“Storia_ediz_critica” Nietzsche

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AVVERTENZA Il riferimento alle Opere di Nietzsche, quando non esplicitato, si intende sempre all’edizione italiana Colli-Montinari (Adelphi, Milano 1964 sgg.). Le sigle sono le stesse usate negli apparati dell’edizione critica. Ho lasciato invece, nel testo delle lettere di Mazzino Montinari e di Giorgio Colli, i titoli delle opere, le abbreviazioni, le sigle etc. così come si trovavano nel manoscritto. Ad esempio per Nietzsche: a volte ‘N.’, a volte ‘N’. Oppure i titoli delle opere: a volte tra virgolette, a volte in sigla, sottolineati etc. (ad es: ‘VdP’, ‘WzM’, ‘“Wille zur Macht”’, ‘Volontà di potenza’ etc.). Il criterio usato da Colli e Montinari non è uniforme, ma legato al carattere epistolare della comunicazione. Solo nei rari casi in cui non fosse immediatamente comprensibile, la sigla è stata risolta in parentesi quadra. Per GOA, GA, GAK sigle che spesso tornano nel testo, si deve intendere la Grossoktav-Ausgabe, (così chiamata dal formato “ottavo grande”) l’edizione canonica in 19 voll. delle Opere di Nietzsche promossa e guidata dalla sorella Elisabeth (Leipzig 1895 sgg.) da cui direttamente dipendono tutte le altre edizioni precedenti quella Colli-Montinari (sigla: KGW). Queste le abbreviazioni più spesso usate nel carteggio Colli- Montinari: BN Bücher aus Nietzsches Bibliothek [Libri della biblioteca di Nietzsche] DM, Dms, Dm, Druckm Druckmanuskript [Manoscritto per la stampa] Ed Erstdruck [Prima edizione a stampa] He Handexemplar [copia manoscritta] Mp Mappe [Convoluti contenenti fogli

Transcript of “Storia_ediz_critica” Nietzsche

AVVERTENZA

Il riferimento alle Opere di Nietzsche, quando non esplicitato, si intende sempre all’edizione italiana Colli-Montinari (Adelphi, Milano 1964 sgg.). Le sigle sono le stesse usate negli apparati dell’edizione critica.

Ho lasciato invece, nel testo delle lettere di Mazzino Montinari e di Giorgio Colli, i titoli delle opere, le abbreviazioni, le sigle etc. così come si trovavano nel manoscritto. Ad esempio per Nietzsche: a volte ‘N.’, a volte ‘N’. Oppure i titoli delle opere: a volte tra virgolette, a volte in sigla, sottolineati etc. (ad es: ‘VdP’, ‘WzM’, ‘“Wille zur Macht”’, ‘Volontà di potenza’ etc.). Il criterio usato da Colli e Montinari non è uniforme, ma legato al carattere epistolare della comunicazione. Solo nei rari casi in cui non fosse immediatamente comprensibile, la sigla è stata risolta in parentesi quadra. Per GOA, GA, GAK sigle che spesso tornano nel testo, si deve intendere la Grossoktav-Ausgabe, (così chiamata dal formato “ottavo grande”) l’edizione canonica in 19 voll. delle Opere di Nietzsche promossa e guidata dalla sorella Elisabeth (Leipzig 1895 sgg.) da cui direttamente dipendono tutte le altre edizioni precedenti quella Colli-Montinari (sigla: KGW).

Queste le abbreviazioni più spesso usate nel carteggio Colli-Montinari:

BN Bücher aus Nietzsches Bibliothek [Libri della biblioteca di Nietzsche]

DM, Dms, Dm, Druckm Druckmanuskript [Manoscritto per la stampa]

Ed Erstdruck [Prima edizione a stampa]He Handexemplar [copia manoscritta]Mp Mappe [Convoluti contenenti fogli

sparsi]ms Manuskript [Manoscritto]Rs Reinschrift [Bella copia]Vgl Vergleich [Confronta]Vs Vorstufen [Stesure preparatorie]+++ Lacuna nel manoscritto

I manoscritti di Nietzsche sono citati nelle lettere secondo le segnature d’archivio dovute a H.  G.  Mette (Der handschriftliche Nachlass Friedrich Nietzsches, Leipzig 1932). Per una descrizione essenziale rimando al volume 14 delle Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, p. 24, segg.

Il capitolo 1 e 2 della prima parte, sono stati pubblicati, in traduzione tedesca con varie modifiche e in una versione ridotta: Mazzino Montinari in den Jahren 1943 bis 1963, in “Nietzsche-Studien”, 1988, Bd.  17, pp.  XV-LX.; “Die Kunst, gut zu lesen”. Mazzino Montinari und das Handwerk des Philologen, in “Nietzsche-Studien”, 1989, Bd. 18, pp. XV-LXXIV. Il capitolo 3. 1 è uscito come recensione a M.  Montinari, Nietzsche, Ubaldini, Roma 1975, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, vol.  VII, 4, 1977. Recentemente è stata pubblicata una versione tedesca di questo volume: M.   Montinari, Nietzsche. Eine Einführung, trad. di R. Müller-Buck, de Gruyter, Berlin 1991, con una introduzione di Karl Pestalozzi. Il capitolo 3. 2 è uscito in “Belfagor” (1,1982). Il capitolo 4 contiene interventi su “Rinascita” (41,   1980), “Libri oggi” (6,   1978), “Rinascita” (41, 1978), “Rinascita” (19, 1981), “Il Ponte” (1, 1979). Sette lettere di Montinari, inserite nella seconda parte, sono uscite, da me curate e con una mia presentazione, in “Belfagor”, 3, 1987 (XLII), col titolo, La passione rabbiosa per la verità. Lettere a Giorgio Colli.

i“l’arte del leggere bene”

1.

Da Lucca a Weimar.Gli anni dell’apprendistato

Sommario: 1. La “preistoria” dell’edizione: una comunità di giovani. — 2. La scuola “dura”. L’educazione storica.   3.   La “battaglia delle idee”. Militanza politica e culturale. — 4. Il “nichilismo positivo” di Nietzsche secondo Giorgio Colli.   5.   L’“azione” Nietzsche per una cultura inattuale.  —   6.   Le vicende italiane dell’edizione. — 7. La “passione rabbiosa per la verità”.

1.La “preistoria” dell’edizione:

una comunità di giovani

Questo viaggio è il più importante avvenimento della mia vita, forse... Ti sono grato di aver avuto tu l’idea del viaggio a Weimar; non l’ho dimenticato. Faremo una grande edizione-traduzione di Nietzsche!

Così Mazzino Montinari conclude la sua prima lettera da Weimar nell’aprile del 1961 durante il breve soggiorno di ricognizione per esplorare le possibilità del lavoro sui manoscritti di Nietzsche. Con l’amico e maestro Giorgio Colli aveva progettato una traduzione italiana completa degli scritti del filosofo tedesco ma ambedue si erano accorti, già a questo livello, dell’impossibilità di utilizzare il Nachlaß e gli scritti dell’ultimo periodo così come si presentavano nella Großoktav-Ausgabe.

Nella lettera c’è l’emozione dell’incontro con i manoscritti e con l’ambiente di Weimar, la piena consapevolezza delle difficoltà da affrontare ma anche la volontà determinata verso una nuova edizione:

Caro Giorgio,ho aspettato a scriverti per avere idee chiare e poter fare con te un bilancio

di queste splendide giornate di lavoro e di entusiasmo.Prima di tutto qualche notizia personale. Ho trovato qua delle persone

molto gentili, non solo perché mi hanno messo a disposizione tutto il materiale dell’Archivio, che è conservato come sai in quello Goethe-Schiller, ma perché si sono preoccupate di farmi alloggiare molto meglio di come all’inizio io avevo fatto da me. Abito infatti nella villa... di Nietzsche! Da dove in questo momento ti scrivo. Ho per me una stanza magnifica, con veranda e panorama di Weimar da un lato e vista del giardino dove Nietzsche malato avrà passeggiato. C’è un gran silenzio qui. La villa è di stile “bayreuthiano”; ma, situata com’è in alto e un po’ fuori di Weimar, è il posto ideale per lavorare. Ho provato una certa emozione, tutta mia, perché non comunicabile agli altri, la prima volta che

ho preso tra le mani un ms. di Nietzsche e poi quando ho varcato la soglia di questa casa. Non importa se è scomparso tutto quello che lo riguarda; il posto è sacro lo stesso.

Credimi, da quando ho cominciato a lavorare (martedì, perché lunedì era festa); quasi soffro per la tensione e il desiderio di concludere e perché vedo che ci vorrebbe tanto tempo ancora. E quel che è meglio, sarebbe possibile fare tutto in modo serio, nuovo, definitivo.

Gli appunti, le note, le riflessioni, il carteggio da Weimar degli anni 61-70, dai soggiorni sempre più lunghi fino al trasferimento stabile dal 1965, danno la possibilità di ricostruire un momento essenziale del lavoro di Montinari in tutta la sua complessità e nelle sue motivazioni. Queste pagine sono un contributo alla ricostruzione della genesi e della storia dell’edizione Colli-Montinari, nella consapevolezza che i risultati di quest’ultima sono importanti non solo per una nuova lettura di Nietzsche ma anche per la comprensione di momenti centrali della cultura dell’Ottocento.

Nella prima parte di questo scritto voglio ripercorrere i momenti della formazione e il maturarsi della riflessione che Montinari, nel suo ascetismo di filologo, tenne spesso solo come saldi presupposti del suo quotidiano lavoro. Per questo ho cercato di offrire ampie testimonianze dirette e inedite che aiuteranno a conoscere meglio la figura di questo studioso.

L’edizione di Nietzsche nasce come parte di un’azione comune che affondava le sue radici in anni lontani. A Lucca, la piccola città della Toscana, dove Mazzino Montinari era nato il 4 aprile 1928, si trova, come egli più volte ha sottolineato, la “preistoria” dell’edizione: il giovane studente, nel 1942-43, in anticipo di due anni rispetto al corso regolare di studi, frequentava la prima classe del Liceo-ginnasio “N. Machiavelli” ed aveva professore di filosofia l’allora ventiseienne Giorgio Colli. Lì si formò un gruppo di amici e discepoli aggregati dalla personalità forte di Colli e dalla sua passione per la comunicazione orale. Montinari ha ricordato spesso, come decisive, queste sue prime esperienze:

la guerra, la resistenza contro il fascismo, la prima lettura di Nietzsche, di Platone, di Kant, la prima musica (Beethoven), la prima scoperta del

sentimento dell’amicizia (con Giorgio e Angelo): tutto questo aveva segnato un’impronta indelebile nella mia vita, a partire dal quattordicesimo anno di età .

Colli aveva avuto, fin dall’inizio, una posizione molto originale nella tradizione culturale italiana. Nell’ambiente torinese aveva appreso da Piero Martinetti e da Gioele Solari un liberalismo decisamente antifascista ed aveva maturato una profonda ostilità verso il neoidealismo dominante.

Amava e cercava la compagnia dei giovani, aveva fiducia nel loro entusiasmo ed era radicale come lo sono i giovani. La sua fiducia era però accompagnata da una ferma richiesta di lavorare e di imparare attingendo direttamente alle fonti. Così ci fece capire che era necessario leggere i testi dei filosofi nella lingua originale, imparare il tedesco per Kant, Schopenhauer, Nietzsche, sapere meglio il latino per Spinoza e Giordano Bruno, il greco per Platone e i sapienti antichi della Grecia. Da lui apprendemmo, come giovanissimi liceali, a conoscere le complicate questioni di filologia attinenti per esempio alla cronologia e all’autenticità dei dialoghi platonici o alle testimonianze e ai frammenti dei presocratici.

Così Montinari ne ricorda la lezione in un sobrio e commosso articolo scritto dopo la morte dell’amico.

Colli vedeva nei filosofi greci da un lato, in Schopenhauer e Nietzsche dall’altro, i punti di partenza per la propria speculazione filosofica. Ed è con questo Nietzsche, lontano da ogni compromissione con l’ideologia e la retorica fascista, che Montinari, ancora ragazzo, si incontra.

La cattiva, perché ideologica, equazione Nietzsche = fascismo, per noi, liceali italiani antifascisti non era valida. Il nostro rapporto con Nietzsche rimase, nell’essenziale, libero da ogni ipoteca, anche quando la guerra finì e, in Germania, Nietzsche cadde vittima dell’opera di denazificazione.

A Lucca, con altri studenti, Montinari manifesta più volte e in più modi il suo antifascismo: una commossa testimonianza raccolta dall’amico Valentino Parlato ricorda “i fascisti che prendono questo

ragazzo dai capelli rossi e ricci lo sbattono in prigione, lo rapano e lui pervicacemente continua”. Per una dimostrazione contro la “Repubblica sociale”, viene, con altri, espulso dalla scuola.

Lo sfondo tragico degli avvenimenti cementa ancor più le amicizie. Molto tempo dopo, nel 1969, in una lettera da Weimar a Colli si legge il ricordo di quegli anni nella continuità di un legame:

Caro Giorgio,ti ringrazio molto per la tua lettera che è arrivata proprio il giorno del mio

compleanno. Ringrazio anche Anna dei suoi auguri che ho sentito affettuosi, come sempre. Quando avremo un nuovo 4 aprile come quello di 25 anni fa? Ricordi?... Se non sarà giovane come quello dovrà essere di nuovo nella riunione di tutti noi, vecchi e nuovi, e sarà bello ugualmente.

Quella lontana festa di compleanno del 1944, cui parteciparono in casa del maestro, tutti gli amici, si protrasse fino all’alba a causa del coprifuoco. Era anche un congedo: poco tempo dopo, infatti, Giorgio Colli, per il suo antifascismo, fu costretto a fuggire in Svizzera, attraverso la Valtellina. Mazzino Montinari accompagnerà nella fuga il maestro che resterà, in un campo-scuola per profughi, fino alla primavera del 1945. Nel settembre del 1944 la città di Lucca venne liberata dagli alleati e il giovane studente poté riprendere gli studi forzatamente interrotti e frequentare l’ultimo anno. Nel giugno del 1945 conseguì la maturità.

Di questo periodo lucchese e di questa piccola comunità anticonformista e critica, oltre ad Anna Musso Colli, Fausto Codino, Gigliola Gianfrancesco Pasquinelli, Clara Valenziano, Linda Bimbi, Enrico Ramundo, Olga Tulini, amico prediletto è proprio Angelo Pasquinelli che, sedicenne, di due anni più anziano di Mazzino, fece la scelta della resistenza (“il migliore di noi divenne un combattente per la libertà”).

Pasquinelli, che con lavori su Schopenhauer e sui filosofi presocratici aveva già avuto modo di mostrare le sue doti di studioso, morì nel giugno del 1956: la sua improvvisa scomparsa fece di nuovo incontrare Colli e Montinari dopo un periodo di esperienze personali assai differenti.

2.

La scuola “dura”. L’educazione storica

Nel novembre del 1945, Mazzino Montinari vinse il concorso di ammissione alla classe di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa, una delle istituzioni scientifiche più prestigiose e di alta tradizione.

Così egli stesso descrive la sua attività di ricerca in quegli anni presso la Scuola Normale, in un curriculum, scritto in tedesco, nel gennaio del 1970, per sostenere l’abilitazione a Basilea:

Potevamo usufruire dell’ insegnamento interno e del contatto quotidiano con eccellenti docenti universitari come Giorgio Pasquali (Filologia classica) e Delio Cantimori (Storia). Accanto agli esami universitari dovevamo, come studenti della Scuola Normale Superiore, sostenere tra l’altro un colloquio annuale su una nostra personale attività di ricerca. Il primo anno trattai del presocratico Parmenide (era relatore il professor Cesare Luporini), nel secondo mi dedicai ad un problema che riguardava gli inizi del cristianesimo, dato che studiai le testimonianze greche sugli Esseni e i terapeuti: condussi quest’indagine sotto la guida dello storico Delio Cantimori. Grazie a un suggerimento di Cantimori, che io consideravo ormai il mio maestro, affrontai nel terzo anno universitario alcune questioni che concernevano la Riforma (cattolica) e la Controriforma. Studiai l’opera di un santo e riformatore cattolico (Giovanni Leonardi) sul finire del sedicesimo secolo. Nell’estate 1948 definii, col consenso del professor Delio Cantimori, il tema della mia tesi di laurea: la Riforma protestante nella repubblica di Lucca, dai suoi inizi (intorno al 1526) sino all’emigrazione a Ginevra e a Basilea dei riformati lucchesi (1542-46). Nel portare avanti i miei studi, soggiornai a Roma nell’autunno del 1948 (Biblioteca Vaticana), e terminai poi il mio lavoro nell’Archivio di Stato di Lucca. Nel novembre 1949 superai con successo l’esame di laurea all’università. Contemporaneamente ebbe luogo anche l’esame finale presso la Scuola Normale Superiore.

Nella scelta di Parmenide per il primo colloquio, si avverte il

decisivo influsso di Colli, che in quegli anni continua a frequentare a Lucca. Ben presto però l’interesse per la storia prende il sopravvento e l’oggetto della ricerca è scelto nel campo praticato da Cantimori con maggiore impegno e continuità: quello della storia delle eresie e dei movimenti di riforma religiosa. Gli studi sulla riforma cattolica a Lucca, che si concludono con il lavoro di tesi, anche se non furono continuati da Montinari, hanno un buon valore scientifico e furono successivamente ripresi ed utilizzati in vario modo da altri storici che si occuparono dello stesso problema (Ristori, Carocci, Berengo, Perini). Al di là della accurata ricerca in Archivio (Berengo riconosce per una parte specifica quanto debba alla tesi di Montinari) mi sembra interessante mettere in luce il valore dato in quel periodo alle questioni religiose: come Montinari si proponeva di confermare attraverso fonti e prove (individuando ad. esempio i mestieri degli inquisiti), la tesi di una forte partecipazione popolare alla riforma per la mediazione dei frati degli ordini mendicanti e dei maestri di scuola, in quanto è nelle controversie teologiche che trovano espressione bisogni etici ma anche bisogni materiali.

Nella relazione Ricordo di Delio Cantimori tenuta all’Istituto nazionale di Studi sul Rinascimento in occasione della presentazione del volume postumo di Delio Cantimori Umanesimo e religione nel Rinascimento (Einaudi 1975), Montinari rievocava quegli anni di Normale ed il senso della sua scelta per la storia:

Non è che noi, studenti di allora, avessimo in dispregio, per intolleranza giovanile, gli studi di filosofia: ben al contrario, noi ritenevamo di rendere concreti anche quegli interessi alla scuola di uno storico che aveva dietro di sé, come tutti sanno, una approfondita formazione filosofica e di cui volevamo accogliere l’invito a cimentarci in ricerche storiche di prima mano (quindi anche negli archivi). Ma si ricordi ciò che ha detto Eugenio Garin su Cantimori nel suo ritratto del 1967: “Nei giovani, a cui con scontroso amore dava tanta parte di sé, combatté con uguale asprezza le due tentazioni: del “particolare” cercato come fine a se stesso, e del generico sostituito alle idee generali”.

Del resto, l’apertura, piena di presupposti etici, nei confronti della storia già è leggibile, con la lezione di Luigi Russo, nello

svolgimento del tema di ammissione al concorso normalistico, sull’ispirazione religiosa e politica dei “Promessi sposi”. La storia appare capace di ricomporre “con serena equanimità e vera logica di comprensione” “l’irrazionale, lo spezzato, il frammentario: tutto ciò insomma che conferisce tormento e disagio ad uno spirito che tutto voglia accogliere in sé”. È questo un segno di precoce indipendenza intellettuale anche rispetto alle posizioni schopenhaueriane di Colli. Sono interessi che trovano alimento e maturazione nel clima di quegli anni in Normale: da una parte una scuola rigorosa di alta cultura e attenta in particolare all’ermeneutica dei testi, dall’altra la partecipazione generosa alle lotte politiche e civili del momento, l’impegno sociale di molti studenti e docenti nella ricostruzione democratica. Così Montinari, nell’intervento precedentemente citato, continua:

Non devo dimenticare un altro aspetto della nostra adesione allo studio della storia: eravamo, tutti quelli che lavoravano con Cantimori a Pisa, più o meno marxisti, tutti più o meno impegnati nel lavoro politico di base del nostro partito che era il pci. Ma, proprio grazie all’insegnamento di Cantimori eravamo anche immuni da qualsiasi velleità di teorizzazione ideologica e bene avvertiti, io credo, dei gravi pericoli che si corrono di cadere nel generico e nell’insignificante, quando si indulga alla cosiddetta applicazione del materialismo storico nella ricerca. Certe disinvolte discussioni recenti e attuali, soprattutto tra i giovani marxisti di oggi [la testimonianza è del gennaio del 1976 — G.C.], sul cosiddetto rapporto tra struttura e sovrastruttura sarebbero state per noi impensabili, né sarebbe certo mancato il rimbrotto del nostro maestro (questa parola non piaceva a Cantimori, però!), se ci avesse sorpreso a baloccarci nel generico dell’ideologia.

Fra i compagni di quegli anni: il più anziano Giuseppe Garritano che, proveniente dalle file della Resistenza, aveva partecipato al concorso per partigiani e reduci, Fausto Codino, Giorgio Giorgetti, Giorgio Tonelli, Claudio Cesa, Carlo Ferdinando Russo, Marino Raicich, Giuseppe Torresin, a cui si unì poi, superando il concorso per il III anno, Angelo Pasquinelli. Con tutti questi mantenne legami di amicizia: con alcuni condivise anni difficili di militanza politica e di lavoro culturale. Ed anni difficili si

preparavano: segno tangibile fu, nel novembre del 1948, l’estromissione per motivi politici, dalla carica di direttore della Scuola Normale, di Luigi Russo, figura tra le più rappresentative della cultura dell’epoca che aveva animato con la sua passione civile la discussione politica di quel periodo. Inutili le proteste e gli appelli del mondo culturale progressista. Tra i firmatari troviamo anche il nome di Mazzino Montinari.

3.La “battaglia delle idee”.

Militanza politica e culturale

Dopo un soggiorno a Francoforte (da febbraio a maggio del 1950) con una borsa di studio, Montinari sceglie la militanza a tempo pieno nelle organizzazioni culturali del partito e lavora a Roma dal novembre del 1950 all’aprile del 1953 per le “edizioni Rinascita” del pci. In quel periodo, nella sinistra, grande importanza viene data al lavoro editoriale per la pubblicazione dei testi della tradizione democratica e socialista in una volontà che unisce rigore etico e scientifico e costituisce parte essenziale nella “battaglia delle idee”. All’intellettuale comunista si chiede, in quegli anni, un impegno ed una dedizione assoluta: il lavoro culturale e quello politico tendono a identificarsi in un’unica tensione di mutamento che assorbe tutte le energie. Quest’epoca viene vissuta dal giovane Montinari come piena di certezze e di fedi, ricca di rapporti umani e di amicizie.

Certo non sono gli stessi occhi coi quali oggi io guardo alla realtà, rispetto poniamo, a esattamente trenta anni fa, quando cominciai a lavorare per il partito comunista e precisamente nelle Edizioni rinascita di gloriosa memoria. I miei anni cinquanta cominciarono esattamente il 1° novembre 1950: Valentino Gerratana e Giuseppe Garritano, Ambrogio Donini e Gastone

Manacorda, ma anche Paolo Robotti e Aldo Lampredi e Aldo Vercellino... E Marx e Engels e Lenin e Stalin.

Montinari ha sottolineato la sua lontananza, anche in quel periodo, dall’impegno diretto nell’elaborazione di linee generali di politica culturale e la sua decisa preferenza per un lavoro di base: “dopo 8 ore di lavoro redazionale, preferivo, se mai, andare in sezione, fare la campagna di tesseramento, queste cose concrete, palpabili...”. Questo aspetto di impegno concreto nell’attività del partito rimarrà una costante: negli anni Settanta, dopo il ritorno in Italia, darà un contributo, a livello di base, presso la sezione di Settignano, dove abitava; e come preside della facoltà di Magistero dell’Università di Firenze affronterà, anche in articoli ed interventi, problemi specifici e concreti della riforma universitaria.

Comunque il lavoro redazionale a Roma, la revisione di traduzioni, la composizione di testi corretti, il venire a parte della discussione di criteri e scelte editoriali etc., daranno al giovane Montinari un’esperienza preziosa per il suo successivo lavoro editoriale con Colli.

Così pure, più di una ordinata e bene incanalata carriera accademica specialistica, questi anni di “apprendistato”, apparentemente disordinato, ma anche rigoroso, stimolato in più direzioni, giovano come premessa ad un’impresa di così vasto respiro culturale come l’edizione di Nietzsche.

Dal maggio del 1953 al maggio del 1954 l’attività culturale-politica di Montinari nell’organizzazione del pci, continuò a Berlino est. L’aver assistito alla rivolta del giugno del 1953, portò le prime incrinature — come egli stesso ha dichiarato — “in questa pacifica visione totale del mondo”. È un periodo di forte allargamento di interessi culturali: in particolare nella direzione della letteratura. A partire da questi anni inizia il suo approfondimento di Mann: un’altra via al mondo culturale di Nietzsche. La forzata pausa del servizio militare a Bari (dal maggio 1954 al settembre 1955) comporta il maturarsi di una svolta. Vi sono degli appunti di riflessione personale, dall’Ospedale militare di Bari, una sorta di bilancio per andare avanti, datati 14 novembre 1954, in cui si legge,

tra l’altro, il proposito di impegnarsi in una diretta produzione letteraria. Ritengo opportuno riportare qui per intero queste riflessioni:

Per comodità e per chiarire le idee ritengo necessario fare un bilancio programmatico della mia situazione attuale. Non è facile dissolvere il nodo di sensazioni dolorose dovute al passato, da intuizioni generali e insieme il problema della mia “destinazione”. La cosa migliore è invece appunto descrivere la situazione e trarne alcune indicazioni.

Teoricamente. Ci sono due importanti novità (poi vedremo la loro ripercussione sull’impostazione definitiva che dovrà in qualche modo prescindere, pur derivandone, dalla situazione per aiutarmi a dirigere): interesse per la creazione artistica concreta (ma non per le teorie estetiche!), desiderio di rivedere a fondo gli strumenti del mio pensiero occasionato dallo studio sia pure superficiale dell’elettrologia e della lettura di un libretto di Geymonat (siccome scrivo per me stesso [!!!] non c’è bisogno che accenni ai cosiddetti “limiti” ecc.ecc.). Cecov Turgheniev e Mann sono le esperienze letterarie di questo periodo. Vorrei saper fare come loro ma trovo in me stesso del materiale troppo personale ancora e troppo vicino. Sono d’accordo in questo con quel che dice Mann nel Tonio Kröger. Per descrivere qualcosa non bisogna parteciparvi come l’uomo comune.Averlo vissuto sembra di sì. Non si dice, naturalmente, che tutto quello che è da descrivere o meglio raccontare debba essere vissuto, probabilmente bastano delle esperienze tipiche che ne includano altre e insieme “orecchie aperte ma non partecipi, non doloranti”. Credo che anche i rimedi sociali supposti per la “redenzione” individuale di un qualche uomo macinato dalla realtà attuale (non dico capitalistica intenzionalmente!) siano estranei al racconto se forse non derivino da un altro uomo che sia individualmente qualcosa e non un “portavoce dell’epoca” (questa citazione è da Engels non da me come la prima).

* * * Che cosa vogliamo insegnare agli uomini? Rispondo, in questi giorni:

non a star bene per sé ma per cercare la verità e, se posso, io voglio gettarmi avanti e sapere quanto è possibile: solo in questo senso li aiuterò. Altri li organizzerà per la rivoluzione: io voglio il mio cervello pieno di nozioni e di verità. Voglio i problemi per me dove ora sono stati portati. La scienza moderna è ciò che si deve conoscere. I problemi che mettono a soqquadro tutte le maniere tradizionalistiche di vedere le cose. Non posso permettermi nessuna conservazione perciò non ritengo di essere capace per il lavoro pratico.

* * * Superare in tutti i modi il senso di inferiorità anche nelle relazioni con gli

altri, sapere sempre ciò che voglio e volerlo fino in fondo cinicamente.* * *

Traccio ora il programma immediato. 1) Cecov, Tolstoi, Dostojevski — gli americani — Mann 2) psicanalisi 3) storia delle scienze esatte (Albergamo, Colorni, Geymonat, Enriquez) e filosofia delle scienze (Dewey, Russell) 4) Engels: Dialettica della natura, Antidühring; Lenin: Materialismo e empiriocriticismo.

* * * Proust, Kafka, Kant, Hegel, Marx e Keynes. — Tutto dopo assieme ad

altro.

Queste riflessioni rivelano le inquietudini ed il travaglio personale di un periodo di transizione che si risolvono, prevalentemente, nell’esercizio appassionato del conoscere. Ma la ricerca di arricchimento in più direzioni è propria in quegli anni a molti intellettuali del pci; e la fondazione della rivista “Il Contemporaneo”, con il suo programma, ne è un segno:

Noi ci rivolgeremo alla poesia ovunque essa si trovi, in qualunque corrente essa si diluisca o si muova; non taceremo né rinnegheremo alcun risultato da qualunque parte venga, qualunque sia l’etichetta che porta. Questo onesto sforzo, dopo la nostra dichiarazione di principi, è forse, per il nostro lavoro di revisione, di ricerca e di scoperta, la cosa più importante.

