Antologia RaccontaMatera

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Transcript of Antologia RaccontaMatera

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Racconti

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INDICE

Introduzione

La Fine del Giorno

(Anilda Ibrahimi )

So Tutto

(Marcello Fois)

La Luna e le Malve

(Nadia Terranova)

Tra Adesso e Forse

(Paolo Di Paolo)

La Felicità a Matera

(Antonio Pascale)

Resurrection

(Mariolina Venezia)

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INTRODUZIONE

Quando, nel 2006, è stato pubblicato per Einaudi il mio romanzo Mille anni che sto qui,

ambientato in Basilicata, mi chiedevo come sarebbe stato accolto dagli abitanti della

regione.

Non sempre si ha piacere nel vedersi ritratti, e ci si riconosce nello sguardo dell’altro. Al di

là di ogni mia aspettativa, l’accoglienza è stata entusiastica.

Era come se i lucani aspettassero di essere raccontati, con uno sguardo contemporaneo,

diverso da quello di Levi e del Cristo si è fermato a Eboli, per tanti decenni immagine della

regione nel mondo. I tempi erano maturi.

Presto sono arrivate altre narrazioni, come Basilicata coast to coast, che hanno

drasticamente trasformato la percezione dei luoghi. Sono arrivate nuove avventure,

culminate con l’elezione di Matera a Capitale della Cultura.

La città, in piena trasformazione, e proiettata verso il futuro proprio grazie al recupero del

suo passato, ha oggi più che mai bisogno di narrazioni. Raccontare un luogo, dall’interno e

dall’esterno, contribuisce a creare la sua identità.

Di qui è nata l’idea di invitare cinque scrittori, alcuni italiani, di vari luoghi dell’Italia, una

albanese, in una breve residenza artistica a Matera, per poter raccontare la città.

All’iniziativa ho partecipato anch’io, per uno sguardo più dall’interno. Alla fine della

settimana di soggiorno sono stati prodotti sei racconti da “restituire” agli abitanti di Matera

e a coloro che frequentano la città. I sei racconti di Raccontamatera lasceranno un segno

nel suo immaginario....”

Mariolina Venezia

Direttore Artistico di “RaccontaMatera”

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LA FINE DEL GIORNO - Anilda Ibrahimi

Vivi nella grande casa abbandonata da tutti, Nausicaa mia. Non hai mai

saputo cosa fartene della sua grandezza. A te, poco spazio serviva. Un posto

dove raccogliere le tue stanche ossa alla fine. Un rifugio per l'immobile canto

dei tuoi dipinti di pietra.

E invece ti sei consumata poco a poco rintanata nelle sgombre stanze.

Guardando il mondo dalle tue finestre, le stesse cose Nausicaa, hai rimirato

giorno dopo giorno finché non arrivava la fine. Quando lo scirocco impazzava

nelle Murge come un rasoio affilato e le tempeste piovevano limpidi uccelli

morti sul Bradano.

Triste Nausica, armata di carni e di luci, bagnata dai raggi che

illuminano i sassi. Leggiadra ti fermi davanti ai grandi armadi dal legno opaco,

oh, Nausicaa, una volta erano lucidi, ricordi? Tu, con le tue mani giorno dopo

giorno hai tolto quell’ingannevole involucro che li avvolgeva. Non amavi i

colori, il loro uso sembrava aggravare il peso del mondo. A te piaceva il

bianco e le trasparenze dove si muoveva il tuo esile corpo.

Qui non c'è posto per i colori, dicevi sempre. Questo luogo non

permette sbavature.

Tacciono le rose rosse del tuo giardino. L’unico colore che hai tollerato.

A volte le portavi dentro casa. Tagliavi con cura le spine dai gambi e le

mettevi nel vaso bianco sul tuo comodino. Cantano all’amore stasera, ti dicevi

mentre dissolvevano il rosso dei petali, sognavi abbracci, teneri come l'erba,

bagnati di luna e pioggia.

Invece sei rimasta sola.

Il tuo bel brigante è solo un'ombra che si allontana nella notte mentre la

“tramnden” attraversa la Gravina.

Come riempire lo spazio?

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A volte bussano alla tua porta. Ti copri con un lungo velo fino alla punta

dei piedi. Apri la porta al garzone del pane. Lui barcolla ubriaco della tua

bellezza. Ha sempre spaventato questa, tua madre, le tue cugine, le donne

del paese. Si è sazi delle piogge, ma la bellezza non sazia, tutti ti avrebbero

guardata. Nessuno ti ha chiesta in moglie.

Il garzone ti allunga una pagnotta. Chissà il timbro di chi porta. Non te

lo chiedi più. Non vogliono che patisca la fame. Del resto, cosa prenderà la

morte quando giungerà?

Chiudi la porta al garzone e accogli l’aridità dell’aria con noncuranza,

aspettando la grande notte dove il tempo sarà immobile. Fusa con la terra

vivrai una nuova giovinezza, sentirai suonare le campane e vagherai per

sempre cercando il tuo bel brigante spogliata fino all'osso dal desiderio.

All’imbrunire accendi i ceri dentro le candeliere appese al muro. La luce

forte ti disturba, le altre presenze nella grande casa non gradiscono.

Finisce mai la condanna per chi rimane? Pensi mentre giri nella grande

casa. Avresti potuto andare. Liberare la tua follia in altri abissi, in terre di

nessuno. Portare il peso inerme dei tuoi Sassi all’orizzonte e spargere tutto

sul volo degli uccelli. Sulle loro ali incurvate e gli occhi scavati. Sui becchi

con i quali avrebbero bussato sulle finestre delle città vecchie e stanche

coperte dalla polvere.

E invece sei rimasta, Nausicaa dagli occhi chiari, affamati si muovono

in cerca di quello che sempre manca. Chiami il tuo nome in mezzo alle

statue che ti tengono compagnia. La tua voce echeggia sui comignoli della

città. Bianche colombe sospese nel vento.

Vorresti correre fuori e salire in quel groviglio di tetti, libera, scalza,

come avevi visto fare altri bambini. Tua madre non te lo lasciava fare, ora che

non c'è più potresti, Nausicaa. Tante cose potresti fare ora.

Ma il corpo non ti obbedisce. Cerca disperato gli arti scomposti nel letto.

I nodi delle mani, dei piedi, dove sono finiti? Come tradisce il corpo, il nostro

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corpo, Nausicaa. Grande tradimento questo, non è il più grande di tutti? Che

sarà mai il tradimento dell'uomo o della donna amata, il suo odore nel letto

altrui, il corpo raccolto come un pugno chiuso.

Inganna la sorte, Nausicaa dalle braccia bianche. Ognuno sotto la sua

stella, la tua non è stata buona con te.

Dopo, ti avevano detto di lasciare la casa, troppo grande per te.

Scuotevi la testa e non rispondevi mai. Come si fa a lasciare una casa? Cosa

prendi, cosa lasci?

Dove rimangono i ricordi? Come si fa a catturali? Chi giace sotto una

finestra, chi si nasconde dentro l’armadio opaco del corridoio, chi sul mosaico

della cucina e chi nei capelli mielati del dipinto all’ingresso. Ci si perde in una

vasta dissolvenza, senza speranza.

Hai sperato invece, che lui tornasse.

Tornerà, ti ripetevi mentre seppellivi i tuoi morti. Confusa dal dolore

rivivi quel momento all'infinito. La torcia illuminava i loro volti senza vita e tu

sei uscita dal tuo nascondiglio.

Ti sei messa accanto a tua madre aspettando la fine. Lui, si è chinato e

ti ha preso per il braccio. Non hai avuto tempo di guardarlo bene, dalla porta

giungevano voci e passi. Nasconditi, ti ha detto. Hai visto il tremore che

percorreva il suo corpo. Aveva freddo? Ti ha spinto dentro l'armadio. Aspetta,

hai detto tu. Lui si è girato e ha visto qualcosa nelle tue mani. Tiene caldo, hai

detto. Ti piace pensarlo mentre galoppa verso l'orizzonte mischiato ai colori

del giorno nascente e con il maglione che tua madre aveva fatto per te.

