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Note e discussioni Modelli di famiglia nella realtà italiana di Gloria Chianese La storiografia sulla famiglia inizia a conse- guire anche in Italia risultati interessanti. Essa è stata profondamente influenzata dalla pro- duzione che soprattutto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, si è avuta negli anni settanta. Ad una fase di riflessione sui nodi tematici e le proposte metodologiche dei differenti in- dirizzi stranieri, è seguito, infatti, l’avvio di numerose ricerche, incentrate principalmente su realtà dell’Italia centro-settentrionale, di cui è possibile oggi trarre un primo bilancio. In particolare il volume di Marzio Barba- gli, Sotto lo stesso tetto, Mutamenti della famiglia in Italia dal X V al X X secolo (Bo- logna, Il Mulino, 1984) e l’antologia curata da Agopik Manoukian, I vincoli familiari in Italia dal secolo X I al secolo X X (Bologna, Il Mulino, 1983) consentono di avere un quadro completo delle indagini condotte, di cogliere la ricchezza dei risultati conseguiti ed infine di iniziare un confronto tra lo svi- luppo storico della famiglia in Italia e gli al- tri modelli europei. Peraltro, entrambi gli studiosi hanno curato in precedenza la pub- blicazione di ampie rassegne della storiogra- fia straniera nei suoi diversi approcci: anali- si demografico-quantitativa, genesi e dina- mica delle relazioni familiari, storia dei sen- timenti ecc.1. Anche per il caso italiano gli indirizzi me- todologici sono assai differenziati e si muo- vono in un ambito tematico molto vasto e complesso di cui, soltanto a mo’ di indica- zione, si suggeriscono quattro nuclei priori- tari: la struttura familiare, il sistema di rela- zioni, i processi di mutamento, il rapporto tra famiglia ed ambiti istituzionali. L’arco temporale è molto ampio perché le indagini si muovono tra età moderna e contempora- nea. Ovviamente è scartato ogni criterio di successione cronologica, mentre, invece, ciò che interessa conseguire è la dimensione diacronica dei problemi scandagliati. Il libro di Barbagli presenta, tutto som- mato, una maggiore organicità e consente di trarre alcune prime conclusioni sulla con- figurazione della microstruttura familiare. Un primo ordine di problemi investe la ti- pologia dell’aggregato domestico e ciò ri- manda necessariamente al dibattito sui cri- teri di definizione dei modelli ed, in partico- lare, alle tesi di Peter Laslett e del Cambrid- ge Group for the study of population and social structure. Come è noto, essi ipotizza- no per l’Inghilterra, e più in generale per l’Europa nord-occidentale la permanenza, nel lungo periodo, di un modello familiare nucleare, che ha avuto come tratti distintivi la neo-località, il matrimonio tardivo, il life cycle servants. 1 Cfr. Agopik Manoukian, Famiglia e matrimonio nel capitalismo europeo, Bologna, Il Mulino, 1974 e Marzio Barbagli, Famiglia e mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, 1977. “Italia contemporanea”, settembre 1986, n. 164

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Note e discussioni

Modelli di famiglia nella realtà italianadi Gloria Chianese

La storiografia sulla famiglia inizia a conse­guire anche in Italia risultati interessanti. Essa è stata profondamente influenzata dalla pro­duzione che soprattutto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, si è avuta negli anni settanta.

Ad una fase di riflessione sui nodi tematici e le proposte metodologiche dei differenti in­dirizzi stranieri, è seguito, infatti, l’avvio di numerose ricerche, incentrate principalmente su realtà dell’Italia centro-settentrionale, di cui è possibile oggi trarre un primo bilancio.

In particolare il volume di Marzio Barba­gli, Sotto lo stesso tetto, Mutamenti della famiglia in Italia dal X V al X X secolo (Bo­logna, Il Mulino, 1984) e l’antologia curata da Agopik Manoukian, I vincoli familiari in Italia dal secolo X I al secolo X X (Bologna, Il Mulino, 1983) consentono di avere un quadro completo delle indagini condotte, di cogliere la ricchezza dei risultati conseguiti ed infine di iniziare un confronto tra lo svi­luppo storico della famiglia in Italia e gli al­tri modelli europei. Peraltro, entrambi gli studiosi hanno curato in precedenza la pub­blicazione di ampie rassegne della storiogra­fia straniera nei suoi diversi approcci: anali­si demografico-quantitativa, genesi e dina­mica delle relazioni familiari, storia dei sen­timenti ecc.1.

Anche per il caso italiano gli indirizzi me­

todologici sono assai differenziati e si muo­vono in un ambito tematico molto vasto e complesso di cui, soltanto a mo’ di indica­zione, si suggeriscono quattro nuclei priori­tari: la struttura familiare, il sistema di rela­zioni, i processi di mutamento, il rapporto tra famiglia ed ambiti istituzionali. L’arco temporale è molto ampio perché le indagini si muovono tra età moderna e contempora­nea. Ovviamente è scartato ogni criterio di successione cronologica, mentre, invece, ciò che interessa conseguire è la dimensione diacronica dei problemi scandagliati.

Il libro di Barbagli presenta, tutto som­mato, una maggiore organicità e consente di trarre alcune prime conclusioni sulla con­figurazione della microstruttura familiare. Un primo ordine di problemi investe la ti­pologia dell’aggregato domestico e ciò ri­manda necessariamente al dibattito sui cri­teri di definizione dei modelli ed, in partico­lare, alle tesi di Peter Laslett e del Cambrid­ge Group for the study o f population and social structure. Come è noto, essi ipotizza­no per l’Inghilterra, e più in generale per l’Europa nord-occidentale la permanenza, nel lungo periodo, di un modello familiare nucleare, che ha avuto come tratti distintivi la neo-località, il matrimonio tardivo, il life cycle servants.

1 Cfr. Agopik Manoukian, Famiglia e matrimonio nel capitalismo europeo, Bologna, Il Mulino, 1974 e Marzio Barbagli, Famiglia e mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, 1977.

“Italia contemporanea”, settembre 1986, n. 164

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Barbagli ritiene che tale schema non sia applicabile alla famiglia italiana perché, sia in età moderna che contemporanea, si è avu­ta la compresenza di aggregati domestici complessi e semplici, che hanno, di volta in volta, riflesso la dicotomia città-campagna ed i processi di differenziazione delle classi sociali. Il caso più significativo è costituito dalla lunga permanenza della famiglia com­plessa nelle campagne di alcune regioni del centro-nord, permanenza che lo studioso pone in rapporto, anche se non in termini esclusivi, con il sistema di conduzione mez­zadrile. Tra i mezzadri, ed anche in alcuni settori di salariati fissi, come ad esempio i boari, l’aggregato esteso era diffusissimo fi­no agli ultimi decenni dell’Ottocento. Alla fine del secolo, in concomitanza con i pro­cessi di proletarizzazione agricola, iniziò la fase di crisi che ebbe una lunga gestazione. Attenuatasi durante il fascismo, si è esplici­tata pienamente soltanto nel ventennio 1950-1970.

I problemi connessi con la configurazione della struttura familiare sono analizzati quindi partendo dall’ipotesi che non sia esi­stito un modello egemone né, tanto meno, che vi sia stato un passaggio lineare dalla fa­miglia complessa a quella nucleare.

Così è possibile riscontrare che in età mo­derna nelle realtà urbane erano presenti en­trambe le strutture. L’aggregato semplice era diffuso tra i ceti artigiani, quello com­plesso tra i ceti aristocratici e mercantili. Lo studioso, per dimostrare tale asserzione, si richiama in primo luogo alla ricerca di D. Herlihy e C. Klapisch-Zuper sulla Firenze ri­nascimentale, che prende in esame il catasto del 1427 in Toscana2. Il discorso viene poi esteso ad altre tre città del centro-nord: Sie­

na, Parma, Verona, per le quali è possibile fare riferimento a precise rilevazioni, quali i censimenti della popolazione di Siena e di Parma, rispettivamente nel 1560 e nel 1545 nonché i libretti anagrafici di Verona del 1545. Pur avendo una configurazione demo­grafica ed economica differenziata, tutte le tre realtà urbane confermano “una relazione positiva tra ceto sociale di appartenenza e grado di complessità della struttura familia­re” (p. 170). Alle medesime considerazioni giunge anche Diane Owen Hughes, che prende in esame la famiglia genovese nel Basso Medioevo, in un saggio incluso nel­l’antologia di A. Manoukian3.

L’analisi dei modelli strutturali pone in ri­salto, come prima conclusione, il forte lega­me tra famiglia e collocazione sociale. Ma, anche in questo caso, il discorso non è sche­matico perché tiene conto di un insieme di differenziazioni e di controtendenze. Ad esempio, Barbagli ricorda che il modello di famiglia nucleare — e non l’aggregato do­mestico esteso — era diffuso tra i ceti brac­ciantili del Mezzogiorno e pone in rapporto tale caratteristica con l’assetto latifondista delle campagne. A differenza di quanto av­veniva con il mezzadro, il rapporto di lavoro sussisteva infatti con il singolo bracciante e non con l’intera famiglia contadina.

L’analisi della configurazione degli aggre­gati domestici non consente quindi ipotesi di generalizzazioni, ma sollecita l’approfondi­mento delle specificità spaziali e temporali; all’interno di questo ambito tematico si col­loca un secondo terreno di indagine che in­veste i processi di trasformazione dell’asset­to familiare nel medesimo ceto sociale. Prendiamo il caso della famiglia aristocrati­ca. Il modello complesso è stato una tenden-

2 Cfr. D. Herlihy e C. Klapish-Zuper, Les Toscans et leurs familles. Une étude du catasto florentine de 1427, Paris, Presses de la Fondation nationale de sciences politiques, 1978.3 Diane Owen Hughes, Sviluppo urbano e struttura della famiglia a Genova nel Medioevo, in A. Manoukian, cit., pp. 85-109.

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za di lungo periodo, che ha registrato, però, al suo interno, elementi di diversità. Barba­gli segnala che in età moderna si è avuto un incremento delle famiglie multiple verticali, che è da porsi in relazione con raffermarsi degli istituti del maggiorascato e del fede- commesso. In precedenza, invece, era pre­valso un modello di struttura complessa in senso orizzontale, che nel sistema ereditario tendeva a favorire buona parte dei figli e non soltanto la famiglia del primogenito.

Il problema del mutamento sussisteva an­che per la famiglia artigiana dove, come si è detto, era maggiormente diffuso l’aggregato domestico nucleare. In questo caso, nel lun­go periodo, non mutava la tipologia, bensì una sua caratteristica importante e cioè, il li­fe cycle servants. A partire dal Cinquecento, infatti, si modificava la composizione del personale di servizio che, fino ad allora, era stato composto da giovani di entrambi i ses­si, per lo più di età tra i quindici ed i venti­cinque anni. Nei ceti artigiani, ma anche in quelli agricoli, vi era la consuetudine che i figli andassero a servizio e ciò permetteva loro di creare le condizioni economiche per il successivo matrimonio, che avveniva in età più elevata, a confronto con le fasce gio­vanili degli altri gruppi sociali. Questa carat­teristica presentava alcune analogie con quanto riscontrato da Laslett nell’aggregato domestico agricolo inglese, in cui lavoro a servizio e matrimonio tardivo erano profon­damente connessi. In Inghilterra tale proces­so si mantenne costante, mentre in Italia si registravano, come si è detto, profondi mu­tamenti. Tendeva a scomparire la figura del garzone, in seguito alla differenziazione tra funzioni produttive e domestiche che matu­rava nella famiglia artigiana ed inoltre dimi­nuiva la quota dei servi maschi giovani, mentre cresceva la presenza femminile.

