Sui conflitti. Primi appunti e citazioni - CIRPAC · L’importanza del conflitto I diversi...

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Sui conflitti. Primi appunti e citazioni di Franco Cazzola Indice I.- I conflitti nelle realtà sociali L’uso della parola oggi L’importanza del conflitto I diversi significati della parola nelle scienze sociali II.- Le teorie del conflitto Premessa Le domande per ogni teoria I processi che attivano conflitto I partecipanti Gli effetti Le teorie: Machiavelli e Hobbes Le teorie: da Marx a Simmel Le teorie: Carl Schmitt Le teorie: I funzionalisti Le teorie: Alain Touraine Le teorie: Ralf Dahrendorf In chiusura 1: le società liberali e le società totalitarie di fronte al conflitto In chiusura 2: La politica e i conflitti III.- Tipologie dei conflitti: Pizzorno e Dahrendorf I soggetti L’estensione Le modalità: intensità e violenza La soluzione IV.- I conflitti violenti Che cosa si intende per violenza: alcune definizioni (Nieburg, Heritier, Ruggiero) Alcune teorie sulla violenza(Hobbes, Bentham, Durkheim, Elias, Arendt) Potere, autorità, forza, violenza Le forme della violenza Violenza istituzionale Violenza anti-istituzionale Dalla protesta alla guerra V.- La “limitazione” della violenza La legittimazione della guerra Lo ius ad bellum nelle epoche pre moderne

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Sui conflitti.Primi appunti e citazionidiFranco Cazzola

Indice

I.- I conflitti nelle realtà socialiL’uso della parola oggiL’importanza del conflittoI diversi significati della parola nelle scienze sociali

II.- Le teorie del conflittoPremessaLe domande per ogni teoria

I processi che attivano conflittoI partecipantiGli effetti

Le teorie: Machiavelli e HobbesLe teorie: da Marx a SimmelLe teorie: Carl SchmittLe teorie: I funzionalistiLe teorie: Alain TouraineLe teorie: Ralf DahrendorfIn chiusura 1: le società liberali e le società totalitarie di fronte al

conflittoIn chiusura 2: La politica e i conflitti

III.- Tipologie dei conflitti: Pizzorno e DahrendorfI soggettiL’estensioneLe modalità: intensità e violenzaLa soluzione

IV.- I conflitti violentiChe cosa si intende per violenza: alcune definizioni (Nieburg, Heritier,Ruggiero)Alcune teorie sulla violenza(Hobbes, Bentham, Durkheim, Elias,

Arendt)Potere, autorità, forza, violenzaLe forme della violenza

Violenza istituzionaleViolenza anti-istituzionaleDalla protesta alla guerra

V.- La “limitazione” della violenzaLa legittimazione della guerra

Lo ius ad bellum nelle epoche pre moderne

Sant’Agostino e san TommasoMachiavelli ed Erasmo da RotterdamL’età moderna: HobbesKant

Lo ius ad bellum in epoca modernaLa rivoluzione francese: da Constant a HegelMarxIl XIX secolo: le guerre colonialiIl XX secolo: Kelsen

Lo ius belli: tra forma e sostanzaLa violenza senza limiti: i terrorismi

VI.- I conflitti violenti dal 1946

In premessa: uno sguardo ai conflitti 1800-1945

L’analisi dei conflitti dal 1946Le cause

- Sociali ed economiche, Politiche, Etniche, ReligioseI soggetti

- Tra soggetti “legittimi”1. Guerre tra stati2. Scontri di confine3. Guerre di intervento (o “per missione)

- Contro soggetti “legittimi”1. Sommosse e rivolte2. Attentati3. Golpe4. Guerre di indipendenza5. Guerre di secessione, religiose, etniche

- Contro soggetti “illegittimi”: repressioneI luoghi

- Africa- Medio Oriente- Asia- Russia ed ex Urss- Ex Jugoslavia- Europa est- Mediterraneo orientale- Resto dell’Europa- America del nord- America centrale e meridionale

I modi- La guerriglia- Il “Terrore” di Stato- Il “Terrorismo” illegittimo

VII.- Tipi di conflitti e tipi di regimiLe diverse causeI diversi tipiI diversi effetti

I.- I conflitti nelle realtà sociali

L’uso della parola oggiE’ una specie di parola pas partout, si usa nel linguaggio comune come neilinguaggi più o meno specialistici; serve a indicare fenomeni molto diversi, èun termine, per dirla in breve, ambiguo, super utilizzato, che evocaprevalentemente “cose” negative. Ci richiama alla mente, come termini che siaccostano a questo, la parola violenza, forza, la guerra, scontri a fuoco, traciviltà, ecc.Eppure, come si vedrà, questa parola ha anche altri significati, molto menocruenti, più quotidiani nella nostra vita, nel privato come nel pubblico. Fatto stache oggi è una fra le parole più usate anche nel linguaggio della informazione.Proviamo a verificare quanto sovente si scrive “conflitto” in uno dei massimiquotidiani italiani (“la Repubblica”). Tra il 1984 e il 2007, cioè in un arco di 24anni, il termine “conflitto” appare in circa 29.000 articoli, in altrettanti apparela parola “violenza”, in 9.000 casi si parla di “competizione”, in 90.000 di“guerra”. Termini, che potremmo chiamare opposti, quali “pace”, “”coesione”,“armonia” compaiono rispettivamente in 43.000, in 2.000, in 1.500 articoli.“Consenso” è presente in poco meno di 17.000 articoli e “dissenso” in 7.000.Se guardiamo le riviste di scienze sociali (Archivio JSTOR) abbiamo ilseguente andamento relativo al numero di saggi riportanti i termini “conflitto”o “violenza”:

Conflitto Violenza1900-1945 9.803 2.9261946-1955 6.078 2.3421956-1965 9.420 3.4931966-1975 16.098 6.7171976-1985 22.123 8.4451986-1995 25.049 11.6791996-2000 12.942 7.301

La letteratura, come la musica, il cinema o il teatro, ci narrano, e non da ieri, digrandi e piccoli conflitti, tra singoli, tra generi, tra etnie, tra gruppi, trareligioni, tra generazioni. Ma che cosa significa questa parola? Si può cercaredi renderla meno equivoca? E ancora: quale è il ruolo del conflitto non solonella storia dell’umanità, ma anche in quella del pensiero politico e sociale?

L’importanza del conflittoDiversi studiosi hanno sottolineato come il conflitto accompagni tutta la storiadell’umanità, come possa variarne l’intensità, la portata, ma come questo siasempre presente, a livello di relazioni tra singoli, come tra gruppi, collettivi,società. Come ha scritto Alessandro Pizzorno (1993) “con l’idea di conflittocontinuiamo a pensare tanta parte della realtà sociale contemporanea. E’un’idea che abbiamo ricevuto da una ben radicata tradizione del pensieropolitico occidentale, e non possiamo non fare i conti con essa” (pp. 187-188).Più precisamente si può ricordare che:

“tra i concetti centrali degli studi sociali, quello di conflittooccupa certamente un posto più che rilevante. Abbondantementeutilizzato nelle discipline psicosociologiche, ed in ognuna diqueste conservando purtroppo un significato specifico, ilconcetto di conflitto ha dato persino luogo a tentativi

d’elaborazione d’una vera e propria teoria generale, suscettibiled’inglobarne ad un tempo le diverse dimensioni e tutte le varietàd’applicazioni possibili, nonché, ovviamente, le più correntiutilizzazioni al livello micro - e/o macrosociale. (…) i numerositentativi di generalizzazione e sistematizzazione compiuti negliultimi quarant’anni non sono mai andati al di là, invero, delladescrizione degli attori, in situazione di conflitto, delle formeche i conflitti possono assumere, dei fattori che direttamente oindirettamente li determinano, e talvolta anche delle funzioniche assolvono nella società e nella biografia degli attori,individuali e collettivi. Le tensioni, gli stereotipi, i pregiudizi, ilrazzismo, il colonialismo, gli scioperi, le rivolte, la guerra e leguerriglie, e molte forme di contestazione si sono cosìinestricabilmente fuse nel concetto, ormai vago ed incerto, diconflitto tra gruppi, oppure di conflitto tra supergruppi. (…)Benché tutte le definizioni finora elaborate ammettano, più omeno nettamente, l’esistenza d’un comune, genericodenominatore – la cosiddetta relazione antagonistica –, nessunadi esse arriva tuttavia a rendere convenientemente conto, ad untempo, delle specificità e delle generalità in ogni tipo direlazione antagonistica, e soprattutto a mettere in evidenza iprocessi, i meccanismi, le forme attraverso cui le volontà e leposizioni degli attori, diventando strutturalmente incompatibili,danno luogo a conflitti; e perché poi questi stessi conflitti sianoora funzionali e ora disfunzionali, talvolta integratori e talaltradisintegratori, oggi negativi e domani positivi” (G. Busino,Conflitto, in AA.VV., Enciclopedia, vol. 3, Einaudi, Torino,1978, p. 757).

I diversi significati della parola nelle scienze socialiI dizionari ci servono poco, partiamo quindi da un classico. Max Weber accostala parola “conflitto” alla parola “lotta” (kampf), e questa al concetto di potere:

“Una relazione sociale può essere definita lotta quando l’agire èorientato in base al proposito di affermare il proprio volerecontro la resistenza di un altro o di altri individui. Debbonovenir chiamati mezzi di lotta ‘pacifici’ quelli che non consistononell’esercizio attuale della violenza fisica. La lotta ‘pacifica’deve essere definita ‘concorrenza’ quando essa viene condottacome ricerca, formalmente pacifica, di un proprio potere didisporre di possibilità a cui anche altri individui aspirano (…)Dalla lotta sanguinosa, che mira ad annientare la vitadell’avversario e che rifiuta ogni legame di regole di lotta, finoalla lotta cavalleresca regolata convenzionalmente e al giocoagonistico conforme a certe regole (lo sport), dalla‘concorrenza’ priva di regole, quale quella che si manifesta neltentativo di conquistare il favore di una donna, e dallaconcorrenza per lo sfruttamento – dipendente dall’ordinamentodel mercato – di certe possibilità di scambio, fino alle forme di‘concorrenza’ regolate artificiosamente o alla ‘lotta elettorale’,vi è una serie ininterrotta di passaggi. L’isolamento concettuale

della lotta violenta si giustifica con il carattere specifico deimezzi ad essa normali, e per i particolari aspetti, a questo legati,delle conseguenze sociologiche del suo presentarsi” (M. Weber,Economia e società, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano, 1961(1922), pp. 35-36).

Conflitto come lotta, non necessariamente violenta, per imporre ad altri (masappiamo che ciascuno di noi vive di conflitti all’interno della propria, singola,personalità) ciò che ci interessa, singolarmente considerati o meno.La definizione weberiana è alla base di tantissime altre interpretazioni, per nonfarla lunga prendo in esame solo quelle di Ralf Dahrendorf (che ritroveremoanche più avanti) e di Charles Tilly.

“Nel linguaggio corrente, alla parola ‘conflitto’ colleghiamo diregola l’idea di scontri particolarmente violenti. Se adottassimoquesto linguaggio tradizionale, dovremmo indicare comeconflitto uno sciopero, non una trattativa tariffaria, le lottepolitiche interne, non i dibattiti parlamentari. Ma la definizionedi conflitto da noi accettata è in contraddizione con quest’usoristretto del termine. Il concetto di conflitto deve innanzi tuttoindicare qualsiasi rapporto tra elementi che si possacaratterizzare mediante contrasti oggettivi (‘latenti’) o soggettivi(‘manifesti’). Quando due concorrenti lottano per una posizione,siamo di fronte ad un conflitto così come quando due partitilottano per il potere, o due partners del mercato del lavorolottano per la ripartizione dei profitti, o due squadre lottano perla supremazia, o due gangs criminali per conquistare un settore,o due nazioni si scontrano sul campo di battaglia, o due personenon si possono soffrire tra loro, e così via. Il contrasto tra glielementi ogni volta in causa (che di frequente – se non sempre –può essere indicato anche aspirazione comune a limitati ‘valori’)può essere consapevole o soltanto desumibile, voluto ocondizionato dalla situazione; anche il grado di consapevolezzanon è rilevante per definire conflitti i rapporti (…) Un conflittopuò essere poi definito sociale se può essere dedotto dallastruttura di unità sociali, cioè quando è sovraindividuale. Ilconflitto del medico tra le aspettative dei suoi pazienti e quelledell’ente mutualistico è un conflitto sociale; esso infatti esisteindipendentemente dalla personalità del medico in questione. Lostesso vale, di regola, per i conflitti tra partiti politici, traimprenditori e sindacati, tra città e campagna, tra confessioni ecosì via. Un conflitto tra due individui basato unicamente sullaloro reciproca antipatia non è invece un conflitto sociale” (R.Dahrendorf, Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna, 1971(1967), pp. 249-250).

Charles Tilly (1992) si concentra sul conflitto sociale, e così lo definisce:“Vi è conflitto sociale quando una persona o un gruppo avanzapretese di segno negativo nei confronti di altre persone o gruppi,pretese che, qualora venissero soddisfatte, danneggerebberol’interesse altrui, cioè l’altrui probabilità di raggiungere unasituazione desiderabile. Le pretese di segno negativo implicanotanto minacce quanto attacchi veri e propri. Quando essecomportano una diretta presa di possesso, oppure un danno alle

persone o alle cose, gli osservatori utilizzano spesso la parola‘violenza’. Un conflitto può essere asimmetrico, nel senso cheuna sola delle parti in causa, e non l’altra, può avanzare pretesedi segno negativo: in questo caso si parla di ‘coercizione’.Accade più spesso, tuttavia, che nel conflitto ci si avvicini a unasituazione di simmetria, con ciascuna delle due parti che avanzaalmeno lacune pretese per neutralizzare quelle dell’altra. Ilconflitto è un caso particolare di ‘competizione’: due o più particercano simultaneamente di ottenere dei vantaggi (o di evitaredegli svantaggi) che si escludono a vicenda. La normalecompetizione diventa conflitto quando un concorrente avanza inmaniera esplicita delle pretese potenzialmente lesive dell’altruiinteresse; fare un’offerta maggiore rispetto a quella del propriovicino, per un pezzo di terra desiderato da entrambi, non puòessere di per sé configurato come conflitto, ma si configuracome tale il minacciare il proprio vicino di attaccarlo qualoraegli rilanci l’offerta. In base a tale definizione, l’ingaggiare unagara con qualcuno è un comportamento che si situa ai marginidel conflitto, poiché, se per i due concorrenti perdere nonimplica alcuna differenza sostanziale, il conflitto non si scatena;se invece una delle parti ha interesse a vincere, la competizionesi trasforma in conflitto. In ogni caso, l’atto di ostacolarel’avversario per indurlo a rallentare identifica chiaramente lagara come un conflitto. Il conflitto è complementare allacooperazione, in cui unità sociali differenti avanzano istanzepositive le une nei confronti delle altre; i cooperanti, cioè,offrono promesse e ricompense piuttosto che minacce e attacchi.Le relazioni sociali che implicano minacce esplicite o attacchicondotti da una delle parti nei confronti dell’altra rappresentanoil terreno naturale del conflitto. Per questo motivo, individui egruppi che esercitano il controllo su mezzi di coercizione – armi,soldati, simboli sovrannaturali, accesso alla pubblicità negativa ecosì via – giocano nel conflitto un ruolo senza paragoni; essidiventano degli specialisti nella formulazione di pretese di segnonegativo, e dispongono di basi migliori per sostenerle. Tra tutticostoro, i più importanti sono gli Stati, i quali si specializzanonon soltanto nell’accumulazione e nell’impiego di mezzicoercitivi, ma anche nel controllo dell’uso che, all’interno deirispettivi territori, altre persone fanno della coercizione. Ilconflitto sociale comprende tutte quelle forme d’interazioneall’interno delle quali degli individui o dei gruppi si minaccianoo si attaccano a vicenda, e in molte situazioni conflittuali gliStati entrano in gioco o come partecipanti attivi, o come il terzopolo del conflitto, oppure con funzioni di arbitrato” (C. Tilly,Conflitto sociale, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. II,Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1992, p. 259).

Non sono poche le differenze tra Dahrendorf e Tilly, qui voglio sottolinearneun paio. In primo luogo: per Dahrendorf qualunque forma di ‘competizione’equivale a un qualche tipo di conflitto; per Tilly solo quelle relazioni nel corsodelle quali si minaccia o si ostacola l’altro. Primo commento: che cosa vuoldire ‘ostacolare’? Probabilmente Tilly si riferisce a comportamenti

“fuorilegge”, quali ad esempio il colpire il pugile avversario sotto la cintola,oppure non rispettare le leggi di guerra (delle quali si parlerà più avanti),oppure comprare subdolamente i voti per l’elezione alla carica di presidentedella società bocciofila di Petralia Soprana. Se è così, il problema si sposta, omeglio: chiama in causa, il “chi” fa le regole, e quindi il tipo di regime politicodi quella data situazione. Facciamo un esempio: uno sciopero in Cina oggi è untipo di conflitto sia per Dahrendorf sia per Tilly; uno sciopero in Italia è unconflitto per Dahrendorf ma non per Tilly. Problema: una campagna elettoraleper la conquista del governo, condotta nel pieno rispetto delle regole, è unconflitto o solo una competizione?

II.- Le teorie del conflitto

PremessaFin dall’antichità troviamo tracce di tentativi di teorizzare il conflitto (comenasce, come si sviluppa, il peso che ha nelle trasformazioni delle società, ecc.).Come è stato sottolineato se ne trovano tracce in Eraclito, nei sofisti, in IbnKhaldun e poi in Machiavelli, come vedremo, in Hobbes, e in tanto altristudiosi delle varie discipline.

“Anche Hegel ha riconosciuto il carattere d’universalità delconflitto, ne ha sottolineato la sostanziale positività e la suafunzione determinante per il cambiamento e soprattutto per lastoria. L’assenza di conflitti genera l’immobilismo, elimina idinamismi sociali, distrugge la storicità dei gruppi sociali. Lesocietà sono dunque attraversate costantemente dai conflitti; maquesti poi come si configurano?” (G. Busino, cit., p. 766).

Al di là di chi se ne è occupato, è necessario ricordare che, almeno inoccidente, il problema del conflitto è stato oggetto di analisi e di teorizzazioniin due diversi momenti storici o, per meglio dire, in relazione a due tipi dioccasioni:

“ da una parte trattando dell’unità politica nello stato; dall’altra,trattando della natura e del destino dei soggetti di azionecollettiva che hanno radici all’esterno dello stato. Nel primocaso ci si è chiesti quale posto possa essere fatto ai conflitti traparti che nascono come portatrici di interessi privati, ma chemirano al potere nello stato. Nel secondo ci si è interrogati suimeccanismi che producono fini i quali si pongono comesuperiori, o in ogni caso estranei, ai fini dello stato. I primi sonostati detti conflitti politici; i secondi, conflitti sociali. Come siformi, e come poi sembri chiudersi, nella tradizione, la rispostaal primo interrogativo, lo si può leggere in Machiavelli, Hobbese Carl Schmitt. La costruzione del secondo interrogativoapparirà chiaramente nel passaggio da Machiavelli a Marx” (A.Pizzorno, 1993, p. 188).

Una storia lineare, quella del pensiero politico sui conflitti? Oppure anchequesto tipo di elaborazione teorica ha risentito e risente (o riflette) l’andamentodella storia stessa? E’ ancora Pizzorno a chiarire bene il punto:

“L’interesse per i conflitti sociali e i loro problemi è passato,nella sociologia moderna, attraverso una vicenda singolare.Nella misura in cui il pensiero sociale dell’inizio del XIX secolo

si è ispirato, in maniera più o meno diretta, essenzialmente aMarx o a Darwin, l’attenzione ai fenomeni di conflitto èdominante. Se si dovessero fare i nomi dei sociologi che hannodedicato esplicite trattazioni a questo tipo di problemi,ricorrerebbero i maggiori della sociologia di allora, da Simmel aSmall, da Ratzenhofer a Sumner a Oppenheimer e molti altri,senza contare il filone dei marxisti di stretta osservanza (e sipensi solo all’uso originale che del conflitto ha fatto Sorel). Aun certo punto, però, la nozione di conflitto passò in secondopiano e finì per essere dimenticata. Nello stesso periodo si andòelaborando, prima in maniera quasi inconsapevole, poi semprepiù formalmente e rigorosamente, la teoria dell’integrazionesociale, consacrata alla fine nell’opera degli struttural-funzionalisti ed essenzialmente di Talcott Parsons” (A.Pizzorno, Introduzione a Dahrendorf, 1971, p. VII-VIII).