Alla fine del periodo militare Montinari torna a Roma e continua il suo lavoro nel partito: dal settembre 1955 al settembre 1956 è direttore della Libreria Rinascita, dall’ottobre 1956 alla fine del 1957 ancora redattore alla casa editrice. Intensifica l’attività di traduttore e di organizzatore culturale. Traduce infatti Karl Kautsky, Etica marxista e concezione materialistica della storia (Feltrinelli), il grosso volume di Franz Mehring, Storia della socialdemocrazia tedesca (Editori Riuniti), e con l’amico dei tempi della Normale, Fausto Codino, il libro di György Lukács, Prolegomeni a un’estetica marxista (Editori Riuniti). Organizza mostre

dell’editoria italiana ed estera, dibattiti, presentazione di libri etc. Nel 1957 fonda con Rosa Spina il Centro Thomas Mann che prende, soprattutto nel suo primo periodo, molte iniziative culturali (questa attività ebbe echi anche sulla stampa della Germania occidentale: sullo “Spiegel”, e su “Die Zeit”).

Le pubblicazioni di questi anni — non molte rispetto alla mole di lavoro svolto come organizzatore di cultura — mostrano tutte i segni e le inquietudini della ricerca all’interno di un quadro generale marxista non messo ancora in crisi.

Parallelamente al grosso lavoro di traduzione dell’opera di Mehring, Montinari pubblica su “Società” una recensione-discussione del libro di Höhle: Franz Mehring, sein Weg zum Marxismus 1869-1891. C’è il tentativo — caro a Cantimori — di dire cose importanti attraverso il confronto con un altro testo. La recensione approva la critica di Höhle alle unilateralità e al dogmatismo di Lukács, incapaci di comprendere Mehring. D’altra parte anche la critica di Höhle al filosofo ungherese non è sostenuta, per Montinari, da una vera “profonda dimostrazione storica”, ma procede a colpi di citazioni dai sacri testi. “Di una argomentazione propria, che sostenga le citazioni, neppure l’ombra”. Montinari si fa poi decisamente polemico contro le costruzioni filosofiche totalizzanti di Lukács, difendendo Mehring dall’accusa di assoluta incomprensione della portata filosofica del materialismo storico, che sarebbe stato da lui assunto soltanto come “un criterio metodologico per la ricerca storica”.

Certo a Mehring non fu dato di poter compiere le evoluzioni dialettiche sulla Ganzheitlichkeit della concezione del mondo di Marx e di Engels per cui, poniamo, si possono senz’altro mettere le une accanto alle altre citazioni dalle opere giovanili di Marx e brani dell’Antidühring e trarne le debite conclusioni su qualsivoglia problema speculativo.

Queste affermazioni testimoniano la crisi decisiva rispetto alle angustie e rigidezze dell’ideologia: la polemica con le posizioni di Lukács e col suo riduzionismo antinietzscheano sarà al centro di un saggio, pubblicato nel 1973: Per una discussione dell’interpretazione lukácsiana di Nietzsche. Le premesse si

trovano già in questo atteggiamento a favore dell’accertamento storico contro le prevaricazioni ed il totalitarismo dell’ideologia. Eppure, negli anni precedenti, nella ricerca di Montinari di nuovi possibili riferimenti culturali e nella sua volontà di rendere più complessa la “tradizione” di cui farsi eredi nella direzione del socialismo, era avvertibile la suggestione lukácsiana (“mi si consenta di dire che anche Lukács appartiene all’epoca non rinnegata delle mie certezze” — scriverà nella Prefazione a Su Nietzsche, 1980). In uno scritto non pubblicato (una recensione o forse, più probabilmente, un parere editoriale per la traduzione), in cui si dà ampiamente conto del volume di Hans Mayer, Literatur der Übergangszeit-Essays. [Saggi sulla letteratura dell’epoca di transizione] (Berlino 1949), Montinari valorizza il tema centrale della letteratura della transizione come espressione della “coscienza infelice”. Vi è presente una valutazione di Goethe quale rappresentante della fine di un’epoca:

Al tempo stesso egli vedeva ed accettava — sottolinea il Mayer — i nuovi compiti consistenti nel rinnovare la realtà con la solidarietà di tutti gli uomini [...]. Come è stata accolta nella letteratura tedesca l’eredità goethiana? Se si eccettuano le geniali intuizioni comunistiche di Heine, gli scrittori tedeschi in generale non hanno saputo adempiere il compito posto loro dal grande realista del Faust [...]. L’eredità di Goethe — conclude il Mayer — deve oggi ricevere una nuova interpretazione perché anche noi, proprio come Goethe a suoi tempi faceva, dobbiamo intendere ogni tradizione sotto il criterio della prassi, come mutamento, nuovo sviluppo, piena presa di possesso.

Heine è un autore verso cui Montinari manterrà un rapporto simpatetico, su cui farà spesso i suoi corsi universitari e che sarà oggetto anche del suo lavoro filologico: in lui individuerà quella tensione possibile tra arte e rivoluzione, in una scelta sofferta che comunque non condanna il comunismo. Nel 1956, per il centenario della morte, pubblicherà un articolo sull’“Unità”, dal titolo Heine e il comunismo, che ha al centro questa tematica (2 marzo 1956). Ma la presenza nei saggi di Mayer che più interessa Montinari è quella di Thomas Mann in un passaggio tipico, per molti intellettuali comunisti del periodo: Mann rappresenta infatti — per gli esiti

democratici del suo percorso — una mediazione non “proibita” verso i temi culturali della decadenza, la possibilità di arricchire la tradizione attraverso l’esperienza del “tragico”. È all’opera una sorta di teleologia che indica come data la via da percorrere e che pertanto rassicura. Anche se l’atteggiamento di Montinari è simpatetico con le posizioni di Mayer per la sua lontananza dalle rigidezze dogmatiche della scuola, la recensione approva ancora come centrale il tema dell’eredità dell’umanesimo borghese in una direzione “salvifica”.

L’analisi marxista non si trasforma nel suo contrario: in meccanica applicazione di schemi tratti dalla concezione materialistica della scuola. Mayer può definire con sicurezza il significato sociale e politico di uno scrittore senza perdere mai in nessun caso la sensibilità per i valori umani e artistici che nella contraddizione stessa tra vera poesia e ideologia politica reazionaria vengono alla luce almeno nei più autorevoli rappresentanti della decadenza letteraria borghese. La letteratura della crisi, della transizione, è l’oggetto di queste ricerche ma, com’è naturale, Mayer sa indicare i motivi che preludono ai tempi nuovi, al socialismo che solo può assumere l’eredità dell’umanesimo borghese, da Goethe a Thomas Mann, inteso come critica alla realtà disumana del capitalismo.

In un saggio del 1975, Appunti su Thomas Mann, Nietzsche (e Goethe), Montinari farà una decisa autocritica di questi aspetti “ideologici”:

esaminare storicamente e filologicamente il rapporto Nietzsche — Thomas Mann vuol dire, secondo noi, abbandonare la pretesa di inquadrare ideologicamente i due autori, soprattutto vuol dire non cercare di collocare Thomas Mann in uno schema storico di salvazione, per cui egli si sarebbe svolto fino a presentire le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità avviata verso il socialismo, o — quanto meno — auspice Goethe si sarebbe gradualmente affrancato dall’influenza malefica di Nietzsche. Questo schema “provvidenziale” non è adeguato a cogliere la specificità individuale storica né di Thomas Mann, né di Nietzsche. [...] Non conviene perdere la capacità della distinzione, altrimenti invece di fare storia, di ricercare cioè il tipico per giungere alla comprensione reale di un determinato fenomeno, [...] si finirebbe per appiattire tutto in una visione precostituita, che in fondo non ha bisogno di

verifiche.

Il 1956 — con tutti gli avvenimenti di quell’anno dolorosi per la coscienza dei comunisti — accelera in Montinari un processo di crisi e di revisione delle posizioni, già in corso da qualche anno.

In un appunto di dieci anni più tardi così si legge:

Il risultato più importante dell'anno fatale 1956 è la consapevolezza che la sfera politica non può assorbire interamente l'individuo imponendogli una ideologia, una religione della politica [chi ha capito ciò a sue spese sa di avere considerato in modo errato appunto la politica]. La formulazione migliore di ciò l'ha data P. Togliatti nel suo memoriale di Yalta. Ma già in Gramsci si

poteva leggere che “si fa la rivoluzione anche per potersi occupare di metafisica” — Ora è compito degli intellettuali rifondare la sfera loro specifica, senza dar credito in bianco al partito. Questo è il pericolo: la vita non conosce assicurazioni a priori. Anche se il partito oggi dice che — Kafka ecc— non gli si deve dare credito, e invece si deve nei fatti dimostrare la peculiarità di quella sfera — Questo rapporto — dialettico — va mantenuto. E se non è stato mantenuto è sempre stata colpa degli intellettuali

La morte dell’amico Angelo Pasquinelli, il ritrovarsi con Colli, l’apertura di un discorso filosofico con lui, la sua proposta di un’“azione” Nietzsche legata a coraggiose iniziative editoriali, sullo sfondo di avvenimenti storici laceranti, portano Montinari alla maturazione di una scelta importante per la sua vita.

Il rinnovato incontro con Giorgio Colli mi aiutò a portare a termine questo processo di chiarificazione su me stesso. Alla fine del 1957 cessai la mia attività di funzionario del partito, e dal 1° gennaio del 1958 mi trasferii a Firenze, per lavorare con l’amico ritrovato.

4.Il “nichilismo positivo” di Nietzsche

secondo Giorgio Colli

In un taccuino di Giorgio Colli pubblicato, insieme ai quaderni postumi, dal figlio Enrico, alla data 28-30 gennaio 1957 si legge: “Viaggio a Roma [...]. Mazzino risorge. Ancora casa editrice”. Così Colli saluta la decisione dell’amico di collaborare con lui, meditata in questo incontro e attuata nel gennaio 1958: “Mazzino segretario dell’“universale””. Nelle brevi note dell’anno 1957, si vede come in Colli il “desiderio di lottare”, l’impegno agonistico contro l’attualità sia strettamente legato sia ad un confronto originale con Nietzsche che al progetto della collana “Enciclopedia di autori classici” presso la nascente casa editrice dell’amico Paolo Boringhieri. “Tutti credono di aver capito Nietzsche. Ma poco importa il “capire”. Il vero “capire” è “fare” qualcosa nella sua direzione” — scrive Colli nei quaderni del 1957 in cui il lavoro su Nietzsche è intrecciato al progetto agonistico di un “libro sulla nostra crisi”. Questo testo, come risulta dagli appunti, voleva essere una risposta attiva alla “decadenza” attraverso il saldo intreccio della lezione di Schopenhauer, di Nietzsche e dei Greci: “Nichilismo corrosivo, rimpianto per splendide epoche del passato, gemiti e amara ironia sulla degradata natura umana: siamo stanchi di tutto ciò”. “La ragione dell’uomo è oggi in grado di tirare le somme dei suoi slanci, delle sue avventure, dei suoi capricci. Ciò che rimane, dopo questo esame, è la vita dell’uomo, quale può essere vissuta. E la decadenza non importa, non è un argomento contrario decisivo — quasi sempre l’uomo è stato in decadenza. Qua e là emerge la consapevolezza di nuove possibilità offerte dall’epoca attuale in direzione opposta alle forme di vita dominanti.

Per quanto riguarda Nietzsche, Colli non vuole essere “interprete” di Nietzsche. Nella premessa editoriale (1963) alla pubblicazione Adelphi delle Opere, su cui torneremo, si legge:

“Nietzsche non ha bisogno di essere interpretato in nessun modo, di essere cioè determinato concettualmente secondo l’una o l’altra direzione, proprio perché la sua azione sulla vita individuale è diretta”. Questo non significa elogio di una lettura rapsodica o immediata, indica anzi una via più laboriosa. Continua infatti Colli: “Basta soltanto accoglierlo, non secondo frammenti casuali o variamente suggestivi, ma nella sua totalità e unità. Questa via più laboriosa dovrà privarlo di una falsa popolarità; in compenso la sua azione — quella che egli ha voluto — si manifesterà per la prima volta, e se essa sarà salutare o dannosa, nessuno può dirlo”. Agendo direttamente sulla vita, Nietzsche ha cioè la forza di rivelare ciò che uno è. Ma Colli mette in guardia anche dai pericoli di una lettura storica: l’individuo Nietzsche è

come un’“entelecheia”, per la quale il tempo non è altro che la condizione del suo manifestarsi. L’apprendimento di una tale idea — per Platone le anime sono simili alle idee — la cui compattezza è primordiale, si sgrana attraverso la ricostruzione di una totalità presupposta, dove le espressioni delimitate hanno il valore di frammenti melodici ed armonici di una musica ignota. È opportuno ascoltare Nietzsche in questo modo.

L’atteggiamento fortemente teorico con cui Colli ha affrontato Nietzsche è libero da ogni lettura già data (ostile quindi alle grandi interpretazioni, Heidegger in primo luogo, come ad ogni recupero o “giustificazione” che parta dal nostro presente). Quello di Colli vuole essere un confronto diretto senza le devozioni del nietzscheano (“le debolezze di Nietzsche devono essere scoperte con malvagità, senza indulgenza, perché così lui ha fatto con gli altri” — scrive Colli in Dopo Nietzsche); ma anche un confronto attento al complesso movimento e percorso del suo pensiero. Di qui, ci sembra, la necessità, che Colli per primo ha sentito, di una lettura integrale di Nietzsche, su testi sicuramente stabiliti e restituiti nella loro integrità ed al loro contesto, la necessità appunto dell’edizione critica di Nietzsche.

Fin dall’inizio troviamo in Colli (che ha insegnato dal 1949, ininterrottamente, all’Università di Pisa, Storia della filosofia antica), un costante intreccio della sua riflessione sul mondo greco,

dei suoi approdi teorici, con la filosofia di Nietzsche. Per comprendere il modo in cui Colli affronta Nietzsche,

bisogna prendere le mosse dall’opera Physis kryptesthai philei. Saggi di filosofia greca, (1948), dedicata alla memoria del filosofo tedesco, e nella cui premessa si legge che “ben poco di vitale è stato compreso sinora della Grecia, all’infuori di quanto hanno detto Nietzsche e Burckhardt”.

Ma il tessuto teorico di quest’opera, la lettura della filosofia greca dagli Eleati a Platone, è attraversata dalla metafisica di Schopenhauer, proprio nel senso che la chiave per intendere questo mondo filosofico è il contrasto tra il regno delle apparenze e della rappresentazione e il fondo dell’autenticità noumenica. Così viene letto sia il tema platonico dell’accostamento filosofia-musica, quello dell’eros contemplativo che poi nel Fedro si compromette con il mondo dell’apparenza abbandonando la “noumenica solitudine” propria del Fedone, sia il tema del pessimismo empedocleo legato alla saggezza delle Upanishad. La stessa definizione infine di physis, che Colli intende appunto come “interiorità noumenica” in cui il noòs si interiorizza abbandonando l’alternativa dell’espressione, rimanda alla metafisica di Schopenhauer. Malgrado lo scritto del 1948 insista già sulla tesi, centrale in Colli, che una comprensione della teoria platonica delle idee passa attraverso le pagine del Mondo come volontà e rappresentazione, nondimeno la funzione della metafisica di Schopenhauer è esclusivamente preparatoria, non arriva fino alla “geniale divinazione” del mondo greco propria invece del giovane Nietzsche, del Nietzsche soprattutto fedele a Schopenhauer. In Dopo Nietzsche, viene apertamente alla luce questa lontana disposizione di Colli per cui Schopenhauer parla in linguaggio nietzscheano, Nietzsche in linguaggio schopenhaueriano. Qui si legge che

Schopenhauer non ha capito che senza i Greci in filosofia non si comincia neppure, e anche il fascino individuale di quei personaggi, gli è sfuggito... persino i discorsi di Platone gli giungono attutiti, ovattati, e lui non esita a manipolarli in una cucina moderna. [...]

La metafisica di Schopenhauer è fiacca, funebre nei colori, per restituire

quel modello.

Quest’ultimo accenno alla metafisica di Schopenhauer come debole, rigida e fredda, è il punto nodale per intendere la preferenza concessa a Nietzsche su questo aspetto, che significa accentuare del fondo metafisico una funzione attiva ed espansiva, “eroica” e non quella di ripiegamento pessimistico. Nello scritto del 1948 così si legge a proposito di Empedocle: “il pessimismo che spezza ogni determinazione non si consuma in un tormento distruttore, ma si risolve in un ottimismo più forte”.

È la funzione che il giovane Nietzsche attribuisce a Schopenhauer. La fedeltà alla sfera dell’autentico ha un carattere agonistico verso le menzogne dell’epoca diventate istituzioni e verso il filisteismo generalizzato: “L’enigma che deve risolvere — si legge in Schopenhauer come educatore — l’uomo può risolverlo soltanto partendo dall’essere, nell’essere così e non altrimenti, in ciò che non trapassa [...] alla sua anima s’impone un compito enorme: distruggere tutto ciò che diviene, mettere in luce tutto quel che di falso è nelle cose”.

Schopenhauer come educatore, è lo scritto di Nietzsche con cui significativamente Colli inaugura l’Enciclopedia di Boringhieri (e che probabilmente ne vuole indirizzare i programmi, indicare gli scopi). La sua traduzione da parte di Mazzino Montinari segna anche l’inizio della stretta collaborazione e del sodalizio culturale di quegli anni. Nella prefazione di Colli l’accento è posto sul carattere “agonistico” e sui temi dell’“azione Nietzsche”.

Dal dolore di questa conoscenza sorge una nuova possibilità del nostro agire, nel conservare e rafforzare l’esistenza della cultura [....] capire questi filosofi significa operare nella direzione da essi indicata, in modo che l’“inattualità” della loro vita, il loro “distacco” dagli uomini e dagli interessi storici che li circondavano non si riproducano in altri filosofi solitari, simili a loro, ma siano il principio di un rivolgimento, che faccia risorgere la cultura come vita vivente, essenza di una società, sia pure ristretta di uomini.

Qui è presente l’altro grande interlocutore del giovane Nietzsche, e per riflesso, di Colli, cioè lo storico Jacob Burckhardt,

con il tema della forza critica e dell’intima e spontanea produttività della cultura contro le potenze stabili dello Stato e della religione, che ha in sé implicita una filosofia — come si legge nell’introduzione alle Letture di storia e di arte — “per certi aspetti dualistica, della potenza e della grandezza”. Colli insiste giustamente sulla presenza di Burckhardt nel giovane Nietzsche e sulla curvatura attiva dell’atteggiamento schopenhaueriano nelle pagine dedicate alle Conferenze e alle Inattuali come pure, in questa direzione, vanno anche le importanti prefazioni agli scritti di Burckhardt, oltre a quella sopracitata, nell’“Enciclopedia Boringhieri”. Ad esempio così si legge nell’introduzione a Sullo studio della storia nella traduzione di Montinari:

Ma questa prospettiva [di Burckhardt] ci aiuta ad andare al di là della pura conoscenza: proprio l’aspetto permanente, ciclico, uguale a se stesso, filosofico insomma ci schiude la possibilità di un’azione, poiché ogni crisi — anche quella dei nostri tempi — può essere risolta positivamente. La cultura può condizionare lo Stato.

Il carattere critico della cultura non sta però nella polemica diretta con il proprio tempo, che acquisterebbe in ogni modo l’impronta dell’attualità, e quindi della politica, ma nella fedeltà a una superiore sfera originaria cui si lega il sapiente per poi riportare la verità agli uomini. C’è quindi in Colli, dichiarato, un radicale antistoricismo, che rimprovera anche a Schopenhauer di non essere sfuggito alla pretesa di poter modificare l’essere, il nocciolo delle cose, attraverso la teoria della noluntas, della negazione della volontà. Il destino invece di Nietzsche, per molti aspetti, è quello moderno di homo scribens, legato cioè alla compromissione con le strutture dell’apparenza — e che è tipica della parola scritta in contrasto con la comunicazione dialettica orale, che riflette più da vicino il fondo inesprimibile: “Nel profondo nulla cambia, non c’è divenire”. Attento com’è all’intero percorso di Nietzsche, Colli ne vede bene il fitto discorso intrecciato con l’epoca, con la cultura positivistica ad esempio, ma lo ritiene un aspetto inessenziale, secondario, di “figlio del proprio tempo”. E questa attenzione al mondo contemporaneo, la sua volontà di intervenire nel mondo,

cambiarne il corso fino al delirio ultimo della “grande politica”, fa sì che — scrive Colli “la sua inattualità si rovesci in un eccesso di attualità”. In questo, Colli istituisce una analogia sorprendente tra il destino di Nietzsche letterato e quello di Platone con il prevalere della tracotanza retorica, cioè della trasformazione della dialettica in discorso persuasivo, autoritariamente rivolto al pubblico. Ma così come la settima lettera, centrale nella riflessione di Colli, svela un Platone esoterico, legato alla sapienza, accanto al Platone tiranno-retore che compete con Isocrate per il dominio attraverso un uso spettacolare della parola, così il Nachlaß è decisivo per restituire anche il Nietzsche esoterico, che mostra “il sedimento di una meditazione pura” proprio nel momento in cui “un affannoso impulso artistico — politico cercherà di attualizzare l’inattuale”. La nozione di volontà di potenza, connessa per molti aspetti alla “grande politica” di Nietzsche, è vista da Colli come il tentativo di istituire una falsa comunicazione, un raccordo inautentico tra inattualità (sfera metafisica indicibile) e attualità (regno delle apparenze). Colli avvicina la volontà di potenza alla volontà di Schopenhauer in quanto teoria metafisica, rivelazione di un’essenza del mondo. L’aspetto metafisico è centrale, rappresenta il momento di inattualità, ma poi la pretesa di “dire”, di “nominare” l’essenza noumenica e di trasferirla nella sfera dell’attualità, della rappresentazione, costituisce un tradimento, un espediente del commediante, del letterato. La volontà di potenza è in questo senso legata al progetto dell’opera sistematica della Wille zur Macht. Il nominare, il dire la volontà — secondo Colli — sarebbero messi facilmente in crisi dall’argomentazione dialettica in senso forte. E in realtà il Nietzsche esoterico, che scrive per se stesso, attacca in modo definitivo il concetto schopenhaueriano di volontà rivelandone il carattere di parola che nasconde un processo, di falsificazione rappresentativa che pretende illegittimamente l’immediatezza. (Colli stesso, sulle orme di Nietzsche, sostituisce, nella sua opera teorica, a volontà di potenza e a volontà una metafisica dell’impulso ostacolato).

Colli valorizza la distruzione nietzscheana del soggetto, appunto nel senso di una perdita dell’individuazione, di una mossa radicale

di Nietzsche che evita la ricostituzione di una sostanza entro il regno dell’apparenza e della rappresentazione.

Nietzsche è così per Colli il filosofo di un “nichilismo positivo” che sgombra dalle consistenze metafisiche (soggetto, cosa, valore) il regno dell’apparenza per la manifestazione del fondo noumenico: in tal modo l’apparenza diventa lo specchio terso di Dioniso, immagine non depotenziata né oscurata del dio. Qui sta anche la fedeltà, su cui Colli ha insistito, del suo Nietzsche al suo Schopenhauer.

“A più riprese Nietzsche designa se stesso come nichilista, loda il nichilismo come conseguenza di un’adulta veracità. […] Con questa valutazione positiva del nichilismo si accordano tutti i frammenti antipolitici, in cui raccomanda di non resistere alla negatività del presente, di non intervenire nella sfera dell’azione”. E in Dopo Nietzsche, significativamente: “ma è un nichilismo solo per quello che “noi” chiamiamo cultura. C’è un’espressione umana che si accordi con la naturalezza?”.

Il nichilismo positivo di Nietzsche raggiunge così, per Colli, lo stesso “vertice di tracotanza” toccato dall’uso della dialettica da parte di Zenone di Elea. Come si legge nella Nascita della filosofia:

Per salvaguardare la matrice divina, per richiamare gli uomini verso di essa, egli pensò [...] di radicalizzare la spinta dialettica sino a raggiungere un nichilismo totale. In tal modo egli cercò di portare avanti agli occhi di tutti l’illusorietà del mondo che ci circonda, di imporre agli uomini un nuovo sguardo sulle cose che ci offrono i sensi, facendo comprendere che il mondo sensibile, la nostra vita insomma, è una semplice apparenza, un puro riflesso del mondo degli dèi.

Per Colli è quindi impossibile separare la fecondità di Nietzsche da un nesso costante e sempre ribadito con Schopenhauer e con l’universo della sapienza greca. La lettura di Colli è animata da una volontà di affermazione contro le diagnosi contemporanee sulla decadenza e la crisi, contro ogni ripiegamento intimistico. Proprio perché il nocciolo immutabile della realtà noumenica non è toccato dalle vicende del fenomenico, Colli può interpretare il nichilismo di Nietzsche come liberazione di un fondamento, non liberazione dal

fondamento. Colli espunge come inessenziale il Nietzsche che, fin dai frammenti del 1872-73, vede nel fondamento metafisico uno strumento pragmatico per l’agonismo riformatore, che attribuisce cioè alla metafisica un puro valore “edificante”, di illusione necessaria alla vita. L’antitesi che Nietzsche stabilisce tra creare e conoscere, e che sta al centro della “metafisica dell’artista”, ha come presupposto die Metaphysik als Vacuum; e una volta distrutto il pathos dell’autenticità intorno al fondamento, di cui viene mostrata la genesi umana troppo umana, ciò che rimane è la necessità per il filosofo di fondare dall’alto, per compassione della comunità, miti vitali. In Aurora Nietzsche scriverà:

“Dialettica è l’unica via per giungere all’essere divino e dietro al velo dell’apparenza”: questo afferma Platone, con lo stesso tono solenne e appassionato con cui si esprime Schopenhauer riguardo al contrario della dialettica — e hanno entrambi torto. Perché ciò per cui ci vogliono indicare la via non esiste affatto. E tutte le grandi passioni dell’umanità fino ad oggi non sono state, come queste, passioni per un nulla? E tutte le sue celebrazioni — celebrazioni di un nulla?

E Nietzsche esprimerà poi, in modo definitivo, la sua lontananza da ogni immediatezza conoscitiva che rifugga dalla pazienza del processo e dalla assimilazione delle esperienze: “Noi diffidiamo di tutti quegli stati estatici ed estremi, in cui si crede di “toccare la verità con le mani””.

Con un forte contromovimento rispetto al Nietzsche antimetafisico e, a partire da Umano troppo umano, radicalmente antischopenhaueriano, Colli valorizza la ricerca di un centro immutabile contro l’insensato impulso della ragione costruttiva e contro la proliferazione tecnico — scientifica legata comunque al dominio. Fondamentali, in questo contesto, i temi dello scritto giovanile di Nietzsche su Verità e menzogna in senso extramorale.

La liberazione dalla morale è per Colli una conquista decisiva di Nietzsche nei confronti di Schopenhauer, ma anche qui l’intreccio tra i due autori rimane saldo ed equilibrato: la mossa di Nietzsche serve in realtà a emendare Schopenhauer da una compromissione con la comunicazione inautentica, così come è imposta

dall’irrigidimento delle norme morali del mondo dell’apparenza, a liberare quindi l’aspetto puramente conoscitivo-intuitivo. Esiste infatti in questo scritto giovanile di Nietzsche, una “verità” la cui garanzia è unicamente data dalla società, dall’uso convenzionale e morale, appunto, di metafore stabilite, irrigidite, e proprio per questo esangui (carattere che Colli rimprovera alla metafisica di Schopenhauer).

“La verità — scrive qui Nietzsche- è l’obbligo di mentire secondo una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una moltitudine, in uno stile vincolante per tutti”.

Al mentire convenzionale, “rigida e regolare ragnatela di concetti”, si contrappone come valore la presenza di altre “verità”; cioè metafore libere, sorgive, artistiche, più vicine alla ricchezza del fondo vitale. Di qui la valorizzazione della conquista nietzscheana di un linguaggio aforistico, in cui, scrive Colli “il pensiero si impone come un lampeggiamento, e per lo più viene comunicato nella sua vibrazione immediata [...] non discute ciò che è diverso, non coordina, non si preoccupa della continuità; della coerenza di un’esposizione più vasta, getta via superbamente da sé ogni ceppo, ogni “moralità” deduttiva”.