Lo studioso riconduce tutte queste tra­sformazioni ad una diversa configurazione della famiglia artigiana ed, anche, all’am­pliamento del ruolo dello stato che, pro­

gressivamente, tendeva a svolgere funzioni in precedenza esercitate dalla famiglia: “Fuori della famiglia tendevano cioè a veni­re spostate sia le attività produttive che quel­le riguardanti il trasporto dei suoi membri, la comunicazione delle loro corrispodenze, l’istruzione dei loro figli” (p. 233). La do­manda di personale di servizio veniva così probabilmente a contrarsi. Mutamenti e tra­sformazioni avvenivano dunque anche nei ceti sociali in cui la struttura della famiglia registrava una maggiore staticità. Il modello entrava in crisi nel momento in cui risultava superato da un nuovo assetto economico-so- ciale. Lo stesso retroterra ideologico, che ce­mentava la rete di relazioni familiari, veniva così ad infrangersi. Anche in questo caso le scansioni temporali erano differenziate a se­conda dei ceti sociali.

La famiglia estesa aristocratica maturava le proprie crisi alla fine del Settecento. Abo­liti gli istituti del maggiorascato e del fede- commesso, iniziava ad affermarsi il modello nucleare e la trasformazione dell’assetto strutturale coincideva con una profonda modifica degli schemi culturali, in quanto tendevano a svilupparsi codici di comporta­mento tipici della famiglia coniugale intima. Barbagli sottolinea la coincidenza dei diversi processi, che è possibile cogliere soltanto nei settori aristocratici e di ricca borghesia ur­bana.

Tutt’altro discorso è da farsi per la fami­glia estesa nelle campagne, dove i mutamen­ti hanno avuto una lentissima gestazione. La prolungata stabilità della famiglia contadina rimanda ad alcune caratteristiche dello svi­luppo economico del paese ed, in primo luo­go, alla commistione tra attività agricola e lavoro di fabbrica che è stata propria della classe operaia italiana per tutta una lunga fase del processo di industrializzazione. Di conseguenza nelle campagne l’affermazione del modello nucleare ha incontrato molte re­sistenze. Una significativa controtendenza si è avuta negli ultimi decenni dell’Ottocento

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quando all’incremento nelle aree settentrio­nali degli strati bracciantili ha corrisposto un qualche sviluppo dell’aggregato domesti­co nucleare. Ma in realtà la crisi della fami-’ glia estesa si è avuta soltanto successiva­mente, allorché le caratteristiche dello svi­luppo industriale hanno favorito la netta se­parazione tra città e campagna per cui la fa­miglia contadina, come microstruttura eco­nomica e culturale, non ha avuto più ragio­ne di riproporsi. Inoltre, negli strati agricoli l’adozione dei comportamenti della famiglia coniugale intima è stata ancora più tardiva e non ha seguito le trasformazioni struttura­li. Ciò è avvenuto anche in quelle fasce, co­me ad esempio, i braccianti meridionali, do­ve l’aggregato nucleare ha avuto una più antica diffusione. Le matrici di tali proces­si sono da ricercare su un piano più pro­priamente culturale e ciò rimanda alla ne­cessità di sviluppare ulteriori indagini sullo sviluppo storico della famiglia nel Mezzo­giorno4.

L’indagine quantitativa, che occupa sol­tanto una prima parte del volume Sotto lo stesso tetto, conferma quindi la compresen­za nel lungo periodo di diversi modelli di ag­gregato domestico che sono in rapporto alla configurazione delle classi sociali e subisco­no variazioni anche all’interno della propria struttura. Le conclusioni del Barbagli, così attente ad evidenziare gli elementi di diffe­renziazione, inducono a considerare con qual­che perplessità l’analisi recentemente elebora- ta da Laslett e dagli altri storici del Cambrid­ge Group for the study of population per la realtà italiana. Nel saggio collettaneo Forme di famiglia nella storia europea viene effet­tuata un’indagine comparata tra tipologie

familiari di diverse aree europee, che arric­chisce, ed in parte modifica, la tesi della lun­ga permanenza del modello nucleare nel­l’Europa nord-occidentale.

In particolare il Laslett definisce quattro ambiti geografici che hanno caratteristi­che differenti nel processo di formazione delle strutture familiari: area nord-occiden­tale, intermedia, mediterranea ed orientale5. Utilizzando come indicatore l’unità residen­ziale egli mette a confronto gli aggregati do­mestici di Elmdom (Inghilterra, 1861), Grosseenmer (Austria, 1885), Bologna e Fa- gagna (Italia, 1853), Krasnoe Mishino (Rus­sia, 1859).

Il caso italiano è analizzato attraverso due realtà di famiglia contadina presenti nell’Ita­lia nord-orientale a metà Ottocento; lo stu­dioso ritiene possibile, in base a tali limitate fonti quantitative, definire gli elementi sa­lienti del modello mediterraneo, che sarebbe caratterizzato dalla struttura estesa, dal­l’ampiezza media non eccessivamente eleva­ta, dal matrimonio precoce, dal basso tasso di neo-località. Se il campo d’indagine risul­ta troppo ristretto per trarre delle conclusio­ni generalizzabili, il discorso è invece più sti­molante sul piano dell’approccio metodolo­gico. L’analisi quantitativa, condotta nei di­versi saggi del volume, appare molto sofisti­cata sia per il tipo di fonti prescelte sia per l’ampia problematica, che pone in rapporto i processi costitutivi delle strutture familiari con le tendenze demografiche e le variabili socio-economiche. Non soltanto sono presi in esame i censimenti e le liste nominative, ma si ricorre a fonti ancor più particolareg­giate, come gli elenchi seriali, la revisione delle anime ed i registri di aggregati domesti-

4 Sul problema interessanti anche le notazioni di Pier Paolo Viazzo, in // Cambridge Group e la ricerca storica sulla famiglia, in Richard Wall, Jean Robin, Peter Laslett, Forme di famiglia nella storia europea, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 9-27, che rilevano l’atipicità del modello nucleare diffuso nel Mezzogiorno, caratterizzato dal matrimonio precoce, a differenza di quanto avveniva in altre realtà come, ad esempio, l’Inghilterra.5 Cfr. P. Laslett, La famiglia e l ’aggregato domestico come gruppo di lavoro e gruppo di parenti: aree nell'Europa tradizionale a confronto, in R. Wall, L. Robin, P. Laslett, Forme di famiglia, cit., pp. 253-304.

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ci, utilizzati, rispettivamente, nell’analisi del modello austriaco e russo6.

L’approccio quantitativo consente di defi­nire la configurazione della struttura fami­liare, anche se solleva alcuni problemi a cui gli studiosi danno risposte diverse. Ad esem­pio, per definire l’ampiezza dell’aggregato domestico, Laslett e Wall usano come crite­rio di classificazione la coresidenza, mentre, invece, Hajnal7 prende in esame il numero di coloro — parenti e servi — che consuma­no abitualmente il pasto in comune. I diversi studiosi sono invece concordi nel definire la famiglia contadina come unità lavorativa e di consumo. Il Laslett enumera tutte le va­riabili che rendono possibile, nella società preindustriale, tale ruolo produttivo, co­struendo una tipologia, che però, come egli stesso avverte, ha avuto nello sviluppo stori­co numerose controtendenze.

Inoltre, avendo presente, in particolare, la realtà delle campagne inglesi, appare critico verso la tesi di Chayanov, per il quale “la di­mensione della famiglia e le condizioni de­mografiche determinano la dimensione del­l’impresa agraria” (p. 293). Tale correlazio­ne gli appare schematica perché le capacità lavorative della famiglia contadina sono da porre in rapporto non soltanto con la sua ampiezza, ma anche con il numero di adulti presenti e con le modalità di conduzione del fondo agricolo.

Il discorso si ripropone nei medesimi ter­mini per l’Italia. Non a caso Carlo Poni ha sollevato analoghe obiezioni a proposito del­la famiglia mezzadrile emiliana, ribadendo l’opportunità di non limitare esclusivamente l’analisi all’ampiezza dell’aggregato dome­stico o alla estensione del fondo8.

Infine Laslett registra alcune diversità an­che nei comportamenti familiari. Poteva, ad esempio, mutare l’importanza attribuita alla trasmissione ereditaria del fondo. Così avve­niva che in alcune aree come quelle orienta­le, mediterranea ed intermedia, essa costitui­va il cardine della mentalità contadina, men­tre invece, in altre zone (torna qui il discorso sull’Inghilterra), la terra veniva venduta, op­pure alcuni parenti trovavano lavoro al di fuori della famiglia. La minore rigidità del vincolo familiare si accompagnava ad una maggiore domanda lavorativa sicché, in al­cuni casi, il fondo poteva anche non essere ereditato.

Il Laslett e gli altri studiosi, utilizzando gli strumenti propri dell’indagine quantitativa, riescono ad andare oltre un’analisi pretta­mente demografica della famiglia conta­dina.

Problemi come le strategie matrimoniali e il sistema d’ereditarietà sono visti alla luce della sua configurazione economica e cioè del ruolo che essa svolge come unità produt­tiva e di consumo. Per il caso italiano l’ana­lisi è appena accennata, ma costituisce, co­munque, un utile contributo alle ricerche di Barbagli, che, invece, come si è visto, utiliz­za come indicatore soltanto l’ampiezza del­l’aggregato domestico.

L’approccio quantitativo appare nel suo insieme assai stimolante per definire le ca­ratteristiche demografiche ed economiche delle molteplici forme familiari. Esso, inve­ce, come è noto, è stato ritenuto poco effica­ce per indagare ambiti che investono i ruoli, le relazioni familiari o, ancora, le scelte emo­tive e sentimentali. La polemica non è recente ed è quindi ovvio che anche gli storici ita-

6 Cfr. Reinhard Sieder e Michael Mitterauer, La ricostruzione del corso di vita della famiglia: problemi teorici e ri­sultati empirici, e Peter Czap jr., Una famiglia numerosa: la più grande ricchezza del contadino: gli aggregati do­mestici dei servi della gleba di Mishino in Russia 1814-1858, in Forme di famiglia, cit., pp. 193-230 e pp. 143-191.7 John Hajnal, Due tipi di formazione dell’aggregato domestico preindustriale, in Forme di famiglia, cit., pp. 99-142.8 Carlo Poni, La famiglia e il potere in Emilia-Romagna, in A. Manoukian, I vincoli familiari in Italia, cit., pp. 289-311.

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liani ne siano stati influenzati ed abbiamo prescelto più direzioni di ricerca.

Sempre nel volume di Barbagli, ad esem­pio, troviamo molte pagine dedicate all’ana­lisi dei comportamenti, ai vincoli parentali ed ai processi di trasformazione. Lo studio­so, in sintonia con altri storici stranieri che hanno indagato, per lo più, realtà inglesi e francesi9, ritiene che il nodo prioritario sia il passaggio dal modello patriarcale a quello coniugale intimo. Propone un’analisi socio­linguistica, che utilizza come fonti i carteggi e le interviste, a seconda se si esaminano i comportamenti delle famiglie aristocratiche o quelli dei ceti popolari. Anche per tali te­matiche quindi non sono esclusi gli strumen­ti dell’indagine statistica, ed in particolare è adoperato, come variabile significativa, il ti­po di allocutivo prescelto nei rapporti fami­liari. L’adozione del tu tra i coniugi e tra ge­nitori e figli è indicata come segnale di un più ampio mutamento che vede l’afferma­zione della moderna rete di relazioni. La da­tazione è diversa a seconda delle classi socia­li. Nella famiglia aristocratica lo sviluppo di nuovi comportamenti coincideva con la crisi della struttura estesa. Il processo iniziava in­torno alla fine del Settecento, sull’onda delle profonde trasformazioni economiche e poli­tiche del periodo, e si affermava con la gene­razione nata nel ventennio tra il 1820 ed il 1840.

