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Studi e ricerche L’ombra del capitalismo Storia e prospettive del socialismo europeo Donald Sassoon Nella storia contemporanea, ha detto qual- cuno, non ci sono conclusioni ma solo rinvii. Ciononostante, ora che il nostro secolo si av- via al termine, è difficile evitare di gettare uno sguardo retrospettivo e, con maggiore ri- luttanza, di scrutare nel futuro. Qui dev’esse- re abbandonata anche la problematica cer- tezza di una narrazione basata su fatti noti. Dopotutto ogni racconto può avere diversi finali, nessuno dei quali definitivo. Nel frat- tempo la storia continua, e continua a pren- derci di sorpresa. La freccia della creazione può seguire una traiettoria discendente, ma non c’è modo di sapere quando o dove — e se — il bersaglio finale verrà raggiunto. Gli storici non sono così ingenui da sostenere che la storia è giun- ta alla fine. Essi non devono comportarsi — per prendere a prestito una metafora althus- seriana — come il viaggiatore onnisciente che sale a bordo per un viaggio in treno co- noscendo già tutte le stazioni del percorso come pure la destinazione finale1. Nello stu- dio della storia l’atteggiamento corretto è quello di chi salta su un treno in movimento senza sapere da dove viene e dove va, pas- seggia su e giù per le carrozze, esamina le suppellettili, chiacchiera con i passeggeri, scopre come hanno interagito fra loro, quali sono state le loro aspirazioni e le loro spe- ranze. Lo storico può guardare il paesaggio e notarne i cambiamenti. Guardando dal fi- nestrino — da cui “è pericoloso sporgersi” — può perfino osservare in quale direzione il treno svolterà, se si sta avvicinando una montagna o se si dovrà attraversare un fiu- me — ma non più di questo. Benché eventi di qualsiasi tipo, e in buona parte imprevedi- bili, possano accadere all’interno del treno, una cosa lo storico non deve dimenticare: i treni possono viaggiare più veloci o più len- ti, possono fermarsi, possono esplodere; ma sono costretti nei loro binari. La storia ri- guarda ciò che le persone fanno nei limiti della loro situazione, dei loro bisogni e del loro passato. Poco dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi Gramsci scrisse un breve articolo in elogio del volontarismo rivoluzionario. La Rivoluzione russa, dichiarava Gramsci, era stata una rivoluzione contro il Capitale di Karl Marx: Pubblichiamo il capitolo conclusivo della ricerca di Donald Sassoon sulla storia dei partiti della sinistra nell’Europa occidentale dal 1889 ad oggi, che comparirà entro l’inizio del 1996 con il titolo One Hundred Years of Socialism. The Wesi European Left in thè Twentieth Century presso I. B. Tankls, Londra. Nella traduzione sono stati omessi solamente i riferimenti ai precedenti capitoli del libro. 1 Nella sua metafora originaria, Althusser contrappone il filosofo “idealista”, che conosce l’origine e la fine di tutto, al filosofo “materialista” (vedi Louis Althusser, Philosophie et marxisme. Entretiens avec Fernanda Navarro (1984-1987), in Sur la philosophie, Paris, Gallimard, 1994, pp. 64-65 e i suoi Écrits philosophiques et politiques, voi. I, Paris, Stock- Imec, 1994, pp. 581-582). 'Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

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S tu d i e r icerch e

L ’ombra del capitalismoStoria e prospettive del socialismo europeo

Donald Sassoon

Nella storia contemporanea, ha detto qual­cuno, non ci sono conclusioni ma solo rinvii. Ciononostante, ora che il nostro secolo si av­via al termine, è difficile evitare di gettare uno sguardo retrospettivo e, con maggiore ri­luttanza, di scrutare nel futuro. Qui dev’esse­re abbandonata anche la problematica cer­tezza di una narrazione basata su fatti noti. Dopotutto ogni racconto può avere diversi finali, nessuno dei quali definitivo. Nel frat­tempo la storia continua, e continua a pren­derci di sorpresa.

La freccia della creazione può seguire una traiettoria discendente, ma non c’è modo di sapere quando o dove — e se — il bersaglio finale verrà raggiunto. Gli storici non sono così ingenui da sostenere che la storia è giun­ta alla fine. Essi non devono comportarsi — per prendere a prestito una metafora althus- seriana — come il viaggiatore onnisciente che sale a bordo per un viaggio in treno co­noscendo già tutte le stazioni del percorso come pure la destinazione finale1. Nello stu­dio della storia l’atteggiamento corretto è quello di chi salta su un treno in movimento senza sapere da dove viene e dove va, pas­

seggia su e giù per le carrozze, esamina le suppellettili, chiacchiera con i passeggeri, scopre come hanno interagito fra loro, quali sono state le loro aspirazioni e le loro spe­ranze. Lo storico può guardare il paesaggio e notarne i cambiamenti. Guardando dal fi­nestrino — da cui “è pericoloso sporgersi” — può perfino osservare in quale direzione il treno svolterà, se si sta avvicinando una montagna o se si dovrà attraversare un fiu­me — ma non più di questo. Benché eventi di qualsiasi tipo, e in buona parte imprevedi­bili, possano accadere all’interno del treno, una cosa lo storico non deve dimenticare: i treni possono viaggiare più veloci o più len­ti, possono fermarsi, possono esplodere; ma sono costretti nei loro binari. La storia ri­guarda ciò che le persone fanno nei limiti della loro situazione, dei loro bisogni e del loro passato.

Poco dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi Gramsci scrisse un breve articolo in elogio del volontarismo rivoluzionario. La Rivoluzione russa, dichiarava Gramsci, era stata una rivoluzione contro il Capitale di Karl Marx:

Pubblichiamo il capitolo conclusivo della ricerca di Donald Sassoon sulla storia dei partiti della sinistra nell’Europa occidentale dal 1889 ad oggi, che comparirà entro l’inizio del 1996 con il titolo One Hundred Years of Socialism. The Wesi European Left in thè Twentieth Century presso I. B. Tankls, Londra. Nella traduzione sono stati omessi solamente i riferimenti ai precedenti capitoli del libro.1 Nella sua metafora originaria, Althusser contrappone il filosofo “idealista”, che conosce l’origine e la fine di tutto, al filosofo “materialista” (vedi Louis Althusser, Philosophie et marxisme. Entretiens avec Fernanda Navarro (1984-1987), in Sur la philosophie, Paris, Gallimard, 1994, pp. 64-65 e i suoi Écrits philosophiques et politiques, voi. I, Paris, Stock- Imec, 1994, pp. 581-582).

'Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201

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Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei bor­ghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si for­masse una borghesia, si iniziasse un’era capitalisti­ca, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletario potesse neppure pensare al­la sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, al­la sua rivoluzione2.

I rivoluzionari comunisti governarono la Russia e i territori da essa dominati per quasi tre quarti di secolo. La loro rivoluzione non fu né un atto volontaristico contro le leggi della Storia (come era sottinteso nell’elogio di Gramsci), né l’apogeo lucido e premedita­to di una rivoluzione progettata da tempo. Fu una congiuntura storica unica ad offrire ai bolscevichi l’opportunità di impadronirsi del potere. Essi vinsero la guerra civile, re­spinsero l’intervento straniero, furono a loro volta respinti alle porte di Varsavia e videro dileguarsi rapidamente la prospettiva della rivoluzione mondiale. Si volsero allora alla situazione interna e affrontarono il compito ereditato dai loro predecessori: la moderniz­zazione del paese. Continuarono a lottare contro il “capitale” — sia quello di Karl Marx, sia il capitalismo reale che li circonda­va. Costruirono una potente macchina indu­striale, sconfissero la Germania nazista, con­quistarono metà dell’Europa ed estesero la loro influenza in ogni parte del globo. Sotto la loro bandiera furono combattute guerre di liberazione nazionale, perpetrati crimini, suscitate speranze ed escogitati progetti gran­diosi e spesso mal concepiti finalizzati a mi­gliorare le condizioni della gente. La storia del ventesimo secolo è indissolubilmente le­gata a questa epica lotta contro il capitali­smo. I bolscevichi tentarono di raggiungere

il sole o, come disse Lenin, volevano “rifare il mondo”3. Ma la fenice che si libra in volo non può aspirare a simili altezze se le sue ali sono gravate da tanto sangue e da tanta uma­na sofferenza. Oggi possiamo essere certi, nella misura in cui una tale assunzione è am­missibile nello studio della storia, che quella rivoluzione, la rivoluzione contro il capitale, è fallita.

Un verdetto così severo non è invalidato dal riconoscimento che molte società sociali­ste sono state capaci di elevare le condizioni materiali di vita della maggioranza delle loro popolazioni in misura assai maggiore rispet­to alle società non socialiste ad esse parago­nabili. Ad esempio, nel 1955, a Cuba l’aspet­tativa di vita era di 59 anni e mezzo, inferiore rispetto al Paraguay, all’Argentina e all’Uru­guay, e la mortalità infantile era superiore a quella di questi tre paesi. Ma nel 1985 l’aspet­tativa di vita del cubano medio era di settan- tacinque anni, maggiore di quella di qualsiasi altro latinoamericano e di poco inferiore a quella dell’americano medio (75, 9 anni). La mortalità infantile a Cuba, trent’anni dopo la rivoluzione socialista, era la più bassa in America latina, i bambini di Cuba erano i meglio nutriti e il livello di alfabetizzazione era il più alto4. Negli anni cinquanta in Cina l’aspettativa di vita era inferiore rispetto al­l’India e la mortalità infantile superiore, ma alla fine degli anni ottanta la Cina aveva compiuto, sotto questi aspetti, progressi maggiori dell’India3. All’interno della stessa India lo stato del Kerala, governato dai co­munisti per la maggior parte degli anni a par­tire dal 1957, ha scavalcato tutti gli altri stati indiani per quanto riguarda l’alfabetizzazio­ne e gli indicatori sanitari6. Secondo gli stessi

Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il "Capitale”, in Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi. 1975, p. 150. Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, in Opere complete, voi. XXIV, Roma, Editori Riuniti, 1966, p.

79.4 Vicente Navarro, Has Socialism Failed? An Analysis of Health Indicators under Socialism, “International Journal of Health Services”, 1992, n. 4, pp. 586-587.5 V. Navarro, Has Socialism Failed?, cit., pp. 588-589.6 V. Navarro, Has Socialism Failed?, cit., p. 591.

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parametri le repubbliche centroasiatiche del- l’Urss — almeno fino al 1975 — hanno otte­nuto risultati migliori dei vicini Iran, Afgha­nistan e persino della Turchia7. Tuttavia, sti­me condotte sul periodo posteriore al 1975 in Urss mostrano un peggioramento senza pre­cedenti di tutti gli indicatori sanitari, com­presa la mortalità infantile8.

È quando confrontiamo gli stati socialisti dell’Europa centrale e orientale — compresa l’Urss — con i vicini stati capitalisti dell’Eu­ropa occidentale che il fallimento della piani­ficazione centralizzata nell’organizzazione delle società avanzate diviene evidente. L’ambizione dei comunisti (compreso Lenin) era quella di dirigere una società dell’abbon­danza, non una società della penuria, e di sfi­dare il capitalismo ai suoi massimi livelli, là dov’era maggiormente sviluppato. Rispetto a questi obiettivi, il comuniSmo è miseramen­te fallito. Nei paesi in via di sviluppo ancora dominati da forme precapitalistiche di pro­duzione e di proprietà, l'inadeguatezza della pianificazione comunista è stata meno pale­se. Il comuniSmo come strumento di moder­nizzazione non è stato un fallimento. Il co­muniSmo come strumento di emancipazione degli esseri umani dalla schiavitù della neces­sità è stato una catastrofe.

In Europa occidentale, già molto tempo prima del crollo dell’Urss la rivoluzione bol­scevica non era più considerata, neppure da­gli stessi comunisti, come un modello per la presa del potere. Naturalmente alcuni piccoli gruppi politici continuavano a sognare l’in­surrezione in Europa occidentale, sebbene dopo il 1945 la probabilità che essa si verifi­casse fosse ancora minore che in qualsiasi al­tro periodo nei cento anni precedenti. Questi gruppi sono stati tu tf al più in grado di lan­

ciare una campagna terroristica (come hanno fatto le Brigate rosse in Italia), o di suggerire in quel periodo ai giovani e ai meno giovani vistose azioni di protesta, come hanno fatto a intermittenza, negli ultimi anni sessanta e negli anni settanta, i vari gruppi maoisti, gue- varisti, trotskisti e anarchico-libertari. Disor­dini e altre forme di violenza politica possono ancora verificarsi qua e là ma — a differenza delle donne di Pietrogrado la cui manifesta­zione nella giornata internazionale della don­na nel marzo 1917 suonò come una campana a morto per il regime zarista — qualsiasi fu­tura rivolta resterà probabilmente senza gui­da e senza forma, simile a un grido di ango­scia o poco più, anziché a un programma po­litico.