Mentre Platone si lascia alle spalle la sapienza e dà inizio al logos costruttivo, alla filosofia, Nietzsche compare alla fine di questo percorso. L’estrema sperimentazione delle forme linguistiche per una nuova comunicazione, il suo carattere distruttivo nei confronti della morale libera di nuovo la via ad una forma diversa dalla comunicazione retorica propria della tradizione filosofica. Con un’espressione che riecheggia Hölderlin, nella Nascita della filosofia Colli scrive che i sapienti sono “coloro che avevano messo in comunicazione gli déi con gli uomini”. Come nel Nietzsche maturo, in cui l’arte è espressione di energia vitale, grande stimolante della vita, anche in Colli si trova il legame tra arte e fondo animale immediato dell’esistenza. Ma, per molti aspetti, il discorso di Colli risente ancor più del giovane Nietzsche, dove l’affermazione del dionisiaco è schopenhauerianamente tradotta in termini musicali. L’arte è capace di esprimere il fondo metafisico della realtà, la musica è essenzialmente una sospensione, uno

strappo nella ragnatela dei concetti, è evocazione della casualità del gioco contro il regime della necessità fenomenica.

Seguendo le indicazioni di Schopenhauer, l’arte è una sospensione della ruota di Issione: “l’artista fugge la necessità, toglie la maschera alla violenza”. Meglio di Wagner, secondo Colli, Nietzsche aveva visto nella natura della musica e “aveva chiamato dionisiaco il suo carattere estatico, il distacco, lo strappo, l’allusione extrarappresentativa attraverso il percepibile. Così intesa, la musica rimane interiorità pura che non cerca la visibilità, perché la sente inadeguata”.

Qui è evidente il richiamo a Wagner a Bayreuth, in cui sulle orme del Beethoven di Wagner, Nietzsche così teorizza gli effetti della musica:

Ciò che finora era invisibile, interiore, si salva nella sfera del visibile e diventa apparenza; ciò che finora era solo visibile fugge nell’oscuro mare del suono: così la natura, volendo nascondersi, svela l’essenza dei suoi opposti.

Ancora torna l’allusione ai Greci, a Eraclito.In Colli la scienza appare, sulle orme del giovane Nietzsche,

come sviluppo estremo di un apparato di astrazioni esangui, che tanto più dominano il mondo della necessità, del fenomenico, quanto più si allontanano dal momento sorgivo del fondo vitale:

La rete dell’astrazione invischia tutto, costituisce tutto, obnubilando, infiochendo, offuscando, non c’è modo di liberarsene. Siamo nel paese dei Cimmerii, dove non giunge il sole, accanto alla terra dei morti.

L’apparenza di forza della ragione costruttiva nasconde in realtà una deprivazione di vita. È un impulso pratico-utilitario quello che spinge alla costruzione dell’edificio scientifico: di qui il legame instauratosi tra scienza e apparati di stato, di dominio. Colli, seguendo le indicazioni di Schopenhauer come educatore, vuol fare la “vivisezione dei vivisettori”, vuol mostrare cioè il metallo impuro che sta alla base della pretesa dello scienziato di vivere per la conoscenza: “la realtà è più modesta, si tratta della ricerca di un cantuccio in cui sentirsi sicuri, di un atteggiamento difensivo in un

individuo di scarsa aggressività” (affermazione che richiama da vicino anche la nozione nietzscheana dell’attività scientifica come “riparo ai piedi del baluardo già costruito”). L’opzione a favore della scienza, che Nietzsche effettua con Umano troppo umano, viene vista da Colli non come vicinanza a una nozione positivistica di scienza, ma come un altro manifestarsi del gioco intuitivo, come prosecuzione dell’arte, che ha a modello l’intuizione storica nei modi delineati da Burckhardt, “scienza antistorica sulla storia”, penetrazione intuitiva oltre lo spessore del fenomenico. Anche in questo caso, nel Nietzsche di Colli, l’atteggiamento cognitivo, inteso come lampeggiamento sulla realtà del mondo al di là dello spessore del fenomenico, è in primo piano contro ogni valorizzazione della prassi legata all’attualità.

La conquista conoscitiva arriva al suo culmine con lo Zarathustra, che trova anche, nel linguaggio ditirambico-dionisiaco, l’adeguata espressione comunicativa. Della attenta e sensibile lettura di Colli occorre ricordare la rinnovata sottolineatura dell’elemento antinichilistico: “le sue radici affondano direttamente nell’immediatezza, dove non c’è nulla che possa venir distrutto”.

L’antinichilismo di Zarathustra è sostenuto dalla presenza nascosta ma continua del mondo greco che Colli ha indicato qui, dove la critica vedeva il motivo più esterno ed evidente dell’uso parodistico del linguaggio biblico. Basti pensare al tema delle “isole beate”, all’immagine della “porta dell’attimo” che ricorda il proemio di Parmenide, il motivo ricorrente dell’enigma, del fanciullo allo specchio, del gioco eracliteo e tanti altri. Su tutto lo Zarathustra vuole risplendere la solarità greca, l’amore della superficie per profondità. Lo stesso superuomo è per Colli un mito che raccoglie e solidifica nell’immediatezza un arduo contenuto concettuale, così come avviene nei miti orfici. Ancora è in primo piano l’aspetto affermativo di Nietzsche:

dalla conoscenza [di Zarathustra] sgorga una fonte, il suo canto, che disseta gli uomini e li riavvince a una vita trasfigurata, riscoperta come ricchezza terrestre di gioia...Il valore più alto della vita nella conoscenza, e il riassorbimento di ogni azione nella conoscenza: di questo i greci sono stati il

modello.

Ma dice Hölderlin, il poeta in cui Colli vedeva “un greco in carne ed ossa” e colui che più di Nietzsche aveva intuito il mondo greco, ne aveva parlato il linguaggio:

Amico, arriviamo troppo tardi. È vero, gli dèi vivono/ ma al di sopra di noi, in un altro mondo./ Là agiscono in eterno e sembrano poco badare/ se noi viviamo. Tanto poco si prendono cura di noi./ Perché non sempre un debole vaso può contenerli./ E solo a tratti l’uomo sopporta la pienezza del dio./ Dopo, vivere è sognare di loro.

5.L’“azione” Nietzsche per una cultura inattuale

Queste le premesse filosofiche di Colli. La diffidenza schopenhaueriana verso la “filosofia dell’Università” ritenuta incapace di vera cultura, il suo programmatico isolamento dalle correnti di pensiero contemporanee, gli facevano trovare — come ha sottolineato Giuliana Lanata, che in quegli anni collaborò all’attività dell’“Enciclopedia”, — negli editori (spesso agli inizi della loro attività) gli interlocutori privilegiati per la sua “azione”. Colli fu un grande e originale organizzatore di cultura: non solo sapeva affrontare e risolvere i mille problemi pratici del lavoro editoriale, ma soprattutto era capace di “attivizzare” al lavoro le persone, poche ed amiche, con cui collaborava. Così Montinari ha caratterizzato il significato di questa attività:

Si trattava di formare una sorta di comunità nuova di lettori e di collaboratori, pubblicando dei testi che alla intellettualità accademico-politica dominante non potevano che risultare inattuali e fuori moda, anzi in certi casi

addirittura irritanti o scandalosi. Si era nel 1958, e allora non esisteva certo né in Italia né in Francia, né ancora meno in Germania una Nietzsche-Renaissance. Ma noi cominciammo proprio con un testo di Nietzsche Schopenhauer als Erzieher (che io tradussi). Ad ognuno di questi testi era premessa una brevissima introduzione di Colli, in cui egli cercava di spiegare le ragioni della scelta di quel testo determinato e con cui si dava una certa unità a quella specie di canone di letture per “spiriti liberi”, per spiriti cioè capaci di leggere testi non destinati al consumo ideologico immediato: gli scritti sulla teoria della natura di Goethe e la teoria dei colori di Schopenhauer, il saggio di Pascal sull’equilibrio dei liquidi e la disputa Leibniz-Newton sul calcolo infinitesimale, la Legazione del duca Valentino di Machiavelli e il Dialogo sul commercio dei grani di Galiani, i Parerga di Schopenhauer i carteggi Nietzsche-Rohde, Nietzsche-Wagner, Nietzsche-Burckhardt, i testi religiosi indiani, arabi, ebraici e paleocristiani, ecc. ecc.

È impossibile dare anche solo un’idea della vastità di un’impresa concentrata praticamente nel giro di sei anni di lavoro. [...] Per Colli fu quello un periodo ricco di incontri nuovi, soprattutto con collaboratori che avevano da proporre questo o quel testo e che stabilirono rapporti più o meno duraturi. Una ideale comunità di lettori fedeli si era formata.

Grande, come risulta dagli appunti e dall’epistolario del periodo, l’impegno e la fresca passione di Montinari in questa impresa. Curò e tradusse infatti testi di Goethe, Schopenhauer, Burckhardt, Freud. Inoltre teneva buona parte della corrispondenza e i contatti con i collaboratori, faceva revisioni, procurava testi da tradurre etc. portando in questo lavoro organizzativo la sua esperienza maturata negli anni precedenti. Un’affermazione tra quelle di Montinari può sorprendere: “Ad ognuno di questi testi era premessa una brevissima introduzione di Colli”. Per sottolineare l’“azione” di una comunità e non di individui singoli, le prefazioni nella quasi totalità non sono firmate: dei 90 titoli apparsi, più di trenta portano la prefazione di Colli e sono state raccolte e pubblicate dalla casa editrice Adelphi, le altre prefazioni sono dei più stretti collaboratori e tra queste, molte, di Mazzino Montinari, come risulta dagli appunti e dalle lettere e sarebbe interessante poterle identificare nella loro totalità. L’affermazione di Montinari ha però la sua spiegazione in quanto era veramente la filosofia,

l’ethos di Giorgio Colli che animava le varie introduzioni: in molti casi, soprattutto per i primi volumi, anche lo stile e il linguaggio di Montinari si avvicinano a quelli dell’amico.

Ad esempio la prefazione alle lettere di Nietzsche a Rohde (luglio 1959), che Montinari, come risulta da un progetto manoscritto, voleva riprendere nella raccolta Su Nietzsche, è una esaltazione quasi ditirambica del valore dell’amicizia capace di portare all’azione “radicale”:

È necessario dimenticare la sfera quotidiana dei nostri interessi, i nostri fini vicini e anche quelli lontani, per contemplare, in queste lettere, un evento sovrumano: la nascita dell’amicizia dallo spirito della giovinezza; il dono mattutino, che gli dèi riservano ai loro prediletti.

Posto che si sia riusciti ad assumere il necessario atteggiamento distaccato verso ciò che nella cosiddetta realtà concreta ci condiziona, l’atto dell’esistenza, tra nascita e morte, ci apparirà nella sua nudità elementare — orrida anche — e potremo capire perché mai sorga il bisogno di afferrare — oltre il dominio dell’opinione e della necessità, la presenza libera e certa dell’amico; perché tale presenza sia un dono raro e fortunato.

Ma tutto ciò vale per la genesi dell’amicizia: l’uomo forte accetta anche la cosiddetta realtà concreta, e lotta per trasformarla.

Altro esempio la prefazione a J. Burckhardt, Lezioni sulla storia d’Europa (novembre 1959) che rappresenta una ripresa programmatica dei temi della lotta comune per il salvataggio della “cultura”:

lo storico proietta il suo sguardo da un presente, trovato troppo leggero per le pretese che accampa, verso un futuro che, se per lo storico non può essere oggetto né di speranza né di disperazione, — tante sono ormai le spirali che l’umanità ha percorso davanti ai suoi occhi, — pone in ogni caso il compito più urgente di tutti: quello di salvare la cultura, anche in quanto storia. [...] non è giusto fare di Burckhardt un profeta di sventure: non era colpa sua se la diagnosi sul suo secolo non poté essere che infausta (occorrono delle prove?); come è ridicolo farlo passare per “reazionario”, giacché era ben chiaro per lui che ciò che l’umanità aveva lasciato nel passato non avrebbe potuto ricuperarlo nel presente; e infine è grottesco cercare di metterlo d’accordo con le esigenze di una cosiddetta nuova civiltà del ventesimo secolo, quali che siano i suoi

attributi. Il suo insegnamento è stato chiaro anche a questo proposito: l’uomo ha bisogno di un punto di vista superiore se vuol vedere lo spirito che, librato sulle rovine del presente, ricostruisce la sua abitazione.

Il senso di avere imboccato una nuova via con la radicalizzazione della critica all’attualità, che coinvolge soprattutto le vecchie certezze, si legge in alcuni abbozzi di lettere ad un’amica del febbraio 1960 che per il loro interesse di testimonianza, in parte riproduciamo:

Mi permetta di farle leggere il volume che, fra tutti quelli che ho tradotto, mi è il più caro. Questo breve scritto di F. Nietzsche (un filosofo di cui in generale si parla molto a sproposito) si rivolge soprattutto ai giovani e affronta il problema della “cultura” da un punto di vista che dovrebbe riuscirle del tutto nuovo e stimolante. Non credo che lei possa accettare tutto quanto è detto in Schopenhauer (neppure io lo accetto); ma si tratta di un punto di partenza molto “inattuale” che pone in questione non solo i valori cui da tempo l’uomo moderno non crede più — la religione per esempio — bensì anche i +++ miti, quelli che ancora oggi resistono e che — in buona o cattiva fede, oppure semplicemente per pigrizia — vengono ripetuti da tutti coloro che vogliono essere all’“avanguardia”: progresso, scienza, politica.

In realtà anche io sono “all’inizio” dopo più di dieci anni che sono passati dal mio ingresso nella vita pratica. Sulle moltissime cose che ho fatto fino a circa due anni fa non posso dare un giudizio positivo. Oggi sento di aver cominciato su di una via giusta, anche se, naturalmente, gli ostacoli — esterni ed interni — sono numerosi e difficili, e credo questo perché mi pare finalmente di avere scoperto ciò che voglio essere.“Diventa ciò che sei” dicevano i greci, e ripete N. nel libro che le ho mandato[...]. Non parlo come uno che sa perfettamente ciò che si deve fare e quali sono i contenuti giusti, ma invece come uno che su tutta la società attuale (e in questo concetto comprendo anche la “sinistra” di tale società) non può fare a meno di dare un giudizio gravemente negativo.[...] Il vuoto accademico e la mancanza di “cultura” delle nostre istituzioni culturali è desolante; si vive verso l’esterno, preoccupati di avere sempre le idee più nuove e più originali: questo nel migliore dei casi. Parlo così perché ho fatto per più di dieci anni questa vita (anche se il ritegno e il dubbio mi hanno salvato) (9 febbraio 1960).

E in un altra lettera del 6 aprile ad un amico dopo aver

dichiarato la sua distanza dall’intellettuale che rispecchia i “non-valori dell’uomo moderno” così esprime il personale progetto:“Io per me, vorrei — se mi sarà dato un giorno di esprimermi con efficacia — arrivare al fondo della nostra “contemporaneità””. Molti aspetti di questo atteggiamento critico verso le approssimazioni, le scorciatoie, le vie “facili” dell’accademia e della pubblicistica sempre alla moda, rimarranno costanti della scelta etica e scientifica di Montinari anche dopo l’abbandono della fondazione metafisica e antistorica di Colli.

Importante per caratterizzare la posizione di questo periodo è la prefazione, firmata da Montinari, del Carteggio Nietzsche-Burckhardt da lui curato, che conteneva anche una raccolta di lettere e testimonianze sul loro rapporto e in appendice il carteggio Nietzsche-Taine. Questa edizione, corredata da un ricco e sicuro apparato, per la sua serietà, segnava una novità assoluta, nella tradizione italiana per l’approccio a Nietzsche. Non mancò di segnalare quest’aspetto Delio Cantimori in una delle sue collaborazioni, in forma epistolare, alla rivista “Itinerari”. Lo storico dedicò una lunga e appassionata recensione al lavoro (“un vero modello di come anche una traduzione possa acquistare valore scientifico, quando ci siano la consapevolezza critica e lo scrupolo filologico dimostrati dal Montinari”) soffermandosi a discutere le tesi espresse nella prefazione. Montinari prendeva partito per l’atteggiamento agonistico di Nietzsche (“credette di poter agire positivamente sulla realtà di quegli anni”) nei confronti della maschera della “rassegnazione” assunta da Burckhardt in tutta la parabola del rapporto. In un appunto nel materiale preparatorio per questo lavoro si legge:

Forse Burckhardt come gli epicurei descritti nell’aforisma 306 della Gaya scienza. L’infelicità che si presume in N. è molto diversa da quella che può apparire nei suoi accenni alla solitudine o negli appelli agli altri, per es. a B. È più giusto considerare come inevitabile la infinita convergenza (parallelismo) senza alcun punto di unione definitivo tra le due personalità: come messaggi da nave valida a un’altra valida nave.

Cantimori prende una ironica distanza dalle illusioni

pedagogiche ed agonistiche di Nietzsche a favore dell’atteggiamento senza illusioni dello storico. Non nel pessimismo e nichilismo si possono trovare premesse liberatorie verso le “illusioni della propria epoca”: “nel campo modestissimo degli studi di storia, c’è bisogno del pessimismo o del nichilismo radicale per insegnare a criticare fatti e idee, illusioni e mitologie?” Cantimori valorizza i temi di Burckhardt, a lui cari soprattutto nel suo ultimo periodo, che non sono affatto espressione di “nichilismo”: la volontà di restare sempre consapevolmente sul piano limitato del “professore e dello studioso autonomo”.

Sarà che il suo “pessimismo” o realismo era più radicale e cosciente? Anche se sente interesse per i grandi problemi agitati dal Nietzsche, rifiuta di affrontarli in teoria, ex professo: non era certo il tipo da lasciare una religione per entrare in un’altra, come era insomma quella che tendeva a fondare Nietzsche: aveva lasciato ogni chiesa, doveva entrare in una nuovissima setta? [...] Certo, al Montinari e al pubblico colto in generale interessa di più l’entusiasmo del Nietzsche e quel suo tono da apostolo (l’espressione è del Burckhardt stesso). Tuttavia, mi sembra che si possa dire che c’è una vitalità e serietà reale nelle semplici affermazioni del vecchio studioso, fermo al suo posto di lavoro se pure sgomento e attento al concreto e al particolare, libero veramente perché davvero senza illusioni.

Ancora una volta, in questi confronti della storia della cultura, si riflettono anche, in modo allusivo, il senso, i problemi, le scelte di diverse generazioni sullo sfondo di avvenimenti storici traumatici. La posizione di Cantimori, la sua scelta dopo il 1956 di uscire dal partito comunista (non contro il partito) e di rimanere al suo posto di lavoro quotidiano libero da illusioni, di vedere solo in questo il suo compito, può apparire all’impazienza del giovane, alla sua passione, una sorta di mascherato nichilismo e di rassegnazione. La recensione è anche una risposta a questo interrogare: il corrodere con freddezza le nuove illusioni, la nuova fede della “nuovissima setta”, la volontà di mantenere il giovane amico nel rigore quotidiano dell’indagine storica, rientrava anche nel suo compito “educativo”. “Non sta a me dire se e in che modo le osservazioni nella lettera di Cantimori, che in quel periodo vedevo quasi ogni

giorno, mi abbiano aiutato negli studi approfonditi, che proprio da allora intrapresi per dedicarmi (con Giorgio Colli) all’edizione critica delle opere di Nietzsche” — scriverà Montinari in un suo scritto dedicato a Delio Cantimori e Nietzsche.

Ripubblicando la prefazione nella raccolta Su Nietzsche, Montinari, significativamente, toglierà le ultime parole dello scritto: “è giusto ricordarsi dei propri maestri, anche quando abbiamo dovuto abbandonarli”.

6.Le vicende italiane dell’edizione

Giorgio Colli, fin dagli inizi degli anni Cinquanta, propose all’editore Giulio Einaudi di Torino, con cui collaborava da alcuni anni, una edizione italiana delle Opere di Nietzsche. Einaudi, editore con grandi tradizioni antifasciste e democratiche, nel dopoguerra aveva fiancheggiato la politica culturale del pci e pubblicato, tra l’altro, i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Luciano Foà, che lavorava alle edizioni Einaudi, prima di uscire e fondare la casa editrice Adelphi, fu tra i più convinti fautori della proposta del suo amico Colli. Il piano delle traduzioni era già pronto e approvato. Questo lavoro veniva sentito da Colli e Montinari come momento essenziale e ampliamento di quell’azione comune, legata al nome di Nietzsche, intrapresa con l’Enciclopedia Boringhieri. Non è un caso che Montinari nel primo periodo, come risulta dalle lettere a Colli, anche a Weimar pensi molto all’“Enciclopedia”, a nuovi titoli, tra cui, stimolato dalla vista degli strumenti utilizzati per la Farbenlehre e presenti nell’Archivio, all’amato Goethe, procuri il testo del protopop Avvakùm per la traduzione, scriva alla sera, dopo il lavoro sui manoscritti, la prefazione per il volume di Mandeville e la nota editoriale, corregga bozze etc.

In quegli anni Schlechta aveva, rumorosamente, riproposto

all’attenzione internazionale il “caso Nietzsche” affrontando ma non risolvendo il problema del Nachlaß. Anche alla luce di quelle discussioni e attraverso la verifica possibile che gli stessi apparati permettevano sulle arbitrarietà della GOA, a lavoro di traduzione iniziato, Colli propose a Montinari il viaggio di ricognizione a Weimar nell’aprile del 1961.

Comincia qui la storia dell’appassionante viaggio di scoperta, nella realizzazione di una delle più rilevanti imprese culturali del dopoguerra, degna di una successiva ricostruzione.

Già la prima ricognizione a Weimar fatta da “plenipotenziario” — come scrive Colli in risposta alla lettera dell’amico — e la maturata consapevolezza della necessità di una nuova edizione, ebbero l’effetto di far cadere, presso Einaudi, non solo il progetto di “un’edizione preliminare completa in lingua originale” ma anche quello, già in corso, della traduzione. Così Luciano Foà ricorda:

Il piano della traduzione di Nietzsche era stato varato da Colli, Einaudi e me. Le opere sarebbero state pubblicate nei Millenni. Nel 1961 però Colli venne a Torino, e spiegò che il sopralluogo di Montinari a Weimar, dove sono conservate le carte di Nietzsche, aveva mostrato la necessità di una edizione interamente rifatta sui manoscritti, moltissimi dei quali inediti. La mole dell’impresa cresceva, e con essa il rilievo culturale, ma anche l’impegno finanziario e politico. Einaudi non se la sentì, e con Colli fu la rottura. Nel luglio del 1961 io lasciai la Einaudi; seppi poi che di lì a poco c’era stata una discussione in un “mercoledì” einaudiano, conclusa con la decisione di lasciar cadere anche la traduzione delle opere già in cantiere. Ne rilevammo noi i diritti. Un anno e mezzo dopo la comparsa del primo libro Adelphi, uscì, nel 1964, il primo volume delle opere di Nietzsche.

La scelta di Einaudi non fu dettata soltanto dall’impegno finanziario ma anche, forse principalmente, da motivazioni più generali di “politica culturale”: “il consiglio editoriale, composto in massima parte da marxisti e da liberalsocialisti, aveva forti riserve ideologiche, non tanto contro il nome di Nietzsche quanto contro l’idea di pubblicarne l’opera omnia da mettere accanto a quella di Gramsci, come se fossero classici che avevano militato sotto la stessa bandiera” — così il germanista Cesare Cases, consulente

autorevole della casa editrice torinese, in un ricordo dell’amico Montinari. Certo, non molto tempo prima di questa decisione, vi era stata una ferma presa di posizione — a conferma dell’ostilità di buona parte dell’ambiente culturale italiano — contro il progetto di Colli. Si deve tener conto come, proprio presso l’editore Einaudi, fosse uscita, nel novembre del 1959, la traduzione italiana del volume di György Lukács, La distruzione della ragione che non poco ebbe influenza sulla cultura italiana di sinistra. Nel maggio del 1961, lo storico della filosofia Cesare Vasoli, con malintesa spregiudicatezza critica, al di là di ogni “ambiguità” e “convenienza”, fece un intervento su “Itinerari” a proposito del clima culturale e ideologico che sempre più, a suo giudizio, sembrava diffondersi in Italia.

Agli anni in cui la parte più viva della nostra cultura filosofica aveva sperato e tentato di inserirsi nel processo vitale dello sviluppo storico del paese, sembra essere successa, ancora una volta, una nuova fuga dalla realtà e dalla storia.

Se certi elementi del disagio esistevano realmente ed erano individuati con sofferta partecipazione, la risposta non era certo adeguata e peccava di esorcismo ideologico e volontà pedagogica. La circolazione sempre più diffusa di tematiche “irrazionalistiche” appariva a Vasoli qualcosa di troppo “concertato” nel suo “inserirsi in una situazione di incertezza o talvolta, addirittura, di frustrazione ideologica”, per essere del tutto casuale: “qualcosa di non sano, un vago sentore di malattia o di decadenza è già nell’aria”. Vasoli recriminava e stigmatizzava il nuovo indirizzo della “moda” editoriale: per lui non sintomo di “apertura” e “spregiudicatezza” antidogmatica ma (al di là di qualche superficiale rinnovamento di linguaggio e formule) semplice riproposizione di vecchi e collaudati strumenti di dominio ideologico, capaci comunque di allontanare dalla serietà del reale. In particolare lo storico della filosofia (che pure aveva una pratica non peregrina dei testi di Nietzsche, su cui si era laureato) esprimeva un giudizio negativo sulla progettata traduzione degli Opera omnia di Nietzsche e, significativamente, un giudizio altrettanto negativo e drastico della collana Boringhieri

diretta da Colli:

È di oggi infatti la notizia, ormai di dominio pubblico, che uno dei nostri editori più coraggiosi e geniali, al quale tanto deve il rinnovamento ideologico del dopoguerra, si accinge a ripubblicare l’Opera omnia di Federico Nietzsche che non vorremmo davvero allineare nella nostra biblioteca con le opere di Gramsci o di Salvemini. Un altro editore, certo benemerito per aver fatto conoscere al pubblico italiano alcuni documenti fondamentali del pensiero scientifico moderno, non esita ad affiancare a testi di estrema utilità e di eccezionale valore, una nuova riesumazione di quelle “indianerie” che formarono mezzo secolo fa il fulcro della “Cultura dell’anima” esaltando il misticismo casalingo dei buoni soci delle Società teosofiche, o, addirittura, a riproporre alle nostre letture le pagine del più coerente filosofo reazionario, accompagnate da “alate” introduzioni encomiastiche.

Delio Cantimori si sentì direttamente chiamato in causa dalla polemica di Vasoli in quanto, come consulente dell’editore Einaudi, aveva approvato il primo progetto Colli: la sua risposta, su “Itinerari” (settembre-ottobre 1961), è un modello di libertà di spirito, le sue riflessioni, sintesi del suo atteggiamento metodologico, sono stimolanti in più direzioni e vicine alle posizioni espresse da Montinari in più occasioni.

L’“irrazionalismo” è solo “sintomo, manifestazione” di un disagio reale, mai una causa.

Non credo che la odierna propaganda ideologica in senso irrazionalistico, anche se bene organizzata e orchestrata come afferma il Vasoli [...] possa avere quegli effetti di contagio che il Vasoli sembra temere, perché i contagi vengono dalle malattie, non dai sintomi delle malattie stesse.

Cantimori afferma la necessità di un confronto con tutta la realtà senza alcun pregiudizio e con una seria volontà di conoscenza: “Chi fugge o vuol fuggire dalla realtà e dalla storia si può servire anche di Marx e di Lenin, se è disonesto; se è onesto, non ha bisogno di Nietzsche; e ci possono essere dei casi (ci sono stati) nei quali Nietzsche può riportare alla realtà e alla storia”. Di qui discende la critica di ogni pedagogismo che voglia oscurare parte della realtà in

difesa di qualsivoglia valore. “Di preoccupazione educativa in preoccupazione educativa di questo tipo, si può finire ad arrivare a proporre una censura o autocensura ai nostri editori”. Lo storico propone quindi un serio confronto con Nietzsche: “Della reale storia culturale italiana ed europea fa parte anche Nietzsche, e in primo piano: e occorre conoscerlo se si vuol conoscere questa realtà, conoscerla per capirla, capirla sul serio, per farla progredire e per cambiarla”. Montinari stesso ha ricordato questa chiara presa di posizione dello storico in più occasioni: soprattutto quando, tra la fine del 1976 e gli inizi del 1977, “il nome di Delio Cantimori fu trascinato in una campagna di livello rotocalchesco-giornalistico, nel corso della quale si volevano attaccare i presunti responsabili della politica culturale comunista degli anni Cinquanta [...]. La leggenda di Cantimori, censore di Casa Einaudi, e — maxima culpa, subito aggiunta alla lista dei suoi peccati — oppositore dell’edizione delle opere di Nietzsche, circolò indisturbata su quella stampa, che tra l’altro non accettò di pubblicare le rettifiche che io stesso — come parte in causa — avevo inviato alle varie redazioni...” — così Montinari, nel suo scritto Delio Cantimori e Nietzsche, polemicamente precisa l’atteggiamento dello storico su questo punto. Montinari mostra inoltre come l’interesse di Cantimori per Nietzsche venga da lontano. Già negli anni Trenta se ne era occupato in ampie recensioni ad opere su Nietzsche (Bertram, Fischer, Thibon) e nel suo saggio Sulla storia del concetto di Rinascimento (1932). Inoltre grande il suo interesse per una figura come Overbeck (troppo spesso ridotto, nel passato, alla figura secondaria dell’amico di Nietzsche) a cui dedicò, nel 1941, un penetrante ritratto a partire dalla recensione delle sue Confessioni postume Di Nietzsche Cantimori si occupò più volte in molti corsi universitari del dopoguerra fin dal 1946-47, gli anni in cui Montinari era suo allievo alla Scuola Normale. In quegli anni, infatti, accanto ai corsi sulla storia degli eretici, sulla tradizione socialista, egli tenne corsi su Burckhardt e Weber in cui un certo spazio era riservato anche ai rapporti di questi autori col filosofo tedesco. Montinari riconosce, con chiarezza, alcuni forti limiti della lettura fatta da Cantimori che parla di “asistematicità delle idee di

Nietzsche, riducibili a un sentimento comune, a un comune atteggiamento, ma non razionalizzabili” e che, comunque, esercita il suo senso storico, in prevalenza, verso gli effetti postumi del filosofo tedesco.. La sua immagine “era piuttosto convenzionale e non sufficientemente “rugosa” [...] non rispecchiava cioè la complessità, la storia della vita intellettuale di Nietzsche”. Ciò era dovuto principalmente alla letteratura utilizzata, in particolare al libro del Bertram. Del resto, anche in questa occasione, Montinari coglieva alcuni limiti dello storico, con quella sensibilità alla storia che derivava proprio dalla sua lezione. Egli valorizzava comunque la sua capacità di distinguere Nietzsche dai “nietzschiani”, di avere avvertito cioè il problema, centrale, della “lettura differita”.