Quali le ragioni di questa “obsolescenza” dell’idea di conflitto? Pura casualità?Manifesta incapacità delle teorie precedenti a dire alcunché di utile per lacomprensione dei fenomeni sociali? O che altro? Alcuni studiosi (in primoluogo Lewis Coser)hanno cercato di spiegare questo andamento facendoriferimento al pubblico al quale si rivolgevano sociologi e scienziati sociali ingenere: i grandi riformatori sociali degli anni pre primo conflitto mondiale, iriformatori locali (soprattutto negli Stati Uniti) per il miglioramento dellecondizioni di vita nelle grandi metropoli, per l’abolizione degli slums neglianni Venti e Trenta del Novecento, i grandi committenti pubblici e privati chechiedevano ai sociologi risposte, o almeno indicazioni, per risolvere i loromicro-problemi di politica “aziendale”. “A questo punto i sociologi nonparlarono più di conflitto, ma tutt’al più di anomia; non più di contraddizioni,ma di tensioni, di inadattamenti, ecc.” (ivi).Contro questa interpretazione, possiamo riferirci ai grandi avvenimenti storicigenerali e in primo luogo alle guerre mondiali:

“che hanno rappresentato il conflitto calato sulla società inmisure impensate, non più origine di un regolato mutamento, maminaccia alla stessa esistenza sociale. E’ comprensibile chedopo tali avvenimenti si potesse manifestare una abdicazione acapire razionalmente e sistematicamente i grandi rivolgimentisociali e insieme un’esitazione ad evocare, con l’idea diconflitto, una realtà incontrollabile e irrazionale. A portata dimano stavano piuttosto le risoluzioni di problemi minori, e inrelazione ad essi ‘l’ordine’, ‘l’integrazione sociale’ potevanoporsi come fine cui mirare, oltre che come modello con cuiinterpretare il funzionamento della società” (ibidem, p. IX).

Le domande per ogni teoriaQualunque teoria del conflitto (così come le cosiddette metateorie) dovrebbeessere in grado di rispondere ai seguenti quesiti: quali sono i processi socialiche producono conflitto?; come e per quali ragioni si formano i gruppi chedanno vita a un conflitto?; come si spiegano le varie forme di conflitto?; qualieffetti producono su una data società i conflitti?Prima di passare ad analizzare brevemente alcune delle principali teorie delconflitto, diamo un’occhiata ad alcune primissime e generiche risposte a questiinterrogativi.

I processi che attivano conflitto. Charles Tilly ci ricorda che:“Le spiegazioni generali del conflitto sociale si dividonosecondo due direttrici fondamentali. La prima concerne lerelazioni sociali implicate nel conflitto, e precisamente: a) quellerelazioni che connettono gli individui alla società presa nel suoinsieme, e b) quelle relazioni che connettono un individuo o ungruppo a un altri individuo o gruppo (…) La seconda distinzioneconcerne i processi sociali che producono conflitto: a) il cattivofunzionamento degli ordinari meccanismi di regolazione, o b)l’attivazione di interessi contradditori” (C. Tilly, 1992, p. 260).

Per Tilly abbiamo quindi quattro diverse concezioni (che chiama metateorieossia insiemi di idee non verificabili in se stesse, ma che costituiscono tuttaviauna utile guida per la ricerca).

Gli autori che ci possono aiutare a comprendere le diverse spiegazioni sono, atitolo di esempio, Durkheim, Marx, Lorenz, gli “educatori”.

“Secondo Durkheim, se la divisione del lavoro supera lacapacità, propria di una determinata società, di mantenerel’integrazione dei suoi membri, questi perdono il proprioattaccamento alla società stessa, prevalgono l’anomia e uno statodi disordine, che contiene in sé il conflitto (…).Agli occhi di Marx tutti gli individui e i gruppi hanno degliinteressi determinati dalla posizione da essi occupata entro ilsistema produttivo; interessi contradditori sono inerenti a quasi

Relazione sociale tra

Gruppo-Società Gruppo-Gruppo

Processo

Cattivo funzionamento dei meccanismi di regolazione

Conflitto Fisiologico

Conflitto per pregiudizio

socialeAttivazione di interessi contradditori

Conflitto Patologico

Conflitto di classe

Relazione sociale tra

Gruppo-Società Gruppo-Gruppo

Processo

Cattivo funzionamento dei meccanismi di regolazione

Durkheim Educatori

socialeAttivazione di interessi contradditori

Lorenz Marx

tutti i sistemi produttivi, e situazioni di aperto conflittoscaturiscono prevalentemente da interessi contradditori (…)Konrad Lorenz (1963) presenta l’aggressività comeprofondamente radicata nella biologia umana e promossa da unaselezione genetica che affina la capacità di lottare. Brian Crozier(1974) deriva la sua conclusione che il conflitto è inevitabile, etuttavia dev’essere represso, dai seguenti assiomi: l’uomo è pernatura invidioso e aggressivo; la sua natura non è soggetta amodificazioni; il suo comportamento è comunque suscettibile dicambiamenti in meglio o in peggio; l’uomo, infine, ha unfortissimo bisogno di ordine (…)La metateoria delle relazioni tra gruppi |che ho etichettato con iltermine: conflitto da pregiudizio| postula comunemente che iconflitti nascano da pregiudizi, incomprensioni o erratevaluazioni, che l’informazione, l’educazione, la persuasione oun prolungato contatto elimineranno |per certi aspetti si potrebbedire che questa è anche la posizione di Jurgen Habermas|”(ibidem, p. 261).

I partecipanti. Anticipando quanto verrà più specificamente chiarito più avanti,parlare di “partecipanti” vuol dire entrare già in una delle tante tipologie deiconflitti che si possono enucleare. In breve, i conflitti possono avere comeattori: Stato contro Stato (guerra, conquista); Stato contro non-Stato (ribellione,rivoluzione, guerra di indipendenza, repressione); Non-Stato contro non-Stato(conflitto industriale, scontri tra gruppi etnici, tra gruppi religiosi, tra tifoserie).Le forme. Anche per questo punto anticipo molto sommariamente quanto verràpresentato più avanti. E’ ovvio ed è noto che il conflitto sociale assume unamolteplicità di forme a seconda, anche, della struttura sociale in cui sipresentano, degli attori, degli scopi che questi si prefiggono, ecc. Ma, è ancoraTilly a sottolinearlo:

“In confronto alla molteplicità di attività conflittuali possibilialmeno in teoria, una qualsiasi coppia di attori che s’impegna inun conflitto prolungato tende ad attuare una serie estremamentelimitata di comportamenti, adottando sempre gli stessi per piùvolte, con variazioni di secondaria importanza. All’interno degliStati capitalisti contemporanei, i conflitti organizzati tra padronie operai assumono la forma di scioperi, serrate, consigli difabbrica, dimostrazioni, richieste d’intervento statale, sabotaggiecc. (…) Nei paesi occidentali, a partire dalla seconda guerramondiale, è diventata abbastanza comune una forma di conflittofino a quel momento piuttosto rara: un gruppo s’impadronisce diun luogo, di una persona o di un oggetto importanti per il lorovalore simbolico, tenendoli in ostaggio nel corso delle trattativecon un altro gruppo. Rientrano in questo schema i dirottamentiaerei, le occupazioni delle fabbriche e i sit-in negli uffici o nellepubbliche piazze (…) Una delle parole con cui si indical’insieme dei mezzi usati in un conflitto da una qualsiasi coppia(o gruppo più ampio) di attori è ‘repertorio’. La metaforateatrale suggerisce che si tratta di un numero limitato diprocedure relativamente differenziate e implicanti interazione traalleati e nemici, che sono messe in atto dai partecipanti in base anorme negoziate, sono più o meno note a tutti i partecipanti,

variano di volta in volta e tendono ad essere manipolate dagliattori a proprio esclusivo vantaggio (…) I repertori del conflittovariano secondo la struttura e la storia delle relazioni sociali nelcui contesto essi sono situati. Questo è uno dei motivi che staalla base delle differenze sussistenti tra i conflitti Stato/Stato,Stato/non-Stato e non-Stato/non-Stato: nella loro interazione, gliStati creano una serie di modelli conflittuali standard, gli Stati ei loro oppositori interni ne elaborano altri, gli avversari al difuori dello Stato altri ancora” (ibidem, pp. 266-267).

Gli effetti. A seconda degli studiosi del conflitto possiamo avere, in genere,effetti di innovazione e progresso, oppure effetti devastanti per la strutturasociale nella quale si verificano. Per alcuni il conflitto in sé è devastante, peraltri è sempre portatore di mutamento positivo. Ma di questo si parlerà piùdiffusamente a proposito delle diverse teorie del conflitto. Qui preme solosottolineare come, a prescindere dalla valutazione positiva o negativa delconflitto, l’idea di conflitto ci rimandi a quelle di consenso, di coercizione, diequilibrio e di forza, di ‘politica’, in ultima istanza. Ovvero: “i sistemi socialisono fondati sulla coercizione di certi individui su altri, o sulla formazione diun consenso su certi valori fra i membri della società? Se si assume che irapporti sociali, o una parte importante di essi, siano rapporti di coercizione, lostudio del conflitto diventa fondamentale per ogni scienza sociale” (A.Pizzorno, cit., p. X). Detto con altre parole:

“A prima vista, un paese in cui l’esercizio del potere avvienesenza attrito in nome e con l’appoggio dell’intera società,potrebbe apparire senz’altro attraente. Le decisioni politichesono essenzialmente l’espressione di una volontà comune equindi generale. Il potere non è un concetto equivalente a unasomma di zeri, ma una moneta cui ogni cittadino ha una parte.Un sistema universale di partecipazione, il flusso indisturbatodelle comunicazioni determina la realtà. Ma vale la penaesaminare più da vicino questa piacevole immagine. Cosasuccede per esempio se un infelice non concorda con la presuntavolontà comune? Questo è un caso che non dovrebbe verificarsi,ma che cosa succede se, tuttavia, esso si verifica? Se la teoria(dell’equilibrio) viene elevata a dogma, il deviante deve essereperseguitato; se non viene perseguitato, la teoria è respinta. Checosa succede se qualcuno sviluppa una sua idea con cui potrebbeordinare le cose meglio di come stanno, e se trova appoggi a taliprogetti?”. (Dahrendorf, 1971, p. 331).disputando

Le teorie: Machiavelli e HobbesIn Machiavelli, noi troviamo, secondo Pizzorno, una vera e propria teoria deiconflitti (intendendo per conflitti: discordie, inimicizie, disunioni e tumulti elevate di popolo): “cioè di un insieme di proposizioni indicanti perché iconflitti nascano, quali effetti essi producano, e in quali circostanze essi sianovantaggiosi alla cosa pubblica, e quando invece le nuocciano” (Pizzorno, 1993,p. 188). In Machiavelli la teoria è questa:

“I conflitti giovano alla cosa pubblica quando sono volti aconquistare in favore di una parte, fino allora esclusa, il diritto diessere presente nel governo della città e non invece quandomirano ad annientare la parte avversa. Quando si manifestanodisputando, non invece con violenza e all’ultimo sangue.Quando sono volti a generare nuove leggi e, in genere,innovazioni istituzionali, invece che esili della parte perdente(Discorsi, I, 2-4, e Istorie Fiorentine, III, 1). In altre parole, loscopo delle parti, o ,piuttosto, di quella che muove alla lotta, èconcepito in questi casi come quello di farsi riconoscere eaccettare dalla parte avversa, e giungere a condividere i supremionori con essa – o almeno di stabilire con certezza i suoi diritti.Stabiliti questi, il conflitto si quieta.Tre vantaggi conseguono a questo tipo di conflitto. Anzituttoesso tende a generare innovazioni istituzionali che allarganol’accesso alla cosa pubblica. Secondo, garantisce la libertà deicittadini: infatti tutte le leggi che in una repubblica si fanno infavore della libertà dei cittadini ‘nascono dalla disunione dipopoli e grandi’. Infine, il conflitto fomenta la partecipazionealla cosa pubblica, mobilita quindi le energie della collettività,che possono poi rivolgersi verso conquiste esterne.Nuocciono invece alla cosa pubblica i conflitti i quali siterminano con la parte vincente che resta unica al governo, chelegifera secondo le sue ambizioni private, e annienta o manda inesilio il vinto. Sembra poi inevitabile che quando questosuccede, la parte vincente si divida a sua volta, e si riaccendanocosì altre lotte. Simili conflitti nascono quando è in gioco nonl’onore del pubblico, bensì la ‘roba’, non riconoscimento didiritti, bensì il possesso di ricchezze” (ibidem, p. 189).

In Hobbes abbiamo il ribaltamento del ragionamento di Machiavelli: lo statonon può accettare l’esistenza di conflitti, in quanto questi portano alla guerracivile; i conflitti non portano alla libertà dell’individuo in quanto questi diventaprigioniero di una delle due parti in lotta e quindi perde la sua libertà.

“Rispetto a Machiavelli non siamo qui soltanto di fronte agiudizi che sono diversi perché si valutano diversamente lepossibili conseguenze dei conflitti. La condanna di Hobbesnasce da una nuova teoria dello stato e della funzione che essosvolge per la sopravvivenza degli individui e per le relazioni chesi costituiscono tra questi. Affinché gli individui si accettinol’uno l’altro pacificamente, si riconoscano cioè degni dicoesistere, lo stato deve mantenere per sé non soltanto ilmonopolio della forza, ma, per dir così, il monopolio dellacertezza. E’ infatti l’incertezza che rende impossibile lacoesistenza, e che va quindi abolita” (ibidem, p. 190).

In realtà, Hobbes si riferisce a conflitti sconosciuti all’epoca di Machiavelli,Hobbes si riferisce ai conflitti della sua epoca, cioè prevalentemente a conflittireligiosi, a conflitti tra contrapposte “verità” e che, quindi, producevanoincertezza quanto alla “vera” verità. Di qui il ruolo dello stato: definire la veritàdelle persone, “cioè la loro identità sociale, il modo come esse debbonoidentificarsi pubblicamente l’un l’altre, le opinioni che esse possonopubblicamente manifestare. Qualunque divergenza o conflitto a questo

proposito va abolita. Costituirebbe una minaccia alla certezza dei rapporti”(ibidem, p. 190). Ma questa idea hobbesiana presenta due difficoltà:

“Una emerge se distinguiamo fra le credenze (religiose,ideologiche) che entrano in conflitto con la certezza dello stato(del suo diritto), e quelle che invece vengono generateall’interno dell’attività dello stato stesso. Hobbes prende inconsiderazione solo le prime, le vede le une con le altreinconciliabili, e le espelle. Lo sviluppo storico le mostra invecepermanere, ma uscire dalla cosa pubblica, i conflitti pubblici inloro nome attenuarsi, circoscriversi nel foro interno dellapersona. E il loro posto nella cosa pubblica esser preso dacredenze non più sulla verità eterna, bensì sulla natura delleistituzioni. I conflitti, poi, provocati da questo secondo tipo dicredenze diventano istituzione stessa dello stato. Su questofondamento si forma la visione liberale del conflitto. La secondadifficoltà si pone in un certo senso come uguale e contraria allaprima. Come sarà possibile che i singoli cittadini arrivino asopportare sacrifici – anche della vita – che il conflitto tra glistati comporta, se il principio del conflitto in nome di credenzeriguardanti la verità è stato negato? I conflitti per la fedepotevano condurre sino alla perdita della vita, perché di quellafede era fatta l’identità della persona. Perdendo le ragioni dellafede si perdeva l’identità della persona e senza identitàriconosciuta la vita non era vivibile. Come può lo stato, nato perassicurare la sopravvivenza, generare la stessa solidarietà difronte alla morte quale genera una fede religiosa?” (ibidem, p.191).

Due teorie decisamente contrapposte: ma si tratta di due teorie vere e proprie?In realtà, sia Machiavelli che Hobbes lasciano insoluti diversi problemi e,quindi, si è di fronte a “teorie” per lo meno incomplete. E’ ancora lo stessoPizzorno a enuclearle con chiarezza:

“Si ritorni per un momento alle differenze tra Machiavelli eHobbes. Per il primo i conflitti erano tra parti private, cheusavano risorse di origine privata (ricchezze, nessi di amicizia oparentela, devozione a un capo). Dove venissero prodotte talirisorse, e che conseguenze nascessero dal loro esser prodotte inun certo modo, non veniva indagato. Per Hobbes, invece, ciòche contava era una natura nuova dei conflitti, non piùd’interesse, di ‘roba’, come avrebbe detto il Fiorentino, bensìportanti sulla verità. Di fronte alla minaccia rappresentata daquesto tipo di conflitti intestini, lo stato doveva essere tale che,al di fuori di esso, contro il suo decreto, non doveva potersi dareenunciazione pubblica di verità.Né l’una né l’altra di queste due posizioni era, per esprimersicosì, in equilibrio. A chi avesse voluto completare il oro sensosi presentavano alcuni problemi ardui, e di portata assai radicale.Il primo era il problema di indicare quali meccanismiproducessero le risorse oggetto e arma dei conflitti che avevanoradici al di fuori della cosa pubblica (problema per chi leggaMachiavelli). Il secondo era di esaminare la natura dei conflittiche avevano per posta la verità. Il terzo consisteva nel

domandarsi che modi di teoria fossero possibili una volta che sivolesse spiegare la presenza di conflitti portanti sulla verità.Ovverosia che rapporto potesse darsi in questi casi tra l’esserparte di un conflitto, e l’esser osservatore e teorico di esso(problemi, il secondo e il terzo, per chi legga Hobbes)” (ibidem,pp. 194-195).

Le teorie: da Marx a SimmelUna prima risposta ai tre problemi lasciati insoluti da Machiavelli e da Hobbes,la troviamo in Marx. E’ nei rapporti di produzione che si producono le risorseoggetto del conflitto; è il sistema dei rapporti di produzione che genera conflittisistematicamente a prescindere dalle singole volontà; e lo stato

“sta all’interno dei conflitti. Non è in grado, quindi, di risolverlio sopprimerli, almeno non a lungo. Questi conflitti, poi, sonoconnotati da quella componente che Hobbes per primo avevaindividuato: essi hanno per posta la verità. Le parti in conflittosono portatrici di verità contrapposte quanto all’interpretazionedella realtà sociale” (ibidem, p. 195).

Per dirla con altre parole (Simmel) la risposta di Marx “tiene conto dellemotivazioni intrapersonali ed interpersonali, delle cause esogene e di quelleendogene, ma ha la particolarità di collegare l’analisi dei conflitti allo studiocomplessivo dei sistemi sociali concepiti dinamicamente, nel senso chel’analisi non fa mai astrazione dai rapporti di classe che caratterizzano i dettisistemi” (G. Simmel, I conflitti della cultura moderna, Bulzoni, Roma, 1976(1908), p. 134).Simmel valuta positivamente i conflitti, in quanto ritiene che essi producanoeffetti positivi per la collettività e per i singoli individui costituenti talecollettività. Andiamo per ordine.

“Di fatto sono i fattori dissociativi – odio e invidia, bisogno edesiderio – le cause del conflitto. Ma una volta esploso percausa loro, esso è una forma di ausilio per risolvere i dualismidivergenti; è un modo di raggiungere un qualche genere di unità,anche se attraverso l’annullamento di una delle parti in conflitto(…) Un gruppo che sia centripeto ed armonico in senso assoluto,una pura ‘unificazione’, non solo è empiricamente irreale, manon potrebbe offrire alcun processo vitale vero e proprio. Lasocietà dei santi che Dante vede nella Rosa del Paradiso puòcomportarsi così, ma è anche sottratta ad ogni mutazione esviluppo; mentre già la santa assemblea dei Padri della Chiesanella ‘Disputa’ di Raffaello si presenta, se non come un vero eproprio conflitto, almeno come una considerevoledifferenziazione di opinioni e direzioni di pensiero, dalla qualcosa fluisce tutta la vitalità e la reale struttura di quell’insieme.Proprio come l’universo ha bisogno di ‘amore e odio’, cioè diforze attrattive e repulsive, per avere una forma, così anche lasocietà, per ottenere una determinata configurazione, necessitadi un qualche rapporto quantitativo di armonia e disarmonia, diassociazione e concorrenza, di tendenze favorevoli esfavorevoli” (ibidem, pp. 87 e 89).