Marx non ha mai seriamente preso in esa­me il modo in cui una società può superare il capitalismo e instaurare il socialismo. Egli ha definito il socialismo nei termini estrema- mente generici della giustizia distributiva — “a ognuno secondo il suo lavoro” — , a cui avrebbe dovuto seguire il comunismo, defini­bile con la formula “a ognuno secondo i suoi bisogni”9. Non ha mai sviluppato una teoria del socialismo, né ha preso in considerazione il modo in cui lo si sarebbe dovuto pianificare o quali forme di proprietà comunitaria sareb­bero dovute esistere al suo interno. Non ha mai costruito una grande teoria che spiegasse come la produzione e la riproduzione delle condizioni della produzione capitahstica v en­gono a loro volta prodotte e riprodotte. Que­ste condizioni sono i mezzi esterni al mercato che servono a mantenere le relazioni di mer­cato: l’ideologia, la politica, lo stato, la fami­glia. Non si trova in Marx nulla di significa­tivo sulla nazionalizzazione, sul settore pub­blico o sulla pianificazione economica, Marx

7 V. Navarro, Has Socialism Failed?, cit., p 592.8 Si vedano i dati riportati in Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. London. Fontana Press. 19!®, sv 641 (Ascesa e declino delle grandi potenze, presentazione di Gian Giacomo Migone, tr. di Andrea Cellino. Milano, Gar­zanti, 1989, pp. 671-672). Si veda inoltre Murray Feshbach, Alfred Friendly Jr., Ecocide in the Urss fftatskunder Siege, New York, Basicbooks, 1992.9 Karl Marx, Crìtica al programma di Gotha, a cura di Umberto Cerroni, Roma. Editori Riuniti, 1976, p. 32,

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era un teorico del capitalismo che cercava di scoprire come funzionasse il sistema. Non era un teorico del socialismo e disprezzava gli estensori di programmi utopici. Era certo che il capitalismo non sarebbe durato per sempre, ma non ha mai spiegato come lo si sarebbe potuto abolire o come sarebbe finito da sé. Marx non dubitava affatto che il capi­talismo fosse il sistema più dinamico che mai potesse apparire sulla faccia della terra. Un sistema instabile, innovativo ed espansivo che avrebbe rivoluzionato il mondo unifican­dolo in una fitta rete: il mercato mondiale. Egli ha predetto con esattezza che

di pari passo con [la centralizzazione del capitale] [...] tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e cosi si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del re­gime capitalistico10 11.

Ma quanto all’involucro politico che avrebbe fatto da contenitore a questa formazione pla­netaria, Marx e i suoi seguaci tacquero.

Nel momento in cui scrivo, tutti i paesi ca­pitalisti avanzati sono governati secondo i principi e le regole della democrazia liberale. Il mercato dei beni di consumo si presenta a prima vista come la controfigura economica della politica: gli individui esercitano la loro sovranità di consumatori camminando su e giù per le corsie dei supermercati e optando per Daz anziché per Persil e poi, in quanto cittadini sovrani, infilano la scheda nell’urna per la Sinistra o per la Destra. Ma, come ha scritto Terry Eagleton,

Quella del mercato è una logica di piacere e di plu­ralità, una logica dell’effimero e del discontinuo, è la logica di una grande rete decentrata di desideri della quale i singoli consumatori sono funzioni transitorie. Mantenere a posto tutta questa anar­

chia richiede tuttavia un ordine politico, etico e ideologico che è assai meno rilassato e caotico [...] Ciò che accade al supermercato non assomi­glia affatto a ciò che accade in chiesa o all’asilo11.

Aggiungerei che ciò che accade al supermer­cato non assomiglia affatto a ciò che accade sul luogo di lavoro, cioè là dove i consumato­ri, trasformati in produttori, guadagnano il denaro che li abilita a essere consumatori. Nel mondo della produzione prevalgono autorità, gerarchia e disciplina. Votiamo per chi ci pare, compriamo qualunque cosa possiamo permetterci, ma al lavoro facciamo quello che ci ordinano di fare. Tradizional­mente i socialisti hanno tentato di intervenire nel mondo del lavoro e, dopo cent’anni di lotta, i produttori — almeno in Europa — la­vorano un po’ meno e in condizioni molto più salubri di quanto avvenisse nel 1889 e for­se anche con maggiore dignità. Ma non han­no accresciuto il controllo sulle proprie con­dizioni di lavoro a un ritmo anche lontana­mente paragonabile a quello dell’espansione della democrazia politica, dell’aumento della prosperità materiale, dell’allargamento del benessere sociale o del progresso nella scien­za e nella tecnologia. Controllare il capitali­smo si è rivelato molto più difficile che con­trollare qualsiasi altra cosa, perché il capita­lismo è un sistema basato sul controllo dei pochi sui molti — l’esatto contrario della de­finizione convenzionale di democrazia politi­ca. Questo vale, naturalmente, anche per tut­te le società tecnologicamente complesse che conosciamo, comprese le economie a pianifi­cazione centrale. Può darsi che l’unica via per ritornare al Paradiso terrestre sia eliminare il lavoro o, quantomeno, lavorare il meno pos­sibile12. Il fatto che le gerarchie forse non ver­ranno mai eliminate non le rende affatto me­

10 K. Marx, II Capitale, 3 voli., voi. I, tr. di Delio Cantimori, introduzione di Maurice Dobb. Roma, Editori Riuniti, 1964 (quinta edizione), p. 825.11 Terry Eagleton. Discourse and discos, “The Times Literary Supplement” , 15 luglio 1994, n. 4763, p. 4.12 Un punto di vista argomentato con ampiezza da André Gorz, Les chemins du paradis, Paris, Éditions Galilée, 1983, in particolare pp. 85-86 {La strada del paradiso: l ’agonia del capitale, tr. di Luigi Del Grosso Destrieri, Roma, Lavoro,

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no antidemocratiche o meno sgradevoli. Può darsi che lo stupro sia sempre esistito e che non scompaia mai, ma noi continuiamo a considerarlo come un atto di indegna bruta­lità.

L’espansione capitalista può sembrare, vi­sta a posteriori, un fatto inevitabile. Eppure essa ha incontrato resistenze le cui fonti sono molteplici. A uno sguardo analitico, ne spic­cano in particolare tre (in pratica poi queste distinzioni non sono cosi nette). La prima è la resistenza opposta dalla tradizione incar­nata in quelle strutture sociali, economiche e ideologiche che si erano sviluppate prima dell’avvento del capitalismo e che continua­rono a sopravvivere accanto a esso. La se­conda è costituita dall’ex “campo socialista”, vale a dire da quei paesi che, dopo la rivolu­zione bolscevica e la seconda guerra mondia­le, perseguirono una politica di modernizza­zione e di sviluppo industriale pianificati dal centro antagonista al capitalismo e al mercato mondiale. La terza fonte di resisten­za è rappresentata dai partiti socialisti e co­munisti dell’Europa occidentale che median­te la regolamentazione hanno imposto limiti al capitalismo, mentre sognavano di estirpar­lo.

La terminologia che ho appena utilizzato richiede qualche chiarimento. Due concetti sono particolarmente problematici: “resi­stenza al capitalismo” e “regolamentazione”.

La parola “resistenza” potrebbe sottinten­dere che il capitalismo ha la sua logica, il suo destino preordinato come una nave di cui è nota la destinazione. Tempeste e temporali possono ostacolare il suo viaggio e mandarla momentaneamente fuori rotta. Ma ben pre­sto essa riprende il suo corso, senza subire conseguenze dalle tempeste del giorno prece-

dente. Questa visione teleologica trova sia a sinistra sia a destra i suoi fautori, i quali so­stengono che il capitalismo ha un senso o uno scopo ultimi, anche se divergono quando si tratta di determinare in che cosa esso po­trebbe consistere. A sinistra i socialisti euro­pei (compresi gli ecologisti socialisti) hanno sostenuto che il “capitalismo sfrenato” avreb­be inevitabilmente condotto a disoccupazione di massa, povertà, guerre, spoliazione del pia­neta, insopportabile ineguaglianza, persino barbarie. Hanno cioè sostenuto che uno svi­luppo capitalistico anarchico, non tenuto sot­to controllo dalla consapevole attività regola­trice dell’uomo, sarebbe disastroso per l’uma­nità. Dopo avere riconosciuto la gravità della crisi ambientale, essi ora fanno notare che nel capitalismo non vi è alcun meccanismo spon­taneo che consenta di impedire crisi ecologi­che di grande portata. A destra pensatori co­me Hayek, il più lucido e coerente oppositore teorico del socialismo in questo secolo, hanno sostenuto che il capitalismo tende natural­mente e spontaneamente verso la migliore, o quantomeno non la peggiore, delle società possibili. The Fatal Conceit, che costituisce l’attacco finale di Hayek contro il socialismo, ripropone il punto di vista centrale di gran parte del suo pensiero13. Vi si sostiene che il capitalismo richiede soltanto alcune “regole astratte” che impediscano a chiunque di inva­dere la sfera di libertà di chiunque altro. Que­sta dottrina, recentemente rimessa in auge dai neoliberali come se fosse l’ultima novità nella teoria economica postsocialista, mi ricorda un aneddoto attribuito a François Quesnay (1694-1774), fondatore della scuola fisiocrati- ca, inventore del laissez-faire e nemico giura­to dell’interventismo statale colbertiano. Un giorno Luigi XV chiese a Quesnay (che era

1984, pp. 85-86); ma si veda anche K. Marx, Il Capitale, voi. 111. tr. di Maria Luisa Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1965 (quarta edizione), p. 933.13 Si veda per esempio Friedrich August Hayek, The Constitution of Liberty, London, Routledge & Kegan, 1960 (La società libera, tr. di Marcella Bianchi Di Lavagna Malagodi, Firenze, Vallecchi, 1969), le cui indicazioni — si veda in particolare il capitolo XVIII sui sindacati — hanno rafforzato la posizione antisindacale della destra negli Usa e nel Regno Unito.

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il suo medico) che cosa avrebbe fatto se fosse stato il re. “Semplice, Sire, non farei proprio niente” . “Chi regnerebbe, allora?” chiese Lui­gi. “La legge”, rispose Quesnay14 15. È inutile dire che questo consiglio non è stato spesso ascoltato. Eppure, per Hayek, sforzarsi di fa­re più di quanto suggeriva Quesnay ha rap­presentato la “presunzione fatale” di chi ritie­ne che “l’uomo sia in grado di plasmare il mondo che lo circonda secondo i propri desi­deri” 13. Hayek aggiunge che i socialisti e tutti coloro che cercano di far sì che la società adotti alcuni “scopi concreti comuni” creano una situazione che può portare solo alla “schiavitù” 16. Ma è chiaro che nemmeno Hayek può sfuggire a una presunzione fatale: quando egli specifica le sue “regole astratte”, emerge che esse richiederebbero sia un impro­babile ritorno ai valori morali del passato, sia un’ancor più improbabile rivoluzione costitu­zionale che, fra altre assurdità, richiederebbe che le persone votassero una volta sola nella vita, a quarantacinque anni, e solo per candi­dati più anziani di loro!17

Concordo peraltro con Hayek quando ri­fiuta di attribuire al capitalismo o a qualsiasi altro modo di produzione una qualsivoglia

direzione interna preordinata. “ Il capitali­smo moderno — ha scritto Joan Robinson — non ha alcun altro scopo se non quello di tenere in piedi la baracca” 18 . Se il capita­lismo non ha alcun fine, allora non può nean­che fornire alcun criterio per valutare il pro­prio successo all’infuori di uno: la sua stessa sopravvivenza, che a sua volta dipende dalla sua espansione. Come afferma Hayek: “La vita non ha alcuno scopo alfinfuori di se stes­sa [...] La vita esiste solo fintantoché provve­de alla propria durata” 19. Se questi sono va­lori, allora li condividono anche le cellule del cancro.

Hayek in quel passo riecheggia Marx, per il quale l’“autoespansione” del capitale è l’u­nico scopo della produzione capitalista20. Più avanti Marx aggiunge: “ Il capitale produce essenzialmente capitale”21. Il capitalismo non è un’ideologia, né una filosofia, né un in­sieme di credenze. E un modo di produzione, un modello astratto. Tuttavia, esso può esi­stere in un determinato contesto storico solo se è strutturato, regolato, organizzato, mo­dellato, giustificato, legittimato e quindi limi­tato dall’interazione di idee diverse. Essere a favore del capitalismo significa poco se non si

14 Una versione di questo aneddoto si può trovare in Pierre Rosanvallon, Le libératisme économique. Histoire de l ’idée de marche, Paris, Éditions du Seuil, 1989, p. 82; il primo autore che utilizzò l’espressione laissez-faire nella teoria eco­nomica fu il marchese d’Argenson, un contemporaneo di Quesnay.15 F. A. Hayek, The Fata! Conceit. The Errors o f Socialism , in Collected Works, voi. I, a cura di William Warren Bar- tley, London, Routledge, 1988, p. 27.16 F. A. Hayek, The Fatai Conceit, cit., p. 63.17 Questa perla si può trovare in Statement o f thè Liberal Principles o f Justice and Politicai Economy, voi. Ili, The po­liticai order o f a Free People, London, Routledge & Kegan, 1993, p. 113 (prima edizione con il titolo Law, Legislation and Liberty, 3 voli. London, Routledge & Kegan, 1973-1979; Legge, legislazione e libertà. Una nuova enunciazione dei principi liberali della giustizia e della economia politica, a cura di Angelo Petroni, Stefano Monti Bragadin, tr. di Pier Giuseppe Monateri, Milano, Il Saggiatore, 1986, p. 487). In quest'opera si possono trovare ulteriori dettagli: ingegneria sociale à la Platone tracciata da questo libertario, compreso, a p. 117, il suggerimento che i giovani, in tal modo privati del diritto di voto, dovrebbero essere incoraggiati ad aderire a “club di coetanei” resi più appetibili dal fatto che le don­ne dovrebbero avere due anni meno degli uomini (cfr. F.A. Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., pp. 490-491). Ho trovato il riferimento a questo testo in David Marquand, The Unprincipled Society. New Demands and Old Politics, Lon­don, Fontana, 1988, pp. 81-83.18 Joan Robinson, Economie Heresies. Some Old-fashioned Questions in Economie Theory, London e Basingstoke, Mac­millan, 1972, p. 143 (Eresie dell’economia. Un riesame della teoria per il nuovo dibattito economico, tr. di Giovanna Ri­coveri, Milano, Etas Kompass, 1972) [la traduzione della citazione dall'inglese è nostra],19 F. A. Hayek, Statement o f thè Liberal Principles, cit., p. 133.2,1 K. Marx, Il Capitale, voi. Ili, cit., p. 303.21 K. Marx, Il Capitale, voi. Ili, cit., p. 999.