La distinzione corretta tra le coordinate temporali di un autore, le domande cioè a cui egli ha voluto rispondere, da un lato, e la sua attualizzazione e utilizzazione nei periodi seguenti (o in ambienti contigui, ma diversi), dall’altro, senza dimenticare il rapporto, esso pure storicamente accertabile tra l’autore e la sua fortuna, tra i testi nella loro storicità originaria e la loro lettura differita, questa distinzione e questo senso della diversità nella continuità e nella successione cronologica mi pare siano stati costantemente presenti in tutte le occasioni in cui Cantimori si è trovato a parlare di Nietzsche e del nietzschianesimo.

Il favorevole parere editoriale di Cantimori, che risaliva agli anni Cinquanta e riguardava il progetto primitivo di Colli, come pure l’autorevole presa di posizione contro Vasoli, non servirono a modificare le diffidenze diffuse: ad accettare e promuovere l’edizione fu Luciano Foà, uscito appunto dall’Einaudi per fondare una nuova casa editrice. Nonostante le comprensibili difficoltà iniziali, l’Adelphi sostiene vigorosamente l’impresa: Foà, come ha scritto Giuliana Lanata, diviene “compagno d’avventura” di Colli e Montinari. Fin dall’inizio, l’Adelphi, senza successo, cerca contatti con case editrici tedesche per la pubblicazione del testo originale, e infine trova l’appoggio di Dionys Mascolo della Gallimard. Il 9 agosto del 1962 viene firmato il contratto con l’importante casa editrice francese: questo permette la continuazione del lavoro con un orizzonte più chiaro.

7.La “passione rabbiosa per la verità”

Le lettere che si scambiano Colli e Montinari nel periodo di fondazione dell’edizione, un carteggio assai fitto, ci danno un resoconto dettagliato e puntuale dello svilupparsi del lavoro giorno per giorno, la discussione di difficoltà e problemi con periodici consuntivi e sistematiche riflessioni sui metodi e sui tempi di realizzazione (queste lettere periodiche, battute generalmente a macchina per l’utilità di conservarne la minuta sono veri e propri documenti di lavoro). Quello per l’edizione è un lavoro comune ed assiduo: da una parte Montinari a Weimar all’Archivio, dall’altra Colli a Firenze sulle xerocopie, sui microfilms, — tranne che nei periodi particolarmente fruttuosi trascorsi insieme in Germania o in Italia e da cui escono ogni volta con maggiore maturità e determinazione — per l’approntamento del testo, delle note e degli apparati, e inoltre la revisione delle traduzioni, i rapporti con gli editori, le discussioni, le proposte, la correzione delle bozze, etc.: ogni minimo particolare ha la verifica dei due autori. E comunque questo lavoro è sentito come “azione comune”, proseguimento e ampliamento dell’“azione” culturale inattuale intrapresa con l’“Enciclopedia degli autori classici” che Colli con originalità e coraggio dirigeva presso la Boringhieri.

Questo carteggio, con altre testimonianze, renderà possibile la ricostruzione puntuale delle vicende dell’edizione, entrando, per così dire, nel suo laboratorio. Già la lettera “programma” del 21 agosto 1961 (scritta durante il secondo soggiorno) mostra in Montinari una piena consapevolezza delle cose da fare, della impraticabilità, anche per la traduzione, dell’edizione canonica, della insostenibilità della Wille zur Macht, della necessità di una rilettura integrale dei manoscritti da rendere nel loro ordine cronologico etc.

Quanto all’edizione, quando tornerò dovremo parlare a fondo di tutti i problemi che comporta. Ora ho un’idea molto più precisa e alla fine di questo periodo avrò chiarito molte cose. Mi pare però che una cosa sia certa i manoscritti vanno decifrati e trascritti per intero, studiati come gruppo, come singolo manoscritto, come singola pagina (in molti casi!), quindi ordinati cronologicamente [...].

Se ciò è importante per i postumi di un’opera pubblicata da N., lo è sommamente di più per la massa di mss. non utilizzati.Cioè la lettura e trascrizione di tutto ci mette sotto gli occhi l’elaborazione di un pensiero da un taccuino a un quaderno, da questo quaderno a un altro e così si ottiene con criteri interni la cronologia, o meglio la successione. Tutto ciò finora non è stato fatto! Lo dice anche Schlechta; ma a lui si devono fare 3 rimproveri: 1) non ha tenuto conto del fatto che N. spesso scriveva nei suoi quaderni dall’ultima alla prima pagina e avrebbe potuto farlo perché Mette lo dice per ogni ms. in cui ciò avviene; 2) non ha tenuto conto dei mss. che contenevano materiale della VdP e che erano stati utilizzati nei voll. 13 e 14 e non in 15, 16 e anche questo avrebbe potuto farlo; 3) non ha tenuto conto della disposizione del materiale entro la pagina e non poteva farlo, ma ciò non vale per tutti i casi, perché avviene che nell’apparato critico della GOA (sia pure non per i casi clamorosi di smembramento) gli editori dicano ingenuamente “di questo aforisma, che prima era così e così, ne abbiamo fatti due”, è chiaro che Schlechta, il quale pretende di avere ristabilito la “situazione di partenza” ha lavorato male. E glielo diremo. Ritornando a quello che ti dicevo sui postumi di Aurora, è chiaro che se acquistiamo un’idea precisa e ricca di particolari sul modo come nascevano le opere di N., si potrà giudicare con molta più competenza tutta la questione connessa con la V d P. Ma ci vorrà molto tempo, perché occorre delicatezza, cautela, capacità intuitiva, padronanza delle opere pubblicate da N. (su quest’ultimo punto purtroppo ho molto da imparare!); perché a volta già la pagina di per sé pone dei problemi di genesi: ci sono cioè delle righe vaganti, ma per escluderle da un aforisma bisogna ricostruire la successione nella quale N. ha scritto in quella sola pagina! E si può, come ho già fatto io, del resto, in qualche caso.

Montinari mette in luce, con sicurezza, i grossi limiti della soluzione Schlechta che dipende — e male — dall’edizione canonica e ne mantiene tutti gli errori, non tenendo conto neppure di certe avvertenze “ingenue” dell’apparato della GOA che documentavano ampiamente gli arbitri, gli accorpamenti e

smembramenti di frammenti etc. operati per la compilazione della Volontà di potenza. Inoltre questa lettera mostra, in concreto, fin dall’inizio, anche la grande capacità di Montinari nella decifrazione dei manoscritti, accompagnata da una legittima soddisfazione. Molti gli esempi, nelle lettere del periodo, di questo paziente e spesso arduo lavoro di decifrazione, che non è mai solo frutto di esercizio meccanico, ma è legato sempre — consapevolmente — ad una vasta sensibilità culturale ed alla piena padronanza di tutti i testi e i temi di Nietzsche e della letteratura primaria su lui. “Ci vorrà molto tempo, perché occorre delicatezza, cautela, capacità intuitiva, padronanza delle opere pubblicate da N.”. Nel finale si legge l’intreccio saldo tra affetti, amicizia ed etica ricerca di una propria direzione:

Questa lettera avrebbe dovuto essere scritta ieri, ma non mi ero chiarito certe questioni, anzi le questioni dell’edizione, alla quale penso molto, non sono ancora chiare per me. Rinuncio però a parlartene; quando tornerò, parleremo di tutto. La mia vita scorre qui in grandissimo silenzio e senza avvenimenti esteriori; ma mi piace. Così penso molto a tante cose: in modo particolare alla nostra amicizia. Che è il mio rapporto umano più importante. Ci sono delle cose che vanno chiarite tra noi a proposito non tanto della “concezione del mondo” quanto di ciò di cui io sento con certezza di aver bisogno per “diventare quello che sono”: la mia sete di razionalità e giustizia; e poi tutti i miei difetti...

La posizione di Montinari matura in questi anni in una riflessione costante e silenziosa che accompagna il lavoro sui manoscritti. Questo maturare può essere seguito, non solo nelle dichiarazioni delle lettere all’amico, ma anche e soprattutto nei quaderni in cui annotava riflessioni e pensieri, che l’ascetismo volontario dello storico e del filologo tenne, per un lungo periodo, solo come presupposti del lavoro quotidiano.

Queste riflessioni esprimono anche la tensione di trovarsi al centro di forze tra loro diverse e la volontà di trovare una propria via. Da una parte la comunanza di lavoro e l’amicizia, mai messa in discussione, con Giorgio Colli, così straordinario, “inconfutabile” come persona, col suo originale ethos filosofico, dall’altra il richiamo della passione, mai sopita, della storia rappresentata da

Delio Cantimori che in questi anni gli è altrettanto vicino. “Il professore era diventato l’amico che aveva seguito — in “quindici anni di litigio e collaborazione”, come ebbe a scrivermi nel 1960 — anche il mio faticoso svolgermi fino alla definitiva professione di germanista, ma preferirei dire studioso di storia della letteratura, anzi di storia della cultura tedesca”. Così Montinari lo ricorda nel già citato intervento del 1974. Il rapporto epistolare con lo storico è molto intenso e, nei soggiorni fiorentini, la frequenza quasi quotidiana. (Erano soliti fare lunghe passeggiate al mattino presto, piene di conversazioni stimolanti). E piene di sollecitazioni culturali concrete, di domande capaci di porre in crisi nessi e dati apparentemente sicuri, di richieste di notizie, di libri, di articoli, di ricerche in biblioteca, sono le lettere di Cantimori, ma anche piene di quell’affetto burbero e profondo con cui seguiva i suoi allievi anche nelle loro vicende umane e che faceva parte della sua severa pedagogia.

Spero che mi scriverai del tuo lavoro (quello che fai ora a Weimar, e quello tuo proprio, recensioni e studi tuoi etc.: per essere te stesso per essere più ricco di idee e di problemi nel discorso con gli amici tuoi); letture, novità che siano apparse, studi, riviste, etc. (10 aprile 1963).

Talvolta prevale nel suo atteggiamento, più che nelle sue considerazioni, un tono di stanchezza e di amara sfiducia rispetto all’andare del mondo e soprattutto una sensazione di malinconia in cui si trapela la consuetudine e l’affinità con le pagine del Burckhardt:

È malinconico, lo capisco; ma insomma siamo destinati alla malinconia, e non c’è altro che sapere essere malinconici e trarne qualcosa [...] in genere perché vedere finire una pianta, un anno, una stagione, un uomo, un rapporto, un lavoro è oggetto sempre di malinconiche meditazioni (l, 2, 3 maggio 1963).

La risposta educativa a questo incupirsi esistenziale sta tutta nell’esortazione al lavoro quotidiano: “L’importante è che lavoriamo, e che, traballon traballoni, la baracca vada avanti, cioè la carretta del nostro lavoro. Sono molto contento del tuo “nulla dies

sine linea” (25 settembre 1963). Anche la stessa amicizia assume un valore maggiore se legata al lavoro, alla produttività. Nella sfera del lavoro produttivo “dei lavoratori intellettuali e della cultura (che non è identica con il mondo accademico e universitario e editoriale) vale quello che dici tu: amicizia è comunanza più o meno stretta di lavoro, tale che permette di vedere in che modo anche la personalità tutta dell’amico, come la nostra stessa, confluisce nel lavoro: e come, affinché il lavoro produttivo particolare al quale siamo dedicati riesca bene, occorre interessarsi di tutti gli aspetti della personalità degli amici perché si sa che tutto confluisce, direttamente o indirettamente, immediatamente o meno, con minore o maggiore celerità, nel nostro meglio, l’attività produttiva, lavoro. L’uomo felice della favola (indiana? orientale ad ogni modo) era senza camicia, ma lavorava. Non credo neppure io nel feticcio della felicità, e non mi fo un feticcio neppure del lavoro: ma mi sembrerebbe cosa enorme e indegna di me in generale e come insegnante se non facessi di tutto per aiutare una persona capace a svilupparsi e a lavorare meglio...”. È questa “la verità trita del trito e antico vecchissimo luogo comune faustiano che la liberazione (felicità) sta nel lavoro nostro proprio” (1 ottobre 1962).

Cantimori mostra in questi anni un rinnovato interesse a Nietzsche e a molti aspetti della sua fortuna e, sollecitato anche dell’amico, apprezza gli scritti di Podach (allora vicino a Montinari) impegnandosi per una recensione al volume Friedrich Nietzsches Werke des Zusammenbruchs (Heidelberg 1961) per la quale raccoglie i materiali, ma che poi non scriverà. Inoltre, in questo periodo, spinge Montinari ad occuparsi di Karl Hillebrand come lavoro storico “personale”, tutto suo, da affiancare al lavoro filologico. Nelle lettere di Cantimori ricorre spesso questo nome e il riferimento a questo lavoro: rimangono, in un quaderno del 1962, tutta una serie di appunti e programmi di ricerca di Montinari su questa figura cosmopolita, di “buon europeo”, conoscente di Malwida von Meysenbug e in relazione con Nietzsche, di cui recensì le prime tre Inattuali. Solo molti anni più tardi Montinari tornerà su questo storico e pubblicista, amico di Pasquale Villari, collaboratore ai più importanti giornali e periodici europei, che

segnò della sua forte presenza la “colonia tedesca” di Firenze.In una delle lettere a Montinari, Cantimori ci ha lasciato del

giovane amico ancora alla ricerca inquieta di un equilibrio e di una direzione, un ritratto pieno di una penetrazione psicologica maturata in anni di consuetudine.

Per te specialmente c’è da dire che mentre sei diventato veramente bravo ed esperto nel tuo lavoro ed in altre cose, dal punto di vista del carattere sei rimasto un po’ troppo il Mazzino di quand’eri studente: alti e bassi estremi, grossi problemi, tormentarsi e tormentare, risolvere tutto col sentimento (“slancio”). Questo non è farti rimproveri, non me ne riconosco il diritto, e non credo che tu te li meriti. È cercare di contribuire alla tua riflessione sul modo migliore di agire [...] Per i tuoi amici, certi tuoi sbalzi, certo tuo modo di allegria un po’ violenta, certi tuoi “slanci” di sentimento, certe tue malinconie, anche certi scatti di furore (come un anno fa, quando Einaudi abbandonò il progetto nietzschiano originale), anche quella cocciutaggine che vien fuori in certi momenti e vari altri elementi che possono andare sotto il nome di “irresponsabilità anarchica”: gran lavoro, gran festa etc. — per gli amici tutte queste cose possono essere motivo di simpatia e di cordialità nell’amicizia: come lo sono per me, che non cambierò certo il mio affetto e la mia stima perché sei come sei (31 ottobre 1962).

L’energia, lo “slancio” e la costanza — la competenza e l’intelligenza — con cui Montinari si dedica al lavoro suscitano l’ammirazione dello storico e la gratificazione e il riconoscimento da parte dell’amico coeditore. Montinari diventa presto una figura nota ed amata, nella gloriosa e piccola città di Weimar, per l’immediata comunicatività e apertura del suo carattere. Qui incontrò Sigrid e formò la sua felice famiglia capace di dargli una ancora più ferma e serena determinazione al lavoro. Dalle lettere risulta l’affetto che lo studioso italiano delle carte di Nietzsche suscita tra i dirigenti e gli impiegati dell’Archivio, divenuti presto suoi amici. Chiunque venga all’Archivio a lavorare su Nietzsche trova in lui non un rivale sospettoso (come accade spesso nell’angustia e nella miseria delle accademie) ma una guida preziosa e spesso un aiuto indispensabile.

Il lavoro ai manoscritti delle “carte di Sorrento”, (Mp XIV 1 del 1876-77) che già contengono i temi di Umano troppo umano, è

importante anche per far maturare in Montinari una autonoma e personale concezione di Nietzsche, i cui tratti emergono già in una lettera del 22 agosto del 1963.

Spesso, specialmente in queste due settimane, mi sento informe, grigio, disossato, inerte; le uniche scintille di entusiasmo mi vengono dal lavoro, da N. in particolare. “Umano” è il libro che mi sentirei di sottoscrivere quasi tutto — vorrei che insieme discutessimo per esempio sul “filosofare storico” e sulla “scienza”, come N. li vede in quest’opera, che non è affatto “storicistica” né “positivistica”, troppo ampio e profondo è il proposito del suo autore. Credo che ci siano tra noi delle differenze di impostazione. Io sento sempre la tua impostazione come tua conquista, un tuo risultato, che sono comunicabili per via di conoscenza dialogica, che mi “piacciono”, ma di cui non posso appropriarmi, perché sarebbe un salto illecito, che pagherei con l’insoddisfazione, con la disarmonia — come ho pagato finora tutti i “salti” del genere. Ho bisogno di uno sviluppo continuo, che ha — ora — come sua molla una specie di passione rabbiosa per la verità. Questo è il senso che per me ha l’occuparmi di Nietzsche.

Queste parole sono importanti: la passione della conoscenza (il tema dell’aforisma 429 di Aurora), diventa per Montinari una chiave per interpretare Nietzsche, per sentire Nietzsche vicino. Su altri aspetti del filosofo, Montinari formula apertamente i suoi dubbi, addirittura la sua “negazione”: sono aspetti che coinvolgono anche la “verità” dell’amico della quale il “senso superiore” è comunque sentito come una provocazione alla libertà, all’esercizio critico (“con te sono provocato alla “libertà””) (10 maggio 1964).

Per garantirmi una continuità di riflessione, ho cominciato a scrivere in un quaderno tutto quanto: vorrei riuscire a capire la mia opinione (!), perché è certo che io devo averla la mia opinione su tutto quello che mi occupa (Nietzsche, la scienza, la politica, ecc.). Non sono in definitiva nemmeno come te. Ma tu sei il mio amico e sei anche la persona da cui ho appreso finora più verità che da tutti, senza confronti possibili. [...] tu arrivi in profondità, come ci arriva N. [...] D’altra parte, io non sono d’accordo con te su molte cose, qualche volta mi sembra che la tua verità non possa essere la mia. Così, per esempio, avviene per N., che credo di sentire quanto te, ma mentre tu, per come sei, fai bene ad accettarlo, io sento l’impulso contrario, l’impulso a negarlo (Spero che tu mi

faccia l’onore di non sospettare che il mio modo di negare N. sarebbe quello alla Podach o alla Cantimori) (7 ottobre 1963).

Da queste righe emerge uno degli aspetti più belli dell’intero carteggio: la testimonianza di una grande amicizia che ha decisivi punti in comune (“abbiamo le stesse radici” — afferma Montinari in una lettera) ma che è anche consapevole di profonde differenze, una amicizia che diventa confronto franco, aperto, rispettoso della diversità di impostazione, che viene sentita comunque come arricchimento reciproco. C’è la consapevolezza comune, fin dall’inizio, che il loro autore, Nietzsche, è maestro di libertà come Colli aveva spesso affermato e come si legge, significativamente, anche nella già citata Premessa editoriale all’edizione Adelphi.Agendo direttamente sulla vita, Nietzsche ha la forza di rivelare ciò che uno è. Su questo punto centrale il loro autore è vicino a entrambi: non a caso Montinari amerà citare di Colli queste “parole definitive” su Nietzsche:

Nietzsche è l’individuo che da solo ha sollevato il livello complessivo dei nostri pensieri sulla vita, ed è riuscito a questo con un distacco prepotente dagli uomini e le cose che lo circondavano, cosicché noi siamo costretti a partire dal piano che lui ha imposto. La sua voce copre ogni altra voce del presente; la chiarezza del suo pensiero fa apparire sfocato ogni altro pensiero. Per chi si è sciolto dalle catene, e nell’arena della conoscenza e della vita non conosce tiranni, soltanto lui conta.

La interpretazione autonoma e personale di Nietzsche appare quindi a Montinari un compito irrinunciabile, segno di una lenta e progressiva maturazione, a contatto quotidiano col lavoro dell’edizione.

8.

La “morale provvisoria” dello storico

Un altro punto, che è oggetto di riflessione per me, è come mai io abbia la tendenza a “capire tutti”, come tu dici. Ma di questo non voglio parlare oggi: mi sembra che sia una grande debolezza e un grande pericolo, ma ho l’idea che, se questo è un tratto essenziale del mio carattere (ancora non ne sono sicuro), magari vi possa trovare invece la mia forza vera, e se fosse così, tanto peggio per i “pericoli”.

Così Montinari afferma nella lettera del 7 ottobre del 1963, citata precedentemente. “Tu capisci tutti” — questo amichevole rimprovero fatto da Colli a lezione di vita — individua, in realtà, la posizione di fondo di Mazzino Montinari legata alla sua sensibilità umana e storica. In lui sta facendosi strada la convinzione di un sapere storico, aperto alla pluralità del reale, ed estraneo decisamente alle sicurezze dei dogmi ma anche alle certezze della filosofia “forte” dell’amico. All’elemento agonistico, pagano, di Colli che ha il suo fondamento nella metafisica, si contrappone il “comprendere tutti”, un’apertura verso le altre posizioni che non significa affatto rinunciare alla propria. È una sorta di egemonia, che nasce da un atteggiamento umano ed etico, la cui superiorità sta nella tolleranza e nella comprensione storica e genetica delle posizioni diverse. Montinari si rivela natura antidogmatica ma anche ostile ad ogni sorta di relativismo che significa spesso indifferenza morale, disimpegno. Queste posizioni di fondo saranno importanti anche per la successiva interpretazione di Nietzsche.

In uno dei primi quaderni di Weimar — del luglio del 1962 — (che contiene molto materiale per il lavoro su Karl Hillebrand) vi sono alcune paginette di riflessione sotto il titolo eis eauton* che iniziano con queste parole

Il problema è: di considerare insieme i compiti politici e quelli “metafisici”: non si troverà nessuna giustificazione teorica valida per escludere i secondi a favore dei primi o i primi a favore dei secondi. Questo sul piano teorico puro. Vi è poi la questione storica: come si è costituita una concezione integralmente politica (o presuntamente così), e come d’altra parte si è cristallizzata al polo opposto una concezione esclusivamente metafisica (o presuntamente così), della vita.

Un occhio libero e spregiudicato non può accettare questa contrapposizione.

________________Soprattutto non accettare più nulla senza spirito critico.

Dopo aver fatto un bilancio autocritico delle precedenti esperienze per la propria “incapacità di sintesi” e mancanza di un centro, fa una critica, di sapore nietzschiano, che coinvolge l’atteggiamento metafisico schopenhaueriano dell’amico:

Come si può giudicare la vita nel suo complesso? Se dico “apparenza” “verità” “nulla” e se questi concetti vengono dalla vita

stessa, dunque ne sono una parte, come posso estenderli a tutto?

Ma il confronto più libero e deciso avviene, come risulta anche dalle lettere che abbiamo citato, nell’ottobre dell’anno seguente occasionato dalla pubblicazione, firmata da Colli e Montinari, della Premessa editoriale all’edizione Adelphi delle Opere di Nietzsche. Questa presentazione aveva una parte filosofica (che già abbiamo avuto modo di citare) scritta da Colli e una parte filologica e di storia delle edizioni di Nietzsche elaborata prevalentemente da Montinari e volta a illustrare la radicale novità dell’edizione che si stava preparando presso Adelphi e Gallimard. Questo scritto era stato steso durante il soggiorno comune a Weimar nel settembre del 1963 ma, come mostrano i quaderni postumi pubblicati da Enrico Colli, le idee per la prefazione filosofica risalivano al luglio dello stesso anno. Per la critica filologica all’edizione Schlechta si rimandava alla pubblicazione, Ein Blick in Notizbücher Nietzsches (Heidelberg 1963) di Ernst Podach che, in un modo ancora non bene definito,

era stato invitato a partecipare all’edizione. Colli aveva voluto aggiungere, come avvertenza la seguente frase:

Rinunciamo invece a fornire, nelle nostre note, interpretazioni e giudizi sul pensiero di Nietzsche. Questo nostro atteggiamento porta con sé, ad esempio, che anche le interpretazioni di E. Podach, che è stato da noi invitato a collaborare all’edizione in qualità di consulente, non si possono considerare come da noi condivise.

Il fatto che la Premessa fosse firmata da Colli e da Montinari e che, in fin dei conti, una interpretazione filosofica “forte” veniva fuori, ed antitetica alla sua, provocò le reazioni di Podach che si sentì escluso ed attaccato e che ruppe i rapporti, fino allora molto amichevoli, con Montinari. Le lettere di Montinari mostrano il tormento per questo fatto e, una volta falliti tutti i suoi tentativi di riconciliazione, la volontà di chiarire a se stesso la propria posizione anche nei confronti dell’amico. Il tono — pieno di amarezza — che leggiamo in alcune lettere del periodo è una conseguenza del “caso Podach”.

Io ho avuto simpatia per questo vecchio e fondamentalmente onesto ricercatore; bizzoso, pittoresco, collerico, ma quanto provato dalla vita! Una vita che ho visto coi miei occhi, un po’ arida qualche volta, e soprattutto permeata di sospetto, non una vita “in grande” certo. Averlo “travolto”, avergli ridato un po’ di fiducia, averlo visto contento mi ha fatto piacere, non posso negarlo. E, anche se abbaia, per me è, tra noi, il più debole, il meno ricco (11 novembre 1963).

La delusione e la sofferenza per la perdita di un rapporto umano porta a relativizzare anche il significato del suo lavoro: in un momento di sconforto può scrivere nei suoi appunti, alla data 20 novembre:

In uno stato d’animo di indifferenza affettiva per il presente. Che cosa vuol dire? — N. mi appare un misero episodio individuale destinato alle mode di élite. Vorrei qualche volta ricominciare tutto da capo. In una officina in un

cantiere del socialismo. Oppure in un paese della mia Toscana.

Un quaderno con la copertina nera, rilegato, contiene a partire dal 2 ottobre 1963 una serie di riflessioni, che Montinari continuerà negli anni successivi, in cui l’esigenza di chiarimento teorico va di pari passo alla riflessione su Nietzsche e sul significato del proprio lavoro.

Le considerazioni iniziali sono dedicate al “caso Podach” e al confronto con la filosofia dell’amico vista dalla posizione critica propria di un Freigeist (“Accetto di diventare un Freigeist. Uno che esercita senza paura lo spirito critico e la libertà del mio pensiero”):

Io ho delle persone attorno a me (degli amici) che sono come i poli della mia esistenza. Prima di tutto Giorgio. La recente crisi è ancora irrisolta dentro di me. Ho bisogno di pensarci con calma, di capire la mia posizione. Io non credo che potrò mai accettare le idee di Giorgio, sono le migliori che conosco — la sua esistenza ne è la dimostrazione — ma non riescono ad essere le mie.

Montinari passa poi ad esaminare la parte filosofica della premessa editoriale segnando i punti di accordo e di distanza.

3 ottobre 1963. Il punto preminente di ciò che dice Giorgio, — a parte Platone, la musica, l’anima, (che sono modi degni e leciti di dire una cosa almeno quanto lo sono quelli usati dagli storicisti),— è che per capire N bisogna considerarlo come un’unità, come una totalità. L’idea poi che la vita di N sono le sue opere è anche mia (l’uomo che scrive). La sua tesi è inoltre che bisogna ascoltare N come si ascolta la musica — ora io non ammetto, neppure per la musica, un modo incomprensibile o estetico di ascoltare qualcosa. Io sono per la trasposizione in termini razionali e comprensibili o meglio, per la descrizione “storica” (cioè nel tempo) di ogni fatto [aggiunta 5 ottobre 1963]: anche se le individualità come N sono evidentemente irriducibili (entelecheia), e se non mi sento di negare la legittimità di chi ne considera le espressioni fuori del tempo (questo è per me un interrogativo non risolto). Se Giorgio parla così è proprio perché per lui la razionalità non ha importanza e tutto si riferisce in ultima analisi all’unità estetica dell’individuo. Per lui, io lo vedo benissimo, questo va bene, per me no. Su questo punto io prenderò posizione, anche contro Giorgio se sarà necessario, quando sarà il momento e il fatto che io abbia firmato oggi è irrilevante; nella presentazione dovevamo parlare insieme e

io riconosco a Giorgio una parte preminente in tutta l’impresa. Quando parlerò da solo, dirò quello che ho da dire.

