come bene in sé e l’autonomia dell’individuo quale scopo principale dell’educazione, il

tutto all’interno di una cornice liberal-democratica. Negli stessi anni, nei paesi

dell’Europa continentale, il ruolo della filosofia nella ricerca sull’educazione è messo

radicalmente in discussione: la riflessione filosofica perde la propria centralità e la

legittimità di offrirsi come modello di teorizzazione dell’educazione, assumendo una

funzione trasversale ai diversi saperi pedagogici e svolgendo un compito

prevalentemente critico e regolativo210. Tra i fattori che hanno influenzato questo

slittamento, scrive Cambi, possiamo indicarne due: la crescita esponenziale delle

scienze dell’educazione e le trasformazioni interne alla stessa riflessione filosofica.

Vediamoli entrambi.

Nella seconda metà del XIX secolo, saperi come psicologia, biologia, sociologia e

linguistica hanno acquisito una rilevanza sempre maggiore nella discussione

pedagogica, offrendosi come «scienze ausiliari» e come «fonti» di una riflessione

sull’educazione, accusando la tradizione filosofica di astrattezza, teoreticismo, anti-

scientificità, ideologia. Dinnanzi all’affermarsi di queste scienze, capaci di presentarsi

come unici saperi in grado di illuminare i problemi concreti, pratici, empirici

dell’educazione, la natura e il ruolo di una disciplina come la filosofia dell’educazione

sono stati oggetto di ampie e continue discussioni, costituendo una parte rilevante nel

dibattito sull’autonomia della pedagogia. Quale rapporto tra filosofia, pedagogia e

scienze dell’educazione? Quale spazio per la filosofia dell’educazione come disciplina?

Pur nel’impossibilità di ricostruire l’intero dibattito in questa sede211, riteniamo

210 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., pp. 8-11

211 Le diverse posizioni si orientavano prevalentemente all’interno di tre grandi prospettive: quella empirista, quella umanistica e quella materialista. Per uno schema di ragionamento riassuntivo delle posizioni attorno al problema dello statuto della filosofia dell’educazione, delle scienze dell’educazione e della pedagogia si rimanda a R. Massa e P. Bertolini, “Il dibattito epistemologico sulla pedagogia e sulle scienze dell’educazione”, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. IX, Garzanti, Milano, 1997, pp. 337-338. Per una sintesi delle questioni e delle posizioni in difesa della riflessione filosofica e teoretica in ambito pedagogico si rimanda a G.M. Bertin (a cura di), “La filosofia dell’educazione, oggi”, Scuola e città, 1-2, 1976, pp. 2-88

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importante indicare alcuni “complessi” e “pregiudizi” che, secondo l'analisi di Riccardo

Massa, hanno condizionato la discussione italiana e le sorti nazionali di una disciplina

come la filosofia dell’educazione. Questi sono: il complesso “scientista” con correlativo

pregiudizio antifilosofico, frutto dello sforzo della pedagogia di emanciparsi

dall’idealismo e da una tradizione spiritualeggiante; il complesso del “praticismo”, con

il suo intrinseco pregiudizio antiteorico; il complesso “moralista”, che vede nella

pedagogia una disciplina di genere etico-filosofico, con pregiudizio antiscientifico; e il

complesso “storicista”, con pregiudizio antipsicologico e antipsicanalitico212.

Squalifica positivistica e contromoralistica [...] della pedagogia come disciplina prescientifica, identificazione eticizzante di educazione, filosofia e pedagogia su base pragmatista, idealista o spiritualista, e quindi della filosofia dell’educazione con l’intera filosofia o l’intera pedagogia. Ecco i due peccati di origine che ancora occhieggiano, sia pure in modo latente e trasfigurato, dietro tutti i “complessi” e i

pregiudizi citati213

.

Sono questi ultimi, scrive Massa, a rendere così difficile “nominare” adeguatamente la

filosofia dell’educazione «come disciplina pedagogica e filosofica a un tempo, non

confusa con la pedagogia generale e ben distinta dall’espistemologia pedagogica e da

una scienza pedagogica di tipo clinico»214.

D’altra parte, se la tradizionale riflessione filosofica sull’educazione presenta i

caratteri sistematici e normativi di un pensiero metafisico-deontologico, durante il XX

secolo la ricerca pedagogica continentale ha incontrato le correnti fenomenologiche,

ermeneutiche, neomarxiste e post-strutturaliste della filosofia contemporanea,

smarcandosi da un pensiero metafisico totalizzante e mettendo in discussione le

premesse implicite della razionalità moderna215. A partire dagli anni Ottanta, e in modo

sempre più insistente negli anni Novanta, queste correnti arrivano ad influenzare i

filosofi dell'educazione di lingua inglese, alimentando una critica nei confronti

dell’approccio analitico, della supposta neutralità formale del liberalismo e

dell’universalismo etico. Wittgenstein, Husserl, Heidegger, Gadamer, Levinas, Adorno e

Horkheimer, Foucault e Derrida sono solo alcuni dei pensatori che hanno

212 R. Massa, in R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Mondadori, 1998, pp. 7-11

213 Ivi., p. 11

214 Ibid.

215 Ivi., pp. 30-35. Accanto ai tradizionali paradigmi filosofici di stampo empiristico, positivistico, pragmatistico, razionalistico, idealistico-spiritualistico e storico-materialistico, Mantegazza descrive l’affermarsi nella ricerca educativa dello sguardo filosofico freudiano, fenomenologico, ermeneutico, strutturalistico, della complessità e della differenza.

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maggiormente influenzato il modo di intendere l’educazione nell’ambito anglosassone,

offrendo una nuova concettualizzazione del linguaggio, dell’esperienza e del

soggetto216. Valorizzando l’analisi del discorso e del linguaggio ordinario, del negativo e

della differenza, negli ultimi decenni del Novecento la filosofia dell’educazione

continentale e quella di area anglosassone hanno assistito allo sviluppo di uno stile di

indagine filosofica composito, intrecciando opere di carattere analitico, interpretativo

e critico-regolativo217. Queste indagini investono, da un lato, il sapere pedagogico

stesso, attivando ora una chiarificazione concettuale e linguistica, ora una riflessione

epistemologica, axiologica, ontologica e, dall’altro, la discussione attorno ai grandi

problemi aperti dell’educazione, «attivando un modello saggistico di discorso che

risulta caratterizzato dall’argomentazione critica»218. Dopo una breve ricostruzione

storica delle sue origini e del suo sviluppo, vogliamo provare ora ad esplicitare

l’attualità di questa disciplina, così da chiarire il senso con cui la si intende convocare,

quale ambito di studi in cui andiamo a collocarci.

La doppia cittadinanza della filosofia dell’educazione

Che cos’è la “filosofia dell’educazione” oggi? La filosofia dell’educazione è qui intesa

come una disciplina tout court filosofica, un campo di studi, scrive Conte, che «tratta

con modalità filosofiche questioni filosofiche sorte in ambito non filosofico (nel nostro

caso, pedagogico)»219. Una posizione, quella di Conte, che trova sostegno a livello

internazionale, come confermano le parole di Blake, Smeyers, Smith e Standish:

If enquiry into educational practices is followed through, questions are raised of the most deep kind, and these touch on all the major area of philosophy (epistemology, ethics, metaphysics, politics, aesthetics, and so on, as well as philosophy of science, of history, etc.)220.

Come specifica Anna Kaiser, l’approccio euristico della filosofia dell'educazione

appartiene all'ambito teoretico-speculativo221:

216 N. Blake et al. (a cura di), The Blackwell Guide to the Philosophy of Education, Op.cit., pp.13-15

217 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., pp. 89-90

218 Ivi., p. 59-62. Sul saggio come forma per lo sviluppo del pensiero torneremo con alcuni riferimenti ad T. W. Adorno e M. Foucault.

219 M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., p. 11

220 N. Blake, P. Smeyers, R. Smith, P. Standish (eds.), The Blackwell Guide to the Philosophy of Education, Op. cit., p.15

221 Pur riconoscendo alla filosofia dell’educazione un incedere filosofico, la studiosa genovese insiste nell’attribuire alla disciplina una determinazione scientifica che – assumendo la riflessione epistemologica post-popperiana - non sentiamo di condividere («Proprio perchè possiede una propria

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la filosofia dell’educazione si propone non di risolvere i problemi, bensì di rintracciarli, di studiarli, analizzarli, argomentarli, interpretarli, senza anticiparne soluzioni definite per dissolverli o semmai accennandone tante possibili e differenti. Il suo è un pensiero riflessivo e speculativo222.

La filosofia specula, ragiona, riflette, produce idee, pensa, contempla, problematizza, procede erotematicamente, pone dubbi e non cerca né propone certezze, è dialettica e mai assoluta nei suoi tentativi di risposta alle domande anche apicali e radicali che fa germogliare. Sono queste le modalità di conoscenza che appartengono alla filosofia e possono essere forse sintetizzate in un unico termine: teoresi223.

Nel fare questo, chiarisce Massa, la filosofia dell’educazione non si riduce a dottrina

filosofica o teoria educativa, ma nemmeno ad analisi linguistica delle proposizione

pedagogiche, come una certa accezione anglosassone della “philosophy of education”

suggerirebbe. La filosofia dell’educazione è una «disciplina capace di attestare la

propria specificità tanto nell’ambito della ricerca filosofica, quanto di quella

pedagogica»224: senza essere sovrapposta né alla totalità della filosofia né alla

pedagogia generale, essa contribuisce all’arricchimento teorico di entrambi gli ambiti

di studio. Pur collocandosi nei settori scientifico-disciplinari di area pedagogica, la

filosofia dell’educazione – suggerisce Conte - dovrebbe godere di «doppia

cittadinanza»: l’ambito di studi pedagogici è suo destinatario e fonte di materia

speculativa225, quello filosofico è l'ambito da cui trae linguaggio e strumenti di analisi,

nonché un ambito di studi a cui ricordare l’antica vocazione pedagogica226.

Ciò che è specifico della filosofia dell'educazione, aggiunge Mariani, non è la

costruzione di un corpus di conoscenze stabili, ma il suo essere «un interrogativo, una

discussione critica dell'educazione»227, nel suo significato esistenziale e nelle modalità

logica e un proprio linguaggio, accanto a uno specifico oggetto di studio, la filosofia dell’educazione è riuscita a fondarsi come scienza autonoma, con statuto epistemologico svincolato da quelli filosofici e pedagogici», A. Kaiser, La filosofia dell’educazione (im Grundriẞ), Op. cit. P. 30). Per un approfondimento argomentativo e una precisazione del rapporto tra filosofia e scienza nell’ambito della filosofia dell’educazione si rimanda a M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., pp. 25-30.

222 Ivi., p. 68

223 A. Kaiser, Filosofia dell’educazione (im Grundriẞ), Op. cit., p. 28

224 Ivi., p. 12

225 Riflettendo sul rapporto tra filosofia dell'educazione e pedagogia generale, Mariani ne descrive il ruolo fondamentale: quello di «comprenderla en profondeur, nel suo linguaggio epistemologico, nelle sue strutture di rigore, nelle sue scelte di senso, nei suoi dispositivi discorsivi interni», in A. Mariani, Elementi di filosofia dell'educazione, Op. cit., 14

226 M. Conte, La forma possibile. Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 13

227 A. Mariani, Elementi di filosofia dell'educazione, Op. cit., p. 49

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intenzionali e storiche del suo realizzarsi228. Una descrizione condivisa da Mauro Laeng,

secondo il quale

la filosofia dell’educazione oggi, più che un corpus di conoscenze è un modo di porsi di fronte a tutte le conoscenze: da un lato quindi come forma generale del “rendersi conto”, e da un altro come trascendimento di tutte le forme particolari del conoscere229.

Nello studio dell’educazione, precisa Cambi, la filosofia dell’educazione si imbatte in

problemi «ricorrenti» o «emergenti», questioni strutturali o contingenti:

i problemi ricorrenti sono presenti sempre in pedagogia, sono di base e devono esser sottoposti a libera discussione, a costante ridefinizione, mentre quelli emergenti sono i temi-problemi che proprio il presente impone alla riflessione pedagogica, richiedendo da questo sapere una presa di posizione critico-riflessiva230.

Le molteplici questioni che gravitano nell'orbita della riflessione filosofico-educativa

possono essere “accorpate” a seconda degli aspetti che maggiormente li

caratterizzano: sono questioni antropologiche-assiologiche, epistemologiche o socio-

politiche. Nell’interpretarle, la filosofia dell’educazione si nutre di modelli filosofici

differenti, tra i quali troviamo la filosofia analitica del linguaggio, il razionalismo critico,

la dialettica, la fenomenologia, l’ermeneutica, la decostruzione, per citarne solo alcuni.

Tra questi corre un rapporto di confronto intenso, che può sfociare in situazioni di

conflitto o di ibridazione produttiva, dando luogo ad un intensa dialettica tra i

modelli231. Con la denominazione “filosofia dell’educazione” si intende quindi un

ambito di studi e di ricerche in cui convergono, in modo aperto e non sistematico,

contributi alla chiarificazione della realtà educativa e dei saperi sull’educazione che

provengono da settori diversi della ricerca filosofica.

Tra le questioni che la filosofia dell’educazione si trova ad affrontare, la prima è

di carattere fondativo-ontologico: essa deve pensare l’educazione nei suoi caratteri

costitutivi fondamentali, contribuendo all’«edificazione teoretica dei concetti generali

dell’agire educativo e del discorso pedagogico»232, per sottrarre il termine

“educazione” agli usi e agli abusi del senso comune e della chiacchiera generalizzata

228 Ivi., p. 66

229 M. Laeng, in “La filosofia dell’educazione oggi”, Scuola e città, Op.cit., p. 46

230 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., pp. VII-VIII, corsivo in originale

231 A. Mariani, Elementi di filosofia dell'educazione, Op. cit., p. 23

232 M. Conte, La forma impossibile

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(cosa intendono con educazione gli “esperti” del dibattito pubblico e dei social

network?).

Senza un chiaro eppur problematico e critico concetto di “educazione” e anche di “formazione umana” non è formulabile un ragionamento *...+ su alcun processo educativo e/o formativo 233.

Se la «domanda prima»234 a cui la filosofia dell’educazione deve rispondere è «che

cos’è l’educazione?», la questione seconda crediamo debba essere la seguente: «quale

uomo per quale società prende forma attraverso queste azioni educative ordinate (o

disordinate) a sistema?»235. Al centro dell’interesse della filosofia dell’educazione,

specifica Mantegazza, sono «i processi che presiedono l’antropogenesi, le strategie che

permettono la soggettivazione»236.

È questa teoria della modificabilità umana, sono le possibilità, i limiti, le strutture, i codici, gli alfabeti, gli spazi, i tempi, i miti, i rituali di questa antropogenesi a costituire il campo della filosofia dell’educazione237.

Quali sono gli effetti antropogenetici delle pratiche educative dominanti? Quale

soggettività è favorita dall’ordine sociale in cui le azioni educative hanno luogo? Qual è

il rapporto tra la forma di vita condizionata dall’ordine sociale dominante e quella

proposta e plasmata dalle istituzioni educative? Nel porre queste domande, suggerisce

Conte, la riflessione antropologica deve accompagnarsi ad una teoria critica della

società238, sviluppando una “critica della razionalità pratico-educativa” che vesta le

forme di un’«antropocritica», per usare un neologismo introdotto da Cristian

Simoni239.

Nella formulazione di Cambi, la filosofia dell'educazione è presentata quale

«sigillo critico» del sapere-agire pedagogico: essa deve sviluppare una diffidenza nei

confronti di un pensiero sistematico e aprioristico sull’educazione, tanto quanto un

atteggiamento di sospetto nei confronti di quella che è a tutti gli effetti «una filosofia

applicata», incarnata nei rapporti sociali e fornita di «braccio secolare», di un apparato

tecnologico-discorsivo. Questo accade, avverte Cambi,

233 A. Kaiser, La filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 36

234 M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., p. 18

235 Ibid.

236 R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 37

237 Ibid.

238 M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., p. 19

239 C. Simoni, “L’azione educativa: come la si può pensare e cosa significa agire educativamente”, in M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., pp. 153-185

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ai tecnologi puri della pedagogia, che tra intelligenza artificiale, protesi meccaniche, avvento della cultura multimediale e comunicazione informale mostrano in atto un nuovo Sistema, univoco e vincolante, che ci governa e non ci può non governare, divenendo un po’ il Dogma (cognitivo e sociale, etc.) del Presente. Anzi di un Presente che si è già riassorbito anche il Futuro240.

Per la stessa filosofia dell’educazione, avverte Granese, è costante il rischio di subire

una deviazione ideologica:

di essere cioè “utilizzata” per la giustificazione a posteriori di fatti storicamente compiuti, o delle tendenze sociali prevalenti, e chiamata a fornire una parvenza di razionalità speculativa (e di oggettività scientifica) alle scelte pratiche di gruppi egemoni241.

Ad esempio, attribuendo «il carattere di valori universali e perenni ai principi che

presiedono alle forme di comportamento pratico-sociale funzionali al loro

rafforzamento».242

Alla filosofia dell’educazione si attribuisce, allora, un compito critico che assume

una connotazione morale e politica: il filosofo dell’educazione scuote il conformismo e

l’indifferenza degli educatori, mantenendo viva la tensione morale che è propria di

ogni azione educativa (che posizione prendere rispetto al proprio tempo?). Al tempo

stesso analizza gli effetti di potere delle pratiche e dei discorsi educativi, ponendoli in

relazione alla più ampia costellazione dei fattori socio-economici. A questo riguardo è

significativa la posizione di John Dewey, qui convocata attraverso la mediazione di

Lamberto Borghi. Il primo compito che Dewey attribuisce alla filosofia dell’educazione

è proprio l’«analisi delle istituzioni e delle strutture sociali che condizionano l’opera

dell’educazione»243. Ponendosi a monte dell’attività educativa nella sua pratica

concreta, precisa Borghi, la filosofia dell’educazione può determinare la natura

dell’assetto sociale esistente, riconoscendone gli effetti formativi e quelli deformanti:

la filosofia dell’educazione è nell’epoca presente lo strumento necessario all’identificazione della natura reale della prassi scolastica e più largamente educativa ad opera della società sociale esistente. [...] Al pari di ogni atto genuino di pensiero, essa si origina nel dubbio, pone in questione l’esistente, non acquiesce al fatto, ma ne illumina le contraddizioni, le aporie, gli ostacoli, le

stasi.244

240 R. Massa, in R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 12

241 A. Granese, in “La filosofia dell’educazione oggi”, Scuola e città, Op.cit., p. 40

242 Ibid.

243 J. Dewey e J. L. Childs, “The social-economic situation and education”, in William H. Kilpatrick (a cura di), The Educational Frontier, New York, D. Appleton-Century Co., 1933, pp. 37-38

244 L. Borghi, in “La filosofia dell’educazione oggi”, Scuola e città, Op.cit., p. 28

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Attraverso l’attività teoretica, la filosofia dell’educazione consente «di “trascendere” la

situazione esistente, l’immediatezza del mondo che l’esperienza ci pone davanti»245.

Solo così, scrive Dewey, sarà possibile «produrre o una resistenza coraggiosa, una

critica discriminante, oppure la capacità di vedere e volere le forze economiche

indirizzate per nuove vie»246.

2.2 Le istituzioni giudicate

Tra le questioni ricorrenti e strutturali della filosofia dell’educazione troviamo, quindi,

la critica «delle istituzioni educative, del loro ruolo, della loro forma, come pure della

loro storia»247. A tal proposito, Cambi indica all’interno della filosofia dell’educazione

una tradizione dedicata alle “istituzioni giudicate”: dal momento in cui «l’educazione

esce dalla diffusa vita sociale e si concentra in luoghi e forme ad hoc, *…+ dal momento

in cui si organizza, prende una forma precisa e esercita una funzione specifica» 248 la

voce dei filosofi «si leverà a criticarla, a giudicarla, a rinnovarla»249. Ciò avvenne con

Platone, con Aristotele, con i filosofi dell’età ellenistica, e proseguì poi con

Sant’Agostino, Cartesio, Diderot, Kant, Rousseau, Rosmini, Hegel, Nietzsche, fino ad

esplodere nel 1968, contagiando il mondo extra-filosofico. Tra filosofia dell’educazione

e istituzioni educative vi è dunque un rapporto di tensione costante: lo sguardo

245 Ivi., p. 29

246 J. Dewey, Individualismo vecchio e nuovo, Firenze, La nuova Italia, 1948, p. 106. Di questo compito urgente, crediamo, la filosofia dell’educazione di Dewey non è riuscita a farsi carico. Borghi indica tre dei maggiori interrogativi che il pensiero di Dewey può suscitare in relazione all’elaborazione di una filosofia dell’educazione: l’immediatezza dell’esperienza, in cui si nasconde il pericolo dell’adattamento allo status quo (Santayana e Horkheimer); l’assenza di una indicazione per disancorare la società e l’educazione dal peso degli interessi creati e dei bisogni indotti (Scuola di Francoforte); l’elaborazione insufficiente di una teoria della personalità (Allport e Kallen). Per quanto su alcuni aspetti il pensiero di Dewey sia molto vicino a quello del giovane Marx, egli se ne distacca completamene sotto l’influenza delle teorie darwiniane: il pensiero sviluppato da Dewey interpreta in senso evoluzionistico l’andamento della realtà. Citando uno studio di Dal Pra, Borghi osserva come in Dewey prevalga un «attaccamento ad una continuità più stabile e naturale..., una maggiore fiducia nell’immancabile progresso». La linea di pensiero deweyana sostiene il tentativo di assicurare la crescita della società, rimuovendo la possibilità di mutarla radicalmente, invertendone il corso o rinnovandola alle basi. Una posizione che, secondo Borghi, deriva dalla non compiuta analisi del dominio economico e di quello politico-sociale: «Dewey non vede, come invece aveva veduto Marx, che la società era entrata in una crisi totale, che coinvolgeva la sua intera esistenza, insieme coll’esistenza dell’individuo, e che un eventuale progresso storico non poteva compiersi per vie evolutive, ma mediante la negazione totale dell’esistente». L. Borghi, in “La filosofia dell’educazione oggi”, Scuola e città, Op.cit., p. p. 33

247 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 109

248 Ivi., pp. 109-110

249 Ibid.

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filosofico cerca di leggere en profondeur l’istituzione, per mostrarne i congegni

complessivi, l’ideologia latente, le condizioni di possibilità. Come scrive Cambi,

giudicare le istituzioni è, per la filosofia dell’educazione, sottoporle a una analisi critica capace di mostrare la struttura e il senso attuale, ma anche quello possibile, venendo così a sfidare le istituzioni stesse, a stimolarne un ripensamento, a riqualificarne l’identità e la funzione. Si tratta di una critica che parte sì da un disagio o da un dissenso, ma lo fa maturare intellettualmente, producendo sia una disamina attenta e critica delle istituzioni esistenti sa lo loro

riprogettazione secondo altre forme possibili. 250

Una stagione particolarmente proficua per lo studio critico delle istituzioni si è

sviluppata tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, quando le correnti dello

strutturalismo, della psicoanalisi, della sociologia critica, dell'ermeneutica e del

decostruzionismo hanno ispirato un radicale processo di demistificazione del discorso

pedagogico contemporaneo251.

In questo clima di revisione radicale dei processi educativi, delle pratiche didattiche e dell'indagine teorica, la pedagogia è stata “smontata” nei suoi condizionamenti, nei suoi interessi e nelle sue forme egemoniche252.

Progressivamente, sia nel mondo laico sia in quello cattolico, in Italia così come in

Francia, in Germania, negli USA e nel Regno Unito, è emerso un movimento critico-

radicale di rinnovamento del pensiero e delle pratiche educative, sostenuto da

posizioni differenti ma sintetizzabili nello stemma comune della “pedagogia critica”253.

Seguendo l'analisi di Mariani, questa espressione indica un

paradigma in cui riflessioni, dibattiti, posizioni e modelli hanno delineato un vero e proprio itinerario teorico-metodologico – seppur articolato, difforme, poliedrico, tensionale – che ha decostruito gli aspetti fondamentali del pedagogico e dell'educativo fino a ripensarli iuxta propria principia, ovvero presidiando criticamente l'anthropos e i suoi significati254.

Questo fronte critico, che ha assunto la sua forma più esplicita e consapevole dopo i

movimenti di contestazione del “Sessantotto”, è cresciuto nello spazio già avviato da

modelli di riflessione precedenti, tra cui spicca l’opera di Karl Marx e dei suoi numerosi

250 Ivi., p. 111

251 Tra i testi ispiratori di questo processo vogliamo ricordare i seguenti saggi: Ideologia e apparati ideologici di stato di Louis Althusser (1970), La riproduzione. Elementi per una teoria del sistema scolastico di Bourdieu e Passeron (1970), il celebre Descolarizzare la società di Ivan Illich (1971) e La pedagogia degli oppressi di Paolo Freire (1970).

252 A. Mariani, Elementi di filosofia dell'educazione, Op. cit., p. 30

253 Ivi., pp. 29-30

254 Ivi., pp. 30-31

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interpreti, in primis, in Italia, Antonio Banfi e Antonio Gramsci255. All'interno di questa

prospettiva critica la postura filosofica ritrova vigore, acquistando nuova legittimità

nell'ambito della ricerca pedagogica. La filosofia dell'educazione può liberare il sapere

pedagogico e le istituzioni educative

da condizionamenti inconsci, da prerequisiti taciuti, da infrastrutture nascoste, rendendo tutto più esplicito, criticabile, sottoposto al libero esame della ragione e dell'interpretazione256.

La riflessione filosofica, infatti, deve sostenere «uno studio incessante e razionale,

libero e antidogmatico, sulle istituzioni educative e sulla “formalizzazione” della loro

azione»257, riconoscendo i «rischi di dogmatismo, di riduzionismo, di espropriazione, di

imperialismo ab extra»258 che gravano sul modo comune di intendere e praticare

l'educazione.

Uno dei nuclei di lavoro al centro di questa tradizione critica è certamente quello

dedicato al rapporto tra educazione e potere, che nella tradizione marxiana si declina

nello smascheramento del portato ideologico delle istituzioni educative259. È questo

l’ambito di indagine che vogliamo recuperare, provando a risignificarlo: quali sono gli

strumenti più adatti a comprendere le dinamiche di potere che attraversano le

istituzioni educative nella società tardo-capitalistica? È ancora valida la tradizionale

critica dell’ideologia? Sono ancora rilevanti le istanze sessantottine? L’antidogmatismo,

l’emancipazione da pratiche repressive, la valorizzazione del protagonismo giovanile,

l’autogestione e l’autonomia, l’apertura a una dimensione mondialista con ambizioni

interculturali, l’educazione permanente, l’innovazione creativa... istanze un tempo

corrosive e radicali, sono diventate, a partire dagli anni Novanta, una parte integrante

del discorso pedagogico dominante e una componente irrinunciabile dell’agenda

politica della società liberal-democratica. Assunte all’interno dell’ordine che

intendevano mettere in questione, queste istanze ci sembrano depotenziate nella

propria capacità critica: una volta integrate, sono state addomesticate. Incapaci di

255 Ivi., p. 67

256 Ivi., p. 97

257 Ivi., p. 75

258 Ivi., p. 68

259 La funzione anti-ideologica e antidogmatica della filosofia dell’educazione, riassume Giovanni Maria Bertin, è riconosciuta da Bertolini, Cives, Corallo e Granese. Per un maggior approfondimento si rimanda a L. Borghi, in “La filosofia dell’educazione oggi”, Scuola e città, Op.cit., p. 34

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sospettare del contesto più ampio in cui le pratiche educative sono inserite260, di

contestarne la supposta bontà e necessità, esse contribuiscono a rafforzarlo e a

renderlo più efficiente. Come denunciano Nigel Blake e Jan Masschelein,

ironically, the new vocationalist managerialism of the 1990s has suborned many of these educational developments for instrumental purposes functional for globalized capitalism261.

Il portato critico del “marxismo libertario” del Sessantotto ci appare allora diminuito,

quasi neutralizzato e strumentalizzato dalla società capitalista del nostro tempo. Allo

stesso modo, come abbiamo cercato di mostrare nella prima sezione di questo

capitolo, anche il «discorso sull’ideologia è stato reimpostato e in un certo senso

rivoluzionato in coerenza con le mutate condizioni socio-economiche proprie del

capitalismo avanzato»262. Ecco allora che una domanda si pone come inevitabile:

How to conceive of the task of critical educational theory at the time in which critique, autonomy and self-determination have become an essential modus operandi of the existing order?263

Nel tentativo di avanzare un’analisi critica della forma istituzionale che la scuola

assume nel tempo del nostro presente (e della forma che noi assumiamo con essa),

crediamo sia necessario individuare nuovi strumenti analitici, capaci di rinnovare

l’armamentario critico con cui attrezzare lo sguardo sul presente. Come scrive Cambi,

«il giudizio (critico) sulle istituzioni non può che nutrirsi – e quanto più può – di ottiche

filosofiche, di approcci che dalle filosofie traggono i propri alimenti» 264. È con questo

interesse che intendiamo convocare e far dialogare due tradizioni filosofiche di

riferimento: la teoria critica francofortese e il post-strutturalismo, correnti che più di

altre hanno contribuito a una reinterpretazione critica del pensiero di Marx265,

260 N. Blake e J. Masschelein, in N. Blake et Al., The Blackwell Guide to Philosophy of Education, Op. cit., p. 41

261 Ivi., p. 52. Sull’utilizzo della critica artistica e delle istanze del ’68 entro lo spirito del tardo-capitalismo si veda E. Chiapello e L. Boltanski, Il nuovo spirito del capitalismo, Milano-Udine, Mimesis, 2015

262 R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Op. cit., p. . 157

263 J. Masschelein, “How to conceive of Critical Educational Theory Today?”, Journal of Philosophy of Education, Vol. 38, No. 3, 2004, pp. 351-367, p. 351

264 F. Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 113

265 Se il rapporto tra il pensiero di Marx e la Scuola di Francoforte è noto ed esplicito, quello tra la tradizione marxiana e gli autori post-strutturalisti è stato a lungo sottovalutato, con eccezione dell’attenzione riservata agli studi di Louis Althusser. Un confronto originale con il pensiero di Marx è operato da Bataille e Blanchot, i quali tentarono di aggiornare la linea “rivoluzione e letteratura” che fu parola d’ordine di Breton. Attraverso la lettura del Bataille del dopoguerra, precisa Manlio Iofrida, «Althusser, Foucault, Deleuze, Derrida, saranno i veri figli di Breton» (M. Iofrida, in S. Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo, Vol II Comunismi e teorie critiche nel secondo Novecento, Roma, Carocci

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tenendo in considerazione le dinamiche di mutamento del sistema economico

capitalistico266 e delle forme che il potere oggi presenta (superando i modelli politici

tradizionali). Nello spazio che questo lavoro ci concede, andremo a recuperare,

attraverso un’incursione mirata, gli elementi per noi più significativi di questi due

approcci, attraversando le opere di quanti, prima di noi, hanno provato a rispondere

alle nostre stesse domande, alla ricerca di nuovi metodi e categorie di indagine. Nella

produzione di Adorno e Foucault, in modo particolare, crediamo sia possibile rinvenire

degli strumenti teorici da impiegare con vantaggio nel tempo presente, nell’ambito di

una filosofia politica dell’educazione, un’indagine filosofica attenta al rapporto tra le

pratiche educative istituite, la società e i processi di soggettivazione, analizzando gli

effetti di potere che le istituzioni esercitano sui singoli e sulla forma di vita comune.

2.2.1 Marxismo critico e Teoria della Halbbildung

Secondo una certa interpretazione del marxismo, le pratiche educative possono dirsi

ideologiche nel momento in cui rispondono alle esigenze del gruppo sociale

dominante, riproducendo l’ordine socioeconomico e mascherando le pratiche di

sfruttamento che lo sostengono. In questo senso, l’educazione apparterrebbe al

dominio della sovrastruttura e risulterebbe ideologica perché impegnata a coprire i

meccanismi di alienazione che agiscono a livello strutturale. Nel corso del XX secolo

assistiamo ad una pluralità di tentativi di reinterpretazione, riattualizzazione e critica

del marxismo, che hanno contribuito a mettere in discussione il modo di intendere la

relazione tra struttura e sovrastruttura, così come il concetto di ideologia e il rapporto

editore, 2015, p. 47). Per la complessa questione del rapporto di Foucault con il marxismo si rinvia tra gli altri a R. M. Leonelli (a cura di), Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Roma, Bulzoni, 2010 e al saggio di É. Balibar “Foucault and Marx: The question of nominalism”, in J. T. Amstrong (Ed.), Michel Foucault philosopher, New York, Routledge, 1992, pp. 38-56. A testimonianza di un rapporto presente, benchè spesso celato e implicito, si riportano le seguenti parole: «Io cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e poiché la gente non è capace di riconoscere i testi di Marx, passo per colui che non lo cita. Un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a piè di pagina o di un’approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro. E poiché gli altri fisici sanno quel che ha fatto Einstein, quel che ha inventato, dimostrato, lo riconoscono subito. E’ impossibile fare storia oggi senza usare una sequela di concetti legati direttamente o indirettamente al pensiero di Marx e senza porsi in un orizzonte che è stato descritto e definito da Marx. Al limite, ci si potrebbe chiedere che differenza ci sia tra essere storico e essere marxista», M. Foucault, Microfisica del potere, Op. cit., p. 134

266 M. Iofrida, in S. Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo, Vol II Comunismi e teorie critiche nel secondo Novecento, Roma, Carocci editore, 2015, p. 84

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tra soggetto, stato e pratiche di potere. Con l’espressione “marxismo critico”

intendiamo indicare una pluralità di approcci di ricerca che, nello sviluppo di percorsi

singolari e originali, sono accomunati dai seguenti aspetti: una riappropriazione anti-

dogmatica del marxismo, favorendo la contaminazione con altri approcci, quali la

psicoanalisi o la sociologia; l’insistenza sul carattere più filosofico del pensiero di Marx,

tralasciando le esigenze tattiche immediate; l’interesse per il tema del feticismo, della

coscienza alienata e dei suoi meccanismi di costituzione; la contestazione di una

concezione riduttivamente economicistica del materialismo storico, riferendo ogni

“dato” alla sua storia e alla totalità sociale in cui è emerso267. Tra le figure che hanno

maggiormente contribuito allo sviluppo del “marxismo critico” troviamo i pensatori

della Scuola di Francoforte268, nel cui lavoro l’eredità marxista si fonde con suggestioni

kantiane, hegeliane, freudiane, in relazione con la tradizione ebraica e la riflessione

estetica, creando un progetto teorico e di ricerca interdisciplinare. All’interno di questo

progetto, un posto significativo è quello assunto dal rapporto tra soggetto e società,

rapporto esplorato - da prospettive differenti - da tutti i francofortesi di prima

generazione: da Marcuse a Fromm, passando per Horkheimer e Adorno, fino a

Benjamin, per citare i nomi più noti. Nelle parole di Horkheimer, le linee di indagine

dell’“Istituto per la ricerca sociale” si fondano sulla necessità di analizzare

[la] connessione che sussiste tra la vita economica della società, lo sviluppo psicologico degli individui e i cambiamenti che hanno luogo nelle sfere culturali in senso stretto – alla quali non appartengono solo i cosiddetti contenuti spirituali

267 R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 148. Amplia con riferimenti al Marxismo critico.

268 Per quanto Jügen Habermas, essendosi formato nell’atmosfera culturale della Scuola di Francoforte, dichiari di esserne un continuatore, seguendo gli sudi di Martin Jay (The Dialectical Imagination. A history of the Frankfurt School and the Institute of Social Research 1923-1950, Canada, Little Brown and Company, 1973) applicheremo il nome di Teoria Critica solamente ai pensatori che parteciparono alle ricerche dell’Istituto, con particolare attenzione ad Adorno e Horkheimer e l’esclusione di Habermas. Questa scelta è motivata dal tentativo di mettere in luce gli elementi di maggiore convergenza tra il metodo negativo dei francofortesi e il lavoro di indagine di Foucualt, su molti versanti opposto a quello di Habermas (A. Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Bari, Dedalo, 2002; M. Kelly (Ed.), Critique and power: recasting the Foucault/Habermas debate. Cambridge, MA: MIT, 1994). Come riconoscono molti studiosi, tra cui Abbagnano e Fornero, lo sviluppo del pensiero di Habermas ha assunto direzioni sempre più lontane dalle tesi “classiche” del gruppo di Francoforte (N. Abbagnano e G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia. Vol III Ottocento e Novecento, Torino, Paravia, 1986, p. 599). Per un maggiore approfondimento si rimanda al saggio di S. Petrucciani “Teoria critica tra Adorno e Habermas: continuità e fratture” in S. Petrucciani, Marx al tramonto del secolo. Teoria critica tra passato e futuro, Roma, manifestolibri, 1995, pp. 69-93.

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della scienza, dell’arte e della religione, ma anche il diritto, il costume, la moda, l’opinione pubblica, lo sport, le forme del divertimento, lo stile di vita ecc.269

Pur non trattando in modo diretto e sistematico di questioni educative, il pensiero

primo francofortese è stato fonte di ispirazione e ulteriore riflessione nell’ambito della

“pedagogia critica”270: centrale è la tensione verso «una situazione giusta tra gli

uomini»271, ossia verso un’umanità futura libera e disalienata, ma in assenza di un telos

o di un significato ultimo che possa essere compiutamente conosciuto o formulato in

un’utopia o ideale positivi272. Come sottolineano Nigel Blake e Jan Masschelein

Critical Theory *...+ is not itself “value-free”, but interested. It usually conceives itself as a “moment” in a transformative practice directed towatd creating a more human word. However, in the classic work of the Frankfurt School, this longing for a better world manifested itslef almost exclusively in a negative way273.

Inasmuch as this inevitably brings in train an interest in critique of ideology, or in critique of the “taken for granted” otherwise conceived, it should be no surprise that an overlap has been found between the concerns of the Critical Theorists and

269 M. Horkheimer, “La situazione attuale della filosofia della società e i compiti di un istituto per la ricerca sociale”, in W. Brede (a cura di), Studi di filosofia della società, Torino, Einaudi, 1974, p. 39

270 Nell’ambito della pedagogia critica troviamo diverse tradizioni, legate alla particolare ricezione degli studi della Teoria Critica e allo sviluppo di pratiche concrete di emancipazione. Nell’ambito tedesco gli studiosi più citati sono W. Klafki (1976) e K. Mollenhauer (1972), i quali elaborano una pedagogia critica ispirata al lavoro di Habermas e alla teoria della trasparenza comunicativa. Questa versione della pedagogia critica è stata oggetto di critiche da parte di J. Masschelein (1991, 1998) e N. Blake (1992). Nell’ambito della pedagogia critica americana vogliamo citare H. Giroux, (Critical Theory and Educational Practice, 1983; Theory and Resistance in Education, 1983), il quale, più di altri, si è ispirato alle prime indagini di Adorno e Horkheimer e al lavoro di Marcuse, proponendo un’analisi concreta degli effetti di alienazione e repressione della scuola. Pur riconoscendo nella scuola un luogo di riproduzione dell’ideologia dominante, Giroux attribuisce alla scuola la possibilità di giocare un ruolo completamente diverso: se concepita come spazio democratico e pubblico, spazio di azione e dialogo, la scuola può assumere un ruolo critico e rivoluzionario. Il pensiero che la scuola può essere un luogo di riproduzione sociale o di cambiamento politico sarà al centro di un successivo sviluppo della pedagogia critica, ispirata al lavoro di Paolo Freire (La pedagogia degli oppressi, 1973) e della “New Sociology of Education” (tra cui anche Bourdieu e Bernstein). Questo nuova linea di sviluppo lascia la Teoria Critica in secondo piano e trova i propri riferimenti nel dialogo tra il pragmatismo deweyano, il materialismo storico marxista e il pensiero gramsciano. All’interno di questa tradizione troviamo il lavoro di pensatori intenti ad analizzare i meccanismi di riproduzione al lavoro a scuola, come McLaren (Schooling as a ritual performance, 1999), Gee, Hull e Lankshear (The New Work Order, 1996), Apple () e Aronowitz (). Nel contesto sudamericano la pedagogia critica si caratterizza per un forte impegno nella concreta azione politica e nei movimenti di liberazione. Nel contesto anglosassone non troviamo alcuna specifica tradizione di Teoria Critica dell’educazione: la sociologia dell’educazione fu influenzata dall’interpretazione marxista di Althusser (M. Young, Bowles, Gintis), gli studi culturali furono ispirati dal lavoro di Antonio Gramsci. Solamente W. Carr (con il collega S. Kemmis) propose un’analisi critica delle teorie dell’educazione ispirata dalla Teoria Critica e da una lettura di Gadamer.

271 M. Horkheimer, “Teoria tradizionale e teoria critica”, Op. cit., p. 56

272 Come suggeriscono Blake e Masschelein, è verosimile pensare che alle spalle di questo atteggiamento vi sia il portato della tradizione ebraica, N. Blake e J. Masschelein, in N. Blake et Al., The Blackwell Guide to Philosophy of Education, Op. cit. p. 55

273 Ivi., p. 39

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of those educationalists who take seriously any emancipatory role for education274.

Se Marcuse è spesso ricordato per il suo coinvolgimento e il suo ruolo di influenza nel

movimento studentesco, Adorno è l’autore che, più di altri, si sofferma a riflettere sulla

condizione dell’esperienza educativa del proprio tempo275, assumendo una posizione

critica rispetto all’esperienza del “Sessantotto”276 e alle esperienze culturali dei suoi

contemporanei. Nel proporre una diagnosi dello stato della formazione nella società

industriale avanzata, Adorno ribadisce l’importanza di analizzare la sua condizione

all’interno del tutto sociale, provando a spiegare l’orizzonte di connessioni in cui essa si

situa. Come chiarisce in Dialettica Negativa,

soltanto un sapere che ha presente la collocazione storica dell’oggetto nel suo rapporto con altri è in grado di liberare la storia nell’oggetto *...+. La conoscenza dell’oggetto nella sua costellazione è conoscenza del processo accumulato in esso277.

Se siamo interessati a comprendere le pratiche e i discorsi pedagogici di un

determinato momento storico, dobbiamo necessariamente indagare il «potere che la

realtà extrapedagogica ha su di loro»278. Necessario è quindi non tanto, o non solo,

l’analisi dell’ideologia quale sovrastruttura, «coerente connessione tra concetti ed

idee, reperibile alla superficie dei discorsi, dei testi e delle affermazioni»279, ma lo

«smascheramento della specifica collocazione strategica (e trasversale!)

dell’educazione all’interno della totalità strutturale delle pratiche sociali»280.

L’educazione va osservata nella sua intricata connessione con la totalità strutturale dei

274 Ivi., p. 38

275 Tra i testi in cui Adorno, in modo diretto o tangenziale, riflette sull’educazione del suo tempo troviamo La personalità autoritaria (in collaborazione con B. Aron, M. Hertz Levinson, W.R. Morrow), Milano, Edizioni di comunità, 1982; Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1994; Teoria dell'Halbbildung, Genova, Il Melangolo, 2010; Parole chiave. Modelli critici, saggio introduttivo di Tito Perlini, Milano, SugarCo, 1969; “L’educazione dopo Auschwitz” in La Scuola di Francoforte - La storia e i testi, Einaudi, Torino, 2005 e il già citato Dialettica dell’Illumismo, scritto con M. Horkheimer.

276 Il rapporto tra Adorno e i movimenti di contestazione giovanile assunsero i contorni di un aspro dissidio, vedendo gli studenti occupare l’Istituto per la ricerca sociale e Adorno rimproverare gli studenti di azionismo cieco che rischiava di risvegliare un potenziale autoritario non ancora sopito nella Germania federale. Su questo tema si rimanda a T.W. Adorno, “Note marginali su teoria e prassi”, in Parole chiave. Modelli critici, Milano, SugarCo, 1974, pp. 10-30 e al suo scambio epistolare con Marcuse tra il febbraio e l’agosto del 1969, in R. Laudani (a cura di), Herbert Marcuse. Oltre l’uomo a una dimensione, Roma, manifestolibri, 2005

277 T.W. Adorno, Dialettica Negativa, Torino, Einaudi, 1970, p. 146

278 T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Genova, Il Melangolo, 2010, p. 7

279 Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Op. cit., p. 135

280 Ivi., p. 139

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rapporti storico-sociali: questa totalità «viene di volta in volta ridefinita [...] anche dai

modelli e dalle strategie che sottendono l’attività di costituzione di soggettività – in

una parola, dai modelli e dalle strategie educative»281. Il carattere ideologico

dell’educazione va analizzato nella sua materialità, a partire dalle sue latenze

strutturali e dai suoi effetti di soggettivazione.

È questa la direzione di ricerca entro cui collocare Teoria dell’Halbbildung, testo

che Adorno scrive nel 1959. Indagando la crisi dell’educazione del proprio presente,

Adorno denuncia la presenza delle tecniche e della razionalità strumentale del potere

tardo-capitalistico negli stessi dispositivi di soggettivazione. Nella sua analisi,

l’ideologia appare come una forza materiale di espropriazione e colonizzazione, forza

che diviene propriamente pedagogica282: «l’individuo e la società diventano una cosa

sola in quanto la società penetra a forza negli uomini al di sotto della loro

individuazione»283. Effetto di ciò è la trasformazione della Bildung, della formazione

spirituale e critica, in Halbbildung, pseudo-formazione, formazione diminuita e

diminuente. La Bildung, campo di forze oppositive, è «diventata Halbbildung

socializzata, l’onnipresenza dello spirito estraniato. *...+ In essa tutto è imprigionato

dalle maglie della socializzazione»284, l’individuo è asservito al sistema sociale. La

tensione antinomica i momenti costitutivi della Bildung – come spirito e natura,

autonomia e adattamento – si è indebolita, schiacciando un momento sull’altro: lo

spirito è dissolto nell’indifferenziata identità con la società, l’autonomia è asservita

all’adattamento (adattati autonomamente!). Così facendo, scrive Adorno, «la dialettica

della Bildung è stata bloccata dalla sua integrazione sociale, e cioè dal fatto di essere

sempre controllata e diretta»285.

Una volta che quella tensione è venuta meno, l’adattamento diventa norma universale, e suo criterio diviene ciò che già esiste. [...] La società interamente

281 Ivi., p. 137

282 Ivi., p. 157

283 T.W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino, Einaudi, 1972, p. 82. E nell’aforisma intitolato Q.I. in Minima moralia, parlando del pensiero che ha perso la sua autonomia, scrive: «non ha più il coraggio di comprendere un oggetto per amore dell’oggetto stesso. *…+ esso tende a condursi come se dovesse sempre provare la propria efficienza *…+ il pensiero diventa allenamento all’esecuzione di ogni sorta di esercizi. Considera i suoi oggetti *…+ come un test permanente del proprio essere -in-forma», T. W. Adorno, Minima moralia, Op. cit., pp. 235-236

284 T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Op. cit., p. 8

285 Ivi., p. 31

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adattata è [...] storia naturale in senso darwiniano. Essa premia il survival of the fittest286.

Riecheggiando la pungente critica nietzscheana, Adorno indica nell’Halbbildung «lo

spirito afferrato dal carattere feticistico della merce»287, portando a compimento il

passaggio dalla Bildung romantica (votata alla formazione dello spirito eccedente) a

quella borghese (votata all’apprendimento per il prestigio sociale)288. Scrive Adorno:

come il carattere sociale dell’impiegato di commercio, del commesso vecchio stile, nel frattempo si è ipertroficamente sviluppato, dando luogo alla cultura impiegatizia (ancora in Karl Kraus, che studiò le origini di questo processo, si parla di dittatura estetica del commesso), così i venerabili motivi di profitto della Bildung hanno ricoperto la Kultur, come una muffa. Che essa non tolleri praticamente più ciò che da essa devia, - solo questo tratto totalitario costituisce la novità della situazione289.

Commentando il testo adorniano, Blake e Masschelein sottolineano come, nella

condizione della Halbbildung, la formazione sia stata strappata dal suo (essenziale)

rapporto con la ricerca di una vita giusta: invece di tendere alla ricerca del bene, essa

stessa è divenuta un bene tra gli altri, un bene commerciabile.

A good that could be owned, like many other goods, and offered on the market of well-being and happiness. Halbbildung merely made people competent and fit for the existing social order, whereas originally, Bildung has also been meant to equip them to radically question that order290.

Chi è, dunque, domanda Giancarla Sola, l’uomo della Halbbildung291? L’uomo della

Halbbildung è un «soggetto pseudoformato e semicolto»292, desideroso di adattarsi,

condizionato dall’industria culturale dell’intrattenimento e del consumo, con ridotta

capacità di porre domande di senso, di mettere in questione la razionalità dominante.

Il geistiger Mensch, il tipo umano “intellettuale”, «la “persona guidata da interessi di

ordine spirituale” si estingue»293. Ma poichè la Halbbildung si aggrappa «alle categorie

tradizionali che essa non soddisfa più – denuncia Adorno - la nuova forma di coscienza

è inconsciamente a conoscenza della propria deformazione»294. Il pericolo qui intuito è

286 Ivi., p. 11

287 Ivi., p. 56

288 G. Sola, postfazione a T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Op. cit., p. 92

289 Ivi., pp. 31-32

290 N. Blake e J. Masschelein, in N. Blake et Al., The Blackwell Guide to Philosophy of Education, Op. cit., p. 40

291 G. Sola, “postfazione”, in T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Op. cit., p. 94

292 T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Op. cit., p. 42

293 Ivi., p. 27

294 Ivi., p. 43

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esplicitato da Hans Georg Gadamer, il quale evidenza come, continuando a premiare la

capacità di adattamento, si metta a rischio un aspetto fondamentale del carattere

umano295:

Noi siamo esseri che si pongono domande (fragende Wesen) e, come tali, capaci di formularle. Esseri che, invece, non impareranno a domandare, non possiederanno nemmeno la fantasia del possibile, ma neppure il desiderio fantastico dell’impossibile: in un certo senso, resteranno fermi allo stadio animale296.

Una tendenza che Horkheimer aveva già intuito nel 1942, quando denunciando

l’imposizione di un’unica forma dell’agire sociale, quella della ragione strumentale

(ossia la ragione umana ridotta a mezzo di autoconservazione), osservava la

contrazione dell’individuo:

L’individuo si contrae. Egli è costantemente attento e pronto, sempre e dappertutto con la stessa vigilanza e disponibilità; ovunque è orientato verso ciò che è pratico, presta orecchio al discorso solo in quanto informazione, orientamento, ordine; è senza sogni e senza storia297.

Nell’analisi di Adorno, la Halbbildung determina una doppia privazione: priva il

soggetto della distanza dal suo tempo, privando la cultura del suo potenziale critico. La

pseudo-formazione favorisce una piena adesione alle richieste della società e avvilisce

la critica, ridotta «a pura scaltrezza che non si lascia prendere per il naso e mette alle

strette il rivale, a un mezzo per far carriera»298. La critica, il “critical thinking”, è un

mezzo fondamentale per competere: questo si dice oggi, accogliendo con entusiasmo

lo slittamento dal modello impiegatizio a quello imprenditoriale.

Concentrandosi sui meccanismi di mercificazione dei contenuti spirituali e sui

processi di reificazione delle coscienze, l’analisi di Adorno offre alcuni elementi per

ripensare la tradizionale critica dell’ideologia, alla luce dei caratteri specifici che essa

assume nella società tardo-capitalista299.

Nell’epoca borghese la teoria predominante era l’ideologia, e la prassi d’opposizione vi si contrapponeva direttamente. Oggi in realtà non c’è quasi più

295 H. G. Gadamer, Bildung e umanesimo, Genova, Il Melangolo, 2012, p. 211

296 Ivi., p. 217

297 M. Horkheimer, “Ragione e autoconservazione”, in S. Petrucciani (a cura di), Filosofia e teoria critica, Torino, Einaudi, p. 106

298 Ivi., p. 41

299 «L’ideologia in senso proprio si ha dove vigono rapporti di potere non trasparenti a se stessi, mediati, e sotto questo aspetto, anche addolciti: ma per tutto ciò la società attuale, a torto accusata di complessità, è diventata trasparente», T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Op. cit., p. 214

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teoria e l’ideologia risuona, per così dire, dal meccanismo di una prassi cui non si può sfuggire300.

Attraverso le innumerevoli agenzie della produzione di massa e della sua cultura, i modi obbligati di condotta sono inculcati al singolo come i naturali, decorosi e ragionevoli301.

Criticare l’ideologia significherebbe, allora, riconoscere gli aspetti specifici di questa

prassi dominante, provando ad illuminarla e trascenderla. Rivolgendo lo sguardo alle

istituzioni educative dovremmo innanzitutto analizzare il rapporto che esse

intrattengono con la totalità del sociale e individuare i meccanismi di soggettivazione

che appaiono eterni o necessari. Il filosofo tedesco sembra indicare una via per

ripensare la critica dell’ideologia al di fuori della razionalità moderna e degli ideali

illuministici: mettendo in discussione la trasparenza sociale e psicologica, storicizzando

e problematizzando ogni apparente fondamento, Adorno non pensa la critica come

liberazione dalla «falsa coscienza», emancipazione di un soggetto naturale che è stato

alienato. Ciò che Adorno propone come critica è una pratica, un esercizio di

«fisiognomica sociale», riconoscendo la costruzione sociale del soggetto, anche di

quello moderno, che si pensa nelle categorie di autonomia individuale e autenticità. È

questa un’intuizione centrale e spesso misconosciuta, che troverà paternità e sviluppo

nel pensiero degli studiosi post-strutturalisti e post-moderni302.

Alla «fisiognomica sociale», Adorno affianca la pratica ostinata

dell’«anacronismo», della resistenza all’ineluttabilità del proprio tempo.

Se lo spirito fa ciò che è socialmente giusto solo quando non si dissolve nell’indifferenziata identità con la società, è giunto il tempo dell’anacronismo che consiste nel tener fermo alla Bildung, dopo che la società l’ha privata della sua base. Ma essa non ha altra possibilità di sopravvivenza fuorché quella che consiste nell’autoriflessione critica sull’Halbbildung che essa è necessariamente diventata.303

300 T.W. Adorno, “Critica della cultura e società”, Op. cit., p. 16

301 M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Op. cit., p. 36

302 N. Blake e J. Masschelien, in N. Blake et Al., The Blackwell Guide to Philosophy of Education, Op. cit., p. 45. È questo un punto che meriterebbe di essere ampliato: una delle maggiori critiche rivolte ai francofortesi da Foucault è appunto l’assunzione di un’idea di soggetto che presenta caratteri di autonomia e autenticità naturali. Crediamo tuttavia che l’interpretazione di Foucault non sia completamente fondata, trovando dei passaggi significativi in cui Adorno sembra assumere una posizione molto vicina a quella del filosofo francese. Si veda su questo punto il lavoro di Deborah Cook citato alla nota 340

303 T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Op. cit., p.51

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Il pensiero critico, se contemporaneo e anacronistico nel senso suggerito da Agamben,

si configura nella riflessione di Adorno quale pratica necessaria per arrestare la

degenerazione della Bildung in Halbbildung. Ma cosa significa tener fermo alla

Bildung? Nell’interpretare questo invito chiamiamo in aiuto le parole che Valéry dedica

al rapporto di Baudelaire con le opere classiche: «non si trattava certo di rianimare ciò

che era definitivamente morto, quanto, forse, di ritrovare per altre vie uno spirito che

non era più in quel cadavere»304. L’anacronismo non è l’invito a rifugiarsi in un mitico

passato, ad assumere la Bildung ottocentesca quale modello da restaurare, ma a

trascendere ciò che è divenuto intollerabile, cercando spazi e tempi altri, proseguendo

nell’interminabile scoperta di ciò che un uomo può305. In questa indicazione sentiamo

riecheggiare l’invito all’autocritica della ragione occidentale espresso in Dialettica

dell’illuminismo, la necessità che l’illuminismo critichi se stesso, riconosca e sospetti

del proprio legame con il potere306. L’esercizio dell’anacronismo è in questo senso

l’esercizio dell’ethos della modernità, la capacità di mettere in discussione la stessa

logica della modernità, di una critica immanente che la porti a porsi il problema di

superare la sua stessa razionalità307. Al tempo stesso, crediamo che l’anacronismo

possa essere compreso recuperando il carattere negativo e gli elementi messianici

della Teoria Critica, nel rifiuto di proporre «a positive utopian commitment»308.

Praticare la critica come anacronismo significa, allora, prendere le distanze da un certo

modo di intendere la nozione di critica e di teoria critica dell’educazione, mettendo in

discussione una delle modalità più diffuse di intendere l’educazione: quale mezzo per

realizzare o migliorare un certo modello sociale. Pensare l’educazione in questi

termini, sottolineano Blake e Masschelein, significa rimanere all’interno di una logica

funzionalistica e strumentale:

in fact, this implicitly technical and instrumental tradition of educational praxis has, we have seen, been continued by most of the educational theorists who have been inspired by Critical Theory (such as Mollenhauer, Giroux, McLaren, etc.) and who distil from their analyses some kind of educational program to be executed in the future, in order to improve society. They use Critical Theory to “found” or

304 P. Valéry, “Situazione di Baudelaire”, in Varietà, Milano, Edizioni SE, 1990, pp. 193-209, p.202

305 P. Valéry, Mounsier Teste, Roma, Lit Edizioni, 2016, p.22

306 Solo l’illuminismo «potrebbe spezzare i limiti dell’illuminismo», M. Horkheiemer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Op.cit., p. 233

307 S. Petrucciani, Marx al tramonto del secolo, Op. cit., p. 108

308 N. Blake e J. Masschelein, in N. Blake et Al., The Blakewell Guide to Philosophy of Education, Op. cit., p. 46

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“ground” the ideals that are stated as educational goals or end-states to be achieved, marginalizing the negativism of Critical Theory and reproducing an instrumental notion of education.

Promuovendo questa logica, scrivono i due filosofi, una certa pedagogia critica ha

contribuito ad anestetizzare la società nei confronti dell’ingiustizia, ad immunizzarla

nei confronti della critica.

It has contributed to the way that “critical competence” and “communicative competence” have become standard ends of education and even standard prerequisites of operating and functioning within the given order, thus robbing critique and communication of their element of trascendance of the given order. Is has substituted a positivist ameliorism for a critical awareness of the “intolerable” experience of injustice309.

The deeper failure has been to overlook the most serious motive behind Critical Theory, its negative and Messianic impulse, transforming it into a positivistic form of ideology critique e program building310.

Mantenere un impulso negativo significa riconoscere la possibilità di un cambiamento,

senza saperlo descrivere o prevedere nel dettaglio in anticipo. Significa riuscire ad

immaginare, ad intravedere, a prefigurare ciò che agli occhi dei più – dell’ordine

dominante - appare totalmente impossibile – come andare oltre l’ordine stesso.

To respond to the negative aspect of Critical Theory is to accept as valid the cry, “I don’t know what, but not this!” – and thus repudiate the fatalism of a seemingly compulsory acceptance of the present311.

La consapevolezza del rapporto dialettico tra ragione e dominio, la critica dell’ideologia

come fisiognomica sociale, come anacronismo, come impulso intollerante, come

negazione determinata, come autocritica del moderno312. Sono questi gli elementi del

marxismo critico adorniano che intendiamo far interagire con il portato critico del

post-strutturalismo e del pensiero foucaultiano.

309 Ivi., p. 55

310 Ibid.

311 Ibid.

312 Nell’interpretazione di Petrucciani, per Adorno e Horkheimer nella modernità stessa vi è una contraddizone dialettica, la modernità non è abbastanza moderna: «il moderno è l’arcaico, il dominio sulla natura è ancora sottomissione alla natura; il dominio sulla natura resta sottoposto alla coazione della natura perché non libera realmente dalla soggezione e dalla mancanza di autonomia che vigono a livello di natura, ma per così dire, opera solo una dislocazione ovvero uno spostamento cioè trasforma ciò che era coazione naturale in coazione esercitata dagli apparati sempre più potenti del dominio sociale. Se si volesse portare all’estremo il paradosso si potrebbe dire che ciò che è avvenuto è solo uno spostamento del tipo di eteronomia a cui la grande massa degli individui umani è soggetta. Giunti a questo punto, allora, possiamo vedere in che senso comincia a dispiegarsi concretamente la critica immanente, ovvero l’autocritica degli assetti del mondo moderno», S. Petrucciani, Marx al tramonto del secolo, Op. cit., p. 106. In questo senso, a differenza di Max Weber, per i francofortesi la modernità autocritica può ancora porsi come razionalità univoca e universale.

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2.2.2 Post-strutturalismo e scritture finzionali

Il post-strutturalismo può essere concepito come un movimento filosofico

contemporaneo che nasce a partire da un ripensamento dello “strutturalismo”,

sviluppando in senso radicale le intuizioni di Claude Lévi-Strauss (antropologia), Louis

Althusser (marxismo), Jacques Lacan (psicoanalisi) e Roland Barthes (letteratura e

semiotica). Il termine “movimento”, suggeriscono Michael Peters e Kenneth Wain, non

è da intendersi come scuola di pensiero - con metodi, teorie e assunzioni condivise (un

nuovo “ismo”) - ma, piuttosto, nel senso in cui si parla di “movimento” nell’ambito

musicale: «a series of repeated refrains or motifs, even harmonies (and discordances),

that has a distinctive structure of its own»313. In un certo senso, seguendo l’analisi di

John Sturrock, il post-strutturalismo costituisce una critica mossa allo strutturalismo

dal suo interno: «it turns certain of Structuralism’s arguments against itself and points

to certain fundamental inconsistencies in their method wich Structuralists have

ignored»314. Traendo ispirazione dal lavoro di Nietzsche, Heidegger e dal contributo

della Linguistic Turn del XX secolo, i pensatori “post-strutturalisti” hanno cercato di

decentrare la “struttura”, la sistematicità e lo statuto scientifico che lo strutturalismo si

attribuiva, criticandone le premesse metafisiche sottostanti. Nell’adottare il termine

“post-strutturalismo” intendiamo indicare un modo di pensare, uno stile di filosofare,

una tipologia di scrittura caratterizzata dalla molteplicità e dalla differenza, capace di

offrire una pluralità di teorie (del testo), di critiche (delle istituzioni), di nuovi concetti e

forme di analisi (del potere). I suoi orientamenti teorici e i suoi caratteri originali sono

presentati in forma sintetica da Peters e Wain, che ne sottolineano le affinità e le

differenze con la corrente strutturalista. Tra gli elementi comuni troviamo: il sospetto

nei confronti della filosofia umanistica rinascimentale e del soggetto razionale,

autonomo e trasparente a se stesso; una comprensione teoretica del linguaggio e della

cultura come sistema simbolico e linguistico, valorizzato nella sua realtà relazionale;

una critica della ragione moderna che riconosce la forza dell’inconscio e delle strutture

sociali contingenti; un orizzonte teorico di riferimento che attinge da una pluralità di

studi, tra i quali troviamo quelli di Saussure, dei formalisti russi, di Freud e Marx. Al

313 M. Peters e K. Wain, in N. Blake et Al., The Blakewell Guide to Philosophy of Education, Op. cit., p. 66

314 J. Sturrock e J. Wintle, Structuralism, London, Paladin, 1986, p. 137

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tempo stesso, sono molteplici gli elementi di distinzione. Tra questi, Peters e Wain

segnalano quelli che hanno trovato un maggiore sviluppo: la riscoperta del pensiero di

Nietzsche, l’influenza dell’interpretazione di Heidegger e il tentativo di superare la

metafisica occidentale; il sospetto nei confronti della neutralità e del privilegio

fondazionalista delle metanarrazioni moderne; la sfida al carattere scientista –

positivistico e universalistico – dello strutturalismo, dando nuova enfasi al

prospettivismo; il recupero della dimensione diacronica della realtà, nella costruzione

di analisi genealogiche e archeologiche, storicizzando l’indagine ontologica; lo sviluppo

di una filosofia critica della tecnologia, che rielabora l’indagine di Heidegger

sull’essenza non tecnologica della tecnologia (il suo essere un sistema - Gestell - che

influenza e modifica il modo di essere, di agire e di desiderare dell’uomo); una

riflessione sul rapporto tra identità, alterità e differenza, che appare centrale nel

lavoro di Deleuze, Derrida, Levinas, Lyotard. A questi si aggiungono due ambiti di

indagine a cui, nei fini della nostra ricerca, guarderemo con maggiore dettaglio: una

nuova attenzione per la razionalità politica dominante (risignificando il lavoro critico

dei Francofortesi e di Max Weber) analizzata e compresa nei termini foucaultiani di

governamentalità (ridimensionando l’importanza dello stato e risignificando il concetto

di governo nella filosofia politica); il riconoscimento foucaultiano della produttività del

potere (dei suoi effetti di soggettivazione) e del suo legame costitutivo con il sapere,

con molteplici regimi di verità (coappartenenza già riconosciuta da Nietzsche e dai

Francofortesi).

Oltre a presentare questioni e atteggiamenti di indagine originali, il movimento

post-strutturalista si caratterizza per la forma e l’intento delle sue scritture. Come già

anticipato, la concezione post-strutturalista del linguaggio è debitrice delle opere di

Nietzsche, di Heidegger e della riflessione anglosassone sul linguaggio ordinario,

indagine che vede in J. L. Austin e nel “secondo” Wittgenstein i principali autori di

riferimento. Come spiega Paul Standish, nel movimento post-strutturalista

language is not well understood as a means of communication, as if, as Aristotle had tought, ideas first exists in some kind of abstract form and are then coded into words in order to convey them to others. [...] As Heidegger provocatively puts

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the matter, man does not speak any language: language speaks man. Language is the wellspring of the relation between thought and our being as human beings315.

In contestazione con l’interpretazione positivistica e strumentale del linguaggio, nella

prospettiva post-strutturalista il linguaggio non è mai “neutrale”, né può essere

completamente “oggettivo”.

This is not, however to despair at a lack of control of certainty. On the contrary, this essential aspect of our words invites the humble recognition that we are part of meanings that go beyond ourselves: our words mean more than we can say,

say more than we can mean316.

L’impossibilità di dominare il linguaggio, di costituire un linguaggio puro e neutrale, è

costitutiva dell’esistenza umana nel linguaggio. Riconcettualizzando il linguaggio in

questo senso, ispirati dalla scrittura nietzscheana317, i pensatori post-strutturalisti

hanno contribuito ad indebolire la differenza tra filosofia e letteratura, abbandonando

la stesura di trattati scientifici e positivi, per abbracciare scritture finzionali,

esperienziali, di trasformazione, di reazione. Come precisano Peters e Wain,

neither genealogy, nor deconstruction, nor paralogy (the kind of writing reccomanded by Lyotard), constitutes the writing of theory. To use Rorty’s useful

distinction, all are reactive ways of writing rather than constructive318.

La scelta di sviluppare delle scritture non normative, di non avanzare una proposta

risolutiva, è coerente con il tentativo post-strutturalista di evitare l’affermazione di una

metafisica positiva e fondazionalista. Il carattere non costruttivo di questi scritti è stato

però oggetto di molte critiche319, in modo particolare nell’ambito della ricerca

pedagogica:

reactive post-structuralist writers, in fact, are very clear about what they are against but not quite clear about what they are for – if, in fact, as their critics remarked, they are for anything. Their attack on Wester Reason has earned them the well-known chard of irrationality320.

315 P. Standish, “Europe and Continental Philosophy”, in Comparative Education, Vol. 40, No. 4, November 2004, pp. 485-501, p. 490

316 Ivi., p. 493

317 Standish sottolinea come Nietzsche fu influenzato dalla lettura delle opere di Emerson e Thoreau, a loro volta influenzati dal pensiero orientale, Ivi., p. 488 e p. 490.

318 M. Peters e K. Wain, in N. Blake et Al., The Balckwell Guide, Op. cit., p. 65

319 Tra i maggiori critici troviamo J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma – Bari, 1987

320 M. Peters e K. Wain, in N. Blake et Al., The Balckwell Guide, Op. cit., p. 68

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Accanto alle accuse di irrazionalità e relativismo, si affiancano quella di

irresponsabilità, di avere un atteggiamento politico infantile, di essere, con le parole di

Rorty, “self-indulgent political chic”321. Come spiegano Peters e Wain,

The parallel charge made against them, with regard to their ethics and politics is that of gross irresponsibility, that they are nihilists and anarchists, as well as intellectual vandals. What can writers of this ink possibly contribute to education?322

Nel rispondere a questa domanda possiamo sottolineare due modalità con cui i

pensatori post-strutturalisti hanno qualcosa da offrire all’ambito educativo. In primo

luogo, pensandosi come «impresa desoggettivante», come «esperienza limite», le

opere filosofico-finzionali del movimento post-strutturalista possono offrirsi quali

esperienze educative, capaci di strappare il soggetto a se stesso, di portarlo a fare

esperienza dei propri limiti e di un possibile oltrepassamento. È lo stesso Foucault,

richiamandosi all’insegnamento di Nietzsche e all’esempio di Bataille, Blanchot,

Klossowski, a chiarire l’obiettivo delle proprie scritture, le quali non mirano ad offrire

“libri-verità”, ma “libri-esperienza”.

Ciò cui punto è piuttosto a fare io e di invitare altri a compiere con me – passando attraverso un determinato contenuto storico – un’esperienza di ciò che noi siamo oggi, di ciò che non soltanto è il nostro passato ma è ancora il nostro presente. Quindi, un’esperienza della nostra modernità tale che ci consenta di uscirne trasformati323.

Ecco allora un libro che funziona come un’esperienza, molto più che come la constatazione di una verità storica. *...+ E un’esperienza non è né “vera” né “falsa”: è sempre una finzione, un qualcosa che si costruisce, che esiste solo dopo che è stata fatta, non prima [...].. Così questo gioco della verità e della finzione [...] consentirà di far apparire chiaramente cosa ci lega alla nostra modernità e al tempo stesso ce la farà apparire come alterata. L’esperienza tramite la quale noi giungiamo a individuare certi meccanismi [...] e al tempo stesso, percependoli in forma diversa, riusciamo a distaccarcene, deve essere una sola324.

Emerge così la natura educativa e politica di queste scritture, le quali

funzionano come inviti, come gesti, fatti in pubblico, per coloro che vogliono eventualmente fare la medesima cosa, o qualcosa che le somigli; o, in ogni caso, intendano scivolare in questo tipo di esperienza325.

321 R. Rorty, in D. C. Hoy, Foucault: a Critical Reader, New York, Basil Blackwell, 1986, p. 67

322 M. Peters e K. Wain, in N. Blake et Al., The Balckwell Guide, Op. cit., p. 68

323 M. Foucault, “Come nasce un “libro-esperienza”, in D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Op. cit., p. 33

324 Ivi., pp. 35-36

325 Ivi., p. 37

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Questo gesto - di rottura e dissidenza - perturba radicalmente la rappresentazione del

senso comune, il modo dominante di esercitare un certo tipo di potere. In questo

senso è un gesto politico: nel fatto stesso d’essere questa interruzione della pretesa

della scena d’essere un tutto326.

In secondo luogo, il movimento post-strutturalista ha fornito una molteplicità di

strumenti teorici, lenti critiche e categorie interpretative capaci di interrogare la realtà

educativa odierna, trasformando lo sguardo pedagogico su di essa. Nel fare alcuni

esempi possiamo citare il concetto di performatività avanzato da Lyotard, dagli anni

Novanta ampiamente assunto nell’analisi delle istituzioni educative contemporanee327;

la riflessione di Levinas e Derrida su temi quali Alterità e differenza, che gode di vasta

risonanza negli studi pedagogici dedicati all’etica e all’intercultura328; l’analisi

genealogica e archeologica di Foucault, che ha ispirato alcuni metodi della ricerca

qualitativa in ambito educativo329. In sintesi, come scrivono Peters e Wain, «when we

begin to think through educational issue from the perspectives that “post-

structuralism” offers, we believe it provides a greater political awareness of

contemporary realities and problems»330. Queste idee, specificano i due studiosi, «are

positions to be “worked through”, trajectories to be explored, arguments to be

developed. [...] These positions await our engagement»331.

326 L. Bazzicalupo, Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo, Roma, Carocci editore, 2013, pp. 11-20

327 Di grande rilevanza è anche la produzione di Lyotard, tra cui spicca il celebre testo La condizione postmoderna, in cui l’autore delinea questioni e concetti che hanno trovato ampia risonanza nella ricerca educativa: il concetto di “performatività” è stato adottato in modo esteso per descrivere le pratiche e le istituzioni educative contemporanee, governate dall’ossessione per l’accountability e la gestione del rapporto tra input e output; la sua indagine sul rapporto tra sapere e tecnologia ha ispirato un ampio e vivo dibattito sul senso e le possibilità future dell’insegnamento; la sua rielaborazione di alcune categorie fondamentali del pensiero filosofico - quali il concetto di giustizia e di sublime - è stata oggetto di indagine per la sua rilevanza sul piano educativo. Tra i testi più significativi che testimoniano la ricezione di Lyotard in ambito educativo nella comunità accademica internazionale vogliamo citare P. Dhillon e P. Standish (a cura di), Lyotard. Just education, London, Routledge, 2001

328 Si cita, a titolo esemplificativo, G.J. Biesta e D. Egéa-Kuehne (eds.), Derrida & Education, London and

New York, Routledge, 2001 e a D. Egéa-Kuehne (eds.), Levinas and Education: At the Intersection of

Faith and Reason, London and New York, Routledge, 2008 329

N. Denzin e Y. Lincoln, The SAGE Handbook of qualitative research (3rd

Ed.), London/Thousand Oaks/New Dehli, Sage, 2005, pp. 313 - 349

330 M. Peters e K. Wain, in N. Blake et Al., The Balckwell Guide to the Philosophy of Education, Op. cit., p. 72

331 Ibid.

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Tra le scritture “reattive” di questi autori, quella di Foucault ci sembra offrire un

contributo particolarmente importante per l’ambito educativo e per il percorso che qui

si intende imboccare. Attraversando la vasta produzione del pensatore francese gli

studiosi di area educativa hanno risignificato alcune categorie centrali del pensiero

pedagogico: sapere-potere, discorso, dispositivo, soggettivazione, disciplina,

tecnologie del sé, geneaologia e archeologia, potere pastorale, biopolitica, parresia

sono solo alcuni dei concetti foucaultiani che hanno trovato risonanza nella riflessione

educativa e pedagogica, rinnovandone i metodi e le lenti di indagine, il modo di

guardare alle istituzioni e alle politiche educative332. A partire dagli anni Novanta, in

modo particolare nel mondo anglofono, il concetto di governamentalità ha dato

origine ad una molteplicità di studi rivolti alla comprensione del rapporto tra le

istituzioni del sapere e la razionalità, le tecnologie e le soggettività neoliberali. È questa

l’ambito di ricezione del pensiero foucaultiano che andremo a recuperare nel prossimo

capitolo, provando ad esplorare la sua capacità di analisi per una critica degli effetti di

potere dell’istituzione scolastica contemporanea, che ripensi il rapporto tra soggetto,

potere e sapere alla luce dei caratteri della società capitalistica contemporanea. Prima

332 Nell’impossibilità di richiamare qui tutti gli utilizzi del pensiero foucaultiano in ambito educativo e pedagogico si rimanda ai principali studi di riferimento di lingua inglese: S. Ball (Ed.), Foucault and education:Disciplines and Knowledge, London, Routledge, 1990; G. Biesta, “Pedagogy without humanism: Foucault and the subject of education”, Interchange, 29 (1), pp. 1-16, 1998; G. Biesta, “Toward a New “Logic” of Emancipation: Foucault and Rancière”, Philosophy of Education, 2008, pp. 169-177; K. Flint e N. Peim, Rethinking the education improvement agenda: a critical philosophical approach, London, Continum, 2012; I. Hunter, Rethinking the school: subjectivity, bureaucracy, criticism, New York, St. Martin’s Press, 1994; J. Marshall, Michel Foucault: Personal autonomy and education, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, 1996; J. Masschelein, M. Simons, U. Bröckling e L. Pongratz (Eds.), The learning society from the perspective of governmentality, Oxford, Blackwell, 2007; M. Olssen, Michel Foucault: materialism and education, Boulder, Paradigm Publishers, 2006; M. Olssen, J. Codd, A.M. O’Neill, Education Policy: Globalsation, Citizenship and Democracy, London/Thousand Oaks/New Dehli, Sage, 2004; M. Peters, A.C. Besley, M. Olssen, S. Maurer e S. Weber (Eds.), Governmentality studies in education, Rotterdam, Sense Publishers, 2009; M. Peters, T. Besley (Eds.), Why Foucault? New directions in educational research, New York, Peter Lang, 2007; T. Popkewitz e M. Brennan (Eds.), Foucault’s challenge: discourse, knowledge and power in education, New York, Teachers College Press, 1998. Nel contesto italiano si segnalano: A. Mariani (a cura di), Attraversare Foucault: la soggettività, il potere, l'educazione, Unicopoli, Milano, 1997, in modo particolare le indicazioni bibliografiche pp. 51-65; A. Mariani, Foucault: per una genealogia dell’educazione, Liguori Editore, Marzo, 2000; A. Mariani, La decostruzione in pedagogia. Una frontiera teorico-educativa della postmodernità, Roma, Armando, 2008; R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Roma-Bari, Laterza, 1997; F. Cappa (a cura di), Foucault come educatore. Spazio, tempo, corpo e cura nei dispositivi pedagogici, Milano, FrancoAngeli, 2009; F. Cappa, “Il senso pedagogico della soggettivazione”, Noema, 4-1/2013, pp. 32-43; G. Giachery, Il discorso eretico. Michel Foucault e la formazione delle soggettività, Torino, Neos Edizioni, 2015; Maltese, P., “Foucault e la teoria del capitale umano”, EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, IV, 2 (2015), pp. 27-48

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di addentrarci nella tradizione degli studi governamentali crediamo sia necessario

soffermarci ancora un momento sul rapporto tra le prospettive filosofiche di

riferimento a cui abbiamo dichiarato di volerci ispirare.