Ricordi tua madre, Nausicaa?

Ha il colore del cielo, aveva detto la donna. Mentre lavorava ai ferri.

Esistono cieli finti ? Avevi risposto tu. Il filo di lana passava velocemente dalle

sue mani e il gomitolo per terra, diminuiva in fretta. Quel maglione, non l’avevi

mai messo. Rimasto a lungo dentro l'armadio, ha trovato il modo per venire

fuori dalla sua prigionia, in quella lunga notte.

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Dopo, sei tornata ad occuparti dei tuoi morti.

E dopo ancora hai continuato a vivere come se nulla fosse cambiato.

Apparecchiavi per la tua famiglia. Il rumore delle stoviglie attraversava i vetri

per arrivare fino alla strada. I pochi passanti alzavano la testa e poi

proseguivano verso il buio con quel triste sorriso di tutti i solitari del mondo.

E tu Nausica, avresti voluto correre per strada e portarli su, attorno alla

grande tavola in sala. Guardavi oltre il vetro e contavi i comignoli senza fumo

delle case in città.

Pensavi al mondo oltre i Sassi. Sei rimasta, qui. La solitudine si è

attaccata alla tua pelle come una malattia. Ci vuole pazienza Nausicaa, le

malattie del mondo nei volti di quelli che tanto abbiamo amato. Ti alzi già

stanca, al mattino... Attendi la visita del passero che si ferma per le briciole

quotidiane.

Ti specchi e conti con calma gli anni rifugiati nelle pieghe della pelle. Le

spalle ossute sono incurvate dal peso che hai dovuto tenere. I lunghi capelli

d’argento ti arrivano fino ai piedi come un velo grigio.

Nulla copre la tua bellezza. La vecchiaia, il decadimento delle carni e

della pelle, il dolore delle ossa che sfregano in silenzio. Sei ancora bella,

Nausicaa. Trasparente, inafferrabile custodisci nel tuo petto i singhiozzi delle

lune piene. La disperazione dei sassi che non mutano in nulla ma indifferenti

obbediscono al silenzio.

Sei ancora qui, Nausicaa. Nella tua grande casa. Nella terra dei tuoi

morti che non hai voluto abbandonare. Quando le luci si spegneranno

continuerai a camminare leggera, dipingendo di bianco i resti della notte.

Tutto viaggia, ciò che viene oscurato dal tramonto albeggia altrove con

il brusio del mare. Con ogni fiume che segue il suo letto placando l’ansia del

contadino in aride terre. Con il cielo che si versa sulla terra alleviando la

solitudine dell’erba. E con le foglie degli alberi portati dal vento che si

poggiano sui Sassi insegnandoci ad accogliere la fine, la fine del giorno.

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SO TUTTO – Marcello Fois

Matera 1882, Ottobre.

– Posso restare? Vizziello Mario. Io ascolto e basta…

…Certo, a Mario piace ascoltare.

In paese dicono che è ricco, ma non porta le scarpe esattamente come

quelli di cui dicono che sono poveri. E’ ricco perché suo padre è ancora vivo;

la guerra, le malattie, non se lo sono preso e adesso fa il bracciante da

qualche signore locale e può garantire la sopravvivenza alla sua famiglia,

Mario compreso.

Ecco, Mario, nei suoi dodici, tredici anni, mi fa pensare a me. Al giorno

in cui sono partito, alla trepidazione, alla vaga tristezza, ma anche

all’eccitazione, di lasciare i posti noti, il calore della famiglia, per intraprendere

questo viaggio ai confini del mondo.

Quando arrivo a Matera, saranno state le due di notte, in fondo al cortile

della casa, che mi è stata assegnata in piazza, al lato di una piccola chiesa

stupenda, vedo una luce.

Quella luce è Mario che regge una lampada.

Gli altri erano andati a letto e ora, col trambusto delle pariglie, si

affrettano a scendere per scaricare i bagagli del “professore”. Mario no. Lui è

rimasto lì con la sua lampada. Come la vergine saggia della parabola.

Certo Mario mi ha fatto pensare a me: guardingo e attento. Ma lui è

ricco di suo padre mentre a me quella ricchezza è stata sottratta. In qualche

minuto il cortile si illumina di varie luci. Mi accompagnano in un appartamento

modesto, ma spazioso. Sono distrutto dai tre giorni di viaggio che è stato un

susseguirsi impressionante di trabalzamenti della vettura e di soste, cambi,

locande, letti scomodi, spesso sporchi.

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In quella notte tutto mi sorprende perché non mi aspettavo tanta

nitidezza di linee in questo confine estremo. Alla luce della luna la via dove mi

trovo è bianca e lucente, come una scia astrale.

Nella stanza da letto preparata per me c’è un vago profumo d’incenso,

come fosse stata teatro di una veglia funebre, ma è probabile che questo

sentimento derivi dall’improvviso senso di solitudine che mi prende: sono le

tre di notte, sono a Matera, alla fine del mondo, e sono solo. Ida e Maria a

quest’ora sicuramente non dormono. La mia sorella maggiore sicuramente

tiene un lume sul mio comodino affianco al letto vuoto e sospira.

Dico a Mario che può andare a dormire, che lo ringrazio per avermi

atteso.

Dice che si sistemerà di sotto pronto ad accompagnarmi al Regio Liceo

non appena si sarà fatto giorno. Gli chiedo se avrò tempo di vedere la città.

Dice che il tempo si troverà. Poi mi dice che bisogna riposare.

Ho più del doppio dei suoi anni, ma pare che sia lui a stabilire le regole.

Il sole è già alto e lui è già in piedi da un pezzo. Alla luce piena posso

guardarlo per bene: dimostra di più dei suoi anni e veste un’antiquata e

sobria foggia contadina.

Per la via mi precede di due passi almeno, devo sembrare un gran

signore in questo luogo fermo nel tempo. E’ una bella cittadina tutto

sommato, ma piuttosto mal tenuta, al contrario della gente che ha un’aria

assolutamente linda. Il mio nuovo Liceo è in cima ad un falso piano che si

apre verso un paesaggio inquietante e primordiale.

I “sassi” chiarisce Mario. E me lo dice spingendomi a guardare altrove,

in fondo alla via dove si sta costruendo una bella e ampia piazza. E’

esattamente come se la città nuova sorgesse sovrastando quell’agglomerato

di caverne maleodoranti senza riuscire a cancellarle.

Chiedo a Mario se ancora in quelle caverne abitino delle persone.

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Mario mi guarda, quasi gli scappa una risata: certo che ci abitano delle

persone, mi dice. “Persone e bestie” aggiunge. Poi mi indica il palazzetto con

l’orologio in cima in cui è situato il mio primo Liceo da professore.

E’ stato un convento, poi un Seminario. Consumiamo un’ampia

scalinata per entrare. Il corridoio d’ingresso è enorme, altissimo ma stretto

stretto, costruito quando gli uomini dovevano apparire immensamente più

piccoli dello spazio destinato al divino. Che risultasse chiarissima la distanza

tra il calpestare questa terra e il determinarne i destini.

Mario come sempre, mi precede lungo il corridoio e si ferma davanti

alla porta del Preside.

Questi mi guarda come si guarderebbe un soldato che è finito là per

punizione: non sa proprio nulla. E magari verrebbe da spiegargli quale atroce

sacrificio è stato per me obbedire, piegarmi per la necessità di trovare i mezzi

di sussistenza. Necessità che ci ha attanagliato fin da quando eravamo

ragazzi, io e le mie sorelle e mio fratello maggiore, ed eravamo rimasti “soli

soli”. Privati di un padre, privati di tutto. Mi chiama “Professor Pascoli” con

sussiego quel Preside, e mi assicura che per quanto riguarda la disciplina

dovrò farmi valere soprattutto col suo ausilio. Mi vede giovane, ma non

capisce che il fanciullo che ero è morto da millenni.

– Questo è posto di briganti. – M’informa con l’aria di chi voglia

spaventare un moccioso.