Analizzando poi il “caso Podach” si rimprovera di non aver tenuto sufficientemente conto delle “differenze inconciliabili che dividono Podach e Giorgio” e di aver cercato di mediare le posizioni. In realtà anche il libro di Podach “era un atto coraggioso contro coloro che acriticamente si dedicano al culto di N. Podach però tenta una distruzione di N, che in molti casi è irrazionale e superficiale. Eppure io capisco Podach”.

Negli appunti successivi, ancora in un confronto serrato con le posizioni dell’amico, pur sostenendo la non risoluzione della filosofia nella storia e la permanenza di “problemi ultimi” sotto altra forma anche dopo la “morte di Dio”, ritiene di avere delle responsabilità verso l’epoca e afferma la necessità di una conoscenza concreta e storica: “Devo prendere posizione nel mondo in cui mi trovo e nel tempo che mi è dato di vivere”. La filosofia dell’amico, con le sue conclusioni e certezze ultime, ha gli stessi limiti che Montinari ha riconosciuto nel marxismo attuale. La risposta si formula come “morale provvisoria”:

Attendere al mio lavoro (N) come a una parte sia pure minima del lavoro conoscitivo dell’umanità quanto alla storia. Esiste un “deposito”, che è il sapere umano al quale io porto il mio contributo, in questo caso un contributo storico — filologico. Coloro che, come i marxisti, e ciò vale anche per Giorgio in un certo senso, pretendono d’insegnare come si pensa, di farci sapere che c’è un punto terminale al quale tutto si riconduce, sono i nemici della verità [...].

La mia posizione esclude dunque una filosofia pessimistica o religiosa? Sì, perché il compito della filosofia è quello di fare ogni volta il bilancio generale delle conoscenze umane sia scientifiche, sia storiche, e soprattutto quello di criticare il più ponderatamente, ma anche il più radicalmente possibile i risultati acquisiti. Ogni epoca ha la sua verità, o meglio ogni uomo limitato nel tempo dalla nascita e dalla morte ha la sua verità. Senza nascita e senza morte non vi sarebbe divenire, cioè non vi sarebbe sviluppo, e così si avrebbe la cosiddetta verità assoluta, che potrebbe essere la verità sia di una animalità assoluta sia di un “puro spirito”.

Le varie riflessioni contro le “verità eterne” sono evidentemente contro l’influsso della filosofia di Colli. Montinari si richiama alla necessità di una “scienza concreta”.

È necessario uscire coraggiosamente da questa specie di cerchio magico: da una parte Giorgio che è un filosofo “antico”, per unilateralità e dall’altra il dogmatismo di tipo marxista, ancor più insopportabile. Sembra che per Giorgio la realtà non esista se non in alcune forme estremamente rarefatte ed esangui. Non voglio dire che la realtà dei professori (ma c’è?!) sia migliore. Voglio solo capire qual è la mia realtà.

E la sua realtà è prevalentemente legata a un richiamo alla concretezza: “analisi della società e dello stato”, della funzione dell’individuo, del “senso religioso” (“perché in senso più largo il fenomeno religioso è “immortale””).

Si tratta di indagare “qual è la posizione dell’individuo, o meglio in che consiste la moralità individuale, non come ricerca della morale da proporre ma come fenomenologia del comportamento umano nel capitalismo, nel socialismo, nelle altre società”.

In che cosa consiste il senso religioso della vita? Nella svalutazione delle “apparenze”? Sì per la filosofia di Schop.   Platone e Giorgio, non per me e nemmeno, credo, per Nietzsche. L’uomo è una tensione dentro la finitezza, questo è il risultato della fine della metafisica e la formulazione corretta. L’uomo muore perché vive. (Abbiamo dunque abbandonato la mera fenomenologia — ma è proprio così che devo fare; descrivere la realtà non vuol dire negare una propria coscienza attuale di essa, dei nuovi [suoi] problemi). Questa tensione oggi non ha bisogno di risultati passati, li deve respingere anzi, perché sono caduti in preda alla riflessione, cioè non sono più vivi, sono mitici e mantenerli vuol dire automistificarsi. Si possono accettare i preti e i grandi filosofi in quello che hanno detto, ma solo storicamente come nostro passato, come nostra proprietà. Oggi si deve avere il coraggio di non guardare all’indietro (e nemmeno in avanti, se lo si fa utopisticamente), bensì si deve guardare dentro il nostro tempo, senza “ideologia” (a questa parola bisogna finalmente restituire il significato dispregiativo che essa merita) e senza brividi zarathustriani.

La conclusione di queste riflessioni mette in luce il senso pieno della vita ed il concreto atteggiamento di fronte alla realtà da capire e da cambiare:

La vita non è apparenza. Poteva affermare ciò colui che credeva in “qualcos’altro”. Dobbiamo adoperare altri concetti. L’uomo conosce la realtà, tutta la realtà e la modifica di continuo, la conoscenza di queste modificazioni è il progresso nella conoscenza della realtà. Fini non ne vogliamo, non ne cerchiamo. La poesia, l’arte ci vengono dalla nostra finitezza, e dalla nostra tensione. La poesia e l’arte del passato sono nostre storicamente. Pessimismo e ottimismo sono parole prive di significato. Impegnamoci coraggiosamente e umilmente a sviluppare le nostre conoscenze, a promuovere la giustizia e non perdiamo tempo a cercare sintesi impossibili o a riesumare quelle vecchie. Non sappiamo dove si va...

È questa la conquista ferma di un atteggiamento di vita e di ricerca che darà i frutti a tutti noti. La goethiana Forderung des Tages, la “morale provvisoria” del concreto lavoro quotidiano, lontana dalle asprezze e dalla “malinconia” di Cantimori, diviene consapevole morale definitiva, “Glanz und Elend der philologischen Arbeit”.

2.

Mazzino Montinari e il mestiere del filologo

Sommario: 1. Una saggia radicalità. — 2. Il “mestiere” di insegnante. — 3. Un rapido curriculum.  —  4.  Civis Veimarianensis.  —  5.  Giornate all’Archivio  

—   6.   La biblioteca e le letture di Nietzsche.   — 7.   de Gruyter, editore scientifico. — 8. “Glanz und Elend der philologischen Arbeit”.

1.Una saggia radicalità

Il compito che mi pongo è quello di chiarire, con l’aiuto di materiale inedito o difficilmente accessibile, alcuni aspetti della riflessione culturale di Mazzino Montinari, delle motivazioni che guidarono il suo lavoro di filologo e che hanno aperto la possibilità di una diversa “approssimazione” a Nietzsche.

Nei suoi saggi, che ha sempre presentato come “prodotti marginali” rispetto all’attività di editore, ma che “al tempo stesso ne rendono conto e ne discendono”, Montinari si propone “un modo diverso di leggere Nietzsche: storico e non ideologico, filologico e non attualizzante”.

In uno dei suoi ultimi scritti, L’onorevole arte di leggere Nietzsche, fa una sorta di bilancio del suo lungo rapporto con Nietzsche: esperienza fortemente coinvolgente, capace di liberare dai miti e dai pregiudizi più radicati purché vi sia da parte del lettore una capacità di reazione, purché egli sia pronto “anche a contraddirlo risolutamente”. È questo il senso della “sfida continua” (Müller-Lauter) con la filosofia di Nietzsche.

Questo aspetto caratterizza fin dagli inizi il suo tentativo di una sua lettura originale del filosofo tedesco.

Nell’accingermi a scrivere la biografia di F. Nietzsche, ritengo necessario riassumere a me stesso, così come mi si presentano, senza un ordinamento neppure provvisorio, i motivi che mi spingono a tentare questa impresa e, quindi, descrivere le caratteristiche che tale biografia dovrà avere.

N è per me un simbolo di disordine spirituale, N è la vittima (?) dei contrasti che in lui suscitava l’epoca in cui visse, N non è né un genio poetico, né un filosofo, né un “moralista”, né uno psicologo. N. è una malattia. Ogni

sua parola, ogni suo concetto, ogni suo tentativo trovano in me una eco personale; N è un problema non ancora risolto, — e anche io sono un problema non ancora risolto,— N domanda al suo tempo, che è il mio, che cosa si debba fare. Poi pretende di risolvere da solo questo problema; vuol guarire da solo, così come da solo è malato. Ma N vuole la solitudine nella malattia. Nel momento in cui decido di occuparmi della mia malattia, mi occupo della sua — e viceversa. Il rischio è grande perché l’ampiezza e la varietà dei sintomi sono tali da minacciare di non riuscire a una risposta e a una guarigione, bensì di disperdere definitivamente l’energia intellettuale di chi affronta questo problema patologico (Il rischio di generalizzare superficialmente, di fermarmi prima di aver toccato il fondo — questo rischio non lo conosco).

Bisogna dare una interpretazione nuova; la micrologia biografica con lo scopo sottinteso o manifesto di “liberarci di N” serve solo in quanto ci libera del N degli apologeti, dei filosofi alla moda e via dicendo. Ma N come sintomo anzi come malattia non è ancora stato descritto (e risolto). N si aggira lungo i confini di una “civiltà”. Provvisoriamente: N ascolta ancora l’esigenza metafisica di dare un significato totale alla vita nel mentre che si sforza, quasi sempre con successo, di afferrare la fisionomia antimetafisica del nostro mondo e addirittura di giustificarla. Ma questa giustificazione viene dai confini, dove più nessuno si aggira, che N possa rispettare: i religiosi volgari, che da quelle parti gettano un’occhiata domenicale; i religiosi fuori del tempo, che, pur cibandosi alla mensa pagana della modernità, negano la modernità stessa; i religiosi politici che proclamano l’armonia tra metafisica e realtà, a scopo di dominio e di “ordine”.

Il contenuto di questi appunti inediti, datati 1 settembre 1963 — di grande forza stilistica —, che aprono un quaderno di lavoro di Mazzino Montinari su Nietzsche, può sorprendere solo chi si è fatto del suo lavoro filologico un’immagine riduttiva e di comodo. Vi si legge la necessità di una critica a fondo delle falsità del mondo contemporaneo, l’urgenza di reagire ad una malattia segnata simbolicamente col nome di Nietzsche, evitando gli errori di Nietzsche: (“pretende di risolvere da solo questo problema; vuol guarire da solo, così come da solo è malato...”). Il rapporto con Nietzsche è comunque di forte coinvolgimento: “N è la mia malattia” — è un rapporto di sfida e provocazione — è legato ad una forte passione personale e civile, è espressione di una tensione che vuole comunque risolversi non passando attraverso facili vie e

che è sicura della sua tenacia: “Il rischio di generalizzare superficialmente, di fermarmi prima di aver toccato il fondo — questo rischio non lo conosco” — si legge nell’appunto.

Passione, tensione, slancio: sono parole chiave per approssimarsi al mondo complesso e alla personalità di Mazzino Montinari, per comprendere il suo percorso, segnato da una “saggia radicalità” (l’espressione che così bene lo caratterizza è della sua amica Gigliola Pasquinelli).

Singolare, in questa direzione, un altro appunto dello stesso quaderno, datato 30 settembre 1963, che spiega un aspetto del suo costante interesse verso Zarathustra.

N. nella quarta parte di Zt e nei Ditirambi per es., risponde assai bene a un mio modo di essere che vorrei descrivere. È il volersi lanciare al di là dei confini possibili.

Possiamo ancora trovare la stessa “saggia radicalità” — sottintesa o esplicita — di Montinari, in molti scritti dell’ultimo periodo: basti qui accennare alle sue riflessioni in una nota introduttiva del 1984, simpatetica col “radicalismo della Genealogia della morale”. La forza di questo radicalismo — scrive Montinari — “dovrebbe lasciarci per un bel po’ ammutoliti, per guardare nell’abisso della storia reale [...] che in questo libro scientifico e di un razionalismo spietato si spalanca al termine di un lavoro genealogico compiuto da Nietzsche. Non esiste ancora oggi una risposta autentica agli interrogativi posti nella Genealogia, alla sfida lanciata da Nietzsche [...]. Esiste è vero, qualche sottoprodotto nietzscheano, qualche scimmia mascherata da leone, e — anche! — il lieto nichilismo.” La critica dura di Montinari è sempre rivolta alle facili espressioni e alle soluzioni mitiche della crisi:

Nelle istituzioni esistenti, sostenute da immani forze di produzione e di distruzione, viene assimilata e mercificata ogni e qualsiasi protesta, persino quella dei “Lumpen”, ogni tentativo di lasciare la “nave dei folli”. Se il metodo di Nietzsche può ancora aiutarci, allora l’unica forza che ci è rimasta per opporci al caos è quella della cultura, della ragione.

È una posizione ed uno stile di vita e di lavoro consapevolmente e definitivamente inattuali: Montinari ha raccolto la sfida del radicalismo di Giorgio Colli, per un’azione Nietzsche, ma ha interpretato quest’azione a modo suo, fino a vederne un’espressione conseguente nell’immane lavoro filologico e storico-critico.

Infatti, nel breve scritto del 1986, precedentemente citato, Montinari mette in luce un’altra lezione che gli deriva più direttamente dalla sua esperienza di editore, l’esperienza di chi ha lavorato per anni sui manoscritti, sulla genesi e il movimento dei testi, sulla loro definizione. È il confronto con il Nietzsche che non può essere assimilato e ridotto a nessun mito e ideologia, a nessuna fruizione estetica e immediatistica, che aiuta comunque a “liberare” anche se in un modo meno appariscente, più sommesso.

In generale, le varianti dell’apparato critico, anche quelle di rilievo minore, mostrano quanto Nietzsche lavorasse coscienziosamente nella scelta delle parole, nell’accentuare o sfumare i propri pensieri. Non un’immagine, non una parola e nemmeno un segno di interpunzione piuttosto che altri sono casuali in Nietzsche. Esercitare la propria pazienza, seguire queste trasformazioni arricchisce il lettore, lo rende più profondo, più attento e anche più diffidente (verso se stesso e verso Nietzsche).

I molti scritti in onore e in ricordo, il Convegno Internazionale a Firenze organizzato dall’Istituto Gramsci Toscano, un numero delle Nietzsche-Studien a lui dedicato, hanno illustrato vari aspetti della attività e della personalità di Montinari, ma gli esiti più maturi e l’apertura di nuove feconde prospettive, interrotte dalla morte improvvisa, potranno essere verificate anche dall’azione di chi sta continuando e continuerà il suo lavoro storico-filologico all’edizione e per una nuova “paziente” lettura di Nietzsche.

2.

Il “mestiere” di insegnante

Dopo il periodo di “fondazione weimariana” dell’edizione (“un soggiorno praticamente ininterrotto a Weimar dal 1963 al 1970 — durante il quale lavoravamo in stretto contatto sia per lettera, sia durante le settimane in cui, ogni anno, Colli veniva a Weimar”) Montinari diventa sempre più un punto di riferimento obbligato per chiunque voglia occuparsi seriamente di Nietzsche. La sua ospitale casa di Settignano, sulle colline di Firenze, era il centro di un lavoro intenso e molteplice, non solo legato all’edizione di Nietzsche, ed anche centro di molte relazioni, culturali ed umane. La sua attività, comunque, per la carriera accademica e per il lavoro editoriale, si è divisa, dopo Weimar, tra diverse città: Urbino, Firenze, Pisa, Berlino.

A partire dall’anno accademico 1971-72, in cui gli fu conferito un incarico di Lingua e Letteratura tedesca presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Urbino, l’impegno didattico, il “mestiere” di professore, diventano un momento importante della sua attività.

Nell’ottobre 1972 una commissione spregiudicata e illuminata (Ladislao Mittner, Marianello Marianelli, Cesare Cases, Giuliano Baioni [il quinto commissario, Francesco Delbono, si dichiarò contrario]) ha voluto premiare la mia attività di germanista piuttosto atipico immettendomi nella terna dei vincitori di un concorso per una cattedra di Lingua e Letteratura tedesca.

Così Montinari si esprime in un curriculum del novembre del 1984.

Il periodo di straordinariato iniziato a Urbino (1973-74) si concluse alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze nel 1975-76. Dal 1976 al 1980 fu preside di quella Facoltà.

In questa sua attività di preside, in un momento difficile per l’Università e la società italiana, si manifestò ancora una volta il significato che per Montinari aveva l’impegno sociale: lontano dalle astrattezze dell’ideologia ed anche dall’esercizio unicamente teorico che caratterizza molti intellettuali, si era immerso nel lavoro concreto, quotidiano affrontando ed inserendo i molti problemi della facoltà di Magistero in una prospettiva generale. Politica in senso lato quindi, come partecipazione attiva, in una situazione concreta, per un miglioramento concreto di situazioni specifiche: contributo del singolo nel suo posto di lavoro per migliorare la società senza illusioni ma anche con la ferma fiducia nella forza della democrazia e del consenso razionale.

Di qui la lotta alle facili scorciatoie demagogiche, alle vie dei privilegi corporativi ammantati spesso, in quegli anni, con atteggiamenti di rivolta, il non voler delegare ai “politici” le responsabilità dei docenti nei confronti della riforma universitaria, e, soprattutto, l’attenzione continua ai problemi di funzionamento dell’Ateneo: dalle biblioteche all’organizzazione didattica, dal complesso problema dell’edilizia universitaria e del rapporto con gli enti locali alla formazione professionale degli insegnanti come compito precipuo di una facoltà come il Magistero.

Questo negli anni caldi della contestazione “irrazionalistica” del 1977, quando, come Montinari ha scritto, sulle mura delle Università “tra le scritte suggestive” si potevano leggere come slogans anche detti di Zarathustra. Una sorta di “nuovo nietzscheanesimo”, amplificato e assimilato attraverso rotocalchi e quotidiani, una moda superficiale, “entro il gigantesco sincretismo culturale odierno”, faceva parte del bagaglio ideologico del “movimento” di forte e spesso antidemocratica contestazione. Il “manovale dell’edizione critica di Nietzsche” di fronte a questo fenomeno, non poteva che constatare l’impotenza della direzione del suo lavoro scientifico: “i bisogni, diciamo così, intellettuali di massa e i fenomeni delle mode culturali del nostro tempo rispondono a leggi e a cause contro le quali lo spirito critico e il senso storico sono destinati all’impotenza, o meglio nulla possono finché queste cause non si esauriscono”.

All’intellettuale è dato studiarne a fondo le cause, per meglio capire, per contribuire comunque con il suo lavoro nella direzione del mutamento.

Il Magistero fu a lungo occupato dagli studenti in lotta ed anche il chiostro quattrocentesco della facoltà ebbe le sue scritte sui muri: Montinari non si limitò a condannare o esorcizzare ironicamente il fatto ma cercò di capire le ragioni di fondo dello scontento nell’assoluta mancanza di funzionalità di una facoltà — considerata di serie B — che candidava i suoi laureati ad una disoccupazione certa:

Coloro che nella sede della facoltà fiorentina in via del Parione hanno scritto Il Magistero è una triste illusione hanno certamente sbagliato metodo di espressione politica, imbrattando con questa ed altre scritte la loro facoltà, ma hanno detto una pura e semplice verità.

Così scrive in uno dei suoi interventi pubblici sul problema universitario.

La volontà di capire e di trovare risposte sul piano generale della riforma universitaria si espresse in molte iniziative culminate nell’aprile del 1978 in una conferenza nazionale, tenuta a S. Miniato, sulla facoltà di Magistero da lui con energia sollecitata e promossa. Con queste significative parole termina l’intervento precedentemente citato:

La lotta politica per la riforma è senza dubbio assai dura e difficile e richiede l’impegno di tutti: docenti, studenti, non docenti che vivono la drammatica crisi di questa istituzione. Essenziale mi sembra sia il contributo di coloro che nell’università hanno le maggiori responsabilità, penso ai professori di ruolo che devono decidersi ad entrare in lotta senza riserve mentali, senza pensare in modo corporativo o individualistico. A chi dice, tra loro, che l’università di massa minaccia la libertà di ricerca, risponderei tranquillamente che non può essere libero colui che non ha fiducia nella ragione e nella cultura e si abbandona ad un facile Kulturpessimismus, e che la nostra libertà non può non essere la libertà di tutti nell’impegno civile per salvare, prima ancora dell’università, la nostra società democratica. Altrimenti si avvererà l’antico

detto: quos vult perdere amentat.

In questo suo agire e sentire, si poteva leggere, a mio parere, anche la ricchezza umana della persona che si era formata lontano dalle miserie dell’accademia non senza una certa diffidenza critica verso quel mondo, della persona libera dalla “gibbosità” che caratterizza, in parte, anche i migliori professori (“Von dem obligaten Buckel der Professoren spüre ich noch nichts” [ancora non mi sento spuntare la gobba inevitabile dei professori] — Nietzsche) sul cui impegno in una prospettiva generale di riforma, in quegli anni, pur nutriva qualche generosa illusione.

Ma è nelle lezioni ai suoi studenti, nei seminari, nella trasmissione diretta dei risultati, degli strumenti e soprattutto di un ethos verso la ricerca scientifica che meglio si esprime la sua attività universitaria. a Urbino, Firenze, Pisa ma anche a Berlino, nel 1980-81 come Gastprofessor alla Freie Universität e, negli anni successivi, come fellow del Wissenschaftskolleg, nei seminari periodici con studenti e giovani studiosi.

Da quando Montinari, col rientro in Italia, pensa concretamente alle possibilità di un insegnamento universitario, vede nel seminario di lettura sui testi e manoscritti il modello di efficace trasmissione del sapere e di ricerca. Questo si legge ad es. in una lettera all’amico germanista Paolo Chiarini, del 26 maggio 1969, in cui discute la possibilità di tenere un “corso libero” su un tema a lui caro, su cui era tornato più volte e che è stato oggetto della sua ultima ricerca, anche nel soggiorno di studio a Parigi:

Il corso avrebbe per me un’utilità pratica, come preparazione all’insegnamento. Se la cosa ti interessa e può essere attuata all’Istituto o all’Università, ecco come io vedrei questo corso, che avrebbe come argomento: “La quarta parte di Così parlò Zarathustra”, e potrebbe svolgersi in 20-30 ore.

a) Introduzione generale che tratti il posto dello Zarathustra nell’opera di Nietzsche, problemi generali dell’edizione di Così parlò Zarathustra e in genere dell’edizione delle opere e dei postumi di Nietzsche.

b) Genesi della IV parte di Zarathustra: tra l’altro con “Rückblicke” alle poesie dell’autunno 1884 ““Vorausblicke” sui Ditirambi di Dioniso.

c) Lettura e commento del testo, anche con l’aiuto di fotocopie (la

tradizione manoscritta è praticamente intatta dalle “Vorstufen” fino al “Druckmanuskript”). Questa parte dovrebbe avere il carattere di esercitazione anche nel tradurre, come a suo tempo feci a Firenze con il caro, indimenticabile Delio Cantimori per l’inattuale sulla storia, nell’anno accademico 1960-61 e 1961-62.

Proprio negli anni di contatto stretto con Delio Cantimori, era maturata in Montinari una prima volontà di tentare la carriera universitaria. Così scrive, a tal proposito, in una lettera a Colli, in cui comunque cerca di rassicurare l’amico sull’importanza e sull’assoluto primato dell’impresa comune, non accademica:

“Conoscere bene la storia e la letteratura tedesca e saperle insegnare agli altri è un mestiere decente. Tu sai che io ho verso la scienza o meglio la filologia un atteggiamento di rispetto, come per qualcosa che mi piacerebbe imparare bene e cioè sistematicamente e che eserciterei con più soddisfazione di qualsiasi altro mestiere... ”. Questa volontà di Montinari si lega, più in generale, alla lenta e metodica costruzione di una propria forma di vita, attraverso un mestiere che dia ordine ad un fondo che si sente ancora troppo passionale ed inquieto:

Questo costruirmi una mia capacità, un mio mestiere in modo sistematico mi sembra ormai una specie di necessità, che rischia di diventare ossessione, se rimane a livello di velleità. Ho bisogno, proprio per me, della disciplina che è necessaria a quello scopo, magari proprio perché il mio fondo è tutto il contrario della scientificità e, purtroppo, della disciplina... mi sembra che saprei insegnare, e che ne ricaverei qualcosa di più che non il semplice trasmettere una capacità tecnica di lavoro (23 settembre 1962).

Colli, nella sua Stimmung antiaccademica — di origine schopenhaueriana — sente questi progetti dell’amico come un pericolo, quasi un tradimento e risponde un po’ laconicamente:

Ho ricevuto la tua lettera, con l’annuncio dei tuoi propositi riguardo all’università. Ti sono grato di avermelo detto apertamente, così non dovrò più ruminare su una cosa sentita oscuramente.Un giorno forse dovrò dire:

“Nach dem Verwundbarsten, das ich besass, schoss man den Pfeil: das

waret ihr, denen die Haut einem Flaume gleich ist und mehr noch dem Lächeln, das an einem Blick erstirbt!” [in tedesco nel testo: “Per colpire il mio possesso più vulnerabile, scoccarono la freccia: e questo eravate voi, la cui pelle è simile a una fine peluria e più ancora al sorriso che si spegne per un solo sguardo!”] con tutto il resto del ”Grablied” dello Zarathustra. Ma può anche darsi che non sia così...

Le prime lezioni di Montinari, su invito di Paolo Chiarini, furono tenute a Roma a partire dalla primavera del 1971. Negli appunti per la lezione introduttiva, conservati in un quaderno, si leggono queste parole sul suo metodo e sul suo atteggiamento di fronte agli studenti:

Le nostre sedute siano possibilmente di collaborazione — Chi vi parla ha un minimo di risultati acquisiti, molti dati, risultati oggettivi di ricerca, ma ancor più problemi da porre. Cerchiamo di risolverne o di avviarne a soluzione qualcuno insieme — (24. marzo 1971).

Sarebbe interessante ricostruire in modo più dettagliato i temi delle sue lezioni e dei suoi seminari tenuti con appunti talvolta dattiloscritti: Goethe, Mann, Broch, i miti e l’“ideologia” tedesca degli anni Trenta, Heine, problemi di critica del testo, e naturalmente Nietzsche nei suoi vari momenti, nel suo contesto culturale (ultimamente: la letteratura francese a lui contemporanea) e nella sua “fortuna”.

Dopo Firenze, l’Università di Pisa doveva divenire, nei progetti di Montinari, il suo luogo di lavoro ed un centro di studi nietzscheani. Il curriculum del novembre del 1984 sopracitato fu scritto per la sua chiamata a Pisa sullo stesso insegnamento, presso la Facoltà di Lettere e filosofia dove era stato voluto, come successore, da uno dei suoi “illuminati” commissari, Marianello Marianelli, divenuto, nel frattempo, suo intimo amico.

Nonostante la metodica diffidenza verso i convegni, troppo spesso frutto di “industria culturale”, egli stesso partecipò e talvolta organizzò incontri di ricerca e di studio su temi di germanistica, critica del testo, filosofia in Italia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Norvegia, Olanda, Israele e infine nel 1986, negli Stati Uniti

d’America.La morte ha sorpreso Montinari il giorno prima dell’inizio del

suo corso a Pisa: sul suo tavolo i primi appunti per le lezioni Mitologia e verità: la poetica di Heinrich Heine. Il lavoro filologico al XII volume dell’edizione critica di Heine doveva ancora accompagnarsi alla trasmissione dei risultati nelle lezioni universitarie ed alla volontà di insegnare a “leggere” autori a lui cari.

3.Un rapido curriculum

Il ritorno in Italia segna la ripresa di altri interessi, l’assunzione di nuovi impegni editoriali. Tra questi, significativa, e da mettere in luce, l’attiva partecipazione di Montinari al comitato di redazione dell’edizione italiana delle Opere complete di Marx ed Engels, di cui curava in particolare i carteggi.

In questo lavoro per gli “Editori Riuniti” presso cui aveva iniziato la sua attività agli inizi degli anni ‘50, con la sua esperienza di editore di testi porta suggerimenti e volontà di rigore, come mostrano anche le lettere scambiate sull’impostazione generale dell’edizione col vecchio amico dei tempi della Scuola Normale, Giuseppe Garritano. Per l’edizione dei carteggi, rivede ed aggiorna, per vari volumi, vecchie traduzioni, ne fa di nuove, e cura l’apparato di note. Questa dell’edizione italiana di Marx- Engels è l’occasione per ritrovarsi a lavorare con i vecchi amici della Normale, politicamente impegnati nel Partito comunista, Fausto Codino e Giorgio Giorgetti sotto la direzione di Giuseppe Garritano.