2.3 Convergenze critiche tra Adorno e Foucault

Non è questo il luogo per indagare la possibilità di una sintesi tra il pensiero di Adorno

e quello di Foucault: ciò che s’intende esplicitare sono alcuni punti di convergenza, di

sovrapposizione, tra le indagini dei due pensatori. A partire da questi punti vogliamo

suggerire un percorso attraverso cui risignificare il carattere critico e politico della

filosofia dell'educazione. Nel fare questo ci collochiamo in una linea di ricerca avviata

negli anni Novanta, un sentiero di studi che, considerando i caratteri specifici della

società capitalista neoliberale, ha messo in discussione la pedagogia critica

tradizionale, evidenziandone contraddizioni e aporie. Tra gli autori che più hanno

contribuito a ripensare la natura critica della ricerca pedagogica troviamo Masschelein,

il quale ha cercato di riattualizzare lo spirito critico della Scuola di Francoforte facendo

reagire la tradizione della Teoria Critica con i libri-esperienza di Foucault. Nella pratica

della critica, dichiara lo studioso belga, «what is at stake is not the passing of

judgments, but the gaining of a certain “distance”».

Come ribadisce Conte,

Per tentare di penetrare la trama del presente per vedere in controluce le fibre essenziali della nostra esperienza di vita quotidiana, i fattori che la condizionano e la determinano, è necessario distanziarcene333.

Questo movimento di allontanamento, il rifiuto di una perfetta adesione, è «premessa

di ogni attività conoscitiva e di ogni libertà»334, una libertà che intendiamo,

foucaultianamente, come parresia: testimonianza di una pratica critica, di un «dire-il-

vero dirompente, che produce frattura, che espone al rischio: possibilità, campo di

pericoli, in ogni caso eventualità non determinata»335.

Gli strumenti e l’impostazione della pedagogia critica tradizionale sembrano oggi

incapaci di offrire questa distanza: divenuti parte integrante dell’ordine del discorso

dominante vedono indebolita la propria capacità di dissenso. Nella ”società della

333 M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., p.42

334 Ibid.

335 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Milano, Feltrinelli, 2009, p. 68

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conoscenza” ciascun soggetto è chiamato ad essere intraprendente e innovativo,

pronto a rinnovare continuamente le proprie competenze, così da contribuire al

proprio benessere, alla coesione sociale e alla propria occupabilità. Nel modello sociale

del capitalismo cognitivo, il soggetto autonomo, critico e innovativo - soggetto che si

qualifica come emancipato nell’orizzonte di riferimento della pedagogia critica -

diviene funzione stessa dell’ideologia dominante336. Il tipo umano che la società

dell'apprendimento continuo contribuisce a formare è quello che, con Christian Laval,

possiamo definire un individuo «ultrasoggettivato»:

Questo individuo – da qualcuno definito “ipermoderno” – è un essere iperattivo e ultra-reattivo, sottoposto all’ingiunzione di “sfondarsi” di lavoro, ma anche di farsi del bene, di trovare piacere e divertirsi per quanto possibile337.

In che modo le prospettive filosofiche adorniana e foucaultiana possono aiutarci a

recuperare la distanza necessaria per osservare con sguardo critico l’oggetto della

nostra analisi? In primo luogo invitandoci a riconoscere i processi di costruzione storica

delle pratiche educative e dei soggetti umani, collocandoli all’interno di un orizzonte di

connessioni più ampio, che tenga in considerazione l’influenza del potere extra-

pedagogico, della forma sociale determinante, della sua razionalità. Nel fare questo,

come suggeriscono Blake e Masschelein, la ricerca pedagogica potrebbe riattualizzare

l’eredità critica francofortese impiegando alcuni degli strumenti teorici avanzati da

Foucault. Secondo i due studiosi, il pensatore francese

offers interesting theoretical tools that could allow us to shed a light on the contemporary construct of the “learning society” and to demonstrate that this construct, which appeals to supposedly inescapable logics, in fact remains merely a contingent development. 338

Seguendo questa indicazione, vogliamo esplicitare alcuni aspetti di convergenza del

lavoro di Adorno e di Foucault, sottolineando gli elementi che riteniamo più utili per

un’analitica del potere nelle istituzioni scolastiche contemporanee. Nel compiere

336 «Tale funzione – precisa Althusser - è quella di “costruire” individui concreti quali soggetti», L. Althusser, “Ideologia e apparati ideologici di Stato”, in Critica marxista, n. 5, 1970, pp. 23-65, p. 54

337 C. Laval, “Nuove soggettività e neoliberalismo”, traduzione di D. Gallo Lassere, della relazione inedita tenuta il 18 maggio 2009 all'ospedale sant'Anna di Parigi, davanti a una platea di psicoanalisti e di psichiatri. Testo pubblicato il 25 giugno 2014 sul sito http://www.commonware.org/index.php/neetwork/411-nuove-soggettivita-neoliberismo, ultima consultazione 27/01/2018

338 Ivi., p. 54

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quest'operazione ci avvaliamo del lavoro di diversi interpreti339, tra i quali spiccano i

nomi di Franco Riccio e Salvo Vaccaro. Nel 1990, i filosofi italiani hanno promosso uno

studio per noi particolarmente rilevante, intitolato Adorno e Foucault. Congiunzione

disgiuntiva340. L’ipotesi di ricerca di Riccio e Vaccaro è la presenza di «nessi sotterranei

tra i diagrammi teorici di Theodor W. Adorno e Michel Foucault»341, individuando i

quali non si intende, però, sminuire le numerose diversità342.

Il confronto tra il lavoro di Foucault e di Adorno non mira a rintracciare anticipazioni foucaultiane in Adorno o eredità adorniane in Foucault secondo una ermeneutica filologica; piuttosto, di far rispecchiare l'uno sull'altro due stili che si intersecano in zone cruciali.343

Questo specifico confronto, precisa Riccio, non può svolgersi secondo il metodo

dell’archeologia filologica344: muovendosi «sul terreno decostruttivo

dell’interrogazione»345, le connessioni tra i due pensatori appaiono evidenti «non

appena si sconfezionano i testi e si pratica l’uso etnologico del frammento,

dell’impronta»346. In questi frammenti, suggerisce lo studioso, si può avvertire la

singolarità inscritta nel presente dei due autori, singolarità che affraterna le differenze

originali dei loro percorsi347. I frammenti che avvicinano i due modi di procedere sono

molti: proveremo ad indicarli, suggerendo un «filo conduttore per cogliere in entrambi

l’uso di un pensare “inattuale” come condizione del salto di qualità della vita»348.

Questa «topologia» vuole indicare il passaggio - il varco, la soglia - che la riflessione

339 G. Gamba, G. Molinari, M. Settura (a cura di), Pensare il presente, riaprire il futuro. Percorsi critici attraverso Foucaullt, Benjamin, Adorno, Bloch, Milano, Mimesis, 2014; L.C. Hiláro e E. L. Cunha, “Crítica, Razão e Sociedade: Convergenza e Paralelismo entre Foucault e Adorno & Horkheimer”, Fractal, Rev. Psicol., Set./Dez. 2014, Vol. 26, N. 3, pp. 877-900; D. Cook, “Adorno, Foucault and Critique”, Philosophy and Social Criticism 2013 39 (10); D. Cook, “Notes on Individuation in Adorno and Foucault”, Philosophy Today 2014, Vol. 58, N.3, pp. 325-344; D. Cook, “Really existing socialization: Socialization and socialism in Adorno and Foucault”, Thesis Eleven 2015, Vol. 127, N. 1, pp. 78-94, J. Butler, Giving an Account of Oneself, New York, Fordham University Press, 2005, in modo particolare il capitolo terzo pp. 83-136; M. Iacopini, “Soggetto e oggetto: un confronto tra Adorno e Foucault”, in M. Failla (a cura di), La dialettica negativa di Adorno, Roma, manifestolibri, 2008

340 F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault. Congiunzione disgiuntiva, Palermo, Italo-Latino-Americana Palma, 1990

341 S. Vaccaro, “Adorno e Foucault. Pensare di Soglia” in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 10

342 Ivi., p. 13

343 Ivi., p. 11

344 F. Riccio, “Al di là della modernità” in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 329

345 Ibid.

346 Ivi., p. 357

347 Ivi., p. 329

348 Ivi., p. 357

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filosofica adorniana e foucaultiana sembrano mettere in luce: uno spazio che «va

formandosi per frammenti incrociati, per affastellamento di piani, per

complementarietà involontarie, per incastonature di parti, secondo una specifica

originalità irriducibile l’una all’altra»349.

Quali sono, allora, le principali zone di sovrapposizione, i possibili parallelismi, tra

i due pensatori? In primis la condivisione di uno sguardo storico sulla ragione, sul

rapporto tra le forme di razionalità e i meccanismi di potere ad esse connessi, a partire

da un’analisi della razionalità dell'Illuminismo. È lo stesso Foucault, in una

conversazione con Duccio Trombadori, a riconoscere questo punto di congiunzione,

collocandosi nel campo problematico aperto da Adorno e Horkheimer:

Per quanto mi riguarda, penso che i francofortesi abbiano posto problemi attorno ai quali ancora ci si affatica: tra gli altri, quello degli effetti di potere connessi ad una razionalità che si è definita storicamente, geograficamente, nell'occidente a partire dal XVI secolo in poi. *…+ Ora come dissociare questa razionalità dai meccanismi, le procedure, le tecniche, gli effetti di potere che la determinano, che noi non accettiamo più indicandoli come la forma di oppressione tipica delle società capitaliste, e forse anche delle società socialiste? Non si potrebbe concludere che la promessa dell'Aufklärung, di attingere alla libertà tramite l'esercizio della ragione, si è al contrario rovesciata in un dominio della ragione stessa, che toglie vieppiù spazio alla libertà?350

L’attenzione al carattere storico delle forme di razionalità si accompagna ad una

riflessione sul potere, questione che occupa un posto di rilievo nel lavoro dei due

pensatori, senza mai essere rinchiusa in una teoria politica sistematica351. Come rileva

Vaccaro, Adorno e Foucault riconoscono il carattere positivo del potere, che «opera

non solo a partire da una oppressione diretta dell’altro, ma anche da una servitù

volontaria che muove dal basso, secondo rituali denunciati da Spinoza e da La Boétie

sino a Reich e Marcuse, che fanno perno su una pratica di libertà manipolata ed istruita

349 S. Vaccaro, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 11

350 M. Foucault, in D. Trombadori (a cura di), Colloqui con Foucault, Op. cit., p.80. Nella stessa intervista, Foucault dichiara: «quando riconosco tutti questi meriti dei francofortesi lo faccio con la cattiva coscienza di chi avrebbe potuto conoscerli e studiarli molto prima di quanto ciò non sia avvenuto. Forse, se avessi letto in anticipo quelle opere, avrei senz'altro risparmiato del tempo utile: alcune cose non avrei avuto il bisogno di scriverle, e avrei evitato certi errori. Al limite, se avessi incontrato i francofortesi da giovane, ne sarei rimasto a tal punto sedotto da non fare altro nella vita, che lavorare a commentarli. Invece, la loro resta per me un'influenza retrospettiva, un contributo che è giunto quando non ero più nell'età delle “scoperte” intellettuali. E non so nemmeno se rallegrarmene, o provare dispiacere», p. 81

351 Ivi., p. 351 e J. Butler, Giving an account of the self, Op. cit., p. 124

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nella sua fase di affermazione»352. Il lavoro di Adorno si concentra sugli effetti in-

formativi e con-formativi del potere, il quale, con una sistematicità totalizzante, offre

un orizzonte invalicabile entro cui canalizzare il fare, il pensare, il costruirsi dell'azione:

favorendo l'internalizzazione della sua logica, il potere blocca preventivamente ogni

fuga tangenziale che possa metterne in dubbio la legittimità. Scrive Adorno,

l'illibertà si completa nella sua invisibile totalità, che non tollera nulla di esterno, a partire dal quale si potrebbe cogliere e spezzare. Il mondo come esso è diventa l'unica ideologia e gli uomini ne sono parte integrante353.

L’analitica del potere proposta da Foucault si concentra maggiormente sulla

dimensione relazionale e microfisica del potere, di cui riconosce la pluralità delle forme

e la molteplicità delle strategie:

Quando penso alla meccanica del potere, penso alla sua forma di esistenza capillare, al punto in cui il potere tocca il granello stesso degli individui, raggiunge il loro corpo, viene ad inserirsi nei loro posti, nei loro atteggiamenti, nei loro discorsi, nei loro strumenti di conoscenza, nella loro vita quotidiana.354

Come è possibile sottrarsi a tutto ciò? Adorno e Foucault non offrono una teoria

dissolutoria del potere, né ipotesi di cambiamento qualitativo, ma nel corpo centrale

del loro pensiero sembrano rinvenibili frantumi di questa e di quella, «tracce lasciate di

qua e di là per ulteriori cammini»355. Come osserva Vaccaro,

la profondità analitica e microfisica del discorso adorniano e foucaultiano sul potere risalta nell'approccio curiosamente complementare che non abdica di fronte all'apparente ineluttabilità del dominio. *…+ Dalla costanza nel tempo del potere non va scorrettamente inferita una sua ineluttabilità sovra-storica.356

A partire dal 1978, elaborando nuove lenti attraverso cui mettere a fuoco il tema del

potere, Foucault ribadisce quanto segue:

Bisogna distinguere le relazioni di potere come giochi strategici tra delle libertà *…+ e gli stati di dominio, che sono quello che ordinariamente chiamiamo potere. E, tra i due, tra i giochi di potere e gli stati di dominio, voi avete le tecnologie governamentali, dando a questo termine un senso molto ampio – che comprende sia la maniera in cui si governa la propria donna, i propri figli, che la maniera in cui si governa un’istituzione. L’analisi di queste tecniche è necessaria, poiché è spesso attraverso questo genere di tecniche che si stabiliscono e si mantengono gli stati

352 S. Vaccaro, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 9

353 T.W. Adorno, Dialettica Negativa, Op. cit., p. 246

354 M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, p. 121

355 S. Vaccaro, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., pp. 34-35

356 Ivi., p. 34. Su questo tema di veda anche Deborah Cook, Really existing socialization, Op. cit.

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di dominio. Nella mia analisi del potere ci sono questi tre livelli: le relazioni strategiche, le tecniche di governo e gli stati di dominio.357

Distinguendo le relazioni di potere che si sviluppano secondo “giochi strategici” dagli

stati di dominazione in cui i margini di libertà sono estremamente limitati358, Foucault

intravede uno spazio di libertà nella possibilità di esercitare un contropotere:

il tratto distintivo del potere è che certi uomini possono più o meno interamente determinare la condotta di altri uomini, ma non in modo esaustivo e coercitivo. *…+ Non è dato potere senza rifiuto o rivolta potenziali. *…+ La questione è: come sono razionalizzate le relazioni di potere? Porre il problema è il solo modo di evitare che altre istituzioni, aventi gli stessi obiettivi e gli stessi effetti, ne prendano il posto.359 Io dico semplicemente: quando esiste un rapporto di potere c’è una possibilità di resistenza. Noi non siamo mai intrappolati dal potere: si può sempre modificarne l’influenza, nelle condizioni determinate e secondo una strategia possibile360.

Si può introdurre così una terza zona di contatto, quella del negativo. In entrambi

i pensatori è presente una tensione immanente e costante per uno «spazio non

metafisico del possibile»361, un orizzonte inedito che «non si lascia irretire e

357 M. Foucault, “L’etica della cura di sé come pratica di libertà”, in Antologia. L’impazienza della libertà, Milano, Feltrinelli, p. 1547

358 Secondo l’analisi foucaultiana, gli stati di dominazione sono effetti di specifiche tecnologie di governo. Come sottolinea T. Lemke , «technologies of government account for the systematization, stabilization and regulation of power relationships that may lead to a state of domination», Foucault, Governmentality, and Critique, contributo presentato alla Rethinking Marxism Conference, presso l’Università di Amherst (MA) nel settembre 2000 (testo integrale consultabile nel sito dell’autore: http://www.thomaslemkeweb.de/publikationen/Foucault,%20Governmentality,%20and%20Critique%20IV-2.pdf, ultima consultazione 27/01/2018). A sostegno di questa interpretazione troviamo una molteplicità di studi, tra i quali Lemke cita B. Hindess, Discourses of Power. From Hobbes to Foucault, Oxford, Blackwell, 1996; M. Lazzaratto, “Du biopouvoir à la biopolitique”, Multitudes, 2000, n. 1, pp. 45-47; P. Patton, “Foucault’s Subject of Power”, in J. Moss (Ed.), The Later Foucault. Politics and Philosophy, London/Thousand Oaks/New Dehli, Sage, 1998, pp. 64-77

359 M. Foucault, “Omnes et singulatim. Verso una critica della «ragion politica»”, in Letteratura Internazionale, a. IV, n. 15, inverno 1988. Nel porre la propria attenzione sulla razionalizzazione delle relazioni di potere, Foucault rielabora in senso ulteriore il problema francofortese: egli suggerisce di considerare la «razionalizzazione della società o della cultura non come totalità, ed analizzare un tale processo in diversi campi, in cui ciascuno rimanda ad un’esperienza fondamentale: la follia, la malattia, la morte, il crimine, la sessualità, ecc. Ritengo che la parola razionalizzazione sia pericolosa. Ciò che occorre è analizzare delle razionalità specifiche, piuttosto che invocare continuamente il progresso della razionalizzazione in generale», “Perchè studiare il potere?”, in Poteri e strategie, op. cit., p. 106

360 M. Foucault, “No al sesso del re”, intervista a Bernard-Henry Lévy, Le nouvel Observateur, 12-3-1977 (tra. It. In Dalle torture alle celle, Cosenza, Lerici, 1979, pp. 152-153). Secondo Foucault, dove c’è potere c’è resistenza, quindi non c’è un dominio: «nel cuore della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c'è la resistenza della volontà e l'intransigenza della libertà» , dalla Postfazione di M. Foucault alla monografia di H. L. Dreyfuss e P. Rabinow intitolata La ricerca di Michel Foucault, Firenze, La Casa Usher, 2010, p. 248

361 S. Vaccaro, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 41

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metabolizzare dal contesto del semper equalis»362, a cui ci si riferisce per rinvii negativi.

Questo spazio non si ottiene operando una sostituzione di apparati, che affermando

nuove relazioni di potere rinnovano la logica a cui vorrebbero opporre resistenza, ma

attraverso una negazione, soprattutto di se stessi: un’esperienza di spietata

autocritica, di decostruzione, di limite, di estraneità, di esodo363. Se il potere, seguendo

l’interpretazione foucaultiana, va inteso come governo, come capacità di condurre le

condotte, riconoscerne la razionalità e il modo di operare è la via da percorrere per

assumere una postura critica, per esercitare «l’arte di non essere governati in quel

modo, a quel costo»364, «l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità

ragionata»365.

Veniamo allora al quarto momento di avvicinamento366: la questione del

soggetto. Adorno e Foucault sono accomunati dal rifiuto di riconoscere nel soggetto

una sostanza ipostatizzata, dalla volontà di chiarire gli effetti di potere sui processi di

soggettivazione e dalla convinzione che la libertà degli individui consista nella

possibilità farsi, disfarsi, rifarsi o tentare di farlo367. Come osserva Riccio,

Foucault svolge col suo stile, frutto di lealtà, discernimento crudele e perseveranza, il compito che Adorno aveva sempre sentito come proprio:

«spezzare con la forza del soggetto l'inganno di una soggettività costituita»368

.

Secondo l'ipotesi foucaultiana

l’individuo non è il dato su cui si esercita e si abbatte il potere. L’individuo colle sue caratteristiche, la sua identità, nella sua fissazione a se stesso, è il prodotto di potere che si esercita su corpi, movimenti, desideri, forze369.

362 Ivi., p. 35

363 T. Cavallo, “Storia immobile. Progresso e pensiero dell’esodo. Appunti per un confronto tra Adorno e Foucault”, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 227

364 M. Foucault, Illuminismo e critica, Op. cit., p. 38

365 Ivi., p. 40

366 Per un approfondimento specifico su questa zona di contatto - e sugli aspetti divergenti - si rimanda al saggio di Deborah Cook, Notes on the Individuation in Adorno and Foucault, Op. cit.

367 Questa espressione è debitrice della lettura di Paul Valéry, il quale scrive «Per me, pensare è farmi, disfarmi, rifarmi o tentare di farlo», in P. Valéry, Lettere e note su Nietzsche, B. Scapolo (a cura di), Milano-Udine, Mimesis, 2010. L’espressione è qui introdotta per le risonanze riscontrabili nelle scritture di Foucault e Adorno. «Gli uomini – scrive Foucault – si impegnano incessantemente in un processo che, nel mentre costituisce degli oggetti, nello stesso tempo li disloca, li deforma, li trasforma e li trasfigura come soggetti», M. Foucault, citato da A. Pandolfi “L’etica come pratica riflessa della libertà. L’ultima filosofia di Foucault”, in M. Foucault Archivio 3, Op. cit., p.22

368 T.W. Adorno, Dialettica Negativa, Op. cit., p. XII

369 M. Foucault, Microfisica del potere, op.cit., p. 157. E a pagina 184: “questi corpi costituiti dagli effetti del potere come soggetti”.

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Questa ipotesi, di ascendenze marxiane e nietzscheane370, è condivisa dai pensatori

Francofortesi, i quali riconoscono nel soggetto un prodotto sociale storicamente

situato, la cui forma è influenzata da dispositivi sociali, istituzionali e normativi. Il

soggetto, precisa Foucault, è doppiamente subjectum:

soggetto a qualcuno attraverso controllo e dipendenza, oppure legato alla propria identità dalla coscienza e dalla conoscenza di sé. Entrambi i significati suggeriscono una forma di potere che soggioca e assoggetta371.

Il processo di soggettivazione, spiega Foucault, è frutto di tecniche di

“assoggettamento” (classificazione, sorveglianza, dressage disciplinare...), ma suppone

anche delle “tecniche del sé”, delle pratiche di auto-trasformazione, attraverso cui il

soggetto si occupa di sé medesimo, di preoccupa di ri-formarsi. Sono queste tecniche a

definire il modo in cui un soggetto «lavora al fine di accettare di essere ciò che si vuole

che sia, che faccia ciò che si desidera che faccia, che desideri fare ciò che si desidera

che faccia»372. Così inteso, il concetto di soggettivazione porta a risignificare le

categorie marxiste di emancipazione e alienazione: assumendo questa prospettiva -

precisa Laval - si comprende come il soggetto

non sia “alienato”, “reso estraneo a sé medesimo” – fenomeni che implicherebbero l’esistenza di un soggetto non alienato – quanto piuttosto come sia condotto a partecipare alla propria costituzione, alla propria costruzione. Come il soggetto risponda da se stesso alla domanda che gli viene indirizzata di coinvolgimento integrale e di performance373.

In questo senso non è possibile smascherare l’ideologia, i meccanismi del potere che

costituiscono l'orizzonte costitutivo prevalente, se non smascherando i meccanismi di

costruzione delle soggettività: il pensiero critico chiede di esercitarsi nella forma di una

fisiognomia sociale, un’ontologia storica di noi stessi374. Per scrutare la vita alienata,

scrive Adorno in Minima Moralia, è necessario realizzare «un’analisi delle potenze

oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti»375. Lo

spirito del tempo, la razionalità dominante, ricorda Conte, «non è solamente dinnanzi

370 «Un tale sostrato non esiste, non esiste alcun essere al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; colui che fa non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto», F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, Mondadori, 1979, p. 32

371 M. Foucault, “Perché studiare il potere. La questione del soggetto”, in Poteri e strategie, Op. cit., pp. 108-109

372 C. Laval, “Nuove soggettività e neoliberalismo”, Op. cit.

373 Ibid.

374 Su questo il saggio di D. Cook, “Adorno, Foucault and critique”, Op. cit.

375 T. W. Adorno, Minima Moralia, Op. cit., p.3

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a noi è anche dentro di noi, con differenti intensificazioni e gradazioni individuali

insedia nelle nostre parole, nei nostri schemi mentali, nelle nostre abitudini»376.

Si comprende, allora, perché Foucault affermi che

Il compito della filosofia come analisi critica del nostro mondo è qualcosa che diventa sempre più importante. Forse il più irrinunciabile di tutti i problemi filosofici è quello del presente e di cosa siamo in questo preciso momento. Forse ai nostri giorni l'obiettivo non è quello di scoprire cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo.377

Arrivando alla conclusione che

il problema non [sia] quello di recuperare la nostra identità perduta, liberare la nostra natura imprigionata, la nostra verità di fondo: ma invece, quello di muovere verso qualcosa di radicalmente “altro”. *…+ Per me, ciò che deve essere prodotto non è l'uomo identico a se stesso, tale quale lo avrebbe designato la natura, o secondo la sua essenza; al contrario noi dobbiamo produrre qualcosa

che ancora non esiste e di cui non possiamo sapere come sarà.378

Per quanto le prospettive etiche di Adorno e Foucault siano differenti, esse sembrano

appartenere al medesimo turbamento del discorso, designando negativamente un

orizzonte di emancipazione possibile, la possibilità di stabilire un nuovo modus vivendi

tra governati e governatori. «Nel rifiuto costante di sé come esito sistematico»379, la

soggettività pensante di Adorno sembra coincidere con il soggetto-limite di Foucault,

impegnato in un continuo processo di autodecostruzione. Scrive Adorno,

376 M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., p.80

377 M. Foucault, “Perché studiare il potere. La questione del soggetto”, in Poteri e strategie, Op. cit., p. 114

378 M. Foucault, in Duccio Trombadori, Colloqui con Foucault, Op. cit., p. 82. Questo esito, dal carattere indubbiamente anarchico, è interpreto da molti - e dallo stesso Foucault - come inavvicinabile a quello adorniano, il quale sembra riconoscere una dimensione invariante attribuibile universalmente all’umanità, considerando la relazione tra singoli individui e specie umana. Tuttavia, seguendo l’analisi di Deborah Cook, è importante osservare che Adorno does not use the phrase “species being” to refer to a pre-existing human essence that we have lost and may one day recover (an objection raised by Foucault). Instead, he follows Hegel and Marx when he remarks that the notion of species being, Gattungswesen, is “ a result, not an ɛɩδος” *...+ Specifically “species being” refers to potentialities, to human powers and possibilities that have not yet emerged or developed [...]. Adorno also issues a strong warning: the species must not be hypostatized (D. Cook, “Really existing socialization”, Op. cit., p. 89). E ancora, citando Adorno: Disenchantment and Ethics di J. M. Berstein, Cook specifica: «For, pace Foucault, Adorno claims that instincts are socially mediated to such degree that whenever might be deemed “natural” in them only appears “as something that is produced by society”. As J. M. Bersnstein aptly remarks, Adorno recognized that our “biologically given attributes are continually being formed, determined, and elaborated through cultural practice”. Consequently, there is “no pristine inner nature awaiting release from repression”», in D. Cook, “Adorno, Foucault and critique”, Op. cit., p. 970

379 S. Vaccaro, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p.54

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la soggettività pensante è proprio ciò che non si lascia inquadrare a priori nel sistema eteronomo dei compiti stabilito dall'alto: essa è all'altezza di questo sistema solo in quanto non le appartiene.380

L’autocritica della ragione è la sua vera morale381.

Come ribadisce Vaccaro,

in Adorno e Foucault, il gioco tra le istanze indicibili dell'indeterminabile, il negativo e l'estraneità, e condizioni di realtà che istruiscono i processi concreti di soggettivazione e le forme di razionalità, è ancora un gioco aperto a soluzioni diverse, dove i punti di catastrofe e le soglie di slittamento assumono consistenze rilevabili nella configurazione qualitativa e combinatoria dei vari elementi in conflitto. *…+ Ma proprio sulle resistenze e sugli scarti si radica la possibilità materiale del soggetto di ridiventare, o meglio, di vestire per la prima volta nella

storia i panni di protagonista della propria autopoiesi.382

Componente costitutiva dei processi di soggettivazione è il complesso dei saperi,

in cui Vaccaro riconosce un'ulteriore area di convergenza tra Adorno e Foucault. Ciò

che determina il parallelismo, precisa Riccio, non è l’analisi dei saperi in sé, ma «la

centralizzazione della funzione del loro gioco nella normalizzazione della società»383.

Percorrendo percorsi distinti, entrambi i pensatori si impegnano in un'analisi delle

forme di conoscenza del proprio tempo: portano alla luce le dinamiche sotterranee, la

«meccanica della sua formazione e del suo funzionamento»384, i meccanismi occultati,

dissimulati, al fine di simulare un candore neutrale385. Riconoscendo l'intreccio

costitutivo di sapere e potere, Adorno e Foucault «affondano il bisturi nella carne viva

dei saperi»386, operando una critica delle pretese di verità e validità, dei regimi che

inverano un modo di pensare. I saperi vengono così «scarnificati»387, «nel tentativo di

prefigurare, di delineare per grossi tratti ciò che potrebbe alludere ad un diverso

montaggio di una macchina pensante»388.

Nella conclusione al suo studio, Vaccaro descrive Adorno e Foucault come

pensatori di soglia, portatori di un pensiero di mutazione,

380 T. W. Adorno, Minima moralia, Op. cit., p. 146

381 Ibid.

382 S. Vaccaro, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p.55

383 F. Riccio, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 363

384 Ivi, p. 377

385 Questo candore, scrive Vaccaro, crea una «panoplia equivalente di saperi particolari e di interpretazioni ermeneutiche indifferenti le une alle altre, selezionabili a piacimento senza pericolo giacché l'offerta è viziata alla radice, e le domande obbediscono ad un impulso indotto che ha interiorrizato tale vizio, riproducendolo e perpetuandolo indefinitamente», Ivi., Op. cit., p.60

386 Ibid.

387 Ibid.

388 Ivi., pp.60-61

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di un cambiamento autoreferente che si proietta all'esterno in una forte spinta a interrogare il presente per scorgere […+ la virtualità di dinamiche eccentriche *…+ che centrifugano una forma di razionalità monolitica.389

Nonostante tutte le differenze (di metodo, di categorie, di tradizione intellettuale, di

rapporto con la prassi...), nei due pensatori lo studioso riconosce una «identità critica»,

radice di riferimento di una nuova forma epocale del pensare390:

quel che fa, nella differenza, «identica» la critica è una linea di lettura, varia nei suoi segmenti, ma tracciata a partire da una interruzione, praticata all’interno di una modernità autocomprensiva dei suoi processi storici.391

La critica è «identica»

nel tentativo diversificato di nudare il volto della modernità e di cortocircuitare i circuiti della soggettivazione, per provocarne l’interruzione, a sua volta pensata non come post historiam, ma come «qualcosa d’altro»392.

Come suggerisce Tommaso Cavallo, i due pensatori sono accomunati dalla convinzione

che anima l'accanimento della loro impresa intellettuale: l'opposizione caparbia e

costante allo schema del «fino ad oggi»393. Sotto angolature diverse, Adorno e

Foucault vivono la stessa urgenza, la necessità di «vedere oltre»394 .

389 Ivi., p. 61

390 F. Riccio, Ivi., p. 333

391 Vaccaro prosegue: «con essa, infatti, viene ad effettuarsi una duplice pratica di decostruzione di ogni fenomeno per andare oltre l’immediatezza del loro manifestarsi e per rivelarne, da un lato, i meccanismi di formazione mediante i quali essi si danno e scoprirne a quale tipo di razionalità essi ricorrono; dall’altro, per mettere in risalto un rilievo di inadeguatezza del concetto a definire i fenomeni e di questi a farsi definire dal concetto. [...] In Adorno la pratica di penetrazione dell’oggettualità dei fenomeni storico-sociali si fa, con un ricorso alla frase concisa, all’aforisma come frantumazione del concetto assorbente, insistenza della mediatezza di ogni immediato, istruita all’interno dell’oggetto (Zur Metakritik der Erkenntnistheorie) come limite alla ratio di assurgere a criterio interpretativo del reale e al dato di presentarsi come forma rovesciata dell’identico (Dialektik der Aufklärung) in modo da cogliere il momento singolo nella sua connessione immanente con gli altri, la storia che esso contiene (Negative Dialektik) e quindi la formazione sociale della sua contingenza (Zur Metakritik)», Ivi., p. 336.

392 Ivi., p. 343

393 T. Cavallo, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 195. Un'impresa rivoluzionaria, secondo Foucault, è appunto diretta non solo contro l'oggi, ma contro la legge del “fino ad oggi”, per un approfondimento si rimanda a Intervista con Michel Foucault ("Actuel", 1971), trad. it. in AA. VV., Aspettando la rivoluzione, Firenze, Guaraldi, 1975, pp. 1938, spec. pp. 37-38

394 F. Riccio, Ivi., p. 383 e p. 385. Per Foucault, scrive Deleuze, «Se qualcosa era intollerabile, non lo era perché fosse ingiusto, ma perché nessuno lo vedeva, era impercettibile. [...] Si trattava di due cose: vedere qualcosa di non visibile e pensare qualcosa che fosse quasi al limite», G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Torino, Einaudi, 2010, trova pagina

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Qual è dunque il rapporto di Adorno e Foucault con la modernità? Scrive

Vaccaro:

la critica di una forma di razionalità, le prospettive del negativo, il luogo del soggetto, sono i punti di soglia che delimitano il debito adorniano e foucaultiano per il moderno, fungendo da “interfaccia”, sorta di apertura alla novità che oltrepassa i limiti della modernità. *…+ La virtualità di un luogo esterno, in Foucault, e di un negativo che gioca da interruttore di una processualità razionale, in Adorno, risponde all'esigenza del contemporaneo di rintracciare nuovi percorsi della critica che oltrepassano la modernità, almeno in certi suoi passaggi al limite tesi a declinare ineditamente un nuovo stile e modalità dissepolte. Il nucleo forte di tale discorso, tuttavia, ricade, seppur ai margini, entro un discorso moderno, caratterizzato da elementi di emancipazione e di cambiamento, assunti dal pensiero come sfondo su cui far ruotare la loro rispettiva prospettiva.395

Le differenze tra i due pensatori si possono allora ricondurre, pur senza confonderle,

alla medesima pratica teorica, che «irrompe come discorso critico sulla modernità,

configurandosi come discorso filosofico della contemporaneità»396, nel tentativo di

preservare il problema dell’illuminismo: «il problema della storicità del pensiero e

dell'universale»397. A queste parole vogliamo affiancare quelle che Lyotard propone in

risposta alla domanda Che cos’è il post-moderno? Il post-moderno, scrive il pensatore

francese, è una parte del moderno, quella parte che sospetta di tutto ciò che è stato

ricevuto398. Nel lavoro di Adorno e di Foucault, scrive Riccio, «la critica si costruisce

propria a partire dal sospetto di usufruire, nel momento della confutazione, del

dispositivo di montaggio contro il quale essa era insorta»399, ossia la razionalità

moderna. Come continua lo studioso, «in una pratica della differenza Adorno e

Foucault tentano di rispondere all’esigenza i promuovere un uso del pensare che non

riproponga nella critica quella logica coattiva contro la quale sono insorti e che non

adoperi quegli stessi mezzi»400. Il “post” di “post-moderno”, spiega Lyotard,

395 S. Vaccaro, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p.62-63

396 F. Riccio, Ivi., p. 332

397 «Non sono i resti dell'Aufklärung che bisogna preservare; ma occorre tenere presente e costodire il problema stesso di questo evento e del suo senso (il problema della storicità del pensiero e dell'universale) come ciò che deve essere pensato». M. Foucault, Il problema del presente. Una lezione su che cos'è l'Illuminismodi Kant, Op. cit., p. 125

398 J. F. Lyotard, The postmodern condition, Op. cit., p. 79

399 F. Riccio, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 360

400 Ivi., p. 374

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does not signify a movement of comeback, flashback or feedback, that is, not a movement of repetition, but a procedure in “ana-”: a procedure of analysis, anamnesis, anagogy and anamorphosis which elaborates an “initial forgetting”.401

Come interpretare questa “iniziale dimenticanza”? Avanzando un’ipotesi potremmo

intendere questa dimenticanza come rimozione della natura contingente della propria

razionalità, rimozione di cui il post-moderno vuole fare memoria, conducendo fino in

fondo il metodo del sospetto che la modernità stessa ha elaborato. Cos'è questa se

non un'autocritica della modernità? Un’ontologia critica del presente e di noi stessi?

L'ana-cronismo di Adorno e il post-strutturalismo di Foucault convergono, allora,

nell’assumere un atteggiamento critico che analizzi il presente, i regimi di verità e i

meccanismi di potere che caratterizzano la contemporaneità. È questa un’analisi

necessaria per sottrarsi ad essi, ponendosi sul limite e aprendo uno spazio di

sperimentazione.

Tra i pensatori che Adorno e Foucault assumono come propri riferimenti teorici

troviamo Marx e Nietzsche, pensatori assunti, in una costellazione composita, come

«strumenti da utilizzare senza dichiarazione di fedeltà e da deformare per un’adesione

sempre più penetrante al presente come punto di consistenza della storia»402. È con lo

stesso spirito di saccheggio403 che intendiamo proseguire la nostra ricerca, utilizzando

quanto fin qui presentato al fine di problematizzare le immagini di senso comune che

dominano il discorso sulle istituzioni scolastiche, sia asso accademico, giornalistico o

chiacchiera da bar. È questo il compito di uno studio filosofico: dubitare dell’ordine del

discorso dominante, esercitando un pensiero che non mira a risolvere i problemi, ma a

sollevarne di nuovi, guardando alle modalità con cui le pratiche sono storicamente

realizzate. Con riferimento a Delueze, Bazzicalupo descrive la pratica filosofica come un

pensiero che “urta” contro il reale che appare liscio e senza ombre, e crea attrito, fa

resistenza404. In questo senso l’esercizio filosofico è di per sé politico:

il pensiero analizza l’ontologia del presente (il presente com’è) facendo attrito rispetto al senso comune. [...] La filosofia non è esterna a[i] [...] condizionamenti

401 J. F. Lyotard, The postmodern explained. Correspondence 1982-1985, Minnesota London, University of Minnesota Press, 1992, p. 80

402 F. Riccio, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 344

403 Scrive Foucault: «Io preferisco la tecnica del saccheggio interessato. *…+ Non è tanto la sistematicità di un discorso che indica la sua verità ma, al contrario, la sua possibilità di dissociazione, di riutilizzazione, di reinserimento in un altro contesto», La società disciplinare,

S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 75 404

L. Bazzicalupo, Politica, Op. cit., pp. 17-18

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*del presente+, perchè quello è l’ordine simbolico (il linguaggio e la verità dominante) e in quello siamo formati, ma non ci si trova del tutto. Cerca le crepe nella rappresentazione “vera” e le apre a questo attrito, a questo non. Filosofia è politica, perchè non si identifica compiutamente con la rappresentazione e il senso comune e rivela la instabilità e la contingenza (il poter essere diversamente) dell’assetto del mondo comune che si presenta come “naturale”405.

Nell’avanzare in questa nostra ricerca, ci sono due aspetti di novità del lavoro

convergente di Adorno e Foucault che intendiamo fare nostri. Il primo, evidenzia

Riccio, consiste nell’aver riconfigurato il rapporto potere-sapere oltre lo schema

concettuale di struttura e sovrastruttura (Marx) e oltre la tematica del fondamento

(rintracciato nel pensiero da Kant e nell’essere da Heidegger), riportandolo entro una

tipologia organizzativa storicamente determinata, in funzione della quale viene a istituirsi un regime di verità, del quale si scopre la provenienza mondana e l’arbitrarietà dell’imporsi come strategia di un rapporto tra le forze, lasciando alla forza vincente il compito dell’assetto organizzativo che lo definisce come condizione configurativa di una determinata realtà sociale.406

Il secondo riguarda la porzione di realtà che i due pensatori scelgono di osservare: non

si tratta di un oggetto isolato, ma di una rete composita di elementi (discorsi,

istituzioni, forme architettoniche, regolamenti, leggi, enunciati scientifici, proposizioni

filosofiche e morali, misure amministrative) e della «tipologia di montaggio la quale,

nell’implicar*li+ reciprocamente, determina un circuito di reversibilità degli effetti che

producono, su cui viene a definirsi quel regime di verità, costitutivo di una realtà

sociale storicamente data»407. È a questo network, organizzato in modo coerente e

strategico, che Foucault si riferisce usando il concetto di dispositivo.

In che modo si configura oggi la realtà scolastica? Qual è la razionalità del

dispositvo educativo del tempo presente? Quale il regime di verità capace di offrire

coerenza e legittimità all’esperienza scolastica contemporanea? Quali i meccanismi di

potere che ne innervano e sorreggono l’organizzazione? Quali gli effetti di

soggettivazione che ne derivano?

Porre queste domande significa problematizzare il proprio presente, lavorando per

risignificare uno studio teorico e critico sull’educazione: compito del pensiero è

405 Ivi., p. 18

406 F. Riccio, in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), Adorno e Foucault, Op. cit., p. 355

407 Ivi., p. 356

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«analizzare la specificità dei meccanismi del potere»408 e «stabilire prospettive in cui il

mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe»409. Obiettivo della

critica, scriveva Foucault, è rendere difficili i gesti facili e, come osserva Masschelein,

«facile gestures can be made difficult through an analysis of the presuppositions on

which apparently transparent practices rest». Effetto di questa analisi, di questa

difficoltà, è la conquista di una certa distanza:

Distance can no longer be formulated in terms of autonomy, but only in terms of the practical refusal of certain forms of government and ways of creating subjects that are part of the “government of individualization”. *...+ Distance is now an issue of attitude. It is about establishing a different attitude , an attitude that has something to do with an openess for “experience” *...+ as a limit-experience. 410 Limit-experience make a hole in the coherence and logic of the system, they problematize our very being, but they cannot be programmed or “made”. *...+ [C]ritical educational theory should not so much try to implement or realize a project or a program, but to keep open the space and to offer the time wherein the question of [...] other meaning can arise and can be retained, wherein [...] other meaning can be thought and can be rearticulated.411

Nel tentativo di assumere la postura critica fin qui delineata, crediamo importante

introdurre in modo più compiuto uno strumento teorico fin qui solamente accennato:

il concetto di governamentalità, un concetto introdotto da Foucault per analizzare

l’evoluzione storica della razionalità politica e dei suoi meccanismi specifici. La

problematizzazione della forma delle istituzioni scolastiche si incardina così in una

radicale trasformazione del modo di pensare il potere e il suo rapporto con la libertà

del soggetto, attingendo alle teorie che più di altre hanno rinnovato il pensiero della

filosofia politica del Novecento412. Assumendo la prospettiva degli studi

governamentali crediamo sia possibile problematizzare la forma che la scuola italiana

assume oggi, nel suo rapporto con la razionalità e i poteri extrapedagogici,

considerando con particolare attenzione la razionalità politica che si è affermata negli

ultimi 30 anni, la razionalità neoliberale o liberale avanzata. Nel prossimo capitolo un

primo momento sarà dedicato alla presentazione del concetto di governamentalità:

collocheremo questo termine entro la riflessione foucaultiana sul potere,

408 M. Foucault, “Poteri e strategie”, in Poteri e strategie, Op. cit., p. 29

409 T. W. Adorno, Minima Moralia, Op. cit., p. 304

410 J. Masschelein, “How to conceive of Critical Educational Theory Today?”, Op. cit., p. 364

411 J. Masschelein, “How to imagine something exterior to the system: critical education as problematization”, Educational Theory, Fall 1998, Vol. 48, No. 4, pp. 521-530

412 L. Bazzicalupo, Politica, Op. cit., p. 157

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concentrandoci in modo particolare sull’ultimo Foucault (sugli scritti, le lezioni e le

interviste rilasciate a partire dal 1978), e recupereremo il senso e le direzioni

autonome assunte dai successivi “studi governamentali”. In un secondo momento

osserveremo lo sviluppo di studi governamentali in ambito pedagogico, cercando di

evidenziare la rilevanza degli strumenti teorici governamentali per comprendere il

presente della realtà scolastica. Tutto ciò si intende come momento necessario e di

preparazione allo sviluppo di un’analisi critica che produca effetti di

defamiliarizzazione, di attrito, di resistenza.

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MOVIMENTO II

FOUCAULT E GLI STUDI GOVERNAMENTALI

Dal 1970 fino alla sua morte nel 1984, Michel Foucault è titolare della cattedra da lui

stesso intitolata “Storia dei sistemi di pensiero”, presso il Collège de France di Parigi.

Seguendo le direttive del Collège, dall’inizio di gennaio fino alla fine di marzo o all’inizio

di aprile, Foucault tiene delle lezioni pubbliche, al mercoledì pomeriggio, durante le

quali presenta linee generali, strumenti in fieri e stato provvisorio delle sue ricerche413.

Tra il 1978 e il 1979, durante i corsi Sicurezza, Territorio, Popolazione (1978) e Nascita

della biopolitica (1979), Foucault viene elaborando una categoria concettuale inedita,

uno strumento euristico attraverso cui ripensare l’analisi del potere e la formazione

della soggettività: la governamentalità (gouvernementalité). La nozione di

governamentalità, dall’aggettivo francese gouvernemental, ossia “riguardante il

governo”, rimanda semanticamente al legame tra il governare (gouverner) e il modo di

pensare (mentalité), tra i meccanismi di governo e la razionalità che li organizza414.

Prima di Foucault, ad utilizzare il termine governamentalità fu lo studioso del

linguaggio Roland Barthes415: negli anni Cinquanta il semiologo francese aveva coniato

questo «neologismo barbaro ma inevitabile»416 per indicare il meccanismo ideologico

che presenta il governo come l’origine di tutte le relazioni sociali. Nel lavoro di Barthes,

la governamentalità si riferisce al «governo concepito dalla grande stampa nazionale

come Essenza d’efficacia»417. Verso la fine degli anni Settanta, Foucault raccoglie

questa “brutta parola” e la risignifica, separandola dal contesto barthesiano di analisi

semiologica e collocandola all’interno di una analitica del potere e dei differenti modi

413 Nell’apertura del corso del 1976, Foucault precisa al proprio uditorio il modo in cui intende condurre le lezioni al Collège de France: esponendo pubblicamente «all’incirca quello che sto facendo, a che punto mi trovo e verso quale direzione [...] procede il mio lavoro». Prosegue il pensatore ribadendo che nelle sue lezioni «si tratta di piste di ricerca, di idee, di schemi, di linee generali. In altri termini: sono strumenti. Fatene quello che volete», in M. Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 11

414 T. Lemke, “Foucault, Governmentality, and Critique”, intervento presentato alla Rethinking Marxism Conference, presso l’Università di Amherst (MA), Settembre 21-24 2000, http://www.thomaslemkeweb.de/publikationen/Foucault,%20Governmentality,%20and%20Critique%20IV-2.pdf (ultima consultazione 27/01/2018).

415 Ulrich Bröckling, Susanne Krasmann and Thomas Lemke (eds.), Governmentality. Current Issues and Future Challenges, Routledge, Taylor & Francis, New York – London, 2011, p.1

416 R. Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1993, p.211

417 Ibid.

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di costituzione del soggetto418, abbracciando un periodo che va dall’antica Grecia fino

al contemporaneo neoliberalismo419. Nella riflessione foucaultiana, la

governamentalità non si riferisce più ad una pratica simbolica mitologica, capace di

depoliticizzare le relazioni sociali, ma rappresenta una griglia d’intelligibilità attraverso

cui comprendere i meccanismi del potere, in primis la forma e la ratio delle pratiche

governative politiche.

Il concetto di governamentalità emerge nella riflessione di Foucault come

un’ipotesi di lavoro e trova sviluppo durante i Corsi, le conferenze e gli scritti minori,

senza mai concretizzarsi in una pubblicazione420. La riflessione sul tema della

governamentalità si presenta, così, nella forma di un «fragmentary sketch»421:

un’ipotesi appena abbozzata, uno strumento analitico che lo studioso descrive per

sommi capi, in modo disorganico e provvisorio, lontano dal costituire un sistema

teorico strutturato o una metodologia organizzata. Nel riattraversare le lezioni sul

tema, è bene ricordare le parole dell’allievo e collega Pasquale Pasquino:

i corsi al Collège de France non sono dei libri, sono qualcosa di più e qualcosa di meno. Qualcosa di meno, poiché l’autore non li ha pensati come libri, essi non hanno il carattere chiuso e sistematico di un testo scritto per la pubblicazione. Qualcosa di più, come sanno bene quelli che erano presenti a quei corsi perché si ritrova in quelle lezioni una ricchezza inesauribile, direi quasi un vortice di idee nuove, di ipotesi di lavoro, di piste di ricerca poste dinanzi agli occhi del lettore odierno.422

Cosa spinge Foucault ad introdurre questa nuova idea? A partire dal 1976,

Foucault esprime apertamente il desiderio di andare oltre le ricerche degli anni

precedenti, superando i risultati a cui lo aveva portato l’analisi micro-fisica del

potere423. In un confronto serrato con le osservazione dei suoi stessi critici, Foucault

418 M. Foucault, “Perché studiare il potere: la questione del soggetto”, in H. L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, Op. cit., pp. 279-287

419 T. Lemke, “'The birth of bio-politics': Michel Foucault's lecture at the Collège de France on neo-liberal governmentality”, Economy and Society, 30:2, ,2001, pp. 190-207

420 Tra le ragioni di questa mancanza gioca un ruolo decisivo la morte prematura di Foucault, nel 1984. Unica eccezione, è la lezione del 1 febbraio 1978, di cui Foucault autorizzò la pubblicazione. Apparve in italiano nella rivista aut aut, 167-168, 1978 e poi in francese in Actes, 54, 1986. Una traduzione inglese di questa stessa lezione è apparsa con il titolo “Governamentality” nella rivista Ideology and Consciousness, 6, 1979.

421 T. Lemke, “An indigestible meal?...”, Op. cit., p. 3

422 P. Pasquino, “La conoscenza “dello” stato”, in E. De Conciliis (a cura di), Dopo Foucault, genealogie del postmoderno, Milano-Udine, Mimesis, 2007, p. 27

423 Nel percorso di ricerca di Foucault è possibile individuare due fasi di lavoro: la prima, corrispondente agli anni 1972-1976, vede la nascita e un’iniziale configurazione dell’analitica del potere; una seconda, dal 1977 al 1984, in cui intervengono elementi di novità e sono tratteggiate nuove – incompiute - linee

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problematizza il proprio lavoro chiarendo, al tempo stesso, le esigenze irrinunciabili

della sua analisi politica: il rifiuto delle “teorie avvolgenti e globali”, le organizzazioni

teorico-sistematiche del sapere che avanzano pretese di universalità424; e la necessità

«di articolare criticamente lo specifico e il generale o, se si preferisce, il micro e il

macro politico»425, delucidando i rapporti di potere che si instaurano tra il “locale” e il

“globale”426. Ad un primo sguardo, il tema della governamentalità può essere

compreso, allora, nel tentativo foucaultiano di dismettere le categorie della filosofia

politica classica, assumendo una prospettiva antisostanzialista, quella del nominalismo

storico427: il contesto in cui questo termine è introdotto, infatti, è quello di una critica

alla realtà auto-evidente dello Stato e alla concezione giuridica del potere politico. Al

tempo stesso, assumendo uno orizzonte più ampio, la governamentalità emerge come

di ricerca. E su questa seconda fase che si concentrerà la nostra attenzione. Sulla “crisi” vissuta da Foucault attorno al 1976 in seguito alla pubblicazione di La volontà di sapere, tema ormai assodato dalla letteratura critica, si rimanda soprattutto a D. Eribon, Michel Foucault, Paris, Flammarion, 1990, pp. 286 sgg.; G. Deleuze, Foucault, Napoli, Edizioni Cronopio, 2002, p.125-sgg.; O. Marzocca, “Introduzione” a Biopolitica e liberalismo, Milano, Edizioni Medusa, 2001, pp. 5-35.

424 O. Marzocca, “Introduzione” a Biopolitica e liberalismo, Op. cit., pp.7-10

425 Ivi., p.17. La governamentalità, precisa Marzocca, non consiste nel riconoscimento di un “sistema logico” che si sarebbe affermato per la sua coerenza, né della denuncia di uno “schema ideologico” che si sarebbe imposto mistificando la realtà. «La “razionalità politica” da individuare e da analizzare è qualcosa di “tecnico”, di immediatamente applicabile, *...+ che può essere ritrovato all’opera solo in forme concrete e specifiche; essa, d’altronde, assume certamente una certa generalità, ma solo in una effettiva ricorrenza storica che ne fa emergere, nel tempo, le diverse versioni», p. 17.

426 «Si trattava, dunque, di mettere alla prova la nozione di governamentalità e, secondariamente, di vedere in che modo si possa presupporre la validità della griglia della governamentalità allorché si tratta di analizzare la maniera in cui si guida la condotta dei folli, dei malati, dei delinquenti, dei bambini, e in che modo, inoltre, questa griglia possa valere anche quando si devono affrontare fenomeni posti su una scala completamente diversa, come può essere una politica economica, la gestione di un corpo sociale e così va. Ciò che volevo fare, e che costituisce la posta in gioco dell’analisi, era vedere in che misura sia possibile ammettere che l’analisi dei micropoteri, o delle procedure della governamentalità, non si limita per definizione a un ambito preciso, definito da un determinato settore della scala, ma deve piuttosto essere considerata semplicemente come un punto di vita, un metodo di decifrazione che può essere valido per l’intera scala, qualunque sia la grandezza. In altri termini, l’analisi dei micropoteri non riguarda la scala, né il settore, ma è piuttosto una questione di prospettiva. Era questa, dunque, la ragione di metodo.», M. Foucault, Nascita della Biopolitica, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 154

427 «Bisogna probabilmente essere nominalisti: il potere non è un’istituzione, e non è una struttura, non è una certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati: è il nome che si dà ad una situazione strategica complessa in una società data», M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 83. Il nominalismo foucaultiano si definisce nominalismo storico e, assumendo e radicalizzando la prospettiva dell’epistemologia francese e della filosofia marxista di Althusser, intende distinguersi dal nominalismo classico. Per un approfondimento su questa distinzione si rimanda a M. Foucault, “Questions of Method”, in G. Burchell, C. Gordon, P. Miller (eds.), The Foucault Effect: Studies in Governmentality, Hemel Hempstead, Harvester Wheatsheaf, 1991, pp. 73-86 e M. Dean, “Questions of Method”, in I. Velody e R. Williams (eds.), The Politics of Constructionism, London/Thousand Oaks/New Delhi, Sage, 1998, pp. 182-199

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una «key notion»428 - un «deranging term»429 - capace di retro-illuminare e

riconfigurare le questioni centrali del lavoro foucaultiano430: il problema della verità,

che egli affronta, in un primo momento, con metodo archeologico; il problema del

rapporto costitutivo tra regimi di verità (di sapere) e tecnologie di potere, per cui egli

suggerisce un approccio genealogico; fino al problema del legame tra il dire la verità e

l’etica del soggetto, che impegna la riflessione di Foucault fino al momento della sua

morte431. L’attenzione al tema del governo si sviluppa, inoltre, in concomitanza con la

riflessione sulle forme della critica, intesa come “ontologia di noi stessi” e “arte di non

essere eccessivamente governati”.

Cercando di chiarire il senso del suo lavoro, Foucault precisa, infatti, come

l’analitica del potere – e così l’introduzione della nozione di governamentalità – sia da

comprendersi all’interno del più ampio studio delle diverse modalità di

soggettivazione:

Ben presto mi è apparso chiaro che appena il soggetto umano è catturato all’interno di rapporti di produzione e di relazioni di significato, è nella stessa misura catturato all’interno di rapporti di potere che sono molto complessi.432 Non si è trattato di analizzare i fenomeni del potere e neppure di elaborare i fondamenti di una tale analisi. Il mio obiettivo, piuttosto, è stato di fare una storia dei differenti modi di soggettivazione degli esseri umani nelle nostra cultura.433

Se la governamentalità, inizialmente, è introdotta come nozione utile alla genealogia

dello Stato moderno, con il tempo assume un ruolo considerevolmente più ampio,

configurandosi nel pensiero Foucaultiano come strumento analitico e diagnostico,

capace di guidare un’ontologia dell’attualità e di noi stessi: di riconoscere i meccanismi

del potere e gli effetti di soggettivazione che ne derivano, riconoscendo le tecnologie

(tecnologie di dominio e tecnologie del sé) e la razionalità di governo che

428 B. Allen, “Government in Foucault”, Canadian Journal of Philosophy, Vol. 21, No. 4, 421-440, p. 431

429 T. Keenan, “Foucault on Government”, Philosophy and Social Criticism, No. 1, pp.35-40, p. 36

430 T. Lemke, “Fuocault, Governmentality, and Critique”, Op. cit., p. 4

431 La tripartizione in fase archeologica, genealogica ed etica del pensiero foucaultiano si deve soprattutto alla sistematizzazione iniziata da Paul Rabinow in Ethics, Subjectivity and Truth, il primo volume di The Essential Works of Foucault, New York, The New Press, 1997. Tuttavia, vogliamo qui sostenere, non è da intendersi in senso rigido, come ad indicare fasi tra loro completamente separate: le tematiche evidenziate e gli strumenti elaborati per provare ad analizzarle sono da intendersi in stretta relazione gli uni con gli altri. Tra gli studi che si propongono di dar ragione della sostanziale unità del pensiero di Foucault si segnala M. Cerrato, La filosofia pratica di Michel Foucault. Una critica dei processi di soggettivazione, Milano-Udine, Mimesis, 2015

432 M. Foucault, “Perché studiare il potere: la questione del soggetto”, Op. cit., p. 280

433 Ivi., p. 279

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caratterizzano la contemporaneità, il nostro modo di pensare e di vivere. È questa la

direzione entro cui è possibile riconoscere il portato critico di un’analisi

governamentale: non come critica dell’ideologia, ma come pratica capace di mettere in

discussione «la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità».434

L’elaborazione foucaultiana del tema della governamentalità si interrompe

bruscamente nel 1984, con la morte del pensatore francese, lasciando un corpus di

ricerche incompiute, non esente da contraddizioni e tensioni interne435. Tuttavia,

riconoscendo il potenziale euristico dell’approccio governamentale, colleghi436 e

studiosi hanno raccolto l’eredità foucaultiana, attualizzando le linee di ricerca del suo

pensiero, nella direzione di una chiarificazione teoretico-concettuale e di

un’inesauribile storia del presente. A partire dagli anni Novanta, l’ampia diffusione di

indagini dedicate alla governamentalità, sia come oggetto che come approccio di

studio, ha contribuito a delineare un ambito di ricerca riconosciuto a livello

internazionale con il nome di Governamentality Studies. Al suo interno si trovano

indagini eterogenee e interdisciplinari, provenienti, principalmente, dagli studi storici,

politici e delle scienze sociali.

Nelle pagine che seguiranno cercheremo di recuperare i lineamenti generali del

pensiero foucaultiano sul tema della governamentalità, evidenziando il valore di

questa ipotesi di lavoro all’interno del suo più ampio percorso di ricerca. L’attenzione

si concentrerà sulla pluralità degli scritti e dei discorsi che, tra il 1976 e il 1984,

Foucault dedica al problema del potere e dello Stato. In modo particolare, si attingerà

ai Corsi Sicurezza, territorio, popolazione (1978) e Nascita della biopolitica (1979),

durante i quali Foucault prosegue la sua riflessione sulla problematica del biopotere437,

434 M. Foucault, Illuminismo e critica, Op. cit., p. 41. Su questo punto hanno insistito P. O'Malley , L. Weir, C. Shearing, “Governmentality, criticism, politics”, Economy and Society, 26:4, 1997, pp. 501-517 e M. Dean, Governmentality. Power and Rule in Modern Society, Los Angeles:London:New Delhi, Sage, 2010, pp. 5-14, T. Lemke, “Foucault, Governmentality, and Critique”, Op. cit.

435 In modo particolare, è da ricordare che per la prima volta Foucault abbandona il periodo storico da lui privilegiato in tutti i suoi libri e corsi precedenti, quello che va dal XVII al XVIII secolo (l’“età classica”), offrendo una ricostruzione molto più vasta, che spazia dalla storia antica (nell’analisi del potere pastorale) a quella contemporanea (nell’analisi del neoliberalismo). Addentrandosi in campi per i quali sente, come ribadisce esplicitamente, di non avere una preparazione adeguata, Foucault sottolinea la provvisorietà delle ricerche presentate, le quali sono in fieri e non dei risultati definitivi.

436 Tra i principali collaboratori di Foucault ricordiamo François Delaporte, François Ewald, Alessandre Fontana, Pasquale Pasquino.

437 Seguiamo qui l’impostazione dello studioso foucaultiano Thomas Lemke, secondo il quale «nei suoi lavori più tardi, Foucault pone la questione relativa alla biopolitica all’interno di una cornice più

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introdotta per la prima volta nel 1976438. Senza addentrarci nei dettagli delle celebri

ricerche, cercheremo di ricostruirne la logica complessiva, isolando alcuni dei passaggi

più significativi. La ricostruzione sarà articolata in tre parti: in primo luogo verrà

presentata la nozione di governo, delineando i caratteri della “nuova” analitica del

potere foucaultiana; in un secondo momento, ci concentreremo sulle ricerche

genealogiche della sovranità moderna, presentando discontinuità e tendenze

nell’organizzazione del potere politico occidentale: potere pastorale, Ragion di Stato,

governo liberale; infine, ci concentreremo sui tratti generali del neoliberalismo, il cui

sviluppo è esaminato da Foucault durante il Corso Nascita della biopolitica. Su

quest’ultimo ci soffermeremo in modo più dettagliato, in quanto strategia di governo

che «fa parte della nostra attualità, che addirittura la struttura e la definisce nel suo

profilo reale»439. Successivamente, presenteremo i tratti caratteristici dell’ambito di

ricerca denominato Governamentality Studies, indicandone specificità storiche e

sviluppi teoretici. Nel fare questo, ci soffermeremo con maggiore attenzione sul lavoro

di quanti, assumendo un approccio governamentale, hanno diretto il proprio sguardo

alle pratiche e alle politiche educative del nostro tempo.

1. La governamentalità nelle ricerche di Foucault

1.1 Ripensare il potere

Durante le lezioni del Corso del 1977-1978 intitolato Sicurezza, Territorio e

Popolazione, Foucault pone esplicitamente la questione del governo. Tema generale

del Corso è la «genesi di un sapere politico che avrebbe messo al centro delle sue

preoccupazioni la nozione di popolazione e i meccanismi capaci di assicurarne la

regolazione»440. Durante la lezione del 1 febbraio 1978, portando la sua attenzione al

ampia», nella quale è possibile superare «una serie di limitazioni analitiche» che questo concetto presenta nei testi foucaultiani e nella sua svariata ricezione. La «cornice teoretica più complessa» a cui Lemke fa riferimento è delineata dai concetti di governo e governamentalità, T. Lemke, “Oltre la biopolitica. Sulla ricezione di un concetto foucaultiano”, in Lo sguardo di Foucault, a cura di M. Cometa e S. Vaccaro, Roma, Meltemi, 2007, pp. 85-107, qui pp.98-101.

438 Ci riferiamo qui ad una pluralità di scritti datati 1976: il Corso Bisogna difendere la società, il primo volume della Storia della sessualità, La volontà di sapere, e la conferenza dal titolo “Le maglie del potere”, tenuta all’Università di Bahia.

439 M. Foucault, Nascita della Biopolitica, Op. cit., p. 160

440 M. Foucault, Riassunto del corso, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 265

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periodo che va dal XVI alla fine del XVIII secolo, Foucault osserva l’emergere di una

molteplicità di trattati che si presentano come “arte di governare”.

Credo che in modo generale il problema del governo esploda in modo simultaneo a proposito di questioni molto diverse e sotto molteplici aspetti. Problema, ad esempio, del governo di se stessi, ed è qui che abbiamo il ritorno allo stoicismo [...]. Problema anche del governo della anime e delle vite, che è tutto il tema della pastorale cattolica e protestante. Governo dei bambini, e siamo alla grande problematica della pedagogia, così come appare e si sviluppa nel XV secolo; ed infine, soltanto infine forse, il governo degli Stati da parte del Principe. Come governarsi, come essere governati, come governare gli altri, da chi si accetterà di essere governati, come fare per essere il miglior governante possibile, ecc.441

L’accezione con cui il termine governo è inteso in questo periodo, precisa Foucault, è

quella esplicitata da Guillaume de La Perrière: «governo è la retta disposizione delle

cose, delle quali ci si prende cura per condurle ad un fine conveniente»442. Così,

«governante può esser chiamato il monarca, imperatore, re, principe signore,

magistrato, prelato, giudice o simili»443, e si dice anche, aggiunge Foucault, «governare

una casa, delle anime, dei bambini, una provincia, un convento, un ordine religioso,

una famiglia»444.

Il governo di se stessi che si riferisce alla morale; l’arte di governare opportunamente una famiglia, che si riferisce all’economia; e infine la scienza di ben governare lo Stato che si riferisce alla politica.445

Ci sono pertanto molti governi rispetto ai quali quello del Principe nei confronti dello Stato non è che una delle modalità, e, d’altra parte, tutti questi governi sono interni alla società e allo Stato. *...+ C’è quindi contemporaneamente pluralità di forme di governo e immanenza delle pratiche di governo rispetto allo Stato.446

Muovendo da queste osservazioni, Foucault specifica il concetto di governo utilizzando

la nozione di “condotta” o, più precisamente, quella di “condotta delle condotte”: il

governo, suggerisce Foucault, è la capacità di guidare la condotta altrui (governo degli

altri) o la propria (governo di sé).

441 M. Foucault, “La “governamentalità”, in Poteri e strategie, Op. cit., pp. 43-44

442 G. De La Perrière, in Ivi., p. 51

443 Ivi., p. 48

444 M. Foucault, Ibid.

445 Ivi., p. 49

446 Ibid.

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La condotta è certamente l’attività che consiste nel condurre, è la conduzione, ma è anche la maniera di condursi e di farsi condurre, la maniera in cui ci si comporta sotto l’effetto di una condotta, in quanto atto di condotta o di conduzione.447

Questa formulazione lascia un segno profondo nel pensiero foucaultiano: negli anni

successivi, riflettendo sulla natura delle relazioni di potere (e sulla necessità di

superarne la comprensione in termini giuridici448), Foucault abbandonerà l’ipotesi

analitica del modello bellico (Hyphotèse Nietzsche) 449, suggerendo di adottare i

concetti di condotta e di governo. Il governo non sarebbe, quindi, una modalità storica

specifica di esercizio del potere, ma una nozione che investe il problema complessivo

delle relazioni di potere450. In un saggio del 1983, intitolato “Come si esercita il

potere?”, Foucault scrive:

forse la natura equivoca del termine condotta è uno dei migliori aiuti per arrivare a cogliere la specificità delle relazioni di potere. “Condurre” significa al contempo “guidare” gli altri (a seconda dei meccanismi di coercizione più o meno rigidi), e un modo di comportarsi all’interno di un campo più o meno aperto di possibilità. L’esercizio del potere consiste nel guidare le possibilità di condotta, e nel regolare le possibili conseguenze. Fondamentalmente, il potere non è tanto un affrontamento fra due avversari o l’obbligo di qualcuno nei confronti di qualcun altro, quanto una questione di governo. A questa parola occorre lasciare lo stesso ampio significato che aveva nel XVI secolo. “Governo” non si riferiva soltanto alle strutture politiche o all’amministrazione degli stati; piuttosto esso designava il modo in cui la condotta degli individui o dei gruppi poteva essere diretta451.

Riconcettualizzare il potere come governo significa, implicitamente, porre l’accento su

un elemento implicito, elemento che è, al tempo stesso, condizione preliminare e

447 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 143

448 Gli studi di Y. C. Zarka mostrano in che modo Foucault sviluppi implicitamente in tutta la sua opera, ma soprattutto ed esplicitamente nel corso Bisogna difendere la società, una concezione non giuridica del potere. Si rimanda su questo a Y.C. Zarka, Foucault et le concept non juridique du pouvoir, «Cité», 2000, n. 2, pp. 41-52, ora in id., Figures du pouvoir. Études de philosophie politique de Machiavel à Foucault, Paris, puf, 2001, cap. IX

449 Su questo argomento tutta la prima parte del Corso Bisogna difendere la società, Op. cit.

450 La predilezione di Foucault per un uso ampio della nozione di “governo”, alternativo a un senso “stretto” che rimanda ad una determinata relazione di potere, è evidenziato da più interpreti. In modo particolare si rimanda a M. Senellart, “Michel Foucault: governamentalità e ragion di stato”, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Verona, Ombre Corte, 2006, pp. 13-36 e D. Deleule, L’héritage intellectuel de Foucault. Entretiens entre Didier Deleule et Francesco Paolo Adorno, «Cités», 2 (2000), pp. 99-108, in particolare pp. 100-102

451 E prosegue, «la relazione specifica del potere non dovrebbe dunque essere cercata dal lato della violenza o della lotta, né dal lato del legame volontario (questi possono essere tutt’al più, soltanto degli strumenti del potere), ma piuttosto nell’area di quel singolare modo di azione, né bellico né giuridico, che è il governo», M. Foucault, “Come si esercita il potere?”, in H. L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, Op. cit., p.292

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sostegno permanente dell’azione di governo: la libertà dei governati, la possibilità

sempre aperta di esercitare una resistenza.

Il potere viene esercitato soltanto su soggetti liberi, e solo nella misura in cui sono liberi. Con ciò intendiamo individui e soggetti collettivi che hanno davanti un campo di possibilità in cui parecchi modi di condotta, numerose reazioni, diversi tipi di comportamento, possano essere realizzati. [...] Senza la possibilità di una resistenza, il potere sarebbe equivalente a una determinazione fisica.452

A costituire la specificità delle relazioni di potere, prosegue Foucault, non è il suo

carattere repressivo, né la necessità di un patto consensuale:

*...+ in sé l’esercizio del potere non è violenza; e neppure un consenso implicitamente rinnovabile. È un insieme strutturato di azioni che verte su azioni possibili; esso incita, induce, seduce, rende più facile o più difficile; al limite, costringe o impedisce assolutamente; nondimeno è sempre un modo di agire su un soggetto, o su dei soggetti che agiscono in virtù del loro agire e del loro essere

capaci di azioni.453

Esercitare un potere, governare, in questo senso, «significa strutturare il campo di

azione possibile per gli altri».454 In tal senso l’analitica del potere è da intendere

sostanzialmente come un’analisi delle differenti modalità di soggettivazione che

derivano, e a loro volta danno luogo, a determinate relazioni di potere. Un’analisi di

questo tipo non permette di sottrarsi in modo assoluto alle relazioni di potere, di

compiere una rottura radicale con esse455, ma consente di studiarle «in termini di

tattica, di strategia, di regola e di caso, di posta in gioco e di obiettivo»456. Consente,

prendendo a prestito il concetto di gioco linguistico elaborato da Wittgenstein, di

452 Ivi., pp. 292-293. In una conferenza a Berkeley nel 1979, Foucault torna su questi temi, indicando le ipotesi di lavoro all’opera nei suoi studi: «Il potere non è una sostanza. [...] Il potere è soltanto un certo tipo di relazioni tra individui. [...] Il tratto caratteristico del potere è che certi uomini possono determinare la condotta di altri uomini in modo più o meno completo, ma mai in modo esaustivo o coercitivo. [...] Se un individuo può restare libero, per quanto limitata possa essere la sua libertà, il potere può assoggettarlo al governo. Non c’è potere senza rifiuto o rivolta in potenza», M. Foucault, “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragione politica”, in Biopolitica e liberalismo, Op. cit., p.144

453 M. Foucault, “Come si esercita il potere?”, Op. cit., p. 292

454 E prosegue, «la relazione specifica del potere non dovrebbe dunque essere cercata dal lato della violenza o della lotta, né dal lato del legame volontario (questi possono essere tutt’al più, soltanto degli strumenti del potere), ma piuttosto nell’area di quel singolare modo di azione, né bellico né giuridico, che è il governo», Ibid.

455 Scrive Foucault che «non c’è *…+ rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto – anima della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario», M. Foucault, La volontà di sapere, Op. cit., p. 85

456 M. Foucault, “La filosofia analitica della politica”, in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978 – 1985, Milano, Feltrinelli, pp. 98-113, p. 105. Conferenza tenuta il 27 aprile 1978 all’Asahi Kodo, centro di conferenze di Tokyo, sede del giornale “Asahi”.

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guardare alle relazioni di potere come giochi di potere, con i propri meccanismi e la

propria specifica razionalità. Assumendo questa prospettiva, nell’aprile del 1978,

durante una conferenza a Tokyo, Foucault riflette sulle modalità con cui la filosofia può

esercitare, ancora un volta, una funzione di “contro-potere”:

da molto tempo sappiamo che il compito della filosofia non è di scoprire ciò che è nascosto, ma di rendere esattamente visibile ciò che è visibile, di far apparire ciò che è così vicino, così immediato, così intimamente connesso a noi, da non poter essere percepito. [...] In questo senso, il compito della filosofia potrebbe oggi essere posto in questo modo: in che cosa consistono le relazioni di potere in cui siamo coinvolti e in cui si è impigliata la filosofia stessa, da almeno centocinquant’anni?457

Quali sono le relazioni di potere in cui siamo coinvolti e in cui la filosofia è impigliata?

Pur riconoscendo la continuità essenziale tra le diverse forme di potere-governo, è sul

governo con forma politica che Foucault viene concentrando le sue analisi: le relazioni

di potere da analizzare sono quelle relative al governo politico, che nella modernità si è

strutturato nella forma dello Stato. Le relazioni di potere relative al dispositivo statale,

afferma Foucault, non presuppongono l’individuo, bensì lo producono quale modalità

specifica di soggettivazione:

Le lotte contemporanee ruotano attorno alla domanda: chi siamo? [...] Il principale obiettivo di queste lotte non è tanto di attaccare “questa o quella” istituzione di potere, o gruppi, o élite, o classi, quanto piuttosto una forma o tecnica di potere. Questa forma di potere viene esercitata sulla vita quotidiana immediata che classifica gli individui in categoria, li marca attraverso la propria individualità, li fissa alla loro identità, impone loro leggi di verità che essi devono riconoscere e gli altri devono riconoscere in loro. È un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti. 458

Studiare la forma in cui il potere politico si organizza è l’unica via per poter agire una

qualche forma di resistenza, offrendo «indicatori tattici»459 per delle lotte possibili.