Per questo studioso, quindi, il conflitto non è solo necessario per il mutamentodi una società, ma è anche sempre presente, non potendosi dare una società

terrena totalmente armonica. Non tutti i conflitti, tuttavia, ed è chiaro già nellacitazione di sopra, hanno effetti positivi: a seconda del tipo di conflittoprevalgono elementi coesivi o elementi distruttivi.

“Naturalmente ci sono conflitti che sembrano escludere tutti glialtri elementi: per esempio tra il ladro, il delinquente e la suavittima. Se un tale conflitto tende all’annientamento, esso siavvicina al caso limite dell’assassinio, in cui la partecipazione dielementi coesivi è divenuta uguale a zero. Nei limiti in cui,tuttavia, è presente un qualsiasi ritegno, un limite dell’attoviolento, esiste anche un momento socializzante, anche sesoltanto come determinazione della violenza. Kant ha osservatoche ogni guerra in cui i belligeranti non si impongono unqualche limite nell’uso dei possibili mezzi di lotta,necessariamente, già per ragioni psicologiche, deve diventareguerra di sterminio. Infatti dove non ci si astiene almenodall’assassinio, dal venir meno alla parola data, edall’istigazione al tradimento, si distrugge quella fiducia nelleintenzioni del nemico che rende possibile poi una qualche pace.Dopo aver conquistato l’Italia nel VI secolo i Longobardiimposero ai vinti il tributo di un terzo del raccolto, ed essi feceroin modo che ogni singolo individuo tra i conquistatori dipendevadal tributo pagatogli da un ben determinato individuo trai vinti.In questa situazione, l’odio dei vinti per i conquistatori saràaltrettanto forte e forse più forte che durante la guerra stessa e sirinnoverà con non minore intensità anche nei conquistatori: siaperché l’odio contro chi ci odia è una misura istintiva di difesa,sia perché, notoriamente, odiamo coloro ai quali abbiamo fattodel male. Tuttavia la situazione aveva un elemento comunitario.La stessa circostanze che aveva generato l’ostilità, cioè laforzata partecipazione dei Longobardi alle attività degli indigeniportò al tempo stesso ad un innegabile parallelismo di interessi.Su questo punto divergenza e armonia si legarono strettamente(…) Questo tipo formale di relazione si è realizzato nellamaniera più ampia col ridurre in schiavitù anziché uccidere ilnemico catturato. Anche se molto spesso la schiavitùrappresenta il caso limite di una totale ostilità interna, la suarealizzazione produce nondimeno un rapporto sociologico e conciò, molto spesso, la sua stessa attenuazione.Così l’acuirsi delle contrapposizioni può essere provocatodirettamente dalla volontà di diminuirle, e non solo dal voleraccentuare la violenza, fiduciosi che l’antagonismo, una voltache abbia raggiunto un certo limite, finirà per esaurimento o perl’acquisita coscienza della sua insensatezza.Ma può anche accadere un fatto simile a quello che talvolta nellemonarchie porta i principi a capo dell’opposizione. Da ciòl’opposizione ne esce rafforzata e questo nuovo contrappesoporta ad essa elementi che altrimenti ne sarebbero rimasti fuori.Ma al tempo stesso l’opposizione viene contenuta in questomodo entro certi limiti. Nel momento in cui il governoapparentemente di proposito rinforza l’opposizione, con questovenirle incontro le spezza le punte”. (ibidem, pp. 100-102).

Le teorie: Carl SchmittPer Schmitt, situazioni di conflitto (effettive o potenziali) si hanno quando sicostituisce un’identità collettiva. “Un’identità collettiva si costituisce: a)quando si danno altri da essa che la riconoscono; b) quando coloro che non lariconoscono vengono trattati come nemici, e contro di essi non vale piùl’interdizione di uccidere; c) quando a loro volta gli individui che siriconoscono appartenere a quel soggetto collettivo sono disposti a morire, seciò è necessario perché quel soggetto venga riconosciuto” (ibidem, p. 192).Vediamo, in breve e per passaggi semplificati, il suo ragionamento sul conflittopolitico.

“La specifica distinzione politica alla quale è possibilericondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico enemico. Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio,non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto.Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essacorrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomidelle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, belloe gruppo per l’estetica e così via (…) Il significato delladistinzione di mico e nemico è di indicare l’estremo grado diintensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione odi una dissociazione; essa può sussistere teoricamente epraticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venirimpiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economicheo di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico siamoralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non devenecessariamente presentarsi come concorrente economico eforse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui.Egli è semplicemente l’altro, lo straniero e basta alla sua essenzache egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmenteintensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel casoestremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venirdecisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediantel’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’(…) Nemico non è il concorrente o l’avversario privato che ciodia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insiemedi uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base aduna possibilità reale, e che si contrappone ad un altroraggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo ilnemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simileraggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventaper ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus insenso ampio (…) La contrapposizione politica è la più intensaed estrema di tutte, e ogni altra contrapposizione concreta ètanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quellodel raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico (…)Che l’essenza dei rapporti politici consista nel riferimento aduna contrapposizione concreta è reso palese dallo stessolinguaggio corrente, là dove è andata del tutto perduta lacoscienza del ‘dato estremo’. Ciò risulta quotidianamente in duefenomeni che devono essere subito messi in luce. In primo

luogo: tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno unsenso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta,la cui conseguenza estrema è il raggruppamento in amico-nemico e diventano astrazioni vuote e spente se questasituazione viene meno. Termini come Stato, repubblica, società,classe, e inoltre: sovranità, Stato di diritto, assolutismo, dittatura,piano, Stato neutrale o totale e così via sono incomprensibili senon si sa chi in concreto deve venir colpito, negato e contrastatoattraverso quei termini stessi. Il carattere polemico dominasoprattutto l’impiego linguistico dello stesso termine ‘politico’,sia che si qualifichi l’avversario come ‘non politico’ (nel sensodi estraneo al mondo, carente sul piano concreto) sia invece chelo si voglia al contrario denunciare e squalificare come‘politico’, al fine di sollevare poi sé stessi sopra di lui come ‘nonpolitici’ (nel senso di puramente concreti, puramente scientifici,puramente morali, puramente giuridici, puramente estetici,puramente economici, o sulla base di analoghe purezzepolemiche). In secondo luogo: nell’uso della polemicaquotidiana all’interno dello Stato, ‘politico’ viene oggi spessousato nello stesso senso di ‘politico-di partito’; l’inevitabile‘mancanza di obbiettività’ di tutte le decisioni politiche ch è soloil riflesso della distinzione amico-nemico immanente ad ognicomportamento politico, si manifesta nelle forme e negliorizzonti meschini della conquista dei posti e delle prebende inbase alla politica di partito: la necessità che in tal modo sorge diuna ‘spoliticizzazione’ significa solo il superamento del‘politico-di partito’, e così via” (C. Schmitt, Il concetto di‘politico’, in Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna,1972 (1932), pp. 109-115).

Chi si rifà, anni più tardi, a Carl Schmitt è un altro studioso tedesco: JulienFreund. Vediamo la ricostruzione del suo pensiero nelle parole di Busino:

“Lo scopo della politica è il raggiungimento della concordiaall’interno e della sicurezza all’esterno. Ora, per imporrel’ordine all’interno, per difendersi contro i nemici reali e virtualiall’interno e all’esterno, la politica-potere deve necessariamentepossedere il monopolio della coercizione incondizionata. Lapolitica presuppone necessariamente: a) la relazione di comandoe di obbedienza; b) la relazione di privato e di pubblico; c) larelazione di amico e di nemico. La relazione a) è unificatrice.Comandare significa decidere e fare eseguire gli ordini inmaniera sovrana e assoluta. Poiché la politica non governa tuttol’uomo (vi sono anche l’economia, la religione, la morale, lascienza e l’arte), poiché governa una sola parte dell’attivitàumana globale – quella del settore pubblico – tutto ciò che nonfa parte della protezione dei membri della collettività è dunquedi pertinenza della relazione b), costituisce in altri termini ilprivato. E’ la specificità del privato che salva la libertà epermette di sfuggire al totalitarismo. La relazione c) sta adindicare che c’è politica laddove c’è un nemico. Il caso piùtipico di questa relazione è il conflitto bellico e tutti gli altri tipidi guerra. Violenza e inimicizia s’implicano reciprocamente. La

politica è il luogo privilegiato dell’abuso del dominio dell’uomosull’uomo. Il solo rimedio a queste situazioni di fatto è ilribaltamento della violenza, la sua sottomissione alla ragionemercé il diritto. Il conflitto è la rottura d’uno stato giuridico,positivo o naturale, d’un diritto scritto o non-scritto. Rompendole regole e/o le convenzioni stabilite, il conflitto tenta di farvalere un diritto leso o misconosciuto. Al centro stesso delconflitto c’è dunque un diritto. Per Freund il conflitto è unaffrontamento tra due volontà, individuali o collettive, le qualimanifestano l’una rispetto all’altra intenzioni ostili a causa d’undiritto. Appunto allo scopo di proteggere o d’ottenere questodiritto le parti in conflitto tentano di spezzare, eventualmente colricorso alla violenza, la resistenza dell’altro. Gli antagonisti nonsono degli avversari, bensì dei nemici; per questa ragione ilconflitto non è mai né un gioco né una disputa. Nelle societàmoderne il diritto, per ragioni complesse, assolve sempre menole sue funzioni. Perciò le cause dei conflitti sono sempre piùnumerose; perciò i conflitti sorgono simultaneamente in settorifra loto molto diversi e distanti. Regolarmente i fattori esternid’ordine economico, sociale, ecc. si sovrappongono ai fattoriinterni d’ordine psicologico, morale, ideologico, religioso. Acausa di queste confuse ed inestricabili sovrapposizioni, iconflitti appaiono fluttuanti, imprecisi, indeterminati, nonsuscettibili di specificazioni nette: poche sono le loro formespecifiche; la loro autoperpetuazione e capacità di metamorfosisono invece notevolissime. La maggior parte delle crisi sitrasforma in conflitti; non tutti i conflitti però possono risolversi,oppure essere superati e regolati mediante norme, convenzionied istituzioni. La simultaneità dei conflitti, l’aumento dellecontraddizioni, delle discordie e delle incompatibilità, il fattostesso che la società sia oggi divenuta il punto focale e l’oggettostesso del conflitto, obbligano gli attori sociali a gestire laconflittualità, che è ormai impossibile mediare, a vivere neiconflitti e coi conflitti” (G. Busino, cit., pp. 773-774).

Le teorie: i funzionalistiCon la teoria del conflitto come forza motrice del mutamento il filonesociologico prevalente negli anni ’60, era rappresentato dai teorici(funzionalisti) dell’equilibrio.Per Elton Mayo (ad esempio), lo stato normale di una società è rappresentatodall’equilibrato funzionamento del sistema, nel quale ogni attore (individuale ocollettivo) e ogni istituzione hanno il loro posto e la loro funzione. Il tutto conmodalità armoniche. E’ vero che nelle società industriali i vari gruppi che siformano hanno frequentemente un atteggiamento ostile l’uno verso l’altro. Maciò deriva da cause patologico-individuali (cioè da turbamenti psicologici dicoloro che fanno esplodere questi conflitti) e, inoltre, può avere conseguenzenegative, e portare quella società, se non riesce a trasformare l’ostilità incooperazione, alla rovina (Mayo, 1945).Un secondo studioso (funzionalista) è Robert K. Merton, per il quale i conflittiesistono necessariamente, non sono cioè il prodotto di soggetti “malati”, masono “disfunzionali” al buon funzionamento armonico di una società in quanto

diminuiscono l’adattamento del sistema, la sua integrazione. Esistono perMerton diversi modi o livelli di adattamento, alcuni dei quali sono “funzionali”e altri “disfunzionali”:

“1. conformità, in quanto riconoscimento dei valori e mezzivigenti;2. innovazione, in quanto rifiuto dei mezzi istituzionali vigenticome norme culturali condivise, cioè ‘protestantesimo’ in sensostretto;3. ritualismo, come mero conformismo esteriore ai mezzisocialmente prescritti, senza contemporaneo riconoscimento deivalori vigenti;4. rifiuto o rinuncia tanto dei valori vigenti quanto dei mezziistituzionali da parte di ‘veri e propri estranei’ della società(visionari, paria, reietti, mendicanti, vagabondi, drogati cronici);5. ribellione. Ribellione e rinuncia non si distinguono affatto perla loro posizione rispetto al sistema dei fini e mezzi dellasocietà; la loro unica diversità consiste nel carattere socialmenteattivo della ribellione”.

Si potrebbe affermare, con Merton (1962 ?), che il primo e il terzo favorisconol’equilibrio, il secondo l’adattamento del sistema ai mutamenti tecnologici osociali, il quarto è curabile (come per Mayo), il quinto implica l’uso legittimodella forza e della violenza da parte delle istituzioni (politiche, cioè dello stato).Un terzo autore funzionalista, che però si discosta notevolmente dagli altri, èLewis Coser, per il quale, rifacendosi a Simmel, i conflitti sociali possonoessere distruttivi (disfunzionali) ma non sempre lo sono:

“i conflitti possono servire a rimuovere gli elementi disgregatoridi un rapporto ristabilendone così l’unità. Nella misura in cui ilconflitto dissolve la tensione tra gli antagonisti, ha funzionistabilizzatrici e diviene così una componente integratrice delrapporto. L’interdipendenza di gruppi antagonistici el’incrociarsi dei conflitti che provocandone la vicendevoleelisione contribuiscono a tenere insieme il sistema sociale,impediscono di conseguenza che si verifichi una frattura lungoun’unica linea di divisione” (L. Coser, 1967 (1956), p. 90).

Ovvero, semplificando al massimo: se Tizio è conflittuale con Caio su un datotema, e con Sempronio su un altro tema, e Caio è anch’esso conflittuale conSempronio, allora i conflitti possono (o sono) integranti. Se Tizio e Caio sitrovano sempre su fronti contrapposti allora si ha disfunzionalità. Ma vi è unaltro elemento che per Coser ‘fa la differenza’ tra i vari conflitti: la maggiore ominore rigidità della struttura sociale nell’affrontare i conflitti:

“Non tutti i sistemi sociali nei quali gli individui partecipano inmodo non integrale alla vita dei gruppi permettono la liberaespressione di rivendicazioni antagonistiche. Infatti i sistemisociali tollerano o istituzionalizzano il conflitto in misuradifferente, e non c’è d’altra parte alcuna società nella quale siaconsentita l’espressione immediata di ogni e qualsiasirivendicazione antagonistica. Le società dispongono dimeccanismi adatti a incanalare il malcontento e l’ostilità purconservando intatto il rapporto nel cui ambito l’antagonismosorge. Tali meccanismi di frequente operano per mezzo di

istituzioni che funzionano come valvole di sicurezza, fornendooggetti sostitutivi sui quali dirottare i sentimenti di ostilità, comepure mezzi di ‘abreazione’ di tendenze aggressive (…) Il nostroesame della distinzione fra tipi di conflitti, e fra tipi di strutturesociali, ci porta a concludere che il conflitto tende ad essereantifunzionale per una struttura sociale nella quale la tolleranzae l’istituzionalizzazione dei fenomeni conflittuali manchinocompletamente o siano insufficienti. L’intensità di un conflittoche minacci di avere effetti disgregatori, e che attacchi la baseconsensuale di un sistema sociale è in connessione con larigidità della struttura. Ciò che minaccia l’equilibrio di una talestruttura non è il conflitto in quanto tale, ma la rigidità stessa laquale fa sì che i sentimenti ostili si accumulino e, scoppiato ilconflitto, confluiscano a contrapporsi lungo una sola linea difrattura” (L. Coser, cit., pp. 177-178)

Le teorie: Alain TouraineComplessa e articolata, ma anche complicata, è la teoria dei conflitti di AlainTouraine (1970 ?). Forse è più semplice e chiara la ricostruzione che ne faBusino:

“Nelle società d’oggi le cause e le ragioni dei conflitti sonogenerali: esse non risparmiano né la scienza, né la tecnica, né lavita privata. Certo, il conflitto primario è quello tra capitale elavoro, tra governanti e governati; ma, data la compenetrazionefra Stato e mercato, date le nuove istituzioni ed i processi dicontrollo, una serie d’altri scontri, d’altri affrontamenti, d’altriconflitti agita lo spazio sociale. Il controllo sociale, senza ilquale non è possibile né lo sfruttamento delle risorse naturali, nél’organizzazione stessa del lavoro, né, infine, l’accumulazione-investimento, è contestato globalmente da quegli attori cherifiutano il campo attuale dei rapporti di forza e mirano aprocurarsi la padronanza delle funzioni sociali in senso lato,pubbliche e private. I conflitti attraversano tutti i settori dellasocietà; sono quindi multipli, simultanei ed addizionali, siorganizzano e si esprimono contro apparati di dominazionesempre più integrati. La contestazione è fatta da attori che sonoessenzialmente delle minoranze. Devianza e contestazionetendono a coincidere. Anzi, Touraine riduce i conflitti amarginalità e interpreta poi la marginalità in termini di conflitti.,di lotta per il controllo della direzione del processo storico. Ilconflitto è dappertutto, dal momento che ovunque esistonocontraddizioni incompatibili fra gli orientamenti di coloro chedirigono e quelli di coloro che rifiutano questa direzione. Lasocietà è conflitto, è lotta di classe, affrontamento fra classiaventi orientamenti radicalmente opposti sugli investimenti, suiconsumi, sulla divisione del prodotto sociale, sull’informazione,sulla nozione di bene comune, sulla vita quotidiana (…)Conflitto come creazione del nuovo e come libertà; conflittocome azione sociale creatrice di senso e di significati; conflittocome emergenza di nuovi orientamenti normativi attraverso iquali si costruisce e si costituisce l’esperienza creatrice e

s’afferma la relazione tra l’uomo e le sue opere; conflitto comegeneratore di cambiamento e di mutamenti, di status nascenti edi nuovi valori? Nella sociologia o filosofia sociale di AlainTouraine il conflitto è tutto questo nello stesso tempo” (G.Busino, cit., p. 772)

Le teorie: Ralf DahrendorfNel fondare la sua teoria del mutamento sociale (in contrapposizione con ifunzionalisti teorici dell’equilibrio sociale), Dahrendorf sottolinea come

“La grande forza creativa che porta avanti il mutamento è ilconflitto sociale. Può essere sgradevole e conturbante il pensieroche esiste un conflitto dovunque troviamo vita sociale: ciònondimeno è indispensabile per comprendere i problemi sociali(…) E’ sorprendente e anormale non già la presenza mal’assenza di conflitti; e abbiamo buoni motivi di sospetto qundotroviamo una società o organizzazione sociale che, stando alleapparenze, non rivela nessun conflitto. Naturalmente, nondobbiamo assumere che i conflitti siano sempre violenti eincontrollati” (R. Dahrendorf, 1967, p. 221-222).

Abbiamo qui una prima differenziazione tra tipi di conflitti, sulla quale siritornerà più avanti: conflitti non violenti e conflitti violenti.Poco più avanti, Dahrendorf puntualizza un altro aspetto relativo alla presenzadi conflitti nelle società:

“Può essere considerato empiricamente ovvio che le società nonsiano affatto compagini armoniche ed equilibrate, ma rivelinosempre anche contrasti tra gruppi, valori ed aspettativeinconciliabili. Il conflitto appare un dato sociale universale,forse anzi è addirittura un elemento indispensabile di ogni vitasociale” (ibidem, p. 227)

Il punto da chiarire non è dunque se esistono i conflitti, ma quali sono lecause strutturali che fanno sì che i conflitti (sociali) siano dei fenomenipermanenti.