Agli inizi del 1968 uscì, in una collana di divulgazione di alto livello, “I protagonisti della storia universale”, un profilo di Nietzsche in cui Montinari abbozzava la sua prima interpretazione complessiva del filosofo tedesco. L’impostazione storica, la sicurezza e l’ampiezza delle fonti, segnavano una radicale novità

nell’approccio al filosofo tedesco. Dal 1968 all’anno della morte, Montinari ha pubblicato molti articoli e saggi in riviste specializzate italiane, tedesche, inglesi su Nietzsche, sui problemi e metodi dell’edizione, su Goethe, Manzoni, Thomas Mann, Wagner, Lou Salomé, Lukàcs, Bäumler, Hillebrand, Cantimori e infine Heine, di cui curava, nell’ultimo periodo, un volume per l’edizione critica che si pubblica a Weimar-Parigi. Ha fatto introduzioni, dopo la morte di Colli, a singoli volumi delle Opere di Nietzsche e a scritti di Nietzsche apparsi nella Piccola Biblioteca Adelphi per cui aveva curato nel 1977 La mia vita (tradotta da M. Carpitella) raccolta di scritti autobiografici giovanili (1856-1869) di Nietzsche.

I suoi interessi sono testimoniati, tra l’altro, dalle introduzioni a Robert Musil, Sulle teorie di Mach (Adelphi 1973) di cui ha curato anche la traduzione, alle poesie del suo amico, il poeta dissidente della ddr Reiner Kunze Sentieri sensibili (Einaudi 1982), al carteggio Sigmund Freud-Lou Andreas Salomé, Eros e conoscenza (Boringhieri 1983). oltre che dalla sua infaticabile opera di traduttore di Nietzsche e di altri autori. Nel 1975 pubblicò Nietzsche, una ripresa ed un ampio sviluppo del suo primo profilo (Ubaldini editore, Roma). Due raccolte, l’una, uscita in Italia, Su Nietzsche (Editori Riuniti, Roma 1981) e l’altra in Germania, Nietzsche lesen (de Gruyter, Berlin 1982), testimoniano di questa feconda attività parallela all’impegno scientifico quasi totale richiesto dall’edizione critica. Ultimamente, in connessione al lavoro degli apparati critici dei frammenti postumi della Abt. VII (Juli 1882-Herbst 1885), Montinari andava sviluppando l’analisi del rapporto di Nietzsche con la cultura francese a lui contemporanea e aveva fatto studi alla Biblioteca nazionale di Parigi durante un soggiorno dell’autunno del 1986 progettando anche un seminario internazionale di studi su questi temi.

Ha coordinato e diretto dal 1983, la ricerca nazionale, da lui promossa, finanziata dal Ministero della Pubblica Istruzione, La biblioteca e le letture di Nietzsche.

Fra le sue attività di coordinatore di studi internazionali si deve segnalare in particolare l’aver partecipato all’ideazione e l’essere stato con-direttore fin dall’anno della fondazione (1972)

dell’annuario internazionale Nietzsche-Studien e della serie Monographien und Texte zur Nietzsche- Forschung (de Gruyter). (16 volumi pubblicati fino al 1986).

Già dalla fine del 1969 si pose presso de Gruyter il progetto di una rivista che avesse come principale caratteristica quella di promuovere e diffondere, a livello internazionale, le ricerche su Nietzsche.

Karl Löwith, interpellato, si mostrò poco persuaso della possibilità di riuscita di una tale iniziativa perché la più giovane generazione gli appariva ormai molto lontana da Nietzsche, egli vedeva principalmente l’utilità di un tale strumento nella sua possibilità di allargare la conoscenza e l’uso della nuova grande edizione di Nietzsche. (“Sarebbe naturalmente diverso, se il Nietzsche-Jahrbuch fosse utilizzato, in termini più informativi, per far conoscere e diffondere la nuova grande edizione nietzscheana” — lettera a Wenzel del 30 dicembre 1969). Nella primavera del 1970, si concretizza il progetto, in discussioni e incontri cui partecipano Wolfgang Müller-Lauter, Karl Pestalozzi e Heinz Wenzel. Fin dall’inizio il punto determinante della progettata rivista appare il momento internazionale e di collegamento tra i ricercatori di Nietzsche. Così Montinari definisce la “Aufgabe des Nietzsche-Jahrbuchs” in un abbozzo di lettera a Wenzel:

L’annuario dovrebbe più precisamente chiamarsi “Internationales Nietzsche-Jahrbuch”: un aspetto della sua funzione, in quanto organo internazionale per la ricerca nietzscheana, già verrebbe in questo modo messo in rilievo. Dovrebbe esser aperto a tutti gli studiosi che seriamente si occupano di Nietzsche, senza riguardo ai loro presupposti ideali o di altro tipo (dunque in nessun caso un organo per adoratori di Nietzsche o per una qualche ‘Nietzsche-Gesellschaft’). Considero come suo compito principale la promozione del confronto filosofico, che tuttavia dipende dalla ricerca storica, con Nietzsche. Dovrebbe inoltre offrire una compiuta informazione, nei limiti del possibile, dei diversi settori dell’indagine nietzscheana (2 marzo 1970).

È enunciata qui come premessa programmatica della rivista, con la libertà da posizioni e fedi preconcette, una ferma convinzione di Montinari: “se una interpretazione di Nietzsche non è data solo da

lavori storico-filologici, essa tuttavia non può avere valido fondamento senza di essi”.

Gli stessi temi dell’abbozzo sono ripresi nella lettera a Wenzel del 9 marzo 1970 con la proposta del titolo: “als Name schwebt mir vor “Internationales Nietzsche-Jahrbuch” oder vielleicht auch “Nietzsche-Studien/Internationales Jahrbuch der Nietzsche-Forschung”. “come nome mi viene a mente ‘Internationales Nietzsche-Jahrbuch’ o forse anche ‘Nietzsche-Studien/Internationales Jahrbuch der Nietzsche Forschung’”).

Per il suo impegno a favore di Nietzsche (“Ohne Sie — keine Nietzsche-Ausgabe”) e per le sue relazioni internazionali (“Ihre Beziehungen mit deutschen und ausländischen Gelehrten”) Montinari propone a Wenzel di divenire l’Herausgeber affiancato da un ampio comitato scientifico internazionale (Wissenschaftlicher Beirat).

Accanto al proprio, Montinari propone — in modo scherzoso — il nome dell’amico Müller-Lauter: “come ‘contrappeso’ filosofico alla mia tendenza a storicizzare”.

Wenzel ritenne più valida la formula di una direzione collegiale di cui fecero parte, fin dal primo numero, Montinari e Müller-Lauter (solo dal 1978 si aggiunse E. Behler).

Per il suo carattere di libera ricerca internazionale, mantenuto e sviluppato nel corso degli anni, le Nietzsche-Studien, dovrebbero divenire, dopo la morte di Montinari, anche uno strumento e un momento essenziale di coordinamento di lavori e risultati, anche parziali, utili per il proseguimento dell’edizione.

Abbiamo voluto dare un quadro generale preliminare del lavoro di Mazzino Montinari, solo una sorta di rapido curriculum: una ricostruzione con pretese di puntualità e completezza farebbe indubbiamente torto ad alcuni aspetti della sua molteplice attività, rischierebbe comunque di trascurare rapporti culturali ed umani importanti.

Più che pretendere quindi di offrire una definizione organica e cronologica di una intensa e fruttuosa attività in anni troppo vicini e ancora troppo dolorosamente intrecciati con impressioni e ricordi personali, con volontà e progetti di lavoro comuni, che dovevano

essere favoriti dal suo ritorno stabile come docente a Pisa, mi sembra opportuno mettere il più possibile a disposizione degli studiosi e degli amici di Mazzino, materiali, spesso già letterariamente formati, capaci di illuminare scelte e posizioni che spesso il filologo tenne solo come presupposto personale del lavoro quotidiano e pubblico di editore ed anche, attraverso le lettere con Colli, mettere in luce, nella pratica quotidiana, il suo “mestiere” di filologo.

4.“Civis Veimarianensis”

Gli anni di formazione hanno già evidenziato alcune costanti del suo atteggiamento umano e culturale, strettamente legati, ed anche la complessità e difficoltà di scelte nate da una volontà di coerenza etica che non conosce compromessi con se stessa: il significato di una “sfida” che il confronto con Nietzsche significa.

Ho potuto seguire il lavoro di Montinari nel periodo di fondazione dell’edizione, attraverso il carteggio rimastoci — in gran parte anche se non completo — tra i due editori e su alcuni quaderni di appunti e di riflessioni in funzione del suo lavoro più generale su Nietzsche.

Già i brani da me pubblicati, danno un’idea del lavoro puntuale e coscienzioso di Montinari ed indicano con chiarezza la strada che dovrà percorrere.

Vorrei qui, attraverso il riferimento ad alcune lettere, mettere in luce alcuni momenti concreti di questo percorso della fondazione “weimariana” dell’edizione critica delle Opere e delle lettere.

Le lettere a Colli confermano, con il saldo legame di affetto e di amicizia, ma anche con le crisi umane e le debolezze che le attraversano, con gli imprevisti, gli incontri, le novità, le ripetizioni, gli avvenimenti lieti e dolorosi che sono la vita, quanto il lavoro

scientifico non viva al di fuori del mondo, ma sia intessuto ed abbia a che fare anche con i condizionamenti quotidiani, piccoli e grandi, quanto sia lontano ed ostile alla pretesa muta e difensiva della stupida fatticità filologica. È un lavoro intenso e talvolta poco gratificante, si tratta di vivere “dalla mattina alla sera di Nietzsche e in Nietzsche e con Nietzsche, senza pausa, senza un momento per pensare “non filologicamente”” — così si esprime in un momento di crisi — con la sensazione, spesso, di “affogare”, rispetto agli impegni pressanti, inevitabilmente in scacco rispetto al dominio del tempo, alle urgenze degli editori, alla mole e complessità del materiale. È un viaggio di scoperta, ma anche un viaggio di apprendistato: gli strumenti, mai neutri, si modificano, si adattano alle circostanze, alle difficoltà del momento, sorretti e provocati dalla lucidità dell’intelligenza, da un bagaglio culturale che si accresce, da una probità e serietà umana di fondo. Per Montinari è anche la scoperta progressiva, il consolidamento della propria personalità anche attraverso il rapporto di amicizia sempre più maturo con Colli:

Forse c’è una maturazione del nostro rapporto, per cui mi sento più sicuro e penso — anche io — a te come a un punto fermo. Questo sebbene, proprio in questi tempi, abbia avuto modo di sentire ancora che abbiamo “idee” differenti. Ma le mie idee sono probabilmente esse stesse diventate differenti da quelle che finora ho creduto di avere, anche se non sono come le tue; ciò che manca è che esse sappiano per loro merito conquistarsi la comprensione e il rispetto da parte tua, che io — per tuo merito — ho verso le tue idee (12 gennaio 1969).

Le lettere mostrano anche il bel rapporto di amicizia e considerazione che presto legano il giovane studioso italiano con l’ambiente di Weimar e dell’Archivio Goethe-Schiller: Helmut Holtzhauer, il direttore delle “Nationale Forschungs- und Gedenkstätten der klassischen deutschen Literatur”, Karl Heinz Hahn, direttore dell’Archivio, la “bravissima archivista” Anneliese Clauss, Hans Henning, direttore della Zentralbibliothek der deutschen Klassik. “Mazzino Montinari [...] divenne civis Veimarianensis” — scrive Hahn in un ricordo di quegli anni di felici rapporti quotidiani. Grande la cordialità che Montinari riserva agli studiosi di Nietzsche, che cominciano a frequentare l’Archivio e

con cui, generalmente, si lega in rapporti di amicizia e stima. Montinari racconta a Colli ad esempio i progetti e l’evoluzione degli importanti lavori di Curt Paul Janz, gli incontri con l’americano Frederick R. Love (“un tipo non alto, smilzo, con barbetta e baffi, di pelo nero come un italiano, ha un viso intelligente e un fare modesto e aperto... ha già fatto moltissime ricerche su Gast e ha scritto una breve opera su Nietzsche e la musica” — 25 luglio 1966 —), l’incontro, in vista della traduzione dell’edizione, con un professore giapponese “pieno di riserve sulla Civilisation e molto appassionato di Nietzsche” e che sarebbe piaciuto a Colli.

Dalle lettere risulta anche un aspetto non secondario del lavoro di Montinari, fin dagli anni giovanili; quello del traduttore, che è sfociato in una grande quantità di opere, di classici, resi da lui in italiano in un’opera di mediazione e diffusione culturale di alto livello. Vi è una consapevolezza crescente dell’importanza e della difficoltà di questo “mestiere”: che lo spinge anche a posizioni radicalmente e talvolta ingiustamente autocritiche:

Sto rifacendo completamente la traduzione dei postumi di IV 3, poiché non esito a definire miserabile quella che ho già fatto per Einaudi... (1 agosto 1966).

Tradurre vorrebbe dire, secondo le mie ultime convinzioni e le mie acquisizioni proprio di lingua tedesca, rispettare i diritti di ambedue le lingue, quella da cui si traduce e quella in cui si traduce (30 giugno 1966).

Io naturalmente non ho nessuna aspirazione a tradurre Ecce. Già la traduzione dello Zarathustra mi sembra, almeno in questo momento, proprio il contrario di un lavoro produttivo. Infatti si tratta di riuscire a dire in italiano ciò che Nietzsche dice in tedesco, questo vuol dire immedesimazione e non certo ciò che tu chiami “mettersi su un piano superiore all’analisi”. Per me poi l’immedesimazione, via via che mi tedeschizzo e mi “nietzschizzo”, è qualcosa di molto serio, fino alla sofferenza: per gli altri invece non lo è, e questo spiega come mai la revisione di una traduzione altrui diventa per me sempre più un supplizio che non è dovuto, me ne sono convinto, se non in minima parte alla mia ripugnanza verso il lavoro, bensì alla rabbia costante e paralizzante che mi prende nel vedere trascurate le esigenze elementari del tradurre, che sono due: 1) capire veramente quel che Nietzsche vuol dire, 2) ridirlo in italiano, ma davvero! Il mio punto di vista è così radicale, da farmi dire che a tutt’oggi non ho né letto né fatto io stesso una traduzione che risponda a quei due requisiti.

Forse si tratta dell’idea “platonica” della traduzione, solo che vorrei averla sempre avuta in testa come ce l’ho ora, e vorrei che anche i nostri traduttori ce l’avessero. D’altra parte, proprio per tutte queste ragioni, preferisco — visto che tu non la vuoi fare — fare io la traduzione dello Zarathustra, piuttosto che rivederlo, anche se non è un lavoro produttivo, nel senso della produttività di cui io ho bisogno (che è proprio quella del “mettersi su un piano superiore”). (13 febbraio 1967).

La traduzione di Zarathustra, condotta con grande passione, — “mi sono sprofondato con “sublime” incoscienza in quel lavoro, per farlo in modo degno” — (25 novembre 1968) sarà da lui terminata il 10 settembre del 1968. Nonostante il suo spirito autocritico, Montinari la approverà come “un lavoro di buona qualità” “una versione leggibile, fedele allo spirito anche se non letterale” e, “pur nel risparmio di varianti” rispetto a quell’“eterno apparato” cui stava da sempre lavorando, il volume gli apparirà “un punto culminante” nell’edizione (28 ottobre 1968).

5.Giornate all’Archivio

Già il primo contatto con l’ambiente di Weimar, come abbiamo visto, mostra la consapevolezza di un lavoro da fare in modo definitivo: il progetto iniziale di traduzione — dopo la prima esplorazione — si trasforma nel progetto di una edizione completa dei testi di Nietzsche.

La risposta di Colli all’entusiastica lettera programma di Montinari mostra come i lavori più urgenti in vista della traduzione italiana (Gaia scienza e Umano con il materiale postumo relativo) si accompagnino già all’esigenza di “abbozzare il lavoro, in modo di poter fare la traduzione, sulla V. d. P”, alla necessità di stabilire il testo critico in modo definitivo.

I tuoi ultimi risultati, per quanto posso capire dalla lettera, mi interessano molto, e mi complimento della tua abilità di filologo e grafologo — Si apre un quadro, per l’edizione, in cui le cose veramente nuove, non solo nella disposizione, saranno assai di più di quanto pensassimo in principio (25 agosto 61).

Ai primi volumi dell’edizione, fino all’aprile del 1964, lavorano, a Weimar e a Firenze, anche Sossio Giametta e Maria Ludovica Pampaloni che facevano parte di quella piccola comunità di discepoli di Colli cementata dall’amicizia e dall’affetto.

Si dimostrano molto attenti e accurati, sicché credo che tu abbia fatto una buona scelta, non solo per le qualità umane eccezionali di tutti e due ma anche per le loro capacità (26 agosto 1962).

Il lavoro va bene. Marilù ha finito proprio oggi la decifrazione del quaderno M III 5. Da lunedì lavorerà a una mappa dello stesso periodo. Sossio sta affaticandosi su una mappa di Aurora, piuttosto difficile, ma anche lui finirà il lavoro prima di partire (la mappa è MP XV 1). Io sono contento perché ho ripreso molta lena nel lavoro, e sono sempre più bravo (!) nel decifrare. NV3 è a buon punto e anche gli altri due taccuini torneranno con me trascritti “restlos”. Ma devo ricopiare interamente quasi ogni pagina [quest’ultima frase è aggiunta a piè di pagina]. Il materiale — tra inediti e seminediti — è sempre più vasto. Credo che verrà fuori un bel volume, anche se ci aspettano mesi di fatiche molto dure — ma sono di buon animo (6 ottobre 1962).

Per parte mia — e anche dei ragazzi per quanto li riguarda — io ti confermo di vedere nell’edizione il compito più importante, in un certo senso l’unico, della mia vita nei prossimi tre anni. Ad essa dedico e dedicherò tutte le mie migliori energie (15 maggio 1963).

Così Montinari commenta il lavoro comune all’Archivio di Weimar, confermando la sua determinazione in questa impresa filologica.

Il lavoro di decifrazione dei manoscritti mette talvolta a dura prova Montinari: le lettere mostrano come tale lavoro non sia frutto di esercizio e abilità tecnica acquisita ma nasca, oltre che dalla tenace volontà di sciogliere enigmi e di arrivare a soluzioni soddisfacenti, dalla piena padronanza dei testi di Nietzsche, dei suoi temi filosofici,

del suo percorso, del suo epistolario, dell’epistolario delle persone che con lui ebbero rapporti, della storia puntuale delle vicende delle precedenti edizioni. I primi quaderni di appunti del 1961 mostrano il costante lavoro in questa direzione e già la grande sicurezza e conoscenza di carteggi inediti (ad es. delle importanti lettere di Rohde a Overbeck) e delle “Gestalten” um Nietzsche. Molto spesso un particolare biografico minimo può definire la collocazione di un frammento in una mappa, o aiutarne la decifrazione. Di qui anche la stima e la valorizzazione — al di là della direzione “distruttiva” della sua ricerca — dello storico Podach, di colui che ha lavorato a lungo su documenti di prima mano.

Di particolare difficoltà si rivelano i manoscritti dell’ultimo periodo:

31 maggio 1965Caro Giorgio,mentre aspetto una tua lettera per scriverti più a lungo di me e del lavoro,

ti mando la descrizione di UI4 con tutte le indicazioni. UI4 è pieno di Vs (come risulta del resto dal Mette).

Io sono da mercoledì scorso alle prese con i ditirambi. Oggi ho finito la collazione del Dm. Ma il fatto più importante è che ho travato due frammenti da datare dopo il primo gennaio 1889. Credo che saranno gli ultimi della nostra edizione. Uno dei due l’ho decifrato senza residui, l’altro ha ancora qualche buco. Finora nessuno lo conosceva; ho fatto miracoli di decifrazione; la Clauss è stupefatta. — Mi mancano molto tue notizie, ma immagino che avrai grane e altri impedimenti. Mi opprime non sapere nulla dei miei. Sigrid sta bene e saluta Anna e te con affetto. Domani spero di avere tua posta; ti riscriverò subito. Un abbraccio da

Mazzino

Le giornate d’archivio devono interamente essere dedicate alla decifrazione senza residui di tutto il difficile materiale dell’VIII volume. Ti ho già parlato di due frammenti del 2-3 gennaio 1889 che sono una vera novità, ma per decifrarli mi ci sono volute due giornate! E, forse, avrei dovuto rinunciare a decifrarli? La domanda è retorica, ma, credo, ti dica bene la situazione. Attualmente sto liquidando le pagine in prosa di WII10, che sono assai

difficili. (3 giugno 1965).

Anche la lettera del 9 giugno 1965:

Va lentamente la mia decifrazione del materiale dell’88. Per guadagnare tempo sto facendo una ricognizione complessiva, dalla quale dovrebbe risultare quali sono i frammenti da pubblicare da Mp XVI-XVIII, WII 6-10, N  VII   4, Z II 1, vari Dm. Nei giorni scorsi ho stabilito i frammenti di Z II 1, ieri e oggi ho lavorato a N   VII   4. Il materiale inedito non è moltissimo, ma è di decifrazione estremamente difficile, d’altra parte proprio qui sta la forza dell’edizione. Quanto alle Vs di Ecce homo ecc., bisognerà pure una volta o l’altra che le decifri senza buchi! E non è il caso di rimandare questa decifrazione, perché ciò vorrebbe dire dover ricominciare da capo tutto un faticoso e già avanzato processo di penetrazione in questo che è un periodo già così complicato. Devo dire, d’altra parte, che registro dei veri successi di decifrazione, ma ho paura di metterci troppo in rapporto al resto del lavoro. N  VII   4 ha, oltre a qualche Vs di Ecce, tre frammenti sugli antisemiti assai violenti (inediti), il resto non so ancora che cosa sia. Della stessa forza di difficoltà e anche peggio sono i fogli e foglietti delle mappe che risalgono alla fine dell’88. Forse quando avrò finito questa prima presa di contatto e avrò le idee più chiare, non mi preoccuperò più. Ma il tempo passa [...].

In archivio continuo le mie faticose decifrazioni da N  VII   4, che però è quasi finito (13 giugno 1965).

Il quaderno N VII 4 nella descrizione di Mette era stato definito “per lo più illeggibile”.

Riteniamo inoltre opportuno riprodurre, nella terza parte di questo volume, integralmente, due lettere di Montinari del 1967, per offrire esempi concreti dei problemi e delle difficoltà della decifrazione: lo sforzo e la costanza, la ricerca paziente nel tempo, la necessità dell’intuizione legata a vastità e curiosità di interessi culturali, (la prima lettera — del 24 marzo 1967 — mostra come anche una carta topografica e una guida possono servire) una passione che non trova quiete se non nella risoluzione dell’enigma. Inoltre la prima lettera è significativa dei rapporti amichevoli con l’ambiente di Berlino, di quella mescolanza, fuori dell’accademia, di vita e cultura. Nella seconda, del 10 settembre 1967, è avvertibile un franco tono polemico e la volontà risentita di far capire all’amico

tutto il peso di certi momenti, in cui tutto sembrava essere eterna ripetizione, con la sensazione di “sentirsi affogare”. La lettera si inserisce nell’aperto e duro clima di una discussione di fondo e di contrasti (“burrasche necessarie” — vengono definiti da Montinari) legati anche ai limiti di comunicazione del rapporto epistolare che si sviluppano in quel periodo tra i due amici editori sui “limiti della scientificità” e sui criteri dell’edizione.

6.La biblioteca e le letture di Nietzsche

Un altro aspetto rilevante del lavoro che emerge dalle lettere con Colli è la primaria importanza di corredare l’apparato critico delle citazioni esplicite e, più spesso, implicite con l’individuazione delle fonti, necessarie, nel caso di frammenti postumi, per definire il testo di Nietzsche. In una lettera, che successivamente citerò, Montinari fa il significativo esempio della scoperta di due “aforismi” della Volontà di potenza attribuiti a Nietzsche che in realtà altro non erano che la traduzione di due passi da Tolstoi e Renan.

Uno dei primi risultati significativi di questo lavoro, per quanto riguarda gli scritti da Nietzsche pubblicati, è la “virgolettatura” di Wagner a Bayreuth operata da Montinari nel Nachbericht al IV volume:

Non ho scritto perché volevo darti la notizia della conclusione di questa eterna revisione del IV volume, che ho concluso solo ieri. Il mio ritardo è molto forte. È stato determinato da un intermezzo.... wagneriano. Ho preso in biblioteca le opere di Wagner (9 volumi) e ho trovato un gran numero di citazioni, talune nascoste da Nietzsche e riconoscibili come tali solo se si legge Wagner. “Wagner a Bayreuth” ne è pieno.(Weimar 25 giugno 1966)

Questo lavoro arricchisce notevolmente l’apparato. Qualunque

giudizio possa o voglia cavarne l’interprete, è certo che egli comunque dovrà tener conto del fatto che quest’opera, definita “ungeheuer” da Wagner e in cui il musicista si riconosceva pienamente, è anche un abile mosaico di citazioni nascoste dai suoi scritti, in particolare da quelli giovanili.

Colli, nella sua originale riflessione filosofica su Nietzsche, ha visto come negative le compromissioni del filosofo tedesco con l’attualità, dovute alla sua attività di “letterato che cerca del materiale e stimoli nuovi”: ciò che viene fatto emergere da questo lavoro sulle “citazioni”, il rapporto con la contemporaneità, appare a Colli uno spreco di genialità.

Più nettamente si avverte una disarmonia, quasi con disagio, di fronte ai suoi metodi psicologici e alle variazioni positivistiche sui temi di varie scienze. Spesso l’attenzione con cui considera molti personaggi letterari e politici dell’Ottocento sembra futile. Tutto questo gli va rinfacciato, poiché il suo piglio; la sua pretesa, il suo impegno — anche nell’“attualità” — è del filosofo, non dello storico.

A Colli interessa, fin dall’inizio, principalmente la restituzione di un testo di Nietzsche sicuro, capace di agire con forza, immediatamente su chi lo legga: perciò non si sente di valorizzare a fondo questo lavoro per gli apparati.

Da queste premesse sorgono alcuni motivi di incomprensione sugli esiti intorno a Wagner a Bayreuth. Rimane un abbozzo o parte di lettera a Colli in cui così Montinari difende i suoi risultati:

Il problema reale non è che N voglia nascondere il virgolettamento in WB (e io non ho mai fatto questa affermazione) bensì come mai egli nel 1888 riconosce se stesso in una pagina che nel 1875 era dedicata a Wagner. E questo non solo per ciò che N era diventato nel 1888, ma anche per ciò che egli era nel 1875. Cioè la portata del suo amore per Wagner, della sua immedesimazione in una parte del mondo wagneriano.

L’apparato non è una “riduzione” di Nietzsche, come teme Colli. Il “virgolettamento” di Wagner a Bayreuth, prosegue Montinari,

non mi pare tolga nulla alla grandezza di Nietzsche, se in base a questo esempio si viene indotti a considerare con maggiore profondità la questione del significato che l’esperienza wagneriana ha avuto per Nietzsche. Questo è lo “spirito” del mio apparato. Ma, a parte lo spirito, vedo che anche per te il mio apparato è importante: che cosa sapevi tu del virgolettamento di WB prima delle mie ricerche? Quando ragioni in termini di timore di macchiare e di denigrare Nietzsche ti metti sullo stesso piano dei denigratori e dei correttori di Nietzsche. Per me almeno.

A partire da questo lavoro, Montinari sviluppa studi storici e interpretativi che porteranno ad una nuova definizione di quel rapporto Wagner-Nietzsche, che era stato spesso affrontato ed esaltato dai critici in una prospettiva mitizzante o in una risoluzione interamente psicologistica e troppo umana. Il confronto con Wagner, la rottura dolorosa sul piano personale, appare per Nietzsche significativa del recupero di una propria autonoma prospettiva. La “delusione di Bayreuth” significa la fine del proprio volontario gesuitismo: “prima ancora che da Wagner, Nietzsche fu deluso da se stesso”. Il confronto assume la valenza di una contrapposizione che significa “un fatto capitale nella storia della cultura tedesca, di cui anzi non si è ancora valutata pienamente la portata”. La costretta fedeltà di Nietzsche alle opere teoriche e “rivoluzionarie” del musicista fanno di questo scritto “di congedo”, pieno di “insidiosa ambiguità”, un’estrema e poco persuasa “provocazione”. L’accentuato “idealismo” nei riguardi di Wagner ha la funzione di metterlo alla prova, per imporgli un confronto tra “l’eccesso di bruttezza, di caricatura, di droga” che circondava la Bayreuth attuale con i nobili progetti delle opere della giovinezza.

In un appunto esteso datato 29 maggio 1967 già Montinari delinea alcuni temi della sua interpretazione. In questo appunto, la reazione e discussione con Nietzsche appare più libera e motivata rispetto alla critica della società presente (il vero livellamento è opera della società di massa, dei consumi).