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è coerentemente disposti a favorire qualun­que organizzazione politica della società sia necessaria in una data situazione per assicu­rare la riproduzione delle condizioni dell’ac­cumulazione capitalistica. Ma questo vorreb­be dire rinunciare alla politica a favore della tecnica. Alcuni capitalisti possono farlo e so­stenere qualunque sistema che in una data congiuntura si trovi a rispondere alle esigen­ze del capitalismo, sia esso la democrazia americana, il nazismo tedesco, la socialde­mocrazia svedese o forse, fra non molto, an­che il “comunismo” cinese. Ma lo farebbero in base a convenienza pragmatica, non a principi morali e politici. L’affermazione di Hayek secondo cui il capitalismo si sviluppa al meglio là dove vige la massima libertà eco­nomica è stata spesso smentita dagli eventi. La sua fede nelle possibilità di un capitalismo “naturale” e non limitato non ha alcun fon­damento storico.

I tre ostacoli o “resistenze” cui ho fatto ri­ferimento non devono quindi essere intesi co­me caratteri che interrompano, rallentino o reindirizzino il capitalismo a partire da un suo corso “naturale”, che non esiste. Questi ostacoli appartengono alla storia stessa del capitalismo. Il capitalismo è come un fiume potente che deve scorrere da qualche parte. La natura, la sorte e l’attività consapevole degli esseri umani possono costringerlo in questa o in quella direzione. Il fiume può prosciugarsi e lasciare il terreno a secco. Op­pure, se lasciato indomito, può scorrere in modo selvaggio e distruggere tutto ciò che trova innanzi a sé. Ma non ha alcuna logica interna, né alcuna progressione preordinata.

Comprendere con precisione quale sareb­be stato il decorso del capitalismo europeo se non fossero esistiti i partiti socialisti o i sin­dacati esigerebbe un livello di ragionamento controfattuale che eccede le nostre capacità analitiche, perché comporterebbe la “riscrit­tura” non di un episodio o due, ma di tutta la storia degli ultimi cent’anni. La storiogra­fia “di parte” del movimento socialista e ope­

raio si è eccessivamente concentrata sulle “ occasioni mancate” : un’idea basata sulla fantasiosa convinzione che “se solo” i suoi leaders fossero stati più saggi, o moralmente più retti, o avessero avuto più fiducia nelle masse, o avessero tradito di meno, le sconfit­te sarebbero state evitate. Bisognerebbe cer­care, ogni qualvolta è possibile, di non co­struire interi scenari dove tutto dipende dal fatto che determinate persone agiscano in un modo piuttosto che in un altro. Inoltre, un’azione che può danneggiare un gruppo di capitalisti può rivelarsi benefica per altri. Per esempio un innalzamento dei salari pro­vocato con provvedimenti legislativi o dall’a­zione dei sindacati può essere considerato un atto “anticapitalista” perché può diminuire la capacità degli imprenditori di ricavare pro­fitto. Ma questo atto danneggerebbe necessa­riamente il capitalismo nel suo insieme? Im­prese inefficienti che si tenevano a galla gra­zie ai bassi salari che pagavano ai loro operai potrebbero uscire dal mercato, liberando ri­sorse per nuovi investimenti. Salari più eleva­ti possono allargare la domanda e generare un mercato più ampio. E semplicemente im­possibile sapere in anticipo come determinate lotte influenzeranno, nel lungo o anche nel medio periodo, la composizione di quel siste­ma di produzione e di scambio che denomi­niamo capitalismo. Hayek sosteneva che questo fatto dovrebbe consigliarci prudenza quando tentiamo di manipolare il mondo. Ma a rigor di logica, se il futuro è inconosci­bile, non c’è ragione per star fermi più di quanta ce ne sia per andare avanti. Inoltre, stare fermi è l’unica opzione che l’umanità non ha mai fatto propria. Se non avessimo mai avuto alcuna ragione per oltrepassare l’orizzonte del presente, saremmo rimasti do­ve eravamo, e non avremmo mai dato al futu­ro l’opportunità di esistere. L’umanità avreb­be dichiarato con il dottor Pangloss che “tut­to va per il meglio nel migliore dei mondi possibili” . Sarebbe stata la fine della storia, e quindi della civiltà.

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Come erede delFIlluminismo e della sua tradizione razionalistica, la sinistra deve inevitabilmente dispiegare l’ottimismo della volontà. Per rimanere una forza politica si­gnificativa deve presumere che “le cose pos­sono andare meglio” , che il futuro è dalla sua parte. Storici e logici, per una volta d’accordo, faranno notare che non c’è ra­gione di essere ottimisti più di quanta ce ne sia di essere pessimisti. E tuttavia dob­biamo chiederci: come sarebbe il mondo senza movimenti politici dediti alla fede nel progresso, alla presupposizione che sia possibile passare da uno stato di cose meno desiderabile a uno più desiderabile, all’idea che la pena del genere umano possa essere alleviata e magari eliminata? Non è necessa­rio che questa fede sia “vera” , ma forse è in­dispensabile che sia creduta.

Le resistenze che ho menzionato non de­vono quindi essere intese come interruzioni sulla via che conduce a un destino inelutta­bile, ma come elementi che configurano per­corsi alternativi di sviluppo. Abbandonan­do momentaneamente la prospettiva al­quanto eurocentrica adottata in questo stu­dio, possiamo distinguere tre modelli di ca­pitalismo: quello giapponese, dove lo svi­luppo capitalistico è stato plasmato da una società tradizionale eccezionalmente forte e in mancanza di un movimento socialista di un qualche rilievo; quello americano, con­traddistinto dalla relativa assenza tanto di residui feudali, quanto di un movimento so­cialista, e quello europeo, dove sono presen­ti tanto il tradizionalismo quanto il sociali­smo. Il modello americano è perciò, dei tre, quello che maggiormente si avvicina alla visione hayekiana di un capitalismo che non incontra resistenze. Si tratta, ovviamente, di una distinzione concettuale. Nessun capita­lismo — neanche quello americano — è “puro”.

Quale dei tre modelli abbia avuto maggio­re successo è materia di costante discussione. Negli anni cinquanta e sessanta gran parte

dei commentatori avrebbe optato per quello americano. Negli anni ottanta e novanta il relativo successo del Giappone e il timore ispirato dalle sue capacità industriali domi­navano i decision-makers nell’Unione euro­pea e negli Stati Uniti. Il capitalismo europeo non è oggi preso a modello nel resto del mon­do (anche se potrebbe esserlo in Europa orientale, vista la riuscita trasformazione in senso socialdemocratico dei vecchi partiti co­munisti). I limiti imposti allo sviluppo del­l’Europa occidentale da un secolo di sociali­smo sono addotti dai conservatori quale principale causa della sua mancanza di com­petitività e dei suoi alti tassi di disoccupazio­ne. Se il capitalismo europeo in assenza dei partiti socialisti avrebbe avuto maggior “successo” è una domanda a cui gli storici non possono rispondere, soprattutto dal mo­mento che non è chiaro che cosa voglia dire in questo caso a,vere successo: piena occupa­zione? Maggior quantità di beni prodotti? Un ambiente migliore? Produttività più ele­vata? Crescita più rapida? Popolazione più sana? Maggiore eguaglianza? Questa enume­razione dimostra a sufficienza che la defini­zione di successo appartiene all’ambito dei giudizi di valore e non a quello delle statisti­che — per quanto preziose esse siano per giudicare se i nostri obiettivi definiti in ter­mini di valore si siano realizzati. Ciò non to­glie che i giudizi di valore forniscano criteri di confronto perfettamente validi. I relativi­sti hanno ragione quando mettono in guar­dia i comparativisti: ciò che è “bene” nello Zimbabwe può non essere considerato “be­ne” a Lisbona o a Copenhagen. Tuttavia, le differenze culturali fra i principali centri dello sviluppo capitalistico non sono così si­gnificative da impedire di formarsi una no­zione minimale di quello che è una buona so­cietà. Mortalità infantile elevata, alti livelli di criminalità, ignoranza diffusa, tossicodi­pendenza, degrado urbano, mancanza di op­portunità, disintegrazione sociale e crisi della famiglia sono considerati piaghe sociali a

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Tokyo, a New York e a Parigi (anche a Ca- petown, Rio de Janeiro e al Cairo, ma atte­niamoci ai tre modelli). In rapporto a questi indicatori, i livelli degli Usa sono peggiori sia rispetto a quelli del Giappone sia rispetto a quelli dell’Europa occidentale.

Gli Usa, l’unica società che sia nata insie­me “moderna” e “democratica” , hanno rappresentato per tutto questo secolo il ca­pitalismo par excellence. Modernità, rapida trasformazione, progresso tecnologico, co­municazione di massa, società dei consumi sono stati così strettamente associati agli Stati Uniti che il ventesimo secolo può esse­re caratterizzato come il secolo “america­no”. Nessun partito socialista ha “contami­nato” il capitalismo in America. Nessun welfare state forte e potente ne ha plasmato la crescita. La manomorta della tradizione, della deferenza e dell’obbedienza non ha bloccato la sua rapida espansione. Il libera­lismo americano non ha dovuto distruggere il feudalesimo22. Culture precapitalistiche esistenti, come quelle degli indigeni d’Ame­rica, sono state facilmente spazzate via in una serie di guerre genocide di sbalorditiva ferocia, poi celebrate in innumerevoli film per la delizia dei bambini di tutto il mondo. Studiosi della società da Tocqueville fino a Weber e oltre hanno descritto l’ethos ottimi­stico e individualistico che ha puntellato lo sviluppo americano quale una delle princi­pali precondizioni culturali per la nascita dello spirito imprenditoriale (anche se — come Tocqueville, cui poco sfuggiva, aveva osservato già in quei tempi lontani — l’A­merica presentava anche indizi di enorme

conformismo). Per molta gente in Europa, in Giappone, nei paesi che si trovavano a un “precedente” stadio di sviluppo, l’Ame- rica era il futuro.

I dati raccolti dagli stessi americani rivela­no però un quadro diverso. Il capitalismo re­lativamente privo di costrizioni che ha carat­terizzato gli Stati Uniti è stato accompagnato da problemi sociali di una gravità che non ha eguale in nessun luogo dell’Europa occiden­tale e quasi inesistenti in Giappone.

Misurare il livello di povertà può essere difficile e i confronti tra nazioni non sono affidabili, ma i dati americani non possono essere sottovalutati. Una rassegna della ster­minata letteratura sulla povertà conclude che — a una stima approssimativa — la co­siddetta sottoclasse è formata da otto milio­ni di persone, ossia dal 3,5 per cento della popolazione totale. Essa costituisce entro la società una cultura separata, priva di cit­tadinanza sociale. Questi otto milioni di per­sone sono circa la metà del gruppo dei “po­veri in permanenza”, a loro volta la metà del totale della complessiva popolazione povera che ammonta a trentadue milioni2’. Fra i paesi sviluppati gli Stati Uniti hanno la più alta percentuale di poveri (persone in fami­glie i cui redditi sono inferiori alla metà di quello medio): il 16,6 per cento, quattro vol­te la percentuale della Germania (4,9), della Svezia (5,0) e della Norvegia (4,8) e più del doppio di quella dell’Olanda (7,5). Gli Usa sono seguiti a qualche distanza dagli altri paesi capitalisti “anglosassoni” : il Canada (12,3 per cento), il Regno Unito (11,7) e l’Australia (1 1,424). Più della metà degli

22 Come ha illustrato, in modo a tutt’oggi insuperato, Louis Hartz nel suo classico The Liberal Tradition in America. An Interpretation of American Political Thought since the Revolution, New York, Harcourt, Brace & World Inc., 1955 (La tradizione liberate in America. Interpretazione del pensiero politico americano dopo la rivoluzione, tr. di G. Tornabuoni. Milano, Feltrinelli, 1960).23 Patricia Ruggles, Short- and Long-Term Poverty in the United States: Measuring the American ‘‘Underclass’’, in Lars Osberg (a cura di), Economie Inequality and Poverty. International Perspectives, Armonk N. Y., M. E. Sharpe Inc., 1991, p. 186.24 Si veda Albert Berry, François Bourguignon, Christian Morrison, Global Economie Inequality and Its Trends since 1950, in L. Osberg (a cura di), Economic Inequality and Poverty, cit., p. 48.