Dahrendorf espone così la sua tesi:“La mia tesi è che il compito permanente, il significato e laconseguenza del conflitto sociale consistono nel mantenere estimolare il mutamento di intere società e delle loro parti. Se sivuole, si potrebbe definire tutto ciò come la ‘funzione’ delconflitto sociale. Ma allora il concetto della funzione viene usatoin un senso del tutto neutrale, vale a dire senza nessunriferimento e un ‘sistema’ rappresentato come equilibrato (…) Iconflitti divengono comprensibili nelle loro ripercussioni e nelloro significato soltanto se li rapportiamo al processo storicodelle società umane. Come fattore nel processo onnipresente delmutamento sociale, i conflitti sono profondamente necessari. Làdove essi mancano, e anche dove vengono soffocati oapparentemente risolti, il mutamento viene rallentato edarrestato. Là dove i conflitti sono riconosciuti e regolati, ilprocesso del mutamento viene conservato come sviluppograduale. Ma nei conflitti sociali risiede sempre una notevoleforza creatrice di società. Proprio perché vanno al di là delle

condizioni ogni volta esistenti, i conflitti sono un elementovitale della società, come del resto il conflitto in generale è unelemento della vita intera. Non è questa una tesi nuova. Marx eSorel, proprio come prima di essi Kant ed Hegel e dopo di essimolti sociologi di tutti i paesi, fino ad Aron, Gluckman e Mills,hanno riconosciuto la fecondità dei conflitti sociali e individuatoil loro riferimento al processo storico” (ibidem, p. 238).

Circa le cause dei conflitti sociali, Dahrendorf sottolinea che: “L’esplosività di ruoli sociali contenenti aspettativecontradditore, l’inconciliabilità delle norme vigenti, ledifferenze regionali e religiose, il sistema della disuguaglianzasociale e la barriera universale tra dominanti e dominati sonotutti elementi della struttura sociale che conducono di necessità aconflitti. Ma da tali conflitti promanano sempre energici impulsisul ritmo, la radicalità e la direzione del mutamento sociale”.(ibidem, p. 239).

Il contrasto con i funzionalisti non potrebbe essere più netto. E, infatti,Dahrendorf prima di esporre la sua teoria del conflitto, presenta i puntifondamentali della teoria del consenso. In questo modo:

“La teoria del consenso, dell’integrazione sociale, che dominalargamente la teoria sociologica funzionale, nella sua forma purapoggia sulle quattro ipotesi seguenti circa l’essenza delle societàumane:1) Ogni società è una compagine (‘relativamente’) stabile eduratura di elementi (ipotesi della stabilità).2) Ogni società è una compagine bene equilibrata dielementi (ipotesi dell’equilibrio).3) Ogni elemento di una società ha una funzione, cioèfornisce un contributo al suo funzionamento (ipotesi dellafunzionalità).4) Ogni società si conserva grazie al consenso di tutti i suoimembri su determinati valori comuni (ipotesi del consenso).Contro tale orientamento, è pensabile una teoria dellacoercizione dell’integrazione sociale che parta da ipotesi diversee magari opposte sulle società umane. Con una formulazionealtrettanto approssimativa, si possono delineare queste ipotesicome segue:1) Ogni società e ognuno dei suoi elementi sono soggetti inogni periodo ad un processo di mutamento (ipotesi dellastoricità).2) Ogni società è una compagine in sé contraddittoria edesplosiva di elementi (ipotesi dell’esplosività).3) Ogni elemento di una società fornisce un contributo alsuo mutamento (ipotesi della disfunzionalità o produttività).4) Ogni società si conserva mediante la coercizioneesercitata da alcuni suoi membri su altri membri (ipotesi dellacostrizione).” (ibidem, pp. 256-257).

A questo punto si tratta di passare alla parte costruttiva del discorso e, quindi, aprecisare come arrivare a una teoria generale del conflitto:

“Una teoria generale del conflitto sociale dovrebbe rispondere aiseguenti quesiti:

1) Che cosa si deve intendere in particolare per conflittosociale, e quali tipi di conflitti possiamo distinguere nelle societàstoriche?2) Con quale immagine della società i conflitti si rivelanoall’intervento razionalizzatore della teoria scientifica?3) Come possono essere determinate le situazioni strutturalidi partenza di dati tipi di conflitto sociale?4) In quale modo i conflitti sociali si sviluppano sullosfondo di determinate relazioni sociali di struttura? Questo è ilproblema della formazione dei gruppi conflittuali e delle loronorme e, più in generale, della manifestazione dei conflittisociali.5) Quali sono le dimensioni della variabilità di dati tipi diconflitto sociale, e a quali condizioni le forme del conflittovariano in queste dimensioni? La risposta consente dicomprendere la crescente e decrescente intensità e violenza deiconflitti sociali e quindi di determinare i punti in cui, almeno inlinea di principio, sembra possibile intervenire per regolarli.6) In quale modo si possono regolare i conflitti sociali? ”.(ibidem, pp. 247-248).

In chiusura 1: le società liberali e le società totalitarie di fronte alconflitto

“Che la classe dominante delle società totalitarie non vedaaffatto di buon occhio i conflitti sociali è comprensibile. Ognidissidio interno minaccia la sua posizione di potere e vieneperciò represso. Ma anche le società liberali di oggi non amanopiù il conflitto. Ciò è dimostrato già dallo stesso cambiamento disignificato del termine ‘liberale’. Nell’era del primo capitalismo,questo termine indicava il riconoscimento dell’esistenza diinteressi contrastanti nella società, mentre oggi anche i ‘liberali’tollerano entro limiti assai ridotti le divergenze di opinione. Nelmondo attuale eterodiretto, la lotta per realizzare i propriinteressi è considerata volgare. Nel conflitto, parecchi vedonoperciò di preferenza non la propria realtà, ma il male altrui. Inquesto rifiuto dei conflitti sociali si cela quindi un doppio, fataleerrore: chi considera il conflitto una malattia, misconosce deltutto la peculiarità delle società storiche; chi lo attribuisce inprimo luogo ‘agli altri’, rivelando così di ritenere possibilisocietà senza conflitti, consegna la realtà e la sua analisi afantasticherie utopistiche. Ogni società ‘sana’, sicura di sé edinamica conosce e ammette conflitti nella propria struttura;infatti la loro negazione ha conseguenze altrettanto gravi per lasocietà quanto ne ha per il singolo la rimozione dei conflittiinteriori: non chi parla di conflitto ma chi cerca di tacerlo correil pericolo di perdere così la propria sicurezza”. (R. Dahrendorf,Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna, 1971 (1967), p. 245).

Lo stesso Pizzorno tratta del problema del ruolo del conflitto nella concezioneliberale dello stato.

“La formazione di vaste unità statali centralizzate e l’erodersidelle identità e distinzioni territoriali tradizionali comportano unattenuarsi dei sentimenti di appartenenza collettiva. L’identiànazionale, che può essere intesa durante i momenti diformazione rivoluzionaria dello stato e durante i confronti colnemico, è sostenuta, nella quotidianità, da una ritualità troppointermittente, poco intensa, facilmente disertabile, insufficientequindi a soddisfare bisogni più circoscritti e continui diriconoscimento di identità e di costituzione di solidarietà.Proprio nel conflitto tra parti politiche durare – che i fondatoridelle repubbliche democratiche avevano giudicatonegativamente – sembrano invece ricostituirsi possibilità diriconoscimenti forti, quotidianamente ripetuti e quindi forme disolidarietà attiva che pur non essere i limiti costituzionali dellasolidarietà collettiva più ampia. Sembrerebbe quasi di potersuggerire che per capire il meccanismo dei rapporti tra individuoe collettività nelle società liberali, a quello che si rappresentacome il paradosso dei ‘visi privati, pubbliche virtù’ generatodalla concorrenza sul mercato, andrebbe aggiunto il paradossodegli ‘odi privati, pubblica amistade’ generato dallacompetizione tra le parti politiche. Non quindi l’allargamentodelle basi della rappresentanza, bensì la risposta positiva albisogno di ricostituire solidarietà forti e vedere riconosciute lecorrispondenti identità collettive, sarebbe alla base delladialettica associativo-competitiva nella concezione liberale dellostato” (A. Pizzorno, cit., pp. 193-194).

In chiusura 2: La politica e i conflittiIn gran parte sulla scia di Carl Schmitt, netto è il pensiero di Mario Tronti sulrapporto tra politica e conflitto:

“La grande politica è questa: organizzare il conflitto senzascatenare la guerra. La piccola politica è quella: per amore dipace, annullare, comprimere, mascherare i conflitti. La piccolapolitica rende alla fine inutile, rende superflua, la politica. Senzaconflitto, niente politica” (M. Tronti, La politica al tramonto,Einaudi, Torino, 1998, p. 47).

Più recentemente, Chantal Mouffe ha sostenuto una tesi analoga, affermandoche “le questioni squisitamente politiche comportano sempre decisioni che ciimpongono di scegliere tra alternative in conflitto” (C. Mouffe, Sul politico.Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori, Milano, 2007(2005), p. 11). Ovvero: negare il carattere ineliminabile dell’antagonismo inpolitica, nelle scelte, nelle valutazioni politiche, significa semplicementenegare la politica. Significa negare la natura pluralistica delle società, negare ilpluralismo dei valori, delle prospettive: è impossibile pensare pluralismo senzaconflitto.

“Si può ritenere che la distinzione amico/nemico (di CarlSchmitt) sia solo una delle possibili forme di espressione della

dimensione antagonistica costitutiva del politico. Purammettendo che la possibilità dell’antagonismo è semprepresente, possiamo anche immaginare altre modalità politiche dicostruzione della demarcazione noi/loro. Se seguiamo questastrada, ci renderemo conto che per una politica democratica lasfida consiste nel cercare di mantenere entro certi arginil’emergere dell’antagonismo, istituendo in un modo diverso ilrapporto noi/loro. Da queste riflessioni possiamo trarre unaprima conclusione teorica. Possiamo affermare che ladistinzione noi/loro, che è la condizione perché si possa formareun’identità politica, può sempre diventare il luogodell’antagonismo. Poiché tutte le forme di identità politicaimplicano una distinzione noi/loro, ne consegue che lapossibilità che emerga l’antagonismo è ineliminabile. E’ perciòun’illusione credere nell’avvento di una società dalla quale siastato sradicato l’antagonismo (…) Uno dei compiti principalidella politica democratica consiste nel disinnescare il potenzialeantagonismo insito nei rapporti sociali. Se assumiamo che nonlo si possa fare prescindendo dal rapporto noi/loro, ma solostrutturandolo in un modo diverso, allora si tratta di capire comesi potrebbe configurare una forma ‘addomesticata’ diantagonismo, quale forma di rapporto noi/loro implicherebbe.Per essere accettato come legittimo, il conflitto deve assumereuna forma che non distrugga l’associazione politica. Ciòsignifica che deve esistere tra le parti in lotta qualche genere divincolo comune, in modo che gli oppositori non vengano trattaticone nemici da annientare in quanto fautori di posizioniillegittime, che è esattamente quello che accade nel rapportoantagonistico amico/nemico. In ogni caso, gli oppositori nonpossono essere visti come meri avversari i cui interessi possonoessere trattati mediante un negoziato o composti attraverso ladeliberazione, perché in questo caso l’elemento antagonisticosarebbe stato semplicemente eliminato. Se vogliamo riconoscereda un lato il permanere della dimensione antagonistica delconflitto, e dall’altro ammettere la possibilità del suo‘addomesticamento’, dobbiamo prospettare un terzo tipo direlazione. Mentre l’antagonismo è una relazione noi/loro nellaquale le due parti sono nemici che non condividono nessunterreno comune, l’agonismo è una relazione noi/loro nella qualele parti in conflitto, pur consapevoli che non esiste una soluzionerazionale al loro conflitto, nondimeno riconoscono la legittimitàdei loro oppositori. Ciò significa che, benché in conflitto, siconsiderano come appartenenti alla medesima associazionepolitica, come parti che condividono uno spazio simbolicocomune entro il quale ha luogo il conflitto. Possiamo affermareche il compito della democrazia è di trasformare l’antagonismoin agonismo (…) La posta in gioco nella lotta agonistica è laconfigurazione stessa dei rapporti di potere intorno a cui unacerta società è strutturata: è una lotta tra progetti egemonici chesi contrappongono e che non possono essere conciliatirazionalmente(…) L’approccio agonistico nega la possibilità di

una politica democratica senza lotta fra avversari e critica coloroche, ignorando la dimensione del ‘politico’, riducono la politicaa una serie di procedure neutrali e di presunte mosse tecniche”(C. Mouffe, cit., pp. 18, 22-24, 38).

III.- Tipologie dei conflitti

Innumerevoli sono le tipologie elaborate dai vari studiosi: a seconda dellevariabili prese in considerazione possiamo avere diverse tipologie oclassificazioni. In premessa: ogni tipologia costituisce una ‘semplificazione’della realtà, e che, in ogni caso, i diversi conflitti ‘reali’ possono venireincasellati solo privilegiando un elemento, una componente di essi anche sealtre componenti risultano presenti (in forma attenuata certo, ma pur tuttaviapresenti).Una prima tipologia è stata fondata sul ‘perché’, inteso come scopo, deiconflitti:

Conflitti di riconoscimento. “in essi una parte sociale ci appareentrare in conflitto essenzialmente allo scopo di imporre ilriconoscimento di una sua identità distinta. Ci potrà essereconsapevolezza più o meno chiara che questo sia ciò che sivuole. Sarà un conflitto che esclude, fino a che non siaconcluso, ogni negoziato, o lo ammette solo se è strumentalealla conduzione della lotta. Per definizione l’identità non ènegoziabile. Del resto, se gli altri accettano di negoziare connoi, già in qualche modo ci riconoscono, è già una vittoria.L’osservazione che precede permette di distinguere, entro taliipi di conflitto, quelli in cui l’identità che si mira a farericonoscere poggia su riferimenti che sono distinguibili prima eindipendentemente dal conflitto stesso: nazionali, etnici,linguistici, culturali in genere. E quelli, invece, in cui lacomunanza fra gli appartenenti a un’unità collettiva è nata dalconflitto stesso, o, in genere, nell’azione collettiva in vista di unobiettivo.. In più di un caso, infatti, è attraverso il conflittostesso che si mira a costituire un’identità collettiva. Può essereperché il movimento è ancora agli inizi e vuol farsi(ri)conoscere; o perché l’obiettivo è stato conseguito, ma si vuolcapitalizzare la solidarietà formatasi nella lotta, e quindi fardurare l’unità collettiva, e farne quindi riconoscere l’identità inquanto tale; oppure perché il movimento verso un un obiettivosi sta indebolendo e rischia di estinguersi, e la solidarietà varinforzata con lotte fini a se stesse, cioè miranti a confermare eravvivare il riconoscimento dell’identità. Dev’essere infattichiaro che il riconoscimento di un’identità collettiva da partedegli esterni a essa serve a rafforzare il riconoscimentoreciproco che gli appartenenti danno gli uni agli altri di essereportatori della stessa identità. L’evocazione, da parte di ungoverno, di minacce esterne, più o meno artificialmenteesagerate, risponde alla stessa logica” (Pizzorno, cit., pp. 196-197).

Conflitti d’interesse. “In questi le parti appaiono mosse daobiettivi determinati comportanti benefici per i loro membri.Affinché tale tipo di conflitto sia possibile occorre ovviamenteche le parti valorizzino gli stessi obiettivi. In questo caso vorràdire che esse appartengono al medesimo sistema di relazionientro il quale quegli obiettivi ricevono valore. Il conflitto sipotrà quindi anche chiamare conflitto distributivo, e vittoria esconfitta consisteranno essenzialmente in conquista o perdita diposizioni di potere relativo all’interno di un sistema. In questiconflitti potranno star di fronte o parti che si formano ad hoc,cioè in vista di un obiettivo specifico, e che si dissolvono unavolta che i loro membri hanno ottenuto i benefici attesi, oppurene hanno perso la speranza. O invece parti che hanno duratapropria. Conflitti di questo tipo, infine, faranno parte, almenopotenzialmente di un universo pluralistico. Essi, cioè,nonsaranno esclusivi, non coinvolgeranno globalmente la persona,chi è parte in uno potrà essere anche parte in altri. I conflitti,come le appartenenze, si intersecheranno” (ibidem, p. 198).Conflitti ideologici. “Si tratta di una situazione conflittuale nellaquale una, o entrambe le parti si presentano, per così dire, conpresunzione universalistica. Si proclama, cioè, di avere di mirauna situazione in cui tutti gli appartenenti al genere umano – inquanto persone spogliate dei loro ruoli e interessi singoli –possano, conoscendola nella sua verità, desiderare di trovarsi.Viene proposto un conflitto che è globalizzante, cioècoinvolgente la persona nella sua interezza, e in cui chipartecipa è convinto di essere portatore di una verità che devevalere per tutti. Da qui il tratto proprio di tale conflitto, ilproselitismo. La volontà di proselitismo diventa connaturata conl’esser parte in un conflitto, quando questa parte è guidata dauna teoria di come trasformare la realtà, e si fonda su tale teoriaper convertire chiunque sia possibile convertire” (ivi).

L’altra tipologia che vorrei qui ricordare è quella di Dahrendorf. Si tratta di unaserie di classificazioni dall’insieme delle quali si possono ricavare più tipologiea seconda dell’intento dell’analista. Per Dahrendorf, i conflitti possono esseredistinti in base a:

- la loro evidenza, cioè in base al fatto che siano: solo latenti ogià manifesti;

- l’estensione: tra singoli ruoli sociali, all’interno di singoli gruppi, tragruppi settoriali regionali o istituzionali, tra gruppi che abbraccianol’intera società, tra entità nazionali- la gerarchia degli attori: tra pari rango, tra superiori e inferiori, tra una

parte e la totalità- la dimensione: intesa come grado di intensità o di partecipazione con

una variazione da totalizzante a parziale; e come forme e grado di violenza(dalla discussione fino alla guerra)

- la soluzione: soppressione, risoluzione, regolazione.

Vediamo in particolare gli ultimi due elementi distintivi: la dimensione e lasoluzione dei conflitti sociali.

