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© 1959 Rizzoli Editore, Milano © 1994 RCS Libri S.p.A., Milano sulla collana storia d’italia © 2001 RCS Collezionabili S.p.A., Milano sulla presente edizione storia d’italia Pubblicazione periodica settimanale Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 197 del 9.4.1994 Direttore responsabile: Gianni Vallardi Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 00262 vol. III Foglio 489 del 20.9.1892

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SOMMARIO

Cronologia

CAPITOLO PRIMO Ab Urbe condita

CAPITOLO SECONDO Poveri etruschi

CAPITOLO TERZO I re agrari

CAPITOLO QUARTO re mercanti

CAPITOLO QUINTO Porsenna

CAPITOLO SESTO SPQR

CAPITOLO SETTIMO Pirro

CAPITOLO OTTAVO L’educazione

CAPITOLO NONO La carriera

CAPITOLO DECIMO Gli dèi

CAPITOLO UNDICESIMO La città

CAPITOLO DODICESIMO Cartagine

CAPITOLO TREDICESIMO Regolo

CAPITOLO QUATTORDICESIMO Annibale

CAPITOLO QUINDICESIMO Scipione

CAPITOLO SEDICESIMO “Graecia capta”

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CRONOLOGIA

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EVENTI POLITICI E MILITARI

XI sec. a.C. Si diffonde nella penisola italica l'uso del ferro; calano dal nord migrazioni di latini, di umbri, di sabini, seguiti dagli etruschi; nel Lazio prende sviluppo la città di Alba Longa. IX sec. Vengono fondate dai fenici numerose colonie sulle coste del Mediterraneo; tra queste è Cartagine (841 a.C.). VIII-VI secc. I greci stanziano nell'Italia meridionale e in Sicilia numerose colonie (Taranto, Sibari, Reggio, Catania, Siracusa, Agrigento, Napoli, Cuma ecc.), il complesso cosiddetto della Magna Grecia. 753, 21 aprile Data tradizionale della fondazione di Roma sul Palatino. 753-600 ca. Periodo dei re agrari; la leggenda ha tramandato i nomi di Romolo (con l'episodio del ratto delle sabine, la guerra tra romani e sabini, guidati da Tito Tazio, l'episodio di Tarpeia), Numa Pompilio, Tullo Ostilio (conquista di Alba Longa ed episodio degli Orazi e Curiazi) e Anco Marzio. 600-509 Periodo dei re mercanti etruschi: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. 540 ca. Etruschi e cartaginesi vincono in battaglia navale i greci e si assicurano il predominio del Mediterraneo occidentale. 509 Cacciata dei re e istituzione della repubblica consolare; guerra contro gli etruschi (episodi di Porsenna e Muzio Scevola, Orazio Coclite, Clelia). 510 Trattato tra Roma e Cartagine.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI Dal X al III sec. a.C. I popoli italici parlano l'etrusco, il latino, l'osco, l'umbro, dialetti di cui avanzano scarsi e oscuri monumenti epigrafici, nonché il greco nelle colonie della Magna Grecia. Nell'Italia centrale e particolarmente a Roma, il carattere dell'architettura, fino al secolo IV, è ancora completamente etrusco (il Foro, la cinta difensiva dell'Arce Capitolina e dei Palatino, le mura serviane, il carcere Mamertino o Tulliano, il tempio di Giove Capitolino ecc.). VIII-VII secc. In Roma, Romolo istituisce il senato, Numa Pompilio fissa le norme religiose, Anco Marzio fonda Ostia e costruisce il primo ponte di legno sul Tevere, il ponte Sublicio. VI sec. In Roma, Tarquinio Prisco fonda il circo massimo ai piedi del Palatino, sul luogo del ratto delle sabine (sarebbe stato terminato in muratura soltanto nel II sec.), costruisce la cloaca massima, dà inizio alla costruzione del tempio di Giove Capitolino; a Servio Tullio è attribuita una nuova costituzione fondata sul censo e sulla divisione dei cittadini in classi e in centurie, nonché la costruzione di una cinta di mura (le mura serviane, i cui avanzi sorgono di fronte alla stazione Termini). 594 Riforma di Solone in Atene. 509 In Roma, con la cacciata dei Tarquini è istituita la repubblica e la magistratura annuale dei consoli.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

500-479 Nel Mediterraneo orientale ha luogo la guerra tra le città greche e i persiani: 490, battaglia di Maratona; 480, battaglia di Salamina; 479, vittorie greche di Platea e di Micale. Comincia la grande ascesa di Atene. 493 Secessione della plebe sull'Aventino (episodio di Menenio Agrippa); istituzione dei tribuni della plebe. Trattato tra romani e latini (foedus cassianum). 451-449 Biennio del decemvirato istituito in Roma per fissare per iscritto il diritto consuetudinario; pubblicazione delle XII tavole (episodio di Appio Claudio e di Virginia). 431-404 Lotta in Grecia per la supremazia tra Sparta e Atene (guerra peloponnesiaca): tramonto della grandezza ateniese. 406-396 Roma combatte contro Veio una guerra decennale che termina con la vittoria romana (Furio Camillo). Con la caduta di Veio e la contemporanea calata dal nord di migrazioni galliche, termina nella valle padana la supremazia etrusca. 386 Disfatta romana sull'Allia da parte dei galli guidati da Brenno e sacco di Roma. Ritirata dei galli.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI 509-507 In Atene è condotta a termine da Clistene la riforma democratica. 484 Aulo Postumio erige nel Foro il tempio di Castore e Polluce per adempiere a un voto del padre fatto durante la guerra contro i latini Il tempio è tra gli avanzi più caratteristici dei Foro romano. 471 Viene emanata la lex publilia sull'istituzione dei tribuni della plebe. 450 ca. Vengono pubblicate le leggi delle XII tavole. 447 È istituita la questura per l'amministrazione dell'erario. 445 Il tribuno Caio Canuleio fa approvare la lex Canuleia che permette il matrimonio tra patrizi e plebei. 443 Cominciano a essere nominati i censori, incaricati di vigilare sul costume e di redigere le liste dei cittadini secondo il censo. 443-429 In Atene fiorisce l'età di Pericle. 421 I plebei ottengono l'ammissione alla carica di questori. IV-II secc. Età dell'ellenismo alessandrino. Centri di diffusione della cultura greca sono Alessandria d'Egitto, Rodi, Antiochia, Pergamo ecc. 387 ca. Risale a questi anni un altro dei più antichi monumenti romani rimasti: il carcere Mamertino o Tulliano, dove due secoli dopo sarebbero stati uccisi Giugurta, i complici di Catilina e Vercingetorige; secondo una tradizione cristiana, vi sarebbe stato rinchiuso anche San Pietro. 367 Risalirebbe a questo anno la costruzione, per opera di Furio Camillo, dei tempio della Concordia, di cui restano avanzi tra il Foro e il Campidoglio.

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EVENTI POLITICI E MILITARI 348 Secondo trattato di Roma con Cartagine. 343-341 Prima guerra sannitica. 340-338 Guerra contro i latini. 338 In Grecia, Filippo II il Macedone, con la battaglia di Cheronea, estende l'egemonia macedone sulle libere città greche. 336-323 Il figlio di Filippo II, Alessandro Magno, conquista l'oriente e vi diffonde la civiltà greca. 329 I romani assoggettano i volsci. 327-304 Seconda guerra sannitica; episodio delle forche caudine (321). 298-290 Terza guerra sannitica. Occupazione romana di Boviano, capitale dei sanniti, e vittoria di Sentino; episodio di Decio Mure (295).

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI 367-366 Promulgazione delle leggi Licinie-Sestie sulla riduzione dei debiti, la questione agraria (limitazione dei fondi a cinquecento iugeri) e soprattutto l'ammissione dei plebei al consolato. 366 Gli edíli curúli sono incaricati della vigilanza dei mercati, la manutenzione degli edifici pubblici (aedes) e il mantenimento dell'ordine urbano. 312 Il censore Appio Claudio apre la via Appia da Roma a Capua (la strada sarebbe stata prolungata fino a Benevento nel 190 e successivamente fino a Taranto e a Brindisi). Per la sua importanza fu detta regina viarum. Appio Claudio inaugura il primo acquedotto. III sec. Da un membro non identificato della famiglia Aurelia viene aperta la via Aurelia, da Roma fino a Luni, presso Sarzana. La strada sarebbe stata successivamente prolungata fino a Genova e al Varo (109) e quindi fino ad Arles. Viene aperta la via Salaria, così detta per il commercio del sale esercitato dai romani coi sabini. Si comincia a parlare anche della via Nomentana, per Nomentum (Mentana). A ultimata la via Tiburtina, da Roma a Tivoli e quindi, col nome di via Valeria, fino all'Adriatico. Comincia l'influenza dell'architettura greca nella costruzione dei monumenti. Oltre il tufo, ora vengono usati il peperino (pietra vulcanica dei colli Albani) e il travertino (calcare ricavato a Tivoli e nella valle tiberina).

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EVENTI POLITICI E MILITARI 283 Guerra contro i galli senoni e fondazione di Senigallia. Tutta l'Italia centrale è romana. 281 Sul Mediterraneo orientale si stabiliscono le monarchie dei generali di Alessandro Magno: quella di Macedonia, quella dell'Asia anteriore e quella dell'Egitto, quest'ultima sotto la stirpe dei Tolomei. 280-273 Guerra tarantina: 280, prima vittoria di Pirro a Eraclea; 279, seconda vittoria di Pirro ad Ascoli Satriano. Episodio di Cainea e di Appio Claudio Cieco; 278-76, guerra di Pirro in Sicilia in difesa delle colonie greche contro Cartagine; 275, Pirro viene sconfitto a Benevento; 272, caduta di Taranto; 270, i romani conquistano Reggio. Il loro dominio viene ad estendersi così per 130.000 chilometri quadrati, con una popolazione di oltre tre milioni e mezzo e la possibilità di reclutare in armi trecentomila uomini. 264-241 Prima guerra punica: 260, vittoria romana di Caio Duilio nella battaglia navale di Milazzo; 256, i romani sbarcano in Africa; 255, il corpo di spedizione viene sconfitto dal generale spartano Santippo, comandante dell'esercito di Cartagine; 249, sconfitta romana in battaglia navale davanti a Trapani e tentativi falliti di pace (episodio di Attilio Regolo); 242, vittoria romana di Lutazio Catulo alle isole Égadi. 238-233 La Corsica e la Sardegna diventano romane; vengono assoggettati i popoli liguri. 237 Cartagine conquista la Spagna. 225 I galli vengono definitivamente battuti a Talamone. 222 Conquista romana di Milano e fondazione delle colonie di Piacenza e Cremona.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI 287 Viene promulgata la lex Hortensia sulle prerogative dei tribuni della plebe e il riconoscimento delle deliberazioni dei comizi plebei (che fino allora avevano richiesto la sanzione del senato). É la più democratica delle riforme repubblicane. 280 Appío Claudio Cieco, contro le proposte dipace di Pirro, pronuncia la prima grande orazione ricordata dagli storici romani, dopo il leggendario apologo di Menenio Agrippa. 269 Si cominciano a coniare monete d'argento; la zecca è posta nel tempio di Giunone Moneta (cioè ammonitrice). 254 Nasce a Sarsina Tito Maccio Plauto, il più grande commediografo latino. Di lui restano venti commedie. 240 Livio Andronico presenta il primo dramma greco tradotto in latino. Da questo momento inizia tradizionalmente la letteratura romana. 239 ca. Nasce a Rudiae Quinto Ennio, autore degli, Annales, in cui sono usati per la prima volta i versi esametri dattilici. 235 Gneo Nevio fa rappresentare la sua prima opera drammatica. Successivamente compone il Bellum Punicum. 234-149 Si svolge la vita e l'opera di Marco Porcio Catone il Censore, autore delle perdute Origines, la prima o pera storica in latino, di orazioni e del trattato di Agricoltura rimasto. 221 Il censore C. Flaminio costruisce il circo Flaminio. Sorgeva sotto l'attuale palazzo Cenci.

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EVENTI POLITICI E MILITARI 219 Il generale cartaginese Annibale Barca conquista e distrugge Sagunto, città sull'Ebro alleata di Roma. 218-201 Seconda guerra punica: 218, Annibale attraversa le Alpi e batte i romani al Ticino e alla Trebbia; 217, i romani sono nuovamente sconfitti presso il lago Trasimeno. Nominato dittatore, Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore trattiene Annibale lontano da Roma; 216, 2 agosto, Annibale infligge ai romani, presso Canne di Puglia, la più terribile disfatta della loro storia. Tuttavia si ritira a Capua; 216-204, Annibale attende inutilmente rinforzi da Cartagine per riprendere la guerra; 212, i romani conquistano Siracusa (morte di Archimede); 211, riconquistano Capua; 207, un esercito cartaginese, comandato da Asdrubale, fratello di Annibale, scende in Italia ma viene fermato e distrutto sul Metauro da Livio Salinatore e Claudio Nerone; 215-205, guerra e pace con Filippo V di Macedonia, alleato di Annibale; 204, Scipione porta l'esercito in Africa e Annibale è così costretto a lasciare l'Italia; 202, Annibale viene battuto da Scipione a Zama; 201, pace con Cartagine. Roma è padrona del Mediterraneo centro-occidentale. 197 Vittoria romana a Cinocefale contro Filippo V di Macedonia. 196 Il console Flaminino annuncia la libertà alle città greche durante i giochi istmici nello stadio di Corinto Rivolta di schiavi in Etruria 195-190 Guerra contro Antioco III di Siria (battaglia di Magnesia, 190). Roma è padrona dell'intero Mediterraneo. 186 Nuova rivolta di schiavi in Apulia.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI 220 ca. Caio Flaminio conduce a termine la via Flaminia che da Roma raggiunge l'Adriatico a Fano e termina a Rimini, nel punto dove poi sarebbe sorto il rimasto Arco di Augusto e avrebbe preso inizio la via Emilia. 220 Nasce a Brindisi Pacuvio, pittore e autore di tragedie andate,perdute. III-II secc. Fiorisce il mimo, che acquisterà dignità letteraria al tempo di Cesare. L. Cincio Alimento scrive in greco una storia di Roma andata perduta. Risale a questi anni anche la storia di Roma di Quinto Fabio Pittore, pure in greco e pure andata perduta. II sec. Fiorisce in Roma il circolo ellenistico degli Scipioni, intorno a Scipione Emiliano e a Caio Lelio; lo frequentano il filosofo greco Panezio, lo storico greco Polibio e lo scrittore di satire Lucilio. Si comincia a usare nelle costruzioni la tecnica del getto di cemento (malta di calce e pozzolana). Il censore Marco Emilio Scauro costruisce il ponte Milvio. 195 (o 185) - ? Vive e opera il poeta comico Publio Terenzio Afro, di cui avanzano sei commedie; è considerato il capostipite del teatro borghese. 187 Emilio Lepido costruisce la via Emilia, da Rimini fino a Piacenza, poi prolungata a est verso Aquileia -e a ovest fino ad Aosta. 180 (o 148) Nasce a Suessa Aurunca Gaio Lucilio, iniziatore della satira latina.

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EVENTI POLITICI E MILITARI 171-168 Guerra contro Pèrseo di Macedonia (figlio di Filippo V) e sua disfatta a Pidna. 149-146 Terza guerra punica. Cartagine è presa, distrutta e i cartaginesi dispersi nei mercati di schiavi. 148 La Macedonia diventa provincia romana. 146 Corinto è distrutta e la Grecia diventa provincia romana col nome di Acaia.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI 179 Emilio Lepido comincia la costruzione dei ponte Emilio, primo ponte in pietra, poi rovinato. Oggi ponte Rotto. 170 Nasce a Pesaro Lucio Accio, autore di tragedie andate perdute. 160 Polibio di Megalopoli (202-120), il grande storico greco, comincia a scrivere le Storie, grandioso affresco in quaranta libri (ne avanzano cinque) sulle vicende di Roma dalla prima alla terza guerra punica. 146 Viene aperta la via Egnazia, da Durazzo a Tessalonica.

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CAPITOLO PRIMO

AB URBE CONDITA NON sappiamo con precisione quando aRoma furono istituite le prime scuole

regolari, cioè “statali”. Plutarco dice che. nacquero verso il 250 avanti Cristo, cioè circa cìnquecent’anni dopo la fondazione della città. Fino a quel momento i ragazzi romani erano stati educati in casa, i più poveri dai genitori, i più ricchi da magistri, cioè da maestri, o istitutori, scelti di solito nella categoria dei liberti, gli schiavi liberati, che a loro volta erano scelti fra i prigionieri di guerra, e preferibilmente fra quelli di origine greca, che erano i più colti.

Sappiamo però con certezza che dovevano faticare meno di quelli di oggi. Il latino lo sapevano già. Se avessero dovuto studiarlo, diceva il poeta tedesco Heine, non avrebbero mai trovato il tempo di conquistare il mondo. E quanto alla storia della loro patria, gliela raccontavano press’a poco così:

Quando i greci di Menelao, Ulisse e Achille conquistarono Troia, nell’Asia Minore, e la misero a ferro e a fuoco, uno dei pochi difensori che si salvò fu Enea, fortemente “raccomandato” (certe cose usavano anche a quei tempi) da sua madre, ch’era nientepopodimeno che la dea Venere-Afrodite. Con una valigia sulle spalle, piena delle immagini dei suoi celesti protettori, fra i quali naturalmente il posto d’onore toccava alla sua buona mamma, ma senza una lira in tasca, il poveretto si diede a girare il mondo, a casaccio. E dopo non si sa quanti anni di avventure e disavventure, sbarcò, sempre con quella sua valigia sul groppone, in Italia, prese a risalirla verso nord, giunse nel Lazio, vi sposò la figlia del re Latino, che si chiamava Lavinia, fondò una città cui diede il nome della moglie, e insieme a costei visse felice e contento tutto il resto dei suoi giorni.

Suo figlio Ascanio fondò Alba Longa, facendone la nuova capitale. E dopo otto generazioni, cioè a dire qualche duecento anni dopo l’arrivo di Enea, due suoi discendenti, Numitore e Amulio, erano ancora sul trono del Lazio. Purtroppo sui troni in due ci si sta stretti. E così un giorno Amulio scacciò il fratello per regnare da solo, e gli uccise tutti i figli, meno una: Rea Silvia. Ma, perché non mettesse al mondo qualche figliolo cui potesse, da grande, saltare il ticchio di vendicare il nonno, la obbligò a diventare sacerdotessa della dea Vesta, vale a dire monaca.

Un giorno Rea, che probabilmente aveva una gran voglia di marito e si rassegnava male all’idea di non potersi sposare, prendeva il fresco in riva al fiume perché era un’estate maledettamente calda, e si addormentò. Per caso in quei paraggi passava il dio Marte che scendeva sovente sulla terra, un po’ per farvi qualche guerricciola, ch’era il suo mestiere abituale, un po’ per cercare delle ragazze, ch’era la sua passione favorita. Vide Rea Silvia. Se ne innamorò. E senza nemmeno svegliarla, la rese incinta. Amulio, quando lo seppe, si arrabbiò moltissimo. Ma non la uccise. Aspettò ch’essa partorisse non uno, ma due ragazzini gemelli. Poi li fece caricare su una microscopica zattera che affidò al fiume perché se li portasse, sul filo della corrente, fino al mare, e lì li lasciasse affogare. Ma non aveva fatto i conti col vento, che quel giorno spirava abbastanza forte, e che condusse la fragile imbarcazione a insabbiarsi poco lontano, in aperta campagna. Qui i due derelitti, che piangevano rumorosamente, richiamarono l’attenzione di una lupa che corse ad allattarli. Ed è perciò che quella bestia è diventata il simbolo di Roma, che dai due gemelli poi fu fondata.

I maligni dicono che quella lupa non era affatto una bestia, ma una donna vera, Acca Larentia, chiamata Lupa per via del suo carattere selvatico e delle molte infedeltà che

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faceva a suo marito, un povero pastore, andandosene a far l’amore nel bosco con tutti i giovanotti dei dintorni. Ma forse non sono che pettegolezzi.

I due gemelli succhiarono il latte, poi passarono alle pappine, poi misero i primi denti, ricevettero il nome l’uno di Romolo, l’altro di Remo, crebbero, e alla fine seppero la loro storia. Allora tornarono ad Alba Longa, organizzarono una rivoluzione, uccisero Amulio, rimisero sul trono Numitore. Eppoi, impazienti di far qualcosa di nuovo come tutti i giovani, invece di aspettare un regno bell’e fatto ‘ dal nonno, che certamente gliel’avrebbe lasciato, andarono a costruirsene uno nuovo un po’ più in là. E scelsero il punto in cui la loro zattera si era arenata, in mezzo alle colline fra cui scorre il Tevere, quando sta per sfociare in mare. Qui, come spesso succede tra fratelli, litigarono sul nome da dare alla città. Poi decisero che avrebbe vinto chi avesse visto più uccelli. Remo, sull’Aventino, ne vide sei. Romolo, sul Palatino, ne vide dodici: la città si sarebbe dunque chiamata Roma. Aggiogarono due bianchi buoi, scavarono un solco, e costruirono le mura giurando di uccidere chiunque le oltrepassasse. Remo, di malumore per la sconfitta, disse che erano fragili e ne ruppe un pezzo con un calcio. E Romolo, fedele al giuramento, lo accoppò.con un colpo di badile.

Tutto ciò, dicono, avvenne settecentocinquantatre anni prima che Cristo nascesse, esattamente il 21 aprile, che tuttora si festeggia come il compleanno della città, nata, come si vede, da un fratricidio. I suoi abitanti ne fecero l’inizio della storia del mondo, fin quando l’avvento del Redentore non ebbe imposto un’altra contabilità.

Forse anche i popoli vicini facevano altrettanto: ognuno di, essi datava la storia del mondo dalla fondazione della propria capitale, Alba Longa, Rieti, Tarquinia, o Arezzo che fosse. Ma non riuscirono a farselo riconoscere dagli altri, perché commisero il piccolo errore di perdere la guerra, anzi le guerre. Roma invece le vinse. Tutte. Il podere di pochi ettari che Romolo e Remo si tagliarono con l’aratro fra le colline del Tevere diventò nello spazio di pochi secoli il centro del Lazio, poi dell’Italia, poi di.tutta la terra allora conosciuta. E in tutta la terra allora conosciuta si parlò la sua lingua, si rispettarono le sue leggi, e si contarono gli anni ab urbe condita, cioè da quel famoso 21 aprile del 753 avanti Cristo, inizio della storia di Roma e della sua civiltà.

Naturalmente le cose non erano andate precisamente così. Ma così i babbi romani per molti secoli vollero che venissero raccontate ai loro figli: un po’ perché ci credevano essi stessi, un po’ perché, gran patrioti, li lusingava molto il fatto di poter mescolare gli dèi influenti come Venere e Marte, e delle personalità altolocate come Enea, alla nascita della loro Urbe. Essi sentivano oscuramente ch’era molto importante allevare i loro ragazzi nella convinzione di appartenere a una patria costruita col concorso di esseri soprannaturali, che certamente non vi si sarebbero prestati se non avessero inteso assegnarle un grande destino. Ciò diede un fondamento religioso a tutta la vita di Roma, che infatti crollò quando esso venne meno. L’Urbe fu caput mundi, capitale del mondo, finché i suoi abitanti seppero poche cose e furono abbastanza ingenui da credere in quelle, leggendarie, che avevano loro insegnato i babbi e i magistri; finché furono convinti di essere i discendenti di Enea, di avere nelle loro vene sangue divino e di essere “unti del Signore” anche se a quei tempi si chiamava Giove. Fu quando cominciarono a dubitarne che il loro Impero andò in frantumi e il caput mundi diventò una colonia. Ma non precipitiamo.

Nella bella favola di Romolo e Remo, forse non tutto è favola. Forse c’è anche qualche elemento di verità. Vediamo di sviscerarlo sulla base dei pochi dati abbastanza sicuri che l’archeologia e l’etnologia ci hanno fornito.

Già trentamila anni prima della fondazione di Roma, pare che l’Italia fosse abitata dall’uomo. Che uomo fosse, i competenti dicono di averlo ricostruito da certi ossicini del suo scheletro trovati qua e là, e che rimontano alla cosìddetta “età della pietra”. Ma noi ci

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fidiamo poco di queste induzioni, e quindi saltiamo a piè pari a un’èra molto più vicina, quella “neolitica” di qualcosa come ottomila anni fa, cioè cinquemila prima di Roma. Pare che la nostra penisola fosse allora popolata da certi liguri a nord e siculi a sud, gente con la testa a forma di pera, che viveva un po’ in caverna, un po’ in capannucce rotonde, fatte di sterco e di fango, addomesticava animali e si nutriva di caccia e di pesca. Facciamo ancora un salto di quattromila anni, cioè arriviamo al 2000 avanti Cristo. Ed ecco che dal Settentrione, cioè dalle Alpi, giungono altre tribù, chissà da quanto tempo in marcia dalla loro patria di origine: l’Europa centrale. Costoro non sono molto più progrediti degli indigeni con la testa a pera; ma hanno l’abitudine di costruire le loro abitazioni non in caverna sibbene su travi immerse nell’acqua, le cosìddette “palafitte”. Vengono, si vede, da posti acquitrinosi, e infatti, arrivati da noi, scelgono la regione dei laghi, quello Maggiore, quello di C omo, quello di Garda, anticipando di qualche millennio il gusto dei turisti moderni. E introducono nel nostro paese alcune grandi novità: quella di allevare greggi, quella di coltivare il suolo, quella di tessere stoffe e quella di circondare i loro villaggi con bastioni di mota e di terra battuta per difenderli tanto dagli attacchi degli animali quanto da quelli degli uomini. Piano piano cominciarono a scendere verso il sud, si abituarono a costruire capanne anche sull’asciutto, ma sempre puntellandole su palafitte; impararono, da certi loro cugini, pare, installatisi in Germania, l’uso del ferro con cui si fabbricarono un sacco di aggeggi nuovi, asce, coltelli, rasoi, eccetera, e fondarono una città vera e propria, che si chiamò Villanova, e che doveva trovarsi nei pressi di quella che oggi è Bologna. Fu questo il centro di una civiltà che si chiamò appunto “villanoviana” e che piano piano dilagò in tutta la penisola. Da essa si crede che derivino, come razza,, come lingua, come costumi, gli umbri, i sabini e i latini.

Cosa facessero degl’indigeni liguri e siculi questi villanoviani, quando si stabilirono nelle terre a cavalcioni - del Tevere, non si sa. Forse li sterminarono, come si usava a quei tempi cosìddetti “barbari” per distinguerli da» quelli nostri in cui si fa altrettanto sebbene si chiamino “civili”; forse vi si mescolarono dopo averli sottomessi. Fatto si è che, verso il 1000 avanti Cristo, tra la foce del Tevere e la baia di Napoli, i nuovi venuti fondarono molti villaggi che, sebbene abitati da gente del medesimo sangue, si facevano guerra tra loro e non si rappacificavano che di fronte a qualche comune nemico o in occasione di qualche festa religiosa.

La più grande e potente di queste cittadine fu Alba Longa, capitale del Lazio, ai piedi del monte Albano, che corrisponde probabilmente a Castel Gandolfo. E albalongani si ritiene che fossero quel pugno di avventurosi giovanotti che un bel giorno emigrarono qualche decina di chilometri più al nord, e fondarono Roma. Forse erano dei braccianti, che andavano cercando un po’ di terra da appropriarsi e da coltivare. Forse erano dei poco di buono che avevano qualche conto da regolare con la polizia e i tribunali della loro città. Forse erano degli emissari mandati dal loro governo a sorvegliare quel punto, al confine con la Toscana, sulle cui coste era proprio allora sbarcata una nuova popolazione, gli etruschi, che non si sapeva da che parte del mondo venissero, ma di cui si dicevano peste e coma. E forse tra questi pionieri ce n’erano davvero due che si chiamavano uno Romolo e l’altro Remo. Comunque, non dovevano essere più di un centinaio.

Il posto che scelsero aveva molti vantaggi e molti svantaggi. Era a una ventina di chilometri dal mare, e questo andava benissimo per tenersi al riparo dai pirati che lo infestavano, senza rinunziare a farne un porto: perché dalle imbarcazioni di quel tempo, il braccio di fiume che lo separava dalla foce era facilmente navigabile. Ma gli stagni e gli acquitrini che lo circondavano lo condannavano alla malaria, malanno che ha battuto alle sue porte sino a pochi anni orsono. Però c’erano le colline, che almeno in parte pro-

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teggevano gli abitanti dalle zanzare. E infatti fu su una di esse, il Palatino, che dapprima si acquartierarono, col proposito di popolare in seguito anche le altre sei che stavano tutt’attorno.

Ma per popolarle, occorreva fare dei figli. E per fare dei figli, occorrevano delle mogli. E quei pionieri erano scapoli.

Qui, in mancanza di storia, dobbiamo per forza tornare alla leggenda, che ci racconta come fece Romolo, o comunque si chiamasse il capoccione di quei tipacci, a procurar donne a sé e ai suoi compagni. Indisse una grande festa, forse con la scusa di celebrare la nascita della sua città, e invitò a prendervi parte i vicini di casa sabini (o quiriti), col loro re, Tito Tazio, e soprattutto le loro figlie. I sabini vennero. Ma, mentre erano intenti a gareggiare nelle corse a piedi e a cavallo, ch’era il loro sport preferito, molto poco sportivamente i padroni di casa rubaron loro le ragazze e li buttarono fuori a pedate.

I nostri antichi erano molto sensibili alle questioni di donne. Poco prima, il ratto di una, Elena, era costato una guerra durata dieci anni e finita con la distruzione di un grande regno: quello di Troia. I romani ne rapirono a dozzine, ed è quindi naturale che il giorno dopo dovessero far fronte ai loro babbi e fratelli, tornati in armi per recuperarle. Si asserragliarono sul Campidoglio, ma commisero l’imperdonabile errore di affidare le chiavi della fortezza che vi montava la guardia a Tarpeia, una ragazza romana che dicono fosse innamorata di Tito Tazio. Costei aprì una porta agl’invasori. I quali, gente cavalleresca e quindi refrattaria a tutti i tradimenti, compresi quelli perpetrati in loro favore, la com-pensarono schiacciandola sotto i loro scudi. I romani più tardi diedero il suo nome alla rupe dalla quale solevano precipitare i traditori della patria condannati a morte.

Tutto finì in un pantagruelico banchetto nuziale. Perché le altre donne, in nome delle quali la battaglia si era accesa, a un certo punto s’interposero fra i due eserciti e dichiararono che non intendevano restare orfane, come sarebbe successo se i loro mariti romani avessero vinto, o vedove, come sarebbe successo se avessero vinto i loro babbi sabini. E ch’era ora di finirla perché con quegli sposi, sebbene spicciativi e maneschi, s’eran trovate benissimo. Meglio valeva regolarizzare i matrimoni, invece di continuare a scannarsi. E così fu. Romolo e Tazio decisero di governare insieme, ambedue col titolo di re, quel nuovo popolo nato dalla fusione delle due tribù, di cui portò congiuntamente il nome: romani quiriti. E siccome Tazio, subito dopo, ebbe la compiacenza di morire, l’esperimento di regno a due quella volta andò bene.

Chissà cosa c’è sotto a questa storia. Forse essa non è che la versione, suggerita dal patriottismo e dall’orgoglio, di una conquista di Roma da parte dei sabini. Ma può anche darsi che i due popoli si siano davvero volontariamente mescolati e che il famoso ratto fosse soltanto la normale cerimonia del matrimonio, come lo si celebrava allora, cioè col furto della sposa da parte dello sposo, ma col consenso del padre di lei, come si fa ancora presso certi popoli primitivi.

Se così fu veramente, è probabile che questa fusione fosse, più che suggerita, imposta dal pericolo di un nemico comune: quegli etruschi che frattanto, dalla costa tirrenica, si erano sparpagliati in Toscana e in Umbria e, armati di una tecnica molto più progredita, premevano verso il Sud. Roma e la Sabina erano sulla direttrice di questa marcia e sotto diretta minaccia. Infatti non vi scamparono.

L’Urbe era appena nata, e già doveva vedersela con uno dei più difficili e insidiosi rivali di tutta la sua storia. Lo abbatte attraverso prodigi di diplomazia prima, di coraggio e di tenacia poi. Ma le occorsero dei secoli.

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CAPITOLO SECONDO

POVERI ETRUSCHI ALL’OPPOSTO dei romani d’oggi, che fanno tutto per scherzo, quelli dell’antichità

facevano tutto sul serio. E specialmente quando si mettevano in testa di distruggere un nemico, non solo gli muovevano guerra e non gli davano tregua prima di averlo sconfitto, anche a costo di rimetterci eserciti su eserciti e quattrini su quattrini; ma poi gli entravano in casa e non vi lasciavano pietra su pietra.

Un trattamento particolarmente severo riservarono agli etruschi, quando, dopo aver subito da loro molte umiliazioni, si sentirono abbastanza forti per poterli sfidare. Fu una lotta lunga e senza esclusione di colpi, ma al vinto non furono lasciati neanche gli occhi per piangere. Raramente si è visto nella storia un popolo scomparire dalla faccia della terra, e un altro cancellarne le tracce con si ostinata ferocia. E a questo si deve il fatto che di tutta la civiltà etrusca non è rimasto quasi più nulla. Non ne sopravvivono che alcune opere d’arte e qualche migliaio d’iscrizioni, di cui solo poche parole sono state decifrate.

Su questi scarsissimi elementi, ognuno ha ricostruito quel mondo a modo suo. Intanto, nessuno sa con precisione di dove questo popolo venisse. Dal modo come

si sono rappresentati essi stessi nei bronzi e nei vasi di terracotta, pare che avessero corpi più tracagnotti e crani più massicci dei vìllanoviani, e lineamenti che ricordano la gente dell’Asia Minore. Molti infatti sostengono che arrivarono da quelle contrade, per mare; e la cosa sarebbe confermata dal fatto che furono i primi, tra gli abitatori dell’Italia, ad avere una flotta. Certo, furono loro a dare il nome di Tirreno, che vuol dire appunto “etrusco”, al mare che bagna la costa della Toscana. Forse arrivarono in massa e sommersero la popolazione indigena, forse sbarcarono in pochi e si limitarono a sottometterla con le loro armi più progredite e la loro tecnica più sviluppata.

Che la loro civiltà fosse superiore a quella villanoviana è dimostrato dai crani che hanno trovato nelle tombe e che mostrano opere di protesi dentale abbastanza raffinata. I denti sono un gran segno, nella vita dei popoli. Essi si deteriorano con lo svilupparsi del progresso che rende più imperioso il bisogno di cure perfezionate. Gli etruschi conoscevano già il “ponte” per rinforzare i loro molari e i metalli che occorrevano per fabbricarlo. Infatti sapevano lavorare non solo il ferro che andarono a cercare, e trovarono, all’isola d’Elba e che trasformarono da greggio in acciaio; ma anche il rame, lo stagno e l’ambra.

Le città che si diedero subito a costruire nell’interno, Tarquinia, Arezzo, Perugia, Vejo, erano molto più moderne dei villaggi fondati dai latini, dai sabini e dalle altre popolazioni villanoviane. Tutte avevano dei bastioni per difendersi, delle strade e soprattutto le fogne. Seguivano, insomma, un “piano urbanistico”, come si direbbe oggi, rimettendo alla competenza degl’ingegneri, che erano per quei tempi bravissimi, ciò che gli altri lasciavano al caso e al capriccio degl’individui. Sapevano organizzarsi per lavori collettivi, di utilità generale, e lo. dimostrano i canali con cui bonificarono quelle contrade infestate dalla malaria. Ma soprattutto erano formidabili mercanti, attaccati ai soldi e pronti a qualunque sacrificio pur di moltiplicarli. I romani ignoravano ancora cosa ci fosse dietro il Soratte, montagnola poco discosta dalla loro città, che gli etruschi già erano arrivati in Piemonte, Lombardia e Veneto, avevano varcato a piedi le Alpi e, risalendo il Rodano e il Reno, avevano portato i loro prodotti sui mercati francesi, svizzeri e tedeschi per scambiarli con quelli locali. Furono loro a portare in Italia come mezzo di scambio la moneta, che i

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romani poi copiarono, tanto è vero che vi lasciarono incisa la prua di una nave prima di averne mai costruita una.

Erano gente allegra, che prendeva la vita dal lato più piacevole; e per questo alla fine persero la guerra contro i malinconici romani che la prendevano dal lato più austero. Le scene riprodotte sui loro vasi e sepolcri ci mostrano uomini ben vestiti con quella toga, che poi i romani copiarono facendone il loro costume nazionale, lunghi capelli e barbe inanellate, molti gioielli al polso, al collo, ai diti, e sempre intesi a bere, a mangiare e a conversare, quando non lo erano a praticare qualcuno dei loro esercizi sportivi.

Questi consistevano soprattutto nella boxe, nel lancio del disco e del giavellotto, nella lotta e in altre due manifestazioni che noi crediamo, a torto, squisitamente moderne e forestiere: il polo e la corrida. Naturalmente le regole di questi giuochi erano diverse da quelle che si usano oggi. Ma sin da allora lo spettacolo della lotta fra il toro e l’uomo nell’arena era considerato di pregio, tanto è vero che chi moriva se ne voleva portare nella tomba qualche scena-ricordo dipinta sui vasi, per continuare a divertircisi anche nell’aldilà.

Un gran passo avanti rispetto agli arcaici e patriarcali costumi romani e degli altri indigeni, era la condizione della donna, che presso gli etruschi godeva di gran libertà, e infatti viene rappresentata in compagnia dei maschi, partecipe dei loro divertimenti. Pare che fossero donne molto belle e di liberissimi costumi. Nei dipinti appaiono ingioiellate, asperse di cosmetici e senza troppe preoccupazioni di pudore. Mangiano a crepapelle e bevono a garganella, distese coi loro uomini su ampi sofà. Oppure suonano il flauto, o danzano. Una di loro, che poi diventò molto importante a Roma, Tanaquilla, era una intellettuale”, che la sapeva lunga di matematica e di medicina. Il che vuol dire che, a differenza delle loro colleghe latine, condannate alla più nera ignoranza, andavano a scuola e studiavano. I romani, ch’erano gran moralisti, chiamavano “toscane”, cioè etrusche, tutte le donne di facili costumi. E in una commedia di Plauto c’è una ragazza accusata di seguire il “costume toscano” perché fa la prostituta.