Si potrebbe affermare che N è diventato prima spirito libero poi sempre più decisamente antisociale a causa di un falso (o di uno sfortunato?) punto di

partenza: la socialità che egli cercò sinceramente di accettare era quella di Wagner [del resto sempre contestata dalla “inumanità” dell’antichità — l’antichità rappresenta uno dei punti di rottura verso Wagner proprio nel 1875], ora questa socialità era debole e ipocrita piena di mille malattie [nazionalismo, antisemitismo, naturalismo, decadentismo(?)] che N cercò di superare parlando per esempio di “elementi apparentemente reazionari” in Wagner. Questo tentativo però [intanto già compromesso dall’avvicinamento, dalla conoscenza di Dühring, socialista estremamente volgare, per N però rimasto sempre il simbolo del socialismo] portò N in una situazione che sentiva insopportabile e culminò nella crisi di Bayreuth, dove N si rese conto della falsità sua [v. frammento dell’epoca di Za] [anche se altre volte e specialmente subito dopo parla di ideali infranti — in realtà la diagnosi più esatta è quella dell’epoca di Za. — mentre quella delle prefazioni di MA è già trasfigurazione, mitizzazione] e, fin troppo facilmente, della inconsistenza sociale degli ideali wagneriani, mentre proprio la utopia sociale [citare i frammenti di V II 9!] egli aveva tentato in tutti i modi di accettare.

N fu dunque onesto con se stesso quando ruppe con la non verità wagneriana. Agli effetti della sua posizione verso il socialismo, bisogna tener presente che anche nel periodo wagneriano — durante il quale, almeno nei momenti di a<desio>ne a Wagner o “utopistici”, egli fu vicino come mai dopo a una con<cezio>ne socialista — l’intera impostazione della questione sociale non superò mai la prospettiva della “compassione” dell’“amore” per gli oppressi, del culto del “popolo” e questo — proprio per un pensatore come N non poteva non dissolversi sotto la critica [che si estende a Schopenhauer e alla religiosità in generale] di N, il quale vuole attingere la verità, l’+ [parola illeggibile — G.C.] [di qui la grande impressione che su di lui fecero le Ps. Beob. di Rée].

Che gli “oppressi” potessero porsi il problema della loro oppressione con altrettanto realismo, non passa a N neppure lontanamente per la testa. Egli riduce tutta la complessità “filosofica” del socialismo a un chiacchiericcio su “uguaglianza” “livellamento” e via dicendo. Ora a N sfugge che l’uguaglianza da lui temuta è invece il prodotto di un capitalismo livellatore. [La nostra realtà attuale è eloquente in quel senso! se si può parlare di Nievellierung — termine non nietzscheano ma dei nietzscheani — se ne può parlare con molto più diritto per la società dei consumi che non per quella socialista!].

Montinari è consapevole fin dall’inizio del suo lavoro a Weimar, dell’importanza della ricerca sulle letture di Nietzsche: i suoi primi quaderni di appunti testimoniano l’interesse per i volumi

della biblioteca di Nietzsche ed per le glosse, di cui inizia la trascrizione. Tra i primi libri presi in considerazione: Aristokratie des Geistes [1885] di anonimo (Erdmann Gottreich Christaller), in cui Nietzsche poteva aver trovato il nome di Marx (citato a pag. 146) (le tracce ed i segni di lettura però — nota con prudenza Montinari — terminano prima di quella pagina) Gedanken und Thatsachen di Otto Liebmann (di cui trascrive le glosse), Guyau, L’irreligion de l’avenir (“molte glosse, purtroppo danneggiate dal rilegatore”). Si interessa alle glosse pubblicate da Alfred Fouillée nella traduzione tedesca di Guyau, Sittlichkeit ohne “Pflicht”, legge Wellhausen, (“con molte glosse di N. rovinate dal rilegatore) Chamfort, Dühring, Emerson etc...

Il metodo per la ricerca delle fonti delle citazioni è molto empirico ma anche l’unico praticabile:

devo prendere i libri di N. e sfogliarli, e stare attento a trovare le citazioni che ormai mi ronzano tutte insieme dal IV all’VIII volume (tranne il VI) nel cervello. Veramente anche per il VI ho trovato qualcosa, soprattutto per la GD [Crepuscolo degli idoli ], nel giornale dei Goncourt: fonte principe di N. sulla Francia decadente (21 dicembre 1964).

Una lettera del 23 maggio 1967 mostra la scoperta apparentemente casuale di una fonte — durante una conferenza di Hahn, nel quadro dell’assemblea generale della “Goethe-Gesellschaft”, di cui Montinari era attivo membro — una scoperta in realtà legata alla continua attenzione e presenza alla mente dei problemi da risolvere.

Infine per il frammento 11[9] ho scovato una citazione di Goethe, che avevo cercato inutilmente già per MA I (af 221). Questa citazione l’ho trovata casualmente: ascoltando una conferenza di Hahn!! Credo che si possa inserire nella nota che dovrei aver già fatto per il cfr. con MA 221, là dove si parla di Goethe e dei “barbarischen Avantagen” che egli avrebbe utilizzato nel comporre il Faust. La nota a 11[9] suona: “vantaggi barbarici”, cfr. Goethe, Anmerkungen über Personen und Gegenstände, deren in dem Dialog Rameau’s Neffe erwähnt wird (1805) sotto la voce “Gusto”.

Ed ancora altri esempi di questo lavoro:

Ieri e sabato non ti ho scritto: in compenso ho lavorato (molto) sulle citazioni, con risultati magri, perché — come tu sai — si tratta di un lavoro che, quanto più progredisce tanto più difficile diventa. Ieri domenica, ho dedicato sette ore, e ho trovato una citazione — assai ben nascosta — è di Doudan per postumi MA e... 2 sempre di Doudan per Aurora; si tratta di citazioni che “non valgono”, ma che purtroppo sarebbe meglio avere avuto nella nostra edizione italiana: 6[89] e 6[93], quest’ultimo è il famoso “non consilia a casu differo”, che suona: Les volontés sont si faibles, qu’on dirait que c’est le hasard qui les pousse. Non consilia a casu differo. [...] Per il VI -VIII ho messo insieme 15 note + tutti i riferimenti ad una quarantina di passi da Goncourt Journal, che N. cita in W II 3 [novembre 1887- marzo 1888]. Le citazioni di Burckhardt sui greci sono impossibili da trovare, almeno giudico per ora. Emerson è una miniera per tutti i nostri volumi. Ho già lavorato sullo Emerson-Exemplar: tutto decifrato tranne un passo, su cui ritornerò” (14 dicembre 1964).

Ho messo insieme altre note di W II 3; ma rimangono le vecchie note da cercare; prima di restituire i volumi presi farò un bilancio definitivo. I prestiti di N. dai libri che leggeva superano le previsioni, almeno le mie; per es. tutta la pagina sulla sorte di Goethe in Germania in WA è un insieme di concetti e di dati presi dal libro di Viktor Hehn e ricuciti — genialmente — insieme. In generale direi che il lavoro sulle citazioni che è meno importante per le opere edite da N. in quanto in esse non si trova, se non di rado, la citazione allo stato puro, è fondamentale per i postumi. Ma è un lavoro che prima di noi nessuno ha fatto. Per esempio ti ho detto che ho trovato due “aforismi” della WzM attribuiti a N. che non sono altro che la traduzione di due passi da Tolstoi e Renan? Bisogna stare attenti (19 gennaio 1965).

Questa ricerca si era progressivamente allargata a comprendere tutto ciò che, dalle citazioni implicite ed esplicite presenti nelle opere, dalle lettere, dalle lettere dei corrispondenti, dalle testimonianze di contemporanei, risultava essere stato letto da Nietzsche, fino alla ricostruzione della sua “biblioteca ideale”. In tal modo, con un lavoro paziente, l’immagine di Nietzsche è venuta a poco a poco a definirsi meglio nel suo tempo storico, nella reazione originale all’ambiente culturale (in particolare la Francia contemporanea) e a modificarsi contro le semplificazioni

ideologiche e le mitizzazioni storiche. Storia è complessità e movimento: perciò questo aspetto della

ricerca di Montinari è comunque consapevolmente lontano ed ostile alla “positivistica” ricerca delle fonti: non si fa opera di riduzione né nella direzione di una “filologia” positivistica, né in quella dello storicismo. In un appunto del 1 aprile 1967 così si legge a questo proposito:

Nessuna riduzione di N serve a comprendere la sua personalità, il suo pensiero. — È facile trovare la fonte di molti pensieri di N (Teichmüller per es.), ma l’elemento plasmatore ordinatore sfruttatore di questi impulsi rimane N, che aveva certamente un delicato orecchio, pronto ad avvertire molte cose che agli altri contemporanei sfuggivano (Bourget, Guyau, ecc. ecc.)

D’altra parte anche per N la riduzione alla “classe” non è valida se vuole essere esclusiva. Si può dire che N si prestava a essere sfruttato nella lotta antisocialista; ma esiste una autonomia condizionata [un marxista adopererebbe la categoria della “relazione reciproca”] del pensiero che fa sì che la storia cammini, cioè il determinismo non vale nemmeno per N.

E anche:

Un’analisi storicista [e sono io a dirlo che ho tutti gli strumenti per farlo] di N non può rendere giustizia al fenomeno N se è solo riduzione — perciò è un’analisi antistorica (4 maggio 1967).

Questo lavoro è accompagnato dalla consapevolezza di segnare, rispetto a Nietzsche, una radicale novità. In un appunto di riflessione su “le letture di Nietzsche”, così si legge:

Un capitolo da riscrivere — o meglio se si prescinde dal tentativo di Andler — da scrivere per la prima volta è quello riguardante le letture di N.

La bibliografia “cultica” — a cominciare da Gast — non voleva fare uso di queste fonti preziose per non “sminuire N”.

Quella “filosofica” (Löwith — Jaspers? — Heidegger) l’ha ritenuto meno importante di certe corrispondenze “ideali” scoperte tra i pensieri di N e quelli di Hölderlin — Hegel — ecc. ecc.

I “nemici” di N — in prima linea i wagneriani — hanno fatto i tentativi più accaniti per distruggere la originalità di N, trovando ora qua, ora là gli

autori che lui avrebbe copiato (per es. Bourget).Ch. Andler unico tentativo — per quanto piatto.Il culto non aveva bisogno della “critica”, la filosofia evitava il problema,

i nemici avevano troppo bisogno della critica.(26 gennaio 1967)

La riflessione sulle letture di Nietzsche nel loro rapporto con il testo ha portato anche ad una definizione nuova e più ampia del problema o almeno al tentativo di una diversa consapevolezza del suo significato. Su queste riflessioni dell’ultimo periodo dovremo tornare.

Il risultato scientifico più importante del mio lavoro attuale all’apparato critico dell’edizione è una lista di circa 200 libri dei quali Nietzsche direttamente o indirettamente si è occupato tra l’estate del 1882 e l’autunno 1885.

Così Montinari faceva il positivo bilancio della sua lunga ricerca sulla sez. VII (gli apparati sono usciti in due volumi nel 1984 e nel 1986). In generale, l’edizione italiana Adelphi, l’intera Kritische Studienausgabe (dtv — München 1980) con i loro già buoni apparati, hanno dato grossi risultati in questa direzione. La ricerca nazionale, finanziata dal Ministero della Pubblica Istruzione, su “La biblioteca e le letture di Nietzsche” (che interessa ancora le Università di Pisa, Firenze ed Urbino) aveva, nelle intenzioni di Montinari, come primo obiettivo la pubblicazione di un catalogo esaustivo delle letture del filosofo e doveva proseguire con lo studio e la pubblicazione delle glosse marginali dei libri della sua biblioteca postuma conservata nell’Archivio Goethe-Schiller di Weimar. È certo che solo la ricostruzione storica ed un lavoro di ampio respiro culturale permettono la sicurezza della definizione del testo e la risoluzione delle citazioni: è essenziale, dopo la scomparsa di Montinari, tener presente questo aspetto per il completamento degli apparati dell’edizione.

Fin dal primo periodo il problema che Montinari si pone, come abbiamo visto, è quello di una lettura di Nietzsche non riduttiva.

Ma certamente la riflessione dell’ultimo periodo, con la scoperta del Nietzsche “francese” che dal 1884 “parla (in francese) della sua

fuga a Cosmopolis”, con la volontà di leggere il filosofo nella decadence, dà un ulteriore spessore e profondità al “fenomeno Nietzsche”. Acquisire Nietzsche al decadentismo significa che “cambia la nostra visione sia del decadentismo sia di N”.

La décadence è un momento integrale nella filosofia di N che relativizza il suo classicismo e la sua volontà di potenza, se queste ultime posizioni vengono assolutizzate si ha il N dei fanatici e dei nazisti [appunto datato 21 settembre 1984 ].

Lo stesso studio sulla biblioteca ideale, demolendo il “concetto filisteo di “originalità””, significa anche andare molto al di là delle prospettive iniziali dell’edizione: serve ad uscire da Nietzsche come individuo e a restituirlo come parte della storia. Questo è bene chiarito in un appunto — non datato, su un foglietto volante — dell’ultimo periodo.

A che cosa serve la ricerca sulla biblioteca di N? A lanciare un ponte verso la cultura del tempo di N, la sua (di N) originalità non c’entra nulla in questa costruzione, si tratta di ricostruire un’atmosfera omogenea comune a tutti coloro che vivevano operavano e pensavano nell’Europa di quel tempo. La ricerca sulla BN non serve solo ad entrare dentro N, ma serve ancor più ad uscirne, per cogliere nessi generali di storia della filosofia, della politica, della letteratura, della società in generale. Per isolare (tema della N Forschung) il fermento N bisogna conoscere il bagno di coltura dove esso ha agito.

7.De Gruyter, editore scientifico

La ricerca dell’editore tedesco, pur nell’urgenza di uscire dal paradosso di una traduzione italiana e francese condotta su un testo critico ristabilito ma non pubblicato nella lingua originale, è

strettamente legata al rispetto dell’azione Nietzsche come momento e forza critica dell’“attualità”, che era all’origine delle intenzioni dei due amici editori.

Di qui, come risulta dalle lettere, le diffidenze verso l’editore Beck di Monaco presso cui, a partire dal 1933, era iniziata l’edizione storico- critica:

Io ti dirò, a proposito, che sono molto molto sfavorevole a trattative con Beck. Non se ne deve fare nulla secondo me, se non vogliamo che tutto vada a monte. Quella casa editrice è legata al culto nazista di N.: per sempre. È una questione, se non altro, di buon gusto, non essere i “continuatori” della vecchia impresa! (23 ottobre 1962).

Ancora più decisa la diffidenza verso l’editore Kröner: “Bäumler è tuttora attivo e pubblica le sue introduzioni ai volumi di Nietzsche presso Kröner” (10 marzo 1964), “il mio stato d’animo è nettamente ostile a quella casa editrice: se penso che stampano tranquillamente — “perché ha un bel titolo” — la Volontà di potenza, mi prende una gran rabbia” “una sconfessione di Bäumler, quale noi dovremmo pretendere, non ce la concederebbero mai” (Weimar 13 aprile 1964), e ancora: “la nostra edizione sostituisce tutta l’edizione Kröner (cioè Bäumler)” (23 aprile 1964).

La soluzione matura (dopo vari tentativi: Nijhoff, Rowohlt, Luchterhand, Insel) con l’interessamento e la mediazione presso l’editore de Gruyter di Karl Löwith, (“è risultato che Löwith si è pronunciato così a favore nostro da definire “una vergogna nazionale” l’eventualità che l’edizione non si facesse!” — 14 ottobre 1965), che ebbe modo di apprezzare il lavoro svolto dai due studiosi italiani in occasione del Colloquio internazionale di Royaumont. In una lettera del marzo 1967, ricevendo gli Atti di quel convegno, Montinari ricorda l’importanza di quella comune “battaglia”:

Stasera ho voglia di scriverti, perciò interrompo il lavoro allo Zarathustra (che va avanti abbastanza bene). Ho ricevuto da Parigi il volume dei colloqui di Royaumont, l’ho subito sfogliato tutto e mi sono venute in mente tante cose. Il nostro intervento fa un’ottima figura e la nostra impresa viene citata sia nella premessa sia nelle conclusioni dell’ineffabile Gilles. Ho pensato a come,

insieme, abbiamo combattuto bene la nostra battaglia e a come quella nostra sortita fu decisiva per le sorti dell’edizione. Anche i nostri giorni a Parigi furono belli.

E, dopo aver alluso alle discussioni in corso tra loro sull’edizione, continua

La verità è che abbiamo insieme da condurre una lotta difficile, nella quale è inevitabile che nascano scontri e che, per il nostro stesso carattere, viene condotta da ognuno in modo diverso. Ma lo scopo è comune. E io mi considero fortunato principalmente perché ho te come amico (3 marzo 1967).

Il “colloquio di Royaumont” appare subito a Montinari, che cerca di convincere Colli, restio a far pubbliche apparizioni in Convegni per lui comunque di sapore accademico, un’occasione unica, da non perdere, per far conoscere al pubblico internazionale il lavoro all’edizione e la sua rilevanza, anche con la finalità di trovare il necessario editore tedesco. Nelle lettere si leggono questa consapevolezza e il determinato entusiasmo che Montinari cerca di comunicare all’amico.

Può accadere in una situazione di isolamento e di faticosa e deludente ricerca di un’editore tedesco, che siano immaginati più nemici di quanti ve ne siano in realtà (è il caso di Karl Löwith, che sarà invece determinante per la realizzazione del progetto): Montinari pensa al convegno come ad una battaglia da combattere e prepara, a tavolino, i piani di guerra. Voglio riportare per esteso parti di questa significativa lettera in cui si parla anche del preteso “ultimo aforisma” della Volontà di potenza e della sua effettiva datazione, che in realtà precede la stessa decisione di Nietzsche di scrivere un’opera con quel titolo.

Non so, se, come hai scritto a Sossio, l’articolo di Löwith rappresenta la prima fase dell’attacco dell’accademia tedesca contro l’edizione, certo è che Löwith, attraverso le critiche contro Podach, dimostra di non aver nessun piacere che l’edizione si faccia. Per forza! Ho letto qua e là il suo libro — che del resto non è affatto da buttar via —: la premessa tacita di esso è che si possa parlare di un’opera di Nietzsche dal titolo WzM e, in generale, che i testi

pubblicati dall’Archivio Nietzsche siano esatti. Mi ha colpito, tra l’altro, il fatto che Löwith, parlando alla fine dell’articolo con malignità degli errori di Podach (— ce ne sono ben altri, purtroppo, come ho costatato in questi giorni), citasse l’“ultimo aforisma” della Volontà di potenza. Questo “ultimo” aforisma — cui nel suo libro sono dedicate varie pagine e che continuamente è citato come “ultimo” (tra l’altro se ne è occupato anche Klages) — io l’ho collazionato e trascritto proprio in questi giorni, e la sua data è... luglio 1885 (data certissima). Intanto è arrivato l’invito ufficiale per Royaumont; avrai visto dalla lista dei partecipanti che saranno presenti sia Böhm che Löwith. Deleuze ha accluso all’invito il biglietto che ti spedisco. Ci propone di dirigere una “tavola rotonda” sulle questioni dei testi di Nietzsche e — cosa ancor più notevole — Wahl ci chiede, attraverso di lui la nostra opinione personale su un invito a Schlechta. Mi pare che non possiamo dire altro se non che non abbiamo nulla da obiettare a tale partecipazione, perché, sebbene il nostro giudizio sull’edizione della WzM sia negativo, ci siamo espressi positivamente sulla questione delle lettere come è stata posta da Schlechta nella sua edizione, e d’altra parte l’invito a Schlechta è una questione che non ci riguarda. Se poi si trattasse di una sfida mascherata non possiamo fare a meno di accettarla — e forse dovremmo dire che “invitare Schlechta ci sembra una buona idea”! — Dunque il mio parere è: 1) dobbiamo andare a Royaumont, anche se dovremo aspettarci un ambiente sgradevole, 2) dobbiamo accettare la direzione della “tavola rotonda” 3) dobbiamo preparare una relazione, da annunciare subito a Deleuze e da spedire una quindicina di giorni prima, con la preghiera di farne un certo numero di copie a cura della segreteria dei “colloqui” come materiale di studio per la nostra “tavola rotonda”. Contenuto della relazione dovrebbe essere secondo me a) una breve notizia sull’edizione (tipo Bericht) b) il problema della WzM, trattato in base ai testi e a larghi esempi, tenendo conto dei due indici di Nietzsche, cioè non solo la rubrica, ma anche i 58 numeri che si trovano in N VII 3. In questo modo, enunciando solo fatti, facendo esempi, discutendo le varie questioni e “il modo tenuto” dai redattori di GA, nonché da Schlechta, dimostrando che non si può neppure dare il nome di WzM ai testi di W II 1-3 (Böhm) — in questo modo otterremmo di sventare la manovra di Löwith in una discussione aperta. La relazione dovrebbe essere scritta in tedesco, e — se sei d’accordo — potrei prepararne io qui una stesura corretta da arricchire sia mentre sono qui, se trovi esempi di deformazione in W   I   1-2, sia in Italia. Vorrei che tu fossi d’accordo e che tu pensassi che un compito del genere,— dato il mio carattere, — esalta invece di diminuire la mia capacità lavorativa — dunque nessun danno per il lavoro in corso, sì invece un maggiore impegno, una maggiore elaborazione critica che non può che giovare all’“insieme” del

lavoro. La nostra relazione troverà certamente una sede di pubblicazione, e da Parigi sarà proposto su scala internazionale il problema di una seria edizione di Nietzsche. Per tutti gli altri problemi che potrebbero venire agitati in sede di “tavola rotonda”, io ho solo un po’ di incertezza — specie se ci fosse Schlechta — sulle opere giovanili, per il resto abbiamo i nostri volumi già fatti. Ti prometto un tono estremamente oggettivo e filologico, e anche misura verso tutti, compreso Elisabetta e... Löwith [...].

Tra i partecipanti ci sono, di persone a me note: Biser, il prete amico di Podach (“Dio è morto”), l’americano Reichert, amico di Schlechta, Schaeffner, il curatore francese delle lettere a Gast. Massolo lo conosco solo di nome. Vattimo chi è? (10 maggio 1964).

Nella lettera successiva Montinari torna sul tema mettendo in luce la possibile occasione di interessare qualche editore tedesco al lavoro di Weimar.

Prima di tutto vorrei tornare sulla questione della tattica da adottare a Royaumont. In questi giorni ho riflettuto ancora, e, per quanto riguarda la nostra relazione — o meglio la relazione che ti ho proposto di fare —, sono dell’idea che sia molto più opportuno non mandarla in anticipo, ma leggerla semplicemente, presentarla durante le discussioni sulle questioni testuali. Non ci conviene affatto che gli altri sappiano quello che vogliamo dire e che, per così dire, siano immunizzati in anticipo, o comunque prevenuti e “informati”, a proposito di tutto quanto abbiamo da dire. Importante mi sembra, insomma, che siamo noi ad avere in mano le cose, che noi determiniamo l’oggetto delle discussioni sull’edizione. Perciò penso che dovremmo semplicemente annunciare a Deleuze che presenteremo una relazione sulle questioni del Nachlaß 1883-1888. Sono sempre più convinto dell’importanza capitale di questa nostra prima comparsa in pubblico, e tormentato dall’idea che dobbiamo prepararci, che dobbiamo sfruttare questa occasione.... Scopo della relazione dovrà essere soprattutto quello di dimostrare, in una sede autorevole, la necessità della nostra edizione, e così favorire la “scoperta” di un editore tedesco. Sono impaziente di sapere il tuo parere su tutta la faccenda, e che tattica hai in mente di seguire (Weimar, mercoledì 13 maggio 1964).

Ancora nel 1979, in un ricordo dell’amico scomparso, storicizzando l’importanza, per l’edizione, di quel convegno internazionale, Montinari scriveva:

Attuare l’edizione fu materialmente possibile con il risvegliarsi dell’interesse per Nietzsche in Francia, all’inizio degli anni sessanta; ma io ricordo come ci divertimmo, Colli ed io, quando, invitati a parlare del nostro lavoro al convegno di Royaumont su Nietzsche (luglio 1964), salimmo in incognito sull’autobus che da Parigi doveva portarci all’abbazia, e sentimmo un noto studioso universitario italiano di Nietzsche balbettare una qualche risposta imbarazzata alle domande insistenti di un collega francese; questi chiedeva spiegazioni sul fatto inaudito che italiani ignoti si fossero messi in testa di fare l’edizione di Nietzsche.

Nell’intervento Etat des textes de Nietzsche, viene fuori ancora una volta l’atteggiamento scientifico di Montinari: l’importanza della nuova edizione non viene fatta emergere da un aprioristico, dettagliato quanto astratto piano di pubblicazione, che scenda fino agli ultimi particolari, né da puntigliosi e difensivi criteri metodologici, né da una grande discussione di principio sull’importanza o meno del Nachlaß, quale si era sviluppata polemicamente da parte degli “amici della leggenda di Nietzsche” dopo l’edizione Schlechta. I pochi, saldi criteri metodologici sono accompagnati da una serie di concreti risultati da esibire (omissioni rilevanti, errori di lettura, frammenti non pubblicati, il grave arbitrio della compilazione dell’“Ouevre principale” da parte dell’Archivio, etc.) tali da togliere ogni dubbio sui limiti e l’impraticabilità, per lo studioso, delle precedenti edizioni, compresa quella Schlechta.

Nel mese di aprile del 1965 i primi contatti “scientifici” con la casa editrice de Gruyter si hanno attraverso la mediazione di Karl Pestalozzi che dirigeva presso l’editore tedesco una collana di teatro. “A Weimar è venuto un dr. Pestalozzi, svizzero tedesco che lavora all’università di Berlino ovest. Sta facendo un lavoro sul Nachgesang di JGB [...] il suo scopo è ben delimitato; pubblicherà tutte le Vs di quella poesia” (23 Aprile 1965). Fin dal primo incontro Montinari ha dello studioso svizzero, destinato a diventare un suo grande amico, una “grande impressione di onestà e freschezza”. La buona impressione suscitata in Pestalozzi dalla mole e dalla qualità del lavoro fatto a Weimar, favorisce il procedere delle trattative.

Il contratto con de Gruyter, editore “scientifico”, viene salutato da Colli e Montinari con grande soddisfazione. Heinz Wenzel, direttore della sezione umanistica della de Gruyter, è la persona che, compreso il valore e la portata dell’edizione, l’ha sostenuta con la più grande energia (“Ieri ho rivisto Wenzel, che mi ha ripetuto essere l’edizione di N. la più importante impresa della casa editrice in questo campo per i prossimi 10 anni” — 6 ottobre 1965). In un “memorabile viaggio a Berlino”, in incontri con Wenzel e Pestalozzi, Montinari discute e definisce i criteri dell’edizione e degli apparati. “Infine Wenzel nell’entusiasmo della serata a casa sua, ha proclamato che già tra un anno ci sarà il primo volume de Gruyter dell’edizione”. Fin dall’inizio, con Karl Pestalozzi e Wolfgang Müller-Lauter si stabiliscono immediati rapporti non solo di cordiale amicizia e stima, ma anche di attiva collaborazione e di consulenza per il lavoro agli apparati tedeschi a cui portano il loro contributo di “correzioni, dubbi, proposte” (1 agosto 1966).

8.“Glanz und Elend der philologischen Arbeit”

Nel suo Ricordo di Giorgio Colli, Montinari afferma: “A partire più o meno dal 1967 Giorgio Colli ritiene conclusa per l’essenziale la sua terza grande iniziativa di cultura rivolta verso il pubblico: l’“azione Nietzsche””. Colli si aprì ad altri progetti filosofici e filologici, di grande importanza e rilievo che caratterizzano i suoi ultimi anni di attività. Come Montinari ha affermato, col nascere dell’edizione critica tedesca il lavoro specifico agli apparati viene da Colli affidato a lui. Il carteggio e il materiale postumo pubblicato dal figlio Enrico mostrano il crescere in Colli della volontà di un lavoro personale alla definizione di un proprio sistema filosofico e di conseguenza, pur portando avanti l’edizione con costanza quotidiana, Colli manifesta inquietudine e

insoddisfazione per un lavoro “interminabile” agli apparati, che gli appariva condotto con un “eccesso di scientificità” dall’amico.

Il procedere del lavoro sui manoscritti provoca in Montinari la ricerca e la maturazione di criteri e soluzioni sempre più adeguati, con sempre maggiore consapevolezza delle difficoltà da superare. Già nella primavera del 1964, un anno giudicato decisivo per le sorti dell’edizione, in cui molto lavoro d’archivio viene accumulato, l’incontro col materiale preparatorio di Zarathustra esalta la possibilità di fare un apparato di grande rilievo:

Caro Giorgio,la prima settimana di lavoro è finita. Come già ti ho scritto, la serie ZII è

dominabile: a parte Z II 5, che ha un po’ di materiale postumo, Z II 6, 7, 8, 9, 10 sono importanti solo per 1) poesie (Z II 6 e 7) e per le varianti di Zarathustra IV. Alla fine della prossima settimana dovrei aver finito la serie, dato che — sia pure per ora descrittivamente, cioè senza stesura di apparato — ho già cominciato Z II 8. I postumi di Z II 5 sono tutti collazionati. La maggior parte del materiale postumo è in WI (e nei taccuini!!!!). Io sono ottimista, e — se le mappe non riservano sorprese — dovrei superare il programma che abbiamo fatto. Ho letto quasi tutto Za IV; ne ho ricevuto una forte impressione. Il nostro apparato allo Za. dovrebbe essere una cosa “sensazionale”; ma, a parte la “sensazione” penso sia proprio importante farlo molto vasto — a questo penso in particolare; vorrei avere una “buona idea” organizzativa. Per Za   IV le cose stanno meglio che per le altre tre parti perché c’è anche il Dm. Ti informerò di quel che mi viene in mente in proposito” (14 marzo 1964).