In merito al grado di intensità e alle forme della violenza, Dahrendorf chiarisceche:

“La dimensione della violenza si riferisce alle forme incui si manifestano i conflitti sociali. Vogliamo cioè alludere aimezzi scelti dai partiti in lotta per fare valere i propri interessi.Delineiamo qui soltanto alcuni punti della scala della violenzache è possibile costruire. La guerra, la guerra civile, lo scontrogeneralmente armato con pericolo di vita per i partecipanti,indicano presumibilmente uno degli estremi; la discussione, ildibattito e la trattativa condotta pubblicamente con ognicorrettezza da parte dei partecipanti, caratterizzano l’altroestremo. Nel mezzo troviamo un gran numero di forme più omeno violente di scontri tra gruppi: lo sciopero, la competizione,il dibattito aspro, il litigio, il tentativo di ingannarsireciprocamente, la minaccia, l’ultimatum etc. I rapportiinternazionali del dopoguerra offrono a sufficienza esempi didifferenziazione della violenza dei conflitti, dallo ‘spirito diGinevra’ alla ‘guerra fredda’ per Berlino fino alla ‘guerra calda’in Corea. La dimensione dell’intensità si riferisce al grado dipartecipazione degli interessati a determinati conflitti.L’intensità di un conflitto è grande se, per i partecipanti, moltodipende dal suo esito, cioè se i costi della sconfitta sono alti.Quanto maggiore importanza i partecipanti annettono ad unoscontro, tanto più esso è intenso. Anche qui, alcuni esempipossono meglio illustrare il concetto: lo scontro per lapresidenza di una società di calcio può rivelarsi vivace e perfinoviolento; ma, di regola, per i partecipanti esso non ha la stessaimportanza del conflitto tra imprenditori e sindacati (dal cuirisultato dipende il livello del salario) o addirittura di quello tra‘oriente’ e ‘occidente’ (dal cui risultato dipendono le possibilitàdi sopravvivenza). L’intensità indica pertanto sempre l’energiainvestita dai partecipanti, cioè il peso sociale di determinaticonflitti. Ora, quindi, ci si deve chiedere: a quali condizioni iconflitti sociali acquistano una forma più o meno violenta, più omeno intensa? Quali fattori sono in grado di influenzare laviolenza e l’intensità dei conflitti? Su che cosa si basa dunque lavariabilità dei conflitti sociali rispetto alle dimensioni quidistinte?Un primo gruppo di fattori risulta dalle condizioni diorganizzazione dei gruppi conflittuali e altresì dallamanifestazione di conflitti. Il pieno manifestarsi dei conflitti (è)già sempre un passo avanti per l’attenuazione delle loro forme.Molti scontri raggiungono poi il massimo d’intensità e violenzaquando una delle parti interessate è capace di organizzarsi, cioèquando esistono le condizioni sociali e tecniche, ma taleorganizzazione le è impedita, cioè quando mancano lecondizioni politiche. Se ne possono fornire esempi storici tantonel campo dei rapporti internazionali (guerra partigiana e diguerriglia) quanto in quello di conflitti interni alla società(scontri industriali prima del riconoscimento legale deisindacati). Il più pericoloso è sempre il conflitto non del tutto

individuabile, visibile solo a metà, che si esprime poi inesplosioni rivoluzionarie o quasi rivoluzionarie.Quanto all’intensità dei conflitti, più importante ancora sembraessere l’insieme dei fattori della mobilità sociale. Nella misurain cui la mobilità – e soprattutto tra le parti in lotta – è possibile,i conflitti perdono d’intensità, e viceversa. I conflitti nazionaliacquistano d’intensità nella misura in cui le frontiere tra lenazioni vengono sbarrate (e, all’inverso, i viaggi mitiganol’intensità dei conflitti nazionali). Si può forse sostenere la tesiche i conflitti basati su posizioni di età e di sesso sarannosempre più intensi di quelli basati su posizioni occupazionali,oppure che gli scontri a carattere confessionale sono di regolapiù intensi di quelli a carattere regionale.Uno dei più importanti gruppi di fattori che possono influenzarel’intensità dei conflitti sta nella dimensione di ciò che sipotrebbe impropriamente definire pluralismo sociale, e piùesattamente sovrapposizione, oppure divisione di campi socialidi struttura. Ogni società conosce un gran numero di conflittisociali. Questi – ad esempio quello tra confessioni, tra regioni,tra governanti e governati - possono presentarsi separatamente,cosicché le parti di ciascun conflitto singolo compaiono inquanto tali soltanto in esso; ma possono anche sovrapporsi,cosicché gli stessi fronti ricompaiono in conflitti diversi, vale adire la confessione A, la regione Q, e i gruppi dominanti sifondono in un unico grande “partito”. In ogni società esiste unapluralità di ordinamenti istituzionali: stato ed economia, dirittoed esercito, scuola e chiesa. Questi ordinamenti possono del pariessere relativamente indipendenti tra loro, cosicché i gruppidirigenti politici, economici, giuridici, militari, scolastici ereligiosi hanno ciascuno una propria identità; ma anche qui ètuttavia possibile una certa sovrapposizione, grazie alla qualeuno stesso gruppo dà il tono in tutti i campi. Dunque, nellamisura in cui questi e analoghi fenomeni di sovrapposizione sipresentano in una società, cresce l’intensità dei conflitti. Con lasovrapposizione di differenti settori sociali, ciascun conflittoequivale a una lotta per il tutto; chi voglia attuare quiun’esigenza in campo economico dovrà modificare nelcontempo i rapporti politici di autorità.A questi tre fattori bisogna poi aggiungerne un altro, che siriferisce alla violenza dei conflitti sociali: quello dellaregolazione dei conflitti”. (R. Dahrendorf, cit., pp. 267-270).

Infine, in merito alle forme di “controllo” dei conflitti sociali, Dahrendorfsottolinea come si abbiano, storicamente, tre posizioni:

1) La soppressione del conflitto. “La soppressione è un modonon soltanto immorale ma inefficace di trattare i conflitti sociali.Nella misura in cui si cerca di sopprimere i conflitti sociali, siaccresce la loro virulenza potenziale, rendendo così necessariauna repressione ancor più violenta. Il metodo della soppressionenon può dominare i conflitti sociali.

2) Risoluzione del conflitto. Per “risoluzione” dei conflitti sideve intendere qui ogni tentativo di eliminare i contrasti alleradici. Ma anche questo tentativo è sempre fallito.3) Regolazione dei conflitti. E’ il mezzo decisivo perattenuare la violenza di quasi tutti i tipi di conflitti. Con laregolazione i conflitti invero non scompaiono; neppuredivengono necessariamente meno intensi; ma nella misura in cuisi riesce a regolarli, diventano controllabili e la loro forzacreativa viene posta al servizio di un graduale sviluppo dellestrutture sociali. La regolazione efficace dei conflitti hacomunque una serie di presupposti. Tra di essi vi sono:a. Il fatto che conflitti in generale come pure singolicontrasti, vengano riconosciuti inevitabili, anzi legittimi eopportuni da tutti i partecipanti;b. Che qualsiasi intervento nei conflitti si limita allaregolazione delle sue forme e rinunzia al vano tentativo dieliminarne le cause;c. Quando determinati scontri vengono canalizzatisecondo procedure obbligate;d. Che i partecipanti si accordino su determinate ‘regoledel gioco’, secondo le quali intendono decidere i loro conflitti.”(R. Dahrendorf, 1971 (1967), pp. 271-273).

IV.- I conflitti violenti

Che cosa si intende per violenza: alcune definizioniSecondo i vari studiosi che si sono occupati, nelle rispettive discipline, diviolenza, ci troviamo di fronte a un fenomeno e a un concetto estremamenteambiguo e anch’esso da “storicizzare”, ovvero da inserire nel contesto storico(o se si preferisce: nel periodo storico) al quale si applica. Vediamoinnanzitutto alcune definizioni.

“Come molte cose, la violenza è fondamentalmente ambigua intutti i suoi aspetti, e implica tendenze funzionali e disfunzionali,suscettibili di risultati positivi e negativi. Dal punto di vista dichi la commette, qualsiasi violenza è una reazione, una fuga; è ildesiderio di aprirsi combattendo la strada per uscire dallatrappola. La violenza non è solamente l’estrema risorsadisponibile nello spettro della contrattazione, ma è anche unapotenzialità o una minaccia che di fatto cambia la stessaequazione di contrattazione. In un certo senso essa rappresentala prova ultima, senza appello, della vitalità dei valori e delleforme di agire tradizionali. Le definizioni sono gli elementiprimi del ragionamento e della discussione. Esse contengonosempre elementi di arbitrio e di tautologia. Per di più, in virtù diun processo di limitazione e di selezione, le definizionipredeterminano frequentemente la formulazione dei problemi equindi ne contengono in nuce tutta la discussione e le sue

conclusioni”. (H.L. Nieburg, La violenza politica, Guida,Napoli, 1974 (1969), pp. 11-13).

“Chiameremo violenza ogni costrizione di natura fisica opsichica che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, lasofferenza o la morte di un essere animato; o ancora qualunqueatto intrusivo che ha come effetto volontario o involontariol’espropriazione dell’altro, il danno o la distruzione di oggettiinanimati. Alcune violenze si presentano come legittime: sonoquelle della legge e delle pene communate a coloro che laviolano; a seconda della loro natura e diversità, queste violenzepongono la questione delle condizioni di legittimità dellaribellione e della insubordinazione” (F. Heritier, Prefazione aSulla violenza, Meltemi, Roma, 1997 (1996), p. 13).

La violenza politica “contiene la distinzione tra forza autorizzatae forza non autorizzata, la prima come violenza perpetratadall’autorità, la seconda come espressione della sfida rivoltaall’autorità. La forza autorizzata consiste in violenza innovativa,legiferante, e può essere fondativi, quando per esempiostabilisce nuobi sistemi e designa nuove autorità. Ma può anchepresentarsi come violenza di pura conservazione, quandoprotegge la stabilità dei sistemi e rafforza l’autorità costituita.Entrambi questi tipi di violenza verranno definiti violenzaistituzionale (o violenza dall’alto). Userò il termine violenzaantistituzionale (o violenza dal basso) per designare la forza nonautorizzata rivolta contro l’autorità” (V. Ruggiero, La violenzapolitica, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. V).

Alcune teorie sulla violenza“Una prima corrente di pensiero è centrata sulla tematicadell’ordine e della pacificazione sociale, sulla necessità digarantire che la libertà individuale non sfoci in abusi e in formedi violenza negative per la collettività, sulla fiducia o meno chequesto sia possibile senza introdurre nuove forme di violenzalegittimata e istituzionalizzata. Una seconda corrente orienta isuoi interessi allo studio del legame tra il concetto di violenza equello di potere, rappresentando una visione forse piùpessimistica riguardo al ruolo della violenza nelle relazioniumane e introducendo continuamente il sospetto che questa sinasconda tra le pieghe delle interazioni sociali. Una terzacorrente di pensiero è legata soprattutto alle teoriecontemporanee centrate sull’etica, il rispetto dell’alterità e delladifferenza come alternativa alla violenza, vicine quindi a unaprospettiva di rispetto dell’Altro nell’ambito della relazione,specie di quella tra identità collettive differenti” (P. Rebughini,cit., p. 9).

Ancora una volta si parte da Thomas Hobbes, per il quale:

“La violenza è una risorsa importante a disposizione degli esseriumani nello stato di natura, uno stato dove ci si imbatte nelle ‘treprincipali cause di contesa’, competizione, diffidenza e gloria,che motivano rispettivamente la ricerca di guadagno, sicurezza ereputazione. La prospettiva del guadagno, secondo Hobbes,spinge a impadronirsi delle mogli, dei bambini e del bestiamedegli altri; la diffidenza impone di difendere le proprie cose dalprossimo; la reputazione, infine, scatena battaglie innescate daun nulla, una parola, un sorriso, un’opinione diversa o qualsiasialtro segnale irrispettoso diretto alla persona o a individuicontigui, agli amici, al proprio paese o alla propria professione(V. Ruggiero, cit., pp. 5-6).

Per Bentham si tratta innanzitutto di distinguere tra violenza e violenza, ovvero ènecessario partire dai “reati” per arrivare ai diversi tipi di violenza:

“Nella sua suddivisione dei reati Bentham chiarisce come laviolenza politica vada classificata: vi sono crimini privati,semipubblici, autocentrati e pubblici. I primi offendono, inprima istanza, persone specifiche diverse da chi li commette.Abbiamo un esempio del secondo tipo quando vi sono personeche vengono danneggiate dal reato, ma che non sonosingolarmente individuabili; i crimini sono perciò semipubbliciquando colpiscono un vicinato o una comunità limitata. I criminiautocentrati sono, in primo luogo, di detrimento a chi licommette; infine, i crimini pubblici minacciano una‘moltitudine indefinita’, una schiera di individui checompongono una comunità, anche se nessuno di loro può dirsimaggiormente colpito rispetto ad altri. Questi ultimi possonoanche definirsi ‘crimini contro lo Stato’. Bentham riesce aestromettere la violenza di Stato da questa sua analisi, inmaniera da associare la violenza politica esclusivamente ai‘crimini contro i governi’. Mentre Beccaria cerca di persuaderele autorità a temperare il grado, o perlomeno la visibilità, dellaviolenza autorizzata. Bentham sembra suggerire che taleviolenza vada nascosta e allo stesso tempo che i criminalivengano resi più visibili. Da qui la sua idea del Panopticon” (V.Ruggiero, cit., p. 17).

Un terzo autore da prendere in considerazione è Durkheim che introduce ilproblema del rapporto tra forza e diritto:

“la religione, il nazionalismo e le convinzioni politicheparticolarmente ferree generano violenza e omicidio. Più si amalo Stato meno si amano gli esseri umani. Certo, Durkheimsottolinea anche che la forza è compagna inseparabile dellalegge, la seconda avendo incorporato lentamente la prima eoriginariamente, secondo questa ipotesi, la legge non è altro cheforza capace di limitarsi per il proprio stesso interesse. Nelmondo fisico delle società arcaiche, allorché due forzecollidono, il conflitto si conclude soltanto quando la parte piùdebole viene distrutta. ‘Ma non ci è voluto molto per rendersiconto che era più economico rinunciare alla completa

distruzione dell’avversario’ (Durkheim, 1993: 85). Nelle societàmoderne, al contrario, la forza è solo l’ausiliaria, la serva deldiritto; può accadere tuttavia che l’uso della forza, anzichésottomettersi ai limiti imposti dal diritto, distrugga quest’ultimoe ne crei uno totalmente nuovo: ‘Questo è quanto accade neicolpi di stato o nelle rivoluzioni; e questo uso della forza nonpuò essere condannato sistematicamente, in nome di principiastratti. La legge non è qualcosa di sacro in se stessa; è solo unmezzo per raggiungere un fine. Ha valore solo se assolve allapropria funzione, cioè se assicura la vita della società. Cosasuccede altrimenti? Diventa quasi naturale che la forzaintervenga e rioccupi il posto che occupava in passato’ (ivi: 85-86)” (V. Ruggiero, cit., pp. 70-71).

Discorso più complesso e più ampio è quello svolto da Norbert Elias per ilquale la violenza è un sintomo (effetto? causa?) della crisi del processo dicivilizzazione:

“Il processo di civilizzazione consiste, da un lato, nelprogressivo emergere di uno Stato nazionale capace di garantirel’ordine interno e il monopolio della violenza e, dall’altro,nell’affermarsi delle ‘buone maniere’, ovvero di una generaleattenuazione della violenza istintiva, di un progressivonascondersi del lato oscuro dell’uomo. Elias si ricollega agliautori classici per identificare la violenza nel risultato degliistinti e delle passioni: civilizzazione e razionalizzazioneportano alla capacità di controllare le reazioni emozionali,pulsionali e affettive, diminuendo le possibilità dell’eserciziodella violenza individuale, mentre la creazione di uno Statosovrano impedisce il verificarsi di una violenza anarchica di tutticontro tutti. La socializzazione alle buone maniere è dunque ilprincipale antidoto alla violenza e garanzia per la pacificazionedella società, anche se il progressivo affermarsi della civiltà nonviene spiegato da Elias come un processo evolutivo limpido einesorabile, ma al contrario come un movimento costellato diinversioni e retromarce” (P. Rebughini, cit., pp. 60-61).

Per chiudere questa breve e parzialissima carrellata su alcune analisi dellaviolenza, vediamo il contributo di Hannah Arendt innanzitutto ricordando cheArendt “si dichiarò a più riprese nettamente contraria alle giustificazioni dellaviolenza rivendicativa, avanzate da altri autori suoi contemporanei, come adesempio Sartre e Fanon. Per Arendt la violenza, qualunque sia il suo scopo o lasua giustificazione, segna il limite e la fine della politica” (P. Rebughini, cit., p.57). Vediamo in modo più approfondito, quanto sosteneva la studiosa.

“Credo che sia piuttosto triste constatare che la nostraterminologia non fa distinzione fra certe parole chiave come‘potere’, ‘potenza’, ‘forza’, ‘autorità’ e, infine, ‘violenza’,ciascuna delle quali si riferisce a fenomeni diversi e distinti.Dietro la confusione apparente c’è un fermo convincimento allaluce del quale tutte le distinzioni avrebbero, nel migliore deicasi, un’importanza relativa. La convinzione che l’aspettopolitico più sostanziale è, ed è sempre stato, la domanda: chi

comanda a chi? Potere, potenza, forza, autorità, violenza nonsono altro che parole per indicare i mezzi attraverso i qualil’uomo domina sull’uomo. E’ soltanto dopo che si saràrinunciato a ridurre gli affari pubblici all’esercizio del dominioche i dati originali nel campo degli affari umani appariranno o,piuttosto, riappariranno, nella loro autentica diversità. Questidati, nel nostro contesto, possono essere enumerati come segue:- Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma diagire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo;appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché ilgruppo rimane unito. Quando diciamo di qualcuno che è ‘alpotere’, in effetti ci riferiamo al fatto che è stato messo al potereda un certo numero di persone per agire in loro nome. – Potenzaindica in modo inequivocabile qualcosa al singolare, un’entitàindividuale; è una proprietà inerente a un oggetto o a unapersona e appartiene al suo carattere, che può dar prova di sé inrapporto ad altre cose o persone, ma è sostanzialmenteindipendente da esse. – La forza, che spesso nel linguaggioquotidiano usiamo come sinonimo di violenza, specialmente sela violenza serve da strumento di coercizione, dovrebbe essereriservata, a rigor di termini, per le ‘forze della natura’ o la ‘forzadelle circostanze’ (la force des choses), cioè per indicarel’energia sprigionata da movimenti fisici o sociali. –L’autorità , che si riferisce al più inafferrabile di questifenomeni e che quindi, in quanto termine, è quello piùfrequentemente usato a sproposito, può risiedere nelle persone– c’è una cosa come l’autorità personale, per esempio nelrapporto fra genitore e figlio, fra insegnante e allievo – oppurepuò risiedere in cariche, come, per esempio, nel Senato romano(auctoritas in senatu) oppure nelle funzioni gerarchico dellaChiesa (un prete può impartire un’assoluzione valida anche se èubriaco). La sua caratteristica specifica è il riconoscimentoindiscusso da parte di coloro cui si chiede di obbedire; non civuole né coercizione né persuasione. – La violenza, infine, sid is t ingue per i l suo carat tere s t rumentale .Fenomenologicamente, è vicina alla forza individuale, dato chegli strumenti di violenza, come tutti gli altri strumenti, sonocreati e usati allo scopo di moltiplicare la forza naturale finché,nell’ultimo stadio del loro sviluppo, possono prendere il suoposto (…) Bisogna ammettere che si è particolarmente tentati dipensare al potere in termini di comando e obbedienza, e quindidi mettere sullo stesso piano il potere e la violenza. Dato che neirapporti con l’estero come negli affari interni la violenza apparecome l’ultima risorsa per mantenere intatta la struttura di potere(di governo) contro singoli sfidanti – il nemico straniero, ilcriminale locale -, sembra in effetti che la violenza sia unprerequisito del potere e il potere nient’altro che una facciata, ilguanto di velluto che o nasconde il pugno di ferro oppure sirivela come appartenente a una tigre di carta. A un esame piùattento, però, questo concetto perde gran parte della suaplausibilità (…) Un governo basato esclusivamente sui mezzi di

violenza non è mai esistito. Anche un dittatore totalitario, il cuiprincipale strumento di violenza è la tortura, ha bisogno di unabase di potere: la polizia segreta e la sua rete di informatori.Perfino la dominazione più dispotica che conosciamo, ildominio del padrone sugli schiavi, che erano semprenumericamente superiori a lui, non si basava su superiori mezzidi coercizione in quanto tali, ma su una superioreorganizzazione del potere, cioè sulla solidarietà organizzata deipadroni. Gli uomini soli senza appoggio di altri non hanno maipotere a sufficienza per usare la violenza con successo. Quindi,negli affari interni, la violenza funge da ultima risorsa del poterecontro i criminali o i ribelli, cioè contro i singoli individui iquali, in quanto tali, rifiutano di farsi sopraffare dal consensodella maggioranza (…) Il potere non ha bisogno digiustificazione, essendo inerente all’esistenza stessa dellecomunità politiche; quello che invece gli serve è lalegittimazione. Il fatto che comunemente queste due parolesiano trattate come sinonimi non è meno fuorviante eingannevole dell’equazione che si fa di solito fra obbedienza esostegno. Il potere emerge ogni volta che la gente si unisce eagisce di concerto, ma deriva la sua legittimazione dal fattoiniziale di trovarsi assieme piuttosto che da qualche azione chene può in seguito derivare. La legittimazione, quando è messa indiscussione, si basa su un appello al passato, mentre lagiustificazione è in rapporto con un fine che sta nel futuro. Laviolenza può essere giustificabile, ma non sarà mai legittimata.La sua giustificazione perde di plausibilità quanto più il finericercato si allontana nel futuro. Nessuno mette in discussionel’uso della violenza nell’autodifesa, perché il pericolo non solo èchiaro ma è anche presente, e il fine che giustifica il mezzo èimmediato” (H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma, 1996(1969), pp. 39-47 passim).