La religione, che è sempre la proiezione della morale di un popolo, era centrata su un dio di nome Tinia, che esercitava il suo potere col fulmine e il tuono. Egli non governava direttamente gli uomini, ma affidava i suoi ordini a una specie di gabinetto esecutivo, composto di dodici grandi dèi, così grandi ch’era sacrilegio perfino pronunciarne il nome. Asteniamocene quindi anche noi, per non confondere la testa di chi ci legge. Tutti insieme costoro formavano il gran tribunale dell’aldilà, dove i “genii”, specie di commessi o di guardie municipali, conducevano le anime dei defunti, appena avevano abbandonato i loro rispettivi corpi. E li cominciava un processo in piena regola. Chi non riusciva a dimostrare di aver vissuto secondo i precetti dei giudici, era condannato all’inferno, a meno che i parenti e gli amici rimasti in vita non facessero per lui tante preghiere e sacrifici da ottenerne l’assoluzione.

E in questo caso veniva assunto in paradiso, per continuare a godervi quei terrestri piaceri a base di bevute, mangiate, cazzotti e canzonette, di cui s’era fatto scolpire le allegre scene sul sepolcro.

Ma del paradiso gli etruschi pare che parlassero poco e di rado, lasciandolo piuttosto nel vago. Forse troppo pochi ce ne andavano, per saperne qualcosa di preciso. Quello su cui erano informatissimi era l’inferno, di cui conoscevano, uno per uno, tutti i tormenti che vi si soffrivano. Evidentemente i loro preti pensavano che, per tenere in riga la gente, valevano più le minacce della dannazione che le speranze dell’assoluzione. E questo modo dì veder le cose si è perpetuato sino in tempi più recenti, sino a quelli di Dante che, nato in Etruria anche lui, è rimasto dello stesso parere e sull’inferno ha scialato molto più che sul paradiso.

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Con questo non dobbiamo credere che gli etruschi fossero fiorellini di gentilezza. Ammazzavano con relativa facilità, e sia pure con la buona intenzione di offrire in sacrificio la vittima per la salvezza di qualche amico o parente. Soprattutto i prigionieri di guerra erano adibiti a questa bisogna. Trecento romani, catturati in una delle tante battaglie che si combatterono fra i due eserciti, furono uccisi per lapidazione a Tarquinia. E sul loro fegato ancora palpitante di vita gl’indovini cercarono di determinare i futuri eventi della guerra. Evidentemente non ci riuscirono, altrimenti l’avrebbero smessa subito. Ma l’uso era frequente, anche se in genere ci si serviva delle viscere di qualche animale, pecora o toro che fosse, e i romani lo copiarono.

Politicamente, le loro sparse città non riuscirono mai a unirsi, e purtroppo non ce ne fu nessuna abbastanza forte per tenere in pugno le altre, come fece Roma con le rivali latine e sabine. Ci fu una federazione dominata da Tarquinia, ma non venne a capo delle tendenze separatiste. I dodici piccoli stati che ne facevano parte, invece di unirsi contro il comune nemico, si lasciarono battere e fagocitare da esso uno per uno. La loro diplomazia era come quella di certe moderne nazioni europee che preferiscono morire da sole piuttosto che vivere insieme.

Tutto questo è stato ricostruito, a furia d’induzioni, dai resti dell’arte etrusca che sono giunti sino a noi e che costituiscono la sola eredità lasciataci da quel popolo. Si tratta specialmente di vasi e di bronzi. Fra i vasi ce ne sono di belli, come “l’Apollo di Veio”, detto anche “Apollo che cammina”, di terracotta policroma, che denunzia nei coroplasti etruschi una grande perizia tecnica e un gusto raffinato. Sono quasi sempre d’imitazione greca e, salvo qualche raro esemplare come il “bucchero nero”, non ci sembrano gran che.

Ma per quanto scarsi siano questi resti, bastano a farci capire come i romani, una volta ch’ebbero sopraffatto gli etruschi, dopo essere andati per un pezzo a scuola da loro e averne subito la superiorità soprattutto nel campo tecnico e organizzativo, non solo li distrussero, ma cercarono di cancellare ogni traccia della loro civiltà. La consideravano malata e corruttrice. Copiarono da essa tutto quello che faceva loro comodo. Mandarono alle scuole di Vejo e di Tarquinia i loro ragazzi per addottorarli specialmente in medicina e ingegneria. Imitarono la toga. Adottarono l’uso della moneta. E forse presero a prestito anche l’organizzazione politica, che però gli etruschi ebbero in comune con tutti gli altri popoli dell’antichità e che passò, anche in casa loro, da un regime monarchico ad.uno repubblicano, retto da un lucumone, magistrato elettivo, e infine a una forma di democrazia dominata dalle classi ricche. Ma i propri costumi, stoici e sani, basati sul sacrificio e sulla disciplina sociale, Roma volle preservarli dalle mollezze di quelli etruschi. Istintivamente sentì che vincere in guerra il nemico e occuparne le terre non bastava,, se poi gli si dava il destro di contaminare le case del padrone, assumendovelo in qualità di schiavo o di precettore, come si usava a quei tempi coi vinti. E lo distrusse. E ne volle sepolti tutti i do-cumenti e monumenti.

Questo però successe molto tempo dopo che il primo contatto venisse stabilito fra i due popoli, i quali s’incontrarono appunto a Roma, quando vi giunsero gli albalongani e vi trovarono, a quanto pare, già installata una piccola colonia etrusca, che aveva dato al sito un nome di casa sua. Sembra infatti che “Roma” venga da “Rumon” che in etrusco vuol dire “fiume”. E se questo è vero, bisogna dedurne che la prima popolazione dell’Urbe fu formata non soltanto di latini e di sabini, popoli dello stesso sangue e dello stesso ceppo, come lascerebbe credere la storia del famoso “ratto”, ma anche di etruschi, gente di tutt’altra razza e lingua e religione. Anzi, secondo certi storici, etrusco sarebbe stato lo stesso Romolo. E comunque fu certamente etrusco il rito con cui fondò la città, scavando il solco con un aratro trascinato da un toro e da una giovenca bianchi, dopo che dodici uccelli di buon augurio avevano volteggiato sulla sua testa.

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Senza Volerci mettere in concorrenza coi competenti che da secoli vanno discutendo di queste faccende e non riescono a mettersi d’accordo, diremo quella che ci sembra la più probabile di tutte le versioni.

Gli etruschi, che avevano la passione del turismo e del commercio, avevano già fondato un piccolo villaggio sul Tevere, quando latini e sabini vi giunsero. E questo villaggio doveva servire da stazione di smistamento e di rifornimento per le loro linee di navigazione verso il Sud. Qui, e specialmente in Campania, avevano già impiantato ricche colonie: Capua, Nola, Pompei, Ercolano, dove le popolazioni locali che si chiamavano sannite e ch’erano di origine villanoviana anch’esse, venivano a scambiare i loro prodotti agricoli con quelli industriali in arrivo dalla Toscana. Era difficile, da Arezzo o da Tarquinia, giungere fin laggiù via terra. Mancavano le strade e la regione era infestata da belve e da banditi. Molto più facile, visto ch’eran gli unici a possedere una flotta, era per gli etruschi venirci via mare. Ma il viaggio era lungo, richiedeva intere settimane. Le navi, grandi come gusci di noce, non potevano imbarcare molti rifornimenti per gli uomini, e avevano bisogno di porti, lungo la strada, dove provvedersi di farina e d’acqua per il resto del tragitto. La foce del Tevere, giusto a metà del percorso, forniva una comoda baia per riempire le stive vuote, e per di più, navigabile com’era a quei tempi, offriva anche un comodo mezzo per risalire nell’interno e combinare qualche affaruccio coi latini e sabini che lo abitavano. La contrada era costellata non si sa se d’una trentina o d’una settantina di borghi, ognuno dei quali rappresentava un piccolo mercato di scambio. Non che vi si potessero fare grandi affari perché il Lazio, a quei tempi, non era ricco che di legname per via (chi lo direbbe, oggi?) dei suoi meravigliosi boschi. Per il resto, non produceva neanche frumento, ma soltanto farro, e un po’ di vino e di olive. Ma gli etruschi, pur di far quattrini, si contentavano del poco, e il vizio gli è rimasto.

Per questo fondarono Roma, chiamandola così o con un altro nome, ma senza dare troppa importanza alla cosa. Chissà quante ce n’erano, di Rome, scaglionate lungo la costa tirrenica fra Livorno e Napoli. E ci misero, a badarvi, una guarnigione di marinai e di mercanti che forse consideravano quel trasferimento un castigo. Dovevano tenere in ordine soprattutto il cantiere per le riparazioni delle navi danneggiate dalle tempeste, e i magazzini per rifornirle.

Poi, un bel giorno, presero ad arrivare a gruppetti i latini e i sabini, un po’ forse perché in casa cominciavano a stare stretti, un po’ perché anch’essi avevano voglia di commerciare con gli etruschi, dei cui prodotti erano bisognosi. Che avessero già allora un piano strategico di conquista dell’Italia prima, e del mondo poi, e che per questo ritenessero indispensabile la posizione di Roma, son fantasie degli storici d’oggi. Quei latini e sabini erano degli zoticoni di stoffa contadina, per i quali la geografia si riassumeva nell’orto di casa.

É probabile che questi nuovi arrivati siano venuti alle mani tra loro. Ma è altrettanto probabile che poi, invece di distruggersi a vicenda, si siano alleati, per fare fronte agli etruschi che dovevano guardarli un po’ come gl’inglesi guardano gl’indigeni, nelle loro colonie. Davanti a quella gente forestiera che li trattava dall’alto in basso e che parlava un idioma a loro incomprensibile, dovettero accorgersi di essere fratelli, accomunati dallo stesso sangue, dalla medesima lingua e dalla identica miseria. E per questo misero in comune il poco che avevano: le donne. Il famoso ratto non è probabilmente che il simbolo di questo accordo, dal quale è naturale che gli etruschi siano rimasti esclusi, ma di propria volontà. Essi si sentivano superiori e non volevano mescolarsi con quella plebaglia.

La divisione razziale continuò almeno cento anni, durante i quali latini e sabini, ormai fusi nel tipo romano, dovettero ingoiare parecchi rospi. Quando, dopo Tarquinio il Superbo che fu l’ultimo re, essi presero il sopravvento, la vendetta fu indiscriminata. E

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forse l’accanimento che misero a distruggere l’Etruria non solo come stato, ma anche come civiltà, gli fu ispirato appunto dalle umiliazioni che dagli etruschi avevano subito anche in patria. E di essi vollero epurare tutto, perfino la storia, dando un certificato di nascita latino anche a Romolo che forse lo aveva etrusco e facendo risalire all’unione coi sabini l’origine della città.

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CAPITOLO TERZO

I RE AGRARI QUANDO Romolo morì, molti anni dopo aver seppellito Tito Tazio, i romani

dissero ch’era stato il dio Marte a rapirlo e a condurlo in cielo per trasformarlo in dio, il dio Quirino. E come tale d’allora in poi lo venerarono, come fanno oggi i napoletani con san Gennaro.

A lui successe, come secondo re di Roma, Numa Pompilio, che la tradizione ci dipinge mezzo filosofo e mezzo santo, come lo fu, parecchi secoli dopo, Marco Aurelio. Quelle che più lo interessavano erano le questioni religiose. E siccome in questa materia ci doveva essere una grossa anarchia perché ognuno dei tre popoli venerava i propri dèi, fra i quali non si riusciva a capire chi fosse il più importante, Numa decise di mettervi ordine. E per imporlo, quest’ordine, ai suoi riottosi sudditi, fece spargere la notizia che ogni notte, mentre dormiva, la ninfa Egeria veniva a visitarlo in sogno dall’Olimpo per trasmetterglie-ne direttamente le istruzioni. Chi vi avesse disobbedito, non era col re, uomo fra gli uomini, che avrebbe dovuto vedersela, ma col Padreterno in persona.

Lo stratagemma può sembrare infantile, ma anche oggi seguita ad attaccare, di quando in quando. In pieno secolo ventesimo, Hitler, per farsi obbedire dai tedeschi, non seppe escogitarne uno migliore, E ogni tanto scendeva dalla montagna di Berchtesgaden con qualche nuovo ordine del buon Dio in tasca: quello di sterminare gli ebrei, per esempio, o di distruggere la Polonia. E il bello è che, a quanto pare, ci credeva anche lui. L’umanità, in queste faccende, non ha molto progredito, dai tempi di Numa.

Tuttavia anche in questa leggenda forse c’è un fondo di vero, o almeno un’indicazione che ci permette di ricostruirlo. Quali che siano stati i loro nomi e la loro origine, quelli dell’antichissima Roma, più che re veri e propri, dovettero essere dei papi, come del resto lo era l”arconte Basileo” ad Atene.

Tutte le autorità, a quei tempi, erano puntellate soprattutto sulla religione. Il potere dello stesso pater familias, o capo di casa, sulla moglie, sui fratelli minori, sui figli, sui nipoti, sui servi, era più che altro quello di un alto sacerdote cui il buon Dio aveva delegato certe funzioni. E per questo era così forte. E per questo le famiglie romane erano così disciplinate. E per questo ognuno sentiva tanto i propri doveri e li assolveva in pace e in guerra.

Numa, stabilendo un ordine.di precedenza fra i vari dèi che ognuno dei vari popoli che la formavano si era portato a Roma, compi forse un’opera politica fondamentale: quella che poi consentì ai suoi successori, Tullo Ostilio e Anco Marzio, di condurre il popolo unito alle guerre vittoriose contro - le città rivali della contrada. Ma, come poteri - politici veri e propri, non doveva averne molti, perché quelli più grandi e decisivi restavano nelle mani del popolo che lo eleggeva ed a cui doveva sempre rispondere.

Questo, di per sé, non vorrebbe dir nulla, perché in tutti i tempi e sotto qualsiasi regime, chi comanda dice di farlo in nome del popolo. Ma a Roma non si trattò di chiacchiere, almeno fino alla dinastia dei Tarquini, i quali del resto persero il trono appunto perché vollero starci seduti come padroni invece che come “delegati”. E la divisione del comando era fatta press’a poco così.

La città era divisa in tre tribù: quella dei latini, quella dei sabini, quella degli etruschi. Ogni tribù era divisa in dieci curie, o quartieri. Ogni curia in dieci gente, o casate. Ogni casata era divisa in famiglie. Le curie si riunivano in genere due volte all’anno, e in queste occasioni facevano il comizio curiato, che fra le altre cose si occupava anche

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dell’elezione del re, quando uno moriva. Tutti avevano il medesimo diritto di voto. La maggioranza decideva. Il re eseguiva.

Era la democrazia assoluta senza classi sociali, e funzionò finché Roma fu un piccolo pacifico villaggio abitato da poca gente che di rado metteva la testa fuor delle mura. Poi gli abitanti crebbero, e crebbero anche le esigenze. Il re che dapprima, oltre a dir messa, cioè a celebrare i sacrifici e gli altri riti della liturgia, doveva anche applicare le leggi, cioè fare il giudice, non ebbe più il tempo di assolvere tutti questi compiti, e cominciò a nominare dei “funzionari” a cui affidarli. Così nacque la cosìddetta “burocrazia”. Colui ch’era stato soprattutto un prete, diventa vescovo, e designa dei parroci e curati che lo aiutino nelle funzioni religiose. Poi ha bisogno anche di chi provveda alle strade, al censo, al catasto, all’igiene, e nomina dei competenti che si occupino di queste faccende. Così nasce il primo “ministero”: il cosìddetto Consiglio degli Anziani o Senato, costituito da un centinaio di membri ch’erano discendenti, per diritto di primogenitura, dei pionieri venuti con Romolo a fondare Roma e che dapprima hanno soltanto il compito di consigliare il sovrano, ma poi diventano sempre più influenti.

E infine nasce, come stabile organizzazione, l’esercito, basato anch’esso sulla divisione nelle trenta curie, ognuna delle quali doveva fornire una centuria, cioè cento fanti, e una decuria, cioè dieci cavalieri col cavallo. Le trenta centurie e le trenta decurie, cioè tremilatrecento uomini, facevano tutte insieme la legione che fu il primo e unico corpo d’armata dell’antichissima Roma. Sui soldati il re, che ne era il comandante supremo, aveva diritto di vita o di morte. Ma anche questo potere militare non lo esercita in maniera assoluta e senza controllo. Egli dirige le operazioni, ma dopo aver chiesto consiglio al comizio centuriato, cioè alla legione in armi, di cui sollecita anche l’approvazione per la nomina degli ufficiali che a quei tempi si chiamavano pretori.

Insomma, tutte le precauzioni erano state prese dai romani perché il re non si tramutasse in un tiranno. Egli doveva restare un “delegato” della volontà popolare. Quando un branco d’uccelli passava per aria o un fulmine schiantava un albero, era compito suo riunire i sacerdoti, con loro studiare cosa volessero dire quei segni e, se gli pareva che significassero qualcosa di poco buono, decidere che sacrifici bisognava fare per placare gli dèi evidentemente offesi di qualcosa. Quando due privati venivano a litigio fra loro e magari uno derubava o scannava l’altro, non era affar suo occuparsene. Ma se uno commetteva qualche delitto contro lo stato o la collettività, allora se lo faceva condurre davanti da qualche guardia, e magari lo condannava a morte. Per tutto il resto, decisioni non poteva prenderne. Doveva chiederle in tempo di pace ai comizi curiati e in tempo di guerra a quelli centuriati. Se era furbo, riusciva, come avviene anche oggi, a presentare come “volontà del popolo” quella sua personale. Altrimenti doveva subirla. Ma sempre doveva fare i conti, per eseguirla, col Senato.

Tale era l’ordinamento che il primo re di Roma, sia egli stato Romolo o no, e a qualunque delle tre razze sia appartenuto, diede all’Urbe. E tale fu quello che il saggio Numa lasciò al suo successore Tullo Ostilio, ch’era di temperamento molto più vivace.

Egli aveva nel sangue la politica, l’avventura e l’avidità. Ma il fatto che il “comizio” avesse scelto proprio lui come sovrano, significa che, dopo i quarant’anni di pace assicuratile da Numa, tutta Roma aveva una gran voglia dì menar le mani. Dei borghi e città che la circondavano, Alba Longa era la più ricca e importante. Non sappiamo quale pretesto escogitasse Tullo per muoverle guerra. Forse nessuno. Ma fatto si è che un bel giorno l’attaccò e la rase al -suolo, sebbene la leggenda abbia trasformato questa prepotenza in un episodio cavalleresco e quasi gentile. Dicono infatti che i due eserciti rimisero la sorte delle armi a un duello fra i tre Orazi romani e tre Curiazi albalongani, Costoro uccisero due Orazi. Ma l’ultimo a sua volta uccise loro e decise la guerra. Fatto sta però che Alba Longa

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fu distrutta, e il suo re fu legato con le due gambe a due carri che, lanciati in direzione opposta, lo squarciarono. Fu così che Roma trattò quella ch’essa considerava la sua madrepatria, la terra donde diceva che i suoi fondatori erano venuti.

Naturalmente l’avvenimento dovette allarmare un po’ tutti gli altri villaggi della contrada che, non avendo subito l’influenza etrusca, erano rimasti indietro, nel cosìddetto progresso, e quindi si sentivano più deboli e peggio armati dei romani. Un po’ con tutti Tullo Ostilio e il suo successore Anco Marzio, che ne seguì l’esempio, attaccarono briga.

Per concludere, il giorno che al trono fu elevato Tarquinio Prisco come il quinto re, Roma era già il nemico pubblico numero uno di quella regione di cui non si conoscono con esattezza i confini, ma che doveva estendersi press’a poco fino a Civitavecchia a nord, fino verso Rieti a est, e fin verso Frosinone a sud.

Ora, è molto probabile che questa politica di conquiste, destinata a diventare ancora più aggressiva con gli ultimi tre re di famiglia Tarquinia, fosse d’ispirazione soprattutto etrusca. E questo per un semplice motivo: che, mentre latini e sabini erano agricoltori, gli etruschi erano industriali e mercanti. I primi, ogni volta che scoppiava una nuova guerra, dovevano abbandonare il podere lasciandolo andare in malora per arruolarsi nella legione, e rischiavano di perderlo, se il nemico vinceva. I secondi invece avevano tutto da guadagnare: aumentavano i consumi, piovevano le “commesse” del governo; e in caso di vittoria si conquistavano nuovi mercati. In tutti i tempi e in tutte le nazioni è sempre stato così: gli abitanti delle città, capitalisti, intellettuali, commercianti, vogliono le guerre contro la volontà dei contadini che poi devono farle. Più uno stato s’industrializza, più la città prende il sopravvento sulla campagna, e più la sua politica diventa avventurosa e aggressiva.

Fino al quarto re, l’elemento contadino prevalse in Roma e la sua economia fu soprattutto agricola. Quei tremilatrecento uomini che costituivano il suo esercito ci dimostrano che la popolazione complessiva doveva ammontare a un trentamila anime, di cui forse la maggior parte erano disseminate nel contado. Nella città vera e propria ce ne sarà stata, sì e no, la metà, che dal Palatino ora si erano sparpagliati anche sugli altri colli. La maggior parte di loro vivevano in capanne di fango venute su alla rinfusa e disor-dinatamente, con una porta per entrarvi, ma senza finestre, e una sola stanza in cui mangia-vano, bevevano, dormivano tutti insieme babbo, mamma, figliuoli, nuore, generi, nipoti, schiavi (chi ne aveva), polli, somari, vacche e porci. Gli uomini, al mattino, scendevano al piano per arare la terra. E fra loro c’erano anche i senatori che, come tutti gli altri, aggiogavano i buoi e spargevano il seme o falciavano la spiga. I ragazzi li aiutavano, perché il lavoro dei campi era la loro unica e vera scuola, il loro unico e vero sport. E i padri approfittavano dell’occasione per insegnar loro che il seme dava buon frutto solo quando il cielo mandava acqua e sole in giuste dosi sulla zolla; che il cielo mandava acqua e sole in giuste dosi sulla zolla solo quando gli dèi lo volevano; che gli dèi lo volevano solo quando gli uomini avevano compiuto tutti i loro doveri verso di essi; e che il primo di questi doveri consisteva nell’obbedienza dei giovani ai vecchi.

Così crescevano i cittadini romani, almeno quelli di discendenza latina e sabina, che dovevano costituire la maggioranza. L’igiene e la cura della propria persona dovevano essere ridotte al minimo, anche per le donne. Niente cosmetici, niente civetterie, poca o punta acqua, che le donne dovevano andare ad attingere in basso e riportare in anfore sospese sulla testa. Non c’erano gabinetti di decenza né fogne. Si facevano i propri bisogni fuori dell’uscio e si lasciavano lì. Le barbe e i capelli crescevano incolti. Quanto ai vestiti, non state a credere ai monumenti, che del resto appartengono ad epoche molto più recenti, quando Roma ebbe una vera e propria industria tessile ed una categoria di sarti evoluti, che per la maggior parte erano di origine e di scuola greche. In quei tempi lontani la toga, che

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poi acquistò tanta imponenza, o non era ancora nata, o era ridotta alla sua foggia più elementare. Forse somigliava alla futa che attualmente portano gli abissini: un cencio bianco, tessuto in casa dalle mogli e dalle figlie con lana di pecora, con un buco in mezzo per infilarci la testa. Pochi ne avevano una di ricambio. In genere portavano sempre la stessa, d’estate e &inverno, di giorno e di notte, immaginate con quali conseguenze.

Non s’indulgeva a nessun piacere, nemmeno a quelli di gola. Contro le teorie dei moderni scienziati americani, secondo i quali la forza di un popolo è condizionata dal suo consumo di calorie e di vitamine, che a sua volta è condizionato dalla varietà del suo nutrimento, i romani dimostrarono che si può conquistare il mondo anche mangiando soltanto un impasto mal cotto d’acqua e di farina, due olive e un po’ di cacio, annaffiato solo nei giorni di festa da un bicchier di vino. L’olio sembra che sia venuto più tardi, e dapprima pare che lo abbiano usato solo per ungersi la pelle, a difesa dalle bruciature del freddo e da quelle del sole. Il che doveva aumentare non poco il puzzo generale.

A questo regime non sfuggiva nemmeno il re, che soltanto con la dinastia dei Tarquini ebbe una divisa, un elmo e delle insegne speciali. Sino ad Anco Marzio egli fu eguale tra gli eguali, anche lui arò la terra dietro i buoi aggiogati, sparse il seme e falciò la spiga. Non risulta nemmeno che avesse una reggia o comunque un ufficio. Risulta invece che andava fra la gente senza una scorta di protezione perché, se ne avesse avuta una, tutti lo avrebbero accusato dì voler regnare con la forza invece che col consenso del popolo. Le decisioni le prendeva sotto un albero, o a sedere sull’uscio di casa, dopo aver sentito l’opinione degli anziani che gli facevano corona torno tomo. Saliva in cattedra e forse indossava anche un abito speciale, solo quando doveva compiere un sacrificio o qualche altra cerimonia religiosa.

Anche in guerra i romani andavano senza niente che somigliasse ad una vera e propria organizzazione militare. Il pretore che comandava la centuria o la decuria non aveva insegne di grado. Le armi erano soprattutto bastoni, sassi e rozze spade. Ci volle del tempo prima che si arrivasse all’elmo, allo scudo e alla corazza, invenzioni che allora dovettero fare l’effetto ‘ che ai giorni nostri fecero la mitragliatrice e il carro armato.

Sicché le grandi campagne che Roma intraprese sotto i primi suoi bellicosì re dovettero somigliare più che altro a spedizioni punitive e risolversi in gran mazzate di uomo contro uomo, senz’ombra di tattica e di strategia. I romani le vinsero non tanto perché erano i più forti, quanto perché erano i più persuasi che la loro patria era stata fondata dagli dèi per realizzare grandi imprese e che morire per essa costituiva non un merito, ma solo il pagamento di un debito contratto nel momento in cui si era nati.

Il nemico, una volta battuto, cessava dì essere un “soggetto” per dìventare soltanto un “oggetto”. Il romano che lo aveva fatto prigioniero lo considerava cosa sua propria: se era di malumore, lo ammazzava; se era di buonumore, se lo portava a casa come schiavo, e poteva farne quel che voleva: ucciderlo, venderlo, obbligarlo a lavorare. Le terre venivano requisite dallo stato e date in affitto ai sudditi. Le città molto spesso erano dìstrutte e le popolazioni deportate.

Con questi sistemi, Roma crebbe a spese dei latini a sud, dei sabini e degli equi a est, degli etruschi a nord. Sul mare, da cui distava pochi chilometri, non osava avventurarsi perché non aveva ancora una flotta, e la sua popolazione contadina ne diffidava per istinto. Sotto Romolo, Tito Tazio, Tullo Ostilio e Anco, Marzio, i romani furono “terrieri” e la loro politica “terrestre”.

Fu l’avvento di una dinastia etrusca a mutare radicalmente le cose, sia nella politica interna che in quella estera.

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CAPITOLO QUARTO

1 RE MERCANTI NON si sa con precisione quando e come Anco Marzio mori. Ma dovette essere a

un centocinquant’anni dal giorno in cui la leggenda vuole che Roma sia stata fondata, cioè verso il 600 avanti Cristo. Pare comunque che in quel momento si trovasse in città un certo Lucio Tarquinio, personaggio molto differente da quelli che i romani usavano scegliersi come re e magistrati.

Non era del posto. Veniva da Tarquinia, ed era figlio di un greco, Demarato, emigrato da Corinto e sposatosi con una donna etrusca. Da questo incrocio era nato un ragazzo vivace, brillante, spregiudicato, ambiziosissimo, che forse i

romani, quando venne a stabilirsi fra loro, guardarono con un misto d’ammirazione, d’invidia e dì diffidenza. Era ricco e scialacquatore fra gente povera e taccagna. Era elegante in mezzo ai bifolchi. Era l’unico a sapere di filosofia, geografia e matematica in un mondo di poveri analfabeti. Quanto alla politica, sangue greco più sangue etrusco dovevano far di lui un diplomatico di mille risorse fra concittadini che ne dovevano aver noche. Tito Livio dice di lui: Fu il primo che intrigò per farsi eleggere re e pronunciò un discorso per assicurarsi l’appoggio della plebe.

Che sia stato il primo,. ne dubitiamo. Ma che abbia intrigato, ne siamo sicuri. Probabilmente le famiglie etrusche, che costituivano una minoranza, ma ricca e potente, videro in lui il loro uomo; e, stanche di essere governate da re pastori e contadini, di razza latina e sabina, sordi ai loro bisogni commerciali ed espansionistici, decisero di innalzarlo al trono.

Come siano andate le cose, s’ignora. Ma l’accenno di Tito Livio alla plebe ci consente di farcene un’idea. Essa è un elemento nuovo nella storia romana, o per lo meno un elemento che non si era fatto sentire sotto i primi quattro re, che alla plebe non avevan nessun bisogno di parlare per venire eletti, per il semplice motivo che la plebe ai loro tempi non c’era. Nei comizi curiati, che procedevano all’investitura del sovrano, non esistevano differenze sociali. Tutti erano cittadini, tutti erano piccoli o grandi proprietari di terra; tutti quindi avevano, formalmente, gli stessi diritti, anche se, per forza di cose, nella pratica, poi, a prendere le decisioni e ad imporle agli altri erano alcuni professionisti della politica.

Era una perfetta democrazia casalinga, dove tutto veniva fatto alla luce del sole e si discuteva fra cittadini uguali e quel che contava, per la distribuzione delle cariche, era la stima e A prestigio di cui si godeva. Ma essa presupponeva -la piccola città che Roma fu in quel suo primo secolo di vita, chiusa nella sua angusta cerchia di catapecchie, e dove ognuno conosceva l’altro e sapeva di chi era figlio e cosa aveva fatto e come trattava la moglie e quanto spendeva per mangiare e quanti sacrifici celebrava in nome degli dèi.

Ma alla morte di Anco Marzio la situazione era del tutto cambiata. 1 bisogni di guerra avevano stimolato l’industria e quindi favorito l’elemento etrusco, quello che dava i falegnami, i fabbri, gli armieri, i mercanti. N’erano arrivati da Tarquinia, da Arezzo, da Vejo, le botteghe s’erano riempite di garzoni e d’apprendisti che, imparato bene il mestiere, avevano messo su altre botteghe. Il rialzo dei salari aveva richiamato in città la mano d’opera contadina. I soldati, dopo aver fatto la guerra, tornavano malvolentieri sui campi e preferivano restare a Roma, dove si trovavano con più facilità donne e vino. Ma soprattutto le vittorie vi avevano fatto confluire rivoli di schiavi. Ed era questa moltitudine forestiera che formava il plenum da cui viene la parola plebe.

Lucio Tarquinio e i suoi amici etruschi dovettero veder subito che profitto si poteva trarre da questa massa di gente, per la maggior parte esclusa dai comizi curiati, se si

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fosse potuto convincerla che solo un re forestiero anche lui avrebbe potuto fame valere i diritti. E per questo l’arringò, promettendole chissà cosa, magari ciò che poi fece davvero. Egli aveva dietro di sé quella che oggi si chiamerebbe la Confindustria: i Cini, i Marzotto, gli Agnelli, i Pirelli, i Falck dell’antica Roma: gente che quattrini per la propaganda elettorale aveva da spenderne quanti ne voleva, ed era decisa a farlo per garantirsi un governo più disposto di quelli precedenti a tutelare i suoi interessi e a seguire quella politica espansionistica ch’era la condizione della sua prosperità.

Certamente ci riuscirono perché Lucio Tarquinio fu eletto col nome di Tarquinio Prisco, rimase sul trono trentotto anni, e per liberarsi di lui i “patrizi”, cioè i “terrieri”, dovettero farlo assassinare. Ma inutilmente. Prima di tutto perché la corona, dopo di lui, passò a suo figlio, eppoi a suo nipote. In secondo luogo perché, più che la causa, l’avvento della dinastia dei Tarquini fu l’effetto di una certa svolta chela storia di Roma aveva subito e che non le consentiva più di tornare al suo primitivo e arcaico ordinamento sociale e alla politica che ne derivava.

Il re della Confindustria e della plebe fu un re autoritario, guerriero, pianificatore e demagogo. Volle una reggia e se la fece costruire secondo lo stile etrusco, molto più raffinato di quello romano. Poi nella reggia fece innalzare un trono, e lì si mise a sedere, in pompa magna, con lo scettro in mano, e un elmo ripieno di pennacchi. Dovette farlo un po’ per vanità, un po’ perché conosceva i suoi polli e sapeva benissimo che la plebe, cui doveva la sua elezione e di cui intendeva conservarsi il favore, amava il fasto e il re lo vuol vedere in alta uniforme, circondato da corazzieri. A differenza dei suoi predecessori che la maggior parte del loro tempo la passavano a dir messa e a fare oroscopi, egli la trascorse a esercitare il potere temporale cioè a far politica e guerre. Prima soggiogò tutto il Lazio, poi attaccò briga con i sabini e rosicchiò loro un’altra parte di terre. Per fare questo, ebbe bisogno di molte armi che l’industria pesante gli fornì facendoci sopra grossi affari, e di molti rifornimenti che i mercanti gli assicurarono guadagnandoci sopra larghe prebende. Gli storici repubblicani e anti-etruschi scrissero poi che il suo regno fu tutto un intrallazzo, una generale mangeria, il trionfo delle mance e delle "bustarelle”, e che il bottino ch’egli prese ai vinti lo usò per abbellire non Roma, ma le città etrusche, particolarmente Tarquinia, che gli aveva dato i natali.

Ne dubitiamo, perché fu proprio sotto di lui che Roma fece un balzo avanti, specie in fatto di monumenti e di urbanistica. Anzitutto vi costruì la cloaca massima, cioè le fogne, che finalmente liberarono i cittadini dai loro rifiuti, con i quali avevano sino ad allora convissuto. Eppoi finalmente l’Urbe cominciò a diventar tale davvero, con strade ben tracciate, quartieri definiti, case che non eran più capanne, ma costruzioni vere e proprie, col tetto spiovente da ambedue i lati, finestre e atrio, e un foro, cioè una piazza centrale, dove tutti i cittadini si riunivano.

Purtroppo, per compiere questa autentica rivoluzione, che sconvolgeva non soltanto la faccia esterna di Roma, ma. anche il suo costume di vita, egli dovette subire l’ostilità del Senato, depositario dell’antica tradizione e poco disposto a rinunziare al suo diritto di controllo sul re. In altri tempi esso lo avrebbe deposto o costretto alle dimissioni. Ma ora bisognava fare i conti con la plebe, cioè con una moltitudine che ancora non aveva una adeguata rappresentanza politica, ma sperava che Tarquinio gliene desse una ed era pronta a sostenerlo anche don le barricate. Era più facile ucciderlo, e così fecero. Ma commisero l’imperdonabile errore di lasciare in vita sua moglie e suo figlio, convinti che quella per il suo sesso e questi per la sua giovane età non potessero mantenere il potere.

Forse avrebbero avuto ragione, se Tanaquilla fosse stata romana,. cioè abituata soltanto a obbedire. Ma invece era etrusca, aveva studiato, con suo marito aveva diviso non soltanto il letto ma anche il lavoro interessandosi ai problemi di stato, all’amministrazione,

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alla politica estera, alle riforme; e su tutto la sapeva più lunga degli stessi senatori, molti dei quali erano analfabeti.

Seppellito il re, essa ne occupò il posto sul trono, e lo tenne caldo per Servio che frattanto cresceva e che fu il primo e l’ultimo re di Roma a ereditare la corona senza venire eletto. Non si sa bene se costui fosse figlio suo o di una sua serva, come sembra indicare il nome. Comunque, anche di lui gli storici, romani, tutti repubblicani ferventi, hanno cercato di dir male. Ma non ci sono riusciti. Pur controvoglia, essi hanno dovuto ammettere che il suo governo fu illuminato e che sotto di lui furono condotte a termine alcune fra le più importanti imprese. Anzitutto egli costruì una cerchia di mura intorno alla città, dando così lavoro a muratori, tecnici e artigiani che videro in lui il loro protettore. Poi pose mano alla grande riforma politica e sociale, che fu di base a tutti i successivi ordinamenti romani.

La vecchia divisione in trenta curie presupponeva una città dì trenta o quarantamila abitanti, tutti press’a poco con gli stessi titoli, le stesse benemerenze e lo stesso patrimonio. Ma ora essa era straordinariamente cresciuta, e c’è chi fa ascendere a sette o ottocentomila anime la popolazione cittadina del tempo di Servio. Probabilmente son calcoli sbagliati: a tanto dovevano ammontare non gli abitanti di Roma, ma quelli di tutto il territorio da essa conquistato. Tuttavia la città doveva superare almeno i centomila, e i grandi lavori pubblici che Tarquinio e Servio intrapresero dovettero essere imposti anche da un’acuta crisi di alloggi.

Di questa massa, solo quella già iscritta ai comizi curiati aveva voce in capitolo e poteva votare. Gli altri seguitavano a restare esclusi, e fra costoro c’erano anche i più grandi industriali e commercianti e banchieri: quelli che fornivano i quattrini allo stato per fare le guerre e le grandi opere di bonifica. Essi avevano ora diritto a una ricompensa.

Come prima cosa, Servio diede la cittadinanza ai libertini, cioè ai figli degli schiavi liberati, o liberti. Dovettero essere parecchie e parecchie migliaia di persone, che da quel momento furono i suoi più accaniti sostenitori. Poi abolì le trenta curie divise secondo i quartieri, e al loro posto istituì cinque classi, differenziate in base non al loro domicilio, ma al loro patrimonio. Alla prima appartenevano coloro che avevano almeno centomila assi; all’ultima quelli che ne possedevano meno di dodicimilacinquecento. A difficile stabi-lire a cosa corrisponda, in moneta d’oggi, un asse. Forse a dieci lire, forse più. Comunque, furono queste differenze economiche a determinare anche quelle politiche. Perché mentre nelle curie tutti erano pari, almeno formalmente, e il voto di ognuno valeva quello dì ogni altro, le classi votavano per centurie, ma non ne avevano un numero uguale. La prima ne aveva novantotto. In tutte erano centoventitrè. Sicché in pratica bastavano i novantotto voti della prima classe per determinare la maggioranza. Le altre, anche se si coalizzavano, non riuscivano a batterla.