Così, esplicitando il legame tra lo studio della ragione politica e l’ontologia critica di noi

stessi, Foucault scrive:

forse il più rilevante di tutti i problemi filosofici è il problema del presente, e di ciò che siamo in questo momento. Forse l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. [...] La conclusione potrebbe essere che il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi, non è tanto liberare l’individuo dallo Stato, e dalle sue istituzioni, quanto di liberare noi

457 Ivi., pp. 103-104

458 M. Foucault, “Perché studiare il potere: la questione del soggetto”, Op. cit., p. 283

459 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 15. Così nel testo “Quel corps?” del 1975, dichiara: «fare un rilievo topografico e geologico della battaglia. È questo il ruolo dell’intellettuale», ora in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, Op. cit., p. 155

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stessi sia dallo Stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo Stato. Occorre promuovere forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli460.

Come procedere in questa direzione? «L’esperienza – dichiara Foucault - mi ha

insegnato che la storia delle diverse forme di razionalità è più efficace di una critica

astratta, se si vogliono scuotere le nostre certezze e il nostro dogmatismo»461. Nel

1979, in una doppia conferenza all’Università di Berkeley dal titolo “Omnes et

singulatim. Verso una critica della ragione politica”, Foucault chiarisce il senso e

l’obiettivo di un’analisi storica della razionalità di governo.

Coloro che resistono o si ribellano ad una forma di potere non dovrebbero accontentarsi di denunciarne la violenza o di criticarne un’istituzione. Né basta fare il processo alla ragione in generale. Ciò che bisogna rimettere in discussione è la forma della razionalità che si ha di fronte. [...] La questione è: in che modo sono razionalizzate le relazioni di potere? Porre tale questione è l’unica maniera per evitare che altre istituzioni, con gli stessi obiettivi e gli stessi effetti, prendano il

loro posto462.

Anziché chiedersi se le aberrazioni del potere di Stato siano dovute ad eccessi di razionalismo o di irrazionalismo, sarebbe più opportuno, credo, riferirsi strettamente al tipo specifico di razionalità politica che lo Stato ha prodotto. Dopo tutto, almeno a questo riguardo, le pratiche politiche assomigliano a quelle scientifiche: non è la “ragione generale” che viene applicata, ma sempre un tipo molto specifico di razionalità463.

Si comprende, così, il procedere foucaultiano verso una genealogia della sovranità

moderna, intendendo con sovranità qualcosa di strutturalmente molteplice: un nome

che non rinvia ad una “sostanza” o ad alcun “nucleo concettuale”, bensì a una serie

differenziata di contesti d’uso che devono essere ricostruiti. Non si tratta di cogliere il

“reale” funzionamento dello Stato, la sua struttura originaria464, bensì di tracciare per

così dire una carta geografica dei modi in cui esso esiste o è esistito, rendendo visibili i

suoi meccanismi di potere e la sua raison d’être. Compito specifico di una genealogia è

proprio quello di «determinare quali sono, nei loro meccanismi, nei loro effetti, nei

460 M. Foucault, “Perché studiare il potere: la questione del soggetto”, Op. cit., p. 287

461 M. Foucault, “Omnes et singluatim. Verso una critica della ragione politica”, Op. cit., p. 143

462 Ivi., p. 145

463 Ivi., p. 130

464 «Non si tratta, infatti, di strappare allo Stato il suo segreto», M. Foucault, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 75

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loro rapporti, i diversi dispositivi di potere che si esercitano, a diversi livelli della

società, in settori e con estensioni così varie»465.

Nella ricerca degli strumenti analitici da impiegare nelle proprie indagini,

Foucault ribadisce la necessità di un cambio di paradigma teorico, il bisogno di

trasformare il modo in cui pensiamo e problematizziamo il potere. Così, nella prima

lezione del Corso del 1976-1977, intitolato Bisogna difendere la società, Foucault

esplicita l’urgenza di «studiare il potere al di fuori del modello del Leviatano, al di fuori

del campo delimitato dalla sovranità giuridica e dall’istituzione dello Stato»466. E nel

1983, ricordando i motivi che lo spinsero a interessarsi alla questione del potere,

dichiara:

Mi pareva che per quanto riguarda le relazioni di potere non avessimo strumenti di analisi a disposizione e che facessimo ricorso a dei modi di pensare il potere esclusivamente basati su modelli giuridici: che cosa legittima il potere? Oppure che facessimo ricorso a dei modi di pensare il potere basati esclusivamente su dei modelli istituzionali, come: che cos’è lo Stato? Era pertanto necessario allargare le dimensioni di una possibile definizione del potere se si voleva utilizzare questa definizione per studiare l’oggettivazione del soggetto. *...+ Ma tale lavoro analitico non può essere svolto senza una conseguente e costante concettualizzazione, la quale implica un pensiero critico, una verifica costante467.

Come abbiamo già evidenziato, durante i corsi e le conferenze, Foucault lavora

attivamente a questo spostamento, con l’invenzione continua di nuove nozioni e

l’assunzione di molteplici prospettive. Così, in una conferenza all’Università di Bahia

nel 1976, in un intervento dal titolo “Le maglie del potere”468, Foucault presenta agli

studenti la possibilità di un’analisi tecnologica del potere:

vorrei provare a sviluppare o, meglio, vorrei provare a dimostrare in quale direzione si può elaborare un’analisi del potere che non sia semplicemente una concezione giuridica, negativa del potere, ma una concezione di una tecnologia del potere. [...] Come possiamo cercare di analizzare il potere nei suoi meccanismi positivi? 469

Confrontandosi con la riflessione di Jeremy Bentham e Karl Marx, Foucault individua

alcuni elementi per un’analisi positiva dei meccanismi del potere, elementi ormai noti,

ma qui offerti in un abbozzo più sistematico: il potere non è una sostanza, ma una

465 M. Foucault, Bisogna difendere la società, Op. cit., p. 20

466 Ivi., p. 37

467 M. Foucault, “Perchè studiare il potere: la questione del soggetto”, Op. cit., p. 280

468 M. Foucault, “Le maglie del potere”, Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Op. cit., pp. 156 - 157

469 Ivi., p. 156

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relazione tra azioni, con un suo modo di funzionamento, una procedura e una tecnica

specifici; il potere è sempre plurale: «non possiamo parlare del potere, dobbiamo

parlare dei poteri e tentare di localizzarli nella loro specificità storica e geografica»470;

la funzione primordiale di questi poteri non è affatto di proibire, ma di «produrre un

certo tipo di efficienza, un certo tipo di attitudine, un certo tipo di prodotto»471; i

meccanismi e le tecniche di potere non sono eterni o naturali, ma «sono stati inventati,

perfezionati e [...] si sviluppano continuamente»472. Per questi motivi, suggerisce

Foucault, «oltre alla storia delle tecniche industriali, bisogna fare la storia delle

tecniche politiche»473. Ciascuna tecnologia di potere possiede una determinatezza

spazio-temporale e si costituisce insieme al campo sociale in cui si esercita: le

tecnologie non intervengono “dopo”, ma si costituiscono insieme ai rapporti con cui

sono intrecciate, ai saperi che mettono in campo e ai soggetti che vi sono implicati474.

Quali sono gli oggetti che il potere definisce? Quali gli obiettivi e le finalità d’impiego di

una certa tecnica? Quali i mezzi e i saperi che utilizza? Quali le forme di

istituzionalizzazione? Quali i regimi di verità, di razionalizzazione? E, ancora più, quali i

focolai di resistenza e le lotte che suscita?475 La comprensione di una tecnologia è

possibile solo mediante l’analisi delle sue specifiche configurazioni, a partire dal campo

che esse stesse costituiscono.

La rielaborazione del concetto di potere, inteso come capacità di governo con

specifiche tecnologie e razionalità di esercizio, consente a Foucault di rispondere alla

critiche marxiste e di spostare la propria riflessione sul piano della contro

argomentazione. Rifiutando la necessità di una “teoria compiuta” dello Stato, il

pensatore francese accusa l’analisi marxista e la filosofia politica classica di aver

470 Ivi., p. 159

471 Ibid.

472 Ivi., p. 160

473 Ivi., p. 162

474 Così, in Bisogna difendere la società, Foucault specifica: «le relazioni di potere non sono in posizione di esteriorità nei confronti di altri tipi di rapporti (processi economici, rapporti di conoscenza, relazioni sessuali), ma che sono loro immanenti», Op. cit., p. 83. Lo stesso rapporto di immanenza si ha anche tra potere e sapere: bisogna ammettere che «potere e sapere si implicano direttamente l’un l’altro; che non esiste relazione di potere senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di sapere che non supponga e non costituisca nello stesso tempo relazioni di potere», M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, p. 31

475 Foucault specifica alcuni punti di analisi per le relazioni di potere: il sistema delle differenziazioni; i tipi di obiettivi perseguiti; i mezzi per attuare le relazioni di potere; le forme di istituzionalizzazione del potere; i gradi di razionalizzazione. Si rimanda a M. Foucault, “Perché studiare il potere: la questione del soggetto”, Op. cit., p. 285

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sopravvalutato il problema dello Stato, riducendo ad esso una serie di funzioni e

rendendolo, così, un bersaglio assolutamente essenziale da considerare476. Lo Stato,

ribatte Foucault, non è l’origine del potere, ma un suo effetto, una sua organizzazione

strategica: esso è frutto di un processo politico contingente, storico singolare, che

necessita di essere indagato e non può essere assunto come un dato di fatto477. Lo

Stato della filosofia politica tradizionale, sostiene Foucault, non è che un’astrazione

mitizzata, incapace di analizzare la realtà composita e i meccanismi di potere che

caratterizzano la sovranità politica moderna.

Le forme e le situazioni specifiche di governo degli uomini da parte di altri uomini, in una determinata società, sono molteplici; esse si sovrappongono, interferiscono fra loro, si impongono reciprocamente dei limiti, talvolta si annullano reciprocamente, tal altra si rafforzano. È certo che lo Stato, nelle società contemporanee, non è semplicemente una delle tante forme o delle tante situazioni specifiche – anche se è la più importante – di esercizio del potere, ma è egualmente certo che in qualche modo tutte le altre forme di relazione di potere devono riferirsi ad esso. Ma non perché queste derivino da esso; piuttosto perché le relazioni di potere sono state sempre più sottomesse al controllo dello Stato. 478

Ciò che è di vitale importanza per la nostra modernità, cioè per la nostra attualità, non

è in un processo di statalizzazione della società ma nell’attribuzione di una molteplicità

di relazioni di potere (o di governo, in senso ampio) all’istituzione statale (al governo

politico, governo in senso stretto).

Riferendoci questa volta al termine di governo in senso stretto, si potrebbe dire che le relazioni di potere sono state progressivamente governamentalizzate, vale a dire elaborate, razionalizzate e centralizzate nella forma, o sotto la cauzione, di istituzioni statali. 479

Mostrare gli elementi che hanno contribuito a produrre questo fenomeno - così

fondamentale nella storia dell’Occidente - sarà uno degli obiettivi dello studio

genealogico sullo Stato moderno, un lavoro che condurrà Foucault ad approfondire

ulteriormente il tema della governamentalità.

476 Il tentativo di sviluppare una filosofia politica che non essenzializzi la categoria dello stato si accompagna a quello di ripensare l’utilizzo di categorie politiche tradizionali come quelle di sovranità, legge e interdizione. Su questo l’intervista a Michel Foucault, di A. Fontana e P. Pasquino, giugno 1976, per Microfisica del potere, ora in Il discorso la storia la verità, Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Torino, Einaudi, 2001, pp. 171-192, qui p. 181: «Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costruita attorno al problema della sovranità, dunque della legge, dunque dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa al re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica».

477 M. Foucault, “Perché studiare il potere: la questione del soggetto”, Op. cit., p. 286

478 M. Foucault, “Come si esercita il potere?”, Op. cit., p. 295

479 Ibid.

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1.2 Genealogia dello Stato moderno

1.2.1 Tecnologie politiche: disciplina e regolazione

Durante la conferenza di Bahia del 1976, Foucault inizia ad elaborare una storia delle

tecnologie di potere, avviando gli studi genealogici sullo Stato moderno su cui si

concentrerà durante gli anni successivi. Osservando i secoli XVII e XVIII, Foucault

sottolinea l’invenzione di due distinte tipologie di tecnologia politica, le quali hanno

contribuito a trasformare i procedimenti politici dell’Occidente, mettendo in

discussione la concezione giuridico-politica della sovranità e il modello di governo della

monarchia feudale. Queste due invenzioni rivoluzionarie sono: la tecnologia

disciplinare anatomo-politica e la tecnologia di regolazione bio-politica. Vediamo le

parole di Foucault a riguardo.

La disciplina è il meccanismo di potere con cui riusciamo a controllare gli elementi più sottili del corpo sociale, a raggiungere gli stessi atomi sociali, cioè gli individui. Tecniche di individualizzazione del potere. Come sorvegliare qualcuno, come controllarne la condotta, il comportamento, le attitudini, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile: ecco che cos’è, secondo me, la disciplina. *...+ La chiamerei tecnologia individualizzante del potere, una tecnologia che investe gli individui anche nel corpo, nel comportamento; è una sorta di anatomia politica, di anatomo-politica, un’anatomia che investe gli individui fino al punto di anatomizzarli.

Questa tecnologia di potere, apparsa in Europa nei secoli XVII e XVIII, è al centro

dell’interesse foucaultiano agli inizi degli anni Settanta480: in questo periodo, Foucault

si concentra sull’emergere dei dispositivi disciplinari (in modo particolare quelli

penitenziari e psichiatrici), sottolineando le differenze che questi introducono rispetto

ai dispositivi tradizionali di sovranità, finalizzati a manifestare la potenza del sovrano.

Successivamente, invece, l’attenzione di Foucault si sposta sullo sviluppo di un’altra

famiglia di tecnologie di potere, apparsa un po’ più tardi, nella seconda metà del XVIII

secolo.

Invece di investire gli individui in quanto individui, queste tecnologie mirano alla popolazione. [...] Cosa vuole dire popolazione? Non significa soltanto un gruppo umano numeroso, ma esseri viventi attraversati, comandati e retti da leggi e da processi biologici. Una popolazione ha un tasso di natalità, di mortalità, ha una

480 A testimonianza di ciò troviamo le analisi delle pratiche penali e psichiatriche condotte nei primi anni al College de France e parzialmente confluite nel volume Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, pubblicato nel 1975.

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curva e una piramide di età, una morbilità, uno stato di salute; una popolazione può estinguersi o, al contrario, svilupparsi. [...] Di conseguenza, ci si accorge [...] che il potere deve esercitarsi sugli individui in quanto costituiscono una specie biologica, che deve essere presa in considerazione se si vuole utilizzare la popolazione come macchina per produrre ricchezze, beni o altri individui. [...] È stata inventata quella che chiamerei, in opposizione all’anatomo-politica di cui parlavo prima, la bio-politica.

Qual è la relazione tra queste due tecnologie di potere? Nell’ultima lezione del Corso

Bisogna difendere la società, tenuto al Collège de France tra il 1976 e il 1977, Foucault

chiarisce questo passaggio. La tecnologia bio-politica è una tecnologia

che non esclude [...] la tecnica disciplinare vera e propria, ma che piuttosto la incorpora, la integra, la modifica parzialmente e che, soprattutto, la utilizza installandosi in qualche modo al suo interno, giungendo a radicarsi effettivamente grazie a questa tecnica disciplinare preliminare. La nuova tecnica non sopprime la tecnica disciplinare per la semplice ragione che essa si situa a un altro livello, si colloca su di un’altra scala, possiede un’altra superficie portante e ricorre a strutture del tutto diverse.481

Nell’analisi foucaultiana, queste tecnologie non danno luogo a due distinte “teorie del

potere”, l’una indipendente e successiva all’altra, ma rappresentano «due modalità

congiunte di funzionamento del potere/sapere, anche se è vero che ciascuna presenta

dei fuochi, dei punti di applicazione, delle finalità e delle poste in gioco specifiche»482.

La prima «manipola il corpo come un focolaio di forze che occorre rendere insieme utili

e docili», la seconda «raccoglie gli effetti di massa propri a una specifica popolazione e

cerca di controllare la serie di avvenimenti aleatori che possono prodursi all’interno di

una massa vivente»483. Ad esse corrispondono procedure e strumenti propri, apparati e

protocolli di azione politica differenti. La tecnologia disciplinare, concentrata

sull’uomo-individuo, si realizza attraverso un sistema di dressage, sorveglianza,

gerarchia, ispezione, punizione, potenziando ed estorcendo la forza del corpo. La

tecnologia biopolitica, concentrata sull’uomo-specie, si fonda su processi di

osservazione, misurazione globale, previsione, calcolo, utilizzando la Statistica e i

grandi apparati di regolazione della popolazione (quali gli organismi amministrativi,

medici, educativi, economici, ecc.)484.

481 M. Foucault, Bisogna difendere la società, Op. cit., pp. 208-209

482 M. Bertana e A. Fontana, “Nota dei curatori”, in M. Foucault, Bisogna difendere la società, op. cit., p.

243 483

M. Foucault, Ivi., p. 215 484

Ivi., p. 209

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Nell’ultimo capitolo del libro La volontà di sapere, pubblicato sempre nel 1976,

Foucault precisa ulteriormente le differenze tra i dispositivi disciplinari e i dispositivi

bio-politici. I primi sono dispositivi di addestramento, ordinati secondo criteri di

efficacia e di economia; i secondi sono dispositivi assicurativi e regolativi, che operano

sulle relazioni che li legano, attraverso i processi biologici d’insieme, allo stato generale

di benessere della popolazione485. Nel descrivere questi ultimi dispositivi, Foucault

introduce l’espressione “dispositivi di sicurezza”, per nominare una modalità di

funzionamento del potere che non ha di mira il particolare, bensì un ambiente (un

insieme di elementi naturali e artificiali dotato di leggi proprie) e una popolazione

(l’insieme degli individui considerati come specie). I dispositivi di sicurezza si fondano

su

meccanismi regolatori che, all’interno di una popolazione globale, con i fenomeni aleatori che l’accompagnano, *sono+ in grado di determinare un equilibrio, conservare una media, stabilire una sorta di omeostasi, assicurare delle compensazioni.486

Ciò non significa che i dispositivi di disciplina individuale svaniscano487:

la disciplina non è mai stata più importante, più valorizzata che a partire dal momento in cui si cercava di gestire la popolazione, e gestire la popolazione non voleva dire soltanto gestire la massa collettiva di fenomeni o gestirli solo a livello dei loro risultati complessivi; gestire la popolazione significa gestirla in profondità, nei particolari.488

Il diffondersi dei dispositivi disciplinari e di sicurezza, osserva Foucault, si accompagna

ad una trasformazione più ampia della società, una trasformazione nei problemi di

potere e nella ragione di governo.

Tra il secolo XII e il secolo XVIII le società europee sono state essenzialmente società giuridiche, in cui il problema del diritto era fondamentale: si combatteva per il diritto e, per il diritto, si facevano le rivoluzioni. A partire dal secolo XIX [...] si è cominciato ad infiltrare un meccanismo di potere profondamente diverso: questo meccanismo non ubbidiva a forme giuridiche, non aveva come principio fondamentale la legge, ma la norma. [...] Siamo in un mondo disciplinare, nel mondo della regolazione.

485 M. Foucault, La volontà di sapere, Op. cit., p. 123

486 Ivi., p. 212

487 Ibid. «L’idea di un governo della popolazione – precisa Foucault - rende ancora più acuto il problema del fondamento della sovranità (si pensi a Rousseau) e più acuta anche la necessità di sviluppare discipline».

488 Ibid.

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Non voglio dire che la legge scompaia, o che le istituzioni di giustizia tendano a sparire; ma che la legge funziona sempre di più come una norma; e che l’istituzione giudiziaria s’integra sempre di più ad un continuum di apparati (medici, amministrativi, ecc.), le cui funzioni sono soprattutto regolatrici489.

È importante però notare una differenza specifica tra la norma disciplinare e quella

regolativa: il loro funzionamento, nota Foucault, è in un rapporto di inversione490. Se la

tecnologia disciplinare presume una norma prescrittiva, la tecnologia di sicurezza

muove dal riconoscimento di una normalità empirico-statistica: invece di orientare la

realtà verso un valore predefinito e vincolante, assume la realtà empirica – definita

dalla distribuzione statistica della frequenza e della probabilità – come uno standard di

riferimento, un benchmark. I meccanismi di sicurezza non tracciano una linea di

divisione netta tra ciò che è permesso e ciò che è proibito - tra ciò che è normale e ciò

che è anormale - ma individuano una media ottimale, entro un intervallo di variabilità:

«l’operazione di normalizzazione consiste nel far giocare tra loro queste differenti

distribuzioni di normalità, in modo che le più sfavorevoli siano ricondotte al livello

delle più favorevoli»491. Perché questo meccanismo funzioni è necessario formare e

garantire la libertà degli individui, stimolando e favorendo il desiderio del proprio

interesse.492

L’emergere di una società di normalizzazione accentua l’attrito con il

tradizionale dispositivo di sovranità, il quale si fondava su meccanismi di prelievo forze

dei soggetti. Il dispositivo di sicurezza, invece, esercita «un potere destinato a produrre

delle forze, a farle crescere e a ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a

distruggerle»493. Al principio legislativo delle società giuridiche, che dal XII secolo

trovava la propria ragione sul diritto sovrano di “far uccidere e lasciar vivere”, si

sovrappone il principio produttivo dei dispositivi disciplinari e quello regolativo dei

dispositivi di sicurezza, tesi ad ottimizzare la vita della popolazione, a “far vivere e

lasciar morire”. Come scrive Foucault:

le discipline del corpo e le regolazioni della popolazione costituiscono i due poli intorno ai quali si è sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita. La creazione [...] di questa grande tecnologia a due facce – anatomica e biologica, agente

489 M. Foucault, La volontà di sapere, Op. cit., p. 128

490 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 55

491 Ibid.

492 Ivi., p. 48 e pp.63-64

493 Ivi., p. 120

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sull’individuo e sulla specie, volta verso le attività del corpo e verso i processi della vita – caratterizza un potere la cui funzione più importante ormai non è più di uccidere ma di investire interamente la vita494

Il funzionamento di questi nuovi dispositivi si mostra irriducibile al

funzionamento della legge e al dispositivo tradizionale di sovranità, e tuttavia il

riferimento alla sovranità legislativa non è scomparso. Ciò che interessa a Foucault non

è di evidenziare un passaggio cronologico - la sostituzione della società di sovranità da

parte di una società disciplinare e poi di una società di sicurezza - bensì di evidenziare

l’articolazione di diverse modalità di potere (sovranità-disciplina-regolazione), che

emergono a partire dalla costituzione di un nuovi problemi, nuovi saperi, nuove

tecnologie di potere. La distinzione tecnologica tra dispositivi disciplinari e dispositivi di

sicurezza, anticipa quella fra la razionalità dello stato di polizia e quella dello stato

liberale, sulle quali Foucault si concentra durante il Corso Sicurezza, territorio e

popolazione, approfondendo lo studio genealogico delle diverse razionalità politiche.

1.2.2 Razionalità di governo

Come già anticipato, durante il Corso del 1978 Foucault viene rinnovando il proprio

approccio al potere politico, mettendo in campo la nozione di governo quale criterio

guida delle proprie analisi495. Fin da subito, Foucault si scontra con molteplici forme di

governo, modalità che hanno incontrato momenti di crisi e sono state affiancate,

sostituite, integrate, da modalità alternative di strutturare il campo di azione degli

uomini. Punto di partenza per iniziare una traiettoria storica attorno alle diverse

modalità di governo è il potere pastorale, all’interno del quale Foucault riconosce

l’invenzione del governo quale condotta di condotte. Nel corso delle lezioni di

Sicurezza, territorio e popolazione, l’attenzione di Foucault si concentra in primo luogo

sul pastorato cristiano, per poi analizzare come il dispositivo di potere del governo sia

modificato lungo l’arco storico, diffondendosi nell’ambito della vita politica.

494 M. Foucault, La volontà di sapere, Op. cit., p. 123

495 Inizialmente, Foucault sembra utilizzare l’espressione “governo” per indicare la modalità specifica di esercizio del potere dello Stato liberale e dei dispositivi di sicurezza. Successivamente, egli abbandona questo significato ristretto, assumendo la nozione di governo come categoria di comprensione di tutte le relazioni di potere. Per una ricostruzione dettagliata di questo passaggio si rimanda a P. Cesaroni, Michel Foucault: archeologia, governamentalità, governo di sé, Tesi di Dottorato, Ciclo XX, Università degli Studi di Padova, 31 gennaio 2008, http://paduaresearch.cab.unipd.it/890/ ultima consultazione 27/01/2018

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Analizzando alcuni esempi di questa trasformazione, Foucault si concentra sui caratteri

specifici della “Ragion di Stato”e sullo sviluppo dello Stato liberale. Vediamone

brevemente i tratti più significativi.

Potere pastorale

Con l’espressione “potere pastorale” Foucault indica una tecnica di potere che trova le

sue radici nell’ebraismo, ma assume la sua configurazione specifica nel contesto

dell’istituzione cristiana, in contrapposizione e in competizione con le istituzioni del

potere politico. Il pastorato mira ad assicurare la salvezza spirituale di tutto il gregge e

di ciascuno componente (omnes et singulatim): si preoccupa di ogni singolo individuo

per tutta la durata della sua vita, conducendo la sua coscienza e il suo comportamento

senza l’utilizzo di ordini e leggi, ma avvalendosi di tecniche quali l’esame di sé, la

confessione, la direzione spirituale. Schematicamente, Foucault ne offre la seguente

descrizione:

[La tecnica pastorale] è rivolta verso la salvezza (a differenza del potere politico). È oblativa (in opposizione al principio di sovranità); è individualizzante (in opposizione al potere legale); è coestensiva a tutta quanta la vita e la pervade

interamente; è legata alla produzione di verità – la verità dell’individuo stesso.496

Tra il XVI e il XVIII secolo, osserva Foucault, il potere pastorale si slega da una

particolare istituzione religiosa, diffondendosi all’intero corpo sociale e trovando

sostegno in una moltitudine di istituzioni.

Al posto di un potere pastorale e di un potere politico, più o meno legati tra di loro, più o meno antagonisti, si vide lo sviluppo di una “tattica” individualizzante che caratterizzava una serie di poteri: quelli della famiglia, della medicina, della psichiatria, dell’educazione, dei padroni.497

Il problema non è più stato quello di guidare gli uomini alla salvezza nell’altro mondo, ma piuttosto di assicurarla in questo. In tale contesto la parola salvezza acquista significati diversi: salute, benessere (vale a dire ricchezze sufficienti, standard di vita), sicurezza, protezione contro gli incidenti. Una serie di obiettivi

mondani veniva a prendere il posto dei fini religiosi della pastorale tradizionale498.

In quel periodo gli obiettivi e gli agenti del potere pastorale si moltiplicano,

sviluppando un sapere sull’uomo che si focalizza attorno a due ruoli: «l’uno,

globalizzante e quantitativo, incentrato sulla popolazione; l’altro, analitico, rivolto

496 Ivi., p. 285

497 Ivi., p. 286

498 Ivi., p. 285

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all’individuo»499. Tra i saperi più significativi per l’“arte del governo” Foucault indica la

Polizeiwissenschaft, la disciplina della polizia che si sviluppa in Germania all’inizio del

XVIII secolo e che diviene un sapere di riferimento per la “Ragion di Stato”.

Ragion di Stato

Confrontandosi con la letteratura sul governo sviluppatasi tra il XV e il XVIII secolo, in

contrapposizione a Il Principe di Machiavelli, il pensatore francese analizza i caratteri

specifici della ragione politica moderna, organizzata sul principio della Raison d’Etat.

Questa “arte di governo” mira all’amministrazione disciplinare degli individui, al fine di

accrescere la potenza dello Stato, in un contesto di espansione e di competizione. Tra

le modalità di governo specifiche della Ragion di Stato Foucault individua il

mercantilismo, le tecniche diplomatico-militari della “bilancia europea” e lo stato di

polizia, fondato sui principi e gli strumenti della Polizeiwissenschaft.

Analizzando i principali manuali della “scienza di polizia” sviluppatasi in

Germania nel XVIII secolo, Foucault recupera una definizione di polizia che è molto più

ampia di quella rinvenibile nell’epoca contemporanea. Nel testo di un teorico come

Von Justi, la polizia

è ciò che permette allo Stato di accrescere il suo potere e di esercitare la sua forza al massimo livello. D’altro canto, la polizia deve garantire la felicità della gente – intendendo per felicità la sopravvivenza, la vita e il suo miglioramento.500

La Polizeiwissenschaft è la scienza degli oggetti, dei mezzi e delle procedure razionali di

governo, un sapere sullo Stato che permetta di migliorarne la posizione nel gioco delle

rivalità e delle concorrenze, garantendo l’ordine interno attraverso il “benessere” degli

individui. In sintesi, la polizia è “tecnologia delle forze dello Stato”, un dispositivo di

carattere sia giuridico che disciplinare501.

Nella grande proliferazione delle discipline locali e regionali, cui si è potuto assistere dalla fine del XVI al XVIII secolo, nelle officine, nelle scuole, nell’esercito, bisogna infatti vedere un fenomeno che si staglia sullo sfondo del tentativo di disciplinamento e di regolamentazione generale degli individui e del territorio del regno, e che prende la forma di una polizia con un modello essenzialmente urbano.

499 Ivi., p.286

500 M. Foucault, “Omnes et singulatim”, Op. cit., p. 142

501 M. Foucault, “Riassunto del corso”, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 268

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Tra il XVI e l’inizio del XVIII secolo, quindi, grazie ai saperi e alle tecnologie di governo

della “police”, il potere pastorale si rende operante all’interno della razionalità politica

della Ragion di Stato, ampliando sensibilmente la sfera di intervento dello Stato.

Questa si estende ora «ad una grandissima quantità di questioni: il benessere, la

moralità, il lavoro, la ricchezza, gli agi, i piaceri, i rapporti sociali, la felicità»502.

Seguendo l’analisi foucaultiana, la Polizeiwissenschaft è animata dal seguente

principio:

non si fa mai abbastanza attenzione, troppe cose sfuggono, vi sono troppi ambiti che non possiedono né una regolazione, né un regolamento, l’ordine e l’amministrazione risultano carenti; in breve, si governa troppo poco.503

Assumendo questo principio, il governo della Ragion di Stato mira allo sviluppo di tutti

gli «elementi costitutivi della vita degli individui in modo che il loro sviluppo rafforzi

anche la potenza dello Stato»504.

Stato liberale

Durante il XVIII secolo, vediamo emergere una nuova “arte del governo”, una diversa

organizzazione razionale degli oggetti, delle tecnologie e delle finalità di governo: il

liberalismo505. Il liberalismo nasce in contrapposizione alle forme di governo dello

stato di polizia: offre una differente problematizzazione del reale e nuove modalità con

cui governarne i problemi. In primo luogo, scrive Foucault, il liberalismo si esercita

come “critica” della razionalità politica, nel senso più radicale di una semplice prova di

ottimizzazione.

Essa non deve interrogarsi soltanto sui mezzi migliori (o su quelli meno costosi) per conseguire i suoi effetti, ma anche sulla possibilità e sulla legittimità stessa del suo progetto di conseguire degli effetti.506

502 O. Marzocca, “Introduzione”, Op. cit., pp. 11-12

503 M. Foucault, “Riassunto del corso”, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 262

504 Ivi., p. 145. Così, precisa lo studioso De Lamare, la polizia si prende «cura del bene dell’anima (grazie alla religione o alla moralità), del bene del corpo (alimentazione, salute, vestiario, alloggio) e della ricchezza (industria, commercio, manodopera)», p. 140

505 Come precisa in Nascita della Biopolitica, Foucault è interessato al liberalismo «non come una teoria o un’ideologia e ancor meno, beninteso, come un modo di “rappresentarsi”...da parte della “società”, bensì come una pratica, vale a dire un “modo di fare” che è orientato verso determinati obiettivi e che si regola attraverso una riflessione continua. Il liberalismo va dunque analizzato come principio e metodo di razionalizzazione dell’esercizio di governo», “Riassunto del corso”, Nascita della biopolitica, Op. cit., pp. 261-262

506 Ivi., p. 262

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La razionalizzazione dell’esercizio di governo liberale obbedisce alla «regola interna

della massima economia»507. Il liberalismo, infatti, «è attraversato da questo principio:

“Si governa sempre troppo”, o almeno, occorre sempre sospettarlo. *...+ Il sospetto che

si rischia sempre di governare troppo contiene questa domanda: perché mai

bisognerebbe governare?508». In tal senso, osserva Foucault, la critica liberale è

inseparabile da una problematica nuova per l’epoca: la popolazione. La popolazione, e

successivamente la società civile, è contemporaneamente condizione e fine ultimo del

governo liberale: è in base ad essa, al suo benessere, che si cerca di capire in merito a

che cosa è inutile o dannoso che intervenga un governo.

Per mettere a fuoco le differenze tra le modalità di esercizio del governo della

Ragion di Stato e del liberalismo, nella seconda lezione di Sicurezza, territorio e

popolazione, Foucault prende ad esempio il problema della scarsità del grano,

confrontando la strategia di governo del mercantilismo e della fisiocrazia. L’approccio

mercantilistico opera sulle forze produttive per evitare la scarsità: utilizzando un

sistema giuridico-disciplinare agisce sui prezzi, sui salari, sul controllo rigido delle

coltivazioni e dei commerci, per scongiurare una simile eventualità. La fisiocrazia,

invece, vede la scarsità del grano come un “fenomeno naturale”, il quale non può

essere semplicemente evitato, ma deve essere regolato, agendo sui processi intrinseci

e cercando di equilibrarli. Le azioni di governo dirette e artificiali sono sconsigliate,

l’intervento sui meccanismi naturali è favorito. Un elemento centrale della razionalità

di governo liberale è proprio la dimensione naturale dell’oggetto di governo: non solo

i processi economici sono da intendersi come naturali, dotati di una meccanica interna

da conoscere e rispettare, ma la stessa popolazione è compresa come un insieme di

“fenomeni naturali”, come specie vivente che abita un ambiente e i cui processi

biologici sono da sorvegliare, per - se necessario - stimolarli o correggerli.

Inizia così a emergere, come derivato della tecnologia di “polizia” e come correlato della nascita della riflessione economia, il problema politico della

507 Ibid.

508 Ivi., p. 263. Aggiunge Foucault, «la questione del liberalismo, intesa come questione del “governare troppo”, è stata una delle dimensioni costanti di un fenomeno recente per l’Europa, apparso, come sembra, per la prima volta in Inghilterra, vale a dire la “vita politica”, di cui il liberalismo rappresenta uno degli elementi costitutivi, al punto che la vita politica esiste quando la pratica governamentale è limitata, nel suo possibile eccesso, dal fatto di essere oggetto di un pubblico dibattito che concerne il suo essere “un bene o un male”, “troppo o troppo poco”», “Riassunto del corso”, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 265

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popolazione. Questa non è concepita come una collezione di “sudditi di diritto”, né come un insieme di braccia destinate al lavoro, ma è analizzata come un insieme di elementi che, da un lato, si ricollega al regime generale degli esseri viventi (la popolazione appartiene alla “specie umana”, nozione nuova per l’epoca, che va distinta dal “genere umano”) e, dall’altro, può fungere da supporto a interventi concertati (mediante le leggi, ma anche mediante i mutamenti degli atteggiamenti, dei modi di fare e di vivere che si possono ottenere attraverso le “campagne”).509

Oggetto del governo liberale è quindi la popolazione, e il suo bene ne è la finalità

specifica:

la popolazione apparirà più di ogni altra cosa come il fine ultimo del governo, perché il suo fine non può essere di governare, ma di migliorare la sorte della popolazione, di aumentare la sua ricchezza, la sua durata di vita, la sua salute, ecc. e gli strumenti che il governo si darà per ottenere questi scopi, che sono in un certo senso immanenti alla popolazione, saranno la popolazione stessa su cui agisce, direttamente, con le campagne, o, indirettamente, con tecniche che gli permettano di stimolare, senza che la gente se ne accorga troppo, il tasso di natalità o di dirigere verso una certa regione o verso una certa attività, i flussi di popolazione ecc.510

All’interno di questo contesto, il governo liberale «isola l’economia come settore

specifico di realtà e l’economia politica come scienza e tecnica di intervento del

governo in questo settore di realtà»511: l’andamento del mercato – e i fenomeni della

popolazione che esso codetermina - gioca un ruolo di “test”, in cui valutare gli effetti

dell’eccesso dell’azione di governo512. Il “tribunale del mercato” diviene il luogo di

veridizione del governo liberale.

Riprendendo questi temi in Nascita della Biopolitica, Foucault sottolinea altri

due elementi caratterizzanti l’“arte di governo” liberale, elementi che, implicandosi a

vicenda, fanno parte di uno stesso ingranaggio: accanto a natura, troviamo libertà e

sicurezza. Al contrario dell’amministrazione disciplinare, tesa a regolare tutto senza

tralasciare nulla, il governo liberale lascia fare.

Lasciar fare, accadere, scorrere, significa essenzialmente fare in modo che la realtà si sviluppi, proceda e segua il suo corso secondo le leggi, i principi e i

meccanismi propri della realtà.513

Questa modalità di governo sembra funzionare solo in presenza della libertà, «libertà

del mercato, libertà del venditore, libero esercizio del diritto di proprietà, libertà di

509 M. Foucault, “Riassunto del corso”, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 268

510 Ivi., p. 85

511 Ivi., p. 88

512 M. Foucault, “Riassunto del corso”, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 264

513 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 47

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discussione, eventualmente libertà d’espressione, ecc.»514. La libertà è un elemento

strutturale e indispensabile del governo liberale, per questo motivo tale governo non si

limita a riconoscere e garantire la libertà degli uomini, ma la sostiene, la produce, la

organizza.

La nuova ragione di governo ha dunque bisogno di libertà, la nuova arte di governo consuma libertà. Se consuma libertà, è obbligata anche a produrne, e se la produce è obbligata anche ad organizzarla. 515

Si creano così le condizioni per dar vita a una legislazione formidabile, per una formidabile quantità di interventi di governo, a garanzia di quella produzione di libertà di cui si ha appunto bisogno per governare.516

Il governo è chiamato ad una continua cura e assicurazione di libertà: i soggetti liberi

vivono in una situazione di incertezza, «sono indotti a provare la loro situazione, la loro

vita, il loro presente, il loro futuro, come gravidi di pericolo»517. Il problema della

sicurezza, cioè del rischio sociale, costituisce, nel XIX secolo, un campo decisivo di

intervento del governo liberale, promuovendo campagne sull’igiene, sul risparmio,

sull’assicurazione sociale, e così via. La “questione sociale” sarà uno dei problemi

attorno ai quali, durante il XX, si svilupperanno le pratiche di governo neoliberale,

offrendo interpretazioni e risposte differenti.

Dopo aver condotto una ricostruzione genealogica dello Stato liberale, ripensando al

senso generale del corso proposto, Foucault ammette:

potrei dire che se avessi voluto dare al corso che ho iniziato quest’anno un titolo più esatto, non è certamente “Sicurezza, Territorio e Popolazione” che avrei scelto; quello che vorrei fare, è qualcosa che chiamerei una storia della “governamentalità”.518

Cosa intende, quindi, con questo termine? Il significato di questa parola oscilla e si

trasforma nel corso delle lezioni. In un primo momento, in via provvisoria, Foucault

avanza tre definizioni, due delle quali saranno poi smentite, ampliate o abbandonate.

La prima definizione presenta la governamentalità come

514 M. Foucault, Nascita della biopolitica, Op. cit., p.65

515 Ibid.

516 Ivi., p.67

517 Ivi., p.68

518 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 88

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1) l’insieme costituito dalle istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma molto specifica sebbene molto complessa di potere che ha per bersaglio la popolazione, come forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza519.

Questa definizione sembrerebbe associare il termine governamentalità solamente

all’“arte di governo” dello Stato liberale. Tuttavia, lo stesso Foucault utilizza questo

termine in senso più ampio, descrivendo lo sviluppo dello Stato liberale come

l’emergere di «una nuova forma di governamentalità *che+ si oppone, quasi punto per

punto, alla governamentalità contenuta nell’idea di uno stato di polizia»520. E ancora, il

liberalismo

costituisce uno strumento critico della realtà: di una governamentalità precedente da cui cerca di liberarsi, di una governamentalità attuale che si tenta di riformare e di razionalizzare riconsiderandola alla radice, di una governamentalità a cui ci si oppone e di cui si vogliono limitare gli abusi.521

Ci troviamo, così, dinnanzi ad una pluralità di governamentalità: quella della Ragion di

Stato, quella del liberalismo e quella di rielaborazioni del liberalismo, quali ad esempio

le forme contemporanee del neo-liberalismo.

Nella seconda definizione, Foucault specifica la governamentalità come

2) La tendenza, che in tutto l’Occidente non ha smesso di condurre, e da molto tempo, verso la preminenza di questo tipo di potere, che si può chiamare il governo, su tutti gli altri: sovranità, disciplina, ecc., il che ha condotto da una parte a tutta una serie di apparati specifici di governo e dall’altra allo sviluppo di tutto un insieme di saperi.

Questa definizione rimanda ad un significato stretto del temine governo, quale

relazione di potere dei dispositivi di sicurezza, in opposizione ai dispositivi di sovranità

e a quelli disciplinari. Si tratta di una restrizione che Foucault abbandona nel corso

delle lezioni, impiegando il termine governo in senso sempre più ampio, anche in

relazione al sistema giuridico o della polizia. Al tempo stesso, però, questa seconda

formulazione sembra offrire la governamentalità come categoria capace di illuminare il

rapporto costitutivo che ogni governo politico intrattiene con apparati e saperi,

tecnologie e regimi di verità.

519 Ibid.

520 M. Foucault, Nascita della biopolitica, pp.252-253

521 M. Foucault, “Riassunto del corso”, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 263

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Infine, la terza definizione. Qui, la nozione di governamentalità è utilizzata per

indicare

3) Il processo, o piuttosto il risultato del processo attraverso il quale lo Stato di giustizia del Medio Evo, diventato tra il XV e il XVI sec. stato amministrativo, si è trovato a poco a poco “governamentalizzato”.522

Questa ultima formulazione sembra offrire un piano di comprensione coerente e

stabile all’interno del lavoro foucaultiano, indicando ciò che accomuna la serie

eterogenea di “arti di governo” che si sono sviluppate nell’Europa moderna a partire

dalla Ragion di Stato. Seguendo l’analisi di Pierpaolo Cesaroni, l’elemento comune alle

diverse modalità di governo (di polizia, di amministrazione, disciplinare, di sicurezza,

liberale, neoliberale, ecc.) consta in un certo rapporto con la verità:

pur nella loro diversità irriducibile, queste arti di governo avrebbero un elemento in comune nel fatto che, per esse, la verità non si manifesta più [...] come rapporto problematico a un ordine all’interno del quale l’azione di governo doveva inscriversi – e di cui doveva essere la manifestazione –, bensì assume tutt’altra forma: si pone come esigenza conoscitiva, nel modo di un sapere positivo, dell’oggetto a cui è rivolta l’azione di governo523.

La cesura del XVI secolo, che si attua con la Ragion di Stato, va intesa come nascita

della governamentalità, «cioè appunto di un nuovo rapporto fra governo e verità

strutturato attorno alla conoscenza oggettiva degli elementi su cui si esercita il

comando»524. A partire dalla Ragion di Stato, ribadisce Foucault, «l’arte di governare è

razionale se la riflessione la induce ad osservare la natura di ciò che viene

governato»525. Pensare la razionalità di governo come conoscenza oggettiva di ciò che

si comanda e come promozione della «potenza dello Stato», dice Foucault, «significa

rompere con una tradizione al tempo stesso cristiana e giudiziaria, una tradizione che

esigeva che il governo fosse essenzialmente giusto. Questo doveva rispettare tutto un

sistema di leggi: leggi umane, legge naturale, legge divina»526. La verità non è più intesa

come rappresentazione di un ordine, ma come conoscenza oggettiva di ciò che deve

essere governato. Il “buon governo” non sarà più il governo “giusto” bensì il governo

522 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., p. 88

523 P. Cesaroni, Michel Foucault: archeologia, governamentalità, governo di sé, Op. cit., p. 178

524 Ivi., p. 177

525 M. Foucault, “Omnes et singulatim”, Op. cit., p. 132

526 Ibid.

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che conosce la popolazione, l’ambiente, l’economia o la società a cui si rivolge. Precisa

Foucault in Nascita della Biopolitica:

a partire dal XVI e XVII secolo – come ho cercato di mostrarvi l’anno scorso –, la regolazione dell’esercizio del potere mi sembra non avvenga più secondo la saggezza, ma secondo il calcolo, inteso come calcolo delle forze, calcolo delle relazioni, calcolo delle ricchezze, calcolo dei fattori di potenza.527

Alla luce di ciò, nota Cesaroni, è possibile precisare il significato che Foucault

attribuisce al termine “Stato”. In primo luogo, lo Stato è l’insieme dei dispositivi

governamentali, ossia l’insieme delle arti di governo che condividono il rapporto alla

verità che si è venuto affermando a partire dal XVI secolo. È un insieme eterogeneo di

diversi modi di governare, che nascono e tramontano (si sommano, si oppongono, si

intrecciano) e hanno un certo rapporto con la verità. Secondariamente, lo Stato è il

campo immanente degli oggetti a cui si rivolgono le pratiche governamentali, i suoi

saperi e le sue tecnologie di potere. Nel quadro teorico della governamentalità,

conclude Cesaroni, lo Stato

si risolve in un insieme eterogeneo di pratiche di governo e di campi di azione corrispondenti, accomunati da quel modo specifico di pensare il rapporto del governo alla propria verità che si traduce nello sviluppo di conoscenze positive528

La governamentalità emerge allora come uno griglia di interpretazione attraverso cui

analizzare gli elementi specifici delle modalità di esercizio del potere politico

occidentale, a partire dalla modernità: la razionalità del potere politico, ossia la logica

del suo esercizio e i saperi attraverso i quali costituisce il proprio campo di influenza, e

l’insieme degli apparati, istituzioni, dispositivi e tecnologie mediante i quali il governo

struttura il campo di azione dei governati. Ad ogni tipo di governamentalità

corrisponde, infatti, una modalità specifica di costituzione degli individui in quanto

soggetti. Dopo questo primo chiarimento sul significato che il concetto di

governamentalità sembra assumere, vediamo nel dettaglio l’analisi foucaultiana delle

forme governamentali del neoliberalismo.

527 M. Foucault, Nascita della Biopolitica, Op. cit., p. 256-257

528 «Per questo motivo - continua Cesaroni - Foucault rifiuta non solo l’approccio che fa dello Stato il luogo unico della realtà politica, ma anche l’idea che esso sia il risultato ideologico di una serie di funzioni economiche», P. Cesaroni, Michel Foucault: archeologia, governamentalità, governo di sè, p.179

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1.3 La governamentalità neoliberale

In Nascita della Biopolitica, Foucault specifica il liberalismo quale «forma di riflessione

critica sulla pratica governamentale», da cui deriva il suo intrinseco polimorfismo. Per

questo motivo, «si potrà trovare il liberalismo simultaneamente in forme differenti,

vale a dire come schema regolatore della pratica governamentale e come tema di

opposizione talvolta radicale»529. Durante il Corso del 1979, allora, dopo aver delineato

i tratti portanti della governamentalità liberale del XVIII secolo, (distinguendola

dall’arte di governo legata alla Ragion di Stato, alla polizia e al mercantilismo), Foucault

introduce due esempi contemporanei di riorganizzazione della governamentalità

liberale: l’ordoliberalismo tedesco degli anni 1948-1962 e il neoliberalismo americano

della Scuola di Chicago. «In entrambi i casi – osserva Foucault - il liberalismo si è

presentato, in un contesto molto specifico, come una critica dell’irrazionalità propria

dell’eccesso di governo, e come un ritorno ad una tecnologia di “governo frugale”,

come avrebbe detto Franklin»530. In Germania, l’eccesso era rappresentato

dall’economia dirigista e pianificata degli anni 1914-1948, dall’esperienza del regime

nazista e dalle forme sovietiche del “socialismo di stato”. Negli Stati Uniti d’America,

quell’“eccesso di governo” era rappresentato dalla politica del New Deal, dalla

pianificazione di guerra e, nel secondo dopoguerra, dai grandi programmi economici e

sociali delle amministrazioni democratiche. La critica principale che ordoliberali

tedeschi e neoliberali americani condividono

fa leva sul pericolo rappresentato da questa sequenza inevitabile: interventismo economico, inflazione degli apparati governativi, eccesso di amministrazione, burocrazia e irrigidimento di tutti i meccanismi di potere che provocano nuove distorsioni economiche inducendo, a loro volta, nuovi interventi.531

Alle «crisi» della governamentalità liberale legate all’instabilità che si manifestano con

l’emergere della questione sociale ha dato risposta, nel XX secolo, lo sviluppo di

pratiche governamentali neo-liberali. Nel problematizzare queste “crisi”, il

neoliberalismo riformula in senso nuovo la questione liberale: il problema di ritagliare

e gestire uno spazio di libero mercato entro un dominio socio-politico già strutturato si

529 M. Foucault, “Riassunto del corso”, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 264

530 Ivi., p. 266

531 Ivi., p. 266-267

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rovescia nella problematica di ristrutturare l’esercizio globale del potere politico

secondo le logiche e i principi dell’economia di mercato532. Come spiega Foucault,

L’economia di mercato, infatti, non sottrae qualcosa al governo, bensì indica, costituisce l’indice generale sotto il quale dovrà venir collocata la regola destinata a definire tutte le azioni di governo. Si dovrà governare per il mercato, piuttosto che governare a causa del mercato. È per questa ragione che, come vedete, il rapporto stabilito dal liberalismo del XVIII secolo risulta interamente rovesciato. Il problema, allora, è quello di sapere sempre quale sarà il tipo di delimitazione, o piuttosto quale sarà, per quel che concerne l’arte di governare, l’effetto del principio generale secondo cui il mercato è ciò che, alla fine, si dovrà arrivare a produrre nel governo.533

Per arrivare a compiere una simile trasformazione, prosegue Foucault, i neoliberali

hanno sottoposto il liberalismo classico ad alcune trasformazioni534. Della

particolareggiata analisi foucaultiana, ci soffermiamo ora su alcuni tratti principali,

cercando di delineare gli aspetti caratteristici del neoliberalismo tedesco e della sua

versione americana.

L’ordoliberalismo tedesco

Nel compiere una ricerca sulla genealogia del neoliberalismo tedesco, Foucault si

concentra, in particolare, su una serie di giuristi ed economisti535 che, alla fine degli

anni trenta, hanno aderito alla “scuola di Friburgo” e che, successivamente, si sono

riuniti intorno alla rivista “Ordo”536. Nel corso della sua analisi, Foucault sottolinea i

principali punti di discontinuità tra la governamentalità del liberalismo classico e la

nuova razionalità di governo che il neoliberalismo sembra introdurre.

La prima trasformazione consiste essenzialmente nella dissociazione tra il

principio economico di mercato e il principio politico del laissez-faire. Questa

dissociazione è frutto dell’approccio che i neoliberali sviluppano nei confronti della

concorrenza, la quale è concepita come struttura formale essenziale per i meccanismi

532 M. Foucault, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 115

533 Ivi., p. 112

534 Ivi., p. 115

535 Per quanto riguarda il neoliberalismo tedesco, gli autori di riferimento di Foucault sono Walter Eucken, Ludwig Erhard, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, von Mises. Per il neoliberalismo americano, troviamo Friedrich von Hayek (austriaco emigrato negli Stati Uniti d’America, è presentato da Foucault come collegamento fra le due scuole), Henry Calvert Simons, Gary Becker, Jacob Mincer e molti altri. Per ulteriori informazioni sulle fonti utilizzate da Foucault nel corso delle sue ricerche si rimanda alla nota degli editori del corso Nascita della biopolitica.

536 F. Bohm, W. Eucken e H. Grossman-Doert, The Ordo Manifesto of 1936, in Peackock A., Willgerodt H., Germany’s Social Market Economy: Origins and Evolution, London, Macmillan, 1989

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di regolazione dei prezzi. Lontana dall’essere un «dato primitivo e naturale»,

fondamento da scoprire e lasciar risalire, la concorrenza necessita di continui

interventi a suo sostegno.

Di conseguenza, se la concorrenza è questa struttura formale, al contempo rigorosa nel suo sistema interno, ma fragile nella sua esistenza storica e reale, il problema della politica liberale è proprio quello di regolare, di fatto, lo spazio concreto e reale in cui può entrare in funzione la struttura formale della concorrenza. [...] Il neoliberalismo non si porrà, dunque, sotto il segno del laissez-faire, bensì sotto il segno di una vigilanza, di un’attività e di un intervento permanente.537

In tutti i testi dei neoliberali, Foucault riscontra la tesi secondo cui il governo, in un

regime liberale, è un governo attivo, che interviene costantemente.

Essi, infatti, non si preoccupano di sapere se ci sono cose su cui si può intervenire e altre invece su cui si ha il diritto di farlo. Il problema è sapere come intervenire.

Si tratta del problema della maniera di fare, o, se volete, dello stile del governo.538

Il governo liberale dovrà operare sul meccanismo dei prezzi «attraverso azioni

regolatrici e mediante azioni ordinatrici»: le prime devono favorire le tendenze

caratteristiche del mercato (la riduzione dei costi, la tendenza del profitto d’impresa e

la tendenza agli aumenti di profitto), le seconde devono intervenire per garantire le

condizioni di esistenza del mercato, con una politica di quadro che ne modifichi le basi

materiali, culturali, tecniche, giuridiche (agendo su popolazione, risorse e tecnologie

disponibili, addestramento ed educazione, sistema legislativo, ecc.)539. Inoltre, il

governo neoliberale dovrà intervenire anche sulla società, ma con principi differenti da

quelli assunti dalle politiche sociali in un’economia del benessere. L’ordoliberismo

mette in dubbio la necessità e la bontà di interventi di contrappeso alla politica

economica (finalizzati, ad esempio, alla perequazione nell’accesso di ciascuno a beni e

servizi), in quanto distruttivi nei confronti del meccanismo concorrenziale.

La regolazione economica, vale a dire il meccanismo dei prezzi, non si ottiene affatto attraverso fenomeni che mirano a stabilire delle uguaglianze, ma mediante un gioco di differenziazioni che è proprio di ogni meccanismo di concorrenza. [...] Di conseguenza, una politica sociale che avesse come oggetto primario il livellamento anche relativo [...] non potrebbe che risultare anti-economica.540

537 M. Foucault, Nascita della biopolitica, Op. cit., p. 115

538 Ivi., p. 117. Al fine di illustrare il modo in cui i neoliberali definiscono lo stile d’azione del governo Foucault propone tre esempi: la questione del monopolio, il problema dell’azione economica conforme e il problema della politica sociale.

539 Ivi., pp. 121-125

540 Ivi., p. 126

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Se vi è qualcosa che deve essere eguale per tutti questa è la disuguaglianza.541 Di

conseguenza, la politica sociale neoliberista non consisterà nella socializzazione del

consumo e dei redditi, ma in una privatizzazione dei rischi. Si tratta di una “politica

sociale individuale” che favorisce la «capitalizzazione più generalizzata possibile per

tutte le classi sociali», e che dovrà avere come strumento «l’assicurazione individuale e

collettiva, e in definitiva quindi la proprietà privata»542.

Si tratta, cioè, di un’individualizzazione della politica sociale, anziché di una collettivizzazione e socializzazione attraverso la politica sociale. Non si tratta, insomma, di garantire agli individui una copertura sociale dei rischi, ma di accordare a ciascuno una sorta di spazio economico all’interno del quale possano assumere e affrontare i rischi.543

Questo, conclude Foucault, significa che nella prospettiva governamentale neoliberale

«esiste soltanto una politica sociale vera e fondamentale, cioè la crescita

economica»544. La politica sociale non deve essere una compensazione: è la crescita

economica che, di per sé, deve garantire a tutti un livello di reddito con cui accedere a

piani assicurativi che, attraverso la capitalizzazione individuale e famigliare,

consentano di assorbire i rischi. È questo ciò che, tra il 1952-1953, verrà definito

“economia sociale di mercato”.

Sintetizzando, il governo neoliberista, in quanto liberale, non interviene sugli

effetti di mercato, ma - a differenza delle politiche del benessere conosciute tra gli

anni Venti e gli anni Sessanta - non interviene «nemmeno per correggere gli effetti

distruttori del mercato sulla società»545. Il governo neoliberale è una politica della

società (Gesellschaftspolitik) tesa a diminuire i meccanismi anti-concorrenziali

nell’ambiente sociale: il suo obiettivo è di intervenire sulla società «per far sì che i

meccanismi concorrenziali, in ogni istante e in ogni punto dello spessore sociale,

possano svolgere il ruolo di regolatore»546.

541 Durante la lezione del 14 febbraio 1979, Foucault attribuisce a Röpke l’espressione “La disuguaglianza è la stessa per tutti”. Questa attribuzione, che Foucault compie con esplicita titubanza, rimane incerta, in quanto non si ritrova in nessuno degli scritti di Röpke consultati da Foucault. Si veda la nota dei curatori di Nascita della Biopolitica, Op. cit., p. 301

542 Ivi., p. 127

543 Ibid.

544 Ibid.

545 Ivi., p. 128

546 Ibid.

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Ma cosa significa, esattamente introdurre la regolazione del mercato come principio regolatore della società? In questa arte neoliberale di governo, si tratta forse di normalizzare e di disciplinare la società a partire dal valore e dalla forma del mercato? Non si rischia di ritornare, in questo modo, al modello della società di massa, della società dei consumi, della società di mercato, dello spettacolo, dei simulacri e della velocità che Sombart aveva definito per la prima volta nel 1903? Non credo proprio. Non è la società di mercato a essere in gioco in questa nuova arte di governo. La società regolata in base al mercato, a cui pensano i neoliberali, è una società in cui a dover costituire il principio regolatore non è lo scambio delle merci ma sono i meccanismi della concorrenza. 547

E più avanti precisa:

Si ingannano quei critici che credono di criticare l’obiettivo attuale della politica di governo, quando denunciano una società che potremmo definire “alla Sombart”, e cioè una società dell’omologazione, di massa, dei consumi, dello spettacolo e così via. In realtà criticano qualcos’altro. Criticano qualcosa che ha costituito senza dubbio, in modo esplicito o implicito, voluto o meno, l’orizzonte delle arti di governo dagli anni venti agli anni sessanta. Ma abbiamo già oltrepassato questo stadio, Non siamo più a quel punto. L’arte di governo programmata verso gli anni trenta dagli ordoliberali, che è diventata la programmazione della maggior parte dei governi nei paesi capitalisti, non cerca assolutamente la costituzione di quel tipo di società. Si tratta, al contrario, di ottenere una società orientata non verso il mercato e l’uniformità della merce, ma verso la molteplicità e la differenziazione delle imprese.548

Il quadro stesso dell’arte di governo ordoliberale, afferma Foucault, si articola attorno

al principio di un’«etica sociale di impresa», ereditata da Weber e tradotta in Sombart

nella critica, presto divenuta “luogo comune”, alla società capitalista dei consumi di

massa. Elemento specifico della governamentalità neoliberale è quindi l’opposizione

ad una società del mercato omologante, mediante l’universalizzazione della forma

d’impresa549 e del principio di concorrenza, con gli effetti di soggettivazione che porta

con sé.

Credo sia proprio questa demoltiplicazione della forma “impresa” all’interno del corpo sociale a costituire la posta in gioco nella politica neoliberale. Si tratta di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società.550

547 Ivi., p. 130

548 Ivi., p. 132

549 Accanto a questo, Foucault indica nel diritto un altro problema fondamentale per il neoliberismo: «il giuridico dà forma all’economico, il quale a sua volta non sarebbe ciò che è senza il giuridico». Per gli ordoliberali il giuridico non appartiene all’ordine della sovrastruttura, non si può sovrapporre il piano economico a quello giuridico, ma si dovrebbe parlare di un unico ordine economico-giuridico. Così, uno strumento centrale della governamentalità neoliberale è la ridefinizione del sistema giuridico, in funzione di una società regolata a partire dall’economia concorrenziale di mercato.

550 Ivi., p. 131

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Non una società di supermercato, ma una società d’impresa. L’homo œconomicus che si vuole ricostituire non è l’uomo dello scambio, l’uomo consumatore, ma l’uomo dell’impresa e della produzione.551

In sintesi, Foucault interpreta il neoliberalismo tedesco come una

Gesellschaftpolitik interessata a modellare il sociale sulla forma dell’impresa,

moltiplicandola e diffondendola per «costituire una trama sociale in cui le unità di base

dovrebbero avere la forma dell’impresa»552, soggetto compreso. Su questo aspetto si

concentrerà in modo particolare la Scuola di Chicago, al cui interno i principi

dell’ordoliberalismo tedesco saranno rielaborati in senso radicale.

Il neoliberalismo americano

Foucault dedica al neoliberalismo americano le lezioni del 14 e del 21 marzo,

mostrando la modalità con cui la Scuola di Chicago ha inteso criticare le scelte

interventiste della politica roosveltiana e delle politiche “del benessere” elaborate

durante e dopo la seconda guerra mondiale553. Mettendo in luce le differenze tra la

versione tedesca e quella americana, Foucault osserva come, nella seconda metà del

XX secolo, il non-liberalismo sia apparso negli Stati Uniti d’America come elemento

minaccioso sia a destra, in nome di una tradizione liberale ostile agli obiettivi socialisti,

sia a sinistra, in quanto associato alla costruzione di uno stato imperialista e militarista.

In America, aggiunge Foucault, il liberalismo non può essere inteso quale semplice

proposta politica, ma va riconosciuto come «una vera e propria maniera di pensare»554,

«uno stile generale di pensiero, di analisi e di immaginazione»555.

Per questo credo che il liberalismo americano [...] si presenti [...] come una specie di rivendicazione globale, multiforme, ambigua, con ancoraggi a destra e a sinistra. È anche una sorta di nucleo utopico che viene continuamente riattivato. Ed è inoltre un metodo di pensiero, una griglia di analisi economica e sociologica.556

551 Ivi., p. 130

552 «*..+ poiché cos’altro è la proprietà se non un’impresa?». Ivi., p. 131

553 Ivi., p. 177

554 Ivi., p. 179

555 Ivi., p. 180

556 Ivi., p. 179

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Dopo questa premessa, Foucault concentra la sua analisi su alcuni tratti generali

dell'elaborazione neoliberale americana, tra cui l’assunzione della teoria del capitale

umano557.

L’interesse di questa teoria consiste nel fatto che rappresenta due processi. Il primo lo potremmo identificare con la penetrazione dell’analisi economica in un ambito rimasto fino ad allora inesplorato. Il secondo, che prende le mosse dal primo e dai suoi sviluppi, è costituito dalla possibilità di reinterpretare, in termini unicamente ed esclusivamente economici, un intero ambito che fino ad allora, poteva essere considerato, e così di fatto veniva considerato, come non economico.558

Nel primo caso ci riferiamo all’introduzione del lavoro nel campo dell’analisi

economica e nell’assunzione del concetto di capitale come «ciò che può essere, in un

modo o nell’altro, fonte di redditi futuri»559. Nella prospettiva neoliberale il lavoro non

è una merce ridotta per astrazione alla forza lavoro e al tempo impiegato per

utilizzarla, ma è da scomporsi nei termini economici di reddito e capitale. Ora, chiede

Foucault, in che cosa consiste il capitale di cui il salario rappresenterebbe il reddito?

Ebbene, consiste nell’insieme dei caratteri fisici e psicologici, che rendono qualcuno capace di guadagnare un certo salario [...] In questo senso, quindi, non è un capitale come gli altri. L’attitudine a lavorare, la competenza, il poter fare qualcosa, non può essere separato da colui che è competente e che ha questa capacità.560

Troviamo qui, spinta al limite, l’idea già avanzata dall’ordoliberalismo, cioè che l’analisi

economica debba utilizzare come elemento base delle proprie decifrazioni l’unità-

impresa, e che ciò sia possibile in ogni ambito del reale, a partire dal soggetto. Se il

soggetto del liberalismo era l’homo œconomicus dello scambio, i cui comportamenti

andavano intesi in termini di bisogno e utilità, il soggetto del neoliberalismo diviene

l’homo œconomicus dell’impresa, in quanto egli «è il proprio capitale, il produttore di

sé e la fonte dei propri redditi» 561. Ogni individuo è un insieme di capacità e attitudini

(innate o acquisite attraverso educazione, formazione professionale, stimoli

ambientali, ecc.)562 che possono essere investite (capitale umano) e, al tempo stesso, è

colui che gestisce, investe, tale capitale (imprenditore di se stesso).

557 A questo, Foucault affianca il problema dell’analisi della delinquenza e della criminalità, la cui esplorazione non rientra nelle finalità di questa ricerca.

558 Ivi., p. 180

559 Ivi., p. 184

560 Ivi., pp. 184-185

561 Ivi., p. 186

562 Ivi., p. 187

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La razionalità neoliberale sviluppa, così, un nuovo schema interpretativo

attraverso cui analizzare i fenomeni della realtà economica563 e quelli della realtà

sociale564.

Grazie a questo schema di analisi, a questa griglia di intelligibilità e di decifrazione dei rapporti sociali, si potranno far apparire all’interno dei processi non economici, delle relazioni non economiche, dei comportamenti non economici, un certo numero di relazioni intelligibili che non apparivano come tali – una sorta di analisi economica del non economico.565

Tra questi fenomeni Foucault cita le relazioni di cura familiare, il problema della

natalità, i fenomeni relativi al matrimonio: relazioni che un tempo erano analizzati

dalla demografia, dalla sociologia, dalla psicologia, della psicologia sociale, sono ora

interpretate in termini di transazioni economiche. Inoltre, la griglia economica dei

neoliberisti sarà utilizzata per vagliare l’azione del governo politico, per contrastarne

abusi, eccessi, inutilità e sprechi.

Bisogna, insomma, esercitare nei confronti della governamentalità effettivamente esercitata, una critica che non sia semplicemente politica, né semplicemente giuridica. [...] La forma generale del mercato diventa uno strumento, un mezzo di discriminazione nel dibattito con l’amministrazione. In altre parole, il liberalismo classico chiedeva al governo di rispettare la forma del mercato e di lasciar fare. Nel neoliberalismo, invece, il laissez-faire viene rovesciato in un non lasciar fare il governo, in nome di una legge del mercato che dovrà permettere di misurare e di valutare ciascuna delle sue attività. Il laissez-faire, in questo modo, si capovolge, e il mercato smette di essere un principio di autolimitazione del governo, per diventare un principio che si ritorce contro di esso. Diventa una sorta di tribunale economico permanente di fronte al governo.566

1.4 Assunzioni teoretiche di fondo

L’analisi storica fin qui ripercorsa è sviluppata da Foucault in modo approssimativo, con

una forma che alcuni studiosi non esitano a definire rudimentale: al suo interno, si

possono trovare imprecisioni, lacune, contraddizioni e una serie di problemi irrisolti,

primo fra tutti l’utilizzo inconsistente di alcuni termini centrali, quali governamentalità

563 Foucault utilizza come esempio la reinterpretazione del rapporto tra innovazione e caduta tendenziale del saggio di profitto messo in luce da Schumpter. Questo rapporto è reinterpretato all’interno della teoria generale del capitale umano. Ivi., pp. 192-193

564 Ivi., p. 194

565 Ivi., p. 198

566 Ivi., p. 202

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e biopotere567. A motivo di ciò va ricordata l’attitudine con cui Foucault prepara le

lezioni al Collège de France: gli incontri pubblici sono banco di prova per nuovi

strumenti teorici e uno spazio di incessante problematizzazione. Durante gli incontri

del mercoledì, Foucault rivendica il diritto di cambiare piano, di procedere secondo

l’urgenza del momento, muovendosi con il “passo del granchio”, spostandosi di lato,

decentrando continuamente la propria riflessione. Nonostante gli spostamenti

concettuali e la molteplicità dei piani di analisi avviati, attraversando i diversi interventi

dedicati al tema del governo tra il 1976 e il 1984 crediamo sia possibile riconoscere in

Foucault un approccio coerente, che si articola a partire da alcune premesse di fondo.

Prima di concentrarci sulla risonanza che il concetto di governamentalità ha avuto

nell’ambito della ricerca accademica, crediamo importante mettere a fuoco alcune

delle implicazioni teoretiche più importanti che la prospettiva analitica

governamentale ha introdotto, offrendo un angolo differente da cui osservare

l’attualità. Fondandosi su una concezione pluralista, decentrata e materialista del

potere - che appare decomposto in una pluralità di razionalità, programmi, tecnologie

e tecniche di governo568 - la governamentalità propone una comprensione immanente

dei rapporti sociali, delle istituzioni e della sovranità, oltrepassando i dualismi classici

del pensiero politico e sociologico: l’opposizione tra locale e globale, tra individuo e

stato, tra economia e stato, tra meccanismi di potere e forme del sapere569. In che

modo questo si realizza?

In primo luogo, il legame semantico tra il governo (“gouverner”) e la modalità di

pensiero (“mentalité”) indica l’impossibilità di comprendere i meccanismi positivi del

potere in modo indipendente dalla razionalità politica e dall’ordine del discorso che li

sostiene570. Come abbiamo visto, la razionalità politica fornisce uno spazio di governo

che è intrinsecamente legato ad una verità: un corpus di saperi, discorsi e narrazioni,

567 U. Bröckling, S. Krasmann e T. Lemke, “From Foucault’s Lectures at the Collège de France to Studies of Governmentality. An introduction” in Governmentality Current Issues and Future Challenge, New York, Routledge, 2011, p. 7

568 P. O'Malley , L. Weir, C. Shearing, “Governmentality, criticism, politics”, Economy and Society, 26:4, 1997, pp. 501-517, p. 501

569 T. Lemke, “An indigestible meal?”, Op. cit., p. 9. Su questo anche M. Dean, Governamentality, Op. cit., p. 3 che rimanda a J. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli, 2009

570 T. Lemke, “”The birth of bio-politics”: Michel Foucault's lectures at the Collége de France on neo-liberal governmentality”, Economy and Society, 30:2, 2001, pp. 190-207, p. 191

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contribuiscono a qualificare gli attori del governo e il loro campo di azione571,

configurando nuovi domini di regolazione e di intervento (ad es. riconcettualizzando il

popolo come popolazione, la natura come ambiente, l’educazione come

competenza)572. Come precisa Lemke,

a political rationality is not pure, neutral knowledge which simply ‘re-presents’ the governing reality; instead, it itself constitutes the intellectual processing of the reality which political technologies can then tackle573

Così, il concetto di tecnologia governamentale include, al tempo stesso, dispositivi

materiali e dispositivi simbolici, riconoscendo la dimensione performativa che ogni

regime di rappresentazione porta con sé. Le tecnologie governamentali sono un

complesso di meccanismi, procedure, strumenti e calcoli, attraverso cui guidare e dare

forma alla condotta e alle decisioni degli uomini, influenzando i loro desideri e i loro

comportamenti, in vista di un fine specifico. Queste tecnologie includono metodi di

esame e di valutazione; questionari, tecniche di misurazione e di calcolo statistico;

procedure di rendicontazione; forme di pianificazione temporale e spaziale; forme di

presentazione della realtà quali tabelle e grafici; tattiche standardizzate per

l’allenamento e lo sviluppo di nuove abitudini; tecniche pedagogiche, terapeutiche e

punitive di riconfigurazione dei comportamenti e dei modi di pensare; forme

architettoniche; un linguaggio tecnico e specialistico. 574

In secondo luogo, nella prospettiva della governamentalità, il governo si riferisce

ad un continuum che si estende, attraverso lo sviluppo di differenti tecnologie, dal

governo politico fino alle forme di auto-governo575. Osservando i diversi domini di

governo, Foucault distingue le tecnologie di individualizzazione politica - attraverso cui

gli individui sono portati a riconoscersi come parte della società o dello stato576 - e le

571 T. Lemke, “An indigestible meal?”, Op. cit., p. 7. Su questo anche C. Gordon, “Governmental rationality: an introduction”, in G. Burchell, C. Gordon e P. Miller, The Foucault Effect. Studies in governmentality, Op. cit., pp. 1-34

572 T. Lemke, “An indigestible meal?”, Op. cit., p. 7

573 T. Lemke, “Foucault, Governmentality, and Critique”, Op. cit., p.8

574 T. Lemke, “An indigestible meal?”, Op. cit., p. 9. In nota Lemke cita le indagini di J. X. Inda,

Anthropologies of Modernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics. Malden, MA: Blackwell, 2005 (nello specifico p. 9); P. Miller e N. Rose, “Governing economic life”, Economy & Society, 19 (1), 1990, pp. 1–31 e ancora N. Rose e P. Miller, ‘Political Power beyond the State: problematics of government’, British Journal of Sociology, 43 (2), 1992, pp. 173–205, nello specifico p.183

575 T. Lemke, “”The birth of bio-politics”…”, Op. cit., p. 201

576 M. Foucault, “The political technology of individuals”, in Power. Essential Works of Michel Foucualt Vol. III, New York, New York Press, 2000, pp. 403-417

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tecnologie del sé - mediante le quali gli individui si relazionano a se stessi quali soggetti

etici577. Nel corso delle proprie ricerche, però, Foucault mostra il rapporto e l’intreccio

di queste tecnologie, superando il binarismo individuo-stato: lo sviluppo dello Stato

moderno non presume l’individuo autonomo moderno, bensì è codeterminato dalla

sua nascita-produzione578; allo stesso modo, la governamentalità neoliberale necessita

dello sviluppo di un soggetto che sia, al tempo stesso, competitivo e prudente, capace

di assumere il rischio sociale entro la responsabilità individuale della “cura di sé”579.

Inoltre, rifiutando di identificare il governo con lo Stato, le analisi foucaultiane dirigono

l’attenzione al nesso tra la razionalità politica globale e le tecnologie di potere che

intervengono nei contesti locali e quotidiani. In questo modo, la prospettiva

governamentale consente di combinare la “microfisica del potere” con la questione

macropolitica dello Stato, le pratiche di individualizzazione e di istituzionalizzazione.580

In sintesi, proponendo un’analisi tecnologica del potere, la prospettiva

governamentale porta con sé due implicazioni teoretiche fondamentali, che Lemke

riassume così:

On the one hand, the distinction between soft and hard, material and symbolic technologies, between political technologies and technologies of the self, becomes precarious. An analytics of government proposes an integral account that investigates the dynamic interplay of elements that are often systematically separated.[...] An analytics of government reverses this

577 M. Foucault, Tecnologie del sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1992; M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 2003, trascrizione del corso omonimo tenuto al Collège de France nel 1981-1982.

578 Si veda su questo la lezione dell’8 febbraio 1978, in M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Op. cit., pp. 91-104

579 Si veda su questo la lezione del 28 marzo 1979, in M. Foucault, Nascita della biopolitica, Op. cit., pp. 217-236. Indicando il legame costitutivo tra le razionalità politiche e le forme della soggettività, la governamentalità è termine di collegamento tra le ricerche foucaultiane dedicate al potere, che impegnano il pensatore durante gli anni Settanta, e le ricerche a cui si dedicherà negli ultimi anni della propria vita, dando alle stampe i propri studi sulla genealogia del soggetto etico nella trilogia intitolata Storia della sessualità. Questo collegamento è sottolineato, tra gli altri, da M. Dean, Governamentality, Op. cit., p. 3 e p. 20 e T. Lemke, 'The birth of bio-politics'...”, Op. cit., p. 9. Come scrive lo stesso Foucault: «the contact point, where the individuals are driven by others is tied to the way they conduct themselves, is what we can call, I think, government. Governing people, in the broad meaning of the word, governing people is not a way to force people to do what the governor wants; it is always a versatile equilibrium, with complementarity and conflicts between techniques which assure coercion and processes through which the self is constructed or modified by himself», M. Foucault, About the Beginning of the Hermeneutics of the Self (Transcription of two lectures in Darthmounth on Nov. 17 and 24, 1980) Mark Blasius (eds.), Political Theory, Vol. 21, No. 2, May, 1993, pp.198-227, qui pp. 203-204.