Lo Za. IV mi tiene occupato con sentimenti opposti (l’ho letto e riletto tutto). (24 marzo 1964)

In una lunga e appassionata lettera (“perdona l’irruenza di questa lettera, ma essa rispecchia solo pallidamente il mio stato d’animo e la mia volontà di fare”) della Pasqua del 1964, Montinari entra più nel merito del lavoro concreto per gli apparati e della necessità di un sforzo intenso e comune per “dominare” insieme i complessi problemi, perché l’anno “terribile” — come era stato definito da Colli — diventasse in realtà quello “più bello” per l’edizione.

Riportiamo buona parte della lettera che ci permette di entrare

nel laboratorio di un grande “artigiano” e di misurarne anche l’inventività pratica necessaria e adeguata alle singole situazioni.

Weimar, Pasqua 1964Caro Giorgio,spero che, mentre io ti scrivo in una Weimar tutta bianca di neve, tu sia in

qualche città della Spagna, forse a Siviglia, e goda di un po’ di sole e di cose insolite e meridionali. Io, per me, sto bene qui, nel nord freddo e ospitale, nella mia Weimar.

Per il nostro lavoro sono ottimista e ti dirò perché. Il lavoro è andato avanti bene in questi 18 giorni di archivio, e tutto sommato senza grandi sforzi. Questi sono i risultati:

1) la decifrazione di Z II 5-10 è terminata. Adesso si tratta di passare alla trascrizione, e ciò avverrà non appena avrò risolto alcuni problemi cronologici, che per questo gruppo di manoscritti (poesie dell’84-85 e Za IV) sono di natura particolarissima: N infatti ha adoperato contemporaneamente quasi tutti questi quaderni, le Rs di quasi tutti i capitoli sono sparpagliate in tutti; in tutti si trovano redazioni anteriori, in sé concluse, di molte parti di Za   IV, che naturalmente vanno pubblicate per intero anche a costo di ripetizioni, perché così hanno un senso, mentre mutile, come si trovano in GAK XII e GA XII e XIV, sono frammentazioni arbitrarie. Il problema è di vederne la successione cronologica, e — questo è il bello — ciò è senz’altro possibile per mezzo di criteri interni (per esempio il “Wanderer und Schatten” è in tutta una serie di brani il “guter Europäer”, oppure il capitolo “Vom höheren Menschen” era dapprima una specie di finale, un “Rundgesang” e così via). Probabilmente si dovrebbe mirare a stabilire le due o tre redazioni di Za   IV e riportarle nei frammenti postumi prescindendo dal criterio, che in questo caso sarebbe meccanico, dei quaderni considerati di per sé. Mi pare che non dovremmo essere dogmatici fino al punto di ripetere la numerazione ogni volta che si cambia quaderno per ragioni cronologiche, bensì adottare magari una numerazione unica per tutto il gruppo Z II. La descrizione pagina per pagina servirebbe poi a dare un’idea della distribuzione del materiale in questi quaderni.

2) Ho collazionato, a casa, l’Erstdruck di Za  IV con la copia xerografata. Le differenze sono minime. Perciò io penso che non sia necessario far microfilmare lo Ed per poi farlo sviluppare e quindi di nuovo xerografare. Tutto denaro che possiamo risparmiare, xerografando la GA e riportando le correzioni dell’Ed. La ragione delle poche differenze che ho trovato è che N stesso ha scritto il Dm di Za  IV, e questo Dm è conservato (a differenza di quelli delle

altre parti dello Zarathustra). Media della collazione 20 pagine l’ora.3) Ho collazionato in archivio anche il Dm, naturalmente dopo la

collazione dell’Ed con Ga. Per facilitare il lavoro, ho preso due grossi quaderni sui quali ho incollato, ogni due pagine, una pagina di testo xerografato. Le differenze Ed-Ga sono segnate in rosso, quelle Dm-Ed in verde. Nelle pagine a fronte ho trascritto tutte le varianti del Dm, per lo più passi cancellati. Le differenze (cioè punteggiatura, grafia, parole sostituite) le ho riportate nella pagina dove era incollato il testo, con il metodo della correzione delle bozze. La collazione del Dm ha richiesto non più di 9 ore.

Ti chiederai perché ho sentito la necessità di fare un lavoro che non era previsto. Il fatto è che non è possibile lavorare a questi quaderni senza conoscere bene lo Za   IV. (Anzi, ho pensato che tutto sommato anche per gli altri volumi avremmo fatto molto meglio a fare noi queste collazioni, non perché Sossio le ha fatte male, tu sai che le ha fatte benissimo, ma: potresti dire di conoscere bene i testi su cui hai lavorato come sarebbe stato necessario? Io non lo posso dire per nulla affatto. —) Inoltre sarebbe sbagliato non preparare fin da ora l’apparato dei testi editi, con cui di volta in volta abbiamo a che fare. Se pensi al poco tempo che tutto questo richiede e alla maggiore tranquillità che ne deriva per aver fatto noi il lavoro, mi pare che varrebbe la pena che anche tu facessi la collazione ED -GA di Za  I II III (i Dm non ci sono!). Le schede, almeno per Za   IV, si sono rivelate di utilità relativa, solo in casi di sentenze sparpagliate servono. Ma ora ho intenzione di riportare tutte le varianti nelle pagine a fronte del testo duplicemente collazionato Per JGB le schede saranno senz’altro più utili. Quando tornerò basterà riportare le tue schede riguardanti Za  IV nei miei quaderni, e l’apparato sarà pronto. Importante sarebbe, per non stare a fare due volte il lavoro, stabilire la numerazione definitiva delle pagine dell’VIII volume. Penso che si possa fare. E se accetti di non microfilmare lo Ed di Za IV, io potrei già mettere i numeri definitivi di pagina e di riga a tutte le varianti, e così pure tu....

Proprio sugli apparati di Zarathustra si sviluppa la prima discussione con Colli che fissa il suo criterio nella risposta alla lettera di Pasqua. “Io ci tengo moltissimo che tu mantenga il tuo sacro fuoco, ma devi permettermi di incanalarlo un poco, e concedermi una capacità di freddezza costruttiva nella visione d’insieme”.

Ecco il metodo proposto da Colli:

a) per le Vs primitive trascurare le varianti di parole, o anche di Wendungen diverse che non contengano elementi nuovi, riportare le cancellature solo in casi determinati. b) per le Vs più evolute, tipo Rs, riportare le varianti anche meno importanti, guardandosi però dal segnalare tutto, con un apparato tipo antichità classica — Anche nell’idea di non seguire i singoli Ms come unità e restaurare attraverso vari Ms redazioni primitive mi sembra che bisogna procedere con una certa cautela — Spesso queste redazioni primitive non sono altro che semplici Vs (12 aprile 64).

Sembra che Colli, più interessato ai contenuti filosofici del testo, non colga, come filologo, la specificità del linguaggio “poetico” dello Zarathustra e quindi l’importanza delle varianti stilistiche e di singole parole. In una lettera del 28 dell’ottobre del 1968, quando il chiarimento è avvenuto ed il lavoro all’edizione italiana dello Zarathustra è molto avanzato, Montinari fa rapide e interessanti considerazioni sulle varianti di Za III.

Caro Giorgio,riemergo oggi dalle visioni e dalle ebbrezze di eternità del terzo

Zarathustra: pur nel risparmio di varianti dell’edizione italiana, le mie annotazioni per questa parte sono venute 21 pagine (in tutto, l’apparato è ora a 52 pagine, manca il quarto). Spero di aver fatto un lavoro utile. Certe lunghe varianti introducono forse più del testo nella passione di Nietzsche. Forse questa parte di Zarathustra è la più “lirica” e la meno didascalica. Il quarto Zarathustra mi sembra di tono meno ispirato (a parte i “ditirambi” e il capitolo estatico del “mezzodì”).

L’edizione di testi poetici comporta criteri specifici e nuovi che Montinari vuol chiarirsi:

Il mio lavoro va abbastanza bene, dopo W II 10, Z II 7, Z II 5 sono alle prese con Z II 6, che è, insieme a ZII 5 e W II 10, il manoscritto più importante per le poesie. Parallelamente, dopo il lavoro in archivio, mi occupo dei problemi di edizione e di apparato delle poesie. Così ho ripreso in mano l’apparato dell’edizione Beißner di Hölderlin e sto leggendo un po’ di letteratura sull’argomento. In base all’esperienza che abbiamo fatto insieme, tutti i discorsi dei filologi mi sembrano assai più facili di quando all’inizio

demmo quell’occhiata al Beißner. Senza esagerare nelle minuzie, penso che l’apparato delle poesie (e di Zarathustra) debba essere più ricco che non quello degli aforismi e frammenti. Ma ti scriverò in proposito quando avrò formato una mia opinione sul problema generale e su quelli che N in particolare presenta. Del resto mi piace avere a che fare con queste questioni! (6 maggio 1965)

Il lavoro all’“eterno apparato” dello Zarathustra sarà ripreso, intensamente, e continuato, con altri lavori, da Montinari per tutto l’anno 1967 in parallelo alla traduzione italiana e poi per l’apparato francese di Gallimard (1968). “Quanto al mio lavoro, intendo liquidare al più presto l’apparato dello Zarathustra, passando subito alla stesura definitiva, a macchina” (8 gennaio 1967).

E con il lavoro all’apparato riemerge la polemica:

Continuo a lavorare a un ritmo soddisfacente. Per i recuperi di varianti mi limiterò all’essenziale (molto è già stato fatto nelle revisioni passate). L’apparato di Zarathustra prende forma nella sua complessità — ma perché parlarti di queste cose? In fondo per te sarebbe meglio se avessi già finito tutto, battendo una dopo l’altra le schede, per le parti 2 e 3, e arrangiandomi per tutto l’insieme, senza preoccuparmi dei nessi intricati e difficili tra i postumi e l’edito... (25 febbraio 1967).

I giorni passano e io mi vado sempre più immergendo non solo nell’apparato (sul quale rimando ancora a una prossima lettera filologica notizie e problemi) ma anche nelle idee e nel mondo dello Zarathustra. Devo dire che per me il lavoro a Nietzsche rimane sempre la cosa che più di tutto mi dà forza e persino piacere di vivere. Certo ho i miei periodi di opacità, ma per fortuna ora non sono opaco. Ho invece l’impressione che tu ormai senta il lavoro all’edizione come un grave peso, che — per il tuo carattere forte — ciononostante tu lavori con grande intensità, che forse lo stato di grazia speculativo di alcuni mesi fa non ti sia più di aiuto, che tu sia stanco e teso (7 maggio 1967).

Ed ancora al centro della lettera successiva è il lavoro per l’apparato:

Ti scrivo dopo un’altra giornata tutta di Zarathustra; da un paio di settimane mi occupo esclusivamente di questo apparato, che è praticamente

finito per Za I e II, se non ci fossero certe cose da sistemare nei postumi. Devo dire però che oramai domino tutta la situazione, solo per Za  III non ho ancora idee chiare. Devi avere ancora un po’ di pazienza — poi spero di presentarti un lavoro buono e definitivo, insieme a tutte le riflessioni e le annotazioni tecniche. Lavoro sempre a casa, anche dopo cena fino alle 11, ma anche fino all’una come da tre giorni; questo però non devo farlo (di lavorare fino all’una) perché altrimenti non riesco a dormire, nonostante i sonniferi. Per fortuna sono veramente in forma e come invasato dal lavoro a questo apparato, che mi appassiona e dal quale però dovrò staccarmi, almeno in parte, per una settimana per l’impaginato e inviare l’apparato di tutto il IV volume a de Gruyter (15 maggio 1967).

Il lavoro all’apparato al IV volume dell’edizione de Gruyter procede di pari passo alla traduzione ed edizione italiana dello Zarathustra: le notizie all’amico su questi lavori si intrecciano, come pure le informazioni sulla personale, nuova approssimazione a quest’opera di Nietzsche:

Il capitolo su Zarathustra è rimasto incompiuto. In esso voglio dimostrare che tutto lo Zarathustra è volutamente antipoesia e oltre che l’antipode di un’opera d’arte anche l’antipode di un “libro sacro”. Insomma un mezzo espressivo assolutamente personale e estremamente duttile, che N si era forgiato per dire ciò che aveva da dire senza il “peso” della dimostrazione razionale. Quanto alla posizione verso la cosiddetta poesia (o arte), io penso che N nello Zarathustra abbia distrutto volutamente ogni canone anche del cosiddetto buon gusto. Tutto è serio, terribilmente serio e Zarathustra non è un un poeta (anche se forse vorrebbe esserlo) (30 luglio 1967).

Questa interpretazione dovrà essere approfondita: nel frattempo riporto, nella terza parte, alcuni appunti del periodo, da Montinari stesso raccolti e battuti a macchina, che servono ad orientare su alcuni momenti di questa lettura dello Zarathustra.

Dietro l’atteggiamento forte di Colli (la “scuola dura”) emerge sempre il saldo affetto e la grande stima per il filologo di cui spesso si fa allievo: “spero che la mia “descrizione” ti piaccia: l’ho fatta sforzandomi di essere un tuo discepolo” (25 giugno 1967).

Le lettere mostrano comunque,in un confronto aperto senza

reticenze, che rende più maturo il rapporto tra i due, le diverse posizioni sulle prospettive di un’edizione storico critica presso de Gruyter. Mentre Montinari si esalta alla possibilità di realizzare un’edizione storico — critica con apparati esaustivi, “definitiva” nei limiti del possibile, Colli, già in una lettera del 16 novembre del 1965, dopo aver ricevuto una prima copia del contratto con de Gruyter, tra le altre cose, preoccupato anche dalla lentezza con cui il lavoro di revisione dei manoscritti procede in funzione dell’apparato, afferma:

Adesso voglio dirti con molta calma che mi sembra tu stia cadendo in un eccesso di scientificità. Che de Gruyter sia un editore scientifico, meglio per noi: ma non per questo la nostra edizione deve diventare un’edizione tipo quella di Hölderlin. Questo non era nelle nostre intenzioni sin dal principio, e se de Gruyter lo pensa (come sembrerebbe dall’historisch-kritische A[usgabe]., che sarebbe meglio eliminare, ti ricordi la nostra ironia sull’edizione Beck?) bisognerebbe chiarirgli le idee. Questa è la prima edizione di N. e non ha senso che una 1a edizione sia historisch-kritisch a quel modo. Guardiamoci dal creare degli equivoci!

Il chiarimento definitivo su questi temi avvenne nell’autunno del 1967, poche settimane prima dell’uscita dei primi volumi dell’edizione de Gruyter.

In una lettera del 29 settembre di Montinari si leggono queste parole:

Io so che posso aver esagerato in certi punti, ma so anche con altrettanta certezza che non è l’esagerazione il mio difetto vero, bensì la velleità, l’incapacità di realizzare e di soffrire per realizzare. Quando uscirà l’apparato tedesco, dovremo certamente fare un discorso sui limiti ragionevoli della scientificità, che per me non è affatto un feticcio, ma semplicemente il desiderio di essere un buon “lavoratore”, come un calzolaio bravo fa delle buone scarpe. La serietà del mestiere, realistica tenace che non ha paura della fatica e delle cose noiose, perché mira a un risultato che ha già in se stesso la sua giustificazione. Perciò non puoi raggiungere me — come sono o vorrei essere — se parli della imperfezione inevitabile di ogni lavoro scientifico [...]. E mi ferisci e mi fai male, quando trovi che l’edizione francese è come tu avresti voluto l’edizione di Nietzsche, mentre l’edizione francese è fatta male (vedi per

esempio se i frammenti di Emerson-Exemplar hanno un senso senza le note).

Queste parole, pur nella ingiustizia della polemica che investe anche l’edizione francese, più di altre riescono a definire, a mio parere, la pratica di lavoro di Mazzino Montinari che abbiamo seguito in queste lettere, e segnano anche la continuità ideale con Delio Cantimori, l’altro suo grande maestro dei tempi della Normale, da cui aveva appreso la fedeltà al “senso storico” e che nell’ultimo periodo aveva particolarmente insistito sull’aspetto “artigianale” del “mestiere di storico” contro le grandi narrazioni ed i grandi soggetti delle filosofie della storia e dei miti ideologici, ma anche contro le soluzioni positivistiche e tecnicistiche dell’operare storiografico.

Ed è l’aspetto emerso dal carteggio con Colli: l’editore procede nel suo lavoro privo di sicurezze precostituite, senza il feticcio del testo, senza principi astratti aprioristici su come si costruisce l’edizione modello ma arrivando con fatica alla risoluzione concreta di problemi concreti nel concreto e quotidiano lavoro. “Opporre alle teorizzazioni osservazioni di fatto”: è la lezione di Cantimori, che scriveva, ancora nel 1964:

Un problema o una questione mi sembrano inconsistenti quando non cercano di rispondere ad una situazione di fatto, empiricamente riconoscibile, come per esempio una villa che va in rovina pone il problema se meriti ricostruirla, restaurarla, ecc., mentre è inconsistente discutere in generale il problema dei restauri; questo è il mio modo di sentire. Non pretendo d’imporlo a nessuno, ma mi pare di non procurare danno a nessuno se mi regolo secondo questa opinione.

Non è certo, quello di Montinari, abbandono alla cattiva empiria o al selvaggio pragmatismo: è invece criticità estremamente consapevole, prudenza metodica contro le sicurezze aprioristiche.

Anche questo tema richiama esplicitamente Cantimori: la “consapevolezza critica” rende “diffidenti anzitutto di se stessi, cioè della tendenza istintiva a illudersi d’aver raggiunto, di possedere la cognizione definitiva e ferma, statica, di quel che è movimento”.

Ma questa consapevolezza nasce in Montinari anche dal

confronto con la riflessione teorica sulle conquiste della filologia tedesca del dopoguerra, con le discussioni sull’edizione critica di autori moderni.

Montinari non amava certo le grandi discussioni teoriche, che rischiavano spesso di essere discussioni “di principio” o addirittura nominalistiche: era però avvertito di quelle riflessioni legate alla pratica di editori di testi, anche se raramente faceva riferimento a questo sfondo su cui si colloca anche la nuova edizione di Nietzsche.

La conquista della filologia moderna sta nel riaprire un testo chiuso e statico e renderlo aperto e dinamico, in una consapevolezza radicalmente storica che certo non promette sicurezze. La moderna edizione deve invece “generare il massimo di incertezza, tener desta l’attenzione al fatto che il testo offerto al lettore rispecchia solo imperfettamente la realtà di un testo vivente. Il lettore non riceve il testo come suo saldo possesso, bensì come compito, alla cui soluzione egli può contribuire in ogni momento” (Karl Stackmann).

La lontananza dall’empiria sta comunque nell’individuazione di categorie capaci di disciplinare l’empirico e la complessità storica: categorie che abbiano però esse stesse un carattere storico e siano storicamente revocabili. Questo contro le ideologie e i miti che irrigidiscono, semplificano, “riducono” comunque il divenire innalzando la parzialità a totalità.

In un appunto dell’ultimo periodo, scritto in tedesco e non datato, così Montinari riassume il suo atteggiamento:

Combatto due forme di niaiserie academique:1. la niaiserie dei cosiddetti filologi che praticano il loro lavoro come una

dissoluzione del testo, e già sono soddisfatti nel cercare le cosiddette fonti, perdento in tal modo di vista l’insieme di un fenomeno intellettuale: ad esempio Nietzsche

2. la niaiserie dei filosofi, che amano il loro Nietzsche, un Nietzsche in formato ridotto, e non avvertono mai il bisgno di domandarsi: cosa intende in realtà quando parla di decadence? si trova con le sue domande del tutto isolato nel suo tempo? quali sono le sue documentazioni?

Non annuncio niente di buono a entrambe le specie di niaiserie: ci sforziamo certo di scoprire quelle documentazioni, e tuttavia mai ci sembra di

ritrovarci solo all’inizio del nostro lavoro, come al momento in cui abbiamo messo in chiaro tutte le possibili fonti. Per il nostro Nietzsche noi vogliamo ottenere un orizzonte nitido, uno sfondo articolato, in modo che possa riuscire realmente ad esprimersi.

Il lavoro storico privo di comprensione filosofica è cieco, il pensiero filosofico senza contenuto storico è vuoto.

Le pretese risoluzioni tecnicistiche o ideologiche sono solo illusorie vie più brevi, scorciatoie rispetto alla complessità di un lavoro che deve essere capace di mettersi continuamente in discussione e di confrontarsi, artigianalmente, con la “rugosità” del reale.

Nel 1985, nel suo breve discorso di ringraziamento per la consegna del premio Gundolf — un ulteriore pubblico riconoscimento della sua affermata attività di studioso e di editore- Mazzino Montinari ha dato, in poche e meditate frasi, il senso del suo lavoro storico-filologico all’edizione di Nietzsche.

Più che insistere sui forti elementi di novità dell’edizione, sui risultati ottenuti con una mole di lavoro impressionante, messi in luce dal discorso di Pestalozzi, egli vi propone l’edizione come esito di un lungo percorso, dentro una diversificata e complessa tradizione:

In realtà oggi intendo la nostra edizione come un singolo anello nella storia delle edizioni di Nietzsche: noi abbiamo costruito anche sulle conoscenze e gli sforzi di una lunga catena di studiosi e di editori, che si dipana da Peter Gast e Ernst Holzer fino a Hans-Joachim Mette e Karl Schlechta — senza dimenticare figure irregolari come Erich F. Podach. E che almeno i risultati validi di questo quasi centenario lavoro su Nietzsche siano ‘inverati’ nella nostra edizione.

Questo contro un confessato, iniziale atteggiamento polemico contro gli errori dei precursori dell’edizione.

Ma ancora più significative sono le sue parole sul senso del lavoro quotidiano del filologo, legato a crescente consapevolezza critica lontana da aprioristiche e consolanti metodologie definitive.

D’altronde, qualsiasi curatore di un’edizione integrale e critica deve saper vedere la sua stessa attività da un’angolazione che la renda relativa, e di continuo deve poi sottoporla a revisione, dal momento che non si trova mai un metodo editoriale che sia unico e vero. Nel corso di un’impresa che (come avviene nel caso di un’edizione integrale storico-critica — richiede molto tempo) il curatore è costretto ad affinare e a rendere sempre più penetrante il proprio armamentario filologico, in modo tale da dover poi considerare insoddisfacenti certe scelte inizialmente prese nel definire il testo e l’apparato critico. Da questo punto di vista, lo stesso fatto che nel lungo periodo possa aver compiuto anche degli errori, non sembra in via di principio così significativo — con una lista degli errata si potranno sempre eliminare — come il lento slittamento [Verschiebung], di cui già si è fatto cenno, della prospettiva filologica. L’occuparsi quotidianamente del testo ha anche altre conseguenze: il curatore scruta ogni cosa da distanza troppo ravvicinata, non è irrilevante il pericolo che, al di là dei singoli elementi di cui occorre dar conto nell’apparato (ad esempio la tradizione manoscritta), e al di là della paziente ricerca di fonti nascoste, cioè dello sforzo per tener dietro con grande scrupolo ai sentieri tortuosi del suo autore, perda in certo qual modo di vista (con rincrescimento dell’editore e del pubblico) lo scopo del suo lavoro In casi estremi, il testo pubblicato può trasformarsi in un accessorio dell’apparato. Trovare qui la giusta misura, certo non è un compito semplice. A un certo punto bisogna pur concludere, e un’edizione non del tutto perfetta, ma comunque portata a termine, è pur sempre da preferirsi, con tutta probabilità, a nessuna”.

Lo “splendore e la miseria” del lavoro filologico, che abbiamo cercato di illustrare attraverso l’epistolario tra Colli e Montinari.

Così Colli rispondeva alla lettera del 29 settembre:

Non è vero che io ignori l’importanza, la sofferenza, il valore di tutto il lavoro che stai facendo: se non mi soffermo a commentare i risultati più brillanti che tu mi comunichi (e che vorrei tu continuassi a comunicarmi, assieme al resoconto dettagliato del procedere del tuo lavoro in genere), è da un lato per la “scuola dura”, perché ritengo ciò normale, ma d’altro lato, poiché un’avarizia eccessiva nella lode è nel mio carattere, perché non voglio che una lode per un risultato sia fraintesa come una lode generale sul modo di condurre il lavoro. Tu mi dici che ti fa male che io lodi l’edizione francese a confronto di quella tedesca. È questo un punto su cui è utile una spiegazione. Dicendo questo io non intendo dire che questa edizione francese, con l’impostazione e

gli errori dei Deleuze e Foucault, sia per me l’edizione ideale di Nietzsche. Ma intendo dire che per omaggio a Nietzsche (e tu devi tenere più presente come in tutta questa nostra impresa, dal 1958 a oggi, l’elemento “omaggio a Nietzsche” sia per me centrale, assieme all’elemento “favorire l’azione di Nietzsche sul presente”) e per mia intima convinzione, un’edizione di Nietzsche dovrebbe essere appunto tale da piacere a Nietzsche, e inoltre tale da rivolgersi soprattutto a lettori “non tecnici”. Questo ti spiega la mia avversione per un’edizione alla de Gruyter, dove l’apparato ipertrofico è una condizione vitale. L’edizione ideale sarebbe per me quella in cui l’apparato si limita ad aggiungere nuovo materiale “sostanzioso” per la conoscenza di N., oltre alle spiegazioni richieste da lettori che non siano né idioti né pedanti: in complesso poi una certa lievità di fronte ai risultati e alle esigenze della scienza filologica — una non dogmaticità quasi ironica. Non è detto che i nostri punti di vista siano inconciliabili, perché ogni sforzo per aumentare la correttezza e il rigore del testo è per me degno di rispetto: apprezzo la scientificità del testo, ma vorrei che l’apparato fosse solo uno strumento sussidiario, senza nessuna indulgenza alla completezza e alla scientificità dell’apparato (5 ottobre 1967).

La posizione di Giorgio Colli, molto coerente e ferma fino alla durezza, si richiama esplicitamente al significato di quell’“azione comune” intrapresa fin dal 1958 nella volontà di far agire Nietzsche sull’epoca e vede nella nascente edizione critica tedesca quasi il tradimento di un progetto. È una professione di fede filosofica a Nietzsche, al suo Nietzsche. Ma è per le stesse ragioni di fedeltà anche all’altro Nietzsche, da lui lentamente scoperto e valorizzato, a quella “passione rabbiosa” della conoscenza che non sa estinguersi, che Mazzino Montinari proseguì il suo lavoro filologico e storico.

Questa distanza, ormai segnata e consapevole, è significativa di due diverse strade da percorrere: per Colli quella di una pratica filosofica personale in un confronto diretto con la “sapienza greca”, con Schopenhauer e Nietzsche, per Montinari quella paziente di un lavoro storico e filologico di progressiva approssimazione e corrosione di immagini date, stabilite, “mitiche”.

Proprio nei giorni in cui matura la firma del contratto de Gruyter e quindi la sanzione definitiva del suo lavoro filologico, Mazzino Montinari assume l’impegno di fare un profilo di Nietzsche per una collana di alta divulgazione. Era in realtà anche un

impegno con se stesso per arrivare ad una prima definizione di una originale prospettiva sul filosofo, che andava lentamente maturando, di dare un primo sbocco a riflessioni giornaliere, testimoniate dai quaderni, parallele ed intrecciate, anche se volutamente tenute ai margini, al lavoro filologico e storico per l’edizione.

Se mi riuscisse di dire qualcosa d’importante, sia pure in una sede modesta, [...] e davanti a un pubblico viziato dai luoghi comuni storicistici, se ciò mi riuscisse — dico — si potrebbe inaugurare un nuovo modo di pensare a Nietzsche (14 ottobre 1965).

Le pagine del profilo di Nietzsche, a cui aveva lavorato nei ritagli di tempo e a cui era giunto non senza fatica alla fine del 1967, segnavano con consapevolezza anche la distanza dal Nietzsche “greco” di Giorgio Colli. Ma leggendo le bozze del “Nietzsche protagonista” nel fondato timore che il risultato potesse non piacere all’amico, Montinari riaffermava con forza il primato del rapporto personale, della figura dell’amico: “per me non c’è Platone Schopenhauer N. o chiunque altro che possa neppure minimamente contare qualcosa o modificare il mio modo di sentire verso di te” (4 dicembre 1967).

Il primato della vita reale nutre anche certe diffidenze verso il pathos della distanza e la “cerebralità” del Nietzsche vivisettore, la volontà di un suo superamento. Questo senso della pienezza immediata della vita ci fa dire, con Montinari, nel suo ricordo umano:

“La felicità è qualcosa che si ha già (o non si ha) non è raggiungibile, bisogna accorgersi di essere felici”.