Stramaglia-Valente, Antologia terenziana...3. Il teatro nuovo 9 4. Padri e figli 14 5. Conclusione...

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ANTONIO STRAMAGLIA – FEDERICA VALENTE ANTOLOGIA TERENZIANA INTRODUZIONE DI MARIO LENTANO Dispensa per il corso di Letteratura latina I e II Laurea triennale in Lettere Università di Cassino e del Lazio Meridionale Anno Accademico 2015/2016

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  • ANTONIO STRAMAGLIA – FEDERICA VALENTE

    ANTOLOGIA TERENZIANA

    INTRODUZIONE DI

    MARIO LENTANO

    Dispensa per il corso di Letteratura latina I e IILaurea triennale in Lettere

    Università di Cassino e del Lazio MeridionaleAnno Accademico 2015/2016

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    Sommario

    INTRODUZIONE (Mario Lentano)

    “Non voglio che succeda come nelle commedie”. Un profilo di Terenzio 5

    1. Una informata ignoranza 5

    2. Un tempo tormentato 6

    3. Il teatro nuovo 9

    4. Padri e figli 14

    5. Conclusione 17

    Cronologia terenziana 19

    ANTOLOGIA TERENZIANA (Antonio Stramaglia – Federica Valente)

    Nota al testo 23

    Andria 267-298 25

    Heautontimorumenos 1-52 43

    Eunuchus 1-45 61

    Eunuchus 643-717 75

    Eunuchus 840-909 95

    Phormio 35-79 121

    Hecyra 198-280 137

    Adelphoe 80-154 161

    GLOSSARIO METRICO-PROSODICO (Federica Valente) 181

    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 185

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    Introduzione

    “Non voglio che succeda come nelle commedie”1. Un profilo di Terenzio

    1. Una informata ignoranza

    Publio Terenzio è senza dubbio l’autore latino dell’età arcaica su cui disponiamo delmaggior numero di informazioni. In primo luogo, possediamo la minuziosa biografia alui dedicata da Svetonio, il dotto poligrafo di età adrianea: noto ai moderni per le sueVite dei dodici Cesari, fu autore anche di uno scritto Sui poeti, in gran parte perduto mapreservato, nel caso di T., dal grammatico Elio Donato, autore nel IV secolo d.C. di unampio commento alle commedie terenziane. Oltre tutto, l’articolata trattazionesvetoniana non si limita a un arido elenco di dati e notizie biografiche, ma rende contoanche del dibattito critico sviluppatosi nei decenni successivi alla morte del comme-diografo su varie questioni, evidentemente già controverse per gli studiosi antichi2. Insecondo luogo, grazie ai manoscritti che tramandano il testo di T. e grazie ancora aDonato, che le recuperava da fonti erudite per noi non precisabili, disponiamo anchedelle cosiddette didascalie di tutte le sei pièces terenziane: una sorta di schede in cui siindicano, per ogni commedia, l’anno in cui fu messa in scena, i magistrati che presiedet-tero alla rappresentazione e la festività che la ospitò, la compagnia teatrale, il modellogreco tenuto presente da T. e persino i responsabili dell’accompagnamento musicale,per noi perduto ma parte integrante di tutte le rappresentazioni teatrali dell’antichità.

    Eppure, nonostante questa ricchezza di informazioni, che non trova paragone connessuno dei letterati più o meno coevi e spesso neppure con autori attivi in epoche piùrecenti, non c’è di fatto nessun dato della biografia terenziana che sia univocamente epacificamente accettato dagli studiosi. Non la data di nascita di T., fissata da Svetonio al185 a.C. (il testo in quel punto è però problematico: vd. più avanti Cronologia terenzia-na) ma apparsa incompatibile con un esordio che sarebbe avvenuto ad appena 19 anni,nel 166, con una commedia già matura; non l’origine servile del commediografo, poichénon è chiaro in quale occasione il futuro poeta sarebbe stato ridotto in schiavitù; nonl’ordine di rappresentazione delle commedie desumibile dalle didascalie, visto adesempio che il prologo della pièce d’esordio, l’Andria, sembra presupporre un autoregià noto al pubblico e discusso dai colleghi; non le circostanze della morte, su cui lostesso Svetonio riporta versioni differenti, ora riconducendola a un naufragio sulla via

    1 Ter. Hec. 866: Placet non fieri hic itidem ut in comoediis (tr. Pepe).2 Per il testo della biografia svetoniana cf. Wessner I, 1-10. Preciso che per tutte le citazioni terenziane hoseguito l’edizione Barsby (Loeb; vd. Nota al testo), con qualche occasionale adattamento dell’interpun-zione.

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    del ritorno da un viaggio in Grecia, ora al dolore per aver perduto i testi di alcune com-medie scritte nel corso del medesimo viaggio. Per non parlare, poi, dei punti controversigià per gli antichi stessi: ad esempio, la precisa identità dei nobiles homines menzionatinei prologhi di alcune commedie, della cui stima T. si onora di godere ma senza faremai il loro nome, inducendo già gli eruditi latini a identificazioni plurime e talvolta spe-ricolate; oppure l’accusa di essere un semplice prestanome dei suoi patroni aristocratici,dalla quale T. è sembrato difendersi troppo blandamente per dissipare ogni dubbio sullafondatezza dell’insinuazione3.

    In questa congerie di ipotesi, incertezze e congetture, due dati emergono con chia-rezza: anzitutto, quella di T. fu una carriera teatrale breve ma accidentata, perché intor-no alla produzione del commediografo si coagularono tensioni e polemiche che attraver-savano in realtà l’intero specchio della cultura romana in quella tormentata prima metàdel II secolo a.C.; in secondo luogo, e più concretamente, chi voglia ricostruire su fon-damenti solidi un profilo, se non biografico, quanto meno intellettuale e letterario di T.farà bene ad attingere alla sua stessa produzione, che per nostra fortuna – e questo è undato mai seriamente revocato in dubbio – è giunta a noi nella sua interezza: sei comme-die, con ogni probabilità andate in scena fra il 166 e il 160 a.C. Non resta dunque cheesplorare, in modo succinto, entrambi questi percorsi.

    2. Un tempo tormentato

    La produzione teatrale di T. si colloca all’incirca al centro di un trentennio tormentato.Ai due estremi di questi tre decenni circa cadono rispettivamente l’episodio dei presuntilibri di Numa, che ebbe luogo nel 181 a.C., e la cacciata della cosiddetta ‘ambasceriadei filosofi’, nel 155; entro questo arco di tempo si situano poi altre vicende significa-tive, come l’espulsione da Roma degli epicurei Alcio e Filisco, nel 173, “per i piaceriche tentavano di introdurre” in città; e quella che colpì indiscriminatamente filosofi e re-tori greci, nel 161, per un provvedimento a noi noto ancora una volta grazie alla voracecuriosità di Svetonio4.

    L’episodio dei libri di Numa era stato generato dal ritrovamento – apparentementecasuale – del presunto sepolcro dell’antico e venerato re di Roma, accanto al quale eravenuta alla luce una seconda arca di pietra contenente un fascio di rotoli di contenutofilosofico. Prontamente acquisiti e ispezionati dai magistrati, quei rotoli avevanorivelato un contenuto “in grado di minacciare i princìpi religiosi”: un paradosso, se si

    3 Un esempio eloquente delle ipotesi – spesso alquanto spericolate – cui può condurre il tentativo di rico-struire la biografia terenziana è offerto da Fanthamb, 196-203. Sulla questione dei nobiles amici protettoridi T. cf. specificamente l’ampio contributo di Umbrico; più di recente Papaioannua, 14-18. Più in genera-le, un’ottima introduzione complessiva a T. è offerta da Kruschwitz; un successivo stato dell’arte della ri-cerca terenziana è in Augoustakis-Traill (concentrato però essenzialmente sulla bibliografia in lingua in-glese); molto utili anche i saggi raccolti nella prima parte di Papaioannub.4 Cf. risp. Athen. 12, 547a (da cui la citazione nel testo) e Aelian. Var. hist. 9, 12 per Alcio e Filisco; Suet.Rhet. 25, 2 per la cacciata di filosofi e retori.

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    pensa che Numa era nella tradizione annalistica il sovrano che aveva istituito i riti e iculti della religione romana. Per questo, il senato aveva disposto l’immediata e spettaco-larizzata distruzione di quei rotoli, avvenuta alla presenza di tutto il popolo e con l’inter-vento dei ‘ministri dei sacrifici’ (victimarii)5. È questo un altro caso in cui la ricchezzadelle fonti, alcune molto vicine ai fatti, non contribuisce a dissipare le ombre sull’epi-sodio: i falsari che avevano allestito i rotoli fatti trovare accanto al sepolcro di Numaavevano inteso forse diffondere una dottrina di tipo pitagorico, quindi fortemente razio-nalizzante, tutelandosi dietro il nome prestigioso dell’antico sovrano ed eludendo lacensura di un’élite dirigente in larga parte ostile a quel tipo di insegnamento6.

    La medesima ostilità è alla base dell’episodio del 155, allorché giunse a Roma daAtene un’ambasceria composta da tre pensatori greci, in rappresentanza di altrettantescuole filosofiche. Fra i prestigiosi dotti spiccava Carneade di Cirene, esponentedell’antica scuola platonica: il suo arrivo in città aveva acceso un’autentica passione frai giovani romani, accorsi in massa ad ascoltare le lezioni o conferenze da lui tenute inattesa che il senato si pronunciasse sulle ragioni, di carattere finanziario, per le qualil’ambasceria era giunta in città. E possiamo immaginare che l’atteggiamento corrosivoo senz’altro scettico tipico di Carneade – ad esempio nei confronti della divinazione, unpilastro del sistema politico-religioso romano – dovette impensierire non poco l’ala piùintransigente dell’aristocrazia senatoria: l’esponente più prestigioso di quest’ala, l’ex-censore Marco Porcio Catone, avrebbe sbottato che, quando Carneade parlava, non siriusciva più a comprendere dove fosse la verità. Di fatto, le richieste della pericolosa de-legazione furono accolte senza neppure discuterle e i suoi componenti vennero fretto-losamente congedati7.

    Insomma, tutta la prima metà del II secolo a.C. fu teatro a Roma di un dibattitoculturale estremamente vivace, che ancora si intravede dai racconti di storici e pensatoripiù tardi e dai resti di una produzione letteraria che fu infinitamente più ampia dei pochifrustuli giunti fino a noi. Sono gli anni in cui la conquista dell’Oriente consente per laprima volta un contatto diretto con la cultura greca: una cultura ricca e antica, intellettu-almente spregiudicata, certo ben più avanzata di quella romana e proprio per questo av-versata da quanti, all’interno dell’élite, temevano che essa potesse costituire una minac-cia per l’etica romana tradizionale e per il sistema politico che su quell’etica si fondava.È dunque nel quadro di questo delicato tornante, e della battaglia che lo segna, che oc-corre inquadrare l’attività di commediografo di T. e, soprattutto, le serrate polemicheche la accompagnarono dal momento stesso del suo esordio sulla scena: polemiche dicui lo stesso T. informa nei prologhi delle sue pièces, che diventano in lui una sorta dispazio extra-testuale da utilizzare per controbattere alle accuse, rintuzzare le critiche,guadagnare alla propria causa il pubblico, giustificare le proprie scelte di poetica.