– Vengo da un posto di briganti, Signore. – Rispondo perché sia

chiaro che “alla fine del mondo” ognuno di noi ci giunge esattamente dalla

fine del proprio mondo. Qualche volta dichiararsi inferiori è un modo per

apparire superiori, penso.

Il Preside controlla in silenzio i miei incartamenti e pare voglia prendersi

del tempo per cambiare idea. “Carducci” sussurra tra sé, “niente di meno”,

sembrano dire i suoi occhi quasi che mi accusasse di millantare quanto

affermano gli attestati.

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– Dovrà farsi valere anche con i colleghi. – M’informa. – Che sono

insegnanti esperti, ottime persone anche se per lo più del luogo. – Aggiunge.

Faccio cenno di sì, che capisco fino a che punto questa terra, e questo

primo incarico, possano essere spazio e luogo di rivalsa. Anche dalla forra da

cui provengo ogni estraneo è visto con diffidenza: deve lavorare il doppio, o

anche di più, per dimostrare che vale davvero qualcosa. – Insegnerò e

imparerò. – Dico. Il Preside mi guarda con un vago compatimento dipinto in

volto, quindi mi porge i miei documenti e un registro intonso per congedarmi.

Finito il colloquio Mario è ancora lì fuori, pronto ad accompagnarmi in

classe.

L’aula è grande, gli arredi semplici. Gli alunni sono più o meno una

decina, bravi ragazzi sobri paiono, mi guardano come se fossi uno di loro. Mi

avvio alla cattedra e apro il registro.

– Antezza Nunzio. – Inizio cercando di tenere una voce ferma

nonostante le “z” che atrocemente non ho mai saputo pronunciare. Nelle

Romagne le “z” non esistono. Un mormorio di risata trattenuta di sparge in

classe. Poi si quieta.

– Presente.

– Barberio Vincenzo. – Continuo. Non è presente. – D’Amore

Pasquale. – C’è, in fondo, accenna. – Demitria Salvatore. – Eccolo, quello

piccolo piccolo. – Guerricchio Giuseppe. – Rosso di capelli. – Ortolani

Gaetano. – Secondo banco, allampanato. – Padovani Vincenzo. – Assente,

“sempre assente” chiariscono. – Polini Antonio. – E’ quello torvo, zazzeruto,

in ultimo banco. – Pugliese Giuseppe. – Eccolo lì proprio davanti a me, col

ciuffo impomatato, come un piccolo adulto. – Rossi Alfredo. – L’ultimo, pallido

e pensoso. Lui mi è caro da subito perché a fianco del nome di suo padre, nel

registro, tra parentesi, c’è scritto “fu”. Proprio come a fianco del nome di mio

padre, nei miei documenti.

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Mario, che mi ha preceduto all’interno della classe, è andato a sedersi

per terra in fondo all’aula.

Vorrei dirgli qualcosa ma lui mi precede:

– Io ascolto e basta… Posso restare? Vizziello Mario. – Chiarisce.

Lo guardo, mi guarda. E’ come me.

Dovrei essere sorpreso dalla sua richiesta, ma non lo sono. Io so tutto

di lui e della sua fame che non è in nulla quella del corpo. Dovevo

aspettarmelo.

Faccio cenno che può restare.

Poi mi volto verso la lavagna e, per presentarmi alla classe, scrivo il mio

nome…

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LA LUNA E LE MALVE- Nadia Terranova

No, hai ragione, non ti avevo preso sul serio quando mi avevi detto: ti

porto sulla luna. Ma che m’importava della luna? La conoscevo a memoria, ci

avevo fatto l’abitudine nelle notti sul mare, in barca con mio padre,

spaccandomi le braccia per la fatica, “Non vedi che è una femmina, la vuoi

lasciare in pace?”, gli urlava contro mia madre, “Ma se questa è un

masculazzo”, rideva, e io con lui. La mia famiglia era sempre stata ricca,

mentre ora ci toccava giocare a carte con una nuova e sconosciuta povertà.

Dalla vita di rendita all’affanno della pescheria: che brutto salto per una come

me, cresciuta a libri e a non saper far niente, attaccata alle gonne di una balia

messa alla porta senza complimenti dopo il fallimento della ditta di famiglia.

Ci eravamo dovuti togliere tutti i vizi, e anch’io mi ero fatta passare la smania

di gonne complicate e scarpe da femmina, tanto si usavano zatteroni così

brutti che era meglio girare scalza. Con mio padre avevo imparato a pescare

totani e “neonata”, pesci piccoli che si impastano e si mangiano a polpette.

Lui però non c’entrava niente con i miei guai ed era innocente anche la barca,

che, sopravvissuta alla decadenza, ci dava da mangiare; non era colpa di mio

padre se la ditta era fallita. Non erano colpa di nessuno, i miei vent’anni:

capita di averli, poi finisce lì.

Sapevo che eri tornato in paese e sapevo anche che mi volevi, ti avevo

spiato mentre mi fissavi le gambe, la schiena, le caviglie e saltavo su e giù

dalla barca; appena mi giravo ti giravi dall’altra parte. Certo che mi ricordavo

di te: l’amico di papà che se n’era andato a fare il giornalista ed era diventato

famoso. Ti sei avvicinato un paio di volte con qualche scusa, non so cosa

volessi regalarmi, un gelato, dei cioccolatini. Ho rifiutato. Non che non mi

piacessi, semplicemente non volevo debiti con nessuno, tantomeno con te.

Tu i soldi ce li avevi, anche più di quand’eri partito, quindi perché provavi

gusto a umiliarmi? A me nessuno doveva regalare niente. La sera in cui ti ho

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dato il bacio che volevi è cambiato tutto, hai preso sicurezza. Alla fine ti sei

piazzato davanti a mio padre con gli occhiali storti sul naso e il tuo quotidiano

di sinistra sotto il braccio: “La sposo”, hai detto, “senti, davvero, io la voglio

sposare”. Lui ha provato a farti ragionare, ti voleva bene come un fratello, gli

piaceva onorare l’amicizia di una vita: “Ma che dici, guarda che non ti posso

dare niente”. Ti sei fatto rosso per l’offesa, “Che mi frega, ho soldi a

sufficienza per tutti e due”, trattenevi male la rabbia, “… se lei vuole”, hai

aggiunto, ricordandoti che adesso eri un comunista, andava di moda il

femminismo, dovevi essere all’altezza di quella tua aria da emigrato non

conforme. “Che dici, te ne vuoi andare con lui?” mi aveva interpellato mio

padre. “Dove?”, come se non lo sapessi. “Dove non c’è il mare”. Mi ero girata

a guardare la barca, il pescato che riempiva le reti a metà, le mie scarpe

rosse da femmina invecchiate e sporche di catrame. “Sì, ci voglio andare”, e

l’attimo dopo non avevo più vent’anni.

No, non ti avevo creduto quando mi avevi promesso la luna. “La vedi, è

Matera”, hai detto arrivando in macchina e io come una bambina la indicavo

da lontano. Continuavi, per chiudermi la bocca spalancata di meraviglia: “Sì,

ma a parte tutto questo bianco non c’è niente”. L’importante, per me, era che

non ci fosse la fatica del mare. C’erano il bianco e il verde, c’era bestiame

ovunque, bianco pure quello, c’erano il silenzio e una vita da inventare,

soprattutto c’eri tu. “Ti porto sulla luna”, mi avevi promesso, e incredibilmente

eri stato onesto: mi ci avevi portato per davvero. Mi spostavo fuori città per

guardarla dalle murge: altro che la luna oltraggiata dagli americani, poveri

americani contro cui inveivi dagli articoli che mandavi al tuo giornale,

“Imperialisti!”, tuonavi senza pietà, colpevoli invasori persino della luna. Ma

tanto era quella finta. La nostra città bianca e immobile, nascosta e

silenziosa, lei sì che era la luna.

