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STRATEGIE DI INTEGRAZIONE NELLA COSTRUZIONE DELLE ZONE SOCIALI LA PROGETTAZIONE DELLE ZONE E DEI LORO PIANI: UN'ANALISI DI CASI

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STRATEGIE DI INTEGRAZIONE

NELLA COSTRUZIONE DELLE ZONE SOCIALI

LA PROGETTAZIONE DELLE ZONE

E DEI LORO PIANI: UN'ANALISI DI CASI

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Progetto editoriale Valeria Biotti Progetto grafico Alberto Giuseppini

Finito di stampare nel mese di gennaio 2006 presso la tipografia CSR di Roma

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La ricerca presentata in questo volume è stata realizzata per conto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dallo Studio Diathesis di Modena.

Lo staff di ricerca è composto da Maurizio Serofilli (coordinatore), GiorgiaGariboldi, Massimo Giorgi e Serena Muracchini.

La realizzazione della ricerca è stata resa possibile dalla partecipazione di responsabili di Regioni ed enti locali che hanno attivamente collaborato alle fasi di raccolta delle documentazioni e di confronto sulle stesse e più in generale sulle realtà territoriali osservate. In particolare: Per L’Ambito distrettuale Alta Valdelsa: Francesca Chellini, assessore ai servizi sociali di San Gimignano, Marisa Viti, coordinatrice sociale della zona Alta Valdelsa e della Segreteria tecnica del Piano di zona e Silvia Brunori, operatrice della Segreteria tecnica;Per l’Ambito distrettuale di Barletta: Maria Dettori, dirigente del Settore servizi sociali del Comune, Ines Sgarra, coordinatrice dell’Ufficio di piano e Marina Ruggiero, ricercatrice appartenente all’Ufficio di Piano; Per l’Ambito distrettuale di Cremona: Eugenia Grossi, responsabile dell’Ufficio di Piano e Davide Vairani, componente dell’Ufficio di Piano; Per il Distretto sociale di Lugo: Elena Zannoni, assessore alle politiche sociali di Lugo, Maria Luisa Liverzani, responsabile del servizio sociale del distretto Ausl di Lugo e Silvia Zoli, coordinatrice tecnica dell’Ufficio di Piano; Per l’Ambito Penisola Sorrentina e Capri: Gennaro Izzo, coordinatore dell’Ufficio di Piano;Per l’Ambito di Pesaro: Giuliano Tacchi, coordinatore d’ambito e Giampiero Ricino, ricercatore dello staff del coordinatore; Per la Zona sociale di Ventimiglia: Anna Banchero, dirigente del settore programmazione delle politiche sociali e integrazione socio-sanitaria della Regione Liguria e Isabella Berrino, coordinatrice della Segreteria tecnica di Ventimiglia.

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Sommario

INTRODUZIONE di Maurizio Serofilli, Giorgia Gariboldi, Massimo Giorgi 7

CAPITOLO I

I PROCESSI DI COSTRUZIONE DEI PIANI SOCIALI E DELLE ZONE: ANALISI DI SETTE CASI 9

ALTA VALDELSA, UN CAMMINO PER LA COSTRUZIONE DELLA ZONA 10

BARLETTA, L’INTEGRAZIONE IN CONTESTO MONOCOMUNALE 22

CREMONA, COSTRUIRE IL DISTRETTO SOCIALE NELLA FRAMMENTAZIONE COMUNALE 34

LUGO, L’INTEGRAZIONE AL TEMPO DELLE DELEGHE 54

PENISOLA SORRENTINA E CAPRI, L’UFFICIO DI PIANO GESTORE 68

PESARO, LA COSTRUZIONE DELL’AMBITO TRA PROGETTAZIONE E GESTIONE 83

VENTIMIGLIA, L’INTEGRAZIONE DAL DOPPIO LIVELLO 101

CAPITOLO II

FATTORI IN GIOCO NELLA COSTRUZIONE DELLE ZONE E DEI LORO PIANI 115

1. IL RAPPORTO TRA CONFORMAZIONE DELL’AMBITO TERRITORIALE E PROCESSI DI COSTRUZIONE DELLA ZONA SOCIALE 116

1.1 L’ambito monocomunale 117

1.2 L’ambito che comprende Comuni di dimensioni non troppo dissimili 118

1.3 L’ambito con un Comune molto più popoloso degli altri 120

1.4 L’ambito caratterizzato da una elevata frammentazione comunale 123

1.5 Considerazioni conclusive 125

2. GLI IMPRINTING REGIONALI SUL LAVORO DELLE ZONE 128

2.1 Orientare e/o accompagnare 128

2.2 Due aspetti della programmazione regionale 129

2.3 L’organismo tecnico di coordinamento dei Piani di Zona 129

2.4 Quando la zona è troppo “affollata” 140

2.5 Prime riflessioni sui diversi approcci adottati dalle Regioni 145

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3. LE INTERAZIONI E LE ALLEANZE TRA LE DIMENSIONI ISTITUZIONALE, SOCIALE E TECNICA 147

3.1 La collaborazione tra dimensione istituzionale e dimensione tecnica 148

3.2 La collaborazione tra dimensione istituzionale e dimensione sociale 154

3.3 La collaborazione tra dimensione sociale e dimensione tecnica 155

4. UNA LENTE COMPLESSA PER GUARDARE LE ZONE E I LORO PIANI 156

CAPITOLO III

FOCALIZZAZIONE SUGLI ORGANISMI TECNICI DEI PDZ: FUNZIONI COMPLESSE PER SOGGETTI IN COSTRUZIONE 161

1 ALLA RICERCA DI ALCUNE FUNZIONI COMPLESSE E DEL LORO SIGNIFICATO 161

2. PRIMA FUNZIONE. L’ALTRA FACCIA DEL PDZ 163

3. SECONDA FUNZIONE. COSTRUIRE L’INTEGRAZIONE CHE MANCA 164

4. TERZA FUNZIONE. PROMUOVERE E SOSTENERE GRUPPI DI PROGETTAZIONE 166

5. QUARTA FUNZIONE. CONCERTARE L’INTEGRAZIONE PROGETTUALE 167

6. QUINTA FUNZIONE. SPERIMENTARE LA GESTIONE INTEGRATA 169

7. ORGANISMI PER LA REGIA TECNICA (DOVE L’ACCENTO CADE SUL SOSTANTIVO) 170

7.1 Funzioni ubique 1707.2 Significato comune delle funzioni: costruire la nuova zona sociale 1717.3 Funzioni di un ruolo di regia 1747.4 Un organismo in costruzione (come i Piani e le loro zone) 174

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IntroduzioneIl significato di questa ricerca si connette all’obiettivo nel Ministero del

Lavoro e delle Politiche sociali teso a realizzare, assieme ad alcuni dei principali soggetti che attualmente stanno cimentandosi in questa importante operazione, una prima riflessione sulle modalità e i risultati relativi alla costruzione dei nuovi livelli d’integrazione territoriale dei servizi sociali avviati in questi anni, con forme e velocità diverse, su tutto il territorio nazionale.

All’interno di questa prospettiva il fuoco di questo lavoro sta in particolare sui processi d’integrazione che, nei diversi contesti presi in esame, sono oggi all’opera tra orientamenti, dimensioni e soggetti chiamati in via prioritaria ad attivare il nuovo livello della rete territoriale dei servizi sociali. A tal fine la ricerca si è concentrata sui processi di costruzione dei Piani di zona (Pdz), assumendoli non tanto e non solo in rapporto agli esiti della loro attività redazionale - che pure, come si vedrà, è stata ampiamente analizzata - quanto in relazione ai processi connessi alla loro elaborazione, processi che tendono a coincidere con quelli legati alla costruzione dei lineamenti delle nuove ‘infrastrutture’ territoriali dei servizi, appunto le zone, gli ambiti, i distretti sociali… In altri termini si tratta di comprendere come e attraverso quali percorsi le Conferenze e i Comitati dei Sindaci, i tavoli di concertazione, i gruppi e le aree di coprogettazione, gli Uffici di Piano, le Segreterie tecniche, i Coordinatori d’ambito… sono riusciti a pervenire a prime elaborazioni e attivazioni di configurazioni organizzative in grado di promuovere l’integrazione sovracomunale dei servizi sociali. Come verrà detto più dettagliatamente in altri punti del testo, è in questa prospettiva più connessa ai processi organizzativi d’integrazione territoriale (e meno ad una ‘prospettiva redazionale’) che viene qui assunto l’‘oggetto’ Piano di zona.

Se dunque un primo obiettivo è dato dallo sforzo di cogliere i tratti salienti delle diverse modalità di costruzione delle zone e di operare dei primi confronti tra loro, un secondo è rappresentato da quello di elaborare, su questa base, alcune riflessioni che possano metterci in grado di individuare e illustrare alcuni fattori che sembrano giocare un ruolo dirimente in questo tipo di operazione, e provare quindi a mettere a punto non tanto un modello di lettura vero e proprio da replicare, quanto un primo orientamento che possa essere in grado di aiutarci a cogliere la complessità inerente al lavoro di attivazione di nuove integrazioni dei servizi, dal quale potrebbe essere più agevole procedere in questa attività avviata dal Ministero.

Per rendere ragione di esperienze avviate recentemente, che non possono disporre ancora di consolidati quadri di riferimento, il nostro lavoro non ha potuto limitarsi ad un’opera di analisi dei documenti (vuoi delle zone, vuoi delle Regioni) ma si è reso necessario avviare un lavoro in profondità concentrandoci su sette esperienze scelte in accordo con le rispettive Regioni. Queste esperienze corrispondono alle zone di Alta Valdelsa, Barletta, Cremona, Lugo, Pesaro, Penisola Sorrentina e Capri, Ventimiglia. In ognuna di esse è stato realizzato un lavoro con i responsabili della dimensione tecnica prevista dai Piani di zona vale a dire con Responsabili di Uffici di Piano e di Segreterie tecniche, Coordinatori d’ambito, Dirigenti comunali e regionali… i quali non di

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rado hanno coinvolto in questi appuntamenti assessori alle politiche sociali e altri loro collaboratori, conferendo in tal modo a questi incontri di lavoro uno sguardo più ricco, dove le interazioni (nevralgiche nei processi d’integrazione come quelli che qui affrontiamo) tra i vari protagonisti, in particolare quelle tra politici e tecnici, hanno avuto modo di esprimersi per così dire ‘in diretta’.

A seguito di questo lavoro sui documenti e con i protagonisti, sono state effettuate, all’interno dello studio Diathesis di Modena alcune riunioni di analisi ed elaborazione dalle quali è scaturito il presente testo. Esso si articola in tre capitoli. Rimandando sin d’ora alle relative presentazioni ci limitiamo qui ad indicare che: a) nel primo capitolo, che è un po’ il cuore del testo, viene presentato il lavoro di

analisi delle sette esperienze connesse alla costruzione del Pdz e della zona; b) nel secondo abbiamo cercato, sulla base delle riflessioni svolte nel primo,

di cogliere e mettere a fuoco alcuni fattori dirimenti nella costruzione delle zone e una prima lente che potrebbe aiutarci a comprendere la complessità di questo lavoro di attivazione;

c) mentre nel terzo, abbiamo elaborato alcune puntualizzazioni sul soggetto che, con maggiore continuità, sta operando in relazione a queste nuove dimensioni del sociale costituite dalle zone: ci riferiamo agli organismi che operano sul livello tecnico dei Pdz, mentre sono collocate in varie parti del testo le considerazioni sui diversi e, come si vedrà, rilevanti tipi di apporto forniti dalla dimensione sociale, e in particolare del Terzo settore, alla costruzione delle zone. L’ultima considerazione verte su una serie di riprese di temi e

considerazioni in diverse parti del testo. Questo vale soprattutto per i Capitoli IIe III dove aspetti centrali, messi a fuoco nel Capitolo I, sono osservati da più punti di vista (lenti) dando l’impressione di una certa ripetitività.

Sul versante ringraziamenti, due in particolare s’impongono tra tutti gli altri.Innanzitutto ai responsabili tecnici dei Pdz che abbiamo coinvolti nel lavoro:

ad essi le nuove zone sociali in costruzione debbono non poco! A loro soprattutto è stato richiesto, in tempi relativamente brevi, di promuovere localmente la crescita di queste nuove creature e, al contempo, di sostenere un po’ ‘sulla loro pelle’ l’elaborazione di standovi profili professionali che stanno prendendo forma.

In secondo luogo ad Andrea Tardiola e a Patrizia De Felici della Direzione generale per la gestione del fondo nazionale con i quali, in diversi momenti, abbiamo condiviso riflessioni e scelte sul lavoro di ricerca in un’ottica che intende rafforzare l’apporto, anche elaborativo, del Ministero ai processi orientati alla costruzione della nuova integrazione dei servizi sociali.

Maurizio Serofilli

Giorgia Gariboldi

Massimo Giorgi

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CAPITOLO I

I PROCESSI DI COSTRUZIONE DEI PIANI SOCIALI E DELLE ZONE: ANALISI DI SETTE CASI

L’oggetto del capitolo è costituito dall’analisi di sette casi, distribuiti sul territorio nazionale, relativi all’elaborazione di Piani di zona e alla costruzione delle corrispondenti zone sociali. Come abbiamo anticipato nell’Introduzione, i Pdz vengono qui concepiti come un campo di lavoro nel quale è possibile osservare i principali processi di costruzione delle nuove zone sociali, al punto da costituirne una sorta di micro-rappresentazione.

Poiché l’obiettivo era dunque quello di gettare luce vuoi sugli assetti organizzativi (assetti di lavoro intercomunali, forme e struttura integrate socio-sanitarie …) dentro i quali prendono forma le politiche sociali del territorio vuoi sui processi di lavoro che a più livelli si sviluppano tra i vari attori in ordine alla programmazione e alla costruzione delle nuove forme d’integrazione territoriale dei servizi sociali, siamo stati indotti ad operare una prima opzione che non ha mancato di presentare una certa onerosità. Tale opzione è consistita in un intervento che non ha potuto limitarsi all’analisi dei voluminosi Pdz, ognuno dei quali analizzato almeno secondo alcune annate/edizioni, né al loro inquadramento nella produzione normativa e programmatica regionale: queste operazioni non avrebbero potuto consentirci da sole di cogliere i lineamenti e gli sviluppi di un’attività che, come quella della costruzione delle nuove zone sociali, non dispone ancora di significative possibilità di confronto né di linee di letteratura consolidate su cui poter far conto.

Si è trattato pertanto di ricorrere ad un lavoro con i principali attori che sono oggi alle prese con questa importante operazione: con loro si è cercato di approfondire una serie di aspetti connessi prevalentemente alle forme di coinvolgimento della comunità nella definizione delle strategie e delle priorità di politica sociale assieme alla capacità delle istituzioni di dare attuazione agli orientamenti e alle scelte condivise, alle forme d’integrazione tra i Comuni appartenenti alla medesima zona sociale, alle forme e ai livelli d’integrazione socio-sanitaria, alle forme e ai livelli dell’integrazione con il Terzo settore riguardo alla programmazione e alla gestione degli interventi.

Sono stati pertanto effettuati alcuni incontri con i responsabili della dimensione tecnica prevista dai Piani di zona, talora allargati ad assessori e collaboratori. Sopra questo davvero cospicuo e variegato materiale sono infine stati svolti dagli autori diversi incontri di analisi e riflessione dai quali sono scaturite le elaborazioni che seguono.

Nota a cura del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali: la ricerca inizialmente prevedeva otto studi di caso. L’analisi dell’ottavo caso – il comune di Roma, Municipio VI – è tuttora in corso. In ragione della particolare specificità dell’area metropolitana della città di Roma, il lavoro di analisi è stato successivamente ampliato tenendo conto delle attività istituzionali del Ministero. Le evidenze empiriche del lavoro di ricerca saranno pubblicate nel corso del presente anno.

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ALTA VALDELSA, UN CAMMINO PER LA COSTRUZIONE DELLA ZONA1

1. Il contesto territoriale e quello legislativo: alcuni elementi di quadro

1.1 Contesto territoriale

Comuni che compongonol’ambito distrettuale

L’ambito distrettuale è composto da cinque Comuni: Casole d’Elsa (2977 ab.), Colle Valdelsa (20.040 ab.), Poggibonsi (27.889 ab.), Radicondoli (996 ab.), San Gimignano (7064 ab.), Poggibonsi è il Comune Capofila del distretto

Provincia di Siena

Popolazione 60.199 al 2004

Superficie 582,93 Kmq

Densità abitativa 103.26 abitanti per kmq (al 2004)

Ambito distrettuale eDistretto sanitario dell’Asl

Il territorio dei Comuni dell’Alta Valdelsa coincide con il territorio di uno dei quattro Distretti sanitari dell’Asl 7 che ha competenze per tutto il territorio provinciale di Siena

Forme d’integrazione istituzionale tra i Comuni (Associazioni, Unioni, Comunità montane, Patti territoriali, ecc.)

I cinque Comuni dell’Alta Valdelsa hanno costituito tra loro una Associazione per la gestione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali

1 Il presente testo è stato elaborato sulla base: a) di un incontro effettuato il 12 agosto 2005 a Poggibonsi con Francesca Chellini, assessore ai Servizi Sociali del Comune di San Gimignano, Marisa Viti, coordinatrice sociale della zona Alta Valdelsa e della Segreteria tecnica del Pdz e Silvia Brunori, assistente sociale, appartenente alla Segreteria tecnica (le parti riportate tra virgolette in corsivo sono state pronunciate nel corso dell’incontro dalle persone su indicate), b) dell’analisi del documento triennale del Pdz 2002-2004 e degli aggiornamenti 2003 e 2004, c) dell’analisi dei documenti indicati al punto 1.2.

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1.2 Contesto legislativo

Quadri normativi regionali di sistema ai quali si connette il Piano sociale d’ambito

L.R. n. 72/1997 “Organizzazione e promozione di un sistema di diritti di cittadinanza e di pari opportunità: riordino dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari integrati”

DCR 122/2000: Piano Integrato Sociale Regionale (Pisr) 2002-2004

Linee Guida per la stesura dei Piani di Zona 2002-2004

Progetto di sperimentazione Regionale della Carta di Cittadinanza Sociale

L.R. 41/2005: “Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale”

Piano sociosanitario regionale L.R. 40/2005: “Disciplina del Servizio Sanitario Regionale”

2. Assetti e forme di gestione dei servizi sociali

Assetti e forme di gestione dei servizi sociali (i rapporti tra i Comuni, tra Comuni e Asl, ecc.): la situazione presente, i cambiamenti recenti, le prospettive future

Storicamente i servizi sociali assistenziali della Zona sociale dell’Alta Valdelsa sono delegati all’Asl. Attualmente vige una convenzione tra l’Associazione per la gestione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali, attivata dai cinque Comuni della Zona, e l’Asl 7 della provincia di Siena, con la quale se ne delega la gestione completa

3. L’imprinting regionale: una sperimentazione territoriale per connettere servizi sociali e cittadinanza

Per cogliere una delle prospettive di fondo denotanti gli orientamenti regionali in materia, occorre risalire alla legge regionale 72 del 1997, denominata Organizzazione e promozione di un sistema di diritti di cittadinanza e di pari opportunità: riordino dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari integrati, nella quale sono contenuti alcuni elementi, indicati già nel suo titolo, che risulteranno centrali anche per la legge quadro nazionale.

In particolare, ci sembrano interessanti due elementi che - come vedremo - tornano a più riprese anche nella storia dei Piani di Zona nell’Alta Valdelsa:

- il primo si riferisce alla prospettiva nella quale si vuole collocare il “riordino dei servizi socio-assistenziali”, ossia quella della promozione di un sistema di diritti di cittadinanza e di pari opportunità;

- il secondo mette in luce due versanti attorno ai quali si tratta di lavorare per una maggiore integrazione, da un lato il rapporto fra le prestazioni del settore pubblico ed i servizi “forniti dal volontariato, dalle Istituzioni senza fini di lucro, e da altre forme previste dalla legge”,2 e dall’altro quello tra “gli interventi

2 L. R. 72/1997, art. 28.

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di assistenza sociale e tutte le altre politiche che hanno a che fare con la possibilità di promuovere quei diritti di cittadinanza cui fa riferimento la legge, ossia: casa, lavoro, mobilità, formazione, istruzione, educazione, diritto allo studio, alla cultura, alla ricerca, al tempo libero”.3

La particolare attenzione posta dalla Regione sulla relazione fra il sistema dei servizi sociali e i diritti di cittadinanza ha dato vita in Toscana ad una peculiare esperienza, denominata Carta di Cittadinanza, che in fasi diverse ha consentito alle Zone di sperimentare anticipatamente alcune forme di partecipazione e riflessione comune che di lì a poco i Piani di Zona avrebbero prospettato per la costruzione dei distretti sociali. Concepita come un “superamento della Carta dei Servizi”, uno strumento giudicato “troppo rigido nei fattori costitutivi e riduttivo rispetto alle interrelazioni ampie e complesse di una comunità locale”,4 l’“intuizione toscana” fu recepita dal Piano Sociale Nazionale 2001-2003 proprio per la capacità mostrata nel prevedere uno sviluppo più completo e coerente degli strumenti di tutela e di partecipazione concretamente utilizzabili dai cittadini. È in questa prospettiva che la Regione Toscana con il Piano Integrato Sociale Regionale (Pisr) 2002-2004 assume l’obiettivo di proseguire e diffondere in tutte le zone socio-sanitarie “le metodologie e le esperienze” della Carta per la cittadinanza sociale, che in sostanza consistevano:

- nella definizione di un patto per la condivisione di una strategia organica per sviluppare la cittadinanza sociale;

- nella messa a punto di un profilo della comunità locale, in grado di far emergere i percorsi e le opportunità sociali presenti sul territorio (mappa delle risorse disponibili);

- nello sviluppo di forme di tutela e di partecipazione attiva, orientando gli obiettivi verso il miglioramento dei servizi alla persona con l’individuazione di opportuni livelli essenziali di assistenza.

Con l’ingresso nel Pisr la Carta di Cittadinanza Sociale finisce così per configurarsi come “parte integrante del processo di programmazione degli Enti locali […] in ordine ai servizi sociali” e la sua collocazione nel paragrafo dedicato ai programmi per la sperimentazione della innovazione organizzativa sembra orientarla a convergere con le finalità del Piano di zona.

4. Linee diverse di produzione dei servizi e della loro integrazione prima del Piano di Zona

4.1 Prime sperimentazioni

Come traspare dalle indicazioni fornite sopra al punto 2. fin dagli anni Settanta si sviluppa e via via si rafforza nell’Alta Valdelsa una collaborazione assidua tra i cinque Comuni rispetto all’avvio di sperimentazioni integrate di 3 L. R. 72/1997, art. 11. 4 Pisr 2002-2004, p. 34.

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parti cospicue di interventi e servizi sociali. Per le finalità che ci proponiamo è utile restringere il campo agli ultimi anni e cioè segnalando che già nella L. R. 72/1997 si parla di piani di zona, di Segreteria tecnica…e negli anni seguenti si attivano due cospicue sperimentazioni: la prima nel 1998 era circoscritta al settore dei minori nell’ambito della legge 285/97, mentre la seconda, effettuata nel biennio 1999-2000, consisteva in un primo Piano di assistenza sociale nel quale “si provava a mettere insieme tutti i progetti afferenti alle diverse aree tematiche fatte salve quelle relative ai minori e alle politiche per l’immigrazione, aree che invece verranno inserite nel Piano di assistenza sociale del 2001 che in certo senso rappresenta il primo Piano di Zona dell’Alta Valdelsa, anche se è solo nel 2002 con la costruzione del primo Piano di Zona triennale che viene messa a punto una sua specifica struttura di lavoro”.

4.2 L’esperienza della Carta per la Cittadinanza Sociale della Zona Alta Valdelsa

A questo punto occorre, però, fare una breve retromarcia per dedicare una certa attenzione ad una esperienza che non solo sembra stare all’origine del Pdz e alimentare tuttora il suo funzionamento, ma costituire anche il contesto entro il quale è stata elaborata tra il personale politico, i responsabili dei servizi, il Terzo settore e i sindacati della zona una linea di fondo comune sul tema dei servizi sociali dell’ambito e della loro gestione. Ci riferiamo al lavoro “molto sentito e partecipato” connesso alla stesura della Carta sociale di cittadinanza che trova nell’Alta Valdelsa una delle sue prime sperimentazioni regionali, un lavoro che si prefiggeva l’obiettivo di “promuovere miglioramenti nei servizi alla persona esistenti sul territorio e sperimentare servizi innovativi sempre più rispondenti ai bisogni emergenti”.5

Ma in che cosa è consistita questa esperienza in Valdelsa? In sostanza nell’attivazione di un gruppo - denominato Gruppo tecnico operativo della Carta di cittadinanza (Gto) - di oltre trenta persone, composto da amministratori, tecnici, rappresentati del volontariato, delle cooperative sociali e degli altri organismi sociali della Zona6 che, nell’arco del periodo 2001-2002, si è incontrato per elaborare una carta finalizzata alla “tutela dei diritti di cittadinanza, per la promozione del benessere sociale, avente lo scopo di creare nei cittadini una consapevolezza dei loro bisogni e delle strategie utilizzabili per affrontarli e superarli”.7

5 Pdz dell’Alta Valdelsa 2002-2004, p. 48. 6 Componevano il Gto i 5 assessori alle politiche sociali dei Comuni della Zona, 3 responsabili e operatori dei servizi sociali (che facevano parte anche della Segreteria tecnica della Conferenza zonale dei Sindaci) un funzionario dell’Asl 7 di Siena, 8 responsabili di cooperative sociali e onlus, 6 responsabili di associazioni di volontariato, 2 rappresentanti dei sindacati, 2 referenti di enti confessionali, 2 funzionari del Ministero della Giustizia (coinvolti per affondare le problematiche connesse alla presenza nella zona di un istituto carcerario) un responsabile di Centri anziani, un operatore dell’Osservatorio sociale provinciale e un funzionario della Cna. 7 Carta per la Cittadinanza Sociale della Zona Alta Valdelsa in Pdz dell’Alta Valdelsa 2002-2004, 2.5, p.11.

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Se nel suo complesso il lavoro del Gto si è snodato lungo tre fasi relative:

- alla definizione dei principi che avrebbero dovuto ispirare una nuova cittadinanza sociale in Valdelsa (che ruotavano attorno all’idea di un cittadino “investito di responsabilità dirette in ordine alla propria salute fisica e sociale”)

- alla costruzione della mappa delle risorse e dei servizi esistenti e

- alla comunicazione, soltanto abbozzata in questo caso, dell’esperienza complessiva della Carta;

occorre sottolineare che esso ha trovato uno dei suoi principali assi di riflessione nel tratteggiare una visione nuova dei servizi in Valdelsa che, in corrispondenza con i tratti che avrebbero dovuto connotare il nuovo cittadino, si intendeva caratterizzare non soltanto sul versante dell’assistenza, ma anche su quello relativo alla promozione del protagonismo dei soggetti individuali e collettivi, così da essere maggiormente in grado di “confrontarsi con i principi della trasparenza, del grado di soddisfazione dei cittadini, dell’efficacia delle prestazioni, della chiarezza del percorso di accesso…” che avrebbero dovuto “muovere e regolare le linee di politica sociale della zona”.8 In questa prospettiva il Gto perveniva alla messa a punto di una serie di criteri per la definizione di “un servizio di qualità” da applicare ai servizi della zona in vista del loro miglioramento.

Al di là della difficoltà lamentata da alcuni componenti del Gto nel portare a termine il compito previsto dalla terza fase - legato alla difficoltà a trasmettere il senso di un impegno piuttosto complesso legato allo sforzo di ripensare i servizi della zona9 - è importante sottolineare questa esperienza che sotto molti aspetti sembra davvero “aver posto le basi per il successivo lavoro di costruzione del Pdz” concentrando in qualche modo nel Gto tutti i soggetti che avrebbero poi dato vita al Piano. Se questo è innanzitutto da ravvisare in un lavoro che ha coinvolto le diverse componenti della zona, deve essere sottolineata soprattutto la natura di questa esperienza che ha mobilitato le persone non tanto sul fare quanto sulla elaborazione di un nuovo pensiero sui servizi che prevedeva l’allargamento del campo dei suoi progettisti. In questo senso, come si ricava anche dalla confluenza del Gto nel Tavolo della Concertazione, l’esperienza della Carta di Cittadinanza deve essere concepita come l’esperienza che sta all’origine e connota tuttora quella del Pdz anche se l’angolatura e il senso di questa relazione possono essere chiariti soltanto se apriamo il discorso su un’altra vicenda che si sviluppa nello stesso periodo.

4.3 Le ricadute della riforma dell’Asl

La vicenda è quella connessa alle trasformazioni dell’impianto organizzativo di tutto il comparto sanitario nell’Alta Valdelsa come in tutto il senese ed in Toscana, che sembrano aver avuto ricadute significative anche 8 Pdz dell’Alta Valdelsa 2002-2004, p. 48. 9 “La carta doveva essere uno strumento in cui non si intendeva inserire solo un elenco di servizi con orari e riferimenti, ma dove si sarebbe voluto spiegare che cosa sono i servizi, a chi si rivolgono, perché, quali risorse prevedono…”

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rispetto alla possibilità effettiva degli Enti Locali di esercitare la loro responsabilità in ordine alla programmazione dei servizi sociali. La trasformazione viene infatti letta in una prospettiva che tende ad emanciparsi rispetto alla nuova dimensione di progettazione e di governo dei servizi sociali che si intendevano conferire alla zona. Da un lato l’aziendalizzazione dell’Usl sarebbe foriera di una doppia linea di governo dei servizi che risponde a orientamenti e criteri differenti (“finchè l’usl era un braccio operativo dell’associazione intercomunale era chiaro che non c’era incoerenza tra quelli che erano gli indirizzi e quella che era la gestione perché in ogni caso c’era un’unica realtà, il cervello era uno solo. Con l’aziendalizzazione i cervelli si sono invece separati…”) e dall’altro il passaggio, nel 2001, dalla dimensione zonale dell’Usl a quella provinciale dell’azienda elide profondamente i margini di governo dei Comuni: “Con l’Asl a dimensione provinciale non si sono separati solo cervelli ma si sono separati anche i bilanci, quindi la fetta di bilancio che i Comuni mettono a disposizione per la gestione dei servizi entra dentro il bilancio dell’azienda e lì tende a perdersi… perché c’è un bilancio sociale degli interventi che comunque è quello della provincia di Siena e quindi non soltanto diventa difficile concordare gli indirizzi e concordare gli obiettivi ma diventa difficile anche poi la gestione oggettiva del bilancio”. Prende forma nella zona una prospettiva critica piuttosto diffusa del “modello di gestione aziendale”10

reputato sia in difficoltà nel calibrare i suoi interventi a livello territoriale (difficoltà che risulterebbe accresciuta dalla recente attivazione delle aree vaste, ossia con l’estensione del territorio di competenza dell’Asl alle tre province di Arezzo, Grosseto e Siena) e nel prevedere margini di manovra e flessibilità, sia foriero di una messa fuori causa delle amministrazioni comunali rispetto al controllo e alla gestione ottimale delle loro risorse.

4.4 Due linee in tensione

La trasformazione dell’Asl getta una luce maggiore sul contesto nel quale prende forma il lavoro sui Piani di zona, nel senso che tra il 2001 e il 2002 sembrano prendere forma e svilupparsi in Valdelsa, con una singolare sincronia, due diverse prospettive sulla progettazione e la gestione dei servizi sociali. Da un lato abbiamo l’esperienza - promossa dalla Regione Toscana - della Carta di Cittadinanza, i cui risultati sono quelli della produzione di una nuova visione dei servizi (più legati alla promozione del benessere che all’assistenza) e del ruolo significativo che in essa deve giocare la comunità locale, dall’altro la riforma sanitaria che sulla produzione dei servizi tende a prospettare una visione che si allontana dalla zona e a ridurre il ruolo dei soggetti che la abitano. È - a nostro avviso - in questo contesto caratterizzato dalla tensione tra due diverse linee di sviluppo dei servizi e della loro integrazione (zonale e sovraprovinciale) acutizzata dal particolare lavoro elaborativo svoltosi all’interno del Gto in rapporto ai principi e alla qualità dei servizi, che prende forma l’esigenza di “una riappropriazione visibile da parte della Zona”, soprattutto nelle sue componenti amministrative e sociali, “di tutta

10 Pdz dell’Alta Valdelsa 2002-2004, 3, 3.2.

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una serie di interventi”. È insomma dentro questa esigenza che, a nostro avviso, devono essere considerati sia un certo ripensamento critico della delega generale all’Asl (che pare contenere già in sé l’idea di un suo superamento) sia l’avvio dei Piani di Zona, due vicende che si muovono in una unica prospettiva e che tuttavia rimarranno su linee parallele.

5. Il Piano sociale d’ambito: orientamenti di fondo, livelli e processi di lavoro

5.1 L’assetto organizzativo per l’elaborazione del Piano Sociale di Zona 2002-2004

All’interno del Pisr 2002-2004 (Piano Integrato Sociale Regionale) lo strumento regionale per la programmazione sociale, che recepisce le istanze della 328/00, si fa esplicito riferimento ai percorsi attivati nelle zone riguardanti la Carta della Cittadinanza, in vista del nuovo lavoro da impostare per l’elaborazione del Piano di Zona 2002-2004. Ciò significa che il nuovo processo di programmazione partecipata che doveva elaborare il Piano di Zona nell’Alta Valdelsa non viene concepito e non si intende presentare come qualcosa di interamente nuovo, ma come il proseguimento di un discorso già iniziato, da cui trarre frutti per il lavoro a seguire. E in effetti in Valdelsa l’assetto organizzativo necessario per elaborare il Piano, prende forma a partire dagli organismi che avevano operato per l’elaborazione della Carta di Cittadinanza, ed in particolare da quello che ne era stato in un certo senso il cuore, ossia il Gruppo Tecnico Operativo (Gto) trasformato, nell’ambito del Piano di Zona, nel Tavolo di Concertazione.

In sintesi, i luoghi significativi per la costruzione del Piano di Zona 2002-2004 sono stati:

- l’articolazione zonale della Conferenza dei Sindaci: ossia l’organismo composto dai sindaci dei cinque Comuni dell’Alta Valdelsa, che a livello locale corrisponde alla “Conferenza dei Sindaci” che riunisce tutti quelli dei Comuni della Provincia;

- il Tavolo alto della Concertazione, composto dall’articolazione zonale della Conferenza dei Sindaci, dalla Provincia e dall’Asl;

- il Tavolo della Concertazione: composto dal Tavolo alto della Concertazione a cui partecipano i cittadini nelle loro rappresentanze, il terzo settore, i rappresentanti di Enti e organismi a diverso titolo interessati dalle politiche sociali e al benessere dei cittadini (scuola, lavoro, casa, ecc.) l’Osservatorio sociale provinciale e la Segreteria tecnica. Da specificare il fatto che si tratta di un tavolo unico, nel quale vengono trattate tutte le aree tematiche più specifiche.

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La Segreteria tecnica: già costituita in seguito a quanto previsto dalla L. R. 72 del ’97, nel caso dell’Alta Valdelsa è composta da:- la Coordinatrice Sociale della zona socio-sanitaria (Asl): che svolge anche

la funzione di coordinamento rispetto ai lavori della Segreteria tecnica ed è inoltre responsabile di due Unità funzionali, quella del Segretariato Sociale e quella dei Presidi Socio-sanitari;

- un’operatrice che ha seguito in particolare la relazione sociale della zona (in collaborazione con l’Osservatorio sociale provinciale) e il monitoraggio dei progetti;

- il responsabile del Distretto Sanitario; - i responsabili dei Servizi Sociali dei Comuni di Poggibonsi, Casole d’Elsa,

Colle Valdelsa e San Gimignano; - un funzionario amministrativo dell’Azienda Usl; - il responsabile del Sistema Informatico dell’Azienda Usl; - un operatore dell’Osservatorio Sociale Provinciale.

Al riguardo segnaliamo che in occasione di particolari temi possono essere coinvolti anche altri soggetti (quali ad esempio: alcuni funzionari del Ministero di Giustizia, la direzione del Carcere di Ranza, alcuni Presidi e i responsabili di Cooperative sociali) anche se occorre tenere presente che di norma il lavoro della segreteria viene svolto dalle sole prime due figure indicate qui sopra.

5.2 Il processo di elaborazione del Piano di Zona

Proviamo ora a fornire uno schema che tenta di prospettare il ciclo della costruzione del Pdz che si sviluppa nel periodo settembre-dicembre 2002.

Fig. 1

Conferenza zonale dei Sindaci

Progettazione

Tavolo alto della concertazione Tavolo di concertazione

Tavolo alto della concertazione

Segreteria tecnica e Osservatorio sociale

provinciale

Tavolo alto della concertazione

Realizzazione

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Il processo prende avvio con una fase istruttoria, costituita da uno scambio di informazioni e un successivo lavoro di integrazione e aggiornamento della relazione sociale della Zona dell’Alta Valdelsa del 2001 (che include una mappa dei servizi e delle risorse) realizzata grazie ad una collaborazione tra la Segreteria tecnica e l’Osservatorio Sociale Provinciale e con il contributo di altre realtà della zona specializzate nella raccolta e nella elaborazione dei dati. Anche sulla base di questo materiale la Conferenza dei Sindaci mette a punto il percorso complessivo della costruzione del Piano, le forme e i soggetti della concertazione. In seguito viene attivato il Tavolo alto della Concertazione che sulla base della relazione mette a punto una prima ipotesi circa le priorità del Piano, vale a dire gli obiettivi strategici o di sistema e quelli connessi alle singole aree d’intervento.

Questa ipotesi viene successivamente presentata e discussa nel Tavolo di Concertazione, che nel 2002 ha apportato riformulazioni significative all’ipotesi di lavoro, come l’ampliamento di tutto il settore dell’assistenza domiciliare e l’introduzione della progettazione di una casa-famiglia nell’ambito del filone “Dopo di noi” del settore disabilità. A questo punto il Piano torna nella mani del Tavolo alto che definisce indirizzi e priorità all’interno dei quali la Segreteria tecnica elabora un Bando per la presentazione (da parte dei soggetti previsti dall’art. 1 della 328/2000) di Progetti Innovativi da inserire nel Piano di Zona.

Fa seguito infine una fase tutta dedicata alla formalizzazione e presentazione del Piano, secondo i seguenti passaggi: - il Tavolo alto della Concertazione approva i progetti da finanziare

nell’ambito del Bando e più complessivamente tutto il Piano; - viene effettuata una Conferenza stampa di presentazione del Piano di Zona

(che vede la partecipazione della Conferenza dei Sindaci e dell’Asl); - viene definito un Piano di Comunicazione del Piano di Zona; - infine, il Tavolo Alto della Concertazione firma l’Accordo di Programma, e - realizza una seconda presentazione pubblica del Piano di Zona e del

Progetto Carta per la Cittadinanza.

Proviamo ora a formulare alcune riflessioni.

Centralità del livello politico. La prima osservazione che intendiamo fare è relativa al ruolo davvero centrale che nel Pdz dell’Alta Valdelsa assume il livello politico della Conferenza zonale dei Sindaci che finisce per essere presente in molti luoghi di costruzione del Piano. Se ci pensiamo bene è la Conferenza che lo pensa e lo organizza, ne determina gli indirizzi e le priorità all’interno del Tavolo alto e ne riformula parti e orientamenti concertando all’interno del Tavolo di concertazione, mantenendo un contatto significativo e in certa misura costante con la cittadinanza che in vari momenti della elaborazione del Piano viene chiamata a prendere visione e discutere al riguardo. Deve cioè essere sottolineata questa plurifunzionalità, versatilità del livello politico che sembra un po’ caratterizzare l’esperienza del Pdz della Valdelsa rispetto agli altri presi in considerazione e che a nostro avviso non può essere semplicemente collegata alle dimensioni circoscritte della Zona che rappresenterebbero un motivo favorente.

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Come abbiamo cercato di mostrare, tale caratteristica si collega invece da ultimo a un’esperienza di cittadinanza attiva all’interno della quale era stata elaborata una nuova visione dei servizi che prevedeva il protagonismo dei soggetti locali e finiva per interagire con un orientamento di segno opposto assunto dall’Asl con la sua evoluzione a dimensioni provinciali e sovraprovinciali. È all’interno di questa tensione tra le comprensioni maturate con l’esperienza della Carta di cittadinanza e le modalità di attuazione della riforma sanitaria che nasce l’esigenza di una “riappropriazione della gestione dei servizi” nell’ ottica sia di orientarli nella prospettiva promozionale elaborata nella Carta, sia di “rendere effettivo e visibile quel ruolo di controllo e verifica che l’ente locale deve svolgere per conto dei cittadini” che la nuova dimensione provinciale dell’Asl non sembra consentirgli. Da questo punto di vista si può forse affermare che il Pdz ha rappresentato per l’Alta Valdelsa il terreno di una prima forma di riappropriazione della rete dei servizi sociali da parte dei Comuni della Zona, una riappropriazione ancora circoscritta, stante il regime di delega all’Asl, alla sola fase della programmazione.

Ruolo della società civile. Il secondo aspetto da sottolineare è sicuramente quello dell’importanza del ruolo giocato dalla società civile che, nel ciclo di lavoro del Pdz, trova il suo spazio principale all’interno del Tavolo di concertazione. Come abbiamo accennato si è trattato di un tavolo che ha lavorato prevalentemente sugli indirizzi e le priorità da dare al Piano, ma anche di un tavolo dove si è cercato di “condividere un nuovo modo di leggere il sociale, di ricondividere un’idea del sociale che non è solo il sociale degli assessorati alle disgrazie, ma anche quello della promozione del benessere…”. In altri termini potremmo dire che si è trattato di un lavoro di aggiustamento e riformulazione delle priorità che ha potuto svilupparsi all’interno di una riflessione più ampia legata ad una nuova visione delle forme di produzione dei servizi nella Zona. Come si ricorderà, si tratta in sostanza del lavoro di elaborazione realizzato negli anni precedenti dal Gto il quale lo ha in seguito introdotto in quello del Tavolo di concertazione. Grazie a questa particolare prospettiva, quest’ultimo ha potuto interagire con quella dimensione degli orientamenti e degli indirizzi (e non degli interventi) posseduta dal materiale che gli perveniva dal Tavolo alto. È pertanto in questa collaborazione tra Tavolo alto, e in esso, soprattutto la Conferenza zonale dei Sindaci, e Tavolo di concertazione che deve esse ravvisato il vero punto di tenuta del lavoro relativo al Pdz del’Alta Valdelsa, una collaborazione che in questa fase tende un po’ a configurarsi - in virtù della fattiva alleanza tra il livello degli amministratori e la società civile - come una sorta di nuovo Gto adattato alle esigenze del tempo dei Pdz!

Rafforzare/non rafforzare il livello tecnico. Un terzo aspetto da sottolineare è - rispetto al ruolo rilevante della Conferenza di zona e della società civile - una certa debolezza del livello tecnico, sicuramente da collegarsi anche alle risorse che operano nella Segreteria tecnica che sono circoscritte alla sua Coordinatrice la quale, come abbiamo visto, concentra in sé all’interno dell’Asl molte altre funzioni e ad una collaboratrice che opera nella Segreteria. Si tratta di una percezione presente tra gli attori del Pdz che è stata ripetutamente

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segnalata nelle varie edizioni del piano in una sorta di crescendo. L’obiettivo di una maggiore funzionalità della Segreteria tecnica - nel quadro di un consolidamento complessivo dell’assetto organizzativo del Pdz - è infatti presente all’interno degli otto obiettivi di sistema indicati nel PdZ del 2002,11 e diventa il primo delle tre priorità di sistema segnalate nelle annualità del 200312

e del 2004.13 Nonostante ciò la situazione è rimasta all’incirca quella del 2002. Come mai questo mancato investimento a fronte di una segnalazione così puntuale? Di fatto la situazione è più complessa perché si connette allo sforzo orientato al superamento della delega che affronteremo nell’ultimo paragrafo.

Progettazioni separate. Un ulteriore aspetto è quello connesso alla promozione della progettazione da parte del Terzo settore per la quale, come abbiamo visto, s’introduce il meccanismo del bando. Il che prospetta una situazione particolare, in qualche modo peculiare al Pdz dell’Alta Valdelsa che, a differenza di altri contesti, configura il lavoro che si svolge tra il Terzo settore e il pubblico sul livello della concertazione degli indirizzi e delle priorità piuttosto che su quello della progettazione di interventi specifici. Insomma si concerta insieme, ma si progetta separati tramite l’introduzione di un bando per i progetti elaborati dal Terzo Settore. All’interno di questa opzione il lavoro comune che si è potuto effettuare tra la Segreteria tecnica e i gestori dei progetti si è realizzato sul piano del monitoraggio, che è stato un’occasione sia per seguire passo passo i nuovi progetti, sia per sviluppare la collaborazione, e far dialogare più parti assieme (i Servizi Sociali, le cooperative sociali, le associazioni di volontariato, le scuole, ecc…) tanto che di annualità in annualità alcuni soggetti del privato sociale hanno scelto di mettersi assieme, realizzando in tal modo alcune prime forme d’integrazione all’interno del settore.

Ci preme però segnalare che recentemente è stato avviato un “gruppotecnico-politico” composto da due assessori, la Segreteria tecnica e alcuni rappresentanti delle cooperative sociali per l’elaborazione di un progetto nel settore dei minori che sembra gettare un ponte tra le due progettazioni ancora separate del pubblico e del privato-sociale.

Un buon partner: l’Osservatorio sociale provinciale. L’ultima considerazione la riserviamo alla collaborazione che si è instaurata tra la Segreteria tecnica e l’Osservatorio sociale della Provincia di Siena. Diciamo questo non soltanto per il materiale prodotto, che cerca effettivamente di entrare al fondo di una lettura sociale della Zona (specie con l’Aggiornamento del 2004) quanto per la modalità di lavoro che ha visto una ricerca e un’analisi progettata e condotta in comune tra i due ricercatori concordando prospettive e aspetti specifici da prendere in considerazione, in modo cioè da costituire una vera particolarità tra le esperienze che abbiamo esaminate.

11 Pdz dell’Alta Valdelsa, annualità 2002, 4.1. 12 Pdz dell’Alta Valdelsa, annualità 2003, 4.1. 13 Pdz dell’Alta Valdelsa, annualità 2004, 4.1.

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6. Carte, Piani e Fondazioni: un cammino per la costruzione della zona

In quest’ultimo paragrafo facciamo un passo indietro per spendere alcune parole sull’altra vicenda che corre parallelamente a quella dei Piani di zona. Ci riferiamo all’esigenza che, a partire dall’esperienza della Carta di cittadinanza, matura in ordine ad un superamento dell’assetto dei servizi centrato sulle deleghe all’Asl in modo da poter corrispondere alla costruzione di una prospettiva di produzione dei servizi maggiormente incentrata sull’apporto dei soggetti locali. La questione è in pratica quella della ricerca di una forma da dare alla gestione integrata dei servizi al momento del ritiro delle deleghe, che riavvicini servizi e Zona prevedendo un ruolo più significativo dei soggetti del suo territorio, a partire da quello proprio all’ente locale.

Prende avvio così nel 2003 lo studio sulle modalità per effettuare il ritiro delle deleghe, che si conclude con la individuazione di una Fondazione di partecipazione, amministrata dai Comuni della Zona ed in grado di utilizzare anche fondi non provenienti da questi. Ad essa si conferisce il mandato di mettere in piedi una nuova struttura dei servizi sociali, poiché, dopo il lungo periodo caratterizzato dalle deleghe all’Asl, non sembra possibile confidare in ‘riserve’ di organizzazione presenti all’interno dei Comuni. A questa complessa vicenda è probabilmente da collegare il ‘mancato’ rafforzamento della dimensione tecnica all’interno del Pdz (la Segreteria tecnica) vale a dire al fatto che questo rafforzamento, agli occhi degli amministratori della zona, doveva ormai connettersi direttamente all’attivazione di un nuovo soggetto per la gestione e non a sostenere un organismo come la Segreteria tecnica che continuava ad operare all’interno all’assetto centrato sulle deleghe all’Asl.

Nello stesso tempo questo nuovo assetto sembrerebbe prospettare, agli occhi degli amministratori della Zona, un ruolo più significativo dei Comuni all’interno delle Società della salute, un organismo recentemente previsto dalla Regione Toscana come forma innovativa di gestione unitaria dei servizi sociali e sanitari organizzati e governati dai Comuni e dall’Asl in forma integrata.

Con la Fondazione sembra dunque, almeno dal punto di vista del disegno, essere giunta a compimento l’idea di costruire una nuova rete dei servizi della Zona centrata sul protagonismo dei soggetti del territorio. Concepita con la Carta di cittadinanza e praticata - sul versante della programmazione - nell’esperienza dei Piani di zona questa idea dovrebbe ora estendersi con la Fondazione anche al versante della gestione…Resta da vedere se questa nuova fase che si apre nell’Alta Valdelsa sarà in grado, come lo sono stati i Pdz rispetto all’esperienza della Carta di Cittadinanza, di recepire e valorizzare i contributi e gli apporti delle importanti esperienze precedenti.

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BARLETTA, L’INTEGRAZIONE IN CONTESTO MONOCOMUNALE14

1. Il contesto territoriale e quello legislativo: alcuni elementi di quadro

1.1Contesto territoriale

Comuni che compongonol’ambito distrettuale

L’ambito distrettuale è composto dal solo Comune di Barletta

Forme di amministrazione che coinvolgono più Comuni (Associazioni, Unioni, Comunità montane, …)

Non presenti

Provincia di

Attualmente il Comune di Barletta è situato nella provincia di Bari. Nei prossimi mesi, però, diverrà operativa la nuova Provincia di Andria, Barletta e Trani istituita di recente (un territorio che comprende circa 400 mila abitanti).

Popolazione 93.309 abitanti al 31 dicembre 2004

Superficie 146,9 kmq

Densità abitativa 635,2 abitanti per kmq (dato che colloca il Comune di Barletta tra i territori più urbanizzati d’Italia)

Ambito/Zona eDistretto sanitario dell’Asl

Il territorio del Comune di Barletta coincide col territorio del distretto socio-sanitario n. 1 dell’Asl BA/2. All’Asl BA/2 appartengono anche i Comuni di Bisceglie e di Trani (distretto socio-sanitario n. 2) e i Comuni di Giovinazzo e di Molfetta (distretto socio-sanitario n. 3).

Patti territoriali

Il Comune di Barletta aderisce al Patto Territoriale per l’Occupazione Nord/barese Ofantino. Il territorio del Patto rappresenta uno dei distretti produttivi più dinamici del Mezzogiorno, nonché una delle aree della Puglia dove più alta è la crescita demografica. Il Patto comprende 8 Comuni della provincia di Bari (Andria, Barletta, Bisceglie, Canosa di Puglia, Corato, Minervino Murge, Spinazzola, Trani) e 3 Comuni della provincia di Foggia (Margherita di Savoia, San Ferdinando di Puglia, Trinitapoli).

14 Il presente testo è stato elaborato sulla base a) di un incontro di lavoro effettuato a Barletta il 30 giugno 2005 al quale hanno preso parte Maria Dettori, dirigente del settore Servizi sociali del Comune, Ines Sgarra, coordinatrice dell’Ufficio di Piano e Marina Ruggiero, sociologa, appartenente all’Ufficio di Piano (le parti riportate tra virgolette in corsivo sono state pronunciate nel corso dell’incontro dalle persone su indicate); b) dell’analisi del documento del Piano Sociale dell’ambito 2005-2007; c) dell’analisi dei documenti indicati al punto 1.2.

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1.2 Contesto legislativo

Quadri normativi regionalidi sistema ai qualisi connette il Piano sociale d’ambito

L.R. n. 17 del 25/8/2003 “Sistema integrato d’interventi e servizi sociali in Puglia”

Regolamento di attuazione della L.R. n.17 del 25/8/2003 approvato dalla Giunta regionale con Delibera n. 1199 del 4/8/2004

Piano regionale delle Politiche sociali (in attuazione della L.R. n.17 del 25/8/2003) approvato dalla Giunta regionale con Delibera n. 1104 del 4/8/2004

Si tratta di atti che per la prima volta disciplinano un complesso di attività sociali: in precedenza la Puglia non aveva adottato legislazioni di riordino dei servizi sociali (come avvenuto negli anni 80 e poi negli anni 90 in altre regioni) ma aveva disciplinato solo politiche sociali di settore.

Piano sociosanitario regionale

Piano sanitario regionale 2002/2004 (DGR 2087 del 27/12/2001) approvato, perciò, quando ancora non era presente una legge regionale di riordino dei servizi sociali

2. Assetti e forme di gestione dei servizi sociali

Assetti e forme di gestione dei servizi sociali (i rapporti tra i Comuni, tra Comuni e Asl, …): la situazione presente, i cambiamenti recenti, le prospettive future

Oggi (e così pure negli anni passati) gli interventi socio-assistenziali sono gestiti dal Comune, mentre le prestazioni socio-sanitarie caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria competono all’Asl. Il Piano sociale d’ambito prevede l’avvio nei prossimi anni di diverse forme d’integrazione a più livelli - istituzionale, organizzativo, professionale - tra Comune e Asl, così come richiesto dalla L. 328 e dalle recenti norme regionali.

3. Il Piano sociale d’ambito: orientamenti di fondo, livelli e processi di lavoro

3.1 Il contesto regionale

Come risulta dai dati riportati al punto 1.2, il lavoro sul Piano sociale a Barletta si colloca in un contesto di provvedimenti regionali sui Piani sociali di recente approvazione (Legge regionale dell’agosto 2003, Regolamento d’attuazione e Piano regionale dell’agosto 2004): ne deriva che il Piano sociale 2005-2007 è stato il primo Piano attorno al quale si sono cimentati gli ambiti territoriali, i quali a loro volta costituivano una novità per un territorio regionale dove “i Comuni erano poco abituati a lavorare tra di loro riguardo ai servizi sociali”.

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Dal momento che la somma di queste novità sul piano legislativo avrebbe richiesto un particolare sforzo di ricezione ai Comuni, la Regione ha stabilito due fasi di lavoro per la definizione dei Piani sociali 2005-2007:

- nella prima si trattava di elaborare analisi dei problemi, strategie, priorità e bilancio economico; tale fase avrebbe dovuto concludersi entro ottobre 2004, ma in seguito il termine è slittato al febbraio 2005;

- nella seconda si chiedeva di presentare una scheda progetto per ogni servizio previsto dal Piano; inizialmente la conclusione di tale fase di lavoro era prevista per dicembre 2004, in seguito anche questo termine è stato spostato a data ancora da definire.

L’articolazione in due fasi di lavoro, lo slittamento dei termini sono indici della difficoltà in cui si sono trovati diversi Comuni della regione: “vi sono ambiti territoriali che non hanno ancora presentato il documento della prima fase […] le difficoltà maggiori si sono riscontrate in quegli ambiti territoriali composti da più Comuni […] diversi Comuni hanno continuato a lavorare per proprio conto […] perché il sistema possa entrare a regime ci vorranno più di tre anni ...”.

3.2 L’idea che anima il lavoro sul Piano sociale…

Rispetto al quadro regionale il Comune di Barletta si è potuto muovere in una situazione locale apparentemente più semplificata per il fatto di costituire il solo Comune presente nell’ambito territoriale.

Tale situazione ha probabilmente favorito la progressiva costruzione di un’idea circa il senso del lavoro da compiere, che si è fatta spazio sia all’interno del Comune sia nel territorio e ha guidato (e sta guidando) il lavoro che si effettua sul Piano sociale.

Questa idea ci è stata espressa in questi termini:

“a differenza di certe zone (anche di altre regioni) in cui si tende a guardare al Piano sociale come ad un’occasione per utilizzare nuove (anche se piccole) risorse economiche, senza introdurre nuove modalità di lavoro col territorio e all’interno dell’ente pubblico, a Barletta ci si è mossi nella prospettiva di un Piano sociale che potesse consentire:

di realizzare politiche e interventi sociali partendo dal basso, aprendo ai gruppi e ai cittadini e

allo stesso tempo di introdurre cambiamenti negli assetti organizzativi interni al Comune di Barletta nel settore dei Servizi sociali”.

Tutto ciò all’interno di una particolare concezione del ruolo Comune nel Piano sociale, che ha preso forma e si è resa evidente nel corso del lavoro.

Questa rappresentazione del senso del lavoro sul Piano sociale è accompagnata da una certa consapevolezza circa i vantaggi, i rischi e anche gli investimenti necessari:

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“partire dal basso consente di capire meglio i problemi, permette al Comune di ricevere un consenso più ampio alle proprie decisioni […] ma c’è il rischio di alimentare attese che potrebbero andare deluse […] soprattutto se non si curano bene i processi di lavoro attivati […]: è per questo che si tratta di investire sull’organizzazione interna del Comune, per poter esercitare nuove funzioni verso il territorio e al proprio interno …”.

Come si può notare i responsabili del Comune tracciano una connessione tra nuove forme di lavoro col territorio e gli assetti interni del Comune, che sembravano richiedere un ripensamento per sostenere il nuovo lavoro che si andava prospettando. Ma prima di addentrarci in queste nuove forme di lavoro e nelle riformulazioni interne, è importante soffermarci sul ‘come’ ha preso forma questa rappresentazione del senso del lavoro sul Piano sociale.

3.3 …e come essa ha potuto prendere forma dentro il Comune e nel territorio

L’idea di innovare le modalità di lavoro riguardo alle politiche sociali ha cominciato a farsi strada all’interno delle attività legate al Piano strategico15

della Città di Barletta.

All’interno di questo Piano (che si è protratto sino ai primi mesi del 2004 precedendo immediatamente l’avvio del Piano sociale) il settore Servizi sociali del Comune - che da poco aveva visto l’ingresso di una nuova dirigente - ha potuto realizzare un confronto approfondito con altri settori del Comune e con il Sindaco sui problemi sociali del territorio e sulle prospettive che si aprivano dopo la recente approvazione della legge regionale di riordino dei servizi sociali.