Era un regime capitalista o plutocratico in piena regola, che dava il monopolio del potere legislativo alla Confindustria, togliendolo alla Federterra, cioè al Senato che di denaro ne aveva molto meno. Ma cosa poteva esso fare? Servio non gli doveva neppure l’elezione perché la corona l’aveva ereditata dal padre; e aveva con sé i quattrini dei ricchi che a lui erano debitori della loro nuova potenza, e l’appoggio del popolino cui egli aveva dato impiego, salario e cittadinanza. Sorretto da queste forze, si circondò di una guardia armata per proteggere la propria vita dai malintenzionati, si recinse la testa di un diadema d’oro, si fece fabbricare un trono d’avorio e su esso sedette, maestosamente, con uno scettro in mano, sormontato da un’aquila. Patrizio o non patrizio, senatore o mendicante, chiunque volesse avvicinarlo doveva farsi annunziare e aspettare pazientemente il suo turno in antica-mera.

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Era difficile eliminare un uomo simile. E infatti i suoi nemici, per riuscirci, dovettero affidarne il compito a suo nipote-genero, che, come tale, poteva circolare liberamente nella reggia.

Questo secondo Tarquinio, prima di rischiare il colpo, tentò di far deporre lo zio per abuso di potere. Servio si presentò alle centurie che lo riconfermarono re con plebiscitaria acclamazione (lo racconta Tito Livio, gran repubblicano, e dunque dev’esser vero).

Non restava quindi che il pugnale, e Tarquinio lo usò senza troppi scrupoli. Ma il respiro di sollievo che trassero i senatori, coi quali si era alleato, rimase loro in gola, quando videro l’uccisore sedersi a sua volta sul trono d’avorio senza chieder il loro permesso, come avveniva a quei buoni vecchi tempi ch’essi speravano di restaurare.

Il nuovo sovrano si mostrò subito più tirannico di quello che aveva spedito all’altro mondo. E infatti lo battezzarono “il Superbo” per distinguerlo dal fondatore della dinastia. Se gli diedero quel nomignolo, qualche ragione ci dovette essere, anche se non è vero quel che poi si è raccontato della sua caduta. Pare che si divertisse a uccidere la gente nel Foro. E di carattere aggressivo fu certamente perché la maggior parte del suo tempo, come re, la trascorse a fare guerre. Guerre fortunate, perché sotto il suo comando l’esercito, che ora disponeva di alcune decine di migliaia di uomini, conquistò non soltanto la Sabina, ma anche l’Etruria e le sue colonie meridionali almeno fino a Gaeta. Di qui sin quasi alle foci dell’Arno, Roma faceva in quel momento il buono e il cattivo tempo. La guerra non sempre era calda. Spesso era soltanto “fredda”, come si dice oggi. Ma insomma Tarquinio fu, un po’ in forza di armi, un po’ in grazia di diplomazia, il capo di qualcosa che, per quei tempi, era un piccolo impero. Esso non arrivava all’Adriatico, ma ormai dominava il Tirreno.

Forse Tarquinio menò tanto le mani anche per far dimenticare il modo in cui era salito al trono sul cadavere dì un re generoso e popolare. I successi esterni servono molte volte a mascherare la debolezza interna d’un regime. Comunque , e a questa smania di conquista che Tarquinio dovette, a quanto pare, la sua caduta.

Un giorno, raccontano, egli era al campo, con i suoi soldati, suo figlio Sesto Tarquinio e suo nipote Lucio Tarquinio Collatino. Costoro, sotto la tenda, cominciarono a discutere della virtù delle loro rispettive mogli, ognuno sostenendo, da buon marito, quella della propria. Probabilmente uno disse all’altro: « La mia è una sposa onesta. La tua ti mette le corna ». Decisero di tornare quella notte a casa per sorprenderle sul fatto. Inforcarono i cavalli, e via.

A Roma trovarono la moglie di Sesto che si consolava della momentanea vedovanza banchettando con amici e lasciandosene corteggiare. Quella di Collatino, Lucrezia, ingannava l’attesa tessendo un abito per suo marito. Collatino, trionfante, intascò la scommessa e tornò al campo. Sesto, mortificato e smanioso di rivincita, si mise a fare la corte a Lucrezia, e alla fine, un po’ con la violenza, un po’ con l’astuzia, ne vinse la resi-stenza.

Commessa l’infedeltà, la povera donna mandò a chiamare suo marito e suo padre, ch’era un senatore, confessò loro l’accaduto e si uccise con una pugnalata al cuore. Lucio Giunio Bruto, anche lui nipote del re, che gli aveva ucciso il babbo, adunò il Senato, raccontò la storia di quell’infamia e propose la decadenza dal trono del Superbo e l’espulsione dalla città di tutta la sua famiglia (eccetto lui, si capisce). Tarquinio, informato, si precipitò a Roma, mentre Bruto contemporaneamente galoppava verso il campo, e probabilmente s’incontrarono per strada. Mentre il re tentava di rimettere ordine nella città, Bruto gli seminava il disordine nelle legioni che decisero allora di ribellarsi e di marciare su Roma. Tarquinio fuggì verso il Nord, rifugiandosi in quell’Etruria da cui i suoi antenati

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erano discesi e di cui egli aveva umiliato l’orgoglio riducendone le città alla condizione di vassalle di Roma. Dovette essere una ben amara mortificazione per lui chiedere ospitalità a Porsenna, lucumone, cioè primo magistrato dì Chiusi, che a quei tempi si chiamava Clusium.

Ma Porsenna, gran gentiluomo, gliela concesse. A Roma proclamarono la repubblica. Come più tardi quella dei Plantageneti in

Inghilterra e quella dei Borboni in Francia, anche la monarchia di Roma era durata sette re. Correva l’anno 500 avanti Cristo. Ne erano trascorsi duecentoquarantasei ab urbe

condita.

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CAPITOLO QUINTO

PORSENNA COME sempre i popoli quando cambiano regime, romani salutarono quello nuovo

con grande entusiasmo, e in esso riposero tutte le loro speranze, comprese quelle della libertà e della giustizia sociale. Fu convocato un grande comizio centuriato cui presero parte tutti i cittadini-soldati che proclamarono definitivamente seppellita la monarchia, le attribuirono la responsabilità di tutti gli errori e soprusi di cui si era macchiata l’amministrazione della cosa pubblica in quei primi due secoli e mezzo di vita; e al posto del re nominarono due consoli, scegliendoli nelle persone dei due protagonisti, della rivoluzione: il povero vedovo Collatino e il povero orfano Lucio Giunio Bruto. Il primo avendo declinato, fu sostituito da Publio Valerio.

Publio Valerio passò alla storia col nomignolo di “Publicola”, che vuol dire “amico del popolo”. Questa amicizia, Publicola la dimostrò sottoponendo e facendo approvare dal comizio alcune leggi che rimasero basilari per tutto il periodo che durò la repubblica. Esse comminavano la pena di morte a chiunque tentasse d’impadronirsi di una carica senza l’approvazione del popolo. Consentivano al cittadino che fosse stato condan-nato a morte il ricorso in appello all’Assemblea, cioè al comizio centuriato. E concedevano a tutti il diritto di uccidere, anche senza processo, chi tentasse di farsi proclamare re. Quest’ultima legge dimenticava però di precisare in base a quali elementi si poteva attribuire a qualcuno quell’ambizione. E ciò consenti al Senato, negli anni che seguirono, di liberarsi di parecchi incomodi nemici additandoli, appunto, come aspiranti-re. Il sistema è ancora in uso presso parecchi popoli: gli aspiranti-re si chiamano a volta a volta “de-viazionisti”, “nemici della patria”, “agenti al soldo dell’imperialismo straniero”. I delitti, col progresso, non cambiano. Ne cambia solo la rubrica.

Nel suo zelo democratico, Publicola introdusse anche l’uso, da parte del console, quando entrava nel recinto del comizio centuriato, di far abbassare, dai littori che lo precedevano, le insegne: quei famosi fasci, che poi Mussolini rimise di moda, e che costituivano il simbolo del potere. Per dimostrare plasticamente che questo potere veniva dal popolo: il quale, dopo averlo delegato al console, ne restava l’arbitro.

Erano tutte bellissime cose, che li per li fecero un grande effetto. Ma, una volta sbolliti gli entusiasmi, la gente cominciò a domandarsi in cosa si concretavano, praticamente, i vantaggi del nuovo sistema. Tutti i cittadini avevano il voto, va bene, ma nei comizi si seguitava a praticare quel diritto per classi, sempre combinate su quello schema serviano, per cui i milionari della prima, avendo novantotto centurie, e quindi novantotto voti, bastavano da soli a imporre la propria volontà a tutti gli altri. Infatti, una delle prime decisioni che presero fu quella di revocare le distribuzioni di terre fatte ai poveri dai Tarquini nei paesi conquistati. Sicché ci furono parecchi piccoli proprietari che si videro confiscare, da un giorno all’altro, la casa e il podere e, non sapendo come tirare avanti, tornarono a Roma in cerca di lavoro.

Ma a Roma di lavoro non ce n’era perché i consoli, essendo nominati per un anno soltanto, non potevano intraprendere nessuna di quelle grandi opere pubbliche ch’erano la specialità dei re, eletti a vita i primi cinque, e addirittura a titolo ereditario gli ultimi due. Inoltre la repubblica, dominata dal Senato che l’aveva fatta e che era costituito di proprietari terrieri di origine sabina e latina, era taccagna, a differenza della scialacquona monarchia, dominata dagl’industriali e dai mercanti di origine etrusca e greca. Essa voleva “risanare il bilancio”, come si direbbe oggi, cioè praticare una politica finanziaria spa-

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ragnina anche perché non aveva nessun interesse a moltiplicare la categoria dei nuovi ricchi, suoi naturali avversari.

Insomma, la città era in crisi, e i poveri cafoni che venivano a cercarvi scampo dalla disoccupazione e dalla fame delle campagne vi trovavano altra fame e altra disoccupazione. I cantieri erano fermi, rimaste a mezzo le case e le strade. Gli audaci imprenditori, ch’erano stati i grandi sostenitori dei Tarquini e avevano dato impiego a migliaia di tecnici e a decine di migliaia di operai, erano al bando o temevano di esserci messi. I pubblici locali chiudevano uno dietro l’altro per mancanza di clienti, diradati dalla scarsezza di circolante e dal clima puritano che tutte le repubbliche diffondono o cercano di diffondere. I propagandisti del nuovo regime arringavano continuamente la folla per ricordarle i delitti che i re avevano commesso. Gli ascoltatori si guardavano intorno e pensavano che fra quei “delitti” c’era anche il Foro, dove in quel momento si trovavano, e ch’era stato costruito dagli esecrati re.

Un altro punto su cui i propagandisti insistevano erano i misfatti perpetrati dall’ultima dinastia, che aveva cercato di far di Roma una colonia etrusca. C’era del vero, ma appunto in grazia di questo Roma aveva ora il suo Circo Massimo, la sua Cloaca, i suoi ingegneri, i suoi artigiani, i suoi istrioni (ch’erano gli attori,del tempo), i suoi pugilatori e gladiatori, protagonisti di quegli spettacoli di cui i romani erano tanto ghiotti, e le sue mura, e i suoi canali, e i suoi indovini, e la sua liturgia per adorare gli dèi: ch’era tutta roba importata appunto dall’Etruria.

Non tutti naturalmente lo sapevano, perché non tutti in Etruria erano stati. Ma n’erano più degli altri coscienti i giovani intellettuali, che avevano studiato e preso la laurea nelle università etrusche di Tarquinia, di Arezzo, di Chiusi, dove i babbi li avevano mandati a studiare, e di cui conservavano un gran ricordo. Essi non appartenevano in genere alle famiglie patrizie, che i loro figli se li educavano in casa, badando a farne non uomini istruiti, ma uomini di carattere. Venivano da famiglie borghesi, e la loro sorte era legata a quella dei traffici, delle industrie e delle professioni liberali, ch’erano appunto le più colpite dal nuovo andazzo delle cose.

Per tutte queste ragioni, lo scontento fece presto a nascere. E purtroppo esso coincise con la dichiarazione di guerra, lanciata da Porsenna, su istigazione di Tarquinio.

Come sia andata questa faccenda, con certezza non si sa. Ma, data la situazione, non è difficile immaginare quali dovettero essere gli argomenti che il deposto monarca svolse per indurre il lucumone a prestargli aiuto. Costui dovette certo fargli osservare che i Tarquini, per quanto di sangue etrusco, verso l’Etruria non si erano poi dimostrati buoni figli, se l’avevano continuamente tormentata con guerre e spedizioni punitive fino a ridurla quasi tutta sotto la loro signoria. Ma il Superbo probabilmente gli rispose che, nel momento stesso in cui egli e i suoi due predecessori facevano romana l’Etruria, facevano anche etru-sca la stessa Roma, conquistandola per così dire dal di dentro a spese dell’elemento latino e sabino che dapprincipio l’aveva dominata. La lotta non era stata fra potenze straniere, ma fra città rivali, figlie della stessa civiltà. Roma, sebbene ultima nata, aveva cercato non di distruggerle, ma di riunirle sotto un comando unico per condurle al predominio in Italia. Forse aveva sbagliato, forse aveva qua e là calcato la mano, con poco rispetto delle loro autonomie municipali. Ma a nessuna i Tarquini avevano serbato la sorte cui avevano sottoposto per esempio Alba Longa e tanti altri borghi e villaggi del Lazio e della Sabina, distrutti dalle fondamenta. Nessuna città etrusca era stata mai messa a sacco. 1 mercanti, gli artigiani, gl’ingegneri, gli attori, i pugilatori di Tarquinia, di Chiusi, di Volterra, di Arezzo, appena emigravano a Roma, non vi trovavano la sorte degli schiavi, ma vi diventavano preminenti, e tutta l’economia, la cultura, l’industria, il commercio delle città erano praticamente nelle loro mani.

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Cioè lo erano stati finché i Tarquini erano rimasti sul trono, a proteggerli. Ora, con la repubblica significava il ritorno al potere di quei latini e sabini zoticoni, avari, diffidenti, reazionari e istintivamente razzisti, che avevano sempre covato un sordo odio per la borghesia etrusca liberale e progressista. Non c’era da farsi illusioni sul modo in cui l’avrebbero trattata. E la sua scomparsa significava l’affermazione, alle foci del Tevere, di una potenza forestiera e nemica, al posto di quella consanguinea e amica (anche se un po’ litigiosa e manesca), che domani poteva unirsi agli altri nemici dell’Etruria e contribuire al suo tramonto.

Se la sentiva, Porsenna, di disinteressarsi a una simile rottura di equilibrio? O non trovava conveniente prevenire la catastrofe, saltando addosso a Roma, ora che il marasma vi regnava all’interno, e all’esterno, specie nel Lazio e nella Sabina, le ossa della gente dolevano per le botte ricevute dai soldati romani? A un cenno del potente lucumone-di Chiusi, tutte quelle città sarebbero insorte contro le scarse guarnigioni che le presidiavano, e Roma si sarebbe trovata, sola e discorde, alla mercé del nemico.

Non sappiamo quasi nulla di Porsenna. Ma dal modo come si condusse, dobbiamo dedurre che alle doti del bravo generale doveva accoppiare quelle del sagace uomo politico. Egli si rese conto che negli argomenti di Tarquinio c’era del vero. Ma prima d’impegnarsi, volle essere sicuro di due cose: che il Lazio e la Sabina erano davvero pronti a schierarsi dalla sua parte, e che nella stessa Roma c’era una “quinta colonna” monarchica pronta a facilitargli il compito con una insurrezione.

L’insurrezione avvenne effettivamente, e ad essa parteciparono anche i due figli del console Lucio Giunio Bruto, immemori, si vede, della fine che il Superbo aveva fatto fare al loro nonno. Essi vennero arrestati e condannati a morte, dopo che la rivolta era stata energicamente domata. E il loro babbo, dicono, volle assistere di persona alla loro decapitazione.

Ma la guerra andò male. Le varie città latine e sabine massacrarono le guarnigioni romane e unirono le loro forze a quelle di Porsenna che giungeva dal Nord alla testa di un esercito confederato cui tutta l’Etruria aveva mandato i suoi contingenti. Contro questa invasione, Roma, a sentire i suoi storici, fece miracoli. Muzio Scevola, penetrato nell’accampamento di Porsenna per ucciderlo, sbagliò bersaglio e castigò da solo la propria fallace mano, stendendola su un braciere ardente. Orazio Coclite bloccò da solo tutto l’esercito nemico all’ingresso del ponte sul Tevere che i suoi compagni distruggevano alle sue spalle. Ma la guerra fu perduta e queste stesse leggende lo provano. La loro esaltazione costituisce uno dei primi esempi di “propaganda di guerra”. Quando un paese subisce una disfatta, inventa o esagera dei “gloriosi episodi” su cui richiamare l’attenzione dei contemporanei e dei posteri e distrarla dal risultato finale e complessivo. Ecco perché gli “eroi” allignano soprattutto negli eserciti battuti. Quelli che vincono non ne hanno bisogno. Cesare, per esempio, nei suoi Commentari, non ne cita nessuno.

La resa dell’Urbe fu, come si dice oggi, incondizionata. Essa dovette restituìre tutti i suoi territori etruschi a Porsenna. I latini ne approfittarono per attaccare a loro volta Roma che però riuscì a salvarsi con la battaglia del lago Regillo dove i Dioscuri, Castore e Polluce, figli di Giove, vennero in suo aiuto. Comunque, alla fine di tante disavventure, quella che sotto i re era stata la capitale di un piccolo impero si ritrovava con ciò che oggi sarebbe, si e no, un circondario, che a nord non arrivava a Fregene e a sud si fermava prima di Anzio. Era una grossa catastrofe, e le occorse un secolo per riaversi.

Ma quella guerra fece una vittima ancora più grossa: Tarquinio. Il quale aveva già fatto le valigie per tornare a Roma, riprendere il potere ed esercitarvi le sue vendette, quando Porsenna lo fermò e gli disse che non intendeva ripristinarlo sul trono. Si era egli accorto che la restaurazione monarchica era impossibile, o diffidava di quell’intrigante che,

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una volta tornato alla testa del suo popolo e del suo esercito, avrebbe forse dimenticato il beneficio ricevuto e ricominciato a tormentar l’Etruria?

Propendiamo per la seconda ipotesi. L’Etruria era un paese anarchico, dove ogni città voleva restare indipendente e non ammetteva di veder limitata la propria autonomia. Tarquinio avrebbe fatto di Roma una città definitivamente etrusca, ma dell’Etruria una provincia definitivamente romana. L’Etruria non volle, e la pagò cara. La Lega che Porsenna aveva faticosamente messo in piedi in quell’occasione si sciolse prima che il suo esercito confederato potesse ripristinare le comunicazioni con le colonie etrusche del Mez-zogiorno, che frattanto erano rosicchiate dai greci. Il lucumone ritornò a Chiusi, e vi si chiuse, mentre i greci avanzavano a sud, e da nord si, profilava un’altra terribile minaccia: quella dei galli che scendevano dalle Alpi e sommergevano le colonie etrusche della Valle padana. Ma nemmeno di fronte a questo pericolo l’Etruria trovò la sua unità, quell’unità che Tarquinio voleva darle nel segno e nel nome di. Roma. Il vecchio re seguitò a intrigare, ma inutilmente. Le vittoriose città del Lazio, con Vejo alla testa, collaborarono a impedirne il ritorno. Preferivano aver a che fare con una Roma repubblicana, di cui sapevano tutte le difficoltà interne e quindi l’impossibilità di tentare una rivincita, che infatti tardò un secolo a profilarsi.

Le "liberazioni” costano sempre care. Roma pagò quella sua, dal re, con l’Impero. Aveva impiegato due secoli e mezzo per conquistare l’egemonia sull’Italia centrale, e l’aveva raggiunta sotto la guida di sette sovrani. La repubblica, per restar tale, dovette rinunziare a tutto questo po’ po’ di patrimonio.

Cosa dunque non aveva funzionato, sotto la monarchia, per indurre i romani, pur di disfarsene, a questa rinunzia?

Non aveva funzionato il crogiuolo, cioè la fusione fra le razze e le classi che ne costituivano il popolo. I primi quattro re avevano mortificato l’elemento etrusco che costituiva la Borghesia, la Ricchezza, il Progresso, la Tecnica, l’Industria, il Commercio. Gli ultimi tre avevano mortificato l’elemento latino e sabino che costituiva l’Aristocrazia, l’Agricoltura, la Tradizione e l’Esercito, che trovavano.la loro espressione politica nel Senato. E ora il Senato si vendicava. Si vendicava con la repubblica, che fu esclusivamente opera sua.

D’ora in poi, tutto fu repubblicano, a Roma, anche e specialmente la storia, che cominciò ad essere narrata in modo da screditare sempre più il periodo monarchico e i grandiosi successi che sotto di esso Roma aveva conseguiti. Non bisogna dimenticarselo, quando si leggono i libri di storia romana, concordi nel far coincidere l’inizio della grandezza dell’Urbe dal momento in cui ne fu scacciato l’ultimo Tarquinio.

Ma non, è vero. Roma era già stata una potente capitale al tempo dei re, ed è in buona parte grazie alla loro opera che Io ridiventerà. Gli austeri magistrati che ne presero il posto ed esercitarono il potere %n nome del popolo” vi trovarono già costituite le premesse dei futuri trionfi: una città bene organizzata dal punto di vista urbanistico e amministrativo, una popolazione cosmopolita e piena di risorse, una élite di tecnici di prima qualità, un esercito sperimentato, una Chiesa e una lingua ormai codificate, una diplomazia che aveva fatto il suo tirocinio formando e rompendo alleanze un po’ con tutti i vicini di casa.

Questa diplomazia fu abile anche nel momento della catastrofe. Essa, si affrettò a stipulare due trattati: uno con Cartagine per assicurarsi la tranquillità dalla parte del mare, uno con la Lega Latina per assicurarsela dalla parte di terra. Ambedue implicavano le più radicali rinunzie. Sul mare, Roma abbandonava ogni pretesa in Corsica, Sardegna e Sicilia, che s’impegnava a non oltrepassare con le sue navi, e dove poteva soltanto rifornirsi senza mettervi piede. Ma era una rinunzia che le costava poco, visto che non aveva ancora una flotta degna di questo nome.

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Più dolorose erano quelle di terra, sancite dal console Spurio Cassio al termine delle ostilità con Vejo e i suoi alleati. Roma rimase padrona solo dì cinquecento miglia quadrate e dovette accettare di essere pari tra pari nella Lega Latina. Il foedus, cioé il patto del 493 avanti Cristo, comincia con queste enfatiche parole: Sia pace tra i romani e tutte le città latine finché la posizione del cielo e della terra rimanga la stessa...

La posizione del cielo e della terra non era per nulla cambiata quando, meno di un secolo dopo, la repubblica romana riprese il sentiero di guerra a mezzo del quale si erano fermati i suoi antichi re e non lasciò alle città latine neanche gli occhi per piangere.

Da allora le alleanze fra gli stati si son continuate a stipulare col proposito di farle durare finché la posizione del cielo e della terra rimanga la stessa. E, a distanza di pochi anni o di molti anni, uno dei contraenti fa immancabilmente la fine di Vejo. Ma, impassibili, i diplomatici insistono a usare quella formula, o altra equivalente, e i popoli a crederci.

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CAPITOLO SESTO

S P Q R DA quell’anno 508 in cui fu fondata la repubblica, tutti i monumenti che i romani

innalzarono un po’ dappertutto portarono sempre la sigla SPQR che vuol dire: Senatus Populus-Que Romanus, cioè “il Senato e il popolo romano”.

Cosa fosse il Senato, già lo abbiamo detto. Viceversa non abbiamo ancora detto cos’era il popolo, che non corrispondeva affatto a ciò che noi intendiamo con questa parola. In quei lontani giorni di Roma esso non comprendeva “tutta” la cittadinanza, come avviene oggi, ma soltanto due “ordini”, cioè due classi sociali: quella dei “patrizi” e quella degli equites o “cavalieri”.

I patrizi erano quelli che discendevano dai patres, cioè dai fondatori della città. Secondo Tito Livio, Romolo aveva scelto un centinaio di capi-famiglia che lo aiutassero a costruire Roma.

Essi naturalmente si erano accaparrati i migliori poderi e si consideravano un po’ i padroni di casa rispetto a quelli ch’eran venuti dopo. I primi re infatti non avevano avuto nessun problema sociale da risolvere perché tutti i sudditi erano uguali fra loro, e lo stesso sovrano non era che uno di essi incaricato da tutti gli altri di compiere determinate funzioni soprattutto religiose.

Con Tarquinio Prisco, a Roma, era cominciata a piovere un sacco d’altra gente, specie dall’Etruria. E da questi nuovi venuti, i discendenti dei patres tenevano con molta diffidenza le distanze, difendendosi dentro la roccaforte del Senato, accessibile soltanto ai membri delle loro famiglie. Ognuna di esse portava il nome dell’antenato che l’aveva fondata: Manlio, Giulio, Valerio, Emilio, Cornelio, Claudio, Orazio, Fabio.

Fu dal momento in cui dentro le mura della città cominciarono a convivere queste due diverse popolazioni, i discendenti degli antichi pionieri e i nuovi venuti, che le classi presero a differenziarsi: da una parte i patrizi, dall’altra i plebei.

Presto i patrizi furono, per numero, soverchiati, come sempre succede in tutti i paesi nuovi, per esempio l’America del Nord. Qui i patrizi si chiamavano pilgrim fathers, ì padri pellegrini, ed erano rappresentati dai trecentocinquanta colonizzatori che per primi vennero a stabilircisi a bordo di una nave chiamata Mayflower, poco più di tre secoli orsono. Anche i loro discendenti seguitano pur oggi a considerarsi un po’ i patrizi dell’America: ma non hanno potuto mantenere nessun privilegio perché le successive ondate di immigranti fecero presto a sommergerli. Discendere da un padre pellegrino del Mayflower è soltanto, laggiù, un titolo d’onore.

I patrizi romani contro questa mescolanza resistettero molto più à lungo. E per meglio difendere le loro prerogative, fecero quello che fanno tutte le classi sociali, quando sono furbe e si trovano in minoranza numerica: chiamarono dei plebei a condividere i loro privilegi, impegnandoli così a difenderli anch’essi.

Sotto il re Servio Tullio, le classi sociali già non erano più due soltanto. Fra i plebei si era differenziata una grossa borghesia o ceto medio, abbastanza numerosa e soprattutto fortissima dal punto di vista finanziario. Quando il re organizzò i nuovi comizi centuriati dividendoli in cinque classi secondo il patrimonio, e dando alla prima, quella dei milionari, abbastanza voti per battere le altre quattro, i patrizi non furono punto contenti perché si videro soverchiati, come potenza politica, da gente che “non nasceva”, come si dice oggi, cioè che non aveva antenati, ma in compenso aveva più quattrini di loro. Però,

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quando Tarquinio il Superbo fu cacciato via e al suo posto instaurata la repubblica, essi compresero che non potevano restare soli contro tutti gli altri, e pensarono di prendersi come alleati quei ricconi che in fondo, come tutti i borghesi di tutti i tempi, non domandavano di meglio che di entrare a far parte dell’aristocrazia, cioè del Senato. Se i nobili francesi del Settecento avessero fatto altrettanto, si sarebbero risparmiati la ghigliottina. Questi ricconi, come abbiamo detto, si chiamavano equites, cavalieri. Venivano tutti dal commercio e dall’industria, e il loro grande sogno era di diventare senatori. Per riuscirvi, non solo votavano sempre, nei comizi centuriati, d’accordo coi patrizi, che del Senato avevano le chiavi; ma non badavano a rimetterci di tasca propria, quando veniva loro affidato un ufficio o un incarico. Perché i patrizi si facevano pagare profumatamente la concessione dell’alto onore. E quando sposavano una figlia di cavaliere, per esempio, esigevano una dote da regina. E anche il giorno che il cavaliere riusciva finalmente a diventare senatore, non veniva accolto come pater, cioè come patrizio, ma come conscriptus, in quell’assemblea che infatti era costituita da “padri e coscritti”, patres et conscripti.

Il popolo era dunque formato soltanto di questi due ordini: patrizi e cavalieri. Tutto il resto era plebe, e non contava. In essa era compreso un po’ di tutto: artigiani, piccoli bottegai, impiegatucci, liberti. E naturalmente non erano contenti della loro condizione. Infatti il primo secolo della nuova storia di Roma fu interamente occupato dalle lotte sociali fra chi voleva allargare il concetto di popolo e chi voleva tenerlo ristretto alle due aristocrazie: quella del sangue e quella del portafogli.

Questa lotta cominciò nel 494 avanti Cristo, cioè a dire quattordici anni dopo la proclamazione della repubblica, quando Roma, assalita da ogni parte, aveva perso tutto quello che aveva conquistato sotto i re e, ridotta press’a poco a capoluogo di circondario, s’era dovuta acconciare alla parte di membro della Lega Latina su piede di uguaglianza con tutte le altre città. Alla fine di quella rovinosa guerra la plebe, che aveva fornito la mano d’opera per combatterla, si trovò in condizioni disperate. Molti avevano perso il podere, rimasto nei territori occupati dal nemico. E tutti, per mantenere la famiglia mentre si tro-vavano alle armi, si erano coperti di debiti, che a quei tempi non erano una faccenda di tutto riposo, come lo sono oggi. Chi non li pagava, diventava automaticamente schiavo del creditore, il quale poteva imprigionarlo nella sua cantina, ucciderlo, o venderlo.

Se i creditori erano parecchi, erano autorizzati anche a dividersi il corpo dello sciagurato dopo averlo accoppato. E sebbene a questo estremo non sembra che si sia mai arrivati. la condizione del debitore restava ugualmente scomoda.

Cosa potevano fare, questi plebei, per reclamare un po’ dì giustizia? Nei comizi centuriati non avevano voce perché appartenevano alle ultime classi: quelle che avevano troppo poche centurie, e quindi troppo pochi voti, per imporre la loro volontà. Cominciarono ad agitarsi per strada e nelle piazze, domandando per bocca dei più svelti, che sapevano parlare, la cancellazione dei debiti, una nuova ripartizione di terre che consentisse loro di rimpiazzare il perduto potere, e il diritto di eleggere magistrati propri.

Gli “ordini” e il Senato fecero, a queste richieste, orecchio da mercante. E allora la plebe, o per lo meno larghe masse di plebe, incrociarono le braccia, si ritirarono sul Monte Sacro, a cinque chilometri dalla città, e dissero che da quel momento in poi non avrebbero più dato né un bracciante alla terra, né un operaio alle industrie, né un soldato all’esercito.

Quest’ultima minaccia era la più grave e pressante perché proprio in quel momento, ristabilita alla meglio la pace coi vicini di casa latini e sabini, una nuova minaccia si profilava dalla parte dell’Appennìno, dai cui monti avevano cominciato a ruzzolare a valle, in cerca di terre più fertili, le tribù barbare degli equi e dei volsci, che già stavano sommergendo le città della Lega.

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Il Senato, preso alla gola, mandò ambascerie su ambascerie ai plebei per indurli a rientrare in città e a collaborare alla difesa comune. E Menenio Agrippa, per convincerli, raccontò loro la famosa storia di quell’uomo, le cui membra, per far dispetto allo stomaco, si erano rifiutate di procurargli il cibo: così, rimaste senza nutrimento, finirono per morire anch’esse, come l’organo di cui volevano vendicarsi. Ma i plebei, duri, risposero che non c’era scelta: o il Senato cancellava i debiti liberando coloro che eran diventati schiavi perché non li avevano pagati e consentiva alla plebe di eleggere i suoi propri magistrati che la difendessero; o essa restava sul Monte Sacro, e venissero pure tutti gli equi e i volsci di questo mondo a distruggere Roma.

Alla fine il Senato si arrese. Cancellò i debiti, restituì alla libertà chi per essi era caduto in schiavitù, e mise la plebe sotto la protezione di due tribuni e di tre edili da essa eletti di anno in anno. Quest’ultima fu la prima grande conquista del proletariato romano, quella che gli diede lo strumento legale per raggiungere anche le altre sulla strada della giustizia sociale, l’anno 494 è molto importante nella storia dell’Urbe e della democrazia.

Col ritorno dei plebei, fu possibile mettere in campo un esercito per parare la minaccia dei volsci e degli equi. In questa guerra, che durò circa sessant’anni e che aveva per posta la sua sopravvivenza, Roma non fu sola. Il comune pericolo le tenne fedeli non solo gli alleati latini e sabini, ma anche un altro popolo limitrofo, quello degli ernici.

Nei combattimenti che subito si accesero con esito incerto si distinse, raccontano, un giovane patrizio chiamato Coriolano, dal nome di una città che aveva espugnato. Era un conservatore intransigente, e non voleva che il governo facesse una distribuzione di grano al popolo affamato. I tribuni della plebe, che frattanto erano stati eletti, chiesero e ottennero il suo esilio. Coríolano allora passò al nemico, se ne fece dare il comando e, da quel brillante stratega che era, lo condusse di vittoria in vittoria fino alle porte di Roma.

Anche a lui i senatori mandarono ambascerie su ambascerie per farlo desistere. Non ci fu verso. Solo quando egli vide venirsi incontro, supplicanti, la madre e la moglie, comandò il “dietro front” ai suoi, che per tutta risposta l’uccisero; ma poi, rimasti senza guida, furono sconfitti e obbligati a ritirarsi.

Sul loro risucchio comparvero gli equi, che già avevano messo a soqquadro Frascati. Riuscirono a rompere i collegamenti fra i romani e i loro alleati. E il pericolo fu così grave che il Senato, per pararlo, concesse titolo e poteri di dittatore a T. Quinzio Cincinnato che, con un nuovo esercito, liberò le legioni circondate e le condusse a una definitiva vittoria nel 431, poi, deposto il comando dopo averlo esercitato solo per sedici giorni, tornò ad arare il podere dal quale era venuto.

Ma prima ancora di questa felice conclusione, una nuova guerra si era accesa a nord dalla parte dell’etrusca Vejo, che non voleva perdere quella favorevole occasione per mettere Roma definitivamente a terra. Le aveva già fatto parecchi dispetti mentr’era impegnata a difendersi da equi e volsci. E Roma aveva subito all’inglese, cioè legandosela al dito. Appena ebbe le mani libere, le adoprò per saldare i conti. Fu una guerra dura, e anch’essa richiese, a un certo punto, la nomina di un dittatore. Fu costui Marco Furio Camillo, gran soldato e soprattutto gran galantuomo, che portò nell’esercito una grossa novità: lo stipendium,, cioè la “cinquina”. Sino a quel momento i soldati avevano dovuto prestare servizio gratis; e, se avevano moglie, le famiglie rimaste in patria morivano di fame. Camillo lo trovò ingiusto e vi pose rimedio. La truppa, soddisfatta, raddoppiò il suo zelo, conquistò di slancio Vejo, la distrusse meticolosamente, e ne deportò come schiavi tutti gli abitanti.

Questa grande. vittoria e l’esemplare castigo che la sigillava riempirono d’orgoglio i romani, quadruplicarono i loro territori portandoli a oltre duemila chilometri quadrati, e li resero pieni di gelosia e di diffidenza per chi glieli aveva procurati. Mentre Camillo

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seguitava a conquistare città su città in Etruria, a Roma cominciarono a dire ch’era un ambizioso e che s’intascava il bottino dei popoli vinti, invece di consegnarlo allo stato. Camillo ne fu talmente amareggiato che depose il comando e, invece di tornare in patria a scolparsi, se ne andò in volontario esilio ad Ardea.

Forse vi sarebbe morto lasciando un nome insudiciato dalle calunnie, se gl’ingrati romani non avessero di nuovo avuto bisogno di lui per salvarsi dai galli, l’ultimo e il più grave pericolo da cui dovettero difendersi, prima d’iniziare la grande conquista. 1 galli erano una popolazione barbara, di razza celtica, che, venuta dalla Francia, già aveva sommerso la pianura del Po. Divisero quel fertile territorio fra le loro tribù, gl’insubri, i boi, i cenomani, i senoni; ma una di esse, al comando di Brenno, mosse verso il sud, conquistò Chiusi, travolse le legioni romane sul fiume Allia, e marciò su Roma.

Gli storici che lo hanno raccontato a cose fatte hanno avvolto di molte leggende questo capitolo che dovett’essere per l’Urbe molto spiacevole. Dicono che quando i galli fecero per dare la scalata al Campidoglio, le oche sacre a Giunone cominciarono a stridere risvegliando così Manlio Capitolino che, alla testa dei difensori, respinse l’attacco. Sarà. Però i galli in Campidoglio entrarono ugualmente come in tutto il resto della città, donde la popolazione era fuggita in massa per rifugiarsi sui monti circostanti. Dicono anche che i senatori però erano rimasti, al completo, solennemente assisi sui rozzi scranni di legno della loro curia, e che uno di essi, Papirio, nel sentirsi tirar la barba per dileggio da un gallo, che forse la credeva finta, gli sbatacchiò sul viso lo scettro d’avorio. E infine narrano che Brenno, dopo aver appiccato il fuoco a tutta Roma, chiese. per andarsene, non so quanti chili d’oro e impose, per pesarli, una bilancia che rubava. 1 senatori protestarono, e Brenno allora, sul piatto dei pesi, buttò anche la sua spala, pronunciando la famosa frase: « Vae victis ! », “guai ai vinti!”. Al che Camillo, ricomparso per miracolo, avrebbe risposto: «Non auro, sed ferro, recuperanda est patria », la patria la si restaura col ferro, non con l’oro”. si sarebbe rimesso a capo dì un esercito, che sino a quel momento non si capisce dove si fosse tenuto nascosto, e avrebbe volto in fuga il nemico.

,La verità è che i galli espugnarono Roma, la misero a sacco, e se ne andarono incalzati dalle legioni, ma carichi di quattrini. Erano predoni gagliardi e zotici, che non seguivano nessuna linea politica e strategica nelle loro conquiste. Assalivano, depredavano e si ritiravano senza punto preoccuparsi del domani. Avessero potuto immaginare che vendetta Roma avrebbe tratto da quella umiliazione, non vi avrebbero lasciato pietra su pietra. Invece la devastarono sì,. ma senza distruggerla. E tornarono sui loro passi, verso l’Emilia e la Lombardia, dando modo a Camillo, richiamato d’urgenza da Ardea, di riparare i guasti. Egli probabilmente non fece coi galli neanche una scaramuccia. ‘ Essi erano già partiti, quando egli arrivò. Ma, mettendo da parte i rancori, riprese il titolo di dittatore, si rimboccò le maniche, e si mise a ricostruire la città e l’esercito.

Coloro stessi che lo avevano chiamato ambizioso e ladro lo chiamarono ora “il secondo fondatore di Roma”.