Il mutamento era più rapido tra coniugi e tra fratelli, mentre si realizzava con maggio­re difficoltà tra genitori e figli. Per giungere a tali conclusioni sono presi in esame i car­teggi di ben 134 famiglie aristocratiche e l’autore osserva che, insieme con la diffusio­ne dell’uso del tu, “si aveva anche una ten­

denza alla frammentazione ed alla moltipli­cazione dei nomi propri, ad usare cioè più nomi, soprannomi, diminutivi, vezzeggiati­vi” (p. 325).

Nella famiglia aristocratica le nuove con­suetudini linguistiche si accompagnavano a mutamenti profondi dei comportamenti. Tendeva a ridursi la differenza d’età tra i co­niugi ed iniziava a contrarsi il numero dei fi­gli, nei confronti dei quali venivano adope­rate nuove pratiche educative, come ad esempio l’allattamento materno e l’abban­dono delle fasce.

Una funzione d’avanguardia ebbero in ta­le processo i gruppi illuminati dell’aristocra­zia e della borghesia ricca e molto efficaci ri­sultano le pagine del volume, in cui si illu­stra il rapporto tra Pietro Verri e la figlia neonata, allevata con metodi pedagogici profondamente rivoluzionari per la mentali­tà del tempo. La configurazione dei ruoli nella famiglia aristocratica è presa in esame anche in diversi contributi del libro a più vo­ci curato da A. Manoukian.

Il sistema di relazioni tra coniugi, figli e fratelli non è indagato nella sua interezza, ma è posto in rapporto con un particolare aspetto della vita familiare. Si preferisce, in­fatti, privilegiare l’analisi di un momento specifico dei rapporti e delle dinamiche esi­stenti, che viene inteso come chiave di lettu­ra utile a comprendere l’intera rete dei vin­coli parentali. Alcuni studiosi, ad esempio, prendono in esame le strategie matrimoniali. Sono così analizzati i casi della famiglia ari­stocratico-mercantile lucchese nel 1500, di quella patrizia milanese nei secoli XVII e XVIII ed, ancora, di quella veneta nella se­conda metà del Settecento10.

9 Cfr. Edward Shorter, Famiglia e civiltà, Milano, Rizzoli, 1978; Elisabeth Badinter, L ’amore in più. Storia dell’a­more materno, Milano, Longanesi, 1980; Jean-Louis Flandrin, Amori contadini, Milano, Mondadori, 1980.10 Cfr. Marino Berengo, La famiglia mercantile lucchese, in A. Manoukian, I vincoli familiari in Italia, cit., pp. 217-234; Dante E. Zanetti, La famiglia patrizia milanese, ivi, pp. 235-245 e Gaetano Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, ivi, pp. 195-213.

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I diversi saggi sono concordi nel confer­mare la prolungata adozione del modello patriarcale, che era il più consono a tutelare gli interessi della casata. L’autorità dell’uo- mo-padre era assoluta e ciò scaturiva sia dalle norme sociali che regolavano il matri­monio aristocratico, sia dalla totale subal­ternità che modellava il rapporto tra genitori e figli. Il destino di questi ultimi — uomini e donne — era deciso nel quadro di una rigida strategia familiare. Lo stesso primogenito, a cui gli istituti del maggiorascato e del fede- commesso attribuivano una condizione di assoluto privilegio, ne usufruiva soltanto dopo la morte del padre e non al momento del matrimonio.

I vincoli familiari nell’aristocrazia e nella ricca borghesia erano quindi rigorosamente codificati. Eppure, esistevano degli interstizi che consentivano qualche chances alle scelte individuali. Molto interessanti, a tal propo­sito, appaiono le osservazioni del Cozzi sui matrimoni segreti e clandestini11. I primi co­stituivano una forma di mediazione e veni­vano tollerati perché non intaccavano lo sta­tus ed il patrimonio familiare, i secondi, in­vece, rappresentavano un atto di vera e pro­pria rottura con i codici aristocratici. La lo­ro diffusione a Venezia, sul finire del secolo XVIII, costituiva un segnale di crisi ed espri­meva l’insofferenza dei giovani, influenzati dalla cultura illuminata, verso l’autorità pa­terna. Il Cozzi osserva inoltre che i matri­moni clandestini erano duramente repressi soltanto nei ceti aristocratici, mentre invece erano tacitamente consentiti nelle altre classi sociali, dove non acquisivano il medesimo significato sovvertitore.

L’analisi delle scelte di mediazione o dei comportamenti di ribellione, che potevano insinuarsi nella rigida rete dei vincoli paren­tali, contribuisce a mitigare un quadro ec­cessivamente statico delle strategie familiari,

che finisce con l’essere tutto scandito dalle motivazioni economiche ed assai poco incli­ne a concedere un qualche spazio ai conflitti interpersonali.

Il discorso sulle famiglie dei ceti popolari risulta molto diverso. In primo luogo, come si è già detto, maturava assai più lentamente e con maggiore travaglio il passaggio dal modello patriarcale a quello coniugale inti­mo. Il Barbagli giunge a tale conclusione dopo aver elaborato i dati ricavati da un’in­chiesta condotta su 801 donne, nate agli ini­zi del Novecento e vissute nelle regioni del centro-nord. Anche in questo caso il socio­logo adopera come indicatore il tipo di allo­cutivo adoperato nel lessico familiare. Ne emerge una prolungata permanenza del voi nei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli ed, in misura ancora maggiore, tra pa­renti acquisiti. Tale consuetudine era diffusa non soltanto nelle famiglie dei mezzadri che, come si è visto, avevano una struttura com­plessa, ma anche nelle famiglie bracciantili ed operaie, dove vi era una maggiore presen­za dell’aggregato domestico nucleare. Lo studioso ne conclude che non è possibile ipotizzare un rapporto meccanico tra model­lo familiare complesso ed egemonia della cultura patriarcale.

La crisi del sistema di relazioni tradiziona­li iniziò a delinearsi agli inizi del Novecento e fu influenzata, nella sua lunga gestazione, dagli effetti che lo sviluppo industriale ebbe sui comportamenti e sulle mentalità dei ceti popolari, incrinando la secolare unità eco­nomica della famiglia contadina. Il Barbagli tiene però a precisare che l’industrializzazio­ne ha favorito la trasformazione e la moder­nizzazione dei vincoli parentali soltanto quando ha indotto lo sviluppo di fasce ope­raie che, pur essendo di provenienza agrico­la, tendevano a vivere stabilmente in città e quindi a spezzare i legami economici e cultu-

11 Cfr. G. Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, cit

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rali con il mondo delle campagne. La crisi del modello patriarcale implicava inoltre un diverso rapporto con la comunità perché ten­deva ad attenuare il capillare e ferreo con­trollo che essa esercitava su tutti gli aspetti della vita familiare. Così non soltanto muta­va il sistema di relazioni interne, ma sia pure lentamente, si trasformava anche il rapporto con il mondo esterno e tutto ciò ridisegnava antiche consuetudini, proprie del mondo contadino. Attraverso l’elaborazione delle in­terviste è infatti possibile penetrare all’inter­no del vissuto domestico ed osservare come nella famiglia operaia urbana fossero diverse le abitudini relative al consumo dei pasti o all’organizzazione del tempo libero.

Ciò che emerge non è uno schema dicoto­mico tra famiglia contadina ed operaia, ma piuttosto un lento processo che tende a ride­finire i ruoli ed il ritmo familiari. Si conside­ri, ad esempio, come la crisi del modello pa­triarcale segnasse il declino della composita gerarchia che sussisteva tra le numerose fi­gure femminili della struttura complessa: suocera, nuora, figlia ecc. Nella famiglia operaia ed impiegatizia si affermava la ten­denza alla neo-località. La donna era quindi sola nel suo spazio domestico anche se per­manevano molteplici legami con i parenti d’origine. La percezione della vita familiare veniva così ad essere scandita dal ritmo la­vorativo deH’uomo-marito e dalle mansioni domestiche e materne della donna-moglie.

Lo sviluppo della struttura nucleare nei settori operai non era in contrasto, ma anzi sollecitava il ruolo casalingo femminile. Questa conclusione sembra condividibile, anche se, probabilmente, è valida soprattut­to per quelle fasi storiche in cui si è avuta una massiccia espulsione della manodopera femminile dal mercato del lavoro.

Sul medesimo problema torna Chiara Sa­raceno che, combinando fonti orali, docu­mentazione archivistica e dati statistici, ana­lizza la configurazione della famiglia operaia in una fase storica diversa e, cioè, durante il fascismo12. Le interviste effettuate confer­mano l’importanza del ruolo della donna nella cura e nell’allevamento infantile e nella manutenzione della casa. La scelta di “priva­tizzazione” era esaltata dalla propaganda del regime, ma a ciò non si accompagnava un ac­cresciuto confort del lavoro domestico, pro­cesso che, invece, si andava delineando nella Germania nazista ed, in misura ancora mag­giore, nell’America roosveltiana. La sociolo­gia tende inoltre a puntualizzare che “il ritor­no a casa” di molte operaie significava non la fine dell’esperienza lavorativa, bensì il lo­ro ingresso nei mille rivoli dell’attività preca­ria. La vita “casalinga” della donna non ap­pariva in contrasto con alcuni aspetti di mo­dernizzazione della struttura familiare, quali la crescente diffusione della neo-località o la riduzione del numero dei figli. Essa era so­stenuta e rafforzata dalla ideologia familista del regime che, a sua volta, si combinava con una più antica tradizione cattolica, tesa ad esaltare la naturalità dell’istituto familiare e del ruolo materno.

La Saraceno mette dunque a fuoco il rap­porto tra lo sviluppo storico della famiglia negli anni trenta e le matrici culturali della ideologia fascista.

La sua indagine arricchisce l’analisi del Barbagli perché coglie un aspetto che questi accenna soltanto, vale a dire le connessioni tra la configurazione della struttura familia­re e le coordinate ideologiche e culturali del­l’organizzazione statale.

L’autrice tiene però a puntualizzare che la politica familiare dello stato non determina

12 Cfr. Chiara Saraceno, La famiglia operaia sotto il fascismo, in A. Manoukian, I vincoli familiari in Italia, cit., pp. 409-434. Il saggio è stato pubblicato con il medesimo titolo in La classe operaia sotto il fascismo, “Annali Fel­trinelli”, 1979-80, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 189-230.

Modelli di famiglia nella realtà italiana 91

di per sé i processi di trasformazione che so­no invece generati da più complessi fattori socio-economici. Ad esempio, l’indagine de­mografica conferma che, nonostante la pro­paganda del regime, nelle grandi città del centro-nord si ebbe una costante tendenza alla contrazione del numero dei figli, ten­denza, peraltro, già segnalata da Massimo Livi Bacci. La “intrusione istituzionale” av­viene piuttosto in un ambito culturale in quanto l’ideologia promossa e sostenuta dal­l’organizzazione dello stato, attraverso i molteplici strumenti del consenso, influenza le scelte ed i comportamenti familiari e ne condiziona il sistema di relazioni.

Una metodologia ancora diversa di analisi della famiglia operaia ci è suggerita da Fran­co Ramella che, attraverso fonti d’archivio, esamina i rapporti familiari nel Biellese du­rante la fase di transizione dall’industria a domicilio al lavoro in fabbrica13. L’analisi demografica si combina con quella dei mu­tamenti del modo di produzione e la struttu­ra familiare è inserita nei processi di crisi e di sviluppo dell’intera comunità. Il saggio si inserisce nel filone di studi storici, in cui i vincoli familiari costituiscono una variabile significativa dei processi economico-sociali e del retroterra culturale comunitario.