Il lavoro interno è stato accompagnato da vari momenti di confronto con la cittadinanza (forum cittadini, tavoli di lavoro tematici) grazie ai quali le organizzazioni e i cittadini coinvolti “si sono un po’ abituati ad essere convocati dal Comune non per l’assegnazione di progetti o contributi, ma per svolgere un ragionamento sui problemi e le priorità della città”.

In tal modo il Piano strategico prepara la strada al Piano sociale: all’interno dell’amministrazione comunale e sul territorio le politiche sociali cominciano ad essere maggiormente dibattute, cresce l’attenzione su di esse…

In questo senso l’idea di Piano sociale che ‘apre ai cittadini e introduce cambiamenti dentro il Comune’ non costituisce un’idea isolata o ‘di settore’, bensì una prospettiva che si guadagna un riconoscimento diffuso, sociale già nella fase che ne precede l’avvio… e che “andava confermata nei fatti”, attraverso un’impostazione coerente del lavoro sul Piano.

15 Si è trattato di un lavoro che ha coinvolto amministrazione comunale, attori significativi del territorio, cittadini in un percorso articolato di analisi, costruzione di strategie e programmi d’azione relativi ad ambiti quali cultura e identità locali, economia e attività produttive, welfare, ambiente e territorio, governo locale.

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3.4 Com’è stato costruito il Piano sociale

Il Piano sociale di Barletta si caratterizza per il particolare lavoro svolto tra diversi attori e per i vari livelli rispetto all’analisi dei problemi e all’elaborazione delle strategie e delle priorità.

Il coinvolgimento dei primi non si è prodotto attorno alla costruzione di specifici progetti d’intervento - che la Regione richiedeva soltanto in un secondo tempo - ma in ordine alla costruzione di visioni maggiormente integrate e approfondite dei problemi del territorio e delle scelte più adeguate da compiere.

Il primo passo di questo processo (settembre 2004 – febbraio 2005) è stata la conferenza cittadina (settembre 2004) due giorni di lavoro articolato in cinque tavoli tematici: responsabilità familiari e inclusione sociale; minori, giovani, contrasto all’abuso e maltrattamento; contrasto alla devianza e alle dipendenze; anziani; disabilità e salute mentale. I tavoli erano composti da rappresentanti delle varie organizzazioni pubbliche e private, oltre che da cittadini interessati ai temi trattati, e sono stati condotti in alcuni casi da personale del settore Servizi sociali del Comune e in altri da personale del Comune appartenente ad altri settori, una collaborazione questa che ha rappresentato un altro segnale della ricerca di un coinvolgimento delle varie parti dell’Amministrazione comunale sui temi delle politiche sociali. I tavoli hanno svolto il proprio lavoro a partire dai materiali elaborati all’interno del Piano strategico, proseguendo il confronto già avviato sui problemi sociali della città e individuando orientamenti e prospettive di lavoro per ognuna delle aree tematiche.

Alla conferenza cittadina ha fatto seguito un periodo di circa due mesi in cui è stata realizzata una serie di ‘incontri bilaterali’ tra il settore Servizi sociali del Comune e i responsabili di diverse organizzazioni del territorio.16

Questi incontri hanno consentito ai vari soggetti coinvolti di conoscere meglio il funzionamento, le prospettive e i vincoli delle organizzazioni che avevano di fronte e di iniziare a mettere a fuoco alcuni ambiti di impegno comune tra i molti che erano stati segnalati nell’ambito della conferenza cittadina. Da questi incontri sono emerse le priorità d’intervento inserite successivamente nel testo del Piano sociale.

Tra novembre e dicembre 2004 è stato redatto il testo del Piano sociale,17 il quale è stato approvato dal Coordinamento Istituzionale e poi presentato al

16 Si è trattato di: tre incontri con l’Asl (presenti mediamente 15 persone ad incontro, tra responsabili e operatori di Comune e Asl); tre con la Provincia (presenti mediamente 7 persone ad incontro, tra responsabili e operatori di Comune e Provincia); un incontro con gli Istituti scolastici (presenti 11 persone, tra responsabili del Comune e dirigenti e insegnanti di 7 scuole); uno con le Organizzazioni sindacali (presenti 13 persone, tra responsabili del Comune e rappresentanti di 9 organizzazioni sindacali); uno col Tribunale dei minorenni; uno con la Diocesi; un altro con un’Ipab. 17 Il testo si distingue per la presenza di una parte ampia di dati socio-demografici e dati relativi al sistema di offerta e all’utenza di diversi ambiti d’intervento (famiglia, abuso e maltrattamento, minori, giovani, anziani, disabili, salute mentale, contrasto alle povertà, dipendenze, immigrati). Per ogni ambito è presente anche una serie di obiettivi da perseguire nel triennio anche se: “forse si tratta di un’elencazione un po’ troppo ampia - riconoscono a Barletta - … non tutto si

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territorio all’interno di una seconda conferenza cittadina svoltasi dopo la metà di dicembre. All’inizio di febbraio 2005 il Piano sociale è stato approvato dal Consiglio comunale e quindi presentato in Regione.

3.5 L’individuazione di un assetto di funzionamento del Piano sociale

Gli ultimi mesi del 2004 sono serviti a istituire due importanti livelli dell’architettura del Piano sociale: si tratta del Coordinamento Istituzionale e dell’Ufficio di Piano ossia degli organi di governo politico e tecnico del Piano, nei quali il Comune assume un ruolo particolarmente rilevante.

Infatti, se nelle indicazioni della Regione il Coordinamento Istituzionale doveva essere composto dal Sindaco, dal Direttore dell’Asl e dal Presidente della Provincia, a Barletta tale organo viene fatto coincidere con l’intera Giunta del Comune (ulteriore segnale di come il Piano sociale debba coinvolgere tutto il Comune) la quale solo nei momenti in cui vengono discussi aspetti del Piano sociale che riguardano anche l’Asl o la Provincia è estesa ai rappresentanti di tali organizzazioni.

Anche l’Ufficio di Piano è stato istituito (con una delibera della Giunta comunale riunita in qualità di Coordinamento Istituzionale) come un ufficio che appartiene al settore Servizi sociali del Comune, diretto dalla dirigente del settore e composto da operatori del Comune (gli stessi che dal settembre 2004 erano stati protagonisti del lavoro sul Piano sociale descritto al punto 3.4).18

Tale ufficio doveva rivestire (come già sperimentato nel processo di costruzione del Piano) sia funzioni di sostegno alla programmazione del lavoro degli altri uffici del settore,19 sia funzioni di promozione e regolazione riguardo ai vari attori del territorio in riferimento alla costruzione e all’attuazione del Piano sociale.

Va sottolineato come entrambe queste tipologie di funzioni fossero in gran parte nuove per il settore Servizi sociali del Comune: questo, infatti, si era sinora caratterizzato per l’erogazione diretta di prestazioni sociali effettuata dai diversi uffici in forma poco collegata tra di essi e con scarso riconoscimento da parte degli altri soggetti del territorio come l’Asl.

riuscirà a fare, alcune cose saranno realizzate in tempi più lunghi di quanto indicato nel Piano”.Non sono presenti testi di progetti specifici. Vi è una parte incentrata su numerose (anche qui) azioni di sistema (Carta dei Servizi, Piano della comunicazione, Bilancio sociale, Porta Unica di Accesso, ecc.) una che presenta il nuovo assetto del settore Servizi sociali del Comune e un’altra rivolta all’integrazione socio-sanitaria. Interessante il fatto che il Piano sia corredato dai verbali di tutti gli incontri bilaterali e dei tavoli tematici effettuati nel corso della prima conferenza cittadina, oltre che dai testi di tutte le delibere assunte dalla Giunta comunale. 18 Attualmente l’Ufficio di Piano è diretto dalla Dirigente del settore Servizi sociali ed è composto dalla Posizione organizzativa dello stesso settore, da una coordinatrice, da una sociologa (recentemente assunta dal Comune) da un esperto economico-finanziario e da una persona addetta alle attività amministrative. 19 Si tratta dell’ufficio Minori e famiglie, dell’ufficio Disabilità e famiglie, dell’ufficio Anziani e famiglie, dell’ufficio Adulti e famiglie.

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Col Piano sociale e l’introduzione dell’Ufficio di Piano si era iniziato a rafforzare i legami tra le varie parti del settore e lo stesso settore aveva assunto le vesti di un promotore di più saldi rapporti tra i vari soggetti del territorio, che cominciavano ad apprezzarne gli sforzi.

Che non si sia trattato di una ridefinizione facile e immediata è confermato dall’evoluzione della composizione dell’Ufficio di Piano (di cui esisteva una prima configurazione sin dal 2003): pur essendo sempre stato pensato come organo tutto interno al settore Servizi sociali del Comune, l’Ufficio di Piano si è trasformato da luogo che inizialmente raccoglieva tutti i responsabili degli uffici del settore (una specie di livello di rappresentanza, che però non favoriva una vera integrazione tra le parti) in luogo in cui oggi sono presenti soltanto alcuni operatori specializzati in un lavoro di sostegno agli altri uffici del settore e di raccordo tra questi, cercando di vivere al proprio interno e di promuovere nel settore un clima di collaborazione “dove modalità di rapporto orizzontali, relazionali, cercano di prevalere su modalità di rapporto verticali, gerarchiche”.

Possiamo dire perciò che nella fase di costruzione del Piano è venuto a delinearsi ed è stato praticato un funzionamento che ruotava attorno a tre poli che hanno operato per analizzare problemi e individuare priorità:

- quello relativo all’attività del Coordinamento Istituzionale ossia la Giunta comunale, talora estesa ai rappresentanti della Provincia e dell’Asl;

- quello concernente le conferenze cittadine e i tavoli tematici, oltre che gli incontri bilaterali;

- e infine quello riguardante l’azione del settore Servizi sociali o meglio dal suo Ufficio di Piano, che si preoccupa di sostenere il lavoro del livello istituzionale e sociale e di favorirne le connessioni.

Fig. 1 - Il modello praticato

Coordinamento Istituzionale

Settore Servizi sociali (Ufficio di Piano)

Conferenze cittadine e Tavoli tematici

Incontri bilaterali

OGGETTO DI LAVORO: analisi dei problemi e

individuazione delle priorità

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Se quello appena disegnato rappresenta il modello di funzionamento praticato, è interessante osservare come tale funzionamento si sia spostato da una prefigurazione iniziale20 che sembrava ridurre l’assetto di lavoro a due livelli:

- quello composto dal Coordinamento Istituzionale e da un Tavolo di Concertazione, tavolo deputato a definire le priorità e composto dai rappresentanti di tutti i soggetti pubblici e privati che nel territorio si occupano di politiche sociali;

- quello sul quale avrebbero operato alcuni Tavoli tematici di co-progettazione composti da tecnici del settore pubblico e privato con l’obiettivo di definire progetti corrispondenti alle priorità.

In questa soluzione non compare l’Ufficio di Piano, che finiva per essere visto come un organismo che - al pari di altri - opera soltanto nella fase di attuazione di quello che il Piano sociale prevede piuttosto che sul versante del sostegno al processo complessivo della sua costruzione.

Fig. 2 - Il modello inizialmente prefigurato

Coordinamento Istituzionale, Tavolo di concertazione

Tavoli tematici di co-progettazione

Tale modello di partenza finisce per sacrificare l’aspetto dell’analisi e della definizione delle priorità (consegnato al solo Coordinamento Istituzionale e ad un Tavolo come quello di concertazione che, radunando tutti gli attori per lavorare su tutti i temi, difficilmente sarebbe stato in grado di produrre analisi e priorità adeguate) e per collocare la partecipazione degli attori del territorio (quelli esperti, i tecnici) soprattutto al livello della progettazione che si avvia in riferimento a indirizzi dati.

20 Si tratta del modello contenuto nel documento denominato “Disciplinare di funzionamento del Tavolo di Concertazione”.

OGGETTO DI LAVORO: individuazione delle priorità

OGGETTO DI LAVORO: definizione di progetti

corrispondenti alle priorità

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Il funzionamento reale ha invece mostrato come il lavoro sull’analisi dei problemi e l’individuazione delle priorità è stato molto più articolato, partecipato e aperto di quanto prevedeva e poteva consentire un certo disegno iniziale: tutto il lavoro legato alle conferenze cittadine, ai tavoli tematici e agli incontri bilaterali non era previsto nell’assetto di partenza e anche il ruolo della funzione tecnica cambia nelle due configurazioni.

La definizione dei progetti, come abbiamo detto, è stata rinviata ad una seconda fase del lavoro, quando probabilmente potranno essere avviati anche alcuni di quei tavoli di co-progettazione previsti nel disegno iniziale.

3.6 Il lavoro tra Comune e Asl

Il Piano sociale ha consentito di riprendere un confronto più ravvicinato tra operatori e dirigenti di Comune e Asl, dopo anni di rapporti non facili in cui scelte strategiche (come “il contenimento delle politiche di prevenzione in favore delle attività di ospedale”) e modalità di gestione di certi servizi (come l’Adi o la medicina scolastica …) non erano riuscite a trovare un luogo di approfondimento e negoziazione tra le parti. Tutto ciò aveva condotto ad “unoscarso riconoscimento reciproco tra operatori sociali e sanitari: ad esempio, gli operatori sanitari non di rado finivano per sottoporre casi e problemi direttamente ai politici del Comune, senza passare per i Servizi sociali dell’amministrazione …”.

Con l’avvio del Piano sociale si sono intensificati i momenti di incontro tra i servizi (abbiamo detto dei tre incontri bilaterali) e sono stati predisposti ambiti istituzionali di lavoro (come la Giunta comunale aperta ai responsabili dell’Asl) nei quali le rispettive strategie e posizioni hanno potuto entrare maggiormente in dialogo.

Le difficoltà non si sono certo dissolte e questo sia nella fase di costruzione del Piano (ad esempio quando l’Asl ha mancato di indicare i propri fondi nella parte economica) sia al momento di passare ad una fase di attuazione (sorgono problemi nell’avvio della Porta Unica d’Accesso o per riformulare l’Adi). Ma incontrandosi ripetutamente nella fase di costruzione del Piano i servizi hanno potuto prendere maggiormente contatto con le prassi, i vincoli e le prospettive dell’altra parte: i responsabili comunali hanno affermato di “aver compreso meglio la natura dei cambiamenti istituzionali e organizzativi che l’Asl stava attraversando” … oppure hanno potuto prendere maggiore coscienza della cultura organizzativa dell’altra parte (“l’Asl ci è apparso come un mondo dove le gerarchie sono molto formalizzate […] i vari servizi sembrano conoscersi poco tra loro”). In tal senso gli incontri realizzati per la costruzione del Piano sociale sembrano aver prodotto una maggiore comprensione reciproca tra le parti e punti di riferimento per i confronti e le scelte dei prossimi mesi.

Infine va sottolineato come, oltre ad avvicinare parte sociale e parte sanitaria, il Piano sociale abbia alimentato l’integrazione dentro le singole parti: infatti se ha prodotto un maggior raccordo tra gli uffici del settore Servizi sociali del Comune, il Piano sociale ha promosso l’integrazione anche dentro altri

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mondi e contesti organizzativi come l’Asl (“gli incontri bilaterali hanno rappresentato un’occasione per far incontrare tra loro i vari servizi dell’Asl […] servizi poco abituati a parlarsi, che a volte vivono conflitti sull’assegnazione delle risorse da parte dell’azienda […] tanto che all’inizio negli incontri il lavoro è stato molto quello di calmare gli animi”).

Il grado di integrazione che le varie parti riescono a sviluppare al proprio interno è strettamente collegato alla qualità dell’apporto di queste parti ai tavoli del Piano sociale: ad esempio è stato notato come “i Sindacati ai tavoli siano stati molto più incisivi di altre organizzazioni […] si sono preparati e hanno portato contributi importanti sulla definizione delle strategie”. Allo stesso modo nel settore Servizi sociali del Comune dove “prima di prendere parte ai tavoli si cercava di chiarirsi bene le idee sulle cose da portare”…come dire che lavorare d’integrazione tra attori diversi richiede un lavoro previo di preparazione all’interno delle singole organizzazioni.

4. Esiti significativi del lavoro sin qui svolto… e qualche elemento di rischio

A partire da quanto indicato nei punti precedenti, proviamo ora a tracciare un quadro dei principali esiti del lavoro di costruzione del Piano sociale realizzato a Barletta e a evidenziare anche qualche elemento di rischio per il proseguo del lavoro.

4.1 Le politiche sociali ‘portate in pubblico’

Col Piano strategico più in generale e in modo più approfondito col Piano sociale a Barletta si è avviata un’operazione che punta ad evitare che le politiche sociali rimangano un tema delegato alle istituzioni e ai servizi preposti per divenire invece un ambito che i cittadini e la collettività possono riconoscere come proprio dove è possibile portare contributi di idee e disponibilità.

A ciò contribuiscono le conferenze cittadine, i tavoli tematici di approfondimento aperti alle organizzazioni del settore ma anche ai cittadini interessati, la circolazione di documenti e testi che hanno l’obiettivo di informare anche i non addetti ai lavori.

In questo modo i ‘decisori istituzionali’ possono costruire una legittimazione sociale, il cosiddetto ‘consenso informato’ alle proprie decisioni, un aspetto ancor più importante dalla fase di contrazione delle risorse economiche.

4.2 Connettere servizi e settori separati ma che si occupano di problemi che si collegano

Accanto al risultato costituito da un primo riconoscimento delle persone e dei gruppi alle politiche sociali, col Piano sociale si è prodotto un maggior riconoscimento reciproco tra servizi sociali e sanitari e sono stati costruiti programmi di impegno comune per i prossimi anni.

Rilevante è stato anche il coinvolgimento di altri settori dell’amministrazionecomunale sulle politiche sociali: si pensi in primo luogo al fatto che tutta la

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Giunta riveste il ruolo di Coordinamento Istituzionale del Piano (il che tra l’altro favorisce le connessioni tra le politiche sociali e le altre politiche come quelle dell’istruzione, del lavoro, dell’ambiente, …) ma anche al lavoro tra diversi settori comunali avviato col Piano strategico e proseguito nelle conferenze cittadine e nei tavoli tematici del Piano sociale. Tutto ciò ha condotto le politiche sociali a rivestire una certa centralità nelle scelte e negli investimenti del Comune di Barletta (basti considerare alla disponibilità ad investire nella riorganizzazione e nel potenziamento del settore Servizi sociali).

4.3 L’integrazione promossa all’interno delle singole parti

Il coinvolgimento dei cittadini e la ricerca di connessioni, vuoi con gli altri attori (come l’Asl) vuoi con gli altri settori del Comune, ha prodotto un ripensamento delle modalità di lavoro nello stesso settore Servizi sociali. Con l’istituzione dell’Ufficio di Piano si è dato vita ad un luogo di sostegno al raccordo tra i vari uffici, oltre che di promozione di nuove forme di lavoro con tutta una serie di altri soggetti del territorio: come dire che per promuovere l’integrazione sul territorio il settore Servizi sociali (e il Comune nel suo complesso) è chiamato innanzitutto a viverla al proprio interno.

Per le stesse ragioni, gli attori chiamati a partecipare al Piano sociale sono portati a rafforzare l’integrazione anche all’interno delle proprie organizzazioni: abbiamo visto infatti come gli incontri bilaterali abbiano avuto l’effetto di far dialogare maggiormente tra loro settori diversi dell’Asl oppure organizzazioni sindacali o istituti scolastici.

4.4 L’integrazione che conduce a comprendere meglio i problemi e a costruire priorità più pubbliche e condivise

Le molteplici connessioni che si producono col Piano sociale (tra servizi e cittadinanza, tra servizi e politiche differenti, all’interno delle singole organizzazioni) consentono di tracciare quadri complessivi e più profondi dei problemi del territorio e possono far emergere nuove e importanti priorità, a volte modificando le prospettive delle istituzioni pubbliche o facendo uscire il Terzo settore da ottiche un po’ parziali. A questo proposito vanno sottolineate le ripetute sollecitazioni al Comune emerse dai Tavoli tematici relative da una parte al rafforzamento delle opportunità di socializzazione rivolte a ragazzi disabili e dall’altra al problema di comprendere meglio i bisogni delle famiglie. Tali indicazioni hanno condotto il Comune a privilegiare - all’interno dei vari ambiti d’intervento - la creazione di nuovi servizi, come il Centro diurno per disabili gravi e il Centro per le Famiglie.

Da questo punto di vista la novità rilevante si connette dunque ad un’integrazione tra attori che non si produce soltanto attorno a interventi e progetti specifici, ma riguarda l’analisi dei problemi e l’individuazione di strategie e priorità che, per il risvolto pubblico nel quale sono state realizzate, tendono a premere maggiormente nei momenti in cui si costruiscono le decisioni da intraprendere in merito.

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4.5 Quale integrazione

Il Piano sociale si sta rivelando un’esperienza che consente ai suoi protagonisti di apprendere sul campo che cos’è l’integrazione e che cosa serve per perseguirla.

Ad esempio, se si guarda alla prefigurazione iniziale del modello di funzionamento del Piano sociale - implicante la presenza di un Tavolo di concertazione che raduna tutti gli attori del territorio per definire le priorità - si può ravvisare un’idea dell’integrazione che si produce ‘per concentrazione’ ossia mettendo insieme nello stesso luogo tutti gli attori. In realtà, per individuare le priorità, abbiamo visto come il settore Servizi sociali abbia dovuto predisporre una pluralità di luoghi distinti nei quali costruire integrazioni parziali e preparatorie (gli incontri bilaterali e gli incontri tra uffici del settore Servizi sociali o tra settori diversi del Comune). Nella pratica cioè si è percorsa una via più complessa e realistica dell’integrazione, nella convinzione che questa non può avvenire d’un sol colpo ma richiede un paziente lavoro di integrazioni distinte e progressive che possono prepararne altre, successive, più ampie e di una certa tenuta tra le parti.

Ciò si ricava ad esempio dall’evoluzione della composizione dell’Ufficio di Piano, dove per favorire l’integrazione tra gli uffici del settore Servizi sociali si è passati da una soluzione che ‘concentrava’ nell’Ufficio di Piano tutti i responsabili degli uffici del settore ad una configurazione che vede presenti soltanto alcuni operatori che si specializzano nel promuovere raccordi tra le parti del settore e tra i vari soggetti del territorio. Il senso è che l’integrazione va promossa e sostenuta da un soggetto ad hoc, che si preoccupa di predisporre e accompagnare un articolato processo di raccordi e connessioni.

Da questo punto di vista si comprende come l’integrazione non è solo questione di “avere personale in quantità sufficiente”, ma si collega alla capacità di elaborare e promuovere, in questo caso all’interno dell’Amministrazione Comunale, un pensiero e una strategia sufficientemente condivisi sulle forme e le modalità necessarie per realizzarla, tanto che - dopo una prima fase segnata da una certa fatica nel superare una situazione caratterizzata dalla separatezza degli attori - oggi il Pdz di Barletta sembra costituire il campo nel quale i diversi soggetti della comunità possono apprendere ad agire l’integrazione, trasformando gradualmente rappresentazioni di partenza un po’ semplificate in visioni più profonde e realistiche.

L’ultima considerazione in tema di integrazione verte sui possibili effetti che possono sortire in una situazione dove l’Ambito possiede una natura ‘monocomunale’ ossia dove gli organi di coordinamento istituzionale e tecnico del piano di zona (Coordinamento istituzionale e Ufficio di piano) coincidono con i livelli istituzionale e tecnico di un solo Comune. Se da un lato questa configurazione può avere l’effetto di accelerare i processi decisionali e la realizzazione di interventi e servizi, dall’altro essa potrebbe anche indurre gli altri attori (l’Asl in particolare) a vedere il Piano sociale come “una cosa del Comune” e dunque a limitare la propria assunzione di responsabilità rispetto alla sua costruzione e alla sua attuazione.

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Le politiche d’integrazione hanno sì bisogno di un governo che le promuova e le sostenga, ma allo stesso tempo, per risultare efficaci, richiedono di associare in queste funzioni di governo più istituzioni: per Comuni abituati a gestire direttamente servizi e interventi sociali l’individuazione di un punto di equilibrio tra il ‘governare direttamente’ il Piano sociale e l’ ‘associare altri nel suo governo’ non potrà che costituire il frutto di un cammino che richiede ancora fasi di lavoro.

CREMONA, COSTRUIRE IL DISTRETTO SOCIALE NELLA FRAMMENTAZIONE COMUNALE21

1. Il contesto territoriale e quello legislativo: alcuni elementi di quadro

1.1 Contesto territoriale

Comuni che compongonol’ambito distrettuale

L’ambito distrettuale è composto da 47 Comuni.

Forme di amministrazione che coinvolgono più Comuni (Associazioni, Unioni, Comunità montane, …)

Sono presenti quattro Unioni di Comuni, che complessivamente coinvolgono quattordici Comuni dell’ambito distrettuale di Cremona e che in certi casi comprendono anche Comuni dell’ambito distrettuale di Crema. Solo alcune di queste Unioni hanno assunto la gestione dei servizi sociali dei Comuni soci e in questi casi limitatamente a certe tipologie di servizi come ad es. il Sad: come vedremo, nell’ambito del Piano di Zona e nei suoi livelli di lavoro istituzionali tutti i Comuni (anche quelli che fanno parte di Unioni) sono presenti come singoli.

Provincia di La provincia è quella di Cremona, che comprende anche gli ambiti distrettuali di Casalmaggiore (composto da 20 Comuni) e di Crema (composto da 48 Comuni).

Popolazione 153.057 abitanti (di cui 71.362 del Comune di Cremona) al 31 dicembre 2001

Superficie 1.135,55 kmq

Densità abitativa 134,8 abitanti per kmq

Ambito/Zona eDistretto sanitario dell’Asl

Il territorio dell’ambito distrettuale di Cremona coincide col territorio del distretto socio-sanitario di Cremona che appartiene all’Asl della provincia di Cremona (di cui fanno parte anche i distretti socio-sanitari di Casalmaggiore e di Crema).

21 Il presente testo è stato elaborato sulla base a) di un incontro di lavoro effettuato a Cremona l’8 settembre 2005, al quale hanno preso parte Eugenia Grossi, responsabile dell’Ufficio di Piano e Davide Vairani, componente dell’Ufficio di Piano (le parti riportate tra virgolette sono state pronunciate nel corso dell’incontro dalle persone su indicate), b) dell’analisi del testo del Piano di Zona 2002-2004, del testo del Piano operativo 2005 e c) dei documenti indicati al punto 1.2.

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1.2 Contesto legislativo

Quadrinormativiregionali di sistema ai quali si connette il Piano di Zona

L.R. n. 31 dell’11 luglio 1997 “Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività dei servizi sociali”, che prevedeva l’istituzione del dipartimento per le attività socio-sanitarie integrate (Assi) quale articolazione delle Asl, cui i Comuni potevano delegare la gestione delle attività socio-assistenziali.

L.R. n. 1 del 5 gennaio 2000 “Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia”, all’interno della quale si stabilisce che la programmazione e la gestione dei servizi socio-assistenziali compete ai Comuni.

Piano socio sanitario regionale 2002-2004, approvato con delibera del Consiglio regionale il 13 marzo 2002, in cui si stabilisce che le Asl debbono assumere pienamente il ruolo di programmazione, acquisto e controllo delle prestazioni, esternalizzando la gestione delle attività socio-sanitarie.

Circolare n. 7 del 29 aprile 2002 della Direzione Famiglia e Solidarietà Sociale della Regione Lombardia, la quale fornisce linee guida per la predisposizione dei Piani di Zona 2002-2004.

Delibere di Giunta regionale di ripartizione delle risorse del Fnps: negli anni ne sono state emanate diverse (per la stesura del presente testo abbiamo preso in considerazione in particolare la n. 7/19977 del 23 dicembre 2004).

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2. Assetti e forma di gestione dei servizi sociali

Assetti e forme di gestione dei servizi sociali (i rapporti tra i Comuni, tra Comuni e Asl, ecc.): la situazionepresente,i cambiamenti recenti,le prospettive future

Come indicato nei punti seguenti del presente testo, il rapporto tra Comuni e Asl riguardo la gestione dei servizi sociali è in continua evoluzione nel corso degli ultimi anni: si è passati infatti - da una situazione fortemente diversificata (con aggregazioni diverse di Comuni impegnate nella gestione diretta di certe tipologie di intervento sociale e altri Comuni con servizi completamente delegati all’Asl) - ad una situazione più omogenea, che vede oggi i Comuni del distretto gestire insieme sia diverse tipologie di intervento sociale che riguardano tutto il territorio del distretto sia diversi servizi socio-sanitari trasferiti dall’Asl, - con la prospettiva di accrescere ancora la gestione di funzioni e servizi provenienti dall’Asl - e allo stesso tempo, come vedremo, col problema di individuare nuove forme organizzative che possano consentire ai Comuni di esercitare adeguatamente i nuovi compiti.

3. Elementi relativi all’orientamento regionale riguardo i Piani di Zona

Come indicano i documenti riportati al punto 1.2 il lavoro sui Piani di Zona prende avvio in una fase di rilevante cambiamento della concezione del ruolo delle Asl: infatti, col Piano socio sanitario regionale 2002-2004, da una situazione che vedeva le Asl responsabili - attraverso il dipartimento Assi - sia della programmazione e dell’erogazione diretta delle attività socio-sanitarie sia della programmazione e - in molte realtà - anche dell’erogazione diretta delle attività socio-assistenziali delegate dai Comuni, si intende giungere ad una situazione dove le Asl rivestono sempre più il ruolo di programmazione, acquisto e controllo delle attività socio-sanitarie, mentre programmazione e gestione delle attività socio-assistenziali diventano competenza completa ed esclusiva dei Comuni.

Tale determinazione regionale, che vede i Comuni tornare in primo piano riguardo alla programmazione e alla gestione dei servizi socio-assistenziali, è avvalorata e sostenuta dalle disposizioni della L. 328 che individuano nell’ambito distrettuale “un nuovo soggetto del welfare” deputato a definire il Piano di Zona: infatti, particolare in una situazione come quella della regione Lombardia a forte frammentazione municipalistica, l’ambito costituito da più Comuni rappresenta un soggetto più idoneo alla programmazione e alla gestione dei servizi sociali. E in questo modo i piccoli Comuni della regione possono trovare alternative a quella che sino ad allora era stata un po’ una strada obbligata ossia la via della delega dei servizi sociali all’Asl.

La Regione Lombardia, pertanto, immagina un “sistema integrato di interventi e servizi sociali” fondato su due tipologie di ‘reti’, entrambe con un raggio di competenza distrettuale: la rete dei servizi socio-sanitari di

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competenza delle Asl e la rete dei servizi socio-assistenziali di competenza dei Comuni di uno stesso ambito e la cui espressione è il Piano di Zona.

Il Piano di Zona quindi è visto come il terreno su cui i Comuni di uno stesso ambito sperimentano nuove forme associate di programmazione e gestione dei servizi sociali, provenendo da situazioni in cui il più delle volte tali servizi erano delegati all’Asl.

Si tratta di nuovi percorsi chiamati in primo luogo a misurarsi con quella che abbiamo detto essere la caratteristica di tutto il territorio regionale ossia l’elevata frammentazione comunale di questa regione. La nascita dell’ambito distrettuale, infatti, pone subito il problema di come regolare i rapporti tra i molti Comuni all’interno di uno stesso ambito: è una questione, va sottolineato, rispetto alla quale la Regione non interviene con direttive specifiche, lasciando ai vari ambiti l’autonomia di definire le forme e i processi di lavoro rispetto ai nuovi compiti.

Inoltre, la comparsa del nuovo soggetto “ambito distrettuale” riformula l’integrazione tra le due tipologie di reti di servizi, che ora fanno riferimento a soggetti differenti chiamati a integrare politiche e interventi da posizioni asimmetriche (come sottolinea in particolare la Circolare n. 7 del 2002). Riguardo ai Piani di Zona, infatti, le Asl rivestono un ruolo di controllo nei confronti dell’operato dei Comuni che può finire per condizionare fortemente l’integrazione tra le parti (ad esempio nei casi in cui Comuni e Asl si trovano a programmare insieme interventi che in seguito spetta all’Asl controllare e valutare).22

Infine, un’altra caratteristica dell’impostazione regionale è quella di tenere distinti i fondi che finanziano le politiche sociali: la quota indistinta del Fnps (su cui è introdotto il criterio del 70% da utilizzare in titoli sociali) è separata dai fondi legati alle leggi nazionali di settore e anche dalle risorse del Fondo sociale regionale.23 Si tratta di un’impostazione che può correre il rischio di indurre negli ambiti un’attenzione prevalente ai diversi progetti attivabili con i singoli canali di finanziamento, a scapito di un lavoro che guarda le connessioni tra le parti, che ripensa il sistema dei servizi nel suo complesso e quindi anche a nuove forme

22 La Circolare n. 7 del 2002 stabilisce il ruolo delle Asl nei confronti dei Comuni che predispongono il Piano di Zona: l’Asl riceve il Piano di Zona dai Comuni dell’ambito distrettuale, lo approva, riceve dalla Regione la quota indistinta del Fnps e la trasmette ai Comuni, effettua il monitoraggio dell’attuazione dei Piani. Come si vede le Asl sono concepite come ente strumentale della Regione, sovraordinato ai Comuni più che partner di questi. In questo processo di definizione del Piano è da notare come le Province non compaiano. 23 Sempre la Circolare n. 7 del 2002 stabilisce che i Comuni dovranno utilizzare la quota indistinta del Fnps secondo percentuali che nel triennio tendano al 70% per l’erogazione di titoli sociali quali buoni e voucher e al 30% per il potenziamento di servizi non cofinanziati con le risorse del Fondo sociale regionale e senza sostituire le risorse dei fondi comunali che devono restare invariate. Inoltre le varie Delibere di Giunta regionale di ripartizione delle risorse del Fnps che si sono succedute negli anni stabiliscono che la quota indistinta del Fnps è separata dal Fondo per l’attuazione delle leggi nazionali di settore (L. 45/99, L. 162/98, L. 285/97, D.lgs 286/98, …). Anche tali risorse vengono assegnate dalla Regione alle Asl, le quali dovranno preoccuparsi di erogare i fondi ai Comuni e di controllare i risultati.

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di gestione dei servizi tra i Comuni e a nuove modalità di rapporto con l’Asl (lavoro che, d’altra parte, è proprio ciò che i nuovi orientamenti regionali si attendono dai Piani di Zona).

Ora è interessante mettere a fuoco come le prospettive regionali, le opportunità e i problemi che esse pongono si siano tradotte in una realtà locale come quella dell’ambito distrettuale di Cremona in cui sono ben 47 i Comuni che appartengono all’ambito.

4. La fase di costruzione del Piano di Zona 2002-2004 nell’ambito distrettuale di Cremona (anno 2002)

4.1 Esperienze diffuse di gestione dei servizi sociali in forme aggregate tra Comuni

Nell’ambito distrettuale di Cremona il lavoro sul Piano di Zona prende avvio all’inizio del 2002 in una situazione che già vedeva forme di gestione diretta di taluni servizi sociali da parte dei Comuni (spesso anche associati tra loro) a differenza di quanto avveniva in molti altri territori della regione in cui prevaleva la delega all’Asl di questo tipo di servizi.

In particolare nel Comune di Cremona operava da molti anni un Settore Affari sociali che nel tempo si è sviluppato e strutturato in aree specialistiche (Adulti e Immigrazione, Anziani, Minori e Famiglie, Handicap, Alloggi) il quale gestiva tutta una serie di servizi, molti dei quali in forma associata con altri Comuni limitrofi o comunque utilizzati da questi Comuni. Anche in altri Comuni più piccoli di Cremona (Casalbuttano, Soresina, Pizzighettone, Ostiano, Vescovato) si erano sviluppati servizi gestiti in collaborazione con altri Comuni vicini (il più delle volte si trattava del Servizio sociale professionale e del Servizio di assistenza domiciliare). Collaborazioni tra Comuni, infine, erano nate anche attorno a programmi specifici costruiti in seguito alla L. 285/97.

In questo territorio, perciò, l’aggregazione dei Comuni (anche se assumeva forme e confini diversi a seconda delle tipologie di intervento sociale) costituiva già una strada alternativa alla delega all’Asl per provare a costruire politiche sociali efficaci ed omogenee in una situazione, come detto, a forte parcellizzazione comunale.

È da segnalare, inoltre, come molti di questi servizi sociali di competenza comunale venivano gestiti in collaborazione con diverse cooperative sociali e associazioni di volontariato di cui il territorio del distretto era particolarmente ricco.

Da questo quadro di interventi e collaborazioni, però, erano esclusi diversi Comuni, i quali finivano per rimanere privi di servizi sociali di base (come il Servizio sociale professionale o il Servizio di pronto intervento sociale). Pertanto, nonostante la presenza di quelle forme di aggregazione tra Comuni di cui abbiamo detto, la situazione complessiva era quella di un’offerta di servizi sociali con significative disomogeneità sul territorio (a svantaggio in particolare dei Comuni più piccoli, i cui cittadini incontravano maggiori difficoltà

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nell’accesso ai servizi, nella presa in carico, nei trasporti, ecc.). Si trattava - è da notare - di problemi presenti in misura sostanzialmente analoga anche sul versante dei servizi socio-sanitari gestiti dall’Asl.

In questo contesto prende il via nel 2002 il lavoro sul Piano di Zona, al quale i Comuni affidano l’obiettivo di costruire un sistema distrettuale di servizi sociali in grado di considerare i bisogni di tutto il territorio del distretto e di ridurre in esso la disomogeneità dell’offerta, mettendo i Comuni nelle condizioni di assumersi le nuove responsabilità che in tema di politiche sociali e socio-sanitarie le disposizioni di legge nazionali e regionali consegnano loro.

Vediamo prima come i Comuni hanno lavorato alla costruzione del Piano di Zona (4.2) e in seguito i principali contenuti del Piano approvato (4.3).

4.2 Livelli e processi di lavoro nella costruzione del Piano

Per costruire il Piano di Zona i Comuni hanno utilizzato sul versante istituzionale luoghi di lavoro a carattere distrettuale già presenti (l’Assemblea e il Comitato Esecutivo dei Sindaci del distretto)24 mentre sul versante organizzativo hanno dato vita a nuovi livelli di lavoro di natura distrettuale.

L’inizio è dato da un’Assemblea dei Sindaci del distretto svoltasi nel febbraio 2002 la quale delinea un impianto di lavoro per costruire il Piano tale da consentire un ampio coinvolgimento dei vari attori del territorio.

L’impianto

affidava al Comitato Esecutivo distrettuale dei Sindaci la formulazione degli indirizzi necessari alla realizzazione del Piano;

prevedeva la costituzione di un gruppo tecnico (il Gruppo di Piano) che, in accordo col Comitato Esecutivo, aveva il compito di coordinare il processo di costruzione del Piano; tale gruppo era guidato dal Direttore del Settore Affari sociali del Comune di Cremona, al quale l’Assemblea dei Sindaci aveva assegnato il ruolo di Comune capofila per la costruzione del Piano;

stabiliva

momenti di lavoro a livello politico per la definizione di strategie e indirizzi generali, attraverso l’istituzione di un luogo di confronto tra Comitato Esecutivo dei Sindaci e organizzazioni di secondo livello in rappresentanza della Diocesi, delle Cooperative sociali, del Volontariato e delle Ipab, e

momenti di lavoro a livello tecnico per approfondire i bisogni e delineare delle proposte d’intervento, dando vita a tavoli tematici composti da operatori delle diverse realtà del territorio (Comuni, Asl, Azienda ospedaliera, Diocesi, Cooperative sociali e Organizzazioni di rappresentanza del volontariato, Ipab).

24 Sono quei luoghi facenti parte del modello di lavoro tra Asl e Comuni in tema di politiche socio-sanitarie previsti all’interno di diversi provvedimenti legislativi regionali degli anni ’90. All’Assemblea dei Sindaci del distretto la Circolare n. 7 del 29 aprile 2002 (citata al punto 1.2)affida la responsabilità politica della programmazione zonale.

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I tavoli tematici che vengono attivati sono tre e riguardano gli ambiti: Minori e Famiglia, Disabilità e Anziani (mentre per Giovani e Immigrazione si decide di non avviare tavoli di lavoro, in attesa di conoscere le sorti dei fondi legati alle rispettive leggi di settore 285/97 e 40/98). Nei mesi di giugno e luglio 2002 ognuno dei tre tavoli (cui partecipano mediamente 15 persone) effettua tre incontri ai quali si aggiungono quattro seminari di approfondimento - alla presenza di molti operatori del Terzo settore - sui temi dell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, della situazione delle donne in condizioni di fragilità, dei Centri per le famiglie e degli interventi per gli adolescenti.

Il lavoro dei tavoli tematici e dei seminari confluisce nel testo del Piano di Zona 2002-2004 che, in seguito ad alcuni incontri del Comitato Esecutivo con le organizzazioni di secondo livello e dopo l’approvazione manifestata dall’Asl, viene adottato dai Comuni del distretto con l’Accordo di programma siglato il 30 dicembre 2002. L’Assemblea dei Sindaci reputa necessaria l’adesione all’Accordo di programma anche della Provincia (aspetto non previsto dalle linee regionali) poiché si ritiene che essa, in sintonia con l’Asl, possa favorire il confronto e le connessioni tra i tre ambiti distrettuali del territorio provinciale, oltre a poter lavorare su quadri complessivi di dati socio-demografici e di bilancio.

4.3 Gli elementi centrali del Piano approvato

4.3.1 Le priorità d’intervento

Il Piano approvato è centrato su alcune priorità d’intervento che perseguono l’obiettivo di diffondere in modo omogeneo su tutto il territorio del distretto alcune tipologie di servizio sociale:

la costruzione di un Servizio sociale professionale distrettuale in grado di coprire le esigenze di ogni Comune dell’ambito, compresi i più piccoli;

lo sviluppo di un Servizio di pronto intervento sociale per tutti i cittadini del distretto con bisogni di protezione e tutela urgenti;

il potenziamento dei servizi finalizzati a mantenere a domicilio le persone anziane, anche attraverso lo sviluppo dell’impiego dei titoli sociali (voucher e buoni sociali).

Individuate le priorità, si trattava di definire un assetto organizzativo per perseguirle e l’opzione è stata quella di confermare e rendere più stabili i dispositivi organizzativi a carattere distrettuale sperimentati nella fase di costruzione del Piano (4.3.2) ma anche quella di individuare dei punti di riferimento intermedi tra la dimensione del distretto e quella dei singoli Comuni (4.3.3).

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4.3.2 La previsione della costituzione di un vero e proprio Ufficio di Piano

Quello che era stato il Gruppo di Piano avrebbe dovuto trasformarsi in un vero e proprio Ufficio di Piano distrettuale, con compiti di coordinamento e monitoraggio dell’attuazione di quanto previsto dal Piano di Zona, oltre che di gestione diretta di alcuni interventi complessi (come la tutela minori di cui diremo tra poco). Tale ufficio doveva rispondere del proprio operato direttamente al Comitato Esecutivo e all’Assemblea dei Sindaci, mentre riguardo alla sua collocazione organizzativa, “dal momento che l’ambito era privo di personalità giuridica, la scelta è stata quella di appoggiarsi al Comune capofila, per cui l’Ufficio di Piano doveva essere un ufficio situato all’interno del Comune di Cremona”.

L’Ufficio di Piano, inoltre, avrebbe tenuto i rapporti con l’Asl sia in riferimento ai processi di lavoro connessi all’integrazione socio-sanitaria, sia in riferimento alle procedure previste per l’approvazione e il monitoraggio del Piano di Zona da parte dell’Asl.25

Anche i tavoli tematici distrettuali che avevano operato in fase di costruzione del Piano avrebbero proseguito il proprio lavoro, coordinati dall’Ufficio di Piano e con compiti connessi in particolare alla valutazione dell’attuazione del Piano.

4.3.3 I subambiti e alcune funzioni collocate a tale livello

Pensare i servizi sociali in termini di distretto porta con sé la necessità non solo di dar vita a nuovi livelli di lavoro a carattere distrettuale, ma anche di prevedere livelli intermedi in grado di integrare esigenze dei singoli territori e orientamenti e decisioni assunte a livello di distretto.

Per queste ragioni il Piano individua quattro subambiti (disegnati tenendo conto sia della configurazione dei vecchi comprensori dell’Asl sia della storia di collaborazione tra Comuni di cui abbiamo parlato al punto 4.1): il subambito di Cremona (13 Comuni e 93.262 abitanti) il subambito di Pizzighettone (5 Comuni e 10.337 abitanti) il subambito di Soresina (11 Comuni e 24.654 abitanti) il subambito di Vescovato (18 Comuni e 24.801 abitanti).

A livello di ogni subambito si trattava di indicare due figure (un amministrativo e un assistente sociale dipendenti del Comune capofila di subambito) che avrebbero dovuto costituire un punto di riferimento per l’Ufficio di Piano riguardo ad una serie di aspetti come il recupero dei dati finanziari relativi ai bilanci socio-assistenziali dei Comuni che l’Ufficio di Piano doveva presentare all’Asl, la verifica dell’adozione da parte dei Comuni delle decisioni assunte a livello di distretto, la partecipazione al lavoro dei tavoli tematici, la valutazione degli interventi che prevedevano l’impiego di titoli sociali. 25 A questo proposito è da sottolineare come l’Asl - a differenza di quanto avvenuto in altri ambiti territoriali della regione - non figuri, pur avendo approvato il Piano, tra i sottoscrittori dell’Accordo di programma del 30 dicembre 2002: si tratta di una posizione assunta per riconoscere anche sul piano della forma l’autonomia dei Comuni nella programmazione e manifestare l’intenzione di evitare sovrapposizioni con la funzione di controllo.

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4.3.4 La prospettiva di nuovi passaggi di funzioni dall’Asl ai Comuni

Nel Piano, inoltre, è contenuto un altro importante obiettivo che si collega proprio alla questione dell’integrazione socio-sanitaria: nel triennio ci si propone di assumere direttamente come Comuni nuove funzioni sino al momento di competenza dell’Asl a cominciare dal Servizio di tutela minori, per il quale si delega l’Ufficio di Piano a trattare con l’Asl i vari aspetti concernenti tempi e modalità del passaggio delle funzioni e ad assumersi la responsabilità della loro gestione nel distretto.

4.3.5 Programmi di spesa legati alla sola quota indistinta del Fnps

Va fatta un’ultima osservazione relativa alla questione del bilancio economico del Piano: anche se il testo del Piano contiene un’analisi dei problemi e dell’offerta relativa a tutte le aree del sociale, i progetti e gli impegni economici vengono assunti solo in riferimento alle aree che la quota indistinta del Fnps consente di finanziare (anziani, disabili e prima infanzia) precisando per le varie aree la quota derivata dal fondo indistinto e la quota di cofinanziamento di competenza dei Comuni. Vengono esclusi, cioè, programmi connessi alle risorse delle leggi nazionali di settore, come non vi sono quadri e riflessioni sui bilanci sociali dei Comuni nel loro complesso e sulle risorse provenienti dal Fondo sociale regionale … “il rischio alla fine è che il Piano di Zona si riduca ad una programmazione dell’utilizzo della quota indistinta del Fnps - che rappresenta solo una piccolissima parte delle risorse impiegate nel sociale26 - senza riuscire ad affrontare veramente questioni più ampie e di sistema …”

4.4 Gli effetti più significativi del lavoro compiuto nel 2002

Nonostante il problema di programmi di spesa legati solo a certi canali di finanziamento, l’approvazione del Piano di Zona 2002-2004 ha costituito “l’atto di nascita del distretto sociale”: infatti, pur essendo già presenti diverse forme di collaborazione tra gruppi di Comuni riguardo a certe tipologie di servizi sociali, col Piano di Zona per la prima volta vengono attivati processi di programmazione (punto 4.2) formulate priorità d’intervento (punto 4.3.1) e disegnati assetti di lavoro (punti 4.3.2 e 4.3.3) che abbracciano tutti i Comuni del distretto nel loro insieme.

“L’ambito distrettuale inizia a diventare un luogo di lavoro particolarmente sentito dai Sindaci […] cresce la disponibilità a potenziare i servizi sociali anche nei piccoli Comuni […] si comincia a pensare di poter ritirare le deleghe dall’Asl come distretto sociale”.

“Certo il Piano di Zona dal punto di vista economico rappresenta unagoccia nel mare - cfr. nota 6 - ma sul piano della diffusione dei servizi sociali e in parte anche degli assetti ha iniziato a mettere in moto processi nuovi e significativi…” 26 Per avere un’idea si tratta per il Comune di Cremona di quasi 400.000,00 Euro in due anni a fronte di un bilancio annuale del Settore Affari sociali di 7 milioni di Euro.

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Riguardo alla questione dei nuovi assetti organizzativi, si osserva - come evidenziato nel corso del punto 4.3 - sia un movimento teso a predisporre nuovi luoghi di lavoro a carattere distrettuale, sia un’attenzione a prevedere livelli intermedi d’integrazione tra la dimensione del distretto e quella dei singoli Comuni: è questo pertanto il modo in cui l’ambito di Cremona prova a gestire il problema della frammentazione comunale e della disomogeneità dell’offerta di servizi sociali, attraverso un’interazione tra logiche e livelli di lavoro distrettuali e logiche e livelli di lavoro più vicini alle situazioni specifiche dei singoli territori comunali.

Si tratta, comunque, di primi passi nella direzione della costruzione di una nuova organizzazione distrettuale, compiuti più sul versante tecnico che su quello politico e istituzionale (che rimane in sostanza inalterato rispetto al passato) e che - come vedremo - richiederanno nuove iniziative per consentire al nuovo distretto sociale di assolvere ai propri compiti.

Da notare, infine, il ruolo rivestito dal Comune di Cremona nell’avvio del lavoro sul Piano di Zona: oltre all’appoggio sul versante tecnico di cui abbiamo detto, il Comune si è preoccupato di promuovere le nuove prospettive di lavoro distrettuale anche sul piano politico, sia nei confronti degli altri Comuni (in particolare operando all’interno dell’Assemblea dei Sindaci e del Comitato Esecutivo) sia riguardo ai livelli di rappresentanza del Terzo settore (soprattutto lavorando nel tavolo di confronto tra Comitato Esecutivo e organizzazioni di secondo livello del Terzo settore): in questo modo, “coinvolgendo i livelli politici si è potuto contenere il rischio di spaccature, anche tra i tecnici, tra gli operatori …”

Ora, a fronte di queste premesse, vediamo come si è sviluppato il lavoro negli anni seguenti.

5. L’attuazione del Piano di Zona (anni 2003 e 2004) e la definizione del Piano operativo 2005

5.1 Un Ufficio di Piano che promuove e coordina interventi sociali a livello distrettuale

All’inizio del 2003 viene costituito l’Ufficio di Piano, collocato all’interno del Settore Affari sociali del Comune di Cremona e composto da tre figure centrali (una coordinatrice, un responsabile dei rapporti con il Terzo settore e un amministrativo) e da una collaboratrice referente per l’area anziani.

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Negli anni 2003 e 2004 l’Ufficio di Piano si preoccupa di coordinare l’attuazione degli interventi previsti nel Piano di Zona. In particolare l’Ufficio si adopera per:

- la costituzione di un modello distrettuale di Servizio sociale professionale, con un assistente sociale ogni 7.000 abitanti, una copertura sociale minima pari a 5 ore ogni 1.000 abitanti e un’unica equipe distrettuale che raduna tutte le assistenti sociali del territorio; tale équipe - grazie al coordinamento di un esperto e al supporto di un intervento formativo - ha lavorato alla messa a punto di un metodo d’intervento condiviso, che tra l’altro ha aiutato le operatrici a concepirsi in una logica di lavoro distrettuale, pur rimanendo alle dipendenze dei singoli Comuni del distretto;

- l’estensione a livello di distretto del Servizio di pronto intervento sociale sperimentato nel Comune di Cremona;

- la gestione, tramite attivazione di uno sportello distrettuale, della lista di attesa per l’ingresso nell’Rsa di Cremona (competenza non più esercitata dall’Asl) e una regolamentazione dei ricoveri di sollievo nella stessa Rsa che potesse consentire a tutti i Comuni del distretto di utilizzare la struttura;

- l’erogazione di un buono sociale a sostegno del mantenimento a domicilio delle persone anziane del distretto come proseguimento dell’erogazione del buono socio-sanitario cessata dalla Regione;

- l’organizzazione di un servizio di trasporto ai Centri Socio-educativi (Cse) di Cremona a favore delle persone disabili dei Comuni limitrofi;

- l’erogazione di un buono sociale a favore delle persone in condizioni di fragilità e povertà;

- l’erogazione di buoni sociali a sostegno di nuclei familiari con figli di età inferiore ai tre anni;

- una convenzione con le associazioni di volontariato e di promozione sociale del territorio al fine di ampliare la gamma di risposte d’aiuto fornite alle persone anziane;

- una convenzione tra i Comuni del distretto e la Federazione Oratori cremonesi per sostenere le azioni che gli oratori rivolgono a bambini, adolescenti e giovani del territorio.

5.2 L’Ufficio di Piano e il ritiro delle deleghe dall’Asl relative a tutela minori e inserimento lavorativo

Il 1 gennaio 2004 i Comuni del distretto (tranne cinque di questi, tra cui Cremona, che già gestivano in proprio i servizi) ritirano le deleghe dall’Asl in materia di tutela minori, escluse le parti di psicodiagnostica e psicoterapia che restano in capo all’Asl.

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A ciò si aggiunge anche il passaggio - dal 1 gennaio 2005 - delle funzioni in materia di inserimento lavorativo.

L’accordo di programma per la gestione di questi servizi prevede il coinvolgimento di tutti i Comuni del distretto, con il Comune di Cremona che partecipa con la propria équipe e una quota per la copertura delle spese amministrative e gli altri Comuni con quote per la copertura sia delle spese di personale (assistenti sociali e psicologi) sia di quelle amministrative. Il Servizio tutela minori agisce attraverso un unico nucleo di operatori coordinato dall’Ufficio di Piano, che allo scopo può avvalersi di personale specialistico, e in costante collaborazione col Servizio sociale professionale. L’Asl assicura l’intervento sanitario (psicodiagnosi, psicoterapia, valutazione di idoneità di coppia affidataria) mediante l’assunzione diretta di due psicologi.

“In questi anni abbiamo avuto confronti accesi ma estremamente collaborativi con l’Asl, riuscendo a pervenire alla sottoscrizione di protocolli operativi in materia di tutela minori che stabiliscono gli interventi a carattere sociale, quelli a carattere sanitario e gli interventi integrati”.

Sempre in tema di minori, l’Ufficio di Piano ha lavorato anche per l’avvio di un progetto a favore di minori vittime di abusi, che prevede l’attivazione di una rete di pronto intervento pubblica e privata insieme e il consolidamento dell’equipe specialistica. Inoltre l’Ufficio, attraverso un percorso di coinvolgimento del Terzo settore, ha individuato le modalità per l’erogazione di voucher a sostegno della frequenza di Centri ricreativi estivi e Centri di aggregazione giovanile da parte di minori con handicap e minori segnalati dal Tribunale per minorenni.

5.3 Gli altri livelli di lavoro coinvolti nell’attuazione del Piano di Zona

Tutti gli interventi sociali e i passaggi con l’Asl di cui abbiamo parlato hanno visto l’Ufficio di Piano lavorare di volta in volta sia con livelli istituzionali che con livelli tecnici.

Sul piano istituzionale i livelli di riferimento principali sono stati il Comitato Esecutivo e l’Assemblea dei Sindaci del distretto, cui l’Ufficio sottoponeva ogni proposta in termini di interventi sociali da realizzare nel distretto e di rapporti con l’Asl da definire riguardo i servizi socio-sanitari. Dal momento che nel Comitato Esecutivo dei Sindaci non erano stati eletti i rappresentanti dei Comuni capofila di subambito (ad esclusione di Cremona) si è deciso di invitare quest’ultimi ai lavori dell’Esecutivo.

In caso di decisioni strategiche e di indirizzo da assumere rispetto agli interventi da realizzare, era previsto che l’Assemblea dei Sindaci fosse preceduta da un incontro del Tavolo permanente di coordinamento, istituito verso la metà del 2003 (in continuità con quel ‘luogo di lavoro a livello politico’ che aveva operato nella fase di costruzione del Piano di Zona) coordinato - col supporto dell’Ufficio di Piano - dal Presidente dell’Assemblea dei Sindaci del distretto e composto dal Comitato Esecutivo dei Sindaci e dai referenti di organizzazioni di secondo livello in rappresentanza di Diocesi, Cooperative sociali, Volontariato e Ipab. Tra 2003 e 2004 questo Tavolo ha svolto complessivamente 4/5 incontri.

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Da rilevare come l’Asl non faccia parte del Tavolo, a rimarcare il suo intento di rafforzare l’autonomia dei livelli istituzionali dei Comuni e del Terzo settore nella programmazione delle politiche sociali e di riservare per sé soprattutto le funzioni di controllo dell’attuazione di tali politiche.

Sul versante tecnico, invece, l’Ufficio di Piano si è avvalso:

- della collaborazione dei referenti di subambito (assistente sociale e funzionario amministrativo del Comune capoluogo di subambito) che in particolare si sono preoccupati di verificare che quegli interventi sociali promossi dall’Ufficio di Piano (indicati nel paragrafo 5.1) si realizzassero nei Comuni del subambito;

- di tavoli tematici distrettuali (anche in questo caso proseguendo l’esperienza dei tavoli tematici che avevano operato in fase di costruzione del Piano di Zona) coordinati dall’Ufficio di Piano e composti dai referenti di subambito e da altri operatori dei Comuni, oltre che da operatori di Asl, Sindacati, Diocesi, Cooperative sociali e Organizzazioni di volontariato, Ipab. Questi tavoli sono stati promossi dal Tavolo permanente di coordinamento che ne ha indicato i componenti e ne riceveva le sintesi dei lavori. Sono stati attivati tavoli in riferimento a quattro aree: immigrazione, disabilità, persone anziane e minori. Ciascuno di questi tavoli ha svolto mediamente 3/4 incontri in ognuno degli anni 2003 e 2004, ponendo attenzione a come in tutto il distretto si stavano attuando gli interventi previsti dal Piano di Zona e individuando elementi utili alla riprogettazione delle azioni.

