Studi Sulla Famiglia - Scabini

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Eugenia Scabini Studi sulla famiglia

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Eugenia Scabini

Studi sulla famiglia

La famiglia, le sue trasformazioni socioculturali e le sue prospettive di sviluppo

 

La famiglia è oggi soggetta a rapidi e profondi mutamenti che esercitano un'influenza sia sulle sue relazioni interne sia sui rapporti che la famiglia stabilisce con la società (Scabini, Iafrate, 2003). Tali mutamenti, nelle loro punte estreme e quando sono letti in maniera unilaterale, tendono addirittura a mettere in discussione la stessa identità della famiglia, identità che è stata per secoli il punto di riferimento della nostra tradizione. Possiamo identificare le trasformazioni socioculturali della famiglia odierna in questi aspetti: la crescente fragilità dell'unione coniugale e le sue nuove caratteristiche; il consistente calo della natalità e le nuove caratteristiche della genitorialità; il differimento del tempo di ingresso nella vita adulta; l'allungamento della vita media e le nuove connotazioni della condizione anziana.   Un particolare rilievo assume inoltre il confronto continuo e sempre crescente con altre culture, a cui la famiglia italiana è sollecitata in seguito all'aumento e alla diversificazione dei flussi migratori. Prima di esaminare tali aspetti va peraltro precisato che la famiglia "tradizionale", costituita dai coniugi e dai rispettivi figli costituisce a tuttora la forma più diffusa di famiglia. La sua forma modale è costituita da piccole dimensioni. Esamineremo brevemente ciascuna di queste trasformazioni vedendone sia gli aspetti problematici che le prospettive di sviluppo. La vita di coppia, oggi, nel nostro paese, è soggetta a rilevanti trasformazioni: in particolare si registra una diminuzione generalizzata dei matrimoni, un aumento delle separazioni/divorzi e un aumento delle unioni libere. Tali fenomeni investono, con percentuali peraltro più consistenti delle nostre, tutti i paesi dell'area occidentale ed in particolare il Nord Europa. Essi depongono per una generalizzata fragilità del legame coniugale che ha molteplici cause e che affonda le sue radici in un radicale mutamento della concezione del legame coniugale stesso, avvenuto nel corso del tempo. Nel lontano passato il matrimonio era infatti frutto dell'alleanza delle famiglie d'origine che intervenivano in buona misura nella scelta del coniuge (e ciò è ancora vero in culture diverse da quella occidentale), successivamente è diventato, in particolare per la classe borghese, uno strumento di miglioramento del proprio status e di acquisizione di autonomia fino ad essere oggi fondamentalmente una questione di autorealizzazione espressiva individuale.   Voglio chiarire che cosa intendo per "autorealizzazione espressiva individuale".

  Al centro dell'attenzione si pone oggi il legame sentimentale-espressivo della coppia mentre sullo sfondo sono andati sia le eredità delle proprie stirpi familiari che il vincolo sociale istituzionale. La coppia ha guadagnato quanto a sensibilità affettiva ma ha perso quanto ad investimento ed impegno nel comune vincolo. Il legame affettivo, sganciato dagli aspetti di impegno, finisce per essere autoreferenziale: ciascun partner cerca nel rapporto prevalentemente, ed a volte esclusivamente, la soddisfazione dei propri bisogni senza aver adeguatamente presente l'altro ed il patto stretto con lui. Questa impostazione è fortemente influenzata dal nostro clima culturale che enfatizza il diritto dell'individuo e la realizzazione dei suoi bisogni a scapito del valore del legame: difficile così articolare le esigenze del sé con quelle del patto coniugale. Nella relazione di coppia si tende oggi a chiedere molto al partner in termini di intensità di intesa sui più svariati aspetti della vita, mentre molto poco preparati si è a costruire pazientemente un "noi" ed un progetto comune che ecceda la coppia. La fragilità del legame coniugale è così frutto sia di troppo elevate aspettative (più facilmente soggette a delusioni) sia dello sbilanciamento della relazione sul versante affettivo/espressivo (a scapito di quello etico/normativo e di impegno del patto) che del clima culturale più portato a sottolineare il diritto dell'individuo che l'arricchimento che proviene dai legami. L'indebolimento del vincolo e la ricerca prevalente del benessere personale fanno sì che oggi, assai più facilmente che in passato, la coppia si interroghi e riveda il contratto a suo tempo stabilito. In questi frangenti, si prospettano di fronte ai coniugi fondamentalmente due strade: 1. un legame tra gli stessi coniugi che sia capace di rinnovarsi più volte nella vita e che sappia coniugare l'aspirazione all'intimità con l'impegno progettuale; 2. un distacco/separazione che - seppure solo apparentemente - taglia con il passato. Tale strada sembra, dai dati demografici, essere in costante aumento. In questo panorama sociale, che vede la dimensione della coppia sempre più fragile e soccombente sotto la spinta di tendenze individualistiche, occorre tuttavia osservare che, paradossalmente essa è oggi, assai più che in passato, un referente centrale per la società, sia perché, con l'aumento della vita media è aumentato anche il tempo di vita in coppia (circa 4/5 anni nell'ultimo decennio) sia perché essa è lo snodo inevitabile di compiti che prima venivano distribuiti ed attribuiti alle famiglie allargate, sia ancora perché essa si assume funzioni - soprattutto nel campo della trasmissione dei valori - di cui il sociale non si fa più carico. E' il legame coniugale quindi, così poco protetto culturalmente, che va reso oggetto di cura, una cura privilegiata. Oggi è raro che una relazione di coppia si mantenga per tornaconto o per mancanza di alternative e ciò rende la sfida più alta. La coppia richiede un suo nutrimento che la vede impegnata in prima persona ma che non può provenire esclusivamente dal suo interno. Essa va accompagnata, soprattutto nelle fasi della sua costituzione e nei suoi passaggi critici, e stimolata a saper trasformare il patto adeguandolo al mutare delle esigenze anche di tipo affettivo nel corso del tempo. Costruire e mantenere viva la buona qualità della relazione è un compito cui le coppie di oggi non possono sottrarsi. Tale buona qualità della relazione va concepita non come qualcosa di automatico e magico ma come una continua conquista, una lotta contro le

forze disgregatrici che oggi sono più potenti di un tempo quando la stabilità era garantita istituzionalmente (ma non dimentichiamo che allora il pericolo era il formalismo e la povertà affettiva). Il potenziale conflittuale che è in un certo senso connaturato al patto coniugale perché esso tiene insieme, lega la differenza originaria, quella tra uomo e donna, è certamente accentuato dal nuovo assetto della coppia. La caduta di prescrizioni di ruolo predeterminate e rigidamente ancorate al gender di appartenenza ed in particolare i notevoli mutamenti registrati dal ruolo femminile sono entrati prepotentemente nella relazione coniugale ed hanno reso più complesso il raggiungimento di un equilibrio nella vita della coppia. La coppia, più soggetta a conflitto, è sollecitata a nuove e inusitate ricomposizioni e a utilizzare negoziazioni spesso faticose nel costruire la sua identità. In questo contesto una coppia chiusa in sé stessa e isolata da relazioni significative si mette in condizione di rischio. In un mondo così diversificato quanto a stili di vita un cammino comune con altre famiglie che possa attingere a chi ha più esperienza e all'occorrenza consultare chi ha competenza può essere di grande aiuto. E ciò vale ancor di più quando la coppia affronta la sua transizione critica per eccellenza, quella della avventura della genitorialità.. La transizione alla genitorialità si presenta attualmente connotata da alcune caratteristiche sia di tipo strutturale sia di tipo socio-culturale legate ai cambiamenti di significato che il figlio assume per la coppia. Sul primo versante l'elemento più vistoso è la drastica riduzione delle nascite. Per quanto riguarda l'andamento complessivo dei tassi di fecondità italiani, dopo il baby boom degli anni 60, le nascite sono diminuite drasticamente. Tale dato colloca oggi il nostro paese al livello più basso nel panorama mondiale della fecondità: esso è ben al di sotto della soglia di 2,1 figli per donna che assicura il ricambio generazionale e l'equilibrio tra la fascia giovane e la fascia anziana. Come è noto, quando questo equilibrio non è garantito assistiamo a gravi problemi sociali quali un aggravio sanitario e, non ultimo, il problema delle pensioni. In assenza di una popolazione giovanile produttiva chi potrà mantenere quella anziana? Tutto ciò ci fa riflettere sugli inevitabili effetti che i comportamenti familiari hanno sulla società e sulla miopia di un approccio che li confini nella categoria del privato. In altri paesi quali la vicina Francia ad esempio tali effetti sono stati evidenziati tempestivamente e sono state messe in atto oculate politiche familiari per far fronte alla denatalità. Se partiamo dal dato della caduta della natalità potremmo, ad un primo sguardo, interpretarlo come segnale della perdita di valore del figlio. Invece, all'opposto, come rilevato da importanti sondaggi, gli italiani attribuiscono grande valore ai figli: in particolare il legame coi figli viene indicato come il rapporto più stretto e durevole della vita. In un periodo in cui il legame matrimoniale tende a farsi instabile, in una società in cui i punti di riferimento si fanno più incerti e sfumati, il vincolo di filiazione resta l'unico su cui investire in modo certo e continuativo. La debolezza della coppia sembra essere rimpiazzata così dalla solidità del legame col figlio. La punta estrema e sintomatica di tale tendenza è rappresentata da quelle coppie che fanno volutamente precedere la scelta di un figlio alla legalizzazione dell'unione. In questi casi è il figlio ad essere istituente il legame di coppia: la coppia si dispone e si attiva attorno al figlio al quale è subalterna. La "logica del bambino" ed i suoi diritti prevalgono così sempre di più sulla logica della coppia e della famiglia: in questa logica paradossalmente, il neonato pare rappresentare più il desiderio di paternità e maternità dei due genitori che essere vissuto come una

nuova generazione che si affaccia alla storia, frutto di una coppia che si sente collegata alle generazioni precedenti ed investita di una specifica responsabilità familiare e sociale. Notevole è perciò il cambiamento culturale che ha investito la rappresentazione del figlio: esso è oggi affettivamente più centrale di ieri - e ciò è certamente un progresso - ma è per così dire più un bambino che un figlio. Si è infatti indebolita la percezione dell'appartenenza a una genealogia familiare) mentre è preminente, nell'esperienza procreativa, il bisogno di realizzazione personale dei genitori che tendono a specchiarsi nel figlio. Tale aspetto è certamente amplificato dal fatto di poter scegliere e controllare la procreazione. Inoltre i limiti e la discrezionalità della scelta procreativa sembrano dilatarsi sempre di più come documentato dal ricorso, sempre più frequente, a varie tecniche di riproduzione assistita per avere un figlio "a tutti i costi". Rispetto alla procreazione siamo dunque passati da una situazione di impotenza e di destino subito, tipico del passato, ad una situazione di controllo é di sfida al destino. La diminuzione delle nascite ed il suo carattere di avvenimento scelto e fortemente voluto fa sì che la nascita assuma le caratteristiche di "alto concentrato emozionale". I genitori finiscono per investire troppo, o per lo meno in modo unilaterale, nei pochi figli che mettono al mondo e ciò può costituire un problema per i figli poiché essi sentono di dover rispondere ad alte aspettative e ad un'impegnativa immagine di sé. Tale immagine porta dentro di sé inconsapevolmente il bisogno realizzativo dei genitori da cui dunque sarà più difficile staccarsi e che avrà conseguenze anche a livello dello stile educativo praticato che è sempre meno autorevole e sempre di più amichevole. Credo che dobbiamo riflettere molto su questo viraggio critico da una concezione di famiglia centrata su una coppia stabile e generativa ad una concezione di famiglia in cui il legame forte ed indissolubile tende ad essere solo quello di filiazione. Ciò da un lato fa vedere il nocciolo duro della famiglia, un confine invalicabile che nessuna forma familiare può evitare, cioè l'asse intergenerazionale. Non si può essere né ex genitori né ex figli. E ciascun essere umano è almeno figlio. D'altra parte l'indebolimento del legame coniugale rende effettivo il rischio di un rapporto genitori/figli, invischiato, di reciproca e ambigua dipendenza, di grande attaccamento, ma di debole progettualità. In particolare è la figura paterna, e la sua funzione emancipatrice e di autorevolezza, quella che oggi è più critica. I figli, amorevolmente curati, non sono fatti per essere il senso della vita dei genitori - anche se ne sono ovviamente un fattore decisivo - né sono fatti per compensare la solitudine degli anni che passano. Essi sono fatti per lasciare il nido familiare e per portare avanti in modo innovativo (cioè collegandosi al passato e adattandolo ai tempi) la storia familiare (dei due rami paterno e materno).   Un segno di questa empasse nella crescita dei figli è dato dalla sempre più prolungata permanenza dei giovani nelle loro famiglie. Il fenomeno ha molte cause di tipo sociale (si pensi solo all'alto tasso di disoccupazione giovanile) e non è solo determinato da dinamiche interne alla famiglia. Purtuttavia, a ragione, possiamo ritenere che esso sia un sintomo di una più generale e profonda difficoltà, la difficoltà di assumere pienamente la condizione adulta che è comprensiva oltre che di un impegno serio nel mondo del lavoro, di un impegno

