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Strategie di sviluppo internazionale 1 1.1. Una chiave di lettura Le strategie delle imprese che competono in un contesto internazionale hanno dato vita ad un filone di studi che ha ricevuto, e riceve, un crescente interesse da parte degli studiosi delle discipline economico-aziendali. In un sistema ambientale complesso e in continua evoluzione, in cui i mercati sono sempre più contendibili (contenstable market) e, quindi, mag- giormente esposti all’ingresso di concorrenti potenziali, provenienti anche da altri settori dell’economia, il vantaggio competitivo delle imprese dipen- de in larga parte, non solo dalle scelte strategiche che l’impresa pone in es- sere, per cogliere le opportunità provenienti dal mercato dei clienti oppure per difendersi dalle minacce della concorrenza, ma anche dalla capacità manageriale di creare relazioni competitive e collaborative con i fornitori dei fattori e delle tecnologie. Il successo dipende, inoltre, dall’abilità delle imprese di riuscire a diminuire, nelle valutazioni dei potenziali entranti, l’attrattività dei business attraverso l’incremento di barriere all’entrata. Quan- to detto presuppone un’elevata capacità dei manager d’impresa di abbando- nare vecchi paradigmi e di sostituirli con nuovi che sappiano creare le con- dizioni per una forte interazione dell’impresa con il suo ambiente, finaliz- zata a generare, selezionare e governare la varianza delle relazioni (Loren- zoni, 1992). Occorre, innanzitutto che i manager d’impresa abbiano una visione strategica delle azioni da intraprendere e sappiano formulare strategie ben definite nei loro confini spazio-temporali, con obiettivi coerenti con la quantità e qualità delle risorse presenti nell’organizzazione o acquisibili dall’esterno, in quanto una strategia deve essere intesa come un modello decisionale atto a coordinare, secondo una visione ordinata e coerente, gli obiettivi, le linee di comportamento e l’allocazione delle risorse dell’impresa; essa svolge un ruolo di mediazione tra opportunità e minacce che si generano nell’ambiente esterno e risorse e competenze possedute. 1 Adattamento da Calvelli A., Cannavale A., Nuove tendenze nell’internazionalizzazione delle imprese, in corso di pubblicazione.

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Strategie di sviluppo internazionale 1

1.1. Una chiave di lettura

Le strategie delle imprese che competono in un contesto internazionale hanno dato vita ad un filone di studi che ha ricevuto, e riceve, un crescente interesse da parte degli studiosi delle discipline economico-aziendali.

In un sistema ambientale complesso e in continua evoluzione, in cui i mercati sono sempre più contendibili (contenstable market) e, quindi, mag-giormente esposti all’ingresso di concorrenti potenziali, provenienti anche da altri settori dell’economia, il vantaggio competitivo delle imprese dipen-de in larga parte, non solo dalle scelte strategiche che l’impresa pone in es-sere, per cogliere le opportunità provenienti dal mercato dei clienti oppure per difendersi dalle minacce della concorrenza, ma anche dalla capacità manageriale di creare relazioni competitive e collaborative con i fornitori dei fattori e delle tecnologie. Il successo dipende, inoltre, dall’abilità delle imprese di riuscire a diminuire, nelle valutazioni dei potenziali entranti, l’attrattività dei business attraverso l’incremento di barriere all’entrata. Quan-to detto presuppone un’elevata capacità dei manager d’impresa di abbando-nare vecchi paradigmi e di sostituirli con nuovi che sappiano creare le con-dizioni per una forte interazione dell’impresa con il suo ambiente, finaliz-zata a generare, selezionare e governare la varianza delle relazioni (Loren-zoni, 1992).

Occorre, innanzitutto che i manager d’impresa abbiano una visione strategica delle azioni da intraprendere e sappiano formulare strategie ben definite nei loro confini spazio-temporali, con obiettivi coerenti con la quantità e qualità delle risorse presenti nell’organizzazione o acquisibili dall’esterno, in quanto una strategia deve essere intesa come un modello decisionale atto a coordinare, secondo una visione ordinata e coerente, gli obiettivi, le linee di comportamento e l’allocazione delle risorse dell’impresa; essa svolge un ruolo di mediazione tra opportunità e minacce che si generano nell’ambiente esterno e risorse e competenze possedute.

1 Adattamento da Calvelli A., Cannavale A., Nuove tendenze

nell’internazionalizzazione delle imprese, in corso di pubblicazione.

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Pertanto, la formulazione della strategia, deve basarsi sia sull’analisi stra-tegica dell’ambiente, da cui deriva l’individuazione delle opportunità di bu-siness da cogliere, sia sulle capacità dei manager d’impresa di saper utilizza-re e combinare le risorse possedute o controllabili e di riuscire ad acquisire le risorse necessarie per il perseguimento degli obiettivi strategici2.

Fig. 1.1 – Le dimensioni del business da intraprendere

Quanto detto è del resto in sintonia con gli assunti alla base della stessa

analisi strategica che richiede, come premessa per la sua formulazione, l’esame del rapporto “ambiente esterno-risorse interne”. Esso è in sintonia, inoltre, con la visione dell’impresa come collection of resources della Penrose e, in particolare, con le argomentazioni di Selznick (1957), uno dei primi au-tori a teorizzare il concetto di “competenze distintive” quali determinanti del successo delle strategie di sviluppo dell’impresa.

Pertanto, nella individuazione delle relazioni ottimali che le imprese de-vono porre in essere con le forze dell’ambito competitivo, entrano in gioco le conoscenze e competenze possedute. Queste fanno riferimento non so-

2 Ciascuna organizzazione si denota per un particolare stock di risorse -fisiche, finan-

ziarie, tecnologiche, organizzative ed umane (Hofer, Shendel, 1978), possedute o control-labili, da utilizzare nel processo di formulazione strategica; le competenze attengono, in-vece, alla capacità delle imprese di utilizzare e combinare le risorse possedute.

Competenze Distintive Tecnologiche Di mercato Organizzative Finanziarie

General Management

Ambito Competitivo Concorrenti Barriere all’entrata Fornitori Clienti Prodotti sostitutivi

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lo alla capacità di disporre di risorse materiali e di conoscenza, ma soprat-tutto alla capacità dei manager d’impresa di possedere “competenze”, vale a dire di saper combinare le risorse disponibili, in modo tale da acquisire maggiore forza, o minore debolezza, nei confronti degli attori-chiave con cui le imprese devono misurarsi3. Se l’impresa possiede poi quelle partico-lari competenze in grado di renderla “unica” nel suo mercato, cioè quelle particolari abilità definite da Selznik (1958) competenze distintive e da Hamel e Prahalad (1990) Core Competence (tecnologiche, di mercato, or-ganizzative, finanziarie e di general management), allora l’impresa possiede vantaggi firm-specific difficilmente appropriabili da parte dei competitori e quanto più queste competenze distintive sono complementari tra loro e quanto più trasversalmente percorrono la catena del valore di un’impresa, tanto più si creano le premesse per un vantaggio più duraturo e maggior-mente difendibile 4.

Le competenze distintive vengono tradizionalmente suddivise in cin-que tipologie: competenze tecnologiche, riconosciute da Hamel e Praha-lad come le più significative, competenze di mercato, competenze orga-nizzative, competenze finanziarie e competenze di general management. Le ultime due categorie, tuttavia, sembrano essere quelle meno indicative dei processi di sviluppo seguiti dalle imprese, visto che risultano collegate a tutte le attività dell’impresa e risultano coinvolte in qualsiasi processo di ampliamento o riduzione del patrimonio di risorse delle imprese (Calvelli,

3 Le competenze distintive che permettono all’impresa di realizzare vantaggi competi-

tivi sono da intendere come modi in cui l’impresa riesce a combinare ed utilizzare gruppi di risorse, tali da renderla quasi unica sul suo mercato (Grant, 1994).La capacità delle competenze di generare posizioni di vantaggio competitivo sostenibile rispetto ai concor-renti dipende dal possesso di alcuni requisiti fondamentali. In primo luogo, le competenze per essere distintive devono essere durevoli, ossia offrire opportunità che durano nel tempo e che, quindi, non risultano legate allo sfruttamento di una situazione spot verificatasi nel mercato. Il secondo requisito è la difficile trasferibilità delle competenze, le competenze sono difficilmente trasferibili nel caso in cui non posso-no essere semplicemente acquisite da altre imprese. La terza caratteristica, in grado di as-sicurare la difendibilità del vantaggio competitivo acquisito da un’impresa, è la difficile re-plicabilità delle competenze ossia nella difficoltà, da parte dei concorrenti, di imitare le competenze sviluppate in una specifica impresa.

4 Ha osservato Dunning (1989) che non basta il possesso di un core asset per assicurare

il successo del business, ma occorre che si creino nell’impresa, lungo punti diversi della ca-tena del valore, un sistema di asset complementari che riescano a coordinare l’asset posse-duto. È proprio questo insieme di competenze complementari che può difendere l’impresa dall’appropriazione da parte degli imitatori di una specifica conoscenza (tecno-logica o di mercato), originariamente firm-specific.

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1995). D’altra parte, proprio il loro maggiore grado di trasversalità con-fermerebbe, secondo gli studiosi della RBV, il maggior valore delle stesse nello spiegare la capacità di un’impresa di conseguire posizioni di vantag-gio rispetto ai concorrenti (Barney e Arikan, 2001). In particolare, secon-do gli autori, la possibilità, da parte di un’impresa, di conseguire migliori performance dipende dalle capacità del general manager, ossia a quella figu-ra che, coordinando i manager delle diverse funzioni, ha accesso a tutte le informazioni e al patrimonio di conoscenze consolidato all’interno dell’organizzazione; le competenze di general management risiederebbero, quindi, nella capacità del general manager di coordinare l’attività dei diversi manager (e le loro competenze specifiche) al fine di perseguire un dise-gno strategico unitario e coerente con le opportunità offerte dall’ambiente esterno.

Nelle analisi ispirate alla resource-based-view (RBV), il ruolo delle compe-tenze distintive nella formulazione delle strategie assume un significato diverso rispetto a quello dei filoni di studio precedenti. La strategia non viene formulata per allocare le risorse in un’ottica di adattamento alle op-portunità del mercato; lo scopo della strategia è invece quello di far leva sulle risorse attuali e potenziali per creare vantaggi competitivi ed occa-sioni di crescita.

Quanto su esposto permette, allora, di individuare i confini definitori delle strategie di sviluppo: le teorie ed i paradigmi delle strategie di svilup-po dimensionale, nelle quali rientra la strategia d’internazionalizzazione, sono finalizzati alla definizione della direzione (cosa fare, dove andare), inten-sità (livelli dei target da raggiungere) e verso (sviluppo positivo o negativo) del vetto-re di crescita delle imprese.

In particolare, nell’intraprendere una strategia di sviluppo internaziona-le, i manager devono rispondere, prima di tutto, alla domanda “in quali mer-cati penetrare o da quali mercati esteri uscire?” e la formulazione della stra-tegia deve permettere ai manager di identificare i possibili mercati sulla base delle competenze e conoscenze richieste e possedute. In una seconda fase del processo strategico, l’esame delle regole del gioco competitivo, caratte-ristiche dei mercati prescelti, può guidare i manager nella definizione delle politiche da seguire e delle modalità di ingresso da attuare per il successo stesso delle strategie da intraprendere

Le modalità vanno più appropriatamente inquadrate nella sfera organiz-zativa dell’impresa, in quanto descrivono le logiche che guidano le scelte relative al “come” penetrare in un mercato, in funzione dei vantaggi compa-rativi che da tali scelte discendono (modalità collaborative o competitive, internazionalizzazione mercantile o investimento diretto all’estero, espor-

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tazione o cessione di licenza, make or buy). La definizione delle linee strategiche da perseguire precede, a rigore di

logica, l’individuazione delle modalità di attuazione delle stesse che meglio possono ridurre i tempi di implementazione delle strategie, oppure che possono far raggiungere gli obiettivi strategici in modo più efficiente 5.

È chiaro, comunque che, in una visione unitaria del processo strategico che deve guidare l’imprenditore nel perseguire le sue scelte, strategie di in-ternazionalizzazione e modalità di attuazione delle stesse rappresentano problematiche strettamente correlate 6. L’interrelazione tra strategie e poli-tiche porta necessariamente ad una circolarità del processo decisorio, per il quale le scelte strategiche sono monitorate e valutate, attraverso un percor-so per “approssimazioni successive”, basato sulla sperimentazione di una delle possibili vie di attuazione delle strategie. I risultati della sperimenta-zione rappresentano, pertanto, parametri di valutazione della perseguibilità nel tempo degli obiettivi strategici, determinati a priori 7.

1.1.2. Il ruolo dei Core factor nelle strategie di sviluppo

Da quanto sin qui detto, si evidenzia che una formulazione della strate-gia potenzialmente vincente deve basarsi su un’attenta analisi sia delle di-namiche interne all’impresa, sia delle dinamiche esterne, al fine di individu-are i nodi critici da sciogliere, i segmenti di mercato/prodotto nei quali o-perare e, soprattutto, la migliore allocazione delle risorse possedute o ac-quisite, siano esse di natura materiale sia di natura cognitiva (conoscenze e competenze).

Nelle scelte strategiche entra, pertanto, in gioco l’allargamento delle co-

5 Anche se va notato che spesso i concetti che fanno riferimento alle strategie

dell’internazionalizzazione si sovrappongono a concetti descrittivi delle modalità di attua-zione delle stesse. È, infatti, ricorrente riscontrare in alcuni studi e ricerche su questi temi che, nell’intento di discutere su paradigmi e teorie delle strategie di sviluppo estero, vale a dire sui modelli che spiegano la logica da seguire per individuare “cosa” si vuole fare, l’attenzione degli studiosi si concentra, invece, sulle modalità di attuazione delle strategie.