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americani poveri sono genitori soli con figli. Non cosi in Germania, Svezia e Norvegia, dove solo il dieci per cento dei poveri sono genitori single. La maggior parte dei genitori soli poveri in America sono donne, molte delle quali nere. Esse hanno trovato pochi difensori: nessun partito politico è disposto a sostenere la loro causa. La divisione raz­ziale è stata tradizionalmente una delle ra­gioni principali della debolezza delle politi­che di classe e quindi della sinistra23 * 25. A sua volta la debolezza della sinistra potrebbe aver rafforzato questa divisione. L’accre­sciuto potere e l’accresciuta politicizzazione delle donne americane non hanno fermato l’aumento in proporzione delle donne pove­re — quella che è stata definita la “femmini- lizzazione” della povertà26. Sindacati deboli possono al massimo difendere coloro che hanno già un’occupazione, e i programmi antidiscriminazione offrono un aiuto co­munque non adeguato ai membri meno sfor­tunati dei gruppi discriminati.

La destra americana ha affermato che questa sottoclasse è il prodotto di una cultu­ra della dipendenza creata dal welfare state e — quando ha adottato il suo stile socio-sadi­co — ha premuto per una drastica riduzione delle spese sociali. Ma sebbene il welfare sta­te sia meno sviluppato negli Usa che nella maggior parte dei paesi dell’Europa occiden­tale, la sottoclasse è molto più numerosa. Inoltre, lo stato sociale negli Usa protegge i gruppi a medio reddito ancor più di quanto non faccia il suo corrispettivo europeo. Gli americani spendono molto meno degli euro­pei per l’assistenza, a meno che non si pren­

da in considerazione l’“assistenza indiretta” , nella forma di sgravi e indennità fiscali. Ma anche in questo caso, “un fatto cruciale ri­mane: le classi a reddito medio ed elevato sono i principali beneficiari del welfare state sommerso”27.

Il tasso statunitense di povertà per quanto riguarda le donne capofamiglia si è abbassa­to fra il 1960 e il 1970 quando il paese ha in­trapreso la sua “guerra alla povertà” (in al­tri termini, quando ha allargato l’assistenza) e ha continuato a scendere per tutti gli anni settanta28. Può darsi effettivamente che “la povertà [sia] stata alleviata principalmente non dalla redistribuzione dai più ricchi ai poveri bensì a causa di incrementi globali di ricchezza che hanno fatto salire i redditi di tutti”29.

Ma questo effetto è limitato. Non si dà sempre il caso che incrementi globali di ric­chezza facciano salire i redditi di tutti. Posso­no verificarsi situazioni in cui i “ ricchi” di­ventano ancora più ricchi, la classe media mantiene le posizioni e i poveri diventano re­lativamente più poveri, come è successo negli Stati Uniti e nel Regno Unito negli anni ot­tanta.

Né è vero che la disoccupazione di per sé sia una causa determinante nella formazione di una sottoclasse, perché se così fosse la sot­toclasse europea (la quale esiste anch’essa, come la presenza di colonie di giovani men­dicanti senza casa che dormono dove capita nelle principali città europee sta a testimo­niare) dovrebbe ormai essere numerosa al­meno quanto quella americana, dato che i tassi di disoccupazione europei sono stati su-

23 Questa e la tesi centrale dell’importante lavoro di Jill Quadagno, The Color o f Welfare. How Racism undermined the War on Poverty, New York-Oxford, Oxford University Press, 1994, pp. 191-192.'6 Gertrude Schaffner Goldberg, The United States: Feminization o f Poverty amidst Plenty, in G. Schaffner Goldberg,Eleanor Kremen (a cura di), The Feminization o f Poverty: Only in America?, New York, Praeger, 1990, pp. 45-46.“7 Christopher Howard, The Hidden Side o f the American Welfare State, “Political Science Quarterly”, 1993, n. 3, p. 416._s G. Schaffner Goldberg, The United States: Feminization o f Poverty amidst Plenty, cit., p. 42 e P. Ruggles, Short- andLong-Term Poverty in the United States, cit., p. 162.29 Anthony Giddens, Beyond Left and Right. The Future o f Radical Politics, Cambridge, Polity, 1994, p. 149.

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periori a quelli statunitensi per la maggior parte degli anni ottanta e novanta30 31.

Il capitalismo non mitigato dai valori tra­dizionali o dalla presenza della socialdemo­crazia ha fatto allignare fra le minoranze et­niche di Chicago, Los Angeles e New York quelli che Galbraith ha definito “centri di ter­rore e di disperazione” ’1. Questi sono poi di­venuti “giungle hobbesiane”, in cui selvaggi adolescenti maschi, ormai sempre più fre­quentemente armati sono causa di terrore ge­nerale32. Gli Stati Uniti nel loro insieme regi­strano un tasso di gravidanza delle teenager doppio rispetto alla Svezia o alla Francia33. Le conseguenze di questo fatto sono peggiori negli Usa che in qualsiasi altro paese. Mentre la destra fondamentalista esalta l’importanza dei valori della famiglia, il tasso di povertà delle giovani famiglie con bambini negli Stati Uniti a metà degli anni ottanta era del 39,5 per cento, mentre nel Regno Unito era del 23,2 per cento, in Germania del 18,8, in Fran­cia del 9,1 e in Svezia del 5,334 35. Nella comuni­tà nera metà dei bambini di età inferiore ai sei anni vivono al di sotto della soglia della po­vertà. Nel 1989, 375.000 bambini americani sono nati già tossicodipendenti da cocaina o da eroina. Gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di mortalità infantile e la più bassa aspettativa di vita fra i maggiori paesi indu­strializzati. Tutti gli indicatori sanitari relati­vi alle donne nere e ancora di più ai maschi neri sono peggiorati negli ultimi vent’anni (come è accaduto nell’Urss dopo il 1975). Ne­

gli Usa viene consumata la metà della produ­zione mondiale di cocaina. Ciò contribuisce a determinare il più alto livello di criminalità del mondo e, di conseguenza, la popolazione carceraria più numerosa — superiore del ses­santa per cento, in proporzione, a quella del­la vecchia Unione sovietica e dieci volte supe­riore a quella dell’Olanda. Vengono assassi­nate più persone a New York che nei bassi­fondi di Calcutta. Mentre spendono meno della maggior parte dei paesi avanzati per le scuole primarie e secondarie, gli Usa devol­vono il quaranta per cento della spesa per l’i­struzione ai college e alle università. Il risul­tato è che da quel paese escono più premi No­bel che da tutti gli altri paesi messi insieme, ma milioni di americani sono analfabeti. Uno studio indica che il 22 per cento della popolazione adulta non sa mettere corretta- mente l’indirizzo su una lettera, e quasi lo stesso numero non è in grado di leggere le istruzioni su un flacone di medicinale33 .

In mezzo a tutto questo il capitalismo ame­ricano, libero da impacci, continua il suo cor­so ascendente e asimmetrico dando di più al ricco e di meno al povero. Fra il 1980 e il 1993 il reddito del cinque per cento della po­polazione più ricca è aumentato del 34 per cento in termini reali, quello del venti per cento della popolazione più povera è sceso del due per cento. Può darsi che tutti gli esseri umani siano stati creati uguali, ma negli Usa finiscono più diseguali che in qualsiasi altro luogo nel mondo sviluppato36. Ineguaglianze

30 Nel 1993 la disoccupazione nei paesi dell’Ocde era del 10,7 per cento, negli Usa del 6,8 per cento e in Giappone solo del 2,5 per cento; cfr. Ocde, Employment Outlook, Paris, luglio 1994, p. 6.31 John Kenneth Galbraith, The Culture o f Contentment, Harmondsworth, Penguin Books, 1992, p. 39 {La cultura del- Tappagamento, tr. di Paola Brivio, Milano, Rizzoli, 1993, p. 45).32 Eric J. Hobsbawm, Age o f Extremes. The Short Twentieth Century, 1914-1991, London, Michael Joseph, 1994, p. 341 {Il secolo breve, tr. di Brunello Lotti, Milano, Rizzoli, 1995, p. 401).33 G. Schaffner Goldberg, The United States: Feminization o f Poverty amidst Plenty, cit., p. 41.34 J. Quadagno, The Color o f Welfare, cit., p. 183.35 Tutte queste informazioni provengono dall’illuminante lavoro di Paul Kennedy. Preparing fo r the Twenty-First cen­tury, London. Fontana, 1994, pp. 304-307 (prima edizione New York, Random House, 1993; Verso il XXI secolo, tr. di Sergio Minucci, Milano, Garzanti, 1993).36 Ufficio statunitense del censimento citato in Michael Prowse, Clinton Budget a Manifesto to Middle Classes, “Finan­cial Times”, 7 febbraio 1995, p. 6.

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cosi madornali non sono soltanto moralmen­te ripugnanti, ma in molti casi sono una que­stione di vita o di morte. Nel mondo svilup­pato l’ineguaglianza di reddito all’interno del­lo stesso paese è il fattore più importante nel determinare i livelli di salute fisica e l’aspetta­tiva di vita’7.

Fra le tre resistenze che ho menzionato, quella esercitata dalla tradizione era inevita­bile, almeno per le prime società capitaliste. La seconda, vale a dire la Rivoluzione bol­scevica e il sistema statale che alla fine ne ri­sultò, non era inevitabile sotto alcun riguar­do. Dal punto di vista della storia del capita­lismo, il comunismo è stato una minaccia evidente alla sua espansione perché offriva un’alternativa e nello stesso tempo sottraeva potenziali mercati all’ambito del capitale. Ma a uno sguardo retrospettivo si può nota­re che il comunismo è stato anche un ele­mento di stabilizzazione. Ha mantenuto uni­to il territorio del vecchio impero zarista che, in assenza di un forte potere centrale, sarebbe forse imploso negli anni fra le due guerre in una miriade di nazionalismi rivali che non avrebbero offerto alcuna resistenza all’aggressione nazista. Alle democrazie libe­rali dell’Occidente sarebbe stato necessario più tempo per sconfiggere Hitler e più tempo per riprendersi in seguito. O magari sarebbe­ro state sconfitte e la storia sarebbe “andata a finire” diversamente. La resistenza bolsce­vica al capitalismo potrebbe rivelarsi come uno dei fattori che hanno contribuito al “successo” della forma liberaldemocratica del capitalismo. Non era proprio questo che si voleva quando i cannoni deW Aurora diedero il segnale per la presa del Palazzo d’inverno...

Persino la guerra fredda, provocando un alto livello di spese militari, può essere consi­derata come un fattore che ha contribuito a sostenere la ripresa internazionale del capita­lismo. Negli anni settanta e ottanta l’econo­mia americana è divenuta dipendente dal commercio mondiale più di quanto non fosse mai stata. Le importazioni americane dagli altri paesi dell’Ocde sono aumentate enorme­mente, sostenute dalla politica del dollaro forte che ha efficacemente svalutato le im­portazioni statunitensi (cioè le ha rese meno costose). La crescita della domanda interna negli Stati Uniti ha condotto negli anni ot­tanta alla ripresa dell’Ocde nel suo insieme. Ma una proporzione considerevole di questo incremento della domanda interna si basava sull’aumento delle spese militari statunitensi, finalizzate a fronteggiare la cosiddetta mi­naccia sovietica. Così le economie capitalisti- che sono state salvate — almeno tempora­neamente — da quell’aumento delle spese mi­litari che ha fatto precipitare la crisi sovieti­ca37 38. Di nuovo, non era proprio questo che intendeva Chruscèv quando disse: “vi seppel­liremo”.

La terza fonte di resistenza, i partiti socia­listi europei, è l’unica che si sia sviluppata nel corpo stesso del capitalismo. Naturalmente, in origine socialisti e bolscevichi condivide­vano lo stesso obiettivo: l’abolizione del capi­talismo in se stesso. Abbiamo delineato il modo in cui, con lo svilupparsi del movimen­to, i socialisti europei furono costretti dalla nuda necessità a coesistere con il capitalismo e ad abbandonare quella che Willy Brandt definiva “ la teologia della meta finale”39. Fin dai primi inizi del movimento, quando la Seconda Internazionale fu fondata a Parigi

37 Richard Wilkinson, Health, Redistribution and Growth, in Andrew Glyn, David Miliband (a cura di), Paying fo r Ine­quality. The Economic Cost o f Social Injustice, London, Ippr-Rivers Oram Press, 1994, pp. 24-43, in particolare pp. 27- 30.38 La tesi secondo cui le spese militari non frenano necessariamente la crescita è stata dimostrata in modo soddisfacente da Massimo Pivetti in M ilitary Spending as a Burden on Growth: an “underconsumption" critique, “Cambridge Journal of Economics", dicembre 1992, n. 4.39 Willy Brandt, Social Democracy After the Communist Collapse, “Socialist Affairs”, 1991, n. 3, p. 7.