Era il 1977 e un gruppo di compagni occupava il rione Malve, a me

piaceva metterci l’articolo e lo storpiavo: Le Malve. I figli del proletariato e

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soprattutto quelli della borghesia affermavano il diritto alla casa. Tu avevi il

doppio dei loro e dei miei anni ed eri lì per raccontarli, te l’aveva chiesto il

giornale, non avevi voglia di fare l’inviato ma ormai non eri più solo, dovevi

pensare per due e temevi che portandomi subito a Roma sarei morta di

malinconia. Sulla luna, invece, mi sarei divertita. “Non ti diverti?”, insistevi tutti

i giorni. Avevi accettato quel lavoro per me, perché avevo vent’anni e non

volevi togliermeli, ma se c’era un’appartenenza di cui non m’importava era

l’età. Ero abituata al silenzio e me lo andavo a cercare di continuo. Giravo da

sola in campagna, camminavo per ore nel deserto umano e mi sedevo a

pensare, mi passavano davanti pastori e braccianti, quello sì mi piaceva:

gente muta che non faceva domande, abituata a lavorare com’ero stata

abituata io. Certi pomeriggi, seduta sulle pietre bianche, sentivo solo il vento.

Il frastuono dei ventenni mi innervosiva, gli occupanti condividevano troppo:

cucinavano insieme, mangiavano insieme, dormivano insieme, erano giovani

insieme, che modi erano? Eravamo nel ’77, va bene, ma ero stata cresciuta

in un’altra maniera. A te piuttosto la gente è sempre piaciuta, con la scusa

delle interviste te ne stavi tutto il giorno fuori, l’età ti si era dimezzata, la sera

tornavi tardi cantando. I miei vent’anni li avevo regalati a te: del resto, non

avrei saputo che farmene.

La vicina mi aveva insegnato a cucinare gli asfodeli, all’antica: a cena

mangiavamo frittata di fiori. Per il resto, non mi chiedevi niente. Nella nostra

casa in affitto, a ridosso dei Sassi, non mettevo a posto neanche un mestolo.

Certo, rimanevi male quando la sera trovavi il letto sfatto come l’avevi lasciato

la mattina. Però la svogliatezza la legavi alla mia età, e poi eri comunista e

amico dei giovani occupanti rivoluzionari, con che coraggio avresti potuto

chiedermi di fare la casalinga? La frittata di fiori bastava a entrambi.

Poi un giorno l’hai finito, il tuo pezzo sugli occupanti che facevano

rivivere i Sassi con un nuovo spirito dei tempi. Hai scritto dell’importanza del

recupero delle origini e della necessità di fare la rivoluzione. Gli asfodeli non li

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hai nominati. Abbiamo fatto le valigie e siamo andati a Roma. Non mi sono

girata nemmeno una volta.

È passata una vita, sempre insieme. Perfetti come quei giorni non ne

abbiamo più vissuti. Siamo stati bene, ma sulla luna era un’altra cosa. Lì

avevi avuto i tuoi vent’anni: ti avevo portato i miei in dote, visto che soldi non

ne avevo, e ti avevo fatto felice. Certo, a Roma abbiamo avuto tre figli e

cambiato due case, del tuo giornale comunista sei diventato direttore e poi

cassaintegrato, la vita si è presa quello che ha potuto e qualcosa ci ha dato in

cambio. Dei giorni di luna non abbiamo più parlato. Avremmo litigato di

sicuro, perché i ricordi delle coppie non si somigliano mai.

Ho prenotato una matrimoniale e precisato che mio marito tiene molto a

una bella vista, mi hanno chiesto se era la prima volta che andavamo a

Matera, ho risposto di sì, mi hanno assicurato che ci piacerà. Una volta che

mi vedranno arrivare da sola qualcosa inventerò. Vedova è una così brutta

parola.

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TRA ADESSO E FORSE – Paolo DI Paolo

La seconda cosa che pensò arrivando a Matera era che non ne sapeva

niente. La prima non se la ricorda bene, ma c’entrava con lo stupore – il

vento era forte, quasi ostile, lui si voltò e vide tutto raccolto il cuore della città:

millenaria e grigia, antica e nodosa e grigia come il tronco di quegli ulivi

giganteschi che ignorano le epoche, le sfidano. Passano Napoleone e

Mussolini e non importa, è stato solo un minuto più lungo nel tempo

infinitamente vasto. Pensò anche, come la prima volta a Roma, che sapere

troppo di un luogo, saperlo prima, non serve a molto, come preparare la

valigia per un viaggio che hai già deciso di non fare. Per il resto, si sarebbe

messo ad aspettare le notizie, come era giusto che facesse un cronista

locale. Più che notizie – lo capì in fretta – c’erano storie, bastava prendere un

caffè o fermarsi a un angolo di strada più del dovuto, per essere quasi

assaliti, arrivavano a folate, con la stessa intemperanza del vento in un tratto

di salita verso il Duomo. Ma di storie un giornale locale non sa che farsene,

erano peraltro storie lontane, vicende che i narratori casuali collocavano in un

calendario senza anni: sembravano di ieri, e magari era il ’56. È proprio

necessario che io resti qui? Domandava speranzoso a un datore di lavoro

che nascondeva la propria stessa inadeguatezza con l’entusiasmo. È

necessario sì, rispondeva perfino stizzito il datore, se vogliamo essere

alternativi ai grandi quotidiani già radicati al Sud, dobbiamo catturare nel

ronzio anche le notizie che nessuno cattura, quelle che proprio si fa fatica a

cogliere, a sentire, così che alla gente sembri, leggendo, di ascoltare un

vicino di casa più pettegolo e più – più competente, ecco.

Competente in cosa?

Competente e basta, competente nelle vite altrui. Poi, dio santo, non

vedi? Questo è un anno di notizie grosse, guardati indietro: quanta gente

hanno ammazzato in pochi mesi. Piersanti Mattarella: era gennaio. Vittorio

Bachelet: era febbraio. Le scale dell’Università di Roma macchiate di rosso.

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Walter Tobagi: era maggio. La gente morta alla stazione di Bologna. Quelli

spariti a Ustica, sul volo per Palermo. Questo stupido, feroce anno bisestile.

Manca poco, disse d’istinto.

Manca poco a cosa?

Manca poco alla fine.

Sei superstizioso?

No, rispose, ma le cose, le cose, a volte ti costringono a esserlo, a

pensare che una serie troppo fitta di coincidenze diventa una prova.

Una prova di che? Il punto era sempre questo.

E comunque, riprese il datore, nel mare delle notizie grosse la gente ha

bisogno di quelle piccole. Sono rassicuranti. Anche quando ti dicono che il

vicino di casa ha sgozzato sua moglie, tu – dopo il primo salto, dopo lo

sgomento – pensi che in fondo sì, li avevi sentiti urlare come due ossessi,

urlare più di una volta anche troppo, i due stronzi. Mentre se ammazzano

Mattarella, Bachelet, o Tobagi, c’è un disegno, lo senti, un disegno oscuro e,

dietro il buio della tua ignoranza, preciso. La cronacaccia nera, quella di

paese, è solo, solo brutale e sordida, brutale e sordida come la vita.

Fatto è che le storie gli restavano in testa, le notizie no. A chi gli raccontava di

essere nato nei Sassi, di essere andato via e poi tornato – “tornato adesso,

da qualche giorno, in questo posto che era stato mio, duro, umido, e senza

luce come l’istante in cui venivo al mondo, ero il bambino Gesù dell’anno

1957 dopo Cristo, uno dei tanti, disgraziati cristi scaldati dal fiato dell’asino

che non stava fuori, ma dentro casa, e puzzava, sì, per carità, ma teneva

caldo e dava sicurezza, maestoso nella sua innocenza, nella resa a uno

squallore che per lui, per l’asino di casa, non era una fra le possibilità

dell’esistere, ma la sola” – a chi gli raccontava questo, avrebbe voluto

chiedere: ma allora perché sei tornato? La risposta, di solito, era un silenzio,

uno sguardo vuoto oppure stupito. Come se potesse davvero esserci una

risposta a una domanda simile. Come se ci fosse qualcos’altro di urgente da

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fare, a un certo punto della vita di tutti, proprio di tutti, che non sia tornare a

casa. Nell’autunno inoltrato, quando il buio crollava su Matera prima delle sei

del pomeriggio, e nessuna notizia gli sembrava fosse arrivata – aveva

sbagliato lui? dove e come si era distratto? – quando era costretto a dire che

no, non c’era proprio niente da scrivere, gli sembrava di essere il personaggio

di un romanzo che lo aveva insieme annoiato e sedotto. C’è un uomo che

aspetta i Tartari, aspetta, aspetta, con un’estenuazione che lo faceva

sbadigliare sulla pagina, ma i Tartari non arrivano.