Potere, autorità, forza, violenza

“In termini umani, al livello bruto degli interventi fisici, il potereconsiste nella capacità dell’uomo di imprigionare, deportare,immobilizzare, ledere o distruggere un proprio simile. Il crudopotere fisico diventa funzionale e legittimo nelle mani di unaqualche autorità centrale, trasformandosi in strumento perassicurare la sicurezza interna ed esterna del gruppo. Possiamoconsiderare la forza come la disponibilità di riserva e il mezzodell’esercizio del potere fisico. In una società stabile e ordinata,il possesso e l’impiego della forza da parte dei privati devonoaver scopo puramente difensivo, così come il suo possesso e usoda parte dello stato deve essere esplicitamente finalizzato alsostegno dell’autorità di persuadere, prevenire e costringere dicui il sistema dispone. La forza dunque equivale a una minacciadi violenza o di contro-violenza. La violenza, se effettivamenteesercitata, può costituire tutt’al più una dimostrazione di forza,

un atto simbolico e limitato compiuto al fine di conferireall’efficacia e alla risolutezza delle azioni successive abbastanzacredibilità da provocare dissuasione o conformità con costi erischi minimi e con un residuo di paura e di resistenza ridotto alminimo. La violenza può essere definita senza mezzi terminicome la forma più diretta e brutale di potere fisico. E’ la forza inazione. Esercitarla (sia lo stato a farlo, oppure gruppi di privaticittadini, o individui singoli) significa proseguire unacontrattazione iniziata con strumenti di pressione diversi. Tuttele forme ‘morbide’, indirette e politicamente socializzate dipotere vengono spazzate via. La minaccia della forza si faazione, prendendo gradualmente le distanze dai comportamentipuramente dimostrativi (che sottintendono la volontà diproseguire il rapporto di contrattazione), per giungere infine alconfronto diretto del rispettivo potere, attuato per mezzo diaggressioni e difese reciproche. Le formulazioni (delledefinizioni di violenza e forza) che fanno leva sulla distinzionetra capacità, minaccia e dimostrazione sono applicabili ad unagamma di situazioni vasta e di conseguenza proficue. La forzaequivale alla capacità e alla minaccia di agire; la violenzaequivale a una dimostrazione di forza tendente ad una contro-dimostrazione e a nuovi atti di forza, o al contenimento e allacomposizione della crisi. In tal modo, forza e violenza simescolano impercettibilmente. La dimostrazione effettiva (forzain azione) deve ripetersi di tanto in tanto per dare credibilità allaminaccia del suo impiego; per questa via la minaccia acquistaefficacia come strumento di trasformazione o di controllosociale e politico. (Quindi) si può formulare la seguentedefinizione di violenza politica: atti di disgregazione,distruzione e offesa tali che il loro scopo, la loro scelta degliobiettivi o delle vittime, la loro esecuzione e/o i loro effettiabbiano rilevanza politica, cioè tendano a modificare ilcomportamento di terzi in una situazione di contrattazione cheabbia conseguenze per il sistema sociale”. (H.L. Nieburg, cit.,pp. 15-19).

Forza e violenza“Nel linguaggio di tutti i giorni generalmente si intende con ilconcetto di forza un attributo tendenzialmente neutro che puòessere utilizzato in modo negativo o in modo virtuoso; laviolenza, invece, si distingue solitamente dalla forza perché,sebbene possa essere occasionalmente giustificata, non è maiveramente legittima. Nel caso della forza che ‘si impone’,questo termine è più volentieri utilizzato per definire chiinterviene in modo legittimo, o con uno scopo che si presentapositivo, per esempio per ristabilire l’ordine. La violenza vieneinvece percepita essenzialmente in modo negativo, come attoarbitrario e non dialogico, come atto illegittimo di forza che siimpone sul più debole. L’accostamento tra forza e violenzatende quindi a distinguere tra la legittimità della forza e

l’illegittimità della violenza, per definizione mai considerataquest’ultima come un comportamento moralmente accettabile,anche se in alcuni casi viene invocata quale male necessario” (P.Rebughini, cit., pp. 13-14)

“Legge e Ordine”“l’aspirazione al binomio ‘legge e ordine’, nella sua accezionepiù popolare, rappresenta il desiderio di ritorno al passato.L’ignoranza della normale dinamica della violenza politica haprovocato in noi uno stato di trauma e di allarme che, se non ègiustificato dal reale pericolo, non è neppure giovevole perstornarlo. La popolazione, nella grande maggioranza, approvache si spari per strada sull’adolescente sorpreso a saccheggiare;essa aborre gli agitatori, i comunisti, i criminali, e persino gliindividui che fanno realmente del loro meglio per curare alleradici i mali della società. Essa aborre tutto e tutti, tranne sestessa. Il motto ‘legge e ordine’ diventa uno slogan che incita areprimere l’estremismo acutizzando il conflitto, invece cheeliminandone le cause”. (H.L. Nieburg, cit., pp. 6-7).

Le forme della violenzaAbbiamo già visto come una delle principali distinzioni delle forme dellaviolenza si rifaccia al soggetto (attore) che la pone in essere, ovveroall’esistenza di una legittimazione dell’uso della forza e anche della violenza.Si è parlato di violenza istituzionale e di violenza anti-istituzionale a secondache questa sia posta in essere dallo Stato (unico soggetto, per la sua stessanatura, legittimato all’uso della violenza “pubblica” al fine di ridurre oannullare la violenza “privata”) oppure da soggetti “privati” (violenza tra“privati”, violenza di privati contro l’attore pubblico).Oltre alla violenza (decisa dall’alto) della guerra e del genocidio, alla violenzadel terrorismo, la violenza

“si può verificare anche a un livello sociale e politico diffusosenza intenti strumentali di ampio raggio, ma al contrario mirantial contesto di appartenenza o a scopi di tipo lucrativo. Rivolteurbane, risse, banditismo, rapine, furti e, per alcuni aspetti, lastessa criminalità organizzata costituiscono una costellazione dicomportamenti a cui viene implicitamente riconosciuta unacomponente violenta” (P. Rebughini, cit., p. 38).

La violenza istituzionale o “pubblica” (o dello Stato) può essere utilizzata,come abbiamo già visto, o a fini interni (al fine di far rispettare le regole, per ilmantenimento dell’ordine, per reprimere tentativi sovversivi dell’ordineesistente o di singole parti di quest’ordine) oppure a fini esterni (perconsolidare o ampliare i confini di un dato sistema politico, per garantire la“sicurezza” di quel dato sistema). In merito a quest’ultima Thomas Schellingdistingue tra forza bruta (ad esempio: la guerra) da un lato e violenza coercitivao diplomazia della violenza, dall’altro.

Per quanto riguarda la violenza anti-istituzionale una prima distinzioneestremamente semplice può essere la seguente: - protesta; - ribellione o rivolta;- guerra (v. oltre).

Christopher Clapham (African Guerrillas, James Currey, Oxford, 1997, pp. 6-7) distingue, in base alle finalità, tra 4 tipi diversi di insurrezione:

- per ottenere l’indipendenza- per ottenere il riconoscimento di una ‘identità’ (separatiste)- per la riforma radicale del sistema- per il cambio della leadership.

Guardando, invece, alle cause, Clapham ne individua 5:- blocco delle aspirazioni (nessun spazio per la ‘voice’)- disperazione- resistenza nelle periferie alla centralizzazione (es. tasse)- struttura dei valori della società- debolezza dello stato- tradizione antica localistica e violenta

Dalla potesta alla guerraUna tipologia delle varie forme di violenza è quella proposta da HARVARDche distingue tra 7 livelli o tipi in base a 10 variabili o indicatori: ampiezza deisoggetti attivi, ampiezza del territorio interessato, durata del conflitto, tipi dibersagli, finalità, risorse utilizzate, popolazione coinvolta, numero delle vittime(morti), tecnologie usate, effetti prodotti. Semplificandola si può prendere inconsiderazione quanto illustrato dalla tavola che segue.

Categorie Definizione Territorio Durata Persone interessate

Vittime (morti)

Tecnologie

1Violenza politica

sporadicaLuogo preciso Tempo definito

Poche per brevi periodi

meno di 2 mila basso livello

2Violenza politica limitata

Aree precise Brevi periodiPoche o

numeroseda 3 mila e

10 mila limitate

3Violenza

politica graveAree anche

vasteA

intermittenzaDecine di migliaia

da 10 mila a 50 mila

anche armi di distruzione

4 Guerra grave Aree anche estese

Limitata più di 100 mila

da 50 mila a 100 mila

armi di distruzione di basso livello

5 Guerra prolungata

Alcune regioni

Lunga più di 1 milione

da 100 mila a 500 mila

armi di distruzione

anche di alto livello

6 Guerra estesaIndenni solo

le aree cruciali

Lungapiù di 2 milioni

da 500 mila a 1 milione

esteso uso di armi di

distruzione - aiuti esterni

limitati

7 Guerra dilagante

Tutto Lunga più di 5 milioni

più di 1 milione

esteso uso di armi di

distruzione - aiuti esterni necessari e non limitati

Per quanto riguarda le guerre, la individuazione più classica dei caratteridistintivi di queste, è quella operata da Bouthoul:

“Siccome le forme di lotta e di competizione sono innumerevoli,proprio per questo il concetto di guerra deve essere chiaramentecircoscritto e definito in confronto a tutte le forme diantagonismo conosciute o concepibili. Quali dunque saranno leprincipali caratteristiche che ci permetteranno di delimitare inmodo preciso il ‘fenomeno guerra’? Anzitutto, il carattere chepiù ci colpisce è quello di essere un fenomeno collettivo. Inquesto senso la guerra deve essere nettamente distinta e separatada tutti gli altri atti di violenza individuale. Come possiamodeterminare con esattezza questo carattere collettivo dellaguerra? Dovremo prendere in considerazione due elementi: unoè la natura del gruppo e cioè, per essere più precisi, dellacollettività che combatte, e l’altro è l’elemento soggettivo e cioèl’intenzionalità o, in altre parole, le finalità e gli scopi cheperseguono quelli che hanno scatenato la guerra. Saremocostretti ad attenerci a un criterio molto elastico per quel cheriguarda l’estensione dei gruppi che si affrontano in una guerra.Possono essere gruppi giganteschi ma possono anche esseregruppi minuscoli, senza che le loro lotte armate perdano perciòil carattere di guerra propriamente detta. Saremo costretti a dareuna certa importanza anche al fattore soggettivo. Le finalitàdella guerra si distinguono da quelle del delitto e della violenzaindividuale. La guerra è a servizio degli interessi di un gruppopolitico, il delitto e la violenza individuale non hanno in vistache l’interesse privato. Un altro carattere oggettivo della guerraè che essa consiste in una lotta a mano armata. Il fatto che essasia molto o invece poco micidiale ha scarsa importanza. Un altrocarattere della guerra è quello giuridico. Si è potuto dire che laguerra è un contratto. La guerra, non ci sono dubbi, è un atto diviolenza, di violenza però organizzata. Ogni guerra ha unprincipio e una fine che in generale sono accompagnati dacerimonie o da solennità che hanno lo scopo di dare risalto inmodo impressionante al passaggio dalla pace alla guerra oviceversa. Come hanno messo in evidenza parecchi scrittori, laguerra non è un combattimento perpetuo e una battaglia senzainterruzione, è semplicemente lo stato di guerra, cioè essa è, inultima analisi, un periodo durante il quale vengono applicatealcune regole che hanno valore giuridico e che sono di naturaparticolare. La seconda caratteristica giuridica della guerra è cheessa consiste in un vero processo destinato a metter fine a unacontroversia, i cui motivi sono precedentemente indicati conesattezza” (G. Bouthoul, Le guerre. Elementi di polemologia,Longanesi, Milano, 1961 (1951), pp. 37-45 passim).

Bonanate propone una ideale tavola classificatoria organizzata per genus e perspecies

“ricorrendo alle forme che le guerre hanno assunto, allemodalità con cui sono state combattute e agli obiettivi checiascuna di esse si pone: Tipi di guerre. La prima – e piùelementare – distinzione da operare riguarda i soggetti coinvoltiin un conflitto: può trattarsi di stati, ma anche di gruppi,cosicché distingueremo la guerra internazionale da quellainterna (o civile, intestina). Entrambi i casi consentono unaduplice manifestazione. Nel primo, potremo infatti avere sia unaguerra diadica, cioè combattuta tra due stati, sia una guerracoalizionale, e quindi combattuta da due insiemi di stati alleatisiper la circostanza. Nel secondo caso, potremo avere una guerrapartigiana, quando delle fazioni si scontrino tra loro in unacondizione di totale assenza o dissoluzione di un’autoritàcentrale; e una guerra internazionalizzata, quando le parti in lottamirino alla separazione e alla costituzione di nuove entitàsovrane. Modi di combattere una guerra. Anche da questo puntodi vista, alcune grandi distinzioni consentono di riassumere unpiù ampio insieme di casi; distingueremo innanzi tutto guerreregolari, ovvero combattute secondo comuni e condivise regole,ricorrendo prevalentemente ad apparati militari specialistici, eguerre irregolari, tra le quali rientreranno tutti quei casi chevedono il ricorso a strumenti anomali, come la guerra di corsa oper bande, o quella che più in generale chiamiamo “guerriglia”,ma anche come la guerra chimica o batteriologica. Si daranno,d’altro canto, guerre convenzionali, ovvero combattute con armie strumenti di comune conoscenza, e guerre non-convenzionali(come quella atomica), in cui una o entrambe le parti ripongonoin una qualche grande scoperta (prevalentemente tecnologica) leloro speranze di vittoria. Sia le une sia le altre potranno a lorovolta essere classificate anche in base alle modalità delleoperazioni militari, dando luogo alla guerra di movimento o aquella di posizione. Fini di guerra. Entriamo in questo caso in unambito molto complesso e ricco, appartenendo a esso tanto laguerra di conquista quanto quella di liberazione (o diindipendenza); la guerra dinastica (o di successione) e la guerradi religione, la guerra rivoluzionaria e la guerra di difesa.Dimensioni della guerra. Ma anche una volta classificati quelliche risultano essere i principali modelli storicamenteverificabili, la nostra capacità di dominare la complessità delfenomeno non è ancora granché cresciuta. Grandi o piccole, leguerre saranno tutte uguali? Quale, ad esempio, la differenza trauna scaramuccia di truppe lungo un confine e un conflittoprotratto nel tempo? Potremo forse fare riferimento alledimensioni materiali delle guerre, per delimitarne piùspecificamente il profilo? I criteri più intuitivi ai quali ricorreresembrano essere la violenza esercitata (misurata in base allamortalità determinatasi in ogni singolo conflitto), il numerodegli stati partecipanti, l’estensione geografica dei campi dibattaglia, nonché la durata (seppur quest’ultimo aspetto rischi dideformare le nostre immagini: conflitti di breve durata ebbero

effetti ben più duraturi di altri, più lunghi, ma meno incisivi” (L.Bonanate, La guerra, Laterza, Bari-Roma, 1998, pp. 5-8).

La tipologia delle guerre di Carl Schmitt si basa sui tipi di attori coinvolti(regolari e/o irregolari):

V.- La “limitazione” della violenza

Nel corso dei secoli si è formalmente tentato di limitare l’uso della violenza(vedi oltre). Per quanto riguarda la violenza interna (legittima) è facilericordare il passaggio dallo stato assoluto allo stato costituzionale, allo stato didiritto, alla democrazia con la limitazione dei poteri del sovrano e la statuizionedi una serie di diritti dei cittadini che ampliavano il ruolo di questi ultimi eriducevano gli ambiti di libertà del sovrano di turno (o del portatore dilegittimità).Abbiamo intravisto come, nei secoli, si sia cercato di limitare la stessa guerra,cioè la forma più violenta (forse) della violenza. Prima di entrare più indettaglio su questo punto, è necessario ricordare che in non pochi autoritroviamo invece un’esaltazione della guerra in sé e per sé. Ad esempio perHegel e Nietzsche la guerra favorisce il progresso morale in quanto nel corso diquesta si sviluppano virtù quali lo spirito di sacrificio, il coraggio, lasolidarietà. Per Carlo Cattaneo, invece, la guerra favorisce il progresso socialemediante la comunicazione fra gli uomini: le civiltà si combattono ma alcontempo imparano a conoscersi, si mescolano. Per Spencer la guerra èportatrice di progresso tecnico in quanto è per la guerra che si sviluppano leindustria, è nel campo militare che si inventano in continuazione sempre nuovistrumenti di offesa o di conoscenza, che poi possono anche diventare di usocivile (vedi ad esempio internet).

La legittimazione della guerra

Guerre combattute tra:

Regolari vs. Regolari cioé gerarchia (responsabilità dei superiori anche verso terzi)contrassegni fissi e visibiliarmamento esibito apertamenterispetto delle regole e degli usi del diritto di guerra

Regolari vs. Irregolari cioé Partigiano = senza divisacon forte motivazione politicacon grande agilitàradicato nella propria terra

oppure = combattente resistenteoppure = attivista clandestinooppure = sabotatore

Equiparati ai regolari miliziecorpi volontari se (Aja 1907)

in unione con sollevazioni popolari spontaneemovimento di resistenza organizzato (Ginevra 1949)

E’ innanzitutto necessario distinguere tra chi ha diritto (riconosciutointernazionalmente) a condurre la guerra e quali sono le regole nellaconduzione di questa (in altre parole: legittimità e legalità della e nella guerra).Occorre cioè partire dalla distinzione tra il ius ad bellum e il ius belli.

“In base al primo, la dottrina tradizionale della guerra ha distintole guerre giuste dalle guerre ingiuste, analizzando e discutendo ivari casi in cui uno stato ha o non ha il diritto di intraprendereuna guerra; in conformità delle regole stabilite dal secondo, sisono venute distinguendo le azioni belliche lecite da quelleillecite. Via via che il diritto internazionale, prodotto dallepotenze europee nell’età della formazione dei grandi stati, hariconosciuto come diritto sovrano il diritto alla guerra, cosìeliminando ogni criterio di distinzione fra guerre giuste eingiuste, la funzione limitatrice del diritto si è spostata dallalegittimità alla legalità della guerra, per usare la terminologia diCarl Schmitt, dal bellum iustum all’hostis iustus. Il dirittoillimitato dello stato alla guerra trova il proprio limite nellaguerra stessa, in cui l’uso della violenza è limitato da regole chehanno la funzione di definire chi è il nemico, vale a dire chi ècolui sul quale è lecito esercitare la violenza, e entro quali limitila violenza può essere esercitata”. (N. Bobbio, Guerra civile?, in“Teoria Politica”, VIII, n. 1-2, 1992, pp. 297-307, p. 302).

Lo ius ad bellum nelle epoche pre moderneIl dibattito degli ultimi anni sulle possibili distinzioni tra le diverse guerre, intema di maggiore o minore giustificazione di queste, ha solide radici nei secolipassati. Giuristi, filosofi e altri studiosi hanno già ripercorso le tappe di questolunto discorso sulla guerra (per citarne solo alcuni: v. N. Bobbio, Il problemadella guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna, 1997; J. Keegan, Lagrande storia della guerra, Mondadori, Milano, 1994; C. Galli (a cura di),Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004). Come è già stato scritto esistono in meritotre grandi gruppi di teorie: quelle che giustificano tutte le guerre, quelle chenon giustificano nessuna guerra e quelle che ne giustificano alcune e necondannano altre sulla base di elementi i più diversi fra loro. Fermiamoci adanalizzare queste ultime, anticipando che, come si vedrà, le teorie sidistinguono in base a due possibili criteri: il perché (il fine) della guerra e il chifa guerra.

Sant’Agostino e san TommasoE’ prassi consolidato, in Occidente, partire da Agostino (354-430 d. C.) per ilquale si poteva prendere parte alla guerra senza commettere peccato solo se: lacausa fosse giusta, se la guerra fosse condotta con l’intenzione di pervenire albene o di sconfiggere il male e, infine, se fosse condotta sotto l’autoritàcostituita (il sovrano). Si tratta sia di una giustificazione di alcune guerre (incontrasto con i dettami dei primi padri della chiesa per i quali la guerra era dacondannare in modo assoluto sulla base del Vangelo), ma, al contempo, eraanche un tentativo di limitare le tante guerre dei cristiani (anche fra di loro) equindi di legittimare non qualunque guerra condotta da cristiani ma solo quelleche presentavano le caratteristiche sopra indicate.Per Tommaso d’Aquino (1221-1274) la guerra deve avere una legittimazionemorale e giuridica che si ritrova nel diritto naturale razionale (inteso come

giustizia): la guerra è giusta solo se risponde a precise e impegnative esigenze(la fede religiosa, ad esempio).

Machiavelli ed Erasmo da RotterdamPer Machiavelli (1469-1527) è intrinseca all’umanità e alla politica, nel sensoche:

“la coincidenza di ‘buone leggi’ e ‘buone arme’ implica ladoverosità dell’esercizio rischioso del potere politico, ossial’intrecciarsi di politica e guerra; e quest’ultima si legittima dasé come naturale manifestazione della finalità della politica –ossia la potenza e la gloria – tanto sulla base del modelloromano-repubblicano di virtù, ossia di libera cittadinanza inarmi, quanto, se le circostanze storiche e politiche lo richiedono,nella forma ‘abbreviata’ del ‘principe nuovo’” (C. Galli, cit., p.XII).