    5 L’espressione virgolettata si legge in Liv. 40, 29, 11: pleraque dissolvendarum religionum esse.6 Ho discusso l’episodio dei libri di Numa e raccolto la relativa bibliografia in Lentanod, risp. 25-33 e152-153.7 Cf. ancora Lentanod, 31-33. La frase di Catone su Carneade è riportata in Plin. Nat. 7, 112.

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    In apparenza, la polemica si giocava intorno a questioni meramente letterarie: ri-corrente è in particolare l’accusa di praticare la contaminatio, di impiegare cioè più ori-ginali greci che, scorciati e raccordati tra loro, fornivano la base di una singola comme-dia terenziana8. T. dovette combattere con questo rilievo sin dal suo debutto sulla scena,dato che esso viene confutato già nel prologo dell’Andria; l’accusa appare però prete-stuosa, e tale dovette sembrare allo stesso autore antico: egli ha buon gioco nel far no-tare come una prassi analoga fosse stata seguita senza suscitare alcuna riprovazione daautori come Ennio o Nevio, e soprattutto da un modello riconosciuto di scrittura teatralecome Plauto9. La vera posta in gioco dello scontro si intravede piuttosto allorché sco-priamo che T. veniva accusato, come si è già accennato, di essere il semplice presta-nome dei suoi potenti patroni, che sarebbero stati i reali autori delle sue commedie. Inomi di questi personaggi di spicco della scena politico-militare non si lasciano identifi-care con precisione, ma essi appartenevano con ogni probabilità a quell’ala dell’éliteche, a differenza dei ‘catoniani’, vedeva in una generosa iniezione di cultura greca l’oc-casione per svecchiare la tradizione intellettuale romana e per annettere – certo filtran-dolo opportunamente – un patrimonio imponente di pensiero e di riflessione10.

    Quanto quest’ultima accusa fosse fondata è difficile dire: lo stesso T. se ne difendein modo obliquo, senza smentirla esplicitamente e dicendosi anzi onorato di goderedella stima e della fiducia di uomini dei quali l’intera collettività riconosce il prestigio.Il mondo del teatro era considerato infamante per un membro dell’élite, e scrivere per lascena sarebbe apparso disdicevole ancora molto a lungo nella tradizione romana; chedunque l’ex-schiavo T. agisse anche come ‘protesi’ dei suoi referenti politici è tutt’altroche inverosimile: nello stesso modo gli aristocratici si comportavano riguardo alle atti-vità lucrative, anch’esse formalmente interdette ai senatori e da loro praticate tramiteprestanomi compiacenti, spesso coincidenti con i liberti delle grandi famiglie. Ma sequesto è vero, ciò significa che ancora alla metà circa del II secolo a.C. il teatro conti-nua ad essere percepito come una tribuna privilegiata, e insieme una trincea avanzataper combattere una battaglia culturale e coinvolgere in essa un pubblico vasto; e che aquest’uso del teatro – ‘politico’ in senso lato – una parte almeno della classe dirigenteoppose una decisa levata di scudi.

    Sui contenuti di tale battaglia è importante intendersi. Nei decenni precedenti nonera mancato a Roma qualche isolato tentativo di portare direttamente sulla scena la po-lemica politica, sotto il velo sottile dell’allusione ad personam: in questo tentativo si era

    8 Sull’idea di contaminazione e le sue implicazioni culturali resta fondamentale il saggio di Guastella.9 Cf. in particolare Andr. 15-21, ove l’accusa per cui contaminari non decere fabulas è messa in bocca aun generico e derogatorio isti (vv. 15-16). L’ipotesi ritornante secondo cui sarebbe stato il commediogra-fo Cecilio Stazio, attivo fra Plauto e T., a sospendere il ricorso alla contaminazione, ‘disabituando’ così ilpubblico a questa pratica letteraria e suscitando dunque le rimostranze contro la sua ripresa da parte di T.,è così inconsistente da renderne superflua la confutazione (cf. comunque da ultima McElduff, 84): quellasulla contaminazione non è certamente una polemica ‘popolare’, ma interessa l’ambito dei letterati di pro-fessione e peraltro cela tutt’altri intendimenti, con ogni probabilità (vd. appresso nel testo).10 L’accusa si desume in particolare da Heaut. 22-26 e Ad. 15-21. Nella tradizione ulteriore, a noi notasempre grazie alla biografia svetoniana, si aggiungerà anche la malevola insinuazione che T. fosse unasorta di giocattolo sessuale a disposizione dei suoi patroni.

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    illustrato in particolare il campano Gneo Nevio, figura multiforme di drammaturgo epoeta epico, che forse aveva pagato anche un prezzo personali per questo, se la lungadetenzione che le fonti gli accreditano negli ultimi anni della sua vita fu dovuta, come èragionevole pensare, alla “assidua maldicenza” praticata nei confronti dei primores civi-tatis11. Rispetto a questa punta avanzata la stagione plautina aveva rappresentato un de-ciso passo indietro, con l’esplicita dichiarazione da parte del Sarsinate di non voler se-guire la china del suo prestigioso ma controverso predecessore12; e T. si attiene a questaconsegna, o persino la enfatizza, visto che i riferimenti alla realtà coeva di Roma sonoin lui pressoché assenti, e comunque assai meno frequenti che in Plauto. Più che un ri-mando allusivo a questo o quell’esponente dell’élite, a questo o quell’orientamento cul-turale o politico, ciò che veniva in primo piano nelle commedie terenziane era semmaiun’idea di società, prefigurata nelle situazioni e nella stessa atmosfera che ognuna diesse portava in scena13.

    Questo non significa però affatto che quella di T. fosse un’operazione di corto re-spiro: la questione che molte delle sue pièces affrontavano e che tra breve anche noitratteremo in dettaglio, quella cioè della relazione tra padri e figli e della migliore formadi educazione, toccava anzi un ganglio vitale in una società quant’altre mai patriarcalecome quella romana, dove una simile relazione assumeva un rilievo peculiare e centrale.Ripensare quella relazione significava perciò incidere a fondo sul tessuto sociale e sul-l’identità stessa della cultura latina14. Del resto, lo stesso boicottaggio delle commediedi T. che talora i suoi prologhi lasciano intravedere (come quando siamo informati del-l’esibizione di un funambolo o di un gioco di gladiatori organizzati in concomitanza conle rappresentazioni, con prevedibile – ed evidentemente previsto – esodo di pubblicoverso quegli altri più corrivi spettacoli) sono la prova che la posta il gioco era conside-rata importante dai nemici del poeta, o meglio dei suoi patroni15.

    3. Il teatro nuovo

    Prima però di entrare nel merito del progetto sociale e culturale veicolato dal teatro diT., un cenno sostanzioso va dedicato alle importanti novità che quel teatro apporta alivello di struttura della commedia e di organizzazione dell’intreccio. T. fu infatti unosperimentatore, capace di aprire vie nuove pur in un genere, come la commedia di am-biente greco, che sembrava ormai aver raggiunto con Plauto la sua forma canonica e cheanche in seguito, per quel poco che si intuisce dai frammenti superstiti, continuerà un

    11 Di adsidua maledicentia da parte di Nevio parla l’erudito di età antonina Aulo Gellio (3, 3, 15); tra glistudi moderni sulla vicenda dell’incarcerazione del poeta campano, cf. Santalucia.12 Così si può leggere la celebre allusione alla prigionia di Nevio contenuta in Plaut. Mil. 210-212.13 Su questo punto ha insistito, in modo particolare, Cupaiuoloa.14 Rinvio in proposito ai miei studi sulle relazioni genitori-figli in T., raccolti in Lentanoa.15 La notizia si desume dal prologo (alla terza rappresentazione) dell’Hecyra, vv. 33ss.

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    po’ stancamente a battere le vie tracciate dal drammaturgo di Sarsina, quando non ariproporne senz’altro i copioni16.

    La più nota e vistosa fra queste novità terenziane è sicuramente l’abolizione delcosiddetto prologo espositivo, che all’inizio della pièce ha solitamente in Plauto la fun-zione di informare gli spettatori in merito all’antefatto della vicenda e talvolta persino diprefigurare la sua conclusione. In realtà non tutte le commedie plautine contengono unprologo espositivo: a volte forniscono i dati sui personaggi e le loro storie in una delleprime scene, attraverso monologhi o dialoghi tra i protagonisti; di certo però T. genera-lizza la pratica, e soprattutto è il primo – a nostra conoscenza – a consacrare il prologo afini di polemica letteraria e di difesa delle proprie scelte di poetica17.

    Questa innovazione determina una serie di conseguenze che investono più aspettidel lavoro teatrale. Anzitutto T. dovette rimaneggiare in misura significativa, almeno inalcuni casi, i testi greci che sceglieva come propri originali, in modo da dislocare nelcorpo della commedia informazioni che gli originali fornivano nel prologo, anche senaturalmente resta da dimostrare che tale prologo fosse sempre presente nei modelliassunti dal commediografo (ad esempio, un prologo espositivo doveva mancare tantonella Ἀνδρία quanto nella Περινθία di Menandro, fonti dell’Andria terenziana)18. Insecondo luogo, se in Plauto il pubblico è per lo più chiamato a verificare in che modo sigiungerà ad un esito che gli è però già noto in anticipo, in T. è lo stesso punto di arrivo arestare imprecisato, spesso fino all’ultima scena della pièce. In un certo senso, il pubbli-co per la prima volta deve fidarsi del poeta: la cooperazione richiesta allo spettatore è digran lunga maggiore di quella pretesa da Plauto, e questo concorre a spiegare lo scon-certo di una parte almeno del pubblico teatrale rispetto a una simile novità19.

    A questa osservazione sembra legittimo obiettare che la commedia latina è ungenere ad altissimo grado di standardizzazione, in cui le situazioni e i personaggi –ciascuno con la propria caratterizzazione tipologica – tendono a replicarsi da una tramaall’altra; lo spettatore era dunque in grado di supplire le informazioni taciute o fornite inritardo e per gradi dal commediografo attingendo alla propria ‘enciclopedia’, in cui lastruttura di una palliata si presentava definita abbastanza univocamente. Senonché, an-che da questo punto di vista T. è attento a frustrare le attese del suo fruitore, giocandocon le convenzioni della commedia, mostrandone il carattere artificioso e inverosimile,in una raffinata parodia che trapassa costantemente dal livello teatrale a quello meta-teatrale, dall’esplicarsi della vicenda allo sguardo esterno su quell’esplicarsi.

    Esemplificare sarebbe fin troppo facile; per ragioni di brevità, mi limiterò a un paiodi aspetti20. Anzitutto la frustrazione delle aspettative riguarda la caratterizzazione dei

    16 Nelle pagine che seguono riprendo alcune riflessioni già proposte in Lentanoc.17 La questione è ovviamente affrontata in qualsiasi studio su T.; per una nitida sintesi recente cf. Manu-wald, 249ss.18 Secondo il commento di Donato, la prima delle due commedie menandree si apriva con un monologo,la seconda con un dialogo tra il vecchio padre e sua moglie; se ne deduce che in entrambi i casi dovevaessere questa scena iniziale, e non il prologo, a fornire informazioni sull’antefatto della vicenda.19 Sul punto cf. tra l’altro Ricottilli.20 Attingo in parte dal materiale che ho discusso in Lentanob, alla cui bibliografia va aggiunto Knorr.