Infine l’Ufficio di Piano - in raccordo con i distretti di Casalmaggiore e di Crema e con il supporto della Provincia - ha fornito all’Asl ogni tre mesi i dati finanziari relativi ai bilanci socio-assistenziali dei Comuni e del distretto nel suo complesso, in modo da consentire all’Asl di monitorare l’attuazione del Piano di Zona.

Riguardo alle forme di coinvolgimento del Terzo settore di cui abbiamo detto, va segnalato che, se proficuo è stato valutato il lavoro dei tavoli tematici (“certo con la fatica da parte di diversi attori ad assumere prospettive più ampie del proprio particolare raggio d’azione”) più difficoltosa è parsa l’attività del Tavolo permanente di Coordinamento, vuoi per un problema di rappresentanza27 che finiva per indebolire l’esercizio della sua funzione di orientamento delle politiche e degli interventi, vuoi per una scarsa conoscenza del lavoro che si andava svolgendo all’interno dei tavoli tematici, in modo da fornire a questi ultimi contenuti che ne orientassero meglio l’attività.

Proviamo a raffigurare in uno schema il modello di lavoro appena descritto relativo all’attuazione del Piano di Zona 2002-2004.

27 “Le organizzazioni di secondo livello presenti al Tavolo non rappresentavano tutto l’insieme - e sono centinaia- di associazioni di volontariato, gruppi formali e informali, cooperative sociali operanti nei settori dei servizi alla persona sul territorio cremonese”.

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Fig. 1

5.4 Il Piano operativo 2005

“Il 2005 è stato un anno di transizione, in vista della costruzione del nuovo Piano di Zona 2006-2008”: per il 2005, infatti, è stato predisposto un semplice Piano operativo che ripartiva le risorse della quota indistinta del Fnps con l’obiettivo di completare e proseguire gli stessi interventi realizzati nel biennio precedente.

Nel corso dell’anno sono stati portati avanti gli interventi previsti, sempre all’interno di un lavoro che ha visto coinvolti Comitato Esecutivo e Assemblea dei Sindaci, Ufficio di Piano e referenti di subambito, Tavolo di coordinamento e Tavoli tematici. Questi livelli sono coinvolti anche nella predisposizione del

Assemblea dei Sindaci del distretto

Comitato Esecutivo dei Sindaci del distretto

Tavolo di coordinamento con i livelli di rapppresentanza del Terzo Settore

Ufficio di Piano

Livelli istituzionali a carattere distrettuale

Livelli tecnici a carattere distrettuale

Livelli tecnici dei singoli Comuni

Tavoli tematici col Terzo settore

Referenti di subambito

Il principale oggetto di lavoro attorno al quale hanno operato tutti questi livelli è stato quello dell’avvio e della gestione di interventi sociali a carattere

distrettuale

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nuovo Piano di Zona 2006-2008, da preparare entro la fine di dicembre 2005, avviata nel mese di settembre e di cui parleremo più avanti.

Tra gli aspetti da segnalare relativi al 2005 è il consolidamento della collaborazione con l’Asl e le ulteriori prospettive che sembrano aprirsi al proposito:

- dal 1 gennaio 2005 i Comuni, attraverso l’Ufficio di Piano, gestiscono direttamente il Servizio di inserimento lavorativo e nel corso dell’anno hanno proceduto ad una riorganizzazione e ad un potenziamento del Servizio, assumendo anche nuovo personale;

- riguardo alla tutela minori ci si sta domandando se anche la parte residua del servizio gestita dall’Asl (psicodiagnosi e psicoterapia) non possa passare ai Comuni …

e allo stesso modo per quanto riguarda l’area anziani - dove già gli operatori di Comuni e Asl collaborano in riferimento al Sad, all’Adi e all’erogazione dei voucher sociali e dei voucher sanitari - sembrano aprirsi prospettive di un maggior coinvolgimento dei Comuni rispetto alla gestione di funzioni socio-sanitarie fino ad ora di competenza dell’Asl: ci riferiamo proprio all’Adi e all’erogazione dei voucher sanitari che potrebbero passare completamente a gestione comunale.

6. Elementi di bilancio del lavoro compiuto sul Piano di Zona nel periodo 2003-2005

6.1 Il distretto sociale si afferma quale nuovo soggetto del welfare

Come abbiamo visto, gli anni dal 2003 al 2005 sono anni in cui i Comuni (e con loro anche il Terzo settore) hanno iniziato a pensare e gestire le politiche sociali in una logica di distretto e non più unicamente all’interno dei propri confini o assieme a qualche Comune vicino.

Tutti gli interventi sociali che abbiamo indicato ai punti 5.1, 5.2 e 5.4 sono stati rivolti all’intero distretto (in molti casi raggiungendo territori in precedenza carenti di servizi sociali) in varie aree si sono avviate equipe distrettuali di operatori che hanno iniziato a costruire forme e metodi condivisi di intervento, nel Tavolo di coordinamento e nei tavoli tematici pubblico e privato sociale si sono confrontati rispetto a problemi di profilo distrettuale.

In questa vicenda l’Ufficio di Piano ha svolto un ruolo molto significativo di raccordo tra livello politico e livello di gestione degli interventi, assumendo spesso funzioni di promozione, di coordinamento e anche di gestione diretta dei servizi sociali distrettuali: “in effetti - viene riconosciuto - in questi anni il profilo gestionale dell’Ufficio di Piano è stato marcato”.

Deve essere evidenziato come, grazie a questo impegno di natura gestionale dell’Ufficio di Piano, che consiste in questo lavoro di ‘mettere’ e ‘tenere in piedi’ nuovi interventi sociali per conto di tutti i Comuni del distretto,

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quest’ultimo ha preso forma concreta e ottenuto riconoscimento sul territorio, tanto da essere oggi individuato dall’Asl come soggetto al quale poter trasferire servizi e funzioni.

“In questo territorio - a differenza di molte altre zone della regione - vi è un rapporto stretto tra Asl e Ufficio di Piano […] in questi anni abbiamo lavorato molto insieme. Ora che l’Asl - secondo le direttive regionali - deve rinunciare alla produzione diretta di servizi ha trovato nel distretto sociale un soggetto che rappresenta un ambito non monocomunale ma più ampio e che, attraverso il lavoro dell’Ufficio di Piano, può assumere funzioni di programmazione e governance dei servizi sociali e anche di quelli socio-sanitari …”.

Queste ultime considerazioni sembrano dirci che in un modello come quello lombardo - dove sul Piano di Zona l’Asl è chiamata a svolgere funzioni di programmazione e controllo nei confronti delle azioni dei Comuni, che, secondo diversi osservatori, priverebbe gli enti locali di un ruolo e di un peso significativi - si sta producendo un’esperienza di lavoro tra Comuni e Asl, in cui i Comuni hanno acquisito funzioni rilevanti in ordine alla programmazione e alla gestione dei servizi sociali e dei servizi socio-sanitari: l’ambito territoriale di Cremona, cioè, pare voler sottolineare come un conto sono gli assetti organizzativi e un altro i processi di lavoro che dentro quegli assetti possono svilupparsi tra gli attori e che, a certe condizioni, possono avvicinare posizioni a volte distanti e anche condurre a riformulare le funzioni, gli equilibri e i rapporti che gli assetti iniziali attribuivano agli attori. Se infatti nel modello lombardo di lavoro sul Piano di Zona l’Asl è concepita come ente sovraordinato ai Comuni, all’interno del Piano di Zona dell’ambito di Cremona si è prodotta un’esperienza che nei fatti finisce per configurare il rapporto tra Comuni e Asl come un rapporto più di partnership che di dipendenza.

6.2 Il problema di ripensare l’assetto organizzativo

Nel periodo 2002-2005, i Comuni hanno assunto, esteso, riorganizzato molti servizi sociali e socio-sanitari al punto che ora l’assetto organizzativo pensato all’inizio di questo periodo non sembra più idoneo a seguire il lavoro che si è sviluppato in questi anni e le sue prospettive di crescita.

L’Ufficio di Piano ad esempio è ritenuto ormai “sottodimensionato per le numerose funzioni che è chiamato a gestire”.

Non si tratta, però, solo di potenziare il personale dell’Ufficio (passaggio, per altro, che si sta cercando di compiere proprio in questi mesi) ma anche di “ripensare alla sua collocazione”: oggi, infatti, questo Ufficio che ha un raggio d’azione distrettuale è ancora parte di un Settore del Comune di Cremona che invece opera prevalentemente a favore del territorio di questo Comune.

Analogamente, i referenti di subambito dipendono dal Comune capofila di subambito, pur dovendo operare in accordo con l’Ufficio di Piano e svolgere funzioni a favore di tutti i Comuni del subambito.

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Così per le assistenti sociali che operano nei nuclei distrettuali del Servizio sociale professionale o del Servizio tutela minori, ma dipendono da singoli Comuni del distretto.

A livello politico, poi, non sono presenti forme di collegamento tra i Comuni di subambito, che invece sono state avviate sul piano tecnico: tutto è ricondotto all’Assemblea e al Comitato Esecutivo dei Sindaci, il cui funzionamento e la cui composizione non sono ancora sufficientemente ispirate al criterio della suddivisione in subambiti.

Pertanto il distretto sociale cui si è dato vita col Piano di Zona è al momento costituito da funzioni distrettuali, esercitate da uffici e livelli che permangono in capo a singoli Comuni e disciplinate attraverso la forma dell’Accordo di programma tra i Comuni: i Comuni, cioè, non hanno creato un organismo distrettuale di gestione dei servizi sociali, con un proprio profilo giuridico e una propria articolazione sul territorio.

Ma se la scelta iniziale di introdurre funzioni distrettuali (appoggiandosi a singoli Comuni) invece che vere e proprie strutture distrettuali ha probabilmente consentito di muoversi più rapidamente e avviare tutta una serie di azioni e interventi, ora che le responsabilità sono cresciute e divenute più complesse si pone il problema di far evolvere l’assetto organizzativo del distretto sociale.

Si tratta di un passo avanti, non facile da compiere. In primo luogo per il fatto che per diversi Comuni (quelli che hanno una storia di gestione diretta di taluni servizi sociali) si tratta di rinunciare ad una forma di controllo più diretto di funzioni e risorse rispetto a quella che potranno esercitare nell’ambito di un nuovo soggetto a carattere distrettuale. E poi per il fatto che in questi anni all’interno del Piano di Zona (proprio allo scopo, come abbiamo detto, di conferire concretezza ed efficacia all’idea di distretto sociale) si è privilegiato - a livello politico, come a livello tecnico - un lavoro fortemente orientato all’avvio e alla gestione di nuovi interventi a carattere distrettuale (tra l’altro prendendo in considerazione solo uno specifico canale di finanziamento ossia la quota indistinta del Fnps) il che ha finito per lasciare indietro una riflessione tra i Comuni sull’adeguamento dell’assetto organizzativo e sulle strategie complessive di politica socio-sanitaria.

Questo tipo di scelta, inoltre, ha condizionato i rapporti col Terzo settore, che come abbiamo visto è stato coinvolto più agevolmente rispetto ai nuovi interventi da avviare e gestire (attraverso i tavoli tematici) di quanto non sia stato possibile fare rispetto a questioni più generali di indirizzo e programmazione strategica (cui era preposto il Tavolo permanente di coordinamento).

Lo stesso mondo del Terzo settore, poi, sembra dover ripensare al proprio assetto organizzativo: consolidare le forme di rappresentanza, articolarle per ambiti tematici e in modo più omogeneo sul territorio del distretto sono prospettive aperte dal lavoro sul Piano di Zona. Anche se proprio il fatto che i Comuni negli ultimi tempi hanno lasciato un po’ in secondo piano la questione dell’assetto organizzativo del distretto sociale sembra aver avuto l’effetto di non spingere a sufficienza il Terzo settore nella direzione di una riflessione sui

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propri assetti, orientandolo maggiormente ad una collaborazione con i Comuni in tema di gestione dei nuovi interventi a carattere distrettuale.

Ma nel frattempo altre iniziative proprio in tema di riorganizzazione degli assetti e dei servizi sono venute avanti all’interno del Comune di Cremona, rimanendo però in buona misura estranee al lavoro sul Piano di Zona.

7. La nascita dell’Azienda speciale del Comune di Cremona e il rapporto col Piano di Zona

Dalla trasformazione di due Ipab cittadine viene istituita nel novembre 2003 e diviene operativa dal gennaio 2004 l’Azienda speciale del Comune di Cremona “Cremona solidale”.

L’Azienda prosegue nella gestione della grande Rsa della città (oltre 400 posti) ereditata da una delle due Ipab: si tratta, a dir meglio, di un polo geriatrico cui appartengono, oltre all’Rsa, anche un centro di riabilitazione, due centri diurni, un servizio di assistenza domiciliare, un servizio di assistenza domiciliare integrata, ambulatori medici e di fisioterapia.

Dall’altra Ipab cittadina, invece, l’Azienda prende in consegna tre comunità alloggio per minori, alloggi per donne in difficoltà e un centro diurno per anziani.

L’Azienda, inoltre, riceve in gestione dal Comune tutti i servizi sociali che facevano capo al Settore Affari sociali del Comune: tre Cse, una comunità alloggio per disabili, l’assistenza domiciliare e il sostegno scolastico per disabili, un centro educativo pomeridiano per minori, l’assistenza domiciliare per anziani, un centro di prima accoglienza per senza fissa dimora. Il personale del Settore (complessivamente circa 50 persone) invece non passa all’Azienda.

A questo Settore del Comune rimane la responsabilità del contatto con i cittadini, la definizione dei piani di assistenza individuali e l’invio all’Azienda che eroga le prestazioni. A ciò si aggiunge il compito per il Settore di controllare i risultati delle prestazioni effettuate dall’Azienda.

L’Azienda appalta la gestione dei servizi di cui è responsabile a Cooperative sociali, come in precedenza faceva anche il Comune. Cambiano, però, le modalità di appalto: se in precedenza venivano appaltate singole unità d’offerta, ora i servizi vengono affidati per macro-area. A questo punto le Cooperative sociali del territorio (si tratta spesso di piccole organizzazioni) per poter partecipare alle gare hanno dovuto costituirsi in Ati, riuscendo alla fine ad aggiudicarsi i servizi.

L’ingresso dell’Azienda, perciò, produce cambiamenti di rilievo: “certo adesso c’è maggiore efficienza nella raccolta dati, nel monitoraggio dei servizi … ma il Terzo settore col cambio di interlocutore ha dovuto risintonizzarsi, sono cambiati linguaggi, prassi …”.

Gli interrogativi maggiori la nuova situazione sembra porli, però, proprio al Settore Affari sociali del Comune: “per un settore abituato a gestire servizi

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direttamente ora dover interagire con il lavoro di un’Azienda (che a sua volta affida i servizi a terzi) non è una cosa facile …”.

Ma la nascita dell’Azienda pone questioni non solo alla realtà di Cremona città, ma anche a tutto il distretto: ci si domanda, infatti, “se l’Azienda possa diventare quella nuova struttura a carattere distrettuale” che il lavoro sviluppato nell’ambito del Piano di Zona sembra richiedere …

Oppure se non si debba pensare ad altri tipi di organizzazioni come “iConsorzi di Comuni verso cui si stanno muovendo gli altri distretti della provincia di Cremona …”, dal momento che “l’Azienda oggi sembra ruotare molto attorno alle attività del suo polo geriatrico, attorno a servizi sanitari più che sociali …” e che “non si tratterebbe solo di estendere il raggio d’azione della propria attività (dal Comune di Cremona al distretto) ma anche di assumere nuovi tipi di funzioni, di programmare servizi assieme a tanti altri attori, non solo di gestirli, di lavorare molto col territorio …”.

Rimane aperta anche la questione del rapporto tra Ufficio di Piano e Settore Affari sociali del Comune: “l’Ufficio di Piano è qualcosa d’altro dal Settore ? […] oppure occorre reimpostare tutto il lavoro del Settore in un’ottica di sostegno al distretto sociale ?”.

Tutti questi interrogativi, che sinora erano circolati soprattutto nell’ambito dell’Ufficio di Piano rimanendo ai margini del lavoro degli altri livelli del Piano di Zona (in particolare di quelli istituzionali) ricopriranno un ruolo centrale nel percorso di costruzione del prossimo Piano di Zona.

8. La costruzione del Piano di Zona 2006-2008: torna al centro la riflessione su strategie e assetti

L’Ufficio di Piano, infatti, riconosce che “il prossimo Piano di Zona dovrà avere un respiro strategico, mettere al centro le questioni relative a strategie e assetti ed evitare di ridursi ad un’elencazione di servizi da gestire …”. E soprattutto “dovrà essere costruito portando i Sindaci dei vari Comuni e anche il Terzo settore a discutere su queste cose”. È questa la grande prospettiva di lavoro dei prossimi mesi, “tenendo presente che nel nuovo Piano di Zona non si potrà certo definire già quale sarà la nuova forma di gestione … si tratterà semmai di indicare un percorso di lavoro che nei prossimi anni condurrà ad individuare e mettere in piedi un nuovo organismo distrettuale”.

Il nuovo Piano di Zona diviene pertanto il terreno su cui si riconnettono due vicende importanti (quella del distretto sociale e quella dell’Azienda del Comune di Cremona) che in questi anni avevano camminato un po’ separate e in cui il Comune di Cremona aveva rivestito funzioni differenti (in un caso di promozione di logiche di lavoro distrettuali, nell’altro di sviluppo del proprio sistema comunale): si tratterà di considerare gli effetti che ognuno dei due percorsi sta avendo sull’altro, i legami che potranno essere costruiti, ma anche i confini, le rispettive specificità, gli elementi di distinzione, nell’intento di costruire

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un sistema in grado di contemperare le esigenze del capoluogo e quelle dei tanti e diversi Comuni del distretto.28

In questo dibattito, per il Piano di Zona sarà importante rendere visibili gli esiti del lavoro sin qui realizzato e fare apprezzare alcune intuizioni organizzative che, se sviluppate, potrebbero consentire di tenere insieme le diverse esigenze dei Comuni del distretto: ci riferiamo in particolare all’esperienza dei punti di riferimento di subambito, che in questi anni hanno già svolto importanti compiti d’integrazione tra orientamenti distrettuali e situazioni specifiche dei singoli Comuni e che se consolidati (sia sul piano organizzativo che su quello istituzionale) potranno costituire un elemento cruciale nella riduzione della frammentazione comunale e nella promozione di politiche socio-sanitarie più omogenee nel territorio del distretto ma anche più attente e vicine alle situazioni dei piccoli Comuni.

Va sottolineato, infine, come queste modalità di affrontare la frammentazione comunale si siano sviluppate in assenza di direttive regionali sul tema che potessero fungere da punti di riferimento per i Comuni. Ed è proprio su questo aspetto che l’ambito di Cremona ha incontrato le maggiori difficoltà: in questa porzione del territorio regionale, cioè, i nodi da sciogliere più che nel rapporto tra Comuni e Asl (come si potrebbe pensare date le particolarità del modello lombardo) si sono presentati nel rapporto tra i molti e differenti Comuni dell’ambito.

In più, alcune ripetute sottolineature della Regione legate alle forme di utilizzo dei finanziamenti resi disponibili dai fondi nazionali indistinti e di settore sembra aver un po’ distolto l’ambito dalla costruzione di un sistema complessivo di lavoro tra i Comuni sulle politiche sociali, favorendo la diffusione di una concezione del Piano di Zona più legata all’utilizzo di fondi aggiuntivi che alla costruzione di un sistema integrato di politiche e interventi.

È stato osservato come “la Regione sembri interessata più ai voucher che ai processi di costruzione dei distretti sociali e al sostegno di tali processi (a differenza della Provincia che su questi aspetti ha aiutato di più i distretti, favorendo un confronto tra di essi)”. Va anche detto che questa distanza della Regione dai processi di costruzione dei distretti sociali è probabilmente da ricondurre - questa volta sì - proprio alla tipicità del modello lombardo: le Asl (frapposte tra Regione e distretti) sembrano svolgere un controllo sui Piani di Zona più opaco alla dimensione dei processi organizzativi e più attento agli aspetti di bilancio economico, il che finisce per non consegnare alla Regione un quadro complessivo degli sforzi e delle difficoltà che i Comuni stanno incontrando nella costruzione del sistema e quindi riduce le possibilità della Regione di intervenire per sostenere queste azioni. Al proposito sempre l’ambito di Cremona ci suggerisce che le Province, più delle Asl, potrebbero svolgere un’importante funzione di raccordo con la Regione in relazione ai percorsi di costruzione dei distretti sociali.

28 In questo scenario si tratterà anche di valutare l’apporto che potrà giungere dalle quindici Fondazioni (nate di recente dalla trasformazione delle Ipab) per la gestione di altrettante case di riposo per anziani presenti sul territorio del distretto.

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In conclusione, va rilevato come nell’ambito di Cremona il Piano di Zona - pur muovendosi in acque agitate da correnti non sempre favorevoli, sia interne che esterne al distretto - è riuscito nel corso degli anni a ritagliarsi uno spazio sempre più significativo: da “goccia nel mare” così come abbiamo detto era sentito inizialmente da coloro che vi lavoravano è pian piano diventato un luogo che ha introdotto cambiamenti importanti a cominciare dal modo dei Comuni di vedere le politiche sociali (in particolare dei livelli politici, il cui desiderio di occuparsi più direttamente di servizi sociali è cresciuto) … un luogo che ora si appresta a riconnettere parti del sistema che andavano per proprio conto e che pertanto potrà ospitare quelle riflessioni complessive su strategie e assetti delle politiche sociali e socio-sanitarie, di cui il distretto sociale ha bisogno per potersi consolidare e che sono anche nello spirito e negli obiettivi di fondo della 328.

LUGO, L’INTEGRAZIONE AL TEMPO DELLE DELEGHE29

1. Il contesto territoriale e quello legislativo: alcuni elementi di quadro

1.1 Contesto territoriale

Comuni che compongonol’ambito distrettuale

L’ambito distrettuale di Lugo comprende 9 Comuni: Lugo (31.723 ab.), Alfonsine (11.765 ab.), Bagnacavallo (16.092 ab.), Bagnara (1.811 ab.), Conselice (9.125 ab.), Cotignola (6.907 ab.), Fusignano (7.727 ab.), Massalombarda (8.875 ab.), Sant’Agata (2.248 ab.).

Provincia di RavennaPopolazione 96.273 abitanti al 1 gennaio 2004 Superficie 479,71 kmq Densità abitativa 202,43 (2004)

Ambito distrettuale eDistretto sanitario dell’Asl

L’ambito territoriale in riferimento al quale viene elaborato il Piano di Zona è composto dai nove Comuni del comprensorio di Lugo, e coincide con il territorio compreso nel Distretto sanitario di Lugo.

Forme d’integrazione istituzionale tra i Comuni (Associazioni, Unioni, Comunità montane, Patti territoriali, …)

I nove comuni della Zona sociale assieme al Comune di Russi (che fa parte della Zona sociale di Ravenna) hanno costituito l’Associazione intercomunale della Bassa Romagna il cui regolamento è stato approvato dalla Conferenza permanente dei Sindaci il 31 dicembre 1999.

29 Il presente testo è stato elaborato sulla base a) di un incontro tenutosi il 29 settembre 2005 a Lugo con Elena Zannoni, Assessore alle Politiche sociali del Comune di Lugo, Maria Luisa Liverzani, Responsabile Servizio sociale del distretto Ausl di Lugo e Silvia Zoli, Coordinatore tecnico dell’Ufficio di Piano (le parti riportate tra virgolette in corsivo sono state pronunciate nel corso dell’incontro dalle persone su indicate), b) dell’analisi del Piano di zona del distretto di Lugo 2002-2004, programma attuativo 2002 e del Piano di zona del distretto di Lugo 2005-2007, e c) dei documenti indicati al punto 1.2.

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1.2 Contesto legislativo

Quadrinormativiregionalidi sistemaai qualisi connette il Piano sociale d’ambito

- Con la Del. G.R. n. 329 del 11.03.2002 la Regione ha emanato le Linee Guida per la predisposizione e l’approvazione dei piani di zona sperimentali.

- DPCM 14/02/2001: la Regione Emilia-Romagna adotta il decreto nazionale sui Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) inserendo l’assegno di cura (L.R. 5/94). Viene rimandata al 2003 la definizione della quota sanitaria e sociale nei Lea.

- L. R. n.2/2003 (e modifiche introdotte dalla L.R. n. 5/2004: Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri) Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali: è la legge che recepisce la 328/2000.

- Nell’estate del 2005 è stata inviata ai Comuni una prima bozza (denominata “Materiali per l’avvio della consultazione”) del primo Piano Sociale e Sanitario della Regione, di validità triennale (2005-2007).

2. Assetti e forma di gestione dei servizi sociali

Assetti e forme di gestione dei servizi sociali (i rapporti tra i Comuni, tra Comuni e Asl,ecc.): la situazione presente, i cambiamenti recenti, le prospettive future

- Tutti e nove i Comuni della Zona sociale hanno delegato al Distretto Sanitario di Lugo la gestione integrata delle funzioni, degli interventi e delle prestazioni sociali relative alle seguenti aree di intervento:

- famiglia e minori

- handicap

- adulti in disagio

- Responsabile del caso e Coordinamento assistenza domiciliare per l’Area anziani. Tutti gli altri servizi relativi all’area anziani sono invece a carico dei singoli Comuni.

3. Il Piano sociale di zona: orientamenti di fondo, livelli e processi di lavoro

3.1 Alla ricerca di una lente per il Pdz di Lugo: cambiamenti e innovazioni dentro un regime di deleghe all’Ausl

In una recente pubblicazione della Regione Emilia-Romagna, che si prefigge l’obiettivo di effettuare un primo bilancio della sperimentazione dei Piani sociali di Zona nel biennio 2002-2004, il discorso sui Piani viene riformulato all’interno del significato e dei contenuti portanti della legge regionale 2 del 2003, una legge con la quale sono stati “compiutamente definiti, in armonia con la legge 328/2000 e tenendo conto delle nuove competenze derivanti dalla riforma del Titolo V, i principi e gli strumenti che disegnano un

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nuovo sistema di interventi e al tempo stesso di relazioni tra tutti i soggetti del sistema, istituzionali e sociali, avendo a riferimento una visione universalistica dei diritti sociali e fortemente radicata nelle comunità locali”.30

In questa prospettiva di ‘compiuta definitezza’, lo strumento del Pdz viene collocato in un “disegno” di sviluppo locale consistente nell’attivazione di un nuovo livello di governo territoriale, appunto quello della Zona, che avrebbe il compito di consolidare e potenziare “la tendenza storica di molti Comuni, […] ad assumersi un ruolo rilevante nell’elaborazione e nello sviluppo delle politiche sociali”. Se questo ruolo viene ravvisato in un crescente “sviluppo della gestione di funzioni in forma associata” (incluse quelle connesse ai servizi alla persona),31 esso viene collegato innanzitutto alla “scelta dei Comuni di ritirare le deleghe alle Aziende Usl nella gestione degli interventi”, così che questo rapporto finisce per assumere agli occhi della Regione un rilievo tutto particolare. Se infatti il quadro regionale delle esperienze aggregative intercomunali preesistenti o sviluppatesi insieme ai Pdz segnala l’assunzione da parte dei Comuni di un rapporto improntato ad una maggiore “contrattualità” nei confronti dell’Ausl, pare tuttavia trapelare anche il timore che la situazione di delega del recente passato possa talora indurre ad atteggiamenti di segno opposto così da rendere particolarmente onerosa (e anche incerta) la costruzione di forme d’integrazione con le Aziende che risultino davvero “alternative alla delega ma anche alla separatezza”. Al riguardo si profilerebbe una situazione aperta, dove cioè gli sforzi orientati all’integrazione con l’Ausl, pur potendo confidare su una serie di esperienze positive, sembrano ancora giocarsi prevalentemente sulla dimensione operativa dei singoli tavoli tematici e meno su quella più complessa e determinante dei livelli gestionali e istituzionali.32

Abbiamo fatto questo richiamo al testo della Regione, perché ci sembra introdurre un aspetto che potremmo assumere come una sorta di grandangolo interpretativo per gettare qualche luce in più sul lavoro realizzato dalla Zona sociale di Lugo per quanto riguarda i Piani di Zona, vale a dire la ricerca di un rapporto tra Comuni e Ausl alternativo vuoi alla delega, intesa come disinvestimento da parte degli Enti locali, vuoi alla separatezza, intesa come fatica/rifiuto a “dialogare” e ad integrare risorse ed interventi. Assumiamo cioè come lente di lettura la questione della presenza o meno di una ‘terza via’ a Lugo, dove però - a differenza del testo citato della Regione- la situazione non è quella del ritiro delle deleghe, bensì quella del loro permanere. Intendiamo cioè domandarci se e in quale misura l’avvio e lo sviluppo del lavoro relativo al Pdz all’interno di una situazione nella quale le deleghe vengono mantenute, ha promosso o riformulato i rapporti tra Comuni e Ausl nella direzione di una maggiore integrazione e contrattualità invece di confermare un atteggiamento

30 Regione Emilia-Romagna, I Piani sociali di zona in Emilia-Romagna. La sperimentazione nel triennio 2002/2004, p. 10. 31 “Circa il 70% dei Comuni della Regione fa parte di Unioni, o di Comunità montane o di Associazioni intercomunali”, Ibid., p. 11. 32 Ibid., p. 29.

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improntato alla delega e - se non alla separatezza istituzionale- almeno a quella operativa. Insomma cercheremo di gettare una luce ‘dietro la delega’ per vedere se oltre il profilo dell’assetto istituzionale - che rimane immutato - l’entrata in scena del Pdz abbia potuto promuovere invece una significativa riformulazione dei rapporti tra i diversi soggetti che operano nel sociale.

3.2 Fra delegare e integrare: il contesto dentro il quale prende avvio il lavoro sui Piani di Zona

3.2.1 Ritirare le deleghe… per darle a chi?

Quella di Lugo non è l’unica Zona sociale della Romagna in cui le deleghe non sono state ritirate: anche Cesena, Rimini e altre zone le hanno mantenute. Nonostante ciò non è mancato un intenso dibattito sull’opportunità di questo passaggio in concomitanza con la costituzione del Consorzio Servizi sociali di Ravenna (1999) e, più recentemente, con quella con quella dei Servizi Sociali Associati del Distretto di Faenza gestiti attraverso un ufficio comune33 in capo al Comune di Faenza (2002).

La questione che si poneva era complessa:

- se da un lato si prospettava la possibilità per i Comuni di ri-assumere una responsabilità diretta, anche gestionale, rispetto ai servizi sociali;

- dall’altro s’imponeva la necessità di individuare le forme da dare al nuovo sistema di gestione, visto che si era comunque concordi sul fatto che l’eventuale ritiro delle deleghe non poteva corrispondere con il ritorno ad una situazione in cui ciascun Comune pensasse e gestisse i servizi sociali per proprio conto: l’intenzione era quella di mantenere una prospettiva sovracomunale, in considerazione del fatto che la stessa Azienda Usl era stata incaricata non dai singoli Comuni, ma dal Comprensorio attraverso un unico contratto di servizio “per la gestione associata delle funzioni di assistenza sociale nel territorio del distretto di Lugo.”

Fu costituito pertanto un apposito gruppo di lavoro, che valutò approfonditamente le due questioni e giunse alla conclusione di lasciare le cose come stavano, “almeno per il momento”.

Le ragioni di questa scelta furono ricondotte in particolare al fatto che si andava già profilando all’orizzonte l’intenzione del legislatore nazionale di procedere alla definizione di un processo di trasformazione delle Ipab che prevedesse la loro integrazione nel sistema locale dei servizi. In un contesto del genere si correva il rischio di avviare un percorso per la costituzione di un Consorzio o di altra forma gestionale che avrebbe dovuto poi fare i conti da subito con la presenza di una nuova Azienda pubblica di servizi alla persona. La sovrapposizione di cambiamenti istituzionali ed organizzativi di notevole impatto non sarebbe stata opportuna nel breve volgere di pochi anni.

33 Vedi D.L. 267/2000, art. 30, c. 4 (riportato alla nota 18 del testo dedicato al Pdz di Pesaro).

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Fu assunta allora la decisione di attendere che si chiarisse il quadro relativamente al processo di trasformazione delle Ipab, prima di introdurre cambiamenti di natura istituzionale.

3.2.2 L’importanza di procrastinare

Ci sembra però importante segnalare come questa decisione di attesa, che potrebbe essere interpretata come un movimento che quanto meno sospende alcune dinamiche d’integrazione dei Comuni, venga invece assunta all’interno di un contesto caratterizzato da una storia che ha dimostrato una discreta capacità nel promuovere e realizzare - se vogliamo un po’ sottotraccia- processi d’integrazione sia su livelli e temi differenti, sia tra tutti i principali soggetti operanti nell’ambito dei servizi sociali.

Devono essere letti in questa prospettiva sia la definizione del criterio che presiede alla composizione del bilancio sociale di Zona, sia una serie di accordi nell’ambito delle politiche per gli anziani, un ambito rispetto al quale i Comuni hanno mantenuto - a differenza degli altri settori- una quota maggiore di responsabilità diretta di tipo anche gestionale.

Per quanto attiene al primo aspetto, che rappresenta un tema nevralgico sulla via della costruzione di forme associate di servizi, ossia quello della spesa,dobbiamo ricordare che “con una scelta di solidarietà e di condivisione che per questa zona è ancora abbastanza avanzata, i Comuni partecipano al bilancio sociale con la quota capitaria, cioè in proporzione al numero degli abitanti, e non a quello degli interventi effettuati a favore dei propri residenti. Mentre ad esempio a Faenza - che è poco lontana da noi- tuttora, con i Servizi sociali associati, ciascun Comune (anche il più piccolo) deve farsi carico dei costi di tutti gli interventi a favore dei propri residenti. Nel Distretto di Lugo, invece, il Comune di Bagnara, con duemila abitanti, partecipa ai costi dei servizi sociali per la quota proporzionale a questa popolazione, qualunque sia il numero ed il costo degli interventi effettuati a suo favore. E questa è una decisione che fu presa circa 20 anni fa”.

Parallelamente, per quanto attiene agli accordi sul versante dei servizi per gli anziani (che sono delegati all’Ausl soltanto per quanto riguarda la presa in carico dei casi, mentre tutti gli altri servizi fanno capo ai Comuni e alle Ipab) occorre dire che dal 1995 (cioè prima dell’avvio dell’esperienza dei Piani di Zona) era stato stipulato un Accordo di Programma fra i singoli Comuni, l’Azienda Usl e le Ipab che ha permesso la gestione integrata e condivisa degli interventi e che ha rappresentato la base sulla quale si è giunti nel 2004 all’elaborazione e assunzione di un Regolamento per l’accesso alle prestazioni di Assistenza domiciliare omogeneo per tutti i nove Comuni del Distretto. A questo si aggiunga che si è giunti anche all’approvazione di un unico Regolamento per l’esercizio delle funzioni socio-assistenziali di competenza dei Comuni e del Regolamento per l’applicazione dell’Isee.

È anche rispetto a questo complesso scenario fatto di numerose forme pratiche di integrazione nel quale prende corpo ”una storia rispetto al vedere le

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cose insieme e non in modo separato per ogni singolo Comune” che deveessere colto il significato della scelta di procrastinare l’individuazione della nuova forma di gestione. Se infatti è probabilmente da collegare a questa storia il motivo di fondo che sconsiglia il ritiro in forma individuale delle deleghe da parte dei Comuni, è ancora questa stessa storia a renderci cauti nel conferire alla scelta di posticipare un significato meramente attendista, implicante cioè una sospensione o almeno un rallentamento nel portare a compimento - nel quadro dell’assetto gestionale comunque vigente- i processi d’integrazione attivati o a ricercare gli spazi e le forme per promuoverne di nuovi. Come vedremo, l’esperienza di Lugo sembra ruotare proprio attorno a questa capacità di trasformare una apparente scelta ‘di ripiego’ (che confermava temporaneamente l’assetto gestionale in atto) in una opzione particolarmente fattiva in termini d’integrazione dei servizi sociali e sanitari territoriali.

3.3 Architettura e ciclo di lavoro del Pdz: la sperimentazione 2002

Nel cercare di mettere a fuoco l’architettura istituzionale e organizzativa del Pdz di Lugo e il ciclo di lavoro in esso previsto, vale la pena operare un sintetico confronto tra la sperimentazione del 2002 e la loro riformulazione avvenuta nel 2004, in concomitanza con l’approvazione del Programma attuativo di quell’anno, per cogliere il senso delle modificazioni che si sono sviluppate.

La prima sperimentazione dei Pdz (2002-03) prende avvio in un contesto in cui i Comuni - impegnati su una dimensione più istituzionale, connessa all’individuazione delle possibili forme da conferire alla gestione del sistema dei servizi sociali del distretto- di fatto finiscono per conferire il compito relativo alla progettazione della dimensione organizzativa del lavoro sul Pdz a chi cura la gestione della maggior parte dei servizi sociali. È infatti l’Ausl (e in particolare la Direzione del Distretto) che svolge in questa fase un ruolo effettivamente “propulsivo”, a partire da un mandato assegnatole dal Comitato di Distretto, “perché c’era questa nuova cosa” che –essendo di zona– non poteva essere avviata dai singoli Comuni. In pratica, in sede di Comitato di Distretto, si concordò di presentare, congiuntamente al Piano delle Azioni del Distretto sanitario per l’anno 2002, l’avvio del percorso programmato per la costruzione del Piano di Zona, “i Sindaci si fecero promotori di sei Gruppi di lavoro, coordinati ognuno da un dirigente comunale, definiti in base alle problematiche individuate e coerenti con la L.328/2000”.

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La forma di lavoro prevista, e poi realizzata, nell’ambito del Pdz 2002-2003, ruotava attorno all’attività di tre soggetti che potremmo rendere molto schematicamente così:

Fig. 1

Potremmo descrivere il processo di lavoro organizzandolo su tre fasi. Nella prima l’attività di programmazione prende l’avvio con la costituzione da parte del Comitato di distretto, che mantiene il ruolo di indirizzo e di governo politico del Piano, di sei gruppi di lavoro (corrispondenti alle seguenti aree tematiche: responsabilità familiari, diritti dei minori, contrasto della povertà, sostegno alla domiciliarità, prevenzione delle dipendenze, inserimento sociale degli immigrati) ai quali viene assegnato il mandato di individuare indirizzi e priorità per il Piano.

Nella seconda fase a partire dai loro primi elaborati, i Sindaci definiscono e formalizzano obiettivi e priorità del Piano 2002-2003, in base ai quali avrebbero dovuto essere elaborati i progetti da inserire nel Programma Attuativo 2002.

Nella terza infine i Gruppi, articolati anche in sottogruppi, elaborano i progetti che divengono parte integrante del P.A. 2002, il quale fu condiviso, verificato e monitorato dal Gruppo Tecnico Distrettuale (Gtd).

Per comprendere meglio la qualità dell’integrazione prodotta innanzitutto all’interno del processo di costruzione del Pdz occorre dare uno sguardo a questi soggetti.

Per quanto concerne i Gruppi di lavoro la loro composizione prevedeva un promotore rappresentato da uno dei Sindaci del Distretto e un nucleo stabile costituito da una segreteria che prevedeva il coordinatore del gruppo (in genere un funzionario di un Comune diverso da quello del Sindaco-promotore) due o più rappresentanti del Distretto Ausl e altri rappresentanti del mondo del volontariato, Cooperative sociali, scuole, Opere pie.

Comitato di Distretto (Sindaci + Direttore Distretto)

Gruppo Tecnico Distrettuale 6 Gruppi di lavoro

tematici coordinati da dirigenti dei Comuni

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Accanto al Comitato di Distretto ed ai Gruppi di lavoro si colloca infine il Gruppo tecnico distrettuale, composto dai tecnici dei servizi territoriali dei Comuni (in genere coincidenti con i coordinatori dei Gruppi di progetto) e dai coordinatori del Servizio sociale Ausl, aperto ai referenti locali delle Ipab e del terzo settore, che svolge una sorta di regia tecnica del lavoro previsto all’interno del Piano, nella quale rientra sia la cura della redazione del Pdz sia il compito di monitorare e valutare il grado di realizzazione degli interventi individuati nel Piano Attuativo 2002 e promuovere le azioni per la redazione del Piano Attuativo 2003.

Il risultato, come si può vedere, è quello di un processo di lavoro che, pur conoscendo inizialmente un certo protagonismo anche da parte dell’Ausl, si connota a nostro avviso per tre aspetti che ne rivelano una natura “estroversa”:

a) è aperto immediatamente ai numerosi soggetti sociali del Distretto, i quali se vengono coinvolti soprattutto nelle fasi dell’individuazione delle priorità d’area e della progettazione degli interventi,34 vengono implicati anche nell’elaborazione complessiva del Piano, sia con la loro partecipazione al Gtd che nella messa a punto di ‘scelte di sistema’35 con l’individuazione di un oggetto trasversale al lavoro dei sei gruppi concernente il miglioramento e la omogeneizzazione dei regolamenti fra i Comuni per l’erogazione dei servizi, in particolare per quelli relativi agli interventi economici e all’assistenza domiciliare;

b) si preoccupa di mettere a punto forme (come quella della figura del Sindaco-promotore) atte a promuovere un maggiore coinvolgimento di tutto il livello politico della Zona che, in un regime di delega all’Ausl, era per forza di cose rimasto un po’ ai margini della progettazione di molte questioni connesse alle politiche sociali;

c) sembra giocarsi, in termini di attivazione e di cura del processo di lavoro, attorno ad una iniziale e permanente funzione propulsiva dell’Ausl, che trova ben presto una fattiva collaborazione da parte dei Comuni, a partire dal personale politico di quello capofila.

3.4 Le innovazioni del Pdz 2004: la riformulazione del rapporto Ausl-Comune capofila

3.4.1 L’introduzione dell’Ufficio di Piano e la sua progressiva articolazione

Con l’Accordo di Programma che approva il Programma attuativo 2004 viene istituito l’Ufficio di Piano, che riassume le funzioni del precedente Gruppo Tecnico Distrettuale, ma introducendo al contempo qualche novità.

34 Si tratta di una presenza significativa tra diverse altre se si pensa che i 140 componenti dei sei gruppi di progetto si suddividevano in questo modo: 11 provenienti dalla Scuola, 37 dal Terzo settore, 6 dalle Ipab, 62 dall’ Ausl e 24 dai Comuni. Vedi Pdz del Distretto di Lugo, anni 2002-2004, programma attuativo 2002, p. 4. 35 Ci riferiamo a quelle opzioni segnalatie in precedenza che consentono di strutturare in forme sempre più definite il sistema nel suo complesso

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Se formalmente questo nuovo organismo risulta ora composto da:

- l’Assessore alle politiche sociali del Comune Capofila in qualità di Amministratore referente per il Pdz (coordinatore politico);

- la Responsabile del Servizio sociale Ausl (responsabile tecnico);

- la Coordinatrice tecnica dell’Ufficio di Piano;

- i Responsabili dei Servizi sociali dei Comuni;

- i Coordinatori dei gruppi di lavoro per il Pdz;

- gli Assistenti sociali Coordinatori dei Servizi sociali Ausl;

- e la Responsabile del Ser.T. dell’Ausl;

è però nell’attivazione di quella che potremmo definire una sorta di “Gruppo di coordinamento” dell’Ufficio di piano, per “effettuare consultazioni quotidiane, e per tenere un po’ le fila di tutto il processo” che possiamo meglio coglierne la natura. Tale gruppo è infatti composto:

- dall’Assessore (del Comune capofila) referente per le politiche sociali della zona;

- dalla Responsabile del Servizio sociale Ausl;

- dalla Coordinatrice tecnica dell’Ufficio di Piano.

Si tratta di un soggetto deputato a svolgere un importante ruolo di regia rispetto al Pdz che, in certa misura, riformula sia la natura tecnica del Gtd precedente, sia il ruolo dei due principali componenti: Comuni e Distretto Ausl.

Sul piano della natura del gruppo è probabile che la presenza stabile e “fattiva” dell’Assessore referente conferisca ad esso un profilo più orientato allo svolgimento di un ruolo di regia a metà tra la dimensione tecnica (in genere tipica di questo organismo) e quella politica, piuttosto che quello collegato ad una funzione di supporto organizzativo all’attività degli altri soggetti. Prova di ciò è soprattutto l’attività di questo gruppo tesa a promuovere e ad attivare - più che dei “tavoli permanenti”- degli incontri che si strutturano con modalità diverse, a seconda anche della fase di lavoro in cui il Piano di Zona si trova: progettazione, realizzazione-gestione, monitoraggio, miranti a produrre contributi di varia natura che oscillano tra la consultazione e la concertazione. Si tratta di una sorta di costellazione di organismi a geometria variabile che seguono in parallelo il lavoro più interno al Pdz e che potremmo raffigurare in questo modo:

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Fig. 2

A questa prima modificazione deve probabilmente aggiungersi una certa riformulazione dei rapporti tra Ausl e Comune all’interno di questo soggetto tecnico (e più in generale nel ciclo di lavoro del Pdz) che vede un certo rafforzamento della componente dei Comuni, consistente non solo nel ruolo dell’Assessore referente che assume la responsabilità politica dell’Ufficio di Piano e ne assicura il collegamento con l’organo politico tramite la sua partecipazione al Comitato di Distretto, ma anche con l’introduzione della figura del coordinatore tecnico che per i Comuni opera all’interno dell’Udp, in capo al Comune capofila, il Comune di Lugo.

Pertanto, sul piano del disegno organizzativo, il 2004 introduce modifiche circoscritte allo schema del 2002 che potremmo tratteggiare così:

Fig. 3

Comitato di Distretto (Sindaci, Direttore Distretto)

+ Assessore Referente

Ufficio di Piano

Gruppo di coordinamento

7 Gruppi (e sottogruppi)

di lavoro

Incontri: - fra gli Assessori all’Istruzione

- fra gli ss. alle Politiche giovanili - fra gli Ass. all’Immigrazione

ResponsabiliServizi sociali dei Comuni

Coordinatori dei Gruppi di lavoro

Coordinatori del Servizio sociale

Ausl

Processi di lavoro

all’interno della architettura

organizzativa

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Di fatto i cambiamenti più rilevanti devono essere invece ravvisati sul piano del tipo di ruolo giocato dai diversi soggetti: ruoli che si ricalibrano e cambiano in relazione alla riformulazione della funzione di coordinamento complessivo del Pdz.

3.4.2 La funzione di coordinamento: dal Servizio sociale dell’Ausl al Comune Capofila

In fondo i vari cambiamenti che abbiamo indicato nel ciclo di lavoro del Pdz in ordine alle funzioni e alla composizione delle sue articolazioni devono essere ricondotte a due aspetti più generali.

1) Il primo è rappresentato da un maggiore coordinamento e collaborazione fra i Comuni rispetto al “sociale”, un risultato che tutti collegano soprattutto al lavoro dei Pdz, grazie al quale ha maggiormente preso forma “un’idea del lavoro tra i Comuni” e una concezione del Piano stesso come lo strumento di regolazione di tutta la materia sociale della Zona e dei rapporti con i vari soggetti del territorio: “nel piano precedente eravamo arrivati alla fine con alcuni Comuni che non si erano coinvolti poi moltissimo, se non quelli che coordinavano i gruppi di lavoro. Invece questa volta nel Comitato di distretto si è condiviso che tutto passa attraverso i Piani di Zona; anche i singoli progetti dei singoli Comuni non possono essere slegati da questo percorso: non possono più relazionarsi all’Ausl e chiedere un intervento in più, senza una motivazione che passi dai Piani di Zona. Una volta compresa questa cosa, ora la partecipazione è assicurata”.

2) Il secondo aspetto si collega ad una maggiore identificazione del Comune Capofila e un più netto riconoscimento del suo ruolo di coordinamento rispetto alla rete dei servizi sociali della Zona, mentre nella prima sperimentazione era stato prevalentemente il distretto Ausl a svolgere un ruolo connesso sia alla costruzione del processo di lavoro del Pdz, sia un certo coordinamento delle attività dei suoi attori interni.

Per favorire questo cambiamento, si è passati dapprima attraverso una fase di stretta collaborazione fra Comune capofila e distretto Ausl, per giungere in seguito ad una sorta di formalizzazione del ruolo del Comune Capofila come coordinatore di tutto il lavoro. Ciò ha condotto a riformulare i profili e le composizioni delle articolazioni del Pdz e in particolare dell’organo deputato a svolgere una particolare funzione tecnica. “E questo è nato naturalmente anche a partire da tutte le normative regionali che sono uscite: che sottolineavano con forza ed a più riprese il ruolo del Comune Capofila”.

Da questo punto di vista forse non è improprio assumere l’attuale Gruppo di coordinamento dell’Ufficio di Piano come la rappresentazione in miniatura dell’esito interessante di una ricerca orientata ad impostare un nuovo rapporto tra Comuni e Azienda Usl alternativo sia alla logica della delega che alla logica della separatezza. Invece di separare completamente le funzioni politiche da quelle tecniche collocando le prime tutte nel Comitato di distretto e le seconde nell’Ufficio di piano, si è optato per l’attivazione di una sorta di organismo ‘misto’ che prevedesse al proprio interno la presenza e l’interazione di entrambe.

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In tal modo esso svolge un ampio ruolo di regia con la doppia funzione di promuovere e tenere insieme tutte le dimensioni lavorative del Pdz - vuoi quelle interne più strutturali vuoi quelle esterne da attivare ad hoc (come la consultazione e la concertazione che si sviluppano ai suoi confini)- e di orientare e sostenere le decisioni del Comitato di Distretto.

3.5 Verso una definizione formale dei rapporti fra Piano di Zona e progettualità sociale del volontariato

Per quanto riguarda in modo particolare i rapporti con il volontariato, ci pare importante segnalare un interessante percorso effettuato con il Centro di servizi per il volontariato, valorizzando in proposito un organismo previsto dalla recente legge regionale:36 il Comitato paritetico provinciale, composto da rappresentanti degli Enti locali e delle organizzazioni di volontariato iscritte e non iscritte ai registri regionali e provinciali. Poiché tra le varie funzioni che la legge gli assegna è presente quella di fornire indicazioni sulle priorità per i progetti del volontariato che richiedono il contributo finanziario dei Centri di servizio, il Comitato - su proposta dei rappresentanti degli Enti locali - ha deciso di inserire nel documento sulle priorità progettuali, la richiesta ai Centri di servizio di assegnare un punteggio maggiore ai progetti che sono parte integrante dei Piani di Zona, ed in particolare a quelli che rispondano alle indicazioni generali del Piano a partire dalle priorità e prevedendo la possibilità di rapportarsi in sede di progettazione con l’Ufficio di Piano: “dato che c’è uno sforzo da parte delle Amministrazioni comunali di fare una programmazione condivisa, lo stesso sforzo deve esserci anche da parte delle associazioni di volontariato…”

Si tratta di un risultato che vale la pena sottolineare, non soltanto perché rappresenta il punto di arrivo di un lavoro di “avvicinamento reciproco” con il quale si è riusciti a superare il timore di indebite ingerenze del pubblico sui fondi destinati al volontariato, quanto per la prospettiva entro la quale si è sviluppato all’interno del Comitato paritetico, il confronto tra volontariato e Enti Locali, prospettiva che, rispetto ad altri Pdz che hanno visto una partecipazione significativa del Terzo Settore, non era centrata sui singoli progetti, ma sulla riflessione attorno ai criteri e alle scelte di fondo che presiedono alle rispettive programmazioni territoriali.

4. Il Pdz: un campo attraversato da una pluralità di linee d’integrazione…

Intendiamo spendere le ultime parole per evidenziare un aspetto in certa misura presente in tutte le esperienze prese in esame, che forse in quella di Lugo sembra stagliarsi con maggior nettezza. Ci riferiamo alla pluralità di linee e livelli d’integrazione che, in sintonia o meno tra loro, sono perennemente all’opera nei processi di costruzione delle Zone e dei loro Piani e che non di rado costituiscono dilemmi non irrilevanti per chi, più di altri, è chiamato a orientare e sostenere i processi d’integrazione dei servizi sociali in una specifica

36 Si tratta della legge regionale n. 163/2005 Norme per la valorizzazione delle organizzazioni di volontariato.

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Zona, ossia a collegare, connettere o anche soltanto far convivere orientamenti molto diversi tra loro.

Se assumiamo quest’ultima lente è possibile scorgere nel Distretto di Lugo almeno tre linee lungo le quali si muovono o si pensa di muovere i processi d’integrazione.

La prima è rappresentata da quella pratica che i Comuni adottano riguardo alle tematiche che, nel corso del lavoro sui Piani di Zona, si rivelano essere più “scottanti”, ossia più difficili da affrontare e da risolvere. Rispetto a questa prospettiva segnaliamo l’attivazione di un gruppo di lavoro sul problema della casa in vista di un ufficio comune su questo tema. La stessa cosa è accaduta riguardo l’area dei servizi all’infanzia (in questo caso coinvolgendo i nove Comuni della Zona più un decimo che fa parte dell’Associazione Intercomunale, ma non della Zona) dove ugualmente si è dato vita ad un Ufficio Associato Servizi Educativi che cura il Coordinamento pedagogico, il Regolamento unico di accesso ai servizi ed il Calendario unico.

Riguardo pertanto alla gestione di temi scottanti, il ricorso alla convenzione tra le diverse Amministrazioni comunali e in particolare all’ufficio comune sembra essere uno strumento utile e agevole da attivare, tanto che ci si può domandare se in prospettiva non possa essere questa la strada per il ritiro delle deleghe all’Ausl, collocando cioè in toto o in parte i servizi sociali dentro un Ufficio comune

La seconda linea si collega alla ricezione del disegno contenuto nella normativa della Regione Emilia-Romagna sulla trasformazione delle Ipab in Aziende Pubbliche per i Servizi alla persona (Apsp) ricezione che ha compiuto un ulteriore rilevante passaggio con il Piano di Zona 2005-07 con l’approvazione del Documento di indirizzo per la redazione del programma di trasformazione, nel quale si indicano le forme e le tappe di questa trasformazione (assieme alle sue ricadute sull’articolazione della struttura del Pdz)37 mirante espressamente al “superamento della delega all’Azienda Usl”tramite il trasferimento ad essa dei servizi sociali oggi in delega all’Ausl. Ma si tratta di un percorso lungo del quale sono state poste soltanto le premesse e rispetto al quale “si è concordato di non fissare alcuna data per la conclusione del processo di trasformazione”.

La terza linea è quella che si sviluppa sul piano strettamente operativo della costruzione dei Pdz, che annovera tra i suoi recenti risultati sul piano dell’integrazione:

- l’avvio della costruzione di una rete fra i centri giovanili della Zona afferenti sia al pubblico sia al privato;

37 Nella quale, tra l’altro, si renderebbe necessario il rafforzamento dell’Ufficio di Piano quale struttura tecnica comune tra gli enti locali e tra questi e l’Ausl per la definizione, l’attuazione, il monitoraggio e l’aggiornamento del Piano sociale di Zona e del Programma di costituzione dell’Apsp e di trasformazione delle Ipab.

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- l’attivazione di prime forme di contatto tra alcuni ‘pezzi’ di interventi-quadro di pianificazione per molti aspetti contigui come la collocazione di alcuni progetti sia nel Pdz che nei Piani per la salute;

- la promozione di nuove forme di responsabilizzazione dei Comuni tramite l’individuazione dei Comuni capofila di progetto che risponde anche alla necessità “di gestire l’avanzamento dei numerosi progetti a dimensione distrettuale che non possono essere tutti concentrati sulle spalle del Comune capofila della Zona”.

Si tratta in tutti questi casi delle potenzialità che scaturiscono da un assetto nel quale - come abbiamo detto- il regime di deleghe all’Ausl si coniuga con un indubbio protagonismo della rete dei Comuni della Zona, un felice connubio che non sembra avere ancora esaurito le sue potenzialità di sviluppo.

La situazione sembrerebbe pertanto prospettare, almeno sul piano dei risultati acquisiti sul versante dell’integrazione, un certo margine di manovra rispetto alla forma da dare (o confermare) alla gestione integrata dei servizi. Qualunque sarà la strada prescelta, si tratterà di valutare accuratamente - fra le altre cose- la capacità che, in questi anni, il lavoro all’interno del Pdz ha progressivamente costruito nel mettere in campo, nel mantenere e valorizzare il patrimonio e la qualità delle relazioni e delle collaborazioni.

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PENISOLA SORRENTINA E CAPRI, L’UFFICIO DI PIANO GESTORE38

1. Il contesto territoriale e quello legislativo: alcuni elementi di quadro

1.1 Contesto territoriale

Comuni che compongonol’ambito distrettuale (At)

L’Ambito territoriale Napoli 13, corrispondente al Piano sociale di Zona “Penisola Sorrentina e Capri”, comprende 8 Comuni: Anacapri (5.324 ab.), Capri (7.294 ab.), Massa Lubrense (13.165 ab.), Meta (7.787 ab.), Piano di Sorrento (12.850 ab.), Sant’Agnello (8.510 ab.), Sorrento (16.458 ab.), Vico Equense (20.400 ab.). Sorrento è il Comune capofila dell’Ambito.

Provincia Napoli

PopolazioneTotale abitanti dell’Ambito Territoriale Napoli tredici al 31.12.2002: 91.788 (dati desunti dal Report Statistico del Pdz dell’At Napoli tredici).

Superficie 84,4 Kmq

Densità abitativa 1087,53Ambito/Zona eDistretto sanitario dell’Asl

Il territorio dell’At Napoli tredici coincide con quello dei Distretti sanitari 87/88, e 89 dell’Asl Na 5.

Forme d’integrazione istituzionale tra i Comuni (Associazioni, Unioni, Comunità montane, Patti territoriali, …)

I Comuni Massa Lubrense, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento e Vico Equense fanno parte della Comunità montana “Monti Lattari e Penisola Sorrentina”.

38 Il presente testo è stato elaborato sulla base a) di un incontro di lavoro effettuato a Sorrento il 7 giugno 2005 con Gennaro Izzo, Coordinatore dell’Ufficio di Piano dell’Ambito Territoriale Napoli 13 (le parti riportate tra virgolette in corsivo sono state pronunciate nel corso dell’incontro dalle persone su indicate), b) dell’analisi del documento del Piano Sociale di Zona (Pdz) 2003-2005, 3^ annualità finanziaria, anno 2004, e c) dell’analisi dei documenti indicati al punto 1.2.