6 I condizionamenti delle modalità d’ingresso sulle decisioni strategiche di sviluppo in-

ternazionale discendono anche dalla considerazione che, a volte, le modalità d’ingresso non possono essere liberamente scelte dai manager d’impresa, sia perché imposte dai paesi esteri, sia perché soggette al vincolo di portafoglio delle risorse aziendali.

7 Nell’ottica sin qui delineata, le teorie ed i paradigmi delle strategie internazionali non

si discostano sostanzialmente da quelli consolidati nella letteratura economico-aziendale e interpretativi delle diverse tipologie di sviluppo dimensionale.

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noscenze dei manager d’impresa L’ampliamento del patrimonio cumulato delle conoscenze e competenze, spesso necessario per la definizione degli obiettivi strategici, è tanto più avvertito quanto più distanti sono le regole del gioco dei nuovi ambiti in cui competere, rispetto a quelle proprie dei contesti in cui le imprese già operano.

Focalizzando l’attenzione sul patrimonio dei Core Factor (conoscenze e competenze) posseduti dalle imprese e sui mutamenti dello stesso che si devono necessariamente generare allorquando ciò è richiesto dalle strategie che si intendono perseguire, è possibile avere un quadro delle diverse stra-tegie di sviluppo dimensionale potenzialmente perseguibili dalle imprese (Fig. 1.2). L’ottica è posta solo su questa particolare tipologia di scelta stra-tegica, quella dello sviluppo dimensionale8, in quanto le strategie dell’internazionalizzazione appartengono alla tipologia prescelta poiché ri-guardano sempre uno sviluppo, positivo oppure negativo, delle dimensioni delle imprese (organizzative, produttive, finanziarie).

Fig. 1.2 – Patrimonio dei Core Factor e strategie di sviluppo dimensionale

delle imprese

Patrimonio Sviluppo dei Core Factor

Cumulato Discontinuo Tendenziale

A somma positiva

Diversificazione

Espansione

A somma negativa o nulla

Riconversione

Ricentraggio

Fonte: tratto da Calvelli (1995).

Infatti, le imprese intraprendono strategie dell’internazionalizzazione al-lorquando decidono di entrare in nuovi mercati per lo sbocco del proprio

8 Va ricordato che le strategie delle imprese sono essenzialmente riconducibili a due

diverse tipologie: strategie di sviluppo dimensionale, che si segmentano in diversificazio-ne, ricentraggio, integrazione; strategie competitive, che si segmentano in leadership di co-sto, differenziazione e focalizzazione.

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output oppure per l’acquisizione degli input, di espandersi nei mercati este-ri già familiari. Possono considerarsi scelte di internazionalizzazione anche le decisioni che le imprese formulano di ridurre la propria presenza all’estero, di abbandonare i mercati esteri in cui operano oppure di sosti-tuirli con mercati maggiormente attrattivi.

Nei processi di “espansione" (Fig. 1.2), anche se le attività d’impresa si sviluppano in ambiti competitivi familiari, è realistico ipotizzare che si rea-lizzi un incremento della base conoscitiva del management, sia come premes-sa per la realizzazione della crescita sia come naturale sviluppo delle cono-scenze che si muovono parallelamente alla via dell’espansione dell’impresa. Non sembra, però, che sia necessario ipotizzare, in questo caso, un’acquisizione di nuove risorse conoscitive, finalizzate a trasferire, al management aziendale, conoscenze tecnologiche e/o di mercato significati-vamente diverse da quelle già possedute. La strategia di espansione può ri-chiedere, infatti, nei casi in cui l’impresa continua a permanere all’interno dello stesso ambito competitivo, solo una riorganizzazione del patrimonio già consolidato di conoscenze e competenze, finalizzata al raggiungimento di un maggiore utilizzo o di uno sfruttamento più efficiente ed efficace del-le risorse conoscitive disponibili.

Nell’ottica dell’internazionalizzazione, l’avvio di un processo di espan-sione all’estero in ambiti competitivi familiari, sia pur diversi dal punto di vista geografico, è assimilabile ad una espansione in ambiti esclusivamente domestici (caso di internazionalizzazione per espansione). E’ realisticamente i-potizzabile che rientrino in questa tipologia strategica anche le scelte di ac-quisizione di fattori produttivi sui mercati esteri e le scelte di delocalizza-zione produttiva in contesti stranieri non significativamente distanti da quelli familiari.

Sono, invece, necessarie nuove conoscenze per collocare l’output a-ziendale in contesti culturalmente distanti da quelli familiari, oppure in nuovi mercati nei quali sono significativamente diverse le regole della con-correnza che discendono dall’operare congiunto delle cinque forze com-petitive oppure. In questi casi, la strategia di espansione internazionale di-venta, in un’ottica di sviluppo discontinuo a somma positiva delle cono-scenze e competenze, strategia di diversificazione (internazionalizzazione per diversificazione) 9.

9 Con riferimento alle argomentazioni della Penrose occorrerebbe definire le aree di

mercato nell’ottica dell’utilizzo di risorse e concepirle, pertanto, non in funzione solo dei programmi di vendita, ma in una visione più ampia come insieme di risorse che offrono conoscenze relative ai segmenti di mercato in cui l’impresa opera o intende operare.

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Occorre, infatti, occorre acquisire uno specifico know how nei casi in cui l’impresa amplia la propria produzione con prodotti che richiedono una diversa tecnologia di processo; e ciò comporta l’instaurarsi di nuove rela-zioni con i fornitori di tecnologie e di input produttivi. Se l’innovazione tecnologica si concretizza, poi, in un nuovo prodotto, possono mutare an-che le condizioni dei mercati dei clienti e della concorrenza.

Nelle situazioni in cui l’ambiente competitivo si modifica significativa-mente, il nuovo business richiede una revisione del modo di operare dell’impresa e, quindi, un accrescimento significativamente diverso delle conoscenze e competenze atte a fronteggiare le diverse situazioni concor-renziali. Rientra nelle strategie di diversificazione, l’ingresso in nuovi mer-cati nei quali sono significativamente diverse, rispetto a quelle “familiari”, le regole del gioco competitivo.

Rientrano tra le modalità di attuazione delle strategie di internazionalizzazione per diversificazione le scelte di decentramento produttivo o di esternalizzazio-ne della produzione a terzisti internazionali allorquando il mercato estero di localizzazione ha caratteristiche culturali e comportamenti imprendito-riali significativamente diversi da quelli familiari; in questi casi, è necessario che l’impresa acquisisca conoscenze approfondite dei mercati se vuole per-seguire un obiettivo di stabilità e di efficienza delle attività intraprese 10. Molti fattori ambientali, che nel mercato domestico sono considerati co-stanti, diventano variabili e le imprese possono incontrare differenze cultu-rali, sociali, politiche, economiche così distanti che le politiche decisionali attuate nei confini abituali diventano non applicabili e possono significati-vamente modificarsi anche le stesse modalità di acquisizione delle infor-mazioni e delle conoscenze11.

Infine, sempre in tema di internazionalizzazione per diversificazione, in alcuni casi la scelta strategica è motivata dalla necessità di monitorare comporta-menti di mercati, produzioni, settori (apertura di finestre cognitive), al fine di cogliere le opportunità che possono emergere localmente.

Si è inteso far rientrare nel concetto di “finestra cognitiva” quella tipologia

10

Questi problemi hanno nell’ultimo decennio portato le imprese manifatturiere ita-liane a delocalizzare la produzione in Romania, non solo per la vicinanza geografica, ma soprattutto per minori difficoltà linguistiche (nel paese è diffusa la lingua italiana) e per un retaggio del passato, vale a dire per un’attitudine che hanno i rumeni a lavorare nelle indu-strie su commissione deli operatori occidentali, soprattutto austriaci.

11 Si ampliano, inoltre, e si diversificano le fonti del sapere tecnologico, organizzativo-

manageriale e di mercato nei casi in cui si allunga, a monte o a valle, il ciclo di produ-zione/distribuzione dell’impresa e la scelta strategica di internalizzare nuove attività rien-tra, nella chiave di lettura proposta, nelle strategie di diversificazione.

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di finestre (creazione di consociate all’estero, di centri di ricerca, ecc.) che le imprese aprono nelle aree strategicamente rilevanti, per apprendere i mec-canismi di mercato prevalenti (finestre di mercato) oppure per conoscere e più facilmente appropriarsi, attraverso un continuo monitoraggio, delle tecno-logie innovative che si stanno sviluppando in determinati ambienti (finestre tecnologiche). Al riguardo, anche la collaborazione tra imprese può avere una valenza di “apertura di una finestra cognitiva”, se essa si concretizza in una joint venture con una partecipazione al capitale del partner, pur se minoritaria. I-noltre, nella considerazione che il processo di ampliamento degli orizzonti competitivi è un dato di fatto delle moderne economie d’impresa, il ri-nunciare completamente ad un’espansione al di fuori dei confini domestici implica una minore possibilità di resistenza nel mercato nei casi in cui la domanda dei propri prodotti presenti situazioni di crisi e minori opportu-nità da cogliere, per “non conoscenza”, qualora esse si manifestino nei mercati esteri. Di converso, le risposte manageriali possono diventare più efficaci man mano che si accrescono le conoscenze disponibili sui cambiamenti che stanno per realizzarsi nei contesti ambientali prescelti per il monito-raggio.

Aprire delle finestre cognitive significa, pertanto, essere presenti alla fron-tiera delle conoscenze e acquisire la possibilità di agire in anticipo sui con-correnti. In tal senso, l’internazionalizzazione potrebbe essere attuata an-che per il perseguimento di una “preemptive strategy” (MacMillan, 1983), co-me mossa di anticipo sui “potenziali” concorrenti, finalizzata ad “entrare per primi” in un nuovo mercato, per il quale l’impresa ipotizza di possede-re una capacità di soddisfazione della domanda latente o insoddisfatta.

Per l’acquisizione di migliori posizionamenti competitivi e per intra-prendere azioni adeguate al cambiamento, occorre conoscere, acquisire in-formazioni, saperle interpretare, soprattutto quando si vuole operare in ambiti internazionali. La spinta all’espansione internazionale delle moderne imprese proviene proprio dal bagaglio d’esperienza, creato attraverso lo sviluppo del processo conoscitivo.

Si può, pertanto, affermare che, nelle situazioni in cui le imprese impa-rano attraverso l’esperienza oppure attraverso un processo di scambio re-lazionale con attori detentori di conoscenze diverse, vale a dire, quasi cat-turando le esperienze altrui che danno possibilità di apprendimento, si creano le premesse per la generazione di un processo autopropulsivo di generazione e di utilizzo delle conoscenze, che segna la direzione ed il ver-so del vettore di crescita internazionale delle imprese.

Passando all’esame dei processi di sviluppo a somma zero o negativa dei preesistenti Core Factor; in una strategia di “ricentraggio” – che si realizza,

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com’è noto, eliminando le attività di business poco attrattive per l’impresa o per il suo mercato – non è realisticamente ipotizzabile che una tale strate-gia comporti l’immissione nell’impresa di conoscenze e competenze nuove e significativamente diverse da quelle preesistenti, ma, al contrario, è reali-stico ipotizzare che, insieme ai business dismessi, vengano abbandonate anche le conoscenze e competenze ad essi connesse.

Nell’ottica delle strategie dell’internazionalizzazione, il ricentraggio si at-tua allorquando le imprese abbandonano alcuni mercati esteri nei quali è difficile competere con le conoscenze e competenze possedute o poten-zialmente acquisibili, oppure sono costrette ad abbandonare un mercato per una normativa ostile dei Paesi ospiti (questi casi possono definirsi di in-ternazionalizzazione per ricentraggio).

Infine, se le strategie comportano un accrescimento discontinuo dei Core Factor ed a somma negativa o nulla, ciò vuol dire che l’impresa sta at-tuando strategie di “riconversione” 12, che prevedono un vero e proprio ri-posizionamento strategico dell’impresa. In questo caso e, generalmente, in seguito a situazioni di crisi settoriale oppure di impossibilità a competere con profitto in alcuni mercati, l’impresa abbandona i vecchi business per so-stituirli con più attrattive opportunità di investimento che richiedono nuo-ve conoscenze, in sostituzione di quelle relative alle attività dismesse 13 op-pure ai mercati abbandonati.

In sintonia, infine, con la dimensione discriminante delle strategie di sviluppo d’impresa proposta in questo lavoro cioè basata sull’incremento discontinuo ed a somma positiva dei Core Factor, da riconnettere alle modifica-zioni dell’ambito competitivo le alternative strategiche di diversificazione concentrica e conglomerale si configurano allorquando le nuove e diverse conoscenze e competenze acquisite in azienda evidenziano sinergie con le risorse immateriali preesistenti (diversificazione concentrica) oppure non pre-sentano alcuna connessione con esse (diversificazione conglomerale).

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Le strategie di riconversione, che richiedono un radicale cambiamento delle attività d’impresa, sono un particolare caso di turnaround che, com’è noto, può verificarsi anche non abbandonando completamente i vecchi business, ma riconfigurandoli per assicurare all’impresa migliori opportunità di crescita e più elevati livelli di valore economico creato. Non sempre il turnaround si origina da situazioni di crisi, ma, a volte, può essere determina-to dall’obiettivo di migliorare le quote di mercato e la profittabilità, anche se quest’ultima si esprime già in termini positivi (Sicca, 1996).

13 Si pensi, ad esempio, ai casi di riconversione produttiva indotti dai contingentamen-

ti comunitari che hanno, a volte, portato le imprese di alcuni settori (siderurgico, agro-industriale) di fronte a crisi di sopravvivenza e di riposizionamento strategico di tipo radi-cale.