Ma mentre tutto questo avveniva sul fronte esterno, su quello interno l’Urbe raggiungeva un grosso traguardo con la Legge delle Dodici Tavole.

Fu un successo dei plebei i quali, dacché erano tornati dal Monte Sacro, non avevano cessato di chiedere che le leggi non fossero più lasciate in monopolio alla Chiesa, che a sua volta era monopolio dei patrizi, ma venissero pubblicate in modo che ognuno sapesse quali erano i suoi doveri e quali le pene che gli sarebbero toccate in caso d’infrazione. Sino a quel momento le nonne in base a cui,il magistrato giudicava erano state segrete, raccolte in testi che i sacerdoti conservavano gelosamente, e mescolate con riti religiosi con cui si pretendeva indagare la volontà degli dèi. Un assassino, se il dio era di buon umore, poteva scapolarsela; un povero ladruncolo di polli, se il dio era in giornata

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nera, poteva finire sulla forca. Siccome coloro che ne interpretavano il volere, magistrati e sacerdoti, erano patrizi, i plebei si sentivano senza difesa.

Sotto la pressione del pericolo esterno, dei volsci, degli equi, dei veienti, dei galli, e la minaccia di una seconda secessione sul Monte Sacro, il Senato, dopo molte resistenze, si arrese, e mandò tre dei suoi membri in Grecia, a studiare quello che aveva fatto Solone in questo campo. Quando i messi tornarono, fu nominata una commissione di dieci legislatori, detti dal loro numero decemviri. Sotto la presidenza di Appio Claudio, essi redassero il codice delle Dodici Tavole, che costituì la base, scritta e pubblica, del diritto romano.

Questa grande conquista porta la data dell’anno 451, che corrispondeva press’a poco al trecentesimo anniversario della fondazione dell’Urbe.

Essa non andò liscia. Perché i pieni poteri che il Senato aveva conferito ai decemviri per realizzarla erano tanto piaciuti a costoro, che alla fine del secondo anno, quando dovevano scadere, si rifiutarono di restituirli a chi glieli aveva dati. Raccontano che la colpa fu di Appio Claudio che volle continuare a esercitarli per ridurre in schiavitù e vincere le resistenze dì una bella e appetitosa plebea, Virginia, di cui si era innamorato. Il padre, Lucio Virginio, andò a protestare. E, visto che Appio non gli dava retta, piuttosto che lasciar la sua creatura in balìa di quel típaccio, lo pugnalò. Dopodiché, come già aveva fatto Collatino dopo la faccenda di Lucrezia, corse in caserma, raccontò ai soldati l’accaduto e li esortò a sollevarsi contro il despota. Indignata, la plebe ancora una volta si ritirò sul Monte Sacro (orinai aveva imparato), l’esercito minacciò di seguirvela. Il Senato riunito d’urgenza, disse ai decemviri (con profonda soddisfazione, riteniamo) che non poteva mantenerli in carica. Essi furono quindi dimissionati d’ufficio, Appio Claudio venne bandito, e il potere esecutivo restituito ai consoli.

Non era ancora il trionfo della democrazia, che avverrà solo un secolo dopo, con le rogazioni licinie-sestie. Ma era già un grosso passo avanti. La P di quella sigla SPQR cominciava ad essere il Populus, quale noi lo intendiamo al giorno d’oggi.

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CAPITOLO SETTIMO

PIRRO DALL’UMILIAZIONE toccatale per mano dei galli e dalle convulsioni della lotta

interna fra patrizi e plebei, Roma usci con due grosse briscole in tasca: la supremazia nella Lega, rispetto alle rivali latine e sabine che, molto più devastate di lei, non avevano poi trovato un Camillo per ricostruirsi; e un più equilibrato ordine sociale, che garantiva una tregua fra le classi. Sicché, appena si furono, diradati i fumi degl’incendi che Brenno si era lasciati sul solco della sua ritirata verso il Nord, l’Urbe, tutta nuova e più modernamente attrezzata di prima, cominciò a guardarsi bene intorno in cerca di bottino.

Fra quelle confinanti, la Campania era la terra più fertile e ricca. L’abitavano i sanniti, una parte dei quali però era rimasta sui monti dell’Abruzzo. E di qui, incalzati dal freddo e dalla fame, scendevano spesso a saccheggiare gli armenti e le messi dei loro confratelli del piano. Sotto la minaccia di una di queste incursioni, i sanniti di Capua si rivolsero per protezione a Roma, che di tutto cuore gliela concesse, perché era il modo migliore di dividere definitivamente in due quel popolo e di ficcare il naso nei suoi affari interni. Così cominciò la prima delle tre guerre sannitiche, quella contro gli abruzzesi, che durarono in tutto una cinquantina d’anni.

Fu breve, dal 343 al 341, e qualcuno dice che non fu mai nemmeno combattuta, perché gli abruzzesi non si fecero vedere, e i romani non se la sentirono di andarli a scovare sui loro monti. Però una conseguenza rimase: la “protezione” di Roma su Capua, che a tal punto si sentì protetta da invitare i latini a un fronte unico contro la comune protettrice. I latini aderirono e Roma, da alleati, se li trovò improvvisamente nemici. Fu un brutto momento, che richiese i soliti eroici episodi per superarne le difficoltà. Il console Tito Manlio Torquato, per dare un esempio di disciplina, condannò a morte il proprio figlio che, contrariamente all’ordine di non muoversi, era uscito dai ranghi per rispondere all’oltraggio di un ufficiale latino. E il suo collega Publio Decio Mure, quando gli auguri gli dissero che solo col sacrificio della sua vita avrebbe salvato la patria, avanzò da solo contro il nemico, lieto di farsene uccidere.

Veri o inventati che siano questi episodi, Roma vinse, e sciolse la Lega Latina che l’aveva tradita. Con questo finì la politica “federalistica” usata sino ad allora, e s’inaugurò quella “unitaria” del blocco unico. Alle diverse città che avevano composto la Lega, Roma concesse forme diverse di, autonomia, in modo da impedire una comunanza d’interessi tra loro. Era la tecnica del divide et impera che faceva capolino. Fra le città soggette non ci dovevano essere rapporti politici. Ognuna di esse li serbava solo con l’Urbe. In Campania furono mandati coloni, che ebbero in regalo le terre conquistate e vi costituirono gli avamposti della romanità nel Sud. Nasceva l’impero.

La seconda guerra sannitica cominciò, senza pretesto, una quindicina d’anni dopo, nel 328. I romani, giunti con quella precedente alle soglie di Napoli, la capitale delle colonie greche, vi misero gli occhi addosso e rimasero incantati delle sue lunghe mura elleniche, delle sue palestre, dei suoi teatri, dei suoi commerci, della sua vivacità. E un bel giorno l’occuparono.

I sanniti, sia quelli del piano, sia quelli della montagna, capirono che, a lasciarla fare, quella gente avrebbe divorato tutta l’Italia, conclusero pace fra loro e attaccarono alle spalle le legioni spintesi così lontano nel Sud. Dapprima il loro esercito, più di guerriglieri che di soldati, fu battuto; ma poi, conoscendo il terreno meglio dei romani, li attrassero nelle gole di Caudio presso Benevento, e ce li strangolarono. Dopo ripetuti e inutili tentativi

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di sottrarsi alla morsa, i due consoli dovettero capitolare e subire l’umiliazione di passare sotto il giogo delle lance sannite: furon queste le famose “forche caudine”.

Roma, come al solito, incassò lo schiaffo, ma non chiese pace. Facendo tesoro dell’esperienza, riordinò le legioni in modo da non esporle più a simili disavventure e da renderle di più facile e svelto maneggio. Poi, nel 316, riprese la lotta. Ancora una volta si trovò di fronte al pericolo, quando gli etruschi a nord e gli ernici a sud-est cercarono di coglierla alla sprovvista. Li batte separatamente. Poi rivolse tutte le sue forze contro gl’isolati sanniti, nel 305 espugnò la loro capitale, Boviano, e per la prima volta le sue legioni, traversato l’Appennino, raggiunsero la costa adriatica delle Puglie.

Questi successi preoccuparono gravemente gli altri popoli della penisola che, per paura, trovarono il coraggio di sfidare, coalizzati, Roma. Ai sanniti si unirono stavolta, oltre agli etruschi, anche i lucani, gli umbri e i sabini, decisi a difendere, con la propria indipendenza, la propria anarchia. Misero insieme un esercito, che affrontò i romani a Sentino, sull’Appennino umbro. Erano superiori come numero, ma i vari generali che comandavano i vari contingenti, invece di collaborare tra loro, tiravano ognuno a far ciccia per conto proprio. E naturalmente furono battuti. Decio Mure, figlio del console che si era volontariamente sacrificato per la patria nella campagna precedente, ripete il gesto del padre e assicurò definitivamente il nome della famiglia alla storia. La coalizione si sfasciò. Etruschi, lucani e umbri chiesero una pace separata. Sanniti e sabini continuarono a combattere ancora cinque anni. Poi, nel 290 avanti Cristo, si arresero.

Gli storici moderni sostengono che Roma affrontò questo ciclo di guerre avendo di mira un preciso obbiettivo strategico: l’Adriatico. Noi crediamo,che sull’Adriatico le sue legioni si trovarono senza saper né come né perché, solo correndo dietro al nemico in fuga. I romani del tempo non avevano carte geografiche, ignoravano che l’Italia costituiva ciò che oggi si chiamerebbe “una naturale unità geopolitica”, che essa aveva la forma di uno stivale, e che, per tenerla in pugno, occorreva dominarne i mari. Ma, senza conoscerne né formularne la teoria, essi praticavano, semplicemente, il principio del Lebensraum, o “spazio vitale" secondo cui, per vivere e respirare, un territorio ha bisogno di annettersi quelli contigui. Così, per garantire la sicurezza di Capua, conquistarono Napoli; per garantire la sicurezza di Napoli, conquistarono Benevento; finché arrivarono a Taranto, dove si fermarono, perché di là non c’era che il mare.

Taranto, a quei tempi, era una metropoli greca, che. aveva fatto enormi progressi specie nel campo delle industrie, dei commerci e delle arti, sotto la guida di Archita, uno dei più grandi uomini di stato dell’antichità, mezzo filosofo e mezzo ingegnere. Non era una città bellicosa. Nel 303 aveva chiesto e ottenuto dall’Urbe la promessa che le navi romane non avrebbero mai superato il Capo Colonne, cioè che i romani l’avrebbero lasciata in pace dalla parte del mare sicura com’era che via terra non potevano giungere fin lì. E invece proprio da quella parte ora se li vedeva ruzzolare addosso.

Il pretesto di guerra fu offerto, come al solito da una richiesta di protezione che quelli di Turii, insidiati dai lucani, rivolsero a Roma, che, come sempre, prontamente l’accolse e mandò una guarnigione a difenderli, ma via mare. Lo fece apposta per attaccar briga, senza dubbio. Le navi, per raggiungere Turii, dovettero oltrepassare il Capo Colonne; e i tarantini su questa infrazione ai patti chiusero un occhio. Ma quando le dieci triremi di Roma pretesero di ormeggiarsi nel loro porto, considerarono la cosa come una provocazione, le assalirono e ne affondarono quattro.

Compiuto il gesto, si resero conto ch’esso comportava la guerra, e che la guerra non poteva finire che molto male per loro, se di fuori non giungeva qualche potente aiuto. Ma quale? In Italia non c’era più -un solo stato che potesse opporsi a Roma. E allora

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mandarono a cercarne all’estero,- inaugurando un costume che nel nostro paese dura tuttora. Lo trovarono, di là dal mare, in Pirro, re dell’Epiro.

Pirro era un curioso personaggio che, se si fosse contentato del suo piccolo reame montanaro, avrebbe potuto vivere a lungo e da signore. Ma aveva letto nell’Iliade le gesta di Achille; nelle sue vene c’era sangue macedone, ch’era stato il sangue di Alessandro il Grande; e tutto concorreva a far di lui una figura molto simile ai nostri condottieri del Quattrocento. Era insomma,.come si direbbe oggi, un tipo che cercava “rogne”. Quella che gli offrivano i tarantini era proprio sulla sua misura, e la colse a volo. Imbarcò. sulle loro navi il suo esercito, e ad Eraclea affrontò i romani.

Costoro si trovarono per la prima volta a faccia a faccia con una nuova arma di cui non avevano mai immaginato l’esistenza e che fece su di loro la stessa impressione che i primi carri armati inglesi fecero sui tedeschi in Fiandra nel 1916: gli elefanti. Dapprincipio credettero che fossero buoi, e così li chiamarono infatti: “buoi lucani”. Ma nel vederseli venire addosso, furono colti dallo sgomento e persero la battaglia, pur infliggendo tali perdite al nemico da togliergli ogni gioia per il successo. Le “vittorie di Pirro” sono state, da allora in poi, quelle pagate a troppo caro prezzo.

L’epirota bissò l’anno dopo (279) ad Ascoli Satriano. Ma anche lì le sue perdite furono tali che, guardando il campo di battaglia cosparso di morti, fu colto dalla stessa crisi di sgomento che due millenni più tardi doveva cogliere Napoleone III alla vista del campo di battaglia di Solferino. E mandò a Roma il suo segretario Cinea con proposte di pace, dandogli per compagni duemila prigionieri romani che, se la pace non fosse stata conclusa, s’erano impegnati a tornare. Dicono che il Senato stava per accettare quelle offerte, quando si alzò a parlare il censore Appio Claudio il Cieco, per ricordare all’assemblea che non era dignitoso trattare con uno straniero) finché il suo esercito invasore continuava a bivaccare in Italia.

Non crediamo che sia vero perché per Roma l’Italia, in quel momento, era Roma soltanto. Però è certo che il Senato respinse le proposte, e che Cinea, tornando con i duemila prigionieri, nessuno dei quali era venuto meno alla parola data, fece a Pirro un tale resoconto di ciò che aveva visto a Roma, che l’epirota preferì abbandonare l’impresa: e, accolto un invito dei siracusani perché li aiutasse a liberarsi dai cartaginesi, mosse verso la Sicilia. Neanche qui le cose gli andarono bene perché le città greche ch’era venuto a difendere non riuscirono mai a mettersi d’accordo e a fornirgli i contingenti che gli avevano promesso. Scoraggiato, Pirro riattraversò lo stretto per tornare a dare manforte a Taranto che le legioni romane in quel momento investivano. Stavolta esse erano abituate agli elefanti e non se ne lasciarono sgomentare. Pirro fu battuto a Malevento, che per l’occasione fu ribattezzata dai romani Benevento, nel 275. Decisamente, l’Italia non gli aveva portato fortuna. Amareggiato, tornò in patria, andò a cercarsi una rivincita in Grecia, e vi trovò invece la morte.

Erano trascorsi esattamente settant’anni (343-273) da quando Roma, riassestatasi alla meglio internamente dopo il terremoto seguito alla caduta della monarchia e superata la lotta per l’esistenza, si era messa sul piede delle vere e proprie guerre di conquista. Ed eccola alla fine arbitra di tutta la penisola dall’Appennino tosco emiliano allo stretto di Messina. Uno dopo l’altro, tutti i piccoli potentati che la costellavano le caddero in mano, compresi quelli della Magna Grecia continentale, rimasti senza difensori dopo la partenza di Pirro. Taranto si arrese nel 272, Reggio nel 270. Ma, dopo l’esperienza fatta con la Lega Latina, Roma aveva capito che dei “protetti” e degli “alleati per forza” non bisognava fidarsi. E un po’ per questo, un po’ perché sospinti dalla pressione demografica dell’Urbe, i romani iniziarono la vera e propria romanizzazione dell’Italia col metodo delle “colonie” già adottato dopo la prima guerra sannitica. Le terre nemiche venivano confiscate e

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distribuite a cittadini romani nullatenenti, specie in base a meriti che oggi chiameremmo “combattentistici”. Erano soprattutto dei veterani che se le vedevano assegnate: gente sicura, pronta a menar le mani per difendersi e difendere Roma. Gl’indigeni naturalmente li accoglievano senza simpatia, come ladri oppressori. Dal nome di uno di essi, Cafo, caporale dell’esercito di Cesare, coniarono più tardi la parola “cafone”, termine dispregiativo che significa rozzo e volgare. E ispirato da questa ostilità fu l’uso, che nacque allora, della “per-nacchia”, sberleffo irriverente con cui i popoli vinti salutavano i romani che. entravano nelle loro città e che sulle prime, a quanto pare, fu preso per un’espressione di benvenuto.

Naturalmente non si può sperare d’ingrandire il proprio territorio da cinquecento a venticinquemila chilometri quadrati, come fece Roma in questo periodo, senza pestare i piedi a qualcuno. Ma in compenso tutta l’Italia del Centro e del Sud cominciò a parlare una sola lingua e a pensare in termini, invece che di villaggio e di tribù, di nazione e di stato.

Contemporaneamente a queste lunghe e sanguinose guerre e sotto la loro pressione, i plebei raggiungevano l’uno dopo l’altro tutti i loro obbiettivi, fino all’ultimo e fondamentale, garantito dalla Legge Ortensia, così chiamata dal nome del dittatore che la impose: quella per cui il plebiscito diventava automaticamente legge, senza bisogno di ratifica da parte del Senato. Da quando, con la Legge Canuleja del 445, era stato abolito, almeno sulla carta, il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei, costoro non erano più, legalmente, esclusi da nessun diritto o magistratura. E poiché la pretura, ad essi liberamente aperta, consentiva a chi l’avesse esercitata libero ingresso al Senato, anche questa cittadella dell’aristocrazia fu loro, sia pure con mille cautele e limitazioni, accessibile.

Tutto ciò era stato raggiunto dopo infiniti contrasti che ogni tanto avevano messo in pericolo l’esistenza dell’Urbe. Ma il fatto che bene o male vi si fosse arrivati, stava a dimostrare che le classi alte di Roma erano si, conservatrici, ma con molto sale in zucca. Esse non si vergognavano di difendere apertamente i propri interessi di casta e non fingevano d’amoreggiare con le “sinistre” come fanno tanti principi e industriali d’oggidì. Ma pagavano le tasse, facevano dieci anni di duro servizio militare, morivano alla testa dei loro soldati, e quando si trattava di scegliere fra i propri privilegi e il bene della patria, non esitavano. Perciò, anche dopo aver accettato la completa parificazione di diritti coi plebei, .rimasero al potere, come ancora riesce a fare, pur in questo mondo socialista, la nobiltà inglese.

Nel periodo di riposo che si concesse dopo la vittoria su Pirro e che le servi a digerire quel po’ po’ di banchetto, Roma diede gli ultimi ritocchi a questo interno equilibrio e ordine al grosso pezzo di penisola di cui era padrona. La via Appia, che già Appio Claudio aveva fatto costruire per unire Capua a Roma, fu prolungata fino a Brindisi e Taranto. E su di essa, oltre ai soldati, furono incamminati i coloni che andavano a ro-manizzare Benevento, Isernia, Brindisi e tante altre città. Roma riconobbe ai vinti poche autonornie, ne rispettò ancora meno, e fu la prima e più grande responsabile della mancata nascita, in Italia, delle libertà comunali e cantonali, che invece si svilupparono così rigogliose nel mondo germanico. In compenso portò alla più alta espressione il concetto di stato, di cui fu praticamente l’inventrice, e lo poggiò sui cinque pilastri che tuttora lo reggono: il Prefetto, il Giudice, il Gendarme, il Codice e l’Agente delle tasse.

Fu con questa attrezzatura che mosse alla conquista del mondo. E ora vediamo più da vicino perché riuscì a realizzarla.

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CAPITOLO OTTAVO

L’EDUCAZIONE NELLA Roma di quei tempi, tutti “vivevano pericolosamente”. E i pericoli

cominciavano il giorno che si veniva al mondo. Perché se uno nasceva femmina o per qualche ragione minorato, il padre aveva il diritto di scaraventarlo fuor dell’uscio e di lasciarvelo morire. E spesso lo faceva davvero.

Il figlio maschio e sano, invece, generalmente era bene accolto, non solo perché più tardi, col suo lavoro, sarebbe stato di aiuto ai genitori, ma anche perché costoro credevano che, se non lasciavano qualcuno a curare la loro tomba e a celebrarvi sopra i dovuti sacrifici, la loro anima non sarebbe entrata in paradiso.

Se tutto andava bene, cioè se aveva azzeccato sesso e fisica integrità, il nuovo venuto veniva, otto giorni dopo la nascita, ufficialmente ricevuto dalla gente, con una solenne cerimonia. La gente era un gruppo di famiglie che risalivano a un comune antenato il quale aveva dato loro il proprio nome. Infatti il pargolo di nomi ne riceveva solitamente tre: quello individuale o “prenome” (come Mario, Antonio, eccetera), quello della gente o “nome” vero e proprio, e quello della sua propria famiglia o “cognome”. Questo, per ciò che riguarda gli uomini. Le donne invece portavano il “nome” solo, cioè quello della gente. E si chiamavano infatti Tullia, Giulia, Cornelia, eccetera, mentre i loro fratelli erano, poniamo, Marco Tullio Emilio, Publio Giulio Antonio, Caio Cornelio Gracco.

Questo strano costume ha generato un sacco di confusioni, perché siccome gli antenati fondatori erano stati, come già abbiamo detto, un centinaio in tutto, altrettanti erano i “nomi” delle genti, e quindi si ripetevano continuamente, rendendo obbligatoria l’aggiunta di un quarto o di un quinto soprannome. Per esempio, il Publio Cornelio Scipione che distrusse Cartagine si aggiunse anche, sul biglietto di visita, un “Emiliano Africano Minore" per distinguersi dal Publio Cornelio Scipione che aveva vinto Annibale e aveva aggiunto su quello suo un “Africano Maggiore”.

Erano, come vedete, nomi lunghi, pesanti e imponenti, che già di per se stessi caricavano un certo numero di doveri sulle spalle del neonato. Un Marco Tullio Cornelio non poteva concedersi ì lussi né abbandonarsi ai capricci di cui oggi si riconosce il diritto a un “Fofino” o a un “Pupetto”. E infatti non crescevano punto vezzeggiati. Sin dalla più tenera età s’insegnava loro che la famiglia di cui. erano membri costituiva una vera e propria unità militare, in cui tutti i poteri erano concentrati sul capo, cioè sul paterfamilias. Egli solo poteva comprare e vendere perché egli solo era il proprietario di tutto, compresa la dote della moglie. Se costei lo tradiva o gli rubava il vino nella botte, egli poteva ucciderla senza processo. Identici diritti aveva sui figli, che Poteva anche vendere come schiavi.

Tutto ciò ch’essi compravano diventava automaticamente suo. Le femmine si sottraevano a que,sta patria potestà solo quando egli le conduceva in sposa a qualcuno cum manu, cioè rinunziando esplicitamente a ogni diritto su d loro. Ma in tal caso questi diritti passavano al marito. Di modo che la donna finiva col dipendere sempre da un uomo: o dal padre o dallo sposo, o dal figlio maggiore quando restava vedova, o da un tutore.

Questa dura disciplina, che poi lentamente si addolcì col trascorrere dei secoli, trovava il suo limite nella pietas, cioè negli affetti tra i coniugi e tra questi e i figli. Ma essi non giungevano mai, o quasi mai, a intaccare la granitica unità della famiglia romana, che includeva anche i nipoti, i pronipoti e gli schiavi, considerati questi ultimi semplici oggetti.

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La madre si chiamava domina, cioè signora, e non era confinata in un gineceo, come capitava a quelle greche. Prendeva i pasti col marito, ma seduta sul triclinio (una specie di rustico divano); invece che distesa come ci stava lui. In genere, non lavorava molto, manualmente, perché crisi di personale dì servizio non ce n’era, con tanti schiavi che venivano catturati sul campo di. battaglia, e ogni famiglia ne aveva più d’uno. La domina li dirigeva e sorvegliava Eppoi, per svagarsi, tesseva la lana per gli abiti del marito e dei figli libri, carte da giuoco, teatro, circo: niente. Le visite erano rare e di stretta prammatica. Un cerimoniale scrupoloso le rendeva complicate e difficili. La domus, cioè la casa, era, più che una caserma, un fortino vero e proprio. E lì, nella più assoluta obbedienza, si formavano i ragazzi.

Ad essi veniva insegnato che nel focolare la fiamma non doveva mai estinguersi perché essa rappresentava Vesta, la dea della vita. Bisognava nutrirla aggiungendo sempre altra legna e gettandovi briciole di pane durante i pasti. Alle pareti, che erano di fango o dì mattoni, erano appese piccole icone, in ognuna delle quali il ragazzo vedeva un Lare o un Penate, spiritelli domestici che proteggevano la prosperità della casa e dei campi. Sulla porta c’era Giano a sorvegliare, con le sue due facce rivolte una dentro e l’altra fuori, chi entrava e chi usciva. E tutt’intorno, a montar la guardia, c’erano i Mani, le anime degli antenati, che restavano nei paraggi anche dopo morti. Sicché nessuno poteva fare un movimento senza dar di capo in qualche soprannaturale guardiano, che faceva parte anche lui della famiglia: una famiglia composta non soltanto dai vivi,ma anche da coloro che li avevano preceduti e da coloro che li avrebbero seguiti. Tutti insieme, essi formavano un microcosmo non soltanto economico e morale, ma anche religioso, di cui il pater era l’infallibile papa. Egli compiva i sacrifici sull’altare di casa. Ed era in nome degli dèi che impartiva gli ordini e distribuiva i castighi.

La religiosità in cui cresceva il ragazzo romano, più che a migliorarlo nel senso che noi ora diamo a questa parola, mirava a disciplinarlo. Infatti essa non lo spingeva verso i nobili ideali della bontà e della generosità, ma all’accettazione delle regole liturgiche che di tutta la sua vita facevano un rito. Non gli si chiedeva, per esempio, di essere disinteressato; gli si chiedeva, anzi gli si imponeva, di rispettare certe formule e di partecipare alle cerimonie. Le sue preghiere erano tutte volte al conseguimento di fini pratici e immediati. Egli si rivolgeva ad Abeona perché gl’insegnasse a muovere i primi passi, a Fabulina perché gli apprendesse a pronunciare le prime parole, a Pomona perché gli facesse crescere bene le pere nel giardino, a Saturno perché lo aiutasse a seminare, a Cerere perché gli consentisse di rnietere, a Stérculo perché le vacche nella stalla facessero abbastanza letame.

Tutti questi dèi e spiriti erano personaggi senza preoccupazioni morali, ma pignolissimi per ci che riguardava le forme. Evidentemente non si facevano illusioni sull’animo umano. E, considerandolo non suscettibile di un vero e proprio miglioramento, lo abbandonavano a se stesso. Ciò che interessava loro non erano le intenzioni, ma i gesti dei loro fedeli che volevano tenere ordinati dentro gli argini delle grandi istituzioni, la famiglia e lo stato, di cui costituivano il cemento. Per questo esigevano l’obbedienza al padre, la fedeltà al marito, la prolificità, l’accettazione della legge, il rispetto dell’autorità, il coraggio in guerra fino al sacrificio, la fermezza di fronte alla morte. E il tutto ammantato di sacerdotale solennità.

A questa accurata e puntigliosa formazione del carattere, seguiva, verso i sei o sette anni, quella della mente, cioè l’istruzione vera e propria. Ma essa non era gestita dallo stato, come succede oggi, con le scuole pubbliche. Restava affidata alla famiglia, e di rado il babbo, anche nelle case benestanti, la delegava a qualche schiavo o liberto. Quest’uso venne molto più tardi, quando Roma fu più grande e più forte, ma non più stoica. Sino a

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tutte le guerre puniche, era il padre che faceva da maestro al figlio, cioè gl’impartiva quella che oggi si chiama la cultura e che allora si chiamava. “disciplina” per meglio metterne in risalto il carattere di obbedienza assoluta.

Le materie erano poche e semplici: lettura, scrittura, grammatica, aritmetica e storia. I romani conoscevano. una specie d’inchiostro ricavato dal succo di certe bacche. In esso intingevano un’asticciòla di metallo con cui componevano le parole sopra tavolette di legno piallato (solo più tardi riuscirono a fabbricare carta di lino e pergamena). La loro era una lingua dalla sintassi severa, ma di pochi vocaboli e senza sfumature, che si prestava più alla compilazione di leggi e di codici che ai romanzi e alla poesia. Di questa roba i romani d’altronde non sentivano nessun bisogno, e chi voleva leggerne, doveva imparare il greco, lingua molto più ricca, sfumata e flessibile. In greco infatti è composto il loro primo testo di storia scritta: quello di Quinto Fabio Pittore. Ma è del 202 avanti Cristo, cioè di un’età molto più avanzata.

Sino a quel momento la storia veniva tramandata solo oralmente di babbo in figlio attraverso racconti immaginosi che colpissero la fantasia dei bambini: era quella di Enea, di Amulio e Numitore, degli Orazi e dei Curiazi, di Lucrezia e di Collatino. Queste arbitrarie, ma corroboranti leggende storiche, erano rinforzate dalla poesia, tutta d’intonazione sacra e commemorativa. Essa era condensata in volumi che si chiamavano Fasti consolari, Libri dei magistrati, Annali massimi eccetera, e celebravano i grandi eventi nazionali: elezioni, vittorie, feste, miracoli.

Il primo a uscire da questi argomenti di stretta prammatica fu uno schiavo greco, Livio Andronico che, caduto prigioniero durante il sacco di Taranto, fu condotto a Roma, dove cominciò a raccontare l’Odissea agli amici del suo padrone. Costoro ci si divertirono. E, siccome erano gente altolocata, lo incaricarono di ricavarne uno spettacolo per i grandi ludi, o giuochi del 240.

Livio, per tradurre quei versi greci) ne inventò di consimili in latino, dal ritmo rozzo e irregolare. E con essi compose una tragedia, di cui egli stesso recitò e cantò tutte le parti, finché gli rimase un filo dì voce in gola. i romani, che non avevano mai visto né udito nulla di simile, ci si divertirono a tal punto che il governo riconobbe i poeti come una categoria della cittadinanza e gli consenti di fondersi in una “corp6razione” con sede nel tempio della Minerva sull’Aventino.

Ma anche questo, ripeto, avvenne molto più tardi. Per il momento, di letteratura i ragazzi romani non ebbero da leggerne. Imparato a compitare e a mandare a memoria quelle tali leggende, essi passavano alla matematica - e alla geometria. La prima consisteva in semplici operazioni di contabilità eseguite sulle dita, di cui i numeri scritti non erano che. imitazioni. I è la rappresentazione grafica di un dito alzato, V è una mano aperta, X due mani aperte e incrociate. Con.questi simboli, prèfissi (IV) e suffissi (VI, XII), i romani contavano. Poi, da questa aritmetica manuale, si sviluppò un sistema decimale, su parti e multipli di dieci, cioè delle dieci dita. Quanto alla geometria, essa rimase arcaica finché non vennero i greci a insegnarla: si riduceva al minimo necessario per le rudimentali costruzioní del tempo.

Ginnastica, nulla. Le “palestre” e i “ginnasi” sono di un’età molto posteriore, e d’importazione greca anch’essi. I babbi romani preferivano corroborare i muscoli dei loro figli mettendoli al lavoro sul podere con la vanga e l’aratro, eppoi consegnandoli all’esercito che, quando li lasciava vivi, li restituiva dopo molti anni a prova di bomba. Per questo non s’insegnava neanche la medicina. I romani ritenevano che fossero non i virus a provocare le malattie, ma gli dèi. E allora, delle due l’una: o gli dèi volevano, con quel segno, dire al malato: “sgombra”, e in tal. caso non c’era nulla.da fare; o volevano soltanto impartirgli un momentaneo castigo, e in tal caso non c’era che da aspettare. Infatti per ogni

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malanno c’era una preghiera a questa o a quella divinità. La Madonna della febbre, cui ancora oggi il popolino romano si rivolge, è la versione aggiornata delle dee Febbre e Mefite cui si rivolgeva allora.

Quanto alle ore di ricreazione dallo studio, nemmeno esse erano lasciate al capriccio dei ragazzi e dovevano andare sprecate. Dopo molte ore di zappa e qualcuna di grammatica, i babbi senatori prendevano i figli per mano e li conducevano alla curia, davanti al Foro, dove la loro assemblea teneva le sue sedute o senato consulti. E li su quei banchi, in silenzio, i bambini romani, sin dall’età di sette o otto anni, ascoltavano dibattere i grandi problemi dello stato, l’amministrazione, le alleanze, le guerre, e si modellavano su quello stile grave e solenne, che costituì la loro precipua caratteristica (e li rendeva tanto noiosi).

Ma il definitivo ritocco alla loro formazione lo dava l’esercito. Quanto più un cittadino era ricco, tante più tasse aveva da pagare e tanti più anni da servire sotto le bandiere. Per chi voleva iniziarsi a una pubblica carriera, il minimo era dieci. E quindi soltanto i ricchi praticamente potevano intraprenderla perché solo essi potevano trascorrere tanto tempo lontani dal podere o dalla bottega. Ma anche chi si contentava di esercitare i propri diritti politici, cioè quello di voto, doveva aver fatto il soldato. E infatti era come tale, cioè come un membro della centuria, che prendeva parte all’Assemblea Centuriata, il massimo corpo legislativo dello stato, divisa, come abbiamo già detto, nelle sue cinque classi.

La prima, di centurie ne aveva novantotto, di cui diciotto di cavalleria e il resto di fanteria pesante, dove ognuno si arruolava armato a proprie spese di due lance, un pugnale, una sciabola, un elmetto di bronzo, la corazza e lo scudo, che mancava invece alla seconda classe, in tutto il resto identica alla prima. La terza e la quarta erano prive di ogni strumento di difesa (elmetto, corazza e scudo). Quelli della quinta erano armati soltanto dì bastone e di sassi. L’unità fondamentale di questo esercito era la legione, costituita di quattromiladuecento fanti, trecento cavalieri e vari gruppi ausiliari. Il console ne comandava due, cioè circa diecimila uomini. Ogni legione aveva un suo vessillo, ed era impegno d’onore d’ogni soldato impedire ch’esso cadesse in mano al nemico. Infatti gli ufficiali, quando se la vedevano brutta, lo impugnavano e si lanciavano avanti. La truppa, per difenderlo, li seguiva. E molte battaglie che giravano male, furono rimediate così, all’ultimo momento.

Nei primissimi tempi, la legione era divisa in falangi, sei solide linee di cinquecento uomini ciascuna. Poi, per renderla più maneggevole, in manipoli di due centurie. Ma ciò che faceva la forza di questo esercito non era l’organico, era la disciplina. Il codardo veniva frustato sino alla morte. E il generale poteva decapitare chiunque, ufficiale o soldato, per la minima disobbedienza. Ai disertori e ai ladri si tagliava la mano destra. E il rancio consisteva in pane e vegetali. A questa dieta eran così abituati che i veterani di Cesare, un anno di carestia di grano, si lamentarono d’essere obbligati a mangiar carne.

Di leva, si era a sedici anni, quando ai nostri tempi si comincia a pensare alle ragazze. I sedicenni romani invece dovevano pensare al reggimento, e lì venivano accolti e rifiniti. La disciplina vi era così dura e il lavoro così pesante, che tutti preferivano la battaglia. La morte, per quel ragazzi, non era un gran sacrificio. E per questo l’affrontavano con tanta disinvoltura.

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CAPITOLO NONO

LA CARRIERA IL giovane che era sopravvissuto a dieci anni.di vita militare poteva, quando

tornava a casa, intraprendere la carriera politica, che andava per gradi ed era tutta elettiva e sottoposta a ogni sorta di precauzioni e controlli.

Stava all’Assemblea Centuriata vagliare le candidature ai vari uffici, ch’erari tutti plurImi, cioè costituiti di più persone. Il primo gradino era quello di “questore”, specie di assistente dei magistrati più alti per le finanze e la giustizia. Egli aiutava a controllare le spese dello stato e collaborava all’investigazione dei delitti. Non poteva restare in carica più di un anno; ma, se aveva assolto bene i suoi compiti, poteva presentarsi nuovamente all’Assemblea Centuriata per essere promosso di grado.

Se non aveva soddisfatto gli elettori, veniva bocciato, e per dieci anni non poteva più presentarsi a nessuna carica. Se invece li aveva contentati, veniva eletto “edile” (ce n’erano quattro); e come tale, sempre per un anno, aveva la sovrintendenza agli edifici, ai teatri, agli acquedotti, alle strade, e insomma a tutti gli edifici pubblici o di pubblico interesse, comprese le case di malaffare.

Se anche in queste mansioni, ch’eran praticamente quelle di un assessore, dava risultati soddisfacenti, poteva concorrere, sempre con lo stesso metodo elettivo e per un anno, a uno dei quattro posti di “pretore”, carica altissima, civile e militare. Un tempo essi erano stati i generali in capo dell’esercito. Ora erano piuttosto presidenti di tribunale e interpreti della legge. Ma, quando scoppiava la guerra, riprendevano il comando delle grandi unità agli ordini dei “consoli”.

Giunti all’apice di questa carriera, che si chiamava cursus honorum, o “corso di onori”, si poteva aspirare a uno dei due posti di “censore”, che veniva eletto per cinque anni. La lunghezza del termine era imposta dal fatto che solo ogni cinque anni veniva revisionato il censo dei cittadini, cioè compilato quello che oggi si chiamerebbe il “modulo Vanoni”.

Era questa la principale attribuzione del censore che poi, per il quinquennio; doveva, in base all’ “accertamento”, stabilire quanto ogni cittadino doveva pagare di tasse e quanti anni era tenuto a fare sotto le armi.

Ma le sue mansioni non si limitavano soltanto a questa. Egli ne aveva anche di più delicate, e perciò la carica, specie quando la esercitavano cittadini di gran fusto come Appio Claudio il Cieco, pronipote del famoso decemviro, e Catone, faceva concorrenza anche al consolato. Il censore doveva segretamente indagare sui “precedenti” di qualunque candidato a qualunque pubblico ufficio. Doveva sorvegliare l’onore delle donne, l’educazione dei figli, il trattamento degli schiavi. Il che lo autorizzava a ficcare il naso dentro gli affari privati di ciascuno, ad abbassarne o ad alzarne il rango, e perfino a cacciar via dal Senato i membri che non se ne fossero mostrati degni. Infine, erano i censori che compilavano il cosiddetto bilancio dello stato e ne autorizzavano le spese. Si trattava dunque, come vedete, di poteri vastissimi che richiedevano, in chi li esercitava, grande accorgimento e coscienza. In genere, nell’età repubblicana, chi ne fu investito se ne mostrò all’altezza.

All’apice della gerarchia venivano i due consoli, cioè i due capi del potere esecutivo.