Possibile che non ci sia niente? Era il datore che chiamava verso le

sette di sera.

Sì, è possibile.

No, non lo è, dappertutto – in ventiquattr’ore che ci mette questo mondo

a fare un giro – dappertutto accade qualcosa.

Qui no.

Anche un funerale può essere una notizia, a saperlo raccontare. Chi è il

morto, perché è morto.

Di che vuoi che muoiano i più? Di vecchiaia, per fortuna. Oggi, in

Basilicata, morti 2 e nati 3.

Vedi, già è qualcosa! Un nato in più rispetto ai morti… Qualcosa

dev’esserci, sforzati, pensaci, in questa giornata di novembre, qualcosa che

domattina la gente possa leggere sul nostro giornale, senza pentirsi di averlo

acquistato.

Qualcosa forse c’è.

Lo vedi? Dimmi.

Mah, una cosa da niente.

Avanti, qualunque cosa sia.

In diverse edicole di Matera oggi sono state sequestrate riviste

pornografiche. 150 copie di pubblicazioni ritenute oscene ritirate dalla polizia

per decisione del giudice istruttore Bartolomei, Tribunale dell’Aquila.

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E ti pare poco?

Sì, mi pare pochissimo.

C’è materia per indagare. I poliziotti che hanno sequestrato le riviste

erano uomini?

Perché, che differenza fa?

Beh, se erano uomini devono essersi divertiti a fare incetta di riviste

piene di donne nude.

No, pare che i giornali siano stati ritirati dalla polizia femminile.

Bene! Bisogna approfondire. Sentire queste poliziotte, sondare le loro

reazioni, i loro pensieri, mentre avevano per le mani i sollazzi tipografici dei

loro mariti. Ce la fai a scrivere cinquanta righe?

Cinquanta righe? E che dico, in cinquanta righe?

Che ne so, inventa, fai colore, alludi. Le conoscerai le riviste porno, no?

Sì che le conosci.

Pensandoci meglio, potremmo dare risalto a una lettera di denuncia dei

viaggiatori del pullman Matera-Irsina.

E che dicono i viaggiatori del pullman Matera-Irsina?

Dicono che rischiano la vita ogni giorno, che arrivare a Matera è

un’angoscia quotidiana, e che il pullman all’improvviso trema tutto, ogni santo

giorno, tremano lo sterzo e le ruote, e l’autista riesce a guidarlo a stento.

Mah, non so, questa mettiamola nella pagina delle lettere, la gente

esagera sempre, i pericoli veri sono altri. C’è ancora qualcosa?

No, mi pare proprio di no.

Sicuro?

Oddio, un’altra cosa forse ci sarebbe, è una storia strana, un tizio di

Genzano di Lucania, tale Oronzo M., aveva organizzato una fuga d’amore a

Matera con una ragazzina, gli hanno dato tre anni di galera.

Per una fuga d’amore?

Sì, perché lei è minorenne e pare che lui volesse indurla a prostituirsi.

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Abbiamo dettagli su questo Oronzo M.? Chi è? Che fa?

Poco e niente.

Allora indaga, scava, chiedi, telefona, fai per una volta il tuo mestiere, ci

vuole un tocco di epica in questi casi. Fallo diventare l’insospettabile bravo

ragazzo di cui qualunque ragazza si sarebbe fidata. Ti saluto, amico mio.

Aspetto entro un’ora il pezzo sulle riviste porno.

Sì, ma dove le trovo le poliziotte a quest’ora di domenica?

Arrangiati.

Direttore?

Sì.

Facciamo una cosa. Su Oronzo M. torniamo quando avrò più materiale.

Io domani, al posto dei giornali porno, metterei una notizia di pubblica utilità.

Sentiamo.

Che finalmente stanno per partire i lavori di restauro su un gruppo di

case di via Fiorentini, nel Sasso Barisano.

Un po’ grigia come notizia, ma va bene. Quanti alloggi entrano nel

piano di restauro?

Una decina, ma il progetto è di recuperare totalmente due rioni.

Quando pensano di concludere i lavori?

Entro la fine del 1981.

Cioè di qui a un anno? Sì, buonanotte!

Abbassando la cornetta, giusto il tempo di avere davanti agli occhi,

come una visione o un ricordo preso in prestito, la casa di quel signore nato

nel ’57 nel Sasso Barisano, proprio dalle parti di via Fiorentini, aveva detto, si

accorse – erano le 19.37 – che il telefono davanti a lui stava tremando, e

tremava la scrivania e tremava la sedia, e tremavano i libri sulle mensole e

tremava tutto. Tremavano i piedi e la terra sotto ai piedi, in un tempo che, al

contrario di quello degli ulivi, è un minuto che diventa un secolo, e non sai

nemmeno più chi sei né dove, perché è come sentire che ogni cosa, sotto e

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intorno, potrebbe sbriciolarsi, si sbriciola, e tu con tutto. E che mentre la terra

si muove la vita si ferma, congelata in una porzione di mondo che potrebbe

essere un continente, una regione, o soltanto Matera, e le poliziotte, Oronzo

M. e i geometri e gli addetti al piano di restauro, tutti fermi, immobili come i

sassi che resistono alla scossa, come animali senza più un nome e un futuro,

come l’asino che scaldava casa nell’inverno del ’56 arreso a tutta quella neve

uniforme e gelida quanto il suo destino, tutti insieme, centinaia, migliaia di

viventi tenuti in sospeso, tra adesso e forse, tra ora e ancora, tutti senza più

notizie, con le loro storie a metà. Fino all’istante in cui, se arriverà,

prenderanno badili e torce e picconi, ma soprattutto fiato, e le mani

smetteranno di tremare come la crosta terrestre e ritroveranno forza e cura

per aggrapparsi, stringere, impastare quintali di pane, quaranta quintali al

giorno da portare fino a Potenza; fino all’istante in cui si sentiranno, e

potranno dirsi, ancora una volta salvi, ancora per un po’, vivi.

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LA FELICITA’ A MATERA – Antonio Pascale

Questo racconto inizia da lontano, dagli anni ’70. Allora frequentavo le

medie ai salesiani e con tutta la classe venimmo in ritiro spirituale, a Matera,

prima della pasqua. Eravamo tutti maschi e ho ora ho ricordi confusi, in

bianco e nero.

Anziane silenziose e sfuggenti con lunghi scialli neri e vecchi

accovacciati contro i muri, tanti cani. L’interno di una casa, o di una grotta,

comunque un unico ambiente buio, sul muro tante pentole di rame, accanto,

tante immagini di madonne e santi.

Insomma, le orazioni, le preghiere, il silenzio. Però, sapete com’è a 13

anni, i primi impulsi sessuali, le pratiche faccio da me, e infatti, un mio amico

in un momento di solitudine- il buio, l’ombra, le grotte, e i pensieri, le

tentazioni- ecco questo mio amico ebbe un impulso - tipico di quell’età- e va

bene, capita, ma purtroppo fu beccato da un prete, Don del Pozzo.

Che preoccupato per l'andazzo, temendo che si diffondesse, prese me

e altri in disparte e ci ammonì: vi taglio le mani e ricordatevi – ci disse – che

un minuto di piacere non vale l'eternità passata all'inferno.

Dopo l'avvertimento, tornando a casa, in pullman il mio amico mi

chiese: ma come si fa a farlo durare un minuto?