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L’interazione tra scelte strategiche e patrimonio delle conoscenze e competenze, così analizzata, s’inquadra in una visione dinamica dell’agire strategico dei manager d’impresa ed individua l’esistenza di un rapporto cir-colare tra i due fenomeni: le conoscenze possedute influenzano la strategia dell’impresa che, a sua volta, tende a modificare il patrimonio cumulato delle conoscenze. Si viene, così, a delineare un circolo virtuoso che alimenta ed accresce le conoscenze dell’impresa, aumentando le opzioni strategiche a sua disposizione 14. La disponibilità sul mercato di eventuali nuove cono-scenze potenzialmente utili può creare le premesse per indurre l’impresa a programmare politiche di sviluppo volte alla loro acquisizione. Pertanto, in un’ottica dinamica, le decisioni strategiche così adottate, attraverso il filtro ambientale che decodifica ed indirizza i messaggi dell’impresa, possono impattare sulle decisioni future.

1.2. L’internazionalizzazione per diversificazione: i rischi di una diversificazione spinta

Le ricerche svolte sul tema della diversificazione internazionale, che ne-gli anni ’60 si erano concentrate sul tema dello sviluppo conglomerale, ne-gli ultimi decenni hanno posto l’attenzione sulla diversificazione geografica di tipo concentrico, vale a dire, sulle situazioni in cui lo sviluppo delle atti-vità d’impresa si effettua nell’ambito di un relativamente omogeneo cluster di paesi. Nei casi di internazionalizzazione per diversificazione, le imprese che operano in cluster di paesi relativamente omogenei hanno, in termini probabilistici, maggiori opportunità di conseguire profitti più stabili (Va-chani, 1990), sfruttando in modo ottimale il proprio bagaglio conoscitivo15.

Su questo tema, Grant (1987) ha affermato che le multinazionali che operano in paesi psicologicamente vicini sostengono minori costi di coor-

14

Già alla fine degli anni ’80, Itami (1987) affermava che le conoscenze possedute dall’impresa agiscono sia come vincolo, limitando l’operatività nel breve periodo e le a-zioni strategiche adottabili, sia come opportunità, laddove il sapere – scientifico, tecnolo-gico e di mercato – assume carattere pervasivo e viene utilizzato come trampolino di lan-cio per entrare in nuovi business.

15 In una strategia di internazionalizzazione per diversificazione concentrica, si creano

sinergie tecnologiche e/o di mercato allorquando; si replica all’estero la formula imprendi-toriale, come ad esempio ha attuato la Nike entrando progressivamente nelle diverse atti-vità sportive (basket, ciclismo, calcio, golf..); si entra in nuovi mercati significamente di-versi da quelli familiari con i prodotti esistenti (affinità tecnologiche); si si delocalizzano le attività della catena del valore in ambiti “non familiari” (es:Yamamay).

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dinamento e possono, inoltre, trarre benefici in termini di economie di sca-la e di spill-over, come per la pubblicità (Daniels e Radebaugh, 1989).

Anche se, agli inizi degli anni sessanta, Hymer (1960) aveva già afferma-to che un ruolo importante nella teoria delle multinazionali era ricoperto dalla capacità delle imprese di possedere un patrimonio oligopolistico di beni intangibili (ownership advantage) che permettesse loro di competere in ambienti non familiari 16, solo le successive ricerche hanno evidenziato in modo significativo questo assunto. Le conclusioni delle analisi empiriche, svolte sul tema, enfatizzano la connessione esistente tra il livello di somi-glianza dei cluster di paesi in cui le multinazionali operano e la capacità delle imprese di sfruttare a proprio vantaggio la dotazione di invisible asset posse-duta.

Per Teece (1986), la vicinanza fisica spinge le consociate ad attivare meccanismi di scambio delle conoscenze tecnologiche, che possono più facilmente essere codificate; in tal modo, le imprese possono perseguire l’obiettivo di realizzare più elevati livelli di efficienza produttiva e commer-ciale, attraverso le economie di scopo che si raggiungono allorquando le nuove competenze sono correlate sinergicamente a quelle preesistenti.

La vicinanza soprattutto culturale può permettere, inoltre, alle imprese di standardizzare più facilmente alcune attività e politiche funzionali, quali ad esempio quelle di marketing, di ridurre, pertanto, i costi 17 e la comples-sità delle operazioni manageriali (Buckley e Casson, 1976; Ronen, 1986).

L’internazionalizzazione delle imprese sudcoreane in cluster

di aree omogenee

La distribuzione Degli IDE sudcoreani presenta elevati tassi di con-

centrazione in cluster regionali in Paesi, quali la Cina e gli USA che

16

Hymer, nel porre in luce le motivazioni alla base delle decisioni di espansione all’estero delle imprese, enfatizza il ruolo svolto dal possesso di “ownership advantage”, cioè di quei vantaggi sui quali l’impresa vuole mantenere un controllo diretto per un loro mi-gliore sfruttamento. Questi vantaggi di natura oligopolistica, che consentono la formazio-ne di sovraprofitti da investire in operazioni internazionali, discendono dalle conoscenze che l’impresa possiede sulle sue specificità e sul settore in cui opera.

17 Infatti, in sintonia con gli assunti alla base della teoria di Vernon (1966), le imprese

dei paesi caratterizzati da un analogo livello di sviluppo, soprattutto culturale, possono ri-trovarsi nella stessa fase del ciclo di vita del prodotto e, quindi, trovarsi nella condizione di poter ridurre i costi.

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Strategie di sviluppo internazionale 29

attraggono la maggior parte degli IDE di imprese straniere: infatti in

Cina il 75% degli IDE si concentra in solo 2 delle 26 regioni cinesi;

negli USA, il 60% degli IDE si concentra nello Stato della Califor-

nia.

Alcune ricerche di (Debaere e Paik, 2010) si sono focalizzate sui

motivi che possono aver spinto le imprese sudcoreane ad interna-

zionalizzarsi in aree omogenee. Per gli autori, la prossimità geografi-

ca può condurre a spillover tecnologici o di conoscenza, aumentare

la disponibilità di lavoratori specializzati e la presenza di fornitori e

clienti, soprattutto sudcoreani, con i quali stringere relazioni a mon-

te e a valle, può portare a minori costi d’approvvigionamento e di

vendita; questi potenziali vantaggi possono, inoltre, ridurre

l’incertezza legata all’ingresso in aree non familiari.

Questi fattori sono attrattivi non solo per le grandi imprese sudco-

reane localizzate nelle aree cinesi, ma anche per le piccole imprese

sudcoreane “follower” che possono sfruttare un più facile accesso a

materie prime oppure a prodotti intermedi.

Passando ad esaminare i processi di crescita internazionale delle impre-

se, in un’ottica di diversificazione conglomerale, va in primo luogo notato che una tale strategia non può garantire di per sé la sopravvivenza delle a-ziende sul mercato e ciò per due ordini di motivi.

In primo luogo, le esigenze conoscitive dei manager diventano via via crescenti con l’ingresso in nuovi mercati, quanto più distanti essi sono ri-spetto a quelli familiari. Con l’aumentare della distanza, cresce anche

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Scelte d’impresa e mercati internazionali 30

l’incertezza percepita dai manager e l’esposizione al rischio delle imprese. In tal senso, l’incertezza fa riferimento alla capacità dei manager di poter fare delle congetture circa l’impatto delle azioni da intraprendere sulle performan-ce delle imprese; essa dipende dalle condizioni di stabilità politica di un pae-se, dalle più elevate fluttuazioni (negative) che possono caratterizzare la di-namica economica e sociale dell’area, dalla diversità di credi e valori che può ostacolare il raggiungimento degli obiettivi strategici.

In secondo luogo, livelli elevati di incertezza percepita creano una situa-zione di inerzia nei manager e accentuano gli scopi opportunistici che, alla lunga, portano all’insuccesso delle politiche, aprioristicamente prefissate, di penetrazione nei mercati. Numerose ricerche sono state svolte su questo tema, centrato sul ruolo che l’incertezza può avere nel fallimento (o nel cambiamento) degli scopi che i manager intendono perseguire stringendo un sistema di relazioni, competitive o collaborative, con partner stranieri (Wer-nerfelt e Karnani, 1987; Miller, 1992; 1993).

Va notato, inoltre, che l’ingresso in mercati sensibilmente diversi da quelli familiari può generare lo stesso pericolo di una diversificazione in bu-siness indipendenti. Al riguardo, come osserva Auerbach (1988), la riduzio-ne del rischio derivante dal frazionamento dell’attività complessiva d’impresa in più business indipendenti trova un suo limite nel maggiore ri-schio che si realizza con l’ingresso in nuove attività per le quali non si pos-siedono competenze distintive. Ciò si verifica anche nei casi in cui l’internazionalizzazione viene attuata attraverso acquisizioni e fusioni, a causa dell’incertezza legata al buon esito del coordinamento da attuare a li-vello manageriale tra gli organismi delle unità imprenditoriali acquirenti ed acquisite.

Altri pericoli emergono da un’internazionalizzazione per diversificazio-ne allorquando, per la gestione dei nuovi mercati, l’impresa decide di non assumere nuovo capitale umano 18. Ad esempio, la maggiore attenzione ri-chiesta nello sviluppo di nuove attività può portare a distogliere le risorse esistenti dalle attività consolidate rendendo più difficile il mantenimento delle posizioni competitive raggiunte.

Infine, una continua espansione in mercati non familiari porta necessa-

18

Tra l’altro, l’ingresso in azienda di portatori di nuove conoscenze, necessarie per lo sviluppo in nuove aree di affari, non assicura di per sé un’integrazione degli stessi con i manager già presenti (Vicari, 1989). I conflitti generati dallo scontro di competenze distin-tive possono, alla lunga, riflettersi sulle complessive attività d’impresa, creando, quindi, le premesse per un abbassamento dei livelli delle performance anche dei business già consolidati (Calvelli, 1995).

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Strategie di sviluppo internazionale 31

riamente ad un aumento del numero di eccezioni riscontrabili nell’effettuazione del lavoro e ad un maggiore sforzo di ricerca di soluzioni a problemi non analizzabili (Perrow, 1967), in quanto connessi a compe-tenze che si trovano nella fase iniziale della curva di apprendimento; ciò impedisce lo sviluppo di routine e riduce la possibilità del management di co-ordinare in modo efficiente ed efficace le attività aziendali.

Gli svantaggi insiti nei processi di internazionalizzazione per diversifica-zione, in ambiti competitivi culturalmente distanti, hanno portato, sulla ba-se dei fallimenti rilevati nel passato, a privilegiare le strategie di sviluppo in mercati vicini a quelli domestici, finalizzate alla ricerca del vantaggio siner-gico che discende dal poter trasferire conoscenze e competenze già acqui-site a nuovi ambiti competitivi. Ne discende, pertanto, che lo sviluppo ver-so attività che si sanno gestire può diventare uno dei requisiti fondamentali per il raggiungimento dell’eccellenza imprenditoriale.

Anche negli studi sperimentali di Rumelt (1974), è sotteso, seppure in forma soft, il concetto che la diversificazione porta a performance compa-rativamente più elevate se le aree di affari in cui l’impresa si diversifica pre-sentano attività correlate tra loro, nei termini di: destinazione verso mercati simili e utilizzo degli stessi sistemi distributivi; impiego di tecnologie corre-late oppure sviluppo di analoghe attività di ricerca.

Da quanto detto sembra potersi affermare, in sintonia con il pensiero di alcuni Autori (Copeland, Kolle e Murrin, 1991), che la ricerca delle attività e dei mercati in cui inserirsi può essere considerata come ricerca delle atti-vità che possano creare valore addizionale, vale a dire, che possano contri-buire con un elevato peso alla formazione del valore complessivo di im-presa.

1.3. Strategie di ricentraggio delle grandi imprese internazionali

Dalla fine degli anni ’80, si è assistito, soprattutto nel contesto USA, ad una rivisitazione delle strategie d’impresa, volta ad uno “smembramento” delle conglomerali e ad una riallocazione delle risorse così liberate nelle at-tività core: si è difatti assistito a manovre di scorporo e, spesso, di contem-poraneo investimento in attività familiari o correlate ad esse. Le grandi im-prese statunitensi hanno così modificato sostanzialmente le loro traiettorie di sviluppo e, negli ultimi decenni, gli scorpori aziendali, attuati mediante processi di break up o di spin off, sono aumentati a ritmo sostenuto, contro le previsioni prevalenti negli anni ’80 (tra gli altri, Jolly, 1987), che vedeva-no la strategia di ricentraggio sulle risorse uniche di un’impresa come

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Scelte d’impresa e mercati internazionali 32

un’alternativa più adatta alle imprese minori o, al limite, ai nuovi entranti nella competizione.

D’altra parte, i processi di ridimensionamento organizzativo delle im-prese statunitensi sono, per molti versi, una naturale conseguenza delle strategie di diversificazione troppo spinta, portata avanti negli anni prece-denti. Al riguardo, è noto che un percorso di sviluppo, privo di un unitario disegno strategico o proiettato alla ricerca continua del nuovo, l’incrementalismo spinto alla Vicari (1989), può risultare una scelta pericolosa che può portare all’insorgere di diseconomie di coordinamento, ad effetti distorsivi nel meccanismo di allocazione delle risorse 19, alla non riproduci-bilità degli skill manageriali non codificati, concentrati in top management a forte impronta imprenditoriale (Cainarca e Mariotti, 1985) e, al limite, al fallimento del business complessivo.

La strategia di ricentraggio o di rifocalizzazione porta a concentrare il campo di azione sul core, liquidando sia le attività prive di una loro ragion d’essere, per crisi di domanda oppure per crisi da inefficienza (taglio dei rami secchi), sia le attività non strettamente correlate alle attività centrali dell’impresa. Nel primo caso, trattato in modo più diffuso nella letteratura economico-aziendale, la strategia è volta a risolvere situazioni critiche e, in tal senso, si configura più appropriatamente come una strategia di soprav-vivenza. Nel secondo caso, una strategia di ricentraggio, essendo finalizzata a rifocalizzare l’attenzione del management sulle attività centrali, accelera, alla lunga, il processo di crescita della creatività strategica.