Per Erasmo (1466-1536), la guerra pur essendo sempre presente fin dalleepoche primitive dell’uomo cacciatore nella storia dell’umanità, è contraria allanatura umana (pacifica e amichevole ricorda Carlo Galli) e non èassolutamente da collegare con la buona politica, ma al contrario è il suo nettocontrario

“nonché del cristianesimo (e qui c’è la condanna delle guerrecivili di religione); non è umana, ma peggio che bestiale, e non èvia alla gloria, ma è sempre degna di orrore e di ripulsa” (ivi).

L’età moderna: HobbesLa conquista dell’America, da un lato, e la scissione del cristianesimo (laRofrma), dall’altro, creano nuove condizioni e necessità.

“La guerra di conquista spagnola del Messico comporta –all’interno delle dispute sullo statuto politico e morale delrapporto fra Vecchio e Nuovo Mondo, e sulle fonti dilegittimazione delle pretese europee – la ripresa delle posizionitomistiche. Queste – documentate attraverso pagine deldomenicano spagnolo Vitoria – ripropongono l’esigenza di unalegittimazione morale e giuridica della guerra, sulla base di uncattolicesimo declinato in modo tale da accogliere in sé il dirittonaturale razionale (…) Da parte loro le guerre civili di religioneche hanno insanguinato l’Europa per più di un secolo, nasconodall’affermazione unilaterale di una verità in nome della qualeciascun contendente si reputa legittimato a disobbedire al poterepolitico e a condurre una guerra interna contro il nemico, che èanche eretico (i riformati per i cattolici) o tirannico (i cattoliciper i riformati). A questa situazione fanno fronte dapprima lateoria della ‘ragion di Stato’, ossia una ripresa del pensiero diMachiavelli, e poi la costruzione giuridica e teorica dellamoderna forma politica statuale, che sancisce il passaggio dellaguerra alla piena disponibilità dello Stato, il nuovo monopolistadella politica e quindi anche il nuovo signore della guerra e dellapace. Questo processo da una parte elimina tendenzialmentedalla società le guerre private, le faide, e neutralizza le guerrecivili di religione, attirando la guerra interamente nell’orbitadello Stato; dall’altra, però, svincola la guerra da ognilegittimazione fondata su una giusta causa universalmente e

razionalmente conoscibile, facendone un atto di sovranità. Laguerra è quindi legittimata a partire non dalla causa che lascatena o dal fine che si prefigge o dal disvalore del nemicocontro cui si combatte, ma dal soggetto che la muove, dal modoin cui è combattuta e dal rango politico-istituzionale del nemico.Su queste basi in età moderna si afferma progressivamentel’idea che la guerra – potestà esclusiva dello Stato, unico titolaredello ius ad bellum – è un evento possibile, che appartiene allarealtà di una scena politica popolata da Stati sovrani in lottareciproca per la potenza, ma può essere rivolta solo all’esterno esolo contro un altro Stato e va combattuta solo fra militari” (C.Galli, cit., p. XIV).

E’ ancora una volta Thomas Hobbes (1588-1679) il grande sistematore eteorizzatore della nuova situazione politica.

“Hobbes mostra che la guerra, vista come naturale (cioè comeespressione del disordine dell’essere) e sottratta a ognivalutazione teologica o morale, viene integralmente risucchiata– nell’ambito più generale della neutralizzazione delle guerre direligione, perseguita tanto contro l’individualismo protestantequanto contro l’auctoritas e la potestas indirecta delcattolicesimo – all’interno delle logiche dello Stato e lìsistematizzata e ridiretta verso l’esterno come azione dipertinenza del sovrano (…) L’impianto teorico di Hobbesricapitola, sistematizza e radicalizza, spostandole a volte disegno, alcune tendenze già in precedenza resesi evidenti in altriautori: la prima è che la guerra ha a che fare con un’insuperabilecontinegnza che affligge la politica, con una violenzastrutturalmente inerente l’esser-uomo, e può essere soloorganizzata e limitata, non eliminata. E’ così esclusa la guerraeroica e nobiliare per la gloria e l’onore e rimane solo, comenormale possibilità della politica, la guerra prosaica e borgheseper autodifesa o per l’utilità dello Stato. La seconda tendenza èche la ripresa del diritto naturale – e gli sforzi di farlo valerecome una sorta di diritto delle genti – non toglie che lalegittimazione della guerra sulla base della iusta causa ceda ilpasso alla legittimazione fondata sullo iustus hostis” (C. Galli,cit., p. XV).

KantContro le teorizzazioni della guerra come fatto inevitabile che è il pensiero diImmanuel Kant (1724-1804). Egli definisce la guerra dei suoi tempi:

“un ‘crimine’ proprio perché la vede come un fatalesottoprodotto della colpevole e ingiustificata restrizione dellaragione moderna begli angusti ambiti della sovranità statuale,dell’universale nel particolare (…) L’obiettivo modesto dineutralizzare la guerra interna e di limitare le guerra esterna èsostituito, in Kant, dalla finalità di eliminare la guerra, secondola ragione universale. E ciò significa repubblica all’interno(ossia uguaglianza, libertà, legalità e cittadinanza informata),federazione di Stati, o di popoli all’esterno (ossia progressivadismissione degli aspetti violenti ed egoistici della sovranità, e

contemporanea trasformazione del diritto delle genti che deveperdere il proprio carattere di diritto alla guerra), e infineinstaurazione del diritto cosmopolitico e quindi del divieto diconsiderare i popoli extraeuropei come passibili dicolonizzazione (ossia critica dello ius publicum europaeumcome struttura epocale fondata sulla differenza fra Europa eresto del mondo)” (C. Galli, cit., pp. XVII-XVIII).

Lo ius ad bellum in epoca contemporaneaPartiamo dal fondo: ovvero dalla legittimazione delle ultime guerre: quelladella primavera del 1999 del Kosovo, la guerra in Afghanistan post attentatoalle Torri gemelle dell’11 settembre del 2001 e la seconda guerra del golfocontro l’Iraq della primavera del 2003.

“Nel primo caso, il ricorso alla forza fu legittimato in nome delprincipio di ingerenza umanitaria e della sua superiorità rispettosia alle pretese alla sovranità della Federazione Jugoslava siaalla necessità stabilita dalla Carta delle Nazioni Unite diun’autorizzazione esplicita del Consiglio di Sicurezza(contraddizione esplicita tra legalità e legittimità). La secondaoccasione, quella della guerra contro l’Afghanistan del 2001 sipresentò a prima vista come molto più semplice. Per legittimarela guerra, gli Stati Uniti si guardarono bene dal richiamarsi aqualche principio “universale” di ingerenza o, almeno, ainscrivere la propria risposta in qualche contesto multilaterale,per appellarsi invece al più tradizionale degli attributi dellasovranità, il diritto di autodifesa. In occasione della guerracontro l’Iraq, l’Amministrazione statunitense scelse come notodi invadere l’Iraq in nome di un presunto imperativo disicurezza nazionale (impedire all’Iraq di Saddam Husseinl’acquisizione di armi di distruzione di massa e la continuazionedei legami con i gruppi terroristici) e attraverso uno strumento,quello della guerra preventiva, che la maggior parte degli altristati e delle organizzazioni internazionali non approvava ocondannava esplicitamente”. (A. Colombo, cit., pp. 8-9).

La Rivoluzione francese: da Constant a HegelCon le guerre della Rivoluzione francese si verifica una svolta profonda sia sulpiano della teorizzazione che della pratica. La “neutralizzazione” della guerraentra in crisi profonda con l’ingresso dell’attore “popolo”.

“Le finalità ideologiche del conflitto, la pretesa che la guerrarealizzi una verità ideale, una libertà nuova, rendono la guerranuovamente ‘giusta’ tanto verso il nemico interno quanto versoquello esterno. Che l’immane potenza della nazione in armifaccia giustizia di avversari privi di legittimità, che non sonoiusti hostes ma ideologicamente squalificati, che la guerra dafaccenda di Stato divenga fatto sociale e di popolo, serve aridisegnare non le carte geografiche ma le carte costituzionali eideologiche d’Europa, dentro e fuori la Francia, conferisce aquesta nuova guerra un dinamismo, un’aggressività,un’assolutezza, una coralità, che costituiscono i cardini della‘guerra assoluta reale’.” (C. Galli, cit., pp. XVIII-XIX).

Se Benjamin Constant (1767-1830) contrappone alla guerra (caratteristica diuna fase storica arretrata) il doux commerce (che fa progredire, avanzare, cheproduce benessere), per Hegel non vi è economia o politica senza conflitto. Laguerra è coessenziale (Galli) alla sovranità, che è di per se stessa, contingente,instabile, esposta agli altri, così come accade per la sicurezza, i diritti deicittadini. E’ il limite della ragione che fa nascere i morire gli Stati.

Karl MarxE’ nota la tesi di Karl Marx (1818-1883): la vera contraddizione non è dellapolitica, questa è solo il riflesso della contraddizione primaria: vale a dire ilconflitto fra capitale e lavoro.

“E’ questa contraddizione a produrre in primo luogo lo Statomoderno, che si pretende universale, con le sue leggi, mentre inrealtà è frutto di una ‘parte’, della classe borghese, e che sipretende internamente pacifico quando in realtà esprime, col suostesso esistere, il conflitto fra borghesi e proletari (…) la guerradecisiva è una guerra interna che a volte resta solo implicita eche altre volte invece divampa apertamente nella rivoluzione, lasintesi in atto di guerra e politica (o anche nelle guerre civili fragruppi opposti di interessi capitalistici, com’è avvenuto nellaguerra civile americana); le guerre tradizionali fra Stati sonosolo il momento di conflitto fra borghesie nazionali. E infattil’esperienza della Comune di Parigi – insurrezione antiborghesedel popolo, alla cui repressione concorsero, in modi diversi,tanto le forze tedesche vincitrici quanto quelle francesi sconfitte,in un’alleanza antiproletaria che neutralizzava la pur cruentarivalità fra la Prussia e la Francia – dimostra, agli occhi di Marx,che nella prospettiva futura ci sono meno le guerre tra Stati e piùla guerra civile mondiale fra proletari uniti, da una parte, ecapitalisti almeno momentaneamente uniti, dall’altra. Unavisione della politica come guerra non più esterna ma comeguerra civile interna allo Stato prima e a tutto il pianeta poi, chetravalica la cronaca degli ultimi decenni del XIX secolo –caratterizzati dall’aspra competizione fra potenze capitalisticheeuropee (e nord-americana) per la spartizione coloniale delmondo, cioè all’andar di pari passo di ‘commercio’ e guerra,contro l’’assunto liberale – e che sovrappone alle guerreimperialistiche e interimperialistiche la prospettiva della guerrarivoluzionaria mondiale” (C. Galli, cit., pp. XXI-XXII).

Il XIX secolo: le guerre colonialiQuattro brevi citazioni per un tipo di guerre che ha caratterizzato (dopo laconquista dell’America) l’età degli imperialismi (v: Hobsbawm).

“Gli europei giustificarono le loro azioni (massacri di africani,distruzione dei loro raccolti e di ogni loro altro bene,prelevamento da i villaggi, con la violenza, di grandi quantità di‘portatori’ per rifornire le truppe europee) sostenendo che essistavano portando la civiltà nel continente e stavano estirpando idemoni della schiavitù, delle razzie e del commercio deglischiavi.

Leopoldo del Belgio in merito alla conquista del Congo nel1876 parlava di penetrare attraverso le tenebre che avvolgevanointere popolazioni. Una crociata degna di questo secolo diprogressi.Per gli inglesi le guerre coloniali britanniche avevano il fine diconsentire alle classi industriali europee di guadagnare ildovuto compenso per il contributo dei loro cervelli, capitali edenergie allo sviluppo delle risorse dell’Africa e nello stessotempo aiutare le razze indigene nel loro progresso verso un piùalto livello. Le guerre (contro la resistenza delle popolazioniautoctone) furono sentite non tanto come guerre, quanto comeazioni di ordine pubblico, di pacificazione.La teoria francese dell’impero, invece, comprendeva laconvinzione che i sudditi coloniali erano cittadini (francesi)potenziali, che potevano essere assimilati alla culturafrancese(delle rivoluzioni del 1789 e del 1848. L’autoritarismoera giustificato dalla convinzione che l’assimilazione dellemasse africane alla cultura e alla civiltà francesi eradifficilmente attuabile nell’immediato futuro. Fintanto che gliafricani si mantenevano attaccati ai loro usi, ai loro stili di vitae alle loro leggi civili, tradizionali o musulmane, difficilmentepotevano diventare cittadini francesi. E quindi: poiché lacultura francese era superiore, era necessario procedere allademolizione dei vari sistemi di governo (e culturali, edeconomici) africani, non importa di quale tipo essi fossero”(J.D. Fage, Storia dell’Africa, Società Editrice Internazionale,Torino, 1995 (1988), pp. 383-385).

Il XX secolo: KelsenCon le guerre della prima metà del XX secolo il progetto di espelleredall’interno delle società le guerre e di affidarle solo agli Stati (Galli) falliscemiseramente. In queste guerre la società, le società sono tutte all’interno dellaguerra, questa non riguarda più essenzialmente la popolazione in uniforme,riguarda anche e in molti casi in primo luogo (v. più avanti) tutti i civili. Controquesta realtà di fatto Hans Kelsen (1881-1973) riprende le teorizzazioni diKant nel tentativo di distinguere nuovamente fra tipi di guerre.

“Kelsen fa della guerra un crimine imputabile e sanzionabile,non tanto con riferimento alla sovranità dello Stato, ma allepersone fisiche dei governanti che la dichiarano: questi devonoessere sottoposti a un tribunale che trae la propria legittimità e lapropria fonte normativa dal diritto internazionale. E’ questa unapiena giuridificazione della guerra, che non è più solo limitatadalla razionalità politica dello Stato, né è lasciata libera dimanifestarsi come essenza dell’epoca o come finalitàprogressiva della storia, ma è ricondotta all’interno dellarazionalità universale, non politica ma giuridica, del dirittointernazionale, e sulla base di questo giudicata un crimine. Inquesto contesto, l’unica forma di sopravvivenza della guerra è,logicamente, che essa valga come sanzione contro gli Stati chevi ricorrono per primi, cioè che essa venga presentata come unatto di polizia internazionale, guidata da istituzioni che si

legittimano nell’ideale universale della civitas maxima e nonnella sovranità statale. Questa abolizione della guerra comediritto sovrano dello Stato, questa sua classificazione come‘crimine’ e questa sua sopravvivenza come atto di polizia (comeguerra giusta che ripara un torto) a disposizione di un’istituzionesopranazionale, significa che la pace è possibile comeaffermazione del diritto, se lo Stato è privato del monopoliodella pace e della guerra” (C. Galli, cit., pp. XXVII-XXVIII).

Con Kelsen si introduce l’idea di un “terzo” attore, giudice arbitro dellecontroversie internazionali. Ma chi è il “terzo” che può sanzionare unaeventuale illiceità? Siamo di fronte al “Terzo Introvabile”, come lo ha definitoPier Paolo Portinaro in un libro di quasi vent’anni fa (Il Terzo. Una figura delpolitico, Franco Angeli, Milano, 1986, p. 293). Un “Terzo” che abbia la forzadi coercizione nei confronti di tutti gli stati, che abbia il potere di trasformare irapporti di forza in obblighi giuridici, che abbia l’autorità (o la legittimazione)per far rispettare i patti, i trattati, le regole della guerra. Un “terzo” quindisuperiore alle singole parti o, almeno, un primus inter pares. Ma “tra lemassime potenze di un sistema bipolare non esiste, per definizione, un tertiusinter pares che possa proporsi come autorevole mediatore: appartiene d’altrocanto alla natura stessa della sovranità di tali potenze non solo l’essere, di fattooltre che di diritto, superiorem recognoscentes, ma altresì la propensione adoperare secondo una logica di negoziazione bilaterale – o di contratto scambio– che non prevede il ricorso a mediatori”. Impossibile, quindi, avere il “terzo”in un sistema bipolare. Inutile cercarlo, forse, in un sistema “imperiale” omonopolare. Il sovrano unico deciderà quando è giusto fare una guerra e ciòche è giusto fare in guerra.Si potrebbe anche concludere questo punto con una citazione pessimistica:“una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi haragione. Ma il risultato della guerra è proprio l’opposto: è quello di darragione a chi vince (N. Bobbio, cit., p. 59).

Lo ius belli: tra forma e sostanzaCome si vedrà più avanti, da sempre l’essere umano ha cercato di limitare lecondotte di guerra, cioè ciò che è lecito fare nel corso di un conflitto bellico. Leprime Convenzioni internazionali risalgono a metà del XIX secolo (Ginevra).Con il trascorrere dei decenni l’elenco delle “cose che non si possono fare” inguerra è diventato sempre più lungo, ma è anche vero che tutto ciò nellastragrande maggioranza dei casi è rimasto lettera morta. In particolare si ècercato di porre limiti rispetto a: 1) le persone coinvolgibili (distinzione tramilitari e civili o fra belligeranti e non belligeranti); 2) le cose (cioè ladistinzione fra obiettivi militari e non); 3) i mezzi (cioè le armi usabili e quelleno, ad esempio il divieto di usare i vari tipi di gas); 4) i luoghi (delimitazionedelle zone di guerra). Ma vediamo più specificamente quali possono essere iveri limiti alla conduzione della guerra.