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    personaggi: allo spettatore dell’Andria, tanto più in quanto commedia d’esordio di T., ilservo Davo doveva apparire come il consueto trickster alla maniera di Plauto, l’archi-tectus doli in grado di pilotare azioni e reazioni dei personaggi attraverso un’abile dis-simulazione della realtà e costruzione di una verità fittizia, sì da indirizzare la vicendaverso la conclusione auspicata dal suo padroncino Panfilo: ed è in effetti in questi termi-ni che ne parla il vecchio Simone, nel dialogo con il liberto Sosia che apre la comme-dia21. In realtà, il seguito della trama mostra un servo impacciato, persino inetto, che piùche pilotare i fatti ne viene costantemente sorpreso e spiazzato, tanto che il bene di Pan-filo appare provocato più dall’inazione di Davo che dal suo operato: da architetto dellatrama il servo si trova così a subirne piuttosto gli effetti, e il suo attivismo rallenta la fe-lice conclusione della vicenda ben più di quanto la propizi22.

    Un discorso analogo si può fare per la cortigiana, altro personaggio ricorrente dellapalliata. Anche in questo caso, non è esatto dire che T. sia l’inventore a Roma della bo-na meretrix: della cortigiana di buon cuore, cioè, solidale e pronta a farsi da parte, cherinuncia al proprio guadagno per il bene del ragazzo amato, esemplarmente rappresenta-ta dalla Bacchide dell’Hecyra. Qualche figura di questo genere c’è già nel teatro plauti-no: in Plauto, però, ad essere raffigurata in termini positivi è per lo più la cortigiana cherisulterà poi essere di nascita libera e dunque in grado di sposare, una volta riconosciutala sua vera identità, il giovane protagonista della vicenda; altrimenti, le professionistedel piacere sono rappresentate pressoché senza eccezioni come donne avide e sfacciate,deliberatamente estranee a ogni coinvolgimento emotivo per chi è loro partner. In T.,invece, proprio Bacchide è una meretrix che tale resterà anche oltre il felice compimen-to della vicenda e che si rivela l’autentica artefice della felicità di Panfilo, indicandoglicome l’anello da lei ricevuto in dono fosse proprio quello che il suo amante aveva strap-pato nel fare violenza a Filùmena, la stessa donna che di lì a poco il giovane sarebbestato costretto a sposare23.

    I servi come Davo e le cortigiane come Bacchide sfidano il sistema di nozioni e diattese del pubblico: e i primi ad esserne sorpresi sono proprio i protagonisti delle vicen-de narrate, ai quali T. presta volentieri i pregiudizi e le aspettative tipiche degli spetta-tori di una palliata, divertendosi a mostrarli disorientati, diffidenti o senz’altro incredulidi fronte a personaggi che smentiscono quei pregiudizi e quelle aspettative. La sorpresadel pubblico viene così portata all’interno della scena, e il fruitore è chiamato alla stessapresa di coscienza a cui sono costretti i protagonisti della pièce.

    Ma il gioco letterario di T. coinvolge, come si diceva, anche le convenzioni dellacommedia24. Ancora una volta l’Andria, pur se dramma d’esordio, dimostra già conchiarezza le intenzioni terenziane. La trama presenta il giovane Panfilo perdutamente

    21 Cf. in particolare vv. 159ss.22 Questo elemento diventa del resto esplicito nell’Hecyra: nel finale lo schiavo Parmenone osserva diaver giovato al padrone più quel giorno, senza rendersene conto (imprudens), di quanto avesse consape-volmente fatto sino ad allora (vv. 879-880).23 La figura della bona meretrix è discussa già nel commento di Donato ed è stata oggetto di numerosicontributi; in tempi recenti cf. Fanthama e Totola.24 Anche qui recupero, rielaborandolo e sviluppandolo ulteriormente, Lentanob.

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    innamorato della cortigiana Glicerio; nella terza scena del primo atto il servo Davo, mo-nologando davanti al pubblico, spiega come i due amanti stiano macchinando un ingan-no per far credere che la ragazza sia in realtà una cittadina ateniese e abbiano elaboratoa tale scopo una storia fittizia, che Davo riassume in questi termini: “Una volta c’era unvecchio che viveva facendo il commerciante; fece naufragio, morendo presso l’isola diAndro. C’era con lui la figlia sua, Glicerio: gettata sulla riva, la bambina fu ritrovata, or-fana, dal padre di Criside”; Criside è la ragazza frequentata da Panfilo e dalla sua briga-ta di amici, ed è presso di lei che il giovane aveva conosciuto Glicerio25. Ora, le parolecon cui Davo descrive la storia che i due amanti hanno inventato coincidono esatta-mente con lo scioglimento della vicenda dell’Andria: scioglimento che ha luogo nel mo-mento in cui giunge ad Atene il vecchio Critone, il quale riferisce appunto che Glicerioè in realtà di nascita libera, figlia di un Ateniese che viaggiava con la figlia e che ungiorno aveva fatto naufragio sull’isola di Andro26. La coincidenza fra le due storie,quella che Davo dice inventata dai due amanti e quella che Critone riporta come reso-conto veritiero di quanto è accaduto, è talmente puntuale da lasciar persino ipotizzareche i versi pronunciati dallo schiavo traducano informazioni che nell’originale grecoerano fornite allo spettatore all’inizio della commedia.

    Il vero punto è però un altro: quella storia è effettivamente molto comune nellepalliate latine, che spesso adottano espedienti narrativi del genere per giustificare lascomparsa di una ragazza e il suo successivo ritrovamento come cortigiana, destinata adessere infine riconosciuta e sposata in giuste nozze. Per un verso, dunque, la conclu-sione dell’Andria terenziana è perfettamente omogenea ai precedenti plautini; per altroverso, di quella conclusione si sottolinea espressamente il carattere convenzionale eirrealistico. Non a caso Davo, dopo aver riferito la storia messa su da Panfilo e Glicerio,la bolla con un perplesso: “A me, se devo dire il mio parere, questa versione sembrainverosimile”, e prima ancora la stronca con un Fabulae! che costituisce un piccolo ca-polavoro di ironia drammatica. Si tratta infatti di un’espressione usata spesso nel signi-ficato di ‘Sciocchezze!’, ma che non poteva non richiamare allo spettatore il senso di fa-bula come pièce teatrale, evocato in questo senso dallo stesso T. già nel terzo versodell’Andria stessa. Dunque l’interiezione di Davo vale, al tempo stesso, ‘Balle!’ e ‘Coseda commedia!’: a tal punto ‘da commedia’, che la trama dell’Andria di T. si concluderàesattamente nel modo giudicato così poco verosimile dallo schiavo di Simone27.

    La presa di distanza di T. dalle convenzioni del teatro comico culmina nell’affer-mazione del giovane Panfilo verso la fine dell’Hecyra, quando il dramma è ormaipervenuto al suo scioglimento: “A me non piace che succeda come nelle commedie,dove tutti sanno tutto di ogni cosa; in questo caso, quelli che è giusto che sappiano, sa-

    25 Andr. 221-223 (tr. Beta, qui e nel seguito).26 Andr. 923ss.27 Andr. 224-225. Il medesimo termine è ripreso dal vecchio Simone alla fine della commedia, per com-mentare le parole con cui Critone rievoca la vera storia della ragazza di Andro (v. 925): Fabulaminceptat, “Cominciano le frottole” – come rende la traduzione citata di Beta –, ma anche “Inizia la com-media”.

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    pranno, gli altri, né sapranno né saranno informati in futuro”28. Un esempio sapiente diteatro nel teatro, e al tempo stesso un raccordo fra i due aspetti considerati in questocapitolo: da un lato si gioca con le inverosimiglianze da commedia e si ribadisce la lorodistanza rispetto alla vita reale (ma la presunta ‘vita reale’ di Panfilo è invece essa stessauna commedia); dall’altro si affronta la ‘distribuzione dell’informazione’ tra i diversipersonaggi, e al tempo stesso tra l’autore e il suo pubblico. Quelle parole di Panfilosembrano davvero una sintesi, paradossale ma efficace, dell’attività di T. come autore diteatro: di un commediografo, cioè, a cui non piaceva che succedesse “come nelle com-medie”.

    Naturalmente, questi aspetti non esauriscono l’intero spettro della creatività e dellosperimentalismo di T.: altri due elementi meritano almeno una rapida menzione. Ilprimo è solo in apparenza un dato ‘tecnico’, attinente al mestiere dell’autore di teatro inquanto poeta: alludo alla drastica riduzione della varietà metrica e soprattutto delle particantate, almeno rispetto all’unico altro autore con cui T. possa essere confrontato, cioèancora una volta Plauto. La scelta denota senz’altro la ricerca di un maggiore ‘realismo’(anche se questa categoria va sempre maneggiata con cura a proposito delle letteratureantiche), con l’attenuazione di quella distanza tra mondo della commedia e mondo realeche invece Plauto aveva in ogni modo enfatizzato. Emerge così in modo più esplicitol’aspirazione di T., e della cultura che in lui si esprime, a proporre modelli non confinatinell’alterità di un mondo dichiaratamente fantastico, ma ‘esportabili’ nella societàromana contemporanea29.

    Il secondo elemento di novità cui si alludeva è la predilezione di T. per la comme-dia stataria – come viene definita già dalla filologia antica – in contrapposizione allamotoria: una commedia in cui sono fortemente compressi i frenetici movimenti deipersonaggi, il piroettante modificarsi di situazioni e rapporti, mentre prevale l’indaginepsicologica, lo scavo nell’interiorità di protagonisti e comprimari e delle loro motiva-zioni, l’introspezione attraverso il monologo30. Questa tendenza culmina nel più pro-fondo tra i drammi terenziani, quell’Hecyra che stentò lungamente, non a caso, a incon-trare il favore del pubblico contemporaneo. Nella commedia si può dire che accade, anziche è già accaduto nell’antefatto della vicenda, un unico e solo evento: la decisione – inapparenza inesplicabile – della novella sposa Filùmena di abbandonare il tetto coniugalee di ritornare presso la propria famiglia di provenienza. L’intera trama si risolve nelmostrare i diversi personaggi alle prese con questo enigma: i loro mutevoli tentativi ditrovarne una giustificazione, il modo in cui l’accaduto altera e complica le loro relazionireciproche, le false piste che ciascuno dei protagonisti (e con essi il pubblico, che nongode di alcuna posizione di superiorità rispetto a quanto si svolge sotto i suoi occhi) im-bocca, nel tentativo di pervenire alla verità. Se volessimo adottare per un istante il lessi-co dell’architettura, potremmo dire che la trama di questo capolavoro terenziano presen-

    28 Hec. 866-868: Placet non fieri hic itidem ut in comoediis / omnia omnes ubi resciscunt. Hic quos parfuerat resciscere, / sciunt; quos non autem aequomst scire, neque resciscent neque scient.29 Su questo punto specifico tutto l’essenziale è già in Haffter, in particolare 41ss.30 La dicitura fabula stataria compare già in Heaut. 36; vd. qui il commento ad loc. per le fonti più tarde.

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    ta una struttura ‘a pianta centrale’: più che procedere in senso lineare – dall’ignoranzaalla conoscenza, come direbbe Aristotele –, l’Hecyra pone al centro un evento e segue,attraverso un progressivo spostamento del punto di vista, il modo in cui con esso si rap-portano le figure che in questo evento sono a vario titolo coinvolte.