In ambito internazionale, negli ultimi anni, le strategie di ricentraggio hanno interessato molte imprese che negli anni precedenti avevano intra-preso strategie di internazionalizzazione in potenziali mercati di sbocco oppure in mercati ricchi di dotazioni fattoriali (manodopera a basso costo, materie prime): il ricentraggio nei mercati familiari oppure in mercati più attrattivi è stato spesso imposto dai comportamenti ostili dei Paesi ospiti, dall’emanazione di normative condizionanti oppure dalla riduzione dei vantaggi di costo.

Al riguardo, negli ultimi anni, le strategie di ricentraggio si sta diffon-dendo in modo massiccio, coinvolgendo imprese statunitensi, europee ed

19

È noto, al riguardo, il caso dell’ITT che dopo aver effettuato un ampio giro di acqui-sizioni, a partire dalla metà degli anni ‘60, in attività spesso non correlate al business elet-tronico, ha attuato in seguito strategie di ridimensionamento organizzativo, investendo le risorse liberate con la cessione di attività diversificate nel core business delle teleco-municazioni.

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Strategie di sviluppo internazionale 33

anche l’Italia: gli ultimi dati Uni CLUB MoRe evidenziano che sul totale delle imprese che hanno attuato strategie di ricentraggio attraverso il back-reshoring ( rientri nel paese origine), il 47% riguarda le imprese statunitensi; il 51% è relativo alle imprese dell’Unione Europea. Quanto a paesi “ab-bandonati”, aree particolarmente attrattive per le imprese occidentali, il 60,3% riguarda la Cina e il 12,5% gli altri Paesi asiatici.

Se si considera il solo settore delle imprese a più elevata tecnologia (im-prese dei settori elettronici ed elettrotecnici) che utilizzano manodopera maggiormente qualificata, il ricentraggio delle imprese italiane è stato mo-tivato da un minore controllo della qualità di produzione (33,3%), dall’orientamento ad avvicinarsi ai centri di ricerca del paese origine (25,0%), dalla riduzione del vantaggio di costo del lavoro (11,1%).

Strategie di ricentraggio delle imprese internazionali: alcuni casi

Strategie di ricentraggio degli anni ‘90 L’Unilever ha ceduto, nel 1991, l’attività di packaging, non strettamente ri-entrante nelle sue attività core, attraverso processi di spin off, attuati con ex-dipendenti dell’area logistica. Nel 1993, la AT&T ha dato luogo al break up più rilevante della storia a-mericana, attuato attraverso la cessione di tre grandi divisioni: “servizi di telecomunicazione”, “apparecchi per telecomunicazione” e “informatica”; nel 1996 ha completato la disintegrazione, cedendo la società NCR e Lu-cent, del settore informatico. Nello stesso anno, la General Motors ha e-sternalizzato l’unità “componenti auto” alla ITT, stipulando, contempo-raneamente alla cessione, un contratto di fornitura di lungo periodo con l’acquirente. La Kodak, nel giugno 1993, ha ceduto la sua divisione di chimica per ri-durre la massa di debiti accumulata negli ultimi anni e per concentrarsi sulle attività strategiche del settore video-fotografico. La Eastman Chemi-cal, società gemmata dalla Kodak, era stata creata dallo stesso fondatore della Kodak nel 1920. Inizialmente forniva alla Kodak il 100% della pro-pria produzione, negli ultimi anni aveva assunto una propria autonomia, vendendo solo il 10% della propria produzione alla casa madre. Nel 1992, si realizza un tipico caso di ricentraggio reciproco: l’inglese Im-perial Chemical Industries (ICI) e l’americana Dupont pongono in essere un asset swap: la Dupont cede il business degli acrilici alla ICI, mentre l’ICI cede il business del nylon. Oltre al rafforzamento produttivo nei settori core, l’asset swap ha permesso ad entrambi i partner di ricentrarsi sui mercati

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Scelte d’impresa e mercati internazionali 34

“core” (internazionalizzazione per ricentraggio): il Nordamerica per l’ICI e l’Europa per la Dupont. Sempre nell’ambito di una reciproca strategia di specializzazione, nel 1994, la Daimler ha ceduto l’Aeg divisione illuminazione alla Philips, pro-seguendo così a focalizzarsi sulle attività dei settore automobilistico e mi-croelettronico. Di converso, la Philips ha potuto consolidare la propria posizione nel settore dell’illuminazione. D’altra parte, la Philips aveva cominciato già nel 1991 a perseguire una strategia di ricentraggio, cedendo: la “Philips informatica” alla Digital; le attività, poste in comune nella joint venture “Wirpool International”, allo stessa Wirpool, uscendo così dal settore degli elettromestici; la produzio-ne di macchine per radiografie dentarie alla Gendex, un’impresa specializ-zata nella meccanica per uso medicale ed interessata a consolidare la sua posizione di nicchia globale. Casi recenti di strategie di ricentraggio Nei settori ad elevato contenuto di informazione, hanno lasciato il merca-to cinese: Microsoft ha annunciato la chiusura di due fabbriche in Cina, tagliando 9 mila impiegati; Adobe Systems, che ha chiuso un centro di ricerca a dicembre 2014; Zynga, specializzata in giochi per i social network, che ha chiuso il suo studio dove lavoravano 71 persone. Casi emblematici di ricentraggio, a causa delle ostilità dei Paesi ospiti, so-no Google e Yahoo che hanno deciso di abbandonare il mercato cinese. Google, al fine di non sottostare alla censura imposta dal regime cinese, ha parzialmente abbandonato il mercato reindirizzando il traffico al sito di Hong Kong, che offre risultati non filtrati in cinese; ciò nella speranza che il governo cinese non blocchi ulteriormente l'accesso ai servizi di go-ogle. Sono rimasti in Cina alcuni servizi commerciali, come la vendita di inserzioni pubblicitarie sui motori di ricerca. Yahoo, dopo l’uscita dalla Corea del Sud e il ridimensionamento attuato in Medio Oriente, in India, Vietnam, Indonesia, Malesia e Singapore, ha chiuso il Centro di ricerca di Pechino (350 dipendenti). Le elevate possibilità offerte dall’ampio mercato cinese, quanto a consu-matori dei servizi informatici, aveva motivato le scelte di internazionaliz-zazione in Cina del colosso americano Yahoo. Le continue chiusure del Governo cinese hanno, però, nel tempo, una progressiva ritirata di Ya-hoo dal Paese: la sede di Pechino era rimasta l'unica presenza in Cina do-po la vendita, nel 2005, delle attività locali di Yahoo alla grande impresa cinese dell'e-commerce Alibaba che, precedentemente, gestiva le opera-

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zioni di Yahoo in Cina. A seguito della cessione ad Alibaba, l’ufficio di Pechino, che originariamente si occupava dei servizi di Yahoo in Cina, era stato riconvertito in un Centro di ricerca. Anche le imprese italiane stanno perseguendo strategie di ricentraggio, scegliendo il back-reshoring come modalità di implementazione delle strate-gie. Aku è un produttore veneto di calzature da trekking e outdoor che, dopo aver portato gran parte della produzione in Romania, nel 2010 ha deciso di riaprire lo stabilimento di Montebelluna (Treviso) per realizzare i mo-delli di qualità più alta. Il caso dell’azienda trevigiana è significativo anche perché le imprese del settore dell’abbigliamento sportivo italiano, solleci-tate al rientro dall’associazione di categoria, si sono dimostrate partico-larmente sensibili al back-reshoring. Masters è un’altra azienda attiva nel ramo dell’abbigliamento sportivo, tra le maggiori al mondo per la produzione di bacchette da sci, trekking e nordic walking. Masters ha deciso di lasciare la Cina e focalizzarsi sul mercato core italiano. La società, tra ha ritrasferito nel 2013 a Bassano del Grappa (Vicenza) la realizzazione dei tubi in alluminio che prima era stata spostata in Cina. Nannini è un importante produttore toscano di borse in pelle. La griffe fiorentina, da tre anni a questa parte, ha messo in atto un processo di rilo-calizzazione della produzione affidata a terzisti dell’Europa dell’Est. E a partire dalla stagione in corso, la primavera-estate 2014, la collezione sarà interamente prodotta in Italia. I principali motivi del rimpatrio, in questo caso, sono l’eccellenza delle lavorazioni artigianali, che in Italia sono par-ticolarmente pregiate, e la necessità di controllare da vicino la qualità dei prodotti. Piquadro, azienda toscana produttrice di borse e valigie, ha preferito l’Italia alla Cina riportando in patria la fascia più alta delle lavorazioni, in quanto i costi del lavoro per le lavorazioni di elevata qualità sono saliti in tre anni di quasi la metà e tendono continuamente ad aumentare.

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Scelte d’impresa e mercati internazionali 36

1.4. Il significato del concetto di globalizzazione in una pro-spettiva macroeconomica e il movimento no-global

In un’ottica tradizionale, le strategie d’internazionalizzazione erano fo-calizzate solo sulla produzione e sull’output aziendale e con il termine “in-ternazionalizzazione” si comprendevano tutti i processi di sviluppo nei di-versi mercati, interpretati come un’estensione in termini geografici dei con-fini delle attività d’impresa.

Dall’inizio degli anni ’80, le strategie di sviluppo internazionale sono state enfatizzate come strategie di globalizzazione, nell’ipotesi di un allar-gamento sempre più esteso dei confini in cui operano le imprese, in un mondo libero da frontiere.

La crescita degli scambi di beni, servizi, capitali e know-how, che ha ca-ratterizzato l’economia mondiale degli ultimi 50 anni, è riconducibile ad una crescente interconnessione dei mercati, resa possibile dalla diffusione delle tecnologie e dall’abbattimento delle frontiere comunicative e com-merciali tra paesi (globalizzazione dei mercati). Ciò ha indotto alcuni stu-diosi a definire la globalizzazione come un processo di convergenza degli aspetti politici, economici e culturali della vita, in grado di condurre ad un’omogeneizzazione dei gusti e dei bisogni dei consumatori (Levitt, 1983; Giddens, 1999), ipotesi questa che non sembra, tuttavia, aver trovato pieno supporto negli studi empirici condotti dalla seconda metà degli anni ’80.

In un’ottica macro-economica, la globalizzazione dell’economia si e-sprime nell’integrazione materiale ed immateriale di aree geografiche sem-pre più vaste e non necessariamente vicine.

Tra le determinanti del fenomeno è possibile annoverare, in particolare: la progressiva creazione di aree di libero scambio, volte ad agevolare gli scambi commerciali tra paesi e la circolazione di persone e capitali; l’affermazione delle nuove tecnologie e delle loro applicazioni20, con parti-

20 I cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie, infatti, sono alla base della maggiore

facilità con la quale gli individui si spostano, comunicano ed interagiscono; a loro sono imputabili, inoltre, sia la riduzione del ciclo di vita dei prodotti, sia la riorganizzazione su

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colare riferimento al settore dei trasporti e a quello delle comunicazioni. Con l’avvento della globalizzazione, il processo di integrazione econo-

mica non ha interessato più soltanto le economie sviluppate, ma ha coin-volto paesi emergenti e paesi meno sviluppati, favorendo gli scambi di beni e servizi tra gli stessi e tra essi e i paesi industrializzati. Gli effetti della glo-balizzazione possono riscontrarsi in: un livellamento su scala internaziona-le dei prezzi dei manufatti, come conseguenza di una competizione più ag-guerrita e senza confini; uno sviluppo delle attività finanziarie a livello glo-bale; un peso più affievolito dei sindacati e del ruolo dello Stato nell’economia.

Accanto ai paesi industrializzati si sono affernati, in ambito internazio-nale, nuove aree emergenti: Cina e India, ma anche Malesia, Tailandia, Vietnam e l’Indonesia, i paesi dell’Europa orientale e, successivamente, il Messico e il Brasile, che si collocano, attualmente, tra i principali esportato-ri di manufatti a livello mondiale, abbandonando il tradizionale ed esclusi-vo ruolo di bacini di materie prime.

Tra gli effetti negativi della globalizzazione, si evidenziano, invece: l’aumento dei divari tra aree, accompagnato dal ritardato sviluppo (o nel declino) di molti paesi, la diffusione di un modello di consumo che accele-ra il degrado ambientale su scala globale; la maggiore instabilità finanziaria dell’economia

Con riferimento al primo punto, alcune ricerche hanno evidenziato una crescita del divario tra i paesi globalizzati e i paesi esclusi dalla globalizza-zione e/o colpiti da conflitti militari o etnici interni; è aumentata la disu-guaglianza entro i paesi sviluppati e anche entro quelli emergenti.

E’ innegabile che il processo di liberalizzazione degli scambi si sia svi-luppato in maniera non uniforme su scala mondiale, perseguendo una logi-ca di abbattimento delle barriere tra paesi sviluppati e di protezionismo nei confronti delle aree economicamente più arretrate, finalizzata a proteggere alcuni settori dalla potenziale concorrenza proveniente dalle stesse21.

La disparità nei livelli di sviluppo mondiale è imputabile, non soltanto alle differenze nelle traiettorie seguite dagli investimenti internazionali (che privilegiano le aree caratterizzate da maggiori dotazioni fattoriali ed op-portunità), ma anche alla carenza, in alcuni paesi, di investimenti interni, volti a sostenerne lo sviluppo duraturo e sostenibile.

scala mondiale delle attività della catena del valore.

21 Un esempio al riguardo, è fornito dal protezionismo agricolo, che si colloca tra i

maggiori ostacoli alla crescita di molti paesi poveri.

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Scelte d’impresa e mercati internazionali 38

Quanto al problema dell’inquinamento ambientale, indotto dalla crescita economica connessa alla globalizzazione, va notato che esso riguarda non solo i paesi avanzati, ma anche i paesi “poveri” e, nonostante si siano sti-pulati accordi internazionali per ridurre complessivamente l’inquinamento atmosferico e per distribuire i “diritti di inquinamento” a livello globale, le azioni poste in essere appaiono ancora scarsamente efficaci, vincolanti o accompagnate da sanzioni realmente comminabili.