In teoria, almeno uno di essi doveva essere un plebeo. In realtà i plebei stessi preferirono quasi sempre un patrizio, perché solo uomini di alta educazione e di lungo tirocinio offrivano loro buona garanzia di saper guidare lo stato in mezzo a problemi che

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diventavano sempre più complessi e difficili. Eppoi, c’era l’elezione. La quale si svolgeva secondo procedimenti che consentivano all’aristocrazia qualunque frode. Il giorno del voto dell’Assemblea Centuriata, il magistrato in carica osservava le stelle per scoprire quali candidati fossero personae gratae agli dèi. E siccome il linguaggio delle stelle pretendeva di saperlo lui solo, poteva leggervi tutto quello che voleva. L’assemblea, intimidita, accettava il verdetto, e si apprestava a limitare la sua scelta solo fra quei concorrenti che piacevano al Padreterno, cioè al Senato.

I candidati apparivano vestiti di una bianca toga senza ornamenti per dimostrare la semplicità della loro vita e l’austerità della loro morale. E spesso ne sollevavano un lembo per esibire agli elettori le ferite che avevano riportato in guerra. Se venivano eletti, lo restavano per un anno, con pari potere; entravano in carica il 15 marzo; e, quando ne uscivano, in genere il Senato li accoglieva come suoi membri, naturalmente a vita.

Poiché il titolo di senatore restava malgrado tutto il più ambito da chiunque, era naturale che il console cercasse di non dispiacere mai a coloro che potevano conferirglielo. Egli rappresentava in un certo senso il braccio secolare di quell’alta assemblea che, da un punto di vista strettamente costituzionale, non contava nulla, ma in pratica, con vari sotterfugi, decideva sempre ogni cosa.

I consoli erano anzitutto, come i primissimi re, capi del potere religioso e ne dirigevano i riti più importanti. In tempo di pace essi presiedevano le riunioni sia del Senato sia dell’assemblea e, raccoltene le decisioni, le eseguivano emanando leggi per applicarle.

In tempo di guerra, si trasformavano in generali e, dividendone in parti eguali il comando, guidavano l’esercito: metà l’uno, metà l’altro. Se uno moriva o cadeva prigioniero, l’altro riassumeva in sé tutti i poteri; se morivano o cadevano prigionieri ambedue, il Senato dichiarava un interregno per cinque giorni, nominava un interrex per mandare avanti le faccende, e provvedeva a nuove elezioni. Anche queste parole stanno a significare che il console esercitava, per un anno, gli stessi poteri che avevano esercitato gli antichi re, quelli non assoluti, di prima dei Tarquini.

Le mansioni di console erano naturalmente le più ambite, ma anche le più difficili da esercitare, e richiedevano, oltre a molta energia, anche molta diplomazia perché imponevano continui destreggiamenti fra il Senato e le assemblee popolari, che lo eleggevano e a cui doveva rispondere.

Queste assemblee erano tre: i comizi curiati, i comizi centuriati e i comizi tributi. I comizi curiati erano i più -antichi perché risalivano a Romolo, quando Roma era

composta di patres. E infatti soltanto i patrizi ne facevano parte. Ebbero, nei primissimi tempi della repubblica, funzioni importanti, come quella di eleggere i consoli. Ma poi, piano piano, dovettero abbandonare quasi tutti i loro poteri all’Assemblea Centuriata, che fu la vera Camera dei deputati della Roma repubblicana. E lentamente si trasformarono in una specie di Consulta Araldica, che decideva soprattutto di questioni genealogiche, cioè dell’appartenenza di un cittadino a questa o a quella gens.

L’Assemblea Centuriata era, praticamente il popolo in armi. Di essa facevano parte tutti i cittadini che avevano compiuto il servizio militare. Ne erano quindi esclusi gli stranieri, gli schiavi e coloro che la legge esentava dalla leva e dalle tasse perché troppo poveri. Roma era avara nella concessione della cittadinanza. Essa comportava privilegi come l’immunità dalla tortura e il diritto di appello all’Assemblea contro le decisioni di qualunque funzionario.

L’Assemblea non era permanente. Si riuniva al richiamo di un console o di un tribuno, e non poteva emanare leggi o ordinanze per suo conto. Poteva soltanto votare a maggioranza “si” o “no” alle proposte che il magistrato le rivolgeva. Il suo carattere conservatore era garantito, come già sappiamo, dalla sua ripartizione in cinque classi.

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Bisogna sempre tenere a mente che la prima, composta di novantotto centurie fra patrizi, equites e milionari, bastava a formare la maggioranza su un totale di centonovantatrè classi. Poiché essa votava per prima e il voto veniva subito annunciato, alle altre non restava che chinare la testa.

Un criterio di giustizia, mi questa procedura, c’era. I romani ritenevano che i diritti dovessero andare di pari passo con i doveri e viceversa. Per cui quanto più ricchi si era, tante più tasse si dovevano pagare, tanti più anni si doveva servire sotto le armi, ma in compenso tanto più s’influiva politicamente.

Però non c’è dubbio che il povero diavolo, anche se aveva il vantaggio di pagare poche tasse e di servire pochi mesi in caserma, politicamente non contava nulla ed era costretto a seguire sempre la volontà di chi contava molto.

Fu allora che questi diseredati cominciarono a riunirsi per conto proprio nei cosiddetti concili della plebe, di cui l’autorità non era riconosciuta dalla Costituzione, ma da cui, col passare degli anni, si svilupparono i comizi tributi, che furono l’organo con cui il proletariato romano combatté la sua lunga battaglia per conquistare una maggiore giustizia sociale.

Essi nacquero subito dopo la secessione della plebe sul Monte Sacro, quando le fu consentito di eleggere i propri magistrati, i famosi tribuni, che avevano diritto di veto contro qualunque legge o ordinanza ritenute lesive degl’interessi proletari. E furono appunto i comizi tributi che s’incaricarono di nominare questi magistrati. Poi, piano piano, chiesero ed ottennero il diritto dì nominarne anche altri: i questori, gli edili della plebe e alla fine i tribuni militari con potestà consolare.

Anche questa assemblea, come quella Centuriata, non aveva altro potere che quello di votare “si” o “no” alle proposte del magistrato che la convocava. Però il voto era dato individualmente, e quello dell’uno valeva quello dell’altro a prescindere dalle condizioni finanziarie. Era quindi un organo molto più democratico. Il moltiplicarsi delle sue attribuzioni contrassegna il lento crescere, attraverso infinite lotte, del proletariato romano nei confronti delle altre classi: fino a quando le sue deliberazioni, chiamate ple-bisciti, cessarono di valere soltanto per la plebe e diventarono, obbligatorie per tutti i cittadini, trasformandosi così in leggi vere e proprie.

Con queste due assemblee, la Centuriata e la Curiata, fatalmente portate a combattersi tra loro, questa in nome della conservazione, quella in nome del progresso sociale, e con dei magistrati come i tribuni eletti apposta dalla plebe per ostacolarne l’opera, capirete quanto difficile doveva essere il mestiere dei due consoli.

Ognuno di costoro aveva, nominalmente, l’imperium, il comando, e lo sfoggiava facendosi precedere, dovunque andasse, da dodici littori, ognuno dei quali portava un fascio di verghe con la scure in mezzo. Essi davano congiuntamente il nome all’anno in cui esercitavano la carica, ed esso veniva registrato nell’elenco dei fasti consolari. Erano cose che lusingavano le ambizioni di chiunque. Ma, quanto al potere effettivo, era un altro paio di maniche. Anzitutto, per esercitarlo, dovevano andare d’accordo fra loro, perché ognuno aveva il diritto di veto sulle decisioni dell’altro. Eppoi, bisognava avere l’assenso delle due assemblee.

Ma era appunto questa paralisi del potere esecutivo che consentiva al Senato di esercitare quello suo. Esso era composto di trecento membri, e ì censori provvedevano a riempire i vuoti che la morte vi produceva nominando al posto dello scomparso un ex console o un ex censore che si fosse particolarmente distinto. Il censore, o il Senato stesso, potevano anche espellere i membri che non si fossero mostrati degni dell’alto onore.

Anche questa venerabile assemblea si riuniva nella curia, di fronte al Foro, su richiesta del console che la presiedeva. E le sue decisioni, che venivano prese a

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maggioranza, non avevano nominalmente forza di leggi; erano soltanto consigli al magistrato. Ma costui quasi mai osava portare dinanzi ai comizi, che soli potevano darle potere esecutivo, una proposta che non avesse ricevuto la preventiva approvazione del Senato. In pratica, il suo parere era decisivo per tutte le grandi questioni di stato: guerra e pace, il governo delle colonie e delle province. Quando poi si arrivava ad una crisi, il Senato ricorreva a uno speciale decreto di emergenza, il senatus consultum ultimum, che decideva irrevocabilmente.

Tuttavia, più che dalla Costituzione, la quale non gliene riconosceva molti, il suo potere veniva dal prestigio. Lo stesso tribuno, che, data la sua origine elettorale, non poteva essere favorevole al Senato, quando vi sedeva, com’era suo diritto, in qualità di silenzioso osservatore, ne usciva, in genere, con idee più concilianti di quando vi era entrato. Tant’è vero che, col passare del tempo, molti tribuni diventarono senatori per gli amichevoli atteggiamenti che avevano tenuto, durante la loro carica, verso quella che avrebbe dovuto essere la trincea nemica. Infine il Senato aveva, nelle grandi occasioni, l’arma per risolvere i nodi, quando venivano al pettine e non si riusciva a mettere d’accordo i magistrati tra loro e con la cittadinanza. Esso poteva nominare un dittatore per sei mesi o per un anno, investendolo di pieni poteri, eccetto quello di disporre dei fondi dello stato. La proposta veniva fatta da uno dei due consoli senza che l’altro potesse opporsi. E la persona veniva scelta fra i considares, cioè fra coloro che avevano già esercitato quella carica, e quindi erano già senatori. Tutti i dittatori della Roma repubblicana, meno uno, furono patrizi. Tutti, meno due, rispettarono i limiti di tempo e di potere che furono loro imposti. Uno di essi, Cincinnato che, dopo soli sedici giorni di esercizio della suprema carica, tornò spontaneamente ad arare il campo coi buoi, è passato alla storia coi colori della leggenda.

Il Senato raramente ricorse a questo suo diritto, cioè non ne abusò, sebbene non sempre sia stato all’altezza del suo grande nome. Ogni tanto si faceva tentare dalla cupidigia, specie nello sfruttamento dei paesi conquistati. Ogni tanto fu sordo e cieco, nella difesa dei privilegi della sua casta, contro le necessità di una superiore giustizia. Coloro che lo componevano non erano superuomini, commisero degli errori, qualche volta vacillarono e si contraddissero. Ma nell’insieme la loro assemblea ha rappresentato, nella storia di tutti i tempi e di tutti i popoli, un esempio di saggezza politica mai più superato. Venivano tutti da famiglie di statisti e ognuno di essi aveva una larga esperienza di esercito, di giustizia e di amministrazione. Essi erano al loro peggio nelle vittorie, quando si sfrenavano l’orgoglio e la cupidigia; al loro meglio nelle disfatte, quando la situazione faceva appello al coraggio e alla tenacia. Cinea, l’ambasciatore che Pirro mandò a trattare con loro, quando li ebbe visti e uditi, disse ammirato al suo sovrano: «Sfido che a Roma non c’è un re. Ognuno di quei trecento senatori lo è».

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CAPITOLO DECIMO

GLI DÉI QUESTO ordinamento dello stato e delle magistrature fu reso possibile soltanto

dalla legge, cioè dalla pubblicazione delle Dodici Tavole dei Decemviri, che ne costituirono insieme la causa, la conseguenza e lo strumento.

Fino ad allora Roma era vissuta praticamente in un regime di teocrazia, in cui il re era anche papa. Egli solo aveva, come tale, il diritto di regolare i rapporti fra gli uomini non secondo una legge scritta, ma secondo la volontà degli dèi, che a lui solo la comunicavano nelle cerimonie religiose. Il papa dapprima faceva tutto da solo. Poi, col crescere della cittadinanza e col moltiplicarsi e complicarsi dei problemi, ebbe tutto un clero ad aiutarlo. E furono appunto i sacerdoti i primi avvocati di Roma.

Il povero diavolo che aveva ricevuto, o credeva di aver ricevuto un torto, andava da uno di essi per avere un consiglio. E costui glielo dava consultando testi segretissimi, dove soltanto loro, i preti, avevano il diritto di ficcare il naso. Nessuno quindi sapeva con precisione quali fossero i suoi diritti e i suoi doveri. Glielo diceva, caso per caso, il sacerdote. E i processi venivano celebrati secondo una liturgia di cui egli solo conosceva i riti. Siccome il clero, in origine, fu tutto aristocratico, o asservito all’aristocrazia, è facile capire come fossero i verdetti quando erano in ballo cause fra patrizi e plebei.

Il primo effetto delle Dodici Tavole fu quello di separare il diritto civile da quello divino, cioè di svincolare i rapporti fra cittadini dalla volubile volontà degli dèi, cioè di coloro che dicevano di rappresentare gli dèi. E da questo momento Roma cessò di essere una teocrazia. Piano piano il monopolio ecclesiastico della legge cominciò a cadere a pezzi. Appio Claudio il Cieco pubblicò un calendario di dies fasti, indicando in che giorni le cause potevano essere discusse e secondo che procedura: cosa che fin qui i preti dicevano di essere i soli a sapere. Più tardi Coruncanio fondò una vera e propria scuola di avvocati, che della legge finirono per diventare i tecnici a esclusione dei preti. Le Dodici Tavole, che fornirono i princìpi basilari a tutta la successiva legislazione di Roma e del mondo, diventarono materia obbligatoria d’insegnamento per i ragazzi delle scuole che dovevano impararle a memoria, e contribuirono a formare il carattere romano, ordinato e severo, legalistico e litigioso.

È da questo momento che i preti, costretti ad occuparsi soltanto di questioni religiose, cercarono di mettervi un po’ d’ordine, senza peraltro riuscirvi completamente. Essi erano organizzati in collegi, ognuno dei quali aveva alla testa un supremo pontefice. eletto dall’Assemblea Centuriata. Non c’era bisogno, per entrarci, di un particolare tirocinio, non formavano una casta separata, e non avevano nessun potere politico. Erano funzionari di stato e basta, e con lo stato, che li pagava, dovevano collaborare.

Il più importante di questi collegi era quello dei nove áuguri che avevano per compito d’indagare le intenzioni degli dèi circa le gravi decisioni che il governo stava per prendere. Vestito nei suoi sacri paramenti e preceduto da quindici flamines, il pontefice massimo prendeva gli auspici nei primi tempi osservando il volo degli uccelli, come aveva fatto Romolo per fondare Roma, più tardi studiando le viscere degli animali che si offrivano in sacrificio (ed erano ambedue sistemi imparati dagli etruschi). Nelle crisi più gravi si spediva una delegazione a Cuma per interrogare la sibilla, ch’era la sacerdotessa di Apollo. E in quelle gravissime, si mandava a consultare l’oracolo di Delfo, la cui fama era giunta fino in Italia. Ora, siccome i sacerdoti non avevano altri doveri che quelli verso lo stato, è

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naturale ch’essi fossero sensibili alle sollecitazioni che dallo stato venivano fatte, con promesse di uno scatto di grado o di un aumento di stipendio.

Il rito consisteva in un dono o in un sacrificio agli dèi per guadagnarsene la protezione o eluderne l’ira. La sua procedura era meticolosa, e bastava un piccolo sbaglio per doverla ripetere, fino a trenta volte. La parola “religione”, in latino, ha un significato tutto esteriore e procedurale; e “sacrificio” vuol dire letteralmente rendere sacro qualcosa: quello che si offriva alla divinità. Naturalmente le offerte variavano secondo le possibilità di chi le faceva e l’importanza dei benefici a cui si aspirava. Il povero padre di famiglia che, nell’interno della casa, faceva da pontefice massimo per impetrare un buon raccolto, sacrificava sul focolare un pezzo di pane e di formaggio o un bicchiere di vino. Se la siccità si prolungava, arrivava a un galletto. Se era minacciato dall’alluvione, era capace di sgozzare il porco o una pecora. Ma quando a sacrificare era lo stato per propiziarsi il favore divino per qualche grande impresa nazionale, il Foro, dove in genere avveniva la cerimonia, si trasformava in un vero e proprio mattatoio. Greggi intere venivano sgozzate mentre i sacerdoti pronunciavano le formule di stretto rigore. Agli dèi, che avevano il palato delicato, si riservavano le rigaglie e soprattutto il fegato. Il resto lo mangiava la popolazione raccolta in cerchio. Sicché quelle cerimonie si trasformavano in pantagruelici banchetti intercalati di preghiere. Fu una legge del 97 avanti Cristo che proibì il sacrificio di vittime umane. Segno che in casi di eccezione ad esse si ricorreva, a scapito degli schiavi o dei prigionieri di guerra. Ma ci furono anche dei cittadini che volontariamente offrirono la propria vita per la salvezza della nazione: come quel Marco Curzio che, per placare gli dèi degli Inferi, in occasione d’un terremoto, si precipitò in un crepaccio, che subito si richiuse.

Meno truculente e più gentili erano le cosìddette cerimonie di purificazione, o di un gregge, o di un esercito che partiva in guerra, o di una intera città. Vi si faceva una processione torno torno cantando i carmina, inni pieni di magiche formule. Molto simile era la procedura dei vota, offerte per ottenere qualche favore dagli dèi.

Quali dèi? Lo stato romano, che di essi era l’impresario, non riuscì mai a mettere ordine in

questa materia, o forse non volle. Giove era considerato il più importante fra gl’inquilini dell’Olimpo ma non il loro re, come lo fu Zeus nell’antica Grecia. Rimase sempre nel vago come una forza impersonale che ora si confondeva col cielo, ora col sole, ora con la luna, ora col fulmine, secondo i gusti. E forse in un primo tempo faceva tutt’uno con Giano, il dio delle porte. Solo in seguito si differenziarono. Le ricche matrone romane andavano in processione a piedi nudi al tempio di Giove Tonante sul Campidoglio per impetrare la pioggia nelle stagioni di siccità, mentre in tempo di guerra si aprivano i portoni del tempio di Giano per consentirgli di raggiungere l’esercito e guidarlo in battaglia.

Di rango pari a quello loro erano Marte, cui s’intitolava un mese dell’anno (marzo) e che a Roma era legato da un vincolo di famiglia come padre naturale di Romolo, e Saturno, il dio della semina, che la leggenda dipingeva come un preistorico re, professore di agraria e vagamente comunista.

Dopo questo quadrimivirato, venivano le dée. Giunone era quella della fertilità sia dei campi e degli alberi, sia degli animali e degli uomini, e col suo nome si era battezzato un mese (giugno) considerato come il più favorevole ai matrimoni. Minerva, importata dalla Grecia sulle spalle di Enea, proteggeva la saggezza e la sapienza. Venere si occupava della bellezza e dell’amore. Diana, dea della luna, sovrintendeva alla caccia e ai boschi, in uno dei quali, presso Nemi, sorgeva un suo maestoso tempio, dove si diceva ch’essa avesse sposato Virbio, il primo re della foresta.

Poi veniva uno stuolo di dèi minori: i sottufficiali, diciamo così, di quel celeste esercito. Ercole, dio del vino e dell’allegria, era capace di giocarsi ai dadi una cortigiana col

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sagrestano del suo tempio; a Mercurio attribuivano un debole per i mercanti, gli oratori e i ladri, tre categorie di persone che evidentemente i romani consideravano della stessa risma; Bellona aveva la specialità della guerra...

Ma è impossibile nominarli tutti. Essi si moltiplicarono smisuratamente col crescere della città e con l’espandersi del suo dominio. Perché qualunque stato o provincia conquistassero i soldati romani, come prima cosa, facevano saccheggio degli dèi locali, e li portavano in patria, convinti com’erano che, rimasti senza dèi, gli sconfitti non potessero tentare una rivincita.

Ma, oltre a questi che, sebbene sottoposti a un trattamento di privilegio, erano tuttavia degli dèi prigionieri, c’erano i novensiles, cioè quelli che di propria iniziativa molti forestieri, quando si trasferivano a Roma e vi mettevano su casa, si portavano al seguito, per sentirsi meno esuli e spaesati. Li allogavano in templi costruiti con fondi privati. E i romani non solo non ne contestarono mai il diritto a nessuno, ma anzi si mostrarono straordinariamente ospitali verso tutti. Lo stato e i suoi sacerdoti li consideravano in un certo senso come dei poliziotti che avrebbero collaborato a tenere in ordine i loro fedeli senza neanche reclamare uno stipendio. E a molti assegnarono addirittura un posto nell’Olimpo ufficiale. Nel 496 avanti Cristo furono così assunti nell’“organico” Demetra e Diòniso, come colleghi e collaboratori di Cerere e di Libero. Pochi anni dopo Castore e Polluce, anch’essi di fresco consacrati, si disobbligarono scendendo dal cielo per aiutare i romani a resistere nella battaglia del lago Regillo.

Verso il 300 Esculapio fu trasferito d’autorità da Epidauro a Roma per insegnarvi medicina. E piano piano questi nuovi venuti, da ospiti che erano, si trasformarono in padroni di casa; specialmente quelli greci, più affabili e cordiali, meno freddi, formalisti e remoti degli dèi romani. Fu per influsso ellenico che piano piano si formò tra loro una gerarchia, alla cui testa fu riconosciuto Giove con gli stessi attributi che ad Atene aveva Zeus. E fu il primo passo verso quelle religioni monoteistiche che prima con lo stoicismo, poi col giudaismo, trionfarono alla fine col Cristianesimo.

Questo processo pero si sviluppò molto più tardi. I romani del periodo repubblicano convissero con una folla di dèi di cui Petronio diceva che in alcune città erano più numerosi degli abitanti e che Varrone valutò a circa trentamila. La loro attività e interferenze rendevano difficile la vita ai fedeli che non sapevano come destreggiarsi nelle loro lotte e rivalità. Dovunque si poteva inciampare in qualche oggetto sacro all’uno o all’altro. Offesi, essi apparivano sotto forma di streghe che volavano di notte, mangiavano serpi, uccidevano i bambini e rubavano i cadaveri. In Orazio e in Tibullo, in Virgilio e in Lucano se ne incontra ad ogni passo. Essi erano tanto più pericolosi in quanto, a differenza di quasi tutte le altre religioni, quella romana non li riteneva confinati nel cielo, sebbene ammettesse che anche lì ce n’era, ma pensava che di preferenza stessero sulla terra, e preda di terrestri stimoli: fame, lussuria, cupidigia, ambizione, invidia, avarizia.

Per tener gli uomini al riparo dalle loro malefatte, i collegi, o ordini religiosi, si moltiplicarono. Fra essi ce ne fu anche uno femminile, quello delle vestali, che, ingaggiate fra i sei e i dieci anni, dovevano servire per trent’anni in assoluta castità. Furono le precorritrici delle nostre monache. Vestite e velate di bianco, la loro funzione consisteva soprattutto nell’annacquare la terra con acqua attinta alla fontana sacra alla ninfa Egeria. Se sorprese a trasgredire il voto di verginità, venivano battute con le verghe e sotterrate vive. Gli storici romani ci hanno tramandato dodici casi di questa tortura. Finito il trentennale servizio, venivano riaccolte in società con molti onori e privilegi, e potevano anche sposarsi. Ma difficilmente a quell’età trovavano un marito.

Era la religione che dava ai romani, i quali non conoscevano la domenica e il week-end, i giorni di festa e di riposo. Ce n’era un centinaio all’anno, press’a poco quanti ce

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ne sono ora. Ma li celebravano con più impegno. Alcune di queste “ferie” erano austere e commemorative, come i lemuri (i nostri Morti) in maggio, che ogni padre di famiglia celebrava in casa riempiendosi la bocca di fagioli bianchi e risputandoli intorno al grido: «Con questi fagioli, io redimo me stesso e i miei. Andate, anime dei nostri antenati! ». In febbraio c’erano i parentali, o i ferali e i lupercali, durante i quali si buttavano dei bambolotti di legno nel Tevere per ingannare il dio che reclamava uomini veri. Poi c’erano i fiorali, i liberali, gli ambarvali, i saturnali...

Anche in questo campo regnava una tale anarchia che la prima ragione che spinse i romani a redigere un calendario fu la necessità di stendere una lista di queste feste. Nei primissimi tempi erano i preti a incaricarsene, indicando, mese per mese, quando si dovevano celebrare, e come. La tradizione attribuisce a Numa Pompilio il merito di aver messo ordine in questa materia con un calendario fisso, che fu in vigore sino a Cesare. Esso divideva l’anno in dodici mesi lunari, ma lasciava ai sacerdoti il diritto di allungare o accorciare a testa loro il mese, purché in fondo al dodicesimo si fosse raggiunta la somma di trecentosessantasei giorni. Ed essi a tal punto ne abusarono per favorire o danneggiare questo o quel magistrato che, alla fine della repubblica, il calendario pompiliano era diventato del tutto opinabile e fonte soltanto di controversie.

Nella giornata le ore erano misurate a occhio, dalla posizione del sole nel cielo. Il primo orologio, a sole, fu di manifattura greca, lo importarono da Catania, nel 263, e lo piazzarono nel Foro. Ma siccome Catania è tre gradi a est di Roma, l’ora non corrispondeva, i romani si arrabbiavano, e per un secolo ci fu gran confusione perché nessuno seppe aggiustare quella diavoleria.

I giorni del mese erano divisi secondo le kalende (il primo), le none (il cinque o il sette) e gli idi (il tredici o il quindici). L’anno, che si chiamava annus, che vuol dire anche “anello”, cominciava con marzo. Poi venivano aprile, maggio, giugno, quintile, sestile, settembre, ottobre, novembre, dicembre, gennaio e febbraio. Un surrogato di domenica c’era nella nundina che cadeva di nove giorni in nove giorni ed era quello che nei nostri villaggi è ancora il giorno di mercato. I contadini abbandonavano il campo per venire a vendere in paese le loro uova e frutta, ma non era una festa vera e propria.

Per divertirsi davvero, i romani dovevano aspettare i liberali e i saturnali. quando, dice un personaggio di Plauto, « ognuno può mangiare quel che vuole, andare dove gli pare, e far l’amore con chi gli garba, purché lasci in pace le mogli, le vedove, le ragazze e i ragazzi ».

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CAPITOLO UNDICESIMO

LA CITTA’ NON si sa con precisione quanti abitanti avesse Roma alla vigilia delle guerre

puniche. Le cifre fornite dagli storici sulla base d’incerti censimenti sono contraddittorie, e forse non tengono conto del fatto che la maggior parte dei censiti dovevano abitare non dentro le mura della città, il cosìddetto pomerio, ma fuori, in campagna e nei villaggi che la costellavano. Nella città vera e propria non dovevano esserci più di centomila anime: popolazione che a noi sembra modesta, ma che a quei tempi era enorme. La sua com-posizione etnica doveva farne già un centro internazionale, ma meno di quanto lo fosse stato sotto i re Tarquini che, con la loro passione etrusca del commercio e del mare, vi avevano richiamato troppi forestieri, molti dei quali di difficile assimilazione. Con la repubblica l’elemento indigeno, latino e sabino, aveva preso la sua rivincita, si era rafforzato e forse aveva regolato con più parsimonia l’immigrazione. Essa veniva per la maggior parte dalle province limitrofe ed era costituita da gente più facile a fondersi con i padroni di casa.

La città non era progredita molto, dal punto di vista urbanistico, sotto i magistrati repubblicani, avari, rozzi, e di scarse pretese. Due strade principali vi s’incrociavano dividendola in quattro quartieri, ciascuno con propri dèi tutelari, i cosìddetti lari compitali cui, a tutti gli angoli, si elevavano statue. Erano strade strette e di terra battuta, che solo più tardi vennero selciate con pietre tratte dal greto del fiume. La Cloaca Massima, cioè con le fognature esisteva già, a quanto pare, dai tempi dei Tarquini. Essa convogliava i rifiuti di Roma nel Tevere infettandone l’acqua che doveva servire per bere. Nel 312 Appio Claudio il Cieco affrontò e risolse questo problema costruendo il primo acquedotto che approvvi-gionò Roma con acqua fresca e pulita pescata direttamente dai pozzi. E per la prima volta i romani, almeno quelli di una certa categoria, ne ebbero abbastanza per potersi lavare. Però le prime Terme, o bagni pubblici, furono costruite soltanto dopo la sconfitta di Annibale.

Le case erano rimaste press’a poco quelle che avevano costruito gli architetti etruschi. Se n’erano abbelliti solo gli esterni stuccandoli e decorandoli di graffiti.

I pericoli in mezzo a cui erano passati avevano spinto i romani a costruire soprattutto templi per guadagnarsi la simpatia degli dèi. Sul Campidoglio n’erano nati tre di legno, abbastanza imponenti e rivestiti di mattoni, a Giove, a Giunone e a Minerva.

La città viveva ancora soprattutto di agricoltura, basata sulla piccola proprietà privata. Buona parte della popolazione, anche del centro, dopo aver dormito ammucchiata sulla paglia, si alzava all’alba, e caricate la vanga e la zappa sul carro trascinato dai buoi, andava ad arare il proprio campicello, che in media non superava i due ettari. Erano contadini tenaci, ma non molto progrediti, che non conoscevano altro concime che il letame delle bestie, né altra rotazione di coltura che quella dal grano ai legumi e viceversa. Da esse molte aristocratiche famiglie trassero anche il loro nome: i Lentuli erano specialisti in lenticchie, i Caepiones in cipolle, i Fabii in fave. Altri prodottì erano il fico, l’uva e l’olio. Ogni famiglia aveva i suoi polli, i suoi maiali e soprattutto le sue pecore, che davano la lana per tessere in casa i vestiti.

Alla vigilia della guerra punica questo idilliaco quadro di vita rustica si era alquanto alterato. Le spedizioni contro le popolazioni limitrofe avevano spopolato la campagna: i casolari, abbandonati, erano caduti in rovina; boscaglia e gramigna avevano seppellito i campi dei reduci che, per vivere, erano tornati in città. Il nuovo territorio conquistato a spese dei vinti era dichiarato “agro pubblico” dallo stato, che lo rivendeva ai capitalisti ingrassatisi con gli appalti di guerra. Così sorsero i latifondi, che i proprietari

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sfruttarono col lavoro degli schiavi, ch’erano numerosi e non costavano quasi nulla, mentre in città si formava un proletariato di ex contadini nullatenenti in cerca di lavoro.

Ma il lavoro era difficile da trovare perché l’industria, dopo la caduta dei Tarquini, invece di progredire, aveva regredito. Il sottosuolo, povero di minerali, era proprietà dello stato che lo affittava a sfruttatori di scarsa coscienza e competenza. La metallurgia aveva fatto pochi passi avanti, e il bronzo seguitava ad essere più usato dell’acciaio. Per combustibile non si conosceva che il legno, e per procurarsene furono rase al suolo le belle foreste del Lazio. Solo l’industria tessile aveva abbastanza prosperato, e ora c’erano vere e proprie imprese che avevano iniziato una produzione in serie.

Gli ostacoli alla espansione industriale e commerciale erano quattro. Il primo, di ordine psicologico, era la diffidenza della classe dirigente romana, tutta terriera, per queste attività che avrebbero rafforzato le classi medie borghesi. Il secondo era la mancanza di strade, che non consentiva il trasporto delle materie prime e dei prodotti. La prima di esse, la via latina, fu costruita solo nel 370, quasi un secolo e mezzo dopo l’instaurazione della repubblica, e sì limitò a congiungere l’Urbe coi Colli Albani. Solo Appio Claudio, l’autore dell’acquedotto, senti la necessità, cinquant’anni più tardi, di costruirne una, che infatti portò il suo nome, per raggiungere Capua. I senatori approvarono riluttanti i suoi grandiosi progetti solo perché un sistema stradale lo chiedevano anche i generali. Il terzo ostacolo era la mancanza di una flotta, scomparsa dopo la fine della supremazia etrusca in Roma. Piccoli armatori privati avevano continuato a costruire qualche nave, ma gli equipaggi erano timidi e inesperti. Da novembre, a marzo non c’era verso di farli uscire dal porto di Ostia, dove del resto il fango del Tevere bloccava le loro barche. Una volta esso ne inghiottì duecento in un solo boccone. Eppoi oltre il piccolo cabotaggio non andavano, perché non volevano perdere di vista la costa, con tutti quei pirati greci a oriente e cartaginesi a occidente che infestavano i paraggi. Il che rende tanto più ammirevole il miracolo che Roma compì di lì a pochi anni affrontando con le sue improvvisate flotte quelle di Annone e & Annibale.

Un quarto impaccio al commercio fu, nei primi tempi, anche la mancanza di un sistema monetario. Nel primo secolo di repubblica il mezzo di scambio fu il bestiame. Si commerciava in termini di polli, di maiali, di pecore, di somari, di vacche. E infatti le prime monete recano le immagini di questi animali, e si chiamarono pecunia, da pecus che vuol dire appunto “bestiame”: La loro prima unità fu coniata con l’asse ch’era un pezzo di rame di una libbra. Era nata da poco, che lo stato già la svalutava di ben cinque sesti, per fare fronte alle spese della prima guerra punica. Dal che si vede che la truffa dell’inflazione è sempre esistita e si ripete dacché mondo è mondo, con gl’identici sistemi. Anche allora lo stato lanciò un prestito fra i cittadini che, per aiutarlo ad armare l’esercito, gli portarono tutti i loro assi di una libbra di rame. Lo stato li incassò, divise ognuno di essi per sei, e per ogni asse ricevuto ne restituì un sesto al creditore.

Per molto tempo questo svalutato asse restò l’unica moneta romana. Il suo potere di acquisto era, sembra, pari a quello di cinquanta lire del 1957 (è meglio precisar la data, perché di qui al 1958 c’è il caso che il nostro governo faccia con la lira la stessa operazione che quello romano fece con l’asse). Poi un sistema più complesso si sviluppò; venne il sesterzio d’argento, ch’erano due assi e mezzo, cioè centoventicinque lire; poi il denario, pure d’argento, pari a quattro sesterzi (cinquecento lire); e infine il talento d’oro, che doveva essere addirittura un lingotto perché valeva qualcosa come due milioni e mezzo delle nostre lire, e il novanta per cento dei romani probabilmente non vide mai com’era fatto.

All’opposto di noi che consideriamo chiese le banche, gli antichi romani considerarono banche le chiese, e in esse depositavano i fondi dello stato perché le ritenevano le più al riparo dai ladri. Istituti governativi di credito non ce n’erano. I prestiti li

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facevano gli argentari, agenti di cambio privati, che avevano le loro bottegucce in una stradicciola vicino al Foro. Una delle Leggi delle Dodici Tavole proibiva lo strozzinaggio e fissava il tasso d’interesse all’otto per cento come massimo. Ma l’usura fiorì ugualmente sulla miseria e i bisogni dei poveri diavoli, ch’erano molti e in disperate condizioni, perché quella che qui chiamo l’industria era in realtà un pullulio di piccole botteghe artigiane che cercavano, per vincere la concorrenza, di abbassare i costi dei loro prodotti soprattutto lesinando sui salari di una mano d’opera servile e senza protezione di sindacati. Disorganizzata e senza capi, essa non faceva scioperi contro i padroni. Faceva, ogni tanto, vere e proprie guerre, che si chiamarono appunto servili, e che misero a repentaglio lo stato. In compenso, aveva le “corporazioni di mestiere”, riconosciute anch’esse col nome di “collegi” pare fin dai tempi di Numa. C’erano quelle dei vasai, dei fabbri, dei calzolai, dei carpentieri, dei suonatori di flauto, dei conciaioli, dei cuochi, dei muratori, dei cordai, dei bronzisti, dei tessitori e degli “ artisti di Dioniso”, come si chiamavano gli attori. E da esse possiamo dedurre quali fossero i mestieri dei romani di città. Ma erano controllate da funzionari di stato, i quali non permettevano che vi si dibattessero questioni di salario o di stipendio e che, quando sentivano pericolosamente gonfiarsi le scontentezze, provvedevano a qualche distribuzione gratuita di grano. I membri vi si riunivano per discorrere di mestiere, giocare a dadi, bere un gotto di vino, e aiutarsi fra loro. Perché erano poveri diavoli, anche quelli ch’erano liberi e con diritti politici. Non pagavano tasse e facevano poco servizio militare, in tempo di pace, è vero. Ma in tempo di guerra, morivano come gli altri.

Gli scrittori romani le cui opere son giunte fino a noi e che fiorirono molto tempo dopo, hanno parecchio abbellito questo periodo della Roma stoica. Lo hanno fatto per motivi polemici, per contrapporre le virtù antiche ai difetti dell’epoca loro. La repubblica non fu immune da gravi difetti, e se sotto di essa fu fondato il diritto, non si può dire che la giustizia vi trionfasse.

Tuttavia è vero che i cittadini ci vissero più scomodi e sacrificati, ma più ordinati e sani di quelli dell’Impero. La moralità non era rigida nemmeno allora, ma il malcostume era mantenuto nella sua “sede” e non contaminava la vita della famiglia basata sulla castità delle ragazze e la fedeltà delle spose. Gli uomini, dopo qualche scapestrataggine con le prostitute, si sposavano presto, sui vent’anni. E da allora in poi erano troppo impegnati a mantener moglie e figlioli per abbandonarsi a passatempi pericolosi.

Il matrimonio era preceduto dal fidanzamento, che in genere era deciso dai due padri, spesso senza nemmeno interpellare gli interessati. Era un vero e proprio contratto che riguardava specialmente questioni patrimoniali e di dote, e lo si suggellava con un anello che il giovanotto infilava nell’anulare della ragazza, dove si credeva che passasse un nervo che faceva capo al cuore.

Il matrimonio era di due specie: con mano o senza mano. Col primo, il più comune e completo, il padre della ragazza rinunziava a tutti i suoi diritti su di lei in favore del genero, che ne diventava praticamente padrone. Col secondo, che dispensava dalla cerimonia religiosa, li conservava. Quello con mano avveniva per uso, cioè dopo un anno di coabitazione fra gli sposi, per coemptio, cioè per acquisto, o per confarretio, quando si mangiava insieme un dolce. Quest’ultimo era riservato ai patrizi, e richiedeva una solenne cerimonia religiosa con canti e cortei. Le due famiglie si riunivano con amici, servi e clien-ti, nella casa della sposa, e di lì muovevano in processione verso quella dello sposo, con accompagnamento di flauti, canti d’amore e apostrofi grossolanamente allusive. Quando il corteo giungeva a destinazione, lo sposo, di dietro la porta, chiedeva: « Chi sei? ». E la sposa rispondeva: « Se tu sei Tizio, io sono Tizia ». Allora lo sposo la sollevava fra le

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braccia, le presentava le chiavi di casa. E tutti e due, a testa bassa, passavano sotto un giogo per significare che si sottoponevano a un vincolo comune.