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in rue Rochechouart il 14 luglio del 1889 o quando, due anni dopo, la Spd redasse il pro­gramma di Erfurt, i partiti socialisti fissarono le condizioni di tale coesistenza: suffragio universale e diritti civili, ossia democrazia politica; un sistema nazionale di protezione sociale per gli anziani, i malati e i disoccupati (pensioni e previdenza sociale), ossia il mo­derno welfare state; giornata lavorativa di ot­to ore, ossia regolamentazione della vendita della forza lavoro — ciò che noi oggi definia­mo regolamentazione del mercato del lavoro. La storia della sinistra nell’Europa occiden­tale è stata la storia di questa coesistenza. Il capitalismo, regolato grazie alla pressione dei partiti socialisti, è stato reso meno gerar­chico che in Giappone e più umano che negli Stati Uniti. Non è un risultato da poco, come ha affermato il teorico socialdemocratico David Marquand:

Il libero mercato capitalistico è un servitore mera­viglioso ma un pessimo padrone. Una delle più grandi conquiste della seconda metà di questo se­colo è rappresentata dal fatto che alcune società privilegiate hanno imparato a trasformarlo da pa­drone a servitore. Il rischio adesso è che un capita­lismo presuntuoso e vanaglorioso non tenga a mente la lezione40.

A questo punto dobbiamo volgerci al nostro secondo concetto “problematico”, quello di regolamentazione. In senso stretto un capita­lismo non regolamentato è impossibile. L’at­to stesso dello scambio, che è la condizione necessaria per 1'esistenza dei rapporti di mer­cato, richiede — come condizione minima as­soluta — un sistema di regole provviste di forza coercitiva. Nel mondo reale del capita­lismo avanzato, la regolamentazione è anda­ta ben oltre i confini minimi, le “regole

astratte” proposte da Hayek. Alla fine di questo secolo la differenza fondamentale fra i socialisti e i loro avversari viene spesso rap­presentata come una mera lotta fra fautori della regolamentazione e fautori della dere­gulation. Un tempo i socialisti nutrivano am­bizioni più alte. Volevano abolire il capitali­smo. In seguito, quando per la prima volta ottennero il potere, il loro obiettivo divenne la direzione del capitalismo nazionale me­diante l’occupazione o il controllo delle posi­zioni di comando dell’economia. Oggi l’o­biettivo è la “regolamentazione” del capitali­smo nazionale. Ma a quale scopo? E come può essere raggiunto tale obiettivo, nel mo­mento in cui il capitalismo acquista sempre più una dimensione globale?

Habermas ha spiegato che i capitalisti non possono riprodurre da soli le condizioni che rendono possibile il capitalismo stesso. Marx lo aveva intuito quando lasciava intendere che non fosse nell’interesse dei capitalisti es­sere loro stessi i governanti: “ la borghesia confessa che il suo proprio interesse le impo­ne di sottrarsi al pericolo dell’autogoverno [...], che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere po­litico; [...] che per salvare la propria borsa es­sa deve perdere la propria corona”41. Il capi­talismo, aggiunge Habermas, richiede resi­stenza di uno stato che stia di fronte ai singoli capitalisti come un “non capitalista”, al fine di realizzare la loro ’volontà collettiva’42. Questa è una concezione dei capitalisti come atomi hobbesiani, costretti a una perenne lot­ta mortale. Solo l’intervento di uno stato Le­viatano può proteggerli dall’autodistruzione. Tale funzione dello stato come guardiano notturno si avvicina alle “regole astratte” di Hayek. Ciò forse è stato sufficiente nel perio-

40 David Marquand, After Socialism, “Politicai Studies”, numero speciale 1993, p. 51.41 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, a cura di Giorgio Giorgetti, tr. di Paimiro Togliatti. Roma, Editori Riu­niti, 1964, p. 121.42 Jürgen Habermas, Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Frankfurt, Suhrkamp Verlag, 1973 (tr. ingl. Legitima­tion Crisis, tr. Thomas Me Carthy, London, Heinemann 1976, pp. 50-51).

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do iniziale dell’accumulazione capitalistica, ma a partire dalla fine del diciannovesimo se­colo, e in particolare dopo la crisi fra le due guerre, lo Stato nelle società capitaliste ha dovuto intervenire in modo massiccio, non solo per stabilire le regole basilari del gioco ma anche per assicurare la riproduzione del sistema: adattando le leggi alle nuove forme dell’impresa capitalistica, stabilizzando la va­luta, approntando un sistema sanitario, del­l’istruzione, dei trasporti e delle comunica­zioni in costante espansione. Oltre a ciò lo Stato ha dovuto farsi carico delle conseguen­ze negative — e politicamente intollerabili — dell’accumulazione capitalista: sviluppo dise­guale, squilibri regionali, disoccupazione, chiusura o declino di settori come l’attività mineraria, l’allevamento o l’agricoltura4'5. In Europa molto più che altrove i partiti della sinistra, che agivano come espressione politi­ca del movimento operaio, hanno di fatto ri­formato il capitalismo, cioè lo hanno reso po­liticamente tollerabile separando la distribu­zione dei servizi sociali dai rapporti di merca­to. Questo non è soltanto un sistema molto più equo per provvedere alla tutela dei disoc­cupati, alla sanità e ai bisogni degli anziani, ma è anche molto più efficiente di tutti i siste­mi di mercato che si conoscano (come dimo­stra ampiamente la situazione degli Usa nel­l’ambito della sanità).

La socialdemocrazia ha rappresentato quindi uno stadio importante nello sviluppo capitalistico43 44. Il crollo azionario del 1987 non ha trascinato alla rovina le economie eu­ropee come era successo con il crollo del 1929 in gran parte a causa delle differenze struttu­rali fra la situazione del 1929 e quella del 1987. Fra queste ne spiccano due: nel 1930 il settore terziario rappresentava un terzo della forza lavoro totale; nel 1987 i due terzi

— di cui quasi la metà costituita da impiegati pubblici. Poiché l’occupazione nel settore terziario (specialmente in quello statale) è meno variabile che neH’industria, questo fat­to ha stabilizzato la situazione occupazionale nelle economie europee e ha contribuito a im­pedire una crisi di proporzioni pari a quella degli anni trenta. La seconda differenza strutturale consiste nel fatto che i redditi in­diretti (per lo più indennità assistenziali) rap­presentavano nel 1930 meno del quattro per cento del Prodotto interno lordo, mentre nel 1987 la quota era quasi del trenta per cen­to45 . Questi redditi indiretti hanno attutito dal punto di vista economico e sociale le con­seguenze negative del “lunedi nero” del 1987 come non era stato possibile nel 1930. Se lo stato si fosse realmente “ritirato” nella stessa misura in cui ciò era accaduto negli anni ven­ti, il capitalismo europeo negli anni novanta si sarebbe probabilmente trovato in condi­zioni assai peggiori di quanto non appaia. È molto probabile che lo stato sociale negli an­ni ottanta abbia salvato il capitalismo46.

Nell’Europa occidentale, la principale conquista del socialismo negli ultimi cent’an­ni è stata l’incivilimento del capitalismo. An­che altre tradizioni politiche hanno giocato un ruolo nello svolgimento di questo compi­to. Sul continente bisogna segnalare la tradi­zione cristiano sociale, in Gran Bretagna l’at­tività di riforma delle amministrazioni libera­li all’inizio del secolo, negli Usa il New Deal negli anni trenta e il programma legislativo Great Society degli anni sessanta. Cionono­stante, come ha scritto un critico del sociali­smo, Leszek Kolakowski:

Qualsiasi cosa sia stata fatta nell'Europa occiden­tale per ottenere più giustizia, più sicurezza, più possibilità di istruzione, più benessere e più re­sponsabilità dello stato nei confronti dei poveri e

43 J. Habermas, Legitimation Crisis, cit., pp. 53-54.44 Alan Wolfe, Has Social Democracy a Future?, “Comparative Politics” , ottobre 1978, n. 1.43 Paul Bairoch, Economics and World History. Myths and Paradoxes, Hemel Hempstead, Harvester Wheatsheaf, 1993, p. 174.46 E.J. Hobsbawm, Age o f Extremes, cit., pp. 95-96; II secolo breve, cit., pp. 131-132.

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degli indifesi, non si sarebbe mai potuta consegui­re senza la forza di pressione delle ideologie e dei movimenti socialisti, malgrado tutte le loro inge­nuità e le loro illusioniI 47.

In Europa occidentale ciò vale non solo per i socialisti ma, in egual misura o anche di più, per i grandi partiti comunisti, come quello italiano, e persino per il loro corrispettivo francese, meno ricco di immaginazione e più dogmatico. Probabilmente questo aveva in mente Jean-Denis Bredin dell’Académie Française allorché nell’agosto 1991, poco do­po il fallito colpo di stato che segnò l’inizio della fine dell’Unione Sovietica, invitò i ri- spettabili cittadini della France moyenne, che ritornavano riposati e ben pasciuti dalle vacanze estive, a riflettere sul fatto che forse dovevano qualcosa delle loro libertà e dei lo­ro diritti ai comunisti francesi:

Mi è permesso far presente che dobbiamo molto a questa gente testarda, a questi settari, a questi combattenti infaticabili che occupavano le nostre fabbriche e portavano disordine nelle nostre stra­de, a questi tipi ostinati che non hanno mai smesso di chiedere riforme mentre fantasticavano di rivo­luzione, a questi marxisti che, marciando contro la corrente della storia, hanno impedito al capitali­smo di dormire sonni tranquilli? [...] Il comuniSmo è morto, facciamo festa. Ma è permesso, pensando ai comunisti francesi, a coloro che sono morti af­finché fossimo liberi, a coloro che hanno tanto lot­tato per i diseredati di casa nostra, è permesso dire che assai spesso costoro sono stati più disinteres­sati, più appassionati e più giusti, in altre parole migliori della maggior parte di noi?48

I socialisti non soltanto hanno svolto un ruolo cruciale nella creazione del sistema del welfa­re, ma sono stati gli autentici eredi dell’Illumi-

nismo europeo, i difensori dei diritti civili e della democrazia. Hanno lottato per l’allarga­mento del suffragio quando era ristretto. Hanno lottato per i diritti delle donne con più coerenza di quanto non abbiano fatto gli altri partiti. Hanno lottato per l’abolizione dei diritti e dei privilegi attorno ai quali Yan- cient régime aveva eretto una trincea. Hanno dato il loro sostegno, spesso decisivo, a tutte le lotte contro la discriminazione razziale. Hanno giocato un ruolo significativo — spes­so il principale — nell’abolizione della pena di morte, nel riconoscimento legale dell’omoses­sualità e nella depenalizzazione dell’aborto.

Nonostante questi successi, i socialisti non sono riusciti ad abolire il capitalismo né a di­rigerlo mediante la pianificazione economi­ca. Questo fallimento è inerente alla natura del rapporto fra politica e capitalismo mo­derno. Come ha mostrato Charles Lind- blom, ai singoli capitalisti è affidato un am­pio spettro di decisioni che, date le loro con­seguenze sul benessere generale della società, sono di fatto decisioni di politica pubblica assunte da individui privati: allocazione delle risorse e della forza lavoro, collocazione di impianti, tecnologie da utilizzare, qualità dei beni e dei servizi49. Ciò non significa che il potere del capitalista sia illimitato, ma solamente che l’imperativo dominante, quello di mantenere il capitalismo sulla sua rotta, limita il potere di tutti gli altri. Ci sono momenti in cui i consumatori sembrano esercitare una sorta di potere di veto, ma in realtà essi per lo più reagiscono a decisioni di tipo privato e corporativo già prese altro­ve. Inoltre, i consumatori possono esercitare la loro “sovranità” quando scelgono fra di­versi prodotti, ma molte delle condizioni

47 Si veda la sua osservazione introduttiva a un convegno tenuto nell’aprile del 1973 con il titolo originale What is Wrong with the Socialist Idea? Gli atti sono stati pubblicati con il titolo più neutro The Socialist Idea. A Reappraisal, a cura di Leszek Kolakovvski, Stuart Hampshire. London, Weidenfeld e Nicholson, 1974; l’osservazione citata è a p. 16.48 Jean-Denis Bredin, Est-il permisi, “Le Monde”, 31 agosto 1991.49 Charles Lindblom, Politics and Markets. The World’s Political-Economic Systems, New York, Basic Books, 1977, p. 171 (Politica e mercato. I sistemi politico-economici mondiali, a cura di Alessandro Pizzorno, tr. di Luciano Aleotti, Mi­lano, Etas libri, 1979).