580 T. Lemke, “An indigestible meal?...”, Op. cit., p. 8. Su questo punto anche P. O’Malley et al., “Governmentality, criticism, politics”, Op. cit., p. 501, e N. Rose, P. O’Malley e M. Valverde, “Governmentality”, Annu. Rev. Law Soc. Sci. 2006, 2, 83:104, p. 86

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“institutionalcentric”(Foucault, 2007, 116) account by conceiving of institutions as technologies. Instead of taking institutions as the point of departure, it focuses on technologies that are materialized and stabilized in institutional settings.581

Tracciando i lineamenti generali di una storia delle tecnologie di potere, nel corso delle

ricerche condotte tra il 1978 e il 1979, Foucault riconosce una caratteristica comune

alle diverse forme con cui l’istituzione statale si è sviluppata nella modernità, ossia

l’assunzione della formula pastorale omnes et singulatim. Pur sviluppando stili di

pensiero, tecnologie e forme di saperi differenti, l’arte di governo della Ragion di stato,

del liberalismo e delle pratiche neoliberali condividono un’attenzione “per tutti e per

ciascuno”, esercitando un potere che è al tempo stesso totalizzante e individualizzante.

Pur differenziandosi sul piano delle risposte, le diverse governamentalità occidentali si

caratterizzano per la capacità di affrontare, con modalità alternative, la stessa

domanda, ossia «the question of what it is for an individual, and for a society or

population of individuals, to be governed or governable»582. Attraverso il prisma

teorico della governamentalità, questo unico interrogativo può essere rifratto in una

modalità di questioni; ogni formulazione storica dell’“arte di governo” sembra

incarnare, esplicitamente o implicitamente, una risposta contingente alle seguenti

domande: «who or what is to be governed? Why should they be governed? How

should they be governed? To what ends should they be governed?»583. Così, i governati

sono, alternativamente, membri di un gregge da nutrire e salvare, soggetti giuridici la

cui condotta è limitata dalla legge, individui disciplinati in corpi docili e produttivi,

imprenditori di sé stessi, capaci di rinnovare la propria adattabilità. Al tempo stesso, la

compresenza di molteplici governamentalità, a volte indipendenti, altre sovrapposte o

in competizione, chiede di riconoscere una seconda batteria di domande: «who

governs what? According to what logics? With what techniques? Toward what

ends?»584. A differenza di una teoria del potere (dell’autorità o della govenance),

l’analitica della governamentalità «asks particular questions of the phenomena that it

seeks to understand, questions amenable to precise answers through empirical

581 T. Lemke, “An indigestible meal?...”, Op. cit., p.9

582 N. Rose, P. O’Malley e M. Valverde, “Governmentality”, Op. cit., pp. 84-85

583 Ivi., p.85

584 Ibid.

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inquiry»585. È questo che, a partire dalle analisi di Foucault, molti studiosi hanno

cercato di fare: continuare ad interrogare il proprio presente nella sua specificità,

mettendo in questione la verità nei suoi “effetti di potere” e i meccanismi di potere nei

suoi “discorsi di verità”, modificando e talvolta abbandonando i concetti, gli approcci e

gli argomenti della propria tradizione di ricerca, per inventarne di nuovi586.

2. Gli Studi Governamentali

2. 1 Una ricostruzione storica

Per lungo tempo, gli unici materiali dedicati al tema della governamentalità di cui

Foucault autorizzò la pubblicazione furono la lezione del 1 febbraio 1978, data alle

stampe con il titolo “Governamentalità”, e i résumés dei corsi Sicurezza, Territorio,

Popolazione e Nascita della Biopolitica. Il testo completo delle lezioni tenute al Collège

de France tra il 1978 e il 1979 fu pubblicato in francese con molto ritardo, nel recente

2004587. Tuttavia, la riflessione foucaultiana attorno alla questione del governo non è

rimasta confinata entro le aule parigine, ma ha trovato uno spazio di elaborazione e

diffusione grazie all’attività di insegnamento e di ricerca all’estero: nel 1981,

all’Università Cattolica di Lovanio, Foucault tiene un corso588 e un seminario

interdisciplinare sulla genealogia della “difesa sociale” in Belgio, indagando la

proliferazione dei modi di dire la verità e la variabilità dei regimi di veridizione nella

società occidentale; nel 1983, dialogando con gli studenti dell’Università di Berkeley,

tratteggia i lineamenti di un nuovo progetto di ricerca, dedicato al rapporto tra

governamentalità e “welfare state” nei primi anni del XX secolo, un progetto al quale,

purtroppo, non avrà modo di lavorare.

Nonostante il concetto di governamentalità sia stato sviluppato in forma appena

abbozzata e la situazione editoriale non sia tra le più favorevoli, la riflessione

foucaultiana ha ispirato fin da subito una molteplicità di ricerche, trovando una prima

risonanza nell’ambito disciplinare storico e delle scienze sociali, per poi diffondersi in

585 Ibid.

586 M. Dean, Governamentality, Op. cit., p. 7

587 L’edizione in lingua inglese è degli anni 2007 e 2008, quella in italiano del 2010.

588 M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), Torino, Einaudi, 2013

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modo più ampio e trasversale nel corso degli anni Novanta. Vediamone le tappe

principali.

Nello stesso 1978, la rivista che ospiterà la traduzione inglese della lezione sulla

governamentalità, l’influente e indipendente Ideology and Consciousness (I&C),

pubblica due articoli di Pasquale Pasquino e Giovanna Procacci - entrambi partecipanti

ai seminari foucaultiani - tesi a dimostrare la fertilità dell’approccio governamentale

nello studio delle scienze politiche e dell’economia sociale. L’anno successivo, la stessa

rivista pubblica la traduzione di un pezzo di Jaques Donzelot, originariamente edito nel

1978 con il titolo “Pour une nouvelle culture politique”, in cui lo studioso esplora le

implicazioni politiche di una analisi tecnologica del potere. Come si può notare, i primi

lavori di impronta governamentale sono condotti dai colleghi dello stesso Foucault, i

quali intraprendono percorsi di ricerca collegati ai temi introdotti durante le sue lezioni

al Collège de France. Focus principale delle loro analisi è il periodo storico che

Foucault, nella sua “genealogia dello stato moderno”, ha quasi totalmente trascurato:

la trasformazione delle tecnologie governamentali tra il XIX e il XX secolo e la

costituzione del moderno “welfare state”. Tra gli studi più significativi in questa

direzione ricordiamo quello di François Ewald, sviluppa un’indagine sulla tecnologia

assicurativa, mostrando i meccanismi attraverso cui la categoria di “rischio sociale” è

sostituita con quella di “responsabilità individuale”, indebolendo la separazione

liberale tra legge e moralità. A questo lavoro si affianca quello di Daniel Defert, il quale

analizza la tecnologia assicurativa in rapporto alla scomparsa delle forme di mutuo

soccorso tra gli operai, mettendo in luce come i calcoli probabilistici e le distribuzioni

variabili di rischio abbiano contribuito ad omogeneizzare la società e a depoliticizzare -

e individualizzare - le forme di conflitto.589

589 A questi si affiancano molti altri studi degli stessi autori, che non possono essere qui richiamati nella loro totalità. Si ricordano tra gli altri gli studi di G. Procacci sull’emergere della questione sociale (G. Procacci, Gouverner la Misère. La question sociale en France 1789-1848, Paris, Editions du Seuil, 1993 e Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Bologna, Il Mulino, 1998) e quelli di P. Pasquino sull’emergere dell’idea di dover difendere la società dalla minaccia di individui pericolosi (P. Pasquino, « Naissance d'un savoir spécial : la criminologie », p. 173-186, in : Rémi Lenoir (éd.), Michel Foucault. Surveiller et punir: la prison vingt ans après, Credhess, n.3, Société et représentations, Paris, nov. 1996). Per un contributo in lingua inglese si rimanda ai saggi dei due autori nella raccolta G. Burchell, C. Gordon e P. Miller (eds.), The Foucault Effect: studies in governmentality, London, Harvester Wheatsheaf, 1991

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A partire dall’inizio degli anni Ottanta, il lavoro di Foucault ha iniziato ad essere

accolto in diversi contesti nazionali e disciplinari, spostandosi dall’area francofona al

mondo anglofono. A contribuire in modo decisivo a questo movimento è stato il lavoro

di traduzione e curatela di Colin Gordon: dopo aver favorito la traduzione della lezione

sulla governamentalità in Ideology and Consciousness nel 1979, nel 1980 Gordon cura

la pubblicazione della raccolta Power/Knowledge, offrendo al pubblico di lingua inglese

una molteplicità di scritti che Foucault dedica al tema del potere tra il 1972 e il 1977.

Ad accompagnare la miscellanea, vi è un’estesa e articolata postfazione, in cui Gordon

presenta «a speculative summary of the philosophical background to Foucault’s

enterprise and its main conceptual architecture»590. Nella sua comprensione,

the object of Foucault’s critique is the status of the present. *...+ The present as a form of a particular kind of domain of rationality, constituted by its place on a diacronic gradient: a “régime of truth” composed of a field of problems, questions and responses determined by the continuity or discontinuity, clarity or obscurity of the administered ensemble of relations which constitute the partition between present and past, “new” and “old”. *...+ If Foucault poses a philosophical challenge to history, it is not to question the reality of “the past” but to interrogate the rationality of the “present”.591

Nell’analizzare gli strumenti che sorreggono questo tipo di indagine, Gordon individua

una doppia triade concettuale: strategie-tecnologie-programmi; discorsi-pratiche-

soggettivazioni592. Un’interpretazione, tra le prime, destinata ad orientare tutta la

ricezione successiva: è attorno a questi triplici assi, al modo in cui si intersecano e

interagiscono, che in quegli anni iniziano a fiorire una pluralità di indagini, alcune delle

quali sono coordinate dal network di ricerca “History of the present”, fondato a Londra

nel 1989. Nel 1991, in collaborazione con Graham Burchell e Peter Miller, Gordon

consegna alla stampa il fortunato volume The Foucault Effect: Studies in

Governmentality593, una raccolta di articoli programmatici capace di ispirare ricerche

governamentali nelle università anglofone di tutto il mondo594, dalla Gran Bretagna agli

590 C. Gordon, “Preface”, in Power/Knowledge: selected interviews & other writings 1972-1977, New York, Pantheon Books, p. X

591 C. Gordon, “Afterword” in Power/Knowledge, Op. cit., pp. 241-242

592 Ivi., p. 246

593 G. Burchell, C. Gordon e P. Miller (eds.), The Foucault Effect: studies in governmentality, London, Harvester Wheatsheaf, 1991

594 È bene però segnalare quanto segue: «many of the pieces had been separately available for some time. Yet when the pieces were consolidated in this way and framed with a substantive introduction to governmental rationalities that summarized many of Foucault’s unpublished lectures on these

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Stati Uniti, coinvolgendo anche Canada, Australia595 e Nuova Zelanda. Nei diversi

contesti in cui iniziò a diffondersi, la prospettiva della governamentalità fu utilizzata

per rendere visibili i processi di trasformazione dell’età contemporanea, tralasciando

linee di ricerca di stampo prettamente storico-genealogico. Per comprendere questa

tendenza, è necessario mettere a fuoco alcuni aspetti caratteristici del contesto di

accoglienza delle idee foucaultiane: il crescente interesse anglo-americano si radicava

su di un piano teoretico che era, al tempo stesso, indubbiamente politico.

A partire dalla fine degli anni Settanta, molti intellettuali radicali avevano iniziato

a distanziarsi dall’“ortodossia” marxista, cercando nuovi strumenti di critica con cui

analizzare le pratiche sociali, culturali, politiche e legali, senza ridurle alle sole relazioni

economiche. Mentre alcuni teorici cercarono di rielaborare i concetti marxisti in

direzione post-strutturalista, altri svilupparono il proprio interesse per le forme di

soggettivazione e i regimi discorsivi assumendo un orientamento post-marxista. In

alternativa alle prospettive di Gramsci e Althusser, Foucault proponeva una

prospettiva che sembrava capace di rendere visibile il potere, nella vita di tutti i giorni

così come nelle istituzioni, consentendo l’analisi empirica di pratiche particolari, in

un’ottica anti-riduttivista e anti-funzionalista. L’interesse per il concetto foucaultiano di

governamentalità, inoltre, fu animato da quell’esperienza collettiva di drammatico

cambiamento politico che stava iniziando negli anni Ottanta: la sostituzione,

soprattutto in Gran Bretagna con il governo Thatcher (1979-1990) e negli USA con la

presidenza Reagan (1981-1989), del modello di governo dello stato sociale con le

forme di governo neoliberale. La prospettiva elaborata da Foucault offriva degli

strumenti per comprendere le trasformazioni in atto senza doverle forzare entro una

critica ideologica tradizionalmente intesa o una griglia analitica economica,

interpretando l’introduzione di modelli imprenditoriali non come riduzione della

topics, something like a school of thought appeared to be taking shape. In fact, this was always something of an illusion because many of the pieces translated from the French had been written a decade earlier, and many of the authors had long since moved on to other work. Further, these papers did not partake in a coherent methodology, and many shared little with the version of governmentality that was being developed in the English-speaking world. Even in that world, in Great Britain and its former colonies, there were many differences of emphasis and different styles of criticism, with some regarding governmentality analyses as descriptive, and others seeking to utilize them within a politics of critique», N. Rose, P. O’Malley e M. Valverde, “Governmentality”, Op. cit., p. 95

595 M. Dean e B. Hindess, Governing Australia: Studies in Contemporary Rationalities of Government, Cambridge, Cambridge University Press, 1998

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sovranità statale, bensì come ristrutturazione della razionalità e delle tecniche

governamentali. Importante, in questa direzione, il lavoro inaugurato da Niklas Rose il

quale introduce la categoria di “advanced-liberalism” per descrivere la nuova “arte di

governo” di impronta neoliberale che si afferma dalla critica al “welfarism”596. Questa

razionalità di governo opera in nome della libertà e attraverso

a range of techniques that would enable the state to divest itself of many of its obligations, devolving those to quasi-autonomous entities that would be governed at a distance by means of budgets, audits, standards, benchmarks, and other technologies that were both autonomizing and responsibilizing597.

Come osserverà Micheal Power, i discorsi e le tecniche sviluppati dalle scienze

economiche, di gestione (managment) e rendicontazione (accounting), giocano un

ruolo costitutivo in questo processo di riarticolazione della razionalità di governo:

«apparently so mundane, [they] were crucial for the operationalization of programs of

governing at a distance that characterized the forms of new public management taking

shape under rationalities of advanced liberalism»598. L’attenzione di molti studiosi si

dirige, così, verso l’emergere di strategie e programmi governamentali nuovi (di “self-

regulation” e di “empowerment”), analizzando la riconfigurazione dei corrispettivi

meccanismi di soggettivazione. Senza la pretesa di essere esaustivi, vediamo alcune di

queste ricerche a titolo di esempio.

Tra i maggiori studi di riferimento troviamo quello di Peter Miller e Nikolas Rose,

i quali analizzano il rapporto tra le scienze psicologiche-psichiatriche e la vita

economica, tra le tecnologie del sé e la razionalità neoliberale. Al centro dello loro

indagini è l’emergere di saperi e strategie legati alle categorie di “self-determination” e

“self-fulfilment” e il ruolo che questi giocano nell’assumere il modello imprenditoriale

quale forma di scelta nella vita privata (diffondendo l’analisi costi-benefici e il criterio

di competizione in contesti extra-economici). I soggetti così formati, rileva Rose,

contribuiscono alla strategia neoliberale lavorando alla realizzazione di sé: la

tecnologia disciplinare non è più necessaria, perché - paradossalmente - i soggetti

imparano a desiderare una specifica pratica di libertà, quella imprenditoriale. Nella

596 Rose introduce la categoria analitica di liberismo avanzato, in N. Rose, “Governing ‘advanced’ liberal democracies”, in A. Barry, T. Osborne e N. Rose (eds.) Foucault and Political Reason, London, University College London Press, 1996, pp. 37-64

597 N. Rose, P. O’Malley e M. Valverde, “Governmentality”, Op. cit., p.91

598 Ibid.

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stessa direzione si colloca lo studio di Barbara Cruikshank, la quale si concentra sul

“movimento sull’auto-stima” sviluppatosi negli Stati Uniti d’America negli anni Ottanta.

Analizzando il programma governativo della California, la studiosa sottolinea il legame

tra la sollecitazione dell’auto-stima e la costruzione di un nuovo ordine sociale, che

riconfiguri il confine tra pubblico e privato, politico e personale, collettivo e

individuale. Offrendo una breve sintesi delle tesi di Cruikshank, Lemke scrive:

[The self-esteem movement] promises to solve social problems by heralding a revolution – not against capitalism, racism, the patriarchy, etc., but against the (wrong) way of governing ourselves. In this way, the angle of possible political and social intervention changes. It is not social-structural factors which determine whether unemployment, alcoholism, criminality, child abuse, etc., can be solved, but instead individual-subjective categories. ‘Self-esteem’ thus has much more to do with self-assessment than with self-respect, as the self continuously has to be measured, judged and disciplined in order to gear personal ‘empowerment’ to collective yardsticks.599

A partire dagli anni Novanta, nel mondo intellettuale e politico anglo-americano, gli

studi governamentali hanno formato un ambito di ricerca indipendente, coinvolgendo

una pluralità di discipline, all’interno delle scienze socio-politiche e dei “cultural

studies”. Mantenendo la dicitura inglese, tra gli ambiti disciplinari che hanno

sviluppato studi governamentali troviamo i seguenti: criminology, education,

organizational sociology, critical managment studies, feminist e postcolonial theory,

historical geography, cultural history, political ecology, international studies600.

Sul finire del XX secolo, il concetto di governamentalità ha attratto l’interesse di

ambienti accademici al di fuori del mondo anglofono: in Germania sono apparsi una

molteplicità di testi ed articoli, in uno spettro disciplinare che va dai media studies alle

scienze politiche, dalla teologia agli studi storici, dell’educazione e del lavoro sociale.

L’approccio governamentale si è poi diffuso nei paesi Scandinavi e in altri stati come il

Belgio e l’Olanda, tornando ad interessare anche la Francia, coinvolgendo ricercatori

dell’area politica, antropologica e sociologica601. Tra gli studi francesi più significativi

599 T. Lemke, “'The birth of bio-politics'...”, Op. cit., p.9

600 Per una presentazione più esaustiva degli studi governamentali sviluppati in una pluralità di contesti disciplinari si rimanda alla rivista Foucault Studies e al numero speciale dedicato alla “Neoliberal Governmentality” (Issue No. 6, February, 2009) edito da Sverre Raffnsøe, Alan Rosenberg, Alain Beaulieu, Sam Binkley, Jens Erik Kristensen, Sven Opitz, Morris Rabinowitz, Ditte Vilstrup Holm.

601 N. Rose, P. O’Malley e M. Valverde sottolineano l’affinità tra gli studi di Foucault e quelli di Latour: «scholars in Paris and elsewhere working in science and technology studies (STS), honing analytic tools that would later be called Actor Network Theory (ANT), were taking their work in a direction that converged with governmentality methods at three principal points of convergence. First was a radical

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troviamo il lavoro di Pierre Dardot e Christian Laval, i quali hanno condotto una

ricostruzione genealogica esaustiva e dettagliata del neoliberalismo, inteso –

foucaultianamente - come razionalità economica e di governo. Nel testo La nuova

ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, pubblicato nel 2009, Dardot e

Laval sviluppano in modo esteso e rigoroso l’ipotesi già avanzata da Foucault: il

neoliberismo è un modello di produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme

di vita e di soggettività, fondato sul principio universale di competizione602 e l’ethos di

autovalorizzazione603. Nel XXI secolo questa razionalità si sviluppa in modo specifico,

attraverso nuove forme discorsive e tecnologiche, che i due studiosi analizzano nel

dettaglio, attribuendole un carattere dominante (è divenuta ragione-mondo) e anti-

democratico.604 La traduzione di questo testo in italiano nel 2013, e la sua vicinanza

con la pubblicazione nel 2010 dei testi delle lezioni foucaultiane degli anni 1978 e

1979, ha contribuito a riaccendere in Italia un interesse interdisciplinare per la

prospettiva governamentale, prospettiva che l’ambiente scientifico italiano ha

contribuito ad affermare alla fine degli anni Settanta (con la prima pubblicazione

dell’estratto dei corsi sulla governamentalità su aut aut nel 1978), ma che è rimasto

per lungo tempo appannaggio dei soli filosofi politici, confinata agli ambienti

foucaultiani605. Il 2013 vede altre due pubblicazioni importanti: esce il testo Valutare e

punire606 di Valeria Pinto, in cui la studiosa analizza retorica e tecnologie dell’attuale

rejection of structuralist habits of thought in favor of studies showing in detail how knowledge and other resources flow and get recycled in particular networks. Second was a common agnosticism about “why” and “in whose interests” questions, accompanied by a commitment to studying how things get done. Third was an antihumanist stance that refuses to privilege not only Great Men but even Great Movements, considering instead the possibility that material things and processes might play an active role in many important processes», in “Governmentality”, Op. cit., p.93. Tra i principali lavori europei dedicati alla governamentalità segnaliamo: U. Bröckling, S. Krasmann, T. Lemke (eds.), Gouvernementalität der Gegenwart, Frankfurt am Main, Studien zur Ökonomisierung des Sozialen, 2000; L. Gertenbach, Die Kultivierung des Markets. Foucault und die Gouvernamentalität des Neoliberalismus, Berlino, Parodos 2007; M. Pieper, E. Gutiérrez Rodriguez, Gouvernementalität: Ein sozialwissenschaftliches Konzept in Anschluss an Foucault, Frankfurt em Main, Campus Verlag, 2003; S. Meyet, M.C. Naves e T. Ribemont, Travailler avec Foucault. Retours sur le politique, Paris, L’Harmattan, 2005.

602 J. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Roma, Derive Approdi, 2013, p. 9

603 Ivi., p. 425

604 Ivi., pp. 468-492

605 Per un primo avvicinamento agli autori che maggiormente si sono interessati ai concetti di governo, governamentalità e biopolitica nel pensiero di Foucault si segnala la miscellanea curata da S. Marcenò e S. Vaccaro, Il governo di sé , il governo degli altri, Palermo, duepunti edizioni, 2011

606 V. Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Napoli, Cronopio, 2012

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cultura della valutazione, e un numero monografico della rivista aut aut intitolato

“All’indice. Critica della cultura della valutazione”. La necessità di formulare nuovi

strumenti critici per analizzare le trasformazioni del presente, spinge alcuni studiosi a

fondare, nel 2015, la Società di Studi Governamentali607. L’associazione riunisce

studiosi di diversa provenienza interessati allo studio di sistemi di pratiche (educative,

giuridiche, lavorative...), considerando le conoscenze che ne sono parte, le forme

specifiche di razionalità che vi operano e le finalità, anche conflittuali, che si inscrivono

in esse. Proponendosi come luogo di incontro e riflessione comune sullo stato attuale

di queste ricerche, la società ha raccolto al proprio interno una pluralità di studiosi

interessati ad analizzare, in modo prioritario ed urgente, le nuove politiche nazionali e

internazionali dell’istruzione e della ricerca.

Dopo questa breve ricostruzione storica, vogliamo provare ad offrire una risposta più

sistematica alla domanda: che cosa sono i Governamentality Studies? Ciò che emerge

da questa prima mappatura è una rete eterogenea di ricercatori i quali, senza

condividere una metodologia organica e compiuta, hanno utilizzato il concetto di

governamentalità in vari modi, seguendo interessi teoretici talvolta divergenti. Questi

studiosi hanno contribuito a generare una area di ricerca che, sorta in modo spontaneo

e senza rigidità di scuola, è oggi distintamente riconoscibile, ampiamente diffusa e

sedimentata nelle pratiche e negli indirizzi. Cosa accomuna queste ricerche?

Nonostante la varietà di orientamento disciplinare e l’attenzione ad oggetti empirici

differenti, le indagini governamentali sembrano condividere una prospettiva analitica

comune, di cui vogliamo tratteggiare i lineamenti generali. Nel fare questo ci

avvarremo del lavoro degli studiosi che maggiormente hanno contribuito a chiarire i

principi teoretico-metodologici di questo settore di studi.

2.2 Techne, Episteme, Ethos

In primo luogo, gli studi governamentali concentrano le proprie analisi su specifiche

pratiche di governo, nel senso più ampio che questo termine assume nel pensiero di

Foucault:

607 Manifesto e attività sono rinvenibili sul sito della Società di Studi Governamentali,

http://www.studigovernamentali.it/, ultimo accesso 27/01/2018

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Studies of governmentality investigate mechanisms of the conduct of “people, individuals, or groups” (Foucault 2007: 102, 120–122), extending from management of company employees to the raising of children and daily control practices in public spaces to governing trans-national institutions such as the European Union and the United Nations.608

Come precisa Mitchell Dean,

to analyse government is to analyse those practises that try to shape, sculpt, mobilize and work through the choices, desires, aspirations, needs, wants and lifestyles of individuals and groups.609

Nel condurre queste analisi, i ricercatori sono accomunati da «an angle of view, a

manner of looking, a specific orientation»610. Analizzando lo stile di indagine

governamentale Bröckling, Krasmann e Lemke indicano la presenza di cinque principi

metodologici, che qui presentiamo in forma sintetica.

Primo,

studies of governmentality do not operate with dichotomies such as power and subjectivity, state and society, structure and action, ideas and practices, but look for the systematic ties between forms of rationality and technologies of government.611

In questo modo, proseguono gli studiosi, l’approccio governamentale mette in luce il

rapporto tra i processi di produzione della conoscenza e i meccanismi di potere,

enfatizzando il modo in cui le pratiche di governo e il nostro modo di pensare siano

codeterminati. Come osserva Dean, «analyses of governmentality are centered on the

question of how practices and thinking about these practices constitute themselves

mutually, or more precisely: how they translate into each other»612. E ancor più, «the

analysis of government is concerned with thought as it becomes linked to and is

embedded in technical means for the shaping and reshaping of conduct and in practice

and institutions»613.

608U. Bröckling, S. Krasmann e T. Lemke, “From Foucault’s Lectures at the Collège de France to

Studies of Governmentality. An introduction”, Op. cit., p. 11 609

M. Dean, Governamentality, Op. cit. P. 20 610

U. Bröckling, S. Krasmann e T. Lemke, “From Foucault’s Lectures at the Collège de France to Studies of Governmentality. An introduction”, Op. cit., p.15

611 Ivi., p. 12

612 Ivi., p. 11

613 M. Dean, Governmentality, Op. cit., p. 27

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Secondo,

this analytical perspective follows the principle of an “ascending analysis” (Foucault 1980: 99) starting with local patterns of rationality and governmental practices.614

Le ricerche governamentali rifiutano l’utilizzo di teorie e categorie concettuali

globalizzanti, muovendo da una micro-analisi di pratiche: è la connessione,

sistematizzazione e omogeneizzazione di queste a consentire la descrizione di un

fenomeno macroscopico. Concetti sociologici come la “società del rischio”, lo “stato”, il

“neoliberalismo” non costituiscono le premesse dell’analisi governamentale, ma il suo

punto di arrivo. Così, per gli studi governamentali non è interessante affermare

l’esistenza di una singola governamentalità neoliberale, ma evidenziare i collegamenti

tra la teoria del capitale umano e la figura dell’imprenditore di sé, cercando di

mostrare come sia diventato il modello egemonico nei regimi di soggettivazione del

nostro presente.

Terzo,

studies of governmentality open up an epistemological-political field that Foucault defined as “politics of truth.” In contrast to the critique of ideology, they do not describe ideas or theories in terms of a true-false distinction and imply no opposition between power and knowledge.615

Come spiegano gli autori, gli studi governamentali si concentrano sulle operazioni

discorsive, le posizioni dei parlanti e i meccanismi istituzionali attraverso cui un certo

regime di verità è prodotto e taluni effetti di potere sono ad esso associati. L’analitica

del governo traccia i contorni della forma storica del potere, individuando il corpo dei

saperi attraverso i quali ridefinisce i problemi e il campo di intervento del governo.

Quarto,

this research perspective emphasizes the technological aspect of government.616

Come più volte sottolineato, il concetto di tecnologia non è qui limitato agli artefatti

tecnici, ma include strategie di ingegneria sociale e tecnologie del sé: si riferisce sia al

complesso di macchine, reti mediatiche, sistemi di registrazione e visualizzazione, sia ai

dispositivi procedurali attraverso i quali il comportamento e i modi di pensare

614 U. Bröckling, S. Krasmann e T. Lemke, “From Foucault’s Lectures at the Collège de France to Studies of Governmentality. An introduction”, Op. cit., p.12

615 Ibid.

616 Ibid.

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individuali e collettivi sono influenzati («these involve sanctioning, disciplining,

normalizing, empowering, insuring, preventing, and so on»617). Quello che è in gioco è

un complesso di processi pratici, strumenti, programmi, calcoli, misure e apparati che

rendono probabili e controllabili specifiche modalità di azione, costruendo strutture di

preferenza finalizzate ad obiettivi strategici e fornendo agli individui le premesse

ragionevoli delle proprie libere scelte.

Quinto e ultimo,

studies of governmentality center on an analytics of the political. In contrast to a political sociology or political science that presumes its objects as a given, the concern here is with the ways in which the realm of the political is produced in the first place.618

Assumendo una prospettiva analitica, gli studi governamentali si concentrano sulle

condizioni alle quali specifiche realtà emergono, esistono, cambiano; investigano come

certi problemi sono definiti quali problemi di governo e come certe soluzioni sono

concettualizzate; sono attenti alle linee di forza che rendono certi comportamenti più

probabili di altri, sollecitando gli individui a costituirsi quali soggetti, ad esempio quali

cittadini autonomi, emancipati, responsabili. Nel fare questo, un’analitica del governo

mira ad evidenziare come ciò che diamo per scontato (il nostro modo di comportarci o

di pensarci) non sia interamente auto-evidente e necessario. Alcune precisazioni su

questo punto sono necessarie.

Measuring these lines of force does not mean asking how people actually move within them. Studies of governmentality are more interested in how people are invoked to move within these lines. The focus is on the interrelations between regimes of self-government and technologies of controlling and shaping the conduct of individuals and collectives, not on what human beings governed by these regimes and technologies actually say and do. [...] The central question is thus not how effective governmental activities are and how they should be optimized, but how they unfold their effects.619

L’analisi governamentale in nessun modo intende offrire una comprensione normativa

della realtà: il suo lavoro di critica consiste in un lavoro di mappatura dei regimi

governamentali, così da rendere visibili i punti di attrito e di conflitto, le fessure e le

modalità di resistenza provocate dagli sforzi governamentali. Questa attitudine si

fonda su un presupposto antropologico: alla base di questa comprensione del governo

617 Ibid.

618 Ivi., p. 13

619 Ibid.

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e della critica vi è una prospettiva antropologica minimalista, fondata sul

riconoscimento del potere performativo dei soggetti e sulla inevitabilità dei

condizionamenti sociali.

Studies of governmentality avoid the hypothesis of an antecedent, autonomously acting subject, employing instead a minimalistic anthropology. They know nothing about the constitution of human beings going beyond the human capacity to be formed of about form itself (Rose 1996). But this dual capacity is what makes people governable in a fundamental way. Subjects are not merely effects of the exercise of power, but also possess self-will and agency—this is already at work conceptually in the copresence of power and freedom in the idea of government.620

Subjects can only understand themselves and act within a historical field of possible experiences (see Macherey 1992: 181–182). They generate themselves performatively, but their performances are bound into orders of knowledge, lines of force, and power relations. Thus subjectification designates a potential for action, but always a form of adherence as well—to ideas, and to manners of articulation and recognition. Subject-positions empower individuals, while subjecting them at the same time (Butler 1997).621

Se la soggettivazione è comprensibile nei termini di questo doppio movimento,

all’interno della prospettiva governamentale la tradizionale opposizione tra liberazione

e dominazione, tra alienazione ed emancipazione diviene inservibile. Questo non

significa però abbandonare il telos della libertà e la rivendicazione dell’auto-

determinazione:

[I]t does, however, problematize these concepts. Movements for freedom and emancipation are not located outside or beyond power relations, but themselves produce regimes of subjectification (Cruikshank 1999). They not only place extant orders of truth in question but also inaugurate counter-truths centered on the question of how liberated, emancipated subjects are to understand and to shape themselves and others.622

Gli studi governamentali non sono interessati a descrivere le trasformazioni dei

soggetti o a giudicarle sulla base di un’idea di soggettività migliore o più originaria, ma

si concentrano sulle modalità con cui un certo tipo di soggettività emerge storicamente

quale problema e/o soluzione di una strategia di governo.

To put this another way: they do not ask what the subject is but which forms of subjectivity have been invoked, which modes of knowledge have been mobilized to answer the question of the subject, and which procedures laid claim to.623

620 Ivi., p.14

621 Ibid.

622 Ibid.

623 Ivi., p. 15

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Si comprende, così, perché la ricezione del concetto foucaultiano di governamentalità

e lo sviluppo di ricerche genealogiche sulla soggettivazione emergano con più forza in

seguito al diffondersi di politiche neoliberali, le quali mirano alla ristrutturazione dei

soggetti e della società «in terms of market orientation and individual freedom»624.

In neoliberalism especially, the figure of the enterprising self (Bröckling 2007), defining itself as free, self-responsible, and ready for risk, has figured as a protagonist in this political project to promote the self-caring and self-provision of society’s members and to measure the investment of state resources to this end. Concepts such as creativity, lifelong learning, participation, and empowerment have become synonyms for technologies establishing a new relation between the citizen and the state: the activating state, the activated subject.625

Le tecnologie di governo contemporanee incoraggiano gli individui a pensarsi e ad

agire come soggetti autonomi ed auto-determinati: grazie alla massimizzazione del

principio di competizione, alla flessibilità e all’assunzione personale dei rischi sociali,

mirano al raggiungimento della crescita economica, della coesione sociale e del

benessere individuale.

Come abbiamo potuto notare, le ricerche governamentali si concentrano sui rapporti

di integrazione e codeterminazione tra potere, verità e identità dei soggetti: «an

analytics of government – scrive Dean - tries to recover the intelligibility of regimes of

practices through each of these dimensions, to give due weight to their

interdipendence, without falling into any kind of reductionism or determinism»626.

Come si svolge, allora, una ricerca governamentale? Nel rispondere a questa domanda

ci avvarremo del lavoro dello stesso Dean, tra i primi a ricostruire sistematicamente il

procedimento analitico dei Governmentality Studies. Nello spazio a nostra

disposizione presenteremo brevemente gli elementi fondamentali della sua analisi.

Il punto di partenza di un’analisi governamentale è l’identificazione di una

“problematizzazione” dell’attività di governo, ossia «*the+ calling into question of how

we shape or direct our own and other’s conduct»627. Le problematizzazioni sono

qualcosa di raro e contingente: emergono in momenti storici precisi, hanno particolari

date e luoghi di sviluppo, specifiche istituzioni o organizzazioni rispetto alle quali

624 Ibid.

625 Ibid.

626 M. Dean, Governmentality, Op. cit., p. 33

627 Ivi., p. 38

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vengono a costituirsi. L’analisi prosegue, poi, cercando di individuare le condizioni

entro cui la nuova pratica di governo viene affermandosi: come certi agenti siano resi

autorevoli e potenti; come diversi domini siano costituiti quali governabili e

amministrabili; come tutto ciò sia reso pensabile, legittimo, desiderabile; come il

campo di azione dei soggetti sia strutturato in modo più o meno rigido, rendendo

possibile l’affermazione di resistenze e contro-condotte.

“How” questions lead us to problems of the techniques and practices, rationalities and form of knowledge, and identity and agencies by which governing operates. Another way of putting this is to say that to ask “how” questions of government is to analyse government in terms of its “regime of practices”.628

Con il termine “regime of practise” Dean vuole sottolineare la natura composita delle

pratiche governamentali:

they should be approached as composed heterogeneous elements having diverse historical trajectories, as polymorphus in their internal and external relations, and as bearing upon a multiple and wide range of problems and issues.629

Ciascuno di questi “regimi di pratiche” (di cura, di punizione, di educazione, di

prevenzione, di consulenza...) è caratterizzato da «particular techniques, language,

grids of analysis and evaluation, forms of knowledge and expertise».

An analytics of government is a materialist analysis in that it places these regimes of practices at the centre of analysis and seeks to discover the logic of such practices. However, since regime of practices partly comprise the forms of knowledge and truth which define their field of operation and codify what can be known, and since these regimes of practices are penetratedby all types of programmes that seek their reform, one would need to add that this materialism must be concerned with thought. Practice are of interest, then, in that they exist in the medium of thought, given that thought is a non-subjective, technical and practial domain.

Seguendo l'interpretazione di Deleuze630, Dean riconosce la presenza di quattro

dimensioni costitutive in ogni regime di pratiche di governo, dimensioni che l’analisi

governamentale si impegna ad indagare, singolarmente e nel proprio rapporto di

interdipendenza:

il campo di visibilità: «by what kind of light it illuminates and defines certain

objects and with what shadows and darkness it obscures and hides other»631?

628 Ivi., p. 40

629 Ibid.

630 G. Deleuze, Che cos'è un dispositivo?, Napoli, Edizioni Cronopio, 2007

631 M. Dean, Governmentality, Op. cit., p. 41

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la componente tecnologica (techne): «by what means, mechanisms,

procedures, instruments, tactics, techniques, technologies and vocabularies is

authority constituted and rule accomplished?»632.

le formazioni del sapere (episteme): «what forms of thought, knowledge,

expertise, strategies, means of calculation, or rationality are employed in

practices of governing? [...] How do these practises of governing give rise to

specific forms of truth? How does thought seek to render particular issues,

domains and problems governable?»633.

le soggettivazioni (ethos): «what forms of person, self and identity are

presupposed by different practices of government and what sort of

transformation do these practices seek?»634.

Queste quattro dimensioni si presuppongono a vicenda, ma sono relativamente

autonome e non sono riducibili l’una all’altra: «transformation of regimes of practices

may take place along each or any of these axes, and transformation along one axis may

entail transformation in others»635. Oltre a questi quattro assi, Dean identifica un

quinto elemento da isolare: il telos delle pratiche governative, «their ultimate ends

and their Utopian goals»636. Solitamente, osserva Dean, i regimi di pratiche hanno tra i

propri obiettivi il miglioramento della realtà: «they are all not only ways of thinking

about the mundane activity of administering things and people but also ways of

leading them to a new and better existance»637. I valori e le vision associati ad una

certa pratica di governo sono riconosciuti come parte integrante della retorica

governamentale: «the rhetoric is internal, and often necessary, to the functioning of

regime of practices and thus cannot make intelligible their conditions of existence»638.

E ancora, «values, knowledge, technique, are all part of the mix of regimes of practice

but none alone acts as a guarantor of ultimate meaning»639.

632 Ivi., p. 42

633 Ibid.

634 Ivi., p. 43

635 Ivi., p. 44

636 Ibid.

637 Ivi., p. 45

638 Ibid.

639 Ivi., p. 46

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Sintetizzando quanto emerso fino a questo momento, potremmo dire che gli

studi governamentali sono caratterizzati dall’analisi degli elementi costitutivi di un

regime di pratiche, il quale può essere così definito:

any more or less calculated and rational activity, undertaken by a multiplicity of authorities and agencies, employing a variety of techniques and forms of knowledge, that seeks to shape conduct by working through the desires, aspirations, interests and beliefs of various actors, for definite but shifting ends and with a diverse set of relatively unpredictable consequences, effects and

outcomes.640

In conclusione, Dean ribadisce la distanza della prospettiva governamentale da tutti i

progetti che si definiscono globali e radicali, dalle analisi che intendono giudicare le

pratiche di governo quali buone o cattive, necessarie o inutili. Alla base di questa

posizione vi è il rifiuto dell’idea che l’analisi governamentale debba mostrare una via di

liberazione dei soggetti da o attraverso il governo: abbracciando la prospettiva

foucaultiana, le capacità dei soggetti e il tipo di libertà che gli individui esperiscono

sono formati all’interno dei regimi di governo. Rigettando di assumere un orizzonte

normativo e di elaborare progetti di governo alternativi,

the analytics of government marks out a space to ask questions about government, authority and power, without attempting to formulate a set of general principles by which various forms of the “conduct of conduct” could be reform. The point of doing this, however, is not to constitute a “value-neutral”

social science. Rather it is to practice a form of criticism.641

Recuperando la riflessione foucaultiana sulla critica come ontologia storica di noi stessi

e del nostro presente, Dean esplicita il senso in cui l’analisi governamentale può

intendersi come pratica critica. Rendendo visibili le forme di razionalità e i sistemi di

pensiero che innervano i regimi di pratiche, mostrando la contingenza delle modalità

con cui conosciamo noi stessi, indicando i legami tra il nostro modo di conoscerci e il

modo in cui governiamo e siamo governati, l’analitica del governo rimuove il carattere

di ovvietà e naturalezza di quelle pratiche, rende difficili i gesti più comuni642.

The point of doing this is not to make the transformation of these practices appear inevitable or easier, but to open the space in which to think about how it is

640 Ivi., p.18

641 Ivi., p. 48

642 Ibid.

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possible to do things in a different fashion [...]. It is thus an attempt to gain clarity about the conditions under which we think and act in the present.643

Sebbene questo tentativo non si fondi su alcun particolare corpus di principi o valori,

l’analisi critica, dichiara Dean, è a servizio di un certo tipo di “moral forces”,

un’espressione che egli deriva dal lavoro di Max Weber.

This is to say that, by making clear what is at stake when we try to govern in a particular way and employ certain way of thinking and acting, an analytics of government allows us to accept a sense of responsibility for the consequences and effects of thinking and acting in these ways.644

In modo particolare, suggerisce Dean, questo tipo di analisi consente di rilevare i “fatti

inconvenienti”, mostrando le discrepanze tra l’auto-rappresentazione dei programmi

governamentali e i loro effetti strategici. Così, ad esempio, l’analisi del concetto e delle

pratiche di “empowerment” mostra come certe tecnologie del sé siano lontane

dall’essere indipendenti e autonome dai meccanismi del potere. Notando queste

disgiunture,

we can produce a certain discomfort for the advocates of such notions of all political persuasions, particularly those who imagine themselves to be standing outside relations of power. Similarly, a consideration of how the self-governing capacities of the governed are a key feature of contemporary liberal rule problematizes the radical view of emancipation as the liberation of the agency of those who are oppressed.645

Chiarendo il modo in cui i regimi di pratiche operano, possiamo chiarire in che modo le

forme di dominazione, le relazioni di potere, le tipologie di libertà e autonomia sono

intrecciate, come a quei regimi si oppongano forme di contestazione e resistenza,

come sia possibile pensare la realtà e le nostre azioni in modo differente.

The enhanced capacity for reflecting on how we govern others and ourselves makes it possible to adopt an experimental attitude where we can test the limits of our governmental rationalities, the forms of power and domination they involve, and thus investigate how we might think in different ways about the action on the action of self and others. [...] An analytic of government is thus in the service not of a pure freedom beyond government [...] but of those “moral forces” that enhance our capacities for self-government by being able to understand how it is that we govern ourselves and others. It thus enhance our human capacity for the reflective practise of liberty, and the acts of self-

643 Ibid.

644 Ibid.

645 Ibid.

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determination this make possible, without prescribing how that liberty should be exercised.646

In un certo senso, si spinge ad affermare Dean, è possibile individuare una dimensione

di carattere normativo all’interno della prospettiva governamentale: l’impegno etico

per un criticismo che mostri la contingenza dei regimi di pratiche in cui siamo immersi,

senza prescrivere alcun tipo di libertà. Questo ethos critico si fonda sul riconoscimento

foucaultiano che nulla è intrinsecamente positivo o negativo, ma tutto è

potenzialmente pericoloso647.

Another sense in which an analytics of government could serve “moral forces” is to make us permanently aware of the dangers that shadow the desire to augment, improve and fulfil our lives and those of others by governmental rationalities, practices and technologies.648

Ora che abbiamo delineato i tratti generali che accomunano i Governmentality Studies,

vogliamo avvicinarci alle ricerche che, assumendo questa prospettiva analitica, hanno

interrogato i regimi di pratiche con cui il mondo occidentale pensa, organizza e vive la

realtà dell’educazione. In modo particolare, ci concentreremo sulle indagini che hanno

messo in discussione la necessità dei saperi, delle tecnologie e delle soggettività che

caratterizzano le istituzioni di formazione ed istruzione del nostro presente.

2.3 Governamentality Studies in Education

2.3.1 Foucault, governamentalità, educazione

Quello di Foucault è un nome conosciuto all’interno delle discipline accademiche di

area educativa: le sue riflessioni su concetti quali disciplina, esame, sorveglianza,

tecnologia, sapere-potere, cura di sé sono oggi ampiamente riconosciute nell’ambito

646 Ivi., p. 49

647 In un intervista rilasciata a Berkeley nel 1983 Foucault dichiara: «Vede, ciò che voglio fare non è la storia delle soluzioni, ed è questa la ragione per cui non accetto la parola “alternativa”. Mi piacerebbe fare la genealogia dei problemi, delle problematiche. Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, che non è esattamente la stessa cosa. Se tutto è pericoloso, allora abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico-politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo maggiore», in “Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress”, in H. L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Fouault, Op. cit., pp. 301-327, qui p. 304

648 M. Dean, Governmentality, Op. cit., p. 50

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della filosofia e delle scienze dell’educazione649. Tuttavia, a differenza di quanto

avvenuto nell’ambito delle scienze politiche e sociali, nel campo pedagogico-educativo

le idee foucaultiane hanno impiegato un tempo maggiore ad affermarsi. Senza la

pretesa di essere esaustivi, a motivo di ciò possiamo indicare due fattori. In primo

luogo, nonostante Foucault abbia indicato nell’istituzione scolastica uno dei dispositivi

moderni del potere disciplinare (accanto alla prigione e alla fabbrica), le pratiche

educative non hanno mai costituito l’oggetto privilegiato delle sue analisi. In secondo

luogo, l’approccio anti-fondazionalista e anti-normativo di Foucault si colloca in una

rapporto di tensione con il ruolo tradizionale della ricerca pedagogica continentale

(impegnata a definire principi, valori e scopi delle pratiche educative) e della sociologia

positivista dell’educazione (tesa a sviluppare una comprensione oggettiva del contesto

sociale). Escludendo rare eccezioni650, è solamente a partire dalla fine degli anni

Ottanta che vediamo emergere ricerche di ambito educativo direttamente ispirate agli

studi foucaultiani. Le sue indagini genealogiche, e in modo particolare la sua

elaborazione del concetto di normalizzazione, hanno giocato un ruolo chiave negli

studi storici sull’educazione e, più in particolare, nelle analisi dedicate alla storia delle

649 Per una panoramica generale dell’utilizzo di Foucault nella ricerca in ambito educativo nel contesto anglo-americano si rimanda a: T. Popkewitz e M. Brennan (eds.), Foucault’s challenge: Discourse, knowledge and power in education, New York, Teachers college press, 1998; B. M. Baker e K. E. Heyning (eds.), Dangerous coagulations: The uses of Foucault in the study of education, Peter Lang, New York, 2004; M. Peters, “Why Foucault? New Directions in Anglo-American Educational Research”, in L. Pongratz et al. (eds.), Nach Foucault. Diskurs- und machtanalytische Perspectiven der Pädagogik, Wiesbaden, VS Verlag Für Sozialwissenschaften, 2004, pp. 195-219 a cui segue M. Peters e T. Besley, Why Foucault? New directions in educational research, Peter Lang, New York, 2007. Per il contesto di area tedesca: N. Balzer, “Von den Schwierigkeiten, nich oppositional zu denken. Linien der Foucault-Rezeption in der deutschsprachigen Erziehungswissenschaft”, in N. Ricken e M. Rieger-Ladich (eds.) Michel Foucault: Pädagogische Lektüren, Wiesbaden, VS Verlag Für Sozialwissenschaften, 2004, pp. 15-38. Per il contesto italiano, in mancanza di una panoramica generale, si rimanda ad alcuni lavori specifici: A. Mariani (a cura di), Attraversare Foucault: la soggettività, il potere, l'educazione, Unicopoli, Milano 1997, in modo particolare le indicazioni bibliografiche pp. 51-65; A. Mariani, Foucault: per una genealogia dell’educazione, Liguori Editore, Marzo 2000; A. Mariani, La decostruzione in pedagogia. Una frontiera teorico-educativa della postmodernità, Armando, Roma 2008; R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Laterza, Bari 1997; F. Cappa (a cura di), Foucault come educatore. Spazio, tempo, corpo e cura nei dispositivi pedagogici, FrancoAngeli, Milano 2009; F. Cappa, “Il senso pedagogico della soggettivazione”, Noema, 4-1/2013, pp.3243; G. Giachery, Il discorso eretico. Michel Foucault e la formazione delle soggettività, Torino, Neos Edizioni, 2015; Maltese, P., “Foucault e la teoria del capitale umano”, EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, IV, 2 (2015), pp. 27-48

650 K. Hoskin, “The examination, disciplinary power and rational schooling”, History of Education, 8(2),

1979, pp. 135–146; K. Hoskin, “Examination and the schooling of science”, in R. MacLeod (ed.), Days of judgement: science, examinations and the organization of knowledge in late Victorian England, Driffield, Nafferton Books, 1982, pp. 213-236

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pratiche di scolarizzazione e dei saperi educativi651. Inoltre, la riflessione sul potere

proseguita nel corso degli anni Settanta652 ha incontrato il favore di studiosi di

orientamento post-strutturalista, i quali hanno contribuito ad un ripensamento

sociologico e filosofico dei discorsi e delle tecnologie impiegati nella ricerca e nelle

pratiche educative653. Nel corso degli anni Novanta e all’inizio del XXI secolo, l’utilizzo

di Foucault nella riflessione accademica sull’educazione può essere collocato in un

continuum tra due poli, uno teoretico e l’altro analitico.

Da un punto di vista teoretico, il lavoro foucaultiano è stato impiegato per

ripensare e discutere concetti centrali della riflessione filosofica sull’educazione, ad

esempio il concetto di autonomia, di educazione liberale, di emancipazione.654 Più in

generale, Foucault è stato qualificato come pensatore post-strutturalista e post-

modernista e le sue ricerche hanno contribuito a discutere temi quali la concezione del

soggetto nelle teorie educative e la prospettiva del relativismo etico ed

epistemologico655. Tra i ricercatori di orientamento poststrutturalista, Foucault è stato

651 M. Depaepe, De pedagogisering achterna: aanzet tot een genealogie van de pedagogische mentaliteit in de voorbije 250 jaar, Leuven, Acco, 1998; I. Hunter, Rethinking the School. Subjectivity, Bureaucracy, Criticism, St. Leonards, Allen and Unwin, 1994; I. Hunter, “Assembling the School”, in A. Barry, T. Osborne e N. Rose (eds.), Foucault and political reason. Liberalism, neo-Liberalism and rationalities of government, pp.143-166, London, University College London Press, 1996; N. Peim, “The history of the present: towards contemporary phenomenology of the school”, History of Education, 30(2), 2001, pp. 177-190

652 C. Gordon, Power/Knowledge: selected interviews & other writings 1972-1977, Op. cit.

653 L. A. Pongratz, Pädagogik im Prozess der Moderne. Studien zur Sozial- und Theoriegeschichte der

Schule, Weinheim, Deutscher Studien Verlag, 1989; S. J. Ball (ed.), Foucault and Education. Disciplines and Knowledge, London, Routledge, 1990

654 J. D. Marshall, Michel Foucault: Personal Autonomy and Education, Dordrecht, Kluwer, 1996; K. Meyer-Drawe, Illusionen von Autonomie. Diesseits von Ohnmacht und Allmacht des Ich, München, Kirchheim, 1990; K. Meyer-Drawe, “Streitfall, Autonomie’. Aktualität, Geschichte und Systematik einer modernr Selbstbeschreibung des Menschen”, in W. Braun et al. (eds.), Fragen nach dem Menschen in der umstrittenen Moderne. Jahrbuch für Bildungs-und Erziehungsphilosophie 1, Baltmannsweiler, Schneider Verlag, 1998, pp.31-49; M. Olssen, “Foucault, Educational Research and the Issue of Autonomy”, Educational Philosophy and Theory , 37 (3), 2005, pp.365–387

655 K. Wain, “Foucault, Education, the Self and Modernity”, Journal of Philosophy of Education, 30(3), 1996, pp. 355-360; K. Wain, The Learning Society in a Postmodern World, Bern/New York, Peter Lang, 2004; J. D. Marshall, “Michel Foucault: philosophy, education, and freedom as an exercise upon the self”, in M. A. Peters (ed.), Naming the Multiple: Poststructuralism and Education, Westport CT /London, Bergin & Garvey, 1998; N. Blake, P. Smeyers, R. Smith e P. Standish, Thinking again: education after postmodernism, New York, Bergin & Garvey, 1998; G.J.J. Biesta, “Pedagogy Without Humanism: Foucault and the Subject of Education”, Interchange, 29:1, 1998, pp. 1-16; K. Meyer-Drawe, “Tod des Subjekts – Ende der Erziehung? Zur Bedeuting ‘postmoderner’ Kritik für Theorien der Erziehung”, Zeitschrift für Pädagogik, 42, 1996, pp.48-57; M. A. Peters e K. Wain, “Postmodernism/poststructuralism”, in N. Blake, P. Smeyers, R. Smith e P. Standish (eds.), The Blackwell Guide to the Philosophy of Education, Oxford, Blackwell, 2002; M. A: Peters e W. Humes (eds) (2003) Poststructuralism and educational research, Journal of Educational Policy, Special Issue;

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utilizzato per sostenere un approccio storico-materialistico all’educazione656 e per

riformulare il concetto del sé, rifiutando l’idea di un soggetto originario e autentico657.

Infine, la prospettiva foucaultiana ha ispirato numerosi studi sulla metodologia della

ricerca educativa, sulla sociologia dell’educazione e sull’epistemologia di questi ambiti

di studio658.

Da un punto di vista analitico, lo stile investigativo genealogico ha ispirato una

molteplicità di indagini sulle pratiche e sulle politiche educative. Utilizzando gli

strumenti di analisi elaborati da Foucault e sviluppando ulteriormente le sue ipotesi di

lavoro, una pluralità di ricercatori ha approfondito l’indagine delle pratiche discorsive e

delle tecnologie di potere che contribuiscono al nostro modo di pensare e di praticare

l’educazione. Tra gli strumenti analitici privilegiati, dalla metà degli anni Novanta, si

diffonde la prospettiva governamentale, la quale combina la rielaborazione teorica e

l’attitudine analitica, intrecciando un piano di riflessione filosofica ad un livello di

analisi politica. Negli anni Duemila, questa tendenza assume una dimensione

internazionale ispirando una pluralità di direzioni di ricerca («a polyphonic ensemble of

criticism»659), di cui riportiamo, a titolo esemplificativo, un breve elenco:

governmentality and liberal education660; pastoral power at the university661; classroom

M. A. Peters e N. Burbules, Poststructuralism and educational research, Lanham MD/Oxford, Rowman and Littlefield, 2004

656 M. Olssen, Michel Foucault. Materialism and Education, Westport, Bergin & Garvey, 1999

657 J. D. Marshall, “A Critical Theory of the Self: Wittgenstein, Nietzsche, Foucault”, Studies in Philosophy and Education, 20(1), 2001, pp. 75-91; K. Meyer-Drawe, “Subjektivität – Individuelle und kollektive Formen kultureller Selbstverhältnisse und Selbstdeutungen”, in F. Jaeger & B. Liebsch (eds.) Handbuch für kulturwissenschaften. Band 1. Grundlagen und Schlüsselbegriffe, Stuttgart und Weimar, 2004, pp.304-315

658 S. J. Ball, Educational Reform: A Critical and Post-structural Approach, Buckingham, Open University Press, 1994; T. S.Popkewitz, “Rethinking decentralization and state/civil society distinctions : the state as a problematic of governing”, Journal of education policy, 11(1), 1996, pp. 27-51; T. S. Popkewitz & M. Brennan (eds.), Foucault’s Challenge: Discourse, Knowledge, and Political Projects of Schooling, New York, Teachers College Press, 1997.

659 S. M. Weber e S. Maurer, “The art of being governed less”, in M. A. Peters, A. C. Besley, M. Olssen, S. Maurer e S. Weber, Govermentality Studies in Education, Rotterdam/Boston/Taipei, Sense Publishers, 2009, pp. 397-414, qui p. 402

660 J. D. Marshall, “Foucault and Neo-Liberalism: bio-power and busno-power”, in A. Neiman (Ed.), Proceedings of The Philosophy of Education Society, llinois, Philosophy of Education Society, 1995; J. D. Marshall, “Governementality and liberal education”, Studies in the Philosophy of Education, 14(1), 1995, pp. 23-24.

661 A. Howley w R. Hartnett, “Pastoral power and the contemporary university: a foucauldian analysis”, Educational Theory, 42 (3), 1992, pp. 271-283

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management662; entrepreneurship and education663; education governance664; the soul

of the teacher, teacher reflection and teacher identity665; mobilization, flexibility and

lifelong learning666; the permanent quality tribunal in education667; Europe,

governmentality, immunization668; the care of the self in a knowledge economy669;

participation as a governmental strategy670; inclusion as a governmental strategy671;

biopolitics and governmentality in education672; research ethos and governmentality673;

European citizenship and the researcher subjectivity674.

662 H. Tavares, “Classroom Management and Subjectivity: a genealogy of educational identities”, Educational Theory, 46(2), 1996, pp. 189-201

663 M. A. Peters, “Neoliberalism and the Constitution of the Entrepreneurial Self: Education and Enterprise Culture in New Zealand”, in C. Lankshear, M. Peters, A. Alba e E. Gonzales (eds.), Curriculum in the Postmodern Condition, New York, Peter Lang, 2000

664 S. Lindblad, I. Johannesson e H. Simola, “Education Governance in Transition: an introduction”, Scandinavian Journal of Educational Research, 46 (3), 2002, pp.237-245

665 T. S. Popkewitz, Struggling for the Soul. The Politics of Schooling and the Construction of the Teacher, New York, Teachers College Press, 1998; S. J. Ball, “The teacher’s soul and the terrors of performativity”, Journal of Education Policy, 18 (2), 2003, pp. 215-228; L. Fendler, “ Teacher reflection in a hall of mirrors: Historical influences and political reverberations”, Educational Researcher, 32 (3), 2003, pp. 16-25; M. Zembylas, “Interrogating ‘teacher identity’: emotion, resistance, and self-formation”, Educational Theory, 53 (1), 2003, pp. 107-127

666 R. Edwards, “Mobilizing the lifelong learner: governmentality in educational practices”, Journal of Education Policy, 17(3), 2002, pp. 353-365; M. Olssen, “Understanding the mechanism of neoliberal control: lifelong learning, flexibility and knowledge capitalism”, International journal of lifelong education, 25(3), 2006, pp. 213-230

667 M. Simons, “Governmentality, education and quality management: toward a critique of the permanent quality tribunal”, Zeitschrift für Erziehungswissenschaft, 5(4), 2002, pp.617-633.

668 J. Masschelein e M. Simons, Globale immuniteit. Een kleine cartografie van de Europese ruimte voor onderwijs, Leuven, Acco, 2003

669 J. Drummond, “Care of the self in a knowledge economy: higher education, vocation and the ethics of Michel Foucault”, Educational Philosophy and Theory, 35(1), 2003, pp. 57-69; L. Pongratz et al. (Eds.), Nach Foucault. Diskurs- und machtanalytische Perspectiven der Pädagogik, Wiesbaden, VS Verlag Für Sozialwissenschaften, 2004; N. Ricken e M. Rieger-Ladich (eds.) Michel Foucault: Pädagogische Lektüren, Wiesbaden, VS Verlag für Sozialwissenschaften, 2004

670 J. Masschelein e K. Quaghebeur, “Participation for better or for worse?”, Journal of Philosophy of Education, 39 (1), 2005, pp.51-66; J. Masschelein e K. Quaghebeur, “Participation making a difference? Critical analysis of the participatory claims of change, reversal, and empowerment”, Interchange, 37, 2006

671 J. Masschelein e M. Simons, “The strategy of the Inclusive Education Apparatus: Inclusive Education for Exclusive Pupils”, Studies in Philosophy and Education, 24 (2), 2005, pp.117-138; J. Masschelein e M. Simons, Globale Immunität oder Eine Kleine Kartographie des europäischen Bildungsraums, Zürich/Berlin, Diaphanes, 2005.

672 M. Simons, “Lernen, Leben und Investieren: Anmerkungen zur Biopolitik”, in N. Ricken & M. Rieger-Ladich (Eds.), Michel Foucault: Pädagogische Lektüren, Wiesbaden, Verlag für Sozialwissenschaften, 2004

673 M. Simons, J. Masschelein, K. Quaghebeur, “The ethos of critical research and the idea of a coming research community”, Educational Philosophy and Theory, 37 (6), 2005, pp. 817-832.

674�N. Hodgson, Citizenship for the learning society. Europe, subjectivity, and educational research,

Hoboken, Wiley-Blackwell, 2016

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L’interesse crescente per la categoria foucaultiana della governamentalità da

parte dei ricercatori di area filosofico-educativa può essere collegato alle

trasformazioni socio-politiche che, dai primi anni Novanta, hanno coinvolto sempre di

più il mondo dell’educazione: il cambiamento delle modalità-mentalità di governo, la

crisi dal “welfare state” e l’emergere di governamentalità di impronta neoliberale. A

questo fenomeno di ridefinizione della governamentalità si associa, infatti, un intenso

riformismo educativo: il tentativo di riconfigurare la logica e le pratiche dei sistemi

educativi nazionali. Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, è possibile osservare un

processo di decentralizzazione nelle politiche scolastiche, che promuove specifiche

forme di autonomia e responsabilizzazione dei singoli istituti. Al tempo stesso,

l’aumento del potere di orientamento di istituzioni internazionali come l’Unione

Europea e l’OCSE, hanno dato origine a nuovi meccanismi di centralizzazione, portando

alcuni studiosi ad estendere il concetto di governamentalità oltre i confini statali,

riconoscendo un processo di governamentalizzazione dell’Europa675 e l’emergere di

un’euro-governmentality676. In modo particolare, il progetto economico-sociale

strutturato nella Strategia di Lisbona del 2000, che mira a fare dell’Unione Europea la

potenza più competitiva nell’“economia della conoscenza” mondiale, ha ispirato gran

parte delle politiche educative degli stati membri. Dinnanzi a questi processi, i

ricercatori hanno cercato di elaborare nuovi strumenti e strategie interpretative, al

fine di contribuire ad una comprensione critica del presente, mantenendo

un’attenzione al rapporto tra il piano locale (sviluppando micro-analisi del potere e dei

processi di soggettivazione) e quello globale (assumendo una prospettiva

macroscopica e politica). L’analisi genealogica e governamentale è apparsa quale

prospettiva utile per soddisfare questa esigenza, interrogando il senso e gli effetti delle

675 A. Nóvoa e M. Lawn (eds), Fabricating Europe: The Formation of an Education Space, Dordrecht, Kluwer, 2002. Su questo tema si segnala il lavoro di Michael Merlingen, ‘Foucault and World Politics: Promises and Challenges of Extending Governmentality Theory to the European and Beyond’ Millennium, 35 (1), 2006, pp. 181-196. Merlingen analizza tre pubblicazioni impegnate nella discussione sulla possibilità di estendere la categoria della governamentalità ad un contesto extra-statale: W. Larner e W. Walters (eds.), Global Governmentality: Governing International Spaces, London, Routledge, 2004; R. W. Perry e B. Maurer (eds.), Globalization under Construction: Governmentality, Law, and Identity, Minneapolism University of Minnesota Press, 2003; e W. Walters e J. H. Haahr, Governing Europe: Discourse, Governmentality and European Integration, London, Routledge, 2005

676 M. Simons, “'To be informed': understanding the role of feedback information for Flemish/European policy”, Journal of Education Policy, 22 (5), 2007, pp. 531-548.

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pratiche educative dominanti, provando a destabilizzare ciò che il discorso comune dà

per scontato. Per mostrare l'originalità critica di questo approccio, possiamo offrire un

esempio elaborato da Andreas Fejes, il quale analizza le fertilità della prospettiva

governamentale negli studi sul lifelong learning677. Recuperando una riflessione di Jan

Masschelein sul concetto di Bildung678, Fejes scrive:

For example, here, critical theorists have centrally employed the concept of Bildung, which is an idea about the purpose of education being to develop the ability of the human to be reflective (about him/herself and his/her surroundings) as a means of achieving emancipation from social conditions and constraining relations. Bildung is about freeing oneself through learning, i.e. through self-autonomy and critique. Such a construction, however, is made possible by, and reinforces, that which it opposes – constraint (Masschelein, 2004). By believing that we are free, we accept constraint. Thus, the autonomous, self-reflective life cannot counter power relations. Instead, it is a particular kind of historical ‘figure’ of self-government through which we become traversed by power relations even as we believe ourselves to be free. This approach thus permits questions about the discourse of Bildung and what the effects of this discourse are. Where lifelong learning is predominantly considered to signify freedom from power through self-autonomy and critique, we can ‘read’ it alternatively as a mechanism of power whereby the individual governs him or herself within power relations.679

Come sottolinea lo studioso svedese, gli strumenti teorici elaborati da Foucault attorno

al tema del governo possono contribuire a decostruire i discorsi egemoni nell’ambito

educativo contemporaneo (es. «narratives of democracy, empowerment and

equality»), rendendo visible «how power operates in both the micro-practices of

677 A. Fejes, “What's the use of Foucault in research on lifelong learning and post-compulsory education?: A review of four academic journals”, Studies in the Education of Adults, (40) 1, 2008, pp. 7-23. Molte le ricerche che Fejes dedica all’analisi governamentale delle pratiche educative contemporanee, con particolare attenzione all’ambito della “adult education”. Tra queste si ricordano: L. Rahm e A. Fejes, “Popular education and the digital citizen: a genealogical analysis”, European Journal for Research on the Education and Learning of Adults, Vol. 8, no 1, 2017, pp. 21-36; M. Dahlstedt e A. Fejes, Shaping entrepreneurial citizens: A genealogy of entrepreneurship education in Sweden, Critical Studies in Education, 2017; A. Fejes et al., “Individualisation in Swedish adult education and the shaping of neo-liberal subjectivities”, Scandinavian Journal of Educational Research, 2016, pp. 1-16; A. Fejes, “European citizens under construction: the Bologna process analysed from a governmentality perspective”, Educational Philosophy and Theory, Vol. 40, no 4, 2008 pp. 515-530

678 J. Masschelein, “How to conceive of critical education theory today”, Journal of philosophy of education, 38 (3), 2004, pp. 352-367. Su teoria critica, criticismo, autonomia ed emancipazione si segnala il lavoro di Christine Thompson, “Diesseits von Authentizität und Emanzipation. Verschiebungen kritischer Erziehungwissenschaft zu einer ‘kritischen Ontologie der Gegenwart’, in N. Ricken e M. Rieger-Ladich (eds.), Michel Foucault. Pädagogische Lektüren, Wiesbaden: VS Verlag für Sozialwissenschaften, 2004, pp. 39-56

679 A. Fejes, “What's the use of Foucault in research on lifelong learning and post-compulsory education?: A review of four academic journals”, Studies in the Education of Adults, (40) 1, 2008, pp. 7-23, p. 10

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relations, but also how such practices can be related to a more general way of

reasoning about how govern should be conducted»680.

Il campo di ricerca degli studi governamentali in educazione assume una veste

unitaria e riconoscibile a partire dal 2009, con la pubblicazione della raccolta

Governmentality Studies in Education, edita da un gruppo internazionale di studiosi

coordinato da Michel Peters681. Unendo in un unico volume contributi significativi

provenienti da tutto il mondo, la raccolta «illustrates the ways in which Foucault’s

work, including the later work focussed on governmentality, offers hints, fragments

and building blocks for genealogy of pedagogical practice and knowledge»682. Dopo

una sezione generale dedicata alla teorizzazione della nozione foucaultiana di

governamentalità in relazione al liberalismo e al neoliberalismo (nelle sue diverse

forme geopolitiche), la miscellanea prosegue presentando gli sviluppi degli studi

foucaultiani sulla governamentalità in relazione al campo dell’educazione, pubblicando

analisi sviluppate da ricercatori di tutto il mondo683, pur raggruppandoli entro due

maggiori prospettive: quella anglo-americana684 e quella europea685. Le analisi dei saggi

raccolti si concentrano sui processi di governamentalizzazione avviati nell’ambito

educativo, in modo particolare in relazione alle politiche educative e alle iniziative di

680 Ivi., p. 12

681 M. A. Peters, A. C. Besley, M. Olssen, S. Maurer e S. Weber, Govermentality Studies in Education, Rotterdam/Boston/Taipei, Sense Publishers, 2009

682 Ivi., p. xxi

683 «This collection [...] is a landmark text in Foucault studies in education drawing on work currently being developed by scholars working in Germany, Belgium, Canada, Australia, China, Finland and New Zealand as well as the U.S. and United Kingdom. The collection fosters both internationalization and comparative policy analysis in education as well as general reflections on Foucault and the concept of governmentality», Ivi., p. xlii

684 La prospettiva anglo-americnaa unisce i saggi di Thomas Osborne, James D. Marshall, Robert Doherty, Tina (A.C.) Besley, Stephen J. Ball, Thomas S. Popkewitz, Jeff Stickney, David Lee Carlson, Adam Davidson-Harden, Lew Zipin and Marie Brennan, Bernadette Baker, Linda J. Graham, James Wong, and Majia Nadesan. Questi articoli comprendono un saggio dal titolo ‘Foucault as Educator’ di Osborne, l’analisi del passaggio dalla società disciplinare a quella di sicurezza, un’indagine sul capitale sociale, sulla governamentalizzazione dei giovani, sul life-long leaning, sulla collaborazione tra università e scuola, sullo sviluppo delle scienze psichiche, sul “brain-based-learning”, sulla possibilità di resistenza dei docenti, il soggetto imprenditoriale, il neoliberalismo e il capitalismo cognitivo, la strategia delle scuole secondarie e l’educazione speciale e l’autismo.

685 La prospettiva europea raggruppa i saggi di Susanne Maria Weber, Susanne Maurer, Fabian Kessl, Daniel Wrana, Ute Karl, Thomas Höhne e Bruno Schreck, Andrea Liesner, Hermann J. Forneck, Andreas Fejes , Maarten Simons e Jan Masschelein. Questi scritti esaminano il rapporto tra governamentalità e pedagogia critica in Germania, la governamentalità nel lavoro sociale, l’educazione continua, le persone anziane e il lavoro sociale, la conoscenza modulare, le pratiche di governo dei professori, l’educazione agli adulti, il cambiamento organizzativo, la costruzione del cittadino europeo e lo studio governamentale come studio di sé.

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ristrutturazione nazionali e internazionali, alle spalle delle quali sono rinvenibili

strategie politiche associabili alla prospettiva neoliberale, al progetto della “Third Way”

e, al tempo stesso, a posizioni neo-conservative. Elemento comune a questi tre

atteggiamenti politici è il legame costitutivo con meccanismi di “governo attraverso il

mercato”686, finalizzati alla produzione di cittadini “responsabili” che sappiano sfruttare

le proprie capacità imprenditoriali e di auto-governo.

La diffusione di un approccio governamentale in ambito educativo è, dunque,

da intendersi all’interno di questa panoramica. Le differenze nazionali nella ricezione

educativa degli studi governamentali - precoce nei paesi di area anglofona e più tarda

in quelli dell’Europa Continentale – possono comprendersi considerando le diverse

tradizioni di ricerca687, la peculiarità del contesto politico locale688 e la già citata

situazione editoriale689. In entrambi i casi, seppur in momenti e con intensità differenti,

la prospettiva foucaultiana è stata utilizzata per analizzare il rapporto tra le pratiche

educative e quelle governamentali, guardando al neoliberalismo quale modalità

razionale di concepire ed esercitare il governo690. Quali relazioni si instaurano tra le

686 Ivi., p.xlii

687 Per una ricostruzione storica del rapporto tra filosofia dell’educazione e politiche educative nel Regno Unito, con attenzione alla trasformazione segnata dall’introduzione del National Curriculum nel 1988, si segnala J. White, “The role of policy in philosophy of education: an argument and an illustration”, in R. Smith (eds.), Education Policy: Philosophical Critique, Hoboken, Wiley-Blackwell, 2013, pp. 5-17

688 Come ricorda M. Olssen, similmente al contesto britannico, fin dalla fine degli anni Ottanta in Nuova Zelanda si assiste a «massive changes in political policies regarding education». Cercando nuovi strumenti di analisi, studiosi come J. D. Marshall hanno sviluppato «Foucauldian analysis of the reforms in terms of notions such as choice, quality, freedom, and autonomyy». M. Olssen, “Foucault’s Influence in Educational Research”, in Michel Foucault. Materialism and Education, Op. cit., pp. 159-170, qui p. 166

689 «The reception of Foucault apparently changes according to national and cultural contexts, to readership, generation and gender. The categorizations and headings that are found in the respective disciplinary and interdisciplinary discursive spaces also differ, mirroring in each case the cultural and scientific contexts. Fo this reason, Peters says (2004), the reception has to be chronicled differently for different countries, places and disciplines. Tying reception to a cultural context would also include the chance to avoid ideological calcification», S. M. Weber e S. Maurer, “The art of being governed less”, in M. A. Peters, A. C. Besley, M. Olssen, S. Maurer e . Weber, Govermentality Studies in Education, Rotterdam/Boston/Taipei, Sense Publishers, 2009, pp. 397-414, p. 403

690 M. A. Peters, “Foucault and governmentality: understanding the neoliberal paradigm of education policy”, The School Field, 12, 5-6, 2001, pp. 61-72; M. A. Peters, “Education, enterprise culture and the entrepreneurial self: a Foucauldian perspective”, Journal of Educational Enquiry, 2 (2), 2001, pp. 58-71; L. Tikly, “Governmentality and the study of education policy in South Africa”, Journal of Education Policy, 39 (2), 2003, pp. 161-174; L. Pongratz, “Voluntary Self-Control: Education reform as a governmental strategy”, Educational Philosophy and Theory, 38 (4), 2006, pp. 471-482; M. Simons, “Learning as Investment: Notes on governmentality and biopolitics”, Educational Philosophy and Theory, 38 (4), 2006, pp. 523-540; K. Flint e N. Peim, Rethinking the education improvement agenda: a critical philosophical approach, London, Continuum, 2012

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strategie governamentali, il discorso pedagogico e le scienze dell’educazione odierni?