generativo, dare vita ad una nuova famiglia. Tale difficoltà può essere solo in parte attribuita ai giovani stessi. Essa infatti deve essere letta più propriamente come una difficoltà di passaggio di consegne tra generazioni adulte/anziane e generazioni giovanili, sia in famiglia che nella società. Se in famiglia tale passaggio è all'insegna di una spesso eccessiva protezione, nella società ha caratteristiche opposte di competività/esclusione. Al proposito è importante capire che il sociale non è un qualcosa di totalmente esterno alla famiglia. Anche il sociale è fatto di generazioni e di scambi tra le generazioni e nel sociale ci sono gli stessi adulti e gli stessi giovani che vivono in famiglia. Ma essi paiono comportarsi in modo assai diverso nei due ambiti della famiglia e del sociale. In particolare possiamo dire che gli adulti nel contesto sociale hanno agito nel passato e tuttora agiscono dimenticando la dimensione genitoriale: hanno perduto la loro qualità generativa di investimento nelle generazioni successive. In famiglia gli adulti vedono i giovani solo come figli da sostenere, nella società solo come giovani con cui competere. Gli adulti sono in difficoltà nel trasformare la generatività parentale in generatività sociale. La generatività è una eccedenza: deve travalicare le mura domestiche e non esservi rinchiusa. Sono gli adulti, noi adulti responsabili, almeno parzialmente, di un certo funzionamento sociale poco propulsivo verso le giovani generazioni, che non investe adeguatamente nella loro educazione, non la ritiene un prezioso bene comune, non distribuisce le risorse in modo equo, non favorisce il loro inserimento lavorativo, non tiene conto dei ritmi di lavoro, delle esigenze dell'allevamento dei figli. E' mancata nel passato e a tuttora ancora manca, anche se passi si sono fatti in questa direzione, la chiara percezione che la famiglia è un soggetto sociale e che alla lunga una politica sociale centrata sui singoli soggetti (donne, bambini, anziani, poveri) e non sulla. famiglia come tale la fa sempre di più arretrare e arroccare nel suo mondo "privato" e aumenta il divario tra il familiare ed il sociale. Ma se tutto è personale nella famiglia (cioè centrato sulla persona e la persona è un soggetto in relazione) niente è privato. Così i comportamenti procreativi della famiglia hanno effetti, e vediamo quali, sulla società e d'altra parte la rappresentazione sociale di un'identità adulta che mette in ombra gli aspetti prosociali e generativi nella realizzazione di sé, ha effetti sulle relazioni familiari. Tale rappresentazione depotenzia il complesso simbolico familiare che è centrato sul dono di sé e su vincoli di lealtà. La difficoltà del transito alla condizione adulta dei giovani è perciò ben più che un pigro attardarsi di una generazione "sfaticata", è il sintomo di uno squilibrio e una scissione tra generazioni familiari e generazioni sociali e della sottovalutazione del ruolo centrale della famiglia come soggetto sociale. E ciò si vede bene esaminando l'ultima transizione.. Il fenomeno dell'invecchiamento della popolazione è ormai da anni al centro dell'attenzione, soprattutto per quanto riguarda gli effetti che esso produce sull'equilibrio demografico complessivo e le conseguenze che da esso derivano in ordine alla distribuzione e razionalizzazione delle risorse di cui il corpo sociale dispone. Tale invecchiamento complessivo della popolazione è il risultato di due distinti e convergenti fenomeni demografici: il prolungamento del tempo di vita e la contrazione del tasso di natalità. Il mutato equilibrio demografico tra le generazioni determina una trasformazione

qualitativa del processo di invecchiamento, sia per quanto riguarda le dinamiche interne alla famiglia, sia per quanto riguarda le relazioni tra la struttura familiare e la struttura sociale. Per quanto riguarda il primo punto possiamo dire che la transizione alla condizione anziana oggi si pone per buona parte come una lunga stagione di vita di coppia. Tale lunga stagione di coppia è un fenomeno nuovo, sconosciuto nel passato quando in genere dopo pochi anni di uscita di casa dell'ultimo figlio almeno uno dei due coniugi moriva. Va però detto che la vita familiare sembra avere due itinerari abbastanza differenziati nella fase finale di questa transizione quando la condizione di salute si fa precaria. Poiché l'età media della donna supera di circa 6 anni quella degli uomini, è frequente che questi ultimi vivano l'ultimo periodo della vita entro una relazione di coppia; al contrario le donne restano più spesso sole negli ultimi anni della loro vita e si appoggiano, nell'affrontare le difficoltà del crescente decadimento, soprattutto ai figli. Ciò pone problemi di non poco conto. La trasformazione strutturale della famiglia e in particolare la riduzione del numero dei suoi componenti limita drasticamente le risorse della famiglia destinabili alla cura degli anziani. Il problema diventa veramente drammatico quando, caso non infrequente, le persone anziane bisognose di cura siano più di una e "pesino" su un unico figlio o un'unica coppia. Il figlio, nell'impossibilità di fornire la cura desiderata al suo genitore, è così esposto a un vero conflitto di lealtà. Gestire bene il sentimento di obbligo filiale è impresa di non poco conto. Assumere una posizione di non evasione dalla responsabilità della cura e nel contempo di percezione realistica delle proprie risorse è un equilibrio difficile. Da quest'ultimo punto di vista, due sono le questioni essenziali che accompagnano l'invecchiamento della società. La prima riguarda la necessità di porre mano ad una revisione complessiva delle forme e dei meccanismi di ridistribuzione della ricchezza sociale, tenendo conto che la nuova proporzione tra le generazioni rende non più sostenibile economicamente un sistema di protezione sociale costruito su una proporzione tra giovani e anziani del tutto diversa. Si tratta cioè della necessità di procedere ad una sostanziale revisione dei sistemi di welfare e di ripensare le politiche sociali assumendo quale unità di riferimento non il singolo individuo, ma l'intera famiglia. La seconda questione, a questa strettamente connessa, riguarda il crescente fabbisogno di cura e assistenza sanitaria poiché, ovviamente, il prolungamento del tempo di vita porta con sé anche il prolungamento del "tempo di malattia". È questo un problema che, pur mantenendo una forte centralità all'interno delle relazioni familiari e trovando nella famiglia la prima e fondamentale risposta, non può essere in essa confinato. Il problema della cura dell'anziano non può perciò essere affrontato su un piano esclusivamente familiare, ma richiede l'attivazione di risorse istituzionali e di reti comunitarie ed una politica dei servizi che sappia guardare all'anziano, non come ad un individuo isolato, ma come un soggetto inserito in relazioni familiari significative di cui occorre tenere conto, proprio per il suo benessere complessivo. Certamente le famiglie dovranno sempre più imparare a collaborare coi servizi, ma i servizi dovranno essere concepiti in stretta sinergia con le famiglie. In sintesi. Le trasformazioni della famiglia la mettono alla prova. Ma il tempo

della prova è anche un tempo di verità. La coppia mai come ora è chiamata a riscoprire il fascino sottile e tenace del dialogo tra due mondi diversi e misteriosi (il femminile ed il maschile), a fondare la sua unità non semplicemente su una complementarietà di ruoli. Una nuova coppia è un inedito, ma tale inedito è l'incontro tra due storie familiari: così ciascuno, dando vita ad una nuova famiglia, non può fare a meno di riconoscere la dimensione filiale e con essa a riscoprire il senso profondo del matris-munus -il dono materno della vita- e del patris-munus, il patrimonio di beni materiali e spirituali che abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni precedenti. In termini simbolici poter contare sull'affidabilità del legame e sulla appartenenza ad una genealogia, fattori che costituiscono la fonte dell'identità di ciascun essere umano. Ma la famiglia può custodire e tramandare questa linfa vitale, questo bene primario se essa è riconosciuta dalla società come soggetto e primo titolare del bene generativo. Due sono al proposito i compiti che ci aspettano: il primo è la chiarezza sulla identità della famiglia ed il secondo la valorizzazione ed il sostegno della sua funzione insostituibile. Per quanto riguarda il primo punto va detto a chiare lettere che non può dirsi famiglia qualsiasi relazione umana caratterizzata da intimità. Questa concezione che oggi si va diffondendo, e che all'apparenza pare aperta e comprensiva di varie forme di convivenza in realtà è gravemente confusiva. La famiglia non può annacquarsi in relazioni indifferenziate ed includere sia due partner di sesso diverso che dello stesso sesso né può basarsi esclusivamente su private intese anche se affettivamente intense. La famiglia richiede un patto stabile tra un uomo ed una donna, pubblicamente sancito, sulla base della reciproca e libera scelta ed un responsabile progetto generativo. Se una società non salva questo nocciolo fondamentale è destinata ad incorrere in gravi processi degenerativi perché non protegge il bene comune costituito dalle nuove generazioni. Esse infatti non possono svilupparsi adeguatamente se non è loro garantita una relazione parentale sicura ed affidabile. E non dimentichiamo che gli adulti stessi portano a compimento la loro identità attraverso l'approfondimento e l'impegno in quella speciale e privilegiata relazione affettiva che è quella coniugale. La società perciò e veniamo al secondo punto- protegge il suo futuro se tutela chi si assume l'impegno del matrimonio e della responsabilità generativa e ciò va richiesto con forza anche con adeguate misure di politica familiare che, a partire dal riconoscimento della soggettività sociale della famiglia, contribuiscano a stabilire o rinnovare un patto sociale tra tutti i soggetti che nella società vivono e operano. Fondamentale, per poter sancire efficacemente tale patto, è potersi avvalere di "regole" di fondo, promozionali, non inibitorie e burocratizzanti, ma, al contrario, tese a sostenere positivamente l'azione sociale delle famiglie e a valorizzarla nei suoi aspetti compositivi e di attribuzione di senso. E' su questo patto che possono essere poste le basi per una società pluralista e sussidiaria nella quale ogni soggettività sociale, e quindi la famiglia, possa svolgere al meglio, e con pari dignità e autonomia, i propri compiti, e perseguire in questi il miglior risultato possibile, certi che il raggiungimento di tale obiettivo migliori sia la famiglia, sia le istituzioni, sia la relazione tra di essi, sia, infine, l'intero contesto societario.    

                                                 

Famiglia e famiglie: affetti e legami

 

Forme di famiglia

  Il dibattito attuale vede spesso contrapposta la famiglia tradizionale dai ruoli chiari e rigidi, contrassegnata fortemente dal vincolo-obbligo tra coniugi e tra genitori e figli, e la famiglia moderna, dai ruoli molto flessibili, dagli ampi margini di libertà, fortemente centrata sugli affetti e sulla possibilità di scegliere e sciogliere i legami. Mentre la prima viene rappresentata come monolitica nella sua forma, la seconda darebbe luogo ad una pluralità di forme tali da includere tutte i tipi di convivenza (living arrangements) possibili, alla sola condizione che gli individui siano legati da relazioni affettive reciproche. Ma le cose stanno davvero così? Il percorso storico ci fa vedere che anche la famiglia del passato ha conosciuto molte forme (matriarcale, patrilineare, estesa, estesa-modificata, etc.) e del resto l’attuale confronto tra diverse culture ci mostra come varie siano nel mondo le modalità attraverso cui si manifesta la famiglia 1. Allora tutte le forme sono valide allo stesso modo? Si può pensare a una liberalizzazione e pluralizzazione potenzialmente infinita della famiglia? Per rispondere a questo sostanziale quesito occorre una riflessione sull’identità della famiglia, riflessione che consenta di identificare le caratteristiche essenziali che la rendono tale - e cioè propriamente famiglia - e che ci consentano sia di distinguerla da tutto ciò che non è propriamente famiglia sia di riconoscerla entro una pluralità di forme storicamente date, quasi come variazioni su uno stesso tema. Come dire che sì, sono possibili molte modalità di attuare la famiglia, ma esse non sono infinite né indefinite perché, per essere riconosciute come famiglia, devono rispondere di alcune caratteristiche distintive.  

Cos’è la famiglia?

  Ma allora che cosa è una famiglia o meglio come si qualifica la relazione familiare?