    4. Padri e figli

    La riflessione sui rapporti tra padri e figli attraversa l’intera storia culturale e intellet-tuale di Roma e deriva da un’organizzazione familiare priva di riscontri in altre societàantiche. Essa faceva del padre il vertice di un sistema di poteri e prerogative esteso sututti i membri della sua familia, liberi e schiavi, e aveva peculiari ricadute soprattuttonella gestione del patrimonio e più in generale sull’autonomia giuridica dei figli, i qualiin punta di diritto restavano privi di tale autonomia (e dunque alieni iuris) fino al mo-mento in cui fosse rimasto in vita uno dei loro ascendenti in linea agnatizia. Della cen-tralità di una simile relazione gli stessi Romani erano pienamente consapevoli, cosìcome lo erano quegli intellettuali greci, come lo storico di età augustea Dionigi di Ali-carnasso, che compivano la loro ‘osservazione partecipante’ sulla società romana del lo-ro tempo ed erano attenti a illustrarne le caratteristiche distintive, quelle che presumibil-mente avrebbero più colpito i loro lettori ellenofoni31.

    Già in Plauto, del resto, i rapporti tra padri e figli avevano avuto rilevanza centrale,e prima di lui l’avevano avuta in Menandro e certamente anche negli altri drammaturghia lui contemporanei, le cui opere possiamo ricostruire solo indirettamente dalle loro ri-prese romane: la scelta della palliata, sulla scorta della Commedia Nuova greca, di ab-bandonare i temi politici e civili a favore di una decisa torsione verso la dimensione pri-vata e le vicende familiari, implicava del resto una simile conseguenza. Al di là del va-riare delle singole trame, al centro di quelle commedie vi è quasi sempre l’accesso alladonna e quello alla ricchezza: obiettivi, entrambi, rispetto ai quali la figura paterna svol-ge quasi invariabilmente il ruolo dell’antagonista e dell’oppositore32.

    In T. il motivo della relazione padri-figli diventa centrale ed è riproposto pressochéin tutte le commedie, sia pure con un rilievo differenziato da una pièce all’altra. Più vol-te il drammaturgo ricorre allo strumento della doppia coppia, per illustrare più efficace-mente gli esiti di opzioni educative diverse: così è in particolare nell’Heautontimorume-nos, con i due vecchi – Cremete e Menedemo – e i rispettivi figli, e negli Adelphoe, an-ch’essi centrati sulla dialettica fra una coppia di padri alle prese con altrettanti figli. Nonsolo: in entrambe queste commedie – ma anche nell’Andria, e in misura minore nel-l’Hecyra –, agli eventi scenici si accompagna una serie di riflessioni di carattere teorico.La paternità, in altri termini, non è solo agita sulla scena, non determina solo scelte, 31 Cf. in particolare le informazioni e le osservazioni presenti in Ant. Rom. 2, 25, dove Dionigi conducefra l’altro un articolato confronto con quanto avviene nel mondo greco.

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    conflitti, tensioni e ricongiungimenti, ma diventa anche l’oggetto privilegiato di una me-ditazione volta a chiarirne i presupposti pedagogici, a valutarne gli esiti, a rettificarnegli errori; più che un dato preesistente ai fatti, essa appare un processo di continuo ag-giustamento, reso necessario dall’evolversi degli eventi e dal riverbero di quegli eventisui padri che li hanno innescati. Sono padri che spesso devono vedersela con un risulta-to che tradisce o addirittura capovolge le loro aspettative, costringendoli a un dolorosoritorno sui propri passi che può giungere sino a metterne in crisi il ruolo e il senso disé33.

    Se si volesse reperire un dato unificante, in questa lunga riflessione terenziana, lo sipotrebbe identificare nella centralità della comunicazione e dei suoi fallimenti. Giànell’Andria Simone sceglie una forma indiretta per mettere il figlio Panfilo di fronte allesue responsabilità: non lo affronta personalmente, non ne biasima – come avrebbe fattoun padre plautino – la scelta di intrecciare una relazione con la cortigiana Glicerio, maimbastisce un falso matrimonio allo scopo di sondare le reazioni del ragazzo, perpoterlo finalmente inchiodare alle sue responsabilità se dovesse rifiutare di sposarsi. Daoggetto di inganno, come è quasi sempre in Plauto, il padre terenziano si è trasformatoin ingannatore.

    L’Heautontimorumos contiene sin dalla sua mirabile scena d’apertura quello che èstato efficacemente chiamato un elogio dell’indiscrezione: l’invito a rompere, ancheunilateralmente e contro la volontà del proprio interlocutore, il muro di silenzio cheinquina le relazioni umane e le blocca in una sterile impasse34. Di fronte al ‘punitore dise stesso’ Menedemo, che si è imposto una vita di stenti e di fatiche per condannarsi diaver costretto con i suoi rimproveri il figlio a fuggire in Asia, arruolandosi come merce-nario, Cremete giustifica il proprio desiderio di sapere con il celebre verso che è diven-tato la divisa dell’umanesimo di ogni tempo: “Sono un uomo, e dunque sono persuasoche qualsiasi cosa appartenga all’uomo riguardi anche me”35. Quindi spiega a Menede-mo che la crisi della sua relazione con il figlio è nata dalla rigida chiusura nei rispettiviruoli: quello del padre severo, che addita a modello l’esperienza della propria giovi-nezza e non ammette strade alternative o semplicemente divergenti, e quello del figlioincapace di conformarsi a imperativi così esigenti. Tutto ciò accade ubi non vere vivitur,“quando la vita non è autentica”, ammonisce Cremete36: che però nel seguito della com-media, come T. ama fare, appare vittima a sua volta di una comunicazione totalmentedisfunzionale con il figlio, il quale ricorre all’inganno nei suoi confronti come nella piùcorriva tradizione plautina.

    32 Faccio qui riferimento al noto saggio di Bettini sulle ‘strutture semplici della trama’ nella commediaplautina. È vero peraltro che già in Plauto, come è stato da tempo rilevato, quella del pater severus è solouna delle possibili declinazioni della figura paterna: cf. tra gli altri lo studio della Maurice.33 Anche sul tema dei rapporti padri-figli in T. esiste naturalmente una corposa bibliografia; al lettoreinteressato converrà prendere ora le mosse da Packman.34 Alludo all’importante studio di Bettini-Ricottilli.35 Heaut. 77: Homo sum: humani nil a me alienum puto.36 Heaut. 154.

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    È difficile dire, benché molti interpreti moderni ne siano certi, se T. ritenesse diavere una propria ricetta da offrire per sanare le patologie della relazione fra padri e fi-gli. Di certo, con la lucidità che forse gli proveniva dall’essere nato in una cultura di-versa, egli problematizza questo nodo cruciale dell’identità romana, ne propone nuovepossibili declinazioni e una pratica più flessibile: una paternità mite ed empatica,solidale e non aliena dall’indulgenza, che sappia fondare il proprio primato – mai messoin discussione in quanto tale da T. – non tanto sull’astratta invocazione di uno statutogiuridico o di una superiorità ontologica, ma sull’apertura di credito, sulla lungimiranza,sulla ricerca di un terreno possibile d’intesa.

    È però soprattutto nell’ultima commedia, prima che un viaggio in Grecia finito tra-gicamente strappasse per sempre T. alle scene di Roma, che il tema dell’educazione di-venta il motivo strutturante dell’intera pièce, nella quale i due fratelli Demea e Micioneallevano i rispettivi figli secondo modelli e principi contrapposti (e Adelphoe appunto, Ifratelli, è il titolo dell’opera, andata in scena nel 160)37. Forse nessun altro pezzo comequesto dramma terenziano ha diviso gli interpreti moderni: giacché i primi quattro quin-ti della vicenda sembrano premiare il padre indulgente e comprensivo, Micione, a cuifinisce per fare riferimento anche il figlio di Demea; nel finale invece, a sorpresa, aprendere il sopravvento e a riconquistare l’affetto di entrambi i giovani è proprio il piùburbero e rigido dei due vecchi padri. È una conclusione che dovette sconcertare il pub-blico contemporaneo non meno di quanto imbarazzi i commentatori moderni, ancora in-certi sul significato da attribuire all’operazione terenziana: si è supposto che T. abbiavoluto compiacere il misoneismo della parte più conservatrice del suo pubblico, facendoalla fine prevalere un personaggio più vicino al modello tradizionale del pater severus;che il finale sia da interpretare in senso puramente farsesco, e non intacchi quindi ilprimato di Micione e la preferenza del commediografo per il suo metodo educativo; cheinvece T. intendesse farsi promotore di una qualche terza via intermedia fra i presuntieccessi di Demea o di Micione; infine, più banalmente, si è postulato un vizio dramma-turgico di T., un difetto di mestiere che avrebbe alterato, intorbidandolo, un finale cheinvece nell’originale menandreo si presume – con tipica petizione di principio – piena-mente trasparente38.

    In realtà, è difficile immaginare che un commediografo al vertice della sua maturitàartistica e ormai attivo da anni sulle scene di Roma non sapesse cosa stava facendo: inaltri termini, è ragionevole pensare che quella conclusione, pur così perturbante, fossepienamente intenzionale, e che in ultima istanza T. intendesse suggerire proprio l’ideadella relatività di tutte le posizioni e di ogni punto di vista, anche di quelli che sembranoa lungo vincenti e si presentano sotto la veste scintillante della novità e della ‘moder-nità’. Così facendo, forse T. andava persino oltre le posizioni e le intenzioni dei suoipotenti patroni, inoculando nel pubblico più avvertito – quello che aveva seguito fin dal- 37 I figli sono in realtà entrambi nati da Demea, ma Micione ha preso in adozione uno dei due fin da bam-bino, come è chiarito ai vv. 46-49.

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    l’inizio il suo percorso drammaturgico – un germe di relativismo che rischiava ora di ri-torcersi contro la stessa battaglia culturale che quei patroni avevano inteso combattereper suo tramite. Ed è perfino possibile che la decisione di imbarcarsi per la Grecia, allapresunta ricerca di nuovi copioni teatrali che in realtà è difficile pensare mancassero aRoma, fosse stata assunta da T. anche in seguito a un incrinarsi dei rapporti con il suoambiente: un ambiente che peraltro non lo rimpiazzò, e che nei decenni successivi pre-ferì condurre con altri mezzi le proprie battaglie.

    5. Conclusione

    Quando T. era scomparso da appena tre o quattro anni, si verificò a Roma il già ricorda-to (§ 2) episodio dell’ambasceria dei filosofi. Come si è accennato, fra i delegati venutida Atene a parlamentare in senato fu soprattutto lo spregiudicato Carneade (di cui inge-nerosamente il don Abbondio manzoniano si sarebbe chiesto: “chi era costui?”) a desta-re scalpore: a quanto pare, in due successive conferenze o audizioni parlò dapprima indifesa della giustizia, per poi demolire ad una ad una, il giorno dopo, le affermazionifatte la volta precedente. A impensierire i benpensanti furono però soprattutto le impli-cazioni politiche del discorso di Carneade, allorché questi lasciò intendere che, se i Ro-mani avessero voluto seguire fino in fondo i dettami della giustizia, avrebbero dovutorestituire ai popoli conquistati le loro terre e tornare al piccolo villaggio di pastori cheerano stati alle loro origini.

    Questo relativismo dei valori e dei punti di vista era merce vecchia di almeno tresecoli nel pensiero greco, ma certo a Roma dovette fare sensazione, determinando l’i-stintiva e immediata levata di scudi della componente più conservatrice del senato: al-larmata, tra l’altro, dal fatto che ad ascoltare avidamente Carneade erano soprattutto igiovani rampolli della Roma bene, membri di una generazione che aveva potuto per laprima volta studiare sulle opere di quello e degli altri maestri della filosofia greca39.