Teoricamente, il divorzio esisteva. Ma il primo di cui abbiamo notizia avvenne due secoli e mezzo dopo la fondazione della repubblica, sebbene una regola d’onore lo rendesse obbligatorio in caso d’adulterio da parte della moglie (il marito era libero di fare quel che gli pareva). Le donne, a quei tempi, erano piuttosto bruttocce e rozze, di gambe corte e di “attacchi” pesanti. Le bionde, rarissime, facevano premio sulle brune. In casa portavano la stola, una specie di futa abissina lunga fino ai piedi, di lana bianca, chiusa al petto da uno spillo. Quando uscivano, ci mettevano sopra la palla, o mantello.

I maschi, più solidi che belli, col viso cotto dal sole e il naso diritto, portavano da ragazzi la toga pretesta, orlata di porpora; e, dopo il servizio militare, quella virile, interamente bianca, che copriva tutto il corpo, con un lembo che risaliva sulla spalla sinistra, di lì scendeva sotto il braccio destro (che in tal modo restava libero) e tornava sulla spalla sinistra. Le pieghe servivano come tasche. Fino al 300 gli uomini portarono barba e baffi. Poi prevalse il costume di radersi, che a molti parve audace e in contrasto con quella gravità, cui i romani tenevano come noi oggi si tiene invece alla disinvoltura.

Una sobrietà spartana vigeva anche nelle case dei gran signori. Lo stesso Senato si raccoglieva su rozzi banchi di legno dentro la curia che non era riscaldata neanche d’inverno. Gli ambasciatori cartaginesi che vennero a chieder pace dopo la prima guerra punica divertirono molto i loro compatrioti, scialacquoni e sibariti, raccontando che, nei pranzi ch’erano stati loro offerti dai senatori romani, avevano visto sempre girare lo stesso piatto d’argento che evidentemente essi s’imprestavano l’uno all’altro.

I primi segni di lusso apparvero con la seconda guerra punica. E subito fu promulgata una legge che proibiva gioielli, vestiti di fantasia e pasti troppo costosi. Il governo voleva preservare soprattutto una sobria e sana dieta imperniata su una prima colazione di pane, miele, olive e formaggio, un desinare a base di vegetali, pane e frutta, e una cena in cui solo i ricchi usavano carne o pesce. Il vino lo bevevano, ma quasi sempre annacquato.

I giovani rispettavano i vecchi, e forse nell’ambito della famiglia e delle amicizie c’erano anche espressioni d’amore e di tenerezza. Ma in genere i rapporti tra gli uomini erano rudi. Si moriva facilmente, e non soltanto in guerra. Il trattamento dei prigionieri e degli schiavi era senza pietà. Lo stato era duro coi cittadini, e feroce col nemico. Tuttavia certi suoi gesti furono di autentica grandezza morale. Quando per esempio un sicario venne a proporre loro di avvelenare Pirro, i cui eserciti minacciavano Roma, i senatori non solo rifiutarono di associarsi, ma informarono il re nemico del complotto che lo minacciava. E quando, dopo averli messi in rotta a Canne, Annibale mandò dieci prigionieri di guerra a Roma per trattare il riscatto di altri ottomila, con l’impegno, se non riuscivano, di ritornare, e uno di essi trasgredì restando in patria, il Senato lo mise ai ferri e lo restituì ammanettato al generale cartaginese, la cui gioia per la vittoria, dice Polibio, fu offuscata da quel gesto che gli dimostrò con che po’ po’ di uomini aveva a che fare.

Tutto sommato, il romano di quest’epoca fu abbastanza somigliante al tipo che ne idealizzarono gli storici alla Tacito e alla Plutarco. Gli mancavano molte cose: il senso delle libertà individuali, il gusto per l’arte e per la scienza, la conversazione, il piacere della speculazione filosofica (di cui anzi diffidava), e soprattutto l’umorismo. Ma ebbe la lealtà, la sobrietà, la tenacia, l’obbedienza, la praticità.

Non era fatto per capire il mondo e goderne. Era fatto solo per conquistarlo, e governarlo.

Passatempi, a parte le feste religiose, ne aveva pochi. Fino al 221 avanti Cristo, quando fu costruito il Flaminio, Roma possedette un solo circo: il Circo Massimo, attribuito

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a Tarquinio Prisco, dove si andava ad ammirare le lotte fra schiavi, che quasi sempre terminavano con la morte del vinto. Anche le donne potevano partecipare, e l’ingresso era gratuito. Alle spese provvidero prima lo stato, poi gli edili, per farsi la propaganda elettorale. Qualcuno di loro, a forza di finanziare spettacoli di qualità, riusciva ad arrivare al consolato come ora certi presidenti di società di calcio diventano, quando la squadra vince, sindaci o deputati.

Oltre a questi divertimenti, diciamo così, normali, a rallegrare la vita austera e faticata dei romani, c’era il “trionfo” che si prodigava al generale reduce da una vittoria in cui avesse ucciso almeno cinquemila soldati nemici. Se era arrivato solo a quattromilanovecentonovantanove, doveva contentarsi soltanto di una “ovazione”, cosìddetta perché consisteva nel sacrificio di una ovis, una pecora, in suo onore.

Per il “trionfo” si formava invece una imponente processione fuori di città, alle cui porte generale e truppa dovevano deporre le armi e passare sotto un arco di legno e di frasche che fece da modello a quelli che si costruirono dopo di travertino. Una colonna di trombettieri apriva il corteo. Dietro venivano i carri carichi del bottino di guerra, poi intere greggi e mandrie destinate al macello; poi i capi nemici in catene. E infine, preceduto dai littori e flautisti il generale in piedi su una quadriga vivacemente colorata, con una toga color porpora sulle spalle, una corona d’oro sulla testa, uno scettro d’avorio e un ramo d’alloro. Lo circondavano i figli, e lo seguivano a cavallo parenti, segretari, consiglieri, amici. Egli saliva ai templi di Giove, Giunone e Minerva sul Campidoglio, ai loro piedi deponeva il bottino, faceva raccogliere gli animali da sgozzare, e come offerta suppletiva ordinava la decapitazione dei comandanti nemici prigionieri.

Il popolo gongolava e applaudiva. Ma da parte dei soldati era costume lanciare motti e frizzi mordaci verso il loro generale, denunziandone debolezze, difetti e ridicolaggini, perché non avesse a montare in superbia e a credersi un infallibile padreterno. A Cesare, per esempio, gridavano: « Smetti, zuccapelata, di guardar le matrone. Contentati delle prostitute!... ».

Se si potesse fare altrettanto coi dittatori dei nostri tempi, forse la democrazia non avrebbe più nulla da temere.

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CAPITOLO DODICESIMO

CARTAGINE ANCHE Cartagine, come tutte le città di quel tempo, faceva risalire le sue origini a

una specie di miracolo, e ne raccontava la storia come un romanzo. Secondo il quale, a fondarla era stata Didone, che più tardi fu venerata dai suoi concittadini come dea, figlia del re di Tiro. Rimasta vedova per colpa di suo fratello che le aveva ucciso il marito, essa si era messa alla testa d’un gruppo di seguaci in cerca d’avventure e, dall’estremità orientale del Mediterraneo, era salpata con loro verso ovest a bordo di una nave. Cabotando lungo la costa settentrionale dell’Africa, aveva superato l’Egitto, la Cirenaica, la Libia. E giunta alla fine una decina di miglia a occidente del luogo in cui oggi sorge Tunisi, era sbarcata e aveva detto ai suoi amici: « Ecco, qui costruiremo la Nuova Città». Così la chiamarono infatti: Nuova Città, come Napoli e New York, che nel loro linguaggio si diceva Kart Hadasht, e che poi i greci tradussero Karchedon e i romani Carthago.

Naturalmente le cose non stanno precisamente così. Ma come si siano svolte in realtà è difficile saperlo, perché anche di Cartagine, ch’ebbe la disgrazia di trovarsi sulla loro strada, i romani fecero quello che avevano fatto dell’Etruria: la ridussero in tale poltiglia da rendere quasi impossibile oggi, per mancanza di materiale, una ricostruzione esatta della sua storia e civiltà.

Certamente la fondarono i fenici, un popolo di razza e lingua semita come gli ebrei, grandi mercanti e navigatori che facevano in su e giù con le loro barche, vendendo e comprando un po’ di tutto. Non avevano paura neanche del diavolo. Furono i primi marinai del mondo a superare le cosìddette Colonne d’Ercole, cioè lo stretto di Gibilterra, per ridiscendere l’Atlantico lungo la costa d’Africa e risalirlo lungo quelle di Spagna e Portogallo. Su questo itinerario avevano già, quando Roma nacque, fondato parecchi, paesi, che dapprincipio dovettero essere soltanto un cantiere e un bazar, cioè un mercato. Leptis Magna, Utica, Biserta, Bona, ebbero certamente questa origine. E Cartagine fu una loro consorella, forse fra le più umili, fino a quando le circostanze non ne fecero la più cospicua.

Queste circostanze furono soprattutto il declino militare e commerciale di Tiro e di Sidone, che per loro sfortuna si trovarono sulla strada di Alessandro di Macedonia, il quale, mentre Roma era ancora un villaggio, voleva diventare imperatore del mondo e per poco non ci riuscì. Minacciati dai suoi eserciti, i milionari di quelle due città, che, come tutti i milionari, avevano più paura degli altri, pensarono di mettere in salvo le loro persone e i loro capitali. E, come oggi c’è la moda di rifugiarsi a Tangeri, allora ci fu quella di rifugiarsi a Cartagine.

La città s’ingrossò di nuovi abitanti pieni di soldi e d’iniziative. Essi respinsero sempre più verso l’interno la popolazione indigena formata di poveri negri, molti dei quali furono assunti come servi e schiavi. E, non più contentandosi del commercio e del mare, si dedicarono anche alla terra. Il particolare è interessante perché sin qui si era sempre pensato che gli ebrei alla terra sian refrattari per costituzione. E invece quelli di Cartagine dimostrarono il contrario. Essi furono i grandi maestri di molte colture, specie di vigne, di oliveti e di frutteti; e gli stessi romani ebbero molto da imparare da loro. Fu un cartaginese, Magone, il più grande professore di agraria dell’antichità.

Era una economia perfettamente equilibrata quella di Cartagine. In città fioriva una eccellente industria metallurgica che forniva i migliori attrezzi per lavorare la terra, canalizzarla e trasformarla in orti e giardini. Gran parte di questi prodotti venivano caricati sulle navi, ch’eran le più grandi del mondo, e avviati verso la Spagna o la Grecia. Gli

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armatori finanziavano gli esploratori per scoprire nuovi mercati. Uno di costoro, Annone, con una solitaria galea, discese le coste atlantiche dell’Africa per duemila chilometri.

Altri commessi viaggiatori battevano gl’itinerari di terra a bordo di muli, cammelli ed elefanti, trovarono oro e avorio, e li portarono in patria. Attraversavano il Sahara con l’indifferenza con cui noialtri attraversiamo l’Arno. E in seguito ai loro rapporti, come più tardi avrebbe fatto Venezia, il governo mandava un po’ di flotta o un po’ di esercito a prendere possesso dei punti strategici.

Il loro sistema economico e finanziario era il più progredito del tempo. Roma aveva appena cominciato a coniare rozze monete di metallo, che Cartagine aveva già i biglietti di banca: certe strisce di cuoio, diversamente stampigliate secondo il loro valore. Esse erano in tutto il bacino del Mediterraneo quello che più tardi sarebbe stata la sterlina e più tardi ancora il dollaro. Il loro valore nominale era garantito dall’oro che rigurgitava nelle casse dello stato. Perché via via che faceva una nuova conquista, la prima cosa che imponeva Cartagine ai vinti era un tributo, e non dei più leggeri. Leptis, per esempio, ripa-gava il grande onore di essere vassalla di Cartagine con trecentosessantacinque talenti all’anno, che corrisponderebbero a quasi un miliardo di lire.

Questo sfruttamento del proprio impero coloniale fu probabilmente una delle ragioni della disfatta di Cartagine, quando venne in conflitto con Roma. Ma, finché non si profilò questa minaccia, esso garantì alla città fenicia un rigoglio mai visto sino ad allora. Essa aveva allora due o trecentomila abitanti che non abitavano in capanne come a Roma, ma in grattacieli che contavano fino a dodici piani, i più poveri; e in palazzi con giardino e piscina, i più ricchi. I templi e i bagni pubblici si sprecavano. Il porto aveva duecentoventi moli e quattrocentoquaranta colonne di marmo. In mezzo all’abitato c’era la city, come a Londra, col ministero del Tesoro. E tutt’intorno un triplice bastione di mura con torri, una specie di “1inea Maginot” che poteva contenere fino a ventimila soldati con tutto il loro armamento, quattromila cavalli e trecento elefanti.

Del popolo e dei suoi costumi, l’unica testimonianza che ci resta è quella degli storici romani, che naturalmente non potevano essere equanimi verso di esso. La loro lingua doveva essere molto vicina a quella ebraica, e infatti i loro magistrati si chiamavano sciofetes, che viene certamente dall’ebraico shofetim. Anche i lineamenti denunziavano l’origine semitica. Erano gente di colorito olivastro, in genere con lunghe barbe ma senza baffi, e già sin da allora portavano il turbante. I più poveri, che probabilmente venivano da mescolanze con l’elemento indigeno e quindi avevano anche la pelle più scura, si vestivano con quella che oggi in Egitto si chiama gallabìa, un camicione sciolto e lungo fino ai piedi calzati di sandali. I signori seguivano invece la moda greca, come oggi si segue quella in-glese, portavano abiti eleganti, orlati di porpora, e un anello al naso. La condizione delle donne era inferiore a quella delle ateniesi, ma superiore a quella delle romane. In genere stavano velate e confinate in casa; però la carriera ecclesiastica era loro aperta, e vi potevano raggiungere alti gradi. Oppure potevano darsi alla prostituzione che fioriva rigogliosa e che costituiva un mestiere pregiato, o per lo meno non squalificato, come lo è ancora oggi in Giappone.

Polibio e Plutarco assicurano concordemente che il livello morale era basso, il che ci stupisce alquanto trattandosi di un popolo di razza semita, dove i costumi in genere son severi, anzi puritani. Ce li presentano come gagliardi mangiatori e bevitori, impenitenti festaioli, sempre pronti a far ribotta nei clubs e nelle taverne. La fides punica, cioè la parola cartaginese, è rimasta sinonimo, in latino, di tradimento. Ma non bisogna dimenticare che la storia dei tradimenti cartaginesi fu scritta dagli storici romani. Plutarco ci presenta questi antichi e irriducibili nemici dì Roma come “servili verso gl’inferiori e oscillanti fra la codardia nella sconfitta e la crudeltà nella vittoria”. Polibio aggiunge che presso di loro tut-

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to veniva misurato sul metro del profitto. Ma si sa che Polibio era amico intimo di Scipione, colui che distrusse Cartagine incendiandola.

Naturalmente anche i cartaginesi avevano i loro dèi. Se li erano portati dietro dalla madrepatria, la Fenicia, ma gli avevano cambiato nome. Invece di Baal-Moloch e Astarte, come li chiamavano a Tiro e a Sidone, li chiamarono Baal-Haman e Tanit. Sotto di loro c’erano Melkart, che vuol dire “chiave della città”, Eshmun, signore della ricchezza e della buona salute, e infine Didone, la fondatrice, che a Cartagine teneva il posto occupato a Roma da Quirino.

A tutti questi dèi offrivano sacrifici, specie nei momenti di bisogno. Si trattava di capre o di vacche per gli dèi minori. Ma quando c’era da placare o da ingraziarsi Baal-Haman, si ricorreva ai bambini, collocandoli fra le braccia della grande statua di bronzo che lo rappresentava, e di li lasciandoli rotolare sul fuoco che vi ardeva sotto. Sino a trecento in una giornata ne bruciarono in mezzo a un baccanale di trombette e di tamburi per soffocarne le grida. E le mamme erano tenute ad assistere senza una lacrima né un lamento. Pare che fosse in uso, da parte delle famiglie ricche, quando erano richieste di for-nire un bambino per cuocerlo alla griglia, comprarne dai poveri. Ma quando Agatocle di Siracusa mise l’assedio alla città, rendendo necessario, oltre al soccorso degli dèi, anche il buon accordo fra le classi sociali, l’uso fu proibito per non alimentare gli odi fra fortunati e diseredati. Il regime politico non era, tutto sommato molto diverso da quello di Roma. Aristotele ne scrisse un grande elogio, forse per sentito dire e perché non vi sorsero mai serie minacce di dittatura, dalla quale egli aborriva. Come a Roma, l’organo supremo era il Senato, anche qui composto di trecento membri, di cui la maggioranza dapprima fu fornita dall’aristocrazia terriera, poi piano piano passò a quella del denaro, cioè alla plutocrazia. Esso prendeva le grandi decisioni e ne affidava l’esecuzione ai due sciofetes, che cor-rispondevano press’a poco ai consoli romani. Solo quando essi non riuscivano a mettersi d’accordo, si chiedeva il parere a una specie di Camera dei deputati, che aveva il potere di dire “sì” o “no”, ma non quello di avanzare proposte per suo conto.

Anche il Senato era, teoricamente, elettivo. Ma in pratica, avendo in mano tutte le leve di comando, riusciva con la corruzione o i brogli a imporre i suoi candidati. Sopra di esso c’era solo una specie di Corte costituzionale formata da centoquattro giudici che controllavano un po’ tutto: non solo la costituzionalità delle leggi, ma anche i conti dell’amministrazione. Durante le guerre con Roma, questa Corte diventò a poco a poco il vero governo.

Dell’esercito, Cartagine non faceva gran conto, anche perché i suoi vicini d’Africa non la inquietavano. I cartaginesi non amavano le caserme, che infatti erano piene soltanto di mercenari, prezzolati fra gl’indigeni, e soprattutto fra i libici. Delle grandi imprese ch’essa compì nel secolo di lotta contro Roma, il merito va quindi attribuito quasi esclusivamente al genio dei suoi Annibali, Amilcari e Asdrubali, che furono fra i più brillanti generali dell’antichità.

Sul mare invece era forte, la più forte fra le potenze navali di quel tempo. La sua home fleet contava in tempo di pace cinquecento quinqueremi, ch’erano un po’ le corazzate di allora ma rapide e leggere, e gaiamente dipinte di rosso, di verde e di giallo. Gli ammiragli che le comandavano la sapevano lunga, e anche senza bussola e compasso conoscevano il Mediterraneo come la vasca del loro giardino. In tutti gli anfratti delle coste spagnole e francesi, avevano cantieri, magazzini di rifornimento e informatori. Il loro Istituto cartografico era il più aggiornato e moderno. Fin quando Roma, occupatissima a con solidare la sua egemonia sulla penisola, non ebbe varato una propria flotta, quella cartaginese non accettò intrusioni, fra la Sardegna e Gibilterra, da parte di nessuno. Qualunque nave straniera capitasse a tiro di quelle loro, la requisivano o l’affondavano,

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affogandone i marinai, senza nemmeno chieder loro da che parte venivano e che bandiera battevano.

Questa era, all’ingrosso, Cartagine, quando i romani, sbarazzatisi l’uno dietro l’altro di tutti i rivali italiani e unificata la penisola sotto il proprio comando, cominciarono a occuparsi di cose di mare.

Ma, badate, tutto quel che ne abbiamo detto è stato ricostruito su elementi molto fragili. Scipione, quando mise a ferro e a fuoco la città senza lasciarvi pietra su pietra, vi trovò, fra le altre cose, parecchie biblioteche. Ma invece di portarle a Roma, le distribuì fra i suoi alleati africani (e, da parte di un uomo colto come lui, la cosa stupisce) che per i libri avevano poca passione e li lasciarono andare in malora. Ecco perché non abbiamo nemmeno un manuale della sua storia, e dobbiamo contentarci del poco che riuscirono a ricostruirne Sallustio e Giuba. Qualche frammento di Magone e una testimonianza di sant’Agostino ci assicurano tuttavia che Cartagine ebbe una sua cultura, e di buona qualità.

I greci, che pure avevano Atene sotto gli occhi, dicevano ch’essa era una delle più belle capitali del mondo. Ma quel che di essa ci resta è troppo poco per confermarcelo. I suoi più importanti resti son quelli che gli archeologi hanno disseppellito nelle Baleari, dove i cartaginesi avevano fondato una colonia e dove forse qualcuno di loro si rifugiò, al momento del massacro, portandovi anche qualche opera d’arte. Tutto il resto è raccolto nel museo di Tunisi, dove gli archeologi seguitano ad accumulare quello che via via scavano dieci miglia più a ovest, dove la città sorgeva.

Vi si possono ammirare alcuni scampoli di scultura, tratti dai sarcofaghi. Lo stile è una mistura greco-fenicia. Poi, il solito vasellame, ma di scarso valore: roba utilitaria e costruita in serie. Nulla ci resta di quello che, a quanto pare, fu il vanto di Cartagine: l’artigianato. Dicono che soprattutto gli orafi erano gran maestri. Purtroppo la gioielleria è stata, in tutti tempi, il bottino di guerra più ricercato.

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CAPITOLO TREDICESIMO

REGOLO IL patto che avevano stipulato con Cartagine nel 508 avanti Cristo, quando si

trovarono presi tra la rivoluzione all’interno e la guerra con etruschi, latini e sabini all’esterno, impegnava i romani a non spingere mai, per nessuna ragione, le loro navi oltre il canale di Sicilia, e a non sbarcare in Sardegna e in Corsica che in caso di “forza maggiore”, cioè per qualche rifornimento e qualche riparazione in un cantiere.

Erano limitazioni gravi, ma Roma non ne aveva molto sofferto perché la sua flotta era agl’inizi e del tutto in mano agli armatori etruschi che, con la costituzione della repubblica, avevano perso quattrini e influenza politica. Sul mare, di cui i senatori latino-sabini, tutti “terrieri”, s’infischiavano e non capivano nulla, Roma a quel tempo contava ben poco, e quindi aveva rinunziato a ciò che non aveva. Essa forse ignorava perfino i grandi cambiamenti che proprio in quegli anni erano sopravvenuti nel cosìddetto “equilibrio delle potenze navali” del Mediterraneo. Vediamoli, all’ingrosso.

Nel bacino orientale, quello a est del canale di Sicilia, si era combattuta per secoli una guerra tra le flotte fenicie e quelle greche, che ora si stava risolvendo a favore delle seconde. Prima l’Egeo, poi lo jonio erano caduti in mani elleniche, e l’Italia se ne accorse, quando sulle sue coste meridionali e su quelle siciliane i vincitori cominciarono a sbarcare sempre più numerosi e a fondarvi colonie che poi diventarono un vero e proprio impero: la Magna Grecia, Catania, Siracusa, Eraclea, Crotone, Messina, Sibari, Reggio, Nasso, furono, per i loro tempi, fior di metropoli. Purtroppo assieme ai loro déi, alla loro filosofia, al loro teatro e alla loro scultura, quei pionieri si erano portati dietro dalla madrepatria anche il vizio della litigiosità. E quel vizio doveva perderli nella lotta contro Roma. Ma per il mo-mento erano loro i padroni della zona.

Nel bacino occidentale, invece, i fenici avevano vinto per opera della loro più giovane colonia: Cartagine, che a sua volta aveva fondato infinite altre colonie non soltanto sulla costa nord-africana, ma anche su quelle portoghesi, spagnole, francesi, corse, sarde, in modo da fare di tutto il Mediterraneo occidentale un lago cartaginese.

Quando Roma, sotto i re, era stata padrona dell’Etruria e quindi anche della sua flotta, era venuta varie volte in contatto con Cartagine, e probabilmente non sempre questi contatti erano stati fra i più cortesi. A quei tempi la “guerra di corsa” era corrente e non impegnava che i capitani e gli equipaggi che la facevano. Una nave ne aggrediva un’altra, anche di compatrioti, la spogliava, gettava in mare i marinai. E tutto finiva li.

Poi Roma, come potenza mediterranea, era scomparsa, e di fronte non erano rimasti che i greci della Magna Grecia, e i fenici di Cartagine: gli uni a est, gli altri a ovest della Sicilia, di cui si erano spartiti le coste: quelle orientali erano infatti greche, quelle occidentali cartaginesi. Si guardavano tra loro in cagnesco, e vivevano in un perpetuo regime di “guerra fredda” con episodi di guerra calda, seguiti da armistizi e “distensioni”. Erano convinti, gli uni e gli altri, di dover arrivare prima o poi a una resa di conti; ma non s’immaginavano ch’essa sarebbe andata a beneficio di un terzo.

Nessuno può dire con certezza se Roma sapeva quel che faceva e misurò le conseguenze del suo gesto, quando decise di accettare le offerte dei mamertini.

Erano costoro un branco di mercenari, assoldati in tutte le parti d’Italia da Agatocle di Siracusa per combattere i cartaginesi. Al momento del congedo, nel 289, invece di tornarsene a casa, dove forse li aspettava un mandato di cattura, formarono una banda, assaltarono Messina, la saccheggiarono, ne sternimaron o la popolazione, e vi si stabilirono

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da padroni, affibbiandosi quel buffo e presuntuoso nome di “mamertini” , che voleva dire nientepopodimeno che “figli di Marte”.

Da una ventina d’anni, costoro ne stavano combinando di tutti i colori. Attraversavano lo stretto per incendiare e distruggere i villaggi della dirimpettaia costa calabra. Avevano dato noia a Pirro, avevano dato noia ai romani. E ora, alla fine del 270, si trovavano assediati da Gerone di Siracusa, che voleva farla finita con loro una volta per tutte.

Per sottrarsi al castigo che sarebbe stato certamente esemplare, i mamertini chiesero l’aiuto dei cartaginesi che mandarono un esercito e occuparono la città. Visto che la regola “chiodo scaccia chiodo” aveva funzionato, i mamertini pensarono di applicarla ancora una volta, e subito dopo chiamarono i romani perché venissero a liberarli dai “liberatori” cartaginesi. Correva l’anno 264. Ed erano trascorsi due secoli e mezzo da quando Roma e Cartagine avevano concluso quel solenne patto di alleanza che, tutto som-mato, aveva sempre ben funzionato, e che era stato solennemente riconfermato vent’anni prima, quando Cartagine aveva offerto e pòrto aiuto a Roma nella sua lotta contro Pirro.

Ma per i romani la Sicilia, su cui si trattava di metter piede, era l’Eldorado. Chi c’era stato non faceva che magnificarne le ricchezze e le bellezze. L’invito dei mamertini era di quelli a cui si resiste male.

Forse tuttavia esso sarebbe stato declinato, se i senatori fossero stati liberi di decidere da soli: essi sapevano dove avrebbe condotto quell’intervento. Ma ormai certe scelte dovevano essere riservate all’Assemblea Centuriata, nella quale dominavano quelle classi borghesi-industriali e mercantili che nelle guerre avevano sempre inzuppato il pane e appunto per questo erano nazionaliste e patriottarde a oltranza. Chi non aveva nulla, sperava di ottenere qualcosa, magari una fattoria in qualche nuova colonia; chi lo aveva, sperava di moltiplicarlo. Ed è difficile muovere obbiezioni contro chi parla, o dice di parlare, in nome della Patria e degli Immancabilí Destini.

L’Assemblea Centuriata decise di accettare l’offerta e affidò l’esecuzione dell’impresa al console Appio Claudio. Nella primavera del 264, dopo alcuni infruttuosi tentativi, una piccola flotta romana agli ordini del tribuno Caio Claudio riuscì a traversare lo stretto, entrò di sorpresa, con l’aiuto dei mamertini, in Messina e prese prigioniero il generale cartaginese Annone, mettendolo alla scelta: o la galera, o il ritiro con i suoi uomini dalla città.

Annone doveva essere un uomo accomodante. Pochi mesi prima aveva rimandato ad Appio Claudio certe triremi romane che una tempesta aveva fatto naufragare sulle coste siciliane, come a dirgli: « Suvvia, non fate sciocchezze ». Ora, di fronte a quella minacciosa alternativa, non esitò, e alla testa del suo piccolo esercito tornò a casa, dove, per ricompensa, lo crocefissero. Cartagine evidentemente non era affatto disposta a inghiottire quel rospo. E infatti subito mise in campo un altro Annone alla testa di un altro esercito.

Il nuovo generale sbarcò in Sicilia, e come prima cosa pensò di trovarvi un buon accordo con i greci. S’intese subito con quelli di Agrigento e subito dopo, a Selinunte, ricevette un’ambasciata di Gerone di Siracusa che accettava un’alleanza con lui. Era chiaro che i greci preferivano il vecchio nemico a quello nuovo.

Appio Claudio, che contava sulla secolare discordia ellenico-fenicia, si trovò colto di sorpresa col grosso del suo esercito ancora in Calabria. E allora ricorse all’astuzia. Fece spargere la notizia che la nuova situazione l’obbligava a tornare a Roma per prendervi ordini, e effettivamente mandò qualche nave a veleggiare verso nord. Rassicurati, i cartaginesi rallentarono la sorveglianza sullo stretto. E Appio ne approfittò per sbarcare le sue forze, ventimila uomini, un po’ a sud di Messina, in vista dell’accampamento siracusano, cui diede l’assalto.

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Gerone se la cavò abbastanza bene. Ma la comparsa improvvisa di quell’esercito

gli fece sospettare un tradimento da parte di Annone, che piantò in asso per tornarsene di furia a Siracusa. Isolati così i cartaginesi, Appio gli si gettò subito contro, ma stavolta senza riuscire nell’impresa.

Allora, lasciato un distaccamento a circondare Messina, pensò di correr dietro all’altro nemico ritenendolo più debole. Ma Gerone era un buon capitano e inflisse ai romani una dura sconfitta. Appio salvò la pelle per miracolo, e dovette rendersi conto che l’impresa era meno facile di quanto pensassero a Roma. Per cui, lasciate parte delle sue forze a guardia di Annone, tornò all’Urbe per riferire e chiedere rinforzi.

I rinforzi li diede soprattutto la diplomazia che riallacciò le relazioni con Gerone riportandolo nel campo romano. Era un buon colpo. Ma dopo Siracusa, bisognava avere anche Agrigento, e qui la diplomazia non poteva nulla perché ad Agrigento c’era una guarnigione cartaginese. I romani vi posero l’assedio, dopo sette mesi costrinsero gli occupanti a tentare una disperata sortita per fame, e li batterono.

Subito i cartaginesi misero in campo un secondo esercito e lo affidarono ad Amilcare (che non ha nulla a che fare col suo omonimo, padre di Annibale). Questi comprese che coi romani, per terra, non c’era niente da fare, e prese ad attaccare con la flotta tutte le loro piazzeforti marittime, riportando una vittoria dopo l’altra.

Fu qui che si vide cos’era Roma. Essa non aveva né navi né marinai. In pochi mesi, per sforzo concorde di tutti i cittadini, approntò centoventi unità. Amilcare, che ne aveva centotrenta, mosse loro incontro senza nemmeno le solite misure di prudenza. E si trovò di fronte ai “corvi”, degli strani arnesi che, issati sulla prora delle navi romane, impedivano a quelle nemiche di manovrare. Perse un terzo delle sue forze, e fuggì.

A Cartagine, quando lo seppero, rimasero sconvolti, convinti com’erano di poter dare, sul mare, lezioni a tutti. A Roma s’inorgoglirono, e decisero di portare, attraverso il Mediterraneo, la guerra nel cuore del nemico. Alla prima flotta, un’altra ne fu aggiunta: in tutto trecentotrenta vascelli con centocinquantamila uomini agli ordini del console Attilio Regolo. Contro di essa, Cartagine ne mise in campo una di forze uguali, agli ordini di Amilcare. Lo scontro avvenne al largo di Marsala. I romani pagarono la loro incerta vittoria con ventiquattro navi; i cartaginesi la loro certa sconfitta con trenta. Ma Attilio Regolo poté sbarcare in Africa, a Capo Bon.

Ora stava a Cartagine mostrare cos’era. E lo mostrò. Essa ebbe qualche tentennamento ai primi successi dei romani che, con l’aiuto dei numidi in rivolta, erano giunti a trenta chilometri dalla loro città. E mandarono un’ambasciata per chiedere pace. Regolo impose di sua testa condizioni inaccettabili. E i cartaginesi allora si disposero al duello mortale. Persa fiducia nei loro generali, affidarono il comando a un greco di Sparta, che sarebbe come dire, oggi, a un tedesco di Prussia: Santippo. Costui riorganizzò con mezzi spicciativi e “fucilazioni” sommarie l’esercito, apportandovi quei nuovi criteri nell’impiego della cavalleria e degli elefanti che poi Annibale sfrutterà mirabilmente.

La battaglia decisiva fu combattuta presso Tunisi. Dell’esercito romano, solo duemila uomini si salvarono rinchiudendosi a Capo Bon. Regolo fu fatto prigioniero. Era l’anno 255 avanti Cristo.

A Roma ne occorsero cinque per riprendersi, materialmente e moralmente, da quel disastro, che aveva ricondotto la guerra in Sicilia. In quel lustro, le vicende furono alterne, ma in genere favorevoli ai cartaginesi. Finché un giorno il nuovo loro generale, Asdrubale, nel tentativo di riprendere Palermo, fu battuto e lasciò ventimila uomini sul terreno. Cartagine, stanca, e pensando che anche l’avversario lo fosse, tirò fuor di prigione Regolo e

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lo mandò a Roma con i suoi ambasciatori per caldeggiarvi proposte di pace. Se fossero state respinte, egli s’impegnava sulla sua parola a tornare. Il Senato lo invitò a esprimere il suo parere davanti ai plenipotenziari nemici. Regolo sostenne che bisognava continuare la guerra. E quando vide accolto il suo parere, riprese la via di Cartagine nonostante le suppliche della moglie. Lo torturarono a morte impedendogli di dormire. I suoi figli a Roma presero due prigionieri cartaginesi di alto rango, e li tennero svegli finché a loro volta non morirono. Erano i costumi dei tempi.

La guerra fu ripresa, ma ora vi comparve, da parte cartaginese, un nuovo protagonista: Amilcare Barca, il padre di Annibale, comandante supremo dell’esercito e della flotta. Fu l’inventore di quelli che oggi si chiamano i commandos, e cominciò a lanciarne, con effetti devastatori, persino sulle coste della penisola, dando l’impressione ai romani di volervi sbarcare.

Il Senato, atterrito, non voleva rischiare una nuova flotta contro di lui. Le leve militari erano stremate; le casse del Tesoro, vuote. Fu allora che i più ricchi cittadini costruirono di tasca propria un’armata di duecento navi e la misero a disposizione del console Lutazio Catulo, che bloccava i porti di Drepano e Lilibeo. I cartaginesi per conto loro ne mandarono un’altra di quattrocento unità, stivate di rinforzi, armi e rifornimenti. Se riuscivano a sbarcare, per i romani in Sicilia era la fine. Contro gli ordini del Senato, che gli vietavano iniziative marittime, Catulo per quanto gravemente ferito, comandò alla sua squadra di attaccare. Le navi cartaginesi, appesantite dal carico che recavano, non riuscirono a manovrare, e centoventi furono affondate, mentre le altre riprendevano la rotta di Cartagine. Amilcare era tagliato dalla madrepatria e dopo tanti successi non gli restava che chiedere la resa.

Lutazio Catulo non volle ripetere l’esperienza di Regolo, e subito accolse la proposta concedendo ad Amilcare l’onore delle armi e il ritiro con i suoi uomini, e rimettendo alla competenza del Senato le altre condizioni.

Qualcuno, a Roma, rimproverò a Catulo tanta indulgenza, e propose di riprendere le ostilità fino a quella che oggi si chiamerebbe la “resa incondizionata” del nemico. Ma le “rese incondizionate” sono quasi sempre pretese balorde, e il Senato fece benissimo a respingerne l’idea. Esso chiese ai cartaginesi l’abbandono della Sicilia, la restituzione senza riscatto dei prigionieri e il pagamento di tremiladuecento talenti in dieci anni. Erano condizioni ragionevoli, e Cartagine si affrettò ad accettarle.

Così, dopo quasi un quarto di secolo di lotta, finì la prima guerra punica, durata dal 265 al 241 avanti Cristo.

Ma tutti sapevano, a Roma e a Cartagine, che quella pace era soltanto un armistizio.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

ANNIBALE AMBEDUE i contendenti uscirono malconci da quel quarto di secolo di lotta, ma le

conseguenze per Cartagine furono più gravi che per Roma. Essa non solo dovette cedere tutta la Sicilia, impegnarsi a una pesante riparazione, e accettare. la concorrenza del commercio romano in tutto il Mediterraneo; ma cadde nell’anarchia per lo scatenarsi di conflitti interni.

Il suo governo si rifiutò di pagare gli “arretrati” ai mercenari che avevano servito sotto le bandiere di Amilcare. Costoro si rivoltarono sotto la guida di Matone, un caporalaccio che la sapeva lunga, trovarono subito appoggio nei popoli soggetti e specialmente nei libici che insorsero, formarono un esercito sotto il comando di Spendio, ch’era uno schiavo napoletano. E tutti insieme posero assedio alla città.

I ricchi mercanti di Cartagine tremarono, e sollecitarono Amilcare a liberarli da quella minaccia. Amilcare esitò, gli dispiaceva combattere i suoi vecchi soldati. Ma quando costoro ebbero tagliato le mani e spezzato le gambe al suo collega Cesco e seppellito vivi settecento cartaginesi, si risolse ad agire. Chiamò alle armi quanti giovani trovò dentro le mura della città assediata, li sottopose a un duro e sintetico allenamento militare, attaccò con diecimila uomini il nemico forte di quarantamila, ne ruppe l’accerchiamento, li incalzò dentro un’angusta valle di cui tappò le due uscite; e si mise ad aspettare la loro morte per fame.