Il Ramella è attento soprattutto ai primi e ci propone una metodologia marxiana, in base a cui i processi produttivi influiscono sulle tendenze demografiche e, tutto somma­to, anche sulla configurazione dei ruoli fa­miliari.

Così l’autore dimostra che, nella fase del lavoro a domicilio, la famiglia estesa era la più consona a cementare una peculiare for­ma di economia familiare, dove l’attività agricola si combinava con quella manifattu­riera. Tutto era destinato a mutare con lo

sviluppo del sistema di fabbrica e, in primo luogo, con l’avvento del filatoio meccanico. Alla lavorazione a domicilio — e quindi alla famiglia contadina — restava soltanto la fa­se della tessitura. Si determinavano processi di crisi nella comunità e nella famiglia, nella quale il capofamiglia diventava lavoratore salariato. Mutavano i sistemi ereditari che tendevano a privilegiare il primogenito ma­schio, diminuivano i matrimoni e soprattut­to s’innalzava l’età dei coniugi. Le caratteri­stiche dello sviluppo industriale inoltre osta­colavano l’immissione della manodopera femminile perché, finché non fu meccaniz­zato l’intero processo produttivo, la doman­da era rivolta quasi esclusivamente ai filatori specializzati e, cioè, a maestranze maschili.

Un’ultima notazione investe il rapporto tra padri e figli nella fabbrica. I bambini ac­compagnavano i genitori al lavoro non per­ché vi fosse richiesta di manodopera infanti­le ma, piuttosto, per un motivo più specifi­camente connesso con il retroterra culturale della comunità. Essi dovevano infatti “im­parare il mestiere” e ciò confermava che nel­la mentalità dei filatori, nonostante l’avven­to del sistema di fabbrica, continuava ad es­sere attribuita una grande importanza alla fase di apprendistato. Le ricerche di Barba­gli, Saraceno, Ramella e, ancora, di Poni14 confermano che, pur nella diversità della metodologia prescelta, è possibile indagare le forme storiche della famiglia dei ceti po­polari, in particolare nelle realtà operaie e contadine. I problemi sollevati sono nume­rosi ed investono più ambiti di ricerca: le connessioni con i processi economici e socia­li, le influenze delle tendenze demografiche, i modelli culturali, il rapporto con l’organiz­zazione dello stato, le cause dei mutamenti e la loro scansione temporale. Mai la struttura

13 Franco Ramella, Famiglia, terra e salario in una comunità tessile dell’Ottocento, in A. Manoukian, I vincoli fa ­miliari in Italia, cit., pp. 265-287. Del medesimo autore è da segnalare anche Terre e telai: Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese nell’800, Torino, Einaudi, 1984.14 Cfr. C. Poni, La famiglia contadina ed il potere in Emilia-Romagna, cit.

92 Gloria Chianese

e la rete di relazioni sono indagati come real­tà in sé, autonome dai processi che investo­no gli altri gruppi sociali e ciò favorisce ana­lisi di tipo comparativo.

Il più esplicito su questo versante è, anco­ra, Barbagli che, come si è già detto, analiz­zando le crisi del modello patriarcale e l’av­vento della famiglia coniugale intima, sotto- linea che tale passaggio si realizzò in tempi molto più rapidi nelle fasce aristocratiche ed alto-borghesi che non nei ceti popolari e me­di. Qui la tradizionale configurazione dei ruoli prevalse a lungo, talora anche successi­vamente alle trasformazioni strutturali. Lo studioso ne conclude che le matrici della lunga permanenza dell’ideologia patriarcale sono da ricercare in una sorta di subalternità culturale: “Se il modello patriarcale è so­pravvissuto più a lungo nelle famiglie ope­raie ed in quelle dei ceti medi è anche perché (...) la posizione di classe influisce sulle rela­zioni familiari” (p. 520).

La spiegazione solleva più di un dubbio e sollecita ulteriori approfondimenti. Soprat­tutto resta da indagare la peculiarità delle espressioni emotive e sentimentali. Lo stesso

Barbagli, ad esempio, osserva che l’apparen­te distacco esistente nella famiglia patriarca­le celava, in realtà, un consolidato vincolo affettivo. Tali nodi richiedono di essere ana­lizzati attraverso un approccio storico, che privilegi l’ambito dei sentimenti, ma i due volumi di Barbagli e Manoukian restano al di qua di tale frontiera. Unica eccezione il saggio di una donna, Franca Olivetti Ma­noukian, che propone una lettura in chiave psico-sociologica di quattro romanzi editi nell’ultimo ventennio dell’Ottocento15.

Attraverso l’analisi storico-letteraria di al­cuni percorsi individuali, l’autrice vuole ri­cercare le forme deH’immaginario collettivo, che condizionano l’ambito emotivo e senti­mentale delle dinamiche familiari. L’analisi è suggestiva perché permette di indagare i li­velli di trasgressione e di conflitto che sedi­mentano nella rete dei vincoli parentali. Ne emerge un senso di profonda malinconia e di disperata solitudine. “La famiglia pertan­to è sola con i suoi problemi di sopravviven­za e solo è ciascuno dei suoi componenti” (p. 357).

Gloria Chianese

15 Franca Olivetti Manoukian, Morte e vita familiare in quattro romanzi di fine Ottocento, in A. Manoukian, / vincoli familiari in Italia, cit., pp. 335-373. I romanzi presi in esame sono: Giovanni Verga, I Malavoglia-, Federico De Roberto, I Viceré-, Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli- Neera, Teresa.

Dopoguerra e fascismo in AbruzzoOrientamenti storiografici

di Luigi Ponziani

La storiografia del fascismo delle origini re­lativa al Mezzogiorno presenta limiti di co­noscenza di particolare rilevanza. Le ragioni essenziali sembrano essere due: da un lato, l’assumere come metro interpretativo il fasci­smo settentrionale, sia di tipo “urbano” che “agrario”, ha fatto sì che gli studi avessero un qualche sviluppo soprattutto per quelle zone del sud dove le analogie erano più facilmente riscontrabili (es. la Puglia)1; dall’altro, lo svilupparsi del fascismo meridionale in un’e­poca successiva rispetto al quadriennio 1919-1922, ha reso meno appetibile una ri­cerca che, più che affrontare le tematiche delle “origini” , avrebbe dovuto descrivere i fenomeni di assestamento e di estensione del consenso al regime. Eppure proprio questo sembra essere il principale elemento di diffe­renziazione. Nel Sud le strutture del potere sono ancora saldamente in mano ai ceti diri­genti agrari e cittadini che non hanno alcun bisogno di una “riconquista” politica e so­ciale nei confronti del movimento contadino

e operaio. Il fascismo come sistema di gerar­chie sociali prima che politiche è già presen­te nel meridione2 e, pertanto, la dinamica del suo sviluppo deve essere vista soprattut­to all’interno dei contrasti tra gruppi diri­genti in lotta per il potere locale che utilizza­no la consolidata pratica del “trasformi­smo”3. Proprio la eccessiva frammentazione geografica, il localismo del notabilato, il personalismo dei ceti dirigenti rendono ne­cessario, perciò, uno studio articolato che, cogliendo le caratteristiche essenziali delle realtà locali, possa “lacerare più facilmente i veli ideologici dei partiti e cogliere quindi il peso dei concreti interessi in gioco, siano es­si economici, personali o ‘culturali’ ”4.

Se il meridione attende ancora in gran parte di essere esplorato, per gli Abruzzi l’e­sigenza è ancora più pressante. Basta scorre­re appena le più recenti rassegne storiografi- che per averne una dimostrazione sconcer­tante5. Non soltanto gli Abruzzi non appaio­no in alcuna ricerca d’assieme, ma quando

1 Cfr. Ivano Granata, Storia nazionale e storia locale: alcune considerazioni sulle problematiche del fascismo delle origini (1919-1922), in “Storia contemporanea”, 1980, n. 3, p. 525.2 Cfr. in proposito la relazione introduttiva di Giuseppe Galasso in Aa.Vv., Mezzogiorno e fascismo. A tti del Con­vegno nazionale di studi promosso dalla Regione Campania. Salerno-Monte S. Giacomo 11-14 dicembre 1975, a cura di Pietro Laveglia, Napoli, 1978, p. 23.3 Su questo aspetto si veda la presentazione di Ugoberto Alfassio Grimaldi al volume di Giacomo de Antonellis, Il Sud durante il fascismo, Manduria, 1977, p. 8; sull’utilizzo, ad esempio, dei nazionalisti in senso trasformistico nell’I­talia meridionale cfr. in particolare Franco Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 235-239.4 Renzo de Felice, Prefazione a Simona Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Bari, Laterza, 1971, p. VII.5 Cfr. Guido D’ Agostino-Nicola Gallerano-Renato Monteleone, Riflessioni su “storia nazionale e storia locale”, in

“Italia contemporanea”, settembre 1986, n. 164

94 Luigi Ponziani

ad essi si fa riferimento, gli accenni sono quanto mai generici e superficiali. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito a un risveglio di interesse. Varie sono le ragioni: un sem­pre maggior radicarsi delle università alle te­matiche regionali; il sorgere di nuovi istituti di ricerca che si pongono espressamente sul terreno dello studio della storia contempora­nea (è il caso dell’Istituto abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza); infine, il maggior dinamismo delle biblioteche, degli archivi, degli enti locali. Certamente il livel­lo raggiunto dagli studi è ben lungi dall’esse­re soddisfacente, ma proprio per questo mo­tivo ha senso avviare una prima riflessione e tracciare un bilancio che, accanto ad un’esi­genza di divulgazione di studi che rischiano di restare ignorati, si ponga l’obiettivo di in­dividuare temi e ambiti storiografici da toc­care e approfondire.

I limiti della storiografia contemporanei- stica abruzzese si manifestano in primo luo­go nelle sintesi generali. Spesso tali opere, per i fini che si propongono, non sfuggono alla logica dell’“omaggio” e della “generica propaganda” che ci riconduce tout court ad un clima culturale tipicamente meridionale6.

In tale ambito si colloca il volume di Del Villano-Di Tillio7 che, pur rispondendo ad intenti didattici e divulgativi, nella parte de­dicata alla prima guerra mondiale, al dopo­guerra e al fascismo, ripercorre fin troppo sommariamente un periodo storico partico­larmente complesso, che avrebbe richiesto un ben diverso approfondimento. Qui, come in altri casi, si sorvola, anche attraverso im­

precisioni non giustificabili, su avvenimenti che stanno a base dell’odierno assetto regio­nale. Su ben altro versante si colloca il profi­lo storico regionale abbozzato da Raffaele Colapietra8. Particolarmente stimolante sembra essere l’esigenza di una approccio di- versificato alla realtà regionale che richiede uno studio differenziato tanto sul piano eco­nomico come su quello sociale e politico. Tale ottica acquista rilievo proprio in rap­porto alla guerra e alle sue conseguenze. Mentre infatti il Teramano e il Chietino, at­traverso il permanere di personalità autore­voli del giolittismo di varia gradazione (De Vito,Masciantonio, Riccio) tendevano, se­condo l’autore, a mantenersi nell’ambito del tradizionalismo liberale e proprietario, la provincia dell’Aquila mostrava maggiore sensibilità alle istanze e alle suggestioni di massa scaturite dalla guerra e dalla smobili­tazione. Allo stesso modo i contrasti di clas­se e le tensioni politiche nella Marsica non si esaurivano nel binomio socialismo-fasci­smo, ma avevano modo di manifestarsi nel combattentismo, non identificabile sic et simpliciter col nascente movimento fascista, e nel ministerialismo di Camillo Corradini, ben impiantato in una regione dove il nota­bilato agrario si congiungeva col potere eco­nomico e finanziario dei Torlonia. L’atten­zione poi riservata da Colapietra alle ten­denze di sviluppo della regione, che trovano incentivo istituzionale nella riforma delle circoscrizioni amministrative, nella conse­guente nascita della provincia di Pescara e nel collocarsi in senso adriatico dell’asse di

“Italia contemporanea”, 1978, n. 133, Marco Palla, Firenze nel regime fascista (1924-1934), Firenze, Olschki, 1978, in particolare le pp. 13-17 e il già citato studio di Ivano Granata. Per gli Abruzzi appaiono particolarmente signifi­cative le riflessioni che Luciano Russi, Ecologia e ideologia in Abruzzo, in P. Scarpini, Discanto, Teramo, 1972, pp. LVI-LIX faceva sui limiti della storiografia contemporaneistica abruzzese e sul “quieto vivere” della “classe in­tellettuale abruzzese” il cui ruolo, a partire dal secondo dopoguerra, egli invitava a ricostruire.6 È quanto afferma, ad esempio, Raffaele Colapietra, U fascismo nell’Italia meridionale adriatica: alcune proposte interpretative, in “Italia contemporanea”, 1981, n. 145, p. 85.7 W. Del Villano-Z. Di Tillio, Abruzzo nei tempo, Pescara, Costantini Didattica, 1978.8 Raffaele Colapietra, Abruzzo. Un profilo storico, Lanciano, Carabba, 1977.