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che rendono questa scelta significativa sono stabilite in altro luogo. Solo quando i consu­matori si organizzano in lobbies, partiti e campagne oppure, più spesso, quando qual­cuno lo fa per loro conto, le imprese sono costrette a fornire l’informazione necessaria che può mettere in grado il consumatore di esercitare un qualche potere di scelta su ciò che compra. Si tratta di un processo lungo e tortuoso, che resta sempre un passo indie­tro rispetto allo sviluppo del capitalismo. In ultima analisi i governi devono porsi al servi­zio del capitalismo creando e conservando un’intelaiatura entro la quale esso possa svi­lupparsi. Questa intelaiatura può indurre la crescita del capitalismo, ma non imporglie­la50. Per quanto grande sia l’autorità eserci­tata da un governo sull’attività dei capitali­sti, essa è limitata dal timore che questo eser­cizio di potere si ripercuota negativamente sul capitalismo stesso, dando luogo a disoc­cupazione e rallentando la crescita. Il lin­guaggio politico corrente conferma la fonda­tezza della visione di Lindblom: “Come rea­giranno i mercati?” si chiedono allo stesso modo socialisti e conservatori quando sono responsabili dell’economia. La differenza fra i due schieramenti sta nel fatto che i con­servatori sono ideologicamente impegnati a favore del capitalismo e non pongono obie­zioni al fatto di essere guidati dai segnali del mercato, mentre i socialisti hanno dovu­to accettare, spesso a malincuore, che la pro­sperità del capitalismo fosse una condizione indispensabile del benessere sociale e della prosperità della classe operaia.

Più di cento anni fa i partiti socialisti del­l’Europa occidentale cercarono di regola­

mentare il capitalismo operando all’interno di un duplice ordine di condizionamenti. Il primo era costituito dalle esigenze del capita­lismo stesso, le quali impedivano ai partiti della sinistra di dar corso a politiche anticapi­talistiche — cioè a politiche le quali, se effet­tivamente attuate, avrebbero prodotto il col­lasso del sistema. Il secondo condizionamen­to era lo stato nazione. Era quest’ultimo a stabilire i limiti giuridici di qualunque qua­dro di regole. I capitalisti potevano eludere questi limiti uscendo dallo stato nazione. Ma solamente i più forti potevano farlo e, an­che in questo caso, erano costretti dalle circo­stanze a mantenere un forte impegno nei con­fronti della loro base in patria. Le scorriban­de del capitalismo ai quattro angoli del globo non avrebbero potuto verificarsi senza il sup­porto di forti stati nazionali che edificavano imperi e fondavano colonie. L’ascesa degli stati nazione europei fu una delle condizioni per la creazione di un ambiente favorevole al­la crescita economica, per la diffusione delle tecnologie e del commercio e, come ha sugge­rito Eric Lionel Jones, “in molti paesi per la creazione di manifatture al posto delle vec­chie botteghe artigiane” 51. Molte società multinazionali non esisterebbero se prima non fossero state in grado di operare in un mercato nazionale protetto dallo stato e, spesso e volentieri, dallo stato socialdemo­cratico52 .

Lo stato nazione ha fornito la cornice es­senziale per le attività del capitale, che tutta­via non è mai rimasto circoscritto nei confini dello stato. Il capitalismo europeo, in parti­colare, è stato costretto a fuoriuscire dalle frontiere nazionali molto più dei suoi “rivali”

50 C. Lindblom, Politics and M arkets, cit., p. 173.51 Eric Lionel Jones, The European Miracle. Environments, Economies and Geopolitics in the History o f Europe and Asia, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, pp. 149 e 124 (// miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, tr. di Giovanni Vigo, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 181 e 151).52 In Svezia, per esempio, la catena di mobili Ikea si è sviluppata arredando i milioni di appartamenti costruiti nell’am­bito della politica di edilizia sociale svedese negli anni cinquanta e sessanta; cfr. Rudolf Meidner, Why Did the Swedish Model Fail?, in Ralph Miliband, Leo Panitch (a cura di), ReaI problems. False Solutions, Socialist Register 1993, Lon­don, The Merlin Press, 1993, p. 226.

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giapponese e americano. Gli stati europei so­no piccoli, i loro mercati interni ristretti. Il fe­nomeno dell’interdipendenza può toccare tutti i sistemi capitalisti, ma nessuno più di quelli europei5’. Questi ultimi potranno fon­dersi in un capitalismo globale, ma i regola­menti nazionali per il momento esistono an­cora e senza dubbio, per quanto possiamo prevedere, sono destinati a sopravvivere in futuro, sebbene con efficacia minore. Prima di imporre o di mantenere qualsiasi regola esistente, i politici devono prendere in consi­derazione la posizione relativa dei “loro” ca­pitalisti (cioè di quelli che operano entro lo stato nazione) rispetto ai concorrenti esterni. Il benessere del loro elettorato dipende dal capitalismo, mentre non sempre vale il con­trario. Il capitale può trasferirsi altrove; l’e­lettorato no.

I socialisti hanno reagito a questa situazio­ne tentando di ricreare un nuovo quadro di regole a livello europeo. Hanno perciò messo da parte il loro atteggiamento di iniziale osti­lità nei riguardi dell’integrazione europea. Jacques Delors, lungimirante esponente, nel corso degli anni ottanta e nei primi anni no­vanta, della prospettiva di un socialismo “postnazionale” , ha indicato una via per il futuro quando, nel 1989, ha spiegato come il problema principale dell’età contempora­nea fosse 1’esistenza di un’economia mondia­le che nessuno pilota. Si sarebbe dovuta sta­bilire una nuova divisione politica del lavoro. Nel vecchio continente, “la via europea non dev’essere quella di privare di sostanza i pote­ri degli stati nazionali, bensì quella di ricreare un margine di autonomia che li metta in gra­do di svolgere i loro compiti essenziali. La

politica macroeconomica dovrebbe essere in­vece riconfigurata al livello della Comunità Europea” ' 4. Nello stesso anno in Francia sotto la guida di Michel Rocard, un tempo acerrimo avversario del mercato e ora fervi­do federalista, il governo socialista ha pro­mulgato un piano nazionale che, per la prima volta nella storia della pianificazione in Francia, ha accolto la lezione di Monnet, cioè ha descritto il futuro della Francia nei termini del suo destino in Europa: il titolo del piano era La Francia, VEuropa: il piano 1989-1992^s. Inizialmente recalcitranti di fronte alla prospettiva europea, i socialisti finlandesi, quelli svedesi, quelli austriaci e, senza successo, quelli norvegesi, hanno ap­poggiato l’adesione dei loro paesi all’Unione europea nel 1994. Nel 1993 John Smith, lea­der di quello che una volta era il partito so­cialista meno filoeuropeo, ha dichiarato: “Ci piaccia o no, l’interdipendenza è la realtà del mondo moderno. Questioni di importan­za vitale per le nostre esistenze, come la pro­sperità economica e la protezione dell’am­biente, dipendono tutte dalla collaborazione internazionale. In questi tempi nessun paese può farcela da solo”56. L’Europa veniva ora vista come un terreno in cui la politica poteva riconquistare i livelli di controllo perduti sul piano nazionale.

Questo progetto, i cui contorni essenziali in questa fase possiamo a malapena intravve- dere, è carico di difficoltà. Tanto per comin­ciare, i partiti socialisti hanno dovuto accet­tare il fatto che la regolamentazione del capi­talismo in Europa debba passare attraverso le istituzioni dell’Unione europea, situazione che pone molti problemi. Uno di questi è che

53 Paul Krugman, The Age o f Diminished Expectations. U. S. Economie Policy in the 1990s, Cambridge-London, The Mit Press, 1990 (edizione riveduta e aggiornata Cambridge Mass, London 1994), p. 197 (Il silenzio dell'econo­mia. Una politica economica per un’epoca di aspettative deboli, tr. di Giuseppe Barile, Milano. Garzanti, 1991, pp. 189-190).54 Jacques Delors, Une nouvelle frontière pour la social-démocratie: l'Europe?, in Pierre Dankert, Ad Kóoyman (a cura di), Europe sans frontières. Les socialistes et l ’avenir de la Cee, Antwep, Epo, 1989, p. 9.55 Ian Davidson, France charts a new course fo r the economy, “Financial Times’ . 21 febbraio 1989. p. 2.56 John Smith. No One Can Go It Alone, “Socialist Affairs”, 1993, n. 1, p. 4.

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l’Unione europea non ha alcuna legittimità democratica — a questo ci si riferisce quando si parla di “deficit democratico” — perché i governanti di ogni stato membro non voglio­no che sia democratica. Di conseguenza, l’U­nione europea evoca nella mente degli euro­pei un’immagine fortemente tecnocratica37. Un altro problema consiste nel fatto che la Comunità europea è stata originariamente concepita come un’area di libero commercio, come un “club capitalista”, per usare il gergo del tradizionale antieuropeismo di sinistra. Ed è molto più difficile riformare e reindiriz­zare uno stato di cose esistente che crearne uno ab initio. Inoltre, la pressione decisiva per la formazione di un mercato unico — per quanto moderata dalle iniziative di De- lors — è venuta da una potente cultura neo­liberale che puntava alla rimozione delle bar­riere nazionali al commercio57 58. Creare istitu­zioni e norme europee che sostituiscano quel­le di ogni singolo stato nazione sarà un’im­presa impegnativa e di esito incerto.

Nell’Europa odierna sono presenti poche — per non dire nessuna — delle precondizio­ni esistenti nel diciannovesimo secolo per la costruzione delle nazioni: non vi è, neppure nelle élite intellettuali, alcuna coscienza euro­pea, non vi è alcuna autorità centrale — e quindi alcun esercito o forza di polizia — in­stauratasi a seguito di una conquista, di una rivoluzione o esistente per tradizione, che possa realizzare il compito di “fare gli euro­pei” . Non vi è alcun sentimento comunitario né solidarietà, non vi è alcuna reale o imma­ginaria minaccia esterna nei confronti del­l’Europa (occidentale) nel suo insieme. In più, l’Unione europea è stata creata dagli sta­ti nazione nel perseguimento di quelli che ri­tenevano essere i loro interessi nazionali.

Che piaccia o no, lo stato nazione è una realtà duratura. La ragione principale di ciò è che si tratta della prima costruzione politica dotata di una qualche forma di legittimità de­mocratica. Benché l’edificazione della nazio­ne sia sempre stata avviata da un’élite, alla fi­ne le nazioni si sono assicurate una massiccia adesione popolare. Esse forniscono pertanto la necessaria cornice politica sia per lo svilup­po capitalistico, sia per la democrazia. Sarà perciò quasi inevitabile che le prerogative delle nazioni, reali o immaginarie che siano, vengano difese dagli elettorati nazionali, comprensibilmente preoccupati di evitare qualsiasi erosione del controllo democratico. Nel fare ciò, essi troveranno l’appoggio dei loro governi nazionali — anche di quelli che fervidamente sostengono l’integrazione economica e politica — poco desiderosi di ce­dere potere a un’unità statale più vasta.

In definitiva, gli stati nazione europei han­no unito le forze per ottenere grazie alla coo­perazione europea quello che non erano riu­sciti ad assicurarsi a livello nazionale. Come ha spiegato Milward, “ogniqualvolta gli stati membri della Comunità hanno dovuto ren­dere effettive le loro parziali cessioni di so­vranità, hanno escogitato un sistema che la­sciava allo stato nazionale quasi tutto il pote­re politico”39. Benché questi stati abbiano sfruttato i sogni e le aspirazioni dei federalisti europei, la loro intenzione non è mai stata quella di abolire lo stato nazione. La costru­zione dell’Unione europea è in gran parte av­venuta mediante cicli di negoziati fra i gover­ni nazionali. Ovviamente una cessione di so­vranità è avvenuta. Il che non è una novità: la sovranità assoluta esiste soltanto nella fanta­sia di qualche nazionalista. Ma l’aspetto de­cisivo nella costruzione dell’entità europea è

57 Così argomenta Jean-Louis Quermonne in Le spectre de la technocratie et le retour de la politique, “Pouvoir”, 1994, n. 9, p. 11.58 Si veda John Grahl, Paul Teague, 1992, The Big Market. The Future o f the European Community, London, Lawrence and Wishart, 1990, in particolare capitolo I.

Alan S. Milward (con la collaborazione di George Brenan e Federico Romero), The European Rescue o f the Nation- State, London, Routledge & Kegan, 1992, p. 446.

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rappresentato dal fatto che il controllo di questa sovranità condivisa è rimasto nelle mani dei governi degli stati nazione. Questo controllo non è mai stato ceduto a un’ammi­nistrazione statale senza volto (come i pro­pagandisti antieuropei ripetono ad nau­seam), né a un parlamento democraticamen­te eletto e pubblicamente responsabile. E im­probabile che i partiti socialisti si mettano d’impegno a distruggere le prerogative na­zionali. Anch’essi traggono la loro legittimi­tà da elettorati a base nazionale. Quando so­no all’opposizione, la mancanza di potere può indurli ad appoggiare un allargamento dei poteri del Parlamento europeo, ma quando sono in carica le pressioni possono agire nella direzione inversa, in direzione cioè di una tutela dei diritti del loro stato na­zione. La stretta collaborazione fra il moder­no stato nazione democratico e i partiti della sinistra ha profondamente segnato l’espe­rienza degli ultimi cento anni. Non sarà faci­le abbandonare questo atteggiamento con­solidato. I socialisti non hanno potuto evita­re di divenire “nazionalisti”, nella misura in cui rispondevano alle aspirazioni dei loro elettori “nazionali”.