Siccome ricordo la città che si allontanava, le gravine, i sassi, qualcosa

di rudimentale e di essenziale insieme, Matera per me è diventata, negli anni

il luogo dell’imprinting: come prolungare il piacere, anzi come orientarlo,

trasformarlo in sentimento di calma e pace oceanica, o un unguento che

rilassi il corpo e spalanchi i miei sensi verso panorami immensi?

Dopo l’esame di terza media con tutta la famiglia e gli amici di famiglia,

da Caserta, prendemmo la Basentana diretti a Metaponto e qualcuno disse,

andiamo a mangiare a Matera.

Ho ricordi confusi, anche lì, in bianco e nero, mi ricordo che

ascoltavano Julio Iglesias e Nicola di Bari e ricordo che stavo su un muretto

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e un attimo dopo a terra: braccio destro, radio e ulna, rotti, frattura scomposta

– sarà stata la maledizione di Don del Pozzo.

Ospedale vecchio di Matera, e niente non riuscivano ad aggiustarmelo

e così dovetti subire la mia prima operazione. L’anestesia, il risveglio, quel

senso di malessere, tutto questo andava bene, quello che mi faceva soffrire,

invece era la degenza, cioè mi fecero stare tre giorni, dopo di che mi dissero:

potrai uscire.

Io volevo uscire, volevo raggiungere gli altri al mare, e poi dalla finestra

della stanza d’ospedale, non vedevo niente: era tutto buio. E arrivò il terzo

giorno e i medici cambiarono idea: altri due giorni, per controlli.

Credo che piansi disperato per ore un senso di prostrazione così non

l’ho mai provato, tanto che alla fine, mi addormentai.

Quando mi svegliai c’era mio padre che mi disse: dai, veloce, che

andiamo via.

Pensavo di sognare: dai, ho firmato, mi sono preso io la responsabilità,

andiamo. Non mi vestii nemmeno, me ne andai in pigiama, era estate, e

ricordo bene una parte del tragitto dall’ospedale a fuori Matera, rivedo alcune

grotte, le chiese, le croce e le vecchie con gli scialli neri, i vecchi accovacciati

ai muri, i cani, delle vacche, i muli e mi sembrò bellissimo e non solo, per

molti giorni, mi sentii felice.

Erano gli anni ’70 e di quel decennio mi sono rimaste due cose: la

presa di posizione di mio padre, aveva capito che stavo soffrendo e dunque

doveva far qualcosa per me, e l’idea che senza un periodo di sofferenza non

si può essere felici.

Queste due concezioni, saldate insieme mi hanno rovinato il successivo

decennio.

Perché arrivarono le ragazze, e cominciai a pensare che tutte le

ragazze soffrivano ed esigevano qualcuno che si prendesse una

responsabilità e che le portasse fuori da quella valle di lacrime.

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Quello ero io. Cristina, la mia fidanzata storica. Bellissima, bionda,

camminava sul Corso e lasciava una scia dietro di sé.

Il problema era che Cristina soffriva e non sapeva il perché. Non c’era

una condizione di sofferenza, al contrario era proprio una vocazione.

A Caserta si faceva l’amore tutti insieme, un amore collettivo, lungo una

strada. Si fermavano le macchine, si mettevano i giornali ai vetri e si

procedeva. Io e Cristina no, cioè, mettevo i giornali e spesso lei cominciava a

piangere. Non credo fossero i titoli tragici della provincia casertana a

inquietarla.

Nel 1987 facemmo un viaggio a Matera e ci inoltrammo per i sassi:

litigammo tantissimo. Eppure era una giornata splendida, tra cielo e sassi

solo luce, in cielo qualche cirro arricciato e colorato di rosa. Ma il percorso ci

scombussolò. Un momento eravamo sulle scale, il momento dopo sui tetti di

una casa, e qualcosa dentro di noi si mescolò, perdemmo l’orientamento e

litigammo: Ma perché soffri? le chiesi. Lei mi rispose: Mah? forse non

c’amiamo.

Non so se a volte l’essenzialità, appunto rocce e sassi, questi elementi

primordiali possono favorire l’amore, tipo: non ci manca niente, è tutto qui,

oppure al contrario, possono far fallire l’amore: è tutto qui? denudati, avvolti

dalla luce, senza fronzoli e orpelli, beh, c’è solo dolore e l’amore non è

amore.

Ci lasciammo e siamo al decennio successivo. Avevo capito che non

dovevo provarci più di tanto a cambiare con l’amore le persone, a prendersi

delle responsabilità, come mio padre aveva fatto con me.

Gli anni novanta sono stati più allegri, ho cominciato ad associare

l’amore al sesso e il sesso al sonno.

Non che dorma, no. Far bene l’amore e dunque cercare di prolungare il

piacere, aveva stretti punti di contatto con il dormiveglia, essere vigili ma non

troppo, avere la vista sfocata, le membra flaccide. Cadere nel sonno non

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dopo aver fatto l’amore, ma anche prima di fare l’amore, era diventata una

specie di pratica, tutta nuova per me: non posso asciugare il pianto, però un

momento di pausa, una lunga dormita, prima o dopo, diciamo così, il pasto,

bè, quella sì, la potevo offrire.

Sono tornato a Matera, con delle fidanzate, negli anni successivi e sì:

ho dormito tanto. Ormai, l’amore, per me corrispondeva a una dichiarazione

di debolezza, siamo una gravina d’argilla, da un momento all’altro scivoliamo

giù e non resteranno che sassi e macerie.

E siamo al 2014. Di nuovo qui a Matera, per lavoro ministeriale.

Alloggiavo in un buon albergo, con bel panorama. Ma non riuscivo a dormire,

e sono sceso. Ho fatto tante fotografie ai Sassi di notte e forse il languore non

so, i ricordi, ho pensato: chissà se il problema delle felicità non sia tutto qui.

Non vogliamo morire.

Forse la nostra idea di felicità esiste solo per ingannare la morte.

L'evoluzione c'ha insegnato delle strategie. Una è: non pensare al

futuro: siamo qui e ora, e ci divertiamo, ridiamo, ci abbandoniamo davanti a

un tramonto o tra le braccia di una donna e tutto questo solo per allontanare

la paura.

Mi è venuta allora voglia di passeggiare per i Sassi, da solo di notte. E

ho pensato: sì, d’accordo: ma questo non risolve il problema. Ci sono molti

libri intitolati: cose bellissime e indimenticabili da fare prima di morire.

Indimenticabili.... Il problema è che una volta morti dimenticheremo tutto.

Anche questo spettacolo dei Sassi di notte. E per questo allora che

cerchiamo di sopravvivere a noi stessi? È la seconda strategia per essere

felici, fare figli, moltiplicarsi, creare opere d'arte, il ricordo di noi sopravviverà

in quelli che restano, nella nostra comunità, nella famiglia, nel clan.

Ma nemmeno questo funziona, non completamente.

Come dice Woody Allen, io non voglio sopravvivere nei cuori della

gente, io non voglio proprio morire.

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Mi sono fermato accanto a una chiese rupestre, semplice, nuda,

essenziale. Mi sono detto: è questa la soluzione? Credere nell'anima. Lo

spirito che ci sottragga al nostro destino mortale, che ci porti da un'altra parte,

ma così come siamo, con il nostro corpo, i nostri pensieri e i nostri ricordi?

Questa strategia è buona, ha solo un difetto, affinché funzioni devi

crederci, e tanto anche. E io non ci credo, sì, sono belle queste chiese,

appunto, semplici e rudi, ma non ci credo.

Cosa mi resta per la felicità?

Forse c’è un’ultima cosa da dire: il racconto di un esperimento che ha

soddisfatto infine la domanda del mio amico: come si fa a far durare il piacere

più di un minuto.

C’è questo studio del 1972, uno studio criminale. C'era un paziente gay

e lo si voleva curare... era pure depresso, insomma, per farla breve gli hanno

impiantato degli elettrodi in una zona del cervello, uno nell'area settale che

quella che si pensava destinata al piacere. Ebbene, si permise al paziente di

premere il bottone e stimolarsi da solo, ebbene sapete cosa successe?