Dopoguerra e fascismo in Abruzzo 95

sviluppo regionale, costituisce una stimolan­te direttrice di ricerca ancora tutta da verifi­care.

In un’altra opera lo stesso studioso ha ri­costruito con dovizia di particolari le vicen­de del Fucino nell’arco di un secolo9. I con­trasti di classe che oppongono Torlonia e i “gabellotti” marsicani a braccianti e conta­dini poveri vengono a collocarsi, per Cola- pietra, in un quadro più generale nel quale si inseriscono via via, oltre ai socialisti, i com­battenti, i popolari e i fascisti, con una ric­chezza di sfacettature che rende più variega­to un panorama sociale e politico a prima vi­sta dicotomico10 11. Proprio per ricondurre questa varietà di posizioni sotto l’unità ege­monica della “sana democrazia” di ascen­denza nittiana, l’autore pone in rilievo il tentativo di Camillo Corradini teso ad im­brigliare tale inquietudine in una concentra­zione regionale che avrebbe dovuto coinvol­gere i combattenti “ben pensanti” alla Gia­como Acerbo e i conservatori alla Vincenzo Riccio insieme ai radicali alla De Vito e al giolittismo “ortodosso” di Camerini, utiliz­zando un valente giornalista come Giuseppe Giffi e un organo giornalistico regionale, “Il Risorgimento d’Abruzzo”, in un esperimen­to politico di indubbio interesse.

Un profilo storiografico ben più modesto presenta il recente tentativo di una Storia della provincia di Teramo fino al 1922u. Pur all’interno di limiti che gli stessi autori hanno voluto evidenziare fin dalla presenta­

zione, non sembra che, specie per il capitolo finale dedicato al periodo postbellico, si sia andati più in là di una cronistoria, per di più lacunosa. I pochi accenni al clima politico e sociale sono sommersi dall’aneddottica e dal colore paesano12.

A conclusione di questi accenni dedicati agli studi d’assieme, va ricordato ancora un ponderoso studio di Colapietra su Pescara che, per la rilevanza del tema trattato, costi­tuisce un importante punto di riferimento nel quadro storiografico abruzzese13. L’au­tore individua la persistente difficoltà ad av­viare nel concreto la fusione tra Castellam­mare e Pescara nella oggettiva divergenza tra la mentalità affaristica e privatistica di Pescara e la concezione cittadina eminente­mente solidaristica di Castellammare14. Sul filo di questo criterio interpretativo lo stesso fenomeno del combattentismo e del fasci­smo viene analizzato nella sua duplice veste di frammentazione personalistica a Pescara e di legittimismo lealista a Castellammare e nel Teramano, che trovano in Giacomo Acerbo una autorevole guida intorno a cui si realizza la vincente coalizione conservatrice e monarchica15. Colapietra sviluppa in tal modo una ricostruzione amministrativa, po­litica, sociale, economico-commerciale con un’ottica cittadina che acquista rilevanza re­gionale per il confluire su Pescara-Castel- lammare di caratteri diversi.

Occorre infine ricordare lo studio di Gia­como de Antonellis sul meridione durante il

9 Id., Fucino ieri 1878-1951, Avezzano, 1978.10 Di diversa opinione sembra essere Romolo Liberale, Il movimento contadino del Fucino dal prosciugamento del lago alla cacciata di Torlonia, Roma, s.d. [1977], che tende a considerare in maniera unitaria il fronte di lotta che si oppone al principe Torlonia.11 C. Cappelli-R. Faranda, Storia della provincia di Teramo dalle origini al 1922, Teramo, 1980.12 In aggiunta al volume sopra citato e solo per esigenza di completezza, vale la pena di ricordare alcuni altri studi simili per contenuto e metodo di indagine, oltre che per le finalità: Aa.Vv., Pescara cinquant’anni, Pescara, 1980; L. Gargani, Pescara da vicus a urbs 1877-1977, a cura del Rotary Club di Pescara nel cinquantenario dell’istituzio­ne della provincia di Pescara, Pescara, 1977.13 Ci si riferisce a Raffaele Colapietra, Pescara 1860-1927, Pescara, Costantini Didattica, 1980.14 Ivi, pp. 316.15 Ivi, pp. 317-318.

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fascismo16. Condensata in pochissime pagi­ne, la trattazione relativa agli Abruzzi pecca per eccessiva approssimazione e spesso per confusione di temi e di luoghi. Sostanzial­mente il fascismo abruzzese viene caratteriz­zato dal clima dannunziano che pervadereb­be l’intera regione, con un giudizio derivato più da luoghi comuni che da concreti riscon­tri di atteggiamenti e situazioni politiche17.

Ancora più rari e spesso datati sono gli studi che affrontano gli aspetti economici e sociali; una lacuna questa che rappresenta un grave nocumento alla conoscenza della regione da un punto di vista strutturale. Di interesse non contingente sembrano essere due saggi (entrambi risalenti al 1960) di A. Grumelli e U. Fanci, il primo dei quali pren­de in esame gli aspetti sociologici dell’evolu­zione demografica negli Abruzzi e il secondo le condizioni igieniche e sanitarie delle popo­lazioni rurali18. L’utilità del primo studio consiste nella gran messe di dati (spesso de­sunti da pubblicazioni ufficiali). Il fenome­no migratorio, particolarmente virulento nel periodo 1919-1925, anche se non raggiunge l’intensità degli anni prebellici e in particola­re il record del 1913, è ricondotto da Gru­melli a due ragioni essenziali: al problema montano costituito dal frazionamento della proprietà, dal disboscamento, dall’inaspri- mento tributario, dalla crisi della pastorizia transumante e dalla scarsità di fonti aggiun­tive di guadagno; alla questione agricola de­rivante dalla diversità territoriale della regio­ne. Da tale analisi, insieme strutturale e so­

ciologica, deriva l’impressione secondo cui gli Abruzzi presenterebbero una fondamen­tale unità, pur in un accentuato polimorfi­smo. La conclusione è di considerare gli Abruzzi una regione mediana non solo da un punto di vista geografico, ma anche so­ciologico, quasi un punto di incontro tra nord e sud. Seguendo un criterio analogo il secondo studio mette in rilievo come il defi­citario stato igienicio-sanitario della popola­zione abruzzese derivi dalla ripartizione agraria del territorio, sia in presenza di abi­tazioni appoderate o di dimore accentrate in paesi, sia di abitazioni occupate dallo stesso proprietario o prese in affitto. La successiva analisi, che pone in rilievo la povertà ali­mentare e fisiologica della popolazione rura­le, spinge ad un giudizio opposto a quello di Grumelli, e che considera gli Abruzzi una delle regioni più misere d’Italia a dispetto della sua posizione “mediana”. Di un certo interesse risulta pure un più recente studio di Giuseppe Bolino che costituisce un utile ten­tativo di collocare storicamente l’emigrazio­ne abruzzese nell’ambito nazionale19. Scarsi, tuttavia, al di là della riproposizione di dati sempre utili, sono i riferimenti alle condizio­ni strutturali che determinarono il fenomeno migratorio e alle vicende politiche locali e nazionali che lo accompagnarono.

La scarsa attenzione a questi aspetti è at­tenuata da alcuni saggi che prendono in con­siderazione ambiti territoriali circoscritti. Di particolare interesse sembra essere il saggio di Costantino Felice che, nell’ambito di una

16 Giacomo de Antonellis, II Sud, cit.17 In proposito assume significato un certo atteggiamento di “freddezza” mostrato da Acerbo nei confronti di D’Annunzio e, per converso, l’utilizzo di alcune tematiche dannunziane (es. la repubblica) in funzione antifascista. Su questi aspetti cfr. Raffaele Celapietra, Pescara, cit., pp. 316-317.18 A. Grumelli, Aspetti sociologici dell’evoluzione demografica in Abruzzo nella prima metà del ’900, Roma, 1960; U. Fanci, Sulle condizioni igienico sanitarie delle abitazioni e sul problema alimentare delie popolazioni rurali degli Abruzzi e dei Molise nel periodo 1900-1959, Lanciano, 1960. Di minore interesse, ma comunque di una qualche uti­lità, risulta essere un altro saggio di U. Fanci, Igiene e situazione sanitaria in rapporto alle condizioni economi- co-sociali delle popolazioni rurali degli A bruzzi e del Molise dal 1890 ad oggi, Lanciano, 1964.19 Giuseppe Bolino, La spopolazione dell’Abruzzo, Lanciano, 1973.

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ricognizione di lungo periodo della politica marinara sul litorale abruzzese, esamina con particolare riguardo il litorale vastese20. L’individuazione di un ceto commerciale e imprenditoriale teso a uno sviluppo naziona­le e internazionale della vocazione marinara di Vasto, si accompagna alla presa d’atto del fallimento di simili progetti per i limiti soggettivi di tale ceto imprenditoriale, inca­pace di ipotizzare uno sviluppo economico e sociale al di fuori di una retorica localista e campanilista, oltre che per l’obiettiva diffi­coltà a svincolarsi dalla subalternità al capi­tale esterno e alla rendita fondiaria. In so­stanza “l’inconsistenza della prospettiva del grande porto [di Vasto] era in fondo anche la conseguenza di quest’assenza di un solido retroterra economico e di una corrispettiva mentalità imprenditoriale” che, al contrario, aveva modo di manifestarsi a Ortona e Pe­scara con un dinamismo economico e com­merciale, dovuto pure a un particolare impe­gno della locale rappresentanza parlamen­tare21.

Anche se limitato al solo circondario di Guardiagrele, utile risulta un recente saggio di Francesco Lullo e Angelo Orlando22. Lo studio rappresenta uno spaccato dell’econo­mia e della società abruzzese dei primi de­cenni del secolo. L’aggrovigliarsi dei modi attraverso cui si struttura la proprietà agri­cola (latifondo, piccola proprietà fluttuan­te), la presenza considerevole dell’artigiana­

to nel capoluogo, l’impoverirsi a causa del forte indebitamento della popolazione rura­le che non ha possibilità di trovare una qual­che prospettiva nello sviluppo dell’attività artigianale, il fallimento sostanziale degli istituti di credito per l’incapacità mostrata nel legarsi ad un processo di incentivazione e trasformazione dell’agricoltura, costituisco­no altrettanti terreni su cui l’indagine do­vrebbe essere estesa all’intera regione23.