Nell’era della “società della conoscenza”, assistiamo al proliferare di istituzioni, saperi,

tecnologie, programmi e narrazioni finalizzati a stimolare i processi di apprendimento

degli individui, orientando “tutti e ciascuno” all’acquisizione di competenze specifiche:

suscitando un desiderio e un senso di responsabilità personale verso il continuo

rinnovo delle proprie skills si realizza il tentativo di ottimizzare il vantaggio competitivo

della popolazione europea691. Così, l’apprendimento (learning) deve proseguire per

tutta la durata della vita (lifelong), estendendosi in ogni suo ambito (lifewide): la

società che ne deriva, scrive il sociologo Basil Bernstein, è una “totally pedagogised

society”692, la quale sembra coincidere con la “società del controllo” descritta da

Deleuze. Nella società del controllo:

l’impresa ha sostituito la fabbrica, la formazione permanente tende a sostituire la scuola, e il controllo continuo a sostituire l’esame. È il mezzo più sicuro per consegnare la scuola all’impresa. Nelle società disciplinari non si faceva che ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nella società del controllo non si finisce mai con nulla, in quanto l’impresa, la formazione, il servizio sono degli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione.693

Il linguaggio del controllo è un linguaggio numerico, «fatto di cifre che contrassegnano

l’accesso all’informazione o il diniego. Non si ha più a che fare con la coppia massa-

individuo. Gli individui sono diventati dei “dividuali” e le masse dei campioni, dati,

mercati o “banche”»694.

Cosa significa analizzare questo fenomeno assumendo lo stile di indagine degli studi

governamentali? In primo luogo, significa avanzare un certo tipo di domande:

691 J. Masschelein, M. Simons, U. Bröckling e L. Pongraz (eds.), “The Learning Society from the Perspective of Governmentality”, Educational Philosophy and Theory, Special Issue, Oxford, Blackwell, 2007

692 B. Bernstein, “From pedagogies to knowledges”, in A. Morais, I. Neves, B. Davies e H. Daniels (eds.), Towards a Sociology of Pedagogy, New York, Peter Lang, 2001

693 G. Deleuze, “Poscritto sulle società di controllo”, in Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, pp.234-241, qui pp. 236-237. Il poscritto è originariamente apparso in “L’autre journal”, n. 1, maggio, 1990

694 Ibid. Nella pagina successiva, Deleuze prosegue: «forse è il denaro che esprime al meglio la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre rapportata a monete stampate che racchiudevano l’oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a scambi fluttuanti, a modulazioni che come cifra fanno intervenire una percentuale delle vecchie monete. *...+ L’uomo delle discipline era un produttore discontinuo di energia, mentre l’uomo del controllo è piuttosto ondulatorio, messo in orbita , su un fascio continuo. Non c’è luogo dove il surf non abbia sostituito i vecchi sport».

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In what ways are different discourses on lifelong learning, flexibility, education, working life, etc. part of constructing and a construction of different rationalities of governing? What desirable subject should be constructed? What techniques are parts of educational practices shaping us into specific desirable subjects? In what ways do these techniques make us relate ourselves to our-selves and to others? In what ways are we being governed today?695

Come si è affermato questo particolare modo di intendere l’educazione? Quali regimi

di verità sono stati privilegiati? Come si rapportano le tecnologie educative e quelle

governamentali? Come è riconfigurata l’identità delle istituzioni e delle figure

educative? Porre questi interrogativi significa recuperare l’“ethos dell’illuminismo”,

iniziando, come scrive Sandro Chignola,

a “scavare sotto i nostri piedi” per ricavare da quel lavoro di scavo una diagnosi capace di cristallizzare, per un momento, le linee di forza che attraversano il presente e che lo tengono in tensione tra passato e futuro restituendolo integralmente alla sua natura di evento.696

È questa attitudine critica, sostengono Simons e Masschelein697, a motivare gran parte

dagli studi governamentali, distinguendoli dalle ricerche ispirate alla teoria critica e

normativa classica: «the critical attitude underlying these studies is a “practical” and

even “existential” attitude and not a more common theoretical or normative one»698.

Al cuore degli studi governamentali risiede un ethos critico che, seguendo

l’interpretazione di Judith Butler699, è da intendersi come una “specie di virtù”700.

Nell’ambito degli studi sull’educazione, l’attenzione ai processi di

governamentalizzazione

helps to describe what was and is happening to us. It help[s] us to focus on how our educational present [...] is related to particular governmental rationalities; governmental technologies and form of self-government. [...] The perpective of governmentality thus allowe[s] to look at educational ideas and programmes as

695 A. Fejes, “What's the use of Foucault...”, Op. cit., p. 11

696 S. Chignola, “L’impossibile del sovrano. Governamentalità e liberalismo in Michel Foucault”, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Verona, Ombre Corte, 2006, p.38

697 Il lavoro di Simons e Masschelein è debitore degli studi di M. Olssen, tra i quali si segnala in particolare “Foucault and Critical Theory”, in Michel Foucault. Materialism and Education, Op. cit., pp.113-137

698 M. Simons e J. Masschelein, “The art of not being governed like that and at that cost”, in M. A. Peters, A. C. Besley, M. Olssen, S. Maurer e S. Weber, Govermentality Studies in Education, Op. cit., pp. 527-548, p. 528

699 J. Butler, “What is critique? An essay on Foucault’s virtue”, in S. Salih (ed.), The Judith Butler reader, Malden, Oxford e Victoria, Blackwell Publishing, 2004, pp. 302-322

700 M. Simons, J. Masschelein, K. Quaghebeur, “The ethos of critical research and the idea of a coming research community”, Op. cit.

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being part of the history of the ways in which we, as human beings, conduct and govern oneself and others. It is possible to describe the intrinsic relation between the intellectual and practical educational technologies on the one hand and the way in which political power is wielded in our societies as well as the way in which we govern ourselves on the other side.701

Così facendo, l’approccio governamentale consente di indicare come le pratiche

educative, le teorie (e le scienze) dell’educazione e le politiche educative

contribuiscano a dare forma al modo con cui attualmente governiamo noi stessi e gli

altri:

how for instance we are asked to understand ourselves as (lifelong) learners (and for instance no longer social citizens), to look at schools as productive sites to be judges in terms of added value (instead of institution for instance), to look at learning as an ongoing capitalization of life, to regard students as customers in need to quality education, etc.702

Condurre un’analisi di questo tipo richiede di mettere in discussione il modo in cui

comunemente interpretiamo e pratichiamo le azioni educative - «what is taken for

granted» - aprendo uno spazio di riflessione su ciò che siamo e su ciò che potremmo

non essere più. In questo senso, dichiarano Simons e Masschelein, l’attitudine critica

degli studi governamentali è un’attitudine di de-governamentalizzazione703 che,

parafrasando Foucault, porta a formulare le seguenti domande: «how not to be

governed as a lifelong learner? And, what is the cost of being governed in the name of

permanent quality control?»704. Scopo di questi interrogativi non è il rivelare una

verità, il dimostrare ciò che è giusto o sbagliato, ma il mettere in questione i regimi di

verità che condizionano il nostro presente, le verità che solitamente diamo per

scontate. Questo compito critico richiede un lavoro sui nostri limiti, offrendo

un’esperienza di de-soggettivazione: «an experience that exposes someone to one’s

foundations (and to who one is, and to how one relates to things) and consequently

opens up a space to relate in a different way to oneself (and to things)»705.

701 M. Simons e J. Masschelein, “The art of not being governed like that and at that cost”, Op. cit., p.530

702 Ibid.

703 Ivi., pp. 527-528.

704 Ivi., p. 530

705 Ivi., p. 533

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Lo studio governamentale della realtà educativa assume così quello stile investigativo

che Foucault ha definito ontologia critica di noi stessi. Questa, come scrive Foucault,

non va considerata

come una teoria o una dottrina, e nemmeno come un corpo permanente di sapere che si accumula; bisogna concepirla come un atteggiamento, un ethos, una vita filosofica in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile.706

Obiettivo di un’indagine governamentale delle pratiche educative non è elaborare una

proposta di riforma o indicare il modo corretto di pensare l’educazione, ma di

esercitare la critica come “sfida a ciò che è”. Tracciando i limiti delle razionalità e

tecnologie di potere che ci hanno fatto diventare ciò che siamo, assegnando precisi

confini al nostro esercizio di libertà, gli studi governamentali agiscono un’interferenza

tra il presente e il passato, offrendo uno spazio di resistenza, sperimentazione,

immaginazione, discussione attorno ai modi altri di pensare e di agire, in primis, le

stesse pratiche educative.

Understanding resistance in this way – that is resisting who one is and what one takes for granted as well as the governmental relation relying on tha of self-understanding – means it is a kind of limit-experience that works as a process of de-subjectivation. In other words, the ethics of de-governamentalization is at the same time an ‘ethics of de-subjectivation’.707

Concludendo, a guidare uno studio governamentale sull’educazione non è la ricerca

delle condizioni per una produzione di conoscenza sull’educazione, né un’attitudine

critica fondata su dei criteri di validità. A motivare l’assunzione di questo approccio

investigativo, affermano Simons e Masschelein, è una certa premura nei confronti del

presente, un interesse suscitato dalla curiosità, la cui etimologia rimanda alla cura. La

curiosità, come spiega Foucault, non è da intendersi come tentativo di assimilare

l’oggetto conosciuto, ma come disponibilità a distaccarsi da sé, a rivedere i propri

presupposti, a formulare un nuovo genere di domande:

La curiosità (…) evoca la “cura”, l’attenzione che si presta a quello che esiste o potrebbe esistere; un senso acuto del reale, che però non si immobilizza mai di fronte a esso; una prontezza a giudicare strano e singolare quello che ci circonda; un certo accanimento a disfarsi di ciò che è familiare e a guardare le stesse cose diversamente; un ardore di cogliere quello che accade e quello che passa; una

706 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? (1984), in M. Foucault, Archivio Foucault 3, p. 231

707 M. Simons e J. Masschelein, “The art of not being governed like that and at that cost”, Op. cit., p. 538

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disinvoltura nei confronti delle gerarchie tradizionali tra ciò che è importante e ciò che è essenziale.708

È in questo senso che, secondo gli studiosi belgi, l’approccio governamentale incarna

un’attitudine di cura e curiosità, combinando una presa di distanza (da se stesso) e

un’attenzione vigile (verso il presente):

an attitude of care or curiosity encloses a concentrated, accentuated gaze on what is happening today in education, what is happening to us in the world and a willingness to become a stranger in the familiar present, to regard who we are and what we do, and what we regards as our foundation, as no longer evident.709

L’attitudine etica della de-governamentalizzazione si rispecchia così in una

“governamentalità della distanza etica”710:

This is about a way of behaving oneself where the ethical distance limits the ambition and absorption of the self in tasks and modes of conduct that are imposed, thus an attitude of ethical distance that disconnects self-government from government. The distance resides in a conversion to the self and one’s ability to take care of the self. What is at stake is not to free oneself from the power that is being exercised, but from the subjectivity and individuality it imposes.

Assumendo come modello gli scritti foucaultiani, la produzione di libri-esperienza, gli

studi governamentali possono offrire una conoscenza che, lontana dal comprendere la

natura originaria del mondo, aiuta a fendere il reale: «knowledge that cuts ‘introduces

a discontinuity’ or works as process of de-subjectivation [...]. In other words, it opens

up spaces to take care of the self, to live the present otherwise». In altre parole,

dichiarano Simons e Masschelein, la prospettiva governamentale include una forma

particolare di ‘self-study’ («for the one doing the study, and probably also for the

people invited to read the study»), riconoscendo agli studi governamentali una

particolare dimensione educativa.

Instead of education being the accumulation of knowledge (and strenghtening the subject), education here is about the transformation of the subject (and destroying one’s knowledge basis). Importantly, this education is at stake for both the researcher (conducting an ontology of the present) and the readers (reading an experience book).

708 M. Foucault, Il filosofo mascherato (1980), in Archivio Foucault 3, Op. cit., p. 141

709 M. Simons e J. Masschelein, “The art of not being governed like that and at that cost”, Op. cit., p. 540

710 F. Gros, “Nota del curatore”, in M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 455-492, qui p. 489

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L’esperienza educativa che uno studio governamentale rende possibile, analizzando ciò

che assumiamo come nostro a-priori, è da intendersi, seguendo Foucault, al modo di

Nietzsche, Bataille e Blanchot: è l’idea di un’esperienza limite che strappa il soggetto a

se stesso, «facendo in modo che non sia più tale, o che sia completamente altro da

sé»711. Facendo in modo che, dopo l’esperienza di studio, non possa più relazionarsi a

ciò che considerava normale, necessario, naturale, come faceva prima712.

Nell’offrire un esempio di ciò, Simons e Masschelein descrivono la modalità con cui

l’approccio governamentale consente di relazionarsi al regime di verità fondato

sull’imperativo della qualità:

emerging from an experimental and limit-attitude, a question such as ‘who are we, who am I, for whom educational quality is indispensable to talk meaningful about education?’ has a different and more radical meaning; it may lead to try to escape from the term quality and related practices itself. It is a question that includes the subjectivity of the researcher in the critical inquiry, and works as an experience that makes it no longer possible to relate in the same way to issues of quality in education. It is an attempt to displace oneself in the present and to disengage oneself from oneself, or more precisely, the question itself displaces (and transform) one’s mode of being.713

È con questo atteggiamento che molti studiosi hanno cercato di analizzare i processi di

riforma che negli ultimi trent’anni hanno coinvolto, in misura e forme localmente

differenti, le istituzioni di istruzione e ricerca dei propri paesi. In questo contesto, tra le

pratiche che maggiormente hanno attratto l’attenzione dei ricercatori vi sono quelle

coinvolte nella produzione, diffusione e implementazione delle politiche educative.

L’approccio governamentale si è affermato, così, come stile di investigazione critica

delle politiche nazionali e internazionali, offrendo una griglia di intelligibilità attraverso

la quale comprendere le trasformazioni che le politiche governative introducono nella

realtà educativa contemporanea, intrecciando una micro-analisi degli effetti di potere

con un’indagine sui rapporti tra la governamentalità politica e le pratiche educative.

711 M. Foucault, “Come nasce un ‘libro-esperienza’”, in D. Trombadori (ed.), Colloqui con Foucault, Op. cit., p. 32

712 Su questo punto anche M. Olssen, “Foucault and the imperative of Education: critique and self-creation in a non-fundational world”, Studies in Philosophy and Education, 25, 2006, pp. 245-271

713 M. Simons e J. Masschelein, “The art of not being governed like that and at that cost”, Op. cit., p. 541

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2.3.2 Una lettura critica delle politiche educative

Prima di presentare i caratteri specifici dell’approccio governamentale nell’ambito

dello studio delle politiche educative, crediamo importante introdurre brevemente il

quadro più ampio all’interno del quale si colloca la sua diffusione, tenendo conto del

rapporto specifico che l’attività di ricerca intrattiene oggi con l’attività del “policy

making”. Nel contesto storico attuale, la ricerca è chiamata a fornire l’evidenza

empirica capace di informare il processo governativo, offrendo soluzioni innovative al

fine di raggiungere, con efficacia ed efficienza, i diversi obiettivi politici (qualità,

inclusione, successo formativo, competenze digitali...). È questa, in estrema sintesi, la

logica a sostegno dell’“evidence-based policy”714, che rende ragionevole la promozione

di progetti di ricerca capaci di assicurare risultati “impattanti” sul successo dell’agenda

politica. In modo particolare, nell’ambito degli studi dedicati all’educazione, una

tendenza molto diffusa è quella di ri-orientare gli studi sulle politiche verso linee di

ricerca per le politiche, sviluppando indagini con approccio problem-solving da

utilizzare nella costruzione di politiche di ampio spettro715: nella “società totalmente

pedagogicizzata”, usando l’espressione di Berstein, le politiche economiche, sociali e

educative, tendono a convergere. Come precisano Simons, Olssen e Peters,

one reason for the increased governemental influence on education research and on the actual instrumental value of outcomes of education research in clearly the strategic role of education and lifelong learning in the knowledge society and particularly in the knowledge economy.716

Tuttavia, la relazione tra ricerca accademica e i processi di deliberazione politico-

amministrativa potrebbe (e forse dovrebbe) rispondere, anche, ad una logica

differente. Introducendo una raccolta di riflessioni sul rapporto tra “educational

research” e “policy makers”, rivolgendosi ai decisori politici, Davide Bridges, Paul

Smeyers e Richard Smith osservano quanto segue:

714 K. Young, D. Ashby, A. Boaz, L. Grayson, “Social science and the evidence-based policy movement”, Social Policy and Society, 1(3), 2002, pp.215-224

715 J. Ozga, Policy research in educational settings: contested terrain, Buckingham, Open University Press, 2000

716 M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies: A Handbook Studying the Policy Agenda of the 21st Century, Educational futures: Rethinking theory and practice, 32, Rotterdam, Boston, Taipei, Sense Publishers, 2009, p.51

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not all research is oriented towards solutions to educational questions or problems (albeit this may be a source of irritation to impatient and solution-focussed policy makers). Research may show that you have problems you had not even thought about; it may critique your policy rather than tell you how to succeed with it. It may help you to see what you are dealing with in its historical or social context.717

In modo particolare, nota Bridges, i ricercatori hanno l’urgenza di esporre, criticare,

interpretare, reinterpretare, costruire e decostruire quelle che sono le premesse –

spesso implicite - delle diverse pratiche politiche718. Tradizionalmente, l’indagine critica

si è sviluppata sul piano della coerenza concettuale, della rapporto tra intenzioni ed

effetti politici, sul piano ideologico o normativo delle politiche educative. Guardare alla

tendenza attuale da questa prospettiva significa, prima di tutto, riconoscere che

what is currently referred to as evidence based policy clearly includes a particular kind of public policy, a particular kind of evidence, and a particular need for research on education. 719

Nello specifico, è importante chiarire il concetto di evidenza, il cui significato,

paradossalmente, auto evidente non è.

What counts as evidence today is mainly related to the achievement of targets and examples of best performance, and on the identification of procedures, options and measures that have proven to be efficient or effective in view of these targets and performance indicators.720

In altre parole, il sapere oggi privilegiato è quello capace di contribuire

all’ottimizzazione delle performance stabilite: le ricerche favorite sono dirette ad

investigare ciò che funziona, “what works” utilizzando l’ormai celebre formulazione

inglese. Alla luce di questo, sottolinea Keith Morrison, chi volesse assumere una

prospettiva critica dovrebbe ricordare che «what works is a matter of discussion and

debate, not simply data; what works is a value statement not simply an empirical

statement»721.

717 D. Bridges, P. Smeyers, R. Smith, “Educational Research and the Practical Judgment of Policy Makers”, in D. Bridges, P. Smeyers, R. Smith (eds.), Evidence-Base Education Policies: What Evidence? What Basis? Whose policy?, Wiley-Blackwell, 2009, pp. 1-10, qui p. 5

718 D. Bridges e M. Watt, “Educational Research and Policy: Epistemological consideration”, in Ivi., p. 50

719 M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., P.50

720 Ibid.

721 K. Morrison, “Randomised Controlled Trials for Evidence-Based Education: Some Problems in Judging ‘What Works’”, Evaluation and Research in Education, 15.2, 2001, pp.69-83, qui p. 77. Su temi simili anche G. Biesta, “What ‘what works’ won’t work: evidence-based practice and the democratic defit in educational research”, Educational Theory, 57 (1), 2007, pp. 1-22

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Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, all’interno degli studi sulle politiche

educative si assiste alla diffusione di nuove idee e strategie critiche, che gli studiosi

hanno definito “the critical education policy orientation”: la necessità a cui risponde

questo fermento è quella di riorientare i metodi e gli oggetti di ricerca, confrontandosi

con la molteplicità di sfide poste dalle trasformazioni socio-politiche e dal dibattito

teorico-epistemologico722. In primo luogo, a trasformare l’orizzonte di studio delle

ricerche sulle politiche educative è il diffondersi della “globalizzazione”. Dinnanzi a

questo fenomeno, l’approccio critico si è impegnato a mostrarne il carattere politico e

contingente, rifiutando di rappresentarlo come processo necessario e naturale: al

centro dell’analisi sono le “politiche di globalizzazione”723,

the impact of globalisation (including supernational organisations, new forms of internationalisation, Europeanisation, etc.), globalisation effects, new forms of policy borrowing and the change role of the state, global framing of education policy and politics, the formation of a global policy field, the role and impact of the World Bank, OECD (and PISA).724

Elemento centrale per la costituzione di questo “global policy field” è la raccolta di dati

promossa e coadiuvata dalle grandi organizzazioni internazionali (UNESCO, World

Bank, OECD, ecc.): l’insieme di informazioni statistiche sugli output e sulle best

practices dei diversi Paesi permette la costruzione di un nuovo campo di visibilità,

trasformando le pratiche educative in un dominio di governo, nazionale e globale.

Attraverso la diffusione di procedure comuni di misurazione e di valutazione delle

performance, le politiche della globalizzazione hanno contribuito all’emergere di nuove

strategie di governo in ambito educativo, strategie che gli studiosi definiscono

“government by numbers”725 o “steering by evaluation”726. Come esplicita Stephen

722 Quanto segue è una ricostruzione sintetica dell’analisi sviluppata in M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., pp. 36-54

723 L’espressione è di Pierre Bourdieu, il quale dichiara: «I deliberately say a “policy of globalisation”, and do not speak of “globalisation” as if it were a natural process. *...+ This policy is to a large extent kept secret , as far as its production and distribution is concerned. And a whole work of research is needed at this point, to reveal it before it can be put in practice», citato in M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., p. 39

724 Ibid.

725 N. Rose, “Governing by numbers: Figuring out democracy”, Accounting, Organizations and Society,

1991, vol. 16, issue 7, pp. 673-692; N. Rose, The powers of freedom. Refraiming political thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1999

726 S. Lindblad e T. Popkewitz (eds.), Public discourse on education governance and social integration and exclusion. Analysis of policy texts in European contexts, Uppsala Reports on Education, 2000; M. Power, The audits society rituals of verification, Oxford, Oxford University Press, 1997. Su questo anche il lavoro della filosofa italiana V. Pinto, Valutare e punire, Op. cit.

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Ball, «performativity is a steering mechanism. A form of indirect steering or steering at

a distance which replaces intevention and prescription with target setting,

accountability and comparison»727. Il sistema internazionale di benchmarking, la

“datification” delle pratiche educative e le analisi comparative tra gli Stati

contribuiscono a costituire una nuova tecnologia di governo, attraverso la quale

“condurre le condotte”. In condizione di permanente confronto, gli Stati nazionali

come to see themselves, and particularly their policy objectives, policy domains and resources for policy legitimation, in a new way [...]. The global field is constituted as a market of national education systems with policy makers obsessed with competitive self-improvement.728

All’interno del contesto politico della globalizzazione, permane, però, la necessità di

comprendere il potere dello Stato e il suo ruolo nei processi di riforma dei sistemi

educativi nazionali. A partire dai primi anni Novanta diversi Paesi hanno promosso

processi di “deregulation” e “devolution” in ambito educativo, fornendo, al tempo

stesso, il quadro di riferimento e gli strumenti entro cui i diversi soggetti (istituti,

docenti, studenti) sono stati chiamati ad esercitare la propria autonomia. Questo

doppio - e opposto - livello di intervento, tipico delle strategie di governance del New

Public Management, è simultaneamente “loose and tight”729, un “controlled de-

control”730. Nel tentativo di affinare il piano di analisi, assumendo una prospettiva di

impianto foucaultiano, studiosi come Popkewitz e Ball hanno contribuito a

riconfigurare la problematica dello stato spostandola dal piano degli explanans a

quello degli explanandum, collocando l’emergere dell’attività statale «within a

particular system of reasoning»731.

Elaborating on the observed shift from the so-called “welfare state” to the “competition” (Yeatman 1993, Cerny 1997), “evalutative” (Neave 1998) or

727 S. J. Ball, “Big Polices/Small world: an introduction to international perspective in education policy”, Comparative Education, Vol. 34, n. 2, 1998, pp.119-130, p.123

728 M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., p. 40. Su questo punto gli autori citano come riferimento il lavoro di M. Henry, B. Lingard, S. Taylor e F. Rizvi, The OECD, globalisation and education policy, Oxford, Pergamon, 2001; M. Lawn e B. Lingard, “Constructing a European policy space in educational governance: The role of transnational policy actors”, European Educational Research Journal, 1(2), 2002, pp.290-307; J. H. Haahr, “Open co-ordination as advance liberal government”, Journal of European Public Policy, 11, 2004, pp. 209-230 e M. Simons, “’To be informed’: Understanding the role of feedback information for Flemish/European policy”, Journal of Education Policy, 22 (5), 2007, pp. 531-548

729 T. Peters e R. Waterman, In Search of Excellence, London, Harper Row, 1982

730 P. Du Gay, Consumption and Identity at Work, London, Sage, 1996

731 M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., p. 43

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“performative” (Ball, 2000) state, there is special attention to the way state government reformulates, justifies and develops education policies and become actor among other actors in the global field of governance. Indeed, it is noticed that far from retreating, the post-welfare state develops new ways of governing. A case in point is the state’s role in organising output control in education and in setting the framework for entrepreneurial freedom, quality assurance and

choice (Hudson 2007).732

All’interno di questo orizzonte interpretativo, molti pensatori hanno indagato il

rapporto tra governamentalità neoliberale, politiche e pratiche educative,

concentrandosi in modo particolare sulle tecnologie utilizzate per trasformare -

“innovare” o “modernizzare” - i sistemi educativi nazionali. Le ricerche critiche

sviluppate nel contesto anglo-americano sul finire del XX secolo si sono concentrate

sulla razionalità e sugli effetti di: politiche di standardizzazione e di “quality

assurance”; nuove forme di responsabilità e di rendicontazione; le politiche di

decentralizzazione e “marchetizzazione” delle istituzioni scolastiche733. Tuttavia,

all’inizio del XXI secolo, l’utilizzo da parte di politici di orientamento social-democratico

o aderenti alla “Third Way” delle strategie di governo precedentemente classificate

come neoliberali, ha spinto gli studiosi a dismettere l’utilizzo di termini classificatori

ampi, tra i quali lo stesso “neoliberismo”, concentrandosi sugli effetti che tecnologie

specifiche e pratiche locali hanno sulle soggettività coinvolte nella realtà educativa.

Questo atteggiamento si inserisce all’interno di una tendenza generale di cautela - se

non di sospetto - nell’utilizzo dei cosidetti “master signifiers”: «notions such as

globalisation, the state, neoliberalism or social justice [are no longer taken] for

granted»734. Se per alcuni è necessario articolare e rendere esplicito il significato di

questi termini per ripotenziarne il valore analitico, per altri queste nozioni sono esse

stesse parte di un discorso politico globale, i cui effetti di potere chiedono di essere

indagati:

Nóvoa (2002) speaks for instance about “planet speak”, a sort of “worldwide bible” and the circulation of “magical concepts” that are the roots of all evil or the solutions for all problems. In line with this, Lindblad and Popkewitz (2004) refer to neoliberalism, as well as educational restructuring, as planet-speak and “elevator words” (Ian Hacking) relating different practices in order to create objects, identify problems and to create ways to talk about them and to offer solutions. According to these writers, the challenge is to analyse the discourses

732 Ibid.

733 Ivi., p.45

734 Ivi., p.46

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on globalisation, neoliberalism and the changed state, where and how they emerged and how they work (rather than analysing the dominant discourse of

neoliberalism). 735

La discussione degli strumenti stessi utilizzati dalla ricerca critica tradizionale si

comprende considerando l’emergere, negli stessi anni, di nuove teorie e metodologie

di ricerca. Sul finire del XX secolo, al centro del dibattito epistemologico è il confronto-

scontro tra gli approcci positivisti e post-positivisti, moderni e postmoderni, costruttivi

e decostruttivi, relativisti e universalisti, fondazonalisti e antifondazionalisti. All’interno

di questo dibattito, la diffusione di una prospettiva post-strutturalista e di una nuova

“social epistemology” di ispirazione foucaultiana ha contribuito a ridiscutere il modo

comune di intendere i rapporti tra sapere, potere, soggetto, linguaggio, verità e attività

critico-intellettuale. Concretamente, questo ha significato un riorientamento nelle

stesse modalità di indagine:

instead of looking at texts, intensions and interpretations, scholars shifted

attention to the study of policy as discourse, the politics of policy discourses,

or discourses as politics. And instead of actor or subject oriented approaches,

scholars adopted approaches focusing on the discursive constitution of types

of (gendered) subjects and subjectivities, and local struggles of resistance

around this constitution (Butler, 1990).736

Premessa di fondo che accomuna i diversi approcci critici sviluppati in questo periodo è

l’assunzione che le stesse politiche, gli attori coinvolti, i fatti riportati, i problemi

presentati, le idee utilizzate – realtà che comunemente diamo per scontate – siano il

frutto di una costellazione storica di pratiche sociali, politiche e culturali che chiede di

essere illuminata.

This assumptions can be re-formulated as follows: critical thought assumes that facts and problems are socially constructed, that this construction involves power, and that awareness of this construction (based on critical studies) opens up a space for re-construction.737

Riconosciuto il ruolo che le politiche educative rivestono nel processo di definizione e

formulazione dei problemi da risolvere (problem framing), gli studiosi hanno elaborato

una pluralità di strategie attraverso le quali ri-leggere le politiche. Questi approcci, pur

735 Ivi., pp. 46-47

736 Ivi., p. 48

737 Ivi., p. 53

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utilizzando premesse e strumenti analitici differenti, sono accomunati dallo stesso

obiettivo di di de-familiarizzazione:

the goal is a de-familiarization with the current way policies pose problems, offer and implement solutions and justify agendas, or with the way that power is exercised in society and how problems are framed. 738

Mappando la molteplicità di approcci critici sviluppati negli ultimi decenni739,

Simons, Olssen e Peters740 riconoscono quattro differenti orizzonti teorici di

riferimento: il modello interpretativo fondato sulla categoria del conflitto (conflict

theorising), che assume l’ineguale distribuzione delle risorse come punto di partenza

per analizzare le pratiche educative (modello di ispirazione marxista o weberiana);

quello interazionista (interactionist theorising) attento ai rapporti personali, alle

interazioni faccia a faccia che si sviluppano nei contesti locali (distinguibili in simbolico,

drammaturgico, strutturalista e fenomenologico); la teoria critica, nella quale

confluiscono tanto gli studi francofortesi che la teoria dell’azione comunicativa

razionale di Habermas; la corrente post-strutturalista, che riorienta le modalità di

analisi del linguaggio e del suo rapporto con il potere, intrecciando ordine sociale e

ordine discorsivo (assumendo come riferimento gli studi di Foucault, Derrida o

Lyotard) 741. All’interno di questi orizzonti, il potenziale critico dei diversi approcci si

esercita in una pluralità di direzioni: nel rivelare una razionalità sottostante,

identificare interessi latenti, mettere a fuoco conseguenze inintenzionali, indicare le

contraddizioni, mappare il campo di contingenza del presente742. Ad accomunarli è,

dunque, un certo coinvolgimento nei confronti del proprio tempo: il tentativo di

738 Ivi., p. 81

739 Brevemente, i diversi approcci descritti da Simons, Olssen e Peters, sono: “cultural political theory”, approccio rivolto al rapporto tra educazione e riproduzione delle disuguaglianze sociali; “Critical Discourse Analysis – CDA”, promosso da Fairclough per analizzare il rapporto tra testo, ordine del discorso e pratica sociale (es. esclusione); “policy field analysis”, ispirato al lavoro di Bourdieu; gli “studi governamentali”, di cui si dirà più approfonditamente; ”micropolical approach”, spesso intrecciato ad approcci biografici e di etnografia critica; “feminist and post-colonial theory”; “philosophical analysis of education”, in cui è particolarmente influente la prospettiva ermeneutica di Gadamer e quella decostruttiva di Derrida. Questi approcci, pur presentati in modo indipendente, si trovano spesso in forme combinate. Nel dettaglio si rimanda a M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., pp. 60-70.

740 Ivi., pp. 54-60

741 Per una descrizione sintetica si rimanda a H. Gottweis, “Theoretical strategies of poststructuralist policy analysis: towards an analytics of government”, in M.A. Hejer, H. Wagenaar (eds.), Deliberative Policy Analysis. Understanding Governance in the Network Society, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp.247-265

742 Ivi., p. 81

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comprendere la specificità della propria attualità e, in particolar modo, di quella

educativa. Questa postura rispetto alla contemporaneità chiede una rilettura attenta

dei processi che costituisono il presente, un’operazione di de-familiarizzazione capace

di aprire uno spazio (pubblico)743 di travalicamento, offrendo la possibilità di

inaugurare nuove economie di pensiero e di azione.

In sum – scrivono Simons, Olssen e Peters – critique here is first of all about an attitude or ethos, that is, a way of being involved with one’s present and with what is at stake in one’ society. *...+ The present is the moment where one finds oneself as a scholar confronted with the question whether this present should be the moment of inaugurating change. [...] When situating critique at the level of the scholar’s ethos, perhaps different styles of being critical could be distinguished. The notion of style then refers to the specific form of one’s attitude, that is, the form of one’s relation to one’s present.744

Lo stile che ora andiamo a presentare, per poi provare ad esercitarlo nel capitolo

successivo, è quello degli studi governamentali, di cui molto è già stato detto. In

questo ultimo paragrafo proviamo a mettere a fuoco le modalità caratteristiche di

un’analisi governamentale delle politiche scolastiche.

In termini generali, la governamentalità si affianca agli altri concetti e

strumenti di derivazione foucaultiana che hanno trovato impiego nell’analisi delle

politiche educative sin dai primi anni Novanta. Ci riferiamo in modo principale al

concetto di “discorso” introdotto da Stephan Ball, che ha contribuito a riconfigurare

la comprensione dell’oggettto “policy” in termini di pratica sociale e discorsiva,

diffondendo l’utilizzo di metodi di indagine archeologici e genealogici745. Nel 1993,

Ball pubblica un articolo intitolato What is policy? Texts, trajectories and toolboxes,

suggerendo la necessità di estendere il bagaglio teoretico degli studi politici: «what

we need in policy analysis is a toolbox of diverse concepts and theories»746. Proposta

originale dello studioso britannico è quella di intendere le politiche non solo come

testi, interpretandoli e analizzandoli sul piano dei significati e delle rappresentazioni,

delle intenzioni e del modo in cui interagiscono con le relazioni di potere, ma anche -

743 Nello svilluppo di questa prospettiva Masschelein e Simons muovono da una rielaborazione del pensiero di Bruno Latour, in modo particolare dal suo scritto Why critique has run out of steam? From matters of fact to matters of concern rinvenibile sul sito del pensatore francese: http://www.bruno-latour.fr/sites/default/files/89-CRITICAL-INQUIRY-GB.pdf, ultima consultazione 14/11/2017

744 Ivi., p. 82

745 M. Olssen, J. Codd, A.M. O’Neill, Education Policy. Globalization, Citizenship & Democracy, London, Sage, 2004, pp. 39-58

746 S. J. Ball, “What is policy? Texts, Trajectiories and Toolboxes”, Discourse: Studies in the Cultural Politics of Education,, Vol. 13, no. 2, 1993, pp.10-17

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e soprattutto - come discorso, come insieme di enunciati, di regolamenti, di politiche

che esercitano un potere attraverso la produzione di una “verità”, di un certo

“sapere”.

I discorsi, scrive Foucault, sono

pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano. Indubbiamente i discorsi sono fatti di segni; ma fanno molto di più che utilizzare questi segni per designare delle cose. È questo di più che li rende irriducibili alla langue e alla parole. È questo di più che bisogna mettere in risalto e bisogna descrivere.747

I discorsi, inoltre, non si limitano a costituire gli oggetti di cui parlano: come precisa

Ball,

discourses are about what can be said, and though, but also about who can speak, when, where and with what authority. Discourses embody the meaning and use of proposition and words. Thus certain possibilities for thought are constructed.748

In questo senso, come formazioni discorsive749 le politiche costituiscono “the big

picture” entro cui il soggetto è posizionato, “the rules of the games” che strutturano

il suo campo di possibilità:

we are the subjectivities, the voices, the knowledge, the power relations that a discourse constructs and allows. [...] In the terms we are spoken by policies, we take up the positions constructed for us within policies. This is a systems of practices [...] and a set of values and ethics.750

Così, prosegue Ball,

in Foucault’s terms we would see policy ensemble that include, for example, the market, management, appraisal and performativity as “regime of truth” through which people govern themselves and others.751

E ancora:

Policy discourses provide us with ways of thinking and talking about our institutional ourselves, to ourselves and to others; in other words, they form a “regime of truth”, that ‘offers the terms that make self-recognition possible’ *...+. Such discourse enable us to think about whether we are “good” teachers or “effective” teachers, to think about what learning is and how we recognise it, and to know what a “good” lesson looks like. These discourses are productive and in

747 M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 67

748 S. J. Ball, What is policy?, Op. cit., p. 14

749 E. B. Petersen, “Education policies as discursive formation. A Foucauldian optic”, in K. Gulson, M. Clarke, E. B. Peterson, Education Policy and Contemporary Theory, New York, Routledge, 2015, pp. 63-72

750 S. J. Ball, What is policy?, Op. cit., p. 14

751 Ibid.

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many circumstances enable us to bathe in the afterglow of “successful” practices and “what works”.752

Alla proposta di comprendere le politiche educative attraverso il concetto di

formazione discorsiva, si affianca quella di utilizzare un altro termine foucaultiano,

capace di dar ragione anche della dimensione extra-discorsiva della realtà politica:

quella di dispositivo (dispositif), tradotto anche come apparato. Questo termine è

suggerito per tener conto anche della dimensione extra-discorsiva della realtà politica,

per analizzare «a multiplicity of “material” and “technical” forms such as specific

programmes, practices and institutions»753. Che cosa intende Foucault con la parola

dispositivo? In un’intervista apparsa nel 1977 sotto il titolo di Le jeu de Michel

Foucault, il pensatore francese avanza alcune definizioni:

In primo luogo [...] un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche. In secondo luogo, quello che cerco di individuare nel dispositivo è precisamente la natura del legame che può esistere tra questi elementi eterogenei. (…) In breve, fra questi elementi, discorsivi o meno, c’è una specie di gioco, di cambi di posizione, di modificazione di funzioni che possono, anche loro, essere molto differenti. In terzo luogo per dispositivo intendo una specie, diciamo, di formazione che, in un dato momento storico, ha avuto per funzione maggiore quella di rispondere a una urgenza. Il dispositivo ha dunque una funzione strategica dominante.754

Nel 2006 Giorgio Agamben755 recupera la riflessione foucaultiana sul concetto di

dispositivo, riconoscendovi un termine tecnico decisivo nella strategia del pensiero

di Foucault, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando

comincia ad occuparsi del “governo degli uomini”. Il pensatore italiano riassume così

l’articolata definizione foucaultiana: il dispositivo è una rete, un insieme eterogeneo

(nel 1988 Deleuze lo definiva una “matassa”); ha una funzione strategica, opera come

752 S. J. Ball, “What is policy? 21 years later: reflections on the possibilities of policy research”, Discourse: Studies in the Cultural Politics of Education, 36 (3) pp. 306-313, 2015, pp. 1-8

753 P. Bailey, “The policy dispositif: historical formation and method”, in S. J. Ball (ed.), Michel Foucault and Education Policy Analysis, London, Routledge, 2015, pp.75-95, p. 82

754 Intervista rilasciata da Foucault in “Il gioco di Michel Foucault”, in Millepiani, n. 2/1994, 35 (tr. it. de Le jeu de Michel Foucault, in Ornicar, n. 10/1977, 62 ss., nonché, oggi, in M. Foucault, Dits et écrites, II, 1954-1988, Paris, 2001, pp. 298 ss.

755 G. Agamben, Che cos'è un dispositivo, Milano, Nottetempo, 2006

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“risposta” concreta e immediata; è un incrocio di relazioni di sapere e potere. Inoltre,

per favorire una sua migliore comprensione, tratteggia uno studio genealogico del

termine dispositivo, a partire dall’influenza esercitata su Foucault dal suo maestro

Jean Hyppolite e dalla sua rilettura della nozione di positività in Hegel.

Se “positività” è il nome che, secondo Hyppolite, il giovane Hegel dà all’elemento storico, con tutto il suo carico di regole, riti e istituzioni che vengono imposti agli individui da un potere esterno, ma che vengono, per cosí dire, interiorizzati nei sistemi delle credenze e dei sentimenti, allora Foucault, prendendo in prestito questo termine (che diventerà più tardi “dispositivo”) prende posizione rispetto a un problema decisivo, che è anche il suo problema più proprio: la relazione fra gli individui come esseri viventi e l’elemento storico, intendendo con questo termine l’insieme delle istituzioni, dei processi di soggettivazione e delle regole in cui si concretizzano le relazioni di potere.756

Al tempo stesso, prosegue Agamben, il concetto di dispositivo ha radici nel latino

dispositio, termine con il quale si usava indicare l’oikonomia teologica, ossia ciò in cui

e attraverso cui si realizza il «governo salvifico del mondo e della storia degli uomini».

Alla genealogia teologica ed hegeliana, Agamben sovrappone un’ulteriore

intersezione, affiancando al concetto di dispositivo il Gestell dell’ultimo Heidegger.

L’etimologia di Gestell, infatti, «è affine a quella di dis-positio, dis-ponere (il

tedesco stellen corrisponde al latino ponere)»757.

Quando Heidegger, in Die Technik und die Kehre (La tecnica e la svolta), scrive che Ge-stell, significa comunemente “apparato” (Gerät), ma che egli intende con questo termine «il raccogliersi di quel (dis)porre (Stellen), che (dis)pone dell’uomo, cioè esige da lui lo svelamento del reale sul modo dell’ordinare (Bestellen)».758

Ciò che accomuna tutti questi termini (dispositio, positività, Gestell, dispositivo) è

il rimando a una oikonomia, cioè a un insieme di prassi, di saperi, di misure, di istituzioni il cui scopo è di gestire, governare, controllare e orientare in un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini.759

Chiarita la pregnanza semantica del concetto di dispositivo, Agamben approfondisce

la riflessione foucaultiana, offrendo una nuova e più estesa comprensione del

termine in esame:

chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi.760

756 Ivi., p. 9

757 Ivi., p.19

758 Ivi., pp.19-20

759 Ivi., p. 20

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I dispositivi hanno quindi degli effetti antropogenetici: operano come

apriori/trascendentali storici, configurando un certo campo del pensiero e dell’azione

umana. Importante, per Agamben, indagare le possibilità di una loro profanazione: di

restituire ciò che è stato catturato, separato dai dispositivi ad un possibile uso

comune degli uomini761.

Guardando all’ambito pedagogico, il termine dispositivo è stato introdotto in

Italia dagli studi di Riccardo Massa762, il quale utilizza questo concetto per riferirsi «al

sistema incorporeo delle procedure in atto nell’istituzione scolastica e in qualunque

situazione educativa: è il dispositivo che “determina la forma-scuola e il suo

funzionamento”»763. Come spiega Francesco Cappa, nel pensiero di Massa, il

dispositivo pedagogico è

un insieme strutturato e solo parzialmente visibile di norme, oggetti, rituali, fantasmi, proiezioni, tecniche, metodologie, prescrizioni, soggetti; il dispositivo si sostanzia dunque sia nella rete che si stabilisce tra elementi eterogenei, sia nella natura del legame tra gli elementi, sia nella funzione strategica cui tale insieme risponde, sia infine nella reciproca interazione funzionale tra gli elementi stessi.764

Accanto al dispositivo pedagogico, capace di dare forma educativa a pratiche ed

istituzioni, studiosi come Patrick Bailey riconoscono il dispositivo delle politiche

educative, capace di tras-formare le istituzioni stesse, favorendone o meno la qualità

educativa, la capacità di generare esperienze di trascendimento. Guardando alle

politiche come a dei dispositivi è possibile riconoscerne l’eterogeneità delle

componenti e la rete che si instaura tra esse:

760 E prosegue: «non soltanto, quindi, le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline, le misure giuridiche ecc., la cui connessione col potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e – perché no – il linguaggio stesso, che è forse il piú antico dei dispositivi, in cui migliaia e migliaia di anni fa un primate – probabilmente senza rendersi conto delle conseguenze cui andava incontro – ebbe l’incoscienza di farsi catturare», Ivi., pp. 20-21. Per una ricostruzione delle diverse declinazioni con cui il concetto di dispositivo è stato ripreso dalla fine del XX secolo e per un suo possibile utilizzo nell’ambito estetico si rimanda a F. Carmagnola, Dispositivo. Da Foucault al gadget, Milano-Udine, Mimesis, 2015

761 Su questo tema si rimanda a G. Agamben, Profanazioni, Milano, Nottetempo, 2005

762 R. Massa, Educare o istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Milano, Unicopli, 1987; R. Massa, Cambiare la scuola, Op. cit.

763 F. Cappa, “Il concetto di dispositivo e il suo uso in ambito pedagogico”, Formazione e Lavoro, 1/2013, http://www.enaip.it/fileadmin/user_upload/FL_1_2013_dispersione/7_F_L_2013_1_Sk_2_dispositivo.pdf, ultima consultazione 27/01/2018, p. 24

764 Ibid.

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we can think of policy as a disposed multiplicity of materials objects, like institutions, think tanks, businesses, schools, social enterprises, government departments, etc. which engage in different kinds of practices and performances. On the one hand, there is the production of statements about both the world and various objects of policy intervention (discourses of globalisation, performance, competition, the economy; and discourses on objects of intervention like schools, disadvantaged students, teachers, school leaders, teacher training, etc.). On the other hand, there are attempts to govern the conduct of those objects relative to these discursive practices.765

I dispositivi politici possono rispondere ad una strategia di governo giuridico

(effettuando una divisione binaria tra ciò che è consentito e ciò che è vietato),

disciplinare (costituendo tecnologie di sorveglianza, di diagnosi, di trasformazione

secondo una norma) o di sicurezza (stabilendo una media ottimale e accettando una

certa quota di variabilità, minimizzando ciò che è rischioso ed inconveniente), dando

vita ad un milieu razionale e tecnologico capace di articolare la logica, il significato e la

materialità delle pratiche educative. Queste risultano essere «a construction and

product of reciprocal articulations historically constituted between discursive and non-

discursive practices in response to particular problematisations»766. Così, secondo lo

studio di Ian Hunter, l’affermarsi dei sistemi scolastici moderni è reso possibile dal

sovrapporsi di due superfici di emergenza: «the political objectives and govermental

technologies of the early administrative territorial state [...] [and secondly] the

institutions and practices of Christian pastoral guidance»767. Estendendo la linea di

indagine di Hunter fino al nostro presente, è allora possibile indicare un relazione tra il

discorso che invita gli studenti ad esercitare una scelta educativa come investimento e

la creazione di un milieu materiale e tecnologico in cui gli «enterprising individuals»768

hanno maggiori possibilità di sviluppo. In questo contesto, nota Villadsen, ad essere

privilegiati sembrano i dispositivi di sicurezza:

Instead of the enclosures of the ‘disciplinary school’, security regulation demands the adaptability to ever changing norms and seeks to create spaces of autonomy

765 P. Bailey, “The policy dispositif: historical formation and method”, Op. cit., pp. 82-83

766 Ivi., p. 80

767 I. Hunter, “Assembling the School”, in A: Barry, T. Osborne e N. Rose, Foucault and Political Reason, Op. cit., pp. 143-166, pp. 148-149. Per uno studio più approfondito si rimanda a I. Hunter, Rethinking the School. Subjectivity, Bureaucracy, Criticism, St. Leonards, Allen and Unwin, 1994

768 R. Weiskopf e I. Munro, “Managment of human capital: Discipline, security and controlled circulation in HRM”, Organization, 19, 2012, pp. 685-702, p. 698, in K. Villadsen, “Governamentality and policy analysis”, in in K. Gulson, M. Clarke, E. B. Peterson, Education Policy and Contemporary Theory, Op. cit., pp. 147-159, p. 153

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for entrepreneurial entities. The goals of ‘organizational learning’ and ‘continuous learning’ are emblematic for security.769

Appare evidente, quindi, come la prospettiva governamentale possa contribuire ad

ampliare quel bagaglio di teorie e strumenti che Ball invitata ad estendere, «ensuring

that policy analyses ask critical/theoretical questions, rather than simple proble-solving

ones»770. Tuttavia, è bene ricordare, la governamentalità non introduce un

“framework teorico” compiuto, una “metodologia di ricerca” sistematica, nè può

essere intesa come un “dominio di pratiche”: essa offre «a cluster of concepts that can

be used to enhance the think-ability and criticize-ability of past and present forms of

governance»771. Il termine governamentalità indica una “prospettiva” sul governo e

sull’essere governati:

What is assumed is that people are governed in a particular way, and that it is possible to analyse how this governement (its rationality or technology) and one’s own role in becoming governable (that is one’s conduct or self-government) emerged at a particular moment of time.772

Le ricerche di ispirazione governamentale mirano ad analizzare le politiche educative

seguendo tre direzioni di indagine773, individuando quelle che Deleuze chiama le “linee

di forza” del dispositivo governamentale774:

1) la razionalità (episteme – regime di verità), ossia «the mode of reasoning about how

and why government takes place, the implied grid of visibility for policy problems,

solutions and entities to be governed appear, and the mode of justifying authority and

presenting the telos of government»775;

2) le tecnologie di governo (techne - dispositivi), ossia gli strumenti, le procedure, le

tecniche e gli attrezzi che sono utilizzati, anche in modo combinato, per raggiungere gli

obiettivi di governo.

3) le soggettività dei governati (ethos – forma di vita), ossia la modalità specifica con

cui l’azione governamentale agisce sulla libertà dei governati, costruendo l’identità dei

769 K. Villadsen, “Governmentality and policy analysis”, Op. cit., p.154

770 S. J. Ball, What is policy?, Op. cit., p.16

771 W. Walters, Governmentality: Critical encounters, Abingdon, UK, Routledge, 2012, p.2

772 M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., p. 67

773 Ivi., p. 66

774 G. Deleuze, Che cos'è un dispositivo?, Op. cit.

775 M. Simons, M. Olssen e M.A. Peters (eds), Re-reading Education Policies..., Op. cit., p. 67

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soggetti coinvolti (studenti, docenti, scuola, università, ecc.). «The assumption is that

in order for people and organisation to become governable they have come to

understand themselves in a particular way, to experience particular issues as relevant

and to govern themselves and ‘practice their freedom’ accordingly»776.

All’interno di questa prospettiva, sottolineano Simons, Olssen e Peters, gli studi

governamentali delle politiche educative hanno contribuito ad aprire due direzioni di

ricerca originali: l’analisi del rapporto tra tecnologie politiche (utilizzate per condurre la

popolazione e orientare la società) e tecnologie del sé (adottate dai singoli individui

per auto-governarsi): «that is, through what kind of technologies of the self people

work upon the self and transform themselves (as teacher for instance) into governable

subjects»777; e lo studio dei processi governamentali su un piano sia locale che globale,

considerando il rapporto tra gli interventi di carattere regionali e quelli delle

organizzazioni transnazionali, con attenzione particolare all’Unione Europea.

A caratterizzare questo campo di studi è poi la continua discussione dei propri

strumenti analitici: è importante abbandonare quei concetti il cui potenziale critico è

stato neutralizzato dalla loro adozione all’interno del discorso comune, da un loro

utilizzo entro un regime di verità. Per questo motivo, gli studi governamentali – come

ogni studio che si possa definire critico - favoriscono l’introduzione di neologismi e

l’invenzione di nuove categorie attraverso le quali riuscire prendere le distanze, de-

familiarizzarci, da tutto ciò che riteniamo eterno, naturale, indiscutibile. «The present –

scrive Dean – is the standing reason for conceptual creativity»778:

if we are to understand our present, we need to do so not by mere replication of other’s ideas, or the application of others’ theories or methods to an empirical domain, but by way of the production of concepts. The great benefit of doing so is that it engages with the concepts and theories of our present, it requires that we borrow, fashion, and refashion such concepts, and enables us to give them to

others in turn to fashion and refashion in this relation to their own present779.

L’apparato metodologico della prospettiva governamentale è, quindi,

permanentemente in fieri, impossibile da circoscrivere, da classificare, all’interno di un

776 Ibid.

777 Ibid.

778 M. Dean, Governmentality, Op. cit., p. 11

779 Ivi., p. 12

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ambito disciplinare scientifico specifico780. L’attitudine critica che gli studi

governamentali adottano analizzando le politiche educative motiva la ricerca e

l’utilizzo di tutti gli strumenti capaci di offrire una cartografia del presente781, del

nostro modo di pensare e di agire: una mappa che ci consenta di rendere visibile il

regime di possibilità in cui siamo immersi così da poterlo contestare, da poterci

ricollocare rispetto ad esso, (es)ponendoci sui limiti, ripiegandone i bordi. Una volta

mostrate le “linee di forza” è possibile esplorare le “linee di fuga”, le possibilità di

incrinatura, di frattura, di profanazione. Si apre così lo spazio per l’emergere di una

nuova soggettività, una forma di vita inedita782.

Il percorso fin qui tracciato si è compiuto nell’intenzione di allestire una modalità di

lettura critica del presente, riconoscendo i meccanismi del potere extra-pedagogico

che influenzano, informano, organizzano le pratiche educative del nostro tempo.

Attingendo ad una tradizione di studi composita, ma fortemente influenzata dal modo

con cui Foucault ha rinnovato il pensiero della filosofia politica tradizionale,

intendiamo ora procedere nell’analisi di quello che, fin dall’inizio, abbiamo indicato

quale oggetto specifico di questa nostra ricerca: la forma dell’istituzione scolastica

contemporanea. Nel prossimo capitolo metteremo all’opera gli strumenti teorici e le

modalità analitiche fin qui presentate, recuperando le voci e le prospettive di una

pluralità di studiosi, accomunati dal tentativo di produrre effetti di distanziamento e

defamiliarizzazione. Qual è il modo con cui la scuola è oggi pensata, descritta, vissuta,

governata? Qual è il suo rapporto con la razionalità governamentale del liberalismo

avanzato? Per rispondere a questa domanda non resta che addentrarci nell’analisi di

ciò che maggiormente oggi struttura la realtà scolastica e il nostro rapporto con essa:

le politiche educative nazionali ed europee. Nelle pagine che seguono offriremo una

ricostruzione del discorso educativo dominante, assumendo un approccio genealogico-

archeologico, che miri ad evidenziare la razionalità, le tecnologie e le soggettività che

caratterizzano ciò che oggi la scuola è e ciò che noi siamo in relazione ad essa.

780 Nonostante questo, è possibile riconoscere tra gli studiosi una predilizione per i metodi di ricerca che provengono dall’ambito dell’antropologia critica, dell’etnografia e dell’analisi critica del discorso.

781 G. Deleuze, Foucault, Op. cit.

782 Sulla filosofia come creazione di concetti un rimando dovuto è a G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 2002

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MOVIMENTO III LEGGERE LE POLITICHE DELLA SCUOLA

Vogliamo una scuola di qualità. Una scuola efficace ed efficiente, e quindi autonoma,

responsabile, trasparente, aperta. Una scuola capace di offrire ambienti di

apprendimento flessibili, digitali, inclusivi, innovativi. Una scuola capace di soddisfare i

bisogni educativi degli studenti, facilitando l’acquisizione di competenze fondamentali,

di base e trasversali, come l’apprendere ad apprendere e lo spirito di imprenditorialità.

Una scuola che prepari i giovani al mondo del lavoro e della cittadinanza globale,

favorendo la realizzazione di sé e la coesione sociale. Una scuola sostenibile, una smart

community, un “centro civico” per il territorio. Una scuola che favorisca

l’apprendimento permanente, il lifelong learning. Una scuola che sia adatta ad

affrontare le sfide del XXI secolo, un secolo che si preannuncia di incessante e rapido

cambiamento. Una scuola in continuo miglioramento (capace di valutarsi, monitorarsi,

confrontarsi permanentemente).

È questo un collage di frammenti discorsivi, delle espressioni più comuni che

pedagogisti, giornalisti, think-tank, organizzazioni internazionali e ministri nazionali,

hanno utilizzato – pur con sfumature leggermente differenti – negli ultimi decenni,

contribuendo a costruire l’ordine del discorso che oggi ci è così familiare. Quello che,

con Foucault, potremmo chiamare un regime di verità, il campo delle possibilità entro

cui siamo collocati, come studenti, docenti, genitori, ricercatori, cittadini. Punto di

partenza è il desiderio di sviluppare sistemi educativi di maggiore qualità, la

convinzione che sia necessario avviare (o proseguire) un processo di riforma e di

modernizzazione (delle infrastrutture e della formazione del personale) segue di

conseguenza. Chi può non dirsi d’accordo? Alla scuola, nella sua forma attuale, sono

rivolte molte accuse: di essere vecchia, obsoleta, antiquata, noiosa, nozionistica, lenta,

chiusa e burocratizzata. In una parola inefficiente. Incapace di rispondere alle esigenze

dell’economia e della società della conoscenza, di preparare le nuove generazioni ad

assumere con responsabilità i rischi del futuro. Ostacolo per la crescita (e la

competitività) del Paese e dell’Europa. Il verdetto è chiaro: l’istituzione scolastica, nella

struttura e nelle tecnologie che l’hanno definita nel secolo scorso, è inadatta alle sfide

del presente e deve essere tras-formata (più che ri-formata). Deve mettersi al passo

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con i tempi, come, d’altronde, ribadiscono le indagini internazionali OCSE e le

raccomandazioni europee.

Nel corso di questo capitolo, assumendo la postura critica di chi guarda con

sospetto alla politica della verità del proprio tempo, invece di risolvere i sopraccitati - e

ormai “scontati”- problemi della scuola, vorremo guardare alla scuola da una

prospettiva differente. Cercheremo di problematizzare il modo con cui abitualmente

guardiamo alla scuola e ai suoi problemi, e, attraverso questo sguardo, anche a noi

stessi. Nel fare questo intendiamo osservare da vicino le politiche educative che, a

partire dagli anni Novanta, sul piano nazionale quanto europeo, hanno contribuito a

costruire un certo modo di intendere la realtà scolastica e le pratiche educative ad essa

associate. Le politiche sono qui assunte come formazioni discorsive capaci di

legittimare un insieme di credenze (sulla società, sui soggetti, sull’educazione, sui

saperi…) e normalizzare determinati modi di agire (come insegnanti-facilitatori,

studenti-clienti, ricercatori-innovatori, cittadini attivi e responsabili…), attraverso la

formulazione di significati e la disposizione di tecnologie di potere che disciplinano-

regolano il comportamento di chi è chiamato ad applicarle. In questo senso, le

politiche contribuiscono simbolicamente e materialmente ad una riorganizzazione del

dispositivo scolastico e del suo rapporto con la governamentalità politica storicamente

dominante.

All’interno del quadro documentale nazionale, l’attenzione si concentrerà sul

piano di riforma denominato “La Buona Scuola”, oggi disegno di legge 107/2015, dato

il carattere strutturale del suo intervento e l’urgenza di comprenderne l’attualità.

L’analisi della più recente riforma italiana sarà, però, preceduta da una ricostruzione

storica dell’impegno dell’Unione Europea nell’ambito dei sistemi educativi degli Stati

membri: il tentativo è quello di “evenemenzializzare” il discorso promosso nel contesto

nazionale, indagandone le condizioni di emergenza e di accettabilità, mostrando le

connessioni tra i meccanismi di potere (di coercizione o di governo) e il regime di

verità. È all’interno di questo contesto che proveremo a mettere in discussione il

concetto e la strategia politica del lifelong learning: l’ apprendimento permanente non

è qui ridotto alla formazione degli adulti, ma è inteso in tutta la sua ampiezza, come

agenda politica, come dispositivo di riorganizzazione dell’intero sistema di istruzione e

formazione, di cui è importante riconoscere razionalità e tecnologie specifiche.

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Metterlo in discussione significa per noi interrogare cosa facciamo quando ne

assumiamo il linguaggio, la logica e gli strumenti e cosa quel che facciamo (ci) fa. Il

capitolo si concluderà con una riflessione sulla soggettività che l’istituzione scolastica è

chiamata ad assumere all’interno del quadro politico-documentale analizzato.

1. Riformare la scuola: in Italia come in Europa

Prima di intraprendere una lettura ravvicinata delle più recenti politiche scolastiche, è

bene alzare lo sguardo per osservare il contesto più ampio in cui l’ultima riforma viene

inserendosi. Guardando al contesto italiano, La Buona Scuola si colloca all’interno di

un’“era politica”783 di intensa ristrutturazione dei sistemi educativi, un’era che,

seguendo gli studi di Emiliano Grimaldi e Roberto Serpieri, trova inizio negli anni

Novanta e si sviluppa entro due fasi distinte. La prima, dal 1990 al 1997, è

caratterizzata dall’interazione tra l’eredità welfarista e l’emergere di nuovi discorsi,

inseribili in una costellazione ibrida, in cui convivono posizioni strettamente neoliberali

ed altre ispirate ai principi della Third Way di Anthony Giddens. Ad orientare il modo in

cui questi discorsi guardano all’insegnamento e all’apprendimento sono, in modo

preponderante, i saperi psicologici ispirati agli studi di Jerome Bruner e Jean Piaget:

all’interno di questa prospettiva l’educazione è compresa come processo cooperativo

di ricerca e costruzione di conoscenza influenzato dall’ambiente, da cui deriva un

approccio pedagogico-didattico centrato sullo studente, sui suoi bisogni e risultati

individuali di apprendimento. In questo periodo viene approvata la riforma della scuola

elementare (inseribile in un percorso di sperimentazione dei principi di pedagogia

progressista e delle forme di partecipazione democratica avviato dai Decreti Delegati

del 1974784) mentre, nonostante animati dibattiti, numerose sperimentazioni e le

pressioni europee per una maggiore convergenza tra scuola e mondo del lavoro,

783 E. Grimaldi e R. Serpieri, “The transformation of the Education State in Italy”, Italian Journal of Sociology of Education, 1, 2012, pp.146-180. I due studiosi utilizzano l’espressione di political era assumendo il quadro analitico di Hodgon e Spours, di cui citano la definizione: “a period of politics and policy-making *that is+ framed by *…+ underlying social shifts and historical trends which affect the “shape” of the education *…+ system, dominant political ideology which affects the parameters for reform and national and international education debates which either support or contest the dominant ideology” (A. Hodgson e K. Spours, “An analytical framework for policy engagement: the contested case of 14-19 reform in England”, Journal of Education Policy, 15 (5), 2006, pp. 679-696, qui p.686, citato in E. Grimaldi e R. Serpieri, “The transformation of the Education State in Italy”, Op. cit., p. 148).

784 E. Grimaldi e R. Serpieri, “The transformation of the Education State in Italy”, op. cit., p. 163

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l’instabilità e la debolezza dei governi rendono impossibile approvare alcuna riforma

della scuola secondaria. Nella seconda fase, iniziata nel 1997 a ancora oggi in atto,

assistiamo, invece, a continui ed intensi interventi di “modernizzazione” della scuola

secondaria superiore italiana, grazie all’utilizzo di decreti legge e all’emergere di un

orizzonte discorsivo comune, fortemente influenzato dalle istituzioni europee ed

internazionali (tra cui spiccano Unione Europea, UNESCO, OCSE, Banca Mondiale).

Dopo un lungo periodo di indecisione politica785, negli ultimi vent’anni si sono

succeduti una molteplicità di interventi strutturali, portati avanti dai ministri

Berlinguer-De Mauro (1996-2001), Moratti (2001-2006), Fioroni-Mussi (2006-2008),

Gelmini (2008-2011), Profumo (2011-2013), Carrozza (2013-2014), fino ai ministri de

La Buona Scuola, Giannini-Fedeli (2014-ad oggi). Proseguendo l’opera degli alleati

politici e tentando di distinguersi da quella degli avversari, ciascun ministro ha

confermato, senza soluzione di continuità, l’allineamento della politica italiana alle

priorità dell’Unione Europea (spesso coadiuvate da statistiche ed indici made in OCSE).

L’adeguamento alle indicazioni di Bruxelles è stato il principio ispiratore che ha

accomunato ogni intervento riformistico: con toni più o meno allarmisti, i vari ministri

hanno ribadito la necessità di adottare gli indicatori di performance e i quadri di

cooperazione internazionale, presentando ogni proposta quale strategia urgente per il

miglioramento della qualità (chi dando maggior enfasi alle competenze di cittadinanza,

chi a internet-inglese-impresa, chi al merito e alla valutazione, chi all’innovazione e

all’imprenditorialità…). Riproducendo, senza troppa esitazione, l’ordine del discorso, il

quadro delle analisi e i dispositivi strumentali diffusi a livello europeo, i diversi governi

hanno progressivamente ricevuto e implementato le indicazioni comunitarie,

schiacciando l’orizzonte del dibattito pubblico (e della discussione accademica) su

questioni attuative e migliorative, riducendo lo spazio per una comprensione non

banale dei mutamenti in atto, una comprensione che si preoccupi non solo dei mezzi

ma anche dei fini. Sospendendo ogni attitudine applicativa, chi volesse indagare gli

effetti di potere del regime di verità promosso a livello internazionale potrebbe iniziare

con il chiedere: quali oggetti di governo sono costituiti attraverso i benchmarks

internazionali? Quali saperi e forme di relazione pedagogica sono esclusi o svalutati

785 L. Benadusi (ed.), La non decisione politica, Firenze, La Nuova Italia, 1989

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dalle indagini OCSE e dalle nuove forme di valutazione? Secondo quale razionalità si

sta pensando e organizzando il governo della scuola e dei suoi soggetti – in primis

docenti e studenti? Sono queste alcune delle domande a cui, nel corso del capitolo,

proveremo a rispondere.

Dal 1997 ad oggi, il sistema scolastico italiano, assieme ad altri settori della

pubblica amministrazione, è stato oggetto di continue riforme, le quali hanno attinto

ad un ordine simbolico e strumentale di chiara matrice neoliberista: dalle politiche di

decentralizzazione (promuovendo la costruzione di partnership e reti territoriali) e

autonomia (dal POF alla scelta dei criteri per selezionare autonomamente parte

dell’organico), alle politiche di standardizzazione (recependo il Quadro Europeo per le

Qualifiche e le Competenze) e managerialismo (con un preside che, da “primus inter

pares”, diviene dirigente e imprenditore). A differenza dei paesi di area anglofona, in

cui la riorganizzazione neoliberista delle istituzioni educative è stato particolarmente

rapido e radicale, in Italia si assiste ad un processo di decentralizzazione “soft”786 e

graduale. In Italia, infatti, la presenza di tendenze e forze contrastanti787 ha per lungo

tempo alimentato uno scenario confuso - una “guerra di discorsi”788 - all’interno del

quale l’impianto burocratico-centralizzato e l’etica professionale del funzionario

pubblico hanno per lungo tempo prevalso sul nuovo assetto imprenditorial-

autonomista e sui valori ispirati al New Public Management789. Tuttavia, lo sforzo dei

diversi ministri, di centro-sinistra quanto di centro-destra, nell’elaborare strategie di

sostegno all’autonomia manageriale trova legittimità entro un regime di verità sempre

più radicato, che attribuisce al “burocraticismo” e al “centralismo” fenomeni di

inefficienza e arretratezza, o più catastroficamente, il fallimento del sistema scolastico

nazionale. Ad affermarsi è la logica bipartisan della performatività, che depoliticizza

ogni efficienza e qualità. Nonostante i diversi schieramenti politici di appartenenza, i

ministri alla guida del MIUR hanno contribuito, negli ultimi ad una ristrutturazione

786 R. Serpieri, Governance delle politiche scolastiche, Milano, Franco Angeli, 2009; E. Grimaldi, Discorsi e pratiche di governance della scuola, Milano Franco Angeli, 2010

787 E. Grimaldi e P. Landri, “Accordi, conflitti, attese. Il governo locale dell’istruzione”, in M. Colombo, G. Giovannini e P. Landri (eds.), Sociologia delle politiche e dei processi formativi, Milano, Guerini, 2006

788 R. Serpieri, “A ‘war’ of discourse. The formation of educational headship in Italy”, Italian Journal of Sociology of Education, 1, 2009, pp. 121-142

789 Aggiungono gli autori: “the resilience of routines, bureaucratic constraints and ideological opposition played an important role in this respect as well”, E. Grimaldi e R. Serpieri, “The transformation of the Education State in Italy”, Op. cit., p. 171.

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coerente delle istituzioni educative, in cui - malgrado l’instabilità governativa e la

mancata attuazione di alcuni progetti di riforma - si rende visibile una tendenza

unitaria790. A caratterizzare questa tendenza sono: l’educazione come apprendimento

(acquisizione) di competenze (ossia capacità, abilità e atteggiamenti utili per

rispondere con autonomia e responsabilità ai problemi della vita quotidiana); il

potenziamento della libertà di scelta (tra le opportunità di apprendimento più utili); la

diffusione di tecniche di (auto)valutazione e (auto)monitoraggio (dall’INVALSI-PISA alla

valutazione interna ed esterna) per migliorare i risultati di apprendimento (adeguati al

XXI secolo); la “razionalizzazione” delle risorse e i meccanismi di competizione per

l’attribuzione dei fondi economici (dai fondi PON al “Teacher prize”); l’avvicinamento

dei sistemi educativi alle filiere produttive (potenziando orientamento, stage e tirocini,

fino all’Alternanza Scuola Lavoro obbligatoria in tutte le scuole). Sono questi solo

alcuni dei principali provvedimenti che hanno contribuito alla diffusione di un nuovo

ambiente morale791, in primis una cultura della valutazione nuova, attraverso la quale

si costruisce un ethos specifico, che gli istituti scolastici (e i suoi soggetti) sono chiamati

ad assumere su di sé.

Per comprendere approfonditamente questa trasformazione, di cui suggeriamo

un’analisi attraverso la prospettiva governamentale, crediamo sia necessario osservare

più da vicino le tappe attraverso le quali l’Unione Europea ha contribuito ad orientare

le politiche educative degli Stati membri, contribuendo a riconfigurare il senso e

l’organizzazione delle istituzioni scolastiche nazionali. La ricostruzione storica sarà

organizzata attorno a tre fattori costitutivi della strategia politica europea, tre elementi

che, richiamandosi l’uno all’altro, appartengono oggi - in modo indubitabile - al modo

con cui pensiamo che la scuola debba essere governata e debba governare se stessa: il

miglioramento della qualità (degli apprendimenti), la cooperazione (nel garantire un

miglioramento della qualità), l’apprendimento (permanente e di sempre maggiore

qualità).

790 A sostenere una posizione simile anche O. Niceforo, Da Berlinguer a Gelmini. Come (non) cambia la scuola, Roma, Tuttoscuola, 2010

791 E. Grimaldi e R. Serpieri, “The transformation of the Education State in Italy”, Op. cit., p. 171

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1.1 La volontà di qualità

Secondo i dettami dei Trattati di Maastricht792 e Amsterdam793, l’Unione Europea

riconosce l’indipendenza degli Stati membri nell’organizzazione dei propri sistemi

educativi nazionali e ne rispetta la libertà di insegnamento e le differenze culturali.

Quello dell’istruzione e della formazione professionale è un ambito di competenza

soggetto al principio di sussidiarietà, ossia un settore in cui l’Unione Europea

interviene solo se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono

essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono essere meglio realizzati

a livello comunitario. Così, in merito ad “istruzione, formazione professionale, gioventù

e sport” la competenza dell’Unione Europea è limitata allo svolgimento di «azioni

intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri»794. Tuttavia,

come nota Roger Dale, «there is one significant loophole in the Treaty», un pertugio

attraverso il quale l’Unione Europea ha potuto esercitare un vero e proprio intervento

politico nell’ambito dell’educazione nazionale: l’interesse per la qualità e per il suo

miglioramento. Secondo l’articolo 165.1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione

Europea (ex 149 del Trattato della Comunità Europea), infatti, l’Unione può contribuire

allo sviluppo della qualità dell’educazione, incoraggiando la cooperazione tra gli Stati

membri e, se necessario, supportando ed integrando le azioni dei diversi paesi795. In

questo modo, spiega Dale,

Article 149 has been the vehicle of considerable agenda amplification by the Commission in the area of education, while what has been admitted through the ‘quality’ gateway it offered has moved from being a shared tool for the evaluation of the efficiency of national systems to the means for the delivery of a European education policy that is explicit, political, supranational, based on

792 Il Trattato di Maastricht, che ha istituito l'Unione europea, è stato siglato dagli Stati membri della Comunità europea il 7 febbraio 1992 ed è entrato in vigore il 1° novembre 1993.

793 Il trattato di Amsterdam, che modifica il trattato sull'Unione europea e i trattati istitutivi delle Comunità europee e taluni atti connessi, è stato firmato il 2 ottobre 1997 ed è entrato in vigore il 1° maggio 1999.

794 Art. 6, «L'Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri. I settori di tali azioni, nella loro finalità europea, sono i seguenti: a) tutela e miglioramento della salute umana; b) industria; c) cultura; d) turismo; e) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport; f) protezione civile; g) cooperazione amministrativa.», Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, C 326/52 IT Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 26.10.2012

795 Art. 165.1: «L'Unione contribuisce allo sviluppo di un'istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell'insegnamento e l'organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche», Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, Op. cit.

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political coordination rather than technical cooperation, and that has largely replaced common indicators of national efficiency with shared targets, content and criteria for effectiveness.796

La possibilità di intervenire per migliorare la qualità dei sistemi educativi, in assenza di

un piano di comprensione condiviso di cosa dovesse costituire il proprium

dell’educazione e la sua efficacia, si è rivelata «an ideal basis for providing en entrée,

or a plank of intervention, for *…+ the construction of a European education policy»797.

Agendo come chiave passpartout, l’impegno per la qualità ha permesso all’Unione di

inserirsi nei dibattiti e nei processi di decisione politica nazionali, contribuendo a

costruire un nuovo modo di intendere e valutare la bontà dei sistemi educativi.

Secondo Dale, questo processo è stato favorito da due aspetti del concetto di qualità:

on the one hand, it is vague, flexible and imprecise; it can most usefully be seen ad a ‘tofu’ concept, one that has no meaning of its own but takes its meaning from what surrounds it, which it is the well-equipped to absorb and carry forward. On the other hand, it is a neutral, a-political (even seen as ‘above’ politics) and a-national; the technical language (often numbers) through which its presence is detected or inferred stands outside, above and across existing national discourses. *…+ *T+he essential negative and positive conditions of acceptable European intervention in education.798

Inizia, così, l’impegno dell’Unione Europea per la definizione degli “indicatori di

qualità”: dalla costruzione di un progetto pilota per la valutazione della qualità

dell’educazione scolastica nazionale tra il 1997-1998799, all’impegno del Consiglio dei

ministri dell’Istruzione del 1998 a costituire una commissione di lavoro sugli standard

di efficienza dei sistemi nazionali, sino alla diffusione, nel maggio del 2000, di un

European Report on Quality of School Education: Sixteen Quality Indicators.