La relazione familiare è quella specifica e unica relazione che lega insieme in modo unico i sessi o come si usa dire oggi i generi (il patto coniugale tra uomo e donna) e le generazioni (il legame tra genitori e figli e più profondamente il legame tra le stirpi e le genealogie paterna e materna). La famiglia ha perciò il compito arduo e avventuroso di collegare le differenze fondamentali dell’umano: quelle tra generi, generazioni e stirpi 2. Perciò non sono qualificabili come familiari quelle relazioni che negano i lineamenti strutturali distintivi della famiglia, come è il caso delle unioni omosessuali che negano la differenza di genere. Ma non basta unire generi e generazioni per fare famiglia. La relazione familiare ha anche sue proprie caratteristiche affettive ed etiche che la qualificano come tipicamente umana; la famiglia è infatti chiamata a umanizzare ciò che in essa vive e da lei nasce. Come icasticamente è detto nella Familiaris Consortio: «famiglia diventa ciò che sei». La relazione familiare è perciò un legame specifico tra generi e generazioni che va nutrito con le qualità etico-affettive tipiche dell’umano. La famiglia è infatti per eccellenza sia luogo degli affetti più profondi che delle responsabilità nei confronti dell’altro, sia esso il figlio o l’uomo o la donna cui ci si promette. Vanno perciò considerati come pericoli per la relazione familiare sia la compromissione della componente affettiva del legame, fatta di fiducia e speranza, che la compromissione di quella etica fatta di rispetto, giustizia e lealtà. Quando ciò avviene in misura grave la relazione familiare vede corruzione e tragedia. Tragedia che stupisce l’uomo moderno, quasi un incomprensibile scacco dell’animo umano concepito onnipotente artefice del proprio destino, ma che non ha stupito altri tempi e altre culture che, più sensibili agli aspetti di destino delle vicende umane, attorno alle tragedie, sempre familiari, hanno costruito opere indimenticabili, come è stato per il mondo greco. Potremmo dire dell’insensibilità e cecità moderna agli aspetti di vincolo e destino, come dell’incapacità opposta del mondo antico di vedere la libertà del soggetto emergente pur entro le più costrittive vicende generazionali. La famiglia ha anche un movente-scopo specifico: generare. Generare non è riprodurre, questo è tipico del mondo animale il cui fine è unicamente il mantenimento La famiglia è sede di della specie, generare è procreare, dar un capitale primario vita biologica e psichica a un essere unico e irripetibile, un’eccedenza, che nessuna perché in essa le programmazione potrà mai eliminare. persone mettono in L’unicità nella forma dell’esclusività è del gioco, si scambiano, resto anche una caratteristica della relazione coniugale che considera infatti tradimento la sua violazione. Generare è sé, come capita “mettere al mondo” cioè consegnare alla all’interno dei ruoli comunità sociale un nuovo essere, una sociali, ma sé, la nuova persona che potrà portare avanti la totalità di sé. storia familiare e sociale. La famiglia è generativa proprio in quanto produce un bene relazionale, cioè quel capitale socia- le primario senza il quale la comunità degli uomini non potrebbe vivere e progredire. Ho detto che la famiglia è generativa perché, e nella misura in cui produce, un bene relazionale primario. Perché lo consideriamo primario? La famiglia è sede di un capitale primario perché in essa le persone mettono in gioco, si scambiano, non qualche aspetto di sé, come capita all’interno dei ruoli sociali, ma sé, la totalità di sé. Vi è un aspetto incondizionato tipico ed esclusivo della relazione familiare che emerge emblematicamente in situazioni limite, come è il caso di un figlio

con gravi deficit o di un genitore non più padrone di sé, laddove è evidente che la relazione non si basa sulla capacità di prestazione, ma va oltre. Tale aspetto incondizionato e rischioso è un tratto qualificante della relazione familiare (che è relazione primaria e cioè fondativa di tutte le altre relazioni) che tende e si protende come movimento ideale al dono di sé. Possiamo usare anche  

La parola, spesso abusata, di reciprocità.

  La relazione familiare non è basata sulla parità simmetrica (impossibile e fuorviante nel caso del rapporto genitori-figli dove è innegabile la responsabilità dei primi sui secondi), piuttosto è condivisione o legame radicale, alla radice del sé e perciò indissolubile, come emerge nel nocciolo duro della relazione tra le generazioni. Non si può infatti uscire dalla relazione genitoriale-filiale, non è dato di essere ex genitori o ex figli. Come sottolinea Irene Thery, anche oggi, entro un contesto di grande contingenza e fluidità delle relazioni, il legame di filiazione rimane, invalicabile punto di resistenza, a ricordarci dell’indissolubilità del legame familiare, del suo aspetto sorgivo, non negoziabile, almeno dalla parte del generato. E ciascun essere umano, uomo e donna, è generato e non si può, se non a prezzo di grave scissione mentale, dimenticare questo rimando tra generare ed essere generati, anche se l’onnipotenza di certa tecnica può illudere e far vedere solo il lato del generante. Ognuno porta con sé il suo marchio familiare/filiale nel bene e nel male, ognuno porta con sé il patrimonio (che etimologicamente significa un calco di matrimonio) di risorse, ma anche di deficit, della sua storia familiare. Ma va anche detto che nessuno può scegliere in quale famiglia nascere e ciò costituisce un vincolo alla presunta totale liberalizzazione delle relazioni familiari. La libertà del soggetto e la costruzione della sua identità non è a partire da un ipotetico punto zero, ma è a partire da questo patrimonio e da questa appartenenza. Per il soggetto umano non vi è possibilità di libertà dai legami ma solo di libertà nei legami. Certo, la mentalità odierna che riduce la libertà alla libertà di scelta e che vede il legame come vincolo-laccio da opporre alla libertà dei sentimenti è sfidata dalla famiglia e dal suo codice relazionale. Non affetti o legami (come spesso l’uomo contemporaneo sente) ma piuttosto affetti e legami: il legame familiare contiene in sé sia la ricchezza degli affetti che la stringenza della responsabilità.  

I rischi che la famiglia oggi corre

  Comprendere, rimodellare, rinnovare il patrimonio familiare, quello che, attraverso la coppia coniugale-genitoriale, ci arriva dalla lunga storia generazionale e

dalla cultura di appartenenza, questa è l’unica strada che ha a disposizione il piccolo dell’uomo nella sua, a volte difficile, conquista di identità. Sempre di più e sempre meglio la ricerca psicologica documenta dell’importanza delle relazioni familiari a partire addirittura dallo stadio intrauterino, che è sede di primordiali ma già vivi “dialoghi interpersonali”, agli effetti benefici della buona qualità delle relazioni familiari per il “benessere” complessivo (somatico e psichico) del soggetto adulto alle prese con le molteplici transizioni del ciclo di vita. Quale l’impasse moderno al proposito? Non tanto e non certo quello di contrastare e sottovalutare l’importanza delle relazioni familiari (anzi rispetto ad altre epoche storiche grande è la sensibilità al proposito, soprattutto per quanto riguarda il mondo relazionale del bambino) quanto quello di aver indebolito e a volte smarrito il proprium della relazione familiare. E ciò sia a livello degli aspetti qualificanti la struttura della relazione (rispettare la differenza di genere e di generazione) che di bilanciamento tra aspetti affettivi ed etici. Se infatti varie sono state e sono le forme familiari, si può parlare di famiglia solo se vi è un patto-legame tra uomo e donna, socialmente riconosciuto (è questa la funzione del testimone) e un legame responsabile tra le generazioni: entrambe queste relazioni inoltre, perché siano generative di capitale umano, devono alimentarsi costantemente di quella sostanza etico-affettiva che le rende propriamente umane. Tali qualità convivono sempre, in una certa misura, con il loro opposto, l’area insana che sempre minaccia le relazioni umane e il nostro fragile cuore. Anche l’equilibrio tra le due componenti è importante per lo sviluppo delle relazioni familiari e non sempre ciò riesce adeguatamente. Così nel corso della storia, e ancor oggi in molti Paesi, abbiamo avuto e abbiamo situazioni in cui è fortemente investito l’aspetto normativo del legame e sottovalutato l’aspetto affettivo (vuoi nella relazione coniugale vuoi nel rapporto con il soggetto in crescita) o situazioni, come quella tipica dell’attuale società occidentale, nella quale sono decisamente preminenti gli aspetti affettivi, intesi come espressione spontanea del sé, e relegati nello sfondo gli aspetti relativi alla responsabilità del vincolo/legame con l’altro. Nella prima condizione il rischio è di un legame costrittivo e formale e nel secondo di un legame labile, in cui l’altro è evanescente. Il nomos senza affetto diventa regola formale e l’affetto senza nomos, senza una direzione, diventa puro gioco sentimentale. L’affetto, come dice la stessa etimologia, richiede necessariamente “l’altro che colpisce”, mentre il sentimento è fondamentalmente espressione di sé, è tutto nel soggetto che lo prova e l’altro diviene secondario. È questo propriamente il pericolo odierno. Ritroviamo questo rischio sia nella relazione genitoriale che coniugale. Il figlio è oggi troppo spesso un concentrato emotivo, specchio del bisogno del genitore, una forma della sua realizzazione, piuttosto che visto nella dimensione del progetto, come nuova generazione che si affaccia alla storia familiare e sociale. Così la relazione di coppia impostata sentimentalmente è spesso autocentrata e tende a viversi come l’alba di un nuovo mondo, senza radici nelle generazioni precedenti. Il legame di coppia, investito di alte e spesso irrealistiche aspettative di intesa e non sostenuto da un adeguato impegno nel superare le prove cui è inevitabilmente sottoposto, è soggetto così a una sempre più diffusa fragilità. La coppia con facilità tende a spezzare il patto a suo tempo stipulato, con serie conseguenze per una armoniosa crescita delle nuove generazioni, nonché di gravi problemi sociali. È noto

infatti che quando questi fenomeni avvengono su larga scala, come in occidente, si ingenerano vistosi problemi di povertà e di disadattamento cui è difficile, se non impossibile, porre adeguato rimedio anche a fronte di notevoli investimenti sociali. Ma altra è la logica generativa che è di vitalità interna, insita nella famiglia, cui tutti dobbiamo la capaci di rigenerarsi, nostra nascita umana. È questa logica che dobbiamo recuperare dentro le nostre cioè di «produrre famiglie e nella società tutta. famiglia». Ecco il compito: prendersi reciprocamente cura (una semantica etico-affettiva) dell’altro e del legame con lui, stringere e rinnovare nel tempo il legame-patto tra l’uomo e la donna investendolo di rispetto e di rinnovato affetto (e perché no? Anche di passione), dando vita a un corpo generativo, in grado a sua volta di prendersi cura dei figli propri e più in generale delle nuove generazioni che si incontrano e di cui si è responsabili socialmente. Perché è così che la generatività familiare diventa generatività sociale e il codice familiare si espande e consente una caring society.  

Quale futuro per la famiglia

  Un ultimo interrogativo è d’obbligo per chi, oltre a tener viva la carica ideale, sa porsi in prospettiva realistica. Quale sarà il futuro della famiglia? Quale forma familiare sarà vincente? Al di là di richieste chiassose e/o violente di chi pretende diritti identici a qualsiasi forma di convivenza, sarà la storia umana a dare il verdetto. Come acutamente sottolinea Donati saranno vincenti le forme familiari capaci di vitalità interna, capaci di rigenerarsi, cioè di «produrre famiglia». In particolare ciò significa che siano in grado di rispondere alle aspettative della società, soprattutto per quanto riguarda la responsabilità nei confronti della crescita dei figli e la capacità di sostenere relazioni di mutuo aiuto tra i partner e fra le generazioni. Infine un compito sociale ineludibile sarà quello di essere in grado di reggere produttivamente il confronto con altre forme familiari, in particolare di gruppi etnici non occidentali. Come si vede, la sfida è alta e comunque il suo nocciolo duro è dato dalla capacità di generatività familiare e sociale.  

Sfide e risorse della famiglia oggi

    Possiamo identificare il tema sulla famiglia mettendo al centro le famiglie giovani più che le nostre famiglie adulte che, in qualche modo, hanno già risolto certe problematiche e che, comunque, hanno vissuto in un mondo diverso. I problemi dei giovani sono stati provocati dalla nostra generazione perché i grandi cambiamenti strutturali relativi alla famiglia datano dagli anni settanta, dall'inizio della caduta della natalità e poi, in Italia, sono stati anni clou con le leggi su divorzio, aborto, diritto di famiglia. Anni in cui c'è stato un profondo cambiamento innescato dalla generazione precedente per cui oggi noi vediamo l'acuirsi di problemi su quali non siamo stati indifferenti.  

Gli aspetti affettivi e gli aspetti etici

  Il punto fondamentale è il rapporto tra gli aspetti affettivi e gli aspetti etici, di responsabilità. La famiglia è il nucleo primario fondamentale degli affetti più profondi e delle responsabilità più profonde. Gli affetti più profondi sono quelli tipici della famiglia nel bene, nelle gioie e nel dolore, e anche le responsabilità più evidenti sono quelle familiari perché dal lavoro su può entrare e uscire, ma dall'essere genitori no, perché ci sono delle relazioni vincolate dalla quali non si può prescindere. Innanzitutto uno non può scegliere la famiglia in cui nascere, è un vincolo come anche quello genitoriale e una responsabilità. La società odierna enfatizza enormemente gli aspetti affettivi mentre minimizza, mette tra parentesi, gli altri; a differenza della famiglia del passato, dei nostri nonni, in cui la famiglia era vista più sotto l'aspetto etico, basata su una serie di norme, mentre l'aspetto affettivo era più sfumato. Viene chiamata famiglia affettiva, ma occorre precisare bene perché se quegli aspetti hanno una loro rilevanza, l'affetto senza la responsabilità significa pura emozione: quando c'è, c'è e quando non c'è, crolla tutto. Questo è il dramma culturale delle scelte familiari odierne.  