Gli studi biografici e autobiografici, seb­bene ancora considerati di genere minore, hanno via via assunto piena legittimazione anche se a tutt’oggi continuano ad essere di­scussi i problemi di metodo e i rapporti tra biografia e storia24. Questa premessa è tanto più opportuna se consideriamo come tale ge­nere, pur abbastanza diffuso per il periodo e l’area geografica che ci interessano, assai ra­ramente va oltre la semplice aneddotica o la nostalgia della ricordanza. Ciò non toglie pe­rò che, pur entro questi limiti, le opere consi­derate costituiscono una importante possibili­tà di conoscenza del clima culturale e psicolo­gico prima che politico, di ambienti e situa­zioni, sì da rappresentare, a fronte dell’in­sufficiente stato degli studi, un valido stru­mento per l’approfondimento della ricerca.

In questo quadro particolare rilevanza ac­quista il volume autobiografico di Giacomo Acerbo25. Pur all’interno di una narrazione appesantita da erudite digressioni storiche e filosofiche e da comprensibili intenti giusti-

20 Si tratta di Costantino Felice, Spunti per una storia economica e sociale della costa abruzzese: il porto di Vasto dall’Ottocento a! secondo dopoguerra, in “Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza” (d’ora in poi Rassfr), 1982, n. 3, successivamente ampliato e rifuso in Id., Porti e scafi. Politica ed economia sul litorale abruzzese-molisano (1900-1980), Vasto, 1983.21 Ivi, p. 159.22 Francesco Lullo-Angelo Orlando, Per una lettura della situazione economica a Guardiagrele 1900-1940, in “Rassfr” , 1980, n. 2.23 Per una maggiore completezza di informazione si ricordano anche M. Pasotti, Inchiesta a dorso di cinghiale. Politica e società nell’Abruzzo del XXsecolo, Firenze, 1969; Elio Giannetti-Nicola Iubatti, Temi e spunti della sto­ria sociale ad Ortona nella prima metà del novecento, in “Rassfr”, 1981, n. 1; A. De Martiis, L ’agricoltura nel chie­tino dalla seconda metà del ’700 ai nostri giorni, Chieti, 1978.24 Per il dibattito su queste tematiche cfr. Alceo Riosa, Biografia e storiografia, Milano, Angeli, 1983.25 Giacomo Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell’epoca fascista, Bologna, Cappelli, 1968.

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ficazionisti, l’opera costituisce una fonte as­sai importante non solo per la ricostruzione della figura del personaggio, ma anche del­l’insieme del fascismo abruzzese. L’autore sembra costantemente teso ad offrire una in­terpretazione sostanzialmente moderata del fenomeno del quale fu protagonista. Ripetu­ta, infatti, è la condanna della tendenza re­pubblicana del primo fascismo alla quale contrappone il lealismo monarchico proprio della maggior parte del fascismo abruzze­se; così come, allo stesso fine, sembra mira­re l’affermazione secondo cui “i quadri del­l’organizzazione combattentistica, ed ugual­mente in appresso quelli dei fasci, furono forniti quasi per intero dai giovani ranghi della borghesia detentrice del potere locale che conservò come tale, attraverso le rela­zioni personali, larghe aderenze specialmen­te nelle campagne”26; giudizio sostanzial­mente esatto che sembra quasi voler giustifi­care una effettiva continuità, ideologica e politica oltre che generazionale, tra prefasci­smo e fascismo. All’interno di questa inter­pretazione lo stesso enuclearsi del fascismo dal movimento combattentistico viene spie­gato da Acerbo più come naturale distacco da un’associazione (l’Anc) incapace di supe­rare tentennamenti dottrinari e inefficacia nell’iniziativa, che come autonomo decan­tarsi di posizioni politiche e ideologiche e chiarirsi di obiettivi. Una ricostruzione, dunque, che sembra cogliere alcuni dei ca­ratteri essenziali del primo fascismo abruz­zese, ma che non tiene conto oltre che delle diversificazioni provinciali, anche del clima di violento scontro di classe che lo vede pro­tagonista specie in talune zone.

Altrettanto degne di attenzione sono le memorie autobiografiche di un altro prota­

gonista dell’agitato periodo postbellico, Raffaele Paolucci27. Il personaggio (l’affon- datore della Viribus Unitis) appare come l’e­spressione ambigua, ma forse anche più ve­ra, di un certo “dannunzianesimo” abruzze­se. Il suo patriottismo fatto di immagini e di retorica regionale (diffusissima in quel pe­riodo), se lo pone al centro, e non sempre con piena consapevolezza, dell’attivismo pa­triottico abruzzese, trova un limite sostan­ziale nel lealismo monarchico che gli per­mette di inneggiare a Fiume, ma non di ade­rire all’impresa di D’Annunzio28. Con Pao­lucci, pertanto, ci troviamo di fronte ad un personaggio che ci consente di cogliere un altro aspetto del retroterra culturale e psico­logico abruzzese attraverso cui si realizza quel riallineamento di forze politiche e so­ciali, oltre che economiche, che prelude alla loro piena adesione al regime fascista. Quel “dannunzianesimo” e quel “nazionalismo” consentono all’“eroe di Pola” di partecipare naturaliter, su sollecitazione dello stesso Giolitti, alle elezioni politiche del 1921 nella lista dei “Blocchi” . In tal modo la successiva attività politica di Paolucci, tesa alla diffu­sione delle organizzazioni nazionalistiche dei “Sempre Pronti”, va configurandosi come un altro modo attraverso cui si organizza il conservatorismo legalitario abruzzese. Il lar­vato contrapporsi dei “Sempre Pronti” allo squadrismo fascista deve perciò essere visto nell’ambito di quella concezione che consi­derava il nazionalismo italiano nient’altro che “un liberalismo di destra, che voleva af­fermare i suoi ideali attraverso le vie legali, ma riconosceva la necessità di un governo forte e ributtava il mito della libertà fine a se stessa”29.

Su un versante politico opposto rispetto a

26 Ivi, p. 167.1 R. Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto, Bologna, 1947.28 Ivi, p. 219.29 Ivi, p. 232. Per questo giudizio si rinvia pure a Franco Gaeta, Il nazionalismo, cit., pp. 235-239. Per completare il quadro si richiama anche l’autobiografia di A. Sardi, Pulviscolo di un’epoca, Sulmona, 1962, un altro protagoni­sta del fascismo abruzzese che, tuttavia, sorvola sui momenti più significativi del periodo qui considerato.

Dopoguerra e fascismo in Abruzzo 99

quello già ricordato si pongono le memorie di Natale Camarra e Pietrantonio Pailadi­ni30. L’autobiografia del primo, pur assu­mendo grande valore umano e morale, è di scarsa utilità per una ricostruzione del primo dopoguerra abruzzese, dal momento che il breve riferimento a quegli anni ripete giudizi usuali dell’antifascismo militante. Lo stesso limite va rilevato per il volume autobiografi­co di Pailadini. Pur abbozzando un’analisi dei caratteri del movimento contadino socia­lista marsicano, l’autore sembra indulgere a criteri interpretativi alquanto azzardati, quale la pretesa mitica “scontrosità” della popolazione marsicana da sempre “anelante la libertà”. Per questa via il fronte antifasci­sta tra il 1920 e il 1926 viene considerato un unicum temporale e omogeneo nel suo schie­rarsi prima contro lo squadrismo e poi con­tro il regime; mentre lacunosa e sostanzial­mente subordinata a esigenze politiche, sem­bra essere l’analisi delle forze, assai compo­site, che si schierarono nel tempo contro il fascismo (si pensi soltanto ai comunisti e a Camillo Corradini), così pure non vengono prese in considerazione le differenze all’in- terno del combattentismo, della classe diri­gente liberale, del capitalismo agrario (Tor- lonia).

Abbiamo poi, sempre nel campo dell’anti­fascismo militante, il volume autobiografico di Nando Amiconi, nel quale largo spazio hanno le vicende anche se non direttamente vissute, relative al primo dopoguerra31.

All’interno di una ricostruzione abbastan­za esatta del clima politico e sociale di quegli anni e alla riproposizione di utili dati ineren­ti alla organizzazione del Fucino e al potere dei Torlonia, l’autore insiste nel considerare

unitariamente, sotto il segno del braccianta­to contadino, il movimento sociale e politico sviluppatosi nel biennio 1919-1920. Tale ap­proccio non sembra permettere un’analisi delle singole organizzazioni (socialisti, com­battenti, popolari) che sono presenti in quel torno di tempo e l’individuazione della con­creta divaricazione degli obiettivi e delle pa­role d’ordine di cui si fanno portavoce. Tale evoluzione non viene considerata in rappor­to al più generale movimento contadino nel quale incidevano sia gli ex combattenti, sia i popolari, né in rapporto allo schierarsi della classe dirigente marsicana capeggiata da Corradini e alle reali esigenze poste dal prin­cipe Torlonia32. Considerare poi, come fa l’autore, l’occupazione delle terre del 1920 e la conquista del contratto di affitto da parte di circa 10.000 contadini una grande vittoria popolare e una sconfitta di Torlonia, signifi­ca certo mettere in rilievo una parte di veri­tà, ma significa altresì sorvolare sulla effetti­va coincidenza tra gli obiettivi contadini e quelli di Torlonia, che ormai si pone sul ter­reno della frammentazione dell’affitto come condizione preliminare ad un più stretto controllo economico e sociale che utilizza strumenti nuovi quali la Banca del Fucino, oltre che lo squadrismo fascista che proprio da questo momento irrompe in grande stile nella Marsica.

Con la biografia di Guido Celli scritta da Emilio Rosa, ci troviamo di fronte ad un primo lodevole tentativo di affrontare lo studio di uno dei personaggi più interessanti del prefascismo abruzzese33. Il risultato, tut­tavia, sembra inadeguato, consistendo in un medaglione alquanto acritico, nel quale non vengono presi in considerazione gli aspetti

30 Ci si riferisce a Natale Camarra, Ricordi della mia vita. Prefazione di Umberto Terracini, Aquila, 1980 e a Pie­trantonio Pailadini, Cento metri di catene, Penne, 1977.31 Nando Amiconi, Il comunista e il capomanipolo, Milano, 1977.32 Ivi, pp. 46-47.33 Emilio Rosa, Guido Celli. Vita scritti e discorsi, Teramo, 1979.

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più significativi di un personaggio che, dalla sua prima adesione al socialismo riformista e dalla lotta “democratica” combattuta nel 1910-1913 contro il blocco clerico-conserva- tore, finisce per convergere, in maniera sem­pre più incolore, nel campo ministeriale con Nitti prima e Giolitti poi. Parabola questa abbastanza comune in certo socialismo me­ridionale incapace di rompere, per intrinseca debolezza ideologica, per formazione cultu­rale, per intimo legame con determinati ceti, con quel notabilato meridionale pur avanza­to del quale, in ultima analisi, è esso stesso espressione, anche se tra le più positive. L’atteggiamento di marcata benevolenza nei confronti del personaggio impedisce poi al­l’autore di pervenire ad un qualche giudizio storiografico, specialmente nella valutazione dei “Blocchi nazionali” del 1921 e del ruolo in essi avuto da Celli. Infine, il successivo scontro che oppose i fascisti teramani e abruzzesi a Guido Celli viene ricondotto a “spregevoli meschinità”, con un giudizio morale incapace di dar conto dei reali obiet­tivi a cui i fascisti miravano: l’erosione del consenso intorno all’uomo politico, in un tentativo nel cui ambito l’atteggiamento as­sunto da Celli alla Camera sul “caso Misia- no” svolgeva un ruolo puramente strumen­tale.