Essi mangiarono prima ì cavalli, poi i prigionieri, poi gli schiavi. E alla fine, disperati, mandarono Spendio a chieder pace. Amilcare, per tutta risposta, lo crocefisse. I mercenari tentarono una sortita, e furono massacrati. Matone, fatto prigioniero, venne ucciso a lente scudisciate. Fu, dice Polibio, la più sanguinosa ed empia guerra della storia. Durò oltre tre anni. E quando finì, Cartagine seppe che Roma aveva occupato anche la Sardegna. Protestò, e Roma, sapendo in che condizioni l’avversaria si trovava, rispose con una dichiarazione di guerra. Per evitarla, Cartagine accettò la perdita della Sardegna, vi aggiunse quella della Corsica, e si rassegnò a pagare altri milleduecento talenti. Cioè, per evitare la guerra, accettò senzaltro la sconfitta. Ma stavolta non protestò.

Anche Roma in quel frattempo si stava leccando le ferite. L’esercito era povero di uomini e la moneta era stata svalutata dell’ottantatre per cento. La politica unitaria inaugurata nella penisola aveva dato, in complesso, buoni frutti perché nessuno dei popoli sottomessi aveva approfittato delle disgrazie dell’Urbe per ribellarsi. Ma la frontiera del nord non era sicura. I liguri, incapaci di fondare uno stato, erano però capacissimi di cabotare con le loro barche lungo il Tirreno, impedendovi i traffici e saccheggiandone le coste, specie quelle toscane. Nel nord Adriatico gl’illiri, acquattati fra le scogliere della Dalmazia, facevano altrettanto. E da Bologna alle Alpi, in tutta la piana del Po, i galli si sta-vano rinforzando per il sopraggiungere di loro confratelli dalla Francia che, non conoscendo ancora i romani, non li temevano. A lasciarli crescere, c’era il rischio di vedersi ruzzolare un’altra volta addosso, com’era già accaduto con Brenno.

Rastrellata dai resti cartaginesi la Sicilia e occupatala con guarnigioni e “colonie”, meno il regno di Siracusa che fu lasciato al fedele Gerone, i romani la proclamarono “provincia”. Essa fu la prima delle molte che più tardi formarono l’impero. La seconda consiste nella Sardegna e la Corsica riunite. Poi, instaurato così un certo ordine

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amministrativo, l’Urbe decise di estenderlo oltre l’Appennino toscano che costituiva il suo confine settentrionale.

Cominciò coi liguri, ch’erano i più.isolati e i meno pericolosi. E forse non si trattò nemmeno di una vera e propria guerra, ma di una serie di operazioni “anfibie”,” cioè condotte contemporaneamente per terra e per mare. Esse durarono cinque anni, dal 238 al 233, e non ebbero bisogno dei soliti eroici episodi. Quando finirono, i liguri eran diventati vassalli e non avevano più neanche una barca con cui disturbare i traffici con la Sardegna e la Corsica.

Poi fu la volta dei galli, che in realtà avevano già preso l’iniziativa, organizzando con l’aiuto francese un esercito di cinquantamila fanti e ventimila cavalieri. Ai romani erano sempre andati poco a garbo quei soldatacci che Polibio ci descrive: alti e belli, sempre smaniosi di guerre che combattevano nudi, salvo qualche collana e amuleto. Il Senato fu così atterrito di questo nuovo attacco che, tornando a un costume ormai in disuso, decise d’ingraziarsi gli dèi con un sacrificio umano seppellendo vive due vittime. Ma le scelse fra i galli. Comunque, si vede che gli dèi ne furono ugualmente contenti, perché a Talamone le legioni riuscirono a circondare il nemico e praticamente lo distrussero una volta per sempre. Quarantamila galli rimasero sul terreno, e diecimila furono fatti prigionieri. Tutta l’Italia, fino alle Alpi, era alla mercé di Roma. Essa chiamò Gallia Cisalpina questa nuova ricchissima provincia, che fu la terza, ne occupò la capitale, Mediolanum, e vi fondò due forti colonie: Cremona e Piacenza.

Poi si volse verso est, e in pochi anni, con spedizioni simili a quelle che aveva organizzato contro i liguri, ridusse a popolo tributario l’Illiria della regina Teuta. E con ciò mise per la prima volta il piede sull’altra sponda dell’Adriatico, facendone il suo trampolino di lancio per le successive conquiste in Oriente.

Mentre Roma completava così la conquista della penisola e si metteva al sicuro a est e a nord, a Cartagine Amilcare faceva fuoco e fiamme per preparare la rivincita. Subito dopo aver domato la rivolta, egli aveva supplicato il suo governo di dargli un esercito per ristabilire lo scosso prestigio fenicio di Spagna e costituirvi una base di operazioni contro l’Italia. Ebbe dalla sua le classi medie, che volevano riconquistare sul Mediterraneo un monopolio commerciale da cui dipendeva la loro sorte, e contraria l’aristocrazia terriera, che non voleva più rischiare di perdere i suoi privilegi in pericolose avventure.

Alla fine si scese a un compromesso: invece di un corpo d’armata fu data ad Amilcare solo una divisione. Ma gli bastò. Amilcare era veramente un grande generale, e non per nulla gli avevano dato quel soprannome di “Barca”, che in lingua fenicia significava “folgore”. Prima di partire alla testa di quei pochi uomini, condusse in chiesa i suoi “leoncelli”, com’egli chiamava suo genero Asdrubale e i suoi tre figli: Annibale, Asdrubale e Magone. E li fece giurare loro, dinanzi all’altare di Baal-Haman, che un giorno essi avrebbero vendicato Cartagine. Dopodiché li imbarcò con la truppa e se li portò al seguito.

In pochi mesi egli ridusse all’obbedienza le città spagnole che si erano ribellate, e si mise a reclutare indigeni per costituire un esercito vero e proprio. La madrepatria non mosse un dito per aiutarlo, ma Amilcare fece tutto da solo. Scavò miniere, ne estrasse il ferro, lo lavorò per ricavarne le armi; e monopolizzò il commercio per finanziarsi. Purtroppo la morte lo sorprese ancora giovane, durante un combattimento contro una tribù ribelle. Spirando, raccomandò come successore il genero Asdrubale, che tenne il comando per otto anni senza far rimpiangere il suocero, e costruì di sana pianta una città nuova, quella che oggi si chiama Cartagena, nel distretto minerario. Quando a sua volta egli morì, sotto il pugnale di un assassino, i soldati acclamarono generale in campo Annibale, il maggiore dei tre figli di Amilcare. Egli aveva ventisei anni in quel momento; e già ne aveva

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trascorsi diciassette sotto la tenda, coi soldati. Ma ricordava benissimo il giuramento che suo padre gli aveva fatto fare.

Annibale fu, se non il più grande in senso assoluto, certo il più brillante condottiero dell’antichità. Molti lo pongono sullo stesso piano di Napoleone. Prima che suo padre lo conducesse in Spagna, aveva ricevuto una perfetta educazione. Perfetta per quei tempi, si capisce. Sapeva la storia, le lingue (il greco e il latino), e dai racconti di Amilcare si era fatta un’idea abbastanza chiara di Roma, della sua forza, e delle sue debolezze. Era convinto, per esempio, che una sconfitta in Italia avrebbe tolto all’Urbe i suoi alleati, perché questo era avvenuto ai tempi di suo padre. Egli ignorava del tutto che la politica romana non era più federalistica. Era robusto, frugale, e di una furberia e di un coraggio senza limiti. Tito Livio racconta ch’era sempre il primo ad entrare in battaglia e l’ultimo a uscirne. Ma forse aveva una fiducia eccessiva nelle proprie capacità d’improvvisazione. Gli storici romani, Livio compreso, hanno molto insistito sulla sua avarizia, crudeltà e assenza di scrupoli. Ed effettivamente i tranelli che tese ai romani furono infiniti e diabolici. Ma anche per questo i soldati lo adoravano e credevano ciecamente in lui. Egli non aveva bisogno di galloni per affermare il suo prestigio. Vestiva infatti come loro e ne divideva tutti i disagi. Oltre che un maestro di strategia, si dimostrò un eccellente diplomatico e un campione dello spionaggio.

Ignoto com’era ai suoi compatrioti, fra i quali non era più tornato dall’età di nove anni, Annibale non poteva certamente sperare in un loro consenso all’apertura delle ostilità. La guerra, quindi, invece di dichiararla, bisognava farsela dichiarare. E per questo, nel 218, assalì Sagunto.

Sagunto era una città alleata di Roma, che però già al tempo di Asdrubale si era impegnata a riconoscere come zona d’influenza cartaginese tutta quella a sud dell’Ebro. E siccome la città si trovava appunto in quella zona, Annibale poté facilmente respingere la protesta che in termini ultimativi gli giunse da Roma, convinta che Cartagine fosse ancora quella, impaurita e a soqquadro, delle rivolte mercenarie. Così cominciò, con molta abilità da una parte e molta leggerezza dall’altra, quella seconda campagna.

Annibale rimase ancora otto mesi intorno alle mura di Sagunto, prima di espugnarla. Non si fidava di lasciarsi alle spalle quell’eccellente porto aperto alla flotta romana. Poi, lasciato sul posto il fratello Asdrubale con l’ordine di vigilare e preparare i rincalzi, attraversò l’Ebro con trenta elefanti, cinquantamila fanti e novemila cavalieri. Erano quasi tutti spagnoli e libici, e non c’era fra loro nessun mercenario.

Le difficoltà cominciarono subito al di là dei Pirenei. Le tribù galliche alleate di Marsiglia, che a sua volta era alleata di Roma, gli opposero resistenza infischiandosi della sorte che Roma aveva riservato alle loro consorelle padane. E tremila dei suoi uomini si rifiutarono di seguire Annibale, quando seppero che voleva attraversare le Alpi. Il Barca non li forzò. Anzi ne liberò, dai loro impegni altri settemila che si mostravano titubanti e li rimandò a casa. Così alleggerito dalla truppa pavida e irresoluta, puntò a nord su Vienne, e iniziò la scalata.

Non si sa con precisione dove passò. C’è chi dice per il San Bernardo, c’è chi dice per il Monginevro. I più propendono per il Monginevro. Comunque, ai primi di settembre del 218 giunse in vetta, la trovò coperta di neve e concesse ai suoi uomini due giorni di riposo. Ne aveva già persi qualche migliaio, vinti dal freddo e dalla fatica, dai precipizi e dai guerriglieri celtici. Poi, dopo quella sosta, iniziò la discesa, che fu ancora più difficile, specie per gli elefanti. Ci furono, nell’animo di quei temerari, ore di crisi e di disperazione. Annibale le superò additando loro, laggiù in lontananza, la bella pianura padana, e promettendogliela come preda. Quelli che arrivarono in fondo agli scapicolli erano in tutto ventiseimila uomini, meno della metà di quelli ch’erano partiti. In compenso i boi e gli altri

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galli li accolsero amichevolmente, li rifornirono di viveri e si allearono a loro, massacrando e mettendo in fuga i romani di Cremona e di Piacenza.

Sbigottito da tanta audacia, il Senato si rese subito conto che quella seconda guerra si annunziava molto più pericolosa della prima. Chiamò alle armi trecentomila uomini e quattordicimila cavalli, e ne affidò una parte al primo dei molti Scipioni che dovevano rendere celebre il nome della famiglia. Costui affrontò Annibale al Ticino, si lasciò sfondare lo schieramento dalla cavalleria numida, e perse la battaglia. Ci sarebbe anche morto se, gravemente ferito com’era, non fosse stato salvato da suo figlio che, sedici anni dopo doveva vendicare il padre a Zama. Era l’ottobre del 218 avanti Cristo.

Trascorsero due mesi, e un altro esercito fu mandato ad affrontare Annibale sulla Trebbia. Seconda battaglia, e seconda sconfitta. Ne trascorsero altri otto, e incontro al Barca, orinai padrone di tutta la Gallia Cisalpina, mosse Caio Flaminio, alla testa di trentamila uomini. Era così sicuro di vincere che si era portato dietro un carico di catene per metterle ai piedi dei prigionieri. Annibale parve voler evitare la battaglia campale. In realtà, con un sapiente di giuoco di pattuglie e di scaramucce, attrasse il nemico in una piana sulle rive del Trasimeno circondata dì colline e di boschi dove aveva nascosto le sue cavallerie. E. dentro di esse lo avviluppò inestricabilmente. Dei romani non rimase vivo quasi nessuno, nemmeno Flaminio.

Tito Livio racconta che la notizia gettò Roma nel panico. Ma il Senato affrontò la situazione con virile fermezza. Il pretore Marco Pomponio non cercò di sdrammatizzarla leggendo, dai Rostri, il comunicato che annunziava la disfatta. « Siamo stati vinti in una grande battaglia », disse. « Il pericolo è grave ».

Ma nemmeno per Annibale erano tutte rose. Via via che si avvicinava a Roma, si accorgeva che la speranza di dividerla dai suoi alleati era infondata. In Toscana e in Umbria le città si chiusero dinanzi al suo esercito, che non sapeva come rifornirsi. Invano egli rimandò liberi a casa i prigionieri non romani. Dall’Appennino al Sannio l’Italia faceva blocco con l’Urbe. E ad Annibale non restò che deviare verso l’Adriatico in cerca di terre più ospitali. 1 suoi soldati, dopo tre battaglie consecutive, erano stanchi, ed egli stesso soffriva di un acuto tracoma. Gli alleati galli, che non vedevano più in là del loro naso, ora ch’egli si allontanava dalle loro regioni, cominciarono a disertare. Annibale mandò messi a Cartagine per chiedere rinforzi: glieli rifiutarono. Ne mandò a Asdrubale: ma questi era inchiodato in Spagna dai romani, che frattanto vi erano sbarcati. Riprese la sua marcia verso sud, ma si trovò di fronte a un nuovo e imbarazzante stratega.

Quinto Fabio Massimo era stato nominato “dittatore” e aveva inaugurato quella “magistrale inazione” per cui passò alla storia col nome di “Temporeggiatore”. Ingaggiava scaramucce, tendeva imboscate, ma in battaglia non si lasciava attirare. Aspettava che le difficoltà, la fame, la stanchezza compissero la loro opera tra i soldati del nemico, che infatti era alla disperazione. Purtroppo prima di loro sì stancarono i romani, che volevano una vittoria e subito, e porsero compiacenti orecchie alle malignità di Minucio Rufo, luogotenente e detrattore di Fabio. Costui venne spodestato e il suo comando diviso fra due consoli di fresca nomina: Terenzio Varrone e Emilio Paolo. Questi era un aristocratico di gran giudizio, perfettamente conscio che contro la strategia annibalica quella romana non aveva ancora elaborato criteri adeguati. Varrone era un plebeo, migliore come patriota che come generale, e voleva quel che volevano i suoi elettori: un rapido successo. Parlando in nome dell’orgoglio e del nazionalismo, ebbe, come al solito, ragione. E condusse i suoi ottantamila fanti e seimila cavalieri contro Annibale che, pur avendo soltanto ventimila veterani, quindicimila infidi galli e diecimila cavalieri, trasse un respiro di sollievo. Egli temeva soltanto Fabio Massimo.

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La battaglia, che fu la più gigantesca dell’antichità, ebbe luogo a Canne sull’Ofanto. Il Barca come al solito attrasse il nemico in un terreno pianeggiante, adatto al giuoco della cavalleria. Poi si schierò mettendo al centro i galli, sicuro che avrebbero tagliato la corda. Così fecero infatti. Nel buco, Varrone si buttò dentro, e le ali di Annibale gli si richiusero sopra. Paolo Emilio, che non aveva voluto lo scontro, combatté valorosamente e cadde con altri quarantamila romani, fra cui ottanta senatori. Varrone riuscì a salvarsi in compagnia dello Scipione che già se l’era cavata sul Ticino, scampò a Chiusi, e di li rientrò a Roma.

Il popolo in lutto lo attendeva alle porte della città. Quando lo videro apparire, gli andarono tutti incontro, coi magistrati alla testa, e lo ringraziarono per non aver dubitato della patria. Così rispose l’Urbe alla catastrofe.

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CAPITOLO QUINDICESIMO

SCIPIONE STANDO ai competenti, Canne rimane, nella storia della strategia, un esempio mai

più superato. Annibale, l’unico capitano che sia stato capace di battere i romani per quattro volte consecutive, vi perse solo seimila uomini, di cui quattromila erano galli. Ma vi perse anche il segreto del suo successo, che finalmente il nemico capì: la superiorità della sua cavalleria.

Sul momento, parve che l’invasore avesse partita vinta: i sanniti, gli abruzzesi, i lucani si sollevarono; a Crotone, a Locri, a Capua, a Metaponto la popolazione massacrò le guarnigioni romane, Filippo V di Macedonia si alleò col Barca; Cartagine, ringalluzzita, annunziò l’invio di rinforzi; e alcuni giovani patrizi romani già corrotti dalla cultura ellenica pensarono di fuggire in Grecia, loro patria ideale.

Ma questi ultimi furono casi isolati. Il giovane Scipione, reduce dalle due disfatte del Ticino e di Canne, li denunziò con parole di fuoco. Il popolo accettò nuovi tributi e nuove leve, le nobili matrone portarono i loro gioielli al Tesoro e andarono a spazzare coi loro capelli il pavimento dei templi, il governo ordinò un nuovo sacrificio umano, non più di due, ma di quattro vittime e seppellì vivi due greci e due galli. I soldati rifiutarono la cinquina. E dalle case partirono volontari di tredici e di quattordici anni per ingrossare la gracile guarnigione, che si preparava a difendere Roma nell’ultima battaglia contro Annibale.

Ma Annibale non spuntò, e ancora oggi ci si domanda per quali ragioni non volle osare. Come Hitler dopo Dunkerque, questo gran soldato che pure in battaglia aveva tanto coraggio non trovò quello di affrontare l’ultimo ostacolo, sebbene lo sapesse quasi sprovvisto di difesa. S’illuse di ricevere rinforzi, in tempo per la grande impresa? Sperò che il nemico chiedesse la pace? Oppure Roma, sebbene l’avesse per quattro volte battuta, gl’incuteva ancora un reverenziale rispetto? Comunque, invece di sfruttare l’enorme successo di Canne, egli decise di riposarsi. Rimandò a casa i prigionieri non romani, e quelli romani offri all’Urbe di restituirli dietro un piccolo indennizzo. Il Senato orgogliosamente rifiutò. Annibale, mandatine a Cartagine un certo numero come schiavi, adibì gli altri a giuochi gladiatori per il divertimento dei suoi soldati. Poi si avvicinò a pochi chilometri da Roma facendola tremare, ma sfilò ad est, su Capua.

I romani per il momento non gli corsero dietro. Stavano penosamente organizzando un nuovo esercito di duecentomila uomini. Quando fu pronto, ne diedero una parte al console Claudio Marcello perché rimettesse ordine nella Sicilia che si era ribellata; una parte la tennero a difesa della città; un’altra la spedirono in Spagna sotto la guida dei due più anziani Scipioni per inchiodarvi Asdrubale.

L’anno seguente Claudio Marcello aveva conquistato Siracusa che, dopo la morte del fedele Gerone, aveva tradito l’alleanza, e tentato di resistere con gli accorgimenti di Archimede, il più grande matematico e tecnico dell’antichità. Costui aveva escogitato fra l’altro le “mani di ferro” che, dalle confuse e stupefatte descrizioni lasciateci dagli storici, dovevano essere delle gru che sollevavano le navi romane, e gli “specchi ustori” che le incendiavano concentrando su di esse i raggi solari. Forse furono soltanto delle brillanti idee che in pratica poi rimasero sulla carta. Tanto è vero che la città cadde ugualmente, e nel macello che seguì lo stesso Archimede perse la vita.

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A questo successo che rialzò il prestigio di Roma nel Sud, si aggiunsero quelli dei due Scipioní che batterono a più riprese Asdrubale in Spagna, e la riconquista di Capua che cadde nel 211, in un momento che Annibale se n’era allontanato nella speranza d’ingannare i romani fingendo di marciare contro l’Urbe. Il castigo della città infedele fu esemplare: tutti i capi vennero uccisi, e la popolazione deportata in massa. In tutta Italia si sparse il terrore e la fede nel “liberatore” Annibale vacillò.

Ed ecco proprio in questo momento sorgere il gran condottiero che doveva vendicare tutte le umiliazioni di Roma. I due Scipioni, che guerreggiavano contro Asdrubale, sebbene vittoriosi, caddero in combattimento. A sostituirli fu mandato, appena ventiquattrenne, il loro rispettivo figlio e nipote, Publio Cornelio, il reduce del Ticino e di Canne. Egli non aveva ancora raggiunto i limiti di età per un si alto comando, ma il Senato e l’Assemblea furono d’accordo nel derogare alla legge in un frangente così grave. Publio Cornelio Scipione era stato un valoroso soldato e un eccellente comandante di falange e di coorte. Rientrato con Varrone a Roma nel momento più tragico, quello che seguì alla disfatta di Canne, vi era stato l’animatore della resistenza. Era bello. Era eloquente. Portava un grande nome. Godeva fama di pio, cortese e giusto. Non intraprendeva nulla, né di pubblico né di privato, senza prima chiedere il parere degli dèi, raccogliendosi a pregare nel tempio. E per di più era riuscito a farsi considerare dai suoi compatrioti fortunato, cioè “raccomandatissimo” dal cielo.

Infatti, appena arrivato in Spagna, dove trovò l’esercito impegnato ad assediare Cartagena, diede subito una prova dei particolari favori che lo assistevano. Si trattava, per espugnare la città, di attraversare uno stagno che comunicava col mare, e la profondità dell’acqua era tale che bisognava farlo nuotando; operazione impossibile per uomini appesantiti dalla corazza, dall’elmo e dalle armi. Una bella mattina Publio Cornelio convoca i suoi soldati e racconta loro che Nettuno, apparsogli in sogno, gli ha promesso di dargli aiuto facendo abbassare il livello dello stagno. I soldati ci credono e non ci credono. Ma quando a un certo punto vedono il loro generale buttarcisi dentro e attraversarlo di corsa, urlano al miracolo, gli si lanciano dietro e, per mostrarsi degni più del dio che di lui, conquistano di slancio l’obbiettivo.

In realtà, di miracoloso non c’era nulla. Publio Comelio aveva semplicemente appreso, parlando con i pescatori di Tarragona, il giuoco dell’alta e della bassa marea che i suoi veterani, tutti contadini, ignoravano. Ma le energie e gli entusiasmi di una truppa raddoppiano, quando è convinta di seguire un generale che ha in tasca Nettuno. Già si mormorava, di Publio Cornelio, che il suo vero padre non era stato affatto Scipione, ma un mostruoso serpente in cui si era metamorfosato Giove in persona, o meglio, lo aveva mormorato egli stesso. A quei tempi, pur di vincere, i romani erano pronti a fare una cattiva reputazione anche alle loro mamme. Comunque, stavolta il giuoco riuscì.

Quasi tutta la Spagna cadde, per quel colpo, nelle mani di Roma. Ma Asdrubale, che non aveva più nessuna ragione di restarci, riuscì a sfuggire e col suo esercito si gettò sulle orme del fratello, per raggiungerlo attraverso la Francia e le Alpi. Bene o male, riuscì anche lui a superarle. Ma un suo messaggio ad Annibale, in cui annunciava che stava arrivando e da che parte sarebbe passato, cadde in mano dei romani che così vennero a conoscere tutto il suo piano di operazioni. Due nuovi eserciti furono allestiti in fretta. L’uno, comandato da Claudio Nerone, provvide a immobilizzare in Apulia Annibale, che non si mosse perché era all’oscuro di tutto. L’altro, agli ordini di Livio Salinatore, aspettò Asdrubale nel punto più favorevole, sul Metauro presso Senigallia, e lo sterminò. Si racconta che la testa del generale, caduto sul campo, fu spiccata dal corpo, portata in Abruzzo e lanciata oltre le mura del vallo dietro il quale, con i suoi, si riparava Annibale.

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Costui aveva già perso un occhio per il tracoma. Ma quello che gli restava gli bastò per riconoscere i miseri resti del fratello che aveva amato come un figliolo.

Il cartaginese si sentiva ormai un uomo finito. Filippo di Macedonia, dopo una platonica dichiarazione di guerra, si era lasciato riconquistare dalla diplomazia di Roma e aveva fatto pace. I ribelli italiani, impauriti dall’esempio di Capua, mostravano simpatie per il Barca, ma non lo aiutavano. Delle cento navi cariche di rinforzi che Cartagine aveva mandato, ottanta erano colate a picco sulle coste della Sardegna. E gli “ozi di Capua”, che da allora in poi diventarono proverbiali, avevano afflosciato il morale e il fisico del baldanzoso esercito di Canne. «Gli dèi », aveva detto un luogotenente ad Annibale, quando costui si era rifiutato di marciare contro Roma, « non danno tutti i loro doni a un uomo solo. Tu sai procurarti le vittorie, ma non sai come usarle ». Forse c’era del vero, in questo giudizio.

Nel 204 Scipione, reduce dai trionfi spagnoli, fu messo alla testa di un nuovo e più potente esercito che, imbarcato sulla flotta, veleggiò verso le coste africane. La guerra, da offensiva, diventava difensiva per Cartagine che, impaurita, richiamò in fretta e furia il suo Annibale per difenderla. Ma quello che tornò, dopo trentasei anni di assenza, mezzo cieco e logorato dalle fatiche e dai disinganni, era, sì, ancora un gran capitano, ma non più il ventottenne demonio che aveva preso l’avvio da Cartagena. La metà delle sue truppe si rifiutò di seguirlo laggiù. Gli storici romani dicono ch’egli uccise, per disobbedienza, ventimila uomini. Con gli altri, nel 202 sbarcò, riconobbe a stento la sua città, da cui era partito novenne appena; e venne a schierarsi, con i suoi rimanenti veterani, nella pianura di Zama, una cinquantina di miglia a sud di Cartagine.

I due eserciti, come forze, press’a poco si equivalevano. E stettero a guardarsi per molti mesi, rinforzando ognuno le proprie posizioni. Poi quello romano trovò un aiuto insperato. Massinissa, re di Numidia, spodestato dal rivale Siface, ch’era amico e protetto dei cartaginesi, venne con la sua cavalleria ad allinearsi accanto a Scipione.

E proprio nella cavalleria Annibale riponeva, come sempre, le sue speranze. Forse fu per questo che, prima dello scontro, egli volle tentare la carta di un

amichevole accomodamento. Chiese un colloquio con l’avversario, che glielo concesse. I due grandi generali finalmente s’incontravano a tu per tu. La conversazione fu breve e, a quanto pare, estremamente cortese. I due interlocutori constatarono l’impossibilità di un accordo, ma, dal seguito degli avvenimenti, si direbbe che abbiano provato l’uno per l’altro una viva simpatia (quanto alla stima, non poteva mancare). Si lasciarono senza rancore, e subito dopo scesero in combattimento.

Per la prima volta nella sua vita, Annibale, invece d’imporre, dovette subire l’iniziativa dell’avversario che, per batterlo, usò la stessa tattica a tenaglia. Il quarantacinquenne Barca ritrovò, nel disastro, l’energia dei suoi vent’anni. Assali Scipione in duello individuale, e lo feri. Attaccò Massinissa. Formò e riformò cinque, sei, dieci volte le sue falangi sconvolte, per trascinarle al contrattacco. Ma non ci fu nulla da fare. Ven-timila dei suoi uomini giacevano sul terreno. E a lui non rimase che salire su un cavallo e galoppare verso Cartagine. Vi giunse coperto di sangue, riunì il Senato, annunziò che aveva perso non una battaglia, ma la guerra, e consigliò di mandare un’ambasceria per chiedere pace. Così fu fatto.

Scipione si mostrò generoso. Volle la consegna di tutta la flotta cartaginese, meno dieci trireme, la rinunzia a ogni conquista in Europa, il riconoscimento di Massinissa in una Numidia indipendente, e un’indennità di diecimila talenti. Ma lasciò a Cartagine i suoi possedimenti tunisini e algerini, pur vietandole di aggiungervene altri e rinunziò alla consegna di Annibale, che il popolo di Roma avrebbe voluto veder aggiogato dietro il carro dei vincitore il giorno del trionfo.

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A tanta cavalleria da parte dell’ex nemico, non ne corrispose punta, per Annibale, da parte dei compatrioti. Il trattato di pace non era ancora ratificato, che alcuni cartaginesi già informavano segretamente Roma che Annibale pensava alla rivincita e si era dato anima e corpo ad organizzarla. In realtà egli cercava soltanto di rimettere ordine nella sua patria e, alla testa del partito popolare, tentava di distruggere i privilegi della corrotta oligarchia senatoriale e mercantile, ch’era la vera responsabile della disfatta.

Scipione usò tutta la sua influenza per dissuadere i compatrioti dal chiedere la testa del suo grande nemico. Ma invano. Per sfuggire all’arresto e alla consegna, Annibale fuggì di notte a cavallo, galoppò per oltre duecento chilometri fino a Tapso, e di lì s’imbarcò per Antiochia. Il re Antioco esitava in quel momento fra la pace e la guerra con Roma. Annibale gli consigliò la guerra e diventò uno dei suoi esperti militari. Ma, nonostante la sua perizia, Antioco fu disfatto a Magnesia, e i romani, fra le altre condizioni, imposero la consegna del Barca. Questi tornò a fuggire: prima a Creta, poi in Bitinia. I romani non gli diedero tregua e alla fine circondarono il suo nascondiglio. Il vecchio generale preferì la morte alla cattura. Livio racconta che, portando alla bocca il veleno, disse ironicamente: «Ridiamo la tranquillità ai romani, visto che non hanno la pazienza di aspettare la fine di un vecchio come me ». Aveva sessantasette anni. Pochi mesi dopo, il suo vincitore e ammiratore Cornelio lo seguì nella tomba.

Fu questa seconda guerra punica a decidere per secoli e secoli le sorti del Mediterraneo e dell’Europa occidentale, perché la terza non ne fu che un poscritto del tutto superfluo. Essa diede a Roma la Spagna, il Nord Africa, il dominio sul mare e la ricchezza.

Ma da questi guadagni prese anche l’avvio una trasformazione della vita romana che non doveva rivelarsi benefica per le sorti dell’Urbe. In tutto erano rimasti sul campo trecentomila uomini, che costituivano il fior fiore dell’agricoltura e dell’esercito. Quattrocento città erano andate distrutte. La metà delle fattorie saccheggiate, specie nell’Italia del Sud, che appunto da allora non si è mai più completamente ripresa.

I romani di duecent’anni prima avrebbero posto riparo in pochi decenni a questi malanni. Ma i successori non erano più della loro tempra. Quello che li tentava ora non era più il lavoro in campagna, ma il commercio internazionale. La ricchezza, invece di faticarla con pazienza e tenacia, con una vita frugale e sparagnina, era più comodo andarsela a cercare bell’e fatta in Spagna, per esempio, dove bastava grattare la terra per trovare il ferro e l’oro. Le spogliazioni dei popoli vinti avevano riempito le casse del Tesoro. I tributi che pagavano gli stati soggetti, a suon di miliardi, anno per anno, praticamente facevano di ogni romano un rentier e lo svogliavano dal lavoro.

Questo boom economico, come lo avrebbero chiamato gli americani, sconvolse la società, rendendo inadeguata l’impalcatura su cui si era retta sino ad allora. Si cominciò a formare una nuova borghesia di trafficanti e di appaltatori. I costumi si addolcirono e ammollirono. Sorse quella che oggi si chiamerebbe una social life con salotti intellettuali e progressisti. La fede negli dèi s’indebolì come quella nella democrazia, che nei momenti di pericolo aveva dovuto, per salvare la patria, ricorrere ai dittatori e ai “pieni poteri”.

La crisi non precipitò subito. Ma è in questi anni, seguiti alla catastrofe di Cartagine, che se ne creano le premesse.

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CAPITOLO SEDICESIMO

“GRAECIA CAPTA ... “ UNO dei primi carichi di bottino che, quando si decise a muoverle guerra, Roma

rìportò dalla Grecia, fu un gruppo di circa mille intellettuali, che si erano distinti nella resistenza all’Urbe. Fra essi c’era un certo Polibio, che aveva la passione della storia e insegnò ai romani come la si scrive. “Con quali sistemi polititici”, egli si chiese arrivando, “questa città è riuscita in meno di cinquantatre anni a soggiogare il mondo: impresa che sinora non era mai riuscita a nessuno?”

In realtà Roma aveva impiegato molto più di cinquantatre anni. Ma per il greco Polibio, il “mondo” era soltanto la Grecia, la cui conquista effettivamente non aveva richiesto più di mezzo secolo. Senonché non erano affatto state le diavolerie politiche del Senato e dei generali romani a rendere così facile questo successo, ma il fatto che la Grecia, prima di essere conquistata, aveva già distrutto se stessa. La sua disintegrazione era avvenuta dal di dentro. Roma si limitò a raccoglierne i frutti.

I primi rapporti che l’Urbe aveva avuto con la Grecia risalivano infatti al tempo di Pirro, che prese l’iniziativa di annodarli, sbarcando in Italia nel 281 con i suoi soldati e i suoi elefanti per difendere Taranto e le altre città greche della penisola dall’aggressione romana. Ma in quel momento la Grecia, come nazione, aveva già cessato di esistere; o meglio, aveva abbandonato ogni speranza di diventarlo. Le varie città di cui era composta passavano il tempo a combattersi tra loro, e non ce n’era più una che fosse capace di tenere unite le altre nella difesa dei comuni interessi.

L’ultimo tentativo di creare una nazione greca era venuto dal di fuori, cioè dalla Macedonia, una terra che i greci di Atene, di Corinto, di Tebe eccetera, consideravano barbara e forestiera. In realtà, di greco essa aveva poco. Le impervie catene di monti che la chiudevano a sud avevano sbarrato il passo alla cultura e ai costumi, cioè alla civiltà delle metropoli della costa, che del resto era una civiltà troppo cittadina e mercantile per potersi acclimatare in quella severa e rozza contrada di chiuse valli, di sparse greggi, di villaggi arcaici e solitari. In compenso, la popolazione sì era serbata sana, rude e forte. Essa non sapeva di grammatica e filosofia, credeva ai suoi dèi e obbediva ai suoi padroni.

Costoro formavano un’aristocrazia di grossi proprietari fondiari, la cui sola occupazione era l’amministrazione delle terre e i cui soli svaghi erano i tornei e la caccia. A Pella, la capitale, ci andavano di rado e malvolentieri: non solo perché il viaggio era faticoso, ma anche perché in quel borgo campestre e senz’attrazioni c’era il re, dal quale volevano restare il più possibile indipendenti. Soltanto Filippo e suo figlio Alessandro riuscirono a disarmare le loro diffidenze e a unirli in una grande avventura di conquista. Ognuno di essi portò nell’esercito comune il proprio contingente di forze, delle quali fu il generale; e tutti insieme, sotto il comando unico prima del babbo e poi del figliolo, occuparono la Grecia, vi misero ordine, e cercarono di coordinarne le forze con quelle macedoni per la conquista del mondo.

Fu soltanto una meravigliosa avventura, che non sopravvisse ai suoi due protagonisti. Quando nel 323, a soli trentatré anni, Alessandro morì in Babilonia, dopo aver condotto il suo esercito di vittoria in vittoria fino in Egitto e in India attraverso Asia Minore, Mesopotamia e Persia, il suo effimero impero cadde in pezzi. Ai suoi generali che, riuniti intorno al capezzale, gli chiedevano chi designasse come erede, rispose: «Il più for-te», ma si dimenticò di precisare chi fosse costui, o forse non lo sapeva. Per cui essi si divisero l’eredità in cinque parti: Antipatro ebbe la Macedonia e la Grecia, Lisimaco la

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Tracia, Antigono l’Asia Minore, Seleuco Babilonia e Tolomeo l’Egitto. E subito, naturalmente, presero a farsi guerra tra loro.

Lasciamo questi “diadochi” come vennero chiamati i cinque successori, alle loro dispute, che poi tornarono tutte a definitivo vantaggio di Roma. E limitiamoci a quelle che subito scoppiarono nell’interno del reame di Antipatro, che doveva tenere unite la Macedonia e la Grecia. Se questa unione si fosse fatta, Roma avrebbe trovato da rodere un osso molto più duro. Ma i greci non la volevano e fecero di tutto per sabotarla. Quando Alessandro morì, racconta Plutarco, il popolo ateniese, che non ne aveva ricevuto che benefici, si compose in cortei per le strade cantando inni di vittoria “come se fossero stati loro ad abbattere il tiranno”. Demostene, ch’era stato il campione della “resistenza” una resistenza soltanto di parole, ebbe il suo momento di gloria e incitò i concittadini a organizzare un esercito per resistere ad Antipatro. L’esercito fu organizzato e naturalmente sconfitto dal nuovo re macedone. Il quale, ignorante com’era, non aveva le debolezze di Alessandro per la civilissima Atene, e la trattò com’era abituato a trattare i suoi soldati quando questi disobbedivano.

Quando anche Antipatro morì lasciando il trono a suo figlio Cassandro, Atene si ribellò di nuovo. E di nuovo fu sconfitta e castigata. Per decenni si andò avanti a furia di rivolte e di repressioni. Poi Demetrio Poliorcete (che vuol dire “conquistatore di città”) figlio di Antigono, venne dall’Asia Minore a scacciare i macedoni dalla Grecia. Ad Atene lo accolsero come un trionfatore e gli arredarono un appartamento nel Partenone, ch’egli riempì di prostitute e di efèbì. Poi si stancò di quegli ozi, si proclamò re di Macedonia, e come tale abolì l’indipendenza ateniese ch’egli stesso aveva restaurato, riconsegnando la città a una guarnigione macedone.

Da questo regime di anarchia che durò un secolo e che fu complicato da una terrificante invasione di galli, la Grecia emerse politicamente finita. Sul solco della sua flotta mercantile e sulle spade di Filippo, di Alessandro e dei loro diadochi, la sua civiltà era penetrata dovunque, dall’Epiro, all’Asia Minore, alla Palestina, all’Egitto, alla Persia, e fino all’India; e dovunque le classi dirigenti e intellettuali erano greche o grecizzanti. La sua filosofia, la sua scultura, la sua letteratura, la sua scienza, trapiantate in quei paesi di conquista, vi creavano una nuova cultura. Ma politicamente la Grecia era morta, e tale doveva restare per duemila anni.

Quando Roma, liberatasi di Cartagine, volse verso di essa lo sguardo, non vide che una Via Lattea di staterelli in perpetua baruffa gli uni con gli altri. Polibio non aveva nessuna ragione di meravigliarsi ch’essa impiegasse così poco a conquistarli. In realtà poteva impiegare molto meno.