Quest’ultimo, nota Dale, segna in modo decisivo lo stile di valutazione dell’Unione,

spostando l’interesse per l’efficacia nazionale verso una misurazione della qualità in

termini di abilità (effectiveness) degli Stati membri di cooperare verso obiettivi comuni

(targets), definiti politicamente dall’Unione Europea. Questo passaggio si rende visibile

nell’associazione degli indicatori di qualità all’identificazione di «“five key challenge for

796 R. Dale, “Constructing Europe Through Constructing a European Education Space”, in M. Simons, M. Olssen e M. A. Peters (eds.), Re-reading Education Policies…, Op. cit., pp. 369-386, p. 375

797 Ivi., p. 377

798 Ibid.

799 J. Macbeath, M. Schwartz, M. Meuret e L. B. Jakobsen, Self-evaluation in schools – a story of change, London, Routledge, 1999

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the future” – knowledge, decentralisation, resource, social inclusion and data and

comparability»800, sfide che si inseriscono a pieno titolo nella Strategia di Lisbona, ossia

l’agenda politica tesa a fare dell’Europa «l’economia della conoscenza più competitiva

e dinamica al mondo»801. Il Consiglio Europeo di Lisbona, concluso nel marzo dello

stesso anno, aveva indicato i “Concrete Future Objectives for Education Systems”802,

specificando la necessità di raggiungere questi obiettivi a livello comunitario. Come

nota Dale,

this might, indeed, be seen as either replacing subsidiarity with ‘supersubsidiarity’, or as interpreting the nature and seriousness of the Lisbon agenda to mean that the Community itself was the lowest possible effective administrative level. In terms of the second, Lisbon essentially both announced ‘Europe’ as a space of educational governance that creates the condition for, and asserts the necessity of, a functional and scalar division of the labour of educational governance that cross-cut Article 149, and provide the crucial mechanism that makes this possible in the form of the Open Method of Coordination [OMC]. *…+ *T+he explicit encouragement of ‘common goals,

multiple routes’ has been crucial to its formation. 803

L’anno successivo, nel 2001, pubblicando la comunicazione Realizzare uno spazio

europeo per l’apprendimento permanente, la Commissione descrive esattamente

questa modalità di intervento:

gli Stati membri sono pienamente responsabili del contenuto e dell’organizzazione dei loro sistemi d’istruzione e formazione, e non spetta all’UE armonizzare la legislazione e le normative in tali settori. Allo stesso tempo, però, vi sono delle funzioni politiche specifiche, legate all’apprendimento permanente, che rientrano nelle competenze della Comunità. Oltre all’attuazione di una politica di formazione professionale, il trattato conferisce alla Comunità un ruolo essenziale, consistente nel miglioramento della qualità dell’istruzione tramite la cooperazione europea in tale ambito.804 La sfida principale consiste quindi nell'assicurare che gli Stati membri conservino la libertà di elaborare le loro proprie strategie coerenti e complete e di concepire e gestire i loro sistemi, pur nell'insieme procedendo nella stessa direzione. Tale strategia deve essere realizzata in modo coerente, coordinato ed economico;

800 R. Dale, “Constructing Europe Through Constructing a European Education Space”, Op. cit., p. 378

801 Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Lisbona 23 e 24 marzo 2000, § 5 http://archivio.pubblica.istruzione.it/buongiorno_europa/allegati/lisbona2000.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

802Report from the Commission “The Concrete Future Objectives of Education Systems”, COM(2001) 59 final, http://aei.pitt.edu/42877/, ultima consultazione 27/01/2018

803 R. Dale, “Constructing Europe Through Constructing a European Education Space”, Op. cit., p. 378

804 Comunicazione della Commissione, “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente”, COM(2001) 678 definitivo, p. 30, https://archivio.pubblica.istruzione.it/dg_postsecondaria/allegati/apprperm211101.pdf , ultima consultazione 27/01/2018

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laddove l’UE non è competente sul piano legislativo e laddove gli obiettivi indicati dal Trattato non siano ancora coperti da processi avviati sulla base del Trattato, bisogna fare ricorso ai seguenti metodi, fra cui il metodo aperto di coordinamento.805

I sistemi educativi nazionali vengono così a costituire un campo di governo

sovranazionale: la misurazione della “qualità” costituisce il campo di visibilità che è

base di confronto e competizione tra gli Stati membri. All’interno di questo campo, il

“Metodo di Coordinamento Aperto” (Open Method of Coordination - OMC) è lo

strumento adottato dall’Unione per orientare e stimolare il comportamento degli Stati

membri verso il raggiungimento degli obiettivi europei.

1.2 L’invito a cooperare

Nato all’interno della Strategia Europea dell’Occupazione (SEO) durante il processo di

Lussemburgo nel 1997, il “Metodo di Coordinamento Aperto” diviene lo strumento

principale per la realizzazione della Strategia di Lisbona806 del 2000. Soft law

dell’Unione Europea, questo strumento giuridico è dotato di un potere “dolce”,

legalmente non vincolante, ma a tutti gli effetti coercitivo. Chiedendo l’adozione di un

quadro di cooperazione comune, questo metodo esercita un potere di convergenza

sulle politiche dei singoli Stati, facendo leva sulla loro autonomia e stimolando pratiche

di auto-valutazione e auto-governo. Il meccanismo di funzionamento del “Metodo di

Coordinamento Aperto” consiste nelle seguenti operazioni:

1. la definizione di orientamenti dell'Unione in combinazione con calendari specifici per il conseguimento degli obiettivi da essi fissati a breve, medio e lungo termine;

2. la determinazione, se del caso, di indicatori quantitativi e qualitativi e di parametri di riferimento ai massimi livelli mondiali, commisurati alle necessità di diversi Stati membri e settori, intesi come strumenti per confrontare le buone prassi;

3. la trasposizione di detti orientamenti europei nelle politiche nazionali e regionali fissando obiettivi specifici e adottando misure che tengano conto delle diversità nazionali e regionali;

805 Ibid.

806http://eur-lex.europa.eu/summary/glossary/open_method_coordination.html?locale=it,

ultima consultazione 27/01/2018

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4. periodico svolgimento di attività di monitoraggio, verifica e valutazione inter pares, organizzate nel quadro di un processo di apprendimento reciproco.807

Evitando le vie della legislazione diretta e di esplicite forme di armonizzazione, il

“Metodo di Coordinamento Aperto” opera un’azione di conduzione attraverso il

consenso, la regolamentazione, il monitoraggio e il confronto continuo: i paesi dell’UE

sono coinvolti in continue azioni di valutazione e apprendimento reciproco, utilizzando

benchmarks, strumenti di misura e standard di qualità definiti a livello comunitario. In

tutto questo, la Commissione europea si limita a fornire l’infrastruttura entro cui gli

Stati devono governarsi, svolgendo un ruolo di sorveglianza, favorendo lo scambio di

best practices e monitorando l’analisi comparativa delle performance nazionali.

Motore del condizionamento è la cosiddetta peer pressure – the practice of naming

and shaming808, per il cui funzionamento – e così per l’allocazione di fondi e premi - la

trasparenza è un bene di prima necessità.809

Quali sono gli effetti di potere di questa tecnologia di governo? Attraverso azioni

di supporto al miglioramento della qualità dei sistemi educativi, questo strumento

opera al tempo stesso su due livelli differenti: contribuisce alla costruzione di uno

spazio europeo dell’educazione e rende possibile – e attraente - l’adesione a questo

spazio da parte dei diversi contesti nazionali. Il “Metodo di Coordinamento Aperto”

catalizza i processi di “modernizzazione” delle politiche sociali nazionali, che alla luce

dei confronti internazionali appaiono potenzialmente obsoleti e bisognosi di riforma,

innovazione, sperimentazione810. Il “Metodo di Coordinamento Aperto” assume così il

volto di una tecnologia di sicurezza, capace di guidare il comportamento della

popolazione, attraverso forme di regolazione e normalizzazione, stimolando il

desiderio degli Stati membri di migliorare le performance dei propri sistemi educativi

807 Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Lisbona 23 e 24 marzo 2000, § 37

808 M. Lawn e S. Grek, Europeanizing Education. Governing a new policy space, Oxford, Symposium Books, 2012, p. 112

809 Un ambito che richiederebbe maggiore approfondimento è quello dei processi di costruzione degli indicatori di performance, comunemente assunti come descrittori scientifici di una qualità naturale. In realtà, come spiegano Lawn e Grek, gli standard «are constantly in creation, both demanded and necessary, yet voluntary and open. They operate as a mix of regulation and open source construction. Standards are dependent on network and data processes. They have not the fixedness of past times; they are rather fluid, relative and performance based», in M. Lawn e S. Grek, Europeanizing Education. Governing a new policy space, Op. cit., p.11.

810 M. Lawn e S. Grek, Europeanizing Education. Governing a new policy space, p. 20

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per avvicinarsi al valore medio preferenziale811. Allo stesso tempo, l’utilizzo di questo

strumento porta con sé degli effetti di de-politicizzazione, contribuendo a naturalizzare

un modo specifico di intendere l’educazione (e a squalificarne altri). Secondo l’analisi

di Martin Lawn e Sotira Grek,

Soft governance offers lightly regulated, persuasive and self-managing form of governing in which policy is depoliticized and invites new hosts into its voluntary activities. ‘Light-touch’, optional, economical and effective are its features. While its effect are significant and ordering, the process may be delicate, and the discourse ‘soft’.812

Un’analisi che trova conferma negli studi di Dale:

Fundamentally the OMC makes policy decisions into ‘technical matters’ for long term negotiation between ‘de-nationalised’ experts, rather than national preferences that have to be defended nationally. *…+ This also makes education policy making at the EU level a matter for technical problem solving between stakeholders within the system, rather than the result of the political resolution of political conflicts *…+. Finally, the OMC operated on the basis of proscription rather that prescription: that is to say, it tends to patrol the boundaries of the possible rather than defining precisely what the territory thus defined should contain. Or, to put it another way, we should not look to explain the OMC on the basis of what it includes, but on what it excludes.

Lontano dall’essere un mezzo neutrale, il “Metodo di Coordinamento Aperto” (e al suo

interno gli indicatori, i benchmarks, i rankings e le raccolte di dati), struttura il campo

di possibilità dell’azione politica nazionale e l’orizzonte di pensiero entro cui si svolge il

dibattito pubblico. Come ribadiscono Lascoumes e Le Galès,

instruments at work are not neutral device: they produce specific effetcs, independently of the objective pursed…which structure public policy according to

their own logic. 813

Come tecnica di governance collaborativa, dichiara Pia Cort, il ‘Metodo di

Coordinamento Aperto’ costituisce a tutti gli effetti una «tecnologia di

europeizzazione»814. Con questa espressione la studiosa intende indicare

811 Come precisa Ase Gornitzka molti dei benchmarks stabiliti all’interno dei programmi quadro di cooperazione «are not concrete targets for individual countries to be reached *…+. They are defined by the Council as ‘reference levels for the European average performance’», in A. Gornitzka, “Coordinating policies for a “Europe of Knowledge”. Emerging practices of the “Open method of coordination” in education and research”, Arena Working Paper, No. 16, Centre for European Studies, University of Oslo, 2005 March, p. 17 (corsivo nell’originale).

812 Ivi., p. 17

813 P. Lascoumes e P. Le Galès, “Understanding Public Policy through its Instruments: from the nature of instruments to the sociology of public policy instrumentation”, Governance, 20(1), 2007, pp.1-21, qui p. 3

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the modes of governance or policy instruments which lead to changes in national policies along the lines of European policy objectives or European models, such as the European Qualification Framework or the European Lifelong Learning model815.

L’invito alla cooperazione porta con sé una richiesta di autogoverno (di auto-

valutazione e auto-monitoraggio), attraverso il quale viene a costruirsi uno spazio di

collaborazione competitiva (coo-petition) in cui ciascuno Stato è incoraggiato

(attraverso classifiche comparative e l’attribuzione di fondi) a riconfigurare i propri

sistemi di istruzione e formazione, trasformando – spesso implicitamente – il

significato ad essi attribuito. Tutto questo si rende possibile all’interno di un ordine

discorsivo depoliticizzato, fondato sul miglioramento della qualità, un miglioramento

che deve essere continuo, che non può avere fine. Questo miglioramento richiede un

processo di apprendimento, un processo che a sua volta deve essere permanente,

deve durare per tutta la vita. Vediamo allora, come il lifelong learning sia emerso quale

principio organizzativo delle diverse iniziative politiche europee nell’ambito educativo,

per poi indagarne gli effetti sul nostro modo di intendere e vivere le pratiche

educative scolastiche.

1.3 Apprendere per tutta la vita

A partire dagli anni Novanta, il lifelong learning è assunto come obiettivo

omnicomprensivo da una molteplicità di organizzazioni internazionali: non solo – come

vedremo - dall’Unione Europea, ma anche da UNESCO816 e da agenzie economiche

814 Oltre ai testi già citati sulla governamentalità europea, si rimanda al testo di M. Lawn e S. Grek, Europeanizing Education. Governing a new policy space, Oxford, Symposium Books, 2012

815 P. Cort, “The EC Discourse on Vocational Training: How a ‘Common Vocational Training Policy’ Turned into a Lifelong Learning Strategy”, Vocations and Learning, July 2009, Vol. 2, Issue 2, pp. 87-107

816 Nel 1994, l’UNESCO ha scelto il Lifelong Learning for All come strategia a medio termine per il periodo compreso tra il 1996 ed il 2001, strategia subito riconfermata dal rapporto Delors, Learning: a treasure within del 1996 e rinnovata anche nel 2015, con la recente dichiarazione di Incheon, intitolata Education 2030: Towards inclusive and equitable quality education and lifelong learning for all. L’impegno UNESCO per lo sviluppo dell’educazione in Europa ha però radici più antiche. Nel 1963, in collaborazione con la Banca Mondiale, la Ford Foundation e il governo francese, UNESCO costituisce l’International Institute for Educational Planning (IIEP), il quale mira, fin da subito, a misurare la qualità delle performance dei sistemi educativi nazionali. Progressivamente l’IIEP ha sviluppato una forma di pianificazione che ha fatto da modello per tutte le iniziative future: «the aim must be to improve the performance of educational systems through changes that will make them more relevant to the needs of their clients, more efficient in their use of available resources, and a more effective force for individual and social development» (P. Coombs, What is Educational Planning?, Foundamentals of Educational Planning 1. Pars: International Institute for Educational Planning, UNESCO, p. 54)

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quali OCSE (che ricordiamo essere l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo

Economico817) e Banca Mondiale818. Pur nel riconoscimento delle differenze specifiche,

questa convergenza ha portato diversi studiosi, tra cui John Field819 e Annalisa

Pavan820, ad ipotizzare l’emergere di un “nuovo ordine educativo mondiale”.

Nell’ambito dell’Unione Europea, però, l’apprendimento permanente assume degli

effetti di potere specifici, spingendo gli Stati membri a riconfigurare - “modernizzare” -

i sistemi scolastici, ed è su questo aspetto che intendiamo ora portare la nostra

attenzione. Ciò che andiamo a presentare è una selezione del corpus documentale

europeo, una sorta di “carotaggio” nel terreno delle politiche educative dell’Unione

Europea, tra i documenti di natura programmatica e regolativa, offrendo dei

frammenti da analizzare controluce, per renderne visibile la razionalità e i meccanismi

di potere.

Ad inaugurare l’interesse europeo per il potenziamento dei sistemi di istruzione

e formazione è il libro bianco a cura di J. Delors, Crescita, competitività, occupazione.

Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo, pubblicato nel 1993. In questa

occasione, viene a delinearsi il quadro di una nuova responsabilità europea,

«l’immensa responsabilità di elaborare *…+ una nuova sintesi tra gli obiettivi che la

817 Nella conferenza del 1996, i ministri dell’istruzione dell’OCSE hanno esortato gli stati membri a “tradurre il lifelong learning in realtà per tutti” e ad inserirlo tra le priorità del quinquennio successivo (Lifelong Learning for All, OCSE, 1996). L’impegno per la promozione del Lifelong Learning è stato riconfermato da numerose altre pubblicazioni [OECD (1999, 2001, 2004, 2007)] e dalla diffusione dell’indagine PISA - Programma per la Valutazione Internazionale dell’Allievo, finalizzata alla misurazione delle competenze e delle abilità applicate nella vita pratica.

818 Nel 2003, la Banca Mondiale pubblica un rapporto dal titolo Lifelong Learning in the Global Knowledge Economy: Challenges for Developing Countries. Nel 2012, diffonde Education in a Changing World: Flexibility, Skills, and Employability.

819 J. Field & M. Leicester (eds.), Lifelong learning. Education Across the Lifespan, London, Routledge, 2000

820 A. Pavan, Nelle società della conoscenza. Il progetto politico dell’apprendimento continuo, Armando Editore, Roma 2008, in particolare pp. 190-191. In queste pagine, la studiosa rimanda al lavoro elaborato dalla francese FSU (Fédération Syndicale Unitarie), Le nouvel ordre éducatif mondial (Paris, 2002), di cui condivide la tesi che il nuovo ordine stia nascendo sulla scia dell’iper-liberismo internazionale, grazie al concorso congiunto di istituzioni intergovernative economiche che sempre più si interessano di educazione e di formazione, elaborano cultura e politiche per il settore, riconoscendo «il potenziale di utilità che ess*o+ ha rispetto al disegno dell’economia della conoscenza e rispetto all’avvento di mercati sempre più aperti e concorrenziali». Per una letteratura sul lifelong learning si rimanda ai seguenti testi: A. Alberici, Imparare sempre nella società della conoscenza, Milano, Mondadori, 2002; D. N. Aspin (ed.), Philosophical Perspectives on Lifelong Learning , Springer-Verlag, 2007; D. N. Aspin, J. D. Chapman, K. Evans, e R. Bagnall (eds.), Second International Hanbook in Longlife Learning, Springer-Verlag, 2013; J. Field, Social capital and lifelong learning, Bristol UK, The Policy Press, 2005; J. Field & M. Leicester (eds.), Lifelong learning. Education Across the Lifespan, London, Routledge, 2000

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società persegue (il lavoro come fattore d'integrazione sociale, la parità di opportunità)

e le esigenze dell'economia (la competitività e la creazione di posti di lavoro)». Nel

quadro di questa responsabilità – che sembra funzionale alla costruzione di

un’economia sociale di mercato europea – la qualità dei sistemi educativi degli Stati

membri emerge come oggetto di preoccupazione (e di governo) comunitaria. Nel libro

bianco di Delors, si dichiara la necessità di puntare sul capitale «non materiale, ossia

culturale (istruzione, qualifiche, attitudine all'innovazione, tradizioni industriali)», e

sulla «valorizzazione del capitale umano per tutta la durata della vita attiva, partendo

dall'istruzione di base e avvalendosi della formazione iniziale per inserirvi poi la

formazione continua». Nel 1995, la pubblicazione del libro bianco curato da E. Cresson,

Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva821 ribadisce la necessità di

proseguire sul sentiero tracciato da Delors: «l'istruzione e la formazione appaiono

come l'ultima possibilità di rimedio al problema dell'occupazione». Una dichiarazione il

cui senso di urgenza e di ineluttabilità sono rafforzati dalle parole che seguono.

I paesi europei non hanno più scelta. Per mantenere le loro posizioni e continuare ad essere un punto di riferimento nel mondo essi devono completare i progressi compiuti in sede di integrazione economica con maggiori investimenti nel sapere e nella competenza.822

L'avvenire dell'Unione europea e il suo prestigio dipenderanno notevolmente dalla capacità di accompagnare il movimento verso la società conoscitiva che dovrà essere una società di giustizia e di progresso, fondata sulla propria ricchezza e diversità culturale. Occorrerà darsi i mezzi per incoraggiare il desiderio d'istruzione e di formazione sull'arco di tutta la vita, aprire e generalizzare in maniera permanente l'accesso a più forme di conoscenza. 823

È ormai chiaro che sia le nuove possibilità offerte agli individui che lo stesso clima d'incertezza chiedono a ciascuno uno sforzo di adattamento, in particolare per costituire da sé le proprie qualifiche, raccogliendo e ricomponendo conoscenze elementari acquisite in svariate sedi. La società del futuro sarà dunque una società conoscitiva. 824

[La cultura generale] è formazione polivalente basata su conoscenze ampliate che sviluppino l'autonomia e incitino ad "imparare ad apprendere" nell'arco di tutta la

821 Libro Bianco a cura di E. Cresson, “Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva”, COM(95) 590, Bruxelles, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:1995:0590:FIN:IT:PDF, ultima consultazione 27/01/2018

822 Ivi., p.5

823 Ivi., p.6

824 Ibid.

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vita. *…+ Primo fattore di adattamento all'evoluzione dell'economia e a quella del lavoro. 825

I compiti dei sistemi di istruzione e di formazione, la loro organizzazione, il contenuto degli insegnamenti, perfino la pedagogia sono stati oggetto di dibattiti spesso appassionati. La maggior parte di tali dibattiti appare oggi superata. 826

La necessità di questa evoluzione è ormai riconosciuta: la migliore prova ne è data dalla fine dei grandi dibattiti dottrinali sulle finalità dell'istruzione. 827

Lo sviluppo della “società conoscitiva”, il “desiderio d’istruzione e di formazione

sull’arco di tutta la vita”, lo “sforzo di adattamento” dinnanzi allo scenario incerto della

globalizzazione e dell’innovazione tecnologica, l’importanza dell’“autonomia” e di

“imparare ad apprendere”, sono gli elementi che da questo momento costituiranno

l’intelaiatura principale dei testi documentali europei, definendo un certo modo di

intendere ed organizzare le pratiche educative. D’altronde, come sentenzia il libro

bianco di Cresson, i dibattiti sulla finalità dell’istruzione sembrano ormai conclusi:

l’orizzonte veritativo è quello dell’apprendimento permanente. Ogni critica -

democraticamente richiesta, sollecitata, accolta – è chiamata a svilupparsi entro il

quadro di possibilità predefinito. Ogni pensiero che si spinga sui bordi, che metta in

discussione il quadro stesso, rischia di essere squalificato come irresponsabile («è il

momento di agire»828), ancorato allo status quo, colpevole di rigidità, impaurito dalla

novità.

Come già anticipato, durante il Consiglio di Lisbona del 2000 il lifelong learning

viene ad assumere ruolo strategico entro il progetto politico dell’Unione Europea. Il

progetto intenzionale di divenire «l’economia della conoscenza più competitiva e più

dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da

un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore

coesione sociale» è presentato nelle vesti della sfida da raccogliere, dell’«opportunità

irripetibile da cogliere al volo», dell’investimento coraggioso.

Investire nelle persone e sviluppare uno Stato sociale attivo e dinamico sarà essenziale per la posizione dell'Europa nell'economia della conoscenza nonché

825 Ivi., p.13

826 Ivi., p. 25

827 Ibid.

828 Documento di lavoro dei servizi della commissione “Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente”, SEC(2000) 1832, p.5 https://archivio.pubblica.istruzione.it/dg_postsecondaria/memorandum.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

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per garantire che l'affermarsi di questa nuova economia non aggravi i problemi sociali esistenti rappresentati dalla disoccupazione, dall'esclusione sociale e dalla povertà.829

Nell'era digitale è ancora più importante garantire un apprendimento lungo tutto il corso della vita, l'emergere di nuove generazioni di creativi, ricercatori, imprenditori e consentire a tutti i cittadini di svolgere un ruolo attivo nella società dell'informazione. 830

Il successo della nuova economia dipenderà dalla capacità dei consumatori di profittare pienamente delle opportunità offerte. A tale scopo essi devono acquisire le competenze che consentiranno loro di accedere alle informazioni di cui hanno bisogno. 831

All’interno della Strategia di Lisbona, l’apprendimento permanente sembra

identificarsi con l’opportunità – e l’obbligo per tutti e per ciascuno - di acquisire – in

ogni momento e in ogni luogo - le competenze di cui necessita, al fine di contribuire

in modo attivo alla crescita economica e sociale. Questa strategia sembra favorire

una l’abbandono di un regime governamentale fondato sul Welfare State, per

riorganizzare le forme dei governi nazionali entro la razionalità dell’Enabling State832,

lo Stato attivo e dinamico che governa attraverso la mobilizzazione dei cittadini,

promuovendo una politica sociale individualizzata. Questo approccio, vedremo, è

confermato dai documenti successivi, i quali continueranno a svilupparsi (spesso

come follow-up o relazioni sull’avanzamento dei programmi attuativi) entro il quadro

strategico inaugurato nella capitale portoghese. Tra i primi documenti vi è il

Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente, pubblicato dalla

Commissione nell’ottobre dello stesso anno. Secondo questo documento,

la nozione di istruzione e formazione permanente non rappresenta più semplicemente un aspetto della formazione generale e professionale, ma deve diventare il principio informatore dell’offerta e della domanda in qualsivoglia contesto dell’apprendimento. Il prossimo decennio dovrà essere testimone della realizzazione di una tale concezione. Tutti coloro che vivono in Europa, senza alcuna eccezione, dovranno avere le stesse opportunità per adattarsi alle esigenze del cambiamento economico e sociale e contribuire attivamente alla costruzione del futuro dell’Europa.833

829 Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Lisbona 23 e 24 marzo 2000, § 24

830 Comunicazione relativa ad un'iniziativa della Commissione in occasione del Consiglio europeo straordinario di Lisbona 23 e 24 marzo 2000, “eEurope. Una società dell'informazione per tutti”, 6978/00, Bruxelles, p.7, http://www.etx.it/news/dwd/eeurope.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

831 Ivi., p.4

832 N. Rose, The powers of freedom. Reframing political thought, Op. cit. p. 142

833 Documento di lavoro dei servizi della commissione “Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente”, SEC(2000) 1832, Op. cit., p. 3

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Su richiesta della Commissione, il Consiglio “Istruzione” del 2001 indica Gli obiettivi

futuri e concreti dei sistemi di istruzione e di formazione, muovendo dalla seguente –

ormai nota – constatazione: «tutti riconoscono che i sistemi d'istruzione e di

formazione devono adattarsi ad un apprendimento che dura lungo tutto l'arco della

vita». Ogni persona, qualsiasi sia l’età o l’estrazione sociale, deve essere incoraggiata

«all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita attraverso i tradizionali percorsi di

istruzione e formazione o nel quadro dell’apprendimento basato sul lavoro, in modo

da renderle più atte al lavoro e suscitarne lo spirito di imprenditorialità». L’istruzione

e la formazione, dichiara il Consiglio, devono «fornire le opportunità di acquisire le

competenze necessarie per creare e mandare avanti un'impresa», ma deve fare

anche molto di più. L’imprenditorialità non si limita ad essere una competenza, ma si

riferisce ad uno “spirito”, un’attitudine, una disposizione, quello che potremmo

chiamare un habitus, un ethos, un business ethos. Come precisano i ministri

dell’Istruzione,

lo spirito imprenditoriale va ben oltre l'attività aziendale, esso è uno spirito attivo e reattivo, un valore nel quale la società nell'insieme dovrebbe investire. Le scuole e i centri di formazione dovrebbero pertanto stimolare le capacità degli allievi e lo spirito d'impresa in tutto il loro ciclo di istruzione e formazione.834

Perché questo progetto si realizzi emerge come azione fondamentale la rivisitazione

dei sistemi di formazione e di valutazione dei docenti, per fare in modo che le loro

capacità e competenze «corrispondano sia all’evoluzione sia alle aspettative della

società, nonché alla composizione diversificata dei gruppi interessati»835. Tra le

competenze fondamentali, è indicata quella

di motivare i loro allievi, non soltanto ad acquisire le conoscenze teoriche e le capacità professionali di cui hanno bisogno, ma anche ad assumersi la responsabilità del proprio apprendimento in modo da avere le competenze necessarie per la società e il lavoro al giorno d’oggi.836

Il richiamo alla responsabilità si rivolge a ciascuno studente e, al tempo stesso, alla

popolazione tutta:

834 Relazione del Consiglio (Istruzione) presentata al Consiglio europeo di Stoccolma 2001, “Gli obiettivi futuri e concreti dei sistemi di istruzione e di formazione”, 5980/01, Bruxelles, , p. 14 https://archivio.pubblica.istruzione.it/argomenti/qualita/testi/allegati/relazione14febbraio.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

835 Ivi., p. 8

836 Ibid.

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È necessario che i sistemi d'istruzione e di formazione possano essere adattati e sviluppati in modo da fornire le capacità e le competenze di cui tutti hanno bisogno nella società della conoscenza; rendere l'apprendimento lungo tutto l'arco della vita attraente e valido; raggiungere tutti coloro che fanno parte della società, anche se si considerano lontani dall'istruzione e dalla formazione, utilizzando sistemi per svilupparne le competenze e sfruttarle in modo ottimale.837

Alla fine del 2001, a seguito di una consultazione popolare avviata con la pubblicazione

del Memorandum, la Commissione diffonde una nuova comunicazione dal titolo

Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente838. Ancora una volta,

l’apprendimento permanente è presentato come strumento necessario per

raggiungere l’obiettivo di crescita e competitività dell’Unione Europea.

Gli elementi chiave della strategia volta a raggiungere tale obiettivo sono l’adattamento dell’istruzione e della formazione onde offrire opportunità di apprendimento su misura ai singoli cittadini in tutte le fasi della loro vita nonché la promozione dell’occupabilità e dell’inclusione sociale mediante l’investimento nelle conoscenze e competenze dei cittadini e la creazione di una società dell’informazione per tutti oltre all’incoraggiamento della mobilità.839 Oggi si avverte ancor di più la necessità che ogni cittadino acquisisca le competenze e conoscenze necessarie per cogliere i vantaggi e affrontare le sfide legate alla società basata sulla conoscenza. Per tale motivo il Consiglio europeo di Lisbona ha ribadito che l’apprendimento permanente è una componente basilare del modello sociale europeo e un'alta priorità nella strategia europea per l'occupazione.840

Tuttavia, accogliendo le critiche ricevute attraverso lo strumento consultivo, il discorso

della Commissione cerca di enfatizzare con maggior forza gli effetti sociali e di

cittadinanza che il lifelong learning porta con sé, formando «cittadini capaci di far

fronte in modo attivo alle conseguenze della globalizzazione, dell'evoluzione

demografica, della tecnologia digitale e del degrado ambientale». Lo spazio europeo

dell’apprendimento è volto

da un lato, a porre i cittadini in grado di spostarsi a loro agio tra contesti di apprendimento, lavori, regioni e paesi, traendo il massimo profitto dalle loro conoscenze e competenze e, dall’altro, a consentire all’Unione europea e ai paesi

837 Ivi., p. 15

838 Comunicazione della Commissione, “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente”, COM(2001) 678 finale, Op. cit.

839 Ivi., p. 7

840 Ibid.

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candidati di raggiungere i loro obiettivi in termini di prosperità, integrazione, tolleranza e democrazia.841 L’apprendimento permanente è chiamato quindi a svolgere un ruolo fondamentale ai fini di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle persone di accedere al mercato del lavoro o ne limitano le possibilità di carriera al suo interno. La lotta alla disuguaglianza e all’esclusione sociale rientra in tale strategia.842

La comunicazione ricorda, poi, la necessità di superare una comprensione

dell’apprendimento permanente che sia ridotta alla sola formazione degli adulti,

riconoscendo la sua dimensione lifelong («da prima della scuola a dopo la

pensione»843) e lifewide (comprendo «l’intera gamma di modalità d’apprendimento

formale, non formale e informale»844). Gli obiettivi generali dell’apprendimento

permanente, obiettivi che si rafforzano reciprocamente, sono quattro:

«l’autorealizzazione, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale, l’occupabilità e

l’adattabilità professionale». L’estesa gamma degli obiettivi e dei momenti di

apprendimento a cui il lifelong learning si riferisce, porta la Commissione a riformulare

in senso ampio il concetto di apprendimento permanente. Con il termine lifelong

learning si intende riferirsi a

qualsiasi attività di apprendimento intrapresa nelle varie fasi della vita al fine di migliorare le conoscenze, il know-how, le capacità, le competenze e/o le qualifiche in una prospettiva personale, sociale e/o occupazionale.845

I principi che presiedono all’apprendimento permanente e ne orientano la concreta

attuazione sono la valorizzazione della centralità del discente, le pari opportunità di

accesso all’apprendimento («onde consentire che chiunque possa apprendere dove e

quando vuole») e la qualità e pertinenza dell’offerta di apprendimento (ossia la sua

capacità di rispondere alle sfide del XXI secolo). Si comprende così l’importanza di

raccogliere «informazioni sui bisogni del discente, o del discente potenziale, nonché

sui bisogni in materia di apprendimento propri delle organizzazioni, delle collettività,

841 Ivi., p. 3

842 Ivi., p. 8

843 Ivi., p. 10

844 Ivi., p. 4

845 Cedefop, Terminology of European Education and Training Policy. A selection of 130 key terms, Luxemburg, Pubblication Office of the European Union, 2014, p. 171

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della società in senso lato e del mercato del lavoro»846. Allo stesso tempo, per

generare una cultura dell’apprendimento non è sufficiente «incrementare le

opportunità di apprendimento, accrescere i livelli di partecipazione e stimolare la

domanda di apprendimento»847, ma è necessario, anche, verificare che le opportunità

di apprendimento offerte combacino con i bisogni e gli interessi dei discenti e siano di

elevata qualità. Da qui l’impegno a diffondere «meccanismi per l'assicurazione di

qualità [quality assurance], la valutazione e il monitoraggio in un’ottica di costante

aspirazione all’eccellenza»848. Come specifica la Commissione,

infatti, investire tempo e denaro nell’apprendimento non può risultare redditizio senza eccellenti condizioni di apprendimento e senza un implicito piano strategico e sistemi di alta qualità. Tali principi rispecchiano complessivamente i punti enunciati nelle conclusioni del Consiglio in seguito all’Anno europeo (1996) dell’istruzione e formazione lungo tutto l’arco della vita e nell’edizione 2001 dell’analisi delle politiche dell’istruzione dell’OCSE. Essi sono alla base del concetto di apprendimento permanente e ne configurano l’attuazione.849

In questo frammento vediamo emergere in modo esplicito quella che ci sembra essere

la razionalità di fondo della strategia politica del lifelong learning: la razionalità

imprenditoriale. La scelta individuale di intraprendere un percorso di istruzione e

formazione deve essere valutata secondo una logica calcolante, una logica contabile,

volta a misurarne la redditività, come vantaggio competitivo nel mercato del lavoro e

come soddisfazione-benessere, conseguiti attraverso attività di consumo e di

inclusione sociale. Al centro dell’attenzione dell’Unione, dichiara la Commissione, non

sono tanto le istituzioni850, ma le aspirazioni, i bisogni e gli interessi dei singoli

individui. Tra questi emerge con forza un bisogno di trasparenza, così da favorire una

scelta informata libera, una libertà sottoposta al tribunale economico del miglior

investimento.

Il messaggio è chiaro: i sistemi tradizionali devono essere modificati per renderli molto più aperti e flessibili, in modo da permettere ai discenti di accedere a un

846 Comunicazione della Commissione, “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente”, COM(2001) 678 finale, Op. cit., p.4,

847 Ibid.

848 Ibid.

849 Ivi., p. 11

850 «Mentre le politiche tradizionali hanno avuto la tendenza a insistere troppo sui dispositivi istituzionali, l’apprendimento permanente si concentra sulle persone e sulle aspirazioni collettive ad una società migliore. Il principio dell’apprendimento permanente tiene conto dell’insieme dell’offerta e della domanda di opportunità d’apprendimento», Ivi., p. 8

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percorso di apprendimento di loro scelta, in funzione dei loro bisogni e interessi, fruendo così delle pari opportunità lungo tutto l’arco della loro vita.851

Affinché le opportunità di apprendimento offerte dalle istituzioni scolastiche siano

vantaggiose (pertinenti), si suggerisce lo sviluppo di una governance multilivello: da un

lato, attraverso la costruzione di partenariati, gli stakeholders (i “portatori di

interesse”) sono invitati a «collaborare onde far progredire l’agenda»852, a «mantenere

il ritmo»853, a cooperare «per far sì che le strategie siano efficaci “sul terreno”»854;

dall’altro, l’Unione favorisce «identificazione dei problemi, delle idee e delle priorità

comuni, mediante lo scambio di conoscenze, di buone pratiche e di esperienze e

mediante esercizi di valutazioni tra pari, onde permettere la realizzazione di azioni

negli Stati membri e/o la messa in atto di strumenti e processi europei»855.

In linea con le indicazioni della Commissione, in occasione del Consiglio di

Barcellona del 2002, il Consiglio “Istruzione” presenta un programma di lavoro con

calendario dettagliato di obiettivi concreti da realizzare entro il 2010: il programma

“Istruzione e formazione 2010” (ET 2010). In concomitanza con il Consiglio dell’Unione

Europea del 12 maggio 2009, vicini alla data di scadenza, ma ancora lontani dagli

obiettivi prefissati, il programma è stato aggiornato definendo un nuovo quadro

strategico per la cooperazione europea, rinominato “Istruzione e formazione 2020” (ET

2020)856, intrecciato al programma quadro per l’innovazione e la ricerca denominato

Horizon 2020, che declina la Strategia di Lisbona nei termini di una crescita intelligente,

sostenibile e inclusiva. Ribadendo l'importanza dell'istruzione e della formazione «sia

per l'occupazione sia per la promozione dei valori fondamentali e della cittadinanza

attiva», ET2020 indica sei ambiti di intervento prioritario:

(1) capacità e competenze significative e di alta qualità, con particolare attenzione ai risultati dell'apprendimento per l'occupabilità, l'innovazione e la cittadinanza attiva;

851 Ivi., p. 4

852 Ivi., p.5

853 Ivi., p.33

854 Ivi., p.4

855 Ivi., p.30

856 Consiglio,“Informazioni provenienti dalle istituzioni e dagli organi dell‟Unione Europea”, Conclusioni del Consiglio del 12 maggio 2009 su un quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell'istruzione e della formazione (“ET 2020”), 2009/C 119/02, Bruxelles, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2009:119:0002:0010:IT:PDF, ultima consultazione 27/01/2018

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(2) istruzione inclusiva, uguaglianza, non discriminazione e promozione delle competenze civiche; (3) istruzione e formazione aperte e innovative, anche attraverso una piena adesione all'era digitale; (4) forte sostegno al personale del settore dell'istruzione; (5) trasparenza e riconoscimento di competenze e qualifiche per facilitare la mobilità di studenti e lavoratori; (6) investimenti sostenibili, prestazioni ed efficienza dei sistemi di istruzione e formazione.857

Tra questi, il primo ambito assume nei documenti europei una dimensione centrale, a

cui sembrano subordinati tutti gli altri. Nel 2015, a vent’anni di distanza dal libro bianco

di Cresson, la Commissione europea pubblica la comunicazione Ripensare l'istruzione:

investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici. Al centro del

ripensamento sono le strategie attraverso le quali provare a risolvere un antico

problema, quello della disoccupazione. Il problema appare qui riconfigurato nella forma

individuale dell’occupabilità:

I sistemi di istruzione e formazione europei continuano a non essere in grado di fornire le abilità adeguate per l'occupabilità e non collaborano adeguatamente con le imprese o i datori di lavoro per avvicinare l'apprendimento alla realtà del mondo del lavoro. Questo mancato incontro tra domanda e offerta di abilità suscita una crescente preoccupazione per la competitività dell'industria europea.858

Il concetto di competenza – finora paradigma centrale per comprendere i risultati

dell’apprendimento – è qui ridotto alla sua sola componente abilità (skill),

accentuando l’importanza che l’Unione Europea attribuisce al valore tecnico-

produttivo degli apprendimenti.

È infatti dalle abilità che dipende la capacità dell'Europa di incrementare la produttività. Nel lungo periodo le abilità possono attivare l'innovazione e la crescita, spostare la produzione nella parte più alta della catena del valore, stimolare la concentrazione di abilità di livello più elevato nell'UE e plasmare il futuro mercato del lavoro.859

857 Sintesi “Relazione congiunta 2015 sull’attuazione della cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione e sulle nuove priorità”, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/LSU/?uri=celex:52015XG1215(02), ultima consultazione 27/01/2018

858 Comunicazione della Commissione “Ripensare l'istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici”, COM(2012) 669 final, p.2, http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2012/IT/1-2012-669-IT-F1-1.Pdf, ultima consultazione 27/01/2018

859 Ibid.

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Come orientare i sistemi di istruzione e formazione verso un modello di insegnamento

centrato sulle abilità innovative? Valutazione, auto-valutazione, la costruzione di un

profilo delle abilità sono indicati dalla Commissione quali strumenti ottimali.

Spesso la valutazione determina ciò che è considerato importante e ciò che è insegnato. *…+ Occorre sfruttare l'efficacia della valutazione definendo le competenze in termini di risultati dell'apprendimento ed estendendo la portata dei relativi test ed esami. Bisogna anche utilizzare maggiormente la valutazione formativa, quale strumento a sostegno dell'apprendimento quotidiano di abilità da parte degli studenti. Le abilità dovrebbero poter essere valutate, convalidate e riconosciute al di fuori della scuola in modo che si possa tracciare un profilo delle abilità da presentare a potenziali datori di lavoro.860

Le abilità, come di consueta precisazione, sono fondamentali per risolvere tanto i

problemi di disoccupazione quanto per affrontare le sfide sociali (favorendo

cittadinanza attiva, sviluppo personale e benessere). Tuttavia, in questo momento

storico,

le sfide più urgenti che gli Stati membri devono affrontare riguardano le esigenze dell'economia e la ricerca di soluzioni alla disoccupazione giovanile in rapido aumento. La presente comunicazione si concentra sull'erogazione di abilità adeguate per il mondo del lavoro, sull'incremento dell'efficienza e su una maggiore inclusività dei nostri istituti di istruzione e formazione e sulla collaborazione con tutti gli stakeholder.861

Tra i nuovi obiettivi al cui raggiungimento gli Stati membri sono chiamati a collaborare

troviamo quello di ripensare le istituzioni scolastiche, creando un ambiente capace di

«stimolare l’apprendimento aperto e flessibile», facilitando l’acquisizione di abilità utili

alla società del nostro tempo. Ciò è promosso a scapito di un modello scolastico

istituzionale, fondato su pratiche di insegnamento e di studio, capace di garantire a

tutti un tempo libero (scholé), dedicato all’esercizio del pensiero e della conoscenza, il

cui valore pratico si misurava - anche - nella capacità di formulare un giudizio politico,

di assumere una posizione morale nel mondo.

L'istruzione e la formazione possono contribuire alla crescita e alla creazione di posti di lavoro solo se l'apprendimento è incentrato sulle conoscenze, sulle abilità e sulle competenze che gli studenti devono acquisire (risultati dell'apprendimento) attraverso il processo di apprendimento invece che sul completamento di un determinato ciclo o sul tempo trascorso a scuola.862

860 Ivi., p. 8

861 Ivi., p. 2

862 Ivi., p. 8

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L'approccio basato sui risultati dell'apprendimento costituisce già il fondamento del quadro europeo delle qualifiche e dei quadri nazionali delle qualifiche, ma questo radicale cambiamento di prospettiva non si è ancora pienamente ripercosso sull'insegnamento e sulla valutazione. Gli istituti di istruzione e formazione a ogni livello devono ulteriormente adattarsi per accrescere la pertinenza e la qualità del contributo educativo offerto agli studenti e al mercato del lavoro, per ampliare l'accesso e facilitare il passaggio tra vari percorsi di istruzione e formazione.863

Ancora una volta l’appello è rivolto a mobilitare, all’interno di un quadro di azione

congiunta tra mondo dell’educazione e mondo del lavoro, “tutte le forze del paese” sia

nello sforzo di finanziamento che nella formulazione di strategie. Si ribadisce, inoltre,

l’importanza di diffondere cultura e strumenti di una valutazione basata sui risultati di

apprendimento, quale via di ri-orientamento delle modalità di insegnamento. A tal

fine, la formazione e il reclutamento degli insegnanti devono essere riorganizzati

«ricorrendo a criteri basati sulle competenze. *…+ [I]n modo da attrarre e trattenere nel

mondo dell'insegnamento candidati di qualità»864. Tra le competenze fondamentali,

“ovviamente”, vi sono quelle digitali e quelle di saper adattare i percorsi di istruzione e

formazione alle richieste del mondo del lavoro.

Un’attenzione particolare meritano i documenti e le modalità di lavoro con cui

l’Unione Europea promuove interventi mirati sul fronte strettamente scolastico. Uno

strumento fondamentale, ad esempio, è il Working Group on Schools, il cui mandato è

di supportare gli Stati membri nella riforma delle modalità di governance dei sistemi

scolastici, per promuovere una maggiore qualità attraverso l’innovazione sostenibile e

l’inclusione. Il lavoro del gruppo si fonda su alcuni principi guida, che devono

orientare la trasformazione delle istituzioni educative nazionali:

Building professional communities – supporting the teaching professions to collaborate and develop; enabling them to take ownership of their work with a degree of trust; supporting dialogue between different stakeholders .

Taking a learner-centred approach to creating meaningful learning environments – at all levels of decision-making – and focusing on the development of the child, rather than other external driving forces.

Developing schools as learning organisations to become contexts for change, which is about continuous improvement.

Changing mind-sets to encourage a participatory culture in school education – enabling inclusive decision-making processes.

Making well-timed policies as part of focused implementation processes for sustained and renewed change.

863 Ibid.

864 Ivi., p.12

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Improving knowledge sharing, including research, for evidence-informed change.865

Tra il 2014 e il 2015, il gruppo di lavoro ha lavorato alla costruzione di due strumenti

per gli Stati membri866. Il primo è un “online school toolkit” per le politiche

dell’Unione volte a favorire l’inclusione e combattere l’abbandono scolastico; il

secondo, da intendersi in relazione al primo, è una guida per migliorare la qualità e

l’efficacia dell’insegnamento, trasformando e modernizzando la formazione dei

docenti. Questa, da intendersi come formazione sia iniziale che permanente, deve

potenziare la flessibilità, mobilità, responsabilità, riflessività, capacità di innovazione e

cultura della collaborazione degli insegnanti. Tra le misure consigliate vi è l’istituzione

di incentivi alla formazione, quali possono essere dei crediti o dei premi, e la

costruzione di un framework delle competenze condiviso da utilizzare per la selezione

dei docenti867. Tra il 2016 e il 2018, il gruppo è concentrato sulla elaborazione di

indicazioni politiche sui temi della qualità, della continuità e delle transizioni nei

percorsi di istruzione e formazione, della formazione dei docenti e dei dirigenti

(leadership), della costruzione di reti e partenariati e delle forme di gestione delle

risorse.

Nell’ultimo anno, inoltre, la Commissione ha dedicato ben due comunicazioni al

mondo della scuola: alla fine del 2016 ha pubblicato Migliorare e modernizzare

l’istruzione. Un’istruzione di qualità per tutti, nel maggio del 2017 ha diffuso un

documento intitolato Sviluppo scolastico ed eccellenza nell’insegnamento per iniziare

la vita nel modo giusto. Nella prima pubblicazione, la Commissione sottolinea come

l’istruzione, fin dalla prima infanzia, sia essenziale «per porre le basi dello sviluppo

della persona e dell’apprendimento permanente»868. Così, «l’istruzione riveste

un’importanza strategica per le nostre società e per lo sviluppo economico»869.

865 Working Group on Schools, https://ec.europa.eu/education/policy/strategic-framework/expert-groups/schools_en, ultima consultazione 27/01/2018

866ET 2020 Highlights from the Working Groups 2014-2015, http://ec.europa.eu/dgs/education_culture/repository/education/policy/strategic-framework/expert-groups/2014-2015/group-highlights_en.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

867 http://ec.europa.eu/dgs/education_culture/repository/education/library/reports/initial-teacher-education_en.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

868 Comunicazione della Comunicazione “Migliorare e modernizzare l’istruzione. Un’istruzione di qualità per tutti”, COM(2016) 941 final, p. 4

869 Ivi., p. 2

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La prosperità e lo stile di vita dell’Europa si basano sul loro bene più importante: la popolazione. Una società in continua evoluzione e in un ambiente competitivo globale, un’istruzione di qualità è fondamentale per l’UE, al fine di garantire il mantenimento della coesione sociale e una crescita sostenuta. Per essere in grado di conseguire gli obiettivi di occupazione, crescita, investimenti e competitività, imperniando il processo sull’equità sociale, è fondamentale investire sui giovani. Offrire a tutti i cittadini un’istruzione di ottima qualità è uno dei migliori investimenti che una società possa fare.870

Un’istruzione di qualità per tutti gli studenti è fondamentale per lo

sviluppo personale, sociale e professionale, nonché per l’occupabilità nell’arco della vita, e può essere uno dei modi più efficaci per affrontare le disuguaglianze socioeconomiche e promuovere l’inclusione sociale.871

La Commissione riconosce che alcuni miglioramenti sono stati ottenuti, ma avverte che

«non vi è motivo di compiacersi. *…+ In vista dell’occupabilità, è necessario compiere

maggiori progressi»: «anche i paesi in cui si osservano buoni risultati non hanno

motivo di riposare sugli allori»872. Data la velocità dei cambiamenti tecnologici e delle

competenze richieste dal mondo del lavoro, «i sistemi di istruzione devono essere

modernizzati e la qualità dell’istruzione deve migliorare costantemente»873.

Molti sistemi di istruzione scolastica hanno difficoltà a rispondere ai cambiamenti profondi e complessi in atto nelle nostre società ed economie. È necessario che le scuole si adattino al contesto in evoluzione in cui operano, comprese l’era digitale e la crescente diversità tra gli studenti. Tutti questi aspetti richiedono non solo l’adeguamento dei programmi scolastici, ma anche modalità di insegnamento e apprendimento più diversificate per rispondere alle esigenze di tutti gli

studenti.874

Tra gli strumenti che possono facilitare l’adattamento degli istituti scolastici alle

esigenze locali vi è l’apertura delle istituzioni scolastiche, ossia la costruzione di stretti

legami tra la scuola e l’ambiente circostante, con la costruzione di partenariati e reti di

cooperazione875, in una strategia che sembra combinare «l’autonomia con la garanzia

della qualità»876. Al tempo stesso, sul piano politico, è suggerita la creazione di un

coordinamento tra le politiche educative e quelle economiche e di occupazione, un

870 Ibid.

871 Ibid.

872 Ivi., p. 3

873 Ibid.

874 Ivi., p. 5

875 Ivi., pp. 5-6

876 Ivi., p. 11

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ambito di intervento di interesse comune in cui, secondo l’articolo 148 del Trattato, gli

Stati membri devono tener conto degli orientamenti del Consiglio877.

Lo stesso discorso è ripreso nella seconda comunicazione, dove la Commissione

ribadisce, ancora una volta, come la buona istruzione sia «il combustibile per ricerca e

sviluppo, innovazione e competitività»878. In una società sempre più «mobile e

digitalizzata»879, «non basta più dotare i giovani di un bagaglio fisso di capacità o

conoscenze; è necessario sviluppare la resilienza e la capacità di adattarsi ai

cambiamenti»880. Per affrontare queste sfide, dichiara la Commissione, è inevitabile

realizzare delle riforme, che aggiornino le competenze da acquisire e trasformino i

metodi di insegnamento.

Collegare l’apprendimento con esperienza di vita reale porta a risultati migliori. L’apprendimento imperniato su progetti e sui problemi, le esperienze di lavoro sul campo o l’apprendimento attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità rafforzano la motivazione dei giovani, contestualizzano il contenuto degli studi e offrono opportunità per lo sviluppo di competenze sociali, civiche e imprenditoriali.881

Ad essere promossa è una didattica per “compiti di realtà”, da svolgersi in ambienti

digitali flessibili facilitando l’acquisizione di competenze utili ad adattarsi ai

cambiamenti improvvisi. Ad essere svalutato - e progressivamente rimosso - è

l’insegnamento di saperi non operazionalizzabili, che attraverso la presenza del

docente (la sua voce, i suoi gesti, la sua agenzialità morale) testimonia agli studenti una

forma di vita e di attenzione al mondo882.

Queste due comunicazioni sono da intendersi alla luce di una comunicazione più

ampia, pubblicata dalla Commissione nel giugno del 2016: Una nuova agenda per le

competenze per l’Europa. Lavorare insieme per promuovere il capitale umano,

l’occupabilità e la competitività. La comunicazione annuncia la necessità di rivedere il

quadro delle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 2006, per

877 Ivi., pp.8-9

878 Comunicazione della Commissione Sviluppo scolastico ed eccellenza nell’insegnamento per iniziare la vita nel modo giusto, COM(2017) 248 final, p. 2, http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2017/IT/COM-2017-248-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF, ultima consultazione 27/01/2018

879 Ivi., p.3

880 Ibid.

881 Ivi., p. 5

882 Questa nostra affermazione trova un orizzonte di senso più ampio nelle riflessioni proposte da H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1999; J. Masschelein e M. Simons, In defence of the school, Op. cit., M. Conte, Didattica Minima, Op. cit.

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«aggiornarne le definizioni, adattarlo alle nuove esigenze della società e dell’economia,

attirare nuovamente l’attenzione sui risultati di apprendimento e promuovere lo

sviluppo delle competenze degli studenti»883. Ad introduzione della nuova agenda, la

Commissione sceglie le seguenti parole:

Le competenze portano all’occupabilità e alla prosperità. Chi è dotato delle giuste competenze può aspirare a occupazioni di qualità ed esprimere appieno le proprie potenzialità in qualità di cittadino attivo e sicuro di sé. In un’economia globale in rapido mutamento le competenze determineranno in larga misura la competitività e la capacità di stimolare l’innovazione. Sono un fattore di attrazione per gli investimenti, un catalizzatore nel circolo virtuoso della creazione di posti di lavoro e della crescita ed elementi essenziali per la coesione

sociale. 884

La situazione in Europa, prosegue la Commissione, richiede – ancora una volta - un

intervento urgente: «la carenza di competenze e gli squilibri tra domanda ed offerta

di competenze sono impressionanti»885.

L’agenda per le competenze rafforza e, in alcuni casi, razionalizza le iniziative esistenti per fornire una migliore assistenza agli Stati membri nell’ambito delle riforme nazionali e per indurre un cambio di mentalità sia nelle persone che nelle

organizzazioni.886

La nuova agenda reitera una narrazione conosciuta, invocando

un impegno comune per attuare riforme in una serie di settori in cui l’azione dell’Unione apporta un valore aggiunto maggiore e verte su tre filoni di attività principale: 1. accrescere la qualità e la pertinenza della formazione delle competenze; 2. rendere le competenze e le qualifiche più visibili e comparabili; 3. migliorare l’analisi del fabbisogno di competenze e le informazioni correlate per migliorare le scelte professionali.887

All’interno di un ritornello ormai familiare, emerge come nota originale l’introduzione

di nuovi termini di matrice psicologica: il buon cittadino è chiamato d essere «sicuro di

883 Comunicazione della Comunicazione “Migliorare e modernizzare l’istruzione. Un’istruzione di qualità per tutti”, COM(2016) 941 final, Op. cit., p.6

884 Comunicazione della Comunicazione “Una nuova agenda per le competenze per l’Europa. Lavorare insieme per promuovere il capitale umano, l'occupabilità e la competitività”, COM(2016) 381 final, p. 2

885 Ibid.

886 Ivi., p.4

887 In merito al terzo punto, la Commissione avanza la seguente proposta: «i dati sul fabbisogno di competenze e sulle tendenze in materia saranno potenziati mediante il crawling del web e l'analisi dei big data e saranno ulteriormente corroborati da elementi di prova provenienti da diversi settori, che riuniscano informazioni precise e fornite in tempo reale nel servizio offerto dall'attuale "panoramica delle competenze" quale parte di un servizio Europass integrato», Ibid. La popolazione, come suggeriva Deleuze, si è trasformata in big data.

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sé»888, a «sviluppare la resilienza»889, ad acquisire competenze che «consentono di

trovarsi a proprio agio nei luoghi di lavoro e in una società in rapida evoluzione nonché

di far fronte a situazioni di complessità e incertezza»890. Altro elemento di novità è

l’importanza attribuita all’apprendimento basato sul lavoro: la costituzione di

partenariati tra le imprese e le scuole – ora «gli erogatori di istruzione»891 - è

incentivato quale strumento preferenziale per aumentare la qualità degli

apprendimenti (alias la loro pertinenza e produttività), favorendo l’acquisizione di

competenze adeguate al mercato del lavoro, comprese le competenze trasversali (soft

skills).

Ciò che emerge da questa ricostruzione è la capacità del lifelong learning di

offrirsi quale elemento chiave per esercitare un potere di orientamento sulle politiche

educative degli Stati membri, senza infrangere le condizioni di sussidiarietà ed i limiti di

competenza stabiliti dal Trattato. A renderlo possibile è la definizione molto ampia di

apprendimento permanente (che assume vesti universali a-politiche) e il carattere

trasversale di questo nuovo campo di governo (le politiche sulle “competenze” non

rientrano in un ambito di governo nazionale preesistente e al contempo possono

attraversare ciascuno di essi). Fattore decisivo per la diffusione dell’apprendimento

permanente è l’intreccio strategico tra le politiche legate all’istruzione e alla

formazione e quelle di altri settori, quali i piani di intervento per l’occupazione

giovanile (ad esempio Garanzia Giovani) o quelle per l’inclusione sociale. Come nota

Dale, «this ‘resectoralisation’ both takes distance from ‘Education’ as conventionally

perceived and is consequently not regarded as threatening, and provides a basis for

the development of European level sectors and policies»892. Al tempo stesso, come

abbiamo cercato di rilevare nel corso della ricostruzione, la diffusione di questo

principio – e dei suoi piani di attuazione - sembra riconfigurare l’istituzione scolastica e

le pratiche educative che in essa si svolgono, suggerendo un nuovo modo in cui la

scuola, i docenti e gli studenti dovrebbero governarsi ed essere governati.

888 Ivi., p.2

889 Ivi., p.6

890 Ibid.

891 L’espressione è utilizzata diffusamente in tutta la comunicazione in oggetto.

892 R. Dale, “Constructing Europe Through Constructing a European Education Space”, in M. Simons, M. Olssen e M. A. Peters (eds.), Re-reading Education Policies…, Op. cit., pp. 369-386, p. 383

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La volontà di qualità, l’imperativo della cooperazione e il desiderio di apprendimento

permanente: sono questi tre dei pilastri strutturali dell’ordine discorsivo europeo. La

bontà e la ragionevolezza di ogni proposta, di ogni strumento e di ogni strategia di

intervento si giudica davanti al “tribunale della qualità”893, valutando la sua capacità di

realizzare gli obiettivi comuni dell’Unione Europea, favorendo la collaborazione degli

Stati membri nel realizzare l’apprendimento permanente. Chi può dirsi contrario al

miglioramento della qualità dell’educazione? Come negare l’importanza di continuare

ad apprendere per tutta la vita? Come sottrarsi all’imperativo della cooperazione per

l’innovazione, senza sentirsi irrazionali, irresponsabili, reazionari? Ora che abbiamo

convocato il discorso entro cui le istituzioni scolastiche sono invitate a riorganizzarsi, le

convinzioni e le strategie che spesso diamo per scontate, vogliamo provare ad

avanzare un tentativo di distanziamento. Nel mettere in discussione l’ordine che ci è

divenuto familiare vogliamo ri-leggere il discorso politico assumendo la prospettiva

analitica degli studi governamentali.

2. Una rilettura critica

L’attitudine critica che qui si intende assumere è quella che abbiamo descritto come

ontologia del presente, per usare l’espressione di Foucault, o come fisiognomica

sociale, per recuperare l’invito adorniano. Punto di partenza di una rilettura critica

vuole essere una riflessione sul linguaggio utilizzato dall’Unione Europea nella

costruzione del proprio discorso politico. Sul suo taccuino, Victork Kemplerer annotava:

«come si suole parlare della fisionomia di un’epoca o di un paese così un’epoca si

esprime attraverso il suo linguaggio»894. La lingua, prosegue il filologo, «non si limita a

creare e a pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza il mio essere spirituale

quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. *…+ Le parole

possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non

aver alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico»895. Il

discorso educativo europeo si ripete ormai da 20 anni, qual è l’effetto che ha avuto su

di noi? Una domanda che, seguendo l’invito di Anders, potremmo così riformulare: nel

893 M. Simons e J. Masschelein, “The Permanent Quality Tribunal in Education and the Limits of Education Policy”, Policy Futures in Education, Vol. 4, N. 3, 2006, pp. 292-305

894 V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich.Il taccuino di un filologo, Firenze, Giuntina, 2011, p. 26

895 Ivi., p.32

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fare mio questo discorso, nell’utilizzarne il linguaggio e i mezzi, «che cosa sto mai

facendo? Che cosa mi si sta mai facendo?»896. Punto di avvio dell’analisi che qui

intendiamo condurre è l’attenzione ai meccanismi retorici attraverso i quali il discorso

politico costruisce e rafforza il proprio potere persuasivo. Come notava Marcuse,

ora che la sostanza dei vari regimi non si manifesta più in modi di vivere alternativi, essa si adagia in tecniche alternative di manipolazione e di controllo. Il linguaggio non soltanto riflette tali controlli ma diventa per esso uno strumento di controllo, anche là dove non trasmette ordini ma informazioni, dove non chiede obbedienza ma scelta, non sottomissione ma libertà.897

Così osservavano Adorno e Horkheimer: quando «non si presenta più una sola

espressione che non tenda a cospirare con indirizzi di pensiero dominanti»898 l’istanza

censoria si rende superflua, poiché è stata interiorizzata899. L’analisi linguistica deve

allora svilupparsi al punto da saper riconoscere e rendere visibili i meccanismi che

plasmano e definiscono i limiti del discorso, divenendo «capace di distinguere i processi

della società che hanno determinato e chiuso l’universo stabilito del discorso»900.

Un’osservazione che sembra anticipare la riflessione di Foucault:

è molto difficile prendere coscienza di tali limiti quando viviamo e pensiamo all’interno del sistema che essi ancora delimitano. Costituiscono un orizzonte familiare e proprio per questo impercettibile, e impongono un corso regolato benché immediatamente visibile alle pratiche e alle speculazioni degli uomini.901

La rilettura critica che qui si intende promuovere mira dunque a generare un effetto di

straniamento, di defamiliarizzazione, così da rendere difficile l’utilizzo di parole che ora

adoperiamo con grande facilità. La lotta lessicale è la prima forma di resistenza ad un

pensiero «ciecamente pragmatizzato»902, la forma più radicale di critica teoretica e

politica.

2.1 Effetti retorici come effetti di potere

Il ricorso all’uso dell’arte retorica come strumento dell’agire politico è una pratica che

affonda le sue origini in tempi antichi: l’utilizzo di una particolare tecnica

896 G. Anders, L’uomo è antiquato, Op. cit., p. 99

897 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Op. cit., p. 114

898 T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Op. cit., p. 4

899 Ivi., pp.4-5

900 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Op. cit., p. 114

901 M. Foucault, “Relazione prima” in L’ordine del discorso, Op. cit., p. 56

902 T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Op. cit., p. 5

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argomentativa, di un discorso emotivo o raziocinante, l’adozione di metafore o di una

costruzione narrativa capaci di influenzare l’opinione pubblica, abitano da sempre la

produzione discorsiva degli oratori politici.

In relazione alle politiche educative utilizzate dall’Unione Europea, una certa

letteratura critica ha descritto certi discorsi come “puramente retorici”, come “vuota

retorica”, utilizzando il concetto di retorica per indicare la lontananza dalla realtà, la

falsità di un discorso, il suo contrapporsi ad un discorso politico vero. Come scrive

Kathrine Nicoll, «to suggest that a policy discourse is ‘simply’ spin or ‘empty’ rhetoric

implies that there is a more truthful or honest political discourse»903. In questa sede,

tuttavia, si intende assumere una prospettiva differente, riconoscendo come le

strategie retoriche siano intrinseche ad ogni linguaggio politico, nel suo tentativo di

configurare una descrizione del mondo che sia persuasiva per l’uditorio, che configuri il

suo orizzonte di pensiero e le sue attitudini. Le politiche, ricorda Ball, «are both systems

of values and simbolic systems; ways of representing, accounting and legitimating

political decisions»904. Così facendo, incorporano il significato e l’uso di proposizioni e

parole, costruendo specifiche possibilità di pensiero.905

Nel tentativo di mettere in discussione la necessità di riformare i sistemi

scolastici secondo la strategia dell’apprendimento permanente - volendo destabilizzare

la presa che questo discorso ha su di noi - vogliamo provare a chiedere: «what

rhetorical strategies are involved in representing it as a requirement? With what

effects?». Come afferma Nicoll,

If we can go some way to answering such questions then we may begin to understand how policy works as persuasion and become more discerning as to the way in which problems and possibilities are framed and fabricated. We may also be able to reconfigure our responses to policy.906

903 K. Nicoll, “A Politics of Spin. Lifelong Learning Policy as Persuasion”, in M. Simons, M. Olssen e M. A. Peters (eds.), Re-Reading Education Policies…, Op. cit., p. 390

904 S. J. Ball, “Big Policies/Small World: an introduction to International perspectives in education policy”, Op. cit., p. 124

905 S. J. Ball, “What Is Policy? Texts, Trajectories and Toolboxes”, Discourse: Studies in the Cultural Politics of Education, 1993, 13 (2), pp. 10-17

906 K. Nicoll, “A Politics of Spin. Lifelong Learning Policy as Persuasion”, Op. cit., p. 390. In questa direzione anche i seguenti lavori: R. Edwards e K. Nicoll, “Researching the rhetoric of lifelong learning”, Journal of Education Policy, 16 (2), pp.103-112; R. Edwards, K. Nicoll, N. Solomon e R. Usher, Rhetoric and educational discourse: Persuasive Texts, London, RoutledgeFalmer, 20004, K. Nicoll, “Sultans of spin: Policy as persuasion”, Journal of Education Policy, 19 (1), pp. 43-55

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Tra i primi strumenti di analisi che possiamo utilizzare troviamo le nozioni di “retorica

offensiva” e “retorica difensiva”, proposti da Jonathan Potter907 e ripresi dalla stessa

Nicoll. Le strategie retoriche lavorano in senso offensivo quando mettono in atto dei

processi di reificazione ed in senso difensivo quando utilizzano le armi dell’ironia.

Reification is done through strategies to put some position, objects, or narrations of the world beyond question, to naturalise or ontologically gerrymander them. Ironizing attempts to undermine a potential alternative narration or position, in advance or in retrospect, by, for instance, positioning it as spin, or, *…+ by incorporating aspects of one argument into another.908

All’interno dei documenti attraversati queste strategie si rendono frequentemente

visibili. Una strategia di reificazione piuttosto comune è quella di “nominalizzazione”,

utilizzata per trasformare dei processi, delle realtà contingenti, in fatti, in realtà

naturali. Così, secondo la narrazione delle politiche presentate, la “competizione

globale”, “la società dell’informazione”, l’“economia della conoscenza”, l’“era di

incertezza”, “l’età digitale”, il “mercato del lavoro”, i “bisogni educativi”,

“l’apprendimento permanente” sono rappresentati come fatti, realtà ambientali che

diamo per scontato esistere, dimenticando che sono effetto di azioni da parte di

soggetti specifici.

What this does is to set up and reify a range of objects that appear to exist externally to our action, they become the ‘natural’ background in terms of which we must act.909

Un’altra strategia di uso comune si basa sull’adozione della forma passiva e

impersonale: formule come “si crede”, “come tutti sanno”, “è evidente che” sono

utilizzate per potenziare l’autorità di ciò che è affermato, nascondendo l’autore delle

affermazioni che seguono e favorendo un effetto di immedesimazione, di adesione a

una verità che si offre come universalmente condivisa. Vi è poi ciò che gli studiosi

chiamano “ontological gerrymandering”, per indicare come certe realtà siano

utilizzate, al tempo stesso, come dati di fatto e come risultati da conseguire. È questo il

caso della “società e dell’economia della conoscenza”, termini che compaiono

all’interno dei discorsi politici sia come obiettivo da conseguire, una realtà da costruire

attraverso certe politiche, sia come realtà effettiva, fonte di rischi a cui le politiche

907 J. Potter, Representing reality: Discourse, rhetoric and social construction, London, Sage, 1996

908 K. Nicoll, “A Politics of Spin. Lifelong Learning Policy as Persuasion”, Op. cit., p. 391

909 Ivi., p. 396

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devono saper rispondere. Così, il lifelong learning è presentato sia come uno

strumento per realizzare la società della conoscenza sia come una strategia per

adattarsi alle sue richieste.

The knowledge-driven society and economy are then quite contradictorily represented within description even from within the same policy text. They are both represented as constructed by social action and as objects that are already on (or at last entering) the stage of policy . *…+ This tendency for a blurring of the ontological and temporal status is confused and confusing. In part, this affords them their rhetorical utility, as they can be positioned multiply and ambiguously within descriptions as long as their detail is not spelt out.910

L’ambivalenza o polivalenza di un termine, tra cui quella dello stesso lifelong learning,

favorisce la sua assimilazione all’interno di un gruppo eterogeneo di discorsi, «an thus

operate to manage allegiance effectively within and across them»911: il lifelong learning

è presentato come idea pedagogica che affonda le proprie radici nella tradizione cinese,

nella filosofia greca, nello spirito del Rinascimento Europeo; al tempo stesso è veicolo di

una prospettiva neoliberista che guarda all’educazione quale modalità di investimento

nel capitale umano.

Per quanto riguarda l’utilizzo di strategie difensive, è interessante notare

l’utilizzo del concetto di rischio all’interno del discorso delle politiche educative

europee. La categoria di rischio è utilizzata per depotenziare la posizione di chi

sottolinea l’aumento di ineguaglianza che l’economia della conoscenza porterebbe con

sé. Rappresentando questo aumento utilizzando il concetto di rischio si attribuisce un

carattere solamente probabile alla sua occorrenza e si riconfigura la disparità sociale

come una evenienza che può e deve essere evitata tramite il potenziamento

dell’apprendimento permanente. «Given its contextualization as integral to the

knowledge economy and society - osserva Nicoll - to then position lifelong learning as

that which will ameliorate the risks associated with this economy and society appears

strange. Risks become a support for the exigence for lifelong learning»912. Attraverso il

concetto di rischio, il discorso neutralizza la radicalità delle critiche avversarie,

assumendole al proprio interno come argomento a favore dell’apprendimento

permanente. Al tempo stesso, la costruzione di una narrazione fondata sul pericolo e

910 Ivi., p. 398

911 Ivi., p. 399

912 Ivi., p. 400

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sull’urgenza sembra squalificare ogni possibile critica attribuendole effetti catastrofici,

in quanto causa di rallentamento, di ostacolo al progresso e di mancata assunzione di

responsabilità.

Nel descrivere i meccanismi retorici che costruiscono la persuasività del

discorso documentale emergono alcune somiglianze tra l’orizzonte del linguaggio

europeo e quello del mondo ad una dimensione descritto da Marcuse913. Il regime di

verità costruito dall’Unione Europea e il linguaggio della società industriale avanzata,

presentano, infatti, dei caratteri comuni: in entrambi, abbondano le formule auto-

validanti (la qualità!), i comandi suggestivi ed evocativi (mettersi al lavoro, mantenere il

ritmo), le sentenze efficaci (tutti i dibattiti sono esauriti, non c’è altra soluzione), gli

asserti (è ormai riconosciuto), gli slogan e cliché ripetuti, l’utilizzo di un tono diretto,

popolare, spingendo l’interesse personale ad identificarsi con quello generale, con i

bisogni della società europea (c’è bisogno dello sforzo di tutti, ne va del nostro futuro).

Nel discorso europeo si ritrova «l’identificazione immediata della ragione con il fatto,

della verità con la verità stabilità, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la

funzione»914 in cui Marcuse indica i caratteri di un universo linguistico chiuso, che

riduce gli spazi del pensiero. Il linguaggio abbreviato, funzionalista, ipnotico, «immune

dall’esperienza della protesta e del rifiuto»915, capace di assimilare tutti gli altri termini

ai propri, spinge «ad accettare ciò che viene offerto nella forma in cui è offerto»916.

Nell’utilizzo di sigle e formule linguistiche ormai standardizzate, Marcuse scorge una

possibile «astuzia della ragione» per poter «eliminare domande non gradite»: le

abbreviazioni

denotano solo e soltanto ciò che è istituzionalizzato in modo tale da tagliar fuori ogni connotazione trascendentale. Il significato è rigido, manipolato, caricato ad arte. Una volta divenuto linguaggio ufficiale, continuamente ripetuto nell’uso comune, “sanzionato” dagli intellettuali, esso ha perso ogni valore cognitivo e serve solo per richiamare un fatto fuori discussione917.

913 Quanto segue è una rielaborazione parziale e sintetica dell’analisi già pubblicata in S. Magaraggia, “Il discorso educativo europeo. Un esercizio di smascheramento”, in M. Conte, La forma impossibile, Op. cit., pp. 93-123

914 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione…, Op. cit., p. 97

915 Ivi, p. 112

916 Ivi, p. 102

917 Ivi., p. 106

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Tra questi, il discorso del lifelong learning emerge con il carattere magico-autoritario

della ripetizione mantrica e la persuasività delle soluzioni semplici e rassicuranti918. Le

forme linguistiche evidenziate contribuiscono alla costruzione di un discorso politico

che sembra neutralizzare (o assimilare) ogni critica, imponendosi con la necessità

incontrovertibile del destino, l’efficacia di una strategia di choc. Il potere retorico di

questo discorso è un potere di tipo proscrittivo, che rende difficile il pensare al di fuori

dei suoi stessi limiti. La sua diffusione sistematica e coordinata - nei documenti europei,

nelle dichiarazioni delle agenzie internazionali, nei testi di riforma nazionale - ne fanno

una «strategia di saturazione del discorso» che, come nota Riccardo Massa, «non lascia

spazio a una riappropriazione sociale e culturalmente significativa della vita

scolastica»919. Nel tentativo di creare una breccia, una frattura in questo discorso così

compatto, vogliamo mettere all’opera un ulteriore strumento di analisi: il concetto di

mito elaborato da Roland Barthes. La riflessione di Barthes attorno al «mito

contemporaneo», nasce proprio da

l’insofferenza *vissuta+ davanti alla “naturalità” di cui incessantemente la stampa, l’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica.920

2.2 Lifelong Learning come mito

Che cos’è un mito? Nel suo significato più comune, il termine mito indica le storie che

alcuni popoli credono (o credevano) essere spiegazioni vere del funzionamento o

dell’origine del mondo naturale. Usando questo termine in senso metaforico, la parola

“mito” - in modo non dissimile dall’aggettivo “retorico” – è utilizzato con accezione

peggiorativa, per indicare una narrazione che chiede di essere demistificata dalla

ragione, per svelare la falsità di un certo discorso e descrivere la vera realtà. Utilizzare il

termine mito in questo senso, afferma la filosofa politica Chiara Bottici, significa

assumere «an enlightened approach to myth, which looks at it from the standpoint of

918 S. J. Ball, “Big Policies/Small World: an introduction to International perspectives in education policy”, Op. cit., p. 124. Qui, Ball suggerisce «that advocacy of the market or commercial form for educational reform as the ‘solution’ to educational problems is a form of ‘policy magic’ or what Stronach (1993) called a ‘witchcraft’: a form of reassurance as well as a rational response to economic problem (p.6). One of the attraction here is the simplicity of the formula on which the magic is based».

919 R. Massa, Cambiare la scuola , Op. cit., p. 15

920 R. Barthes, Miti d’oggi, Op. cit., p. XIX

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the logos»921. Muovendo dagli studi di Hans Blumenberg, Bottici si concentra su un

altro significato della parola mito, che assume la sua rilevanza all’interno del mondo

socio-politico e chiede di sviluppare un approccio analitico differente. La studiosa porta

la sua attenzione sul “mito politico”, ossia una narrazione comune che, dotata di un

persuasivo potere simbolico, è capace di fornire significato alla condizione e

all’esperienza politica di un certo gruppo sociale. Un mito socio-politico è una sorta di

«mapping device through which we look at the world, feel about it and therefore also

act within it as a social group»922. Considerandone il meccanismo di funzionamento,

Bottici riconosce al mito una duplice capacità di azione: il mito offre una descrizione del

mondo, ma al tempo stesso struttura il campo di azione, contribuendo alla realizzazione

di una certa visione del mondo. La doppia funzione del mito, osserva Bottici, ne rende

impossibile ogni verificazione o falsificazione:

[it] cannot be simply “true” or “false” because it aims, so to speak, to create its own truth. *…+ *A+ political myth is not only the result of an existing identity, but is the means of creating an identity yet to come, and therefore always tends to turn into a self-fulfilling prophecy923.