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1.2 Contesto legislativo

Quadri normativi regionalidi sistema ai qualisi connette il Piano sociale d’ambito

Del. G. R. n.1824 e n. 1826 del 4 maggio 2001 relative alla determinazione degli ambiti territoriali e alle linee di programmazione.

“Linee guida per la programmazione sociale 2003 e per il consolidamento del sistema di welfare della Regione Campania” del 30 gennaio 2003.

“Linee guida per la programmazione sociale in Campania 2004” del marzo 2004.

D.L. G.R. “Legge per la dignità e la cittadinanza sociale” in Burc n. 13 del 22 marzo 2004.

Piano sociosanitario regionale

Del. G. R. 6467/02 sugli “Indirizzi regionali di programmazione a Comuni e Aa.Ss.Ll per un sistema integrato di interventi e servizi sociosanitari”.

2. Assetti e forme di gestione dei servizi sociali

Assetti e forme di gestione dei servizi sociali (i rapporti tra i Comuni, tra Comuni e Asl, …): la situazione presente, i cambiamenti recenti, le prospettive future

Il Piano di Zona dell’At Napoli tredici prevede una gestione completamente sovracomunale dei servizi e degli interventi tra tutti i Comuni dell’Ambito (fatta eccezione per Anacapri) e la Comunità Montana “Monti Lattari e Penisola Sorrentina”. Tale forma di gestione associata è stata formalizzata tramite una convenzione ai sensi dell’art. 30 del D.lgs 267/2000 stipulata nel luglio del 2003 e della durata di tre anni.

3. Il Piano sociale d’ambito: orientamenti di fondo, livelli e processi di lavoro

3.1 Cenni sull’orientamento della Regione Campania

Per entrare nel merito del Pdz dell’At Napoli tredici e poterne cogliere alcuni aspetti dirimenti può essere utile prestare un po’ di attenzione ad alcuni passaggi presenti nei testi della Regione indicati al punto 1.2. Il focus –senz’altro parziale - che adottiamo è quello connesso al cosiddetto assetto istituzionale e organizzativo relativamente al ruolo importante conferito ad alcuni soggetti in essi previsti. Al riguardo le Linee del 2001 individuano nel Coordinamento Istituzionale,39 il vero attivatore della messa a punto del Pdz, per elaborare il quale esso può costituire un gruppo di piano dalla doppia funzione: quella di strumento per la programmazione locale e quella di promotore - grazie alla sua rappresentatività della realtà locale - della partecipazione delle diverse realtà locali.40 La Guida 2001 della Regione recepisce questa proposta collocandola all’interno di due distinte fasi: quella che precede la sottoscrizione del primo 39 Composto dai Sindaci dei Comuni, dal Presidente della Provincia e della Comunità Montana (ove esistente) e dal Direttore generale dell’Asl. 40 Vedi Linee di programmazione regionale…, 2001, p. 28.

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Accordo di programma e quella che lo segue (fino alla nascita dell’ente gestore). La prima vede il binomio Coordinamento Istituzionale (Ci) - gruppo tecnico di piano (marcando così la prima delle due funzioni indicate dalle Linee) mentre la seconda prevede l’ingresso, a fianco del Ci, dell’Ufficio di piano (Udp) uno strumento operativo che riassume in sé e rafforza quella funzione tecnica svolta in precedenza dal gruppo di piano; col che si perviene ad un primo profilo di fondo,41 che rimarrà nella successiva definizione di questo nuovo soggetto del sociale. Ma è con le Linee guida del 2003 che si giunge a fornire una prospettiva più complessa e più significativa. Elaborate a seguito di un monitoraggio regionale e di una serie di giornate formative per i coordinatori degli Udp, le Linee, pur ricordando le difficoltà segnalate da quest’ultimi a metà e al termine della prima annualità,42 propendono per la prospettiva di un UdP che da “bozzolo diventa farfalla” e in quest’ottica si cimentano nel delinearne ulteriormente i tratti salienti, che vengono dettagliatamente articolati in due macrofunzioni: la programmazione e la gestione tecnico-amministrativa. La conseguenza è quella di un ruolo “non meramente esecutivo-gestionale” al quale “va invece ricondotta la complessa attività di regia in cui confluiscono le caratterizzazioni dei vari territori, nonché le intuizioni e le strategie organizzative legate alla specificità di ogni ambito…”, insomma “vero e proprio snodo tecnico del sistema di rete territoriale” che richiede ad esso sia di dotarsi di una struttura organizzativa adeguata “a fungere da riferimento nella programmazione e nella gestione degli interventi per tutti i comuni dell’ambito territoriale”, sia di regolamentare la sua stretta relazione con il Coordinamento Istituzionale al fine di tutelare la propria autonomia procedurale rispetto alla gestione delle risorse umane e finanziarie.43

Infine questa prospettiva - sviluppata questa volta in rapporto all’illustrazione delle responsabilità del Coordinamento Istituzionale - viene ribadita dalle Lineeguida 2004, da un lato confermando al riguardo il contenuto delle Linee del 2003, dall’altro introducendo due nuovi dispositivi atti a consolidarne il profilo: la richiesta di inserire nel Pdz il regolamento per il funzionamento dell’Udp44 e l’attribuzione di un punteggio cospicuo alla voce “stabilità del gruppo Udp” ai fini della destinazione di parte delle risorse della premialità45 da ripartire tra tutti gli ambiti che conseguono risultati utili per la gestione unitaria.46 In questo modo,

41 Dove spiccano i compiti tecnico-gestionali relativi alla predisposizione degli atti per l’organizzazione dei servizi e il loro affidamento, degli atti finanziari, dell’articolato dei programmi d’intesa… 42 Le difficoltà segnalate sinteticamente alle pp. 5 e 6 delle Linee guida del 2003 sono eloquenti nel tratteggiare le criticità che, vuoi sul piano organizzativo (distacco del personale dagli enti di appartenenza, indennità partecipanti all’Udp, referenti Asl non operativi, carenza di sinergia/contrasti tra livello politico e livello tecnico, ingerenza/latitanza del Coordinamento Istituzionale…) vuoi su quello più propriamente culturale (crisi di identità degli operatori nel passaggio dal Comune all’Ambito, campanilismo tra i diversi Comuni dell’Ambito…) hanno rappresentato su scala nazionale uno sfondo in larga parte comune nell’attivazione della nuova struttura territoriale del welfare. 43 Linee guida…2003, pp. 30-31. 44 Quando nell’annualità precedente si richiedeva soltanto di descrivere la sua organizzazione. 45 Si tratta di incentivi economici che - per dare un ordine di misura- nel complesso corrrispondono al 10% delle risorse indistinte del FRPS. 46 Vedi Linee guida…2004, p. 58.

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nell’arco di tre anni la riflessione regionale perviene ad una significativa enucleazione di quella funzione connessa alla programmazione locale presente in nuce nel primo gruppo di piano, conferendo ad essa sia un profilo e una dimensione organizzativa più netti e più significativi sia una collocazione più chiara e specifica all’interno della organizzazione unitaria dell’Ambito territoriale.

Questa attenzione costante ai processi di costruzione progressiva dell’Udp s’inscrive, in fondo, in una prospettiva più generale nella quale si muovono le diverse edizioni delle Linee della Regione, che consiste nello sforzo di fornire spunti e approfondimenti per un’idea più profonda e realistica della gestione unitaria e del lavoro che essa richiede ai nuovi soggetti territoriali del Welfare. Tale lavoro non può esaurirsi nella “definizione degli atti convenzionali o degli altri atti di tipo giuridico-amministrativo”, ma implica un guardare a questa operazione come ad percorso fatto soprattutto di scelte e sperimentazioni che richiedono l’elaborazione di un nuovo pensiero sul complesso dei processi organizzativi necessari a dar vita alla recente dimensione dell’ambito, non potendosi più ricorrere ad una “riproposizione standardizzata delle modalità di gestione importate dall’uno o dall’altro Comune”.

3.2 L’avvio del Pdz a Sorrento

3.2.1 Il contesto

Vale la pena chiarire subito che il lavoro locale connesso ai Pdz nasce in un contesto regionale che prevede una presenza ridotta di quadri normativi e di sistema, dove cioè “non è presente né una legge regionale sui servizi sociali, né un vero e proprio Piano sociale regionale, ma (solo) lo strumento delle linee di programmazione”, frutto dell’opzione metodologica della Regione Campania di pervenire a quel risultato potendo prima fare tesoro delle analisi e delle progettazioni provenienti da un primo lavoro dei Pdz locali ossia a partire da un materiale vicino alle caratteristiche di un territorio eterogeneo, ricco di sperimentazioni ma anche carente di risorse. “Sul versante sanitario manca un Piano per la salute, mentre è presente la Carta dei Servizi che in assenza dei Liveas rappresenta l’impegno delle amministrazioni a mantenere i livelli essenziali, anche se sono livelli essenziali soggetti alla progettazione annuale”.

Tempi: a livello locale il lavoro inizia nel 2001 con la stipula dell’accordo di programma (novembre) e la successiva progettazione richiesta dalla Regione per il febbraio del 2002. L’accordo coinvolge sette degli otto Comuni dell’ambito, per aprirsi nel 2003 alla Comunità montana “Monti Lattari e Penisola Sorrentina”. Importante segnalare che il Pdz si inserisce in un contesto territoriale nel quale “non è stato possibile fare riferimento ad una storia di collaborazione tra questi enti […] solo di recente c’è una collaborazione sulla questione dei rifiuti a seguito della recente crisi a livello regionale…”, e dove pertanto molto si è giocato sull’avvio di un certo lavoro di concertazione e confronto tra i diversi soggetti del territorio che potremmo articolare inizialmente su due momenti.

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3.2.2 Le due fasi di avvio

Il primo, che corrisponde al periodo settembre 2001-febbraio 2002, è stato quello della costituzione e dell’attività di otto gruppi individuati per area tematica che, ancora al di fuori della complessa architettura organizzativa messa poi a punto per l’istituzione del lavoro dentro il Pdz, hanno contribuito ad integrare la progettazione dell’ambito ossia quella che si andava producendo più all’interno del pubblico e che è confluita nel primo Pdz; si tratta, in larga misura, dei soggetti che, dopo la stipulazione della convenzione tra i Comuni dell’ambito per la gestione associata dei servizi hanno dato vita al Tavolo di concertazione.

Il secondo, che in parte si sovrappone con il primo e in parte lo segue, si concentra sulla forma da dare alla gestione associata e si conclude nel novembre del 2002 con la prima convenzione tra i sette Comune ai sensi dell’art. 30 del D.lgs 267/2000 che (come vedremo meglio più sotto) prevede la costituzione di uffici comuni. La cosa, almeno se confrontata con le altre esperienze prese in considerazione, colpisce soprattutto a causa dei tempi, per la verità piuttosto circoscritti, che intercorrono tra l’Accordo di programma e la Convenzione per la gestione associata, quando questa decisione ha richiesto e sta richiedendo tempi ben più lunghi da tutte le altre parti. Ciò colpisce soprattutto in un ambito che, a differenza di altri contesti territoriali, non poteva confidare su una storia pregressa di cooperazione tra le parti. A questo fine sembra avere avuto una certa importanza la sintonia/alleanza creatasi nel corso della progettazione del primo Pdz tra i portatori di interessi - parte della popolazione e parti del Terzo settore che aveva partecipato al lavoro, in larga misura innovativo, delle otto commissioni tematiche dell’ambito - alcuni ‘pezzi’ dei livelli tecnici dei Comuni e il gruppo dei nuovi assessori alle politiche sociali dei Comuni, sette dei quali al loro primo mandato. È infatti dentro questa nuova situazione che i tecnici, sostenuti dai portatori d’interessi e sollecitati da un certo turn-over del personale politico, hanno giocato un ruolo importante che è consistito principalmente nella produzione “di alcuni studi di fattibilità sia in rapporto a economie di scala, sia in rapporto a una serie di miglioramenti qualitativi nell’erogazione dei servizi a tutti i cittadini dell’ambito che sarebbero potuti derivare da una gestione associata dei servizi, studi che sono stati recepiti dal gruppo dei politici”.

Ovviamente come ogni innovazione anche quella del Pdz ha suscitato attacchi “anche forti” e reazioni di contrapposizione che si collegano a tre motivi principali: “1. l’avere sottratto l’affidamento di servizi pesanti al volontariato e l’avere bloccato la prassi del cambio di affidatario a seconda dell’Amministrazione, cioè il fatto di provare a riformulare la logica dei rapporti tra livello politico e Terzo settore; 2. l’aumento dei costi dei servizi, a motivo dell’applicazione dei contratti nazionali; 3. le resistenze interne dei altri tecnici restii ad una riformulazione in termini più integrati e di confronto con gli altri del loro lavoro”, motivi questi che ci dicono pure come anche in parti delle componenti che hanno promosso la riforma locale persistessero incertezze e opposizioni che valgono forse a spiegare resistenze e boicottaggi che tuttora sussistono e ci consentono di cogliere alcune delle ragioni di fondo che stanno

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dietro all’ampio programma di comunicazione predisposto in questi anni dal Pdz giocato in larga misura attorno alla pubblicazione e diffusione capillare della Carta dei Servizi.

3.3 L’assetto giuridico-istituzionale del modello di gestione

Per mettere a fuoco il funzionamento complessivo del Piano sociale di zona pensiamo sia utile provare a differenziare due diversi livelli di ricostruzione. Innanzitutto vale la pena fornire alcuni elementi di fondo del “modello di gestione” che rappresenta forse uno dei tratti denotanti l’esperienza del Pdz di Sorrento rispetto alla maggioranza di quelli presi qui in esame. Come abbiamo anticipato questo è rappresentato da una convenzione tra i sette comuni dell’Ambito (e in seguito la Comunità montana dei Monti Lattari) in conformità all’art. 30 del D.lgs 267/2000 “che consentiva di rafforzare l’accordo di programma senza mettere in campo sin da subito personalità giuridiche autonome, proprio perché volevamo fare maturare l’esperienza, verificare le reali disponibilità”.

A monte della Convenzione è presente l’aspettativa che la forma associata assicuri una migliore qualità dei servizi resi nell’ambito ed un contenimento dei costi relativi attraverso l’implementazione di economie di scala e l’accesso a finanziamenti riservati agli enti d’ambito.

In sintesi essa prevede:

a) l’Ente capofila per la gestione del Pdz, individuato nel Comune di Sorrento che ne mantiene la rappresentanza giuridica e al quale vengono, a tal fine, attribuite responsabilità amministrative e risorse economiche;

b) il Coordinamento istituzionale, che ha la funzione di indirizzo politico, programmatico e di controllo dei risultati non solo rispetto al Pdz, ma anche ai Pat;47

c) l’Ufficio di Piano che si configura come “la struttura tecnica-operativa permanente del Pdz” cui è demandata la completa gestione a livello tecnico-amministrativo del settore delle politiche sociali dei Comuni associati;48 in esso pertanto sono funzionalmente trasferite le risorse umane e strutturali di questo settore (ferma restando la loro dipendenza titolarità giuridica ai capo all’amministrazione di appartenenza);

d) “alla direzione del Pdz è preposto un responsabile” che assume la denominazione di Coordinatore dell’Ufficio di Piano dell’Ambito territoriale Napoli tredici;

47 Per la cui composizione vedi sopra alla nota 2. Al riguardo occorre tenere presente che alle riunioni del Coordinamento istituzionale prendono parte, senza diritto di voto, il Coordinatore e il Vicecoordinatore dell’Ufficio di Piano. 48 Le sue funzioni, oltre naturalmente a quelle connesse al supporto tecnico agli enti associati in rapporto al Pdz, prevedono innanzitutto la realizzazione di tutti gli atti di gestione amministrativa necessari all’implementazione del Pdz, vedi l’art. 11 della Convenzione per la gestione associata in Pdz, anno 2004, p. 362.

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e) infine viene attivato presso la tesoreria del Comune Capofila il Fondo d’Ambito nel quale vengono trasferite tutte le relative risorse finanziarie.49

Se questa soluzione associativa si configura un po’ come una forma prêt-à-porter, che prevede una riorganizzazione gestionale ‘leggera’ all’interno dell’Ambito nel quale viene mantenuta la priorità del ruolo dei Comuni, occorre anche sottolineare che essa trasforma però profondamente l’Udp: da organismo tecnico chiamato a promuovere e sostenere la progettazione a soggetto gestionale, convertendolo cioè nell’ ‘Ufficio comune’,50 un contenitore a dimensione d’Ambito nel quale i Comuni collocano (in questo caso) in toto le loro funzioni sociali.51

La riformulazione coinvolge infine anche il suo coordinatore che non impropriamente nella Convenzione finisce per vestire anche i panni di un direttore. Ci si chiede insomma se questa operazione tesa a fornire in tempi accelerati un cospicuo risvolto gestionale all’Udp (e al suo coordinatore) non possa avere come contraccolpo quello di comprimere la loro possibilità di spendersi a piene mani sul piano della progettazione52 di quella cosa piuttosto inedita e dalla fisionomia ancora un po’ incerta che è l’Ambito.

3.4 Oltre l’assetto giuridico-istituzionale: il Pdz come “processo sostanziale” (costruire l’ambito ‘per progettazione’)

Abbiamo presentato nel paragrafo precedente l’assetto giuridico-istituzionale della gestione associata del Pdz, ma per comprendere davvero il funzionamento del Piano occorre andare, come esorta la Regione, oltre questo profilo e vedere come ci si sta organizzando sia dentro che tra i vari soggetti per dargli vita. In particolare si tratta di comprendere meglio le forme e le modalità di lavoro adottate dell’Udp e aprire il sipario su nuovo soggetto: il Tavolo di concertazione. Solo in seguito sarà possibile provare a delineare una specie di ciclo del lavoro relativo al Pdz.

49 Al riguardo vale la pena segnalare che il Fondo d’Ambito si costruisce tenendo presente le “somme per abitante di diversa entità” investite dai Comuni sui propri bilanci, nel senso che il piano finanziario del Pdz suddivide le risorse dei Comuni in fondi comunali di spesa condivisa (per la copertura dei costi relativi alle azioni di sistema, al personale, agli strumenti…) e in fondi comunali di spesa riservata (vale a dire quelle che, nel rispetto dell’unicità e omogeneità dei Servizi previsti dal Pdz, si riservano ai cittadini di ogni Comune in rapporto al maggiore o minore investimento per abitante realizzato da ciascun ente). Infine, poiché l’Udp e gli uffici sportelli sociali sono a carico della quota del Fondo d’Ambito imputata ai bilanci comunali, quella relativa al Frps (fatta salva la parte relativa alla gestione dei Pdz) è interamente destinata ai Servizi. 50 “Le convenzioni…possono prevedere anche la costituzione di uffici comuni, che operano con personale distaccato dagli enti partecipanti, ai quali affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all’accordo, ovvero la delega di funzioni da parte degli enti partecipanti all’accordo a favore di uno di essi, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti”, D.lgs 267/2000, art. 30. c. 4. 51 “È come se fossimo un Comune, cioè con la gestione associata siamo riusciti a realizzare lo stesso funzionamento dell’ufficio di un Comune”.52 “Oggi la gran parte del lavoro del Coordinatore di Piano è legata alla gestione delle risorse umane, dei conflitti…”.

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3.4.1 L’Ufficio di piano e gli uffici sportelli sociali (Uss)

Nel testo del Pdz del 2004 si legge che “l’Udp e gli Uss sono il motore del Pdz”, perché ne costituiscono “la struttura operativa permanente”. Già questa prima formulazione è interessante, perché in modo sintetico esprime la natura dirimente dell’Udp di Sorrento ossia quella di un ruolo non circoscritto al coordinamento progettuale, ma operante a tutto campo sul livello tecnico-gestionale del Pdz. Dire infatti che il motore è costituito dall’Udp e dagli Uss significa dire l’incardinamento dell’ufficio negli snodi territoriali di base dei Servizi sociali e concepire questi ultimi come articolazione del primo.

Si tratta ora di capire come ci si è organizzati per svolgere questo lavoro che mette insieme la dimensione della progettazione con quella connessa al livello tecnico-gestionale.53 Per rispondere a questa esigenza nell’Udp (includendo in esso gli Uss) operano 23 persone54 che si collocano su uno o più livelli. Questi livelli corrispondono principalmente a tre aree funzionali. a) L’Area di coordinamento, composta dal Coordinatore e dalla vice

Coordinatrice.b) L’Area tecnico-amministrativa e segreteria, che si occupa degli atti contabili,

amministrativi e cura le funzioni connesse alla segreteria (3 persone). c) L’Area tecnico-scientifica, che è composta:

- dai responsabili delle quattro aree tematiche (1. famiglia, infanzia, adolescenza e giovani, 2. persone anziane, 3. persone diversamente abili, 4. emergenze sociali) e dai responsabili delle aree Uss (Uffici Sportelli Sociali) Siss (sistema informativo dei servizi sociali) e valutazione. In totale 10 persone che svolgono funzioni di coordinamento dei servizi erogati e curano in particolar modo l’integrazione con l’Asl, le autonomie scolastiche e le altre agenzie sociali territoriali;

- dagli 8 assistenti sociali operanti negli Uss dei sette Comuni dell’Ambito “che svolgono funzioni di front-office e di back-office relative al servizio sociale professionale (ivi incluse le attività di segretariato sociale)”, mentre ai fini della messa a punto del Pdz curano la compilazione di una serie di schede di rilevazione, predisposte dall’Area Siss, relative all’accesso agli Uss e ai servizi dell’Ambito e all’attuazione dei diversi interventi, che rappresentano una delle principali basi per l’elaborazione del Report statistico.

Fanno infine parte dell’Udp anche i referenti del Tavolo di Concertazione (vedi sotto al punto 3.4.2) ossia esponenti del Terzo settore eletti dal Tavolo appositamente.

53 Spia di questa prospettiva più gestionale è la stessa struttura del testo del Pdz di Sorrento che, già da un primo colpo d’occhio, si caratterizza - rispetto a tutti gli altri presi in esame- per l’ampio spazio dedicato agli atti di natura variamente amministrativa (come verbali, convenzioni, protocolli d’intesa, regolamenti, disciplinari, delibere…) che vengono riportati, uno spazio che corrisponde ad un terzo dell’intero Piano. 54 In particolare: 9 persone a tempo pieno, 5 persone part-time e 9 collaboratori a tempo determinato. A questi possono aggiungersi eventuali consulenti.

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Fig. 1 - Udp del Pdz di Sorrento:

Questa articolazione per aree funzionali è pervasa da un intenso lavoro di équipe che le riarticola e le connette tra loro nei seguenti modi:

a) la Cabina di regia: composta dai componenti delle tre aree, si riunisce a cadenza settimanale e fa il punto del lavoro ordinario del nucleo centrale dell’Udp;

b) l’équipe di programmazione plenaria: si compone della Cabina di regia, dei responsabili degli Uss e dei referenti del Tavolo di Concertazione, si riunisce mensilmente e lavora sulla progettazione, programmazione e monitoraggio dei servizi;

Area di Coordinamento

Area tecnico-amministrativa e segreteria

Area tecnico-scientifica

Referenti del Tc

Uss Massa

Lubrense

Uss Meta

Uss Piano di Sorrento

Uss Sant’Agnello

Uss Sorrento

Uss Vico

Equense

Uss Capri

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c) l’équipe d’area composta dal personale delle due aree (amministrativa e scientifica) che si riuniscono prevalentemente sulla base di esigenze operative;

d) l’équipe di valutazione multidimensionale (Evm): composta dal responsabile dell’area tematica, dagli operatori dell’Uss e della rete coinvolti nella valutazione della domanda di acceso ai servizi;

e) l’unità di valutazione integrata (Uvi): si tratta per la verità di un’équipe che si proietta all’esterno dell’Udp essendo composta dai responsabili dell’area tematica, dagli operatori dell’Uss, dai responsabili/operatori dell’Asl e dagli altri operatori della rete locale coinvolti nella valutazione e nella presa in carico della domanda di accesso ai servizi previsti sia dal Pdz sia dal Pat.

3.4.2 Il Tavolo di concertazione

Un soggetto importante del Pdz di Sorrento è senz’altro rappresentato dal Tavolo di concertazione nel quale, come si ricorderà, sono confluiti i componenti delle otto commissioni che diedero il via alla prima concertazione sulla quale si sviluppò, anche formalmente, il processo di attivazione del Piano. È il luogo principale della concertazione d’Ambito dove si concordano gli orientamenti di fondo e gli obiettivi prioritari del Pdz, si attivano e si monitorano le progettazioni delle varie aree tematiche, si compone il testo complessivo del Piano, si stabilisce la destinazione dei fondi flessibili (spalmabili) provenienti dalla Regione… “e più generalmente si mantiene la pressione dei portatori d’interessi sulle istituzioni”.

È composto dai soggetti del Terzo settore, del Volontariato, del Sindacato (cc. 4 e 6 art. 1, L. 328/2000) e di diritto: dai Comuni dell’ambito che aderiscono al Pdz, dalla Comunità montana dei Monti Lattari, dall’Asl Na5, dalle Autonomie scolastiche. Si incontra di norma una volta al mese in seduta plenaria (ma molto più assiduamente nelle fasi della programmazione sulle specifiche aree tematiche) ed elegge il proprio presidente (tra i soggetti non istituzionali).55 Ma per comprendere a fondo il ruolo del Tc è bene ‘vederlo all’opera’ nella programmazione passando al paragrafo seguente.

55 Vedi “Regolamento del Tavolo di Concertazione per l’Inclusione” in Pdz 2004, pp. 400-405.

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3.5 Il ciclo di elaborazione del Pdz

Proviamo ora a ricostruire con uno schema, al solito un po’ semplificato, il ciclo attuale della progettazione del Pdz di Sorrento.

Fig. 2

La programmazione prende sostanzialmente avvio da un incontro del Tc nel quale viene convocata per l’occasione anche una componente cospicua dei tecnici che operano dentro l’Udp, ci riferiamo ai responsabili delle quattro aree tematiche, a quello del Siss e agli operatori degli Uss: in pratica l’Udp al

Ufficio di Piano

Tavolo di concertazione

plenario

Terzo Settore

Scuole

Sindacati

Ufficio di Piano

Tavolo di concertazione

per Area tematica 1 Infanzia…

Tavolo di concertazione

per Area tematica 2

Anziani

Tavolo di concertazione

per Area tematica 3 Disabilità

Tavolo di concertazione

per Area tematica 4 Emergenze

sociali

Tavolo di concertazione

plenario Ufficio di Piano

Coordinamento Istituzionale Ufficio di Piano

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completo. L’incontro ha l’obiettivo di cominciare a raccogliere informazioni, orientamenti e proposte per programmare il proprio lavoro volto a definire gli obiettivi prioritari del Pdz. A questo proposito i tecnici arrivano portando una serie di dati e informazioni provenienti principalmente dalle schede compilate dagli operatori Uss (in particolare rispetto all’accesso agli Uss e ai servizi dell’Ambito e all’attuazione dei diversi interventi sociali dell’anno precedente) che costituiscono in pratica la fonte capitale per lo start-up della concertazione del Pdz per confluire in seguito nel Report statistico56 incluso del testo del Pdz. In aggiunta a questo materiale vengono (nuovamente) forniti gli indirizzi e i budget indicati dalla Regione e quindi presentate le proposte progettuali maturate in seno alla rete Udp. Gli altri soggetti “arrivano in genere più con ragionamenti e proposte progettuali”.

Ora sulla base dei dati portati, delle indicazioni regionali e delle proposte avanzate dalle varie componenti, il Tavolo di concertazione attiva al suo interno - per così dire- dei microtavoli ossia degli incontri distinti e specifici rispetto alle diverse aree tematiche per produrre concertazioni circoscritte agli obiettivi strategici di ogni area. Il lavoro, che può richiedere più incontri per area tematica, è portato avanti dai soggetti del Tc interessati alle questioni oggetto dei differenti tavoli con l’apporto costante dei responsabili delle corrispettive Aree tematiche dell’Udp.

A conclusione di questo tipo di lavoro, che opera prevalentemente ancora sulla concertazione del comparto progettuale dell’Area, si ritorna nel Tavolo di concertazione plenario per integrare gli obiettivi strategici delle aree e dirimere, rispetto ad essi, le ultime questioni legate al budget, come ad esempio nell’incontro plenario conclusivo del Tc dello scorso anno quella della destinazione della parte ‘flessibile’ delle risorse finanziarie provenienti dalla Regione, decisione presa dal Tc sulla base di una riflessione condotta sui dati del Siss e sul confronto tra i budget delle varie aree.

Una volta approvati gli obiettivi strategici complessivi del Piano e concordati i filoni progettuali il Tavolo dà mandato all’Ufficio di piano, e in particolare alle sue Aree, di procedere alla progettazione redazionale, un lavoro le cui fila continuano ad essere tirate dal Tavolo di Concertazione.

Infine la redazione viene portata in Coordinamento istituzionale il quale, preso atto dai verbali che il testo è stato redatto sulla base della concertazione effettuata in seno al Tavolo di concertazione, in genere lo approva così com’è e lo passa all’Ufficio di Piano affinché predisponga le condizioni e gli atti necessari per la sua realizzazione.

Correttezza vorrebbe di fare subito alcuni rilievi, ma preferiamo rimandarli al paragrafo finale per spendere prima alcune parole sull’integrazione socio-sanitaria e chiudere così i tratti essenziali del quadro.

56 Pur avendo registrato, non di rado, una scarsa fruibilità delle loro produzioni ai fini del lavoro dentro i Pdz, occorre tenere presente che in questo caso mancano sia l’Osservatorio regionale che quello provinciale.

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3.6 L’integrazione socio-sanitaria

L’impostazione del rapporto con l’Asl è stata sin dall’inizio complicata per due ordini di ragioni. La prima è da collegare al fatto che i dirigenti dell’Azienda attendevano indicazioni dalla Regione e dall’Asl stessa circa i passi da fare verso questo nuova creatura che è l’Ambito, indicazioni che probabilmente sono giunte soltanto in parte e forse in ritardo. La seconda è connessa al fatto che la proposta di avviare accordi si colloca in un contesto dove l’Asl Na5 corrisponde non solo al territorio dell’Ambito Na tredici, ma anche ad altri quattro: “L’Asl diceva ‘dobbiamo fare accordi uguali con tutti!’, ma gli altri ambiti non sono ancora partiti, rispondevamo noi. Così abbiamo un po’ forzato la situazione e abbiamo cominciato a convocarli a livello tecnico in quelle che poi sarebbero diventate le Uvi, che scontri…”.

Ora, nonostante l’avvio un po’ brusco, che non costituisce l’eccezione nel panorama offerto dai casi esaminati, occorre riconoscere che sono stati fatti in seguito dei passi in avanti che potremmo richiamare collocandoli sui tre livelli dell’integrazione istituzionale, gestionale e professionale. Sul primo segnaliamo, nel quadro dell’Accordo di programma per la gestione integrata del Piano sociale di Zona e per la gestione delle attività di integrazione socio-sanitaria tra Comuni dell’Ambito e Asl, la presenza dei Direttori Sanitari dei Distretti 87/88 e 89 e del Direttore dell’Unità operativa salute mentale ai lavori del Coordinamento Istituzionale. Sul secondo l’integrazione delle procedure operative connesse alla presa in carico tra gli Uss del Pdz e le Unità operative dell’Asl, mentre sul livello dell’integrazione professionale ricordiamo le Uvi per la valutazione della domanda.

4. Considerazioni conclusive

Al termine della presentazione degli attori in campo possiamo svolgere alcune considerazioni riprendendo l’illustrazione dell’interessante ciclo di elaborazione del Pdz tratteggiato sopra al paragrafo 3.5.

Governare la concertazione. La prima sottolineatura che vorremmo fare è quella sul ruolo centrale che nel Pdz di Sorrento gioca il Tavolo di Concertazione in pratica in tutte le fasi del ciclo di lavoro: compone la cornice informativa complessiva, organizza il lavoro di concertazione per sottotavoli concertativi tematici, negozia e ricompone il comparto degli obiettivi strategici dell’intero Pdz e infine attiva la redazione progettuale che monitora costantemente anche avvalendosi dei suoi referenti all’interno dell’Udp. Occorre insomma marcare un po’ questa caratteristica connessa ad un effettivo governo dei processi concertativi del Pdz che il Tavolo svolge, per cogliere un tratto che forse lo distingue dal profilo che questi Tavoli hanno assunto nel corso dei primi anni di sperimentazione della L. 328 (inclusi quelli che non si limitano ad un’attività di condivisione delle linee di fondo del Piano al momento del suo avvio o di approvazione del documento complessivo alla sua conclusione, ma mantengono una certa attenzione al lavoro che si sviluppa nelle varie fasi).

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In altri termini ciò che lo caratterizza è una certa regia nell’organizzare i vari livelli della concertazione: non vi partecipa, li guida.

Il motore del Pdz. Il Tc è centrale, ma non basta a costituire la spina dorsale del Pdz. Infatti guardando lo schema del ciclo la seconda cosa che colpisce è la collaborazione stabile, l’alleanza - vorremmo dire- che s’instaura tra l’Udp e il Tc. Il Tavolo può giocarsi sulla regia e l’organizzazione dei vari sotto-tavoli della concertazione perchè l’Udp fornisce apporti e contributi decisivi per alimentarli (vedi ad esempio tutto lo sfondo informativo che avvia il lavoro della concertazione) e per accompagnarli (vedi il contributo dei responsabili d’Area nei ‘microtavoli di concertazione’…) tanto che verrebbe da prolungare l’espressione, presente nel testo del Pdz, che ravvisa nell’Udp e negli Uss “il motore del Pdz” estendendola al Tavolo di concertazione. In altre parole la spina dorsale del Piano non starebbe su un unico soggetto (per quanto ben attrezzato) ma su un’alleanza di lavoro tra due soggetti.

Progettare-gestire. Sui motivi che hanno fatto sì che entrasse in pista un Tavolo così significativo sul piano della concertazione ci preme segnalare almeno tre possibili aspetti.

Il primo è più connesso all’idea che nel Terzo Settore la prospettiva del Pdz sia stata letta come un’occasione davvero importante per la promozione di una vera riforma dell’assistenza a livello regionale e che pertanto fosse necessario prendervi parte sin dall’inizio e provando a giocare un ruolo non di retroguardia: è probabile che dietro l’attivazione della prima forma di concertazione ‘pre-Pdz’ indicata al paragrafo 3.2 ci fosse questa convinzione e che i primi risultati conseguiti in quella fase abbiano incoraggiato i promotori della concertazione a conferire ad essi profili sia operativi che istituzionali più significativi.

Potremmo avanzare anche un'altra riflessione: di fronte ad un processo a velocità sostenuta di riformulazione delle politiche sociali dell’Ambito, che in breve tempo superava la dimensione della progettazione unitaria per approdare a quello della gestione unitaria con l’attivazione di una ‘forte’ struttura sociale d’Ambito come l’Udp-Uss, il Terzo Settore e le altre componenti confluite poi nel Tc abbiano avvertito l’esigenza di attivare - a partire più dalla dimensione sociale che da quella formalmente istituzionale- un soggetto nuovo, per così dire, proporzionato, che corrispondesse cioè alle novità che stavano sorgendo e potesse giocare un certo ruolo nel nuovo scenario del welfare territoriale che iniziava a popolarsi di soggetti che superavano la consueta dimensione comunale.

Nello stesso tempo c’è forse anche da domandarsi se l’attivazione di un Tc dal forte protagonismo concertativo, se osservata dal punto di vista più generale dell’Ambito, non risponda anche all’esigenza opposta ossia a quella di mettere in campo a fronte di un Udp molto concentrato sulla dimensione gestionale un soggetto che potesse svolgere una certa propulsione sulla doppia dimensione progettuale e partecipativa. Ci domandiamo cioè se la costruzione di un Udp molto caratterizzato sul piano della gestione non necessiti, parallelamente, dell’attivazione di un soggetto altrettanto significativo in grado di spendersi

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maggiormente sul piano della progettazione partecipata. Insomma ci preme riproporre anche qui, da diversa angolatura, il dilemma segnalato a conclusione del paragrafo 3.3 relativo al ‘progettare e/o gestire’, di non facile soluzione.

E il livello politico-istituzionale? L’ultima considerazione attiene al ruolo del livello politico-istituzionale. Come abbiamo visto esso ha svolto un ruolo importante al momento dell’attivazione dell’Ambito, ma in seguito è un po’ sparito dalla scena a favore della crescita del ruolo e del protagonismo del Tavolo di concertazione, un Tavolo di cui i membri del Coordinamento istituzionale fanno parte di diritto, ma che in pratica non frequentano, con il risultato che il Tc finisce per connotarsi molto come un luogo di forte interazione tra portatori di interessi e livello amministrativo che tende a prescindere dal ruolo politico-istituzionale. Se questo sviluppo ha forse contribuito a velocizzare l’attivazione dell’articolato processo concertativo, non è facile dire quali potrebbero essere i risultati di questa situazione se protratta nel tempo. Neppure è facile dire quanto essa potrà giocare in questi mesi nei quali si apre la discussione sulla nuova forma giuridica da conferire all’Ambito57 in modo da superare quella della convenzione, vale a dire quanto la scarsa partecipazione del livello politico-istituzionale ai lavori di un Tavolo così significativo e così interno all’esperienza del Pdz di Sorrento, potrà pesare sulla sua capacità di immettere e valorizzare il contributo rappresentato dalle cose sperimentate e comprese in questi anni nel processo di deliberazione teso a delinearne la forma futura.

57 Vedi l’art. 16 della Convenzione che indica le forme per avviare, “ove necessario”, le procedure per la (nuova) “definizione della forma giuridica dell’ente d’Ambito”.

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PESARO, LA COSTRUZIONE DELL’AMBITO TRA PROGETTAZIONE E GESTIONE58

1. Il contesto territoriale e quello legislativo: alcuni elementi di quadro

1.1 Contesto territoriale

Comuni che compongonol’ambito distrettuale

L’Ambito territoriale sociale (Ats) n. 1 comprende 9 comuni: Colbordolo (5.663 ab.), Gabicce Mare (5.617 ab.), Gradara (3.841 ab.), Mombaroccio (1.907 ab.), Monteciccardo (1.483 ab.), Montelabbate (5.876 ab.), Pesaro (91.983 ab.), Sant’Angelo in Lizzola (7.617 ab.), Tavullia (5.822 ab.), Pesaro è il Comune capofila dell’Ambito

Provincia di Pesaro-Urbino

PopolazioneTotale abitanti dell’Ats 1 al 31.12.2004: 129.809. Si tratta dell’Ambito con il maggior numero di abitanti della Regione Marche

Superficie 304,2 Kmq

Densità abitativa 426,7 abitanti per Kmq

Ambito/Zona eDistretto sanitario dell’Asl

Il territorio dell’ ATS 1 coincide con il territorio del Distretto sanitario 1, Zona 1 dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale (Asur)

Forme d’integrazione istituzionale tra i Comuni (Associazioni, Unioni, Comunità montane, Patti territoriali, …)

È presente l’ Unione dei Comuni di “Pian del Bruscolo” tra cinque Comuni dell’Ambito (Colbordolo, Monteciccardo, Montelabbate, Sant’Angelo di Lizzola, Tavullia), anche se non ancora funzionalmente operativa

58 Il presente testo è stato elaborato sulla base a) di un incontro di lavoro effettuato a Pesaro il 2 agosto 2005 con Giuliano Tacchi, Coordinatore dell’Ambito territoriale sociale n.1 e Giampiero Ricino, ricercatore sociale facente parte dello staff tecnico che collabora con il coordinatore (leparti riportate tra virgolette in corsivo sono state pronunciate nel corso dell’incontro dalle persone su indicate), b) dell’analisi del documento triennale del Piano Sociale d’Ambito triennale 2005-2007, fase annuale 2005, e c) dell’analisi dei documenti indicati al punto 1.2.

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1.2 Contesto legislativo

Quadri normativi regionalidi sistema ai qualisi connette il Piano sociale d’ambito

L. R. n. 43 del 1988 “Norme per il riordino delle funzioni di assistenza sociale di competenza dei Comuni per l’organizzazione del servizio sociale e per la gestione dei relativi interventi nella regione”

“Piano sociale per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” approvato il 1 marzo 2000 dalla Regione Marche con delibera di Consiglio n. 306

“Linee guida per l’attuazione del Piano regionale per un sistema integrato di interventi e servizi sociali” approvato il 17 luglio 2001 con delibera di Giunta n. 1670

“Linee guida per la predisposizione e l’approvazione dei Piani di Zona 2003”, approvato tramite DGR n. 1968 del 12 novembre 2002

“Linee guida per la predisposizione dei Piani triennali di ambito sociale. Obiettivi 2005-2007” approvate il 28 dicembre 2004 con delibera di Giunta n. 1688

Piano sociosanitario regionale

L. R. n. 13 del 20 giugno 2003 “Riorganizzazione del Servizio sanitario regionale”

2. Assetti e forma di gestione dei servizi sociali

Assetti e forme di gestione dei servizi sociali (i rapporti tra i Comuni, tra Comuni e Asl, …): la situazione presente, i cambiamenti recenti, le prospettive future

Gli interventi socio-assistenziali sono gestiti dai Comuni, mentre le prestazioni socio-sanitarie caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria competono all’Azienda Sanitaria Unica Regionale.

3. Il Piano sociale d’ambito: orientamenti di fondo, livelli e processi di lavoro

3.1 L’orientamento e l’azione della Regione Marche

Per cominciare a cogliere alcuni aspetti che connotano la fisionomia del lavoro condotto all’interno del Piano sociale d’ambito di Pesaro è necessario sottolineare - sia pure nelle forme più schematiche- alcuni aspetti presenti nella produzione normativa della Regione Marche che ci pare abbiano fornito un particolare imprinting a quanti stavano per cimentarsi con la progettazione delle forme atte a riformulare il lavoro sociale territoriale.

Nonostante la produzione legislativa della Regione Marche in merito risalga agli anni ’80, per le finalità che ci proponiamo è sufficiente limitare il campo,

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partendo cioè dal Piano regionale per un sistema integrato di interventi e servizi sociali 2000/2002. Qui, tra i capitoli dedicati alla demografia e alla diffusione dei servizi socio-assistenziali/sanitarie e quelli destinati ai temi dell’integrazione socio-sanitaria e della rete dei servizi essenziali, si sviluppa il discorso sugli ambiti territoriali ottimali per la pianificazione sociale. È interessante osservare la sua articolazione: a partire dal paragrafo che delinea il profilo degli Ambiti Territoriali59 e del loro governo (il Comitato dei Sindaci, che coincide con l’Assemblea distrettuale dei Sindaci) e passando attraverso la definizione dei loro ruoli,60 il capitolo si conclude con il paragrafo intitolato “Il Coordinatore della Rete dei servizi dell’Ambito Territoriale”, una figura di cui i Comuni devono dotarsi per far fronte alla “necessità e alla complessità del raccordo tra sanitario, sociale e gli altri settori del welfare” e alla “difficoltà di progettazione e realizzazione della rete dei servizi essenziali”. Avvalendosi di una snella struttura tecnica e amministrativa, questi è chiamato a supportare i processi di gestione delle risorse; a curare la disponibilità di informazioni relative alle prestazioni ed ai servizi disponibili nell’Ambito Territoriale; a facilitare i processi di integrazione e il rapporto con le altre amministrazioni pubbliche per le attività che si rendessero necessarie; a collaborare alla stesura e alla realizzazione del Piano Territoriale d’ambito triennale e dei piani annuali di attuazione.61

In larga misura sono già presenti qui gli aspetti dirimenti che determinano un certo imprinting dei Piani di Zona (Pdz) delle Marche ravvisabile nell’opzione con la quale si preferisce individuare nella figura del Coordinatore “lo strumento tecnico a disposizione dei Comuni dell’Ambito territoriale” piuttosto che in un Ufficio di Piano o in una Segreteria tecnica, come in genere hanno fatto gli altri contesti regionali presi in esame. Con ciò si prospetta un Ambito che si costruisce innanzitutto attorno alla intensa interazione tra un organismo politico di rappresentanza e una specifica figura professionale generata ad hoc ossia tra il Comitato dei Sindaci e il Coordinatore d’Ambito opportunamente equipaggiato per l’occorrenza.

Questa prospettiva viene confermata dalle Linee guida per l’attuazione del Piano regionale del 2001 con le quali, se da un lato si allarga il numero dei nuovi soggetti chiamati ad operare stabilmente dentro l’Ambito con l’introduzione dell’Ufficio di Piano62 (d’ora in poi anche Udp) dall’altro si rafforza il profilo di questa nuova figura professionale:

59 Contesti coincidenti con i distretti sanitari (o con i loro multipli) con dimensioni “non troppo vaste” di norma non superiori ai 100.000 abitanti. 60 Che sono - in linea di massima- quelli indicati un po’ da tutti i vari Piani regionali: essere cioè la sede) per il raccordo tra Regione e Comuni ai fini della programmazione degli interventi sociali, b) per la definizione delle modalità di coordinamento e di collaborazione fra i Comuni e fra questi e altri soggetti pubblici rilevanti; di rappresentare il livello c) di attuazione e verifica degli indirizzi della programmazione regionale sul territorio (tramite l’adozione del Piano Territoriale triennale e i piani annuali di attuazione), d) di ripartizione del Fondo Sociale Regionale e e) dell’integrazione tra servizi socio-assistenziali e servizi sanitari. 61 Vedi Piano regionale…, p. 70. 62 Che collabora con il Coordinatore ed è composto almeno dai responsabili dei servizi sociali dei comuni dell’Ambito (vedi Linee guida…2001, 1.2, lett. c e 2).

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a) approfondendo e riarticolando le sue funzioni (specie in rapporto al Comitato dei Sindaci);

b) istituendo un Elenco regionale dei Coordinatori di Ambito territoriale (con annesse le condizioni per l’iscrizione) all’interno del quale i Comitati dei Sindaci devono individuare il Coordinatore più adatto per svolgere - a tempo pieno- le mansioni nel proprio ambito;

c) attivando a livello regionale la Conferenza permanente dei Coordinatori di ambito per supportarli e raccordarli nel processo di costruzione dei Piani di Zona.

L’orientamento delle Linee guida per l’attuazione del Piano regionale del 2001 viene recepito dalle Linee guida per la predisposizione e l’approvazione dei Piani di Zona 2003 che avviano il lavoro sul primo Piano di zona. Pur prevalentemente orientate a fornire una traccia operativa per l’elaborazione del Piano, esse non mancano di intervenire sul rapporto Coordinatore-UdP chiarendo che il primo può “prevedere un’articolazione in sezioni operative” del secondo in riferimento alle Aree d’intervento.63

Dal canto loro le Linee guida per la predisposizione dei Piani triennali di ambito sociale. Obiettivi 2005-2007 confermano questa prospettiva laddove specificano le condizioni per poter accedere, da parte degli Ambiti, al cofinanziamento regionale per il Coordinatore, condizioni che rispetto a questa figura consistono:

- nell’obbligatorietà del tempo pieno;

- nella stipulazione di un contratto pluriennale (cioè adeguato all’avvio di un processo di lavoro triennale);

- nell’incompatibilità tra lo svolgimento della funzione di Coordinatore di Ambito e quella di dirigente di servizio.64

Ci è parso opportuno seguire questo tragitto istituzionale che parte dal 2000 e giunge sino ad oggi perché ci aiuta a comprendere il senso dell’imprinting del Piano regionale che si caratterizza nel mettere al mondo (sociale) una specifica figura professionale e non un nuovo ufficio, una figura dalla ‘doppia’ appartenenza istituzionale: l’Ambito nel quale opera e la Regione che lo iscrive nel proprio Elenco, lo sostiene con la Conferenza permanente e lo cofinanzia assieme al suo staff. Se sulle prime si è indotti a pensare allo sforzo per mettere in piedi semplicemente una figura professionale ‘dai tratti muscolari’, per metà collocata sul versante della regione, le note delle ultime Linee guida sembrano invece rivelare il senso che ispira il ‘filo rosso’ ravvisato nella produzione regionale. L’idea sembra essere un po’ quella che il cambiamento, ossia la riformulazione dei servizi a livello di Ambito territoriale possa essere più efficacemente conseguita in forza dell’azione non tanto di un ruolo forte, quanto di un ruolo libero, libero cioè da incombenze gestionali (in

63 Linee guida per la predisposizione e l’approvazione dei Piani di Zona 2003, 1. 2, p. 5. 64 Vedi Linee guida…2005-2007, pp. 34-35.

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particolare da quelle che si connettono all’attuale forma di gestione dei servizi). Siamo di fronte ad una concezione esogena del cambiamento, nella quale si reputa che una azione/pressione/progettualità in certa misura esterna, disomogenea al contesto abbia maggiori chances nell’introdurre innovazioni. Invece che ad una riorganizzazione dall’interno, si punta così su una progettazione promossa e guidata dall’esterno, nella convinzione che una posizione ‘non compromessa con le problematiche gestionali’

- da un lato possa consentire alla nuova figura d’investire in modo pieno sulla funzione prioritaria di promozione e coordinamento della rete, e

- dall’altro sia capace di ridurre al minimo il rischio (e i timori) che la sua attività d’integrazione possa trasformarsi in (o essere percepita come) un’operazione volta a sostenere soltanto le ragioni e le linee del Comune capofila, più forte, essendo solitamente quest’ultimo in grado di mettere più facilmente a disposizione dell’Ambito figure professionali adeguate a questo compito.65

Nello stesso tempo si può aggiungere che l’orientarsi verso una figura specifica, piuttosto che verso un Ufficio (per sua natura dai lineamenti più complessi) sembra fornire alla regione maggiori garanzie sul piano del riscontro/controllo circa l’effettiva attivazione di forme e modalità in grado di operare sulla rete e sull’integrazione a partire da una prospettiva nuova ossia non professionalmente vincolata e pressata dagli aspetti e dai problemi specifici che si agitano nelle diverse situazioni della gestione ordinaria.

3.2 L’assetto istituzionale dell’Ambito

Per mettere in luce il funzionamento complessivo del lavoro che si produce all’interno dell’Ambito territoriale di Pesaro può valere la pena articolare il discorso su più livelli che tengono presente la struttura di fondo del testo del Piano d’Ambito66 (d’ora in poi Pda) ma secondo una sequenza che ci consentirà di mettere in luce alcuni aspetti importanti. Essa si concentrerà dapprima sull’assetto istituzionale, quindi sulle dimensioni più organizzative connesse al lavoro di progettazione e, di seguito, sul suo prodotto, per riprendere questi aspetti in una specie di ricostruzione del ciclo di lavoro interno al Pda e formulare infine alcune riflessioni.

65 La considerazione vale in particolare per l’Ambito territoriale sociale 1 che appare senz’altro ‘sbilanciato’ sul suo Comune capofila (Pesaro) nel quale si concentrano sia la gran parte dei servizi e delle risorse sia la gran parte della popolazione dell’ambito, anche se la recente nascita dell’Unione dei Comuni di “Pian del Bruscolo” -che verosimilmente entrerà come tale nella futura gestione associata dell’Ambito- potrebbe avere la funzione di ‘riequilibrare’ in certa misura questo sbilanciamento. 66 Il testo del Piano d’Ambito di Pesaro si articola sulla struttura del Bilancio sociale ossia nella sequenza: “Identità dell’Ambito Territoriale-Risorse dell’Ambito Territoriale-Aree di attività dell’Ambito territoriale” prevista dalle Linee guida…2005-2007, pp. 52-53 come schema per l’elaborazione del Bilancio sociale d’Ambito. Rispetto agli altri Pdz presi in esame quello di Pesaro si caratterizza, tra l’altro, per un’ampia sezione dedicata alle “risorse dell’ambito” nella quale sono riportati i componenti di ciascun gruppo di lavoro multidisciplinare ed integrato ch’è stato attivato nel processo di lavoro del Pda. Al riguardo vedi sotto al punto 3.3.2.

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Dal punto di vista cronologico è utile tenere presente che il lavoro ha preso il via nella primavera del 2002 ossia immediatamente a ridosso della istituzione, da parte della Regione Marche, dei 24 Ambiti territoriali sociali nei quali si articola il territorio regionale e dalla nomina, da parte del Comitato dei Sindaci dell’Ats di Pesaro, del Coordinatore d’Ambito.

L’assetto istituzionale dell’Ats di Pesaro si articola su quattro soggetti: il Comitato dei Sindaci, il Coordinatore d’Ambito, l’Ufficio di Piano, il Tavolo di concertazione.

3.2.1 Il Comitato dei Sindaci

Nel definire l’assetto istituzionale dell’Ambito possiamo partire dal Comitato dei Sindaci che ne costituisce l’organo politico di governo. Esso è composto dai Sindaci, o dagli Assessori, dei nove comuni che ricadono nell’Ambito e coincide con il Comitato dei sindaci del Distretto Sanitario 1 della Zona 1 – Asur. Capofila è il Comune di Pesaro e Presidente del Comitato è pertanto il Sindaco di quel Comune. In sostanza il Comitato funge da “cabina di regia politica” e ad esso spetta di indicare priorità e orientamenti di fondo per l’elaborazione del Piano. Si riunisce a questo scopo una volta al mese sulla base di un Odg la cui messa a punto è delegata dal Presidente al Coordinatore d’Ambito (che lo definisce di concerto con l’Ufficio di Piano) e i cui orientamenti sono concordati tra Presidente e Coordinatore nel corrispettivo incontro di preparazione.

L’individuazione di indirizzi e priorità da fornire per la costruzione del Piano, le decisioni da assumere rispetto a proposte progettuali o ad iniziative volte a promuovere forme di concertazione con gli altri attori della governance sono il risultato di un confronto con il Tavolo di Concertazione.

3.2.2 Il Coordinatore d’Ambito e il suo Staff

Dopo quanto abbiamo indicato nel paragrafo precedente non resta che segnalare qui (per la verità più per una ragione di comodità che di proprietà) lo staff tecnico di cui s’avvale. Questo è composta al momento da cinque collaboratori - una segretaria di direzione, un operatore sociale esperto, un tecnico informatico, un ricercatore sociale e una operatrice sociale- il cui compito consiste nel sostenere l’attività del Coordinatore, svolgendo principalmente le funzioni connesse alla gestione della segreteria, al supporto nella gestione dei gruppi di coprogettazione, all’aggiornamento del profilo di Comunità (popolazione residente nell’Ambito, ricostruzione dell’offerta del sistema dei servizi e individuazione dei bisogni del territorio) e al sostegno informatico.

3.2.3 L’Ufficio di Piano

A) Composizione e funzioni. Si tratta di un soggetto a valenza tecnica che viene nominato dal Comitato dei Sindaci su proposta del Coordinatore. Ne fanno parte, oltre al Coordinatore, 14 membri: 10 responsabili dei servizi sociali dei Comuni dell’ambito, il direttore del Distretto sanitario n. 1, Zona 1–Asur, due dirigenti provenienti dal privato sociale (cooperazione sociale e volontariato) e 2 dirigenti scolastici. Compito di questo Ufficio particolarmente ricco di risorse

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professionali è quello di collaborare stabilmente con il Coordinatore ai fini di una programmazione condivisa ed una regolamentazione omogenea della rete dei servizi sociali. Rappresenta in pratica “la cabina tecnica della pianificazione sociale e della sua integrazione: lancia la progettazione sugli indirizzi del Comitato dei Sindaci, ne verifica lo stato di andamento e ne valida l’elaborazione finale da inserire nel Pdz”. Poiché attualmente svolge funzioni connesse all’iter della progettazione sociale, la programmazione dei suoi incontri non segue una cadenza regolare, ma si sviluppa a seconda delle particolari evoluzioni e vicissitudini dei diversi cammini progettuali e dei loro tempi.67 È importante sottolineare, a scanso di equivoci, che i componenti dell’Ufficio non ricevono compensi per il lavoro che svolgono in esso o in relazione ad esso, mentre dal canto suo il Comune capofila ha inserito in via ordinaria negli obiettivi assegnati ai suoi dirigenti di servizio e responsabili di unità organizzative, l’attività in Ambito, individuando al riguardo indicatori utili per l’assegnazione degli incentivi sulla produttività.

B) La costruzione progressiva dell’Ufficio di Piano ossia del (vero) banco di prova dell’integrazione. Vale la pena spendere alcune parole per segnalare l’evoluzione dell’organizzazione dell’Ufficio, poiché forse su questo soggetto (più che su altri) è possibile cogliere lo sforzo profuso nel pensare e mettere a punto il funzionamento complessivo dei livelli/soggetti che operano all’interno del Pda valorizzando l’esperienza in corso, in funzione delle comprensioni che via via si realizzavano e delle esigenze che sorgevano. È interessante notare come, in una prima fase, l’Ufficio sia stato attivato marcandone il profilo “fortemente rappresentativo” soprattutto rispetto alle diverse articolazioni del sistema dei servizi dei vari Comuni, finendo per coinvolgerne in pratica tutti i dirigenti. Il risultato è stato quello di “un gruppo a metà tra la funzione tecnica e quella più squisitamente concertativa” ossia di un soggetto che operava non solo in ordine all’osservazione e alla prima costruzione del profilo di comunità,68

ma anche rispetto alla presa di contatti e al coinvolgimento di soggetti il cui accordo veniva reputato importante per l’avvio di una buona progettazione. È solo in una seconda fase che ci si orienta a ripensare l’Ufficio. Il motivo principale è da collegarsi all’avvio di una imponente opera di progettazione che investe tutte le Aree d’intervento69 e la cui realizzazione richiede il reperimento di figure in grado di seguire i diversi gruppi di lavoro, gruppi che verranno progressivamente concepiti come una “vera e propria articolazione operativa dello stesso Udp”. In questo senso l’utilizzo e il trasferimento di numerose risorse dell’Udp sul terreno strettamente progettuale finisce per selezionare i suoi componenti e riformulare i suoi compiti che oggi si concentrano

67 A titolo d’esempio nel periodo gennaio-maggio 2005 (ossia nella ‘fase calda’ collegata alla presentazione del secondo Piano triennale d’Ambito 2005-2007. Annualità 2005 prevista per il mese di giugno) l’Ufficio di Piano si è incontrato 4 volte. 68 Funzioni che, come si dirà, verranno in seguito assunte per la gran parte rispettivamente dai Tavoli di consultazione e dalla staff del Coordinatore. 69 Sono quelle della famiglia, degli anziani, della disabilità, dell’infanzia e adolescenza, dei giovani, dell’immigrazione, della salute mentale, della casa, del lavoro (disagio socio-economico e carcere) e delle dipendenze patologiche.