Conseguenze

  Una prima conseguenza ricade sulla relazione di coppia: il grande tema, l'indice di tenuta della coppia. La drammatica non tenuta della coppia. Fin quando era ridotta ad un certo numero piccolo di persone non c’era da preoccuparsi, ma ora sta diventando un fenomeno dilagante. Quando queste cose sono quantitativamente rilevanti ne derivano conseguenze anche su larga scala. Si tratta di una maggiore fragilità delle nuove generazioni da cui deriva il timore di affrontare il matrimonio. Ai miei allievi, 22-23 anni, se pongo la domanda che cosa fa più timore nella relazione, le femmine prevalentemente rispondono: la paura di dare affetto all'altro e poi essere abbandonate o tradite, mentre i maschi rispondono: la paura di avere figli e poi l'altra me li porta via. Questi sono effettivamente problemi in quanto comporta la rottura del nucleo che arriva fino alla rinuncia dalle proprie responsabilità. A livello coniugale quindi c'è un'enfasi sull'aspetto affettivo fino a chiedere all’altro la perfezione. Più le aspettative sono elevate, quando poi arriva il momento un po' delusorio, che avviene in tutte le relazioni, cioè del momento in cui si constata com'è l'altro nella sua realtà, crolla tutto: non ci amiamo più! In realtà in questi casi si intuisce come il rapporto nella coppia è molto emozionale, nel senso che l'esperienza deve essere intensa, del “tutto e subito”. Occorre allora trasformare questo rapporto dall'aspetto emozionale in un altro meno superficiale, ma altrettanto valido più rivolto alla cura, all'educazione dei figli, alla compagnia.  

Il rapporto con i figli

  Anche sui figli, anche se in modo diverso e meno perturbante, esiste una sorta di rapporto emozionale. Nel figlio l'aspetto di prolungamento di sé è più evidente perché nella coppia in qualche modo la diversità dell'altro esiste e non la si può nascondere, mentre con il figlio gli aspetti di prolungamento di sé sono più marcati. Oggi questo assume aspetti impressionanti. I genitori tendono a rispecchiarsi nei propri figli come se il figlio fosse un concentrato emozionale del genitore e la riuscita o meno del figlio immediatamente costituisce il banco di prova della capacità genitoriale. Se il figlio non riesce, è colpa mia, oppure se un insegnante si permette qualche critica c'è subito lo schieramento genitore-figlio contro l'altro adulto. Viene meno l'alleanza tra adulti che fa parte della responsabilità condivisa nei confronti delle nuove generazioni. In realtà il bambino non è “il tuo” bambino, ma una nuova generazione familiare e una nuova generazione sociale. Il figlio è un bene comune della coppia, della famiglia allargata e delle società. Occorre aiutarlo a crescere come un soggetto nuovo perché apporti il suo

contributo alla famiglia, ma anche alla società. Un profondo compito familiare, sociale di cui poco rimane, mentre sussiste il bisogno di appagamento, di saturazione del bisogno del genitore. Tutti in qualche modo abbiamo bisogno di trovare un po' il senso della nostra vita attraverso i figli, ma se il figlio deve essere lui totalmente al centro della vita dei genitori è la morte perché lui, il figlio, viene gravato di un compito che non gli compete, che lo schiaccia mentre il genitore si avvilisce. Così il problema del distacco è paradossalmente un problema molto forte nell'attuale società. In una società individualista che reclama l'indipendenza, c'è una grande difficoltà di distacco “positivo, di emancipazione, di lancio in avanti del figlio. I genitori fanno forza traente. I figli fanno la loro parte, ma la generazione precedente frena. Pochi figli, l'allungamento della vita, rispetto al tempo precedente in cui la situazione era opposta (più figli, vita media più ridotta), la spinta a che i figli realizzassero la loro famiglia era molto forte. Socialmente la generazione dei genitori (gli attuali trentenni) ha goduto di una condizione sociale che i figli non potranno avere. Quando sono nella società gli adulti anziani si dimenticano che le nuove generazioni sono i loro figli, mentre quando sono nella famiglia si dimenticano che i loro figli sono una generazione sociale. C'è una pericolosa scissione tra i comportamenti in famiglia in cui si è iperprotettivi e comportamenti nella società che diventano competitivi. Si tratta del cosiddetto conflitto generazionale. In generale pertanto nella famiglia constatiamo questo spostamento eccessivo sugli aspetti emotivi e affettivi senza tener conto degli aspetti della responsabilità. Questo soprattutto nel patto coniugale che costituisce una presa di responsabilità di fronte alla società. Il testimone nel matrimonio sta ad indicare che non si tratta semplicemente di un rapporto privatistico tra i due sposi, ma un impegno anche nei confronti del figlio, un impegno educativo tant'è vero che quando uno non rispetta questo obbligo gli viene tolta la patria potestà.  

La generatività

  Questo è il nodo che fa implodere la famiglia. E’ presente una diffusa non capacità degli adulti di trasferire l'aspetto generativo anche nel sociale. Perché non si è solo generativi, nel farli o nel non farli affatto, ma si è generativi anche nel prendersi cura delle nuove generazioni attraverso l'impegno di trasmissione di testimonianza, di valori, di lavoro per il bene comune, cioè di lavoro di cui godranno le nuove generazioni. Questo è il tipico valore familiare perché nella famiglia la generatività costituisce una prospettiva lunga che va aldilà nella vita temporale dei singoli. Si dà la vita ad una generazione perché questa a sua volta dia la vita ad un'altra, faccia altrettanto. C'è come un movimento in avanti non tanto perché ci sia una consolazione da parte del figlio che abbia cura di te quando sei anziano, ma perché il figlio, anche lui, si impegni a mettersi in cammino restituendo al genitore la sensazione di aver ricevuto una cosa importante come la vita tanto da trasmetterla ad altri. La generatività spinge ad andare oltre, avanti, è piena di speranza, di capacità di lotta. Trasferita nel sociale la sua mancanza è priva di lungimiranza. E' sempre valido l'aforisma di De Gasperi “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alla prossima generazione”. Questi effetti

profondamente umani perdono la prospettiva lunga e di spinta in avanti e vengono come schiacciati solo sull'aspetto della gratificazione affettiva che da sola è inadeguata, riduttiva per esprimere la famiglia.  

L’omologazione della differenza e la rigenerazione

  La difficoltà odierna è anche quella della omologazione della differenza. Fin quando i “differenti” sono gli immigrati e così via...., ma quando la differenza te la devi vedere in casa tua, la differenza dell'altro coniuge che è diverso da come te lo eri immaginato o il figlio, allora qui facciamo fatica a prenderci cura della differenza dell'altro. Non si tratta di far diventare l'altro come voglio io, ma di riconoscere la specificità dell'altro. Questa mancanza, che in fondo è una mancanza di realismo nella relazione è anche frutto di una secolarizzazione, di un gioco all'onnipotenza. Esistono però degli aspetti di vincolo che definiscono l'identità di una persona. Se uno è genitore comunque è anche, a sua volta, un figlio. La vita gli è stata data, c'è una dipendenza. Si è perso il senso della creaturità, di essere creature. Si tratta di un valore che dovrebbe rendere la generosità di un genitore grata, cioè la risposta di un dono che ho ricevuto e questo fa recuperare la speranza perché non si sa mai quando e come ritorna ciò che hai seminato e magari non sai se ti basta la tua vita. Il rischio, ma anche della bellezza delle relazioni familiari, è che mentre ci si aspetta un ritorno si continua a sperare e rilanciare la proposta anche se la risposta non viene. Però nelle relazioni familiari occorre pensare che il frutto prima o poi arriva perché le cose importanti della vita, si possono trasformare, ma rimangono. Certo: ogni generazione ricomincia da capo. Prende dalla generazione passata, ma passa attraverso nuove esperienze. Giovanni Paolo II, il papa della famiglia, a Roma nelle Giornate della Gioventù, ha esplicitamente parlato della delusione che fa parte della dinamica dell'amore. Una realtà vera che prima o poi bisogna affrontare. Inoltre, nel suo libro “Aprite le porte alla speranza” afferma che la fede occorre conquistarsela. Così il genitore si deve aspettare che il figlio realizzi qualcosa di non previsto da lui e quindi è chiamato a giocare la partita mantenendo una speranza che non è ottimismo a tutti i costi, ma è nella natura della cose. Si tratta di un ricominciamento, come una rigenerazione. Ogni generazione deve prevedere una rigenerazione nel rapporto di coppia come “risposarsi nella vita con la stessa persona”. Un processo rigenerativo anche con le generazioni che precedono. Così il volontariato è una bellissima risposta generativa in quanto uno cerca di diventare utile per la nuova generazione.  

Ruolo educativo della famiglia

 

1. Il capitale sociale primario della famiglia

  Possiamo incominciare ad affrontare il tema del ruolo educativo della famiglia con questa domanda: in che senso la famiglia svolge un ruolo educativo? In che cosa consiste la sua specificità? Anticipando quel che verrà successivamente delineato possiamo sinteticamente dire che la famiglia dà un apporto sostanziale al tema educativo perché svolge non solo la funzione riproduttiva/accuditiva (che esiste anche nel mondo animale), ma svolge anche una funzione procreativa/generativa. La famiglia genera persone, la famiglia “rende umani gli esseri umani” per usare una bella e significativa espressione di Urie Bronfenbrenner (2010). Con altri termini possiamo dire che la famiglia dà vita al capitale sociale primario centrale alla sopravvivenza e alla crescita della società. Interessante e molto stimolante al proposito la tesi di James Heckman, premio Nobel dell’Economia. Heckman (2010) parte da una concezione innovativa di capitale umano. Secondo il premio Nobel statunitense esso è rinvenibile sin dalla nascita, si sviluppa lungo tutto l’arco della vita ed è prodotto primariamente dal contesto familiare e poi da quello scolastico e lavorativo. Il nocciolo del capitale umano è costituito dalle abilità cognitive, socio-emotive e relazionali che consentono al soggetto umano di interagire in maniera sensata e appropriata con le persone che costituiscono il suo ambiente significativo e più in generale con la società. Queste abilità gli consentono di costruire la sua matura identità e di poter perciò dare il suo apporto alla vita della comunità. Muovendo da queste considerazioni e valorizzando i risultati conseguiti in proposito dalla ricerca economica e psicologica, questo studioso giunge alla formulazione di un modello teorico sintetizzato da una equazione, la cosiddetta equazione di Heckman, che potrebbe essere così tradotta “discorsivamente”: investimento nelle risorse educative delle famiglie, specie quelle svantaggiate + sostegno allo sviluppo delle competenze cognitive e socio-emotive dei bambini a partire dalle fasi precoci = guadagno a lungo termine della società perché consente di avere cittadini più capaci, più produttivi, di valore che creano sviluppo economico e sociale anche per le generazioni future. Heckman fa sua l’idea, sviluppata in ambito psicologico, che vi sono periodi sensibili e critici per lo sviluppo di queste abilità, ovvero periodi particolari in cui è necessario acquisire un’abilità che altrimenti non potrà essere “recuperata” in futuro.

Come una gran mole di ricerche in ambito psicologico mostra, le abilità cognitive e socio- emotive si sviluppano prevalentemente nell’infanzia e nell’adolescenza. La famiglia ha una funzione decisiva e vitale nello sviluppo di tali abilità, specie nei primi anni di vita del bambino. Non tutte le famiglie hanno le stesse risorse, ma è importante che tutte le famiglie abbiano accesso a quelle risorse di cui i loro figli necessitano per un adeguato sviluppo personale. Come si può vedere da questa breve sintesi, il pensiero di Heckman va ben oltre una mera analisi tecnica dello svantaggio sociale, ma si propone come riflessione sul bene insostituibile del figlio come nuova generazione familiare e sociale per il benessere complessivo della famiglia umana. La ricchezza di una società, il suo benessere non sono un possesso dato, come un giacimento di materie prime che si hanno o non si hanno, ma prodotto di una azione direzionata, mirata, di interesse e di preferenza motivata che si suppone dia frutto (Scabini e Rossi, 2010). Prendersi cura della vita umana, delle nuove generazioni, investire risorse economiche e psico-sociali in iniziative di sostegno alle fasi critiche dello sviluppo, questa la chiave di volta per garantire sviluppo e benessere sociale.  