In riferimento, infine, all’instabilità finanziaria e reale dell’economia, il processo di liberalizzazione dei movimenti dei capitali di breve termine, l’importanza che assumono i flussi di investimenti di portafoglio, l’ampliamento dei mercati finanziari e la nascita di nuovi strumenti sono al-la base dei maggiori movimenti dei flussi di capitale e causa, al contempo, di crisi finanziarie di ampia portata.

L’integrazione mondiale della finanza ha accentuato, infatti, il processo di “finanziarizzazione dell’economia” che ha portato alla propagazione, al contagio e all’interdipendenza delle crisi finanziarie, sempre più frequenti nell’ultimo trentennio. La speculazione internazionale può fare affluire in breve tempo ingenti capitali a breve termine in un paese, con conseguenti incrementi dei valori dei tassi di cambio e dei titoli quotati; di converso e con la stessa velocità, può fare defluire i capitali e crollare le quotazioni dei tassi di cambio e dei titoli, ingenerando una crisi del sistema bancario in-terno e della capacità del governo di servire il debito estero, con conse-guente aumento dell’inflazione e contrazione del reddito reale22.

Va infine notato che la globalizzazione delle imprese e dei mercati è di-ventata sempre più oggetto di studio e di teorizzazione in diverse discipline economico-aziendali, tanto da suscitare un vivace dibattito su definizioni e contenuti; un dibattito che, per Varaldo (1987), è sfociato in una sorta di “sindrome della globalizzazione”, caratterizzata da molti elementi di con-fusione terminologica e concettuale.

Contro la logica della globalizzazione si è anche contrapposto un mo-vimento di rivolta denominato “no-global”, nato alla fine degli anni ’90, in occasione della Conferenza Ministeriale della WTO (l'Organizzazione Mondiale del Commercio) a Seattle, negli Stati Uniti.

Il movimento, che accomuna un insieme internazionale di gruppi, orga-nizzazioni non governative, associazioni e singoli individui, politicamente

22 Le crisi più gravi del periodo sono state quella del 1997-98, che ha avuto origine

nel Sud-est asiatico e si è allargata a Russia e Turchia, e la crisi dei mutui sub-prime, che ha avuto origine nell’estate 2007, negli Stati Uniti, e che si è rapidamente propaga-ta a livello mondiale.

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eterogenei, è nato per fronteggiare criticamente l'attuale sistema economi-co neoliberista, anche se nella realtà confluiscono in esso diverse frange di protesta: contro il consumismo, l’inquinamento, la privatizzazione, lo sfruttamento minorile, il mercato, le Corporations e il W.T.O.23. Per il mo-vimento, la globalizzazione può avere effetti distorsivi sulle capacità di svi-luppo equilibrato di determinate aree: quelle caratterizzate da una maggiore disponibilità di risorse e capacità di sviluppo beneficerebbero di un’ulteriore spinta in avanti, mentre le aree più arretrate vedrebbero ridursi la possibilità di colmare il divario che le separa dai contesti più avanzati.

Gli strumenti di lotta politica del movimento consistono principalmente nel boicottaggio, nelle manifestazioni, nella controinformazione e nell’adeguamento di uno stile di vita eco- sostenibile; alcune multinazionali sono divenute “emblemi” di un capitalismo che omogeneizza gusti, biso-gni, culture, modelli imprenditoriali, che abbatte le specificità locali e co-struisce la prosperità di pochi ai danni di molti24 .

In contrapposizione alle logiche sottese ai movimenti “no global”, l’approccio relazionale di matrice aziendale interpreta l’evoluzione interna-zionale dell’impresa, allorquando sono assenti opportunismi spinti, come lo sviluppo quali-quantitativo delle relazioni che la stessa pone in essere a livello globale, sviluppo al quale si riconducono opportunità di crescita, non soltanto per le organizzazioni economiche direttamente coinvolte nel processo, ma anche per il sistema locale complessivamente inteso. Si fa ri-ferimento alla possibilità che le imprese hanno di acquisire conoscenze, non disponibili altrove, e di trasferire, al contempo, risorse e competenze al contesto nel quale risultato inserite, ispirandosi ad una logica di “social contract” (Calvelli, 1998), in grado di innescare meccanismi autoctoni di cre-scita del sapere.

23 Da un gruppo originario, maggiormente sovversivo, si è recentemente distaccata

una cellula più moderata, quella dei cosiddetti “new-global”, contraddistinta da un ap-proccio più moderato, rivolto alla ricerca di alternative valide per la soluzione dei pro-blemi.

24 E’ quanto accaduto, ad esempio, alla McDonnald’s, alla Nike ed alla Shell, che

hanno trovato una pungente critica nel lavoro della giornalista Naomi Klein, il cui li-bro No logo è divenuto il manifesto del movimento anti-globalizzazione.

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1.5. La globalizzazione in una prospettiva di analisi micro-economica

Mentre a livello macro-economico, la globalizzazione è intesa come in-terconnessione tra mercati ed interpretata come un processo di convergen-za economica, politica e culturale tra paesi, a livello micro-economico, gli Autori hanno focalizzato la propria attenzione sullo studio delle strategia globali. Pertanto, in questa sede, si vuole porre in discussione il problema se la globalizzazione sia un nuovo paradigma delle strategie di internazio-nalizzazione oppure un nuovo modo attraverso il quale le imprese orga-nizzano strutture e risorse per il conseguimento di più vantaggiosi posizio-namenti competitivi nei mercati internazionali, vale a dire, un nuovo modo di definire le politiche di attuazione delle strategie internazionali.

Le strategie delle imprese che competono in un’ottica globale hanno da-to vita a numerosi filoni di studio che hanno ricevuto e ricevono una cre-scente attenzione da parte degli studiosi delle discipline economiche ed a-ziendali. Nonostante l’ampia gamma di lavori teorici ed empirici svolti su questo tema, non è semplice far riferimento a paradigmi che riescano a da-re interpretazioni univoche e non ambigue.

Il concetto di strategia globale consolidato nella letteratura (Porter, 1990, Bartlett e Ghoshal, 1989, 1998), denominata “pura” da Rugman e Hodgetts (2001), presenta sia un’elevata integrazione economica tra le atti-vità che le grandi imprese internazionali svolgono nei diversi contesti, sia un basso livello d’interazione delle imprese con le specificità ambientali lo-cali.

Da questo modello concettuale emerge che le strategie di sviluppo in-ternazionale delle imprese assumono il connotato globale allorquando le “modalità di implementazione” vengono finalizzate al perseguimento di due obiettivi:

- l’omogeneizzazione delle attività della catena del valore dislocate nei diversi contesti, che presuppone la trasferibilità internazionale di compor-tamenti e pratiche manageriali e l’esistenza di un’omogeneità degli stili di vita e dei modelli di consumo;

-il coordinamento centralizzato delle attività poste lungo i nodi della fi-liera internazionale, che presuppone la ricerca di una specificazione spazia-le delle attività, volta a cogliere vantaggi comparati location-specific.

L’obiettivo dell’omogeneizzazione, che vede la strategia globale mag-giormente focalizzata su processi, prodotti, modelli di comportamento e pratiche manageriali da standardizzare, ipotizza, però, l’esistenza di un mondo astratto e, per un certo verso utopistico, in quanto privo di quelle

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barriere normative, culturali e socio-economiche che, nella realtà, creano disomogeneità e livelli diversi di accettazione delle diversità. Minori posso-no essere i livelli di accettazione, da parte delle comunità locali, di modelli di comportamento, credi e valori significativamente diversi; può nascere, in ambito locale, una sorta di avversione ad accettare prodotti la cui identità richiama, nella percezione dei consumatori, usi e costumi di paesi psicolo-gicamente distanti.

Questi temi sono stati oggetto di dibattito nella letteratura economica ed aziendale e, già dai primi anni ‘90, l’interpretazione di alcuni studiosi (Vaccà in primis) dei processi di globalizzazione dei mercati e della concor-renza ipotizzava: che lo sviluppo transnazionale di un’impresa potesse con-figurarsi solo in funzione dei sistemi locali di riferimento; che la globalità dovesse intendersi come il “trionfo della diversità” in un quadro di interdi-pendenza economica, piuttosto che come omogeneità indifferenziata di organizzazioni sociali e di comportamenti nella produzione e nel consumo.

Nonostante le conclusioni cui erano pervenute alcune pionieristiche ve-rifiche empiriche (Laurent, 1983; Cox e Cooper, 1985; Adler e Jelinek, 1986), che confermavano il successo della trasferibilità internazionale di prodotti, comportamenti e pratiche manageriali solo in presenza di compa-tibilità culturale delle nazioni e delle imprese, il mito della strategia globale “pura” ha pervaso buona parte della letteratura economico-aziendale degli anni ’90 ed ha rappresentato l’obiettivo strategico da perseguire per nume-rose grandi imprese.

Negli anni più recenti, i risultati delle ricerche empiriche sul tema (tra gli altri, Aaker e Joachimsthaler, 1999; Rugman e Hodgetts, 2001) evidenziano che le imprese di successo, capaci di mantenere o migliorare la propria po-sizione competitiva, hanno saputo rivisitare le proprie politiche aziendali, passando dalle modalità di implementazione tipiche della strategia globale “pura” ad una “visione olistica”, volta alla creazione di sinergie entro gli specifici contesti in cui le imprese operano25.

Secondo questa visione, appare evidente che, per la ricerca delle intera-

25

Gli Autori hanno analizzato le strategie di internazionalizzazione perseguite nel

tempo da 10 multinazionali Europee e statunitensi. Nel caso della giapponese Matsushita, nel passare dall’internazionalizzazione mercantile a quella produttiva, i manager centrali hanno spinto i manager delle consociate inglesi ad adattarsi alle specificità locali, anche nelle scelte che creano situazioni conflittuali con credi e valori della casa madre. La com-pagnia P&O opera, nell’area strategica di affari del trasporto containerizzato, con una strategia globale, mentre, per le aree strategiche del trasporto crocieristico, ha segmentato il mercato mondiale nel segmento europeo e in quello nord-americano, adottando strate-gie locali nei due segmenti (Rugman e Hodgetts, 2002).

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zioni locali, occorre che gli organi decisori sappiano analizzare le specificità dei contesti e creare idonei meccanismi di assimilazione delle diversità che, nel rispetto della normativa e dei comportamenti locali, siano capaci di raf-forzare il radicamento delle unità periferiche nei loro specifici ambienti (Paese, gruppo omogeneo di Paesi o di aree territoriali). Ciò perché molti fattori ambientali, che nel mercato domestico sono considerati costanti, possono diventare variabili e la non conoscenza può porre le imprese di fronte a differenze culturali, sociali ed economiche così distanti, che le po-litiche decisionali attuate nei confini abituali possono diventare non appli-cabili; possono significativamente modificarsi anche le stesse modalità di acquisizione delle risorse, materiali ed immateriali26.

Nasce, pertanto, un nuovo modo di competere dell’impresa internazio-nale che vuole operare in un’ottica di globalizzazione, sempre meno di-pendente dai processi di interazione posti in essere con il contesto am-bientale del paese di origine e maggiormente proiettata a cogliere forme di omogeneizzazione e di simbiosi con logiche e comportamenti propri dei contesti in cui essa cerca di acquisire vantaggi competitivi.

Al limite, per alcuni studiosi, la minore dipendenza dal paese di origine trasforma l’impresa che persegue strategie globali in una Corporation senza Stato e senza legami sia con la nazione domestica, sia con le comunità loca-li, un’entità astratta caratterizzata da un management con una propria spe-cifica cultura; fatta eccezione per alcuni grandi gruppi industriali ad elevata intensità di informazione e per alcuni grandi gruppi finanziari e di servizi, nella maggior parte dei casi, gli studiosi concordano sui rischi che una simi-le entità può correre, come il rischio di perdere credibilità sia all’interno del mercato domestico sia all’interno dei paesi ospiti27.

26

Persino la Coca Cola, che offre un prodotto che nell’immaginario collettivo è con-

siderato universale, ha dovuto rivedere le proprie strategie, che fino a qualche anno fa e-rano da considerarsi “globali”; attualmente i principi che guidano la casa madre sono: “think local and act local”, principio che la compagnia ha attuato incrementando il potere decisionale dei manager periferici; marketing multipoint, volto ad affermare i marchi Coca Cola su basi regionali e locali (e le numerose attività non profit, differenziate per singoli contesti, non fanno che rafforzare la maggiore tensione della compagnia a farsi accettare come operatore interno dalle comunità locali). Così Gillette che, in seguito alla ristruttura-zione organizzativa attuata nel 1988, ha segmentato il mercato globale in aree omogenee e creato divisioni con potere decisionale in ciascun segmento, riuscendo così ad integrarsi in ogni macroarea nella quale opera (Moss Kanter, Dretler, 1998).

27 Va notato che l’alleanza tra Lufthansa e United Airline non ha fatto perdere le iden-tità nazionali alle due compagnie né ha mutato significativamente la strategia perseguita dalla Lufthansa nel mercato nazionale. Di converso, l’esame di situazioni reali ha eviden-ziato anche che, attraverso una attenta attività di marketing, alcune imprese sono riuscite a

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Per quanto riguarda il perseguimento del secondo obiettivo della strate-gia globale “pura”, ovvero il coordinamento centralizzato lungo i nodi del-la filiera, nascono problemi di attuazione legati alla scelta della più raziona-le dislocazione spaziale delle attività della catena del valore, per la ricerca delle risorse da coordinare e trasferire attraverso il network multinazionale, soprattutto se il vantaggio comparato location-specific si basa sullo sfrutta-mento di dotazioni fattoriali a minor costo.