    Non sarà mai possibile dimostrare che tra coloro che corsero ad ascoltare Carneadeci fossero anche alcuni fra gli spettatori dell’ultima commedia dello scomparso T.,andata in scena appena cinque anni prima nella solenne occasione dei funerali di Statoper Lucio Emilio Paolo: il conquistatore della Macedonia, ma anche il proprietario dellaprima, amplissima raccolta libraria che il mondo romano abbia mai conosciuto, da luirazziata nella reggia macedone e messa a disposizione dei propri figli così come deimolti altri – dobbiamo presumere sulla scorta di quanto accadrà nel secolo successivo –

    38 Per il dibattito critico sugli Adelphoe e sul loro controverso finale, assai ampio e tuttora aperto, rinviosenz’altro alla dettagliata rassegna (dal Settecento ad oggi) di Lefèvre, 35-50; e all’efficace messa a puntodi Traill, 326ss.39 Il quadro suggerito da Plutarco, ad esempio, è quello di una sorta di invasamento collettivo che prendesoprattutto i Romani più giovani, e per il quale il biografo greco non esita a impiegare la parola eros:“Corse voce che un Greco assolutamente straordinario [si tratta appunto di Carneade] incantava e conqui-stava ogni cosa e che aveva ispirato ai giovani una passione sfrenata; ed essi, presi dalla smania dellafilosofia, avevano abbandonato gli altri piaceri e gli altri passatempi” (Cat. Mai. 22, 3; tr. Ghilli).

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    che desideravano attingere ai tesori greci di quella collezione. Di certo, chi avevaascoltato con attenzione gli Adelphoe, e ne aveva assimilato la lezione profonda, avràritrovato nelle argomentazioni relativistiche di un Carneade, nel suo modo di giocarecon il pubblico e le sue aspettative, qualcosa che doveva sembrargli molto familiare.

    MARIO LENTANO

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    Cronologia terenziana

    Secondo la biografia antica, risalente al De poetis di Svetonio, Publio T. nacque a Carta-gine (da qui il cognomen ‘Afro’) all’inizio del II secolo a.C.; la data precisa oscilla tra il195/194 e il 185/184, a seconda che nel testo svetoniano si accetti la lezione quintumatque vicesimum oppure quintum atque trigesimum in riferimento all’età in cui il poetasi imbarcò per il viaggio in Grecia che gli fu fatale. Condotto schiavo a Roma in unanno imprecisato dal senatore T. Lucano (altrimenti ignoto), venne liberato in conside-razione della sua cultura e della sua avvenenza e si legò ad esponenti di punta del-l’ambiente aristocratico filellenico, la cui identità non si lascia definire in modo univocoed era oggetto di speculazione già per gli eruditi antichi.

    Stando a un grazioso aneddoto, quando T. presentò la sua prima commedia, l’An-dria (La donna di Andro), i magistrati addetti alle rappresentazioni gli chiesero di sotto-porla a Cecilio Stazio, il maggior drammaturgo della generazione precedente: questidapprima accolse distrattamente il giovane poeta, poi, sempre più affascinato dall’ele-ganza della sua scrittura, lo invitò alla propria tavola, ascoltando fino in fondo la com-media. In realtà Cecilio morì probabilmente nel 168, due anni prima del momento in cuil’Andria andò in scena, e il racconto ha tutta l’aria di essere stato costruito sul modellodella cosiddetta traditio lampadis, la tendenza della tradizione biografica antica a imma-ginare rapporti diretti e quasi una sorta di passaggio delle consegne tra esponenti delmedesimo genere letterario: anche del tragediografo Accio, contemporaneo di T., siraccontava che avesse letto i propri testi d’esordio al più maturo drammaturgo Pacuvio.

    Nella sua breve carriera teatrale T. compose sei commedie, giunte integralmentefino a noi. La cronologia e l’ordine di rappresentazione, desumibili dalle didascalie e inparte da informazioni contenute nei prologhi delle commedie stesse, sono i seguenti:l’Andria andò in scena nel 166 ai Ludi Megalenses, la grande festa di aprile in onoredella dea Cìbele istituita nel 204, e che dal 194 ospitava anche spettacoli teatrali; l’annosuccessivo, nella stessa occasione, ebbe luogo la prima rappresentazione dell’Hecyra(La suocera), che non poté essere condotta a termine; nel 163 e nel 161, ancora nellacornice dei Ludi Megalenses, andarono in scena rispettivamente l’Heautontimorumenos(Il punitore di se stesso) e l’Eunuchus (L’eunuco), la più fortunata fra le commedie te-renziane, che fruttò al suo autore la cifra record di 8.000 sesterzi. Nello stesso 161,questa volta però in occasione dei Ludi Romani – l’antichissima festa di settembre inonore di Giove –, fu rappresentato il Phormio (Formione); infine, l’anno 160 toccò agliAdelphoe (I fratelli) e nuovamente all’Hecyra (che di nuovo non resse la scena), en-trambe nel contesto delle solenni esequie di Lucio Emilio Paolo; l’Hecyra sarebbe poiandata in scena una terza volta ai Ludi Romani dello stesso anno. Gli originali predilettida T. appartenevano per lo più a Menandro, il massimo rappresentante della CommediaNuova greca; Hecyra e Phormio provenivano invece da Apollodoro di Caristo, unminore della prima metà del III secolo a.C., e nel prologo degli Adelphoe T. dichiara diaver attinto una scena da Difilo, anch’egli esponente di punta della Commedia Nuova.

    Nello stesso anno 160 T. si imbarcò alla volta della Grecia per un viaggio che i bio-grafi motivano variamente e da cui non avrebbe più fatto ritorno: la data di morte è fis-sata dunque al 159 a.C. La sua condizione economica e il prestigio raggiunto grazie al-l’attività teatrale non dovevano essere irrilevanti, se davvero lasciò in eredità un poderedi circa 4 ettari lungo la via Appia e se l’unica figlia che gli sopravvisse sposò un cava-liere romano.

    M. L.

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    Antologia terenziana*

    * Nell’ambito di una stretta e costante sinergia, Antonio Stramaglia mantiene la responsabilità ultima perla Nota al testo e per Heaut. 1-52, Eun. 1-45 e 643-717, Phorm. 35-79, Hec. 198-242, Ad. 80-154; Fede-rica Valente quella per Andr. 267-298, Eun. 840-909, Hec. 243-280 (con la premessa al passo).

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    Nota al testo

    Sulle fasi ‘aurorali’ della storia testuale di T. possediamo alcune interessanti testimo-nianze (vd. ora Kruschwitzc). Il testo terenziano come noi lo leggiamo ha però il suo pri-mo fondamento in un manoscritto tardoantico, giustamente famoso: A = Città del Va-ticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, lat. 3226, oggi datato intorno al 500 d.C. e notoanche come ‘codice Bembino’, perché appartenuto alla famiglia Bembo nel Quattro-cento. Questo testimone costituisce un ramo di tradizione a sé, unico anche nell’accuratadisposizione colometrica dei versi. Vi è poi una vulgata di oltre 800 codici, in cui si ri-conoscono due famiglie siglate come γγγγ e δδδδ. Entrambe riproducono, insieme al testo diT., le note che ne attestano la revisione da parte di un certo Calliopio, uno scholastichusignoto ma senz’altro tardoantico; in parecchi testimoni della sola famiglia γγγγ, il testo èaccompagnato da un ciclo di illustrazioni (tratte da un diverso ramo – oggi perduto –della tradizione testuale). Jachmann ricondusse le due famiglie ‘calliopiane’ a un unicoantenato ΣΣΣΣ, e postulò per A e ΣΣΣΣ un archetipo comune, risalente a un’edizione del gram-matico Valerio Probo (I d.C.). Queste ultime ipotesi hanno avuto nel tempo sia fautoriche detrattori, e restano problematiche; l’unitarietà dei codici ‘calliopiani’ è stata invecerevocata in dubbio solo dagli studi recenti di Benjamin Victor, secondo cui γγγγ e δδδδ n o ndiscenderebbero da un medesimo progenitore, e le comunanze tra le due famiglie sareb-bero frutto di contaminazione. Ad A, γγγγ e δδδδ si aggiungono poi tracce di tradizione ‘extra-stemmatica’, non ancora pienamente valorizzate. A fronte di un quadro così ricco e arti-colato (sintesi e dettagli ora in Velaza e Victor), manca un’edizione terenziana realmen-te ‘critica’: è provocatorio, ma non errato, affermare che ancora oggi T. “è autore so-stanzialmente inedito e…, in ogni caso, non [ne] esiste apparato critico attendibile”(Questa, 44). In attesa della nuova edizione Budé di Victor, il testo più attendibile ed e-quilibrato è quello (pur senza apparato) dato da Barsby per la collezione Loeb nel 2001.All’ordine delle commedie accreditato in tale edizione, e al testo ivi stabilito, ci si è quinormalmente attenuti (salvo minimi ritocchi all’interpunzione). Le pochissime diver-genze (in Heaut. 13; Eun. 8; Hec. 223; 261; Ad. 127) sono motivate di volta in volta nelcommento; per il resto, dati gli scopi della presente edizione, si è rinunciato a discuterevarianti e problemi critico-testuali, tranne che per qualche caso di particolare rilievo.

    Per agevolare la scansione e la ‘lettura metrica’, abbiamo seguito Barsby (Loeb)nell’evidenziare sempre la prodelisione già nel testo (es. Heaut. 6: factast = facta est;Eun. 42: aequomst = aequom est; Phorm. 57: tu’s = tu es); inoltre, nei passi antologiz-zati – eccetto, per il momento, Andr. 267-298 e Eun. 840-909 – abbiamo indicato (vd.Glossario per i termini tecnici):1) correptio iambica con un segno di breve (tranne che per i bisillabi ‘quasipirrichi’, os-sia più spesso pirrichi che giambi: bene, ego, mihi…); es. Eun. 8: bonĭs; 21: quod ĭlli;2) iato (normale o prosodico) con un segno di quantità sulla vocale (o dittongo, o vocale+ -m) altrimenti interessata da sinalefe; es. Hec. 258: dĭ ament (si noti che lo iato proso-dico è seguito assai spesso da correptio iambica; es. Ad. 107: tŭ ĭllum, dove la primabreve è tale per iato, la seconda per correptio);3) ‘s caduca’ con parentesi tonde; es. Heaut. 15: dicturu(s) sum;4) sinizesi, quando non ovvia (come per dein, sempre monosillabo in latino), con un ar-chetto soprascritto; es. Ad. 239: Tu ͡os.

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    Andria 267-298

    Cammeo con scena comica dell’Andria: il vecchio padre scopre il figlio ubriaco, sorretto da unservo, in compagnia di un’etera flautista; vorrebbe batterlo col bastone che ha in mano, ma ilservo lo trattiene. Calcedonio su fondo di cornalina; 140-80 a.C. (Genève, Musée d’Art et d’His-toire, inv. 1974/21133)

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    Prima commedia di T., l’Andria sviluppa un tipico intreccio della Commedia Nuova:un giovane vuol sposare la ragazza che ama; ci sono ostacoli, ma l’aiuto dello schiavoe – soprattutto – l’intervento del Caso consentono di superare le difficoltà. Apparente-mente acerba e ‘scontata’, la pièce spicca per singolarità linguistiche e peculiarità va-loriali: i versi che seguono ne sono un vivido esempio. Il giovane Panfilo riferisce al-l’ancella Miside le parole della meretrice Criside che, in punto di morte, lo aveva pre-gato di non abbandonare la sua protetta Glicerio: per lei Criside ha avuto tutte le cureche avrebbe avuto una matrona romana per la propria figlia, e la sua unica preoccu-pazione è il futuro della ragazza. Il discorso è riferito da un uomo, ma appare evidente– anche per chi non sappia che è Criside a parlare – che è una donna ad aver pro-nunciato quelle parole, perché vi si rintracciano caratteristiche tipiche del linguaggiofemminile.