2. L’educazione come generazione

  Riprendendo l’interrogativo iniziale possiamo dire che la famiglia educa in quanto genera. Generare non è certo riprodurre biologicamente è molto di più. La famiglia dà forma umana, umanizza ciò che da lei nasce e in lei si lega. La famiglia ci fa nascere come soggetti (unici e irripetibili) in quanto consente al piccolo dell’uomo di fare quell’esperienza relazionale originaria, di rapporto con la madre e con il padre e più in generale con la storia familiare, esperienza che è affettiva e morale al tempo stesso. In essa la persona può sperimentare che ha valore per se stessa al di là del livello di prestazioni che può dare, come facilmente riconosce un genitore davanti al figlio anche se colpito da gravi handicap. Questa originaria esperienza di valore e di unicità va però costantemente nutrita e assicurata durante tutta l’arco evolutivo di crescita attraverso un nutrimento affettivo e morale. Dare calore, sostegno, ma anche direzione alla crescita in modo che il piccolo e poi l’adolescente si sviluppi e raggiunga una piena identità adulta è compito dei genitori e con loro, anche se con modalità diverse, di tutto il corpo familiare, dei nonni e dei familiari significativi. Infatti al bambino giunge attraverso la concreta vita familiare, fatta di parole, azioni, gesti, rituali e routine, tutto il patrimonio della storia delle generazioni precedenti. Da questo punto di vista, i nonni (e più in generale le generazioni precedenti) non solo sono importanti perché, come dimostrano ampiamente i dati della indagine multiscopo, forniscono aiuto concreto alle giovani famiglie curando i nipoti, ma testimoniano e attualizzano quel patrimonio simbolico che fa da trama di senso alla nostra identità.

E questo portato simbolico rappresentato dalle tradizioni culturali assume ancora più importanza nelle famiglie immigrate e aggiunge ancora più complessità al ruolo educativo delle nuove generazioni per questi nuclei familiari alle prese con il difficile compito di fare i conti con le abitudini e i significati che vengono dati alle pratiche educative nella cultura dei paesi d’origine e in quella ospitante. Ho in varie sedi articolato l’aspetto simbolico della famiglia in due poli: il polo affettivo e quello etico (Scabini e Cigoli). La famiglia infatti è il luogo degli affetti più profondo, ma anche delle responsabilità e dei vincoli più stringenti (non si può essere ex-genitori!). La cura responsabile dei figli (espressione sintetica che incorpora questi aspetti etico-affettivi) è un compito comune di entrambi i genitori, ma possiamo simbolicamente collegare il polo affettivo alla funzione materna e quello etico a quella paterna. La funzione materna (matris-munus) richiama infatti il dono della vita, la cura, la protezione e il calore affettivo. Essa costituisce quel serbatoio psichico di fiducia e speranza che è la base sicura sulla quale si sviluppa originariamente l’identità umana e a cui attingere lungo tutta l’esistenza per contrastare l’angoscia della perdita e della morte. La funzione paterna (patris-munus) è invece collegabile al polo etico, al rispetto della giustizia edella lealtà nelle relazioni. La funzione paterna si rifà etimologicamente e simbolicamente al patrimonio e alla trasmissione dei beni materiali e morali. Essa si esprime nei valori, nelle norme educative della vita familiare, nel senso di appartenenza così come nelle tradizioni da rispettare. Se cerchiamo però gli aspetti affettivi ed etici all’interno del nostro contesto culturale vediamo che siamo passati da una forte centratura sugli aspetti etico-normativi, tipici del nostro passato, a un’enfasi sugli aspetti affettivi (ma meglio sarebbe dire emozionali) e troviamo tale caratteristica nella rappresentazione della relazione di coppia come nella relazione genitori-figli, come verrà descritto più avanti. La cura responsabile ha una sua dinamica che con bella espressione McAdams (1992) sintetizza in tre termini: dar vita, curare, lasciar andare. Essa fa riferimento al diverso equilibrio tra aspetti di vicinanza e aspetti emancipativi che connotano l’itinerario evolutivo dall’infanzia all’adolescenza e ora alla giovane adultità che, come noto, è una nuova stagione della vita, tipicamente post-moderna che segnala il prolungamento a volte indefinito della adolescenza e il suo difficile traghettamento alla condizione adulta. E il problema qui rivela non tanto e non solo l’incertezza dei giovani su cosa significhi essere adulti, ma anche l’incertezza degli adulti stessi e della società in generale che di certo non rende saliente, non valorizza la responsabilità generativa, ma piuttosto enfatizza l’aspetto giovanilistico, autoespressivo, di una realizzazione di sé alla ricerca disperata di gratificazioni immediate. Manca a tutti i livelli una preoccupazione “generativa”. Generare, codice tipico della famiglia, non va confinato nel generare figli propri, ma esteso al prendersi cura responsabilmente delle nuove generazioni, come ci ricorda Erikson (1968) che definisce la generatività (caratteristica precipua dell’adulto) “interessamento in costante espansione verso le nuove generazioni”.  

Quale la difficoltà odierna?

  Nella nostra società il rapporto tra genitori e figli è riconosciuto come un rapporto cruciale e di grande valore; in una certa misura tale legame viene a configurarsi come il più durevole e l’unico veramente stabile nella vita. Anche il trend demografico del calo delle nascite non rappresenta affatto un segno della perdita di valore del figlio e del legame con lui, tutt’altro: la riduzione del numero di figli sembra andare di pari passo con l’aumento dell’investimento emotivo su di essi. Ci troviamo allora di fronte a un significativo cambiamento culturale che ha investito la rappresentazione del figlio. Il bambino pare rappresentare quasi esclusivamente il desiderio di maternità e paternità dei genitori, piuttosto che una nuova generazione che si affaccia sulla storia familiare e sociale, come espressione di un progetto generativo di una coppia che riconosce il legame con le generazioni precedenti e allo stesso tempo si sente investita di una sua responsabilità. La cura dei figli oggi è vista soprattutto in termini affettivi e protettivi, mentre sullo sfondo sembra rimanere la dimensione etica della responsabilità. Eppure sappiamo bene che la responsabilità è inscritta nella relazione genitori-figli, perché tale relazione non è di tipo paritetico, ma gerarchico. Come sottolineato da un noto pedagogista e psichiatra francese, Daniel Marcelli (2004), oggi il genitore non sembrerebbe tanto teso verso il compito di educare, cioè “tirare fuori” (ex-ducere) le potenzialità del figlio, quanto piuttosto portato a sedurre, ad attirare il bambino a sé (se-ducere), a compiacerlo, a saturare e prevenire ogni suo bisogno, spesso iperstimolandolo. Essere un genitore perfetto (o quasi) in grado di dare felicità al figlio e saturare ogni suo bisogno, questo pare il must odierno che segue l’attuale linea narcisistica. In questa situazione, e paradossalmente, il bambino rischia di perdere la sua infanzia, la sua specificità e il suo bisogno di un adulto non paritario ma responsabile, in grado di dargli limiti oltre che gratificazioni e che lo sappia vedere come nuova generazione familiare e sociale. I genitori paiono dunque incontrare difficoltà nel “condurre” i figli, nel dare loro una prospettiva e una direzione verso cui tendere, sono incerti sui criteri e sugli obiettivi educativi con cui orientarsi nelle difficili e oggi assai complesse scelte, sono incerti nel dare indicazioni forse perchè non sanno che cosa ultimamente desiderare per sé e per i figli. Emblematica diventa in questo senso la figura del genitore-amico, così diffusa oggi e per certi aspetti così seducente e accattivante, che di fatto rappresenta un chiaro “sintomo” dell’evitamento della dimensione etica della cura, banalizzata in atteggiamenti a ogni costo accondiscendenti. Ciò che pare oggi fare problema è il timore dei genitori di perdere l’affetto dei loro figli, in quanto il legame col figlio rappresenta un asse portante, se non esclusivo, della propria identità. Paradossalmente, nella nostra società che enfatizza l’autonomia, diventa sempre più difficile favorire e promuovere il processo di distacco e di svincolo dei figli dalla

famiglia con la relativa assunzione di una piena responsabilità adulta, sul piano personale, affettivo e sociale. Ecco alcune conseguenze che si possono trarre da queste osservazioni. a) Vi è una crescente difficoltà nella trasmissione dei patrimoni intergenerazionali familiari. Gli aspetti valoriali, di senso e di pratiche educative sensate vengono con difficoltà trasmessi o per lo meno i genitori si sentono soli e impari di fronte a questo compito. Essi vedono con crescente preoccupazione che la cultura che circonda i loro figli e nella quale essi si muovono con dimestichezza, specie quella veicolata dalle nuove tecnologie, ha più influenza di ciò che essi dicono e fanno. b) Vi è difficoltà di impegnarsi in un compito congiunto tra gli adulti a diverso titolo coinvolti nell’educazione. In particolare il rapporto tra genitori e insegnanti è più all’insegna della competizione che della collaborazione. Se il figlio è visto non come nuova generazione, ma come mio possesso facilmente la difficoltà scolastica del figlio viene vissuta come accusa al genitore che strenuamente difende il figlio contro l’insegnante. Questo fenomeno di “triangolazione” (il genitore col figlio da una parte e l’insegnante dall’altra) è certamente un freno a un sano sviluppo psicologico e maturativo del ragazzo oltre che indebolire la fiducia tra gli adulti che sono loro stessi in difficoltà nel risignificare il loro compito, cosa che non può essere mai fatta una volta per tutte. Inoltre la difficoltà a tenere compresenti gli aspetti affettivi ed etici nell’educazione porta spessa a un gioco delle parti che tende ad attribuire alla famiglia la funzione affettiva e a quella scolastica il compito di dare regole e condotte adeguate.  

3. La strada da percorrere

  Quale allora la direzione da percorrere per risalire la china? Sicuramente il primo punto fondamentale è che gli adulti (genitori, insegnanti e tutti quelli che hanno compiti educativi) prendano coscienza della comune responsabilità nei confronti delle nuove generazioni. Funzionare in maniera scissa o peggio competitiva non è solo dannoso per il soggetto umano in crescita, ma comunque indebolisce la funzione educativa degli adulti. La posta in gioco non è il successo personale del singolo genitore o insegnante, ma il futuro delle generazioni, il nostro futuro. Occorre che mettiamo le nostre energie, le nostre migliori energie nel costruire un nuovo patto tra adulti, un patto educativo positivamente, generativamente rivolto alle nuove generazioni, che siano i nostri propri figli o i figli di altri. Questo compito parte sicuramente dai diretti protagonisti (genitori, insegnanti ed educatori), ma deve diventare un must nell’agenda sociale e ha a che fare anche con scelte di politica scolastica, tema decisivo sul quale non mi soffermo. Di certo una nuova alleanza tra adulti viene favorita quanto più le famiglie hanno libertà di scelta scolastica, quanto più sono coinvolte in un processo partecipativo che le renda cittadini attivi.

Quest’ultimo punto richiama le famiglie a un ulteriore compito oltre a quello della personale presenza nella vita dei figli, compito che richiede tempo e investimento. Le famiglie devono costituire rete tra loro, non possono illudersi di svolgere il loro compito educativo isolatamente. Per educare i propri figli in una società plurale come la nostra, che veicola potentemente attraverso i mass-media modelli di identità fragili e centrati sulla spettacolarizzazione, in una società in difficoltà nei passaggi verticali, tra le generazioni più anziane e quelle più giovani, le famiglie devono pazientemente ricreare tra loro pratiche di vita (penso soprattutto agli adolescenti), spazi sani e vitali nei quali trovino espressione, adeguata alla sensibilità odierna, antichi e sempre validi valori, e possa esprimersi quella sostanza etico-affettiva fatta di fiducia, speranza, giustizia e lealtà che consente alla vita di fiorire, ai giovani di crescere e agli adulti di realizzare il loro compito di cura responsabile, di generatività familiare e sociale. Possiamo anche dire che oggi al centro delle varie relazioni familiari sta la dimensione fraterna, non certo quella caricaturale del genitore-amico che, come evidenziato in precedenza, cerca così di evitare la responsabilità iscritta nella differenza-gerarchia generazionale (le generazioni precedenti hanno responsabilità nei confronti delle successive, anche se ovviamente queste ultime hanno da giocarsi la loro quota di libertà). Quando parlo di dimensione fraterna intendo fare riferimento al legame tra adulti. Gli adulti coinvolti nell’avventura educativa sono “fratelli di condizione”; essi possono così sviluppare e costruire insieme modalità educative innovative che meglio rispondano allo spirito del nostro tempo. “C’è bisogno di un villaggio per far crescere un bambino”: cosi dice un vecchio proverbio africano, mai cosi attuale.  