Un meccanismo che abbiamo visto in atto all’interno delle politiche educative europee,

in merito all’utilizzo di espressioni come società ed economia della conoscenza, che

agiscono al tempo stesso come realtà già esistenti e come visioni della realtà da

costruire. Per approfondire la comprensione di questo meccanismo, crediamo sia

possibile rivolgerci alla riflessione teorica elaborata da Barthes nel saggio intitolato “Il

mito, oggi”. Dopo aver presentato, in modo sintetico, gli elementi principali della sua

concettualizzazione, cercheremo di mostrare come la narrazione del lifelong learning

possa essere compresa quale mito centrale del discorso educativo del nostro

presente.924

921 C. Bottici e B. Challand, “Rethinking Political Myth. The clash of Civilizations as a Self-Fulfilling Prophecy”, European Journal of Social Theory, 9(3), 2006, pp.315-336, p. 316

922 Ivi., p. 321

923 C. Bottici, “Philosophies of Political Myth, a Comparative Look Backwards. Cassirer, Sorel and Spinoza”, European Journal of Political Theory, 8(3), 2009, pp. 365-382, p. 366

924 Per un uso simile del mito barthesiano nell’analisi del discorso educativo contemporaneo si veda: P. Standish, ‘Educational Discourse: meaning and mythology’, Journal of Philosophy of Education, 25 (2), 1991, 171-182, P. Standish, ‘Sign of the times: Iconography of a new education’, in Smeyers P. and Depaepe M. (Eds.) Educational Research: Material Culture and Its Representation, Springer International Publishing, 2013, pp. 179-189

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Il mito, scrive Barthes, è una parola, ma, come possiamo immaginare, «non è

qualsiasi parola»925. Il mito non è «un oggetto, un concetto, o un’idea; bensì un modo

di significare, una forma»926. Essa presenta dei limiti storici, delle condizioni d’uso,

degli investimenti nella società, ma deve in primo luogo essere riconosciuta e descritta

nei suoi aspetti formali, come modo di significazione. Come ricorda Barthes, «ci sono

limiti formali al mito, non ce ne sono di sostanziali. Tutto dunque può essere un mito.

*…+ *P+uò essere mito tutto ciò che subisce le leggi di un discorso»927. Qual è dunque

questa legge? Quali sono le caratteristiche specifiche della “forma” mito? Per

descriverla Barthes attinge al lessico specifico dell’analisi semiologica, di cui la

mitologia è branca storica: essa studia le «idee in forma»928.

Nel mito si ritrova appunto lo schema tridimensionale: il significante, il significato e il segno. Ma il mito è un sistema particolare in quanto si edifica sulla base di una catena semiologica preesistente: il mito è un sistema semiologico secondo.929

Ciò che è segno (cioè totale associativo di un significante e di un significato) nel primo

sistema, nel secondo diventa semplice significante. Uno spostamento che Barthes

rappresenta con il seguente schema:

Come spiega Barthes,

Risulta evidente che nel mito ci sono due sistemi semiologici, di cui l’uno è sfasato in rapporto all’altro: un sistema linguistico, la lingua (o i modi di rappresentazione assimilabili), che chiamerò linguaggio-oggetto, perché è il linguaggio a cui il mito si aggancia per costruire il proprio sistema; e il mito stesso, che chiamerò metalinguaggio, perché è una seconda lingua nella quale si parla della prima.930

Così, riferendoci al noto esempio del giovane soldato nero sulla copertina della rivista

Paris-Match, Barthes riconosce che al segno linguistico - riconoscibile in «un soldato

925 R. Barthes, Miti d’oggi, Op. cit., p. 191

926 Ibid.

927 Ibid.

928 Ivi., p. 194

929 Ivi., p. 196

930 Ivi., p. 197

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negro fa il saluto militare francese» – si sovrappone un ulteriore significato – ossia un

misto «di francità e di militarità»931. Per marcare la differenza tra il segno linguistico e

quello mitico, Barthes descrive il terzo termine del primo sistema con la parola

“senso” e il terzo termine del secondo sistema con la parola “significazione”. Usando

la parola significazione, che in francese porta con sé un’accezione giuridica, Barthes

vuole sottolineare la doppia funzione del mito, che nello stesso tempo «designa e

notifica, fa capire e impone»932. Come il mito socio-politico descritto da Bottici, la

forma mitica analizzata da Barthes, «si presenterà come una notificazione e, insieme,

come una constatazione»933. Non si limita a veicolare una rappresentazione (che può

dirsi vera o falsa), ma orienta il comportamento di chi lo riceve, suscitando un certo

stile di vita, promuovendo un certo tipo di valori. Fondamentale, in questa

operazione, è il rapporto che il mito instaura tra il senso e la forma (ossia il primo

termine del secondo sistema semiologico).

Come totale di segni linguistici, il senso del mito ha un valore proprio, fa parte di una storia *…+ una significazione, nel senso, è già costruita, e tale che basterebbe benissimo a se stessa se il mito non l’afferrasse e non ne facesse immediatamente una forma vuota, parassitaria. Il senso è già completo, postula un sapere, un passato, una memoria, un ordine comparativo di fatti, di idee, di decisioni. Diventando forma, il senso allontana la sua contingenza; si svuota, s’impoverisce, la storia evapora, resta la lettera, una regressione anormale del senso alla forma, dal segno linguistico al significante mitico.934

Importante è allora riconoscere che il mito è sempre «una parola scelta dalla storia: il

mito non può sorgere dalla ‘natura’ della cose»935. Ma il punto capitale, precisa

Barthes, è che la forma mitica

non sopprime il senso, semplicemente lo impoverisce, lo allontana, lo tiene a disposizione. Si pensa che il senso sia destinato a morire, ma è una morte in sospeso: il senso perde il proprio valore ma conserva la vita, di cui si nutrirà il mito. Il senso sarà per la forma come una riserva istantanea di storia, come una ricchezza disponibile, che si può richiamare e allontanare in una rapida alternanza; bisogna che la forma possa continuamente rimettere radice nel senso e alimentarvisi di natura; bisogna soprattutto che possa nascondervisi. Questo continuo gioco a rimpattino tra il senso e la forma definisce, appunto, il mito936.

931 Ivi., p. 198

932 Ivi., p. 199

933 Ivi., p. 205

934 Ivi., p. 199

935 Ivi., p. 192

936 Ivi., p. 200

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La presenza del senso viene presa a prestito da un concetto, che innesta una nuova

storia sul mito:

il sapere del concetto mitico è un sapere confuso, formato da associazioni incerte, indefinite. Bisogna insistere su questo carattere aperto del concetto: non è affatto un’essenza astratta, purificata, bensì una condensazione informe, instabile, nebulosa, la cui unità e coerenza dipendono soprattutto dalla funzione. In questo senso si può dire che il carattere fondamentale del concetto mitico è di essere appropriato *…+ il concetto risponde strettamente a una funzione, si definisce come una tendenza.937

Condizione necessaria alla costruzione del mito è che il concetto non abolisca il senso,

ma si limiti a deformarlo. È questa deformazione a consentire l’ambivalenza e l’ubiquità

del significante: «il senso è sempre pronto a presenziare la forma; la forma a distanziare

il senso. E non c’è mai contraddizione, conflitto, deflagrazione tra il senso e la forma:

essi non si trovano mai nel medesimo punto»938. Grazie a questa ambiguità la parola

mitica lavora come denotazione e notifica, esercitando un potere imperativo ed

interpellatorio: «nato da un concetto storico, sorto direttamente dalla contingenza *…+

viene a cercare me: è diretto verso di me e ne subisco la sua forza intenzionale, mi

intima di ricevere la sua ambiguità espansiva»939.

Nei confronti del mito, scrive Barthes «gli uomini non sono in un rapporto di

verità, ma di uso»: il mito esercita una funzione, ha una dimensione intenzionale che,

lontana dall’essere naturale e universale, è arbitraria e contingente. Ma «il mito ha il

compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come

eternità»940, operando « il rovesciamento dall’anti-physis in pseudo-physis »941. In

questo senso, precisa Barthes, « il mito è una parola depoliticizzata»942.

Naturalmente bisogna intendere politica nel senso profondo, come insieme dei rapporti umani nella loro struttura reale, sociale, nel loro potere di fabbricazione del mondo; soprattutto, bisogna dare un valore attivo al prefisso de-; esso rappresenta in questo caso un movimento operativo, attualizza incessantemente una defezione. *…+ Il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come

937 Ivi., p. 201

938Ivi., p. 205. E nella stessa pagina prosegue: «mi sarà possibile stupirmi di questa contraddizione solo sospendendo volontariamente questa alternanza di forma e di senso, puntando su ciascuno di essi come un oggetto distinto dall’altro, e applicando al mito un procedimento statico di decifrazione, contrariando insomma la sua dinamica propria: in una parola passando dallo stato di lettore del mito a quello di mitologo».

939 Ivi., p. 202

940 Ivi., p. 222

941 Ivi., p. 223

942 Ibid.

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eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione: se io constato l’imperialità francese senza spiegarla, mi ci vuole ben poco per trovarla naturale, qualcosa che va da sé: ed eccomi rassicurato.

Il mito è vissuto come parola innocente «non perché le sue intenzioni siano nascoste -

se fossero nascoste non potrebbero avere efficacia - ma perché sono naturalizzate»943.

Il mito esiste nel momento in cui la motivazione passa allo stato di natura944:

La causa che fa proferire la parola mitica è perfettamente esplicita, ma è immediatamente bloccata in una natura; non viene letta come movente, ma

come ragione.945

Questo effetto di de-politicizzazione (che presenta una scelta politica come ovvia e

ragionevole) è reso possibile da alcune forme retoriche, delle «figure fisse, regolate,

ridondanti nelle quali vengono a ordinarsi le forme svariate del significante mitico»946.

Al termine del suo saggio, Barthes presenta le figure retoriche più diffuse nel linguaggio

mitico:

1) Il vaccino. Consiste nell’immunizzare « l’immaginario collettivo mediante una piccola

inoculazione del male riconosciuto: lo si difende così dal rischio di un sovvertimento

generalizzato»947. Si ammettono delle storture collaterali, delle inefficienze, dei

problemi ancora da risolvere, così da evitare una critica di sistema.

2) La privazione di storia. Il mito seleziona un elemento contingente della storia, una

parola, e lo fa apparire come una realtà naturale o un’astratta necessità: «nulla è

prodotto, niente è scelto: non resta che possedere questi oggetti nuovi di cui si è fatta

sparire ogni traccia inquinante di origine e di scelta»948.

3) L’identificazione. Ossia l’incapacità di accogliere l’Alterità. L’Altro è ridotto al

medesimo, è assimilato, è incluso, è compreso attraverso una proiezione delle proprie

caratteristiche.

4) La tautologia. Ossia il processo verbale che consiste nel definire l’identico con

l’identico, istituendo un mondo immobile. La tautologia si carica di un potere magico –

ipnotico, che trova riparo in un argomento di autorità.

943 Ivi., p. 231

944 Ivi., p. 211

945 Ivi., p. 210

946 Ivi., p. 230

947 Ibid.

948 Ivi. , p. 231

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5) Il neneismo. Figura mitologica che consiste «nello stabilire due contrari e nel

soppesarli l’uno con l’altro in modo da rifiutarli ambedue. (Non voglio né questo né

quello)»949. Comporta il rifiuto di riconoscere differenze radicali tra i fenomeni,

cercando sempre un compromesso, una via di mezzo. Una sua forma degradata è quella

di affiancare ad un male un bene di eguale valore: così il male è sempre prudentemente

pronosticato in una prospettiva di compenso.

6) La quantificazione delle qualità. «Riducendo ogni qualità a una quantità il mito fa

economia di intelligenza: intende il reale con minor spesa»950. Così ogni qualità – anche

quelle che si vorrebbero immateriali – è resa computabile, e le differenze qualitative

sono ridotte a differenze di grado secondo rapporti di comparazione quantitativa.

7) La constatazione. Nell’utilizzo del senso comune la parola «si arresta all’ordine

arbitrario di chi parla»951: un regime di verità è presentato come buon senso, come

unica realtà ragionevole.

Queste figure retoriche, dichiara Barthes, consentono ai miti di immobilizzare il mondo,

oscurandone la fabbricazione perpetua952:

Bisogna che i miti suggeriscano e mimino un’economia universale che ha fissato una volta per tutte la gerarchia dei possedimenti. Così, ogni giorno e dappertutto, l’uomo è fermato dai miti.953

Così, scrive Barthes, il mito è «integralmente un divieto all’uomo di inventarsi»954. O,

potremmo in termini foucaultiani, a governarsi diversamente:

I miti non sono altro che questa sollecitazione incessante, instancabile, questa esigenza insidiosa e inflessibile secondo cui tutti gli uomini dovrebbero riconoscere in quella immagine eterna, e tuttavia situata nel tempo, che di essi un giorno è stata costruita come se destinata a valere per sempre. Perché la Natura in cui li si rinchiude sotto pretesto di eternarli è solo un “uso”. E proprio quest’uso, per grande che sia, essi devono prendere in mano per trasformarlo.955

Ora che abbiamo recuperato i tratti generali del mito barthesiano vorremo provare a

mostrare come, all’interno del quadro documentale europeo, il regime di verità del

lifelong learning assuma oggi una forma mitica.

949 Ivi., p. 233

950 Ibid.

951 Ivi., p. 234

952 Ibid.

953 Ivi., pp. 234-235

954 Ivi., p. 235

955 Ibid.

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Investito di un ruolo chiave entro il progetto politico dell’Unione Europea, il lifelong

learning è un riferimento diffuso in raccomandazioni, comunicazioni, programmi di

lavoro, un termine dal significato ampio, capace di assumere definizioni diverse a

seconda del contesto. Per tutti questi motivi, nella letteratura anglofona è stato

definito come catch-all term: consente di riferirsi alle pratiche educative prescolari,

alle istituzioni scolastiche, alle opportunità di apprendimento informali e non formali

per tutte le età, agli studi universitari così come alla formazione professionale. Inoltre,

è utilizzato per qualificare contesti extra-pedagogici, quali l’ambito sociale e l’esercizio

della cittadinanza. Infine, all’interno del discorso politico, il lifelong learning funge, al

tempo stesso, da principio di governo, da orizzonte naturale, da utopia pedagogica.

All’interno della letteratura pedagogica, l’apprendimento permanente è

prevalentemente assunto come un oggetto, un’idea, una teoria educativa, che la

ricerca deve aiutare a precisare, aggiornare, realizzare. Tuttavia, nell’ambito della

nostra ricerca, crediamo sia un errore guardare al lifelong learning nei termini appena

descritti. Per comprendere il nostro presente è necessario riconoscere il modo con cui

il lifelong learning è assunto e contribuisce a costruire l’orizzonte entro cui siamo

collocati, attraverso – e non nonostante – la sua ampiezza di rimandi. Nell’ambito delle

politiche educative, in modo particolare, l’apprendimento permanente è qualcosa di

più di un’idea. È anche un’ingiunzione ad agire, un discorso con effetti di potere,

capace di orientare il modo in cui viviamo le pratiche educative contemporanee.

Lontana dall’essere un’ambiguità da chiarire, l’oscillazione semantica del lifelong

learning ne è la cifra costitutiva. Come una parola mitica, l’apprendimento permanente

lavora attraverso la denotazione, riferendosi ad un fatto biologico (es. “come

organismi viventi apprendiamo continuamente, per tutta la durata della nostra vita”) o

(ma forse dovremmo dire e) ad una teoria pedagogica (es. “l’educazione è

un’esperienza trasformativa che può coinvolgere l’uomo di ogni età”); al tempo stesso

– all’interno del contesto storico contemporaneo – è utilizzato per suggerire uno

specifico stile di vita, un ethos personale da assumere (es. “investi tempo e denaro

nell’acquisizione di competenze utili per adattarti responsabilmente alle richieste del

mondo economico e sociale”). Questa doppia struttura di significazione può essere

descritta utilizzando lo schema semiologico introdotto da Barthes. All’interno del

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primo sistema, il significante lifelong learning è associabile ad una pluralità di significati

storici: può riferirsi ad un’affermazione scientifica, indicando una delle abilità psico-

biologiche della specie umana, o una particolare idea filosofico-pedagogica, come la

teoria dell’educazione universale (pampedia e pansophia) elaborata dal XXVII secolo

da Comenio (in cui alcuni studiosi vedono l’anticipatore della moderna idea di

educazione permanente)956, o ad uno specifico programma politico sull’educazione,

promosso ad esempio da UNESCO e OCSE (coinvolgendo un gruppo specifico di teorie

e di pratiche). In questo primo livello, il senso dell’apprendimento permanente è da

comprendersi all’interno di un contesto storico specifico, sia esso scientifico, filosofico

o politico. Tuttavia, nel discorso che legittima e organizza i tentativi di riforma dei

sistemi educativi nazionali, il lifelong learning sembra assumere la forma di un

significante di secondo livello, sospendendo e deformando il senso storico di partenza.

La narrazione a sostegno delle politiche educative europee utilizza il lifelong learning

per riferirsi ad una molteplicità di discorsi - dalle parole di Socrate alla tradizione

Buddista, dalle teorie del capitale umano alle teorie psico-biologiche

sull’apprendimento umano – che convoca a seconda della circostanza, impoverendone

il senso, ma tenendolo a disposizione, come «riserva istantanea di storia»957. Il senso

storico della Pansophia comeniana, ad esempio, viene al tempo stesso convocato e

allontanato, assunto da concetto nuovo che, innestandovi un’altra storia, esercita una

funzione contingente sotto le vesti della necessità. O della naturalità. Nel contesto

“naturale” della competizione globale, appare necessario dover investire

nell’apprendimento per rispondere in modo adattativo e competitivo alle richieste

dell’ambiente, così da assicurare crescita, coesione sociale e benessere per tutti.

Presentando “fatti” e idee che storicamente sono stati riconosciuti come validi, veri,

ovvi, buoni, il discorso europeo sul lifelong learning costruisce un regime di verità

composito, difficile da cogliere nel suo intero, i cui effetti di potere (la capacità di

stimolare nuovi desideri e nuovi bisogni) sono così naturalizzati.

Grazie alla sua composita e duplice natura, la formazione discorsiva del lifelong

learning è in grado di apparire con legittimità in una pluralità di contesti, anche molto

956 Ad esempio B. Suchodolski, “Lifelong education at the crossroads”, in A. Cropley (Ed.), Lifelong Education: A stocktaking, Hamburg, UNESCO Institute of Education, 1979, pp. 36-49, in particolare pp. 38-39; J. Piaget, “Jan Amos Comenius”, Prospects, XXIII (1-2), 1999, pp. 173-196

957 R. Barthes, Miti d’oggi, Op. cit., p. 200

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eterogenei e distanti l’uno dall’altro. Come segnala Barthes, la strategia di persuasione

appare rafforzata dall’utilizzo di precise figure retoriche, alcune958 delle quali andiamo

ora ad analizzare nel dettaglio.

1) Il vaccino. È pratica comune all’interno delle politiche europee indicare quelli che

possono essere i rischi della società e dell’economia della conoscenza, così da evitare

una critica capace di mettere radicalmente in discussione il modello sociale europeo.

Allo stesso modo, il riconoscere la distanza dagli obiettivi comuni prefissati per il 2010

è premessa per ribadire la necessità di mobilizzare tutte le forze, aumentando il ritmo

delle riforme e continuando a migliorare la qualità dei sistemi educativi. Questa forma

di autocritica è sempre limitata ai mezzi e alle forze impiegate nella realizzazione

dell’apprendimento permanente, senza mai mettere in discussione la necessità e la

bontà della Strategia di Lisbona.

2) La privazione della storia. Come abbiamo già notato, nelle politiche educative

europee è all’opera una naturalizzazione di ciò che è in realtà il risultato delle azioni e

delle scelte degli uomini, e come tale può essere oggetto di discussione, di resistenza e

di trasformazione politica. Anche il termine “apprendimento permanente” è privato

della sua storia, utilizzato come principio naturale, universale e necessario. Nel suo uso

si sovrappongono diversi significati storici: quello di educazione permanente, di

educazione ricorrente, di formazione continua, di aggiornamento professionale, di

educazione degli adulti. Si offusca così il contesto contingente, l’ordine del discorso

entro cui questo termine è inserito, esercitandovi una funzione specifica.

Nell’impossibilità di condurre un’analisi genealogica in questa sede959, ci limitiamo a

sottolineare come il concetto di apprendimento permanente, diffuso negli anni

Settanta dalle relazioni UNESCO (es. Rapporto Faure, Apprendere ad essere, del 1972)

ed OCSE (es. Recurrent education – A strategy for lifelong education, del 1973) sia stato

utilizzato entro regimi di verità completamente differenti. Come precisa Pongratz, «the

current demand to learn one’s whole life long is very different from similar pleas in the

958 Seguono 5 delle 7 figure indicate da Barthes, tralasciando la forma della tautologia e della constatazione di cui già si sono offerti alcuni esempi.

959 Si rimanda su questo a Fejes, “Historicizing the lifelong learner. Governmentality and neoliberal rule’, in A. Fejes e K. Nicoll, Foucault and Lifelong Learning. Governing the subject, Op. cit., pp. 87-99; e agli studi seminali di J. Donzelot, “Plesure in work”, in G. Burchell, C. Gordon e P. Miller (eds.), The Foucault effect. Studies in governmentality, Op. cit., pp.251-280 e N. Rose, The powers of freedom. Refraiming Political Thought, Op. cit. in particolare pp. 160 e seguenti.

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1970s. Beneath the superficial thematic continuity *…+ there are in fact important

shifts and breaks. If one had to formulate the development of the concept of lifelong

learning as briefly as possible, it would be read “being allowed, able, expected,

required and finally wanting to learn lifelong”»960. Quando usiamo il termine lifelong

learning è bene individuare il campo di possibilità a cui è associato: considerare

l’educazione permanente come una possibilità, un diritto sociale finalizzato a garantire

i tempi, gli spazi e le risorse per una formazione integrale, è diverso dall’essere

chiamati ad una formazione professionale ricorrente all’interno del mondo del lavoro,

che si aspetta da noi un atteggiamento flessibile. E si distingue anche dal vivere

l’apprendimento permanente come una capacità fondamentale per posizionarci e

riposizionarci nell’ambiente sociale ed economico in continuo mutamento, una forza di

cui abbiamo bisogno e che desideriamo sviluppare per adattarci in modo vantaggioso.

3) L’identificazione. All’interno del discorso educativo europeo, ciascun soggetto è

chiamato ad identificarsi con l’immagine del lifelong learner, ossia a desiderare

occasioni continue di apprendimento, nelle quali investire per acquisire le competenze

richieste dalla società e dall’economia della conoscenza. Importante per le politiche è

rendere gli ambienti di apprendimento più attrattivi, così da aumentare la domanda e

il desiderio di apprendimento, coinvolgendo ogni soggetto, in modo particolare coloro

che non sembrano accogliere su di sé l’interpellanza europea. Questi ultimi, sono

assunti all’interno del discorso come possibili futuri discenti. Come sottolinea Fejes, chi

resiste a questa modalità di governo di sé (la modalità del soggetto “normale”) è

considerato un soggetto a rischio, un cittadino passivo, un pericolo per la coesione

sociale (es. i cosiddetti NEET - "not (engaged) in education, employment or training").

Nei suoi confronti si mettono in campo strategie motivazionali, di incentivo economico

o di learnfare (ossia strumenti di “normalizzazione”)961.

4) Il neneismo. Se nelle politiche europee degli anni Novanta il lifelong learning emerge

all’interno di un discorso di carattere squisitamente economico (che propone

l’apprendimento permanente quale strumento per creare il capitale umano necessario

alla crescita e alla competizione), nel corso degli anni Duemila la narrazione europea

960 L. Pongratz, “Tantalus’ Torment. Notes on the Regime of Lifelong Learning”, in in M. Simons, M. Olssen e M. A. Peters (eds.), Re-reading Education Policies…, Op. cit., pp. 404-417, p. 406

961 A. Fejes e K. Nicoll (eds.), Foucault and lifelong learning. Governing the subject, London, Routledge, 2008, pp. 88-89

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evolve costituendo un regime di verità composito. Questo discorso sembra integrare

l’approccio economico e quello umanistico, tentando di recuperare le istanze di

partecipazione ed emancipazione che avevano caratterizzato il discorso

dell’educazione permanente degli anni Settanta, riproponendole nelle vesti

dell’empowerment, della responsabilità civica, della capacità di innovazione. Il progetto

politico del lifelong learning si presenta, così, in una veste molteplice, né di carattere

puramente occupazionale, né di natura squisitamente educativa. Questi due approcci

(le cui origini sono rintracciabili nei primi discorsi di OCSE e UNESCO) sono qui

combinati in una sorta di “Terza via”, riuscendo a neutralizzare le critiche di tutti i

possibili detrattori. È importante notare, però, come all’interno di questa “Terza via”,

principi radicalmente contrapposti siano ridotti entro una stessa economia di pensiero:

l’ambito economico e quello della vita personale (nella sua sfera relazionale, culturale,

sociale, politica) sono qui assunti e regolati secondo la stessa logica, quella di una

scelta calcolata capace di assicurare apprendimenti pertinenti (e convenienti), per

preservare, riprodurre e ricostruire il capitale umano962 e sociale963. Alla base di

questo discorso è rinvenibile quello che è un aspetto costitutivo della

governamentalità del liberalismo avanzato: «an entrepeneurial relation to one’s needs

is not in contradiction with the interest of society as a whole. On the contrary,

entrepeneurship is exactly the condition for social relations, general welfare and

economic growth»964. Un aspetto su cui torneremo presto.

5) La quantificazione della qualità. Abbiamo già potuto notare la diffusione di

strumenti di misurazione della qualità educativa, la quale sembra identificarsi con il

posizionamento comparativo dei risultati di apprendimento della popolazione degli

Stati membri. In questo modo la qualità non si identifica con un carattere specifico

962 C. Gordon, “Governmentality Rationality: an introduction”, in G. Burchell, C. Gordon e P. Miller (eds.), The Foucault Effect: studies in governmentality, Op. cit., p. 44

963 Seguendo gli indicatori OCSE, il capitale sociale è definito come un insieme di reti «with shared norms, values and under standing that facilitate co-operation within and among groups». Da questa prospettiva, la vita sociale, le relazioni di fiducia e la partecipazione civica sono assunti come capitale che necessita di investimenti (OECD, The Well-being of Nations: the role of human and social capital, Paris: OECD, 2001, p. 41).

964 M. Simons, “Governmentality, Education and Quality Management. Towards a Critique of the Permanent Quality Tribunal”, Zeitschrift für Erziehungswissenschaft, 5. Jahrg., Heft 4/2002, pp. 617-633, p. 621

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della realtà, ma con un livello di performance che è passibile di continuo

miglioramento e i cui indicatori continuano a mutare.

Dopo aver cercato di illuminare le tecniche retoriche che fanno dell’apprendimento

permanente una narrazione così persuasiva, tanto da assumerla, sempre più, come

orizzonte naturale e familiare, vogliamo ora concentrarci sul modo in cui questo mito

contribuisce a riorientare il nostro modo di pensare, organizzare e vivere le istituzioni

scolastiche, sugli effetti di potere che la luce della forma mitica tendono a lasciare in

ombra. Nel prossimo paragrafo cercheremo di raccogliere le intuizioni fin qui

disseminate, articolandole all’interno di un’analisi governamentale che trova

ispirazione e riferimento nel lavoro di Masschelein e Simons.

2.3 Qualità e apprendimento come dispositivi governamentali

Che cos’è il nostro presente? Come viviamo le pratiche educative del nostro contesto

storico? Dalla lettura delle politiche educative europee abbiamo riconosciuto la

centralità di alcuni elementi, tra i quali la volontà di qualità e il desiderio inesauribile di

nuove competenze. Ciò che resta da investigare non è ciò che facciamo, ma quel che ciò

che facciamo fa, o ci fa. Quali sono gli effetti che l’ossessione per la qualità porta con

sé? Cosa ci succede quando viviamo le pratiche educative nelle forme che

l’apprendimento permanente assume nel nostro presente? Per rispondere alla prima

domanda, suggerisce Simons, è importante osservare il campo di emergenza del

problema della qualità, analizzando le tecniche di quality management che, a partire

degli anni Novanta, hanno contribuito a fare dell’“assicurazione della qualità” un

concetto fondamentale nel nostro modo di intendere e organizzare i sistemi educativi.

Attraversando la letteratura di riferimento e osservando da vicino le forme del Total

Quality Management, Simons descrive il meccanismo di funzionamento delle tecniche

di quality assurance: le tecniche di gestione della qualità oggettivano l’organizzazione a

cui si applicano come un “organismo-impresa” collocato entro un “ambiente-mercato”,

identificando la “qualità” dell’organizzazione come «fitness for purpose»965. Da questa

prospettiva l’organizzazione è assunta come realtà produttiva che, con i propri prodotti

(siano essi beni, servizi o competenze), deve soddisfare i bisogni (propri o del cliente),

965 Ivi., p. 623

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così da assicurarsi sopravvivenza e crescita all’interno dell’ambiente-mercato.

All’interno di un ambiente-mercato caratterizzato dal cambiamento e dalla

competizione, l’avere delle informazioni su ciò che succede viene ad assumere per

l’organizzazione quella che può definirsi una funzione “vitale”: avere delle conoscenze

«about the needs of the costumer, and derived knowledge about the quality of the

product itself, enable management to optimize the production process»966. Da qui la

necessità di monitorare il funzionamento del sistema, di ricevere feedback di

gradimento e di raccogliere dati sui caratteri dell’ambiente circostante: solo così sarà

possibile ristrutturare i processi di produzione, migliorandone la qualità e

assicurandone l’adattamento ai nuovi bisogni da soddisfare. Le tecniche di quality

management, osserva Simons, appaiono particolarmente significative nell’intrecciare le

forme di gestione di un’organizzazione e quella dei suoi lavoratori, i quali sono a loro

volta chiamati a pensarsi come organismi-impresa.

Identifying actual self-government as ‘entrepeneurship’ means that people are required to look at themselves as operating within an environment and having certain needs which they can satisfy through creatively producing goods (for example, competences).967

Furthermore, as an entrepreneur of herself, a worker can look at work as a means of meeting her needs and actualizing herself. *…+ What is useful for the organization, for example learning and training, is what is also useful for self-actualization. *…+ This relation between the enterprising self and management clarifies the actual interest in quality management, by relating the customer to the permanent economic tribunal, thereby installing a permanent obsession with quality. 968

Quando un’organizzazione (o la vita di un individuo) è oggettivata (o soggettivata) e

problematizzata come un’impresa che opera in un ambiente in continua

trasformazione, la preoccupazione per la qualità dei propri prodotti (ossia il loro essere

adatti ai bisogni che devono soddisfare) emerge come preoccupazione permanente969:

understanding an organization and life itself in terms of entrepreneurship first of all implies that they are both about using goods as an input for the process of production and about trying to meet the needs (of oneself or others) with the output. Not only efficiency and effectiveness of these input-output processes are important, but also the connection, i.e. the quality of input, process and finally

966 Ibid.

967 M. Simons e J. Masschelein, “The Permanent Quality Tribunal in Education and the Limits of Education Policy”, Op. cit., p. 296

968 Ibid.

969 Ivi., p. 624

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output. As a consequence, when lacking quality – and, hence, customers – all care for productivity is pointless. Therefore, the ‘will to (strive for) quality’ is inextricably bound up with entrepreneurship.970

A questo punto, aggiunge Simons, la volontà di qualità può essere compresa come, al

tempo stesso, un effetto e uno strumento della governamentalità neoliberista.

L’insieme eterogeneo di tecniche, di strumenti, di procedure e di conoscenze utilizzate

per assicurare la qualità sembrano costituire un dispositivo foucaultiano, capace di

esercitare una funzione strategica portando con sé degli effetti di soggettivazione. In

che modo il soggetto è condotto a guardare a se stesso e alla realtà circostante

attraverso l’utilizzo del “dispositivo della qualità”? Il soggetto è portato a relazionarsi a

se stesso, ai propri bisogni, alle proprie competenze, in senso imprenditoriale. È

l’imprenditore di sé che, per scegliere come comportarsi, vuole una garanzia di

qualità971. Contribuendo alla costruzione del soggetto come imprenditore di sé, questo

dispositivo risulta esercitare una funzione strategica entro il regime della

governamentalità neoliberista. Quest’ultima, infatti, è una modalità di governo che si

esercita (facilitando, stimolando, incitando, informando, controllando) rivolgendosi al

proprio oggetto (organizzazioni o individui) come se fosse (o dovesse diventare)

un’impresa (o un imprenditore di sé). Precisa Simons,

since the ‘will to (strive for) quality’ and the ‘will to strive for knowledge concerning quality’ is part of entrepreneurship and is functioning as effect and instrument of actual governmentality, it is not exaggerated to understand ‘quality’ as a strategic notion. Dealing with needs in an entrepreneurial way and submitting oneself to the law of the quality tribunal is both an individualizing and

totalizing strategy in actual forms of government and management.972

Che dire, allora, del desiderio di apprendere per tutta la vita? Come abbiamo visto, alla

volontà di qualità si accompagna il bisogno di raccogliere informazioni e di acquisire

competenze attraverso le quali riorganizzare la propria attività, la propria vita, per

riuscire ad adattarsi (a mantenere la propria fitness) in un ambiente-mercato dai

cambiamenti imprevedibili. Allo stesso modo, nel discorso politico dell’Unione

Europea, l’apprendimento permanente è individuato come condizione fondamentale

affinché gli individui si adattino autonomamente ai cambiamenti della società e del

970 Ibid.

971 Ibid.

972 Ibid.

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mondo del lavoro. Seguendo questa proposta, il rapporto che il soggetto sembra

invitato ad instaurare con l’apprendimento può, ancora, descriversi in termini

imprenditoriali. Come relazione di investimento:

As the learning process is fundamental of both working and for living, it is possible to reintroduce the enterprising self. To live an entrepreneurial life is to be positioned in an environment with changing needs, and to be responsible for the production and learning process in order to meet different needs and in order to achieve a better quality of life. Investment in learning not only contributes to self-actualization, but, at the same time, delivers competencies enabling people

to operate in labour organizations and society as a whole. 973

L’apprendimento viene così ad assumere un ruolo fondamentale sia per il governo di

sé (per la propria auto-realizzazione, per raggiungere una migliore qualità di vita), sia

per il governo della società (assicurando inclusione sociale e occupabilità permanente),

trovandosi al centro di una strategia sia di individualizzazione che di totalizzazione. In

questo senso, scrivono Masschelein e Simons, si può riconoscere nel nostro presente

quello che può denominarsi un processo di governamentalizzazione

dell’apprendimento. Il lifelong learner viene ad identificarsi, al tempo stesso, con

l’individuo realizzato, il buon lavoratore e il buon cittadino: la logica che guida il

soggetto nella vita privata, nella vita lavorativa e nella vita socio-politica è una sola,

quella dell’investimento. Da questa prospettiva,

the idea of an ongoing learning process and the technology of lifelong learning

correlate with governmental relation trying to act upon the enterprising self974.

Come l’ossessione per la qualità, anche l’ossessione per l’apprendimento permanente

sembrano scaturire - come un effetto - dall’essere interpellati975 quali soggettività

imprenditoriali. Nell’ambito della scuola, ad esempio, gli studenti sono invitati ad

esercitare una libertà di scelta tra le opportunità di apprendimento che possono

intraprendere. Questa scelta deve essere informata e calcolata, richiedendo la capacità

973 Ivi., p. 627

974 Ibid.

975 L’utilizzo di questo termine si trova in modo diffuso nel lavoro di Masschelein e Simons, i quali dichiarano il proprio debito verso il lavoro di Bröckling e la sua interpretazione di Althusser. Nel motivare l’impiego del concetto di interpellanza, gli studiosi belgi scrivono: «It helps us to understand the process of subjectification as a constitution of subjectivity in an appeal and prescription. In fact we consider that the discoursive horizon and the related strategies and techniques are not obliging or forcing us to act or think in a certain way. They are operative rather in the sense that they are appealing and prescribing (because they contain promises as well as a threats)», M. Simons e J. Masschelein, “An Adequate Education in a Globalised World? A Note on Immunisation Against Being-Together”, Journal of Philosophy of Education, Vol. 36, N. 4, 2002, pp. 589-608, p. 605 (nota 1)

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di conoscere se stessi (tenendo in considerazione i propri bisogni e i propri talenti) e

l’abilità di pianificare e gestire la propria carriera studentesca (considerando ciò che

può facilitare il successo nella vita e nel lavoro). Così, ciascuno è invitato a sviluppare

un’attitudine contabile, che guida le sue scelte verso l’investimento migliore,

individuando gli ambienti di apprendimento di maggiore qualità (da qui la necessità di

trasparenza, classifiche e comparazione), ossia capaci di soddisfare al meglio i propri

bisogni. Questo tipo di attitudine è sollecitata da una serie di strumenti, di tecnologie,

di infrastrutture che attivano e stimolano una certa relazione con se stessi: «to inform,

to stimulate and to facilitate are subsequently the new steering mechanisms for

students who have come to understand themselves as making investment and

choices»976. Tra queste tecnologie, ad esempio, Fejes indica le tecniche di

orientamento (dai questionari ai colloqui “confessionali”) che inducono lo studente ad

auto-valutare il proprio percorso di studi (attuale o potenziale) sulla base dei risultati di

apprendimento (le competenze) a cui condurrebbe, guidandolo a riconoscere certi

risultati come migliori, più desiderabili, di altri (ad esempio offrendo una selezione

precisa di competenze tra cui scegliere)977. Un altro esempio, può essere il programma

“Europass”, finalizzato al miglioramento della trasparenza dei titoli e della mobilità dei

cittadini dell’Unione Europea. Europass consiste in un portfolio coordinato di cinque

documenti (CV, passaporto delle lingue, Europass Mobilità, Supplemento al Certificato,

Supplemento al Diploma), capaci di rendere internazionalmente leggibili le

competenze acquisite nelle diverse esperienze di apprendimento. Strumenti come

questi, invitano il soggetto a costruirsi un “portafoglio” di competenze, abilità e

attitudini, che possono essere impiegate e mobilizzate, lo spingono ad impegnarsi in

un’opera di documentazione e “marketizzazione” di sé e dei propri apprendimenti,

arrivando a formalizzare – così da rendere visibili – anche quelli più informali978. Come

976 M. Simons e J. Masschelein, “The Permanent Quality Tribunal in Education and the Limits of Education Policy”, Op. cit., p. 294

977 A. Fejes e M. Dahlstedt, The Confessing Society. Foucault, Confession and Practices of Lifelong Learning, London, Routledge, 2014

978 Come osservano A. Tuschling e C. Engemann «the purpose is not to deistitutionalize but rather to inter-istitutionalize learning. *…+ *T+he learning individual is configured as an inter-institutional entity traversing situations and institutions, obliged to strategically show knowledge and skills. Especially non-formal and informal learning have to be presented as accessible and manageable», A. Tuschling e C. Engemann, “From Education to Lifelong Learning: The emerging regime of learning in the European Union”, Educational Philosophy and Theory, Vol. 38, No. 4, 2006, pp. 451-469, p. 460. Si rimanda allo

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notano Anna Tuschling e Christoph Engemann, «the subject itself has to formalize the

non-formal and informal by self-reporting skills and by describing its own conditions.

Self-assessment and concurrent self-profiling is the relationship one ought to have to

oneself in a society of lifelong learning»979. Il soggetto è così invitato a organizzare le

proprie scelte (le competenze da esibire, i futuri apprendimenti da conseguire)

giudicando la realtà attraverso il tribunale economico degli investimenti980. È invitato a

condursi come imprenditore di se stesso. Utilizzando gli strumenti offerti da Europass,

«the individual becomes simultaneously the subject/object alike of his/her learning

documentation. These documents are a crucial part of the synthesizing abilities of

individuals, ideally representing its learning abilities and unique personality in an

accessible format». Allo stesso tempo, avvertono Masschelein e Simons, questo

strumento raccoglie dati strategici consentendo alle politiche educative di governare i

processi di apprendimento e di valutare la forza di apprendimento di tutta la

popolazione, nazionale ed europea981. Infine, anche l’organizzazione della didattica e

della valutazione basate sulle competenze favorisce l’assunzione di uno spirito

imprenditoriale, anche da parte della scuola stessa, la quale è sollecitata a considerare

i propri insegnamenti come “offerta formativa”, in risposta ai “bisogni formativi” che

vengono manifestati dal territorio, dal ministero e dalle istituzioni internazionali. La

lezione deve configurarsi entro “unità di apprendimento” le quali sono funzionali

all’acquisizione di specifiche competenze, ossia la capacità di mobilizzare conoscenze e

abilità in modo autonomo e responsabile in contesti di realtà nuovi. Così la relazione

tra lo studente e la conoscenza è sollecitata nella forma della capitalizzazione: ciò che

lo studente deve acquisire sono le competenze fondamentali per adattarsi alle

richieste del XXI secolo, quelle che consentiranno di essere sempre occupabili

(possedere il capitale umano adatto) e attivi nella società della conoscenza (avere il

capitale sociale necessario all’inclusione), nonostante i suoi continui e imprevedibili

stesso articolo per una più articolata disamina della dimensione governamentale dello strumento “Europass”, in particolare pp. 462-464

979 Ivi., p. 464

980 M. Simons e J. Masschelein, “Our ‘will to learn’ and the assemblage of a learning apparatus”, in A. Fejes e K. Nicoll, Foucault and Lifelong Learning. Governing the subject, Op. cit., pp. 48-59, p. 55

981 M. Simons e J. Masschelein, “Our ‘will to learn’ and the assemblage of a learning apparatus”, Op. cit., p. 56

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cambiamenti. Si comprende così l’importanza attribuita alla flessibilità982, a cui oggi

sembra affiancarsi la “virtù” della resilienza.

In sintesi, le istituzioni scolastiche riorganizzate secondo il principio

dell’apprendimento permanente vengono a costituire

an infrastructure with tools and procedures through which students come to experience life and learning as an ongoing process of obtaining, mobilising and employing competencies in order to have an income. Or to put it another way, a successful life has become rationalised as an optimally capitalised life within an environment for which particular competencies are required.983

Fattore essenziale per una vita da capitalizzare con successo è lo sviluppo della propria

capacità di apprendimento. Di qui la necessità che la scuola dell’obbligo provveda a

formare la (meta)competenza chiave: l’apprendere ad apprendere, la potenzialità di

acquisire qualsiasi nuova abilità, in ogni momento della vita, per riprodurre e

rinnovare, con creatività e autonomia, il capitale umano a propria disposizione.

The learning force is regarded here as what adds value, what produces additional value (capital and wealth) and what should be developed in an optimal way in order to move around in different and changing environment in which people live. *…+ As a result, autonomy or the aim of education is reframed as the ability to manage one’s own well-developed learning force oneself, i.e. autonomous management of one’s own learning process is required to be able to have a market position in which the competences guarantee an income.984

Lo studente è interpellato come imprenditore di sè, come manager della propria “forza

di apprendimento” (learning force)985, da investire nel modo ottimale per generare le

competenze più redditizie e del cui processo di mantenimento, riproduzione e

rafforzamento ciascuno singolo è responsabile, fuori e dentro la scuola986. Come

982 Ivi., p. 295. Su questo tema e sulle sue conseguenze antropogenetiche si rimanda a R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, 1999. Per un’analisi della flessibilità nel contesto dell’apprendimento permanente si segnala R. Edwards, Changing Places? Flexibility, lifelong learning and a learning society, London, Routledge, 1997

983 Ibid.

984 M. Simons e J. Masschelein, “The Permanent Quality Tribunal in Education and the Limits of Education Policy”, Op. cit., p. 295

985 La “forza di apprendimento” è sorgente di tutte le possibili “forze lavoro”, ossia, secondo la definizione di Marx, le capacità fisiche e mentali utilizzate dal lavoratore all’interno del processo produttivo.

986 Come osserva Gordon, «the idea of one’s life as the enterprise of oneself implies that there is a sense in which one remains always continuously employed in (at least) that one enterprise, and that is part of the continuous business of trying to make adequate provision for the preservation, reproduction and reconstruction of one’s own human capital», C. Gordon, “Governmentality Rationality: an introduction”, Op. cit., p. 44

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segnalano Masschelein e Simons, l’imprenditorialità non si riferisce ai soli processi di

allocazione e produzione, ma implica necessariamente la presenza di un rischio.

It also involve an ‘element of alertness’ *…+, i.e. a speculative, creative and innovative attitude to see opportunities in a competitive environment. Entrepreneurship is always a risky business. But risk is not, as in the ‘social state’, to be prevented, but instead a condition for profit – a kind of ‘stimulating principle’.987

Allo stesso modo, i rischi sociali sono uno stimolo a sviluppare le competenze più

adeguate, anche innovando e anticipando le richieste del mercato del lavoro, per

mantenere la propria occupabilità e possedere il capitale necessario a gestire eventuali

difficoltà sociali. Il cittadino attivo è interpellato come entrepreneurial citizen:

l’assunzione di responsabilità verso di sé e verso la società si traduce nella promozione

della prosperità e della coesione sociale, nell’adattarsi ai cambiamenti così da rimanere

incluso nell’ambiente in cui deve produrre ed impiegare il proprio capitale988.

Che cos’è allora l’apprendimento permanente? Con Barthes abbiamo cercato di

mettere in luce le strategie retoriche che contribuiscono a rendere il discorso politico

così persuasivo e difficile da contestare, ma al tempo stesso ne abbiamo rilevato il

carattere composito, la necessità di analizzarne le radici storiche e di comprendere gli

elementi di discontinuità che ne specificano la forma presente. Guardando

all’apprendimento permanente quale campo di esperienza contingente, Masschelein e

Simons riconoscono il contributo storico che diversi saperi hanno apportato alla sua

attuale oggettivazione, contributi che oggi sono integrati in forma di

problematizzazione nuova che può comprendersi entro il regime governamentale del

nostro presente, quello neoliberista989. Queste sono, schematicamente, le componenti

che gli studiosi belgi riconoscono compresenti nel modo contemporaneo di intendere il

987 M. Simons e J. Masschelein, “The Permanent Quality Tribunal in Education and the Limits of Education Policy”, Op. cit., p. 296

988Per un’analisi governamentale della cittadinanza europea si rimanda a A. Fejes, “Active Democracy Citizenship and Lifelong Learning – a Governmentality Analysis”, in M. Bron Jr, P. Guimarães, R. Vieria de Castro (eds), The State, Civil Society and the Citizen: Exploring Relationship in the Field of Adult Education in Europe, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2009, pp. 79-95, e a N. Hodgson, Citizenship for the Learning Society. Europe, subjectivity, and educational research, Op. cit.

989 M. Simons e J. Masschelein, “The Governamentalization of Learning and the Assemblage of a Learning Apparatus”, Educational Theory, Vol. 58, N. 4, 2008, pp. 391-415. Per una prospettiva genealogica si veda anche A. Tuschling e C. Engemann, “From Education to Lifelong Learning: The emerging regime of learning in the European Union”, Op. cit.

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lifelong learning (e tra parentesi, in breve, i saperi che maggiormente hanno

contribuito a sviluppare e diffondere una simile concettualizzazione):

1. l’apprendimento è una forza capace di produrre valore e crescita

nell’economia della conoscenza, favorendo l’adattamento continuo del capitale

umano (oggettivazione che trova radici nel concetto di “educazione ricorrente”

promossa da OCSE già all’inizio degli anni Settanta990);

2. l’apprendimento è il mezzo per la soddisfazione autonoma di bisogni di

crescita personali in una società che cambia (una comprensione debitrice dal

rapporto Faure Learning to be – The world of education today and tomorrow,

promosso da UNESCO del 1972991, degli studi della psicologia umanistica e di

quelli sull’educazione degli adulti promossi da Lindeman e Knowles);

3. l’apprendimento è un processo (caratterizzato da certi input e output) che può

essere auto-gestito (monitorato, auto-valutato, migliorato) e orientato al

raggiungimento di certi risultati (cambiamenti funzionali) in risposta ad un

certo ambiente. Questa attitudine gestionale (managerial) è una meta

competenza che può essere appresa, ossia si può apprendere ad apprendere

(una prospettiva elaborata nei saperi e nelle pratiche psico-pedagogiche

ispirate agli studi di Bruner, Piaget e Vygotsky);

4. i risultati dell’apprendimento sono compresi come competenze, usando questo

termine per indicare la capacità di usare conoscenze, abilità e capacità

personali, sociali, metodologiche, in contesti nuovi e in modo autonomo e

appropriato. Le competenze sono mobilizzabili, ossia sono trasferibili e

impiegabili con profitto, perciò sono queste a determinare l’occupabilità di chi

le possiede. Gli obiettivi e i metodi delle istituzioni scolastiche sono

riorganizzati per competenze (un discorso che abbiamo visto emergere negli

anni Novanta, nell’ambito delle politiche attive del lavoro e delle politiche

educative promosse dall’Unione Europea e, in modo trasversale, da una

molteplicità di istituzioni internazionali).

990 OCSE, Recurrent Education: a Strategy for a Lifelong Education, 1973; OCSE, L’Education récurrente: tendences et problémés, Paris, 1974; AA.VV., Education and Working Life in Modern Society, OCSE, 1975

991 P. Lengrand, Introduction à l’éducation permanente, Paris, Unesco, Paris, 1970 ; Unesco (a cura di), I documenti del Rapporto Faure. L’educazione in divenire, Roma, Armando Editore, 1976

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Come abbiamo già notato il concetto di lifelong learning non è nuovo: l’idea di

un’educazione che duri per tutta la vita è stata problematizzata in una pluralità di

forme nel corso dei secoli e, in modo particolare, nel secolo scorso. Durante il

Novecento, lo stesso concetto è stato parte di discorsi che hanno guardato

all’apprendimento «as a kind of capital, as something for which the learner him- or

herself is responsible, as something that can and should be managed (and is an object

of expertise), and as something which is employable»992. Tuttavia, vi è qualcosa di

nuovo nel modo in cui questo termine è utilizzato nel nostro presente. Come scrivono

Masschelein e Simons, «these initial forms of problematization are being combined

today and have become part of our present governmental regime that seeks to

promote entrepreneurship (instead of social normalcy)»993. L’apprendimento

permanente occupa un ruolo strategico nel raggiungimento di obiettivi personali e

sociali, quali «l’autorealizzazione, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale,

l’occupabilità e l’adattabilità professionale»994, e lo fa promuovendo forme di governo

e auto-governo imprenditoriale. La forma di governo del sé che è propria del lifelong

learner è descritta dai due studiosi individuandone quattro elementi costitutivi:

1. L’oggetto (il materiale) dell’auto-governo. «The material or (moral) ‘substance

of this form of self-government is human (and social) capital, and, in particular,

knowledge or competencies»995.

2. La logica di soggezione (sottomissione) all’auto-governo. «The ‘mode of

subjection’ of entrepreneurial autonomy is the ‘permanent economic tribunal’:

people have to develop a calculating attitude towards the entrepreneurial

material and should, for example, find out which competencies are required or

could be(come) functional»996.

992 M. Simons e J. Masschelein, “The Governmentalization of Learning and the Assemblage of a Learning Apparatus”, Op. cit., p. 402

993 Ibid.

994 Comunicazione della Commissione “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente” COM(2001) 678 definitivo, p. 10

995 M. Simons e J. Masschelein, “The Governmentalization of Learning and the Assemblage of a Learning Apparatus”, Op. cit., p. 402

996 Ibid.

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3. Il lavoro da compiersi sulla propria libertà. «*T+he ‘work upon the self’ that is

needed: one is asked to invest in human capital, to learn or to add value to the

self and to find ways of productive inclusion»997.

4. Il telos, lo scopo dell’auto-governo. «[A] particular teleology: the aim is the

production of satisfaction (through permanently looking for a suitable market

position in life and investing in social relations)» 998.

La massima del lifelong learner, scrivono Masschelein e Simons, è la seguente «do

what you want but take care that your human capital is adapted and take care of your

inclusion»999. Ovviamente, sottolineano gli studiosi belgi, questa forma di auto-

governo non è imposta con la forza, con la violenza o con la legge, ma è presentata

come un’assoluta necessità, se vogliamo sopravvivere – con lo stile di vita e la capacità

competitiva dell’Unione Europea – nella società della conoscenza. All’intermo

dell’orizzonte discorsivo delle politiche educative europee, ad ogni soggetto – sia uno

Stato membro, un’istituzione scolastica, un docente o uno studente – è richiesto di

assumere un ethos adattivo-proattivo, una disponibilità che si rende effettiva

utilizzando i quadri di lavoro, i saperi e le tecniche forniti a livello comunitario.

All’interno di queste infrastrutture – attraverso i propri processi di apprendimento,

ciascun soggetto coopera, volontariamente, all’adattamento-innovazione del capitale

proprio e altrui1000.

Come precisa Fejes,

the enactment of ones freedom to be a constant learner coincides with the political ambition to govern (to create a learning society with active constantly learning citizens). In other words, instead of governing through institutional legislation, we are now governed through the enactment of our own freedom. *…+ We are being governed through the very act of living our life in accordance with our desires – our freedom is the basis for the operation of government.1001

997 Ibid.

998 Ibid.

999 M. Simons e J. Masschelein, “The Permanent Quality Tribunal in Education and the Limits of Education Policy”, Op. cit., p. 297

1000 M. Simons e J. Masschelein, “An Adequate Education in a Globalised World? A Note on

Immunisation Against Being-Together”, Op. cit., p. 601 1001

A. Fejes, “Active Democracy Citizenship and Lifelong Learning – a Governmentality Analysis”, Op. cit., p. 95

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Con la trasformazione di tutti i problemi sociali ed economici (disoccupazione,

partecipazione democratica, salute medica, integrazione sociale…) in problemi di

apprendimento, si assiste dunque, a quella che Masschelein e Simons definiscono una

“governamentalizzazione dell’apprendimento” («learning as become a matter of both

government and self-government»1002) e alla costruzione di un dispositivo di

apprendimento che assicura l’adattamento del capitale umano e sociale diffuso tra la

popolazione (funzione strategica) stimolando, in ciascun individuo, il desiderio di

capitalizzare e gestire con responsabilità i propri apprendimenti (effetto di

soggettivazione)1003, accompagnando i cambiamenti:

Thus, it is the entrepreneurial self who should herself have a ‘policy of change and adaptation’ and who is able to do so by managing in a responsible, calculating, proactive way her learning capacity. Hence, within the advanced liberal regime of government the strategic role of learning is to secure

adaptation. 1004

Il desiderio di apprendere per tutta la vita è, allora, sia effetto che strumento

strategico del regime governamentale del liberalismo avanzato: «it is an effect since

the regime asks that entrepreneurial selves be prepared and able to learn, but at the

same time an instrument because this “will” is used to secure adaptation within

society as a whole»1005.

Che cos’è la scuola all’interno di questo regime governamentale? Quali gli effetti della

“governamentalizzazione dell’apprendimento” sul senso e la struttura dell’istituzione

scolastica? Alcune prime risposte sono state accennate e molto, già, si potrebbe

aggiungere. Tuttavia, per analizzare nello specifico il presente di chi scrive, vogliamo

riportare la nostra attenzione al contesto nazionale, analizzando la sua più recente

riforma scolastica. Con un atteggiamento ormai più distaccato, mantenendo sullo

sfondo la lettura delle politiche europee, ci accingiamo ora ad analizzare alcuni dei

documenti costitutivi il piano di riforma denominato La Buona Scuola. Presentando

alcuni dei frammenti più significativi cercheremo di rendere visibile ciò che, per

1002 M. Simons e J. Masschelein, “Our ‘will to learn’ and the assemblage of a learning apparatus”, Op.

cit., p. 48 1003

Ivi., p. 56 1004

Ibid. 1005

Ivi., p. 57

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eccessiva vicinanza, sfugge alla vista: la forma che la scuola sta assumendo - o ha già

definitivamente assunto - ossia il campo di possibilità entro cui pensiamo,

organizziamo e viviamo le azioni che si svolgono al suo interno.

3. Leggere La Buona Scuola

La buona scuola. Facciamo crescere il Paese è il progetto di riforma che il Governo

italiano ha presentato alla cittadinanza il 3 settembre 2014, invitando la popolazione a

collaborare alla «più grande consultazione – trasparente, pubblica, diffusa, online e

offline – che l’Italia abbia mai conosciuto finora»1006. La consultazione, avviata e

conclusa nel giro di due mesi, ha tentato di coinvolgere famiglie, docenti,

amministratori e «quanti investono nel territorio» (i cosiddetti stakeholder, i portatori

di interesse) in un’operazione di co-design della nuova riforma della scuola. L’invito era

rivolto

a tutti gli innovatori d’Italia. Perché non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Perché ci aiutino a migliorare le proposte, a capire cosa manca, a decidere cosa sia più urgente cambiare e attuare. Perché per fare la Buona Scuola non basta solo un Governo. Ci vuole un Paese intero.1007

Quello che negli strumenti può apparire un tentativo di incentivare forme di

democrazia diretta (organizzando dibattiti, incontri e tavoli di lavoro), osservato nella

prospettiva dei fini mostra un volto completamente diverso: lontane dal coinvolgere

tutti i cittadini in una “conversazione per la decisione”1008, le iniziative promosse dalla

consultazione mirano ad ottimizzare la realizzazione di una decisione già compiuta1009.

1006 Documento “La buona scuola. Facciamo crescere il paese”, p. 9,

https://labuonascuola.gov.it/documenti/lbs_web.pdf?v=756d80f, ultima consultazione 27/01/2018 1007

Ivi., p. 12 1008

G. Pasquino, “Democrazia diretta”, Dizionario di storia, Treccani, 2010, http://www.treccani.it/enciclopedia/la-democrazia-diretta_%28Dizionario-di-Storia%29/, ultima consultazione 27/01/2018

1009 Su questo torna, più recentemente, il ministro Fedeli, in piena continuità con il governo Renzi: «il

Ministero sarà aperto, pronto ad ascoltare, a dialogare, condividere. E mi aspetto di trovare in tutte e in tutti gli interlocutori lo stesso atteggiamento. Non ci deve essere rigidità da parte di nessuno, ma spirito di collaborazione e confronto di merito. E non ci deve essere nessun fraintendimento e nessuna confusione di ruoli. Ascolto e dialogo servono per migliorare la qualità delle scelte, ma ciascuno deve essere consapevole del proprio ruolo e della propria responsabilità, e le scelte finali restano di competenza del Parlamento, del Governo e del Ministero, nel rispetto dell’autonomia educativa», dalle Linee programmatiche presentate il 26 gennaio 2017, p. 5, http://www.istruzione.it/allegati/2017/0126_testoaudizionesito.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

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Come scrive Adorno, «tutti possono partecipare alla conversazione e tutti sono inclusi,

ma soltanto nei termini di una conformazione»1010. L’iniziativa sollecita i cittadini ad

intervenire in modo innovativo, con modalità problem-solving e finalità “migliorative”,

escludendo dal campo di dibattito un’unica - irrilevante? - questione: l’impianto

strutturale della riforma. Così nel sito dedicato, la consultazione si presenta come

un progetto di collaborazione, di condivisione di un percorso, di apertura all’operosità costruttiva di chi ha interesse a raggiungere il miglior risultato possibile: ed è per questo motivo che i suoi risultati [si] integreranno, all’interno di un quadro di lavoro i cui cardini sono chiari.1011

Appellandosi al coraggio di uscire dalla comfort zone1012 e alla determinazione di

«tornare a crescere»1013, La Buona Scuola mira a stimolare lo spirito di collaborazione e

il senso di responsabilità nazionale, incoraggiando l’adesione collettiva ad una visione

della scuola che non ha senso “perder tempo” a discutere. «L’istruzione - si legge - è

l’unica soluzione strutturale alla disoccupazione, l’unica risposta alla nuova domanda di

competenze espresse dai mutamenti economici e sociali»1014. All’interno di questa

prospettiva funzionalista, la bontà delle istituzioni scolastiche è oggettivata come

capacità di stimolare un «meccanismo permanente di innovazione, sviluppo, e qualità

della democrazia, *…+ che si alimenta con l’energia di nuove generazioni di cittadini,

istruiti e pronti a rifare l’Italia, cambiare l’Europa, affrontare il mondo»1015. Così, ogni

contributo alla dibattito che «non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità è *…+

sospetto»1016, accusato di sabotaggio o, ancora peggio, di insensatezza1017.

Nelle constatazioni di queste prime dichiarazioni si trova, in nuce, l’orizzonte

discorsivo entro cui andrà sviluppandosi l’intero iter di riforma: dal testo di legge

approvato dal Parlamento il 13 luglio 2015 (legge “La Buona Scuola” 107/2015), alle

linee programmatiche dei ministri Giannini e Fedeli, ai documenti di indirizzo Piano

Nazionale Scuola Digitale e Piano per la formazione dei docenti 2016-2019, dichiarati

1010 T. W. Adorno, “Introduzione a una discussione a proposito della Teoria della Halbbildung”, Teoria

della Halbbildung, Op. cit., p. 57 1011

Dal sito: https://labuonascuola.gov.it/perche-partecipare/, ultima consultazione 27/01/2018 1012

Documento “La buona scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p.6 1013

Ivi., p.5 1014

Ibid., il corsivo è grassetto nell’originale. 1015

Ibid. 1016

T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Op. cit., pp. 13-14 1017

«Spaziare in mondi inintelligibili non è più semplicemente proibito, ma è un cicaleccio senza senso», Ivi., p. 33

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pilastri fondamentali per l’attuazione operativa della riforma. Sono questi, assieme alla

matrice originaria del 2014, i documenti che intendiamo assumere come materiale di

studio, cercando di rendere espliciti i cardini indiscutibili entro cui è stata ridisegnata la

scuola italiana. A guidare l’analisi sarà il tentativo di individuare il rapporto tra le

proposte di cambiamento della riforma e quello che è il regime governamentale del

nostro tempo. Nella conduzione dell’indagine terremo conto di quelle che sono le tre

dimensioni costitutive di un regime governamentale: il piano discorsivo (episteme), la

componente tecnologica (techne) e gli effetti di soggettivazione (ethos). Proveremo,

quindi, a mettere in luce la razionalità de La Buona Scuola, ad analizzare le tecnologie

di potere che mette in atto, a riconoscere la soggettività a cui dà forma. Nel fare

questo, guardiamo alla scuola come a un dispositivo - simbolico e materiale - la cui

configurazione ha effetti antropogenetici e consente di esercitare una funzione

strategica1018. Una volta evidenziata la forma del dispositivo scolastico riformato,

proveremo ad interrogarne l’identità pedagogica, concludendo - e forse ripartendo -

con una domanda banale, che torna a pensare i presupposti: cosa fa di una scuola una

scuola? Cosa la qualifica come dispositivo educativo (distinguendola da dispositivi di

altro tipo)? Prima di preoccuparci della qualificazione delle nostre scuole nelle

comparazioni internazionali, non dovremmo assicurarci che ne sia preservata la qualità

pedagogica? Invece di interrogare la “bontà” dell’istituzione così riformata, vorremmo

provare a metterne in discussione la “scolasticità”. Il che ci porta, paradossalmente, a

chiedere: può dirsi “scuola” La Buona Scuola?

3.1 La Buona Scuola serve

Il piano di riforma La Buona Scuola esordisce con una dichiarazione precisa: «all’Italia

serve una buona scuola»1019 e per realizzarla è necessario «un investimento di tutto il

Paese su se stesso»1020. Qual è il regime discorsivo entro cui questa dichiarazione

assume la sua forza persuasiva? Il tono, allarmista e perentorio, incita all’unità

nazionale, invitando il Paese intero a «rimettersi in cammino», facendo leva

sull’orgoglio di appartenere alla Patria degli innovatori didattici («Siamo il Paese di

1018 Nel fare questo ci ispiriamo agli studi già citati di Massa, Cappa, Hunter, Masschelein e Simons.

1019 Documento “La buona scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p. 5

1020 Ibid.

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Montessori e di Don Milani, di Don Bosco e Malaguzzi»1021) e della creatività

imprenditoriale Made in Italy1022. Il riferimento all’operosità e al “genio italico” non

deve, però, far perdere di vista l’orizzonte più ampio entro cui lo «sforzo di tutto il

Paese nel costruire il suo futuro»1023 si inserisce: il futuro che gli italiani sono invitati a

realizzare contribuisce strategicamente a quello europeo. Per quanto, talvolta,

rimanga implicito, «il riferimento all’Europa – dichiara il ministro Giannini - è voluto e

necessario *…+. L’Europa è la condizione indispensabile, un contesto geopolitico di

riferimento primario perché le politiche educative e le scelte strategiche in campo

della ricerca siano efficaci e competitive»1024. Prima di analizzare il “discorso alla

nazione” e le sue disposizioni operative, vogliamo evidenziare uno dei luoghi in cui il

riferimento all’Europa si rende particolarmente esplicito, rendendo visibile

l’impalcatura generale entro cui le iniziative della riforma chiedono di essere

comprese.

3.1.1 “Una scuola di qualità per tutti”

Le risorse pubbliche con cui il ministero intende sostenere gran parte della riforma

sono quelle del PON Istruzione, ossia uno dei Programmi Operativi Nazionali con cui

l’Italia attinge ai Fondi Strutturali e di Investimento Europei (Fondi SIE) 2014-2020.

L’utilizzo di questi fondi è disciplinato da un “Accordo di Partenariato” approvato dalla

Commissione Europea, che orienta gli indirizzi di politica nazionale nel settore

dell’istruzione entro gli orientamenti comunitari delineati dal Quadro Strategico

Comune (QSC) e dal Position Paper1025. Come si legge nel documento PON 2014-2020

1021 Ivi., p. 7

1022 Una forma di creatività (e di valorizzazione) a cui gli estensori del documento - Alessandro Fusacchia

e Francesco Luccisano, sotto la supervisione della ministra Giannini e del Presidente del Consiglio Matteo Renzi – riconducono il rapporto degli studenti con il patrimonio artistico e culturale italiano: «La capacità di leggere e di produrre bellezza è un elemento costitutivo del nostro essere Italiani: dobbiamo valorizzarla, farne un vantaggio comparato *…+ anche scegliendo strade imprenditoriali», Ivi. p.91

1023 Ivi., p. 119

1024 S. Giannini, Linee programmatiche 2014, p. 3

http://www.istruzione.it/allegati/2014/linee_programmatiche_giannini.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

1025 Nel Regolamento generale UE 1303/2013, Disposizioni comuni, Art. 5 – Partenariato e governance

su più livelli, si legge “alla Commissione è conferito il potere di adottare un atto delegato conformemente all’articolo 149 per stabilire un codice allo scopo di sostenere e agevolare gli Stati membri nell’organizzazione del partenariato *…+ il codice di condotta definisce il quadro all’interno del quale gli Stati membri *…+ perseguono l’attuazione del partenariato”.

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“Per la scuola - competenze e ambienti di apprendimento”, con la realizzazione di

questo programma l’Italia

contribuisce all’attuazione della Strategia UE 2020 volta a condurre l’Europa fuori dalla crisi, colmando le lacune dell’attuale modello di crescita e trasformandola in un’economia intelligente, sostenibile e inclusiva caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale.1026

Vale la pena soffermarsi brevemente sulle prime pagine di questo documento: qui si

esplicita la «strategia per il contributo del programma alla strategia dell’Unione»1027.

Nell’utilizzo dei fondi assegnati al PON di cui sopra , l’Italia si impegna a promuovere

- una crescita intelligente, «agendo sul fronte dell’innalzamento delle

competenze di giovani e adulti, considerato che nei nuovi equilibri della

competitività internazionale spesso le risorse umane qualificate –

mediante la qualità dell’istruzione e del capitale umano – a fare la

differenza»1028. Una direzione che il programma intende perseguire

intervenendo «sul contrasto alla dispersione scolastica, sul

miglioramento della qualità del sistema di istruzione e dell’attrattività

degli istituti scolastici, potenziando gli ambienti di apprendimento,

favorendo la diffusione di competenze specifiche e sostenendo il

processo di innovazione e digitalizzazione della scuola»1029;

- una crescita inclusiva, ovvero «un’economia con un alto tasso di

occupazione che favorisca la coesione economica, sociale e

territoriale»1030. Per ridurre il numero di persone in situazione o a rischio

di povertà, il programma mira all’«adeguamento dei sistemi di istruzione

in direzione delle sfide poste da una società globale in continua

evoluzione *…+ e *a+l potenziamento del raccordo fra istruzione e mondo

del lavoro». Inoltre, per favorire l’inclusione sociale, «è rafforzato il

1026 PON “Per la scuola”, p. 2 http://www.istruzione.it/allegati/2014/PON_14-20.pdf, ultima

consultazione 27/01/2018 1027

Ibid. 1028

Ibid. 1029

Ibid. 1030

Ivi., p. 3

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concetto di scuola “aperta” al territorio»1031, creando un «centro civico in

grado di erogare attività didattiche, ricreative, sportive e sociali»1032;

- una crescita sostenibile, potenziando e adeguando il capitale umano

intervenendo «sulle competenze chiave degli studenti e

sull’innalzamento dei livelli di distruzione, quale contributo irrinunciabile

all’economia e alla competitività del Paese in rapporto alle politiche del

lavoro per i giovani»1033.

Nel contribuire al raggiungimento di questi obiettivi, il PON assume come

esigenze nazionali le quattro sfide identificate nelle raccomandazioni del

Consiglio europeo sul programma nazionale di riforma 2014 dell’Italia1034:

assicurare l’operatività del sistema nazionale per la valutazione (SNV) degli

istituti scolastici al fine di migliorare i risultati della scuola; ampliare i sistemi di

istruzione basati sul lavoro; istituire un registro nazionale delle qualifiche per

garantire un ampio riconoscimento delle competenze; combattere l’abbandono

scolastico1035. Questi interventi si inseriscono entro il quadro strategico

“Istruzione e formazione 2020” (ET 2020), che sollecita la cooperazione degli

Stati membri affinché siano raggiunti i seguenti risultati: l’apprendimento

permanente e la mobilità divengano una realtà; sia migliorata la qualità e

l’efficacia dell’istruzione e della formazione; sia promossa l’equità, la coesione

sociale e la cittadinanza attiva; venga incoraggiata la creatività e l’innovazione,

inclusa l’imprenditorialità a tutti i livello di istruzione e formazione. Assumendo

questi ambiti di intervento quali prioritari entro il progetto di riforma nazionale,

l’Italia contribuisce alla realizzazione di due Obiettivi Tematici (OT) dell’“Accordo

di Partenariato”: l’OT 10 “Investire nell’istruzione, formazione e formazione

professionale, per le competenze e l’apprendimento permanente” e l’OT 11

“Rafforzare la capacità istituzionale delle autorità pubbliche e delle parti

interessate e un’amministrazione pubblica efficiente”. In sintesi, dichiara il

programma,

1031 Ibid.

1032 Ibid.

1033 Ibid.

1034 Come ricorda la nota 3 di p. 4, all’approvazione del programma nazionale di riforma è legato il

parere del Consiglio europeo sul programma di stabilità degli Stati membri. 1035

Ivi., pp. 4-5

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la strategia di intervento che informa tutte le azioni previste dal Programma mira a garantire un sistema scolastico più efficace ed efficiente *…+ assicurando a tutti i giovani l’acquisizione di quelle competenze ritenute indispensabili per operare in una società sempre più complessa e

globalizzata. 1036

Il programma si pone come «leva efficace rispetto all’attuazione dei processi di

riforma» per «migliorare l’intero sistema ed elevare la qualità dell’insegnamento

e la dotazione di capitale umano intervenendo sui livelli di istruzione prescolare,

primaria e secondaria»1037.

Per continuare a destabilizzare l’effetto di familiarità che questo discorso

porta con sé, vogliamo cimentarci in una traduzione dei frammenti presentati,

facendo ricorso ad un linguaggio altro, capace di illuminare gli effetti di potere di

questi – apparentemente neutrali - strumenti politici. Mettendo all’opera le lenti

critiche allestite nei capitoli precedenti, la riforma italiana appare come effetto e

strumento di una strategia governamentale europea, la quale, attraverso la

diffusione di tecnologie di europeizzazione (quali sono i quadri strategici di

collaborazione e la distribuzione di fondi vincolata al raggiungimento di obiettivi

comunitari) chiede agli Stati membri di avviare, attraverso forme di autonomia

organizzativa, interventi permanenti di riconfigurazione dei propri sistemi di

istruzione e formazione. Le iniziative di riforma consentono così, al tempo

stesso, di garantire il progresso socio-economico (l’auto-realizzazione) del

singolo Stato membro (obiettivo di auto-governo nazionale) e di contribuire

all’avanzamento della strategia “Europa 2020” (obiettivo di governo europeo).

Tuttavia, è interessante notare in quale modo sia oggettivato il contributo dei

sistemi scolastici all’obiettivo di crescita e quale stile di governo sia richiesto agli

Stati membri: la scuola è problematizzata nella forma dell’impresa, dovendo

costantemente trovare un modo (essere aperta) per adeguare la produzione

(offerta di competenze) alle richieste (bisogni) dell’ambiente (rendendosi

attrattiva per famiglie-studenti-clienti e stakeholders-imprenditori). Al tempo

stesso, gli stessi Stati sono invitati ad intervenire con riforme strutturali per

creare l’infrastruttura entro cui stimolare la produzione di capitale umano (ad

1036 Ivi., pp. 3-4

1037 Ibid.

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es. attraverso dispositivi di controllo della qualità) e favorire le soggettività

imprenditoriali (la cui auto-realizzazione assicura crescita economica e

inclusione sociale). Gli stessi Stati sono invitati a condursi come un’impresa, in

competizione con altri Stati. La governamentalità europea sollecita attivamente

una certa forma di auto-governo (di libertà) degli Stati membri (per poi agire in

senso strategico (strumentale) su questa libertà stessa. Chiedendo di sottoporre

questa libertà al tribunale economico e della qualità, la governamentalità

europea assume i tratti di una governamentalità neoliberale.

Rivolgiamoci ora al discorso riformistico nazionale1038, per tratteggiare il

regime di verità entro cui la riforma La Buona Scuola cerca di rendere accettabile,

legittima, se non addirittura auspicabile, la continua “modernizzazione” (il continuo

adattamento) dei sistemi di istruzione e formazione. Qual è l’orizzonte di possibilità

allestito entro cui La Buona Scuola dà nuova forma all’istituzione scolastica?

3.1.2 “Crescere, competere, correre”

Come dichiarato nel piano di riforma del 2014, La Buona Scuola vuole contribuire a

«ridefinire il modo in cui pensiamo, formiamo e gestiamo la missione educativa della

scuola»1039. Il principio a cui questa ridefinizione sembra ispirarsi è quello

dell’investimento, termine chiave che attraversa l’intero documento: la scuola è «un

investimento sul futuro»1040; i docenti migliori sono coloro che vogliono «tornare, oggi,

ad investire su loro stessi»1041, cosi da rendere possibile «tornare veramente, già

domani, a investire sugli studenti»1042; la digitalizzazione della scuola è «la visione su

cui vogliamo investire»1043, sollecitando «una iniziativa nazionale di co-investimento

per la dotazione tecnologica della scuola»1044; le risorse impiegate nella scuola «non

sono un costo»1045 o una «voce di spesa»1046, ma un «investimento collettivo»1047 che

1038 Questo linguaggio, infatti, è diffuso tanto tra i politici che propongono le iniziative di riforma, quanto

tra coloro che provano a criticarle, esprimendosi solamente nel merito dei contenuti e dell’efficacia della riforma, senza mai discutere l’orizzonte di pensiero entro cui la riforma – e il suo linguaggio – si incardina.