    Gli antichi, in effetti, indicano più volte che le donne si esprimono in modo diversodagli uomini, evidenziando alcune loro caratteristiche: usano un linguaggio più arcaiz-zante e conservatore; parlano troppo, con frequenti giri di parole; adottano espressionidel linguaggio infantile; hanno un eloquio più cauto e pudico; antepongono spessol’emozione al senso della misura. In parte questi sono stereotipi, ma la letteraturadrammatica in generale, e la commedia terenziana in particolare, mostrano che le don-ne avevano effettivamente alcune loro peculiarità nel parlare: giuramenti, esclamazio-ni, formule di cortesia, termini enfatici di cui non facevano uso gli uomini..

    Sul piano dei valori, poi, rispetto alla tradizione comica precedente T. mostra unaspiccata ricerca dell’armonia tra i sessi e una “regressione della misoginia” (de Oli-veira, 71), in favore di una riscoperta nobilitante della donna: “la donna romana sistacca da quella greca, legata alla sola riproduzione biologica, per assumere nuovefunzioni” (Cupaiuoloa, 96). Si comprende così la speciale attenzione del commediogra-fo per la lingua delle donne: cortigiane, nutrici, ancelle vengono cratterizzate – spessoin modo innovativo rispetto ai topoi comici – anche attraverso il modo in cui si espri-mono, nello sforzo costante di rappresentare la loro ‘reale’ maniera di parlare pur neilimiti imposti dalla stilizzazione letteraria. In un passo come il nostro, questo sforzo èfunzionale anche a proporre una più raffinata idea di ‘amore’: le parole di Criside sot-tolineano quale responsabilità comporti per un animo nobile il saper amare (vd. ad280). Questa concezione è abilmente incorniciata da un’attenta scelta stilistica: alladescrizione asindetica e brusca che fa da sfondo alle parole di Criside (284-285; 297-298) si oppone la cura strutturale e sintattica del discorso della meretrice (vd. ad 286-296). Sono certamente idee e tendenze condivise dal gruppo dirigente cui T. è legato, edella cui ideologia si fa portavoce attraverso i modi e le forme della sua attività tea-trale.

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    PAMPHILUS MYSIS

    Pa. Quis hic loquitur? Mysis, salve.

    My. O salve, Pamphile.

    Pa. Quid agit?

    My. Rogas?

    Laborat e dolore atque ex hoc misera sollicitast, diem

    quia olim in hunc sunt constitutae nuptiae. Tum autem hoc timet,

    ne deseras se.

    Pa. Hem! Egone istuc conari queam? 270

    Egon propter me illam decipi miseram sinam,

    quae mihi suom animum atque omnem vitam credidit,

    quam ego animo egregie caram pro uxore habuerim?

    Bene et pudice eius doctum atque eductum sinam

    coactum egestate ingenium immutarier? 275

    Non faciam.

    My. Haud verear si in te solo sit situm;

    sed vim ut queas ferre.

    Pa. Adeon me ignavom putas,

    adeon porro ingratum aut inhumanum aut ferum,

    ut neque me consuetudo neque amor neque pudor

    commoveat neque commoneat ut servem fidem? 280

    My. Unum hoc scio, hanc meritam esse ut memor esses sui.

    Pa. Memor essem? O Mysis, Mysis, etiam nunc mihi

    scripta illa dicta sunt in animo Chrysidis

    de Glycerio. Iam ferme moriens me vocat:

    accessi; vos semotae, nos soli; incipit: 285

    ‘Mi Pamphile, huius formam atque aetatem vides,

    nec clam te est quam illi nunc utraeque inutiles

    et ad pudicitiam et ad rem tutandam sient.

    Quod ego per hanc te dexteram et genium tuom,

    per tuam fidem perque huius solitudinem 290

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    te obtestor ne abs te hanc segreges neu deseras.

    Si te in germani fratris dilexi loco,

    sive haec te solum semper fecit maxumi,

    seu tibi morigera fuit in rebus omnibus,

    te isti virum do, amicum, tutorem, patrem; 295

    bona nostra haec tibi permitto et tuae mando fide’.

    Hanc mi in manum dat; mors continuo ipsam occupat.

    Accepi: acceptam servabo.

    My. Ita spero quidem.

    Metro: 267-269 ottonari giambici; 270-298 senari giambici

    267-270. Quis ~ se: “Panfilo. Chi parla là? Miside, ti saluto. Miside. Oh, salute a tePanfilo. Panfilo. Che fa? Miside. Me lo chiedi? Soffre per le doglie e per giunta, poveri-na, è preoccupata perché per questo giorno, a suo tempo, sono state fissate le nozze. Epoi teme che tu l’abbandoni”. L’adulescens ha fatto un accorato monologo, dibattuto frail rispetto per la volontà del padre Simone, che vuol far sposare al figlio Filùmena, figliadel suo amico Cremete, e il desiderio di sposare Glicerio, sorella di Criside. Al monolo-go ha però assistito, non vista, Miside, ancella di Criside.

    267. Quis hic loquitur?: iunctura frequente nei comici per indicare lo scorgerequalcuno che, non visto da colui il quale ha appena terminato un monologo – credendodi essere solo – , ha sentito le parole da quest’ultimo pronunciate. Cf. Heaut. 517; Plaut.Capt. 133; Pseud. 445. – hĭc: non è pronome dimostrativo, ma avverbio: lett. ‘qui, inquesto luogo’. Di norma l’avverbio ha sillaba lunga, in contrapposizione al dimostrativoche è breve in Plauto e T. (nell’età classica, invece, benché la vocale sia breve, si hasillaba lunga perché in realtà la consonante finale è doppia: hicc); qui, al contrario, i èbreve per correptio iambica: quĭs hīc > quĭs hĭc. Si noti come il proceleusmatico alprimo piede (quĭs hĭc lŏquĭtur) concorra a dare immediatezza alle parole di Panfilo. –Mysis, salve: l’adulescens apostrofa dapprima l’ancella con il proprio nome e poi faseguire la formula di saluto (salve). La posizione iniziale dell’apostrofe a Miside indicalo stupore e la sorpresa di Panfilo nel trovarsi di fronte l’ancella, a cui solo dopo faseguire il saluto. Miside, invece, pur cercando di mostrare un certo stupore (oh: vd.infra), ha già visto l’adulescens e lo apostrofa prima con la formula di saluto, poi con ilsuo nome. Cf. 802: Critone, colto di sorpresa, nel vedere Miside le dice: O Mysis,salve!; Miside invece, che aveva già visto il vecchio, prima gli indirizza il saluto e poi faseguire il nome: Salvos sis, Crito. – O: è interiezione che indica sorpresa, la meraviglianel trovarsi di fronte una persona che non ci si sarebbe mai aspettati; oltre che in latino enelle lingue romanze, figura anche in altri idiomi indoeuropei (ad es. gr. ð ê). Alcuni

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    editori preferiscono la forma oh: in quali contesti fosse usata l’una piuttosto che l’altraforma non è più possibile stabilire, ma secondo plausibili ricostruzioni (Hofmann, 124)nel latino arcaico si dovrebbe avere o unicamente davanti a vocativi, ad accusativi ogenitivi esclamativi, oh in uso assoluto e davanti a proposizioni. L’ancella Miside, conl’uso di tale interiezione, vuole dimostrarsi sorpresa agli occhi di Panfilo, che non sa diessere stato spiato. Si veda anche il v. 318, dove l’adulescens Carino, benché abbia giàvisto Panfilo, finge di sorprendersi alla sua vista dicendo oh salve, Pamphile. – Pam-philĕ: è un esempio di brevis in longo prima del cambio di interlocutore, dovuto alla cd.‘libertà di Jacobsohn’ (vd. Glossario). La libertà di iato e di brevis in longo è general-mente riconosciuta agli elementi che precedono un cambio di interlocutore (vd. Questa,306). – Quid agit?: sc. Glycerium. Panfilo, da adulescens innamorato, non appena vedel’ancella di Criside chiede notizie sull’amata. – Rogas?: è risposta formulare ad unadomanda e indica solitamente una varietà di emozioni: sorpresa, ira, indignazione (cf.Don. Andr. 163; 184; 267). Accanto al verbo semplice rogo, si può trovare l’iterativorogito, usato con lo stesso valore (vd. ad Eun. 897), ma in T. sembra prevalere la formadel verbo semplice (23 esempi di rogas, 13 di rogitas): si noti infatti che nell’Andrial’iterativo rogito compare una sola volta (749), mentre il verbo semplice ben cinquevolte (163; 184; 762; 828; 909). Moricca (43) crede che sia necessario “immaginare divedere Miside comporre il viso in un atteggiamento di tristezza e di dolore mentre ri-sponde all’interrogazione di Panfilo”. In realtà l’ancella sarà sì addolorata per la pa-drona, ma le sue parole, più che a dispiacere, paiono improntate a un misto di ira eindignazione: l’ancella ha appena sentito che Panfilo è incerto sul da farsi – perchécostretto dal padre a sposarsi quello stesso giorno – c’è, quindi, il rischio che abbandonila sua padrona che aspetta un figlio da lui. La serva è, dunque, irritata e non può chemostrarsi indignata per scuotere in qualche modo il giovane. – 268. Laborat e dolore:lett. ‘soffre per il dolore’. Qui il complemento di causa (ē + ablativo, con originaria ideadi provenienza) si riferisce a dolore fisico, quindi ‘doglie’: come infatti ci informa ilservo Davo al v. 216, Glicerio aspetta un bambino da Panfilo e sta per partorire (vv.228-233). Solitamente, peraltro, si adopera il plurale dolores per le ‘doglie del parto’(cf. Ad. 289; 486). – ex hoc ~ diem: alcuni mss. leggono ex hoc… die, quia…, e unaparte degli editori accolgono questo testo collegando die a ex hoc; i restanti mss. recanoinvece diem, da legare a hunc del verso successivo (testo accettato dagli altri editori).Nella prima ipotesi si deve intendere quindi: “è preoccupata, poveretta, per questogiorno, poiché in questo, a suo tempo, sono state fissate le nozze”; la seconda ipotesi –qui seguita nella traduzione – vede hoc prolettico, rispetto alla susseguente proposizionecausale: “è preoccupata, poveretta, per questo, (cioè) perché per questo giorno a suotempo sono state fissate le nozze”. – misera: in T. sono soprattutto – pur se non solo –le donne a usare miser e composti, spesso in espressioni di autocommiserazione(Adams, 73-75; Dutsch, 108-111); vd. già Don. ad Hec. 87: misera è muliebris interpo-sitio. – sollicitast: prodelisione = sollicita est. – 269. olim: “a suo tempo”, cioè “laprima volta”. Simone aveva stabilito la data delle nozze tra Panfilo e Filùmena perquesto giorno (in hunc diem); poi però Cremete, scoperta la relazione tra l’adulescens e

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    Glicerio, decide di annullare il matrimonio. Simone organizza per quello stesso giornodelle finte nozze per mettere alla prova il figlio. Difficilmente si starà ora alludendo aqueste nuove nozze: al v. 300 Panfilo pregherà espressamente Miside di non farne pa-rola a Glicerio. La sofferenza di quest’ultima non è qui dovuta né al matrimonio annul-lato né al nuovo, ma al fatto che sa che prima o poi Panfilo dovrà sposarsi per volere delpadre. Cruciale è proprio olim: a s u o t e m p o sono state fissate le nozze in questogiorno, o r a invece, benché il matrimonio sia momentaneamente annullato, Glicerio sipreoccupa dell’idea del matrimonio in sé. – tum autem: “e poi”. – hoc: prolettico,anticipa la susseguente proposizione ne deseras se. – 270. ne deseras se: proposizionecompletiva retta da un verbum timendi (timet) mediante la congiunzione ne, a introdurrequalcosa che non si desidera e, perciò, si paventa: Glicerio teme appunto che Panfilopossa abbandonarla. Se normalmente si riferisce al soggetto della prop. in cui ricorre,ma nelle prop. subordinate potrebbe riferirsi al soggetto della prop. principale, come nelnostro caso (Allardice, 38): cf. anche Andr. 687 e Heaut. 756.