Le economie di costo, che dovrebbero essere alla base del vantaggio di localizzazione, possono, di fatto, svanire se una disamina poco attenta delle specificità ambientali locali porta, a posteriori, a difficoltà relazionali con gli attori locali, a costosi monitoraggi delle produzioni per il mantenimento degli standard qualitativi e a più difficili e onerose attività di coordinamen-to tra le attività lungo i nodi della filiera, dal reperimento delle materie pri-me al trasferimento dell’output presso i centri di distribuzione; non ultimo, esiste anche il pericolo di creare competitor locali, soprattutto se le tecno-logie produttive sono facilmente appropriabili.

Nell’ottica delineata e nell’attuale economia dei mercati, una strategia globale non può che allontanarsi dalla visione cosiddetta “pura”, per foca-lizzarsi, invece, sulla ricerca del giusto trade-off tra integrazione economica delle attività svolte nei diversi contesti, in termini di omogeneizzazione o-rizzontale e coordinamento verticale delle attività disperse, e adattamento alle specificità locali.

La ricerca del giusto trade off è resa, oggi, più facilmente ottimizzabile anche grazie alla specifica natura delle nuove tecnologie basate sulla scien-za dell’informazione che, permettendo più consistenti flussi comunicazio-nali e più elevati livelli di flessibilità dei processi produttivi, organizzativi e gestionali delle imprese, permettono anche un adattamento alla varietà ed alla variabilità degli specifici contesti con minor dispendio di energie e di risorse.

Sul tema dell’integrazione/adattamento, le ricerche presenti nella lette-ratura economico-azienda hanno evidenziato alcuni problemi che presen-tano delle peculiarità per i manager delle grandi imprese, allorquando le scelte strategiche di sviluppo internazionale si focalizzano prevalentemen-te: sull’acquisizione e sviluppo delle risorse materiali, umane e di cono-scenza, vale a dire sulla valorizzazione delle specificità socio-culturali dei contesti con i quali l’impresa interagisce; sull’output, allargato ai processi,

diffondere in campo internazionale prodotti che si affermano proprio sfruttando l’immagine del paese di origine percepita dai mass media locali: esempi sono il noto Mar-lboro man oppure la catena americana French hockey-style cafes.

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prodotti, modelli di comportamento e pratiche manageriali, capace di ga-rantire all’impresa economie di scala e di scope.

1.5.1. I problemi presenti in una sconnessione sistemica

Nell’affrontare il processo di decentramento geografico delle attività

della catena del valore, ogni impresa viene necessariamente a contatto con ambienti diversi, ognuno dei quali può richiedere modalità differenti di in-terazione; modalità che assumono caratteristiche e intensità diverse a se-conda della natura delle relazioni che l’impresa instaura con gli attori ai quali le attività sono state decentrate.

In un’ottica sistemica, analizzando l’impresa nell’insieme delle relazioni che essa pone in essere con gli attori del suo ambiente allargato, le scelte di decentramento possono dare vita sia al mantenimento di relazioni di pro-prietà (decentramento di attività a proprie consociate all’estero), sia alla creazione di relazioni transazionali e collaborative, allorquando il decen-tramento coinvolge attori indipendenti.

Nelle reti intra-organizzative nascono, innanzitutto, problemi di decen-tramento di potere decisionale ai manager periferici, necessariamente più elevato con l’ampliarsi della sfera delle relazioni che l’unità decentrata può porre in essere con gli attori del suo ambiente, a causa sia delle più ampie dimensioni del paese ospite, sia delle maggiori possibilità che i manager pe-riferici hanno di cogliere le opportunità locali.

Entra in gioco un’autonoma maturazione ed un consapevole convinci-mento da parte dei manager centrali sulla necessità di delegare autorità ai manager periferici, di accantonare rigidi sistemi di controllo e di creare ido-nei meccanismi di coordinamento; questi ultimi sono necessari affinché le conoscenze context specific possano tradursi in un linguaggio condiviso da tutte le unità della rete e dal centro, per quanto distante esso possa essere.

Si realizza, in tal modo, la configurazione tipica del sistema debolmente connesso (Orton e Weick, 1990): la connessione fra gli elementi è data dal fat-to che questi elementi siano legati fra loro e, allo stesso tempo, conservino una certa dose di determinatezza. Tale connessione, poi, è debole se gli ele-menti sono soggetti a cambiamenti spontanei e conservano, inoltre, un cer-to grado di indipendenza e di indeterminatezza. Si tratta quindi di un si-stema che è contemporaneamente chiuso e aperto, indeterminato e razio-nale, spontaneo e deliberato.

Quanto detto fa riferimento ad un’interpretazione dialettica dei sistemi,

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secondo la quale, sempre per gli Autori, si configurano le seguenti catego-rie sistemiche: – i sistemi debolmente connessi sono quelli in cui coesistono sia la reattività che la distinguibilità delle singole parti; – i sistemi strettamente connessi si caratterizzano per una mancanza di distin-guibilità; – i sistemi non connessi, nei quali non esistono reattività e distinguibilità; – sistemi sconnessi, nei quali si è in presenza di distinguibilità, ma non di re-attività.

Fig. 1.3 – Configurazioni sistemiche

Sistemi Distinguibilità Reattività

Strettamente Connesso Assenza Presenza

Debolmente Connesso Presenza Presenza

Sconnesso Presenza Assenza

Non Connesso Assenza Assenza

Fonte: adattato da Orton e Weick (1990).

Muovendo dalle argomentazioni di Orton e Weick, per esaminare le si-tuazioni sistemiche in un’ottica di configurazioni potenzialmente assumibili delle imprese, la distinguibilità e le reattività sono state interpretate con una chiave di lettura più aziendale (Fig. 1.3): - la distinguibilità delle componenti sistemiche può essere assimilata all’esistenza, nelle singole unità del sistema, di un elevato livello di auto-nomia decisionale, - mentre la reattività, vista come livello d’interdipendenza delle relazioni che legano le componenti, presuppone una visione dell’agire delle singole unità finalizzata al raggiungimento di un obiettivo strategico comune.

I positivi effetti di una debole connessione fra le parti di un’impresa interna-zionalizzata si ripercuotono sul piano dell’efficacia del sistema: più inerte e resistente al cambiamento consapevole, pianificato e integrato, ma più a-dattivo e creativo localmente; più stressante ma più motivante per gli indi-vidui; variabile in contesti frammentati e consapevolmente indeterminati,

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dove i sistemi connessi si troverebbero paralizzati 28. È in quest’ottica che s’inquadrano le attuali reti internazionali di impre-

se che vogliono raggiungere soddisfacenti livelli di efficacia e efficienza: mischiano diversi principi organizzativi, responsabilità locali e coordi-namento, controllo gerarchico ed incentivi di mercato, specializzazione tecnica e orientamento ai risultati. L’aumento stesso delle relazioni che le unità locali di un’impresa internazionale attuano con gli operatori del loro contesto indebolisce i legami di connessione esistenti tra le parti del si-stema organizzativo che, non potendosi più caratterizzare come un insieme di parti indistinguibili, e, quindi, non autonome, che agiscono reattiva-mente con un’elevata dose di determinismo (sistema strettamente connesso), tende a configurazioni alternative sempre più caratterizzate da un grado maggiore di indipendenza e da maggiori livelli di indeterminatezza (sistemi debolmente connessi).

È chiaro che, affinché il sistema organizzativo non diventi completa-mente sconnesso, è necessario cercare, proprio attraverso meccanismi di co-ordinamento, di frenare la spinta eccessiva all’indipendenza delle unità de-centrate e di creare una maggiore interazione tra le parti. È, questo, il caso, ad esempio, delle multinazionali che operano in un’ottica multidomestica (Porter, 1987) e che gestiscono le unità all’estero con una logica di portafo-glio di attività finanziarie; è anche il caso, in un’ottica nazionale, di uno Sta-to-impresa che opera attraverso enti locali ai quali lascia ampia autonomia.

In assenza di un’efficace azione di coordinamento, un sistema organiz-zativo potrebbe assumere la configurazione di un insieme di mine vaganti che, alla lunga, non può non compromettere la sopravvivenza stessa dell’intera compagine aziendale.

Di converso, la presenza di relazioni deboli tra le unità di un sistema non rappresenta di per se stessa un freno alla diffusione delle idee innovative in azienda; al contrario, le relazioni deboli, che lasciano più spazio alla creati-vità e alla capacità di pensiero dei singoli, possono rappresentare una sorta di “canale” attraverso il quale le innovazioni e le nuove idee possono dif-fondersi tra i membri di un’organizzazione o tra gruppi di membri; è, inve-ce, auspicabile che tra gli appartenenti a ogni singolo gruppo esistano dei legami forti, in modo che possano diventare, essi stessi, portatori in azienda

28

Orton e Weick, inoltre, hanno sottolineato che i sistemi debolmente connessi – fra i quali possono essere classificati scuole, ospedali, università, organizzazioni di polizia e si-stemi giudiziari – non sono burocrazie fallite ma forme organizzative diverse che, pur non caratterizzandosi per coerenza, consentono di raggiungere il maggior grado di efficienza possibile in un ambiente instabile e complesso.

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di decisioni innovative. Se quanto detto ha evidenziato le difficoltà insite nei processi di co-

ordinamento delle attività delle organizzazioni multinazionali, dove la pre-senza della Corporate dovrebbe, almeno teoricamente, garantire, attraverso la sua leadership, una maggiore stabilità del sistema, la situazione diventa an-cora più critica in presenza di un sistema di alleanze reticolari internaziona-li, creato per sfruttare le competenze distintive dei diversi partner, attraverso sinergie e utilizzo di complementarità.

Dalle specifiche culture dei contesti ambientali in cui operano i partner discende già un primo ostacolo al cambiamento a causa della ricerca di un’omogeneizzazione dei comportamenti manageriali, necessaria per il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo e di vantaggi competitivi siner-gici. Per il successo delle reti di alleanze strategiche tra imprese, in cui ogni partner opera secondo logiche e comportamenti autonomi e in cui tutti devono tendere ad una meta comune, è necessario che i rapporti inter-personali siano stretti e improntati sulla fiducia. In altri termini, le diverse unità imprenditoriali componenti la rete di alleanze devono interagire con una logica di team.

Le alleanze che non vedono uno sviluppo parallelo, all’interno della re-te, delle omogeneizzazioni culturali e che si configurano, quindi, come si-stemi strettamente sconnessi, portano al commensalismo o al parassitismo o all’impossibilità del raggiungimento dei fini stessi dell’alleanza.

L’attività di coordinamento del management è, pertanto, un presupposto necessario per evitare la totale sconnessione del sistema intra-organizzativo e cioè la mancanza di reattività delle componenti a fronte di mutamenti dell’ambiente interno ed esterno. La presenza, invece, di maggiori e più strette relazioni, tra manager centrali e periferici, comporta vantaggi cogniti-vi, più o meno elevati, che, in funzione delle risorse operative e manageriali dei soggetti interessati, possono tradursi nella realizzazione di processi di apprendimento relazionale.

L’interazione, attraverso la creazione di un dialogo costruttivo tra gli at-tori con diverse culture e comportamenti, può consentire agli organi cen-trali di valutare meglio l’esatta dinamica delle situazioni locali e di migliora-re le procedure regolanti la dinamica dei processi di accumulazione delle conoscenze.

Attraverso il coordinamento si creano, inoltre, le premesse per lo svi-luppo di un apprendimento da imitazione, allorquando la trasmissione del-le informazioni e conoscenze tra le consociate, resa possibile dal coordi-namento esercitato dai manager centrali, crea emulazione e adattamento; per l’intera struttura relazionale si realizza, così, un processo di apprendimento

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a spirale, il cui elemento centrale è la creazione di nuova conoscenza. Pertanto, la scelta della localizzazione delle consociate e dei manager da

destinare ad esse, il livello di delega di autorità e l’individuazione dei mec-canismi del coordinamento diventano leve strategiche che la grande impre-sa geograficamente dispersa può e deve utilizzare per l’acquisizione di van-taggi competitivi; l’individuazione dei livelli di delega e dei meccanismi di coordinamento da utilizzare richiede a priori la conoscenza delle specificità degli ambienti in cui sono localizzate le attività d’impresa.

Eppure, le verifiche empiriche hanno evidenziato che, allorquando si at-tuano processi di decentramento in ambiti non familiari, nelle analisi dei costi e dei benefici connessi ad una determinata scelta si valutano innanzi-tutto, e spesso soltanto, informazioni relative alla situazione economica e normativa dell’area di localizzazione. Raramente, si considera che il conte-sto ambientale in cui l’impresa va ad operare risulta dall’interazione di mol-teplici e complesse variabili, tra le quali la cultura delle organizzazioni ed i valori radicati possono svolgere un ruolo determinante nell’accelerare o nel contrastare l’operato delle consociate.

Al riguardo, proprio il fallimento delle prime operazioni di ingresso nei Paesi dell’Est europeo ha portato alcune multinazionali29 a ricercare le pos-sibili modalità di attuazione delle strategie, capaci di creare una più stretta interazione con le specificità ambientali locali. In questa ricerca, è emerso il ruolo svolto dall’Austria che, per affinità storico-culturali, funge da nodo coordinatore delle politiche di ingresso nei PECO: le multinazionali co-ordinano le attività dislocate nei Paesi dell’Est attraverso le loro consociate austriache.

I problemi di coordinamento diventano ancora più complessi allor-quando le scelte di decentramento portano alla creazione di relazioni tran-sazionali con imprese indipendenti (esternalizzazione delle attività a terzisti internazionali). Le grandi imprese esternalizzano attività non confinate a quelle più tradizionali del settore terziario (trasporti, distribuzione) oppure relative a fasi di lavorazione, generalmente a tecnologia matura, ma che si estendono a business process completi, all’intera supply chain, e, nelle imprese ad elevata tecnologia, anche alla ricerca e sviluppo30.