Diventò etero? No, cioè, pare di sì, gli facevano guardare dei porno etero,

insomma, era veramente uno studio criminale, ma poi ha aperto una strada

per la scoperta delle dinamiche del piacere.... praticamente quello come un

bambino premeva sempre il bottone ed entrava in uno stato di gioia euforica

incontenibile, però, tra una seduta e un'altra, chiedeva, per favore di essere

scollegato, ma quando premeva il bottone: era così felice che non pensava

più a niente. La felicità è una dimensione solitaria, riuscite a capire il

tormento di quel povero uomo? Implorava di non essere felice, perché

quando lo era, era solo. Incapace di relazioni, di guardare il mondo, le pietre

e le stelle, non poteva godersi lo spettacolo degli sassi, per esempio.

Messa cosa possiamo dire due cose: non abbiamo diritto alla felicità,

meglio l’inquietudine e quel sentimento che ci fa alzare lo sguardo verso le

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stelle, ci fa sentire piccoli e proprio per questo fragili e bisognosi: è

l’inquietudine che ci fa saldi negli sradicamenti quotidiani

La seconda cosa, la gioia che ci annoda, l’uno con l’altro, in alcune notti

come queste, è in stretta relazione al dolore che ci inchioda qui a queste

pietre, da un’infinità di tempo: forse la felicità è tragica.

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RESURRECTION – di Mariolina Venezia

La notte era soffocante, o forse a essere soffocante era l’atmosfera

nella camera che Laura aveva prenotato per il fine settimana. Aveva trovato

un’offerta speciale e si era affrettata a bloccarla, attratta dalla spa, dalle foto

suggestive e dalla promessa di due notti indimenticabili, un viaggio nel tempo

protetti dall’abbraccio avvolgente della roccia. O qualcosa del genere, come

diceva il depliant. La prima sera, appena arrivati, risalendo dal ristorante

dell’albergo, anzi del resort, come lo chiama lei, ci siamo addormentati di

colpo sul letto king size. Io senza neanche spogliarmi, sdraiato sul copriletto,

aspettando che lei uscisse dal bagno. Credo che Laura sia emersa dalla

grotta con vasca idromassaggio indossando una sottoveste di seta bianca e

scivolosa, che non le avevo mai visto. Lo ricordo come un sogno,

un’apparizione intuita attraverso le palpebre socchiuse. Ho allungato una

mano per toccarla, quando si è infilata sotto le lenzuola. Dev’essere crollata

subito anche lei. Abbiamo trascorso la notte come narcotizzati. Al mattino ci

siamo detti che nei Sassi di Matera si dorme come sassi. Ma non abbiamo

riso.

La seconda notte nella terza città più antica del mondo è successa la

cosa opposta. Dopo una giornata per scalette e vicinati, i piccoli slarghi dove

si affacciano le case, visitando conventi che scavano i fianchi dell’altopiano e

chiese rupestri con gli affreschi bizantini, dopo gli aperitivi sul terrazzo del bar

con vista mozzafiato e i paesaggi preistorici dall’altra parte del torrente, la

Gravina, in un’armonia troppo perfetta per poterci credere, una volta usciti dal

bagno termale nella penombra tufacea delle cisterne rischiarata a lume di

candela, è venuto il momento.

In quindici anni di matrimonio il mio amore per Laura è rimasto

immutato, forse anzi è più profondo di prima, ma è come se continuasse a

vivere in un luogo o in un tempo irraggiungibile. Qui e ora mi diventa sempre

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più estranea. E io a lei, probabilmente. Tutto ciò di cui siamo ancora capaci

uno verso l’altro è una tenerezza che ci umilia.

Alle tre del mattino eravamo entrambi svegli. Io mi rigiravo fra le

lenzuola, Laura stava immobile, costringendosi a un respiro regolare, che

simulava il sonno. Avrebbe convinto chiunque. Forse anche me, se non

avessimo avuto alle spalle troppe notti come quella. Per tacito accordo, da

più di un anno evitavamo di esporci al fallimento. Ci trascinavamo in una

promiscuità fraterna, fingendo che tutto andasse bene. Vivevamo persino

momenti di precaria felicità. E ora la tregua era stata rotta.

Ho messo giù un piede, silenziosamente mi sono diretto verso il bagno.

Mi sono infilato i vestiti. Contavo sul fatto che quando avrebbe capito cosa

stavo facendo sarebbe stato troppo tardi. In ogni caso, speravo, non avrebbe

rinunciato alla copertura del sonno per fermarmi.

La notte era chiarissima. La prima cosa che ho visto uscendo è stata

una luna enorme sospesa sulla sagoma massiccia della Murgia, acquattata al

di là della Gravina come un mastodonte paleolitico.

Mi sono avviato lungo la discesa col batticuore di un evaso. L’aria calda

mi accarezzava la pelle, il respiro riprendeva a fluire. Libero. Ero libero. Ho

raggiunto la strada principale, quella asfaltata che affianca il dirupo sul

torrente. Sopra di me anche i Sassi, finalmente privi del via vai colorato dei

turisti, del chiacchiericcio delle guide, affrancati dal design e dalle definizioni

accattivanti, sembravano respirare. Esalavano un odore di tufo sgretolato, di

muschi, di erbe selvatiche e di parietaria, che mi faceva starnutire. Più avanti,

nel Caveoso, gli occhi ciechi delle grotte si popolavano di ombre, forse i

fantasmi degli antichi abitanti scacciati dalle loro case, che tornavano a

visitarle. La città abbandonata, momentaneamente restituita al silenzio, nel

bianco e nero del plenilunio ritrovava il ricordo di una fierezza persa.

Quando ho riportato lo sguardo sulla strada, due donne camminavano

avvolte in lunghi scialli neri. Ho accelerato per raggiungerle, imboccando

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anch’io la scala poco più avanti e mi sono trovato in una piazzetta con una

chiesa rupestre dalla facciata barocca. Di loro, nessuna traccia. Nel silenzio,

in qualche strada adiacente, si sentiva il battere ritmato degli zoccoli di un

mulo. E l’eco di un pianto, o una risata.

In quel momento nel cielo si è diffuso un chiarore forte e innaturale. Da

lontano, al di là della Civita, un tramestio, un vociare, l’affaccendarsi di

un’intera città che trasloca, mi arrivava a intermittenza, con lunghe pause che

mi facevano dubitare di averlo sentito. Dimenticando finalmente Laura, la

camera del resort e le decisioni che non riuscivamo a prendere, mi sono

mosso in quella direzione. Salivo, scendevo, attraversavo slarghi,

arrampicandomi e inoltrandomi senza accorgermene nel cuore del labirinto di

pietra.

“E ‘nnamo. Er brutooo!!!”

Improvvisamente vicino, il grido mi aveva fatto sobbalzare. Da ogni

vicolo sbucavano adolescenti, poco più che bambine. Correvano

ridacchiando ed emettendo gridolini isterici. Le ho seguite fino ai bordi di una

grande piazza che sovrastava lo strapiombo, tutta transennata e invasa da

mezzi pesanti. Schivando un asino che batteva lo zoccolo per terra e si

scaricava sul lastricato, uomini in tuta mimetica e giubbotto fluorescente la

percorrevano in tutti i sensi. Montava un’euforia carica. Sospeso su uno

spiazzo, in alto, mi è apparso un piccolo monte di roccia, con una spelonca

incastonata, che in quel momento si è illuminata a giorno. L’imbocco della

caverna era a metà ostruito da un enorme masso dal quale si è affacciato un

giovane coi capelli lunghi, alto, biondo, vestito di azzurro. Si è scatenato il

delirio. Le ragazzine urlavano un nome che non capivo, mandandogli baci.

Uomini col transistor respingevano le scalmanate oltre le transenne, qualcuno

smatassava cavi e tutto si accelerava, quando una voce al megafono ha

gridato qualcosa in inglese. Ogni rumore si è interrotto.