1039 Documento “La Buona Scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p.6

1040 Ivi., p. 8

1041 Ivi., p. 48

1042 Ivi., p. 48

1043 Ivi., p. 76

1044 Ivi., p. 76

1045 Ivi., p. 35

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«deve essere apertamente incentivato»1048; vi è «un fatto evidente: *…+ quello sulla

qualità del tempo speso a scuola dai nostri giovani è l’investimento più lungimirante

che un Paese possa fare»1049. L’investimento si carica di un valore cruciale e salvifico:

Sappiamo bene che l’istruzione è un investimento strategico, e uno Stato moderno ha solo un’alternativa davanti: credere nell’istruzione, e investirci risorse ed energie. Oppure non crederci, e consegnarsi a un futuro di declino.1050

Ma in che termini si deve intendere questo “investimento nel futuro”? Qual è l’oggetto

a cui si rivolge e quale profitto consente di ottenere? In che modo questo investimento

è così decisivo? Il frammento seguente sembra indicare delle possibili risposte:

Perché è investendo nella scuola che attrezziamo le future generazioni a stare al passo col mondo di oggi e ci dotiamo di quel capitale umano che serve per tornare a crescere, competere, correre e assicurarci negli anni a venire sviluppo

economico e progresso sociale e civile. 1051 Nel tentativo strategico di mobilizzare tutte le risorse della popolazione (economiche,

cognitive, sociali) verso la crescita del Paese (profitto atteso), il discorso interpella

ciascun cittadino quale potenziale imprenditore, invitandolo ad investire nella scuola

(oggettivata quale impresa di produzione di capitale umano) o in se stesso (adeguando

il proprio capitale umano attraverso processi di apprendimento di competenze

specifiche). Tuttavia, ogni investimento implica dei rischi, rendendo necessario

elaborare delle strategie per aumentare gli utili (strategie d’efficacia) e ridurre gli

sprechi e le perdite (strategie d’efficienza). In questa prospettiva si comprende la

volontà di stanziare dei fondi solo «in ragione di obiettivi chiari e strategici di

potenziamento di ciò che i ragazzi imparano a scuola, anche sulla base di indicazioni

nazionali»1052 e «di vincolare gli investimenti all’effettivo miglioramento dei singoli

istituti e al merito di chi lavora per produrlo»1053. Da qui la necessità di rendere

misurabili i risultati di apprendimento degli studenti, riconfigurati in termini di

competenze visibili e comparabili; e di misurare le iniziative per il loro miglioramento

1046 Ivi., p. 119

1047 Ivi., p. 124

1048 Ivi., p. 124. Tra gli strumenti proposti: School Bonus, un bonus fiscale per un portafoglio di

investimenti privati nella scuola; School Guarantee, per chi investe nella scuola che crea occupazione; forme di co-finanziamento e Crowdfunding.

1049 Ivi., p. 104

1050 Ivi., p. 118

1051 Ivi., p. 35

1052 Ivi., p. 119

1053 Ibid.

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(in termini quantitativi e qualitativi: capitale maggiore e più pertinente) intraprese da

parte dei singoli docenti (ad es. acquisendo le competenze richieste e cooperando

all’innovazione organizzativa) e delle singole scuole (a cui è richiesto di auto-

monitorarsi, auto-valutarsi, auto-esporsi). In linea con le raccomandazioni del Consiglio

europeo del 2014, la ministra Fedeli ribadisce:

nell’ottica di garantire efficacia ed efficienza, è necessario ripartire dal sistema nazionale di valutazione, che costruisce uno strumento di forte impatto, se inquadrato in una visione di valutazione formativa per il miglioramento delle scuole e per la crescita professionale dei dirigenti e dei docenti. 1054

Prima di lei, la ministra Giannini aveva affermato:

il capitolo valutazione è, a mio avviso, il singolo capitolo che può decidere da solo se saremo in grado di dare al Paese una scuola moderna nella funzionalità e negli obiettivi e anche nella sua missione fondante, o se accettiamo di tenerci quella

del Novecento.1055

Oltre a favorire l’assunzione di un ethos di tipo imprenditoriale da parte delle scuole e

degli studenti, la misurazione della qualità in termini di risultato di apprendimento ha

un effetto di retroazione prescrittiva sullo stile di insegnamento dei docenti, ai quali è

gradualmente imposto un approccio didattico – “moderno” e funzionale - fondato sulle

competenze. L’incentivo ad utilizzare le tecnologie digitali, a diffondere il pensiero

computazionale, a valutare gli apprendimenti con risoluzioni di compiti di realtà, fino

alla diffusione di forme di apprendimento basato sul lavoro, sono tutti strumenti volti a

plasmare una certa relazione con il sapere, che si comprende in termini pragmatici e

operativi, di utilità pratica immediata o di investimento nell’utilità futura.

In stretto rapporto con la valutazione, tra gli strumenti con maggior impatto

sulla ridefinizione della missione educativa della scuola troviamo quello

dell’autonomia. Secondo l’art.1 de La Buona Scuola (Legge 107/2015), rendere

effettiva l’autonomia degli istituti scolastici è fondamentale «per affermare il ruolo

centrale della scuola nella società della conoscenza e innalzare il livello di istruzione e

le competenze delle studentesse e degli studenti *…+, per realizzare una scuola aperta,

quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di

partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva, per garantire il diritto *…+ di

1054 V. Fedeli, Linee programmatiche 2017, Op. cit., p. 8,

1055 S. Giannini, Linee programmatiche 2014, Op. cit., p. 8

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istruzione permanente dei cittadini»1056. Come possiamo tradurre questo articolo con

linguaggio inattuale? Al fine di assicurare l’adattamento permanente del capitale

dell’intera popolazione (riducendo l’abbandono, innalzando le competenze e

realizzando l’istruzione permanente) alle trasformazioni della società tecnologica

avanzata e del capitalismo cognitivo (accompagnando la società della conoscenza nel

suo mutamento), la scuola deve dotarsi di meccanismi autonomi (autonomia) di

riconfigurazione continua dei processi di apprendimento (i laboratori di

sperimentazione e innovazione didattica) capaci di soddisfare (si aprono) le esigenze

(anche di partecipazione) dei diversi portatori di interesse. Quale significato assume,

all’interno di questo scenario, l’“educazione della cittadinanza attiva”? Stando alle

indicazioni ministeriali, La Buona Scuola vuole smarcarsi dalla missione educativa del

Novecento, adeguandola “ai tempi che corrono”. Se la scuola del secolo scorso ha

esercitato una funzione strategica nella formazione del cittadino dello Stato nazionale,

organizzato e pensato come Stato liberale o come Stato sociale, la scuola

contemporanea è chiamata a riconfigurarsi entro la governamentalità politica attuale,

entro cui lo Stato non è né liberale né sociale, ma assume le forme di uno Stato attivo

e dinamico, che valuta (evalutative state1057) e abilita (enabling state). Nello Stato

“moderno”1058 la modalità di governo privilegiata è quella dell’attivazione,

1056 Legge. 107/2015, Art.1, http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/07/15/15G00122/sg, ultima

consultazione 27/01/2018 1057

Questa nozione, coniata da Guy Neave, è utilizzata da V. Pinto in senso ampio per indicare la complessiva ristrutturazione neoliberale dello Stato. Su questo si rimanda a V. Pinto, “La valutazione come strumento di intelligence e tecnologia di governo”, aut aut, n. 360, 2013, pp. 16-42

1058 Ciò che La Buona Scuola intende con “Stato moderno” è ben esplicitato dalla ministra Carrozza, la

quale ha posto le basi entro cui si è poi sviluppato il progetto di riforma. Il discorso con cui il ministro presenta le linee programmatiche del dicastero in Parlamento convoca in poche pagine tutti gli elementi più significativi del regime di verità che qui si cerca di analizzare. In questa sede, ci limitiamo a convocare due frammenti del suo intervento. Nel primo, il ministro esplicita il rapporto tra la trasparenza dell’accountability (continua verifica del rapporto costi/benefici) e la «visione moderna dello Stato, che assegna i vari soggetti del sistema un budget finanziario con la fissazione di obiettivi da raggiungere, lasciando agli stessi la decisione politica di come gestire le risorse. Ciò ovviamente presuppone un forte mutamento culturale e una pratica della gestione e della valutazione secondo standard internazionali: criteri lontani da un’ottica burocratica e da un modello teso più a imbrigliare gli attori del sistema che non, invece, a fornire elementi conoscitivi, necessari, sia per il miglioramento della propria performance che per limitare la discrezionalità ministeriale (ad esempio ai fini del riparto dei finanziamenti)», Linee programmatiche, p.4, http://www.flcgil.it/sindacato/documenti/miur/testo-audizione-ministro-maria-chiara-carrozza-alle-commissioni-della-camera-e-del-senato-del-6-giugno-2013.flc, ultima consultazione 27/01/2018. Ciò che verrebbe da chiedere alla ministra Carrozza è questo: in che modo, con l’utilizzo di mezzi che strutturano e limitano il campo di possibilità di chi li utilizza, i soggetti possono formare ed esercitare il proprio giudizio politico (se non bastasse quello professionale)? La libertà che lo Stato moderno offre

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dell’empowerment, della mobilizzazione (mobilitazione): l’intimazione a “crescere,

competere, correre”, pena l’esclusione sociale. Sono i singoli individui, con il proprio

capitale umano e sociale a dover trovare – da veri protagonisti - le soluzioni ai

problemi che incontrano, problemi che sono progressivamente desocializzati e

depoliticizzati. La forma della società e dell’economia non si pianifica, ma si controlla,

incentivando le iniziative imprenditoriali. Come si diceva, nella prospettiva della

governamentalità neoliberale, la sola politica sociale è una politica economica1059. Non

c’è altra alternativa. Così, nel PON Per la scuola – competenze e ambienti per

l’apprendimento, alla voce “contributo italiano all’innovazione sociale”, si dichiara:

il MIUR promuoverà azioni innovative che possono promuovere un’economia sociale più competitiva. L’obiettivo è di incentivare lo sviluppo di soluzioni alternative, più efficaci e sostenibili di quelle preesistenti, per rispondere ai bisogni della collettività insoddisfatti, migliorando i risultati in termini sociali. *…+ La prevenzione dell’abbandono scolastico rappresenta una delle tematiche prioritarie che l’innovazione sociale può contribuire ad affrontare.1060

L’educazione alla cittadinanza può essere quindi tradotta nei termini di un’auto-

mobilizzazione e di un continuo adattamento del proprio capitale al fine di assicurarsi

l’inclusione sociale, ossia l’inclusione in un ambiente in cui è possibile la soddisfazione

ai cittadini, ricorda un Racconto per bambini che Anders scrive riflettendo sulla radio e sulla televisione, narrando di un re che regala al figlio – coincidenza - una carrozza. Ci permettiamo di riportarlo per intero: «Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio personale sul mondo; perciò gli regalò carrozza e cavalli. “Ora non hai più bisogno di andare a piedi” furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito farlo” era il loro significato. “Ora non puoi più farlo” fu il loro effetto». G. Anders, L’uomo è antiquato, Op. cit., p. 95

1059 Ancora la ministra Carrozza, «scuola di qualità significa anche muoversi sulle nuove linee

dell’apprendimento permanente per la crescita e del potenziamento dei sistemi integrati di istruzione, formazione e lavoro. L’attuazione delle norme contenute nella recente legge (L.92/2012) di riforma del mercato del lavoro è una priorità strategica da realizzare anche attraverso servizi di istruzione, formazione e lavoro, organicamente collegati. Occorre valorizzare i saperi e le competenze posseduti, necessari per rafforzare l’esercito dei diritti di cittadinanza, la coesione sociale, lo sviluppo delle imprese, l’innovazione del modello di welfare e delle politiche del lavoro, l’invecchiamento attivo della popolazione, in modo da sostenere la crescita del patrimonio culturale, professionale ed economico del Paese», p. 23 Appare qui evidente la traduzione di tutti i problemi politici come problemi di apprendimento (di quantità e adeguatezza del capitale umano e sociale) e la trasformazione del modello di welfare in direzione di un modello di learnfare, che assume le forme di una nuova forma di workfare (la messa al lavoro del proprio capitale al fine dell’occupabilità). Interessante, ma al di fuori dell’obiettivo di questa ricerca, sarebbe analizzare il contributo che una certa parte della ricerca pedagogica ha fornito alla costruzione di questo orizzonte discorsivo, spesso riferendosi al pensiero di J. Dewey, M. Nusbaumm e A. Sen. Si segnala, a titolo di esempio, il lavoro di Massimiliano Costa, da “Agency formativa per il nuovo learnfare”, in Formazione & Insegnamento. Rivista internazionale di Scienze dell’educazione e della formazione, Vol 10, n.2, 2012, pp. 83-107 fino al più recente “La governance capacitante per lo sviluppo del sistema scolastico”, Formazione & Insegnamento. Rivista internazionale di Scienze dell’educazione e della formazione, Vol. 15, n.1, 2017, pp. 175-178

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dei propri bisogni attraverso l’impiego e l’investimento del capitale (anche sociale) di

cui si è impresari. Tutti, qualsiasi sia il contesto economico-sociale di provenienza,

devono essere incentivati a questa forma di auto-imprenditorialità, a diventare

cittadini attivi, cittadini responsabili. La responsabilità politica assume le forme della

responsabilità “sociale” di impresa. All’interno di questo orizzonte, di questo campo di

possibilità, sembra completamente inutile, irrazionale, se non addirittura pericoloso

(fonte di possibili conflitti), ogni tentativo di mettere in discussione l’attuale forma di

vita comune, di immaginare altri modi – altre ragioni – secondo cui vivere insieme.

Dinnanzi agli indomabili mutamenti dell’ambiente globalizzato, la cittadinanza sembra

completamente depoliticizzata, l’unico destino possibile è l’adattamento proattivo alle

“magnifiche sorti e progressive” della società della conoscenza. Il giudizio politico è

rimosso e con esso, forse, anche la dimensione politica della democrazia1061.

Investimento, qualità, valutazione, autonomia, responsabilità, flessibilità, competenze,

competizione, cittadinanza attiva, inclusione, innovazione, apertura. E non

dimentichiamo, lifelong learning e occupabilità. Sono questi concetti, qui indagati nelle

loro relazioni, ma altrove opportunamente separati e ricombinati in senso più

strategico, i termini principali che, negli ultimi vent’anni, hanno contribuito a costruire

il campo di possibilità entro cui le istituzioni scolastiche sono oggi pensate e

riorganizzate. Per riuscire a mapparlo, a riconoscerne i limiti, è stato necessario

collocare i diversi termini nella costellazione storica che li (pre)comprende, fuggendo la

tentazione di analizzarli come concetti isolabili dal presente in cui sono convocati. La

più recente riforma nazionale ha contribuito a consolidare questo discorso, senza

celarne la razionalità, anzi, urlandola a gran voce a reti unificate: “Italiani! È arrivata la

Buona Scuola! Porterà qualità, innovazione, valutazione e competenza! Italiani, è

arrivata la Buona Scuola e la risposta strutturale alla disoccupazione: l’auto-

capitalizzazione, italiani! Facciamo ripartire il paese: abbiamo il capitale umano di

ricambio per la competitività delle vostre imprese. Se avete perdite di competitività,

1061 Negli ultimi decenni, sono molti gli studiosi che hanno messo in dubbio lo stato della democrazia

nella società contemporanea. Tra questi ne segnaliamo alcuni: Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003; S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma - Bari, Laterza, 2004; J. Rancière, L’odio per la democrazia, Napoli, Cronopio, 2009; W. Brown, Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, New York, Zone Books, 2015

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con la Buona Scuola le aggiustiamo; se ciò che si apprende non è utile, noi lo togliamo

dalla vostra scuola. Lavoro subito, immediato. È arrivata la Buona Scuola!”1062. Quale

opportunità migliore per affrontare con responsabilità le imprevedibili società ed

economia della conoscenza? Come osservava Barthes, la causa che fa proferire un

discorso mitico è esplicita «ma è immediatamente bloccata in una natura; non viene

letta come movente, ma come ragione»1063.

Ora che abbiamo tratteggiato i confini dell’orizzonte discorsivo entro cui siamo

in ogni momento (lifelong) e in ogni luogo (lifewide) interpellati, vogliamo analizzare

alcuni degli strumenti che La Buona Scuola “mette in campo” per rendere operativa la

propria razionalità. Tra le tante “innovazioni tecnologiche” introdotte dalla riforma,

vogliamo concentrarci su due in particolare, il cui impiego è reso obbligatorio con forza

legislativa: il profilo digitale associato ad ogni docente (comma 80 della Legge

107/2015)1064 e l’alternanza scuola-lavoro nei tre anni conclusivi delle scuole superiori

di secondo grado (commi 33-42 della Legge 107/2015).

Non si intende in questa sede indagare l’efficacia di questi strumenti,

analizzando come e quando siano impiegati, raccogliendo buone pratiche ed

elaborando piani operativi di miglioramento. Ciò che si intende fare è analizzare questi

strumenti come tecnologie di potere, un’indagine che riteniamo fondamentale per

comprendere i meccanismi di potere con cui la riforma agisce una riconfigurazione del

dispositivo scolastico, intervenendo sulle modalità con cui docenti e gli studenti si

relazionano ai saperi (audace sarebbe scrivere cultura), alla realtà del proprio tempo

(tra cui spicca il mondo del lavoro) e alla propria libertà (attraverso specifiche

tecnologie del sé).

1062 Come spiega Daniele Bazzano, Media specialist e consulente web marketing, la classica registrazione

dell’arrotino, ripetuta a gran voce tra le strade del Paese, incarna perfettamente lo stile più efficace del web marketing: evita “papponi metafisici” e arriva subito al dunque, individua la mission, esplicita il proprio target, offre una serie di parole chiave specifiche (le keywords per i motori di ricerca), comunica in modo efficace (chiaro, sintetico, semplice), indica il problema e offre una soluzione (orientando e rassicurando), ripete il suo messaggio così da restare nella mente di chi lo ascolta (http://www.danielebazzano.it/genio-marketing-arrotino/, utlima consultazione 27/01/2018). Lo stesso ci sembra poter dire dello stile comunicativo del piano di riforma La Buona Scuola, al cui linguaggio imbonitore si accompagna un’impaginazione grafica color pastello, che affianca alle parole chiave delle immagini stilizzate e positive, a presa rapida (e rassicurante) sul lettore.

1063 R. Barthes, Miti d’oggi, Op. cit., p. 210

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3.2 Gli strumenti de La Buona Scuola

3.2.1. Profilo online

A sostenere la creazione di un profilo online per ogni docente sono due dei pilastri

strutturali de La Buona Scuola: il Piano Nazionale Scuola Digitale e il Piano per la

formazione dei docenti 2016-2019. La costruzione di un’identità digitale unica è

indicata come strategica al fine di migliorare i risultati di apprendimento, grazie alla

sua capacità di agire su una molteplicità di livelli: il reclutamento e il sistema di

formazione dei docenti, il potenziamento delle competenze digitali, «la costruzione da

parte delle istituzioni, delle scuole e del mercato, di servizi veramente efficienti, per la

didattica come per la cittadinanza digitale»1065.

La Legge 107/2015 introduce la “Carta del Docente”, uno strumento che

«aggiunge un valore fondamentale all’offerta del MIUR per valorizzare il proprio

capitale umano», assegnando ad ogni insegnante dei fondi da destinare ad acquisti

funzionali alla propria formazione. Alla carta si associa un’identità digitale con la quale

il docente può accedere alla piattaforma online dedicata all’incontro tra la domanda e

l’offerta di formazione, raccogliendo tutta la documentazione (certificati, relazioni,

questionari di valutazione) relativi all’utilizzo dei fondi stanziati. Al tempo stesso,

l’istituzione di una identità digitale per ciascun docente crea lo spazio di visibilità entro

cui raggruppare tutte le informazioni relative alla vita amministrativa, professionale e

formativa del docente1066. Come evidenziato nel Piano Nazionale Scuola Digitale

1065 Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), p.29,

http://www.istruzione.it/scuola_digitale/allegati/Materiali/pnsd-layout-30.10-WEB.pdf, ultima consultazione 27/01/2018

1066 La Buona Scuola istituisce il profilo online anche per tutti gli studenti della scuola secondaria di

secondo grado. Questa iniziativa non costituisce una novità assoluta: dal 2008 ogni studente riceve una carta nominativa attestante il proprio status, così da usufruire di vantaggi e agevolazioni economiche offerte da partner aderenti al progetto. Dal 2013 al 2015 la Carta dello Studente “IoStudio” è stata integrata con servizi digitali e poteva essere attivata come “borsellino elettronico” (carta prepagata ricaricabile): l’utilizzo di questi servizi associava ad ogni studente un profilo online, la cui creazione era subordinata alla registrazione facoltativa dello stesso. La riforma si inserisce in questo contesto codificando «la necessità di dotare gli studenti di un profilo digitale, trasformando quella che fino ad ora era un’opportunità per gli studenti in un diritto» e associando al profilo l’auto-documentazione dei propri risultati di apprendimento: «con “La Buona Scuola” al profilo digitale dello studente è associato anche il curriculum delle esperienze formative maturate durante il percorso scolastico»

1066. Da una parte semplifica l’accesso di ogni studente alle eventuali iniziative di diritto allo

studio (ampliando le opportunità di apprendimento), dall’altro crea uno spazio di visibilità delle competenze personali, incentivandone l’auto-esposizione. I curriculum, infatti, sono un «modo per

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In un unico strumento, quindi, si troverà modo di dare evidenza a: il lavoro in classe e a scuola, e quindi il portfolio professionale che ogni docente sviluppa, a partire dall’anno di prova e lungo tutto l’arco della carriera; il bagaglio di esperienze formative del docente, costruite tramite i percorsi offerti dal Ministero o indipendentemente, anche attraverso la Carta del Docente.1067

Con l’istituzione di un profilo per tutti e per ciascuno, la riforma realizza due interventi

strategici, uno totalizzante e uno individualizzante. Da un lato crea una infrastruttura

digitale che consente ad ogni docente di dare evidenza al proprio capitale,

stimolandolo a tradurre in termini di competenze sia le proprie esperienze formative

(formali, informali, non formali) che la propria vita professionale. Dall’altro, associando

all’identità digitale del docente anche il suo “portfolio professionale”, costruisce uno

strumento fondamentale per controllare la formazione permanente, la valutazione e il

reclutamento dei docenti de La Buona Scuola. Vediamone, nel dettaglio il

funzionamento.

Con La Buona Scuola la formazione dei docenti diviene obbligatoria,

permanente e strutturale (comma 124). La formazione, si legge nel Piano 2016 - 2019 è

«il presupposto fondamentale per lo sviluppo professionale individuale e della intera

comunità docente, oltre che obiettivo prioritario da raggiungere per il 2020 nello

spazio europeo dell’istruzione e della formazione»1068. Organizzata entro il quadro

dell’autonomia scolastica, la formazione dei docenti mira a sviluppare le competenze

necessarie per lo sviluppo personale e professionale (misurato in relazione ad un

sistema di standard professionali, auto-documentato dal “portfolio professionale” e

auto-valutato nel “Piano individuale di sviluppo personale”), al miglioramento della

qualità dell’istituto (rispondendo al fabbisogno formativo definito dal RAV - Rapporto

di Autovalutazione e ai bisogni delle realtà locali) e a soddisfare le esigenze definite a

livello nazionale ed europeo (es. competenze del XXI secolo: lingue, competenze

digitali, scuola e lavoro1069), sviluppando il «capitale culturale, sociale e umano» che

consente di «sostenere e accelerare la crescita del nostro Paese»1070. All’interno di

certificare e valorizzare le competenze, formali e informali, che gli studenti acquisiscono durante gli anni della scuola, in orario scolastico ed extra-scolastico, anche individualmente», PNSD, p.58

1067 Piano Nazionale Scuola Digitale, p. 60, corsivo mio.

1068 Piano per la formazione dei docenti 2016 - 2019, p. 13,

http://www.istruzione.it/allegati/2016/Piano_Formazione_3ott.pdf, ultima consultazione 27/01/2018 1069

Ivi., p. 26 1070

Ivi., p. 4

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questa prospettiva, il “portfolio professionale” si pone come strumento indispensabile

per accompagnare il percorso di crescita dei docenti. In che modo è oggettivato questo

percorso di crescita? E come è interpellato l’insegnante che lo intraprende? Attraverso

l’utilizzo del “portfolio” il docente è chiamato ad un lavoro di auto-documentazione

costante che deve realizzarsi operando direttamente sulla piattaforma online. Le

finalità strategiche di questo strumento sono molteplici, attraverso il suo utilizzo il

docente è invitato a:

• descrivere il proprio curriculum professionale, comprensivo anche della propria

“storia formativa” (documentando le “Unità formative”1071 acquisite e permettendo di

valutarne l’efficacia);

• mettere a disposizione dei dirigenti scolastici il curriculum come supporto alla scelta

nella chiamata per competenze per l’assegnazione dell’incarico triennale;

• elaborare un bilancio di competenze e pianificare il proprio sviluppo professionale

(sul piano dell’efficacia e innovazione didattica, di partecipazione ad incarichi

organizzativi e di formazione, anche curando la documentazione e il proprio profilo);

• raccogliere e documentare fasi significative della progettazione didattica, delle

attività didattiche svolte, delle azioni di verifica intraprese.

A regime quindi, il portfolio digitale conterrà automaticamente il curriculum professionale di ogni docente (integrabile in ogni momento) e le attività formative raccolte automaticamente dalla piattaforma per l’incontro tra domanda e offerta di formazione e la carta elettronica del docente. Questo costituirà la base per lo sviluppo di un vero e proprio ecosistema digitale a sostegno della formazione, che non agisca solo come “passivo” meccanismo di raccolta, ma, attraverso un’attiva e consapevole partecipazione, anche come strumento di sviluppo professionale per il docente, di progettazione per la scuola, e di analisi e progettazione per l’intero sistema educativo per il MIUR.1072

Questo strumento si propone come uno strumento di supporto alla crescita personale

e professionale: i docenti sono sollecitati «a investire su loro stessi»1073 e a partecipare

in modo attivo e responsabile alla crescita del paese. Al tempo stesso, però, opera una

funzione di controllo delle scelte di formazione dei docenti, come meccanismo per

l’analisi del fabbisogno e come raccolta strutturale feedback per il miglioramento delle

1071 «Per la definizione delle Unità Formative, in fase di prima definizione può essere utile fare

riferimento a standard esistenti, come il sistema dei CFU universitari e professionali», Ivi., p. 67 1072

Ivi., p. 70 1073

Documento “La Buona Scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p. 48

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iniziative, anche attraverso la somministrazione regolare di questionari di gradimento

e di efficacia, «associati in sede di monitoraggio alla realizzazione di focus group e di

documentazione delle attività»1074. Inoltre, come già accennato, l’associazione del

“portfolio” alla propria identità personale consente di costruire uno spazio di visibilità

e di comparazione, favorendo il reclutamento dei docenti con le competenze più

adatte a soddisfare le esigenze dell’istituto (e del territorio). Ancor più, questo

strumento crea l’infrastruttura per misurare e confrontare il contributo di ogni

docente alla realizzazione del progetto di miglioramento dell’istituto (acquisendo le

competenze richieste e collaborando ai processi di innovazione), offrendo il supporto

materiale per organizzare in senso meritocratico gli scatti stipendiali: sostituendo gli

scatti di anzianità con gli scatti di competenza la riforma vuole offrire «un incentivo

reale a fare bene il proprio mestiere e cercare di migliorarsi sempre»1075. Secondo il

prospetto de La Buona Scuola «periodicamente, ogni 3 anni, due terzi (66%) di tutti i

docenti di ogni scuola (o rete di scuole) avranno diritto ad uno scatto di retribuzione. Si

tratterà del 66% di quei docenti della singola scuola (o della singola rete di scuole) che

avranno maturato più crediti nel triennio precedente»1076. Così facendo, il campo di

visibilità e comparazione viene sfruttato in senso competitivo: non solo i docenti sono

chiamati ad orientare la propria formazione verso l’acquisizione di competenze utili

all’adattamento del capitale umano (della scuola, del Paese, dell’Europa), ma sono

spinti - attraverso delle procedure premiali - ad acquisire più crediti (didattici,

formativi, professionali) dei propri colleghi o a spostarsi «in scuole dove la media dei

crediti maturati dai docenti è relativamente bassa e quindi verso scuola dove la qualità

dell’insegnamento è mediamente meno buona, aiutandole così ad invertire la

tendenza»1077. Attraverso l’utilizzo del profilo online (e del ‘portfolio’ associato) il

docente è interpellato in qualità di imprenditore di sé, stimolato a gestire in modo

autonomo, responsabile e autocritico il proprio capitale umano, finalizzando i propri

investimenti alla soddisfazione dei bisogni (propri e dei clienti) e sviluppando la

disponibilità a spostarsi in altri ambienti (scuole-mercati) in cui la propria posizione è

più competitiva. Dalla propria competitività dipende l’occupabilità e il bonus premiale,

1074 Piano per la formazione dei docenti 2016 - 2019, Op. cit., p. 71

1075 Documento “La Buona Scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p. 53

1076 Ibid.

1077 Ivi., p. 58

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ma i criteri da soddisfare per essere competitivi (le priorità strategiche a livello locale,

nazionale e internazionale) sono in costante trasformazione. Come nota Pongratz

dynamic form of quality measurement, which, in the framework of benchmarking or the invitation to quality prize (best practise institutions) unleashes the never-ending hunt for new records. Although one’s own position in the quality ranking is always only relative to one’s competitors, the push for improved performance never stops. Everyone occupies simultaneously and to the same extent the role of competition judge and contestant, the winner and the loser, the self-entrepreneur and the serf.1078

Lo strumento del profilo online, collocato nella rete di fattori che ne definiscono il

campo di emergenza, perde ogni apparente neutralità e si mostra quale mezzo efficace

per realizzare delle procedure disciplinari, instaurando dei meccanismi il cui potere

strategico si realizza attraverso l’introduzione di specifiche tecnologie del sé (es. la cura

della propria identità digitale). I docenti (così come gli studenti nella costruzione del

proprio curriculum) fanno esperienza di protagonismo, sono invitati ad operare

attivamente e a nutrire con abbondanza di dati il proprio profilo: a personalizzarlo, ad

uscire dal “grigiore” e dalla standardizzazione, a distinguersi, a non accontentarsi, a

mettersi in gioco1079. Ma se da un lato sono gli attori del processo di documentazione,

dall’altro ne restano l’oggetto1080. Se sono chiamati costantemente ad affermare la

propria identità, la propria specificità del proprio percorso di vita, al tempo stesso

questa unicità è sistematicamente ripudiata, orientando il comportamenti e le scelte

dei docenti verso degli standard internazionalmente riconosciuti, guidando la loro

domanda di formazione attraverso l’offerta prodotta1081. Se la formazione è «scelta

professionale che consente ampia autonomia culturale, progettuale, didattica, di

ricerca, nell’ambito della libertà di insegnamento e nel quadro delle innovazioni

scientifiche», questa libertà è strutturata entro una piattaforma precostituita, che

rimuove gli «approcci formativi a base teorica»1082, privilegiando un «modello

incentrato sulla formazione esperienziale tra colleghi»1083 e la diffusione di buone

pratiche di adattamento ai cambiamenti. Così, spiega Pongratz, le riforme educative

1078 L. Pongratz, “Voluntary Self-Control: Education reform as a governmental strategy”, Educational

Philosophy and Theory, Volume 38, Issue 4, August 2006 , Pages 471–482, p. 481 1079

Documento “La Buona Scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p. 48 1080

L. Pongratz, “Voluntary Self-Control: Education reform as a governmental strategy”, Op. cit., p. 477 1081

G. Anders, L’uomo è antiquato, Op. cit., p. 185 1082

Documento “La Buona Scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p. 47 1083

Ibid.

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operano secondo una strategia governamentale: «what used to be achieved through

direct external constraint or internalised authority, now has to be attained through

self-constraint»1084. Il profilo online - con l’imperativo etico al suo costante

aggiornamento - induce una forma di servitù volontaria: la disposizione autonoma ad

investire su ciò che serve e a mobilizzare le proprie competenze. Questa attitudine è

sollecitata dal regime di visibilità creato dalla “Scuola in chiaro 2.0”, la Data School che

il piano di riforma La Buona Scuola auspica possa diventare una «scuola di vetro», la

scuola della trasparenza, della visibilità totale. Sembrerebbe inevitabile un riferimento

a Bentham e agli effetti disciplinari dell’architettura panottica1085. Tuttavia, ciò a cui

assistiamo crediamo diverga dal modello carcerario in cui Foucault riconosceva il

paradigma del controllo sociale contemporaneo. Come osservano Tuschling e

Engemann,

While “in discipline, it is the subject who have to be seen” *…+ in this arrangement the individuals are urged to develop the wish to be seen. It is no longer the architecture of the enclosing institutions which exposes the individual to the gaze of power as described by Foucault; the individual tries to attract the gaze in an open field of competitors, where everybody simultaneously tries to present him/her self as ideal for a given task. This first step in the development is that the individuals themselves contribute the critical data necessary to erect the “regulated transparency” (Drummond, 2003, p. 59) that allows control in such systems. Inscribing oneself is the first sign of taking responsibility and the necessary precondition for later accountability.1086

La “profilazione” (ossia l’associazione di profili digitali a utenti o clienti) è a tutti gli

effetti una tecnica di produzione, organizzazione ed elaborazione di dati, «al fine di

suddividere l’utenza in gruppi omogenei di comportamento»1087 così da migliorare la

qualità dei processi di produzione. Come scrive Pinto, «ad elevare la trasparenza a

parola d’ordine della good governance globale non è la cura della democrazia, ma la

cura governamentale degli affari», la religione della produttività1088: il profilo online è

strumento integrante del dispositivo della qualità. Nel caso de La Buona Scuola, il

1084 L. Pongratz, “Voluntary Self-Control: Education reform as a governmental strategy”, Op. cit., p. 477

1085 Un’altra architettura trasparente è il Crystal Palace dell’Esposizione Universale di Londra, orientato

ad un capitalismo integrale. È forse questa, più che il Panopticon benthamiano ad ispirare la “scuola di vetro”, in cui ciascuno è invitato a fare mostra di sé, risultato appetibile per il mondo del lavoro. Su questo si rimanda a V. Pinto, “Trasparenza”, in F. Zappino, L. Coccoli, M. Tabacchini, Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, Milano-Udine, Mimesis, pp. 231-248

1086 A. Tuschling e C. Engemann, “From Education to Lifelong Learning: The emerging regime of learning

in the European Union”, Educational Philosophy and Theory, Vol. 38, No. 4, 2006, pp. 451-469, p. 464 1087

http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=profilazione, ultima consultazione 27/01/2018 1088

V. Pinto, “Trasparenza”, Op. cit., p. 241

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profilo è assegnato d’ufficio, l’accountability è assurta a modello della responsabilità

morale e manca di adeguare il proprio profilo è penalizzato nel proseguimento della

carriera. Ad essere favoriti sono i docenti disponibili a prestare il proprio servizio

gratuito (corvée) come impiegati volontari alla catena di monitoraggio e di

capitalizzazione di sé. È questa, precisa Pinto, la funzione disciplinare per cui la

trasparenza è concepita:

alla trasparenza, infatti, non compete tranquillizzare, ma piuttosto spronare: introdurre elementi di competitività, creare un ambiente di concorrenza, orientare le scelte dei cittadini, mettere in riga i comportamenti individuali, guadagnare consenso all’esterno, in breve forgiare lo spirito dell’homo oeconomicus.1089

Nel suo meccanismo di individualizzazione e totalizzazione (coinvolgendo tutti i

docenti e volendo certificarne tutti gli aspetti della vita), il profilo online esercita un

potere che con Lyotard potremmo descrivere come terrore performativo, come potete

totalitario. Ancora più, viene ridotto lo spazio per un’esistenza segreta, in cui ciascuno

conserva un’eccedenza non riducibile alle categorie prestabilite1090. L’identità digitale,

potremmo dire con Adorno, non tollera praticamente più ciò che da essa devia – solo

questo tratto totalitario costituisce la novità della situazione1091.

Anche nella scuola sembra iniziare a diffondersi un solo dolce comando: “publish or

perish”. Aggiorna più che puoi il tuo “portfolio” (adattando il tuo profilo alle richieste

dell’ambiente) o la tua carriera (e il tuo stipendio) non potrà avanzare.

3.2.2. Alternanza scuola-lavoro

In osservanza alle raccomandazioni del Consiglio europeo sul programma nazionale di

riforma 2014 dell’Italia, La Buona Scuola potenzia i processi di apprendimento basati

sul lavoro, trasformando lo strumento facoltativo dell’alternanza scuola-lavoro in un

obbligo istituzionale per tutti gli studenti degli ultimi tre anni di tutte le scuola

secondarie di secondo grado, Licei compresi. È il D.Lgs. 77/2005 a presentare per la

prima volta in Italia la realtà lavorativa come “ambiente di apprendimento”, offrendo

l’alternanza scuola-lavoro come opzione didattica, per promuovere l’acquisizione non

tanto di un’esperienza professionalizzante, ma di competenze specifiche. Questo

1089 Ivi., p. 246

1090 J. F. Lyotard, “The general line”, Political writings, London, Taylor & Francis e-Library, 2003

1091 T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Op. cit., pp. 31-32

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orientamento è ribadito dalle norme per il riordino degli ordini scolastici, il D.P.R. 15

marzo 2010 (convertito dalla L. 133/2008), che estende la possibilità di alternanza

scuola lavoro anche ai licei1092. Oggi, secondo il comma 33 de La Buona Scuola (Legge

107/2015), «al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di

orientamento degli studenti, i percorsi di alternanza scuola-lavoro *…+ sono attuati,

negli istituti tecnici e professionali, per una durata complessiva di almeno 400 ore e,

nei licei, per una durata complessiva di almeno 200 ore nel triennio»1093.

All’obbligatorietà del percorso, la legge delega de La Buona Scuola D. Lgs 62/2017

affianca un ulteriore vincolo istituzionale, che rafforza ulteriormente gli effetti di

potere di questo strumento: lo svolgimento dell’alternanza scuola-lavoro è condizione

di accesso all’esame di stato1094 e, ancor più, è con l’esposizione della sua esperienza

che il colloquio stesso deve iniziare1095. Quest’ultima “innovazione” segna in modo

netto la ridefinizione della missione educativa della scuola: allo studente non è più

richiesto di presentare un’esperienza di studio, una rielaborazione culturale,

progettuale o artistica, ma di presentare il percorso di alternanza scuola lavoro

espletato nel corso degli anni. La Buona Scuola, infatti, vuole essere «fondata sul

1092 A. Caldelli e D. Giovannini, “Breve storia dell’Alternanza”, in Quaderno per le competenze Alternanza

Scuola Lavoro, Loesche Editore, http://competenze.loescher.it/alternanza-scuola-lavoro.n5198, ultima consultazione 27/01/2018

1093 Legge 107/2015, comma 33

1094 D. Lgs. 62/2017, art. 13. Diviene prerequisito vincolante per partecipare all’esame anche il test

INVALSI. 1095

D. Lgs. 62/2017, art. 12, comma 2: «In relazione al profilo educativo, culturale e professionale specifico di ogni indirizzo di studi, l’esame di Stato tiene conto anche della partecipazione alle attività di alternanza scuola-lavoro, dello sviluppo delle competenze digitali e del percorso dello studente di cui all’articolo 1, comma 28, della legge 13 luglio 2015 n. 107». Art. 17, comma 9: «nell’ambito del colloquio il candidato espone, mediante una breve relazione e/o un elaborato multimediale, l’esperienza di alternanza scuola-lavoro svolta nel percorso di studi». Inoltre, la documentazione dell’alternanza scuola lavoro si inserisce nel curriculum dello studente che è associato alla sua identità digitale. Ulteriore novità introdotta dal D. Lgs 62/2017 è la seguente: «al diploma è allegato il curriculum della studentessa e dello studente, in cui sono riportate le discipline ricomprese nel piano degli studi con l’indicazione del monte ore complessivo destinato a ciascuna di esse. In una specifica sezione sono indicati, in forma descrittiva, i livelli di apprendimento conseguiti nelle prove scritte a carattere nazionale di cui all’articolo 19, distintamente per ciascuna delle discipline oggetto di rilevazione e la certificazione sulle abilità di comprensione e uso della lingua inglese. Sono altresì indicate le competenze, le conoscenze e le abilità anche professionali acquisite e le attività culturali, artistiche e di pratiche musicali, sportive e di volontariato, svolte in ambito extra scolastico nonché le attività di alternanza scuola-lavoro ed altre eventuali certificazioni conseguite, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 1, comma 28, della legge 13 luglio 2015, n. 107, anche ai fini dell’orientamento e dell’accesso al mondo del lavoro». La consegna del curriculum in sede d’esame ne rende ancora più forte il potere disciplinare.

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lavoro»1096, come dichiara il piano offerto alla consultazione dei cittadini. Una «scuola

al lavoro»1097, nel triplice senso che l’espressione porta con sé: i processi di

apprendimento sono de-localizzati nella realtà lavorativa, la scuola stimola lo spirito di

imprenditorialità e le competenze utili al mondo del lavoro, le istituzioni scolastiche

sono mobilizzate (devono “darsi una mossa”, potenziare il proprio capitale, migliorare

la produzione di nuovo capitale, trasformarsi in senso laboratoriale, innovare).

Obiettivo strategico per cui questo strumento è impiegato è la riduzione della

disoccupazione giovanile, impegnandosi a «raccordare più strettamente scopi e metodi

della scuola con il mondo del lavoro e dell’impresa»1098, «rafforzando l’apprendimento

basato su esperienze concrete di lavoro»1099. Secondo le analisi della ricerca Studio

ergo lavoro (2014) della società internazionale di consulenza manageriale

McKinsey&Company, il 40% della disoccupazione italiana non dipenderebbe dal ciclo

economico ed una parte di essa sarebbe collegata al disallineamento tra le

competenze richieste dal mondo del lavoro e quelle offerte dalla nostre scuole. Per

risolvere questo problema, la soluzione è una sola, la scuola deve sviluppare la

«capacità di stare al passo con il mondo»1100. A tal fine,

serve coinvolgere più attivamente le aziende, affinché si sentano fin dall’inizio parte integrante della filiera istruzione-orientamento-lavoro. Non si parlerà più di alternanza, ma di “formazione congiunta” tra la classe e il luogo di lavoro, tra la scuola e l’impresa. Le imprese e la scuola co-progettano, in coerenza con lo sviluppo delle filiere produttive, percorsi pensati per durare nel tempo.1101

Nel Piano per la formazione dei docenti, la competenza relativa ai percorsi scuola-

lavoro è indicata tra quelle prioritarie che ogni docente dovrebbe acquisire (così da

rendersi più attrattivo per il reclutamento e accumulare punti per lo scatto di

competenza). Nel piano è possibile ritracciare quello che vuole essere il «significato

culturale, educativo e “funzionale” dei percorsi di alternanza scuola-lavoro»:

Il rapporto tra scuola e mondo del lavoro *…+ risponde all’esigenza di consentire agli studenti di prendere contatto con una realtà produttiva, sociale, artistica e culturale in rapida trasformazione, di esplorare vocazioni, opportunità, tensioni

1096 Documento “La Buona Scuola. Facciamo crescere il paese”, Op. cit., p. 103

1097 Ivi., p. 106

1098 Ivi., 104-105

1099 Ivi., 106

1100 Ibid.

1101 Ivi., p. 109

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innovative, ma soprattutto di modificare il tradizionale rapporto tra il conoscere,

il fare e lo sperimentare. 1102 Buone esperienze di alternanza rappresentano per gli allievi un modo diverso di approfondire gli apprendimenti curriculari, contestualizzando conoscenze e misurandosi con l’acquisizione di nuove competenze in compiti di realtà e in contesti di impegno diretto. Dell’alternanza va enfatizzata la dimensione didattica e del social learning. 1103 In un’ottica moderna, inoltre, la formazione dello studente è orientata, oltre che verso i contenuti strettamente disciplinari, nella direzione di favorire l’inserimento del giovane in una dimensione organizzativa funzionante, favorendo l’acquisizione delle competenze necessarie all’agire con piena e immediata operatività. 1104 La dimensione orientativa che caratterizza i percorsi di alternanza dovrà trovare compimento attraverso l’incontro con le realtà più dinamiche dell’innovazione nel mondo del lavoro favorendo gli studenti nello sviluppo di competenze chiave espresse nell’Agenda Europa 2020, quali ad esempio l’imprenditorialità, intesa come spirito pro-attivo nei confronti delle problematiche affrontate, e lo spirito d’iniziativa. 1105

L’orientamento, in modo particolare, va rinnovato nelle sue pratiche, perseguendo

«una dimensione “verticale” di rafforzamento nelle ragazze e nei ragazzi di fiducia nei

propri mezzi, di intraprendenza, creatività, resilienza e capacità di fronte alle

“transizioni” permanenti»1106.

Preponderante rilievo viene così attribuito alla didattica per competenze (di cui

l’alternanza scuola-lavoro è stile applicativo), riducendo lo spazio, il tempo1107 e le

risorse per coltivare altre forme di relazione al sapere (sia nell’ambito

1102 Piano per la formazione dei docenti 2016-2019, Op.cit., p.47

1103 Ibid.

1104 Ivi., pp. 47-48

1105 Ivi., p. 48

1106 Ivi., p. 49

1107 Quanto incidono le 200 ore di alternanza nel triennio di un liceo? Un anno scolastico dura

approssimativamente 36 settimane (senza considerare i giorni dedicati alle visite, ai viaggi di istruzione e ad altre attività che esulano dalle lezioni, tra cui l’alternanza scuola lavoro). In un liceo linguistico uno studente frequenta 2 ore di filosofia alla settimana, arrivando a circa 72 ore in un anno. Questo significa approssimativamente 218 ore di filosofia in un triennio. Una cifra vicina a quella destinata all’alternanza scuola lavoro, la cui realizzazione va a detrimento degli altri insegnamenti. Eccezione prevista dalla legge è quella di realizzare le attività di alternanza scuola lavoro durante la sospensione delle attività didattica, una modalità che si offre però a critiche di tipo pedagogico (mancherebbe un momento di riflessione guidata in classe) e al rischio di utilizzo dell’alternanza come copertura a forme di sfruttamento, in modo particolare nei settori turistici ed alberghieri (ad es. http://www.lastampa.it/2017/07/05/italia/cronache/studenti-al-posto-dei-camerieri-la-preside-blocca-i-tirocini-negli-hotel-YkhQdwAHZm1FUxjCD6rXLL/pagina.html, ultima consultazione 27/01/2018).

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dell’insegnamento che in quello della formazione personale). L’innovazione degli

strumenti, degli ambienti e della didattica della scuola sono indirizzati al rafforzamento

dei risultati di apprendimento, ossia le competenze, ritenuti necessari per le future

generazioni. Come recita il Piano per la formazione del docente,

la didattica per competenze rappresenta *…+ la risposta a un nuovo bisogno di formazione di giovani che nel futuro saranno chiamati sempre più a reperire, selezionare e organizzare le conoscenze necessarie a risolvere problemi di vita personale e lavorativa. Questa evoluzione concettuale rende evidente il legame che si intende oggi realizzare tra le aule scolastiche e la vita che si svolge al di fuori di esse, richiedendo alla scuola – e soprattutto a ciascun insegnante – una profonda e convinta revisione delle proprie modalità di insegnamento per dare vita a un ambiente di apprendimento sempre più efficace e commisurato alle caratteristiche degli studenti. *…+ Allo stesso tempo occorre lavorare nella direzione di rafforzare l’applicazione di metodologie attive che rendano lo studente protagonista e co-costruttore del suo sapere attraverso il procedere per compiti di realtà, problemi da risolvere, strategie da trovare e scelte da motivare *…+ Attraverso una formazione che adotti il modello di ricerca-azione partecipata, i docenti avranno l’occasione di implementare il loro essere ricercatori e sperimentatori di proposte, pratiche didattiche e di strumenti di valutazione.1108

Il tono, ormai interiorizzato, è quello dell’inevitabilità. Il ritornello è altrettanto

familiare: la scuola deve operare una «profonda e convinta revisione», trasformandosi

in un «ambiente di apprendimento efficace». Secondo un’«ottica moderna», la scuola

dovrebbe assumere come modello il laboratorio artigianale (quello scientifico, forse,

chiederebbe troppa teoria), fondato sui principi del learning by doing, e rafforzare la

«filiera istruzione-orientamento-lavoro», richiamandosi ai principi del social learning.

Che cosa intende il MIUR con “social learning”1109? L’espressione è di derivazione

psicologica e rimanda alle teorie comportamentiste che Albert Bandura sviluppa alla

fine degli anni Settanta, rimarcando l’importanza dell’esempio e dell’imitazione

nell’apprendere un comportamento. Quale ambiente migliore dell’impresa (o della

bottega artigianale) per acquisire, osservandole in azione, le «competenze necessarie

1108 Piano per la formazione dei docenti 2016-2019, Op. cit., p. 30

1109 Al tempo stesso il termine social learning è diffuso nell’ambito della formazione aziendale e indica

un’evoluzione delle pratiche di e-learning, applicando i criteri del social business alle strategie di gestione del personale e ai processi di apprendimento. Favorendo la connessione, la condivisione, la partecipazione e il coinvolgimento di tutti i soggetti, anche attraverso piattaforme online, social e strategie di gamification, per favorire il miglioramento dell’azienda e della sua produttività. Su questo si rimanda al lavoro di Stefano Besana, tra i massimi riferimenti in Italia, e in particolar modo al suo blog: https://sociallearning.it/, ultima consultazione 27/01/2018

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all’agire con piena e immediata operatività»1110? La capacità di intervento e la

prontezza nel rispondere in modo efficace ai cambiamenti? In assenza di un’impresa

disponibile ad accogliere gli studenti, ben venga l’impresa simulata: l’imprenditorialità

è comunque stimolata.

Cambiamento, innovazione, modernità, futuro: orientata al XXI secolo, La Buona

Scuola si propone come una rivoluzione: «per essere l’avanguardia, non la retrovia del

Paese», per diventare «l’avamposto del rilancio del Made in Italy». Per raggiungere

questo obiettivo è necessario adeguare i fini e i mezzi della scuola a quelli del lavoro (o

meglio dell’impresa), potenziando il «saper fare», permettendo «ai ragazzi di

sperimentare e progettare con le proprie mani». È questo, dunque, il “nuovo” che La

Buona Scuola porta con sé? Digitalizzazione a parte, a guardar bene nella storia

troviamo sinistre somiglianze1111. Tra futurismo e avanguardismo, prende forma un

altro piano di riforma delle istituzioni scolastiche, a firma del ministro Giuseppe Bottai.

È il 19 gennaio 1939 quando il Gran Consiglio del Fascismo approva la Carta della

Scuola (modellata sulla Carta del Lavoro del 1927), affrontando il problema della

disoccupazione giovanile e la necessità di promuovere l’eccellenza nostrana,

valorizzando l’artigianato e investendo nell’innovazione industriale1112. Nella prima

dichiarazione della Carta, si esprimono i principi della nuova Scuola fascista: l’unità

della civiltà del popolo italiano, si «innesta, per virtù del lavoro, nella concreta attività

dei mestieri, delle arti, delle professioni, delle scienze, delle armi»1113. Non è qui

possibile soffermarsi in una sua puntuale lettura, analizzando ogni passaggio in modo

rigoroso, ma non possiamo esimerci dall’offrire alcune citazioni dalla relazione al Duce

del ministro Bottai:

1110 Piano per la formazione dei docenti 2016-2019, Op. cit., p.48, ultima consultazione 27/01/2018

1111 Anche Conte nota sinistre somiglianze tra la scuola di oggi e quella voluta dal fascismo. Se entrambe

mettono in secondo piano la cultura come fine in sè, «al nostro tempo il fine generale non è più il consenso al regime fascista ma alla economia di mercato e alla razionalità neoliberista», in Didattica Minima, Op. cit., p. 88, e più ampiamente pp. 85-91

1112 Per un maggiore approfondimento si rimanda a M. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo,

Bari, Laterza, 1981; A. Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Bologna, Il Mulino, 2007, in particolare pp. 174- 202; Luigi Ambrosoli, “La scuola secondaria”, in G. Cives. (a cura di), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1990, pp. 105-107. Per una bibliografia dedicata alla storiografia della scuola si veda F. Cambi, “La scuola italiana nella storiografia”, in G. Cives (a cura di), La scuola italiana, op. cit., pp. 363-414

1113CARTA DELLA SCUOLA (Riunione del Gran Consiglio del Fascismo, del 15 febbraio 1939-XVII), Dich. I,

http://www.biblioarti.beniculturali.it/opencms/multimedia/BollettinoArteIt/documents/1410785833361_02_-_Carta_della_scuola_p._217.pdf (la numerazione delle pagine si riferisce a quella del documento online), ultima consultazione 27/01/2018

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L'idea d'una «Carta della Scuola» mi fu, da Voi, Duce, indicata come la più acconcia a darci un agile strumento di riforma dei nostri ordinamenti scolastici, e soprattutto, dei loro principi, fini e metodi. Una legge, infatti, non avrebbe corrisposto allo scopo, che non è tanto quello di riformare l'una o l'altra struttura scolastica *…+ quanto quello di mettere la Scuola italiana, tutta la Scuola, dalla pre-elementare o materna, all'universitaria, su di un altro piano. Una «Carta della Scuola », che contenga in sé tutti i principii necessari a una rinnovazione rivoluzionaria della Scuola secondo la nostra dottrina, ci appare matrice di future leggi, che, studiate per ogni tipo di Scuola e per ogni aspetto dei problemi, che alle varie Scuole fan capo, acquisteranno, in confronto di una legge generale, vigor di concretezza e di precisione1114. Questa investe, ho detto, tutta la Scuola. Anche dove non ci siano strutture e congegni da rivedere o da rifare subito deve circolare il suo spirito nuovo. Come la « Carta del Lavoro », a suo tempo, riassunse e riespresse, accanto a affermazioni di principio nuovissime, principii già codificati da leggi precedenti (nella fattispecie, le leggi sindacali del 1926), così la « Carta della Scuola» riassume e riesprime principii contenuti in leggi e provvedimenti già in vigore, accanto a principii profondamente innovatori. Nè il richiamo frequente alla «Carta del Lavoro» è occasionale o formale. Uno è lo spirito, con cui il Regime procede, dal lavoro alla Scuola. Perciò, questa, nella I Dichiarazione, si inquadra nella definizione dello Stato, dettata dalla I Dichiarazione della «Carta del Lavoro»; e vi s'inquadra dando subito il senso della sua «socialità» e della sua «politicità », proclamando la sua volontà di valersi del lavoro per inserire la sua attività di cultura nella concreta attività produttiva del popolo, inteso nella sua più alta e vasta accezione. Questo del «lavoro» è uno dei principii essenziali della riforma, che la Dichiarazione V, riproducendo testualmente la definizione contenuta nella II Dichiarazione della «Carta del Lavoro », ribadisce, estendendolo a tutti gli ordini e tipi di Scuola: novità capace di per sè di rivoluzionare una Scuola, che intenda alla alla formazione di un nuovo carattere e di una nuova intelligenza. 1115

L’intento rivoluzionario, di ridefinizione dei fini, dei principi e dei metodi si realizza

con strumenti precisi: accanto alla scelta dello strumento giuridico della Carta (snello

e capace di attraversare tutti i gradi di istruzione), troviamo la formazione di «un

quadro compiuto della Scuola fascista, traducibile anche in tavole grafiche di comune

comprensione»1116, che facilitano la «formazione di una coscienza scolastica, oggi

respinta dalla difficoltà di penetrare nella congerie delle leggi, dei decreti e dei testi

cosiddetti unici». Vi è poi un richiamo alla collaborazione tra scuola-famiglia-imprese

locali e l’istituzione di un «Libretto Scolastico» personale collegato al «Libretto del

1114 G. Bottai, Relazione al Duce del Fascismo sulla "Carta della Scuola", Ivi., p.9

1115 Ivi., pp. 9-10

1116 Ivi., p. 10

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Lavoro», utile a «documentare, anche ai fini delle assunzioni al lavoro e negli

impieghi, il curricolo civile dell'Italiano del tempo di Mussolini»1117. Conclude Bottai:

Si rispecchia in questa «Carta », con chiarezza di contorni, la Scuola fascista, quale le profonde mutazioni politiche, culturali e sociali, determinate dalla Rivoluzione, vogliono che sia perché possa adempiere ai suoi compiti nella vita reale del popolo italiano: vita di studi, di industrie, di traffici, di combattimenti, di invenzioni, di lavori. E, in gran parte, la « Carta» d'una Scuola futura, che pur prenderà nascita e alimento dall'intelligenza, dalla fede e dalla seria partecipazione, che contraddistinguono i quadri direttivi e insegnanti dell'attuale Scuola. E a questi, che la riforma si affida, soprattutto; al loro spirito, che interpreti, secondo ragione e esperienza, la lettera delle leggi. 1118

Il richiamo a questi documenti consente di guardare a La Buona Scuola da una

prospettiva differente, riportando in luce le radici profonde di un discorso che si

vuole moderno, capace di lasciare alle spalle il Novecento e di mettersi al passo con il

XXI secolo. Accostare la Carta della Scuola alla più recente riforma nazionale consente

di riconoscere, a distanza di sessant’anni, un comune tentativo: quello di portare tutta

la scuola “su un altro piano”, un piano che si comprende entro una razionalità

strumentale. La Scuola futura, sia Scuola fascista o Buona Scuola, serve al Paese. Serve

alla formazione civile dell’Italiano del tempo di Mussolini e del cittadino attivo al

tempo dell’adattamento permanente. Serve all’unità dello Stato corporativo e serve

alla crescita del capitale umano nella società della conoscenza. O forse, meglio, la

scuola serve lo Stato corporativo e serve la società della conoscenza. La Scuola che

serve è una scuola servile.

3.3.3 Scrivere attorno ai margini

Ora che abbiamo cartografato l’orizzonte di possibilità entro cui il discorso politico

(come realtà extrapedagogica) pensa e organizza le istituzioni scolastiche, crediamo

resti un’unica cosa da fare: prendere una posizione. Spostarci sui limiti che ne

definiscono il campo di potere e il regime di verità, e così provare a forzarli,

mostrando la contingenza del presente e compiendo lo scarto impossibile. Ciò che è

non necessariamente dev’essere: è possibile pensare la scuola, la sua forma

pedagogica, in modo altro. Nel fare questo vogliamo recuperare le parole di

Agamben, il quale invitava a neutralizzare le luci della propria epoca per scoprire la

1117 Ibid.

1118 Ivi., p. 12

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sua tenebra, il suo buio speciale: «percepire nel buio del presente questa luce che

cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei»1119.

Prendendo le distanze dal presente in cui siamo immersi, rifuggendo il potere

accecante dalla sua evidenza (così trasparente), vogliamo provare a elaborare un

discorso altro sulla scuola, che ne renda visibile l’attuale deformazione e provi, per

altre vie, ritrovando parole rimosse, a rianimarne lo spirito. Ecco, allora, alcuni

appunti, alcune prime note da scrivere attorno ai margini delle politiche, per praticare

il gesto dell’anacronismo e l’arte critica di non essere governati a questo costo.

Promuovendo un’unità tra gli interessi di scuola-società-lavoro e operando una

funzionalizzazione totale dei saperi, La Buona Scuola costituisce un dispositivo

strategico finalizzato alla produzione del capitale umano e sociale, in rapporto al

quale i soggetti (siano dirigenti, docenti o studenti) sono chiamati ad assumere un

ethos di resilienza “iper-adattiva”, sottoponendo il pensiero al tribunale della qualità

o, come direbbe Adorno, al «test permanente del proprio essere-in-forma»1120. La

dimensione educativa della scuola è così ridefinita in business terms (come

investimento di tutti e di ciascuno) e in ecological terms (come ambiente di

apprendimento per la crescita sostenibile): lo studente è chiamato a potenziare le

proprie forze adattative, in un’indifferenziata identità con la società1121 che,

depoliticizzata e destoricizzata, è divenuta essa stessa natura. Un ambiente in cui

l’unica soluzione ai problemi è collaborare per “crescere, competere, correre”,

individualmente responsabili del proprio successo. In questo “ecosistema”,

l’individualizzazione del soggetto, la sua soggettivazione, appare assoggettata agli

interessi strategici della governamentalità neoliberale: il soggetto si pensa come

organismo-impresa e in tal modo si rende governabile. Da questa prospettiva, La

Buona Scuola presenta i tratti inconfondibili dell’Halbbildung descritta da Adorno:

assistiamo al prevalere dell’«adattamento, come primato universale organizzato, *…+

su ogni ragionevole fine della totalità sociale»1122 e alla «mutazione di tutti i contenuti

1119 G. Agamben, “Che cos’è il contemporaneo?”, in Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Op. cit.,

p.27 1120

T. W. Adorno, Minima moralia, Op. cit., p. 236 1121

T. W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Op. cit., p.51 1122

Ivi., p. 54

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spirituali in beni di consumo»1123. Ciò che le istituzioni scolastiche contemporanee

sembrano offrire è una pseudoeducazione per l’uomo semicolto: creando un

ambiente di apprendimento flessibile e tecnologicamente attrezzato, le scuole si

propongono come «un luogo per tutti; [dove] tutti possono partecipare alla

conversazione e tutti sono inclusi, ma soltanto nei termini di una conformazione»1124.

Al tempo stesso, la promozione di una didattica per competenze, realizzata nelle

forme della flipped classroom, dell’alternanza scuola-lavoro o del laboratorio,

promuove un’esperienza istantanea, sostituibile, pragmatica, processuale e

adattativa. A questa modo di intendere l’esperienza scolastica vogliamo contrapporne

un altro, riconoscendo nell’esperienza la «continuità della coscienza, in cui perdura

ciò che non è più presente, in cui l’esercizio e l’associazione creano, nel singolo, la

tradizione»1125. In questo senso, precisa Adorno, esperienza è temps durée,

«connessione di una vita relativamente coerente, che sfocia nel giudizio»1126.

Recuperando la riflessione aristotelica, Enrico Berti chiarisce il rapporto tra esperienza

e pensiero: «l’esperienza non è dunque la prima e più immediata forma di

conoscenza, che è invece la percezione, caratterizzata dall’assoluta molteplicità e

fluidità: con il ricordo si attua una prima stabilizzazione della percezione e con

l’esperienza una prima unificazione di essa. Avere esperienza significa infatti essere

esperti, avere ormai familiarità con una certa cosa»1127. In questo senso l’insegnante

può essere riconosciuto come maestro, magister (ossia tre volte grande), perché ha

esperienza, ossia conoscenza e coscienza del mondo (non è ad esso indifferente). In

questo, dichiara Hannah Arendt, si radica l’autorità di un maestro:

l’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità.1128

1123 Ivi., p.55

1124 Ivi., p.57

1125 Ivi., p.42

1126 Ibid.

1127 E. Berti, “Pensiero ed esperienza in Aristotele”, Accademia Nazionale dei Lincei, Atti del Convegno:

Che cos’è il pensiero? L’unità dell’essere, Roma, 1985, pp.237-238. Per questa citazione si ringrazia Cristian Simoni, che ha segnalato un passaggio più ampio in nota al suo contributo in M. Conte, La Forma impossibile, Op. cit., p. 185

1128 H. Arendt, Tra passato e futuro, Op. cit., p. 247

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Insegnante è colui che in – signa, incide, apre con un taglio, lascia un segno1129 e di ciò

è moralmente e politicamente responsabile. Guardando ai sistemi scolastici americani

degli anni Sessanta, Arendt denuncia la crisi del settore educativo e indica nella

riduzione dell’autorità una delle sue cause: sotto il pretesto di un’educazione

progressista1130 sono state eliminate tutte le differenze, tra giovani e vecchi, bambini

e adulti, più esperti e meno esperti, scolari e maestri1131. Da allora la figura

dell’insegnante è stata gradualmente sostituita da quella dal facilitatore di

apprendimenti, il quale favorisce un rapporto orizzontale con gli studenti e di

immediatezza (ossia di assenza di mediazione) con la realtà. Scrive Arendt:

Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo, la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna. Secondo questo concetto un insegnante è una persona capace di insegnare non importa che cosa; una persona abilitata, dal proprio tirocinio, all’insegnamento: non alla padronanza di qualche

specifica materia. 1132

Quali le conseguenze di questa tendenza? Invece di favorire la formazione di un loro

giudizio autonomo sul mondo, nota Arendt, gli studenti «sono in realtà abbandonati a

se stessi, e anzi, la fonte più legittima dell’autorità del professore (l’essere questi,

comunque si metta la questione, uno che sa e sa fare “di più” dello studente) perde

ogni efficacia».1133Questa ridefinizione dei metodi di insegnamento è giustificata da un

certo modo di intendere l’apprendimento:

un concetto che il mondo moderno sostiene da secoli, e che nel pragmatismo ha elevato a sistema: secondo tale assunto, dunque, si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. *…+ L’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare. *…+ L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza bensì d’inculcare una tecnica: come risultato, gli istituti per l’istruzione divengono una sorta di istituzioni professionali, altrettanto capaci di insegnare a guidare un’automobile e a servirsi di una macchina da scrivere (oppure – cosa ancor più importante per l’”arte” di vivere – ad andare d’accordo con gli altri e riuscire simpatici).1134

Assunti che, da allora, non hanno più abbandonato gli interventi di riforma, fino ad

assumere una posizione decisiva entro il discorso e il dispositivo del lifelong learning.

1129 M. Conte, Didattica minima, Op. cit., p. 7

1130 H. Arendt, Tra passato e futuro, Op. cit., p. 233

1131 Ivi., p. 236

1132 Ivi., pp. 238-239

1133 Ivi., pp. 238-239

1134 Ivi., p. 239, corsivo mio.

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Entro il progetto dell’apprendimento permanente, la capacità di offrire un tempo

libero (scholé, otium), in cui fare esperienza del mondo - un’esperienza di attenzione

(di studio), di interesse (cura) e di profanazione (mettendone in discussione il senso

attribuito)1135 - è pressoché neutralizzata. A prevalere è il tempo del negotium, in cui

apprendere ad utilizzare il mondo, per soddisfare gli interessi economici, familiari,

sociali. Le scuole del nostro tempo sono ormai contrassegnate dallo spirito

dell’ascholia: la ragione e la qualità del tempo scolastico sono oggi associate alla

capacità di sviluppare competenze utili a soddisfare i supposti bisogni del XXI secolo.

In questo senso, crediamo si possa affermare che le istituzioni scolastiche

contemporanee vedano danneggiata la forma pedagogica che dovrebbe

contraddistinguerle: la scuola, come ebbe a scrivere Massa, se è tale non è «la

bottega dell’istruzione *l’erogatore di competenze+, ma neppure il supermercato delle

agenzie di socializzazione [la scuola aperta per la coesione sociale]»1136. Nel tempo del

nostro presente, si riduce la distinzione tra la scuola e gli istituti di formazione

professionale: il liceo assomiglia sempre più al pedagogium, l’istituzione romana che

istruiva gli schiavi delle famiglie di ceto sociale più elevato, insegnando loro a leggere

e a scrivere. In un testo intitolato La fabrique du cretin. La mort programmée de

l’école, J. P. Brighelli, porta alle estreme conseguenze questa nostra affermazione:

il sistema ha prodotto ciò che gli era necessario: una mano d’opera a buon mercato *…+ formata a un compito ben preciso, e soprattutto sgombra dalla cultura globale che gli consentiva, una volta, d’analizzare il sistema, di potersi rappresentare al suo interno e, infine, di criticarlo. *…+ il sogno dell’industriale è l’ilota, lo schiavo senza coscienza delle società antiche, il cretino delle società moderne.1137

1135 Nel proporre questa descrizione della forma pedagogica della scuola si trae ispirazione dal lavoro di

J. Masschelein e M. Simons, In defence of the school. A public issue, Op. cit., e dalle riflessioni di R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Op. cit., e F. Cappa (a cura di), Foucault come educatore. Spazio, tempo, corpo e cura nei dispositivi pedagogici, Op. cit.

1136 R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Op. cit., pp. 176-177

1137 J. P. Brighelli, La fabrique du crétin. La mort programmée de l’école, Paris, Jean Claude Gawsewith

Éditeur, 2005, in pp.20-22 citato e tradotto da Mino Conte, Didattica minima, Op. cit., p.65 e p.68. Proseguendo nella riflessione, Brighelli osserva: «L’industria richiede *…+ una massa di lavoratori sempre più polivalenti: comprendiamo come una formazione iniziale seria è per loro sempre meno necessaria: questi lavoratori detti “poco qualificati” devono pertanto disporre di competenze molto precise: saper leggere, scrivere, calcolare, servirsi d’un testo o di Internet, pronunciare qualche frase standardizzata nelle due o tre lingue europee, di cui, obbligatoriamente, l’inglese. Queste competenze di base diventeranno il fine ultimo dell’insegnamento *…+ Al privato il compito di assicurare, più tardi, la rimessa a nuovo, attraverso degli stage di “formazione”, di questa massa ricompensabile e sottoponibile a piacimento ad ogni corvé. Questi lavoratori in formazione permanente per l’intero corso della loro vita, non avranno né garanzie d’impiego né di salario, dato che le loro competenze

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Tutto ciò, direbbe il poeta, è tremendo, ma non ancora irrimediabile1138. Come ebbe a

dire Nietzsche, è dal senso dell’orrrido, dell’inacettabile che deve partire chi voglia

occuparsi di pedagogia nell’età contemporanea.1139 Com’è possibile, oggi, rinnovare lo

spirito nobile da cui le scuole hanno avuto origine? In un epoca dominata dalla

governamentalità neoliberale, fare scuola significa materealizzare la possibilità di un

spazio e un tempo altri, istituire un’eterotopia e un’eterocronia, che consentono di

andare al di là della razionalità vigente senza fissare, in anticipo, la destinazione

finale.1140 Condividendo la riflessione di Arendt, vogliamo ribadire che

la scuola non è affatto il mondo e non deve pretendere di esserlo; è semmai l’istituzione che abbiamo inserito tra l’ambito privato, domestico, e il mondo, con lo scopo di permettere il passaggio dalla famiglia alla società. La scuola rappresenta il mondo anche senza esserlo di fatto.

Il mondo è rappresentato attraverso la voce e i gesti dell’insegnante, mediante la sua

capacità di farne oggetto di attenzione comune, offrendolo agli studenti quale realtà

meritevole di cura e passibile di trasformazioni inedite. Diversamente dal contesto

familiare, in ambito scolastico non si tratta di «rispondere al benessere vitale di una

cosa che cresce» (o di assicurarle un vantaggio competitivo), una preoccupazione di

ordine individuale e biologico, ma di garantire le condizioni per

stimolare il libero sviluppo *…+ *dell’+unicità che distingue ciascun essere umano da tutti gli altri, in virtù della quale un uomo non è solo uno straniero del mondo, ma qualcosa che non c’è mai stato prima d’ora.1141

Riflettendo sul ruolo della scuola, Arendt riconosce il nocciolo della questione

scolastica nel fatto che «gli essere umani vengono messi al mondo»1142 e nella

responsabilità che ciò costituisce per ogni società umana.

saranno riviste continuamente, finendo con il relegarli ogni volta al livello più basso della loro nuova specializzazione», Ivi., p. 188 (trad. M. Conte, p. 77)

1138 «Tutto è │ tremendo ma non ancora irrimediabile», F. Fortini, L’ospite ingrato, in Versi scelti. 1939-

1989, Torino, Einaudi, 1990, p. 338 1139

«Non si ha che da prendere contatto con la letteratura pedagogica della nostra epoca: bisogna essere completamente corrotti, per non spaventarsi – quando si studi tale argomento – della suprema povertà spirituale, e di questo girotondo davvero sgraziato.. Nel nostro caso, la filosofia deve prendere le mosse, non già dalla meraviglia, bensì dall’orrore. Chi non è in grado di suscitare l’orrore, è pregato di lasciare in pace le questioni pedagogiche», F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, Op. cit., pp. 38-39

1140 Si rimanda a J. Masschelein e M. Simons, In defence of the school. A public issue, Op. cit., e F. Cappa

(a cura di), Foucault come educatore. Spazio, tempo, corpo e cura nei dispositivi pedagogici, Op. cit. 1141

H. Arendt, Tra passato e futuro, Op. cit, p. 246

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[Il giovane] è nuovo in un mondo che gli è estraneo, ed è in corso di formazione; è un uomo nuovo ed è un uomo in divenire. Queste due caratteristiche non sono evidenti per sé e non trovano corrispondenti nelle forme di vita animale; sono il segno di una duplice relazione intrattenuta dall’uomo: con il mondo da un lato, con la vita dall’altro. *…+ Se ogni [giovane] non fosse un nuovo arrivato in questo mondo degli uomini, ma solo una creatura vivente non ancora completa, l’istruzione sarebbe una semplice funzione della vita e dovrebbe consistere nella sola cura per la conservazione dell’esistenza fisica. *…+ I genitori umani, invece, non si limitano a chiamare i figli alla vita, facendoli nascere, ma allo stesso tempo li introducono in un mondo. Con l’educazione si assumono la responsabilità nei due ambiti, a livello dell’esistenza e della crescita del bambino e a livello della continuazione del mondo. Non è detto che le due responsabilità debbano coincidere; al contrario possono bene trovarsi reciprocamente contrastanti.1143

La responsabilità che la generazione adulta assume istituendo la scuola si può

comprendere entro una logica antinomica: una «parte essenziale dell’attività

educativa, *…+ si prefigge sempre di custodire, proteggere qualcosa», così che il

mondo, nell’insieme e nelle sue parti, «non sia consegnato all’irrevocabile rovina del

tempo»; al tempo stesso, l’azione educativa è contrassegnata dalla responsabilità di

favorire la formazione di soggettività eccedenti, capaci di un giudizio politico inattuale

sul mondo. Così, sintetizza Arendt, la condizione delle istituzioni scolastiche è una

realtà che riguarda tutti:

[riguarda] la nostra posizione nei confronti della nascita degli uomini: del fatto fondamentale che tutti siamo stati “messi al mondo” e che le nuove nascite rinnovano di continuo il mondo stesso. L’educazione è il momento in cui si decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare il mondo che sarà comune a tutti. 1144

Tempo, esperienza, maestro, mondo, responsabilità, giudizio, studio. Sono solo alcune

delle parole che nei secoli hanno abitato la riflessione pedagogica e che oggi sono

relegate nel buio, oscurate dalla luminosità di un discorso che si vuole auto-evidente,

necessario e indubitabile. Per ripensare la scuola, per tornare a discuterne e ad

immaginarne il senso e la struttura, sentiamo il bisogno di ripartire da qui, dal

linguaggio che noi stessi utilizziamo per riferirci alle istituzioni educative e al loro

1142 Ivi., p. 229

1143 Ivi., pp. 242-243

1144 Ivi., pp. 250-251

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rapporto con la realtà in cui sono collocate. Al tempo stesso, crediamo sia cruciale

mantenere una soglia di attenzione alta, un processo di sorveglianza continuo,

sull’influenza che la realtà socio-economica esercita sulle istituzioni educative,

osservando se e come le politiche educative contribuiscano a deformare, a distruggere

o a pervertire il carattere educativo dell’istituzione scolastica, la sua antinomicità e la

libertà del tempo vissuto al suo interno. A questo, vogliamo suggerire, potrebbe

affiancarsi un’analisi critica dei saperi pedagogici, del regime di verità che essi

contribuiscono a costruire e diffondere, mettendone in luce i presupposti impliciti e gli

effetti di potere. Punto di partenza per una simile indagine potrebbe essere il seguente

interrogativo: che rapporto sussiste tra i saperi pedagogici e l’attuale regime

governamentale? Nell’esaminare i principi e le pratiche educative, scrive Arendt, un

ricercatore «deve tener conto di questo processo di alienazione; può anche ammettere

che ci troviamo davanti ad un processo naturale, ma non deve dimenticare che il

pensiero e l’azione dell’uomo possono intervenire per interrompere tali processi». Così

facendo, sviluppando una forma di autocoscienza critica, la ricerca pedagogica potrà

scegliere con maggiore consapevolezza il linguaggio da utilizzare e gli interventi da

proporre, per difendere la scuola dagli interessi extra-pedagogici, affinché possa

istituire tempi e spazi inoperosi, entro cui ciascun nuovo nato possa acquisire una

forma inedita, sviluppando la sua capacità di conservare, di giudicare e di rivoluzionare

il mondo. Per favorire queste facoltà, vogliamo suggerire, è cruciale coltivare la

potenza del pensiero, che è al tempo stesso potenza di non (o impotenza)1145: il potere

di non assumere un certo comportamento e di non pensare secondo una certa logica.

Ossia la possibilità di non essere governati in un certo modo. La possibilità della libertà

e della critica.

1145 G. Agamben, “La potenza del pensiero”, nella raccolta omonima, La potenza del pensiero. Saggi e

conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2010. La riflessione di Agamben sul concetto di impotenza ha ispirato gli studi di Tyson Lewis, il quale sviluppa una critica alla società dell’apprendimento recuperando e risignificando la pratica dello studio. Rimandiamo a T. Lewis, On Study: Giorgio Agamben and educational potentiality, New York, Routledge, 2013

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