La famiglia tra rischio e risorse

    Nel trattare un tema così suggestivo e intrigante come quello del rischio familiare è opportuno precisare il contesto nel quale esso si inserisce, perché la famiglia vive in dialogo costante con il più ampio ambiente sociale di cui ne condivide, almeno parzialmente, le sorti. Nei confronti del rischio la cultura moderna pare vivere una profonda contraddizione. Un numero crescente di ricerche empiriche dimostra che i nostri sistemi di sicurezza sociale, mentre in apparenza si impegnano a migliorare le condizioni materiali dell'esistenza delle persone, in realtà generano altri e nuovi rischi per la famiglia e per suoi soggetti più deboli. 1 Merito della riflessione sociale è quello di aver mostrato come i rischi nii la famiglia va incontro, soprattutto per quanto riguarda la debolezza o la problematicità dei suoi legami, dipendano in larga misura dal fatto che la società moderna ha eletto il rischio a norma di vita legittima e strutturante: la nostra è una società rischiosa perché trova nell'assunzione del mercato il suo paradigma fondante (Donati, 1991). La competizione sociale e l'individualismo che caratterizzano la cultura odierna sono il prezzo rischioso da pagare per il need for achievement che qualifica l'attuale organizzazione sociale: l'ethos familiare, centrato sulla capacità di generare e prendersi cura dei legami tra le persone, viene relegalo sullo sfondo e di conseguenza messo in pericolo. Con ciò non si intende, ovviamente, negare le responsabilità della famiglia rispetto alle azioni che intraprende e agli esiti che conseguono ai suoi comportamenti. Le situazioni rischiose sono anche esito di un processo decisionale in cui l'elemento centrale è il tipo di scelta fatto dagli individui. D'altra parte disconoscere che i confini all'interno dei quali le persone uniscono sono pure determinate dalle rappresentazioni culturali e valoriali espresse in un preciso contesto sociale, rischia di vanificare l'efficacia degli Interventi in campo sociale nei confronti delle famiglie. Le famiglie possono mettere a repentaglio o incrementare il benessere dei loro membri con comportamenti rischiosi, e la cultura odierna offre un pensiero debole e scarsamente legittimante rispetto all'osservazione e alla valutazione di tali rischi. Tale pensiero debole ha contagiato anche il campo degli studi sulla famiglia Tipico al riguardo è il recente «addomesticamento» delle tematiche della rottura del legame coniugale a seguito della separazione e del divorzio, entro uno schema di riferimento che fa leva sul «diritto alla felicità del singolo». Si confonde così la diffusione del fenomeno (norma statistica) con una sua «normalità» (norma nel senso di buon funzionamento) , e si è ciechi sui rischi per i coniugi e i figli. L'adeguamento della normalità a norma statistica si inserisce in un processo di irreflessività culturale il cui esisto conclusivo è di riprodurre i valori di una cultura che

privilegia la massimizzazione di ciò che è utile in termini di strategie opportunistiche di guadagno combinatorio. Questa operazione non è però senza conseguenze rispetto al tema di cui ci stiamo occupando. Non valutare i rischi che le famiglie possono correre in conseguenza di un certo stile di vita o del modo di gestire le relazioni significa impoverire il concetto di rischio e, inoltre, vanificare   Dal rischio si può cadere nella marginalità, (dal confine all'essere confinati) o si può uscire con un salto di crescita, un mutamento che introduca il nuovo, senza negare il vecchio. Come sottolinea Lyng (1990) il fascino dell'azione rischiosa sta nel suo essere un lavoro di confine (edgework), nel quale il soggetto sperimenta la possibilità di negoziare il confine tra caos e disordine e così può acquisire una nuova consapevolezza delle proprie capacita. Rischiare àsignifica aprirsi ad un gioco in cui le possibilità di risignifica-/ione della realtà sfidano e mettono in discussione i limiti che le regole sociali impongono alle vite degli individui. Rischiare è mettere in crisi una organizzazione precedente ma anche sperimentare nuovi stimoli, aprirsi alla novità e ricercarla con tenacia. La connotazione ambigua del rischio e il suo essere in bilico tra due polarità è del resto presente nell'etimologia di rischio. Il rischio è «sorte» (e «destino»), ma esso può esser fatto risalire a scoglio (è riza) oppure a salvazione e protezione (è rysis) (Cortellazzo, Zolli, 1985). È cioè possibile intendere il rischio come scoglio ed ostacolo, ma anche come risorsa ed opportunità. Nel prosieguo del nostro contributo ci terremo legati a tale duplicità semantica e cercheremo di individuarne il fluttuante confine tra lo scoglio e l'opportunità. Terremo cioè presente quella complessità che si è persa nel tempo. Infatti se veniamo alle definizioni odierne offerte dal vocabolario a proposito di rischio vediamo che esse vanno dall'eventualità di subire un danno, a seguito di circostanze non sempre prevedibili, all'essere in pericolo. In questa accezione il rischio è visto come una condizione oggettiva legata ad una particolare configurazione della realtà, che incombe sull'orizzonte delle persone al di là della loro volontà e può determinare in larga misura effetti negativi in termini di disfunzionamento individuale e/o familiare. Le ricerche sugli indicatori di rischio si muovono di frequente all'interno dì questa prospettiva alla ricerca di nessi causali tra condizioni sociali e/o familiari ed emergenza di determinate forme di disagio. La duplicità semantica si è appiattita e l'aspetto di scoglio/difficoltà ha occupato tutto lo spazio di riflessione, mentre riteniamo che solo restituendo al termine rischio tutta la sua ambiguità radicale sia possibile analizzare in modo proficuo il rapporto tra rischio e famiglia.   In che cosa consiste la rischiosità nell'ambito familiare? In psicologia siamo passati da una concezione che sottolineava fattori di rischio o i comportamenti di rischio ad una concezione che sottolinea il ruolo dei processi che conducono ad esiti rischiosi.

Nel settore della psicologia della famiglia, come è noto, si è passati da una concezione più classificatoria delle famiglie a seconda del settore di rischio in esse comprese (famiglie anoressiche, famiglie devianti, famiglie schizofreniche...) ad un più ampio discorso sul funzionamento che permettesse da un lato dì identificare e «graduare» i livelli di rischio e dall'altro di connetterlo con le risorse che possono limitarne la portata del danno. Ciò ha costretto ad ampliare la prospettiva di ricerca: molte delle cosiddette famiglie «sane», come fa ad esempio vedere la ricerca di Wynne (Wynne et al, 1986), possono avere seri problemi e al contrario bambini con prognosi di rischio (perché ad esempio con un genitore con problemi di salute mentale) hanno una crescita sana. Si è allora recuperato il versante della risorsa. Per dar ragione delle dinamiche del rischio occorre quindi puntare lo sguardo all'intreccio tra i problemi, i nodi, le sfide che la famiglia deve affrontare e le risorse che possiede. Ma quale è il luogo del rischio nel quale si gioca il sottile equilibrio e le dinamiche tra vincole e risorse? Non certo e non solo il perimetro angusto della famiglia nucleare pur connessa con la rete allargata. Da tempo sosteniamo che il gioco di vincoli e risorse che emerge nel presente accadere delle famiglie e si esplicita di fronte a specifici eventi critici, attinge alla storia intergenerazionale che è essa stessa sede di vincoli e di risorse (Scabini, 1992): i membri delle famiglie in quanto soggetti di azioni sono soggetti alla storia delle relazioni. In altri termini, per comprendere qual è il senso, cioè la direzione verso la quale conduce il rischio, bisogna esaminare l'influenza reciproca che avviene qui ed ora, nel nucleo attuale ma tenere lo sguardo anche sulla verticalità degli scambi e dei mandati tra le generazioni. Il rischio, sia nel senso dello scoglio che nel senso della opportunità, va letto a partire dai vincoli che le generazioni precedenti hanno tessuto in merito al sempre rinnovato equilibrio tra cura o trascuratezza, fiducia-sfiducia, giustizia-ingiustizia, ordine-disordine. Parlando di vincolo intendiamo sottolineare l'aspetto di necessità presente nelle vicende familiari (destino), necessità che è lontana dal determinismo poiché assegna al passato la stessa variabilità del presente e del futuro. Il presente è il risultato di una serie di scelte, non necessariamente consapevoli e dunque calcolate, tra opzioni agite da membri familiari ed è solo ex post, secondo un criterio di razionalità limitata, che noi possiamo operare connessioni e cogliere la «necessità» 8. Sulla base delle indicazioni fin qui formulate possiamo distinguere diversi livelli e tipi di rischio familiare.  

Famiglie messe alla prova.

  In altre situazioni l'ostacolo, lo scoglio incontrato dalle famiglie è rappresentato da un evento traumatico. Mentre nel caso precedente l'ostacolo è dentro la storia della

famiglia, in questo caso l'ostacolo è avvertito come estraneo, un evento che si para dinanzi davanti alla famiglia e che richiede di essere affrontato. È il caso della nascita di un bambino con handicap, oppure della perdita precoce di un genitore o di un figlio, o ancora, della malattia grave di un membro familiare. L'evento sfugge al controllo delle persone, si impone nella sua rilevanza ai familiari che si trovano a gestire perdite che sono ferite inferte all'integrità stessa del corpo familiare. In tali circostanze le famiglie, colpite dalla sorte, dal caso imprevedibile 9 e fatale, vengono messe alla prova. L'evento, nella sua dolorosa contingenza, spinge i familiari ad un lavoro di ricerca di attribuzione di significati, nel quale vengono giocate le credenze, i valori, le norme che le famiglie hanno elaborato nel corso della loro storia. L'evento critico produce un inevitabile momento di disorganizzazione delle modalità abituali di funzionamento della famiglia, cui la famiglia può reagire con specifiche abilità adattative 10 L'esito di questo attivo lavoro di coping familiare non è certo, dipende dalle circostanze dentro cui l'evento si è prodotto e dalle risorse, individuali e familiari, che l'evento svela o attiva.  

Famiglie che «scelgono il rischio».

Una situazione ancora differente dalle precedenti è quella in cui le famiglie scelgono il rìschio. Può essere il caso di adozioni, affidamenti eterofamiliari, divorzi, ma anche di matrimoni precoci, o all'estremo opposto, tardivi. In questi casi il rischio più che essere legato alle situazioni in sé, è legato alla modalità con cui la famiglia affronta tali evenienze: c'è, possiamo dire, chi si getta al rischio o chi si apre al rischio. Nel primo caso, ci si butta e ci si lancia come è di chi sta, si pone e si sente al limite. Le persone si collocano al punto estremo, avvertono che non c'è nulla da perdere, si lanciano nell'avventura senza valutare il pericolo. Lo spazio da cui si butta non è avvertito come base di appoggio per esplorazioni temporanee ma come terreno pericoloso da cui ci si deve distaccare e prendere congedo. Siamo nel campo della ricerca del nuovo non tanto per poter sperimentare la propria libertà, quanto, al contrario, per sfuggire da una situa/ione inospitale. E così il pericolo, proprio per la caratteristica di influenzamento che segna Tinterumano, facilmente si diffonde: è il sentirsi in pericolo che spinge paradossalmente al pericolo. Le famiglie rimangono intrappolate e irretite nel processo che loro stesse hanno avviato per risolvere problemi che non sono stati in grado di affrontare. In tal modo la mancanza di difese e di risorse, nonché l'eccesso di esposi/ione non fa coltivare la misura e ciò che appare come spontaneità e libertà di azione è in realtà vincolo e pressione. L'area di rischio è là dove non si percepisce e non si tematizza il pericolo, non si ha il senso di un rapporto tra vantaggi e danni, non si assume un incerto futuro, si agisce in maniera inconsapevole perché non se ne può fare a meno. Ciò che conta è acquietare

subito la tensione presente 11. Nel secondo caso, quello dell'apertura al rischio, i familiari scelgono ed assumono il rischio. Essi si dispongono di fronte ad un evento ed accettano di mettersi alla prova. Parliamo di famiglie che rischiano perché esse hanno un certo controllo ilei rischio, nel senso che i familiari decidono quando effettuare la scelta, negoziano le divergenze e valutano, per quanto possibile, gli aspetti positivi e quelli negativi. La consapevolezza di operare una scelta permette di immaginare ed anticipare gli effetti del rischio: e ciò non nega, ma anzi conferma, la presenza di un'area di incertezza che si pone di fronte alle famiglie come ostacolo/opportunità. In altri termini i membri della famiglia non negano, ma anzi si rappresentano la paura di eventuali fallimenti ed il carattere probabilistico del corso degli eventi; ma nel contempo si aprono al futuro, che è contraddistinto, nell'esposizione al rischio, da assunzione di impegno. Non è una valutazione in termini di costi-benefici che guida l'azione dei membri della famiglia che si aprono al rischio. Ciò che li muove all'azione è altro dal rischio come valore in sé, ma piuttosto il rischio come scelta valoriale, esplicita È con il coraggio del rischio che da sempre l'uomo si salva dall'insignificanza e dall'anonimato anche se, da un punto di vista psichico, paga un tributo in termini di assunzione di angoscia. Questa modalità di affrontare il rischio ricalca in gran parte il processo con cui l'adolescente affronta il processo di individuazione. Avvertendo come invivibile la sua incerta situazione evolutiva l'adolescente tende ad oltrepassare i limiti, spesso in modo inconsapevole e poco calcolato. L'aspetto positivo di questo osare, la ricerca di nuovi confini del sé, si scontra il pericolo del perdersi o nel precipitare in terreni ancora più angusti dei precedenti. Spetta all'adulto vigilare e contenere gli aspetti pericolosi di questa sperimentazione del rischio A sua volta l'incontro è foriero di ulteriori rischi che andranno assunti e giocati dagli attori. Ricordiamo infatti che nel termine incontro il suffisso «contro» indica l'originaria ambiguità degli scambi umani, sempre in bilico tra opposizione e ostilità (scontro) ed intesa e vicinanza (incontro). Vale a dire che ciò che accomuna e avvicina è anche ciò che può allontanare e mettere in contrasto. In tal modo la ruota dell'avventura umana riprende il suo cammino e spinge ad ulteriori negoziazioni delle relazioni A differenza della odierna società rischiosa che ha nel mercato il suo paradigma e nella quale il rischio è guidato da criteri di utilità, le famiglie che si aprono al rischio paiono essere mosse da quell'ethos tipicamente familiare improntato allo scambio simbolico (gratuito e reciproco) e da un desiderio ed impegno nella relazione che ha in sé il suo prezzo e il suo guadagno.    