Il capitale non è altrettanto vincolato. Marx lo ha descritto come il mezzo storico per sviluppare le forze materiali di produzio­

ne e creare un adeguato mercato mondiale60. Esso può viaggiare per il mondo: fin dal suo inizio (lo si faccia risalire al sedicesimo seco­lo, o a un periodo successivo) il capitalismo come sistema economico ha operato nel­l’ambito di un territorio più ampio di quello controllabile da qualsiasi stato61. Tuttavia, esso dipendeva dal sostegno degli stati na­zionali e la globalizzazione non è mai stata una tendenza costante: il suo progresso si è fermato nel 1914 e negli anni fra le due guer­re si è registrato un regresso62. Oggi il capi­talismo è entrato in una fase di transizione da un’economia internazionale, in cui gli stati nazione sono ancora i principali agenti della regolamentazione e in cui le compagnie multinazionali hanno un’importante base in patria, a un’economia veramente “globale” libera dai suoi vari involucri nazionali. Ov­viamente non è detto che questa transizione si realizzi completamente. In larga misura, comunque, la crisi contemporanea del socia­lismo è un prodotto secondario della globa­lizzazione del capitalismo63.

Del fatto che “lo stato nazione come unità economica ha ormai quasi esaurito la sua funzione ” si sono accorti lucidi economisti come Charles Poor Kindleberger già nel 1969, sebbene egli immediatamente aggiun­gesse che “lo stato nazione [...] sopravviverà

60 K. Marx, II Capitale, voi. Ili, cit., pp. 313-321.61 Immanuel Wallerstein, The Modem World-System, voi. I: Capitalist Agricolture and the Origins o f the European World-Economy in the Sixteenth Century, San Diego, Academic Press Inc., 1974, p. 348 (Il sistema mondiale dell'econo­mia moderna, voi. I: L ’agricoltura capitalistica e le origini dell'economia-mondo europea nel XV Isecolo, Bologna, Il Mu­lino, 1978, seconda edizione riveduta e corretta, p. 475).62 E.J. Hobsbawm, Age o f Extremes, cit., p. 88; Il secolo breve, cit., p. 119.63 Sull’argomento esiste un’ampia letteratura, specie di sinistra. Fra i pionieri moderni vanno segnalati Robin Murray, The Internationalisation o f Capital and the Nation State, "New Left Review”, maggio-giugno 1971, n. 61, e I. Waller­stein, di cui segnaliamo, oltre al testo sopra citato, The Politics o f the World-Economy, Cambridge, Cambridge Univer­sity Press, 1984. Si vedano inoltre: David M. Gordon, The Global Economy: New Edifice or Crumbling Foundations?, “New Left Review”, marzo-aprile 1988, n. 168; Perry Anderson, The Figures o f Descent, “New Left Review”, gen­naio-febbraio 1987, n. 161; Stuart Holland, The Global Economy: from Meso to Macroeconomics, London, Weidenfeld & Nicholson, 1987; Robert Cox, Production, Power and World Order, New York, Columbia University Press, 1987; L. Panitch, Globalization and the State, in R. Miliband, L. Panitch (a cura di), Between Globalism and Nationalism, Socia­list register 1994, London, The Merlin Press, 1994 (il testo contiene anche utili contributi di Manfred Bienefeld e Arthur McEwan). Secondo Paul Hirst e Grahame Thompson la globalizzazione è ancora una possibilità remota (cfr. The Pro­blem o f “Globalization": international economic relations, national economic management and the formation o f trading blocs, “Economy and Society”, novembre 1992, n. 4).

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e prospererà”64. In ogni caso, ammesso che si possa parlare in generale di una crisi dello stato nazione, essa riguarda la sua incapacità di soddisfare le aspettative di tutta la popola­zione, nonostante i poteri dei governi nazio­nali si siano immensamente accresciuti anche nei più deboli fra gli stati contemporanei, co­me alcuni stati dell’Africa occidentale6’.

A differenza degli autentici neoliberali, i socialisti incontreranno difficoltà nell'impo- stare un livello di lotta politica appropriato a questa nuova fase. Dovranno distinguere fra le riforme dipendenti da accordi interna­zionali e quelle riforme interne che incidono sulla spesa pubblica o sui costi a carico dei datori di lavoro. La politica sociale interna­zionale e a base europea cercherà di stabilire un quadro che comprenda quelle norme mi­nime riguardanti il welfare e le condizioni di lavoro i cui costi gravano sui datori di lavoro, vale a dire un tipo di regolamentazione che non incide direttamente sulla spesa pubblica. È questo l’indirizzo assunto dalla Commis­sione dell’Unione europea quando ha adotta­to la Carta sociale a Maastricht nel 199266. Finché la regolamentazione è imposta su ba­se sovranazionale, gli effetti sulla concorren­za andranno a beneficio delle imprese meglio organizzate. I socialisti alla guida di econo­mie capitaliste floride potranno esigere forme di regolamentazione internazionale più pro­gressive rispetto ai socialisti dei paesi meno avanzati.

L’Unione europea è un buon esempio del sistema di regolamentazione appena descritto.

La sua politica sociale è meno costosa da am­ministrare del più tradizionale sistema di wel- fare socialista (che socializzava le spese del­l’assistenza) perché non implica un aumento della spesa pubblica (salvo che per i datori di lavoro del settore pubblico). Il limite principa­le di questa politica è che essa finirà per mirare semplicemente alla tutela di chi ha già un im­piego e farà poco per fornire un lavoro ai di­soccupati. Ma la disoccupazione sarà la più importante sfida che i socialisti si troveranno di fronte nei prossimi decenni. Non si può sot­tovalutare il problema: in Europa occidentale nel 1992 il numero dei disoccupati ammonta­va a 18.455.700 unità, più della popolazione totale della Danimarca, della Norvegia e della Svezia messe insieme. Oggi come ieri — così Keynes affermava nelle Note conclusive alla sua Teoria generale — “I difetti più evidenti della società economica in cui viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione pie­na e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi”67.

Fra tutti i campi in cui si esercita l’attività economica dello Stato, la politica monetaria è quello in cui i governi hanno subito la mag­giore perdita di autonomia. Ma molte altre funzioni che tradizionalmente costituivano il “nucleo” degli stati nazione europei sono state, almeno in parte, “europeizzate”: con­trolli di frontiera, scambi commerciali, am­ministrazione dell’economia, politica indu­striale, immigrazione, politica estera, tassa­zione. Solo l’assistenza è rimasta saldamente nelle mani dei governi nazionali68. Le riforme

64 Charles Poor Kindleberger, American Business Abroad. Six Lectures on Direct Investment, New Haven-London, Yale University Press, 1969. pp. 207-208.65 Questa tesi e sostenuta da John Dunn in Introduction: Crisis o f the Nation S tate , in Contemporary Crisis o f the Nation Slate?, a cura di J. Dunn, numero speciale di “Political Studies”, 1994, p. 7.66 Questa tesi e sostenuta da Laura Cram, Catling the Tune without Paying the Piper? Social Policy Regulation: the Role o f the Commission in European Community Social Policy, “Policy and Politics”, 1993, n. 2, p. 141.67 John Maynard Keynes, The General Theory o f Employment, Interest and Money, in Collected Writings, vol. V I I , Lon­don and Basingstoke, Macmillan, 1972 (prima edizione 1936), p. 372 (Occupazione, interesse e moneta. Teoria generate, tr. di Alberto Campolongo, Torino, Utet, 1947, p. 331).68 William Wallace, Rescue or Retreat? The Nation State in Western Europe 1945-1993, in Contemporary Crisis o f the Nation State?, cit., pp. 65-66.

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interne significative saranno principalmente quelle che affronteranno questioni come l’or­ganizzazione del settore pubblico (più che l’investimento in tale settore), in particolare dell’istruzione (compresi i servizi per l’infan­zia) e della sanità. Questi ambiti sono i meno soggetti all’autorità dell’interdipendenza e, almeno nel breve periodo, l’organizzazione dell’istruzione e della sanità (in quanto sgan­ciata dai costi) non incide sulla competitività delle imprese capitalistiche. Nel lungo perio­do, ovviamente, l’istruzione è di importanza decisiva per la crescita economica.

Il fatto che quanto accade in una parte del mondo possa influire su quanto accade altro­ve non è una novità. Alcune fra le menti più acute della sinistra, come il leader comunista italiano Paimiro Togliatti, alla fine degli anni cinquanta avevano segnalato che ciò avrebbe richiesto un mutamento nella politica dei so­cialisti69. Il fatto nuovo, specialmente a parti­re dagli anni ottanta, è che l’interdipendenza ha raggiunto un livello tale da mettere in crisi i concetti tradizionali di politica nazionale nonché tutti i partiti e le ideologie politiche. I socialisti hanno subito questo effetto più dei conservatori a causa della loro essenziale convinzione che la politica possa governare l’economia. In un’economia globale, la poli­tica nazionale può sopravvivere solo riducen­do le sue ambizioni, anche se questo non im­plica che debbano necessariamente sparire le più significative differenze nella politica eco­nomica della sinistra e della destra70.

Come si manifesta l’interdipendenza? In pri­mo luogo, nella spettacolare crescita del com­mercio internazionale, che oggi supera di oltre il doppio la crescita della produzione mondia­le71. In secondo luogo, nello sviluppo di un mercato monetario internazionale dieci volte più ampio di quello richiesto dal volume degli scambi commerciali. Questo mercato in gran parte speculativo di moneta essenzialmente “a piede libero” è sensibile alla diffusa incer­tezza riguardo ai futuri movimenti dei prezzi72. Questa incertezza è l’altra faccia della natura non regolamentata dei mercati. Essa costringe gli operatori in una catena di reazioni a brevis­simo termine in risposta a fluttuazioni anche minime. In gran parte questo fenomeno è stato originato da decisioni dei singoli stati, oppure dalla mancanza di tali decisioni73. Ad esempio nell’ottobre del 1979 il governo inglese abolì i controlli sul cambio. Cosi facendo creò una si­tuazione irreversibile: i controlli non avrebbe­ro potuto esse ripristinati senza provocare una disastrosa svendita di valuta74.

Sciogliendosi dai sicuri ormeggi dello stato nazione, il capitalismo ha perso il suo princi­pale quadro di riferimento normativo. In as­senza di un soggetto che provveda alla rego­lamentazione a livello mondiale — questo è stata la Pax americana per quasi cinquan­tanni — il sistema precipiterà forse nell’a­narchia? I pronostici non sembrano dar ra­gione agli ottimisti. Finché il fardello del de­bito continuerà a gravare sui paesi del Terzo mondo, questi ultimi non potranno mai aspi-

69 Si veda Paimiro Togliatti, Alcuni problemi della storia dell'Internazionale comunista (1959), in Opere 1956-1964, a cura di Luciano Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1984, voi. VI, p. 380. Togliatti riteneva erroneamente che l'interdipen­denza avrebbe condotto a un ordine mondiale di tipo socialista.70 Come invece sostengono Geoffrey Garrett e Peter Lange in Political Responses to Interdipendence: What's “left"for the left?, “International Organization”, autunno 1991, n. 4, pp. 539-564 e, nello stesso numero e nella medesima ottica, Jeffrey A. Frieden, Invested Interests: The Politics O f National Economic Policies in a World o f Global Finance, pp. 425- 451.71 Michael Stewart, The Age o f Interdependence, Cambridge Mass.. Mit Press, 1984, p. 20.72 Susan Strange, Casino Capitalism, Oxford, Basil Blackwell, 1986, p. 111 (Capitalismo d ’azzardo, prefazione di Clau­dio Demattè, tr. di Oliviero Pesce, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 114-116).73 Sul potere di “non decisione” si veda la brillante analisi di S. Strange, Casino Capitalism, cit., pp. 26-46 (nella tra­duzione italiana la citazione si trova alle pp. 28-50).74 M. Stewart, The Age o f Interdependence, cit., p. 85.

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rare ad alcun tipo di prosperità. Tutto il sur­plus che essi ricavano dal commercio si dis­solve rapidamente per pagare i debiti: duran­te il “decennio di sviluppo” delle Nazioni Unite i paesi del Terzo mondo, ben più pove­ri, hanno versato oltre 236 bilioni di dollari ai paesi avanzati, in una sorta di “sostegno allo sviluppo” capovolto73.

Non è stato solo il capitalismo a venire “globalizzato” . Anche i politici nazionali (compresi i socialisti) hanno dovuto affronta­re gli effetti internazionali di questa globaliz­zazione. Praticamente tutti i problemi am­bientali sono oggi divenuti problemi interna­zionali e quasi tutti sono legati alla questione dello sviluppo economico: gas di scarico delle auto, pioggia acida, inquinamento dei fiumi e dei mari, perdite di petrolio, energia nucleare e riscaldamento dell’atmosfera. È divenuto im­possibile individuare problemi “nazionali” circoscritti che non siano destinati a coinvol­gere prima o poi altri paesi. Nell’era della co­municazione di massa tutto si trasmette da un luogo all’altro: il fondamentalismo islamico quanto i comportamenti sessuali, le notizie della Cnn quanto la musica pop. I problemi del cosiddetto Terzo mondo non sono circo- scritti al Terzo mondo. Tossicodipendenza e terrorismo sono stati problemi dibattuti alme­no a partire dal diciannovesimo secolo, ma so­lo a partire dagli anni settanta sono diventati questioni capitali di politica pubblica, tale da richiedere un coordinamento internazionale.