“Occorre chiedersi quali sono, in generale, le condizioni cherendono possibili le limitazioni della guerra e senza le quali, inqualunque contesto storico, la loro tenuta diventa problematica o

impensabile. Tali condizioni possono essere raggruppate in duegrandi insiemi: il potere e le istituzioni.- Il potere

o La soglia di accesso alla violenza: la guerra è limitata se ein quanto non tutti coloro che vorrebbero difendersi da sé oattaccare gli altri hanno concretamente la possibilità di farlo.Questo continua a valere per il monopolio statuale sullaviolenza, che si impose a mano a mano che l’aumento dei costi edella complessità delle operazioni militari condusse alla“espropriazione dei detentori ‘privati’ indipendenti della potenzaamministrativa” (Weber), facendo degli stati gli unici soggetticoncretamente in grado di procurarsi le risorse necessarie acombattere la guerra e finanziarla. “E’ il monopolio (il potere)che produce la legittimità (il diritto) e non viceversa” (Miglio).Se, sul piano del diritto, la soglia di accesso al gioco hastabilmente diviso gli stati dagli attori diversi dagli stati, sulpiano del potere essa ha continuato a dividere pochi (opochissimi) stati da tutti gli altri

o La guerra è limitata se e in quanto le capacità deicontendenti sono limitate (cioè relazione circolare tra economia,tecnologia e guerra).

o La guerra è limitata se e in quanto sono limitati gli obiettividei contendenti (rapporto tra guerra e politica). Per Clausewitz:si deve distinguere tra il sentimento ostile e l’intenzione ostile.Mentre il primo, l’odio “anche più selvaggio, quello che siavvicina all’istinto”, può essere separato dalla seconda,“esistono spesso intenzioni ostili non accompagnate, o almenonon essenzialmente accompagnate da inimicizia preconcetta”.Questa differenza spiega per Clausewitz la differenza tra ilmodo in cui la violenza viene impiegata presso “i popolibarbari”, dove “predominano i progetti basati sull’istinto”, epresso i “popoli civili” dove, al contrario, predominano quelli“basati sulla riflessione”.

o La guerra è limitata se e in quanto le capacità e la volontàdi ciascuno dei contendenti sono controbilanciate o trattenutedalle capacità e dalla volontà dell’altro. Qui, quello che conta èche le azioni dei contendenti sono trattenute dalla reciprocità odalla simmetria tra “la reazione viva dell’avversario e lacontroreazione che ne risulta” (Clausewitz)

o Le condizioni che facilitano o meno le limitazioni (v. pp.100-115)

- Le istituzionio In che cosa la guerra può essere e, storicamente, è stata

limitata da regole del gioco concordate implicitamente oesplicitamente tra gli avversari. Nessuna convenzione puòevitare di rispondere ad almeno tre questioni elementari, senzale quali nessun’altra forma anche più “avanzata” diritualizzazione della guerra si rivelerebbe possibile: chi hadiritto e a quali condizioni di ricorrere alla forza; in quali modi econtro chi ha diritto di impiegarla; in che cosa e attraverso quali

procedure lo stato di guerra si differenzia dallo stato di pace, daun lato, e dalle altre forme di violenza dall’altro.

o La prima preoccupazione di qualunque societàinternazionale è quella di limitare il diritto stesso di ricorrerealla guerra, vietando che chiunque possa farlo in qualunquemomento e fino a qualunque esito – come nella batteria di criteridella dottrina tomista della guerra giusta: che la guerra siadichiarata dalla autorità legittima”; che abbia una “giustacausa”; che sia combattuta con una “buona intenzione”; checostituisca un “estremo ricorso”; che, una volta vinta, non vengaresa “ingiusta” dall’inflizione di una punizione eccessiva allosconfitto.

o Il secondo grappolo di restrizioni può assumere e,storicamente, ha assunto tanto una forma positiva quanto unaforma negativa. Nel primo senso, più ambizioso ma, non a caso,anche più fragile, le regole della guerra possono giungere fino aprescrivere dove, quando, con quali armi, contro chi e fino aquale esito è lecito combattere. Le regole di contenuto negativoprescrivono dove, quando, con quali armi e contro chi non èlecito combattere La funzione di queste ultime è di stendereintorno alla guerra una rete di immunità che riguardano

Il tempo: basti pensare al divieto, presente in molteculture arcaiche, di combattere nel corso della notte; o dimuovere guerra durante la stagione dei raccolti nell’antica Cina;oppure alla lunga teoria delle immunità di natura religiosa(presenti anche in culture non occidentali come quella induista oislamica)

I luoghi: tutti i tentativi di ritualizzazione dellaguerra si sono proposti di risparmiare dalla violenza anchedeterminati luoghi, perché dotati di un significato religioso,economico o generalmente sociale, come le chiese, gli ospizi, ibeni culturali e le località sanitarie

I destinatari della violenza: esigere che solo certiuomini e non altri possano essere legittimamente uccisi. Questadiscriminazione può assumere forme diverse, politiche (ladistinzione tra capi e seguito), morali (colpevoli e innocenti),istituzionali (stato e società) o specificamente militari(combattenti e non combattenti). (A. Colombo, cit., pp. 74 e pp.125-133)

La violenza senza limiti: i terrorismiIn parte lo si è già visto: vi sono tanti modi di portare “violenza”. Una di questemodalità va sotto il nome, oggi piuttosto abusato, di “terrorismo”. Siamo difronte a un concetto non condiviso. Vale a dire che sul piano internazionale,nonostante i vari tentativi fatti, non vi è ancora una definizione accettata datutti (cioè giuridicamente vincolante) di azione terroristica, di “terrorista”.Guardando ai giorni nostri: in Iraq oggi siamo di fronte a una guerra diresistenza o di “partigiani” oppure solo ad azioni terroristiche? Quali sono isoggetti che perseguono il “terrore”? che creano “terrore”?E’ già stato scritto che tentativi per definire il terrorismo si sono avuti a piùriprese a partire dal XIX secolo:

“in particolare in occasione di: l’offensiva anarchica e nichilistadegli ultimi vent’anni dell’Ottocento e dei primi dieci anni delNovecento; l’attentato di Marsiglia del 1934 costato la vita al redi Jugoslavia Alessandro e al primo ministro francese Barthou;la strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972; l’attaccoall’America dell’11 settembre 2001. Tutti i tentativi si sonoarenati di fronte allo stesso problema: persino fra gli stati c’èsempre stato qualcuno che ha riconosciuto scusanti all’impiegodella violenza da parte di soggetti diversi da loro. Tali scusantisono cambiate profondamente nel corso del tempo, ispirandosidi volta in volta a principi diversi e spesso opposti – dal dirittodi resistere e insorgere contro regimi oppressivi o tirannici,riconosciuto già nella seconda metà dell’Ottocento da paesicome gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, al rifiuto di includerenella definizione di terrorismo gli atti di violenza commessi nelcorso delle guerre di liberazione nazionale. Sebbeneprofondamente diverse tra loro, tutte queste eccezioni si sonoappoggiate al comune convincimento che, a certe condizioni, ilmonopolio dello stato sulla guerra potesse essere superato. Nellastessa epoca storica in cui la parola veniva coniata, cominciavaanche ad erodersi la condizione normale da cui, come ognieccezione, avrebbe dovuto ricavare il proprio significato.Qualora fosse rimasta viva l’idea che l’unica guerra legittima èla guerra tra stati, qualunque discussione su chi fosse partigianoe chi fosse terrorista avrebbe potuto essere facilmenteaccantonata: gli unici soggetti autorizzati a impiegare laviolenza sarebbero rimasti gli stati e tanto sarebbe bastato abollare come illegittimi tutti gli altri. L’emergere di differenzetra questi ultimi segnala già, invece, un indebolimento delladistinzione principale. Se alcuni irregolari – i partigiani –possono figurare come più legittimi di altri – i terroristi – èperché la separazione tra regolari e irregolari si è già indebolita.Il monopolio statuale sull’uso della violenza organizzata haperso in maniera apparentemente inarrestabile la propriaeffettività e, nella crescente incertezza sui principi costitutividella convivenza internazionale, è stato sfidato sempre piùspesso anche sul terremo della legittimità; le chiare distinzionidella guerra interstatale (combattenti/non combattenti,militari/civili, neutrali/non neutrali) hanno cessato di separare e,quindi, di preservare; la pace e la guerra sono andateconfondendosi in un intrico sempre più imprendibile diesperienze e di metafore (guerra fredda, peace enforcing,“guerra infinita”)”. (A. Colombo, La guerra ineguale, il Mulino,Bologna, 2006, pp. 66-70).

Il terrore fuori della battaglia- “La minaccia e l’uso del terrore possono travalicare e,

periodicamente, travalicano anche i limiti (della battaglia) pertrascinare in guerra chi non può essere chiamato – perché non è“abile” a combattere – e chi non vuole esserlo, perché non vuole

che la guerra sia combattuta o perché non vuole essere lui acombatterla

- La minaccia e l’uso del terrore costituiscono una delle modalitàpiù ricorrenti nella conduzione delle guerre.

- E’ nella natura della violenza potere essere impiegata tanto perindebolire o sconfiggere il nemico in battaglia quanto perintimidirlo al di fuori di essa

- Questa “violenza intesa a costringere il nemico invece cheindebolirlo militarmente” è ciò che Schelling definisce, comeforma caratteristica di guerra, “terrorismo”. A differenza dellaviolenza bruta, la cui efficacia si misura da quanto riesce asopravanzare direttamente la volontà del nemico (finoall’estremo dell’annientamento), il successo del terrorismodipende da quanto riesce a modificare i suoi interessi e, con essi,il suo comportamento

- (Nella minaccia o uso del terrore) ciò che conta non è lasofferenza inflitta, bensì quella latente – la violenza che puòancora essere trattenuta o inflitta. E’ la minaccia del danno, o diun danno maggiore in futuro, che può indurre l’altro a cedere o apiegarsi al nostro potere – nella stessa accezione delle scienzesociali e politiche, comportandosi diversamente da come sicomporterebbe qualora non fosse sottoposto alla nostrainfluenza”. (A. Colombo, pp. 20-22)

Il terrore nella modernità- “Ben prima di essere riscoperto dai “gruppi terroristici”, il

terrore è stato impiegato e teorizzato dagli stati – e, prima chetra loro, proprio contro individui e gruppi non statuali dadisciplinare al proprio interno e combattere al proprio esterno

- Il tipo di guerra che in modo più sistematico e storicamentecontinuo ha visto il ricorso da parte degli stati alla minaccia eall’uso del terrore (sono state) le guerre contro le popolazionisenza stato e, in particolare, quelle condotte contro lepopolazioni non occidentali, nell’ambito delle conquistecoloniali. Tali guerre hanno sempre avuto a che fare più con“spedizioni punitive” che con “genuini scontri militari”(Schelling)

- Anche nella fase discendente della vicenda coloniale, questo fuil modo in cui vennero impiegate l’aviazione britannica contro letribù ribelli dell’Iraq negli anni Venti e Trenta, quella francesecontro l’insurrezione araba in Siria, in Marocco e in Algeria equella italiana nella conquista della Libia e dell’Etiopia. Mentre,tra il 1860 e il 1890, questo era stato anche il modo in cui gliStati Uniti avevano combattuto le cosiddette guerre indiane.

- Ma se la minaccia e l’uso del terrore erano stati almenoprogressivamente banditi dalle guerre interstatali dalla secondametà del Settecento fino alla Prima guerra mondiale, anche tragli stati essi ricomparvero stabilmente nelle guerre successivefino a diventare uno degli strumenti più comuni, sebbene nonnecessariamente più efficaci, di aggressione e contenimento delnemico.

- Le origini di questo duplice sconfinamento del terrore – dalcampo di battaglia, da un lato, e dalla violenza senza regoledelle avventure coloniali dall’altro – sono fatte comunementerisalire alla marcia del generale Sherman attraverso la Georgia,nel pieno della guerra di secessione americana.

- Ma fu solo nel corso della Seconda guerra mondiale che laminaccia e l’uso del terrore contro i non combattenti venneroimpiegati in modo sistematico da tutti i principali stati e in tutti iprincipali teatri della guerra. Tra il 1940 e il 1945, circa 60.000cittadini inglesi morirono sotto i bombardamenti tedeschi, cosìcome all’incirca 600.000 cittadini tedeschi e 900.000 giapponesimorirono sotto i bombardamenti angloamericani.

- ‘L’obiettivo politico della bomba non erano i morti di Hiroshimao le fabbriche nelle quali lavoravano, ma i sopravvissuti diTokyo. Le due bombe erano nella tradizione di Sheridan contro iComanches e di Sherman in Georgia’ (Schelling 1966)”. (A.Colombo, cit., pp. 24-28)

Il terrorismo come metodo- “I tratti distintivi del terrorismo come metodo sono tre.- Il primo è l’impersonalità o l’astrattezza. Diversamente dal

fanatismo religioso o ideologico, il metodo terroristico aggiral’oggetto della sua ostilità politica; non lo colpisce direttamente,ma lo indebolisce colpendo altri oggetti. La sua struttura ètriangolare invece che lineare: ogni atto terroristico comprendeun soggetto che lo compie, un secondo vittima dell’attacco e unterzo destinatario dell’intimidazione

- Il secondo elemento è la parsimonia. La minaccia e l’uso delterrore si propongono (e si legittimano) come un metodo“economico”, capace di alterare a proprio vantaggio l’equilibriotra i costi e i benefici della violenza (ottenendo il massimo con ilminimo). Innanzitutto, in quanto forma particolare della guerrapsicologica, la minaccia e l’uso del terrore promettono unasproporzione tra il risultato immediato delle azioni e le loroconseguenze psicologiche. In secondo luogo, essi introduconouna seconda sproporzione, altrettanto vantaggiosa, tra i costidell’attacco e i costi della difesa: l’attacco terroristico costa pocoe, comunque, meno di ciò che costa cercare di prevenirlo o dipararlo, senza potere sapere dove e contro chi o che cosa saràrivolto. Infine, l’economicità del metodo terroristico consente dicompensare (almeno i parte) la sproporzione tra forti e deboli.

- Il terzo elemento, più comune ma anche più ambiguo, è lacasualità o l’indiscriminatezza. Perché possa raggiungere loscopo di diffondere la paura e intensificarle nel tempo, il metodoterroristico non può concentrarsi su categorie di individui o diluoghi specifiche, identificabili in anticipo con un regime, unpartito o una politica. ‘Se nessuno è preso di mira, nessuno è alriparo’ (Aron)”. (A. Colombo, cit., pp. 40-42)

Il terrorismo per la guerra o per la pace

- “1) Il terrorismo, oltre che per vincere, è stato e, dunque, puòessere impiegato per provocare la guerra (in contesti internicome in contesti internazionali)

- 2) la minaccia e l’uso del terrore sono diretti non a provocare,ma a denunciare la guerra – una guerra già in corso, dunque, mainvisibile ai suoi possibili testimoni e, addirittura, a qualcuno deicontendenti (diretti o indiretti) (esempio: le imprese terroristichedi movimenti che agiscono in nome di una miriade di popoli eminoranze oppresse ma prive di riconoscimento internazionale)

- 3) la minaccia e l’uso del terrore sono stati e possono essereconcretamente impiegati per l’obiettivo di limitare la guerra. Inquesto possibile uso sta anche la parentela tra metodoterroristico e rappresaglia (le minacce di Hamas a Israele percercare di dissuaderlo dal proseguire certe operazioni militari; leincursioni di Israele contro i villaggi in Giordania per frenare leincursioni dei gruppi armati palestinesi).

- 4) La minaccia del terrore è stata e può essere impiegata perprevenire la guerra. “La pace di terrore è quella che regna tra leunità politiche, se ciascuna di esse ha la capacità di colpiremortalmente l’altra” (Aron).

- 5) Il potere di infliggere sofferenze alla popolazione civile puòdiventare un modo non di prevenire ma di sostituire la guerra,nel senso più compiuto della “diplomazia della violenza” (diSchelling): costringendo il nemico a scegliere tral’accomodamento e la vita”. (A. Colombo, cit., pp. 47-51)

Terrore e derivati: l’uso politico del termine- “I tratti più significativi dell’uso politico della parola sono:- 1) il primo e più fondamentale è già contenuto nel fatto che, a un

certo punto della storia, la continuità del metodo terroristicoabbia potuto finalmente essere trattenuta in una parola. Nellastoria quando pratiche immemorabili diventano oggetto diacquisizione consapevole è perché diventano coerenti con iconcetti, le metafore e le analogie dello stile di pensierodominante. Se l’acquisizione consapevole del metodoterroristico poté finalmente avvenire alla fine del XVIII ediffondersi per tutto il XX secolo fu proprio perché, aquell’epoca, erano più o meno comunemente disponibili unanozione di pace e di guerra “normali”, nella quale il“terrorismo” e i suoi derivati trovarono la propria antitesi e, perciò stesso, anche la propria definizione. Fu proprio la presenzadi una nozione forte di che cosa avrebbe dovuto essere enormalmente era la convivenza “civile” (interna einternazionale) che consentì di concepire il terrorismo comel’esatto opposto di tale condizione.

o Nella convivenza politica interna, questo ruolo di norma vennesvolto sin dalla fine del Settecento dalla diffusione di pratichedisciplinate e sobrie di esercizio del monopolio statuale sullaviolenza legittima, in antitesi alle quali potevano apparire“terroristici” sia l’uso improprio, abnorme del potere

sanzionatorio dello stato, sia l’uso extralegale della violenza daparte di soggetti “privati” del diritto di impiegarla.

o Nella convivenza politica internazionale, invece, l’uso dellaparola “terrorismo” e dei suoi derivati rimase marginale fino atutta la Prima guerra mondiale per diffondersi solo più tardi, amano a mano che le offensive aeree contro le città, da un lato, ela diffusione e il rafforzamento della guerra partigiana dall’altro,misero apertamente in questione anche il modo in cui, finoallora, gli stati europei avevano normalmente praticato econcepito la guerra fra di loro: come uno scontro tra eserciti,egualmente impegnati a escludere tutti gli altri soggetti (siacome portatori, sia come vittime della violenza) da quel “centrodi gravitazione della guerra” che era la battaglia.

- 2) il secondo e più importante carattere della parola terrorismomischia due eccezioni diverse. La prima è quella del progressivosuperamento dell’hortus clausus dei combattenti, con l’impiegoda parte di questi ultimi di strumenti “terroristici” contro ilterritorio e la popolazione dei propri nemici. La seconda, piùradicale, è quella del progressivo indebolimento della “presa”degli stati sulla politica internazionale, con l’irruzione diportatori alternativi di violenza organizzata. Tutte e due leeccezioni hanno a che fare con la rottura dei limiti della guerra.Ma la prima presuppone un accordo su come e contro chi laguerra dovrebbe essere e normalmente è combattuta, mentre laseconda ne presuppone uno su chi dovrebbe essere enormalmente è a combatterla. Oltre che tardiva, la parolaterrorismo si rivela costitutivamente e non casualmenteambigua. Mettendo sotto la stessa etichetta un metodo e deisoggetti, essa rischia di nascondere o deliberatamente nascondeil fatto che il primo non è necessariamente associato ai secondimentre i secondi non sono necessariamente destinati al primo

- A disinnescare sul nascere tale ambiguità ha provveduto lacapacità normalizzatrice dello stato – il “Grande Definitore”della politica e del diritto moderni e, quindi, il produttorepubblico della coerenza tra le parole e le cose.

- La nozione di terrorismo ha finito per designare non unagenerica eccezione alle “buone regole” della guerra, bensìun’eccezione più specifica e giuridicamente definibile allaguerra interstatale come modello esclusivo della competizioneinternazionale. Terrorismo, dal punto di vista dello stato e dellesue categorie politiche e giuridiche, è solo ciò che non rientranella guerra “legale” tra gli stati: perché è perpetrato da soggettiche non sono autorizzati a impiegare la violenza e perché, anchequando tali soggetti si sentono in guerra, essi non hanno dirittodi sospendere lo stato giuridico della pace

- 3) Questo rapporto essenziale con l’equiparazione tra politicainternazionale e politica interstatale è il terzo elemento dellanozione corrente di terrorismo. Le conseguenze sul rapporto tranorma ed eccezione:

o Se per il solo fatto di vedere trasgredito il proprio monopoliosulla guerra, gli stati tenderebbero già a considerare irrilevanti o,

almeno, secondarie le differenze tra guerriglieri e terroristi, taletendenza risulta rafforzata ogni volta che gli stessi soggettiricorrono periodicamente sia all’uno che all’altro metodo – cioèconcretamente quasi sempre. Non è possibile ricorrere a metoditerroristici senza assurgere, automaticamente, a “terroristi”; enon è possibile assurgere a terroristi senza che, da questomomento, anche tutti i pripri atti figurino coerentemente come“terroristici”. Di questa confusione, la nozione attuale di“terrorismo internazionale” costituisce la vera e propriaapoteosi.

o La seconda conseguenza tocca il fragile equilibrio tra legittimitàe innocenza. Nello stesso momento in cui si definisce“terroristica” qualunque azione di guerra compiuta da soggettinon autorizzati, che sia rivolta contro militari o contro civili, siapre per i soggetti autorizzati uno sterminato spazio diinnocenza, all’interno del quale può tornare ad apparirelegittimo qualunque atto di guerra – compresi, in situazioniestreme, quelli diretti contro i civili.

o Gli stessi atti sono definiti terroristici oppure no a seconda chesiano commessi da attori non statuali o da stati. Più chedistinguere troppo poco tra combattenti legittimi e illegittimi –tra partigiani e terroristi – essa distingue anche troppo traregolari e irregolari. In un caso le violazioni sono racchiuse, sericonosciute, sotto l’etichetta di “crimini di guerra” e trattate daldiritto internazionale umanitario. Nell’altro caso sono definitecome terrorismo e affidate al diritto penale”. (A. Colombo, cit.,pp. 56-63).

In breve: si possono avere 4 tipi di “terrorismo”:chi lo fa contro chi

civili militaristati A Bnon stati C D

VI.- I conflitti violenti dal 1946

In premessa: uno sguardo ai conflitti 1800-1945

Tipi di guerre post 1991“Già a un primo sguardo, è facile constatare come le ostilitàmilitari dell’ultimo quindicennio abbiano avuto formeeccezionalmente eterogenee, da guerre di impianto ancora

tradizionale come quella del Golfo del 1991 a operazioni militari“chirurgiche”, cioè a costo zero per l’attaccante, come ibombardamenti sull’Iraq nel 1996 e nel 1998 e quelli sullaJugoslavia nel 1999, da manifestazioni al massimo grado dellasovranità del paese più forte a manifestazioni di collasso dellasovranità (come le guerre di disgregazione territoriale nell’exUnione Sovietica, nella ex Jugoslavia e in Africa centrale) finoalla riappropriazione di capacità militari e politiche da parte disoggetti non sovrani, come le imprese più recenti delleorganizzazioni terroristiche. Ma quello che è più significativo èche a questa varietà di forme si è accompagnata una incertezzacrescente sulla legittimità del ricorso alla guerra”. (A. Colombo,La guerra ineguale, il Mulino, Bologna, 2006, pp. 7-8).