29

Tra le quali, si citano Siemens e Volvo. 30

Nel settore dell’abbigliamento, le grandi firme italiane hanno delocalizzato, in Tur-

chia, nei Paesi dell’Est europeo, nel Maghreb o in Cina, le fasi di lavoro a minore valore aggiunto. Nel settore delle automobili, sono numerosi i casi di “ibridi” rappresentativi del fenomeno, che coinvolgono, lungo la filiera “approvvigionamento, produzione, commer-cializzazione e distribuzione”, contemporaneamente, paesi come i NIC, la Germania e gli

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Con le crescenti difficoltà finanziarie e valutarie in cui si trovano molti paesi – non soltanto delle aree sottosviluppate o di recente industrializ-zazione – e con lo sviluppo di conflitti politici ed etnici, crescono gli osta-coli al mantenimento efficiente delle trattative tra le imprese, rese ancora più difficili dall’esistenza di possibili asimmetrie culturali e comportamen-tali tra i paesi di origine e di destinazione.

In primo luogo, affinchè l’esternalizzazione delle attività d’impresa si sviluppi con successo, è necessario che esistano produttori in grado di ga-rantire il mantenimento nel tempo degli standard qualitativi richiesti dal committente a costi marginali non crescenti. Solo così, in una visione di-namica, potranno essere rispettati i parametri di efficienza che hanno gui-dato la scelta di esternalizzare e, al tempo stesso, potranno essere limitati i rischi di underperformance che possono compromettere i risultati aziendali.

Ad esempio, il principale problema che le imprese occidentali incontra-no, nel momento in cui decidono di delocalizzare la loro produzione in al-cuni “Paesi difficili”31, è legato agli approvvigionamenti di materie prime e di componenti: elevati ritardi nella consegna e scarsa qualità dei semilavo-rati creano una minore competitività dei prodotti finiti nei mercati occiden-tali. Alle difficoltà di approvvigionamento, si aggiungono anche le carenze presenti nelle infrastrutture tecnologiche e nelle tecnologie utilizzate.

In aggiunta, si evidenziano: una scarsa preparazione professionale, tipi-ca dei paesi non industrializzati, che richiede il monitoraggio anche per l’espletamento delle attività meno complesse; una dimensione ridotta o quasi inesistente del mercato della domanda, unita anche, in alcuni settori, ad una forte concorrenza in campo locale da parte di competitor internazio-nali.

Al riguardo, le ricerche empiriche hanno evidenziato il difficile control-lo dei produttori/dirigenti cinesi, semplici impiegati del governo, mal paga-ti e privi di incentivi e motivazioni: nella vita lavorativa, è prassi diffusa tra gli operatori locali tentare di eludere le direttive impartite, di non rispettare le specifiche delle commesse se queste richiedono un maggior dispendio di energie e di tempo.

USA.

31 I motivi che portano a definire un Paese come “difficile” riguardano le difficoltà,

valutarie, normative, economiche e socio-culturali, che le imprese devono affrontare per porre in essere delle relazioni d’affari: creazione di ingegnosi intrecci di relazioni, transa-zionali e collaborative, che spesso coinvolgono più attori e più Paesi. Possono considerar-si paesi “difficili”, nel senso indicato, i paesi: dell’Est Europeo e Asiatico, dell’America La-tina, dell’area degli Stati non appartenenti all’Unione Europea che si affacciano sul Medi-terraneo, i cosiddetti Paesi Terzi Mediterranei.

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Nel decentramento delle attività nelle aree difficili, l’aumento dei costi, dovuto alle esigenze di monitoraggio ed alle carenze infrastrutturali, può, di fatto, contrastare l’ottenimento delle economie che era alla base delle scelte di decentramento. Un’analisi a priori della cultura dominante nei diversi contesti può contribuire a rendere più soddisfacente la scelta dell’area di localizzazione e può, inoltre, aiutare a trovare le soluzioni più idonee per il superamento dei conflitti che possono generarsi nei rapporti interorganiz-zativi.

Quanto al decentramento di attività a partner di accordi di collaborazio-ne, la portata delle differenze culturali può emergere pienamente durante l’implementazione delle alleanze internazionali, allorquando l’incrocio tra culture diverse può creare una sorta di shock culturale, tanto più elevato quanto più distanti sono le culture degli attori, spesso accompagnato da ef-fetti negativi sul coinvolgimento organizzativo, sul clima di lavoro dei par-tner e sulle rispettive performance. Una iniziale convergenza di interessi non è di per sé sufficiente a garantire il successo dell’accordo, poiché la variabile chiave nella formazione e nel mantenimento di una joint venture risiede es-senzialmente nella ricerca di un equilibrio tra le incompatibilità culturali delle imprese poste a confronto.

Il tempo di assimilazione delle diversità e gli ostacoli da superare, per una fattiva collaborazione tra imprese di contesti diversi, sono tanto più e-levati quanto più dissimili sono le variabili culturali dei partner e quanto più asimmetriche sono, nella fase di avvio degli accordi, le conoscenze recipro-che.

1.6. Prodotto universale o differenziazione multipoint della produzione?

L’ipotesi etnocentrica, che nel passato aveva portato le grandi imprese, soprattutto statunitensi, a pensare che l’attività manageriale potesse basarsi su principi universalmente validi e che le pratiche manageriali potessero es-sere esportate con successo nelle economie di diversi contesti, è stata og-getto di una rivisitazione critica negli anni più recenti: le specificità locali hanno richiesto sempre più una differenziazione degli stili manageriali, dei meccanismi di governo delle attività imprenditoriali e dei prodotti.

Sull’esistenza di un prodotto universale si è molto discusso nella lettera-tura economico-aziendale ed i risultati cui si è pervenuti, per la maggior parte, negano la sua esistenza. Anche se la realtà moderna è caratterizzata

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da un’ampia mobilità degli individui e da un’elevata diffusione internazio-nale delle conoscenze, esistono bisogni, consuetudini e stili di vita legati al-la storia ed alla prassi consolidata, non solo di singoli Paesi ma anche di singole aree territoriali di una stessa nazione, che presentano un così forte radicamento locale da rendere difficile un loro cambiamento; essi sono parti integranti delle culture e delle tradizioni che differenziano ancora so-cietà ed individui, nonostante la globalizzazione.

Il prodotto universale sembra, pertanto, configurarsi come una imma-gine “semplicistica e illusoria” del processo di globalizzazione, come un “mito destinato a sopravvivere solo per una breve stagione” (Grandinetti e Rullani, 1996).

Il pensiero di Ohmae sul prodotto universale

Nei suoi lavori pioneristici sulla globalizzazione, afferma Ohmae (1989; 1991) che, per operare con successo in un’ottica globale, occorre allonta-narsi dal perseguimento delle strategie di portafoglio - finalizzate alla con-tinua ricerca di nuovi mercati in cui investire le eccedenze finanziare per creare “piramidi di cash flow” – e dalle tecniche di dumping, poste in es-sere per vincere la concorrenza locale. La globalizzazione, per Ohmae, rifiuta anche l’ipotesi di convergenza che aveva guidato lo sviluppo delle multinazionali americane negli anni ’60, inducendole a trasferire, in paesi caratterizzati da economie in una fase di transizione, modelli culturali d’impresa e comportamenti manageriali con-solidati nel paese-origine. L’ipotesi di convergenza non ha avuto nel tempo risultati positivi; essa ha generalmente indotto la nascita di ibridi organizzativi, caratterizzati da “sinergie negative” e destinati a non sopravvivere nel lungo periodo. L’ipotesi di convergenza deve essere sostituita da una prospettiva di equi-distanza, nel senso che il management deve imparare a sviluppare una ca-pacità di valutazione neutrale, non condizionata dalle situazioni contin-genti dei diversi mercati internazionali, né pronta ad attribuire privilegi o dominanze a singoli mercati, domestici o esteri. Eppure, la miopia manageriale porta spesso a considerare come univer-salmente validi comportamenti, credi e valori dei mercati più “familiari” e, specialmente nei momenti critici, l’attenzione manageriale si concentra sul mercato interno, rifiutando le diversità e le istanze provenienti dagli altri contesti in cui le imprese operano o intendono operare. Il principio dell’equidistanza non porta necessariamente alla creazione di un prodotto universale, capace di soddisfare bisogni trasversali ai diversi segmenti di mercato e che postula, tra l’altro, l’esistenza di un consumato-

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re universale da considerare, per molti versi, una figura più mitica che rea-listica. Il principio dell’equidistanza risulta valido sotto il profilo della neutralità che deve governare la valutazione dei manager sui bisogni dei clienti e sulle regole comportamentali vigenti nei diversi mercati, in assenza di partico-lari privilegi da attribuire, nella valutazione, a particolari realtà locali. Pertanto, anche per Ohmae, l’impresa piuttosto che tendere ad una visio-ne unitaria nella progettazione dei propri prodotti, deve, attraverso l’elaborazione delle conoscenze acquisite, trovare la più appropriata situa-zione di compromesso tra standardizzazione e personalizzazione.

Non è, quindi, la tendenza alla globalizzazione, di per sé, a generare uni-

formità delle istanze, ma piuttosto, e per alcune tipologie di beni, le pres-sioni generate dall’offerta attraverso l’utilizzo delle leve del marketing e l’immagine che le imprese hanno saputo costruire nei diversi mercati.

Ad esempio, in alcuni contesti culturali (come il Giappone), le azioni dei manager stranieri, finalizzate a “internalizzare” i comportamenti locali attraverso un processo di assimilazione svolto nei paesi ospiti, producono una sorta di omogeneizzazione dei bisogni e di accettazione dei nuovi pro-dotti da parte dei consumatori locali. L’adeguamento dell’operatore “stra-niero” alla cultura del mercato locale, al fine di diventare un operatore interno, crea, inoltre, le premesse per la commercializzazione in loco anche degli al-tri prodotti aziendali, diversi da quelli utilizzati per la prima penetrazione e risulta, inoltre, essere un efficace deterrente contro le minacce di potenziali concorrenti 32.

Per l’internalizzazione delle specificità locali occorre però sviluppare una capacità di apprendimento delle conoscenze su tradizioni, comportamenti e consuetudini dei paesi ospiti. Pertanto, per l’adeguamento delle imprese estere agli operatori interni, occorre che i nuovi entranti pongano in essere politiche commerciali che facciano presa sui mercati di sbocco oppure che riescano, allorquando il mercato o la tipologia di bene lo richieda, ad adeguare le imprese agli “operatori interni”. Anche in presenza di una standardizzazione dei consumi e di un prodotto universalmente accettato, non è detto che esso soddisfi analoghi

32

Hanno contribuito, ad esempio, al successo mondiale della Coca Cola, la realizza-zione di complete infrastrutture locali, nei diversi paesi in cui l’impresa è penetrata, il deli-berato inserimento in loco degli elementi portanti del sistema commerciale, l’attività com-piuta dalla casa-madre per stimolare la domanda locale.

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Strategie di sviluppo internazionale 53

bisogni in ogni contesto ambientale: ad esempio, un prodotto della McDonald’s, che soddisfa un’esigenza di rapidità dei pasti e di economicità della spesa nei paesi industrializzati, può rappresentare quasi un bene di lusso, o uno status symbol, nei PECO (quali, ad esempio, la Russia). Il manager deve tenere conto di queste diversità se vuole posizionarsi con successo nei diversi mercati ed acquisire segmenti di consumatori, attraverso le più appropriate leve del marketing-mix.

Da ciò discende che, in un’ottica di marketing strategico, l’incremento conoscitivo del manager non deve limitarsi all’ambito delle politiche a valle della produzione, ma deve estendersi a monte della stessa, alla sfera di per-cezione dei bisogni dei consumatori.

La scelta, però, di competere in un’ottica di differenziazione multipoint della produzione può creare sacche di inefficienza che, alla lunga, possono compromettere la creazione di valore dell’impresa: i numerosi casi di in-successo presenti nella letteratura hanno portato le grandi imprese a privi-legiare strategie di sviluppo in mercati culturalmente vicini a quelli dome-stici, in modo da conseguire maggiori sinergie.

Appare evidente che, per ricercare una sorta di compromesso tra stan-dardizzazione e adeguamento, il manager debba muoversi, in un’ottica di-namica, tra i rischi di rendere inefficaci le attività d’impresa, insiti in un u-niversalismo astratto, ed i rischi di creare inefficienza, insiti in un adatta-mento puntuale alle situazioni locali.

Queste argomentazioni relative all’universalismo e particolarismo pos-sono realisticamente estendersi, dal mero prodotto, anche alle pratiche manageriali da implementare nei diversi contesti, ai comportamenti mana-geriali da assumere, alle tipologie di relazioni da stringere con gli attori lo-cali, cioè a tutte le componenti dell’output, nella sua accezione di “output allargato”.

Inoltre, se si considera quanto detto nelle pagine precedenti sui vantaggi che discendono dall’intraprendere strategie di internazionalizzazione in cluster di paesi o aree omogenee, sembra confermarsi il pensiero di quegli studiosi che, nello sfatare tutti i miti presenti negli approcci globali, spin-gono i manager d’impresa a “pensare regionale, agire locale e dimenticare tutto ciò che è globale”.

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1.7. La globalizzazione negli studi di Porter: il “diamante della competizione di un paese”

Poiché è difficile ipotizzare l’esistenza di un prodotto e di un consuma-tore universale, lo sforzo imprenditoriale deve essere rivolto, più appro-priatamente, all’individuazione di un modello “dominante”, capace di ri-spondere, adattato, alle specifiche richieste dei singoli mercati nazionali. Se si vuole operare a livello globale, occorre “pensare e agire a livello globale”, cer-care di comprendere le differenze culturali e comportamentali dei consu-matori, adeguarsi ad esse e non credere, come si è detto, che i comporta-menti ed i bisogni, tipici del mercato domestico, siano universalmente ac-cettati. Né, d’altra parte, a fronte delle difficoltà di apprendimento delle di-versità comportamentali dei mercati, le imprese possono chiudersi “a ric-cio” e focalizzare l’attenzione solo sul mercato locale.