Occorre infine dar conto di un articolo di Umberto Russo su Ettore Janni che, pur nella sua brevità, costituisce una utile pre­messa allo studio di un personaggio assai si­gnificativo nel quadro politico (oltre che ov­viamente letterario e giornalistico) del primo dopoguerra34. La consapevolezza che l’ope­ra di Ettore Janni va valutata essenzialmente in quest’ultimo ambito, non impedisce al­l’autore di cogliere, nel ritrarsi di Janni dal

la politica dopo la breve parentesi parlamen­tare (fu eletto deputato dei “combattenti” nel 1919), l’atteggiamento “emblematico” di una larga parte della vecchia classe dirigente alla vigilia della “marcia su Roma”. Allo stesso modo per Russo 1’“apertura sociale” , pure rintracciabile nell’attività politica di Janni, va circoscritta a un atteggiamento pa­ternalistico, dal momento che per lui il cen­tro di interesse continuava a restare “su ben altro versante, quello della libertà individua­le” . Il suo individualismo borghese, tutta­via, non lo legava a D’Annunzio, al quale pure era vicino nell’amicizia e anche episodi­camente nell’attività letteraria, né dal punto di vista stilistico né da quello ideologico. Per l’autore, perciò, l’intellettuale Janni si rap­porterebbe ad un altro versante dell’intellet­tualità regionale (Croce, De Lollis) che, “muovendo da una visione liberale e cristia­na della vita (...) si [sarebbe] aperta ad un’ampia disponibilità sociale” .

La panoramica fin qui abbozzata deve te­ner conto anche di un consistente numero di saggi che prendono in esame gli aspetti più particolarmente politici. Pur se di livello di­verso e circoscritti in genere agli ambiti pro­vinciali, essi costituiscono una utile base di partenza.

L’unico saggio che affronta regionalmen­te gli aspetti sociali e politici del biennio 1919-20, è quello di Paolo Muzi35. Un’anali­si alquanto circostanziata permette all’auto­re di caratterizzare le agitazioni sociali col segno della spontaneità e frammentarietà ed evidenziare come, specie per le zone interne e montane, a guidarle sono le organizzazioni degli ex combattenti36. La qualità nuova di questi movimenti contro il caroviveri e le tasse starebbe per Muzi da un lato nella den-

34 Umberto Russo, Ettore Janni un indipendente per vocazione, in “Oggi e domani”, 1975, n. 12.35 Paolo Muzi, I moti sociali in Abruzzo nei primo dopoguerra (1919-1920), in “Rassfr”, 1982, n. 3.36 Sul fenomeno del combattentismo si veda anche Luigi Ponziani, Le elezioni del 1919 a Teramo. Lotte politiche e sociali, Teramo, 1977.

Dopoguerra e fascismo in Abruzzo 101

sità degli stessi, dall’altro nella loro mutata valenza politica determinata dal diffuso pro­cesso organizzativo. In ultima analisi si trat­terebbe di un movimento popolare parallelo (o solo raramente coincidente con esse) alle lotte agrarie e rivendicative che nello stesso torno di tempo si sviluppano nel Teramano, nel Fucino e tra i ferrovieri abruzzesi37.

Non particolarmente originali appaiono, per converso, alcuni studi che prendono in esame la violenza squadristica sviluppatasi nel 1921-22. L’insieme di tali studi non sem­bra superare, in generale, i limiti di una rico­struzione “militante” nella quale i giudizi morali e politici rischiano di prendere il so­pravvento sull’analisi dei fenomeni che sono alla base della radicalizzazione dello scon­tro, del trasformismo, del dissidentismo fa­scista e dell’atteggiamento dei ceti dirigenti nei confronti del fascismo38.

Di più marcato interesse risulta, invece, il saggio che Raffaele Colapietra dedica alle vi­cende politiche di Lanciano39. Gli scontri mu­nicipali che vengono evidenziati ci riconduco­no ad un clima meridionale nel quale trasfor­mismo e personalismo sono il presupposto di ogni lotta politica. In tale ambito sarebbe possibile comprendere l’equivocità del socia­lismo lancianese egemonizzato dal paternali­

smo di Umberto Cipollone, esponente di spicco della massoneria regionale, il cui pro­gramma sarebbe a mezza strada tra il “rifor­mismo” e la “democrazia del lavoro”. Allo stesso modo il fascismo a Lanciano risultereb­be diretta emanazione del partito municipale di Gerardo Berenga il cui operato starebbe a rap­presentare soprattutto “il tentativo disperato del vecchio clientelismo giolittiano fiorente all’ombra di Corradini di ritagliarsi uno spa­zio distinto, e possibilmente egemonico, nei confronti tanto della componente combat­tentistica del ‘Blocco nazionale’ quanto delle svariate sfumature della democrazia”40.

La tendenza a considerare il quadriennio postbellico nell’ottica dello scontro fasci­smo-antifascismo ha determinato una caren­za di studi sulle singole formazioni politiche, tradizionali e nuove che fossero, sui cui uo­mini, programmi, concreto operare, perma­ne una sostanziale ignoranza. Le poche ri­cerche, con i limiti sopra ricordati, hanno ri­guardato il Psi e il Pcd’I41, mentre pressoché inesplorato appare il campo delle organizza­zioni cattoliche e delle classi dirigenti prefa­sciste42. Per quest’ultimo aspetto l’unico saggio degno di nota è quello di Fausto Eu­geni sulla massoneria negli Abruzzi e in par­ticolare nella provincia di Teramo, che sem-

37 Per le agitazioni agrarie in provincia di Teramo si veda Luigi Ponziani, Lotte agrarie nel primo dopoguerra; la nascita del fascismo a Teramo, in “Rassfr”, 1980, n. 3; per la Marsica, Raffaele Colapietra, Fucino, cit.38 Ci si riferisce in particolare a Costantino Felice, La provincia dì Chieti tra rivoluzione e reazione: appunti per un’analisi del primo dopoguerra, in “Rassfr” , 1981, n. 3; Fiorina Gianvincenzo-Paolo Muzi, Il terrorismo squadri­sta in provincia dell’Aquila prima e dopo la marcia su Roma, in “Rassfr”, 1980, n. 1 ; Egidio Marinaro, La provin­cia di Teramo alla vigilia della marcia su Roma: l ’occupazione squadrista di Campii, in “Rassfr” , 1980, n. 1; Id., Novembre 1920: la campagna amministrativa dei socialisti in provincia di Teramo, in “Rassfr” , 1980, n. 3. Limiti di tale genere sono ancora presenti nel saggio di Luigi Ponziani, La scissione del Partito socialista: il fascismo in provincia di Teramo, in “Rassfr” , 1981, n. 2.39 Raffaele Colapietra, La “libertà” di Lanciano tra Giolitti e Mussolini, in “Rassfr, 1982, n. 1.40 Ivi, p. 47. Su questo aspetto si veda anche la relazione introduttiva di Giuseppe Galasso, in Aa.Vv., Mezzogior­no e fascismo, cit., pp. 26-27.41 Si vedano i saggi di Egidio Marinaro, L ’unità socialista dei lavoratori abruzzesi nel 1921: fantoccio o realtà?, in “Rassfr”, 1981, n. 3; Adolfo Lalli, Socialismo e socialisti in Abruzzo, Chieti, 1970; A. Marino, Partiti e movimen­to operaio a Teramo dal 1861 al 1945, Teramo, 1978.42 Per le organizzazioni cattoliche l’unico studio, limitato alla sola provincia di Teramo, è quello di Luigi Ponziani, La nascita del Partito Popolare Italiano a Teramo e la mancata presentazione alle elezioni del 1919, in “Trimestre”, 1982, nn. 1-2. Alcuni cenni sono pure presenti in Giuseppe Bolino, Sull’antifascismo dei cattolici in Abruzzo, in

102 Luigi Ponziani

bra cogliere le peculiarità di una rete organiz­zativa fatta di rapporti personali e professio­nali, oltre che politici, all’interno della quale sembrano muoversi le forze migliori della de­mocrazia prefascista, il cui ruolo appare una “costante nella vita pubblica dell’intera regio­ne, almeno fino al fascismo e la cui reale in­fluenza è ancora tutta da scoprire”43.

La sostanziale limitatezza delle fonti bi­bliografiche fin qui citate non ci consente di giungere a conclusioni significative: è possi­bile, tuttavia, avviare una prima riflessione che ipotizzi alcune linee per una rinnovata ri­cerca sul dopoguerra abruzzese44.

Le esigenze poste dalla recente storiografia sulla opportunità, specie per lo studio del primo fascismo nel meridione, di procedere con un’analisi differenziata, ci spingono da un lato a non utilizzare pedissequamente cri­teri interpretativi (“fascismo agrario” “fasci­smo urbano”) la cui validità, se può avere si­gnificato (e non sempre) per il centro-nord, certamente non ha rilevanza ai fini di uno studio sul fascismo meridionale; dall’altro, l’obiettiva sfasatura di tempi che esiste tra manifestarsi e affermarsi del movimento fa­scista nel centro-nord rispetto al sud, deve sempre più spingere la ricerca verso la metà degli anni venti. Tale esigenza deve tuttavia essere temperata per gli Abruzzi, dove diver­sità strutturali, differenze ambientali, varietà dell’articolazione sociale, rendono necessari un approccio capace di cogliere quella ric­chezza di situazioni testé delineata. Sembra poi in gran parte da approfondire il nesso che lega combattentismo-fascismo-naziona­lismo nella consapevolezza che il fenomeno

del combattentismo assume significati e va­lenza politica diversi a seconda degli ambiti geografici, sociali e quindi politici in cui si manifesta. Un conto è infatti l’analisi del combattentismo teramano e pescarese, tutto teso nella sua “prosaicità” ad un’affermazio­ne sociale e politica sul forte movimento con­tadino di ispirazione socialista; altra cosa so­no le organizzazioni combattentistiche mar- sicane, divise tra la soggezione al “partito” corradiniano e le aspirazioni sociali a comin­ciare dal possesso della terra; altro ancora è il combattentismo aquilano nel quale più forti si fanno sentire motivi mutuati dal radicalismo dannunziano e repubblicaneggiante che ne ali­mentano un larvato dissidentismo. Allo stesso modo per il fascismo va analizzato l’insieme delle componenti sociali e politiche che lo ali­mentano e che vengono via via ricondotte ad unità sotto il segno del conservatorismo pro­prietario di Giacomo Acerbo. Infine, l’appro­fondimento della ricerca sul nazionalismo abruzzese va realizzato non tanto in rapporto alle suggestioni dannunziane, meno influenti, forse, sul piano politico di quanto comune­mente si creda, quanto sul più concreto terre­no del “trasformismo” e del personalismo ti­pici del meridione, i cui rappresentanti sono alla ricerca di un ruolo autonomo che possa contrapporsi, o per lo meno trattare in con­dizioni di parità, col fascismo vittorioso.

È inutile ribadire come l’assenza di qual­siasi studio sulle classi dirigenti abruzzesi prima del fascismo costituisca un grave limi­te alla comprensione del ruolo da esse avuto nel periodo di transizione al regime. Se in­fatti il loro comportamento nei primi due

Renato Willermin e l ’antifascismo cattolico, L’Aquila, 1981, pp. 32-34 e in Costantino Felice, La chiesa abruzzese dalla caduta di Mussolini alla Repubblica, in “Rassfr” , 1984, n. 1, pp. 7-9. Utili notizie riguardanti gli Abruzzi si trovano anche nel Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, Casale Monferrato, Marietti, 1982, alle cui voci si rinvia.43 Fausto Eugeni, Massoneria ed opposizione costituzionale in Abruzzo e Molise dinanzi a! fascismo, in “Rassfr”, 1980, n. 1, la citazione è a p. 61.44 L’unica riflessione fin qui tentata è quella di Raffaele Colapietra, Il fascismo, cit., che però prende in esame l’in­tero arco del ventennio e un’area geografica comprendente oltre gli Abruzzi, il Molise e la Puglia.