    270-281. Hem! ~ sui: “Panfilo. Che?! Proprio io potrei tentare una cosa del genere?Proprio io potrei permettere che quella poveretta sia presa in trappola a causa mia, leiche mi affidò il suo cuore e la sua vita, al punto che l’ho considerata come una moglie el’ho avuta cara nei miei sentimenti al di sopra di ogni altra cosa? Potrei permettere che ilsuo animo, formato ed educato rettamente e virtuosamente, possa essere cambiato? Nonlo farò! Miside. Non avrei alcun timore se dipendesse solo da te, ma temo che tu nonpossa resistere alle pressioni. Panfilo. Così vile mi stimi e, inoltre, così ingrato, inuma-no e barbaro che né il rapporto (con Glicerio), né l’amore, né il pudore mi spingano e miinducano a mantenere la parola data? Miside. Io so solo una cosa: Glicerio ha meritatoche tu ti ricordassi di lei”. Miside, con domande e illazioni brevi ma efficaci (ad 276),riesce a colpire nell’animo il ragazzo e portarlo a dichiarare che non lascerà mai Glice-rio. Panfilo infatti, cogliendo le provocazioni dell’ancella (269-270: Tum autem hoc ti-met, / ne deseras se; 276-277 Haud verear si in te solo sit situm; / sed vim ut queas fer-re), dapprima cerca di rispondere a queste accuse (270-275 e 277-280), ma poi rievoca(ad 283ss.) la preghiera di Criside e la promessa da lui fattale di non abbandonare maiGlicerio.

    270. Hem!: interiezione che può esprimere un’ampia gamma di sentimenti; partendodalla base dell’imbarazzo e della sorpresa che blocca, può indicare, nello specifico,meraviglia, sdegno e turbamento. Essa è formata dall’unione della nasale con l’espira-zione, ed è un’imitazione fonetica del “rumore prodotto dall’atto di raschiarsi la gola inun momento di imbarazzo” (Hofmann, 125). È utilizzata soprattutto nella forma piùraffinata di conversazione: non a caso in T. ha una frequenza tre volte maggiore che inPlauto. Spesso la si trova in interrogative introdotte da quid. Nel nostro caso precedeun’interrogativa e ha una funzione di “richiamo di attenzione” (Del Vecchioa, 118),esprimendo la meraviglia mista ad imbarazzo per le parole di Miside: imbarazzatoperché l’ancella ha centrato il problema (egli potrebbe abbandonare Glicerio per sposareFilùmena: timet ne deseras se), Panfilo cerca di smentire questa possibilità. – egone: il

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    pronome di prima persona ha valore enfatico: “proprio io”. È come se Panfilo volessedire a Miside: “come potrei farle una cosa del genere proprio io, che ne sono follementeinnamorato?”. La particella interrogativa enclitica -ne introduce un’interrogativa direttae, di norma, si lega o al verbo della domanda o ad un lessema di rilievo nel contesto: nelnostro caso si appoggia ad ego, pronome messo volutamente in evidenza da T. per lasua funzione centrale nel contesto. Solitamente -ne esprime dubbio assoluto, ma qui –come non di rado – equivale a num (particella interrogativa per la quale ci si aspettarisposta negativa); è come se Panfilo dicesse: “Sarei forse capace proprio io di fare unacosa del genere? Certo che no!”. – istuc: lett. ‘codesta cosa’, forma rafforzata delpronome dimostrativo (istud + -ce). In commedia, in particolare in T., sono preferite leforme rafforzate del dimostrativo rispetto a quelle semplici o per conferire sfumaturanegativa (ad Eun. 883) o per necessità metrica (ad Eun. 868). Nel nostro caso la formaintensiva non è richiesta dal metro – perché si avrebbe una sillaba lunga anche senza laparticella -ce – ma serve a dare sfumatura negativa: Panfilo dice che non farebbe maiuna cosa del genere, cioè un’azione così spregevole come l’abbandonare Glicerio. Sinoti l’uso di iste come “designazione di un elemento strettamente legato all’addresseeanche da un punto di vista psicologico” (Del Vecchiob, 96): Panfilo dichiara: “proprio iopotrei fare questo che tu dici?” (cf. Hec. 272; Ad. 220-221). – 271. Egon: anafora delpronome di prima persona, che assume, come nel verso precedente, valore enfatico:Panfilo continua a dire che non è possibile che p r o p r i o l u i faccia del male alladonna che ama. – queam… sinam: i due congiuntivi esprimono indignazione. Si noticome le due interrogative siano strutturate in modo simile: posizione incipitaria delpronome di prima persona con valore enfatico, e due congiuntivi presenti che esprimonoindignazione. – propter me: “a causa mia”. Non a me (complemento di agente) – sinoti –, perché Panfilo non suppone neppure di poter tradire Glicerio; propter + accu-sativo indica invece una causa esterna: l’adulescens non permetterà che qualcun altro siserva di lui per ingannare la fanciulla. – miseram: anche il suo amato apostrofa Gliceriocon miseram, come aveva fatto l’ancella ad 268. – 272-273. quae… credidit, quam…habuerim: alla proposizione principale (Egon… sinam…?) si legano due proposizionirelative che occupano un verso ciascuna – con allitterazione interstichica, o meglio, po-liptoto – introdotte dal relativo femminile singolare prima al nominativo (272: quae),poi all’accusativo (273: quam), sempre in riferimento a Glicerio. Le due relative presen-tano una differenza nel modo: nella prima c’è l’indicativo (credidit), nella seconda ilcongiuntivo; entrambe, però, esprimono fatti presentati come certi, per cui il congiun-tivo habuerim non si può giustificare con una sfumatura soggettivo-eventuale. Spengelspiega l’aporia ricordando che, nella lingua della commedia, non è raro trovare alternatii due modi, citando passi come Andr. 526; 649; 967; Plaut. Pers. 515; Pseud. 529. Piùprobabile è però che l’uso del congiuntivo non sia qui dovuto ad una semplice alter-nanza di modi. La proposizione quam… habuerim ha una forte sfumatura consecutiva, eproprio tale sfumatura giustifica il congiuntivo habuerim: Panfilo afferma che Gliceriole ha affidato tutta se stessa, c o s ì c h e egli l’ha considerata e trattata come unamoglie. – 272. suom animum: suom = suum; animus è qui da intendersi come ‘cuore’.

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    – credidit: credere transitivo = ‘affidare’; cf. Plin. Nat. 8, 55 videbatur... male credi li-bertas ei. – 273. ego: ancora il pronome di prima persona con valore enfatico adevidenziare la centralità di Panfilo (ad 270). – animo: dativo da legare a caram, que-st’ultimo predicativo in riferimento a Glicerio. Qui animus = ‘animo’, ‘sentimenti’, non‘cuore’ come nel verso precedente. Cf. Heaut. 408 animo exspectatam meo; Eun. 201meo cordi… cariorem; Sall. Iug. 14, 22 frater, animo meo carissume. – egregie: “al disopra di ogni altra cosa”. Quest’uso di egregie a rafforzare un aggettivo è consueto inautori come Ennio, Sallustio, Livio, Tacito e Lucrezio (Bagordo, 60-61). Particolarmen-te affine al dettato terenziano è Apul. Apol. 68, 5 mulier sapiens et egregie pia. – prouxore habuerim: cf. 146, quando Simone dice che Cremete ha deciso di annullare ilmatrimonio perché ha saputo che Pamphilum pro uxore habere hanc peregrinam. Disolito, per un matrimonio legalmente riconosciuto erano necessarie due condizioni: laconvivenza nella stessa casa e la volontà coniugale. Dicendo pro uxore habuerim, Panfi-lo fa capire che nel rapporto con Glicerio è già presente la volontà coniugale: manche-rebbe quindi solo la convivenza nella stessa per addivenire a un vero matrimonio. –274-275. bene ~ immutarier?: anche l’ultima interrogativa presenta il congiuntivo(sinam), che serve a esprimere indignazione (ad 271): come può Panfilo permettere cheGlicerio, educata nella purezza e nella castità, sia costretta dal bisogno a prostituirsi? Sinoti l’ordo verborum: nella parte incipitaria del verso T. vi sono due avverbi (bene etpudice) che mettono in risalto le caratteristiche della ragazza – virtuosa e onesta –; se-gue poi l’iperbato di doctum e eductum, che si riferiscono a ingenium del verso succes-sivo: T. vuole sottolineare che la fanciulla è stata formata ed educata (ad 274) come unanormale ragazza che sia cittadina ateniese. – 274. bene et pudice: et ha valore noncopulativo, ma additivo: la ragazza è stata formata ed educata rettamente, e p e r d ip i ù virtuosamente, cioè Glicerio non è stata educata solamente all’onestà e alla retti-tudine, ma anche ad essere una donna virtuosa con sani principi morali. Cf. Heaut. 226habet bene et pudice eductam, ignara artis meretriciae. – eius: da riferirsi a ingenium.–doctum atque eductum: il primo si riferisce ai buoni insegnamenti ricevuti, il secondo– da educere, qui nel senso di educare – all’educazione in generale; la contiguità se-mantica è enfatizzata dalla prossimità fonica. Cf. Eun. 116 coepit (mater) studioseomnia docere, educare, ita uti si esset filia. – 275. egestate: complemento di causa effi-ciente. Qui egestas = inopia (‘mancanza di mezzi’), come spesso quando il sostantivo èlegato a cogo: cf. Cic. Phil. 2, 62 cogebat egestas; Liv. 39, 54, 5; Lucan. 3, 132; Mart.11, 87, 3. – ingenium… immutarier: si noti l’assonanza in clausola, che sottolinea ilnesso sintattico fra i due termini (cf. Hofmann-Szantyr, 703 = tr. it., 34). – immutarier:forma arcaica dell’infinito passivo = immutari. T. usa entrambe le forme, ma quella ar-caica compare quasi solo in fine di verso o di emistichio nei versi giambici e trocaici,per comodità metrica (cf. qui 164; 225; 509; 510; 572; 699): -ĭēr offre qui il giambonecessario per il quinto piede, impossibile invece con immutari per mancanza di unasillaba. Cosa voglia indicare immutarier lo si capisce da Heaut. 226 (cit. ad 274), e dalladescrizione della meretrice Criside fatta da Simone (cf. Andr. 74ss.). – 276. Haud ve-rear: è sottintesa una proposizione completiva come ne tu illam deseras (“non temerei