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prevalentemente sull’avvio, il monitoraggio e l’integrazione progettuale. Se questo ‘aggiustamento’ ha prodotto un affinamento nella individuazione della natura dell’Udp resta tuttavia “una criticità costante connessa alla difficoltà che noi operatori troviamo nell’ uscire dalle funzioni di ruolo, di mettere da parte l’appartenenza per agire come operatori di sistema. Il Sistema è la nostra comunità locale racchiusa nell’Ambito, tutta la comunità e non la somma di tanti pezzi (uno per Comune). La situazione di ruolo è quella che spesso ci fa agire come ‘sindacalisti’ a difesa di un particolare, di un pezzo della rete rappresentato nell’Ufficio di Piano”.70 Una situazione che orienta gli estensori del Pdz a pensare ad un lavoro dentro l’Udp volto a promuovere una “cultura dell’essere operatori di un Ufficio di Piano”.

Quanto abbiamo detto ci induce a guardare all’ integrazione progettuale svolta dall’Udp come ad un luogo nevralgico, nevralgico non tanto per l’integrazione verticale che si produce in essa (tra Comitato dei Sindaci e i diversi gruppi di lavoro) quanto per quella orizzontale, vale a dire quella connessa all’elaborazione di programmi e piani integrati che si formulano sulla base di orientamenti e di priorità che in certa misura devono essere condivise dai numerosi attori presenti nei gruppi di progettazione. Ci riferiamo all’oneroso lavoro fatto di scambi e negoziazioni con i colleghi e con le altre parti dove si tratta di confrontare obiettivi e progetti specifici (connessi cioè a un particolare territorio comunale) a partire da prospettive operative e culturali differenti. Con l’obiettivo di mettere a punto una progettazione d’ambito nella quale i punti di vista non di rado richiedono di essere riformulati, ricollocati o ritarati all’interno di orientamenti in grado di cogliere esigenze e problematiche più diffuse e condivise. In altri termini la sensazione è che il complesso lavoro di progettazione avviato nell’Ambito trovi qui, a livello dell’integrazione tecnica, il suo vero banco di prova ossia il luogo dove con maggior realismo si sperimentano faticosamente non solo i risultati dell’integrazione ma anche i suoi costi.

3.2.4 Il Tavolo politico di concertazione

Resta infine il Tavolo di concertazione politico, un livello che non corrisponde né ad un luogo di lavoro progettuale né ad un Tavolo di consultazione e neppure ad un Tavolo tecnico di concertazione (che opera rispetto alle Aree d’intervento) ma costituisce la sede per concertare le linee strategiche del Piano d’Ambito ed è pertanto composto da soggetti che possiedono una visione politica del territorio come il Comitato dei Sindaci, Assindustria, API, CNA, Confartigianato, CGIL, CISL, UIL, AVM, ACLI, ARCI, MCL, Lega Coop, Confcooperative. Il Tavolo è presieduto dal Presidente del Comitato dei Sindaci.

70 Piano triennale d’Ambito 2005-2007. Annualità 2005, p. 107.

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4. Il metodo (che fa l’organizzazione del Pda di Pesaro)

Nel paragrafo precedente abbiamo cercato di mettere in luce l’Assetto istituzionale del Pda di Pesaro, provando un po’ a fotografare i soggetti centrali assumendoli in una prospettiva un po’ statica. Pensiamo invece sia utile collocare la presentazione e le riflessioni sugli altri attori del Pda dentro l’infrastruttura metodologica che ha orientato e organizzato la delineazione dell’architettura del Pda, finendo per ispirare anche il lavoro dei soggetti istituzionali tra i quali era stata ideata e promossa.

4.1 Consultare, Concertare, Coprogettare, (in particolari casi) Cogestire

Ci riferiamo al percorso “consultazione-concertazione-coprogettazione-(inparticolari casi) cogestione”, un percorso metodologico nel quale sul palcoscenico dell’Ambito salgono nuovi attori, gruppi a geometria variabile a seconda degli obiettivi e delle esigenze connesse alle diverse progettazioni. Prima di passare a descriverne sinteticamente le fasi occorre tenere presente che in esse sono all’opera numerosi gruppi che afferiscono a quattro diverse tipologie (tavoli di consultazione, tavoli di concertazione, gruppi/coordinamenti inter-ambiti e gruppi di coprogettazione) di cui daremo ragione nel corso di questo e del prossimo punto.

4.1.1 La consultazione

Poiché l’Ambito “non dispone di uno strumento unico e scientifico sulla rilevazione della domanda e poiché non si considerano sufficientemente adeguati (in quanto saltuari) i momenti assembleari quali i Consigli Comunali congiunti e aperti alla cittadinanza” o alcuni convegni relativi tenuti nel 2004”, è stato messo a punto un “modello di consultazione” che ha l’obiettivo di “completare” tramite la costituzione e l’utilizzo di Tavoli di consultazione per Aree d’intervento quella che si realizza all’interno delle diverse assemblee plenarie. Si tratta di gruppi di lavoro da mettere in campo laddove occorre accrescere e approfondire l’informazione su un tema specifico.

4.1.2 La concertazione

Una volta raccolte in fase di consultazione le informazioni necessarie, si avvia la fase di concertazione con la quale si estende il consenso sulle linee/proposte di progettualità scaturite nella fase precedente e si conferisce ad esse una dimensione vincolante. Si tratta però di distinguere due livelli di concertazione.

Il primo attiene all’operato del Tavolo politico di concertazione71 entro il quale si discute e si concerta rispetto a obiettivi e progetti di valore “strategico” ossia riguardanti la struttura del sistema ambientale di welfare e dipendenti direttamente dalle scelte del Comitato dei Sindaci (come ad esempio la questione della forma della gestione associata dei servizi…).

71 Vedi sopra al punto 3.1.4.

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Il secondo si collega all’attività dei Tavoli tecnici di concertazione e ha come oggetto le linee e le progettualità connesse alle varie Aree d’intervento. Vale la pena chiarire, riguardo a quest’ultimi Tavoli, che essi “non vengono congedati, al momento dell’avvio dell’azione progettuale, ma restano lo strumento di verifica e monitoraggio della delega che è stata fatta ai tecnici”. Il Pda riporta la composizione di 12 gruppi/coordinamenti che a tutt’oggi operano complessivamente sui due versanti della consultazione e della concertazione ai quali devono essere aggiunti 7 gruppi o coordinamenti inter-Ambiti (vale a dire gruppi che prevedono la presenza di referenti di più ambiti territoriali sociali) della provincia o della regione che vengono coinvolti in queste fasi.

4.1.3 La co-progettazione

Svolto il lavoro di ascolto e concertate le linee/proposte di progettualità, vengono attivati i gruppi di progetto, in genere composti da 7/8 operatori esperti.Il Piano-progetti del Pda si compone di 45 interventi progettuali (ai quali corrispondono, nell’anno 2004-2005, 45 gruppi di co-progettazione) che si suddividono su due livelli. Da un lato 8 “progetti strategici” ossia, come abbiamo detto, quelli relativi alla struttura del sistema ambientale di welfare e dipendenti direttamente dalle scelte del Comitato dei Sindaci e dall’altro 37 progetti afferenti alle dieci Aree d’intervento sopra indicate.

4.1.4 La co-gestione (in particolari casi)

Infine due parole sulla questione della co-gestione poichè rappresenta una spia importante del tipo di progettazione che si sviluppa dentro i Pdz (non solo quello di Pesaro, ma anche quello degli altri presi in esame) una progettazione che non di rado finisce per attivare processi anche sul versante della realizzazione e della gestione. Un motivo che sembra stare all’origine di questa caratteristica sembra essere legato alla composizione e alla cura dei tavoli ossia al fatto che il lavoro di consultazione-concertazione-coprogettazione da un lato coinvolge attorno a problemi e temi, soggetti e gruppi di varia natura (istituzionali, di settore, specialistici, legati a specifici contesti territoriali dell’Ambito…) e dall’altro che l’Ambito dispone di risorse e mezzi per poterne promuovere e curare i lavori. Pur rischiando di peccare di specialismo, ci sembra che l’intreccio tra la composizione articolata di livelli di responsabilità, competenze e soggetti del sociale (vedi sotto 4.2) e un percorso che non procede per plenarie, ma per momenti distinti che consentono alle parti di approfondire, ponderare e negoziare rappresenti una situazione favorevole nella quale i diversi soggetti possono infine arrischiarsi a promuovere insieme sperimentazioni ossia a gettare ponti tra il disegno progettuale e le sue realizzazioni. In altre parole, ci troviamo di fronte ad una forma di progettazione che tende ad orientarsi nel campo della gestione cercando di valorizzare su questo livello quelle forme di scambio e cooperazione tra le parti che si sono rivelate utili e arricchenti in sede di progettazione, ossia attivando forme di cogestione del progetto da parte dei sui stessi progettisti, senza modificare tuttavia i contorni istituzionali della gestione. Si tratta perciò di distinguere la co-gestione dalla gestione associata, concependo la prima come un “frutto del percorso per cui

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si va a gestire insieme, cioè a livello di Ambito, in forma integrata, un servizio o un intervento progettato insieme”. Da questo punto di vista i casi sono significativi: si va dai percorsi di formazione specialistica per operatori pubblici e del privato sociale del Welfare locale” all’attivazione del servizio unico e integrato di accesso ai Servizi diurni e residenziali per disabili, dalla consulenza psicopedagogica nelle scuole di base dell’Ambito all’attivazione del Centro documentazione e informazione handicap, dalla rete dei servizi di sollievo a sostegno delle famiglie in particolari situazioni di bisogno nel campo della salute mentale all’équipe operatori di strada che opera nel settore della prevenzione, dai percorsi Scuola-territorio (rivolti ad adolescenti, giovani e insegnanti) al servizio Mediatori culturali per cittadini stranieri (che da Pesaro si attiva negli altri otto Comuni dell’Ats)…

4.2 La cura dei gruppi e il suo significato

Ricapitolando: per attivare e realizzare questo sforzo imponente di progettazione sono stati coinvolti e/o attivati dal Coordinatore e dall’Ufficio di piano 45 gruppi di progetto, 12 gruppi di consultazione e concertazione e 7 gruppi o coordinamenti inter-ambiti della provincia o della regione. Fatti salvi questi ultimi si tratta per tutti gli altri di gruppi:

a) multidisciplinari e integrati ossia composti da professionalità diverse che da poco tempo operano insieme (educatori, assistenti sociali, dirigenti, amministrativi, insegnanti…);

b) composti da dirigenti e operatori del pubblico e del privato, del sociale e del sanitario;

c) che vedono la presenza di “non addetti ai lavori” (volontari, familiari…);

Va da sé che i numeri e le caratteristiche complesse di questi gruppi hanno richiesto un investimento cospicuo da parte dell’Ambito per avviare e sostenere la loro attività, un investimento consistito soprattutto nella messa in campo di un folto numero di conduttori che mantengono uno stretto collegamento con il Coordinatore e con l’Ufficio di Piano.

È sufficiente sommare i numeri relativi ai progetti e alle risorse mobilitate per intuire che probabilmente qui ci troviamo di fronte al cuore del Pda di Pesaro. Questa prima sensazione è rafforzata da altri due aspetti. Il primo è quello consistente nel “rendere omogeneo” ciò che tra i diversi Comuni non lo è, come i regolamenti sull’assistenza, le procedure per predisporre i bilanci finanziari… Col che si dice che la co-progettazione non di rado è chiamata ad esercitarsi nella costruzione di nuovi strumenti e procedure che ridefiniscono quelli a valenza comunale nella nuova prospettiva dell’Ambito. Il secondo è rappresentato dal discorso sulla co-gestione, vale a dire dal fatto che anche sul piano della gestione cominciano a prendere forma, sia pure sulla sola dimensione organizzativa, gestioni comuni ispirate ad una logica sovracomunale. Se si sommano tutte queste cose risulta più realistico (e meno declamatorio) quanto si legge nel Pda in apertura del Piano-progetti: “L’obiettivo generale di tutti i nostri progetti è lo sviluppo e il consolidamento della rete

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territoriale dell’Ambito”, nel senso che la progettazione - promuovendo l’integrazione tra i vari attori sociali dell’Ambito, mettendo a punto i nuovi strumenti gestionali a dimensione sovracomunale e, in diversi casi, producendo forme di co-gestione dei servizi - finisce per configurarsi davvero come il campo di sperimentazione e attivazione di una nuova riformulazione dei servizi sociali.

4.3 Il ciclo della progettazione

Vale la pena provare ora a fornire uno schema che, in termini molto semplificati, ricapitola il ciclo della progettazione.

Fig. 1

Il processo prende avvio da una serie di ‘preorientamenti’ che vengono prodotti attraverso un lavoro di elaborazione che il Coordinatore (con il suo

Tavolo politico di concertazione

Coordinatore e suo staff

Ufficio di Piano

Gruppi di coprogettazione

Gestione o cogestione Dei servizi

Tavoli tecnici di

concertazione

Tavoli di consultazione

Assistenti sociali…

Coordinatore e suo staff

Ufficio di Piano

ComitatoSindaci

eTavolo politico

Coordinatore e suo staff

Ufficio di Piano

Tavoli tecnici di

concertazione

ComitatoSindaci

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staff) e l’Udp effettuano sia sulle informazioni e il materiale che raccolgono dal territorio (ad esempio dalle Assistenti sociali)72 e dai Tavoli di consultazione sia su quelle presenti nei contesti di lavoro dei componenti dell’Udp. Questi preorientamenti vengono presentati dal Coordinatore al Comitato dei Sindaci e da questi discussi e concordati con il Tavolo politico di concertazione. L’esito del loro lavoro (che a questo punto è maggiormente connotato in termini di priorità e linee/proposte progettuali) viene passato, tramite il Coordinatore e l’Ufficio di Piano, ai diversi Tavoli tecnici di concertazione attivati per aree d’intervento in vista di una condivisione più ampia. I risultati della concertazione tornano quindi al Coordinatore e all’ufficio di Piano per l’avviamento della co-progettazione, la quale - una volta ultimata- viene nuovamente sottoposta ai Tavoli tecnici della concertazione per la condivisione della stesura definitiva dei progetti. Questi infine vengono raccolti dall’Ufficio di Piano per la discussione e la validazione e quindi inviati al Comitato dei Sindaci.

Al riguardo possiamo formulare due osservazioni.

a) La prima è relativa alla ricostruzione dell’offerta e alla rilevazione della domanda, le quali nel testo del Pda non sembrano, ad una prima lettura, presentare significative connessioni tra loro. In altri termini la mappatura della rete dei servizi sembra ancora giocare un ruolo un po’ fragile rispetto alla funzione volta ad orientare e circoscrivere la lettura della domanda, che in assenza di uno sfondo generale, rischia di coincidere con la prospettiva di alcuni singoli attori (per quanto significativi).

b) La seconda, che si collega alla precedente, attiene alla questione della costruzione degli orientamenti di fondo delle singole Aree d’intervento. Posto che nell’Ufficio di Piano giungono informazioni, letture e prospettive provenienti da contesti diversi - ossia quelli dello staff del Coordinatore, dei Tavoli di Consultazione e dei suoi singoli componenti- la questione è quella di comprendere come queste sono trattate in modo da pervenire alla definizione dei numerosi orientamenti relativi alle dieci Aree d’intervento. E più precisamente, se un ruolo centrale al riguardo sembra essere svolto dall’Ufficio di piano, attraverso quali procedure esso - che ancora fatica ad assumere una visione d’Ambito- è in grado di elaborare, in pochi incontri e per ogni Area, specifici orientamenti in modo da guidare e sostenere il cospicuo lavoro della progettazione sovracomunale? È pur vero che ad un certo punto entrano in campo anche i Tavoli tecnici di concertazione, ma questi sembrano lavorare su linee progettuali già definite e non sulla loro delineazione.

L’ipotesi che formuliamo è che i vari orientamenti delle Aree d’intervento si costruiscano progressivamente per incrememento e aggiustamento, a più livelli e lungo la sequenza di lavoro assistenti sociali-tavoli di consultazione-staff del coordinatore d’ambito e Ufficio di Piano- Comitato dei Sindaci grazie ad un paziente lavoro di raccordo del Coordinatore d’Ambito. Resta però la domanda se la mole davvero rilevante di lavoro che si produce sul versante della progettazione possa confidare in un’architettura organizzativa in grado di consentire ai suoi principali attori di elaborare e disporre di orientamenti e

72 Vedi Pda, p. 81.

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prospettive capaci di dirigerla sulle questioni più importanti per la comunità che risiede nell’Ambito (questioni che potrebbero talora non coincidere con quelle che si pongono i suoi numerosi progettisti). E più in particolare: questo tema (dell’elaborazione degli orientamenti delle specifiche aree d’intervento a dimensione d’ambito) non potrebbe costituire un importante oggetto di riflessione per l’Ufficio di piano, vale a dire per un soggetto che anche oggi sembra chiamato a ripensare e aggiustare il suo complesso ruolo di snodo e d’integrazione tra le parti?

5. L’integrazione sociale e sanitaria

Prima di avviarci alla conclusione ci preme spendere alcune parole sull’integrazione tra sociale e sanitario, che non di rado rappresenta uno dei punti critici del lavoro dentro i Pda. Tenendo presenti i tre livelli canonici dell’integrazione istituzionale, gestionale e professionale ci limitiamo a segnalare alcuni aspetti per ognuno di essi.

Quanto all’integrazione istituzionale occorre tenere presente che anche la recente L. R. 13/03 “Riorganizzazione del Servizio sanitario regionale” presenta una certa attenzione all’integrazione tra la programmazione sociale territoriale e quella sanitaria. Nel caso specifico, con l’identificazione del distretto con l’ambito territoriale, si pongono le premesse vuoi per un governo comune dell’integrazione sociosanitaria che fa capo al medesimo Comitato dei Sindaci - al quale rispondono sia l’ambito che il distretto- vuoi per un maggiore raccordo tra i soggetti ai quali compete, in via prioritaria, sia di sostenere l’operato dei Sindaci al riguardo, sia di sostenere l’integrazione tecnica tra i due settori: ci riferiamo all’Ufficio di Piano e all’Ufficio Coordinamento Attività Distrettuale (Ucad). La loro composizione prevede infatti la presenza del Coordinatore d’Ambito nell’Ucad73 e del Direttore del Distretto nell’Ufficio di Piano.

Quanto all’integrazione gestionale - come in parte è stato anticipato- sono stati progettati ed avviati in forma integrata a livello d’ambito:

- la rete dei Segretariati sociali/Uffici di Promozione sociale;

- il Servizio unico di accesso ai servizi diurni e residenziali per le persone disabili;

- il gruppo integrato, di studio e di lavoro, che ha elaborato un catalogo della formazione specialistica per gli operatori (del sociale, della sanità, del pubblico e del privato-sociale) e sulla base del quale si stanno oggi progettando i percorsi formativi che utilizzano fondi misti (Ambito, Comuni, Sanità);

- diversi progetti di prevenzione rivolti a giovani e adolescenti;

73 È da tenere presente che il Coordinatore d’Ambito è membro del Collegio di direzione della Zona 1 di Pesaro, l’organo di programmazione e gestione dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale relativo ad un livello della sua articolazione territoriale che raccoglie più Distretti (e dunque prevede la presenza di più Coordinatori d’Ambito).

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- infine, il protocollo operativo (tra Ambito, Distretto Sanitario e Dipartimento di salute mentale) per la gestione integrata di servizi e interventi a sostegno dei minori e delle loro famiglie, e di persone in situazione di disagio psichico e dei loro familiari.

Dal canto suo la costruzione dell’integrazione professionale è perseguita principalmente in sede di co-progettazione, dove attualmente in 24 progetti (su 45) l’elaborazione è effettuata da un lavoro comune tra operatori e dirigenti dell’Ambito e del Distretto (oltre ovviamente all’apporto di altre componenti). Le criticità - a livello d’integrazione professionale- talora sorgono o per il mancato coinvolgimento del Distretto in alcune progettazioni significative (come quelle strategiche relative allo studio sulla forma da dare alla gestione associata dei servizi e al tema del bilancio sociale d’ambito) o per la difficoltà di mettere adeguatamente in rete (con il Distretto) servizi come il Centro documentazione e informazione handicap.

6. Alcuni motivi che hanno favorito l’integrazione (sinora) realizzata

Avviandoci a concludere potremmo chiederci qualcosa sui motivi di fondo che hanno favorito il lavoro sin qui realizzato dentro e con il Pda ossia l’integrazione al momento realizzata. Se sin qui, tra i tanti, abbiamo potuto indicare:

- quello di una figura di coordinamento che, liberata dalle incombenze della gestione ed ben equipaggiata, ha potuto concentrarsi nel pensare e mettere a punto, assieme al Comitato dei Sindaci, sia i contorni e le funzioni degli altri attori del Pda vuoi quelli a marcatura più istituzionale vuoi quelli che si connotano su un livello più organizzativo, e

- quello relativo alla presenza di un vasto campo di coprogettazione che, per i processi d’innovazione o di riformulazione che sta attivando, viene configurandosi come il luogo di una sperimentazione davvero importante in vista di una nuova integrazione dei servizi,

Vale la pena segnalarne anche altri. Tra questi deve essere menzionato quello di una significativa sintonia che ci è parso di ravvisare tra i vari livelli istituzionali nei confronti dell’orientamento sulla riformulazione territoriale della rete dei servizi. È difficile insomma pensare di impostare e attivare, in un periodo relativamente circoscritto, un processo di lavoro così complesso (per la varietà dei soggetti coinvolti e per la delicatezza delle questioni affrontate) se non si fosse potuto confidare su una sintonia fattiva tra i livelli istituzionali in gioco tra i quali sembra spiccare quella tra la Regione e i Comuni, ma dove sembra essere importante anche quella del Terzo settore e quindi di Asur. Che si tratti di una intesa di un certo rilievo e di non breve corso, a livello politico è confermato dal fatto che né l’avvicendamento del Sindaco del Comune capoluogo dell’Ats 1 nel 2004 né quello dell’Assessore regionale nel 2004 hanno indebolito o anche soltanto rallentato il processo orientato ad attivare una nuova integrazione dei servizi a dimensione d’ambito.

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A livello della struttura locale dei servizi un ulteriore segnale che sembra rafforzare questo orientamento è ricavabile poi dalla nuova “Architettura organizzativa”, datata 2004, del Comune Capofila dell’Ats 1, cioè Pesaro, nella quale - come si può vedere nello schema che riportiamo sotto- il Coordinatore d’Ambito viene collocato direttamente “in staff” al Sindaco della città/Presidente del Comitato dei Sindaci dell’Ambito evitando di collegarlo in qualche modo alla linea dei Servizi sociali, assistenziali ed educativi: insomma una collocazione effettivamente più consona ad un Coordinatore d’Ambito che ad un dirigente del Comune prestato alla dimensione sovracomunale.

Fig. 2

Sindaco

Giunta

Gabinetto Sindaco

Servizio Legale

Coordinamento Ambito territoriale sociale

Polizia Municipale

Segreteria generale Direzione generale

AreaComune

Città

AreaDinamiche

Urbane

AreaPianificazione

Ambiente

AreaCultura

Sviluppo

ServizioServizi

Demografici

ServizioPolitiche

Educative

ServizioSocio residenziale

Anziani

ServizioPoliticheSociali

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Se questa collocazione, ovviamente, non si configura nei termini di una relazione gerarchica diretta nei confronti dei dirigenti dei servizi sociali ed educativi del Comune capofila dell’Ambito, la sua posizione superiore ci aiuta comunque a comprendere il significativo margine d’azione di cui il Coordinatore ha potuto disporre nei loro confronti per coinvolgerli nel complesso lavoro di attivazione della rete dei servizi dell’ambito, una posizione che da ultimo si combinava con l’indicazione fornita dai Sindaci ai rispettivi dirigenti come prospettiva principale del loro ruolo vale a dire quella “di lavorare per l’Ambito”.

Ancora è opportuno sottolineare l’opzione di nominare come Coordinatore la persona che nei sette anni precedenti era stato il direttore dei servizi sociali del Comune capofila, che avrebbe potuto immettere nell’Ambito una preziosa dote fatta di competenze, conoscenze e relazioni.

Resta infine da ricordare il fattivo e assiduo coinvolgimento dentro il lavoro del Pda del personale del pubblico e del privato sociale, chiamato nei fatti a riformulare ‘sulla propria pelle’ parte della fisionomia dei rispettivi ruoli per aprirsi ad un lavoro con altre figure e professioni che, per la diversità dei punti di vista messi in campo, implica il sostenere relazioni e scambi non di rado onerosi. Anche in questo caso è difficile immaginare l’avvio di un lavoro così complesso se non si fosse potuto contare, specie all’interno del pubblico, su sintonie significative tra dirigenti e operatori rispetto al nuovo orientamento.

7. Coordinare e/o gestire: verso la gestione associata…

L’ultima parola è legata alla situazione attuale caratterizzata dall’attenzione a quello che il Comitato dei Sindaci già nel 2004 aveva indicato, tra tutti i progetti strategici, come quello prioritario: la gestione associata delle funzioni e dei servizi sociali ed educativi dei Comuni dell’Ambito, rispetto al quale è stato attivato un gruppo di lavoro composto dai dirigenti dei Comuni e dal coordinatore con il compito di valutare ipotesi e opzioni e formulare una proposta. Attualmente le ipotesi in campo “sono due: l’azienda speciale e la prospettiva di una forma leggera di riorganizzazione gestionale a livello dell’Ambito74 che ha l’obiettivo di dare priorità al ruolo dei Comuni senza promuovere l’attivazione di nuovi soggetti gestionali”. Parliamo di una ipotesi che si muove nel quadro delle convenzioni intercomunali e ha per oggetto la creazione di un “ufficio comune”75 nel quale i Comuni potrebbero collocare le loro funzioni sociali ed educative o parti di esse. Si tratta di una soluzione che più di altre sembra porsi in continuità con l’esperienza in atto nella quale sono già presenti una serie di sperimentazioni di forme di cogestione dei servizi. Salvaguardando l’autonomia dell’Ambito, si tratterebbe ora di sostituire al

74 Tale prospettiva costituisce anche l’esito del lavoro di un gruppo ristretto attivato dalla Regione Marche sulla medesima questione. 75 Vedi D.L. 267/2000, art. 30 c. 4: “Le convenzioni di cui al presente articolo possono prevedere anche la costituzione di uffici comuni, che operano con personale distaccato dagli enti partecipanti, ai quali affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all’accordo, ovvero la delega di funzioni da parte degli enti partecipanti all’accordo a favore di uno di essi, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti”.

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modello di funzionamento attuale che ruota attorno al ruolo e all’organizzazione del Comune capofila, quello centrato sull’attivazione dell’ufficio comune. Il risultato sarebbe quello di una specie di Ufficio comune d’Ambito che accoglierebbe “naturalmente” dentro di sé, ossia senza richiedere cospicui interventi sul piano della riconfigurazione giuridica, i processi di riformulazione e integrazione organizzativa attivati con l’esperienza triennale del Pda. Và da sé che il fatto di potersi radicare nell’esperienza in atto e la snellezza della sua formula amministrativa sembrerebbero far propendere per questa soluzione…

Quale che sia la soluzione che verrà adottata, resta la questione che si era posta all’origine ossia il dilemma tra coordinamento/promozione e gestione. Come si ricorderà esso fu risolto operando una distinzione, rivelatasi fruttuosa, tra queste due funzioni e mettendo in campo, tra i diversi soggetti e livelli, un ruolo di coordinamento liberato dalle incombenze gestionali ordinarie completamente speso sulla funzione di promozione e coordinamento della rete d’ambito dei servizi e degli interventi sociali. La questione del raccordo/distinzione tra le due funzioni si torna così a porre oggi quando da un Pda giocato principalmente sul livello della programmazione e della sperimentazione si sta passando alla definizione del suo profilo sul piano della gestione. In altre parole, all’interno della nuova forma di gestione associata si manterrà la scelta di distinguere le due funzioni (ad esempio affiancando ad un direttore dell’ufficio comune il coordinatore con funzioni promozionali) o ci si orienterà verso la loro unificazione all’interno di un unico ruolo? In quest’ultimo caso si tratterebbe di capire a quali condizioni le funzioni onerose svolte fruttuosamente in questi anni dal Coordinatore d’Ambito potrebbero essere assunte e giocate pienamente all’interno di un ruolo gestionale. In questo senso l’esperienza del Pda di Pesaro continua ancora oggi a giocarsi attorno allo sforzo di pensare le connessioni e i rapporti tra le due funzioni: se tre anni fa si trattava di distinguerle e in certa misura di separarle per avviare la sperimentazione del Pda, oggi la questione sembra essere quella di riavvicinarle. La possibilità che questa operazione di riavvicinamento si realizzi all’interno di forme in grado di consentire la collocazione della gestione entro la logica e la rete dell’Ambito che ha cominciato ad esistere, sembra oggi dipendere dal valore e dal significato che gli attori chiamati a decidere sulla forma da dare alla gestione associata intendono conferire all’esperienza di questi anni e dunque alla qualità della conoscenza che hanno potuto maturare riguardo al Pda… resta da vedere se in questa importante deliberazione non vorranno giocare un ruolo significativo anche i numerosi attori che in questi anni si sono cimentati nei percorsi progettuali del Pda collocandosi, in questo caso, con maggiore consapevolezza e determinazione anche sul piano della ‘progettazione istituzionale’, ossia facendo assumere al Tavolo di concertazione un vero ruolo da progettista istituzionale che, per essere davvero tale, implica l’elaborazione di un suo proprio orientamento da giocare nel momento in cui si tratterà di cimentarsi attorno a questo “progetto dei progetti” costituito dalla forma della gestione associata.

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VENTIMIGLIA, L’INTEGRAZIONE DAL DOPPIO LIVELLO76

1. Il contesto territoriale e quello legislativo: alcuni elementi di quadro

1.1 Contesto territoriale

La Zona sociale n.1 di Ventimiglia comprende 17 Comuni suddivisi in 5 Distretti sociali, costituiti mediante convenzione tra Comuni, secondo la seguente composizione:77

Distretto 1: composizione Popolazione Ventimiglia (centro storico e frazioni) 8.807 abitanti Airole 511 Olivetta San Michele 256 Totale popolazione distretto 9.574 Tipologia del territorio: collina litoranea e montagna interna Distretto 2 Ventimiglia 17.918 Totale popolazione distretto 17.918 Tipologia territorio: litoraneo Distretto 3 Caporosso 5.035 Apricale 574 Castelvittorio 395 Dolceacqua 1.911 Isolabona 691 Pigna 989 Rocchetta Nervina 274 Totale popolazione distretto 9.869 Tipologia territorio: collina litoranea ed in maggioranza montagna interna Distretto 4 Vallecrosia 7.384 San Biagio della Cima 1.169 Soldano 849 Perinaldo 887 Totale popolazione distretto 10.289 Tipologia del territorio: prevalentemente collina litoranea (solo un Comune in montagna interna)

(segue)

76 Il presente testo è stato elaborato sulla base: a) di un incontro di lavoro svoltosi a Genova il 30 settembre 2005 con Anna Banchero, Dirigente settore Programmazione delle Politiche sociali e integrazione socio sanitaria della Regione Liguria, e Isabella Berrino, Coordinatrice della Segreteria tecnica della Zona sociale di Ventimiglia (le parti riportate tra virgolette in corsivo sono state pronunciate nel corso dell’incontro dalle persone su indicate), b) dell’analisi del documento del Piano di Zona 2002-2004, dell’Aggiornamento 2003, dell’Aggiornamento 2004 e dell’Aggiornamento del Pdz 2005, e c) dell’analisi dei documenti indicati al punto 1.2. 77 Ci preme segnalare che la tabella riportata è stata desunta dal documento del Piano di zona, p. 5, 6.

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Distretto 5 Bordighera 10.735 Seborga 349 Vallebona 1.075 Totale popolazione distretto 12.159 Tipologia del territorio: collina litoranea

Totale abitanti della Zona sociale 59.809

A commento della Tabella sopra riportata, vale la pena sottolineare come nella realtà ligure si verifichino forti asimmetrie nella distribuzione della popolazione a causa soprattutto della configurazione geomorfologica del territorio. In particolare il Piano triennale dei Servizi sociali 2002-2004 riporta i seguenti dati: il 40% dei Comuni ha una popolazione inferiore ai 1000 abitanti, il 33% al di sotto dei 4000 ed il 22% al di sotto dei 50.000. Solo lo 0,5% dei Comuni ha una popolazione compresa tra i 50.000 ed i 100.000 abitanti (con una grande area urbana di oltre 600.000 corrispondente al capoluogo di Regione).

Vedremo nei paragrafi seguenti in che modo la Regione ha cercato di rendere compatibile questo dato ambientale con la necessità di pervenire alla costruzione di un sistema di servizi ed interventi sociali quale quello previsto dalla 328/00.

Provincia di Imperia

Superficie 301 Kmq

Densità abitativa 187 abitanti per Kmq Ambito distrettuale eDistretto sanitario dell’Asl

La Zona sociale coincide con il distretto sanitario

Formed’integrazioneistituzionale tra i Comuni(Associazioni,Unioni, Comunità montane, Patti territoriali, …)

Le forme di integrazione esistenti si riferiscono soltanto alla gestione associata dei servizi sociali mentre non sono presenti ulteriori forme di integrazione istituzionale.

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1.2 Contesto legislativo

Quadrinormativiregionalidi sistema ai quali si connette il Pianosocialed’ambito

Legge regionale n.21/1988, Riordino e programmazione dei servizi sociali della Regione

Legge regionale n.30/1998, Riordino e programmazione dei servizi sociali della Regione, che agli articoli 11 e 13 individua rispettivamente la Zona e il distretto sociale come forme di organizzazione e di gestione associata dei servizi sociali ed eventualmente, se delegate, anche delle Comunità montane

Piano triennale dei servizi sociali 1999/2001

Piano triennale dei sevizi sociali 2002-2004

Piano Socio Sanitario Regionale 2003-2005 (Delibera n. 3 del 20/27 gennaio 2004)

Delib. G.R. n. 448 del 17-04-03, Linee guida ai Comuni per la gestione associata dei servizi sociali

2. Assetti e forma di gestione dei servizi sociali

Assetti e forme di gestione dei servizi sociali (i rapporti tra i Comuni, tra Comuni e Asl, …): la situazione presente, i cambiamenti recenti, le prospettive future

Oltre alla Zona sociale, che comprende tutti e 17 i Comuni presenti sul suo territorio, sono stati istituiti, per la gestione associata dei servizi sociali e sempre tramite convenzione tra Comuni secondo lo schema tipo predisposto dalla Regione, 5 distretti sociali, articolati come descritto nella tabella al par. 1.1

3. Gli orientamenti regionali in relazione alla costruzione di un sistema integrato di servizi sociali

3.1 Una situazione “estremamente parcellizzata”

Il primo problema che si pone per la costruzione di un sistema integrato di servizi sociali in Liguria è quello di dover fare i conti con una situazione di partenza estremamente parcellizzata: la scelta di approfondire quanto avvenuto a Ventimiglia piuttosto che altrove nasce, fra le altre cose, proprio dall’interesse che suscita una situazione in cui non si tratta di chiedersi come fanno a costruire un sistema integrato di servizi sociali cinque, o al massimo dieci Comuni che hanno almeno alcune migliaia di abitanti, quanto di comprendere quale tipo di sistema può prendere forma in un contesto nel quale si tratta innanzi tutto di costituire quella che potremmo definire “l’unità organizzativa di base” del servizio sociale, tenendo presente che questa dovrà servire contemporaneamente il territorio di più Comuni (di dimensioni ridotte e pertanto con poche risorse da destinare ai servizi sociali così come a tutti gli altri).

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In situazioni così “parcellizzate” quali strade sono state percorse per assicurare anche agli abitanti dei Comuni più piccoli la possibilità di ottenere prestazioni sociali di qualità? Per comprenderle si tratta innanzitutto di cogliere, sia pure schematicamente, il filo rosso che sembra ravvisabile nei documenti della Regione Liguria, nei quali lentamente si fa strada l’esigenza di pensare ad una integrazione tutta particolare e più complessa, caratterizzata da una duplicità di livelli.

3.2 L’individuazione di un primo livello di integrazione: l’Ambito territoriale

In tema d’integrazione occorre risalire a molto prima della L. 328, ossia alla legge regionale di Riordino e programmazione dei servizi sociali del 1988, che definisce e nello stesso tempo indica agli Enti locali due aspetti sui quali intervenire:- il primo è relativo all’istituzione della Conferenza dei Comuni di ambito per

l’esercizio delle funzioni di programmazione, coordinamento e verifica dei servizi sociali;

- il secondo riguarda invece l’organizzazione e la gestione di servizi sociali, che “hanno luogo attraverso intese tra i Comuni partecipanti, regolate da apposite convenzioni, oppure attraverso le forme associative previste dal vigente ordinamento degli enti locali territoriali”.

Viene così definito un livello di programmazione-coordinamento-verifica dei servizi sociali che corrisponde ad un’estensione territoriale più ampia di quella dei Comuni, denominata Ambito e governata a livello politico da un organismo che raggruppa tutti i Sindaci (o relativi Assessori delegati) dei Comuni compresi in esso, i quali dispongono di un numero di voti pari al numero degli abitanti residenti nel Comune di appartenenza. Tale organismo politico si avvale di un Ufficio di coordinamento (composto da una rappresentanza più ristretta degli stessi Sindaci/Assessori) e di una Segreteria tecnica per i servizi sociali di ambito, definita come supporto professionale e amministrativo alla Conferenza.

A questo nuovo livello di governo del sistema dei servizi corrisponde, sul piano organizzativo-amministrativo, la possibilità per i Comuni di stipulare fra loro accordi (siano essi convenzioni o altre forme associative) relativi alla gestione dell’intero sistema di servizi sociali o anche ad una sola parte di essi.

3.3 L’Ambito/Zona non basta: nascono i Distretti sociali

È ragionevole ritenere che l’importante e impegnativo intervento legislativo del 1988 non debba avere conseguito gli effetti sperati, se dieci anni dopo - nel 1998- una seconda legge regionale di riordino e programmazione dei servizi sociali riprende il tema delle forme di aggregazione fra Comuni, introducendo però –all’interno dell’Ambito, ora denominato Zona– una importante novità: il Distretto sociale. Con il debutto di questo nuovo soggetto, i Comuni che prima componevano l’Ambito (o Zona) ‘in ordine sparso’, vengono ora raggruppati fra loro in sotto-aggregazioni distrettuali e dotati di funzioni specifiche.

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Graficamente, la differenza - rispetto alla Zona di Ventimiglia- si potrebbe rappresentare in questo modo:

Fig. 1- Legge regionale n. 21/1988

Fig. 2 - Legge regionale n. 30/1998

Cominciano così a prefigurarsi due livelli d’integrazione: quello del Distretto sociale, che riguarda in particolare l’organizzazione e la gestione delle attività socioassistenziali di base, e quello della Zona, che assume le funzioni di complessità più elevata.

Ambito/Zona

Comune 11

Comune 1

Comune 14

Comune 2

Comune 4Comune 13

Comune 15

Comune 7

Comune 10

Comune 9

Comune 3

Comune 8

Comune 17

Comune 6

Comune 12 Comune 5

Comune 16

Comune 1 Comune 3Comune 5

Comune 4 Comune 6

Comune 8

Comune 7

C. 9 C. 10

C. 13 C. 12

C. 11C. 14 C. 15 Comune 1

Comune 16

Comune 17

Distretto 2

Distretto 5

Distr. 1

Distr. 4

Distr. 3

Zona

Comune 2

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Più in specifico, se il Distretto sociale assume il compito di realizzare “in modo coordinato e integrato” gli interventi relativi a: informazione, accesso e utilizzo delle prestazioni sociali, assistenza economica, assistenza domiciliare, supporto alle situazioni di disagio e di fragilità sociale, accesso ed eventuale gestione dei servizi residenziali; alla Zona spetta invece quello di definire l’articolazione territoriale dei Distretti sociali e predisporre il Piano triennale dei Servizi socio-assistenziali e socio-sanitari facenti capo ai Comuni associati.

La costruzione dell’architettura della ‘doppia integrazione’ viene quindi affidata al Piano triennale dei servizi sociali 1999-2001 che riprende elementi già noti e ne introduce altri nuovi sviluppando un ragionamento sulle dimensioni politiche e tecniche dei due livelli.

Per quanto concerne il Distretto si prevede la costituzione della Conferenza di Distretto sociale, formata dai Sindaci dei Comuni che annovera tra i suoi compiti l’approvazione del programma locale dei servizi sociali (con il relativo piano di finanziamento e spesa) e la costituzione dell’équipe professionale distrettuale. In questa prospettiva mirante a rafforzare la dimensione-distretto, viene rivista la fisionomia dell’Ufficio di Coordinamento della Conferenza di Zona, il quale, oltre al Presidente della Conferenza di Zona, risulta ora composto dai Presidenti dei cinque Distretti.

Quanto al livello tecnico, il Piano prevede il “superamento della distinzione fra servizi distrettuali ed extradistrettuali con l’integrazione “graduale” degli operatori sociali dei Comuni nell’(unica) équipe distrettuale, della quale viene indicato il “nucleo minimo” consistente in tre figure professionali: l’assistente sociale, l’operatore amministrativo e l’assistente domiciliare. Il responsabile di questa équipe - referente della Conferenza distrettuale, responsabile del Piano distrettuale dei servizi e promotore in senso lato del Distretto- entra a far parte del nucleo mobile della Segreteria tecnica.

Riguardo alla Zona, il Piano ne approfondisce in particolare la dimensione tecnica specificando la composizione minima del nucleo permanente della Segreteria che viene configurata nel responsabile e in un funzionario amministrativo.

La connessione tra i due livelli tecnici del Distretto e della Zona viene infine individuata in una “collaborazione” tra il nucleo permanente della Segreteria tecnica e quello mobile composto dai responsabili delle équipes distrettuali, ai quali possono essere affidati compiti a livello di Zona.

Dal canto suo il Piano triennale dei servizi sociali 2002-2004 si concentra sulla distinzione delle competenze di fondo tra i due livelli:

a) i livelli essenziali di assistenza (Lea) o “prestazioni di base” che sono a carattere distrettuale (o sub-zonale);

b) e le prestazioni più complesse che dovranno invece assumere carattere sovradistrettuale o di zona, specificando che i servizi sovra-distrettuali o di zona “non vanno intesi come ‘sovraordinati’ ai servizi distrettuali, ma come complementari sul piano della più ampia disponibilità di risorse (integrazione con altri comparti) difficilmente attivabili a livello dei territori distrettuali”.

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Pertanto, “la caratteristica dei servizi di zona è la presa in carico più complessa, delle persone e delle famiglie, che richiede azioni integrate sia all’interno del sociale che del sanitario, o socio-sanitario e di altri comparti (scuola, lavoro etc.). Si svolgono a livello di zona anche azioni sociali che hanno elevata complessità organizzativa e richiedono investimenti economici di rilievo quali le attività residenziali. Si individuano tra i servizi di zona (e distretto sanitario) i piani per l’infanzia, per gli adolescenti, l’adozione, anche quella internazionale, i servizi consultoriali per i minori, adolescenti e politiche per i giovani, i disabili, i tossicodipendenti e gli anziani non autosufficienti (Adi e Spedalizzazione territoriale)”.

Viene infine stabilito che “i Comuni che non provvedono ad associarsi non sono destinatari degli incentivi economici regionali”.

Nell’aprile 2003 si registra un nuovo intervento normativo, questa volta sotto la forma di Linee Guida, espressamente dedicate alla questione della gestione associata dei servizi sociali. In esse:

1. si ricorda che i Comuni sono tenuti a stipulare una convenzione per l’esercizio in forma associata dei servizi sociali, e

2. si definiscono le forme organizzative che il Distretto sociale deve assumere ed in particolare il personale professionale che deve prevedere:

- fino a 4000 abitanti è previsto un assistente sociale e un addetto alle attività amministrativo contabili;

- nei distretti con popolazione superiore ai 5000 abitanti, oltre alle due figure appena richiamate (che vanno assicurate ogni 5000 abitanti e multipli di 5000) è previsto inoltre un coordinatore di distretto che “è inquadrato di norma nell’ente capofila.”

Infine si ribadisce che “l’obiettivo da raggiungersi entro il primo triennio è la messa a punto di un’organizzazione, comprendente il personale di coordinamento, quello amministrativo contabile e il personale dipendente dei Comuni aderenti alla convenzione.”

Per quanto le righe appena riportate segnalino un profilo dei Distretti sociali che ancora non possiede la struttura minima di base per la gestione associata prevista già nel Piano triennale 1999-2001, occorre prendere atto di alcuni risultati che - anche sul piano numerico- prospettano un quadro complessivo meno frammentato, che può rappresentare la base per proseguire nell’opera di integrazione dei servizi sociali prevista dai Piani di Zona: da una situazione di partenza che vedeva la presenza di 235 Comuni a sé stanti, si è giunti infatti alla costituzione di 89 Associazioni Intercomunali di Distretto sociale e 19 Zone sociali. Si tratta di un risultato significativo se - in questo caso rispetto alla Zona di Ventimiglia- si considera il “prolungato disinteresse mostrato dal personale politico e dai Sindaci riguardo alla costruzione del sistema dei servizi sociali”,disinteresse dovuto sia ad una concezione che vede nel sociale soltanto “unaCenerentola” per la quale si ritiene opportuno delegare gli Assessori, sia “all’atteggiamento dei Sindaci che non vedono la necessità di lavorare per

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migliorare i servizi, di creare aspettative in una situazione dove nessuno pone domande e dove i Comuni comunque non dispongono delle risorse necessarie per approntare i miglioramenti”. Una situazione probabilmente diffusa che il Piano triennale del 1999-2001 riprende sul versante delle Segreterie tecniche, sottolineando la loro difficoltà a svolgere un’azione promozionale nei confronti dei singoli Comuni, vuoi per la “diffidenza verso logiche collaborative interistituzionali e perché chiusi nel loro orizzonte” vuoi perché “tanto privi di risorse e competenze interne da non essere in grado di porsi come interlocutori in un rapporto con l’ambito (poi denominato zona) che li aiutasse a decollare dalle loro situazioni specifiche”.78

Detto questo resta da sottolineare l’oneroso e lungo cammino della Regione nel mettere a punto un’architettura organizzativa che prevede un’integrazione dal doppio livello. L’idea che ci sta dietro sembra essere che la Zona da sola, nel contesto ligure, si rivela come un livello d’integrazione ancora molto distante dal territorio per poter operare la sua integrazione. Diventa così necessario pensare ad un processo d’integrazione progressivo che parte da contesti più circoscritti e da una maggiore differenziazione del contenuto dei suoi livelli (servizi di base/servizi complessi) per maturare la convinzione che proprio sulla realizzazione dei Distretti si gioca la possibilità dell’integrazione di livelli più complessi. Da un’idea ancora semplificata dell’integrazione centrata sulla sola Zona, presente nella legge del 1988, si passa così ad una molto più raffinata, centrata sulla messa a fuoco di Distretti e Zone e sull’elaborazione delle loro relazioni.

4. Il Piano sociale d’ambito: orientamenti di fondo, livelli e processi di lavoro

4.1 Il processo di costruzione del Piano

Nel paragrafo precedente abbiamo presentato l’assetto istituzionale delle Zone e delle loro sottoarticolazioni distrettuali, si tratta ora di comprendere quali forme la Zona sociale di Ventimiglia ha concretamente predisposto per la elaborazione del Pdz, tenendo presente che in questo contesto la Zona sociale si è costituita nel 1992 e la sua Conferenza dei Sindaci si avvale di una Segreteria tecnica composta dalla responsabile - individuata all’interno dell’organico dell’Ausl per distinguere l’Associazione dei Comuni dall’apparato di un unico ente - da un funzionario e da un collaboratore (part-time) amministrativi. Lo schema che segue prova a ricostruire, in forma semplificata, il ciclo di elaborazione del Pdz del 2002, sostanzialmente replicato nelle annualità seguenti (sia pure nel quadro di prospettive e riflessioni nuove che, come vedremo nell’ultimo paragrafo, si sono fatte strada recentemente).

78 Piano triennale 1999-2001, par. 2.1.

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Fig. 3

Presidente di Zona

Segreteria tecnica

allargata

Incontro dell’Ufficio di coordinamento della Conferenza di Zona con il Direttore Generale dell’Ausl per definire modalità e

contenuti per una collaborazione

Dopo l’approvazione del Piano sono previsti incontri specifici per singole aree prioritarie di intervento per meglio analizzare le singole problematiche, definire le

varie azioni progettuali, ed il relativo sistema di collaborazioni…

25-03-02: Conferenza di Zona e Segreteria tecnica allargata

23-04-02: Conferenza di Zona e Segreteria tecnica allargata (+ invito a

Comunità Montana e Provincia)

02-05-02: la bozza provvisoria del Piano viene presentata e discussa

con i soggetti del pubblico e del privato che operano a livello sociale

entro il 15-04-02 la Segreteria tecnica

allargata predispone la base conoscitiva

Conferenza di Zona e Segreteria tecnica allargata

13-05-02: Il Piano di Zona viene approvato con deliberazione della

Conferenza di Zona

Invio del materiale a Distretto e Comuni

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Il percorso della programmazione prende avvio con il coinvolgimento dei Comuni, da parte del Presidente di Zona, e la richiesta alla Ausl, alla Provincia e all’Ufficio scolastico provinciale di individuare i referenti sia politici che tecnici. A ciò segue l’attivazione di un Gruppo tecnico con funzioni di supporto alla Conferenza di Zona coordinato dalla Segreteria tecnica (d’ora in poi anche St) in pratica una Segreteria tecnica allargata (d’ora in poi anche Sta) composta dal nucleo permanente della St, dai responsabili delle équipes distrettuali e dalle assistenti sociali dei Distretti. La Sta, con la collaborazione del Servizio Sistema Informativo sociale e controllo qualità degli interventi della Regione Liguria, raccoglie una serie di elementi informativi sui bisogni e le risorse della Zona ed elabora una “fotografia” del sistema dei servizi, distinguendo quelli comunali-distrettuali da quelli zonali.

Questo materiale viene presentato in un incontro tra la Conferenza di Zona e la Segreteria allargata nel quale:

- si concordano alcune linee di fondo per la messa a punto, da parte della Sta, di un Rapporto conoscitivo sulla base del quale definire le priorità,

- e si chiede all’Ufficio di coordinamento della Conferenza di stabilire con il Direttore generale dell’Ausl le modalità e i contenuti della collaborazione.

Sulla base del Rapporto la Conferenza -assieme alla Sta- individua le priorità e di seguito, in una fase più operativa, i due organi mettono a punto “gli obiettivi di sviluppo e di sistema (ovvero gli obiettivi di benessere e di salute e quelli relativi al sistema dei servizi da realizzare e dei relativi assetti organizzativi) le azioni e le modalità di finanziamento”,79 cioè la “bozza provvisoria” del Piano. Questa viene presentata e discussa con i soggetti del settore pubblico e privato che operano a livello locale, dove si concorda il processo partecipativo che seguirà l’approvazione del Piano, mirante a definire -tramite incontri specifici per singole aree d’intervento- le forme della collaborazione per la realizzazione delle attività.

4.2 Alcune considerazioni

Vale la pena formulare alcune considerazioni a commento dello schema di lavoro per la messa a punto del Piano, tenendo presente il contesto nel quale tale lavoro si è sviluppato e che contribuisce, almeno in parte, a spiegarne aspetti e criticità. Esso è infatti caratterizzato da due tratti salienti. Da un lato lo sforzo profuso soprattutto dalla Segreteria tecnica al fine di coinvolgere un personale politico che, come abbiamo detto, sino ad allora non aveva mostrato un grande interesse attorno al tema dell’integrazione dei servizi sociali e sembrava costantemente condizionato da una penuria di risorse. Il secondo aspetto -che in larga parte si collega al primo- è connesso alla persistente assenza in diversi Comuni della Zona dei servizi sociali di base, la cui attivazione sembra avere rappresentato per lungo tempo la preoccupazione e lo sforzo cui sono state principalmente destinate le energie della Segreteria tecnica.

79 Piano di Zona sociale 2002-2004, p. 4.

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All’interno di questo quadro si possono formulare almeno due riflessioni.

A) Innanzitutto dallo schema appare il peso ridotto che la dimensione-distretto sembra assumere almeno nel primo ciclo di lavoro per l’elaborazione del Piano, dove i diversi livelli di priorità (aree, obiettivi…) della Zona vengono elaborati:

- sulla base di un materiale non costruito a livello dei singoli Distretti, ma raccolto nella prospettiva della Zona, e

- analizzato da un gruppo che guarda immediatamente a questa dimensione.

Si tratta di un approccio che condiziona un po’ la costruzione del primo Piano e che si può forse ricondurre a due elementi principali: il primo relativo alla “fragilità” che probabilmente caratterizzava il funzionamento delle équipes distrettuali nei primi tempi della loro attivazione, quando invece la Segreteria di Zona operava fin dal 1992; il secondo collegabile ad un certo imprintingconferito vuoi alla St vuoi alle équipes distrettuali. Si tratta infatti di due organismi definiti originariamente soprattutto in riferimento ai rispettivi organi politici (Conferenza di Zona e Conferenza di Distretto) e meno in raapporto alla cooperazione con gli altri livelli professionali.

Si coglie cioè, almeno nei primi anni di elaborazione del Piano, una certa tensione tra le dimensioni istituzionali e quelle organizzative dell’integrazione, ossia tra l’orientamento regionale -teso alla costruzione di un’integrazione dal ‘doppio livello’ (Zona e distretti)- e l’orientamento del lavoro zonale relativo alla costruzione del Piano, che tende a svilupparsi prevalentemente su un solo livello, quello appunto della Zona.

B) Il secondo aspetto è connesso al ridotto coinvolgimento dei soggetti sociali, i quali compaiono solo nella fase conclusiva di approvazione del Pdz e in quella seguente della negoziazione delle forme per la realizzazione degli interventi. Se questo aspetto tende a caratterizzare l’esperienza di Ventimiglia rispetto alle altre analizzate, occorre tenere presente che, come abbiamo detto, l’asse prioritario del lavoro relativo all’integrazione sociale della Zona ha dovuto cimentarsi innanzitutto con un oneroso lavoro all’interno del pubblico, finalizzato cioè a far maturare un’idea abbastanza condivisa dell’integrazione vuoi nella sua componente politica, vuoi in quella professionale. Èipotizzabile pertanto che lo sforzo profuso in questa fase abbia finito per erodere lo spazio e le energie da dedicare all’ingresso di un altro importante soggetto.

4.3 Il livello dell’integrazione fra sociale e sanitario

Nel momento in cui si avvia il primo Pdz anche l’Azienda Usl sta attraversando una serie di cambiamenti, che riguardano in particolare:

- la riorganizzazione delle attività sulla base della suddivisione in tre distretti territoriali corrispondenti alle tre Zone sociali presenti nella provincia;

- la riorganizzazione delle varie Unità operative territoriali (Uo) in tre Uo di cure primarie, una per distretto sanitario;

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- l’introduzione di nuove figure professionali: il Direttore di Distretto ed il Responsabile dell’Unità Operativa cure primarie.

Poiché al momento del primo Piano di Zona la nomina di queste figure non era ancora stata effettuata, fu con lo stesso Direttore generale che vennero concordate alcune Aree di azione prioritarie ed i rispettivi obiettivi (vedi sopra 4.1).

Nel 2003 è ormai avvenuta l’attivazione dei Distretti sanitari e sono stati nominati il Direttore di Distretto, il Responsabile dell’Unità operativa delle cure primarie e i responsabili di alcuni Dipartimenti, anche se è ancora in corso la riorganizzazione delle varie Unità operative e del Dipartimento.

Con questi nuovi interlocutori la Conferenza di Zona e la Segreteria tecnica elaborano un piano esecutivo comprendente diverse azioni relative all’area anziani (in particolare per quanto riguarda la residenzialità) all’area disabili, alle persone in grave stato di emarginazione o con bisogni socio-sanitari complessi, ai minori (anche per quanto riguarda la prevenzione del disagio e l’educazione alla salute).

Inoltre, “per promuovere l’integrazione locale tra i due comparti del sociale e del sanitario” vengono previsti incontri periodici del Direttore del Distretto e del Responsabile Uo Cure primarie sia con la Conferenza di Zona “per favorire l’integrazione socio-sanitaria istituzionale”, sia con la Segreteria tecnica, “per realizzare l’integrazione socio-sanitaria gestionale e professionale in particolare per la rilevazione e lettura dei bisogni socio-sanitari al fine di trarre indicazioni per la pianificazione di Zona e di Distretto sanitario, per monitorare l’intero percorso ed arrivare ad una definizione dei ‘Lea distrettuali e di Zona’ ”.

Infine, nell’Aggiornamento del Pdz 2004 non viene più inserito un punto specifico sull’integrazione socio-sanitaria perché si ritiene più opportuno sviluppare il tema nelle pagine dedicate alle diverse aree di intervento. Si sottolineano però in particolare i seguenti aspetti:

- l’attivazione dell’Unità di Valutazione Multidisciplinare, un gruppo di lavoro multidisciplinare che si costituisce per la presa in carico dei soggetti che presentano bisogni sociosanitari complessi rispetto ai quali è necessario rispondere con più servizi erogati da strutture organizzative diverse;

- la definizione delle procedure operative che possono agevolare i cittadini nella richiesta di interventi e servizi: “un obiettivo condiviso con il Distretto sanitario è quello di creare punti di accesso unitari, almeno nei Comuni delle vallate, coinvolgendo addetti delle pubbliche assistenze adeguatamente formati e le assistenti sociali nei loro orari di segretariato sociale”.