Dopoguerra e fascismo in Abruzzo 103

decenni del secolo fu improntato a pedisse­quo ministerialismo da un lato (giolittiano, salandrino e nittiano che fosse), a localismo municipalistico come inevitabile corollario dall’altro, è verosimile l’ipotesi secondo cui il loro inclinare al fascismo in una regione nella quale i liberali delle varie gradazioni conservavano cospicue posizioni di predo­minio, è da considerare nel quadro delle “garanzie” che il nuovo ministerialismo, ora di segno fascista, poteva offrire. In tale am­bito è possibile avviare uno studio teso alla ricostruzione dei tempi e dei modi attraverso i quali si realizza il loro collocarsi all’interno del regime, auspice il nazionalismo trasfor­mista alla Raffaele Paolucci.

Per finire, sembra particolarmente impor­tante ribadire come una rinnovata attenzio­ne agli studi sul movimento operaio e sul so­cialismo abruzzese debba uscire fuori dai li­miti che fin qui li hanno contraddistinti. Per un verso, infatti, occorre inserire, così come si è fatto nazionalmente, tale tipo di studi in un ambito più generale, capace di metterne in evidenza i caratteri di fondo e superare un atteggiamento “minoritario” che, oltre a non essere particolarmente fecondo da un punto di vista storiografico, non appare ve­ritiero. L’approfondimento degli studi sul socialismo abruzzese prefascista va perciò attuato attraverso lo studio, oltre che degli episodi in cui si concretizza lo scontro socia­le, anche dei suoi dirigenti parecchi dei qua­li, per formazione culturale (basti pensare a

Celli, a Emidio Agostinone, allo stesso Lo- pardi), vanno di diritto ascritti nel novero della classe dirigente abruzzese. D’altro can­to il superamento del criterio interpretativo rivoluzione-reazione fin qui generalmente seguito, appare la strada migliore per com­prendere le compromissioni “democrati­che” , o financo massoniche, di certo sociali­smo abruzzese che, pertanto, andrebbe più correttamente considerato come un’altra espressione attraverso cui si articola la classe dirigente regionale e perciò con essa non ne­cessariamente contrastante.

Tutto ancora da esplorare è il movimento cattolico. Il fallimento organizzativo e poli­tico del Partito popolare, evidenziatosi in particolare nel corso delle elezioni del 1919 e del 1921, ci consente di ipotizzare come il movimento cattolico abruzzese trovasse an­cora difficoltà a scrollarsi di dosso l’interes­sato legame con le consorterie detentrici del potere locale che aveva avuto modo di mani­festarsi nel succubo atteggiamento tenuto dalle gerarchie cattoliche fin dalle elezioni del 1913. Individuare perciò le ragioni e i modi attraverso cui tali legami si erano con­servati, se per un verso ci permetterà di co­gliere i motivi della gracilità del nuovo parti­to, ci consentirà d’altro canto di gettare le premesse per la comprensione della prepon­derante egemonia cattolica che la regione ha conosciuto alla fine del ventennio fascista.

Luigi Ponziani

ATTIVITÀ EDITORIALE DELL’UFFICIO STORICO

STATO MAGGIORE ESERCITO - 1985

I verbali delle riunioni tenute dal Capo di Stato maggiore generale, Voi. Ili, 1° gennaio-31 dicembre 1942, pp. XXVI - 936, L. 20.000; a cura di A. Biagi- ni, F. Frattolillo, S. Saccarelli.

F. Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopo­guerra, pp. 792, L. 18.000.

S. Loi, La brigata d’assalto Italia, pp. 329, L. 8.000.

M. Montanari, Le operazioni in Africa settentrionale, Vol. I, Sidi el Barrarti (giugno 1940-febbraio 1941), pp. 703 - con 20 schizzi, 69 allegati, 24 fotografie e 11 carte fuori testo, L. 25.000.

Giusti Del Giardino, Cappuzzo, Brignoli, Luraghi, Mazzetti, Ceva, Rochat, Berti- naria, Strich-Liever, Il problema dell’Alto comando dell’esercito italiano dal risorgimento al patto atlantico, Atti del Convegno indetto dalla Società “Sol­ferino e San Martino” (18-19 settembre 1982), pp. 250, L. 6.000.

L. Tuccari, L’impresa di Massaua, pp. 243, L. 8.000.

F. Stefani, Storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano,Vol. Il, Tomo I, Da Vittorio Veneto alla 2 a Guerra Mondiale, pp. 684, L. 23.500.

Isastia, Rotasso, Ferrari, Baroni, Ilari, Tuccari, Brugioni, Adami, Weiss, Bovio, Raserò, Biagini, Calabresi, Frattolillo, Studi storico militari 1984, pp. 601, L. 22 .000 .

A. Fara, La metropoli difesa, Architettura militare dell’Ottocento nelle città capitali d ’Italia, con un racconto di D. Del Giudice, pp. XXII - 282, con 106 illu­strazioni e 4 tavole fuori testo, L. 35.000.

Di imminente pubblicazione:

A. Biagini, F. Frattolillo (a cura di), Diario storico del comando supremo, Voi. I, Tomo I, Diario (11 giugno 1940-31 agosto 1940), Tomo li, Allegati.

O. Bovio, L’araldica dell’esercito.

G. Conti, Il primo raggruppamento motorizzato, Prefazione di Renzo De Feli­ce, (1a ristampa).

Ricordo di Henri Micheldi Giorgio Vaccarino

Il 5 giugno è morto a Parigi Henri Michel, il grande storico della Seconda guerra mondia­le, della Resistenza francese ed europea. Nessuno storico ha ancora approfondito con una simile estesa competenza — come egli ha fatto in tutta la sua lunga vita di studioso — i diversi aspetti non solo della guerra, ma della vita interna del proprio paese e di altri ancora.

Non è possibile dare, in questa occasione, adeguata notizia di tutte le opere che costi­tuiscono la vastissima biblioteca uscita dalla ricerca e dal pensiero di Michel. Voglio qui ricordare in breve il magistrale profilo che egli ha dato dei gruppi politici e dei movi­menti di resistenza francese, nonché delle idee che hanno dato significato e vigore alla lotta {Les idées politiques et sociales de la Résistance française, con B. Mirkine Guet- zevich, 1954; Les courants de pensée de la Résistance, 1963; Combat, con Marie Gra- net, 1957; Histoire de la Résistance en Fran­ce, 1972; Histoire de la France libre, 1963); di talune grandi figure resistenti (Jean Mou­lin, l ’unificateur, 1964); e ancora del feno­meno collaborazionista e dei suoi principali attori {Vichy, année 40, 1966; Pétain, Laval, Darlan, trois politiques?, 1972; Pétain et le régime de Vichy, 1978); di alcuni gravi mo­menti critici della Francia in guerra {La drô­le de guerre, 1971; La défaite de la France, 1980\Le procès de Riom, 1979);della depor­tazione {Tragédie de la déportation, 1970); della vita della capitale, occupata e resisten­

te {Paris allemand, 1981; Paris résistant, 1982; La libération de Paris, 1980). Né si può dimenticare su questi temi l’acuta e ori­ginalissima sistemazione critica di tutta la bibliografia sulla resistenza francese, fonda­ta sull’esame di un migliaio di opere {Biblio­graphie critique de la Résistance, 1964).

Un posto a parte, nell’opera di Michel, spetta allo studio complessivo della guerra, nei suoi aspetti militari sui vari teatri opera­tivi, e in quelli assai complessi dei fronti in­terni {La seconde guerre mondiale, 2 voli., n.ed. 1977-78, trad. it. Milano, Mursia, 1977). Particolare attenzione egli ha portato all’analisi comparata delle manifestazioni resistenti in Europa {Les mouvements clan­destins en Europe, 1965; La guerre de l’om­bre, 1970, trad, it., Milano, Mursia, 1973). Sulle stesse egli è tornato nelle sue relazioni generali, tenute con angolazione diversa nei numerosi congressi internazionali a cui ha partecipato. Ci limitiamo a ricordare quello di Liegi sulla Resistenza europea (1958), e quelli di Milano (1961) e di Oxford 1962) sui rapporti con gli Alleati.

Una siffatta vastissima competenza sulla tematica internazionale, tradotta in un qua­dro eccezionalmente maturo di giudizi lun­gamente meditati, ha portato all’ultima ope­ra pubblicata {Et Varsovie fu t détrui­te, 1984), di cui vanno almeno sottolineate, oltre ai capitoli sulla tragedia dell’estate 1944, le pagine equilibrate sull’offesa recata alla na­zione polacca non soltanto dalla potenza

I ta l ia c o n te m p o ra n e a ” , se tte m b re 1986, n . 164

106 Giorgio Vaccarino

direttamente interessata, l’Urss di Stalin, ma dagli alleati anglo-americani, assorbiti dalla esigenza di salvaguardare per sè la grande alleanza di guerra. Il problema delle terre orientali staccate dallo stato polacco, è visto nella cornice della storica vertenza etnica, con un esemplare sforzo di obiettività da parte di un autore radicato ideologicamente nella cultura e nella concezione democratica occidentale.

È forse superfluo che si ricordi come mol­te delle opere citate di Henri Michel, insigni­to del “Grand Prix National d’Histoire” nel 1980, abbiano raggiunto e anche superato la quarta edizione e siano state tradotte in mol­te lingue occidentali ed anche orientali.

L’ultima fatica di Michel, sulla figura di Darlan e sulla tematica connessa del mondo di Vichy, della vicenda di Algeri e del colla­borazionismo, problemi da lui profonda­mente e a più riprese studiati, è augurabile e prevedibile sia prossimamente pubblicata.

Almeno un cenno infine va dato, oltre al­l’opera di studioso di Michel, a tutta l’inten­sa e proficua sua attività, quale organizzato- re di ricerche. Direttore onorario al “Centre National de la Recherche Scientifique” dal 1946 al 1980 ha avuto la responsabilità dei lavori del “Comité d’histoire de la 2a guerre mondiale”, organismo interministeriale di cui ha fondato e diretto l’omonima rivista, organo di rilevanza fondamentale e indi­spensabile strumento per gli studi sul perio­

do, nei suoi vari settori di ricerca. Presiden­te dal 1970 del “Comitato internazionale di storia della 2a guerra mondiale” che rag­gruppa gli storici di 37 paesi, e che ne ha cu­rato l’incontro periodico in congressi annua­li. E in ultimo, ideatore e promotore di un “museo-istituto”inteso a raccogliere tutta la documentazione possibile e gli strumenti ne­cessari per lo sviluppo degli studi sulla storia della resistenza in Europa, obiettivo che, nelle intenzioni di Henri Michel — e quale suo testamento morale — sarebbe andato ol­tre gli scopi della ricerca, per tradursi in una conferma oltre le frontiere dei valori che avevano sotteso lo sforzo comune di libera­zione e di avanzamento dei popoli d’Eu­ropa.

Chi scrive vuole ancora ricordare con commozione la lunga personale consuetudi­ne con l’illustre storico scomparso, sin dalla preparazione del lontano Congresso interna­zionale di Amsterdam, del settembre 1950, su “II Guerra mondiale a Occidente” e la vi­va amicizia che lo ha legato a lui nei molti anni di comune lavoro; non può infine di­menticare le sue ripetute dichiarazioni di ri- conoscenza, per avergli dato la possibilità, in occasione degli incontri in quegli anni lontani, di conoscere Ferruccio Paro, della cui figura, egli stesso attivo resistente, fu sempre un grande e devoto ammiratore.

Giorgio Vaccarino