La malattia dell'anziano.

 

Nel caso della malattia dell'anziano la famiglia è messa alla prova da un evento critico che la spinge ad affrontare la maggiore sfida evolutiva dell'esistenza, quella dell'accettazione della vita passata e del presente e della morte che incalza. La malattia, soprattutto ad una certa età, annuncia che si sta attuando un passaggio tra le generazioni, che una generazione sta per scomparire e che un'altra è chiamata in prima linea a sostituirla nella storia della famiglia. Da questo punto di vista l'anziano e i suoi componenti sono chiamati ad elaborare l'inevitabilità del limite e la necessità del distacco. In altri termini la malattia obbliga i familiari a interrogarsi sul senso complessivo delle relazioni che hanno intessuto e, in senso forte, sulle modalità di affrontare e di significare la vita e la morte. Dall'incontro avuto con le famiglie che hanno partecipato alla ricerca 15 la duplicità semantica del concetto di «rischio» emerge in tutta la sua evidenza e aiuta a svelare l'ambiguità inerente all'evento della malattia dell'anziano. Molto sinteticamente possiamo dire che essa può avere un impatto diverso sulla organizzazione familiare a seconda che risulti «pensabile» all'interno dell'orizzonte familiare, attivi qualche modello relazionale e affettivo di riferimento o, al contrario, risulti del tutto irrappresentabile e portatrice esclusivamente di minacce e di rovina. In questa seconda circostanza è il contesto familiare, in particolare il dispiegarsi nel tempo dei legami familiari che permette di verificare se la malattia possa avere unicamente valenze pericolose per la famiglia o, invece, rappresenti l'occasione di una risignificazione positiva dei legami. Quando l'evento malattia è inserito in un contesto di relazioni che lo imprigionano, non può ricevere molta attenzione e cura, perché i familiari sono occupati a difendersi da una minaccia che travalica e supera la stessa malattia. Può trattarsi di rivalità fraterne che la cura dell'anziano mette al centro della scena familiare; o di abbandoni coniugali e/o filiali che avvenuti molti anni prima, adesso, con la malattia dell'anziano, possono trovare la possibilità del redde rationem. Ad un altro livello il nucleo problematico, l'area vulnerabile e pericolosa della famiglia, può invece riguardare il futuro. Ecco allora che la malattia funziona da anticipatore di ostacoli futuri rispetto ai quali i familiari si sentono impreparati. A seconda delle circostanze il tema affettivo attorno al quale i familiare strutturano il loro racconto può riguardare l'angoscia indicibile del dolore, il rifiuto della dipendenza, la paura della frantumazione familiare in seguito alla morte dell'anziano capofamiglia, centro di aggregazione per la famiglia. Nelle situazioni in cui l'evento critico si presenta come ostacolo l'azione familiare si fa convulsa, affannata o stancamente ripetitiva. Ci si rifugia nell'autarchia familiare nell'onnipotente convinzione che sia possibile non dipendere da nessuno e che le risorse familiari siano ampiamente sufficienti per affrontare problemi o, specularmente, si proietta sui servizi tutte le difficoltà, la rabbia e l'impotenza che la malattia provoca. Utilizzando le categorie dello spazio e del tempo quali indicatori dei livelli di funzionamento familiare, si è potuto constatare che nelle situazioni di difficoltà lo spazio viene affollato di persone o di servizi che si affannano in operazioni di cui non sanno cogliere il significato o, all'opposto, assistiamo ad una desertificazione delle relazioni sia all'interno della famiglia sia nei rapporti con l'esterno, con i familiari e più spesso il caregiver pericolosamente sacrificato nella cura dell'anziano

malato. Il tempo viene invece spezzettato e disarticolato per cercare di riprodurre un presente immobile, nel quale il passato o il futuro possano non esercitare la loro minacciosa influenza e rimangono confinati al di fuori delle preoccupazioni dei familiari 16. La malattia è scoglio che mette duramente alla prova i familiari, ma può anche risultare salvazione, nel senso di offrire ai familiari l'opportunità, presumibilmente l'ultima, di risolvere antiche contese e portare a termine il processo di trasmissione generazionale. In alcuni casi infatti i racconti ci dicono che la malattia dell'anziano, pur nel dolore, può rivelarsi ulteriore fattore di coesione tramite, ad esempio, l'interiorizzazione delle qualità e dei valori dell'anziano. Così in questa «presenza che oltrepassa la morte», il corpo familiare può elaborare la perdita e trasformarla in eredità comune. In altre occasioni, il peggioramento delle condizioni di salute dell'anziano rappresenta l'opportunità per intraprendere azioni rischiose (l'istituzionalizzazione) che, tramite la messa in discussione di equilibri consolidati ma percepiti come insoddisfacenti, riescono ad approdare ad un riequilibrio dei rapporti. Spesso in tali situazioni «un terzo societario» funziona da moderatore e modulatore delle tensioni che si sono venute a creare all'interno dell'organizzazione familiare. In questi casi il rischio della transizione ha assunto i connotati dell'opportunità perché all'interno dell'organizzazione familiare viene preservata un'area, nella quale i familiari possono muoversi e quindi pensare, attribuire significati, individuare e mobilitare risorse individuali e di gruppo. Il dolore che la malattia provoca si configura allora come principium individuationis (Natoli, 1986) che allontana, accerchia e divide (lo scoglio-limite), ma anche come luogo privilegiato di identificazione dal momento che ripropone il destino comune della nostra umanità. Il disagio e il dolore vengono così trasformati in risorsa, occasione di una profonda esperienza umana e strumento in grado di realizzare solidarietà tra le generazioni.  

Conclusioni

  In questo articolo abbiamo cercato di mostrare come il rischio possa rappresentare una utile categoria concettuale per comprendere alcuni fenomeni familiari. Privilegiando come unità di analisi le relazioni familiari così come si sviluppano nel corso del tempo, abbiamo potuto considerare come ci siano situazioni, considerate nel presente, in cui il destino incombe e la possibilità di aprirsi al rischio risulta vanificata dal peso della storia familiare. In altre circostanze le famiglie si trovano ad affrontare situazioni rischiose: può essere una prova da superare o una scelta intrapresa in maniera più o meno consapevole, più o meno azzardata. Non possiamo sapere a priori quale sarà l'esito di tale situazione rischiosa.

Possiamo solo prestare attenzione all'azione familiare come prodotto delle vicende intergenerazionali e seguire tali vicende per comprendere se, come e chi si trova in pericolo e per capire quali sono le opportunità e le risorse che la situazione di rischio mette in gioco. È a questo livello che si situa, a nostro parere, lo specifico dell'intervento degli operatori. Lavorare con le famiglie a rischio significa utilizzare l'aspetto di opportunità insito nel rischio e impedire il passaggio dal rischio al pericolo. Il compito-obiettivo dell'operatore è quello di accogliere un tema familiare, penetrarne il senso profondo relativamente ai rapporti tra le generazioni, restituirlo ai membri familiari nelle forme e nei modi più adatti al suo trattamento, giacché la possibile trasformazione è sempre attivata e realizzata dai membri stessi della famiglia. .Aspetti psicosociali della fase: il mutamento culturale del significato del figlio  

Aspetti psicosociali: il mutamento culturale del significato del figlio

 

Il figlio come scelta

Si è visto come il calo demografico sia l’elemento rilevante nelle trasformazioni della famiglia in ambito Occidentale, in particolare nel nostro Paese. La diminuzione numerica dei figli non vuol dire però calo d’interesse e d’investimento nei confronti del bambino al contrario culturalmente l’enfasi sul figlio pare, nei secoli e nei decenni aumentare. Molto sinteticamente possiamo dire che assistiamo, dall’Ottocento fino a metà del Novecento, alla nascita e all’espansione della famiglia nucleare borghese puerocentrica. Questa è definita puerocentrica nel senso che investe fortemente sui figli, visti come strumento e molla di quella riuscita familiare che è stata la base dell’economia capitalistica. Adesso tale dinastia privatizzata è trascorsa e sostituita con un nuovo tipo di puerocentrismo, che presenta sempre più chiaramente aspetti di ripiegamento narcisistico: il figlio è sempre più una forma dì realizzazione dell’adulto. L’attuale atteggiamento culturale ha definito un puerocentrismo presuntuoso ed è rinforzato da un elemento chiave che ha segnato la transizione alla genitorialità negli ultimi decenni: la scelta. La nascita di un bimbo è divenuta, infatti, a differenza del passato, un avvenimento scelto. La procreazione non rappresenta più un destino biologico, ma è il risultato di una scelta, nella maggior parte dei casi condivisa, di un desiderio di autorealizzazione d’entrambi i membri della coppia. Per secoli la nascita dei figli è stata vissuta come un accadimento naturale di cui poco si sapeva e che non si poteva programmare, la possibilità di scegliere non solo di avere figli, ma anche di decidere quando averne, appare come un fatto assolutamente nuovo e decisivo sulla scelta della nostra realtà sociale, ove il dilemma di divenire genitori rappresenta il fondamentale rito dì passaggio all’età adulta. Ora che lo sviluppo tecnico ha reso, nella civiltà occidentale, la vita molto più comoda a tutti, e il pericolo esterno tende a essere concepito come nullo, il bambino, da subito, dal suo concepimento, è rappresentato come un bene duraturo, su cui fare affidamento. Un figlio voluto è, così, spesso caricato di notevoli attese. I genitori investono molto, forse troppo, nei pochi eredi che mettono al mondo, e ciò può costituire per le nuove generazioni una difficoltà, poiché sente di dover corrispondere a una profonda immagine di sé. Nella società contemporanea, dunque, il figlio diviene facilmente soggetto di diritti, poiché oggetto di preoccupazione altrui. Il bambino/figlio rischiano così di perdere le loro dimensioni di soggetti desideranti e di diventare un contenitore delle difficoltà dei genitori o una forma di realizzazione di questi ultimi, uno schermo di proiezione delle loro aspirazioni, com’è evidente negli atteggiamenti di quegli adulti che fanno della riuscita dei figli un banco di prova della loro capacità genitoriale. In altre parole, la diminuzione delle nascite e il loro carattere di avvenimento scelto portano con sé una sorta di concentrato emozionale nella relazione genitori-figli che, spesso è rilevante e

tende a sbilanciare la dinamica familiare in un’impasse irrisolta tra affetto e legge, in un disequilibrio tra aspetti materni e paterni. Sono questi i paradigmi estremi di una procreazione all’insegna del controllo. La recente diffusione delle tecniche di procreazione assistita, sembra aver originato un arduo mutamento di senso nella dimensione antropologica e sociale della genitorialità: in effetti, l’attuazione di alcune procedure che richiedono l’intervento di gameti maschili o femminili, opera una scissione tra genitorialità biologica e genitorialità sociale e educativa, dando luogo a un’inevitabile moltiplicazione e frammentazione delle figure parentali; si assiste oggi al rifiuto del figlio e alla rinuncia volontaria ad avere figli. Le motivazioni ad abortire più note sono ad esempio difficoltà economiche, problemi di salute, la stretta connessione esistente tra la qualità del rapporto di coppia e il proposito abortivo, la problematicità o lo stato di conflitto della relazione interpersonale, oppure, il timore di alterare in qualche modo i rapporti con il partner dopo la nascita di un figlio. La transizione alla non-parenthood avviene in modo quasi inconsapevole, in seguito a un gioco di rinvii, nell’attesa di una situazione personale o di coppia più adeguata, sino a che si prenda atto di non aver avuto figli. In genere, questo meccanismo si basa sulla progressiva organizzazione di uno stile di vita adult-centered, realizzabile solo in assenza di figli, e sul fatto di porre in alternativa funzioni e fattori che pure potrebbero coesistere: maternità o carriera, figli o disponibilità finanziarie, sacrificio o realizzazione personale.Il comportamento generativo tra costi familiari e benefici collettivi La società odierna concepisce la reciprocità familiare annessa all’area degli affetti e la reciprocità economica è trasferita nello scambio generazionale sociale. Nella società premoderna e moderna il figlio era un costo ma tale costo rientrava in famiglia, perché il bambino diventato adulto era anche la principale fonte di sostentamento delle generazioni anziane. Sgritta sostiene che non sono più i figli che provvedono al mantenimento dei genitori, piuttosto, tramite il meccanismo delle pensioni, le generazioni riproduttive che sono in età lavorativa, i giovani e gli adulti, i quali s’impegnano a sostenere le generazioni improduttive, gli anziani e i vecchi; generici giovani e adulti delle generazioni successive che pagano i costi della sicurezza sociale di generici anziani e vecchi delle generazioni precedenti. Il bambino nella società attuale è fondamentalmente un costo che, per essere sostenuto, ha bisogno di un’elevata motivazione affettiva. Coleman sostiene che quando gli individui di una generazione non dipendono più, finanziariamente, dal successo o dal fallimento dei propri figli, una delle conseguenze possibili è la mancanza d’interesse degli adulti ad allevare i figli: a tale passione si sostituisce l’interesse dell’individuo per il proprio futuro o il valore della coppia per il proprio benessere. Il declino delle nascite non è tanto prodotto di una selfish generation: esso è largamente frutto di un’indifferenza strutturale della società nei confronti delle famiglie e di un’asimmetrica ripartizione tra costi privati e benefici collettivi. In questa situazione gli elementi si self-interest prende il sopravvento e, a livello di motivazione psicologica individuale, si registra un innalzamento delle motivazioni autocentrate; sono almeno in parte il frutto di una non equilibrata dialettica tra scambio sociale e scambio familiare. In questo quadro l’elemento di scelta procreativa che, a livello soggettivo, è stato vissuto come aumento di responsabilizzazione, a livello sociale ha avuto l’effetto di rendere la generatività, è considerato un fatto privato. Con ciò si è impedito che esso assumesse il rilievo di un problema comune e da condividere; la società si è totalmente deresponsabilizzata e non ha cercato di garantire l’equilibrio tra le generazioni. Il legame

intergenerazionale è familiare e sociale al tempo stesso, e se non se ne vedono i nodi, gli adulti diventano ciechi e non più in grado di proteggere la propria funzione riproduttiva.