Un tale modo di gestire il proprio business può essere penalizzante e un esempio è dato dalla crescente difficoltà riscontrata da imprese che opera-no in nicchie di mercato definite spazialmente – soddisfacendo specificità locali di consumo o di produzione – da un lato, a resistere all'ingresso di concorrenti esterni, dall’altro, a sopravvivere restando legati al mercato lo-cale di sbocco.

Sempre sul tema della globalizzazione, ma in un’ottica di vantaggio competitivo delle nazioni, quale risultante dell’agire delle forze in esse ope-ranti, Porter (1990) ha tentato di comprendere i meccanismi che determi-nano il successo globale di un paese, studiando 50 industrie esportatrici di Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera, Svezia, Germania, Giappone, Italia e Corea. Le ipotesi iniziali della ricerca si fondavano sull’assunto che la com-petitività di una nazione sia dipendente da quattro dimensioni che, nel loro insieme, compongono il “diamante della competizione nazionale”.

Sulla base della considerazione che il vantaggio competitivo di una na-zione discende dalle capacità concorrenziali delle imprese in essa operanti, la prima dimensione, o determinante, è data dal livello di concorrenza (o di rivalità) esistente tra le imprese del mercato domestico; la rivalità stimola la creatività e lo spirito di iniziativa e può più facilmente tradursi in output maggiormente attrattivi, non solo per il mercato domestico, ma anche, e soprattutto, per il mercato mondiale. Anche il livello di sofisticazione della domanda interna 33, la seconda dimensione del diamante, stimola in tal sen-

33

Ad esempio, le aziende giapponesi hanno aperto la strada nel campo dei piccoli elet-trodomestici multifunzionali perché i clienti giapponesi, che vivono in spazi ristretti, desi-

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so le imprese concorrenti. La terza dimensione è data dalla presenza locale di fornitori e di servizi alle imprese, di supporto ai loro processi di svilup-po, anche internazionale 34. La quarta dimensione è rappresentativa della presenza nel mercato domestico di dotazioni specifiche (non generiche, quali le dotazioni fattoriali), come la presenza di manodopera qualificata e delle infrastrutture. Le dotazioni specifiche permettono, al pari dei servizi di supporto, di aiutare le imprese a conseguire vantaggi competitivi sui mercati internazionali.

Oltre alla considerazione che nel modello porteriano non vengono con-siderati alcuni fattori condizionanti, quali le componenti della cultura do-minante nei diversi paesi ed il ruolo svolto dal Governo 35, per Reich (1990), i quattro criteri-guida del vantaggio di una nazione sono così ampi da comprendere complessivamente quasi tutte le soluzioni disponibili per sostenere la competitività nazionale, dando quindi scarse indicazioni ai po-licy makers che, avendo risorse generalmente limitate, hanno la necessità di stabilire delle priorità di intervento.

D’altra parte, l’accelerazione dello sviluppo internazionale delle imprese, che ha caratterizzato l’economia degli ultimi decenni, la forte spinta verso forme di internazionalizzazione produttiva e di partnership, spesso favorite dai paesi ospiti, hanno contribuito notevolmente ad affievolire i legami del-le imprese con i loro paesi-origine. Ha contribuito al fenomeno, in primo luogo, lo sviluppo delle nuove tecnologie, basate sulla scienza delle infor-mazioni, che ha consentito alle imprese di ricercare il vantaggio competiti-vo attraverso processi di delocalizzazione produttiva e partnership, poste in essere con operatori stranieri, per l’acquisizione di fattori, componenti e conoscenze. In secondo luogo, hanno incentivato le scelte di internaziona-lizzazione produttiva anche le condizioni più favorevoli offerte dai paesi origine che, nei termini del diamante, possono senz’altro contribuire a supportare le attività manageriali volte allo sviluppo.

Al riguardo, va notato, però, che il vantaggio competitivo di un’impresa dipende più strettamente dalle capacità strategiche dei suoi manager di co-gliere le opportunità che si presentano nei diversi mercati, piuttosto che dalle condizioni favorevoli del paese domestico.

Nei processi di internazionalizzazione, le moderne imprese non solo

deravano oggetti con tali caratteristiche.

34 Le aziende tedesche sono riuscite ad eccellere nel campo degli elettrodomestici per-

ché moltissimi dei loro fornitori nazionali hanno esperienza nel settore. 35

Il ruolo svolto dalle Autorità governative nell’indirizzare lo sviluppo di imprese e settori dell’economia è, infatti, solo accennato nello schema di Porter.

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non tendono a replicare nei mercati esteri la loro formula imprenditoriale, ma tendono a decentrare singole attività della catena del valore nei paesi in cui possono sia sfruttare le interdipendenze tra mercati, sia conseguire più vantaggiosi ritorni degli investimenti. È, questo, il principio dell’ubiquità del vantaggio competitivo che meglio sembra configurarsi quale caratteristica fon-damentale del “pensare globale”. Sono le opportunità che spingono le im-prese ad espandersi anche in mercati non familiari: ad esempio, per le pro-duzioni a tecnologia più matura, “l’agire in un’ottica globale” porta le im-prese a delocalizzare lavori sofisticati nelle aree ove sono presenti le com-petenze necessarie ed a decentrare le fasi a minor valore aggiunto ove sono presenti le dotazioni fattoriali.

Cade, così, la possibilità di collegare i prodotti al loro paese-origine e, in definitiva, è questo il significato che occorre attribuire al prodotto “univer-sale” che va, pertanto, inteso, come il risultato di un assemblaggio di com-ponenti, materiali e immateriali, provenienti dalle più svariate parti del mondo.

L’output delle imprese internazionalizzate può considerarsi, pertanto, come un insieme di componenti materiali e di conoscenze scientifico-tecnologiche incorporate nei beni, la cui origine geografica non risulta cir-coscritta ad un unico paese.

Da quanto detto, si può affermare che ha perso di significato il concetto di prodotto universale, legato all’esistenza di un’omogeneità internazionale dei consumatori, mentre ha acquistato una valenza interpretativa del fe-nomeno la globalità delle origini del prodotto. Pertanto, la globalizzazione, finalizzata alla creazione di un prodotto universale, è strettamente connessa alle decisioni manageriali di localizzare le attività produttive – oppure fasi del processo di progettazione, lavorazione e commercializzazione dei pro-dotti – nelle aree location-specific. Ciò, come già detto nelle pagine precedenti, contribuisce ancora una volta a posizionare queste argomentazioni teoriche nella sfera organizzativa delle imprese, piuttosto che in quella strategica.

1.7.1. La globalizzazione negli studi di Porter: le strategie interna-

zionali nei settori globali

Il concetto che la globalizzazione attenga più alle modalità di organizza-zione delle risorse, piuttosto che ai paradigmi descrittivi delle strategie, e-merge anche da una lettura del lavoro di Porter (1987) sulle scelte di confi-gurazione/coordinamento che individuano le diverse tipologie di “strategie internazionali” perseguite dalle imprese che operano nei settori globali.

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Fig. 1.4 – Tipologie di strategie internazionali nei settori globali

Coordinamento Configurazione

Decentramento Concentrazione

Alto I.D.E.

Coordinato Globale

Basso Multidomestica Esportazione

con MKT decentrato

Fonte: tratto da Porter (1987).

Nella competizione globale, Porter individua (Fig. 1.4) quattro tipologie

di “strategie internazionali” dei settori e delle imprese, a seconda: della configurazione delle attività della catena del valore (dalla massima concentrazione in un solo paese di tutte le attività, alla massima dispersio-ne delle stesse tra i diversi paesi in cui l’impresa opera) e del livello di coordinamento che s’instaura tra le attività svolte dal management centrale e quelle decentrate ai manager periferici (dalla più ampia autonomia concessa alla periferia al più elevato livello di coordinamento).

Una “strategia di internazionalizzazione” di tipo multidomestico (imprese multidomestiche) è caratterizzata da una dispersione delle attività della ca-tena del valore tra i paesi in cui l’impresa opera – attraverso una replicazio-ne all’estero di unità operative simili alla casa-madre – e da un’ampia auto-nomia lasciata alle unità periferiche.

Una “strategia” globale (imprese globali) è caratterizzata da poche attività decentrate all’estero e da un massimo coordinamento di queste attività da parte del management centrale.

Nelle scelte d’internazionalizzazione delle imprese, l’utilizzo di queste due dimensioni pone l’enfasi sui meccanismi strutturali, quali fattore-chiave per l’interpretazione delle diverse “strategie”. Ciò non fa che raffor-zare la convinzione che le scelte di Porter rappresentino più propriamente modalità organizzative di supporto al perseguimento degli obiettivi strate-gici, piuttosto che “strategie”. D’altra parte, lo stesso meccanismo alla base della definizione della “strategia” globale non fa che confermare quanto det-to: essa viene, infatti, spiegata dal meccanismo della centralizzazione delle decisioni, che, accanto ad un necessario livello di formalizzazione, presuppo-ne una più o meno spinta specializzazione (la strategia sottesa) delle attività

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d’impresa. Anche la tipologia degli investimenti diretti all’estero strettamente con-

trollati dalla casa-madre (I.D.E. Coordinato) presuppone, per l’Autore, ele-vati livelli di formalizzazione e di specializzazione, mentre esclude il mec-canismo della delega di autonomia che, viceversa, è il nodo cardine dell’esportazione con marketing decentrato.

Nell’ottica su esposta, una “strategia di internazionalizzazione” deve, pertanto, riuscire a trovare il giusto trade-off tra la possibilità di perseguire una strategia globale, con un accentramento delle decisioni da intraprende-re, ed una strategia più pronta a decentrare, al fine di poter cogliere specifi-cità ed istanze locali. Scegliere la giusta posizione di compromesso significa anche saper scegliere tra acquisizioni di economie di scala, rese possibili dalla concentrazione delle attività d’impresa, e l’accelerazione del processo di apprendimento che discende dalla possibilità che hanno le unità decen-trate di stringere più stretti contatti con operatori dei paesi ospiti, portatori di istanze, comportamenti, credi e conoscenze diversi.

La concentrazione geografica permette alla casa-madre di localizzare le attività strategicamente rilevanti in cluster di paesi omogenei, con una note-vole riduzione dei costi di coordinamento. La dispersione geografica delle attività della catena del valore, invece, se da un lato aumenta le capacità manageriali di gestire le specificità locali e di poterne soddisfare le istanze, dall’altro, permette la riduzione dei costi generalmente indotti da una con-centrazione spaziale delle attività (costi di stoccaggio e di trasporto) e dà la possibilità ai manager d’impresa di poter effettuare pratiche specifiche di he-dging, per ogni mercato in cui la multinazionale opera.

La copertura dai rischi è maggiormente sentita dai manager delle imprese che perseguono “strategie” multidomestiche, in quanto con l’aumentare della dispersione geografica delle attività della catena, cresce l’incertezza percepi-ta dai manager centrali, indotta dalla necessità di dover competere paese per paese, in un’ottica di indipendenza (Roth, 1992). Il livello di incertezza può aumentare anche in seguito ai conflitti che potenzialmente possono insor-gere tra le unità organizzative disperse allorquando diminuiscono, in modo non equilibrato tra i diversi paesi, le disponibilità di risorse locali, che rap-presentano, d’altro canto, le fonti primarie degli input utilizzati dalle unità periferiche (Pfeffer e Salancik, 1978).

Anche per il coordinamento occorre trovare il giusto trade-off tra: il controllo stretto del processo di apprendimento, da cui discende la possibilità per i manager centrali di “creare sinergie positive”, acquisibili at-traverso un incanalamento del processo stesso verso le vie più convenienti per l’impresa, considerata in una visione unitaria. Di converso, i costi di

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coordinamento sono tanto più elevati quanto maggiormente disperse sono le attività d’impresa; la libertà d’agire lasciata ai manager periferici che, nell’indurre una maggio-re creatività e responsabilizzazione dei singoli, porta anche a limitare il processo di apprendimento collettivo.

In sintesi, per operare nel mercato globale, alla Porter, le imprese multi-nazionali devono avere la capacità di coordinare le attività della catena per conseguire non solo un vantaggio competitivo firm-specific, ma anche un vantaggio comparato location-specific 36.

Dalle concettualizzazioni su esposte, risulta, però, difficile cogliere la capacità esplicativa del modello porteriano quale tipologia delle strategie di internazionalizzazione perseguibili dalle imprese. Esso appare, invece, più significativamente esplicativo delle modalità attraverso cui le imprese orga-nizzano, in campo internazionale, le risorse disponibili, dando vita sia alle diverse configurazioni delle attività della catena del valore, sia alle diverse definizioni di meccanismi di coordinamento delle attività di impresa.

La specificazione spaziale della configurazione delle attività della catena del valore richiede una capacità manageriale di esplorare e valutare gli spe-cifici vantaggi locali, al fine di pervenire ad una stima delle economie di scala, di scopo e di apprendimento potenzialmente conseguibili se le risor-se, coordinate, si trasferiscono attraverso il network multinazionale.

Discende, da quanto detto, che la globalizzazione per Porter attiene maggiormente alle decisioni riguardanti l’organizzazione dei fattori e delle risorse delle imprese, ai fini di uno sfruttamento delle proprie specificità e competenze per il conseguimento di più favorevoli posizionamenti compe-titivi. Pertanto, la strategia globale porteriana sembra attenersi al tema delle modalità di attuazione delle scelte strategiche, piuttosto che a quello della definizione di un nuovo paradigma delle strategie di internazionalizzazione delle imprese.

36

Il vantaggio competitivo influenza le decisioni relative alle attività della catena sulle quali l’impresa deve concentrarsi per sfruttare appieno le proprie competenze distintive; il vantaggio comparato influenza le decisioni relative alle scelte di localizzazione delle attivi-tà, in funzione della possibilità di sfruttare le interdipendenze tra paesi ed i vantaggi country-specific.