Per concludere, si sottolinea che “in questi ultimi anni si sono instaurati buoni rapporti operativi professionali con i servizi Ausl, non sempre formalizzati, e questo è senz’altro un obiettivo da raggiungere”.

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5. Una strategia per la Zona e la sua Segreteria

Avendo tratteggiati gli aspetti di fondo dell’esperienza di Ventimiglia e formulato alcune sottolineature, possiamo cercare, in questo paragrafo, di cogliere alcuni orientamenti e segnali che si stanno sviluppando in quest’ultimo periodo, dai quali sembra ravvisarsi una specie di “strategia pratica” della Segreteria tecnica.

A) Sul piano della collaborazione con il Distretto è interessante segnalare alcuni movimenti.

Innanzitutto l’attuale forma per la definizione degli obiettivi del Piano che - a differenza dei primi anni in cui la loro elaborazione avveniva a livello di Zona e su un materiale correlativo - oggi prevede una fase di lavoro a livello distrettuale dove la Conferenza dei Sindaci e l’équipe corrispettiva mettono a punto gli obiettivi dell’ambito distrettuale. Questi confluiscono poi in una seconda fase di lavoro dove la Segreteria tecnica allargata elabora la proposta relativa alla Zona da presentare e discutere negli incontri con la sua Conferenza.

Un secondo aspetto è quello dell’orientamento, ancora promosso dalla Segreteria tecnica, volto ad attivare una rete tra i dodici patronati presenti nei Comuni della Zona con l’obiettivo di promuovere una loro collaborazione con i distretti per lo svolgimento di alcune attività socioassistenziali di base di loro competenza.

Infine devono essere segnalate alcune prime assegnazioni di settori di competenza (ad esempio: minori, anziani, immigrati) a valenza zonale effettuate dalla Segreteria tecnica ai responsabili delle équipes distrettuali. Se comprendiamo bene l’obiettivo è quello di introdurre la dimensione della zona anche in ambiti del lavoro degli operatori distrettuali che non coincidono con quello strettamente collegato alla progettazione del Pdz. Si intende promuovere cioè una collaborazione tra operatori del distretto e operatori della zona che va oltre la fase della progettazione.

Si tratta di tre ‘mosse’ che riformulano una prima prospettiva dell’integrazione che aveva preso piede tra gli enti locali della Liguria sino a questi ultimi tempi e che - a nostro avviso - è un po’ alla base di quell’atteggiamento di disinteresse dei politici, e in particolare dei Sindaci, segnalatoci dai nostri interlocutori. Ci riferiamo alla particolare idea dell’integrazione veicolata con la legge del 1988, centrata sopra un unico livello, quello della Zona. Non è improbabile che in una situazione ad alta frammentazione come quella ligure, la prospettiva di una integrazione da effettuarsi ad un livello come quello della Zona - che include un numero rilevante di Comuni di differenti dimensioni - sia stata percepita dagli amministratori non solo come un’integrazione poco probabile, ma addirittura come un’integrazione avversa, che sottraeva le già scarse risorse sociali dei Comuni per trasferirle sulla dimensione molto rarefatta e distante della Zona, nella quale avrebbero menato le danze solo i (pochi) Comuni più grandi. Da questo punto di vista l’atteggiamento mostrato fino a poco tempo fa dai Comuni riguardo alla costruzione della Zona ci appare più propriamente come una

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forma di resistenza e di garbata opposizione che di semplice/colpevole disinteresse.

La successiva riformulazione da parte della Regione dei livelli di integrazione dei servizi sociali, con l’introduzione di una dimensione ‘più tangibile’ e più ‘vicina’ quale è il Distretto sociale, e gli ultimi aggiustamenti del lavoro relativo al Pdz, apportati dalla Segreteria tecnica con l’intento di dare peso e rilievo a questo “livello intermedio” di integrazione, concorrono a spiegare sia l’atteggiamento recentemente più attento del personale politico riguardo alla costruzione complessiva dell’integrazione (Zona compresa) sia lo svilupparsi di quelle forme di collaborazione tra i professionisti dei due livelli che il Piano del 1999-2001 sottolineava, senza però fornire altre indicazioni.

B) Resta la questione del coinvolgimento dei soggetti sociali, rispetto al quale se da un lato nell’Aggiornamento del Pdz del 2005 si segnala l’esigenza di “individuare delle modalità agili e democratiche per coinvolgere il Terzo Settore, non solo nella gestione dei servizi, ma anche nella co-programmazione (dove sono da superare le formule legate alla semplice consultazione sui servizi ed occorre prevedere la realizzazione coordinata della programmazione)”, dall’altro si coglie tra le righe il timore di avviare, con questo coinvolgimento, una mole di lavoro che l’attuale architettura del Pdz faticherebbe a sostenere.

Quest’ultima considerazione rimanda nuovamente al tema della doppia integrazione, ossia alla costruzione dei due livelli della Zona e del Distretto e del loro rapporto, che rappresenta un po’ il cuore dell’esperienza del Pdz di Ventimiglia.

Se rispetto alla dimensione istituzionale di questo rapporto abbiamo già formulato nei paragrafi precedenti alcune considerazioni, su quella professionale sembra riproporsi oggi, quando un certo investimento sullo sviluppo dei Distretti è stato sicuramente avviato, la domanda rispetto alla configurazione organizzativa di tale dimensione e in particolare del livello che corrisponde alla Segreteria tecnica. Ci domandiamo cioè se in un contesto nel quale si chiede alla Segreteria tecnica sia lo sforzo di sostenere onerosi processi di scambio, confronto e negoziazione tra gli orientamenti e i programmi dei Distretti, sia di promuovere il loro specifico sviluppo, non possa essere importante ripensare al suo assetto, originariamente molto connotato sul versante amministrativo a supporto dell’organismo politico: più che ad una “segreteria”, oggi ci troviamo di fronte ad un livello che sta assumendo quel ruolo cruciale e complesso di “regista tecnico” dell’integrazione dei servizi sociali, che l’orientamento della Regione Liguria prevede.

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CAPITOLO II

FATTORI IN GIOCO NELLA COSTRUZIONE DELLE ZONE E DEI LORO PIANI

Il presente capitolo implica un cambiamento di visuale rispetto alla prospettiva che ha ispirato l’articolazione e lo sviluppo del primo. Se quest’ultimo possiede una prospettiva più analitica che lo orienta a concentrarsi distintamente sulle singole esperienze prese in esame, il secondo prova invece ad operare una serie di confronti tra di esse. Ma come e su che cosa instaurare questo confronto?

Al riguardo occorre ricordare che, trattandosi di una ricerca relativa ad un numero circoscritto di casi, essa si colloca naturalmente su un piano qualitativo dove più che le medie e le percentuali è importante cogliere e provare a descrivere gli orientamenti di fondo, gli aspetti che li collegano e i fattori prevalenti che sembrano entrare in gioco nei diversi casi in ordine ai processi di costruzione di Piani e zone.

In questo senso, piuttosto che battere la strada volta a impostare un confronto tra le varie esperienze secondo una serie di livelli e sottolivelli di lettura che tende ad essere poco utile se applicata ad un materiale quantitativamente circoscritto come il nostro, abbiamo pensato di impostare questo capitolo strutturandolo attorno a tre fattori prevalenti che, nel lavoro di confronto condotto in relazione all’elaborazione delle sette esperienze analizzate, ci sono parsi giocare un ruolo dirimente.

Tali fattori prevalenti, che a conclusione del capitolo proponiamo di utilizzare come lenti integrate per la lettura dei processi di costruzione delle zone, sono quelli della conformazione territoriale, della produzione normativa e programmatica regionale e delle alleanze e oggetti di lavoro prevalenti che si realizzano localmente cioè a livello delle singole zone.

Di conseguenza abbiamo messo a punto tre paragrafi corrispondenti ai vari fattori, in ognuno dei quali abbiamo provato a rileggere trasversalmente i sette casi a partire da specifici angoli di visuale e quindi a operare una serie di accorpamenti ulteriori, di sottoarticolazioni che ci pare confermino la capacità di questi tre angoli di lettura nel gettare luce in situazioni piuttosto complesse che registrano pluralità di livelli, oggetti, attori e connessioni.

Come si potrà vedere, questo capitolo non si propone la messa a punto di un vero e proprio modello di lettura, quanto l’elaborazione di un primo orientamento (lente) sufficientemente complesso per cogliere i lineamenti e i tratti (altrettanto complessi) che connotano l’oneroso lavoro atto a sostenere i processi d’integrazione. Il capitolo si conclude pertanto con la proposta di una prima lente di lettura che ci sembra consentire una visione pluridimensionale, vale a dire che prova a tenere insieme le interazioni tra alcuni fattori importanti, ma insufficienti se presi singolarmente a dare ragione del complesso lavoro che si sta sviluppando in rapporto e dentro le zone.

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1. Il rapporto tra conformazione dell’ambito territoriale e processi di costruzione della zona sociale

All’interno dell’insieme dei casi che la ricerca ha preso in esame si possono individuare quattro tipologie di conformazione dell’ambito territoriale, che si distinguono in ragione del numero e della popolazione dei Comuni che appartengono all’ambito.

Una prima tipologia è quella relativa alla presenza nell’ambito di un solo Comune.

Una seconda vede presenti più Comuni, in numero complessivo non superiore a dieci, tra i quali ve ne sono almeno due di dimensione media (oltre i 15.000 abitanti).

Una terza categoria è rappresentata dall’ambito composto ancora da un numero complessivo di Comuni non superiore a dieci, dove però è presente un Comune (in genere capoluogo di provincia) molto più popoloso degli altri.

Infine, l’ultimo livello riguarda l’ambito in cui sono presenti più di dieci Comuni, in certi casi con forti differenze nella popolazione tra l’uno e l’altro.

Ambititerritoriali La conformazione dell’ambito territoriale80

1^ tipologia Barletta 1 Comune. Popolazione: 93.309 (2004)

AltaValdelsa

5 Comuni. Popolazione: 58.966 (2002) Comuni più abitati: Poggibonsi (27.889) e Colle Valdelsa (20.040)

PenisolaSorrentina e Capri

8 Comuni. Popolazione: 91.788 (2002) Comuni più abitati: Vico Equense (20.400) e Sorrento (16.458)

2^ tipologia

Lugo9 Comuni. Popolazione: 96.273 (2003) Comuni più abitati: Lugo (31.571) e Bagnacavallo (16.125)

3^ tipologia Pesaro

9 Comuni. Popolazione: 129.809 (2004) Comune più abitato: Pesaro (91.983) Secondo Comune più abitato: Sant’Angelo in Lizzola (7.617)

Ventimiglia17 Comuni. Popolazione: 59.809 (2002?) Comune più abitato: Ventimiglia (26.725) Secondo Comune più abitato: Bordighera (10.735)

4^ tipologia

Cremona8147 Comuni. Popolazione: 153.057 (2001) Comune più abitato: Cremona (71.362) Secondo Comune più abitato: Soresina (8.920) (2004)

80 Tra parentesi viene riportata l’indicazione dell’anno a cui risale la rilevazione. 81 L’ambito di Cremona può essere collocato anche nella 3^ tipologia vista la forte discrepanza tra il numero di abitanti del Comune di Cremona e quello degli altri Comuni della zona.

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Da un confronto tra i casi analizzati nel primo capitolo si può osservare come queste diverse tipologie di conformazione dell’ambito influenzino in modi diversi i processi di costruzione della zona sociale. Proviamo ora a delineare i risvolti della conformazione dell’ambito nella costruzione della zona.

1.1 L’ambito monocomunale: costruire la zona sociale in una situazione a ridotta complessità istituzionale

La vicenda del Piano sociale nell’ambito territoriale di Barletta mostra come, nelle situazioni in cui non si tratta di produrre connessioni tra Amministrazioni comunali differenti -ssia in situazioni che potremmo ribattezzare ‘a ridotta complessità istituzionale’- il lavoro d’integrazione può concentrarsi su aspetti e dimensioni che in altri contesti, dove la complessità istituzionale è più elevata, rischiano di rimanere un po’ in ombra.

1.1.1 L’integrazione costruita tra le parti interne del Comune in vista dell’integrazione esterna

A Barletta il lavoro d’integrazione ha riguardato innanzitutto le diverse parti interne all’Amministrazione comunale: grazie all’azione dell’Ufficio di Piano si sono consolidati i rapporti tra i vari uffici del Settore servizi sociali e vi sono anche stati scambi tra questo e altri Settori del Comune che si occupano di attività produttive, cultura, ambiente. Inoltre, la connessione del Piano sociale con le altre politiche è stata resa ancora più salda dalla scelta di far coincidere il Coordinamento Istituzionale del Piano con l’intera Giunta comunale.

In questo modo non solo è stato prodotto un Piano sociale maggiormente connesso ad altre politiche e livelli di pianificazione (come il Piano strategico della Città) ma si è prodotto tra le varie parti dell’Amministrazione comunale un certo grado d’integrazione che ha preparato e favorito la realizzazione di un originale lavoro di collegamento con l’esterno ossia con altre istituzioni e con il Terzo settore, con cui il Comune ha potuto realizzare un lavoro di analisi dei problemi e individuazione delle priorità che altrove fatica ad assumere un carattere aperto e pubblico.

1.1.2 Se la presenza di un solo Comune rischia di ridurre il coinvolgimento dell’Asl

Nello stesso tempo occorre sottolineare che se su un piano concettuale l’ambito monocomunale conferisce all’integrazione tra Comune e Asl una centralità che non sembra possedere nelle realtà dove sono presenti più Comuni (in cui il centro del lavoro del Piano sembra costituito da quello che si sviluppa attorno ai loro rapporti) il caso di Barletta sembra invece indicare che questa conformazione dell’ambito può condurre a scelte di tipo istituzionale che possono non agevolare il rapporto tra Comune e Asl. Ci riferiamo ancora all’opzione di far coincidere il Coordinamento Istituzionale del Piano sociale con la Giunta comunale cui l’Asl può essere invitata a prendere parte. Si tratta di una situazione che non può verificarsi negli ambiti in cui sono presenti più

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Comuni, dove -secondo le indicazioni della Regione- il Coordinamento Istituzionale consiste in un organismo di nuova costituzione composto stabilmente dai Sindaci e dai rappresentanti di Asl e Provincia. Non è improbabile che una certa fatica nel coinvolgere l’Asl nel Piano sociale sia da collegare proprio al suo particolare assetto istituzionale, che tende a far apparire il Pdz come una “cosa del Comune”.

Deve dunque essere tenuto presente questo possibile doppio effetto delle zone a bassa complessità istituzionale: se da un lato orientano più esplicitamente i progettisti dei Pdz a concentrarsi sulle ineludibili dimensioni interne del Comune, dall’altro rischiano di operare coinvolgimenti deboli con gli altri soggetti istituzionali del territorio.

1.2 L’ambito che comprende Comuni di dimensioni non troppo dissimili: la zona sociale come via obbligata per acquisire maggior peso nei rapporti con altri soggetti e istituzioni

1.2.1 La costruzione della zona sociale come via obbligata

Rispetto a questa tipologia di ambito –cui appartengono i territori di Alta Valdelsa, Lugo e Penisola Sorrentina- la costruzione della zona sociale appare un po’ come una via obbligata per poter acquisire maggior peso nei rapporti con altri soggetti e istituzioni (il che ha l’effetto di limitare le controversie che possono nascere tra le amministrazioni lungo la strada del lavoro comune). Questo non è vero soltanto per il passato, quando le Amministrazioni delle zone dell’Alta Valdelsa e di Lugo hanno dato vita ad Associazioni intercomunali, tramite le quali hanno delegato i servizi sociali alle Asl con un unico contratto che conferiva loro un maggiore potere contrattuale, ma anche oggi -nella stagione della 328 e del ritiro delle deleghe dall’Asl- i Comuni proseguono nel lavoro associato, ricercando nuove e strutturate forme di gestione congiunta che

- nel caso dell’Alta Valdelsa sembrano consentire ai Comuni di controbilanciare logiche e assetti di lavoro dell’Asl calibrati sulla dimensione provinciale e sovraprovinciale e di poter ricoprire un ruolo più significativo all’interno degli organismi recentemente previsti dalla regione Toscana per la gestione unitaria dei servizi sociali e sanitari (Società della salute) mentre

- nel caso di Lugo, la sintonia che si registra con l’Asl e l’assenza (almeno per questo distretto)82 di nuovi traguardi e assetti di gestione stabiliti dalla Regione in tema di servizi socio-sanitari, stanno consentendo ai Comuni di ricercare in modo graduale la nuova forma di gestione associata più adeguata, potendo contare su un sistema di delega all’Asl che non ostacola la ricerca dei Comuni e al contempo garantisce la prosecuzione dell’erogazione dei servizi.

82 La costituzione delle Agenzie territoriali socio-sanitarie previste dalla Regione Emilia-Romagna per il governo integrato dei servizi socio-sanitari è in via di sperimentazione in altre zone del territorio regionale.

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L’ambito di Sorrento -a differenza dei territori dell’Alta Valdelsa e di Lugo- non possiede né una storia di lavoro associato tra i Comuni né l’esperienza della delega all’Asl: al primo aspetto si devono probabilmente le resistenze che all’interno di questi Comuni -più che in quelli delle altre due zone- sono state segnalate riguardo all’attivazione della zona sociale, mentre al secondo si potrebbe legare l’arco di tempo particolarmente breve nel quale si è giunti ad un primo approdo del processo di costruzione della zona sociale (ossia la costituzione dell’ufficio comune) affrontando la questione direttamente dal versante della gestione e non da quello della sola programmazione (come invece hanno scelto di fare sia Alta Valdelsa sia Lugo dove operavano forme pregresse a carattere distrettuale di gestione dei servizi). Questa differenza riguardo al punto di partenza (programmazione/gestione) non ha compresso gli effetti del lavoro associato sul potere contrattuale delle Amministrazioni comunali rispetto ad altri soggetti. A Sorrento è il caso dei rapporti con l’Asl, ‘spinta’ dai Comuni associati a definire con essi tutta una serie di nuovi accordi riguardo le attività socio-sanitarie.

1.2.2 Compiti e funzioni distribuite tra più Amministrazioni comunali

In questi tre ambiti si può osservare come l’individuazione del Comune capofila e dei suoi compiti sia sempre accompagnata da un ampio coinvolgimento dei livelli tecnici e politici degli altri Comuni e da una discreta diffusione delle funzioni a livello d’Ambito: nell’Alta Valdelsa, dove il ruolo di capofila è ricoperto dal Comune più popoloso (Poggibonsi) sono i Sindaci e gli assessori di tutti e cinque i Comuni che svolgono un ruolo centrale nel Piano sociale all’interno del Tavolo alto e nel Tavolo della Concertazione del Pdz;83

Lugo si segnala per l’individuazione di Comuni capofila per la gestione di progetti a carattere distrettuale, evitando che finiscano tutti sulle spalle del Comune capofila della zona; allo stesso modo a Sorrento l’apporto di tutti i Comuni è evidente in particolare sul piano tecnico, con gli Uffici Sportelli Sociali (Uss) di ogni Comune che costituiscono l’articolazione territoriale dell’Ufficio di Piano diretto da un funzionario del Comune capofila.

1.2.3 Cenni circa il rapporto con Terzo settore e altre politiche

Richiamando infine alcuni aspetti evidenziati al punto precedente in relazione alla situazione di Barletta, potremmo dire che la maggiore complessità istituzionale di questi tre ambiti non sembra produrre effetti sulla natura del coinvolgimento del Terzo settore che nelle tre realtà è spesso chiamato a misurarsi con un lavoro concernente le dimensioni degli orientamenti e delle priorità. D’altra parte, a differenza del territorio di Barletta, nei tre ambiti non sembrano prodursi connessioni particolari tra Piano sociale e altre politiche e livelli di pianificazione, che invece possono trovare maggior spazio in un contesto più semplificato come quello del monoambito.

83 Vedi al riguardo in questo capitolo il paragrafo 3 Le interazioni e le alleanze tra le dimensioni istituzionali, sociale e tecnica negli Ambiti/Distretti/Zone, 1.2 e al Capitolo I, Alta Valdelsa, 5.2.

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1.3 L’ambito con un Comune molto più popoloso degli altri: una funzione di guida all’interno di un quadro regionale orientante

Si tratta di una categoria di ambito a cui appartiene la zona di Pesaro, ma anche quella di Cremona dove, accanto al numero molto elevato di Amministrazioni comunali (aspetto che tratteremo più nello specifico all’interno del punto successivo) è presente pure un certo dislivello tra il numero di abitanti del Capoluogo e gli altri Comuni. Nella scala della complessità istituzionale ci troviamo un gradino più in alto rispetto alle realtà di Alta Valdelsa, Lugo e Sorrento: la presenza infatti di un Comune in cui, oltre alla maggior parte della popolazione dell’ambito, si concentra anche il maggior numero di servizi e risorse comporta il rischio di costruire la zona sociale privilegiando le esigenze del Comune principale e riducendo così la disponibilità alla collaborazione da parte di quelli più piccoli.

1.3.1 Pesaro e Cremona: quadri regionali a confronto

A fronte di questa comune condizione, occorre osservare che le realtà di Pesaro e Cremona si muovono all’interno di un contesto differente quanto meno in ordine al quadro di provvedimenti regionali e alla storia pregressa di lavoro tra Comuni e con l’Asl.

La Regione Marche infatti predispone uno strutturato impianto di lavoro relativo alla costruzione della zona sociale centrato sulla figura del Coordinatore d’ambito, libero da incarichi e incombenze gestionali presso i Comuni, che la Regione stessa contribuisce a sostenere sul piano del lavoro e del finanziamento: si tratta di scelte effettuate anche nell’intento di ridurre il rischio di uno sbilanciamento del processo di costruzione della zona sociale sulle necessità del Comune più grande. Al contrario la Regione Lombardia non regolamenta in modo articolato i processi di costruzione della zona, lasciando ai Comuni una forte autonomia nella definizione di tali processi. Probabilmente tale diversità si collega anche alle diverse storie di rapporti tra i Comuni e con l’Asl che caratterizzano i due territori regionali: se la Lombardia viene da un passato in cui la delega alle Asl dei servizi socio-assistenziali costituiva un’esperienza diffusa (che registrava però anche forme di collaborazione tra Comuni riguardo alla gestione di certe tipologie di intervento sociale) tutto ciò non apparteneva alla storia delle Marche. Il robusto intervento di questa Regione si fonda anche sull’esigenza di offrire ai territori locali - in una situazione non particolarmente ricca di esperienze di integrazione- un quadro orientante in grado di aiutarli a procedere sulle nuove strade di organizzazione delle politiche e degli interventi sociali.

1.3.2 Quale rapporto tra il Comune capofila e gli altri Comuni dentro i diversi quadri regionali

Vediamo ora come, all’interno di questi differenti contesti regionali, si sviluppano a Pesaro e a Cremona i rapporti tra il Comune capofila e le altre Amministrazioni all’interno del lavoro di costruzione della zona.

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In entrambe le realtà il lavoro parte con l’intento di considerare i bisogni di tutto il territorio che costituisce l’ambito e di ridurre in esso la disomogeneità dell’offerta. Nel caso di Pesaro, tale lavoro si orienta principalmente su un’azione molto ampia e articolata di progettazione di una vasta gamma di servizi e interventi a carattere zonale (prodotta e legittimata dal tipo di impianto che la Regione aveva messo a punto) mentre nel caso di Cremona il lavoro si concentra sull’avvio e la gestione di alcune tipologie di intervento sociale anche qui di natura distrettuale (in questo caso si trattava di costruire soprattutto dal basso una legittimazione al distretto sociale e all’Ufficio di Piano, per cui si è scelto di partire dalla gestione di alcuni servizi di base per poter ottenere e mostrare in breve tempo alcuni risultati ottenuti sulla dimensione distrettuale).

All’interno di questi percorsi di lavoro gli atteggiamenti dei Comuni capofila verso gli altri Comuni sono stati solo in parte affini. A Pesaro la scelta compiuta circa la collocazione organizzativa del Coordinatore d’ambito in staff al Sindaco del Comune di Pesaro/Presidente del Comitato dei Sindaci dell’ambito (e quindi non interna al Servizio Politiche sociali del Comune) ha favorito lo sviluppo di un lavoro per la nuova zona sociale (piuttosto che solo per il Comune principale) lavoro nel quale il Comune capofila ha investito da un lato partecipando con i propri livelli politici e tecnici ai vari momenti di incontro con il personale degli altri Comuni e con il Terzo settore e dall’altro contribuendo a costruire quella sintonia tra le parti su cui si fonda il complesso percorso che è stato realizzato. Anche a Cremona ci si è appoggiati al Comune capofila, ma collocando l’Ufficio di Piano all’interno del suo Settore Affari sociali e aprendo così la questione (ancora oggi non del tutto risolta) circa i rapporti tra due parti di uno stesso organismo con raggi d’azione differenti. Inoltre se inizialmente il Comune capofila si è fatto promotore presso le altre Amministrazioni comunali di logiche di lavoro distrettuali, in una seconda fase (con la nascita dell’Azienda speciale) sembra aver ragionato maggiormente in un’ottica di sviluppo del proprio sistema comunale. Al riguardo deve essere rimarcato che il Comune di Cremona agisce in una situazione più complessa di quella di Pesaro a causa della forte frammentazione comunale dell’ambito: come diremo meglio in seguito, vi è stato un tentativo originale (passato attraverso l’esperienza dei punti di riferimento di subambito) di considerare a fondo e tenere insieme le esigenze dei molti e diversi Comuni del distretto, ma si è trattato di primi passi di progettazione organizzativa della zona che, a differenza di quanto avvenuto per Pesaro, non si sono potuti avvalere di un disegno e di un sostegno regionale.

1.3.3 I Comuni capofila e il dibattito sulle nuove forme di gestione

Questa diversa accentuazione circa il ruolo del Comune capofila si riflette anche nei dibattiti che nei due territori si sviluppano attorno alla questione della nuova forma di gestione dei servizi sociali a livello di distretto. A Pesaro la questione viene indicata come il ‘progetto dei progetti’: su di essa ha lavorato un gruppo composto dai dirigenti di tutti i Comuni e dal Coordinatore d’ambito e l’orientamento che ne è emerso sembra più rivolto alla creazione di ‘forme

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gestionali leggere’ come l’ufficio comune costituito attraverso convenzioni intercomunali, che consentirebbero di conservare un ruolo significativo dei Comuni e di accogliere e valorizzare meglio tutto il lavoro sinora compiuto. A Cremona il dibattito su tale questione è rimasto un po’ sotto traccia, i Sindaci dei Comuni e i rappresentanti del Terzo settore non ne hanno discusso in modo esplicito (anche se oggi si riconosce che questa costituisce la “grandeprospettiva di lavoro dei prossimi mesi”). In questa realtà il percorso di lavoro condotto col Piano di Zona (centrato sullo sviluppo del distretto sociale) e il percorso che ha portato alla nascita dell’Azienda speciale del Comune di Cremona sono rimasti separati, tanto che al momento non è ben chiaro se sarà la neonata Azienda ad assumere funzioni sociali nei riguardi di tutto il distretto (prospettiva che ad alcuni pare inquadrata principalmente dentro le esigenze del Comune capofila) oppure se si tratta di dar vita ad una nuova struttura distrettuale che recuperi e rilanci il lavoro di attenzione a tutto il territorio del distretto avviato col Piano di Zona.

Anche in questo caso si deve riconoscere il ruolo giocato dalle Regioni sulle forme e sugli esiti dei dibattiti locali circa le nuove forme di gestione: la Regione Marche, infatti, ha attivato un gruppo regionale di lavoro su questa questione la cui indicazione è stata quella di privilegiare le ‘forme leggere’ di riorganizzazione gestionale, mentre la Regione Lombardia - chiarito che le Asl avrebbero dovuto rivestire funzioni di programmazione, acquisto e controllo ritirandosi dall’erogazione diretta delle prestazioni- ha lasciato agli ambiti l’autonomia di determinare le nuove forme di gestione dei servizi sociali, in un confronto di interessi e punti di vista differenti poco mediato da istituzioni terze.

1.3.4 Un’importante funzione di guida

A conclusione di questa riflessione possiamo forse affermare che, se rispetto a situazioni in cui ad interagire sono solo Comuni di dimensioni medio-piccole e non troppo dissimili tra loro l’asimmetria con un Comune capofila di grandi dimensioni introduce una situazione più complessa, si deve anche riconoscere che la presenza di un partner ‘sproporzionato’ può consentire di mettere in opera un’importante funzione di traino nella costruzione della zona, decisiva specialmente dove non vi sono esperienze pregresse di lavoro tra Comuni e qualora si possa contare su un quadro orientante predisposto dalla Regione.

Va anche detto che in Lombardia questo rapporto tra Regioni e Comuni è reso meno agevole dalla tipicità del modello lombardo che vede le Asl come diramazioni della Regione e sovraordinate ai Comuni, mentre a Pesaro, pur in presenza di un intervento regionale che ha prodotto una certa sintonia tra i Comuni, di recente cinque amministrazioni dell’Ambito hanno costituito tra loro un’Unione, probabilmente anche nell’intento di entrare con tale forma nella futura gestione associata d’ambito e ridurre così l’asimmetria nei confronti del Comune capofila. Come dire che anche un lavoro attento alle esigenze di tutti non cancella le differenze tra le parti: ciò che conta è che le parti più piccole si possano organizzare in modo coerente e non contro il disegno complessivo.

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1.3.5 Alcuni aspetti del rapporto con Asl e Terzo settore

Ancora un paio di annotazioni sulle realtà di Pesaro e Cremona.

La prima riguarda il rapporto dei Comuni con l’Asl. Nell’ambito di Pesaro (che non possiede una storia di delega dei servizi sociali all’Asl) l’integrazione è anche in questo caso favorita da un disegno regionale particolarmente attento alle forme di raccordo sul piano politico e tecnico tra la programmazione sociale e quella sanitaria. Anche a Cremona (dove si era in presenza di una situazione di delega dei servizi all’Asl, anche se non per tutti i Comuni del distretto) l’Ufficio di Piano riesce a costruire rapporti positivi con l’Asl (una circostanza, pare, non così diffusa in altri distretti a causa delle particolarità del modello lombardo in cui le Asl sono sovraordinate ai Comuni): anzi la disponibilità dell’Asl a trasferire funzioni ai Comuni viene in pratica utilizzata (in particolare dai livelli tecnici che si curano della zona) come elemento di stimolo soprattutto verso i livelli politici dei Comuni e il loro impegno nella costruzione del distretto sociale.

La seconda annotazione riguarda il ruolo del Terzo settore in riferimento alla progettazione della configurazione istituzionale e gestionale della zona: a questo proposito a Pesaro si prospetta un impegno più significativo del Tavolo di concertazione dal momento che la questione è sinora rimasta sostanzialmente circoscritta ad un lavoro tra Comuni; così pure a Cremona si sottolinea l’importanza di creare le condizioni per la partecipazione del Terzo settore in questo tipo di dibattito, un aspetto non ancora pienamente affrontato dai Comuni.

1.4 L’ambito caratterizzato da una elevata frammentazione comunale: costruire la zona sociale su un ‘doppio livello’ d’integrazione

Gli ambiti ad elevata frammentazione comunale che abbiamo incontrato sono quelli di Ventimiglia e di Cremona dove è presente un numero molto alto di Comuni e dove in un caso (Cremona) la complessità istituzionale è accresciuta dalla presenza di un Comune molto più grande degli altri.

1.4.1 La ricerca di livelli intermedi di integrazione

Questa condizione determinata dal numero elevato di Comuni ha condotto i due ambiti ad impostare percorsi di costruzione della zona prevedendo livelli intermedi di integrazione, i quali hanno però avuto origini e forme differenti nei due territori.

A Ventimiglia, dopo una prima fase in cui il Piano sociale è stato costruito prevalentemente a livello di zona, hanno assunto un peso più significativo i distretti ossia delle sub-zone che aggregano gruppi di Comuni dell’ambito. Va detto che l’articolazione della zona in distretti corrispondeva a disposizioni regionali attraverso le quali la Regione Liguria intendeva aiutare i territori locali a gestire la frammentazione comunale che li caratterizza: il disegno regionale considerava che il funzionamento della zona e dei distretti fosse regolato da apposite convenzioni sottoscritte dai Comuni, le quali dovevano prevedere

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organi politici e tecnici operanti sul livello della zona (Conferenza dei Sindaci di Zona e Segreteria tecnica) e sul livello dei distretti (Conferenze dei Sindaci di Distretto ed équipe professionali distrettuali) e organi di collegamento tra i livelli della zona e dei distretti (Ufficio di coordinamento e Segreteria tecnica allargata). A Ventimiglia la ricezione di questo orientamento regionale è stata progressiva, fino a giungere al periodo più recente in cui il Piano di Zona è stato costruito a partire da una sorta di ‘Piani sociali di distretto’ messi a punto nelle varie sub-zone.

A Cremona, pur in assenza di indicazioni regionali al riguardo, è stata avvertita la necessità di dar vita a punti di riferimento intermedi rispetto alla zona - i cosiddetti referenti di subambito, solitamente un assistente sociale o un amministrativo del Comune più grande del subambito- con cui l’Ufficio di Piano ha collaborato in particolare per sostenere e verificare l’attuazione in tutto il territorio del distretto degli interventi sociali promossi a livello di ambito. Nel caso di Cremona quindi non sono stati istituiti luoghi intermedi di lavoro tra politici e tra tecnici di gruppi di Comuni, ma sono state individuate figure che potessero rappresentare una sorta di articolazione decentrata dell’Ufficio di Piano. Non si può affermare cioè che il Piano di Zona a Cremona è stato costruito su un doppio livello d’integrazione come accaduto a Ventimiglia, anche se quella dei subambiti rappresenta ancora un’intuizione soltanto organizzativa che se sviluppata potrebbe costituire un elemento cruciale nella costruzione di una zona che i vari Comuni possono riconoscere come propria.

1.4.2 Gli effetti sulla costruzione della zona

Ora proviamo a considerare gli effetti sui Comuni del processo di costruzione del Piano sociale a Ventimiglia e ad effettuare un raffronto con la situazione di Cremona.

A Ventimiglia da quando il Piano di Zona è stato messo a punto valorizzando anche la dimensione dei distretti si è riscontrato un atteggiamento più positivo dei livelli politici nei confronti del lavoro di costruzione della zona. Nella prima fase infatti, quando il Piano sociale è stato costruito valorizzando soltanto la dimensione della zona, i Comuni (in particolare quelli più piccoli) avevano percepito questo livello d’integrazione come una dimensione troppo distante dalle loro specifiche esigenze, mentre con l’entrata in scena dei distretti (sul piano sia tecnico che politico) questi si sono sentiti investiti di un più significativo potere di negoziazione rispetto al passato e hanno visto i loro bisogni presi in maggiore considerazione anche nel Pdz. Il risultato è un appoggio più convinto all’integrazione che oggi si sta costruendo sul doppio livello.

Riguardo a Cremona, è probabile che l’assenza di un’articolazione della zona in grado di consentire un lavoro sia tecnico che politico tra gruppi più circoscritti di Comuni in vista di una loro ricomposizione successiva a livello di zona, contribuisca a produrre una certa difficoltà delle Amministrazioni comunali (e dei loro Sindaci) nel riflettere insieme sulle strategie e gli assetti da conferire al nuovo distretto e ad aprire il campo a percorsi e logiche che tendono a

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rispondere non tanto alla zona quanto ad alcune delle sue parti. Ovviamente deve ancora una volta essere tenuto presente il decisivo ruolo di orientamento svolto a Ventimiglia dai provvedimenti regionali, che invece è un po’ mancato nella realtà lombarda.

1.4.3 Nuove forme di gestione e rapporti con Asl e Terzo settore nelle due realtà

Un altro paio di considerazioni.

La prima fa riferimento all’assenza di un dibattito a Ventimiglia sulle nuove forme di gestione dei servizi sociali a livello di zona: se a Cremona infatti si intende sviluppare il dibattito sulla costituzione di nuove forme di gestione (Azienda o Consorzio… nuove strutture con un proprio profilo giuridico) a Ventimiglia il problema è quello di consolidare l’assetto esistente fondato sulle dimensioni della zona e dei distretti, che evidentemente viene ritenuto in grado di produrre forme di programmazione e gestione dei servizi sufficientemente integrate a livello di zona, garantendo allo stesso tempo ai Comuni un ruolo significativo di governo del sistema.

Chiarito che la zona di Ventimiglia non viene da un’esperienza di delega all’Asl dei servizi sociali e che il tipo di strutturazione della zona ha consentito di instaurare proficue collaborazioni con un’Asl che si è riorganizzata secondo logiche analoghe a quelle delle zone sociali, un’ultima considerazione da svolgere riguarda il coinvolgimento del Terzo settore. Mettere a punto un sistema centrato su un doppio livello d’integrazione ha comportato per Ventimiglia un lavoro molto ampio all’interno del pubblico che ha finito per ridurre le energie da dedicare al coinvolgimento del Terzo settore, che invece a Cremona è stato coinvolto ampiamente. Cremona insomma (come abbiamo evidenziato anche nel caso dei rapporti con l’Asl) pare alla ricerca di alleati sul territorio che possano spingere i Comuni a ragionare nell’ottica della zona, dal momento che ‘dall’alto’ non giungono indirizzi e forme di sostegno sufficientemente adeguate allo scopo.

1.5 Considerazioni conclusive circa gli elementi in gioco nella costruzione della zona

Dalle considerazioni che abbiamo sviluppato si possono trarre alcuni elementi rilevanti che influenzano i processi di costruzione delle zone sociali. Li riordiniamo.

1.5.1 La complessità istituzionale della zona

In primo luogo un peso significativo è assunto dalla conformazione dell’ambito in termini di numero e di popolazione dei Comuni che ne fanno parte. Abbiamo individuato quattro o meglio cinque (se si tiene distinta la situazione di Cremona da quella di Ventimiglia) differenti tipologie di conformazione dell’ambito che configurano differenti livelli d’interazione tra i Comuni e quindi gradi diversi di complessità istituzionale della zona.

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È da sottolineare come questa distinzione tra tipologie di ambito consente di affinare i criteri che abitualmente vengono utilizzati per individuare le nuove zone sociali: spesso gli ambiti vengono disegnati ponendo esclusivamente il vincolo della popolazione massima che devono contenere, mentre nella costruzione della zona sociale abbiamo avuto modo di riscontrare quali differenti processi si innescano in ragione del numero e della popolazione dei Comuni e quali differenti azioni di indirizzo e sostegno è opportuno adottare nelle diverse situazioni.

1.5.2 La presenza della delega all’Asl e la storia di collaborazione tra Comuni

Accanto al grado di complessità istituzionale della zona sono presenti anche altri fattori che condizionano i processi di costruzione della zona come il fatto di provenire o trovarsi in una situazione di delega all’Asl dei servizi socio-assistenziali o la presenza di esperienze pregresse di collaborazione tra i Comuni dell’ambito.

Nei casi esaminati la delega all’Asl è presente nelle situazioni di Alta Valdelsa, Lugo e Cremona: nel primo caso costituisce un problema che spinge i Comuni a riappropriarsi del governo delle politiche sociali, mentre negli altri l’Asl appare come un partner importante che favorisce i processi di costruzione della zona sociale.

Da notare inoltre che, diversamente da quello che si potrebbe pensare in prima istanza, le esperienze pregresse di collaborazione tra i Comuni caratterizzano proprio quei territori in cui è presente la delega all’Asl: in altri termini nei casi analizzati la delega rimanda non a separazioni ma a collaborazioni tra i Comuni che hanno costituito per questi un punto di riferimento significativo anche nella nuova stagione dei Piani di Zona.

Infine abbiamo osservato che laddove non è presente la delega all’Asl (e quindi non vi è un assetto di gestione dei servizi sociali che opera già a livello di ambito) il lavoro sul Piano di Zona tende a svilupparsi più velocemente sul versante gestionale (questo vale per Sorrento, Ventimiglia e in certa misura anche per Cremona, dove la delega è diffusa ma non per tutti i Comuni, per cui la disomogeneità dell’offerta dei servizi sul territorio da un lato ed indirizzi regionali piuttosto laschi dall’altro, hanno fatto sì che si partisse a costruire la zona dalla gestione per mostrarne subito i vantaggi concreti e legittimare gli sforzi per realizzarla). A Pesaro, dove non c’è la delega all’Asl, il lavoro sul Piano di Zona parte dalla progettazione, ma come abbiamo visto si tratta di una progettazione che produce rapidi effetti sulle modalità di gestione, pervenendo in alcuni casi a forme di cogestione all’interno dell’Ambito. Nelle realtà di Lugo e Alta Valdelsa, dove invece vige la delega all’Asl, il lavoro sul Piano di Zona prende il via dalla programmazione e l’individuazione delle nuove forme di gestione è più lenta dal momento che forme di gestione dei servizi a livello di ambito sono già presenti.

Da ultimo va rilevato che la natura dei nuovi dispositivi tecnici di cui i Comuni si dotano per la costruzione della zona (Uffici di Piano, Segreterie

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tecniche, Coordinatori d’ambito con un proprio staff, …) si collega a questo aspetto dell’avvio del lavoro sul Piano di Zona che può collocarsi sul versante della gestione piuttosto che su quello della programmazione: a Sorrento, Ventimiglia e Cremona, questi organismi assumono infatti un profilo più marcatamente gestionale, mentre nelle realtà di Lugo, Alta Valdelsa e Pesaro essi hanno una natura più di supporto ai nuovi processi di programmazione (come accade anche a Barletta, dove l’oggetto di lavoro prevalente del Piano sociale è proprio quello dell’avvio di nuove forme di programmazione dei servizi all’interno del Comune e con gli interlocutori esterni).

1.5.3 I quadri di riferimento regionali

Altro fattore di condizionamento dei processi di costruzione della zona è la presenza/assenza di quadri regionali orientanti: in questa parte ne abbiamo misurato l’influenza soprattutto in riferimento ai territori a più alta complessità istituzionale come Pesaro, Cremona e Ventimiglia, dove più che altrove sembra dirimente, ai fini della costruzione della zona, la presenza di una funzione orientante, di sostegno e controllo da parte delle Regioni nei confronti dei Comuni dell’ambito.

1.5.4 Fattori di contesto e di processo: uno schema

Gli elementi che abbiamo evidenziato sono aspetti che - nelle differenti modalità in cui possono combinarsi tra di essi- configurano i contesti dentro i quali si sviluppano i processi di costruzione delle zone sociali. Tali processi si caratterizzano poi per altri fattori che verranno presentati nelle pagine che seguono. Quelli che abbiamo evidenziato in questa prima parte sono:

- il grado di orientamento del Comune più grande a pilotare e supportare un’azione che guarda alle esigenze complessive dell’ambito e di tutti i Comuni che ne fanno parte,

- il grado di distribuzione di compiti e funzioni tra i Comuni dell’ambito,

- il grado di coinvolgimento e dei livelli politici dei Comuni,

- il grado di collaborazione con l’Asl, il Terzo settore e le altre politiche,

- la centratura del lavoro sul Piano di Zona sulla programmazione piuttosto che sulla gestione, scelta che abbiamo visto condiziona anche il profilo dei nuovi dispositivi tecnici di cui i Comuni si dotano per la costruzione della zona (Uffici di Piano, Segreterie tecniche, …).

Nello schema che segue proviamo a raffigurare questi diversi fattori e le loro relazioni (inserendo nello schema alcuni temi, come i quadri regionali di riferimento e le dinamiche connesse alle storie di collaborazione tra i Comuni, che verranno ripresi e sviluppati nei paragrafi seguenti): all’esterno (in corsivo) gli elementi di contesto, all’interno quelli di processo.

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2. Gli imprinting regionali sul lavoro delle zone

2.1 Orientare e/o accompagnare

Fermo restando che la nostra ricerca ha come fuoco di osservazione quanto sta avvenendo nelle Zone/Ambiti/Distretti sociali, e non un’analisi dettagliata della normativa messa a punto nelle rispettive regioni al riguardo, vale comunque la pena gettare uno sguardo sulle interazioni che si danno fra questi due livelli.

Con questo non intendiamo escludere intenzionalmente una riflessione sulle funzioni ed il ruolo che anche le Province possono giocare (e in realtà talora già giocano) in merito ai molti temi ed alle diverse piste di lavoro che la 328/00 ha aperto, piuttosto dobbiamo limitarci a constatare che -tranne in un caso, quello dell’Alta Valdelsa- nelle situazioni prese in esame la costruzione dei Pdz non sembra aver coinvolto sempre in modo significativo questo livello amministrativo.

È utile invece soffermarsi su alcune interazioni, consonanze o sinergie che ci pare di aver colto nel lavoro realizzato dalle Zone e dalle rispettive Regioni, per due ragioni principali e tra loro collegate:

A) innanzitutto il fatto che –com’è noto– soltanto le Regioni sono accomunate allo Stato nell’esercizio della potestà legislativa, ed in questo

Complessità istituzionale della zona

Storia di collaborazione tra i Comuni

Delega all’Asl dei servizi socio-assistenziali

Quadri regionali orientanti

Orientamento del Comune grande ad un lavoro di zona

Collaborazione con Asl, Ts, altre politiche

Coinvolgimento dei livelli politici

Distribuzione dei compiti tra i Comuni

Centratura del Pdz su gestione o programmazione e natura dell’Udp

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senso hanno potuto conferire al lavoro relativo ai Piani di Zona un orientamento originale, caratteristico, derivante dalla particolare concezione che in ciascuna di esse ha preso forma,

- sia rispetto alla materia specifica della 328/00 e dei Piani di Zona,

- sia in relazione alle modalità adottate per orientare il lavoro delle Zone stesse.

Ne sono derivati diversi tipi di approccio anche per quanto riguarda l’esercizio di quella che talora viene definita come funzione di service da parte delle Regioni nei confronti degli Ambiti, e che noi preferiamo al momento indicare con “accompagnamento”. Approcci che si potrebbero collocare su un continuum che va dalla scelta di lasciare ampi margini di autonomia alle Zone, all’opzione di definire invece alcuni elementi particolarmente vincolanti. È il caso -ad esempio- della gestione associata dei servizi sociali in Liguria, della figura di Coordinatore d’Ambito nelle Marche, della destinazione del 70% dei Fondi provenienti dalla 328/00 per titoli di acquisto di servizi fatta dalla Lombardia… (torneremo su questo aspetto a conclusione del paragrafo).

B) la seconda ragione è invece da ricondursi al fatto che la possibilità di vedere più da vicino che cosa accade nelle Zone, consente di mettere meglio in luce sia il contesto complessivo sul quale gli orientamenti regionali incidono, sia gli effetti più diretti ed immediati che essi stessi possono produrre (o non produrre) sui processi di integrazione e costruzione degli Ambiti.

Ciò potrebbe aiutarci a guardare a questi orientamenti da nuovi punti di vista capaci di far risaltare meglio le peculiarità e le specificità messe a punto dalle Regioni nell’esercizio di quell’autonomia che la riforma del Titolo V riconosce loro.

2.2 Due aspetti della programmazione regionale

Tra i vari temi che abbiamo riscontrato nell’analisi dei Pdz delle sette Zone considerate, due in particolare ci hanno spinto ad approfondire le normative e la programmazione delle rispettive Regioni, vale a dire:

a) l’organismo tecnico legato ai Piani di Zona (Ufficio di Piano, Segreteria tecnica, Coordinatore d’Ambito…)

b) la costruzione di un livello intermedio di integrazione fra le singole Amministrazioni comunali e la Zona sociale nel suo complesso. Si parla in questo caso allora di ‘distretti sociali’ (Ventimiglia) o ‘subambiti’ (Cremona)

2.3 L’organismo tecnico di coordinamento dei Piani di Zona: centralità della funzione, pluralità delle forme

Un primo tema riguarda quello che generalmente viene indicato come “l’organismo tecnico” al quale viene assegnato l’incarico di coordinare tutto il lavoro relativo ai Piani di Zona.

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Pur trattandosi di un organismo che compare in tutti i casi considerati, occorre segnalare che già rispetto alla sua denominazione si riscontra una certa pluralità.

Abbiamo infatti almeno due denominazioni diverse: Ufficio di Piano e Segreteria tecnica e una terza situazione in cui la funzione di coordinamento non viene affidata ad un ufficio o ad un gruppo di lavoro, ma posta in capo ad una figura –il Coordinatore d’Ambito– che rimane pienamente ed individualmente responsabile delle competenze che le sono state assegnate, anche se, come vedremo, è previsto uno staff di collaboratori che la supporti nel suo lavoro.

Da questo quadro composito derivano almeno quattro diverse tipologie di organismo tecnico incaricato della Regia tecnica del Piano di Zona:

- la Segreteria tecnica: un tipo di organismo che non nasce con i Piani di Zona, ma esisteva già prima della 328/00, ed era pensato innanzitutto come una segreteria dotata di risorse umane con competenze di tipo tecnico (sia amministrativo che sociale) attivata a sostegno degli organismi politici deputati al governo di questioni socio-sanitarie a livello di Zona (le Conferenze dei Sindaci). Abbiamo potuto osservare questa tipologia nei casi dell’Alta Valdelsa e di Ventimiglia;

- l’Ufficio di Piano (Udp). Nasce in seguito alla 328/00 ed in riferimento alla elaborazione e redazione del Piano di Zona dal quale prende anche il nome.

Rispetto ad esso si possono però distinguere due diverse caratterizzazioni:

A) l’Ufficio di Piano orientato innanzi tutto alla produzione del Documento di Piano e quindi all’accompagnamento e sostegno di tutto il processo di elaborazione e costruzione così come viene delineato dalla 328/00. In particolare assicurando la partecipazione più ampia possibile di tutti i soggetti del pubblico e della società civile che hanno a che fare con la costruzione di un sistema integrato di servizi sociali in una determinata Zona. È questo il caso di Barletta, Cremona e Lugo;

B) una seconda versione è quella dell’Ufficio di Piano che potremmo definire ‘temporaneo’. In questo caso, le stesse competenze attribuite al primo tipo di Udp sono affiancate da funzioni relative alla predisposizione degli atti per l’organizzazione dei servizi, in un’ottica regionale (in questo caso quella campana) secondo cui l’Udp rappresenta un organismo transitorio in vista della definizione della forma giuridica da assegnare al nuovo Ente cui delegare la gestione associata dei servizi sociali assorbendo di fatto l’Udp. Siamo qui nella situazione della Penisola Sorrentina e Capri;

- l’ultima tipologia è infine quella in cui viene invece individuata innanzitutto una figura alla quale si assegna formalmente l’incarico di Coordinatore d’Ambito,con il compito di tenere le fila di tutto il processo di costruzione del Piano mantenendola libera da incombenze di tipo gestionale. È la realtà di Pesaro.

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2.3.1 La Segreteria tecnica: un Ufficio di Piano ante litteram?

Troviamo questa denominazione nei casi dell’Alta Valdelsa e di Ventimiglia, dove è stata introdotta dalle leggi regionali84 di riordino dei servizi sociali emanate in entrambi i casi prima della 328/2000, con le quali si anticipa uno dei suoi aspetti innovativi: la definizione di un nuovo livello di programmazione dei servizi sociali sia in grado di superare quella frammentazione comunale che storicamente in Italia ha un po’ penalizzato il loro sviluppo.

Non si dà Segreteria tecnica senza Conferenza di Zona

La costruzione di questo nuovo livello di programmazione e gestione dei servizi sociali prende forma a partire dalla costituzione di un organismo politico-istituzionale che prevede la rappresentanza di tutte le Amministrazioni comunali chiamate ad integrarsi nella Zona. Si stabilisce che – assieme a questo livello politico – debba essere attivato anche un organismo tecnico in grado di svolgere il lavoro di supporto ad esso necessario.

Nascono così le Segreterie Tecniche, che – a motivo di questa origine– tendono a caratterizzarsi per un’impronta prevalentemente amministrativa: i loro compiti infatti hanno a che fare con l’espletamento delle funzioni di competenza della Conferenza di Zona, ed in particolare con “l’assistenza tecnica ai lavori e la predisposizione dell’istruttoria, nonché degli adempimenti connessi alle decisioni, alle relazioni, agli ordini del giorno e ai verbali delle riunioni”. Tutto ciò prevedendo anche già un ‘Piano zonale di assistenza sociale’ (Toscana) o un ‘Piano triennale dei Servizi socio-assistenziali e socio-sanitari della Zona’ (Liguria).

Quando nel 2000 la nuova Legge quadro introduce il Piano di Zona a livello nazionale, le Regioni che avevano già dotato le loro Zone di un organismo deputato a predisporre la documentazione e gli atti amministrativi di competenza della Conferenza di Zona, conferiscono alla Segreteria tecnica anche la cura del coordinamento del lavoro relativo ai Piani di Zona.

Cosa cambia con l’arrivo della 328/2000?

Se ciò può aver rappresentato un certo vantaggio, non dovendo partire da zero (come invece è capitato altrove) questa situazione può avere reso più complesso per le stesse Segreterie Tecniche e per gli altri soggetti coinvolti comprendere quale fosse, rispetto alle innovazioni regionali precedenti, il portato innovativo del Piano di Zona e quale nuovo tipo di lavoro richiedesse ai suoi principali progettisti.

84 Toscana: legge n.72 del 3 ottobre 1997, Organizzazione e promozione di un sistema di diritti di cittadinanza e di pari opportunità: riordino dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari integrati; Liguria: leggi Riordino e programmazione dei servizi sociali della Regione Liguria n. 21 del 6 giugno 1988 e Riordino e programmazione dei Servizi Sociali della Regione e modifiche alla legge regionale 8 agosto 1994 n. 42 in materia di organizzazione e funzionamento Unità Sanitarie Locali n. 30 del 9 settembre 1998.

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2.3.2 L’Ufficio incaricato di supportare il processo di costruzione del Piano di Zona: un organismo ancora in evoluzione

In questo caso parliamo di un organismo –e in particolare di un ufficio– che nasce direttamente in riferimento allo sviluppo dei Piani di Zona, anche se non sempre fin dalla loro prima sperimentazione.

Questo rappresenta già un primo elemento degno di nota: infatti la sperimentazione di tutto il lavoro connesso alla costruzione dei Piani ha spesso fatto sorgere –con l’accumularsi dell’esperienza e a partire da questa– la necessità di individuare una “unità organizzativa” incaricata specificamente di questo lavoro. Quanto poi tale unità sia esclusivamente dedicata a tale impegno, o non rappresenti piuttosto una funzione aggiuntiva per persone che sostengono già altri incarichi, questo sembra essere un aspetto lasciato in gran parte alle valutazioni delle singole Zone.

Ma vediamo intanto che cosa ci dicono le Regioni in proposito facendo riferimento alle situazioni descritte nel Capitolo I relative a Barletta, Cremona e Lugo.

Una “tecnostruttura snella” a supporto della programmazione di Ambito

La Puglia (che si caratterizza fra i casi presi in esame per una ricezione recente della 328/00, dove il primo Piano di Zona viene presentato soltanto nel 2005) stabilisce che l’Ufficio di Piano sia “istituito in seno all’ambito territoriale” come “tecno-struttura snella a supporto della programmazione di ambito” e “luogo di coordinamento tecnico tra tutti i soggetti titolari delle funzioni di programmazione e attuazione dei servizi sociali a rete”.85

Le funzioni previste per questa realtà sono:

- facilitare i processi di integrazione; - promuovere connessioni tra i Comuni dell’Ambito coinvolti nel Piano di

Zona;- facilitare i rapporti con le altre Amministrazioni Pubbliche; - elaborare la proposta del Piano di Zona in base alle linee espresse dal

Coordinamento istituzionale ed emerse dal processo di concertazione; - definire e perfezionare la progettazione esecutiva di Ambito (comprendente

le modalità di affidamento dei servizi); - supportare le procedure di gestione delle risorse.

Pertanto, se nel caso da noi considerato (Barletta) l’Udp svolge importanti funzioni all’interno dell’unico Comune che compone la Zona recependo in tal modo le indicazioni regionali, occorre segnalare che la Puglia non contempla espressamente tra le funzioni dell’Udp quella del coinvolgimento del Terzo settore e degli altri soggetti che, secondo la 328/00, partecipano alla programmazione ed alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

85 cfr. Regione Puglia, Piano regionale delle Politiche sociali. Interventi e servizi sociali in Puglia, Anno 2004.

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Una “struttura tecnica” che le Zone “possono attivare”

Per quanto riguarda la Lombardia, nelle Linee Guida 2001, relative alle modalità di utilizzo delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, si trovano alcuni passaggi relativi all’individuazione della “struttura tecnica” di programmazione zonale, in cui si afferma che ogni ambito “può attivare” un organismo tecnico di programmazione (“Ufficio del piano”) che dovrà operare –in pieno raccordo con l’organismo di rappresentanza politica– per la programmazione e attuazione del Piano di zona. Tutto ciò che concerne le modalità di costituzione, l’organizzazione e le competenze da attribuire a questo organismo viene demandato a quanto viene definito nell’Accordo di programma sottoscritto dai Comuni.

In questo caso la Regione preferisce lasciare alle Zone la più ampia autonomia, al punto da dedicare –nell’ambito della propria produzione legislativa e programmatoria– uno spazio che, se confrontato con quello della maggior parte delle altre regioni, si caratterizza senz’altro per la sua sinteticità. In questo senso la scelta di Cremona di assegnare all’Ufficio di Piano sia funzioni di coordinamento e monitoraggio dell’attuazione di quanto previsto dal Piano di Zona, sia la gestione diretta di alcuni interventi complessi, va considerata un’opzione maturata in questo specifico Ambito e resa possibile (oltre che dagli ampi margini di manovra lasciati dalla programmazione regionale su questo specifico punto) dall’iniziativa specifica assunta da chi opera all’interno di quell’Udp.

Da “struttura possibile” a “strumento operativo funzionale al rafforzamento dell’identità della Zona”

L’Emilia Romagna si caratterizza per un altro tipo di approccio: “adottando una scelta in parte difforme dal percorso delineato dalla L. 328/00, questa Regione ha individuato una modalità di costruzione ‘dal basso’ del primo Piano sociale” che prevede due fasi: la prima di predisposizione dei Piani sociali di Zona e la seconda di “costruzione del Piano regionale a partire dall’esperienza e dall’elaborazione realizzata nelle zone dai soggetti istituzionali e sociali”.86

Questa scelta ha naturalmente influenzato molti degli interventi operati nel territorio regionale in merito alla 328/00 e quindi anche i riferimenti e le indicazioni prodotte per ciò che riguarda l’Ufficio di Piano.