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In un silenzio carico di tensione il biondo ha attaccato a cantare

aprendo le braccia e alzandole al cielo. “Happy, happy, happy in the sky…”

Una donna intabarrata di nero, e un’altra dai lunghi capelli sciolti sulle spalle

facevano coro con le loro voci acute, danzando e liberandosi dai vestiti fino a

restare in bikini di paillettes. “Resurrection resurrection resurrection”. Come

galleggiando nel vuoto, avanzava verso di loro un’enorme telecamera, e con

triplo salto mortale un giovane efebico in guaina di raso bianco ornata di

piume piombava sulla grotta, poi sul masso, e nello spazio antistante,

esibendosi in acrobazie che ogni tanto interrompeva per cantare in falsetto.

“Resurrection”. Due centurioni si alzavano da terra e scrollandosi la polvere

dalle armature muovevano pesantemente qualche passo, intonando con voci

baritonali “Resurrection, resurrecion”.

Il Messia americano, mani aperte al cielo, lanciava il suo assolo.

“Father oh father... Le ragazzine erano in trance e dietro di me ne portavano

via una svenuta, quando piombò il buio. Da sotto, non si capiva cosa stesse

succedendo, se non che crollavano le scene di cartapesta, le torrette, i

tralicci, i pannelli e i riflettori. Il biondo era sparito, gli uomini della security

impazzavano, quando si sentì tuonare: “Portate via queste cose e non fate

della casa di mio padre un luogo di mercato”. Sulla cima della Madonna

dell’Idris, nel cono di luce di un proiettore rimasto in piedi, una delle comparse

locali fin lì assiepate ai bordi della scena, un uomo di mezza età vestito di

stracci, forse perché ubriaco, forse per un’originale forma di rivendicazione

salariale, brandendo la frusta gridava nel megafono. “Questa non è la

Palestina. E neanche l’America. Tornatevene alle case vostre. Non lo sapete

cosa sta scritto? La casa mia sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate

una spelonca di ladri.”.

Prima che gli uomini della security riuscissero ad afferrarlo era

scomparso.

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Rimasi dov’ero ancora qualche istante per raccapezzarmi, poi mi avviai.

Non so quanto tempo era passato, il cielo si stava schiarendo. Mentre la luna

impallidiva, i Sassi prendevano pian piano una tinta rosata e si alzava un

venticello fresco, che mi faceva rabbrividire. Attaccava un concerto appena

abbozzato di uccelli. Nella città millenaria tutto appariva nuovo, quel mattino.

In albergo, Laura stava facendo le valigie. Non mi chiese nulla, né io le

dissi da dove venivo, ma tornando a Milano, nei giorni successivi scoprimmo

che avevamo ritrovato il coraggio di guardare in faccia le cose e chiamarle col

loro nome. Più che un week end rilassante, Matera ci aveva regalato una

nuova visione del tempo, e delle sue infinite possibilità. Il tempo dove un

mortale sconfisse la morte abbracciandola. Il tempo dove tutto si perde e tutto

ritorna. Dove l’inizio e la fine non sono che un incidente di percorso.

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GLI SCRITTORI PROTAGONISTI DEL FESTIVAL

Anilda Ibrahimi: nata a Valona nel 1972. Ha studiato letteratura a

Tirana. Nel 1994 ha lasciato l'Albania, trasferendosi prima in Svizzera e poi,

dal 1997, in Italia. Il suo primo romanzo Rosso come una sposa è uscito

presso Einaudi nel 2008 e ha vinto i premi Edoardo Kihlgren - Città di Milano,

Corrado Alvaro, Città di Penne, Giuseppe Antonio Arena. Per Einaudi ha

pubblicato anche il suo secondo romanzo L'amore e gli stracci del tempo ..

Nel 2012 ha pubblicato, sempre per Einaudi, Non c'è dolcezza. I suoi romanzi

sono tradotti in sei Paesi.

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Marcello Fois: nato a Nuoro nel 1960, vincitore del Premio Italo

Calvino 1992, vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato molti libri, tra cui: Falso

gotico nuorese (Condaghes, 1993), Picta (Premio Calvino, 1992), Gente del

libro (Marcos y Marcos, 1995-96), Il silenzio abitato delle case(Mobydick,

1996), Nulla (Il Maestrale, 1997), Sheol (Hobby&Work, 1997 e L'Arcipelago

Einaudi, 2004 ), Sempre caro (Frassinelli e Il Maestrale, 1998 e Einaudi,

2009), Gap e Sangue dal cielo (Frassinelli, 1999 e Einaudi, 2010), Ferro

Recente e Meglio morti (usciti negli Einaudi Tascabili nel 1999 e nel 2000, già

precedentemente pubblicati da Granata Press), Dura madre (Einaudi, I

coralli, 2001 ed Einaudi Tascabili, 2003 ), Piccole storie nere (L'Arcipelago

Einaudi, 2002 e ET Scrittori, 2010), Memoria del vuoto (premio Super

Grinzane Cavour 2007, premio Volponi 2007 e premio Alassio 2007), Stirpe

(Einaudi, 2009 e 2011), Nel tempo di mezzo (Supercoralli, 2012 e Super ET,

2013) e L'importanza dei luoghi comuni (L'Arcipelago Einaudi, 2013). Ha

scritto due racconti per le antologie Crimini (Einaudi Stile libero, 2005),

Crimini italiani (Einaudi Stile libero, 2008) e L'altro mondo (ET, 2011). Nel

2006 ha pubblicato la raccolta di poesie L'ultima volta che sono rinato. Con Il

tempo di mezzo nel 2012 è stato finalista al Premio Campiello e al Premio

Strega.

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Nadia Terranova: nata a Messina nel 1978 e vive a Roma. Tra i suoi

libri, Bruno. Il bambino che imparò a volare (Orecchio Acerbo 2012,

illustrazioni di Ofra Amit) che ha vinto il Premio Napoli e il Premio Laura

Orvieto ed è stato tradotto in Spagna. Gli anni al contrario (Einaudi Stile

Libero 2015) è il suo primo romanzo.

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Paolo di Paolo: Nato a Roma nel 1983, nel 2003 entra in finale al

Premio Italo Calvino, con i racconti "Nuovi cieli, nuove carte". Ha pubblicato

libri-intervista con scrittori italiani come Antonio Debenedetti, Raffaele La

Capria e Dacia Maraini. È autore di Ogni viaggio è un romanzo. Libri,

partenze, arrivi (2007), Raccontami la notte in cui sono nato (2008). Nel 2011

pubblica Dove eravate tutti (Feltrinelli, vincitore del premio Mondello,

Superpremio Vittorini e finalista al premio Zocca Giovani), nel 2012 nella

collana di ebook "Zoom" Feltrinelli La miracolosa stranezza di essere vivi. Nel

2013 con Mandami tanta vita (Feltrinelli), è finalista al Premio Strega 2013

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Antonio Pascale: nato a Napoli nel 1966, ha pubblicato La città

distratta(Edizioni l'Ancora, 1999 ed Einaudi, 2001); La manutenzione degli

affetti («L'Arcipelago Einaudi», 2003); Passa la bellezza(Einaudi, 2005);

Scienza e sentimento (Vele 2008); Tre terzi, con Diego De Silva e Valeria

Parrella (Einaudi, 2009); Le attenuanti sentimentali(Einaudi, 2013). È fra gli

autori di Scena padre (Einaudi 2013) eFiguracce (Einaudi Stile Libero 2014).

È stato l'«intellettuale di servizio» delle Invasioni barbariche di Daria

Bignardi.

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Mariolina Venezia: Nata a Matera, vive a Roma dopo aver trascorso

diversi anni in Francia, dove ha pubblicato alcune raccolte di poesie. Nel

2007 ha vinto il premio Campiello con il romanzo Mille anni che sto qui, edito

da Einaudi, saga familiare ambientata a Grottole, piccolo comune della

Basilicata. Nel 2009 ha pubblicato per Einaudi Come piante tra i sassi,

ambientato a Matera, e poi Da Dove Viene il vento e Maltempo, che ha come

protagonista Imma Tataranni, la stessa PM conosciuta in Come piante tra i

sassi. Nel 2014 pubblica La volpe meccanica edito da Bompiani.

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