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    che tu possa abbandonarla”). Verear è congiuntivo potenziale: Miside non avrebbealcun timore, se dipendesse solo da lei. – si in te solo sit situm: situm esse in + ablativo= ‘dipendere da’; cf. Cic. Fin. 1, 57: est situm in nobis ut obruamus. Si noti l’allitte-razione nella proposizione ipotetica della possibilità: di tre fonemi in sit situm, di due insi sit situm, e del solo fonema /s/ in si solo sit situm. Solitamente le allitterazioni triplicinella seconda metà del verso sono utilizzate per mettere in particolare rilievo la clausola(Hofmann-Szantyr, 703 = tr. it., 34); nel nostro caso T. si serve di questa figura di suonoper evidenziare le parole che devono colpire l’adulescens: Miside non avrebbe timori,se dipendesse solo da Panfilo. Inoltre il protrarsi dell’allitterazione a cavallo del verso(situm / sed) serve a legare al concetto appena espresso il veri timore dell’ancella: chePanfilo decida di sottostare alle decisioni paterne. Miside, con una sorta di captatio be-nevolentiae, si rivolge all’adulescens dicendogli che il problema non è lui, perché sabene che il ragazzo non lascerebbe mai la fanciulla, ma suo padre. L’ancella capisceche, se attaccasse il giovane, non risolverebbe il problema e non raggiungerebbe il suoscopo (265-266 Sed nunc peropust aut hunc cum ipsa aut de illa aliquid me advorsumhunc loqui: / dum dubiost animus, paullo momento huc vel illuc impellitur); furbesca-mente, quindi, adotta la strategia del dialogo pacifico teso a discolpare completamente ilragazzo e vederlo come obbligato a seguire il volere del padre: ma in fondo sa bene chedipende soprattutto da Panfilo l’abbandonare o meno Glicerio. Cf. l’analogo atteggia-mento assunto con il giovane Cherea da Taide in Eun. 840-909: con il dialogo e il ragio-namento la cortigiana riesce a raggiungere il suo obiettivo agendo, come Miside, a fin dibene e non per lucro personale. – 277. Sed ~ ferre: la frase può essere intesa in duemodi: 1) sottintendendo vereor, ricavabile da verear del verso precedente, e presuppo-nendo così la normale costruzione dei verba timendi con ut (o ne non) per indicarequalcosa che si desidera e si teme che non accada; quindi lett. ‘temo che tu non possaresistere alla forza (di tuo padre)’ (ferre + accusativo = ‘resistere a’); 2) intendendo utqueas come ottativo paratattico, quindi “così potessi”. La prima interpretazione parepreferibile: Miside teme che Panfilo non potrà resistere alla forza impositiva del padre.– vim: è volutamente in prolessi per evidenziare la centralità del termine: è a causa della“forza”, dell’imposizione di Simone che Panfilo non potrà fare altro che obbedire alpadre. Come non di rado con fero e composti, vis assume sfumatura di ‘violenza’ (vimadferre alicui o vim inferre alicui), quindi qui equivale a ‘prepotenza’, ‘pressione’. –queas ferre: difficilmente qui Miside vorrà dire a Panfilo che non è in grado di resistereall’imposizione del padre perché non ne è capace; piuttosto, che non può resistergli nonper colpa sua, ma a causa di fattori esterni, come il grande rispetto verso Simone stesso.Su questo concetto, e sull’importanza del rispetto del volere paterno, vd. Cupaiuoloa,141ss. – 277-280. Adeon ~ fidem: la risposta di Panfilo è costruita con grandissimacura: i versi si aprono con l’anafora interstichica di adeon; segue una klimax costituitada un trikolon ascendente di aggettivi, due dei quali in allitterazione difonica ma tutti inomeoteleuto (ingratum… inhumanum… ferum), preannunciati dal precedente ignavum(anch’esso in allitterazione); si noti altresì il polisindeto (aut… aut… neque… neque…neque), con un’ulteriore klimax articolata anch’essa in un trikolon di soggetti astratti

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    (consuetudo… amor… pudor), due dei quali in omeoteleuto; la paronomasia (commo-veat… commoneat); la presenza in clausola nei quattro versi di quattro parole bisilla-biche, di cinque lettere ciascuna, allitteranti tra loro in modo alternato (putas… ferum…pudor… fidem), che scandiscono l’iter del discorso di Panfilo; e infine si notino al v.278 le tre sinalefi in successione, una delle quali coincide con la cesura pentemimere(ingratum aut). Mediante questi artifici viene espressa l’agitazione di Panfilo, con lostile che “s’innalza a un pathos quasi tragico nei momenti di più intensa drammaticità...In Plauto, invece, gli stessi procedimenti retorici hanno normalmente un valore para-tragico” (Traina, 120-121). – 277. adeon… adeon: l’anafora dell’avverbio mette in lucel’apprensione e allo stesso tempo la meraviglia dell’adulescens che, cogliendo laprovocazione dell’ancella, cerca di reagire alle sue parole. Adeon = adeo + ne: in questocaso, a differenza di egone del v. 270, l’enclitica -ne esprime dubbio assoluto perché ilragazzo, dopo la dichiarazione dell’ancella, non ha più idea dell’opinione che possaessersi fatta Miside. – ignavom: = -vum. L’aggettivo significa lett. ‘ignavo’, ‘pigro’, maqui assume una sfumatura più forte: ‘vile’, ‘codardo’. Ignavom risponde a vim queasferre di Miside: di fronte all’insinuazione dell’ancella, Panfilo le chiede se lo consideracosì codardo da non essere capace di ribellarsi all’autorità paterna per amore. – 278.adeon porro: “e inoltre a tal punto”. Porro svolge un ruolo centrale nell’interrogativa:ha la funzione di staccare ignavum, che è la risposta all’accusa di dover sottostare alvolere paterno, dai successivi aggettivi, che si riferiscono invece ad una caratterizza-zione negativa più generale fatta dall’ancella. – ingratum… inhumanum… ferum: iltrikolon ascendente esprime disvalori opposti all’humanitas. La klimax parte dal sem-plice ingratum (‘privo di gratitudine’) per giungere a inhumanum, che nega le caratte-ristiche tipiche dell’umanità civile, e a ferum, cioè alla mancanza di umanità. Nellecommedie di T. sono presenti 20 accumuli di aggettivi: 15 si servono di struttura asin-detica, 3 ricorrono al polisindeto – come nel nostro caso – e i rimanenti due si servonodella congiunzione atque tra gli ultimi due aggettivi (vd. Carderi, 11); l’accumulo appa-re preferibilmente sulla bocca degli adulescentes: 7 volte – compreso il nostro esempio– mentre soltanto 5 sono utilizzati dai senes. – inhumanum: il concetto di humanitas(ad Eun. 880-881) investe un sistema di rapporti più vasti di quelli familiari, giuridici epolitici. Qui Panfilo si sta riferendo al rapporto con l’amata: non è così ‘inumano’, privodi moralità, da non mantenere il patto d’amore fatto con Glicerio, verso la quale si sentem o r a l m e n t e obbligato. – ferum: “inhumanus esclude l’uomo dal consorzio uma-no, ferus lo pone a livello delle bestie selvagge: perciò ferus è più forte di inhumanus,col quale è spesso unito” (Traina, 120). Cf. contrastivamente Cic. S. Rosc. 37: homi-nes… a fera agrestique vita ad hunc humanum cultum civilemque deducere. – 279-280.ut neque ~ commoneat: l’anafora esprime lo sfogo di Panfilo, raggiungendo un pathosquasi tragico con l’innalzamento dello stile. Cf. lo sfogo dello schiavo Geta in Ad. 306-307 Quem neque fides neque iusiurandum neque illum misericordia / repressit nequereflexit neque quod partus instabat prope. L’ut ha valore consecutivo (adeo… ut neque,‘così… che né’), ed è impiegato il congiuntivo presente (commoveat… commoneat)perché la conseguenza espressa sussiste nel presente: è o r a che né l’amore, né la

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    consuetudine, né il pudore potrebbero indurre Panfilo a non mantenere la parola data. –279. me: il pronome in prolessi assume una forte enfasi: come potrebbero la consuetu-do, l’amor e il pudor non commuovere p r o p r i o l u i , che ama fortemente Glice-rio? – consuetudo: ancora una klimax composta da un trikolon, ma questa volta discen-dente: si parte dall’amore per Glicerio per arrivare al pudore, al senso di vergogna chedovrebbe trattenere Panfilo dall’abbandonare l’amata. Consuetudo è lett. ‘abitudine’,‘uso’, detto di cose; ma nel nostro caso è da intendersi come ‘rapporto con una persona’,e denota quindi il rapporto che lega Panfilo e Glicerio: cf. Andr. 110; 439; Phorm. 161;ThlL IV, 560, 70-71. – amor… pudor: l’omeoteleuto sottolinea come il sentimento chePanfilo prova per Glicerio sia caratterizzato, oltre che dall’amore, da quel rispetto perl’amata che porterebbe l’adulescens a provare p u d o r e per un gesto come quello del-l’abbandono. In tale contesto, quindi, amor indica l’attrazione fisica, pudor il “senti-mento che impedisce di compiere un’azione riprovevole anche in assenza di sanzionispecifiche” (Ceccarelli, 104). – 280. commoveat… commoneat: la paronomasia enfa-tizza lo scarto semantico fra i due verbi: commoveant è riferito al cuore (come se fosse“spingano il cuore”), commoneant alla mente (lett. ‘facciano ricordare’). – ut servemfidem: lett. ‘a che io mantenga la parola data’. Qui fides = ‘patto di fedeltà’, ‘parola da-ta’, e la posizione in clausola sottolinea che si tratta di un termine-chiave nella conce-zione terenziana dell’amore: per T. amare qualcuno è serbare fedeltà a un impegno purnon formalmente attestato, è il rispetto di sé e dell’altro, è dono reciproco totale (quaemihi… credidit; cf. quam… habuerim). Panfilo parla di fides perché, come dirà, ha pro-messo alla meretrice Criside che non avrebbe abbandonato Glicerio. – 281. Unum ~sui: alcuni commentatori interpretano la frase come: “Questa merita o r a che tu tiricordi di lei”. Ma il latino presenta due tempi storici – infinito passato e congiuntivoimperfetto – che rendono bene il concetto espresso dall’ancella: la ragazza ha meritatog i à da p r i m a che Panfilo non si dimenticasse di lei, poiché il giovane, accettandole condizioni paterne, l’aveva di fatto già abbandonata. Si noti il gioco allitterante frameritam e memor, e il poliptoto del verbo sum. – memor: l’aggettivo è costruito con ilgenitivo (sui, riflessivo indiretto). Qui è memŏr, mentre Plauto ha sempre memōr.Questi scarti prosodici fra i due commediografi non sono rari – in particolare perlessemi terminanti in -r o -t –, per cui resta incerto se attribuire un’abbreviazione comela nostra a correptio iambica o meno. Cf. 282: memŏr; 83 e 160: habĕt (vd. Questa, 96).

    282-298. Memor ~ quidem: “Panfilo. Che io mi ricordassi? Oh Miside, Miside!Ancora adesso mi sono scritte nel cuor