Accade così che “nella prima fase di attuazione, l’Udp viene previsto come ‘possibile struttura’ a supporto del Comitato di Distretto, accanto ai due organismi deputati al coordinamento del percorso di costruzione dei Piani: tavolo politico e tavolo tecnico”.87 Quest’ultimo in particolare era previsto possedesse “funzioni di regia operativa del processo di elaborazione del Piano, di coordinamento operativo dei diversi attori in campo, di presidio della funzione di realizzazione e attuazione del Piano e delle connesse attività di monitoraggio

86 I Piani sociali di zona in Emilia Romagna. La sperimentazione nel triennio 2002/2004, febbraio 2005, p. 9. 87 ibidem, p. 87.

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e valutazione, oltrechè compiti di istruttoria tecnica e di supporto decisionale al Coordinamento politico di distretto”.88

In seguito alla sperimentazione 2002-2003, la Regione rileva che nel proprio territorio circa la metà delle Zone sociali ha attivato l’Ufficio di Piano, e –sulla base di una riflessione sulle funzioni da esso svolte– ritiene che l'istituzione di tale ufficio appare ormai “funzionale al rafforzamento dell'identità della zona e della collaborazione tra Comuni”.89 Si decide pertanto di sostenere lo sviluppo di tali uffici laddove sono già operanti e di promuoverne l'avvio nelle altre zone.

Inoltre si procede a definire un “quadro delle funzioni minime da attribuire all'Ufficio di piano” fatto salvo sempre il rispetto della “piena autonomia delle zone nella scelta ed elaborazione del modello organizzativo da adottare”.

Tali funzioni sono così indicate: - “gestione operativa, a valenza tecnica e organizzativa, del percorso per

l'elaborazione del Piano di zona: segreteria, supporto organizzativo ai lavori dei tavoli, coinvolgimento e raccordo tra i referenti delle varie aree di intervento e dei diversi soggetti (tra cui anche i rappresentanti del Terzo settore) che partecipano al processo, redazione del piano;

- attività istruttoria per l'integrazione delle attività delle differenti aree di intervento e con le altre politiche di settore;

- coordinamento e supporto nella gestione e attuazione del Piano; - collaborazione al monitoraggio e alla valutazione dell'attuazione del Piano e

degli impegni assunti dalle parti.

Più in generale è da attribuirsi all'Ufficio una funzione di raccordo tra gli indirizzi e le priorità espresse dal Comitato di Distretto e l'apporto tecnico-progettuale del Tavolo tecnico di zona. Le risorse specifiche per l'attuazione di questo intervento sono destinate alle Province, in relazione al loro ruolo di coordinamento e promozione dei Piani di zona. L'intervento è finalizzato a sviluppare in tutte le zone uno strumento operativo del Piano di Zona90 concaratteristiche funzionali analoghe, e con modalità organizzativo-gestionali differenziate in relazione alle specificità territoriali”.

Per concludere, nella pubblicazione che effettua un primo bilancio della sperimentazione nel triennio 2002-2004, viene proposta una prima aggregazione dei compiti e delle attività realizzate dagli Uffici di Piano nelle 39 Zone della regione, aggregazione che individua tre macro-funzioni:91

- programmazione, quando l’Udp gestisce direttamente alcune azioni per la costruzione della programmazione zonale: dall’analisi dei bisogni,

88 Linee guida per la predisposizione e l’approvazione dei Piani sociali di Zona 2002/2003,Delibera Giunta Regionale n. 329/2002. 89 Delibera Consiglio regionale n. 514/2003, Stralcio piano regionale degli interventi e dei servizi sociali ai sensi della 328/00.90 Il corsivo è nostro. 91 I Piani sociali di zona in Emilia Romagna. La sperimentazione nel triennio 2002/2004, febbraio 2005, p. 92.

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all’attivazione di progetti e servizi, al monitoraggio e valutazione, alla riprogettazione delle attività;

- coordinamento, quando svolge un coordinamento gestionale delle attività del piano di zona e promuove percorsi di gestione sovracomunale dei servizi, che comportano spesso un grosso impegno di raccordo tra i Comuni per l’omogeneizzazione delle procedure;

- pianificazione della partecipazione, quando promuove il coinvolgimento dei diversi soggetti, pubblici e privati, del territorio, puntando ad una maggiore istituzionalizzazione dei momenti di confronto attivo.

Ne deriva un ulteriore invito ad “investire in un potenziamento della funzione di regia complessiva degli Udp”. Come a dire che, se altrove l’indicazione di istituire questi Uffici o segreterie è arrivata fin dall’inizio (in diversi casi specificando anche quali fossero le risorse umane di cui dovevano disporre) l’Emilia Romagna -pur scegliendo un approccio di raccolta delle esperienze “dal basso”- sembra essere infine giunta a conclusioni molto simili, sostenendo che l’Udp deve ora “poter contare su risorse e competenze stabili, ben individuate e coordinate”.92

Se proviamo ad operare un confronto fra le tre realtà considerate in questo paragrafo, si può ora notare come - rispetto alle altre tipologie di organismo tecnico di coordinamento del Piano di Zona- in tutti questi casi la centratura delle indicazioni regionali si colloca di più sulle funzioni che l’Udp deve garantire e meno sulla sua struttura, intesa come composizione e figure professionali da prevedere al suo interno. Si è preferito cioè lasciare ampio margine alle Zone nel definire tale struttura, una scelta che comporta (più che altrove) la necessità di andare a vedere da vicino quale tipo di gruppo di lavoro, quali risorse professionali e quali tempi investiti sono concretamente rinvenibili dietro la sigla comune di “Ufficio di Piano”.

Un’ultima annotazione riguarda il caso di Lugo, dove anche l’autonomia riconosciuta alle Zone ha probabilmente concorso nel dare vita ad un Udp al cui interno ha preso forma un particolare “Gruppo di coordinamento” comprendente l’Assessore referente del Comune Capofila, un aspetto che ha conferito a tale Ufficio una maggiore incisività nei confronti dell’organo di livello politico rappresentato dal Comitato di Distretto.

2.3.3 L’Ufficio di Piano “temporaneo”

A differenza degli altri il percorso delineato dalla Regione Campania per l’avvio del lavoro relativo ai Piani di Zona prevede tre fasi di lavoro ben distinte: a) la fase di analisi del territorio, impostazione degli assetti istituzionali e del

lavoro di programmazione delle politiche sociali, che doveva concludersi entro il 30 novembre 2001 con la sottoscrizione di un primo Accordo di Programma tra tutti i soggetti previsti dall’art. 19 della 328/00;

b) la redazione del dettaglio esecutivo dei Piani di Zona (entro febbraio 2002); c) il lavoro a regime di attuazione del Piano di Zona.

92 ibidem, p. 96.

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In particolare viene definito “l’assetto istituzionale” di cui le zone devono dotarsi, sottolineando soprattutto la distinzione tra

- la fase precedente alla sottoscrizione dell’Accordo di Programma, e - la fase successiva a tale sottoscrizione precedente –a sua volta– la

nascita di quell’ “ente gestorio che a regime dovrà occuparsi della attuazione del Piano di Zona e della gestione delle risorse finanziarie ad esso assegnate”.93

L’Ufficio di Piano viene quindi descritto come uno dei due organismi94 che compongono l’assetto istituzionale che dovrà caratterizzare la fase intermedia, che intercorre tra la sottoscrizione del primo Accordo di programma e la nascita dell’ Ente gestorio.

Al riguardo ci limitiamo a due sottolineature.

Innanzitutto la sua composizione che –secondo le Note regionali– deve essere “costituita da un minimo di 5 ad un massimo di 15 persone, con specifiche competenze nel campo della programmazione e gestione dei servizi sociali.

Nell’Udp deve essere presente almeno: - un esperto di progettazione sociale; - un esperto di contabilità degli enti locali; - un esperto di questioni legali.

Le suddette professionalità devono essere ricercate preferibilmente sulla base dei seguenti criteri:

- una unità di personale per ogni ente locale (…); - almeno una unità di personale per la Asl, che partecipa quale referente

dell’Asl per l’integrazione socio-sanitaria”. Poi la sua durata, rispetto alla quale viene infatti marcato che “tale Ufficio

resta in carica fino alla realizzazione dell’assetto organizzativo definitivo ed alla scelta della forma giuridica da assegnare all’ente che assorbirà compiti e funzioni del coordinamento istituzionale, nonché compiti, funzioni e personale dell’Ufficio di Piano.”95

Nel 2003 le nuove Linee Guida da un lato effettuano un primo bilancio di quanto si è sviluppato nei 42 ambiti della Regione in rapporto alla costruzione dei nuovi assetti istituzionali per la gestione associata dei servizi, dall’altro approfondiscono la definizione dell’assetto organizzativo dell’Ufficio di Piano, individuando “due funzioni centrali: la programmazione e la gestione tecnica e

93 Note per l’applicazione delle indicazioni contenute nella Del. G.R. n. 1826 del 4 maggio 2001, per definire gli assetti istituzionali e i documenti di programmazione dei Piani di Zona, a cura di Regione Campania e Formez, 23 novembre 2001, p. 4. 94 L’altro è rappresentato dal Coordinamento Istituzionale, che corrisponde al “vertice politico-istituzionale della programmazione e gestione delle politiche sociali dell’ambito” e che dovrà svolgere sostanzialmente due compiti: a) realizzare il contenuto dell’accordo di programma; b) proiettarsi alla fase definitiva, allorchè le risorse e le finalità delle politiche sociali saranno gestite da un ente apposito” (cfr. Note, p. 24). 95 Note per l’applicazione delle indicazioni contenute nella Del. G.R. n. 1826 del 4 maggio 2001, per definire gli assetti istituzionali e i documenti di programmazione dei Piani di Zona, a cura di Regione Campania e Formez, 23 novembre 2001, p. 26. (Il corsivo è nostro).

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amministrativa dei servizi previsti dal Piano di Zona dell’Ambito territoriale […]. Vero e proprio snodo tecnico del sistema di rete territoriale [l’Udp] deve dotarsi di una struttura organizzativa, di risorse, di competenze, di professionalità e di una metodologia capace di fungere da riferimento nella programmazione e nella gestione degli interventi per tutti i Comuni dell’ambito territoriale”.96

Da questa schematizzazione, sembra dunque che nella scelta della Regione di definire tre fasi di lavoro distinte, finalizzate a condurre la costruzione del Piano di Zona “a regime”, si possa scorgere anche l’intento di mettere a punto una sorta di accompagnamento step by step degli Ambiti nella definizione del nuovo assetto per la gestione associata dei servizi. In questo contesto, Udp e Coordinamento istituzionale sembrerebbero assumere le forme di una sorta di “embrione” del futuro Ente gestorio, dando così alle Zone il tempo necessario per giungere ad una definizione concorde della forma giuridica di tale Ente.

2.3.4 Il Coordinatore d’Ambito

Se in tutti i casi sinora analizzati l’organismo tecnico di coordinamento di tutto il lavoro relativo ai Piani di Zona è stato individuato in un Ufficio o in una Segreteria, ossia un gruppo di lavoro, nel caso di Pesaro emerge invece una nuova figura professionale, dotata di un suo personale staff di lavoro che viene esplicitamente distinto dall’Ufficio di Piano. Di quest’ultimo – secondo la Regione Marche – fanno invece parte “almeno i responsabili dei servizi sociali dei Comuni facenti parte dell’ambito territoriale”.97

Come abbiamo illustrato più in dettaglio all’interno del caso di Pesaro presentato nel Capitolo I (al quale rimandiamo anche per quanto riguarda le note) gli aspetti che mettono a fuoco i contorni di questa figura professionale - e che si sono definiti nel corso del tempo- sono i seguenti:

a) si tratta innanzitutto di una figura di cui gli Ambiti devono dotarsi per far fronte alla “necessità e alla complessità del raccordo tra sanitario, sociale e gli altri settori del welfare”;

b) da intendersi come “lo strumento tecnico a disposizione dei Comuni dell’Ambito territoriale”;

c) deve essere individuata dal Comitato dei Sindaci all’interno di un elenco regionale (che prevede specifiche condizioni per l’iscrizione);

d) fa parte di una Conferenza permanente dei Coordinatori di ambito che è stata attivata a livello regionale per supportarli e raccordarli nel processo di costruzione dei Pdz e delle Zone;

96 Linee Guida per la programmazione sociale 2003 e per il consolidamento del sistema di welfare della Regione Campania, 30 gennaio 2003, a cura della Regione Campania in collaborazione con Formez. 97 Regione Marche, Linee guida per l’attuazione del Piano regionale per un sistema integrato di interventi e servizi sociali, approvate il 30 ottobre 2001.

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e) per ricevere finanziamenti regionali questa figura deve obbligatoriamente prevedere:- un impegno di lavoro a tempo pieno, - la stipulazione di un contratto pluriennale, in modo tale cioè che sia

adeguato all’avvio di un processo di lavoro triennale, - l’incompatibilità tra lo svolgimento di questa funzione e quella di dirigente

di servizio. Ne emerge un ruolo che si caratterizza soprattutto dal non essere gravato

da incombenze di tipo gestionale, siano esse di tipo amministrativo o di carattere più specificamente tecnico-sociale.

La nuova figura professionale si connota inoltre per una sorta di “doppia appartenenza istituzionale”: la Zona nella quale opera e la Regione che la iscrive nel proprio Elenco (e la cofinanzia assieme al suo staff).

In questo tipo di approccio regionale sembra emergere più che altrove il tema del riscontro/controllo da parte delle Regioni circa l’effettiva attivazione di modalità utili alla costruzione di un sistema integrato di servizi e delle eventuali iniziative adottabili nei casi in cui si riscontrino difficoltà o criticità particolari nello sviluppo delle Zone e dei rispettivi sistemi.

Rimane infine da sottolineare il fatto che se l’organismo tecnico di coordinamento del Pdz è principalmente individuato nel Coordinatore d’Ambito viene previsto anche un Ufficio di Piano (che fa capo al Coordinatore) composto “almeno dai responsabili dei servizi sociali dei Comuni facenti parte dell’ambito territoriale”. In questo senso assistiamo ad una sorta di sdoppiamento del livello tecnico che trova nel Coordinatore la sua integrazione. Se infatti un certo svolgimento di funzioni più strettamente tecniche viene assunto dallo staff del coordinatore, l’Udp -nel quale trovano collocazione le figure tecniche rappresentanti/corrispondenti alle diverse unità (le Amministrazioni comunali)- tende ad assumere maggiormente i contorni di un organismo di concertazione e negoziazione: insomma più un tavolo che un ufficio.

2.3.5 Alcuni elementi di riflessione che emergono dal confronto fra le tipologie descritte

Confrontando ora Uffici di Piano, Segreterie tecniche e Coordinatore d’Ambito, possiamo ricavarne le seguenti riflessioni.

1) Innanzitutto il riconoscimento diffuso della centralità di una funzione tecnica di coordinamento di tutto il lavoro che il Piano di Zona comporta, così come è stato prefigurato nella 328/00. Ne è prova il fatto che in tutte le regioni corrispondenti ai casi che abbiamo presentato nel Capitolo I (ad eccezione della Lombardia) sono in corso riflessioni su questo organismo tecnico: avviate fin dall’inizio (per dare una propria originale impronta su questo aspetto), oppure avviate soltanto in un secondo momento ed in ricaduta per ponderare le esperienze effettuate dalle Zone. Il risultato comune consiste nella decisione di promuovere la costituzione di questi uffici anche in quegli Ambiti dove ancora non esistono.

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2) Ci sembra poi che il confronto compiuto fin qui tra gli orientamenti assunti dalle sette regioni considerate ponga innanzitutto una questione di tipo terminologico, soprattutto nel caso si valutasse importante avviare un lavoro di scambio-confronto fra le Regioni sulle rispettive esperienze in merito ai Piani di Zona. Si potrebbero infatti prospettare almeno due rischi:

a) il primo è quello di utilizzare lo stesso termine per indicare realtà diverse: lo constatiamo ad esempio se proviamo a confrontare l’Ufficio di Piano come è stato pensato in Emilia Romagna, nelle Marche e in Campania. Nel primo caso infatti, rappresentando l’organismo tecnico chiamato a coordinare il Piano di Zona, tale organismo si sta configurando come un gruppo di lavoro stabile e permanente che richiede di essere consolidato. Nel caso delle Marche, corrisponde invece più a un tavolo di concertazione che ad un ufficio vero e proprio, mentre in Campania coincide con una realtà temporanea che dovrà essere “assorbita” dall’Ente al quale sarà delegata la gestione associata del sistema integrato di servizi;

b) il secondo rischio è talora quello di dare un po’ per scontate certe somiglianze fra organismi che –pur svolgendo funzioni simili– hanno origini (e non solo nomi) diverse: è il caso delle Segreterie Tecniche in rapporto agli Uffici di Piano. Un esempio: se per le prime è scontata la collocazione direttamente riferita alla Conferenza di Zona dei Sindaci, visto che sono state costituite come organismi tecnici a supporto di questa, per gli Uffici di Piano la questione rimane invece da approfondire. Diversamente il rischio è quello di considerarlo come unità organizzativa del Comune Capofila, con tutte le conseguenze che ciò potrebbe comportare sui processi di integrazione della Zona, che abbiamo visto essere estremamente delicati…

3) Infine vale la pena di riprendere qui una questione già sottolineata nella presentazione del caso di Pesaro nel primo capitolo, ossia quella del rapporto fra progettazione e gestione. Se è vero che da un lato si sta investendo (in termini di riflessione e di risorse, umane ed economiche) sulla progressiva strutturazione dell’organismo tecnico di coordinamento del Pdz, è anche vero che un altro oggetto di particolare attenzione (sia per le Zone, sia per le Regioni) che emerge dai casi analizzati è quello rappresentato dal nuovo Ente a cui assegnare la gestione associata dei Servizi sociali: quale rapporto pensare fra i due?

Come abbiamo visto, nelle prefigurazioni delle Regioni, si danno già diverse possibilità: se nel caso della Liguria, Segreteria tecnica di Zona ed Équipes distrettuali dei Servizi sociali territoriali sono giunte a definire momenti di lavoro comuni nel processo di costruzione del Piano di Zona, rendendo così possibile uno scambio “in tempo reale” dei due diversi punti di vista, nel caso della Campania si prevede invece che l’Ufficio di Piano venga “assorbito” dall’ente cui in futuro sarà delegata la gestione associata, e così via per gli altri casi…

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Si tratta di un tema al quale varrà forse la pena di dedicare qualche riflessione in più nel momento in cui questi due livelli di lavoro si vanno progressivamente strutturando. In altri termini, quali potrebbero essere per le Regioni le forme idonee per un accompagnamento della costruzione delle zone che evitino sia il rischio di una assistenza un po’ intrusiva sia quello di un rispetto troppo astinente che non aiuta?

2.4 Quando la zona è troppo “affollata”: tra la necessità di integrare e l’esigenza di non allontanarsi troppo dal territorio

Riprendiamo qui un tema sul quale la situazione della Zona sociale di Ventimiglia ci ha consentito di gettare (nel corso del Capitolo I e del primo paragrafo di questo) diverse luci, richiamando in particolare quella parte del caso che ha tratto spunto dagli interventi regionali sull’Associazionismointercomunale e la gestione associata dei servizi sociali.

Ciò che caratterizza la Liguria è infatti l’individuazione di un livello intermedio di programmazione e gestione dei servizi, collocato fra la Zona e le singole Amministrazioni comunali.

Si tratta di una questione che riguarda in modo particolare i territori ad elevata frammentazione amministrativa (e spesso anche territoriale) una complessità che si declina su due versanti:

- quello del numero di Comuni che la compongono, che vanno spesso ben oltre la decina. Fra i casi da noi approfonditi, oltre alla Zona sociale di Ventimiglia (con 17 Comuni) rientrerebbe in questa casistica anche l’ambito di Cremona, che prevede ben 47 Comuni;

- quello relativo alla popolazione di questi Comuni, che in diversi casi è dell’ordine di qualche centinaio di abitanti: ciò naturalmente incide fortemente sull’entità delle risorse umane ed economiche che le Amministrazioni possono essere in grado di mettere in campo per i servizi sociali.

Queste situazioni rappresentano l’occasione per mettere in luce come non sia scontato il fatto che la popolazione totale rappresenti un criterio sufficiente per definire l’estensione delle Zone o distretti: accanto a questo criterio potrebbe essere ponderato maggiormente anche il numero di Amministrazioni comunali coinvolte, soprattutto quando queste risultano di dimensioni molto ridotte.

2.4.1 Due approcci diversi alla questione della frammentazione

Se consideriamo i due casi di Ventimiglia e Cremona da questo punto di vista, possiamo osservare come essi si caratterizzino per l’approccio adottato al riguardo dalle rispettive Regioni. Ci troviamo infatti di fronte a due orientamenti contrapposti.

Se infatti la frammentazione territoriale non sembra essere stata oggetto di riflessione specifica da parte della Lombardia, la Liguria ha invece messo in atto

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–a partire dal 1988– una serie di interventi legislativi e programmatori che hanno progressivamente assunto la forma di una vera strategia di accompagnamento delle Zone.

Avviamo quindi una riflessione sul tema della frammentazione all’interno delle Zone a partire da una sintesi di quanto avvenuto in Liguria: quali strade sono state percorse per assicurare anche agli abitanti dei Comuni più piccoli la possibilità di ottenere prestazioni sociali di qualità?

Come abbiamo illustrato in modo più approfondito al Capitolo I, un primo intervento si registra già con la prima legge regionale di Riordino e programmazione dei servizi sociali (risalente al 1988) che definisce e nello stesso tempo indica agli Enti locali due livelli sui quali intervenire:

- il primo è relativo all’istituzione della Conferenza dei Comuni di ambito per l’esercizio delle funzioni di programmazione, coordinamento e verifica dei servizi sociali;

- il secondo riguarda invece l’organizzazione e la gestione di servizi sociali, che “hanno luogo attraverso intese tra i Comuni partecipanti regolate da apposite convenzioni oppure attraverso le forme associative previste dal vigente ordinamento degli enti locali territoriali”.

Viene così definito un livello di programmazione-coordinamento-verifica dei servizi sociali che corrisponde ad un’estensione territoriale più ampia di quella dei Comuni, denominata Ambito e governata a livello politico da un organismo che raggruppa tutti i Sindaci (o relativi Assessori delegati) dei Comuni compresi in esso, i quali dispongono di un numero di voti pari al numero degli abitanti residenti nel Comune di appartenenza. Tale organismo politico si avvale di un Ufficio di coordinamento (composto da una rappresentanza più ristretta degli stessi Sindaci/Assessori) e di una Segreteria tecnica per i servizi sociali di ambito, definita come supporto professionale e amministrativo alla Conferenza.

A questo nuovo livello di governo del sistema dei servizi corrisponde, sul piano organizzativo-amministrativo, la possibilità per i Comuni di stipulare fra loro accordi (siano essi convenzioni o altre forme associative) relativi alla gestione dell’intero sistema di servizi sociali o ad una sola parte di esso.

2.4.2 Due livelli di integrazione nell’ambito della stessa Zona

Dieci anni dopo, nel 1998, una seconda legge regionale di riordino e programmazione dei servizi sociali riprende il tema delle forme di aggregazione fra Comuni, introducendo però -all’interno dell’Ambito, ora denominato Zona- un’importante novità: il Distretto sociale. Con il debutto di questo nuovo soggetto, i Comuni che prima componevano l’Ambito (o Zona) “in ordine sparso”, vengono ora raggruppati fra loro in sotto-aggregazioni distrettuali alle quali sono assegnate funzioni specifiche. Graficamente, la differenza -nel caso della Zona di Ventimiglia- si potrebbe rappresentare in questo modo:

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Fig. 1 - Legge Regione Liguria n. 21/1988

Fig. 2 - Legge Regione Liguria n. 30/1998

Ambito/Zona

Comune 11

Comune 1

Comune 14

Comune 2

Comune 4Comune 13

Comune 15

Comune 7

Comune 10

Comune 9

Comune 3

Comune 8

Comune 17

Comune 6

Comune 12 Comune 5

Comune 16

Comune 1 Comune 3Comune 5

Comune 4 Comune 6

Comune 8

Comune 7

C. 9 C. 10

C. 13 C. 12

C. 11C. 14 C. 15Comune 1

Comune 16

Comune 17

Distretto 2

Distretto

Distr. 1

Distr. 4

Distr. 3

Zona

Comune 2

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Vengono pertanto individuati due diversi (e progressivi) livelli di integrazione: quello del Distretto sociale, che riguarda in particolare l’organizzazione e la gestione delle attività socioassistenziali di base e quello della Zona, che assume le funzioni di complessità più elevata.

Più in specifico, se il Distretto sociale assume il compito di realizzare “in modo coordinato e integrato” gli interventi relativi a: informazione, accesso e utilizzo delle prestazioni sociali, assistenza economica, assistenza domiciliare, supporto alle situazioni di disagio e di fragilità sociale, accesso ed eventuale gestione dei servizi residenziali, alla Zona spetta invece quello di definire l’articolazione territoriale dei Distretti sociali e predisporre il Piano triennale dei Servizi socio-assistenziali e socio-sanitari facenti capo ai Comuni associati.

Ci troviamo così di fronte ad un tipo di integrazione “dal doppio livello” che –a nostro avviso– sembra essere stata ispirata dal fatto che –nel contesto ligure– la Zona da sola sembrava rivelarsi come un livello ancora troppo distante dal territorio per poter operare l’integrazione sociale e per essere compresa nelle sue potenzialità e promossa innanzitutto dai livelli politico-istituzionali.

È stato pertanto necessario –per la Regione– cercare nuovi modi per perseguire il medesimo risultato al quale non si intendeva rinunciare: l’integrazione a livello di Zona.

Una volta definita questa architettura “dal doppio livello” si è trattato poi di supportarne la concreta messa in opera da parte delle Zone. In quest’ottica il Piano triennale dei servizi sociali 1999-2001 cerca di dare corpo sia alla dimensione politica che a quella tecnica di entrambi i livelli: quello della Zona e quello del Distretto, che proviamo ad illustrare graficamente di seguito:

Distretto sociale

Zona

Livello tecnico Livello politico

équipes distrettuali

Conferenza di Distretto

Segreteria tecnica

Segreteria tecnica

allargata

Ufficio di Coordinamento

Conferenza di Zona

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Per quanto concerne il Distretto, viene costituita la Conferenza di Distretto sociale, formata dai Sindaci dei Comuni che lo compongono, che annovera tra i suoi compiti quelli dell’approvazione del programma locale dei servizi sociali con il relativo piano di finanziamento e spesa e della costituzione dell’équipe professionale distrettuale.

Di conseguenza viene rivista la fisionomia dell’Ufficio di Coordinamento della Conferenza di Zona, il quale risulta ora composto dai Presidenti dei cinque Distretti, fra i quali viene eletto il Presidente della Conferenza di Zona.

Relativamente al livello tecnico, il Piano prevede l’integrazione “graduale” degli operatori sociali dei Comuni nell’(unica) équipe distrettuale, della quale viene indicato il “nucleo minimo” consistente in tre figure professionali: l’assistente sociale, l’operatore amministrativo e l’assistente domiciliare. Il responsabile di questa équipe - referente della Conferenza distrettuale, responsabile del Piano distrettuale dei servizi e promotore in senso lato del Distretto- entra a far parte del nucleo mobile della Segreteria tecnica di Zona.

Per quanto riguarda invece quest’ultima, poiché le finalità ed i compiti del livello politico erano già stati specificati nella legge, il Piano ne approfondisce in particolare la dimensione tecnica, specificando la composizione minima del nucleo permanente della Segreteria che viene configurata nel responsabile e in un funzionario amministrativo.

La connessione tra i due livelli tecnici del Distretto e della Zona viene infine individuata in una “collaborazione” tra il nucleo permanente della Segreteria tecnica e quello mobile, composto dai responsabili delle équipes distrettuali, ai quali possono essere affidati compiti a livello di Zona.

Un’ultima notazione consiste nella scelta operata dal Piano triennale regionale dei servizi sociali 2002-2004 in cui viene stabilito che “i Comuni che non provvedono ad associarsi non sono destinatari degli incentivi economici regionali”.

2.4.3 Una frammentazione che sembra non suscitare particolari preoccupazioni

E in Lombardia?

Va innanzi tutto precisato che nella maggioranza dei casi i Comuni avevano compiuto la scelta di delegare la gestione dei servizi sociali alle Asl. Il Piano di Zona viene quindi colto come una prima occasione che si propone alle stesse Amministrazioni Comunali per sperimentare nuove modalità di gestione associata dei servizi sociali. Con il Piano socio sanitario regionale 2002-2004 la Regione conferma questo orientamento iniziale, prospettando un cambiamento nel ruolo delle Asl: da una situazione che le vedeva responsabili della programmazione sia delle attività socio-sanitarie che di quelle socio-assistenziali, si profila il passaggio ad una prospettiva in cui programmazione e gestione delle attività socio-assistenziali diventano competenze complete ed esclusive dei Comuni. Tutto ciò avviene naturalmente in accordo con la prospettiva delineata dalla 328/00. Tuttavia, tale passaggio sembra essere pensato soltanto al livello della nuova dimensione della Zona, e non anche a quello di sotto-articolazioni in grado di consentire un passaggio graduale verso la costruzione del più complesso sistema integrato della Zona.

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Come abbiamo visto al Capitolo I sono state le zone a pervenire con difficoltà ad una certa attivazione di subambiti (contesti che vengono dotati di una ‘microéquipe’) che avrebbero dovuto costituire un punto di riferimento per l’Ufficio di Piano riguardo ad una serie di aspetti come il recupero dei dati finanziari, la verifica dell’adozione da parte dei Comuni delle decisioni assunte a livello di distretto, la partecipazione al lavoro dei tavoli tematici, la valutazione degli interventi che prevedevano l’impiego di titoli sociali.

Assistiamo così a due diverse forme di approccio alla frammentazione comunale:

- nella prima è il livello regionale che coglie la questione e decide di affrontarla sia sul piano istituzionale (con la costituzione delle Conferenze dei Sindaci sia a livello di Zona che a livello di Distretto) sia su quello più prettamente tecnico-organizzativo, delineando sia le équipes distrettuali, sia la Conferenza Tecnica di Zona con le sue modalità di allargamento alle prime;

- nella seconda il livello regionale non è intervenuto sul tema della frammentazione: sono state le Zone ad attivarsi al riguardo operando su un livello puramente organizzativo per garantire all’Ufficio di Piano il reperimento delle informazioni necessarie per il suo lavoro. Rimane aperta la questione dei risvolti istituzionali di questa scelta di cui ci sembra di intravedere un segnale nel fatto che –tra i compiti dei subambiti– vi è anche quello di verificare l’effettiva adozione da parte dei Comuni delle decisioni assunte a livello di Zona.

2.5 Prime riflessioni sui diversi approcci adottati dalle Regioni nell’orientare il lavoro delle Zone

Conclusa questa parziale carrellata sugli orientamenti definiti dalle Regioni in relazione a due temi specifici e circoscritta a sette casi, è utile cominciare a delineare alcune forme o modalità di approccio adottate da queste in relazione ad una possibile funzione di “accompagnamento” delle zone nella progressiva costruzione dei rispettivi sistemi integrati di servizi sociali.

Prima di provare ad illustrarli è necessaria una precisazione: non è possibile identificare l’orientamento complessivo regionale sulla base dell’approccio assunto rispetto ad un solo tema. La stessa regione può infatti aver assunto approcci diversi a seconda degli aspetti ritenuti prioritari fra le tante questioni aperte dalla 328/00 (costruzione del nuovo livello di programmazione e gestione dei servizi, definizione delle priorità relative ai diversi ambiti tematici, sviluppo dell’integrazione socio-sanitaria, realizzazione degli sportelli sociali e carte di servizi, livelli essenziali delle prestazioni sociali, trasformazione delle Ipab, sistemi di accreditamento e autorizzazioni, sperimentazione di titoli per la spesa sociale…).

Detto questo, proviamo ora ad indicare quattro modalità di approccio collegandole, con tutta la prudenza e la parzialità del caso, a qualche aspetto dell’operato delle Regioni:

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1. Modalità vincolante: si riferisce a quelle situazioni in cui le regioni hanno stabilito che certi aspetti dirimenti dovevano essere trattati secondo precise modalità definite nel dettaglio. È il caso dell’introduzione del Coordinatore d’Ambito nelle Marche, o dell’individuazione di un livello di integrazione intermedia fra la Zona ed i Comuni, stabilito con un intervento legislativo in Liguria o –infine– quello dell’utilizzo del 70% del Fondo nazionale per le politiche sociali per l’erogazione di titoli per l’acquisto di servizi in Lombardia;

2. Ricezione “dal basso”: è la modalità che la Regione Emilia-Romagna ha inteso adottare per quanto riguarda l’elaborazione del primo piano sociale regionale, e che sembra essere stata estesa anche ad altri aspetti come quello dell’Ufficio di Piano, di cui abbiamo discusso sopra. Non è escluso che a questa modalità possano seguirne altre qui indicate;

3. Delegante: è la situazione in cui la Regione ritiene che su certi aspetti non sia necessario, né opportuno definire oltre un certo grado. Si tratta di un approccio che sembra volto a riconoscere e sostenere l’autonomia degli altri livelli di Amministrazione dello Stato. Nei casi in cui si tratta di promuovere e sostenere la progressiva ricezione e messa in atto da parte delle Zone di interventi di riforma così ampi e significativi come quello effettuato dalla 328/00, questo tipo di approccio può talora correre il rischio di lasciare le Zone un po’ troppo ‘sole’ nell’affrontare questioni particolarmente complesse, come ad esempio quella dell’estrema frammentazione comunale o della definizione dei processi di lavoro per la costruzione del Piano di Zona.

4. Un’ultima modalità è quella che potremmo definire orientante. In questo caso si opta per indicare le opzioni preferite o ritenute più appropriate dal punto di vista della Regione, senza con questo vincolare le Zone ad adottarle (cercando inoltre di mettere in campo dispositivi per sostenere il lavoro delle zone). Un esempio in questo senso è venuto dall’Emilia-Romagna per quanto riguarda la seconda fase relativa all’Ufficio di Piano, oppure dalla Campania, per quanto riguarda la scelta della forma giuridica da assegnare all’Ente cui verranno attribuite le deleghe per la gestione associata dei servizi sociali.

È evidente che la prosecuzione di una riflessione approfondita su questi temi porta all’apertura di un paio di questioni particolarmente complesse.

a) La prima è rappresentata dal rapporto fra due livelli di autonomia nell’Amministrazione dello Stato: quello delle Regioni rispetto allo Stato e quello delle Amministrazioni comunali (e delle Zone) in rapporto alle stesse Regioni;

b) la seconda, che si collega alla prima, chiama in causa il tema del riscontro-controllo da parte delle Regioni sulle modalità effettive di attualizzazione da parte delle Zone dei principi che hanno ispirato il testo di legge nazionale e la legislazione-programmazione a livello regionale. Quali sono i margini di intervento dei livelli regionali nei casi in cui le Autonomie locali operassero scelte diverse rispetto a quanto previsto dalla attuale Legge Quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali?

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Spesso queste problematiche, indubbiamente complesse, sono poste ed affrontate a partire da un punto di vista ed adottando strumenti di tipo giuridico. La varietà degli approcci adottati e delle soluzioni ideate dalle sette regioni considerate in questo studio ci sembra suggerire un’altra via, che prova a mettere in luce quella ‘sapienza pratica’ che non di rado i sistemi organizzativi (e quelli istituzionali) sanno valorizzare nel far fronte a situazioni critiche e/o complesse mettendo in campo dispositivi che sembrano essersi prodotti senza l’organizzazione di una particolare intenzionalità. È questa ‘sapienza pratica’ che abbiamo cercato di mettere in luce nell’analisi dei sette casi del Capitolo I e in questa breve carrellata dedicata ad alcuni aspetti degli orientamenti regionali corrispondenti.

3. Le interazioni e le alleanze tra le dimensioni istituzionale, sociale e tecnica negli Ambiti/Distretti/Zone

Dopo avere approfondito il discorso in merito ai fattori rappresentati dalla conformazione territoriale e da alcuni aspetti della produzione regionale che si sono rivelati dirimenti, resta ora da affrontare quello connesso alle particolari collaborazioni, interazioni e alleanze che, riguardo al tema della costruzione delle zone, si sono venute a realizzare, nei diversi contesti presi in esame, tra i soggetti che la L. 328 individua tra i principali progettisti del Pdz e dunque della nuova zona sociale.

Per cogliere questo aspetto importante siamo ricorsi ad uno schema interpretativo se si vuole abbastanza semplice, ma capace - a nostro avviso- di aiutarci a cogliere meglio alcuni tratti salienti attorno ai quali si gioca oggi la costruzione della rete dei servizi nelle diverse zone.

Ora, come abbiamo potuto riscontrare, la costruzione in sede locale delle zone prende forma a partire dall’attività di numerosi attori che potremmo collocare all’interno di tre dimensioni:

- quella istituzionale, che include una numerosa serie di luoghi e forme nelle quali si costruisce la “regia politica” del Piano, in genere coincidenti sia con la Conferenza/Assemblea/Comitato zonale o distrettuale dei Sindaci e con altri soggetti a questi collegati come il Tavolo Alto dell’Alta Valdelsa o la Giunta comunale di Barletta;

- quella sociale, vale a dire il complesso dei luoghi e delle forme nelle quali i soggetti della società civile –in prevalenza associazioni, cooperative, onlus, sindacati...– sono (in genere) stabilmente coinvolti per la messa a punto del Piano, secondo una gradazione che può andare da un coinvolgimento ad hoc in vista della progettazione di specifici interventi sino a quella finalizzata alla individuazione delle linee e degli orientamenti di fondo del Piano e della stessa fisionomia della zona. Ci riferiamo a Gruppi di progetto, Gruppi di consultazione, gruppi tecnici di concertazione, aree e tavoli tematici ai quali di norma partecipano anche soggetti dei servizi sociali, dell’Asl e dell’ autonomia scolastica;

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- quella tecnica, che comprende un’ampia serie di organismi il cui compito è quello di promuovere e coordinare sul versante tecnico tutto il processo di elaborazione dei Piani. Si tratta degli Uffici di Piano, delle Segreterie tecniche, delle équipes distrettuali, del coordinatore d’Ambito e del suo staff. Più in generale ci riferiamo ai vari luoghi del Pdz dove operano prevalentemente dirigenti, funzionari e operatori dei Comuni e talora consulenti.

Proviamo ora a riprendere sinteticamente i sette casi guardandoli attraverso questa lente che si concentra sulle forme prevalenti delle collaborazioni che si attuano tra le tre dimensioni dei Piani e sugli oggetti principali sopra i quali queste si realizzano, tenendo presente che - come abbiamo cercato di mettere in risalto nel Capitolo I - si tratta di collaborazioni dinamiche i cui lineamenti non devono essere cristallizzati troppo nei tratti che assumono in questo paragrafo, nel quale cerchiamo di individuare delle linee prevalenti e delle accentuazioni colte in alcune fasi significative della costruzione delle diverse zone e pertanto utili nel gettare luce sulle forme e modalità che si sviluppano nel lavoro tra i loro progettisti.

3.1 La collaborazione tra dimensione istituzionale e dimensione tecnica

È possibile collocare all’interno di un primo ambito caratterizzato da una prevalente collaborazione tra la dimensione istituzionale e quella tecnica cinque delle sette esperienze analizzate, anche se poi è necessario operare tra queste un’ulteriore differenziazione in funzione dell’orientamento assunto da tale alleanza di lavoro. La suddivisione che proponiamo intende distinguere tra i contesti nei quali la funzione più significativa di questa collaborazione si è concentrata in un lavoro volto a promuovere un’integrazione interna (vale a dire sia dentro le singole dimensioni istituzionali e tecniche sia tra di esse) e quelli dove questa collaborazione, potendo confidare su un’integrazione interna più consistente, ha potuto cimentarsi in modo significativo anche in un’opera di predisposizione e cura di forme e luoghi nei quali coprogettare con la dimensione sociale.

3.1.1 La collaborazione istituzionale-tecnica in funzione dell’integrazione interna: Barletta, Cremona, Ventimiglia

Barletta. Il Piano sociale prende forma attorno ad un’idea strategica di lavoro costruita innanzitutto tra livelli politici e livelli tecnici del Comune. L’idea è quella di guardare al Piano sociale come ad “un’occasione per realizzare politiche sociali partendo dal basso, aprendo ai gruppi e ai cittadini” e la sua messa a punto è progressiva. Questa prospettiva dapprima prende forma all’interno di un confronto approfondito tra il settore Servizi sociali, gli altri settori del Comune e il Sindaco che si realizza nell’ambito del lavoro sul Piano strategico della Città, immediatamente precedente l’avvio del Piano sociale. In seguito, all’interno dei lavori connessi al Pdz, tale prospettiva si consolida soprattutto nello scambio che si produce tra livelli politici e livelli tecnici del Comune all’interno della Giunta comunale assurta a Coordinamento

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istituzionale del Piano. L’esito di questo confronto consiste nell’adozione di alcune scelte utili a perseguirla, consistenti principalmente nella creazione di un Ufficio di Piano interno ai Servizi sociali, ma distinto dagli altri uffici del settore, al quale vengono attribuiti compiti tra i quali spiccano quelli legati ad una doppia promozione: quella connessa all’integrazione tra le parti interne al Comune (tra i vari uffici del settore Servizi sociali e tra i diversi settori del Comune) e quella rivolta all’esterno, tra gli attori sociali del territorio, nella convinzione che quest’ultima forma d’integrazione debba essere preparata da quella interna.

La ridefinizione degli assetti interni - che coinvolge sia la dimensione tecnica che quella istituzionale - consente di costruire progressivamente dentro l’Amministrazione comunale quadri d’insieme sui problemi sociali del territorio che finiscono per favorire il lavoro di programmazione che il Comune conduce assieme ad altri attori sociali riguardo alla formulazione di analisi condivise dei problemi e all’individuazione delle priorità d’intervento. A sua volta questo lavoro con gli attori sociali è foriero di ulteriori sviluppi: da una parte vengono innescati processi d’integrazione all’interno di altri contesti e organizzazioni (come il mondo del volontariato, quello delle scuole o dentro la stessa Asl) dall’altra queste integrazioni esterne tendono a trasformarsi in una sorta di sollecitazione di ritorno sul Comune a progredire nell’offerta di politiche e spazi d’integrazione: a Barletta cioè si mette in moto una dinamica positiva tra offerta e domanda d’integrazione.

Rimane il nodo dei rapporti tra Comune e Asl che dovranno crescere all’interno del lavoro sul Piano sociale, anche se oggi non risultano favoriti dall’assenza di quest’ultima nel nucleo di governo del Pdz che ruota tuttora attorno al rapporto, rivelatosi per molti aspetti fruttuoso, tra la dimensione istituzionale e quella tecnica interne al Comune, una sorta di dato ambientale che si collega direttamente alla natura monocomunale dell’ambito.

Cremona. La dialettica prevalente tra livello istituzionale e livello tecnico a Cremona può essere ricapitolata attorno a tre fasi legate a diverse tappe evolutive di un unico oggetto di lavoro: quello della costruzione di una ‘zona sociale complessa’, in grado cioè di predisporre, in un contesto ad alta frammentazione comunale con cospicue disomogeneità nell’ offerta di servizi, un assetto capace di integrare le logiche e i livelli distrettuali con le esigenze specifiche dei singoli Comuni. In altri termini l’oggetto è quello connesso alla costruzione di un livello intermedio in grado di ridurre il divario di complessità esistente tra la dimensione-distretto e la dimensione singolo-comune e favorire così l’elaborazione e la realizzazione di accordi che, se non attingono immediatamente il livello dell’ambito distrettuale, si situano comunque ad un livello sovracomunale, a partire dal quale è più facile pervenirvi. Ciò a partire da dimensioni istituzionali (Assemblea e Comitato esecutivo dei Sindaci) e tecniche (Ufficio di Piano) che, non prevedendo articolazioni sotto-zonali capaci di corrispondere in qualche modo alla complessità del territorio, sono state indotte a contare molto sulle forze del Comune capofila, ossia di Cremona.

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Rispetto a questo compito, il risultato del lavoro condotto in una prima fase dal Comitato esecutivo dei Sindaci assieme al ‘Gruppo di Piano’ - un Ufficio di Piano ante litteram- è stato quello di individuare alcuni tratti importanti dell’impianto organizzativo necessari ad una più omogenea diffusione dei servizi nel distretto. Questi erano rappresentati dalla costituzione di un autentico Ufficio di Piano e soprattutto dalla individuazione di quattro subambiti territoriali con i quali si operava una articolazione del distretto sul piano del lavoro sociale. Per ogni subambito si trattava di individuare due figure professionali che avrebbero dovuto rappresentare per l’Ufficio dei punti di riferimento riguardo a funzioni come la verifica dell’adozione da parte dei Comuni delle decisioni assunte a livello distrettuale, la partecipazione al lavoro dei tavoli tematici o il recupero dei dati finanziari relativi ai bilanci socio-assistenziali da presentare all’Asl.

L’obiettivo ‘zona complessa’ viene perseguito in una seconda fase da una collaborazione assidua tra un livello istituzionale, rappresentato prevalentemente da un Comitato esecutivo dei Sindaci esteso ora ai rappresentanti dei Comuni capofila di subambito e da un Ufficio di Piano che assume una serie di compiti connessi alla gestione diretta di servizi a valenza distrettuale precedentemente delegati all’Asl.

La collaborazione tra istituzionale e tecnico - che sino a quel punto aveva camminato in sintonia sulla via della costruzione della ‘zona complessa’ - assume invece tratti più dialettici nella terza fase, quando l’Amministrazione del Comune capofila inizia a riflettere più in termini di sviluppo del proprio sistema comunale dando vita all’Azienda speciale, mentre l’azione sul distretto comincia a soffrire dell’assenza di una guida strategica in grado di portare a compimento la costruzione della zona. In questa situazione il nuovo Pdz tende a configurarsi come il terreno di confronto tra vicende che in questi ultimi tempi hanno camminato un po’ separate: quella del distretto (sulla quale ha continuato ad investire l’Ufficio di Piano, ricercando e trovando nell’Asl e nel Terzo settore partner importanti) e quella dell’Azienda speciale che di recente ha assorbito gran parte dell’energia dell’Amministrazione comunale di Cremona.

In tal modo si conferma come, sia pure sotto segni e prospettive diverse, il rapporto tra dimensione istituzionale e dimensione tecnica rappresenti il cardine del lavoro sul Pdz e, più profondamente, di quello finalizzato alla costruzione del distretto di Cremona caratterizzato da tre fattori principali: l’alta frammentazione comunale, la necessità di contemperare le esigenze del Comune più grande e quelle dei numerosi Comuni più piccoli e infine, a differenza della Zona sociale di Ventimiglia, la scarsa presenza di indicazioni e forme di sostegno da parte degli enti sovraordinati.

Ventimiglia. Non è possibile comprendere il senso del lavoro connesso al Pdz di Ventimiglia se non se ne mette in luce l’innesto e l’intreccio con l’intervento avviato alla fine degli anni Ottanta dalla Regione Liguria volto a mettere a punto una nuova architettura della rete dei servizi sociali in un contesto caratterizzato da una situazione “estremamente parcellizzata”, dove cioè il 40% dei Comuni ha

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una popolazione inferiore ai 1000 abitanti. Stringendo al massimo la questione, l’obiettivo della Regione era quello di individuare ambiti territoriali composti da più Comuni al fine di ridurre la frammentazione comunale e consentire così anche ai Comuni più piccoli la realizzazione di prestazioni sociali di qualità. Tale finalità viene perseguita a più riprese. Dapprima con l’attivazione dell’Ambito territoriale o Zona, governata dalla Conferenza dei Sindaci che si avvaleva di una Segreteria tecnica, in seguito con l’introduzione dei Distretti sociali, una sottoarticolazione della zona dotata di un organismo politico (la Conferenza distrettuale dei Sindaci) e di una équipe professionale distrettuale che avrebbe dovuto collaborare con la Segreteria tecnica zonale. Come abbiamo scritto, “l’idea che sta dietro a questa integrazione ‘dal doppio livello’ sembra essere che la Zona da sola, nel contesto ligure, si rivela come un livello ancora molto distante dal territorio per poter operare la sua integrazione. Diventa così necessario pensare ad un processo progressivo che parta da contesti più circoscritti e da una maggiore differenziazione del contenuto dei suoi livelli (servizi di base per il Distretto/ servizi complessi per la Zona) per maturare la convinzione che proprio sulla realizzazione dei Distretti si gioca la possibilità dell’integrazione di livelli più complessi. Da un’idea ancora semplificata dell’integrazione centrata sulla sola Zona, presente nella legge del 1988, si passa così ad una molto più raffinata, centrata sulla messa a fuoco di Distretti e Zone e sull’elaborazione delle loro relazioni”.98

In certo senso il lavoro connesso alla elaborazione del Piano ha rappresentato il modo concreto per dare ‘carne e sangue’ al disegno regionale, del quale in certa misura vengono replicate le diverse impostazioni dell’integrazione (sola Zona e Zona e Distretto insieme) rispettivamente con la sperimentazione del Pdz 2002 e le sue successive edizioni. La sperimentazione si caratterizza infatti per due note caratteristiche: da un lato lo sforzo (non sempre riuscito) da parte della Segreteria tecnica di coinvolgere maggiormente il livello politico della Zona nella costruzione dei vari aspetti previsti dall’integrazione territoriale dei servizi sociali e dall’altro la messa a punto di un ciclo di lavoro per l’elaborazione del Piano che tendeva a comprimere la dimensione del Distretto per costruirsi un po’ unilateralmente nell’ottica della Zona. Diversamente le edizioni che seguono tendono a conferire un certo ruolo alle dimensioni distrettuali prevedendo un lavoro congiunto tra le conferenze dei sindaci e l’équipe professionale dei Distretti per la messa a punto di una sorta di ‘Piano di distretto’ che confluisce in seguito nel lavoro legato all’elaborazione del Piano di Zona.

Un cambiamento di prospettiva importante che riformula, con la prospettiva del ‘doppio livello’, la diffusa visione dell’integrazione centrata sulla sola dimensione zonale. Anche il ridotto coinvolgimento del livello sociale deve essere letto in questa prospettiva, nella quale l’asse prioritario del lavoro ha dovuto cimentarsi innanzitutto con una gravosa opera all’interno del pubblico finalizzata a far maturare una nuova idea dell’integrazione nelle sue componenti istituzionali (Conferenze zonali e distrettuali dei Sindaci…) e tecniche (Segreteria tecnica, équipes distrettuali…). 98 Capitolo I, Ventimiglia, 3.3.

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3.1.2 La collaborazione istituzionale-tecnica in funzione dell’integrazione esterna: Lugo e Pesaro

Lugo. Per comprendere le dinamiche principali che orientano la costruzione del Pdz in un ambito caratterizzato da una lunga storia di delega dei servizi sociali all’Ausl come Lugo, occorre tenere innanzitutto presente che in questo caso la vicenda del Piano si inserisce in una prospettiva che non è quella del ritiro delle deleghe, bensì quella del loro permanere. È pertanto all’interno di un processo di riformulazione dei rapporti tra Comuni e Ausl che si sviluppa e si riarticola il rapporto tra dimensione istituzionale e dimensione tecnica che sembra connotare questa esperienza.

Per mettere a fuoco alcuni tratti salienti di questo rapporto e le sue evoluzioni è utile operare un sintetico confronto tra l’architettura del Piano realizzato con la sperimentazione del 2002 e la sua riformulazione effettuata nel 2004. Il ruolo attivatore viene svolto dall’Asl che nell’ambito del Comitato di Distretto tesse la trama di fondo dei lavori del Piano attorno a tre soggetti principali: il Comitato di distretto che definisce e formalizza indirizzi e priorità; un’area di progettazione composta da sei gruppi integrati, ognuno dei quali fa capo ad un sindaco del distretto e vede la partecipazione del pubblico (Comuni e Asl) e del privato sociale; infine il Gruppo tecnico distrettuale (Gtd) che svolge la regia tecnica di tutto il lavoro previsto dal Piano. In pratica un’organizzazione che ruota attorno ad un’iniziale e permanente funzione propulsiva e di raccordo dell’Asl che riesce a trovare una prima fattiva collaborazione nei Comuni del distretto.

È con il Pdz del 2004 che vengono introdotte alcune novità importanti, le quali - se non mutano il disegno originario centrato su tre soggetti- ne riformulano però il significato. Se infatti la novità più appariscente è rappresentata dall’introduzione, al posto del Gtd, di un Ufficio di Piano piuttosto nutrito, quella più rivelativa è costituita senz’altro dal “gruppo di coordinamento” che si attiva al suo interno. Composto dall’assessore referente per le politiche sociali della zona, dalla responsabile del servizio sociale dell’Ausl e dalla coordinatrice tecnica dell’Ufficio di piano, il nuovo gruppo riformula sia la natura tecnica del Gtd, sia il ruolo dei due principali componenti (Comuni e Ausl). La presenza stabile e “fattiva” dell’assessore referente conferisce al gruppo un ruolo di regia che non può essere racchiuso all’interno di una funzione di supporto tecnico, ma finisce per collocarsi a metà strada tra questa funzione e quella politica. Nello stesso tempo la sua composizione segnala un rafforzamento della componente dei Comuni consistente nell’assunzione della responsabilità politica dell’Ufficio di piano (e del suo nucleo di coordinamento) tramite l’assessore delegato e nell’introduzione del coordinatore tecnico. Dietro a questo cambiamento prende forma quello più istituzionale relativo ad un certo trasferimento del ruolo di promozione e coordinamento della rete dei Comuni della zona che, dalle spalle dell’Ausl, passa su quelle del Comune capofila. Assistiamo così con l’impostazione del 2004 sia ad una conferma che ad un cambiamento dell’impianto precedente. La conferma consiste nel consolidamento dell’asse tra Comuni e Ausl attivato sin dal 2002, mentre il cambiamento è rappresentato da una diversa distribuzione delle funzioni

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istituzionali e tecniche tra i due soggetti. Se nella prima fase l’Ausl, oltre a svolgere una funzione di regia tecnica, aveva dovuto assumere anche parte di quella relativa alla promozione della rete tra i Comuni e tra questi e il Terzo settore, nella seconda sono i Comuni - e in particolare quello capofila- che, oltre a assumere le funzioni di promotori e coordinatori della rete dei servizi, acquistano anche compiti legati alla dimensione tecnica, riformulando in tal modo le forme ma non la centralità dell’interazione istituzionale-tecnica attorno alla quale continua a svilupparsi il lavoro del Pdz di Lugo.

Pesaro. Per poter cogliere la particolare fisionomia della collaborazione tra livello istituzionale e livello tecnico nella costruzione dell’ambito territoriale di Pesaro, occorre mettere in luce un certo imprinting fornito dalla Regione Marche individuabile nell’opzione con la quale si ravvisa nella figura del coordinatore “lo strumento tecnico a disposizione dei Comuni dell’Ambito territoriale” piuttosto che in un Ufficio di Piano o una Segreteria tecnica. In tal modo si profila una trama organizzativa che se prevede la presenza di un organismo politico come il Comitato dei Sindaci da un lato e un organismo tecnico come l’Ufficio di piano dall’altro, tende però a concentrarsi in modo particolare sul ruolo centrale e ‘intermedio’ che tra l’uno e l’altro viene a giocare questa figura di ‘regista tecnico’, dotato a questo scopo di un suo proprio staff (che non s’identifica con l’Ufficio di piano). Se dunque si dà vita ad un livello tecnico alquanto composito, occorre tenere presente il ruolo emergente di questa figura che, nell’organigramma del Comune capofila, è stata recentemente collocata non all’interno del settore Servizi sociali - come avviene in genere negli altri contesti presi in esame- ma immediatamente in una posizione di staff al Sindaco della Città che è anche il Presidente del Comitato dell’Ambito, suggellando così anche sul piano della collocazione organizzativa la robusta sintonia tra la dimensione istituzionale e quella tecnica attorno alla quale si è sviluppato l’ambito territoriale.

A ciò dobbiamo aggiungere una seconda caratteristica del Coordinatore, rappresentata non tanto dai ‘tratti muscolari’ di un ruolo forte quanto da quelli collegati ad un ruolo libero da incombenze gestionali che può consentirgli un cospicuo investimento sull’elaborazione dei processi di lavoro interni al Pdz e dunque sulla costruzione dei tratti portanti dell’ambito sociale. Con i suoi quarantacinque gruppi integrati di co-progettazione l’area della progettazione tende infatti a configurarsi come il vero campo di sperimentazione e attivazione della nuova riformulazione della rete dei servizi sociali della zona.

Il risultato è dunque una collaborazione tra istituzionale e tecnico che si caratterizza sia per una stretta cooperazione tra le figure apicali delle due dimensioni, ossia tra il Presidente del Comitato dei Sindaci e il Coordinatore dell’Ambito territoriale sia per le potenzialità che possono scaturire dalla fisionomia di quest’ultimo: svincolato da oneri gestionali, è in grado di conferire a questa alleanza di lavoro una connotazione estroversa, orientata cioè a promuovere e costruire le forme e i luoghi nei quali la dimensione sociale può prendere parte alla costruzione della nuova rete dei servizi sociali dell’ambito.

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3.2 La collaborazione tra dimensione istituzionale e dimensione sociale: Alta Valdelsa

Ci riferiamo in questo caso ad una delle caratteristiche principali che contraddistinguono l’esperienza dell’Alta Valdelsa. Stringendo davvero molto questo complesso caso, sottolineiamo gli aspetti principali che entrano in gioco nel prospettare questa collaborazione prevalente.