2. Compiti di sviluppo coniugali e intergenerazionali:

 dalla diade alla triade

Il figlio irrompe nella coppia e vincola in maniera indelebile il legame genitoriale che si viene a costituire. Il legame genitore- figlio è per sempre: si può mettere fine a qualsiasi rapporto tranne che all’essere genitori. Passare dall’essere solo coniugi a essere anche genitori è perciò una transizione chiave(McGoldrick, Heiman e Carter). Con il passaggio alla fase genitoriale, la famiglia si trasforma in una triade, che assume, per la prima volta, l’immagine di un sistema permanente. Con la nascita del primo figlio, la storia familiare si arricchisce della presenza di una terza generazione. Occorre riflettere sulla portata intergenerazionale di questo evento. La nascita di un figlio, infatti, si può definire l’evento critico per eccellenza perché, provocando l’entrata in scena di una nuova generazione, obbliga a una ridefinizione delle relazioni familiari e a una conseguente nuova distribuzione dei ruoli.La coppia si trova innanzitutto a gestire quello che si può definire il compito fondamentale richiesto in questa fase del ciclo di vita, e che McGoldrick, Heimen e Carter indicano come il salire di una generazione prendendosi cura della generazione più giovane. La difficoltà che si riscontra a questo livello, quando è marcata, denuncia l’incapacità dell’adulto di accettare il confine gerarchico tra sé e i propri figli. I neogenitori non riescono ad attuare questo salto generazionale, che è molto più di una nuova assunzione di ruolo, ma è l’acquisizione di una nuova relazione. Essa ha un’incidenza cruciale nella definizione della propria identità, che acquisisca nuovi e importanti connotati. L’accettazione di una nuova generazione significa inoltre che il sistema familiare deve saper tollerare le modifiche, anche strutturali, che ne conseguono. Ogni figlio successivo al primo provocherà quindi ulteriori consistenti mutamenti alla struttura del sistema e aggiungerà ai compiti evolutivi fondamentali la gestione della relazione fraterna. Hinde e Stevenson- Hinde hanno schematizzato le fasi e i cambiamenti del sistema familiare che si presentano nei primi due anni dopo la nascita di un secondo figlio. Da questa nuova posizione gerarchica i neogenitori svolgeranno quella funzione di continua copertura di cui il bambino piccolo ha bisogno. Due sono gli aspetti fondamentali di questa copertura: fornire affetto e dare contenimento e direzione alla crescita attraverso il rispetto della legge, e con essa delle norme. In altri termini, vanno garantiti gli aspetti protettivi tipici del codice materno e gli aspetti emancipativi del

codice paterno. L’affetto permette al bambino di assimilare vitalità, calore, fiducia, stima; la legge di acquisire il senso di cosa è bene e ciò che è male, lo pone di fronte al limite aiutandolo a riconoscere la realtà esterna, fisica e sociale, con cui deve fare i conti e nella quale deve inserirsi e dare il suo costruttivo contributo. Nella cultura contemporanea sono presenti diverse norme di relazione in cui si osserva una sproporzione tra affetto e legge. Nelle relazioni caratterizzate da iperprotettività, il polo dell’affetto lascia in realtà il bambino in balia dei sentimenti degli adulti, invasivi, ambivalenti e spesso imprevedibili. All’ipertrofia dell’affetto senza legge si contrappone purtroppo, ancora molto spesso, l’ipertrofia della legge senza affetto. Tra genitore e figlio s’instaurerebbe cioè, già dalla nascita del figlio, un dialogo reciproco basato sia sulla sincronizzazione dei comportamenti, sia sulla sintonizzazione degli affetti. L’affidabilità dei legami (Gossmann, 1993) è una variabile cruciale dello sviluppo e dell’acquisizione dell’identità. La nascita dei figli, non ha a che vedere solo con l’adulto poiché genitore, ma ha anche notevoli effetti sulla relazione coniugale. La capacità di distinguersi diventa, infatti, fondamentale quando è necessario fare spazio a una terza presenza che ha diritto a occupare un posto e non può limitarsi a riempire un vuoto o a soddisfare unicamente un’esigenza del genitore. Quando i coniugi non sono in grado di costruire una solida alleanza tra loro, assistiamo a fenomeni quali la triangolazione, descritta, tra gli altri come triangolo perverso nel quale si attua un’alleanza di un coniuge con un figlio contro l’altro coniuge. La ricerca empirica ha affrontato il rapporto tra la relazione coniugale e la relazione genitoriale. Sotto l’azione del paradigma sistemico si sono ipotizzate connessioni tra i due sottoinsiemi nel senso di una loro coerenza: genitori che vivono il rapporto coniugale in modo soddisfacente sono in grado di garantire ai loro figli un clima positivo e favoriscono la loro crescita sociale. Si è così visto che la relazione coniugale influenza di più la relazione padre-bambino rispetto a madre-bambino. L’equilibrio tra le due organizzazioni, coniugale e genitoriale, è molto delicato. Per quanto riguarda i compiti che competono ai due neogenitori poiché figli, possiamo innanzitutto osservare che, dopo la formazione della coppia, evento critico nascita e allevamento dei figli rappresenta il secondo potente elemento di modificazione e di sviluppo anche in relazioni tra le due generazioni, nella direzione di una parificazione e di avvicinamento psicologico perseguiti grazie al comune ruolo genitoriale e a una migliore regolazione della reciproca distanza (Blieszner e Mancini, 1987). Questa capacità di superare la barriera gerarchica intergenerazionale, riconoscendo l’uomo e la donna che sta dietro ai ruoli del proprio padre e della propria madre, garantisce alla coppia la possibilità di ristrutturare le relazioni con le famiglie d’origine e, attraverso una partecipata comprensione della generazione anziana, di fare esperienza della cura della riconoscenza. Il compito delle generazioni anziane è quello di sostenere i figli a distanza nel loro nuovo ruolo e di partecipare alla vita dei nipoti assumendosi la nuova identità di nonni. Tale posizione di sostegno a distanza deve evitare di divenire invadente o disinteressato, i nonni devono spostarsi indietro di una posizione (must shift to back seat) permettendo ai loro figli di divenire le autorità parentali centrali.

3. I temi della ricerca

Pochi sono invece gli studi che osservano la triade e la tetrade come un insieme o che esaminano sottoinsiemi connessi, e ciò è da imputare alla comprensione familiare e ai problemi metodologici che insorgono tutte le volte che si va di là dall’individuo e della diade. Bisogna considerare le problematiche più ricorrenti concernenti gli effetti della nascita di un bambino sulla relazione coniugale, sull’organizzazione dei ruoli parentali e sulla costruzione di un nuovo equilibrio con l’ambiente esterno, espresso principalmente dal tema del lavoro extradomestico. Soddisfazione coniugale e aspettative di ruolo: Le ricerche esemplificano l’effetto positivo della presenza di un nuovo nato soprattutto in termini di benefici emotivi quali l’arricchimento che la famiglia ne trae, lo sviluppo del sé e del processo d’identità dei genitori, l’aumento della coesione familiare. Si può osservare come la nascita di un figlio implichi anche notevoli vincoli e difficoltà. L’accresciuta responsabilità per una nuova vita, a lungo dipendente dai genitori, crea spesso problemi alla coppia genitoriale e favorisce anche l’aumento di tensioni relazionali tra marito e moglie. Gli effetti della nascita dei figli, sulla qualità della relazione coniugale sono stati studiati empiricamente per quanto riguarda la soddisfazione coniugale. Hanno rilevato una diminuzione progressiva della soddisfazione coniugale, soprattutto per la donna, imputabile a uno spostamento dell’asse affettivo- relazionale dal coniuge al figlio, nonché l’aumento di stato conflittuale della coppia. Molte di queste ricerche hanno prestato attenzione ai processi socio cognitivi, correlando la capacità di far fronte alla transizione con un circa accentuato conflitto tra le aspettative e le credenze coltivate prima dell’arrivo del figlio e l’esperienza successiva. Questo confronto tra aspettative ed esperienza effettiva ha consentito una rilettura anche dei numerosi cambiamenti di tipo organizzativo che la coppia si trova ad affrontare. È opportuno ricordare, che una parte considerevole dei vincoli che la nascita di un bambino pone, riguardano appunto, la sfera della gestione concreta del tempo e dei mutamenti organizzativi che tale evento comporta; esempio: la fatica fisica richiesta dai genitori, la mancanza di tempo per se stessi, le restrizioni nell’ambito casalingo, sociale e ricreativo. Una peculiarità di questa fase è, infatti, quella di essere caratterizzata da aspetti di riorganizzazione domestica ed extradomestica che non si proporranno più con tale urgenza nei successivi passaggi evolutivi familiari. La donna è impegnata su più fronti, quello domestico e quello lavorativo, ed è richiesta una specifica abilità nella gestione dei pressanti impegni conseguenti alla nascita di un figlio. Tempo del lavoro e tempo della famiglia: Entrambi i neogenitori sono chiamati a elaborare modelli di responsabilità condivisa, nonché a riorganizzare il lavoro domestico rispetto agli impegni lavorativi e al tempo libero: ciò probabilmente è in linea col portato culturale odierno, che insiste sulla pariteticità dei coniugi e si rappresentano i ruoli come relativamente intercambiabili. I differenti pattern interpretativi secondo diversi autori sono:

Afferma che non esiste alcuna intercambiabilità di ruoli tra padre e madre. Pone l’accento, la complessità del cambiamento, numerosi padri partecipano attivamente alla cura dei figli, e si osservano differenti livelli di coinvolgimento secondo le differenti situazioni familiari. Per esempio: si assiste a una marcata presenza paterna nelle famiglie ricostituite, mentre nelle situazioni di separazione il padre, il padre appare prevalentemente latitante. In queste due aree di ricerca, emerge la differenza tra vari livelli di mutamento: di opinione e di atteggiamento da un lato, e di comportamento dall’altro. Il primo è sensibile agli aspetti sociali, ed è più rapido, di comportamento è certamente più complesso perché tocca il livello intergenerazionale dell’identificazione e ha tempi lunghi. Rilevano come il padre sia maggiormente coinvolto nella cura dei figli se perde il posto di lavoro o se la madre svolge un’attività extradomestica. “ Lewis: trae la conclusione che i cambiamenti, nella direzione di una maggiore partecipazione del padre, sono indotti più che da mutamenti culturali, da necessità di tipo socio strutturale “. Il tempo della famiglia viene sempre più regolato dall’esterno, da un ordine che corrisponde a esigenze sociali non familiari, che considera gli adulti che lavorano indipendentemente dal loro, essere membri responsabili di una famiglia. Il nodo strutturale che andrebbe affrontato è: Armonizzare tempo della famiglia e tempo del lavoro come obiettivo cruciale di politica sociale che alcuni paesi europei stanno cercando di affrontare, uscendo da una sterile logica che confina la famiglia in un inesistente privato. Oggi la regia della difficile composizione tra mondo del lavoro e mondo familiare sembra ricadere sulla donna; la donna si trova non solo a far combaciare il tempo familiare con quello lavorativo, ma anche a mantenere i contatti sociali, in un delicato e complesso lavoro d’intarsio denominato da Balbo: PATCHWORK SYSTEM; la donna, in tale lavoro, è in genere supportata dalla famiglia d’origine soprattutto dalla propria madre. La famiglia estesa avrà perciò un ruolo cruciale, facilitatore o inibitore di sviluppo all’interno di quella rete di sostegno alla quale la famiglia con i bambini piccoli dovrà fare appello per assolvere i suoi compiti evolutivi. La nascita è un evento relazionale che può essere interpretato correttamente solo attraverso una prospettiva familiare che include anche il padre e i fratelli- e intergenerazionale.