La reazione a questo fenomeno è stata il moltiplicarsi delle agenzie internazionali fi­nalizzate a trattare problemi che travalicano le frontiere e la crescita della cooperazione internazionale fra regioni, di fatto fra blocchi commerciali — tutti basati sugli stati nazio­

ne. Il l e gennaio 1995 l’Unione europea com­prendeva tutti i paesi dell’Europa occidentale ad eccezione della Svizzera, della Norvegia e dellTslanda, venendo così a costituire il più grande mercato unico del mondo. Prima di allora gli Usa, il Canada e il Messico avevano formato l’Area del libero commercio nord- atlantico; i paesi dell’Organizzazione dell’U­nità africana avevano unito le loro forze a quelle della Comunità economica africana(1991); l’Algeria, la Libia, il Marocco, la Mauritania e la Tunisia avevano creato l’U­nione del Maghreb arabo (1989); nel dicem­bre del 1991 la Bolivia, il Venezuela, l’Ecua­dor, il Perù e la Colombia avevano rimesso in vigore il Patto andino finalizzato ad aboli­re tutti i dazi doganali entro il 1996, mentre il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay e il Paraguay avevano istituito il Mercado Comùn del Sur (Mercosur o “ Mercato comune del Sud”); poco dopo aver acquisito l’indipendenza l’E­stonia, la Lettonia e la Lituania hanno for­mato un Mercato comune del Baltico, mentre l’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud­est asiatico comprendente la Tailandia, Sin­gapore, le Filippine, la Malesia, l’Indonesia e il Brunei, è stata riattivata75 76. A livello inter­nazionale sono stati conclusi i negoziati per l’Accordo generale sulle tariffe e sul commer­cio (Gatt), che hanno condotto alla forma­zione dell’Organizzazione mondiale del com­mercio. In tutti questi casi si tratta di associa­zioni di stati nazione “sovrani” . La risposta all’indebolimento de facto dei poteri naziona­li è dunque consistita nel consolidare i gover­ni nazionali come i migliori negoziatori per conto della nazione nel suo insieme. In futuro la politica interna assomiglierà sempre più a una competizione fra partiti per stabilire chi

75 Elmar Altvater, Die Zukunft des Marktes. Ein Essay über die Regulation von Geld und Natur nach dem Scheitern des "realexistierendes” Sozialismus, Munster, Verlag Westfalisches Dampfboot, 1992 (The Future o f the Market. An Essay on the Regulation o f Money and Nature after the Collapse o f Actually Existing Socialism, tr. di Patrick Camiller, London- New York, Verso, 1993, pp. 162-165).6 Sulla nascita di queste organizzazioni regionali vedi Henri Bourguinat, L'émergence contemporaine des zones et blocs

régionaux, in Louis Mucchielli, Fred Célimène (a cura di), Mondialisation et régionalisation. Un défi pour l ’Europe, Paris, Economica, 1993, in particolare la tabella a p. 6.

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sa meglio difendere l’“interesse nazionale”. Il nuovo stadio globale del capitalismo condi­zionerà i socialisti assai più dei conservatori. I conservatori utilizzeranno la loro credibili­tà come nazionalisti per negoziare condizioni migliori nell’arena internazionale per conto del loro stato nazione. Nello stesso tempo, in nome delle esigenze internazionali del ca­pitalismo moderno, accetteranno di abban­donare la regolamentazione interna, ossia nazionale. Ai vecchi marxisti non resterà che sorridere a denti stretti davanti a questa appropriazione da parte del fronte conserva­tore di nozioni un tempo cosi centrali per la dottrina socialista, come “internazionali­smo” e “estinzione dello stato” .

Qualunque discorso politico in grado di coniugare il capitalismo globale e sciolto da vincoli e il nazionalismo offrirà al conserva­torismo un enorme vantaggio politico. Men­tre il capitale (e i problemi che lo accompa­gnano) si internazionalizza sempre più, la po­litica sempre più si “nazionalizza” . Forza in ascesa nell’ex area comunista, il nazionali­smo sta riacquistando in Europa occidentale nuove prospettive di vita. Nel 1993 il Partito socialista francese, fervidamente europeista, è stato sbaragliato alle lezioni da una destra che non nascondeva la sua freddezza nei con­fronti dell’Europa. Intanto in Gran Bretagna il Partito conservatore “difendeva” gli “inte­ressi” britannici (cioè quelli di inefficienti im­prenditori britannici capaci di essere compe­titivi in Europa solo negando alla propria forza lavoro diritti riconosciuti altrove) deci­dendo di escludersi dalla regolamentazione europea del mercato del lavoro. In Italia nel 1994 è emersa una nuova forza che ha strap­pato dalle mani della sinistra la vittoria tanto a lungo inseguita. E stata chiamata, non a ca­

so, Forza Italia, il grido lanciato allo stadio dai sostenitori della squadra nazionale di cal­cio. Il suo principale alleato era Alleanza na­zionale, forza erede di Mussolini, oggi piena­mente legittimata.

Altrove il nazionalismo coesiste con la ten­denza all’integrazione europea come in Gre­cia, dove il Pasok agita la bandiera del pa­triottismo per impedire al nuovo stato della Macedonia di chiamarsi come l’omonima provincia della Grecia, mentre il risanamento economico del paese dipende completamente dai fondi dell’Unione europea che ammonta­no al cinque per cento del prodotto interno lordo77. Persino in un paese piccolo come la Norvegia, l’unica a votare contro l’ingresso nell’Unione europea nel 1994, qualche simu­lacro di sovranità nazionale viene patetica­mente conservato anche se la realtà è che la Norvegia, stando al di fuori di una comunità politica ed economica che comprende la qua­si totalità dell’Europa occidentale sarà sem­plicemente obbligata a conformarsi a regole stabilite altrove e circa le quali non avrà alcu­na voce in capitolo'8.

I governi accrescono i loro poteri a spese dei parlamenti nazionali — la cui funzione residua è quella di fornire ai primi legittimità democratica. Il dibattito parlamentare in fu­turo sarà meno rilevante perché, in un clima di incessanti negoziati il cui esito non può mai essere assicurato in anticipo (né perciò garantito in un programma preelettorale), ciò che diventerà sempre più importante sarà l’idea della fides implicita fra elettorati e uo­mini politici — cioè la decisione di delegare le decisioni a qualcuno non sulla base di quel­lo che promette o alle cause che sostiene, ben­sì alla convinzione che di lui o di lei “ci si può fidare”79. Se le linee politiche non sono chia-

7 Kerin Hope, European prosperity proves elusive, “Financial Times”, Survey on Greece. 14 novembre 1994.78 Si vedano le osservazioni di Inger-Lise Ostrem, La Norvège et la communauté européenne: d ’une appartenance de fa it à une appartenance de droit?, “Revue du Marché commun et de l’Union européenne”, gennaio 1993, n. 364, pp. 8-23.79 Sulla nozione di fides implicita si veda Pierre Bourdieu, Questions de sociologìe, Paris, Éditions de Minuit, 1981. pp.245-248.

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re e non sappiamo come questo o quel politi­co agiranno, la questione della personalità dei politici (già messa fortemente in rilievo dalla televisione) diventerà sempre più im­portante. In linea di principio questo feno­meno non dovrebbe favorire a priori la sini­stra o la destra. Il suo effetto, tuttavia, è quel­lo di riprodurre una concezione della politica in cui gli elettori — una volta scelti i loro go­vernanti — restano spettatori passivi di un gioco che si svolge a distanza, sebbene ciò non impedisca l’esplodere sempre più fre­quente di battaglie su problemi specifici. Può allora destare meraviglia che in queste condizioni gli elettorati desiderino mantenere per sé l’unico potere che ancora può contare — il potere d’acquisto — eleggendo governi che riducono le tasse? Stati nazione svuotati nella sostanza, oggi semplici attori in un’are­na internazionale complessa, governati da personalità effimere elette per il loro aspetto fisico, per il gradimento che suscitano i loro comportamenti privati o per la loro abilità nell'affrontare le domande in televisione, non offrono certo ai socialisti il contesto mi­gliore per tentare di modellare il futuro. 1 so­cialisti saranno tentati — e molti di loro han­no già ceduto a questa tentazione — di sven­dere i loro valori nel turbine del rinnovamen­to, dimenticando la lezione di Machiavelli se­condo cui i veri innovatori sono coloro che mutano la loro strategia e la adattano alla nuova situazione, non quelli che perdono la bussola, ossia i valori che orientano la loro politica. L’ideologia della “fine dell’ideolo­gia” non fa parte dell’ideologia dei socialisti, e quanto a coloro che sostengono che la di­stinzione fra sinistra e destra ha perso ogni si­gnificato, farebbero bene a ricordare un fa­moso aforisma che Alain scrisse nel 1930:

Quando mi chiedono se la distinzione fra sinistra e destra ha ancora un senso, la prima cosa che mi

viene in mente è che la persona che pone la do­manda non è di sinistra80.

Dei vincoli che forzano tutti i partiti, spe­cie i socialisti, a restare così avviluppati negli involucri nazionali non ci si può sbarazzare. E impossibile prevedere come i partiti reagi­ranno a questa costrizione e come la politica nazionale si svilupperà nel corso del secolo a venire. I partiti possono continuare a vivere anche quando le condizioni che ne hanno determinato la nascita da tempo non esisto­no più. Il progetto socialista, comunque lo si definisca, può dissolversi, e i partiti socialisti invece sopravvivere. Non so se l’idea del so­cialismo sopravviverà al grande caos che ca­ratterizza la fine di questo millennio e l’ini­zio del prossimo. Coloro che si sono ricono­sciuti nel progetto socialista e ne hanno con­diviso le speranze e i timori, ma hanno vissu­to con insofferenza le continue prevaricazio­ni, gli infiniti compromessi, le vanificanti esitazioni dei partiti socialisti organizzati fa­rebbero bene a ricordare che, alla fin fine, questi partiti sono l’unica sinistra che ci ri­mane.81

La sorte e probabilmente il futuro del so­cialismo in Europa occidentale non possono essere separati da quelli del capitalismo euro­peo. La crisi della tradizione socialista e so­cialdemocratica in Europa occidentale non è la crisi di un’ideologia sconfitta dalla supe­riore forza politica e organizzativa dei suoi avversari, come è stato per il comunismo. Es­sa è parte integrante di uno sconvolgimento di fin de siècle che sta cambiando forma al pianeta con grande velocità. Per la sinistra restare una forza nazionale mentre il capitali­smo ha una dimensione internazionale sareb­be come diventare un Peter Schlemihl alla ro­vescia, un’ombra che ha perso il suo corpo. Ma quale sorte sarebbe a sua volta riservata a un capitalismo privato della sua “ombra”

K0 Alain, Propos, a cura di Maurice Savin, Paris, Gallimard, 1956, p. 983.81 Gioco di parole intraducibile: “These parties are the only Left that is left” [A. d. T. ].

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socialista? Alcuni neoliberali hanno sostenu­to che il capitalismo, non più impedito dalla forza costrittiva dell’umanità organizzata, prospererà a beneficio di tutti. Altri, e fra questi tutti i socialisti, temono che un capita­lismo senza vincoli si comporterà come un cannone libero di muoversi all’interno della

nave terra: a ogni tempesta economica colpi­rà e danneggerà lo scafo, finché la nave che dà a esso (e a noi) vita e sostentamento affon­derà. Allora sì saremmo alla fine della storia.

Donald Sassoon[traduzione dall’inglese di Anna Sordini]

Donald Sassoon è docente di storia al Queen Mary and Westfield College dell'Università di Londra. Ha pubblicato in Italia Togliatti e la via italiana al socialismo (Einaudi) e L ’Italia contemporanea (Editori Riuniti). È in corso di stampa il suo volume su One Hundred Years of Socialism. The West European Left in the Twentieth Century (Londra, I.B. Tankis) e sta lavorando alla nuova edizione aggiornata del volu­me sull’Italia contemporanea.

IL PENSIERO ECONOMICO MODERNOSommario del n.3, luglio-settembre 1995

ArticoliA. Fazio, L e b a n c h e e i l s is te m a fin a n z ia rio in Italia-, M. Arcelli, S u l s a g g io d e ll'in te re s s e ; B. Rossignoli, Il te s to u n ic o d e lle le g g i in m a te ria b a n c a r ia e c re d it iz ia : a lc u n e c o n s id e ra z io n i retrospettive-, P. Massa Piergiovanni, In d u s tr ia e d ip lo m a z ia tra G en ova e la F ra n c ia in una re la z io n e d e l p r im o Settecento-, A. Dell’Orefice, Un d iff ic ile e s o rd io : i l c e n tro a e ro n a u tic o d e ll ’A lfa R o m eo di Pomigliano d’Arco; L. Fornaciari Davoli, E con om ia e cu ltu ra : a lc u n e o sse rva z io n i.

OsservatorioM. Santillo, G u id o P e s c o s o lid o s u llo s v ilu p p o e c o n o m ic o ita lia n o n e l p r im o ven tenn io p o s tu n ita r io ; S. Trucco, P rese n ta ta d a C a rlo B o la r iv is ta “ N u ova e c o n o m ia e s to ria ".