Innanzitutto un’esperienza comune alle spalle, che radica il lavoro sul Pdz nel percorso civico di cittadinanza attiva (Carta di cittadinanza) e in particolare attorno ad un gruppo (in seguito confluito nel Tavolo di concertazione del Pdz) composto dagli assessori alle politiche sociali dei cinque comuni e da numerosi soggetti della società civile della Zona. Al suo interno viene elaborata una nuova visione dei servizi (delegati all’Asl) che, prevedendo il protagonismo dei soggetti locali, finisce per muoversi in rotta di collisione con la prospettiva di una Azienda evoluta a dimensioni provinciali e sovraprovinciali.

Da ciò si ricava come l’elaborazione del Pdz si sviluppi in un contesto già connotato da una profonda alleanza tra dimensione istituzionale e sociale, tanto che la sua costruzione avviene un po’ all’insegna dello sviluppo di questa collaborazione all’interno del Pdz99 che vede, dopo una prima fase di lavoro guidata e prodotta dal livello istituzionale, il ruolo centrale di un mix di livello istituzionale e livello sociale rappresentato dal Tavolo della Concertazione che opera ad ampio raggio in ordine alla formulazione e alla riformulazione degli orientamenti di fondo e delle parti del Pdz. Resta comunque da tenere ben presente che, al di là del lavoro congiunto svolto in rapporto alla elaborazionedel Pdz, la collaborazione profonda che si delinea in Alta Valdelsa tra istituzioni e sociale, prima che sulla concertazione delle priorità e dei contenuti del Piano, si realizza sopra un oggetto in qualche modo antecedente connesso all’orientamento di fondo della costruzione della rete integrata dei servizi sociali della Zona che entrambi i soggetti intendono produrre attorno all’attivazione di un nuovo ente gestore al quale trasferire i Servizi sociali oggi in delega all’Asl.

Risulta a questo punto più chiaro il senso del ‘mancato’ rafforzamento (peraltro ripetutamente indicato tra gli obiettivi di sistema del Piano delle diverse annualità) della dimensione tecnica (la Segreteria tecnica) del Pdz, che rimane in un ruolo piuttosto ancillare in tutta questa esperienza, chiamata cioè a sostenere e seguire il protagonismo delle altre due dimensioni e a curare la redazione di uno strumento nuovo come il Pdz in una logica di ordinaria amministrazione. Quel rafforzamento avrebbe infatti automaticamente rappresentato il rafforzamento di quell’assetto dei servizi centrato sulle deleghe all’Asl di cui istituzioni e società civile avevano maturato e concordato il superamento. Tale superamento è stato recentemente realizzato tramite l’attivazione di un nuovo soggetto gestore individuato in una nuova Fondazione, un organismo da un lato più in linea con la ‘filosofia’ della cittadinanza attiva e dall’altro reputato maggiormente in grado di consentire all’associazione dei Comuni dell’Alta Valdelsa di giocare un ruolo più significativo all’interno delle nuove prospettive regionali sulla gestione unitaria dei servizi sociali e sanitari (Società della salute).

99 Al riguardo vedi Capitolo I, Alta Valdelsa, 5.2.

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3.3 La collaborazione tra dimensione sociale e dimensione tecnica: Penisola Sorrentina e Capri

Come nell’Alta Valdelsa, un ruolo di rilievo viene giocato dalla dimensione sociale anche nell’Ambito territoriale della Penisola Sorrentina e Capri, ma con significative differenze, visto che in questo caso il lavoro connesso al Pdz tende a ruotare attorno ad un’intensa collaborazione tra la dimensione sociale e quella tecnica. Come abbiamo visto, questo Ambito prevede una gestione completamente sovracomunale dei servizi nella quale l’Ufficio di Piano non opera soltanto nel campo della programmazione e della progettazione, ma ha assunto anche -tramite la sua trasformazione in “ufficio comune”-100 la configurazione di soggetto gestore. Questa prospettiva caratterizza profondamente il suo funzionamento e, in certo senso, la stessa fisionomia del processo di elaborazione del Pdz che si produce in questo Ambito. Se da un lato questo profilo gestionale tende a configurare l’Udp come “il motore del Pdz” (vuoi per la predisposizione di un importante quadro sullo stato dei servizi e dei bisogni del territorio realizzata sulla base dei dati degli Uffici sportelli sociali integrati nell’UdP, vuoi per la sua elaborazione effettuata dal Sistema informativo dei servizi sociali che è una componente interna all’UdP) dall’altro la complessa e onerosa dimensione tecnico-gestionale tende ad assorbire gran parte della sua attività. È in quest’ottica che assume rilievo il ruolo del Tavolo di Concertazione, un organo composto dai Comuni dell’Ambito, dall’Asl, dalle Autonomie scolastiche, dal Terzo settore, dal Volontariato e dal Sindacato. Tra le sue principali attività rientrano infatti la composizione di una visione unitaria degli apporti informativi provenienti (soprattutto) dall’Udp e da altri soggetti, l’organizzazione del lavoro dei sottotavoli di concertazione per aree tematiche (che si avvalgono dell’apporto di componenti dell’Udp) la negoziazione e la ricomposizione in un quadro complessivo degli obiettivi strategici del Pdz e infine l’attivazione dell’opera di redazione del Piano che - realizzata dall’UdP- viene seguita dal Tavolo di Concertazione tramite i suoi referenti all’interno dell’Ufficio. Si tratta di una serie di funzioni che possono suddividersi tra un ambito più caratterizzato da un lavoro di negoziazione (il Tavolo di concertazione plenario) e funzioni più prossime ad un lavoro di coprogettazione che si sviluppa tra la dimensione sociale e quella tecnica nei sottotavoli di concertazione. Funzioni talmente centrali per le quali non è improprio rileggere il funzionamento attuale come un complesso lavoro che prende forma attorno alla stretta collaborazione tra l’Ufficio di Piano e il Tavolo di Concertazione, dietro la quale si configura quella tra il livello tecnico e il livello sociale, considerato che il Tavolo di Concertazione pur prevedendo la partecipazione del livello istituzionale ne registra da tempo l’assenza, configurandosi così come un luogo di forte interazione tra portatori d’interesse e livello amministrativo.

L’oggetto di questa collaborazione sembra situarsi principalmente su due piani. Il primo è quello della condivisione del significato da attribuire alla costruzione dell’ambito sociale, considerato da entrambe le parti come un’occasione importante per la promozione di una vera riforma dell’assistenza a

100 Vedi D.lgs 267/2000, art. 30, c. 4.

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livello regionale, mentre il secondo sembra costituito dalla costruzione di un assetto che preveda una sorta di ruoli complementari tra livello sociale e livello tecnico in ordine all’elaborazione del Piano e alla sua realizzazione, ruoli per i quali si configurerebbero, all’interno di una stretta cooperazione, funzioni prevalenti e differenziate: al sociale quella di organizzare e orientare la concertazione e la progettazione tematica e all’Udp quella di organizzare e seguire l’onerosa gestione del Piano che, in questo caso, coincide con quella ordinaria.

4. Una lente complessa per guardare le Zone e i loro Piani

Nei paragrafi precedenti di questo capitolo abbiamo cercato di mettere in luce e approfondire alcuni fattori che a nostro avviso sembrano aver giocato e giocare un ruolo dirimente nella elaborazione dei Pdz e più ampiamente nella costruzione delle nuove zone sociali prese in considerazione. Li richiamiamo sinteticamente.

Il primo è rappresentato dalla conformazione dell’ambito territoriale che esprimerebbe un primo e fondamentale livello di complessità istituzionale della zona, al cui interno abbiamo individuato quattro differenti tipologie: l’ambito monocomunale, l’ambito che comprende quindicina decina di Comuni di dimensioni tendenzialmente analoghe o comparabili tra loro, l’ambito con un Comune molto più popoloso degli altri e l’ambito caratterizzato da un’elevata frammentazione comunale. Queste quattro forme connesse ad altre dimensioni di contesto (ad esempio la delega all’Asl dei servizi sociali o meno) e ad altri aspetti di processo (come la distribuzione di compiti sovracomunali tra tutti i Comuni dell’Ambito) compone una prima lente che abbiamo progressivamente elaborato nel corso dell’analisi dei casi e in seguito utilizzata.101

Il secondo fattore è costituito da una serie di imprinting relativi ad alcuni aspetti connessi alla costruzione delle zone forniti dalle produzioni delle varie regioni. Ci riferiamo in particolare agli apporti sull’organismo tecnico previsto dai Pdz e alle elaborazioni in ordine alla costruzione della ‘doppia integrazione, vale a dire di un livello d’integrazione intermedio tra quello delle singole Amministrazioni comunali e quello della zona sociale. Con l’avvertenza che questa seconda lente possiede la caratteristica di esercitare orientamenti e indirizzi sulle zone anche in forza della sua semplice assenza.

A differenza dei primi due, il terzo fattore cerca di mettere in risalto gli oggetti principali attorno ai quali si è sviluppato il lavoro nelle zone a partire dalla individuazione degli impulsi e degli orientamenti esercitati dalle culture sociali dei diversi contesti territoriali, colte attraverso le collaborazioni e le alleanze prevalenti che si sono realizzate tra i suoi principali progettisti locali, vale a dire tra i soggetti delle dimensione istituzionale (in genere i Comitati o le Conferenze dei Sindaci) quelli della dimensione tecnica (Uffici di piano, Segreterie tecniche, Coordinatori d’ambito…) e infine quelli collegati alla dimensione sociale (Terzo settore, volontariato, sindacati,…). 101 Una rappresentazione sintetica di questa prima lente è presente nello schema riportato in questo capitolo, al primo paragrafo, 1.5.

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Al riguardo si può anzitutto affermare che l’utilizzo di una singola lente, vuoi quella della conformazione territoriale o quella degli orientamenti regionali o quella ancora delle collaborazioni locali prevalenti, risulta insufficiente per mettere a punto una lettura dello stato dell’arte e dei risultati che si stanno ottenendo in questo oneroso lavoro connesso alla costruzione della zona che superi un certo schematismo. Alcuni esempi possono illustrare in modo eloquente l’insufficienza di una visione monoculare delle zone.

Il primo caso si può collegare al ‘trattamento’ di un contesto ad alta frammentazione comunale in vista della sua integrazione zonale. Se guardiamo attraverso la sola lente-conformazione territoriale non è possibile cogliere il senso del lavoro che in questi contesti si sta svolgendo e dei risultati che si stanno acquisendo. Per ottenerlo occorre utilizzare anche la lente connessa alla produzione regionale, con la quale veniamo a scoprire che la comune ‘parcellizzazione comunale’ delle zone di Ventimiglia e Cremona si sposa a Ventimiglia con l’elaborazione da parte della Regione Liguria di un livello intermedio che promuove e sostiene un’integrazione possibile, mentre non trova suggerimenti nelle indicazioni della Lombardia. Questo ci aiuta a far luce non solo (e non tanto) sui motivi di fondo della diversa consistenza tra il profilo anche istituzionale della dimensione distrettuale ligure e quello soltanto organizzativo dei subambiti di Cremona, ma più profondamente sul senso che guida la costruzione della zona e in particolare sull’orientamento che ispira i suoi costruttori locali, i quali a Ventimiglia, potendo contare sull’orientamento e il sostegno regionale, si dirigono prevalentemente verso la costruzione dell’infrastruttura distrettuale, mentre a Cremona, non potendo confidare su questo tipo di sostegno, dopo una prima interessante intuizione del subambito, si dirigono prevalentemente sull’attivazione di forme di gestione dei servizi reputandola una strada più solida per la creazione della nuova integrazione territoriale. Ancora, a questa visione monoculare che adotta la sola lente-conformazione territoriale sono da ascrivere alcuni schemi che tendono a leggere i Pdz e le zone dove è presente una lunga storia di delega all’Asl come contesti che prefigurano situazioni dove i nuovi progettisti del sociale si caratterizzano sul versante del disinvestimento e del basso profilo. I casi esaminati sembrano andare in un’altra direzione. Se assumiamo la terza lente concernente le collaborazioni prevalenti possiamo vedere che a Lugo, attorno all’oggetto ‘allargamento al sociale della progettazione e della negoziazione’, si realizza una proficua alleanza di lavoro tra istituzionale e tecnico che trova spazio anche all’interno della composizione del gruppo di coordinamento dell’Ufficio di Piano, mentre in Alta Valdelsa prende forma una importante collaborazione tra istituzionale e sociale che rappresenta la base del lavoro che ha portato di recente all’elaborazione della nuova forma associata di gestione (nella quale si prevede il ritiro delle deleghe all’Asl).

Il secondo caso si può collegare alla costruzione di lenti sulla base delle sole linee e indicazioni regionali. E qui potremmo riprendere la questione del significato originariamente attribuito all’organismo tecnico operante in alcune regioni, vale a dire quello della Segreteria tecnica con la quale si tende ad

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indicare più un organismo operante a diretto supporto del livello politico che un soggetto orientato a promuovere e guidare un lavoro connesso all’attivazione delle forme distrettuali e zonali dei servizi sociali, implicante forme di collaborazione assidua con gli altri professionisti del sociale destinati ad operare su questi livelli. Se applicassimo questa visione monoculare al tipo di lavoro che sta oggi sviluppando la Segreteria tecnica della zona sociale di Ventimiglia saremmo messi completamente fuori strada, dal momento che oggi la sua attività si connette prevalentemente ad una funzione poco segretariale come quella della costruzione del livello dell’integrazione distrettuale della zona, realizzata a partire da un complesso lavoro di coinvolgimento degli operatori sociali dei Comuni attorno all’oggetto ‘costruzione del distretto’ che ha finito recentemente per riscuotere il consenso, e anche una certa collaborazione, da parte della dimensione istituzionale (terza lente).

Il terzo caso è relativo all’utilizzo della sola lente rappresentata dalle collaborazioni prevalenti che si realizzano tra i diversi progettisti della zone, da cui sembra ragionevole tirare la conclusione che una certa alleanza tra Conferenza dei Sindaci e organismi tecnici orienti le zone e i loro Piani ad investire sulle dimensioni interne dell’integrazione, siano queste rappresentate dal settore del Comune (Barletta) o dalla costruzione dell’integrazione tra servizi di diverse amministrazioni comunali (Ventimiglia e Cremona). Ora se, come abbiamo visto più sopra, nell’orientare in quella direzione sia Barletta che Ventimiglia e Cremona deve essere attribuito un ruolo significativo anche a fattori connessi alla conformazione territoriale (prima lente) e alle indicazioni regionali102 (seconda lente), resta il fatto che i casi analizzati ci presentano anche cooperazioni tra istituzionale e tecnico con esiti rivolti all’integrazione esterna, ossia orientati a predisporre e curare un cospicuo lavoro di progettazione con la dimensione sociale della zona. È il caso di Pesaro, dove - come si ricorderà- opera un coordinatore che la Regione Marche (seconda lente) ha voluto libero da incombenze gestionali, ossia naturalmente predisposto a spendersi nella progettazione dei contenuti e dei lineamenti da dare all’ambito, coinvolgendo in questa opera tutti i progettisti della zona.

Questi esempi (che si potrebbero moltiplicare) ci dicono che per acquisire, con una certa aderenza alla situazione, una conoscenza un po’ approfondita sullo stato dell’arte del vasto lavoro connesso alla costruzione delle nuove zone sociali è necessario assumere una lente di lettura più complessa, in grado di far risaltare i vari elementi in gioco. Come abbiamo potuto vedere caso per caso nel Capitolo I e ora in un’ottica più sintetica e di confronto, questi processi sono attraversati da fattori dirimenti di diversa natura, dalla cui particolare combinazione risultano determinate le forme e gli orientamenti delle nuove dimensioni dell’integrazione territoriale dei servizi. Ciò richiede il ricorso a 102 È il caso del ruolo giocato dagli orientamenti della Regione Puglia che distinguono due fasi temporali per il lavoro connesso all’elaborazione dei Piani. Nella prima (terminata nel febbraio 2005) si trattava di mettere a punto soltanto un’analisi dei problemi, la strategia, le priorità e il bilancio economico, mentre soltanto nella seconda si prevedeva la progettazione. Questa distinzione in due fasi può aver favorito a Barletta l’avvio di una concentrazione anche sul funzionamento interno nella prima.

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sguardi e lenti differenti, dall’incrocio delle quali spesso è possibile elaborare una comprensione più profonda delle strade che sono state imboccate e dei risultati che si stanno ottenendo.

Lo schema che abbiamo qui abbozzato come sintesi (un po’ elementare) delle cose sinora messe a fuoco non intende rappresentare un modello conchiuso, ma più semplicemente un primo orientamento utile vuoi ad indirizzare affondi successivi che completino il panorama nazionale avviato con questo primo intervento di ricerca, vuoi per mettere a punto momenti di lavoro e di confronto tra i vari attori coinvolti nella costruzione delle nuove zone sociali, nei quali sia possibile cimentarsi nella costruzione di orientamenti e quadri di riferimento in grado di arricchire quelli che oggi sostengono la loro attività.

Pdz e Zone

Conformazione territoriale dell’Ambito

Produzione regionale

Alleanze e oggetti di lavoro prevalenti

nelle zone

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CAPITOLO III

FOCALIZZAZIONE SUGLI ORGANISMI TECNICI DEI PDZ: FUNZIONI COMPLESSE PER SOGGETTI IN COSTRUZIONE

1. Alla ricerca di alcune funzioni complesse e del loro significato

In questa terza parte proviamo ad operare una focalizzazione sugli organismi tecnici previsti dai Piani di zona in ragione sia del ruolo dirimente che stanno giocando nella costruzione delle Zone e dei loro Piani, sia per il fatto che rispetto ad altri protagonisti si connotano, sia pure talora un po’ faticosamente, sul piano di una certa continuità di lavoro sul tema. Caratteristiche che, vuoi in maniera più intenzionale e formalmente perseguita, vuoi cercando di operare formalizzazioni parziali e aggiustamenti di natura pratica sul filo degli sviluppi del lavoro, concorrono a definire e a differenziare progressivamente questo nuovo soggetto del sociale cui si tende ad affidare una funzione che si racchiude sotto l’espressione sintetica e solo apparentemente autoevidente di ‘regia tecnica’ del Piano di zona. In un certo senso l’obiettivo che ci proponiamo in questo affondo - lungi dal proporre l’ennesimo mansionario completo dei loro compiti- è quello di far emergere e mettere a fuoco le funzioni più complesse che ci sembrano costituire la trama principale di questa regia e che (forse proprio per la loro complessità) tendono a disertare le liste che girano sui loro compiti, rischiando così di rimanere un po’ invisibili, ancorché diffusamente svolte. Le facciamo precedere da quattro puntualizzazioni schematiche.

1.1 Che cosa vuol dire lavorare sul Pdz

La prima osservazione è che per poter mettere in luce questo particolare tipo di funzioni occorre definire di più l’oggetto rispetto al quale vengono messe in campo e cioè il Piano di Zona. Quale significato gli attribuiamo in questo contesto, tra i vari che circolano? Approfondendo cose accennate in vari punti del testo, possiamo dire innanzitutto che sono un po’ insufficienti

- sia una ‘lettura redazionale’ del Piano che tende a ridurlo ad una ‘fotografia’ ordinata e completa delle varie attività del sociale a dimensione sovracomunale, dietro alla quale sta un’idea semplificata dell’integrazione che si opererebbe in virtù di una oculata sommatoria che cerca di evitare duplicazioni e vuoti;

- sia una lettura che tende a farlo coincidere con una progettazione straordinaria nel senso che si sviluppa su un finanziamento aggiuntivo;

- o ancora la prospettiva di un ciclo di lavoro particolare nel quale occorre - a differenza di altri- adottare in maniera più evidente ed ostensibile una particolare metodologia.

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Pensato in ordine a questi significati del Pdz l’Ufficio di piano non sarebbe molto di più di una segreteria redazionale (che pure rientra tra le sue funzioni) o di un gruppo temporaneo di progettazione (o sostenente la progettazione di altri) che si attiva in alcuni momenti, composto di apporti e tempi parziali, gli uni e gli altri reperibili all’interno di ruoli e assetti invariati.

Quando pensiamo al Pdz intendiamo un ciclo di lavoro che tende a configurarsi come la costruzione dei processi portanti della nuova zona sociale. In questo senso il Piano non è tanto la fotografia o il catalogo dell’offerta completa dei servizi del distretto, quanto il campo della sua complessa costruzione che solo in parte può essere rappresentata dal documento che porta il suo nome. Nello stesso tempo, come abbiamo già detto, costruire il Piano non coincide con il solo applicare le indicazioni regionali.

I fattori che entrano in gioco (come abbiamo indicato nel Capitolo II) sono numerosi quanto complessi e la loro interazione non è predefinita: il Pdz è dunque anche il campo di tensione dove i vari attori - e tra questi la dimensione tecnica- cercano di operare di volta in volta composizioni dinamiche sufficientemente condivise. È pertanto rispetto a questa visione non solo più complessa, ma anche più realistica del Pdz che proviamo a operare la focalizzazione sulla sua dimensione tecnica.

1.2 Evidenziare il significato di funzioni complesse e un po’ invisibili

La seconda osservazione è che, come abbiamo anticipato, più che orientarci verso la compilazione di un formulario delle mansioni dell’organismo tecnico del Piano ci sembra ora più importante far emergere una prima serie di funzioni di fondo che, per la loro complessità, sfuggono al tentativo di suddividerle in mansioni semplici, che tende invece a farle evaporare.

Ci rendiamo conto che il mansionario conferisce un senso di concretezza utile in situazioni nuove e perciò un po’ turbolente, ma prima di giungere ad alte formalizzazioni è importante chiarirsi sui significati delle attività principali alle quali si collegano. Questo vale soprattutto in una situazione dove non solo la natura dei soggetti che vi operano, ma anche i punti di riferimento utilizzabili per delinearla, stanno nascendo o comunque non dispongono di quadri consolidati cui potersi attenere. In questi casi sembra più importante cogliere e provare a descrivere, con una certa aderenza a situazioni specifiche capaci di farle risaltare, il senso di alcune funzioni di fondo che la costruzione delle reti sovracomunali dei servizi tende oggi a conferire in via prioritaria ai soggetti che stanno debuttando sul nuovo palcoscenico del sociale.

Come abbiamo avuto modo di appurare, anche il ricorso al dettato di Piani, Linee o Guide prodotti dalle Regioni al riguardo deve essere assunto in un quadro più ampio dove sia possibile cogliere anche l’azione di altri elementi.

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1.3 Un caso, una funzione

Cercando di tenere presente i fattori che intervengono nella costruzione delle zone sociali descritti nel capitolo precedente, procederemo utilizzando alcune delle esperienze analizzate per esplicitare, di volta in volta, le funzioni complesse attorno alle quali i nuovi organismi tecnici si stanno cimentando, valorizzando quella che a nostro avviso sembra meglio prestarsi a questo fine. Trattandosi di una scelta metodologica tesa a far risaltare funzioni diffuse, il profilo dei soggetti operanti nelle diverse situazioni non deve essere circoscritto alla sola funzione che s’intende mettere in luce, ancorché importante.

1.4 L’oscillazione terminologica

Infine una parola sull’utilizzo di un’espressione un po’ generale come organismo tecnico invece di quella più diffusa di Ufficio di piano. Se il motivo immediato è dato dalla pluralità di denominazioni che variano da regione a regione103 (da Gruppo ad Ufficio di piano, da Segreteria tecnica a Coordinatore d’Ambito…) quello più profondo è rappresentato dal fatto che questa interessante oscillazione terminologica segnala in realtà la presenza di significati e prospettive differenti nelle quali sono visti questi soggetti e che ora intendiamo approfondire.

2. Prima funzione. L’altra faccia del Pdz: ripensare l’integrazione che c’è ossia riformulare i lineamenti dell’assetto e dei processi interni del settore servizi sociali

La prima funzione che ci preme evidenziare può essere illustrata valorizzando alcuni tratti dell’organismo tecnico operante nell’esperienza di Barletta. Come si ricorderà, il Piano sociale nasce in seguito al lavoro condotto all’interno del Piano strategico della Città che aveva la funzione di coinvolgere la cittadinanza nell’elaborazione delle linee di fondo delle politiche sociali. Questa prospettiva estroversa viene sviluppata all’interno del primo Pdz con il quale si dà vita ad una complessa attività di analisi ed elaborazione di prospettive sui problemi sociali dell’ambito, articolata su cinque tavoli tematici integrati e su una serie di incontri con le singole organizzazioni sociali del territorio comunale, che in questo caso coincide perfettamente con l’ambito distrettuale. Regista tecnico di questo processo di lavoro è un gruppo di operatori del settore servizi sociali guidato dalla sua nuova dirigente. L’ufficio di Piano, che nasce formalmente a conclusione della prima edizione del Pdz, si colloca dentro il settore servizi sociali e si compone degli operatori che erano stati tra i protagonisti della prima elaborazione del Piano. Dopo una fase dove è accentuata la proiezione verso l’esterno, il lavoro connesso al Pdz si orienta progressivamente anche verso un’attività interna al settore. Tale attività consiste in una complessa riformulazione dei suoi assetti e si sviluppa principalmente su due linee di intervento. La prima è rappresentata dallo sforzo di ripensare la natura di fondo degli uffici cercando di rielaborare una connotazione centrata sull’erogazione

103 Vedi al riguardo Capitolo II, Gli imprinting regionali sul lavoro delle zone, 2.3.

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diretta di prestazioni sociali in termini più orientati ad una visione progettuale del lavoro, in grado di tener presente anche l’operato di altri attori (interni o esterni all’Amministrazione comunale) mentre la seconda è rappresentata dalla costruzione di cooperazioni tra gli uffici rispetto a temi e problemi tra loro collegati. Promotore e conduttore di questo oneroso lavoro è un rinnovato Ufficio di piano che, da luogo che raccoglieva tutti i responsabili degli uffici del settore, ha acquisito oggi una connotazione particolare, essendo guidato dalla dirigente del settore e composto dalla Posizione organizzativa dello stesso, da una coordinatrice, da una sociologa, da un esperto economico-finanziario e da una persona addetta alle attività amministrative.

Ci sembra interessante segnalare questa corrispondenza tra l’individuazione dell’oggetto prevalente di lavoro (in pratica una certa riorganizzazione del settore) e l’evoluzione dell’Ufficio di Piano, che tende a configurarsi come il gruppo principale con il quale il dirigente del settore opera non solo la regia tecnica del Piano, ma anche la riformulazione degli assetti del settore per renderli più funzionali a promuovere l’integrazione con i soggetti esterni all’Amministrazione.

Si tratta di una dimensione lavorativa particolarmente onerosa quanto ineludibile che tende a restare fuori dai mansionari per gli Uffici di Piano e a permanere in una zona di ridotta visibilità, quando invece è proprio a questo livello che si sviluppa un difficile lavoro d’integrazione fatto di scambi e confronti tra prospettive diverse, riformulazioni parziali e negoziazioni possibili tra i gruppi e i responsabili dei vari uffici operanti nel sociale.

Ora se la particolare conformazione territoriale dell’ambito di Barletta (non prospettante il lavoro connesso all’integrazione istituzionale con altri Comuni) può avere giocato un certo ruolo nell’orientare più rapidamente il Pdz a concentrarsi sulle dimensioni tecniche interne all’unico Comune, occorre segnalare che questo risultato rappresenta anche l’esito di una maturazione interna, ossia che non si dà una vera integrazione con la dimensione sociale se quella tecnica non riesce a sviluppare ad un certo grado la propria. Anche la singolare composizione del gruppo operante l’integrazione tecnica del Piano, che ‘deborda’ dallo stretto perimetro dell’Ufficio di Piano per includere la dirigente del settore, ci dice la consapevolezza maturata in ordine alla spinosa attività da sviluppare riguardo alla ‘faccia interna’ del Pdz.

3. Seconda funzione. Costruire l’integrazione che manca ossia cimentarsi nella costruzione dell’ ‘infrastruttura’ della nuova zona sociale

La seconda funzione che intendiamo mettere in luce può essere evidenziata riflettendo sull’attività della Segreteria tecnica della zona sociale di Ventimiglia, il cui senso potrebbe essere ravvisato nello sforzo di elaborare un Piano con un reale concorso delle varie componenti della zona, obiettivo che ha condotto la Segreteria tecnica a cimentarsi in un complesso lavoro volto a costruire quelle ‘infrastrutture sociali’ che ne avrebbero potuto consentire la partecipazione.

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Questo obiettivo deve essere collegato, come abbiamo cercato di illustrare in precedenza,104 alla particolare conformazione del contesto ligure caratterizzato da un’elevata parcellizzazione comunale, spesso con Amministrazioni a dimensione ridottissima che tende a produrre rilevanti disomogeneità nell’offerta di servizi a svantaggio dei Comuni più piccoli. Per ridurre questa frammentazione la Regione era intervenuta a più riprese: dapprima con la costruzione delle zone/ambiti e in seguito, reputando che la sola zona si configurasse come un livello ancora troppo distante dal territorio per operare la sua integrazione, con la delineazione dei distretti ossia delle sottoarticolazioni della zona più vicine ai contesti territoriali. L’idea è quella di un’integrazione dal ‘doppio livello’ cui corrispondono differenti tipologie di servizi (di base ai distretti/complessi alle zone).

In certo senso, il lavoro principale e più complesso della Segreteria tecnica si sviluppa in rapporto a questo disegno regionale. Come per Cremona, l’oggetto prevalente che lentamente prende forma è dunque quello della costruzione -in collaborazione con la Regione Liguria- della ‘zona sociale complessa’ cioè a più livelli, capace di ridurre la frammentazione e la disomogeneità dei servizi. Dopo una prima edizione del Piano realizzata pressoché esclusivamente nell’ottica della sola zona, le edizioni seguenti sono progressivamente orientate a valorizzare l’apporto delle fragili dimensioni istituzionali e professionali distrettuali. La realizzazione di questo obiettivo richiede alla Segreteria tecnica di percorrere un lungo giro a causa del disinteresse e forse dell’avversione della componente politica dei distretti la quale, leggendo l’integrazione delineata dalla Regione nella sola ottica della zona, tende a percepirla come avversa ai Comuni, poiché sottrae loro risorse già scarse per trasferirle in una dimensione distante (appunto la Zona). Viene avviata pertanto una doppia linea di lavoro comune tra Segreteria tecnica ed équipes distrettuali, consistente sia nel costruire e/o omogeneizzare le attività socioassistenziali di base dei distretti, sia nel riformulare i processi di lavoro del Pdz in modo da recepire l’apporto distrettuale. Il risultato è un certo cambiamento delle prospettive sull’integrazione territoriale delle componenti professionali e politiche dei distretti che ha consentito in seguito di arricchire il lavoro sociale anche a livello della zona.

Come si può vedere l’asse principale del lavoro della Segreteria tecnica ruota attorno ad una gravosa attività finalizzata a far maturare nei vari attori locali un’idea più vicina e tangibile dell’integrazione che ha richiesto di spendersi nella costruzione e nel rafforzamento della nuova infrastruttura sociale del distretto. Una funzione complessa portata avanti in un contesto originario caratterizzato da una scarsa collaborazione del livello politico e in assenza di consolidate componenti professionali con le quali allearsi. Tale funzione ha portato la Segreteria tecnica a riformulare o almeno a modificare ‘sul campo’ un certo modo di concepire e di realizzare il proprio ruolo che, in linea con la sua denominazione, tendeva a pensarsi soprattutto in riferimento ai rispettivi organi politici (conferenza di Zona e Conferenza di Distretto) e meno in 104 Vedi Capitolo I, Ventimiglia, 3.3.

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rapporto alla promozione di forme di cooperazione con gli altri livelli professionali. Esaminando il tipo di funzioni prevalentemente svolte in rapporto alla costruzione del Piano e della sua Zona ci domandiamo se, come abbiamo scritto, non sia utile ripensare anche formalmente la sua fisionomia e la sua composizione in modo da adeguarle maggiormente ai lineamenti più propri ad un organismo di regia (tecnica) piuttosto che mantenere quelli attuali più consoni ad una segreteria.

4. Terza funzione. Promuovere e sostenere gruppi di progettazione

Illustriamo la terza funzione a partire dall’esperienza di Lugo (anche se potrebbe essere ben illustrata lavorando su quelle di Cremona, Pesaro, Penisola Sorrentina e Capri). Come abbiamo già segnalato, la storia del Pdz di Lugo si inserisce in una lunga e soddisfacente storia di delega dei servizi sociali all’Ausl e si snoda attraverso due fasi principali che connotano diversamente l’Ufficio di Piano. La prima fase vede una certa funzione attivatrice dell’Ausl che mette a punto un’architettura dei lavori centrata su tre soggetti: il Comitato di distretto, una significativa area per la progettazione nella quale operano sei gruppi e il Gruppo tecnico distrettuale che assume la regia tecnica del Pdz. In questa fase la dimensione tecnica viene svolta dal Gtd con importanti proiezioni nell’Area della progettazione. Se infatti al Gtd –un gruppo raccordato dalla responsabile del servizio sociale dell’Ausl e composto da tecnici dei servizi territoriali dei Comuni, dai coordinatori Ausl e dai referenti locali delle Ipab e del Terzo settore- spettano la cura della redazione del Piano, il monitoraggio e la valutazione del grado di realizzazione degli interventi previsti, occorre tenere presente che i sei gruppi di progettazione integrati -composti cioè da rappresentanti del Distretto Ausl, delle Cooperative sociali, scuole, opere pie… che coinvolgono 140 partecipanti- prevedono per i loro lavori una conduzione stabile facente capo ad un promotore, rappresentato da uno dei sindaci del distretto e ad un coordinatore, in genere un funzionario di un Comune diverso da quello del sindaco-promotore.

Con l’edizione del Pdz 2004 assistiamo all’assunzione di un ruolo più significativo dei Comuni e all’ingresso formale di un Ufficio di piano che, riflettendo questo cambiamento sollecitato dall’Ausl, riformula la natura del Gtd e la presenza dei principali operatori all’interno della dimensione tecnica del Pdz ossia i Comuni e l’Ausl. In particolare viene attivato all’interno dell’ufficio un ‘gruppo di coordinamento’ che - composto dall’assessore alle politiche sociali del Comune capofila e da una coordinatrice tecnica per i Comuni e dalla responsabile del servizio sociale dell’Ausl- depone il profilo esclusivamente tecnico del Gtd per assumere un ruolo di regia intermedio tra la dimensione tecnica e quella politica. In questa nuova fase il nuovo organismo, mentre assume e consolida le precedenti funzioni svolte dal Gtd e dai tecnici che avevano curato il coordinamento dei gruppi integrati di progettazione, promuove e organizza una intensa serie di incontri che seguono in parallelo i lavori che si sviluppano all’interno del Piano. Si tratta di incontri tra i responsabili dei servizi sociali dei Comuni, tra i coordinatori dei gruppi di progettazione, fra gli assessori

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con competenze su temi afferenti o prossimi alle politiche sociali… che hanno sia il significato di approfondire temi trattati all’interno del Piano, sia di fare il punto sulle attività previste dal Piano. Se si esclude quest’ultimo tipo di incontri, si tratta di attività finalizzate a promuovere un diffuso lavoro di consultazione che ha l’obiettivo di rafforzare la progettazione che si sviluppa nel Piano sia aprendola agli apporti di nuovi soggetti, sia ispirando altre istituzioni - come i centri di servizio per il volontariato- a prevedere incentivi e sostegni ai progetti che risultano parte integrante del Pdz.

Sommando l’operato degli organismi tecnici operanti nelle due fasi assistiamo così alla progressiva messa a punto di una funzione completa a sostegno della progettazione sociale integrata: avviata predisponendo una conduzione stabile dei gruppi, si sviluppa con l’attivazione di un lavoro parallelo di consultazione e con la stipulazione di accordi con istituzioni preposte alla promozione della progettazione sociale.

5. Quarta funzione. Concertare l’integrazione progettuale (e avviare l’elaborazione di una cultura per l’operatore sociale d’ambito)

Per mettere a punto la regia tecnica del Pdz l’Ambito territoriale di Pesaro, in linea con le disposizioni regionali, ha realizzato un organismo relativamente complesso facente capo immediatamente non ad un Ufficio o ad una Segreteria ma ad una figura specifica: il Coordinatore d’Ambito, che nell’organigramma del Comune capofila dell’Ambito trova la sua collocazione non all’interno del settore servizi sociali, ma in posizione di staff al Sindaco che è anche il Presidente del Comitato d’Ambito territoriale. Al Coordinatore fanno capo in forma diversa due organismi a valenza tecnica. Ci riferiamo al suo staff (composto di cinque collaboratori: una segretaria di direzione, un operatore sociale esperto, un tecnico informatico, un ricercatore sociale e una operatrice sociale) e all’Ufficio di Piano. Ne risulta una dimensione tecnica piuttosto complessa (Coordinatore d’Ambito+suo staff+Ufficio di piano) che tende un po’ a collocare il Coordinatore in una posizione centrale, intermedia tra la dimensione tecnica e quella politica (Comitato dei Sindaci) dalla quale prende forma una significativa funzione di ‘regista’ tecnico dell’Ambito e del suo Piano.

In virtù di una caratteristica dirimente del Coordinatore legata all’assunzione di un ruolo libero da incombenze gestionali, il complesso organismo tecnico messo in piedi è prevalentemente orientato ad operare nella vasta area della progettazione integrata del Piano nella quale operano 45 gruppi di progetto, 12 gruppi di consultazione e concertazione e 7 gruppi inter-ambiti della provincia. Si tratta di un luogo che rappresenta attualmente il cuore del Pdz di Pesaro, nella organizzazione e cura del quale si sono dovute spendere cospicue risorse (specie in termini di conduzione dei gruppi) reperite in parte all’interno dello staff del Coordinatore e soprattutto all’interno di un folto Ufficio di Piano. L’esigenza di spendere numerose risorse presenti in questo ufficio nell’area della progettazione rappresenta l’occasione per pensare a fondo la sua composizione e la sua natura. Per quanto concerne la prima, questa viene circoscritta ai 10 responsabili dei servizi sociali dei Comuni

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dell’Ambito, al direttore del Distretto sanitario, a due dirigenti del Terzo settore e a due dirigenti scolastici (oltre ovviamente al Coordinatore d’Ambito cui l’Ufficio fa capo) mentre per quanto concerne la sua natura si opta per una valenza concertativa (dove cioè la valenza rappresentativa viene ridotta ma non eliminata) concentrando le sue funzioni sulla elaborazione di ‘preorientamenti progettuali integrati’ che costituiscono lo start-up della progettazione dentro il Pdz e soprattutto sulla integrazione progettuale ossia sulla composizione del Piano da sottoporre al Comitato dei Sindaci, attribuendo così a questo organismo più la natura di un tavolo che quella di un ufficio.

Si tratta di due funzioni tanto complesse quanto nevralgiche. Complesse poiché connesse “all’elaborazione di programmi e piani integrati che si formulano sulla base di orientamenti e di priorità che in certa misura devono essere condivise dai numerosi attori presenti nei gruppi di progettazione. Ci riferiamo all’oneroso lavoro fatto di scambi e negoziazioni con i colleghi e con le altre parti dove si tratta di confrontare obiettivi e progetti specifici (connessi cioè a un particolare territorio comunale) a partire da prospettive operative e culturali differenti. Con l’obiettivo di mettere a punto una progettazione d’ambito nella quale i punti di vista non di rado richiedono di essere riformulati, ricollocati o ritarati all’interno di orientamenti in grado di cogliere esigenze e problematiche più diffuse e condivise. In altri termini la sensazione è che il complesso lavoro di progettazione avviato nell’Ambito trovi qui, a livello dell’integrazione tecnica, il suo vero banco di prova ossia il luogo dove con maggior realismo si sperimentano faticosamente non solo i risultati dell’integrazione ma anche i suoi costi”.105 Nevralgiche perché esercitandosi sul nucleo centrale del Pdz di Pesaro, ossia sull’area della progettazione, finiscono di fatto per selezionare i contenuti principali ed elaborare i processi di lavoro che stanno progressivamente assumendo il ruolo di assi portanti della nuova zona sociale del territorio.

In altri termini, con la funzione connessa all’integrazione progettuale l’organismo tecnico previsto dal Pdz inscrive esplicitamente la propria attività legata al sostegno della progettazione integrata dentro i processi di costruzione dei lineamenti e dell’articolazione della zona sociale.

Come appendice ci preme infine segnalare un’esigenza che sta maturando all’interno dell’Ufficio e potrebbe preludere alla delineazione di una sua nuova funzione. Si connette alla necessità di pensare ad un lavoro di natura elaborativa volto a raccogliere la difficoltà degli operatori ad uscire da un ruolo ancora molto collegato al territorio e all’ente di appartenenza per aprirsi ad una prospettiva maggiormente orientata alla dimensione dell’ambito. Si tratterebbe di una funzione importante che orienterebbe l’Ufficio ad assumere anche una funzione ‘formativa’ per far crescere il nuovo operatore dell’ambito…

105 Vedi Capitolo I, Pesaro, 3.2.3. B.

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6. Quinta funzione. Sperimentare la gestione integrata

L’ultima funzione che occorre mettere in luce è ricavabile dall’esperienza della Penisola Sorrentina e Capri caratterizzata da una gestione completamente sovracomunale dei servizi e degli interventi in conformità all’art. 30 c. 4 del D.lgs. 267/2000. In questo quadro l’Ufficio di Piano - che fa capo ad un coordinatore- assume la connotazione di “ufficio comune”, vale a dire un contenitore a dimensione d’Ambito nel quale i Comuni hanno collocato in toto le loro funzioni sociali.

Ci troviamo così di fronte ad un organismo tecnico con un ruolo non circoscritto alla dimensione progettuale, ma operante a tutto campo sul livello tecnico-gestionale del Pdz come confermano sia la sua composizione che la sua articolazione. Al suo interno operano infatti 23 persone106 che si collocano su uno o più livelli corrispondenti a tre aree funzionali: l’area di coordinamento (2 persone) quella tecnico-amministrativa (3 persone) e quella tecnico-scientifica composta:

- “dai responsabili delle quattro aree tematiche - 1) famiglia, infanzia, adolescenza e giovani, 2) persone anziane, 3) persone diversamente abili, 4) emergenze sociali - e dai responsabili delle aree Uss (Uffici sportelli sociali) Siss (Sistema informativo dei servizi sociali) e valutazione. In totale 10 persone che svolgono funzioni di coordinamento dei servizi erogati e curano in particolar modo l’integrazione con l’Asl, le autonomie scolastiche e le altre agenzie sociali territoriali, e

- dagli 8 assistenti sociali operanti negli Uss dei sette Comuni presenti nell’Ambito “che svolgono funzioni di front-office e di back-office relative al servizio sociale professionale (ivi incluse le attività di segretariato sociale) mentre ai fini della messa a punto del Pdz curano la compilazione di una serie di schede di rilevazione, predisposte dall’Area Siss, relative all’accesso agli Uss e ai servizi dell’Ambito e all’attuazione dei diversi interventi, che rappresentano una delle principali basi per la elaborazione del Report statistico del Pdz”.107

Più che di un ufficio potremmo forse parlare più propriamente di un ‘Servizio di piano’ che orienta e coordina aree ed uffici, gestisce budget e predispone atti di varia natura amministrativa (convenzione, protocolli d’intesa, regolamenti, disciplinari, delibere…).

Per mettere in luce il senso e la funzione di fondo di questo particolare Ufficio/Servizio di piano, è utile istituire un confronto con l’esperienza dell’Alta Valdelsa. Mentre nella zona toscana gli organismi tecnici del Piano sono orientati a operare in una logica di ordinaria amministrazione in attesa di attivare l’ente definitivamente preposto alla gestione associata, nell’Ambito di

106 Alle quali devono essere aggiunti i referenti del Tavolo di Concertazione del Pdz ossia esponenti del Terzo settore eletti dal Tavolo appositamente per questo compito. 107 Capitolo I, Penisola Sorrentina e Capri, 3.4.1.

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Sorrento si decide invece, con una certa sollecitudine,108 di avviare una sperimentazione che va oltre la programmazione comune al fine di far maturare l’esperienza e verificare la reale disponibilità dei diversi attori. Per questo motivo si ricorre ad una forma prêt-à-porter, un’organizzazione gestionale associata leggera come l’“ufficio comune” concepito (almeno inizialmente) come transitorio e come un terreno idoneo per elaborare l’opzione sulla forma gestionale definitiva.109

È chiara ora la funzione principale svolta dall’organismo tecnico nell’ambito territoriale della Penisola Sorrentina e Capri: guidare e attuare la sperimentazione del funzionamento completo (ossia non circoscritto alla sola programmazione) della rete dei servizi della nuova zona sociale finalizzata all’elaborazione della sua forma definitiva.

7. Organismi per la regia tecnica (dove l’accento cade sul sostantivo)

Illustrate le funzioni complesse principali che abbiamo potuto intravedere e ricostruire nell’analisi delle esperienze prese in considerazione, possiamo ora svolgere alcune osservazioni generali.

7.1 Funzioni ubique

Se colleghiamo l’illustrazione delle funzioni ora prospettata con i casi tratteggiati nel Capitolo I, la prima osservazione consiste nel sottolineare la dimensione ubiqua di tutte queste funzioni ossia il fatto che, in geometria variabile e in quote diverse, tutte tendono ad essere assunte dagli organismi tecnici delle zone prese in esame (una prospettiva che in certa misura può valere anche per l’Alta Valdelsa dove, come abbiamo detto, deliberatamente si è optato per attendere l’attivazione del nuovo soggetto gestore).

Tanto per fare qualche esempio, che in chiave diversa riprenderemo più sotto, se la particolare natura dell’ambito distrettuale (di tipo monocomunale) ha portato in tempi assai stretti l’organismo tecnico di Barletta a concentrarsi sul ripensamento degli assetti interni del Comune in chiave d’integrazione, vi sono chiare spie che una prospettiva analoga di lavoro stia prospettandosi anche altrove. È il caso di Pesaro, dove le implicanze organizzative prodotte dall’attivazione dell’ambito sono state registrate dal Comune capofila con la formulazione di un proprio organigramma interno nel quale il coordinatore dell’ambito viene collocato direttamente in staff al Sindaco che è anche il Presidente del Comitato d’Ambito. Una cosa simile avviene a Cremona, dove è pressante l’esigenza di “ripensare alla collocazione dell’Ufficio di Piano” all’interno del quale mal si concilia il suo raggio di azione distrettuale con la sua disposizione dentro il del settore del Comune capofila. Discorso analogo per Sorrento dove un’organizzazione d’ambito per aree funzionali riformula la struttura dei servizi sociali dei singoli Comuni.

108 Probabilmente un po’ orientati anche dal carattere “temporaneo” che, con una certa sottolineatura, la Regione Campania aveva originariamente conferito a questo assetto, segnalato al Capitolo II, Gli imprinting regionali sul lavoro delle zone, 2.2.3.109 Vedi Capitolo II, paragrafo 2.

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La stessa cosa si può dire della seconda funzione connessa alla costruzione dell’infrastruttura della zona: se questa è particolarmente evidente a Ventimiglia con il lavoro di costruzione del livello intermedio del distretto essa è individuabile anche a Cremona con l’attivazione, su un piano organizzativo, dei subambiti che riarticolano il lavoro dell’ambito distrettuale o a Pesaro dove il medesimo obiettivo è perseguito tramite un cospicuo investimento nella progettazione.

Osservazioni analoghe si possono svolgere per le funzioni terza e quarta connesse al sostegno della progettazione da parte di gruppi integrati (Comuni, Asl, Terzo settore…) e dell’integrazione progettuale, svolte con accentuazioni differenti in tutte le esperienze considerate.

In certa misura non si sottrae a questa prospettiva ubiqua neppure la quinta funzione, legata a sperimentazioni complete della nuova rete territoriale dei servizi, ossia non circoscritte alla sola programmazione: se il caso più evidente è costituito da Sorrento, si muovono in questa linea sia Cremona, dove ultimamente l’Ufficio di Piano sta assumendo, dall’Asl, la gestione diretta di servizi a valenza distrettuale, sia Pesaro dove la dimensione tecnica, a seguito di progettazioni condivise, sta incoraggiando i Comuni dell’ambito ad assumere forme conseguenti di cogestione che, se non possono essere ancora annoverate nel quadro della gestione associata, certamente vi preludono.

7.2 Significato comune delle funzioni: costruire la nuova zona sociale, progettando e (talora) gestendo

La seconda osservazione verte sul significato comune che sembra stare al fondo di tutte le funzioni indicate, rappresentato dal fatto che esse collegano direttamente l’attività degli organismi tecnici del Pdz non solo e non tanto ad un complesso lavoro redazionale, quanto direttamente ai processi di costruzione delle infrastrutture delle nuove zone sociali. Dicendo direttamente intendiamo infatti segnalare un’attività cospicua rivolta a progettare e costruire la nuova integrazione territoriale dei servizi, sulla base della quale è stato possibile pervenire progressivamente in questi anni all’elaborazione di autentici Pdz, nel senso cioè che non si dà vero Piano senza Zona, ossia senza un certo concorso della nuova dimensione dell’integrazione territoriale. Diversamente il Pdz rischia di coincidere con la fotografia dell’esistente e non con il campo dove si giocano importanti e gravosi processi di progettazione, attivazione e riformulazione dei servizi nello sforzo di mettere a punto una nuova identità della zona che non può essere pensata alla stregua di una sommatoria delle unità pre-esistenti. Di conseguenza agli Uffici di piano, alle Segreterie tecniche e ai Coordinatori d’ambito è stato richiesto, spesso più nei fatti che nei mandati formali, di elaborare il Piano progettando la Zona, ossia di cimentarsi attorno alla costruzione delle dimensioni strutturali e all’attivazione degli attori dei nuovi contesti territoriali con i quali poter condividere l’elaborazione dei Pdz.

Se si ripercorrono rapidamente i casi analizzati, questa dimensione più costruttiva che redazionale degli organismi tecnici previsti dai Pdz dovrebbe ora

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risaltare con maggior chiarezza. E ciò non soltanto dove l’angolo d’interpretazione e alcune particolari circostanze possono aver favorito la messa in luce di questo aspetto (come Ventimiglia o Sorrento) ma anche in un caso che sembrerebbe fare eccezione come Barletta dove la coincidenza tra Comune e distretto non richiede il lavoro sull’integrazione organizzativa e istituzionale. In realtà anche qui possiamo vedere che il lavoro prevalente dell’organismo tecnico è rappresentato dalla costruzione della nuova zona sociale, soltanto si tratta di una ‘zona interna’ all’unico Comune e il lavoro di costruzione consiste nella riformulazione degli assetti di un suo settore. Cosa questa che non semplifica necessariamente le cose rispetto alle situazioni in cui si tratta di attivare integrazioni tra più Comuni.

La puntualizzazione sulla comune finalizzazione delle funzioni aggiunge qualcosa a quanto detto rispetto alla loro ubiquità: il fatto di essere collegate tra loro. Basti pensare alla seconda funzione relativa all’integrazione tra i Comuni della zona: va’ da sé che un lavoro volto a costruire la rete dei servizi dell’ambito implicherà necessariamente una riformulazione di quella interna ai singoli Comuni. In questo senso il lavoro che in maniera più determinata sta realizzando l’organismo tecnico di Barletta anticipa soltanto un’attività che la Segreteria tecnica di Ventimiglia sta avviando in questi ultimi tempi (essendosi reso necessario anteporre il lavoro sulla costruzione dell’infrastruttura distrettuale). Lo stesso si può dire di Pesaro e di Cremona. Ragionamenti analoghi possono essere fatti per le altre funzioni. In altri termini, l’opera di costruzione delle zone chiede ai suoi progettisti tecnici di mettere in campo in ogni singolo cantiere tutte le funzioni, le quali rivelano così tra loro una solidarietà e una complementarietà che i diversi punti di partenza, risultanti dai fattori indicati nel Capitolo II, combinano di volta in volta secondo forme, dosi e tempi differenti.

Nello schema che segue proviamo a riassumere le cose dette, collocando le cinque funzioni complesse (f) degli organismi tecnici previsti dai Pdz all’interno di un quadrante costruito su quatto tipologie fondamentali, vale a dire quelle della riorganizzazione, dell’attivazione, della progettazione e della gestione.

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fig. 3 - le funzioni complesse degli organismi tecnici dei Pdz

Tali funzioni prendono poi forma all’interno di due diverse prospettive di fondo entro le quali le esperienze analizzate stanno oggi costruendo le rispettive zone sociali, vale a dire quella dove l’accento è posto sulla progettazione e quella dove prevale la sperimentazione di forme di gestione associata.

Si possono collegare principalmente alla prima tipologia le esperienze di Barletta, chiamata a ripensare/riprogettare le prospettive di lavoro degli uffici del settore servizi sociale e le forme della loro nuova integrazione, Lugo, un contesto nel quale, in presenza di una gestione associata delegata all’Asl, si è investito nella costruzione delle condizioni per una progettazione più condivisa e aperta al contributo di molti soggetti del distretto e Pesaro, dove la costruzione dell’ambito passa attraverso un’imponente lavoro di coprogettazione messo a punto in una vasta area del Pdz. Oltre a Sorrento, è invece possibile connettere la prospettiva centrata sulla gestione alle esperienze di Ventimiglia e di Cremona, in questo caso per la progressiva assunzione da parte dell’Ufficio di piano della gestione di servizi prima delegati all’Asl.

In posizione intermedia si può situare Alta Valdelsa a causa di un’attività circoscritta della Segreteria tecnica legata all’attesa della nascita del nuovo soggetto gestore.

f1: riformulare gli assetti interni del

sistema precedente dei servizi

riorganizzare

f2: costruire la nuova infrastruttura della rete dei servizi

f4:guidare l’integrazione progettuale

attivare

gestire

f5: sperimentare la gestione associata

progettare

f3: promuovere e sostenere la progettazione dei gruppi integrati

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7.3 Funzioni di un ruolo di regia

La terza considerazione intende rimarcare il fatto che si tratta di funzioni nelle quali i vari Uffici di piano, Segreterie tecniche, Coordinatori d’Ambito svolgono un significativo ruolo di regia tecnica, espressione quest’ultima dove l’accento deve essere posto sul sostantivo e non sull’aggettivo.

Ciò è evidente in tutti i casi richiamati appena sopra. Una rapida carrellata. Per quanto il loro operato sia concordato e condiviso con altri, a Barletta è il gruppo tecnico del Pdz guidato dalla dirigente che conduce e attua un’opera di riformulazione del settore; a Ventimiglia è la Segreteria tecnica della Zona che gioca un ruolo di primo piano nella costruzione della dimensione distrettuale, in una situazione iniziale che non gode di un convinto sostegno della conferenza dei sindaci; a Lugo è il nucleo di coordinamento dell’Ufficio di Piano, cioè un mixtra dimensione tecnica e istituzionale che attiva una più ampia collaborazione progettuale con il sociale; a Pesaro è l’Ufficio di piano guidato dal Coordinatore d’Ambito che attiva e coordina l’area della coprogettazione ed opera l’integrazione progettuale della zona; a Sorrento è l’Ufficio di piano che, nelle vesti di ufficio comune, guida la sperimentazione relativa alla gestione associata dell’ambito. Se, contestualizzando queste zoommate nei relativi casi illustrati nel Capitolo I, si può vedere come queste funzioni sono, in taluni momenti, svolte in collaborazione con la dimensione istituzionale o con quella sociale,110

non si può non rilevare l’azione permanente di questa regia cui, non di rado, spetta il compito di sollecitare quella, di natura diversa, degli altri attori. D’altronde che le funzioni complesse svolte dagli organismi tecnici s’inscrivano dentro una macrofunzione di regia tecnica lo confermano anche i profili dei loro coordinatori o comunque delle figure cui questi fanno capo: in genere figure apicali o professionisti che vantano esperienze significative in questo settore. E talora anche assessori.

7.4 Un organismo in costruzione (come i Piani e le loro zone)

L’ultima considerazione sugli organismi tecnici dei Pdz verte su una seconda linea del loro lavoro che corre parallelamente a quella finalizzata a costruire le zone e ad elaborare i loro Piani. Ci riferiamo ad un impegnativo e diffuso lavoro volto a riformulare la loro attività e la loro natura in rapporto alle comprensioni che si stanno maturando su questo campo inedito del lavoro sociale. In altre parole si tratta di organismi che, in conformità con i loro oggetti di lavoro (appunto Pdz e zone), sono anch’essi in una fase di (auto)costruzione. Questa caratteristica segna tutte le esperienze prese in esame anche se risalta plasticamente nei casi

- di Barletta, dove da un Ufficio di piano molto rappresentativo si è passati recentemente alla individuazione di un gruppo ristretto che fa capo e opera con la dirigente del settore servizi sociali,

110 Al riguardo vedi al Capitolo II, paragrafo 3, Le interazioni e le alleanze tra la dimensione istituzionale, sociale e tecnica negli Ambiti.

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- di Lugo, in cui da un ampio e composito Gruppo tecnico si è giunti a costituire un Ufficio di Piano che ruota attorno ad un gruppo interno di coordinamento che unisce la dimensione tecnica con quella politica e

- di Pesaro dove, all’interno di una dimensione tecnica composita, l’Ufficio di piano ha ridotto il suo profilo “fortemente rappresentativo” e assunto una funzione maggiormente collegata all’integrazione progettuale, assumendo così più la natura di un tavolo che di un ufficio.

Si tratta di riformulazioni ed evoluzioni che riflettono il procedere (talora faticoso) di una comprensione progressivamente più profonda dei lineamenti del nuovo contesto del sociale e lo sforzo per ridefinire e aggiustare su di essi i processi di lavoro e la natura di organismi talora messi in piedi poco tempo prima. Anche nelle situazioni dove si può contare su un sostegno regionale più cospicuo, non è possibile esimersi da un lavoro che deve tenere presenti fattori e situazioni specifiche, disattendendo le quali si rischia di compromettere la qualità e la tenuta della nuova integrazione del sociale.

In questo senso se la crescita delle zone tende a collegarsi abbastanza strettamente a quella del suo progettista più stabile - ossia i soggetti tecnici che operano a questo livello - pare importante riflettere sulle elaborazioni e i dispositivi che le Province, le Regioni e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali possono ancora mettere in campo rispetto ai nodi diffusi che abbiamo cercato di mettere in luce, partendo eventualmente da confronti su quelli che risultano nevralgici agli occhi dei soggetti che oggi si stanno cimentando nella costruzione delle nuove zone sociali.

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