Tutto cominciò per colpa di Filippo V, re di Macedonia. Questo stato, dissanguato da Alessandro, non era più quello di una volta. Ma era ancora il più solido della Grecia, le cui città erano divise in quel momento in due Leghe, quella Achea e quella Etolia, che facevano pace tra loro solo per unirsi contro di lui.

Nel 216 Filippo, sentendo che Annibale aveva schiacciato i romani a Canne, firmò un patto di alleanza con lui, e chiese ai greci di aiutarlo a distruggere Roma, che poteva diventare pericolosa per tutti. Una conferenza fu indetta a Naupacto, dove il delegato degli etoli, Agelao, parlando a nome di tutti i presenti, incitò Filippo a mettersi alla testa di tutti i greci in quella crociata. Senonché subito dopo, ad Atene e nelle altre città, cominciò a circolare la voce che Annibale avrebbe dato al macedone mano libera su di esse in cambio dell’aiuto ricevuto da lui. Di colpo rinacquero le diffidenze momentaneamente sopite, e la Lega Etolia mandò messi a Roma per chiedere aiuto contro Filippo. Il quale, per far fronte alla Grecia, dovette rinunziare all’Italia e stipulare anche lui un patto con Roma, mettendo così fine, prima ancora di averla cominciata, a quella prima guerra macedone.

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Dopo Zama, furono Pergamo, l’Egitto e Rodi a chiedere aiuti all’Urbe contro Filippo che li molestava. L’Urbe, che aveva la memoria lunga e ricordava il tentativo del re macedone al tempo di Canne, mandò un esercito agli ordini di Tito Quinto Flaminino, che a Cinocefale, nel 197, lo schiacciò. La via della Grecia era ora aperta.

Ma Flaminino era uno strano tipo. Di famiglia patrizia, aveva studiato a Taranto, vi aveva imparato il greco, ed era un innamorato della civiltà ellenica. Per di più, nutriva idee “progressiste”. Egli non uccise Filippo, anzi lo rimise sul trono nonostante le proteste dei suoi alleati greci, i quali pretendevano di essere stati loro a vincere a Cinocefale, come certi francesi oggi pretendono di essere stati loro a sconfiggere la Germania. Poi, in occasione dei grandi Giuochi Istmici, che riunivano a Corinto i delegati di tutta la Grecia, proclamò che tutti i suoi popoli e città erano liberi, non più soggetti né a guarnigioni né a tributi, e potevano governarsi con le proprie leggi. Gli ascoltatori, che si aspettavano la sostituzione del giogo romano a quello macedone, rimasero sbalorditi. E Plutarco racconta che poi scoppiarono in tale urlo di entusiasmo che un branco di corvi che incrociavano sulle loro teste piombarono giù, morti. Se anche tutte le altre sue storie Plutarco ce le ha raccontate Con lo stesso scrupolo di verità, c’è da stare allegri.

Gli scettici di Atene e delle altre città non ebbero il tempo di mettere in dubbio le oneste intenzioni di Flaminino, poiché costui le attuò subito ritirando il suo esercito dalla Grecia. Ma dopo averlo salutato come “salvatore e liberatore” trovarono da ridire sul fatto ch’egli si fosse portato dietro un cospicuo bottino di guerra sotto forma di opere d’arte e che avesse emancipato alcune città dalla Lega Etolia, dove stavano di malavoglia. E chiamarono Antioco, l’ultimo erede di Seleuco, re di Babilonia, a riliberarli. A riliberarli da cosa, non si sa, visto che Flaminino li aveva lasciati liberissimi.

Pergamo e Lampsaco che, essendo più vicine ad Antioco, lo conoscevano meglio, e quindi sapevano cosa aspettarsi da lui, chiesero aiuto a Roma. E il Senato, che non aveva mai creduto all’esperimento liberale e progressista di Flaminino, mandò un altro esercito agli ordini dell’eroe di Zama. Con pochi uomini, questi attaccò Antioco, a Magnesia, lo sbaragliò, nonostante i saggi consigli strategici che gli aveva dato Annibale, suo ospite, e assicurò a Roma quasi tutta la costa mediterranea dell’Asia Minore. Poi. si volse a nord, batté i galli che ancora bivaccavano in quei paraggi, e rientrò in Italia senza toccare le città greche.

Per alcuni anni Roma insisté nei loro riguardi in questa politica di tolleranza e di rispetto, molto simile a quella che gli Stati Uniti hanno praticato in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Interveniva nelle loro faccende interne solo se sollecitata, e cercava di puntellarvi l’ordine costituito. Per questo raccoglieva le antipatie di tutti gli scontenti, i quali l’accusavano di reazionarismo.

Di questo stato d’animo delle “masse”, credette di poter approfittare Perseo di Macedonia che, succeduto a Filippo nel 179, le chiamò a raccolta per una guerra santa contro l’Urbe. Egli aveva sposato la figlia dell’erede di Antioco, Seleuco, che gli si alleò, e si trascinò dietro anche l’Illiria e l’Epiro. Questi ultimi stati furono i soli a dargli praticamente man forte, quando un terzo esercito romano, guidato da Emilio Paolo figlio del console caduto a Canne, sopraggiunse e sbaragliò a Pidna, nel 168, Perseo, che fu tra-dotto in Catene a Roma per adornare il carro del vincitore.

Fra le altre cose, cadde nelle mani di Emilio anche l’archivio segreto del vinto. E vi si trovarono i documenti relativi alla congiura con la prova delle varie responsabilità. Per castigo, settanta città macedoni furono rase al suolo, l’Epiro e l’Illiria devastati; Rodi, che aveva cospirato senza prender parte attiva alla guerra, venne privata dei suoi possedimenti in Asia Minore; e mille simpatizzanti greci di Perseo, fra cui Polibio, condotti come ostaggi a Roma.

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Era già il segno che il Senato, abbandonate le illusioni di Flaminino e degli altri filelleni dell’Urbe, fra cui gli stessi Scipioni, aveva vinto il complesso d’inferiorità verso la Grecia e stava tornando ai suoi tradizionali sistemi di trattamento del vinto. Ma nemmeno stavolta i turbolenti greci vollero capire. Di lì a qualche anno nelle varie città vennero al potere nuove classi proletarie, che facevano tutt’uno del socialismo e del nazionalismo. La Lega Achea fu ricostituita e, quando seppe che Roma era impegnata nella terza guerra contro Cartagine, chiamò tutta la Grecia alla liberazione.

Ma ora Roma poteva tranquillamente combattere una guerra su due fronti. Mentre Scipione Emiliano s’imbarcava per l’Africa, il console Mummio calò su Corinto, ch’era una delle città più riottose. L’assediò, la conquistò, ne uccise tutti gli uomini, ne ridusse schiave le donne e, imbarcato tutto ciò che v’era di trasportabile a Roma, la diede alle fiamme. Grecia e Macedonia furono unite in una sola “provincia” sotto un governatore romano, ad eccezione di Atene e Sparta, cui si riconobbe una certa autonomia.

La Grecia aveva finalmente trovato la sua pace: la pace del cimitero. La terza e ultima guerra punica fu voluta da Catone il Censore e provocata da

Massinissa, ch’eran destinati a non vederne la fine. Massinissa fu uno dei più strani personaggi dell’antichità. Visse fino a

novant’anni, ebbe l’ultimo figlio a ottantasei, e a ottantotto galoppava ancora alla, testa delle sue truppe. Dopo Zama, aveva riavuto il trono di Numidia e, siccome Cartagine si era impegnata con Roma a non più fare guerre, non si stancava di tormentarla con incursioni e ruberie. Cartagine protestava, e Roma la zittiva. Ma, quando ebbe pagato l’ultima delle cinquanta indennità che doveva annualmente all’Urbe per il risarcimento, si ribellò a queste prepotenze e attaccò Massinissa.

A Roma in quel momento aveva il sopravvento il partito di Catone, che terminava sempre i suoi discorsi, su qualunque argomento li tenesse, col solito ritornello: «Quanto al resto, penso che Cartagine debba essere distrutta ». Nell’incidente il Senato, aiutato da lui, vide l’occasione buona, e non solo intimò ai cartaginesi di non prendere iniziative, ma esigette trecento bambini di famiglia nobile per tenerli come ostaggi. I bambini furono consegnati fra i lamenti delle mamme, alcune delle quali si buttarono a nuoto dietro le navi che li portavano via, e morirono. Subito dopo, visto che la provocazione non era bastata, i romani chiesero la consegna di tutte le armi, di tutta la flotta e di gran parte del grano. Quando anche queste richieste furono accolte, il Senato esigette che tutta la popolazione si ritirasse a dieci miglia dalla città, che doveva essere rasa al suolo. Gli ambasciatori cartaginesi obbiettarono invano che la storia non aveva mai visto una simile atrocità, si gettarono in terra strappandosi i capelli, offrirono in cambio la propria vita.

Nulla da fare. Roma voleva la guerra, e guerra doveva essere ad ogni costo. Quando lo seppero a Cartagine, la folla inferocita linciò i dirigenti che avevano

consegnato i bambini, gli ambasciatori, i ministri e tutti gl’italiani che si trovò sottomano. Poi, pazzi di rabbia e di odio, chiamarono alle armi tutti, compresi gli schiavi, trasformarono ogni casa in un fortilizio, e in due mesi di febbrile lavoro approntarono ottomila scudi, diciottomila spade, trentamila lance e centoventi navi.

L’assedio, per terra e per mare, durò tre anni. Scipione Emiliano, il figlio adottivo del figlio del vincitore di Zama, si guadagnò una dubbia gloria, espugnando alla fine la città, dove per sei giorni ancora, strada per strada, casa per casa, si seguitò a combattere. Insidiato dai franchi tiratori che combattevano da tetti e finestre, Scipione distrusse tutti gli edifici.

Quelli che alla fine si arresero, furono solo cinquantacinquemila, dei cinquecentomila abitanti di Cartagine. Tutti gli altri erano morti. Il loro generale, che tanto

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per cambiare si chiamava Asdrubale, implorò per sé la misericordia di Scipione, che gliela concesse. Sua moglie, per la vergogna, si precipitò coi figli tra le fiamme di un incendio.

Scipione chiese al Senato il permesso di desistere da quel macello. Gli fu risposto che non soltanto Cartagine, ma tutte le sue dipendenze dovevano essere distrutte. La città continuò a bruciare per diciassette giorni. I pochi sopravvissuti furono venduti come schiavi. E il suo territorio fu d’allora in poi una “provincia” designata col nome generico di Africa.

Non ci fu trattato di pace perché non si sarebbe saputo con chi stipularlo. Gli ambasciatori cartaginesi avevano avuto ragione: mai si era vista nella storia una simile atrocità.

Per loro fortuna, Catone e Massinissa non ebbero il tempo di nutrire rimorsi. Erano già sottoterra.

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Finito di stampare nel dicembre 2001 presso «Grafica Veneta S.r1» Via Padova, 2 - Trebaseleghe (PD) Printed in Italy

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© 1959 Rizzoli Editore, Milano © 1994 RCS Libri S.p.A., Milano sulla collana storia d’italia © 2001 RCS Collezionabili S.p.A., Milano sulla presente edizione

storia d’italia Pubblicazione periodica settimanale Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 197 del 9.4.1994 Direttore responsabile: Gianni Vallardi Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 00262 vol. III Foglio 489 del 20.9.1892

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SOMMARIO

Cronologia

Capitolo primo Catone

Capitolo secondo "... ferum victorem cepit"

Capitolo terzo I Gracchi

Capitolo quarto Mario

Capitolo quinto Silla

Capitolo sesto Una cena a Roma

Capitolo settimo Cicerone

Capitolo ottavo Cesare

Capitolo nono La conquista della Gallia

Capitolo decimo Il Rubicone

Capitolo undicesimo Gl’Idi di marzo

Capitolo dodicesimo Antonio e Cleopatra

Capitolo tredicesimo Augusto

Capitolo quattordicesimo Orazio e Livio

Capitolo quindicesimo Tiberio e Caligola

Capitolo sedicesimo Claudioe Seneca

Capitolo diciassettesimo Nerone

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EVENTI POLITICI E MILITARI

133 a.C. Cade la città spagnola di Numanzia. Attalo III, re di Pergamo, lascia morendo il suo regno a Roma. Viene repressa in Sicilia una rivolta di schiavi comandati da Euno siriaco; ventimila schiavi vengono crocifissi. Tiberio Gracco propone la riforma agraria, ma viene ucciso.

123 II fratello di Tiberio, Caio Gracco, ripropone la riforma agraria. Massacro di Caio e dei suoi (121).

111-105 Guerra giugurtina. La Numidia diventa provincia romana.

102 Calano verso l'Italia i teutoni che vengono disfatti da C. Mario (158-86) alle Aquae Sextiae (Aix en Provence).

101 Calano in Italia i cimbri, disfatti anch'essi da Mario nella battaglia dei campi Raudii (Vercelli).

91 II tribuno Livio Druso propone una nuova legge agraria e la concessione della cittadinanza agli italici. Viene assassinato.

91-89 Guerra sociale (contro i socii alleati).

88-84 Prima guerra mitridatica. Ha inizio col massacro di ottantamila romani in un sol giorno dell'88, in Asia Minore.

88 Comincia la guerra civile tra Mario e Lucio Cornelio Silla (138-78).

86 Muore C. Mario.

85 Silla batte Mitridate.

83-81 Seconda guerra mitridatica vinta da Licinio Murena.

82 Silla batte i partigiani di Mario e si fa nominare dittatore a vita. Stragi di Silla e sua riforma aristocratica.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

144 a.C. Il pretore Marcio Re convoglia in Roma, con un acquedotto di 92 chilometri, l'acqua dell'alta valle dell'Amene (acquedotto deLL'aqua Marcia).

121 Caio Gracco pronuncia una celebre orazione (restano frammenti dei suoi discorsi in Cicerone, Plutarco e Aulo Gellio).

117 Cassio Longino fa pavimentare l'antica via Cassia, da Roma a Bolsena, Sutri, Chiusi, Arezzo.

104 Riforma militare di Caio Mario.

100 Risale a questi anni il tempio della Fortuna virile, tra i meglio conservati accanto a quello di Vesta di età augustea. Si cominciano ad usare nelle costruzioni marmi d'Italia e di Grecia. 89 È promulgata la lex Plautia Papiria, che concede la cittadinanza agli italici.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

79 Silla lascia il potere. Muore l'anno successivo.

74-63 Terza guerra mitridatica iniziata da Licinio Lucullo e terminata vittoriosamente da Pompeo Magno (106-48).

72 Termina in Spagna una lunga guerra per soffocare la ribellione del mariano Sertorio.

71. Termina con un massacro la guerra iniziata per la ribellione degli schiavi guidati da Spartaco.

67 Pompeo libera il Mediterraneo dai pirati.

64 II Ponto, la Siria e la Cilicia diventano province romane.

63-62 Congiura di Catilina sventata da Marco Tullio Cicerone (106-43).

60 Primo triumvirato di Pompeo, Crasso e Caio Giulio Cesare (100-44).

59 Giulio Cesare console.

58-51 Campagna di Cesare in Gallia: 58, batte gli elvezi e i germani di Ariovisto; 57, sottomette i belgi; 56, sottomette gli aquitati; 55, primo passaggio del Reno e guerra contro i germani; primo sbarco in Britannia; 54, secondo sbarco in Britannia; repressione di una rivolta di belgi; 53, secondo passaggio del Reno; 52, rivolta generale della Gallia al comando di Vercingetorige. La rivolta è domata con l'assedio di Alesia e la resa di Vercingetorige; 51, la Gallia è definitivamente romana.

53 Crasso viene ucciso dai parti.

49-45 Guerra civile tra Cesare e Pompeo: 49, Pompeo è battuto a Farsàlo e ucciso in Egitto. 48-47, guerra alessandrina. Cleopatra (69-30). 47, vittoria su Farnace (veni,vidi, vici); 46, battaglia di Tapso e suicidio di Catone Uticense; 45, battaglia di Munda contro gli ultimi pompeiani. Cesare è nominato dittatore a vita.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

59 Cesare console fa approvare le leggi agrarie. Trionfa in questi anni l’atel-lana, la commedia della maschere {Pappus, Maccus, Buccus, Dossenus).

45-44 Cesare fa costruire il Forum Julii, la basilica Julia, il tempio di Venere genitrice; riforma il calendario introducendo l'anno bisestile; riordina i municipi italici (lex Julia municipalis); bonifica le paludi Pontine.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

44 II 15 marzo. Cesare è ucciso dai congiurati guidati da Bruto e Cassio. Lascia erede il pronipote Ottaviano. Rivolta popolare contro i congiurati che fuggono da Roma. La situazione è nelle mani del legato di Cesare, Marco Antonio (83-30). 44-43 Guerra di Modena tra Marco Antonio e i cesariani da una parte e Decimo Bruto e Ottaviano dall'altra. Nel 43 cadono in battaglia i due consoli di quell'anno, Pansa e Irzio.

43 Antonio, Ottaviano e Lepido formano il secondo triumvirato; la prima vittima è Ci-cerone.

42 Battaglia di Filippi tra Antonio e Ottaviano e Bruto e Cassio, che, sconfitti, si uccidono.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

Attività letteraria dell'età di Cesare

Cesare scrive l’Anticatone, la Analogia, Il viaggio (opere perdute) e pubblica i commen-tarii de bello Gallico in sette libri e de bello civile in tre libri; gli si attribuisce anche il bellum Alexandrinum sugli avvenimenti del 47 in Egitto. Opera il mimografo Publilio Siro, di cui avanzano circa 700 versi. Marco Terenzio Varrone (116-27), poligrafo, pubblica circa 600 libri di varia erudizione, in gran parte perduti. Marco Tullio Cicerone (106-43), di Arpino, pronuncia le orazioni (dalla prima pro Quintio, alle Catilinarie, le Verrine, la pro Milone, le 14 Filippiche contro Marco An-tonio); pubblica trattati politici (de republica, de legibus, ecc.), trattati di retorica, come il de oratore, di filosofia e di morale, come il de finibus bonorum et malorum, le Tuscu-lanae disputationes, il de officiis; lascia un Epistolario di oltre mille lettere, fondamen-tale per la conoscenza minuziosa degli avvenimenti di questi anni. C. Sallustio Crispo (86-35) scrive la Congiura di Catilina e la Guerra giugurtina,modelli di saggistica storica. Cornelio Nepote (100-27) scrive una Storia universale andata perduta e le celebri Biogra-fie di uomini illustri. Operano in Roma i neoteroi (poeti nuovi) : Licinio Calvo, Elvio Cinna, Furio Bibaculo, Levio, Varrone Atacino, e il maggiore di essi e il solo di cui avanzi l'opera, C. Valerio Ca-tullo veronese (87-54 ca.) celeberrimo cantore di Lesbia. Tito Lucrezio Caro (98-55 ca., forse campano) scrive il poema filosofico La natura, pubblicato postumo da Cicerone. Vitruvio Pollione, architetto, scrive i dieci libri de architectura. Opera Dionigi di Alicarnasso retore e storico greco, autore delle Antichità romane, di cui restano dieci libri fondamentali per la conoscenza dei primi secoli di Roma.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

40 Marco Antonio e Ottaviano si dividono l'impero: il primo si stabilisce in Oriente, ad Alessandria; il secondo a Roma.

31 Battaglia di Azio; sconfitta di Marco Antonio e dei suoi. Suicidio di Antonio e di Cleopatra (30). L'Egitto è incamerato nell'impero.

27 II senato conferisce a Ottaviano il titolo di Augusto.

12 Augusto è dichiarato padre della patria.

12-9 Guerra di Druso, figliastro di Augusto, in Germania. L'esercito romano giunge al-l'Elba. Negli stessi anni Tiberio, l'altro figliastro di Augusto, sottomette la Pannonia

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

Opera Diodoro Siculo, storico greco di origine siciliana; rimangono una quindicina di libri della sua Biblioteca storica, racconto della storia di Roma dalle origini a Cesare.

46 Vengono costruiti il ponte Cestio e il ponte Fabricio tra la sponda del Tevere e l'isola Tiberina.

40 Intorno a questi anni, viene costruito per Cecilia Metella, nuora di Cecilio Crasso, il famoso Mausoleo sulla via Appia.

30 ca. Viene costruito il Foro di Augusto a commemorazione della vittoria di Filippi.

27 Marco Agrippa, genero di Augusto, fa costruire il Pantheon.

19 Agrippa fa costruire l'acquedotto dell'Acqua Vergine (una fanciulla ne avrebbe indicata la sorgente ai soldati assetati); era lungo una ventina di chilometri e terminava dove oggi sorge la settecentesca fontana di Trevi.

18 Augusto emana leggi per il riordinamento dei costumi (lex de maritandis ordinibus).

17 Augusto ordina la celebrazione dei ludi saeculares. Orazio scrive per l'occasione il carmen saeculare.

13 Cornelio Balbo erige il teatro di Balbo (tra le arcate si annidavano nel Medioevo piccole botteghe, da cui il nome odierno della strada: via Botteghe Oscure.

12 ca. Il tribuno della plebe Caio Cestio Epulone erige per sé una tomba tra le meglio conservate: la piramide di Caio Cestio a porta San Paolo.

11 Augusto termina il teatro Marcello, dedicato al nipote morto non ancora ventenne. Conteneva 10.000 spettatori.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

4-6 d.C. Nuova spedizione di Tiberio in Germania. 9 II germano Arminio distrugge tre legioni romane guidate da Varo nella Selva di Teutoburgo.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

9 Viene eretta l'Ara pacis Augustae, nel Campo Marzio, coi primi esempi di sculture in rilievo di soggetto storico. In questi anni cominciano a essere coniate monete d'oro. Si diffonde, per le costruzioni, l'uso di mattoni cotti. Risale a questi anni il cosiddetto tempio di Vesta. Augusto fa costruire il proprio mausoleo. Vi furono sepolti Augusto, sua sorella Ottavia, sua moglie Livia, Agrippa, Druso, Germanico, Tiberio, Agrippina, Claudio, Britannico e Nerva. Sorgono ad Arles il grandioso anfiteatro e il teatro romano. Vengono costruiti l'anfiteatro e l'acquedotto di Nimes, col celebre ponte sul fiume Gard; in Italia si costruisce l'arena di Verona, quella di Pola, ecc.

Attività letteraria dell'età di Augusto Sono celebri i circoli letterari di Messalla Corvino e specialmente quello di Mecenate, amico di Augusto. Cornelio Gallo inaugura l'elegia romana. La sua opera è andata perduta. Aulo Properzio (50-15 ca.), umbro, scrive i quattro libri, rimasti, delle sue elegie per Cinzia. Albio Tibullo (60-19 ca.) ci lascia tre libri di elegie (corpus Tibullianum) per Delia e Nemesi. Q. Orazio Flacco (65-8), di Venosa, scrive i due libri delle Satire, gli Epòdi, i quattro libri delle Odi e le Epistole, monumenti della lirica latina. P. Virgilio Marone (70-19), di Andes, Mantova, il più grande poeta di Roma e tra i maggiori dell'antichità, scrive le Bucoliche, iquattro libri delle Georg-che, i dodici libri dell'Eneide. P. Ovidio Nasone (43 a.C.-17 d.C.), di Sulmona, scrive i tre libri degli Amori (per Corinna), l'Arte amatoria, le Eroidi, le Metamorfosi (quindici libri, tra i più letti e imitati di tutti i tempi), i Fasti e, durante l'esilio sul mar Nero, le Tristezze e le Epistole dal Ponto, nonché numerose altre opere minori.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

14 II 19 agosto muore Augusto a Noia.

14-37 Principato di Tiberio: 31, caduta di Seiano.

37-41 Principato di Caligola. Termina con l'uccisione dell'imperatore per mano di Cas-sio Cherea.

41-54 Principato di Claudio: 43, conquista della Britannia meridionale.

54-68 Principato di Nerone:

64, incendio di Roma. Massacro dei cristiani; 65, congiura dei Pisoni; tra le vittime illustri il filosofo Anneo Seneca, il poeta Lucano, lo scrittore Petronio; 68, col suicidio di Nerone ha termine la dinastia Giulio-Claudia.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.), di Padova, scrive il capolavoro della storiografia romana, i 142 libri Ab Urbe condita (ne avanzano circa 35). Fedro, liberto di Augusto, scrive cinque libri di favole. Velleio Patercolo scrive un compendio di Storia romana in due libri dedicato all'imperatore Tiberio. Valerio Massimo scrive i 9 libri di Fatti e detti memorabili, dedicati a Tiberio.

35 d.C. Caligola fa costruire l'acquedotto dell'Acqua Claudia, terminato da Claudio nel 49. Era lungo 70 chilometri.

37 Caligola fa portare a Roma da Eliopoli l'obelisco monolitico che Domenico Fontana, nel 1586, sotto Sisto V, avrebbe sistemato in piazza San Pietro.

52 Claudio fa costruire l'attuale Porta Maggiore.

64 Nerone fa costruire la Domus Aurea.

Attività letteraria dell'età di Claudio e Nerone

Curzio Rufo scrive i dieci libri della Storia di Alessandro Magno. Anneo Lucano (39-65) scrive il poema epico Farsaglia in 10 libri. Petronio scrive il Satyricon, romanzo di cui restano frammenti del XV e del XVI libro. Persio di Volterra (34-62) scrive sei satire. Anneo Seneca, spagnolo (4 a.C.-65 d.C.), il maggior filosofo romano, scrive i Dialoghi, le Epistole a Lucilio, dieci tragedie.

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CAPITOLO PRIMO

CATONE

NEL 195, subito dopo la prima guerra punica, le donne di Roma

formarono un corteo, mossero verso il Foro, e chiesero al Parlamento l'abrogazione della Legge Oppia, promulgata durante il regime di austerità imposto dalla minaccia incombente di Annibale, che proibiva al bel sesso gli ornamenti d'oro, le vesti colorate e l'uso delle carrozze.

Per la prima volta nella storia di Roma le donne si facevano protagoniste di qualcosa, prendevano un'iniziativa politica, insomma affermavano i loro diritti. Non era mai accaduto, prima di allora. Per cinque secoli e mezzo, cioè dal giorno in cui era stata fondata, la storia di Roma era stata una storia di uomini, cui le donne avevano fatto, in massa e anonimamente, da coro. Le poche di cui si conosca il nome, Tarpeia, Lucrezia, Virginia, forse non sono mai esistite e non incarnano personaggi credibili, ma monumenti al Tradimento o alla Virtù. La vita pubblica romana era soltanto maschile. Le donne non contavano che in quella privata, cioè nell'ambito della casa e della famiglia, dove la loro influenza era legata esclusivamente alle loro fun-zioni di mamma, di sposa, di figlia o di sorella degli uomini.

In Senato, Marco Porcio Catone, nella sua qualità di "censore" preposto alla sorveglianza dei costumi, si oppose alla richiesta. E il suo discorso, tramandatoci da Livio, la dice lunga sulle trasformazioni avvenute in quegli ultimi anni nella vita familiare e sociale dell'Urbe:

«Se ciascuno di noi, signori, avesse mantenuto l'autorità e i diritti del marito nell'interno della propria casa, non saremmo arrivati a questo punto. Ora eccoci qui: la prepotenza femminile, dopo aver annullato la nostra libertà d'azione in famiglia, ce la sta distruggendo anche nel Foro. Ricordatevi quanto abbiamo penato a tenere in pugno le nostre donne e a frenarne la licenza, quando le leggi ci consentivano di farlo. E immaginatevi cosa succederà d'ora in poi, se queste leggi saranno revocate e le donne saranno poste, anche legalmente, su un piede di parità con noi. Voi le conoscete, le donne: fatevele vostre uguali, e immediatamente ve le ritroverete sul gobbo come padrone. Vedremo questo, alla fine: gli uomini di tutto il mondo, che in tutto il mondo governano le donne, governati dagli unici uomini che dalle donne si facciano governare: i romani».

Le dimostranti sommersero in una risata di scherno l'oratore, che del

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resto c'era abituato come tutti coloro che dicono la verità, la Legge Oppia fu revocata, e Catone inutilmente cercò di rifarsi decuplicando le tasse sugli articoli di lusso. Certe ventate, quando cominciano a soffiare, non c'è barba di censore che possa fermarle. E le suffragette, assunta l'iniziativa, non intendevano più lasciarsela strappar di mano. Piano piano esse ottennero il diritto di amministrare la propria dote, il che le rendeva economicamente indipendenti e libere, come si direbbe oggi, di "vivere la loro vita"; poi quello di divorziare dal marito e ogni tanto, se non riuscivano, di avvelenarlo. E sempre più si abbandonarono a pratiche malthusiane per evitare la "scocciatura" dei figli.

Contrariamente a quel che si crede e a come ce lo hanno dipinto, l'uomo che cercava di contrastare il passo a queste nuove mode, tutte di origine greca, non era affatto un insopportabile moralista dalla bocca acerba e dal fegato in disordine. Tutt'altro. Marco Porcio Catone era un contadino plebeo dei dintorni di Rieti, pieno di salute e di buonumore, che campò fino all'età di ottantacinque anni (un'età, per quei tempi, quasi leggendaria), e morì dopo essersi tolto tutte le soddisfazioni: compresa quella, che gli stava par-ticolarmente a cuore, di farsi molti nemici.

Fu il caso a far di lui un uomo politico di rilievo e forse il personaggio più interessante di quel periodo. Egli viveva in stoica semplicità sul suo poderetto coltivandolo con le proprie mani; quando poco discosto venne ad abitare un vecchio senatore in pensione, Valerio Flacco, ritiratosi laggiù per il disgusto che gli procurava la corruzione di Roma. Era un patrizio all'antica, cioè di quelli che avevano in orrore le raffinatezze, e prese subito in simpatia quel ragazzo dalle mani callose, dalle abitudini rozze, dai capelli rossi e dai denti radi, che leggeva i classici, ma di nascosto, perché se ne vergognava come di un vizio poco meno che turpe, e su di essi aveva imparato a scrivere e a parlare in uno stile schietto e asciutto. Diventarono amici sulla base di comuni abitudini e idee. E Valerio spinse Marco, che si chiamava Porcio perché la sua famiglia aveva sempre allevato porci, e Catone perché tutti i suoi antenati erano stati furbi, a far l'avvocato. Era il mestiere con cui si debuttava nella vita politica. E forse il senatore ve lo lanciò proprio con questo scopo, nella speranza di lasciare un erede nella polemica antimodernista, che l'età a lui non consentiva più di sostenere.

Catone si provò, e vinse, una di seguito all'altra, una dozzina di cause dinanzi al tribunale locale. Poi, con una clientela sicura, aprì uno studio, come si direbbe oggi, a Roma, si presentò alle elezioni, e battè il cosiddetto "corso degli onori" con annibalico piglio. Edile a trent'anni nel 199, pretore nel 198, tre anni dopo era console. Poi ricominciò: tribuno nel 191, censore nel 184, praticamente continuò a esercitare magistrature su magistrature fino alla più tarda vecchiaia, distinguendosi soprattutto in tempo di guerra,

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quando cambiava in militari i suoi galloni civili. L'accampamento gli si confaceva meglio del Foro, perché con più pertinenza poteva farvi appello alla disciplina, ch'egli considerava la condizione dei valori morali. Pare che fosse un generale pignolo. Ma i soldati glielo perdonavano perché marciava a piedi come loro, combatteva con tranquillo coraggio e, al momento del saccheggio, che rientrava nei diritti del vincitore, concedeva ad ognuno una libbra d'argento sul bottino, che poi consegnava interamente al Senato senza trattenerne neanche un'oncia per sé.

Era, questa, una regola che i generali romani avevano quasi sempre osservato, sino alle guerre puniche; ma che da qualche tempo costituiva un'eccezione. Il governo non guardava più tanto per il sottile la parte che il vincitore si era intascata della preda, quando questa era ricca. Quinto Minucio aveva riportato di Spagna trentacinquemila libbre d'argento e trentacinquemila denari, Manlio Vulsone dall'Asia quattromilacinquecento libbre d'oro; quattrocentomila sesterzi, qualcosa come due miliardi di lire, erano stati estorti ad Antioco e a Perseo... Sotto quella pioggia d'oro, l'onestà dei generali e dei magistrati romani, strettamente legata alla povertà, al risparmio e all'avarizia, era naturale che affogasse. E la battaglia che condusse Catone per impedirlo era destinata al fallimento. Pure, egli la combattè ugualmente.

Nel 187, quando era tribuno, egli chiese a Scipione Emiliano e a suo fratello Lucio, che tornavano vincitori dall'Asia, di rendere conto al Senato delle somme versate come indennità di guerra da Antioco. Era una domanda perfettamente legittima, ma che sorprese Roma perché revocava in dubbio la correttezza del trionfatore di Zama, che in realtà era superiore a ogni so-spetto. Non si capisce bene cosa spingesse a quel passo Catone, che non poteva certamente ignorare l'integrità dell'Africano e la sua immensa popolarità. Forse egli volle semplicemente ristabilire il principio, che stava cadendo in disuso, che i generali, quali che fossero il loro nome e i loro meriti, questi rendiconti li dovevano; oppure c'era sotto una violenta antipatia per il clan degli Scipioni, estetizzante, ellenizzante e moder-nizzante?

Forse, l'uno e l'altra. Comunque, la pretesa coalizzò, contro chi l'avanzava, quella oligarchia di dominanti famiglie che, nell'ambito dell'ari-stocrazia senatoriale, deteneva praticamente il monopolio del potere. Fino a Silla la storia romana si riassume in quella di alcune dinastie, e infatti presenta continuamente gli stessi nomi. Degli ultimi duecento consoli della Repubblica, la metà appartenne a dieci sole casate, l'altra metà a sedici. E di esse, quella degli Scipioni era forse la più insigne, da quello ch'era caduto sulla Trebbia, a questo che aveva trionfato a Zama e ch'era il padre adottivo di colui che più tardi distrusse Cartagine.

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L'Africano, per quanto ferito nell'orgoglio, si preparava a rispondere. Ma suo fratello Lucio glielo impedì. E, tratti dalla cartella i documenti che comprovavano le avvenute riscossioni e i relativi versamenti, li fece a pezzi dinanzi al Senato. Per questo gesto fu tratto dinanzi all'assemblea e condannato per frode. Ma il castigo gli fu risparmiato per il veto di un tribuno, un certo Tiberio Sempronio Gracco, di cui sentiremo presto parlare, e che era, tanto per confermare la regola della politica per dinastie, di cui sopra si parlava, parente dell'imputato, avendo sposato la figlia dell'Africano, Cornelia. L'eroe di Zama fu convocato in assemblea per essere sottoposto a giudizio. Egli interruppe il dibattimento invitando i deputati al tempio di Giove per celebrare l'anniversario della sua grande vittoria, che capitava proprio in quel giorno. I deputati lo seguirono, assistettero alle funzioni che vi si celebrarono. Ma, tornati in Parlamento, di nuovo convocarono il generale. Costui rifiutò stavolta di presentarsi e, amareggiato da quell'insistenza, si ritirò nella sua villa di Literno, dove rimase sino alla morte. I suoi persecutori lo lasciarono finalmente in pace. Ma Catone deplorò, giustamente, che per la prima volta nella storia di Roma i meriti combattentistici di un imputato facessero ostacolo alla giustizia, e in questo episodio denunziò il primo trapelare di un individualismo che presto avrebbe corrotto la società col culto dell'eroe e distrutto la democrazia. I fatti dovevano incaricarsi di dargli pienamente ragione.

Qualcuno si domanderà come, avendo contro di sé avversari possenti come le donne e la "mafia" delle famiglie aristocratiche, questo implacabile "piantagrane" sia riuscito tuttavia a restare in sella e a vincere le elezioni ogni volta che si presentava candidato a qualche magistratura. Pochi infatti lo amavano. La sua onestà in quel tempo di corruzione, il suo ascetismo in quell'epoca di mollezze, erano sentiti da tutti come un rimorso. Egli rappresentava ciò che ognuno avrebbe dovuto e forse voluto essere, ma pur-troppo non era. E per questo appunto, pur detestandolo, lo rispettavano e gli davano il voto. Per di più era un grande oratore. E la cosa era abbastanza strana, perché aveva debuttato nelle lettere pubblicando un trattato contro i retori e anticipando la famosa frase di Verlaine: Quando vedi l'oratoria, tirale il collo. Ma appunto a furia d'insegnare agli altri come "non" si doveva parlare, aveva imparato egli stesso a parlare benissimo. Il poco che ci resta dei suoi discorsi basta a farcelo riconoscere più grande di Cicerone, certamente più rotondo, togato e letterariamente perfetto di lui, ma meno diretto, efficace e sincero. Il che ci dimostra che non c'è eloquenza, come non c'è letteratura, come non c'è musica né pittura, come non c'è nulla, senza una forza morale e una schietta convinzione che le sostengano.

Catone condiva anche le sue più severe requisitorie di umorismo. E quando, per esempio, come censore, fece espellere dal senato Manilio per

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aver baciato sua moglie in pubblico, e qualcuno gli domandò se lui non lo aveva fatto mai, rispose: «Sì, ma soltanto quando tuona. Per questo il maltempo mi mette sempre di buonumore». Anche quando gl'intentavano processi, e ci si provarono, a quanto pare, quarantaquattro volte, sotto le più svariate accuse, serbava la sua allegria e rideva nella stessa misura in cui mordeva. Con quel sarcasmo sempre pronto, con quei frizzi popolareschi, con quella faccia butterata di ferite, e quei capelli rossi e quei denti divaricati, non era piacevole trovarselo di fronte in contradditorio. E nessuno sarebbe riuscito a spodestarlo, se egli stesso a un certo punto non si fosse stancato di quella inutile battaglia e spontaneamente ritirato a scrivere libri, occupazione che dentro di sé disprezzava.

Lo fece perché voleva opporre qualche testo scritto in latino a quelli che ormai tutti i letterati si erano messi a comporre in greco, la lingua che rischiava di assicurarsi il monopolio della cultura romana. Il De agricultura infatti, ch'è l'unico che ci resta di lui, è il primo libro in prosa vero e proprio che sia nato a Roma. Ed è un curioso manuale pratico in cui, assieme a idee vagamente filosofiche, si mescolano consigli sul sistema di curare i reumatismi e la diarrea. Quanto ai criteri sul modo di sfruttare le terre, eccoli qui. Il migliore, egli dice, è un profittevole allevamento di bestiame. Eppoi? Un allevamento di bestiame moderatamente profittevole. Eppoi? Un allevamento di bestiame neanche moderatamente profittevole. Eppoi? Eppoi... eppoi, l'aratura e la semina. Catone non voleva tornare neanche all'agricoltura, ma alla pastorizia.

Nessuno ebbe più vivo di lui il presentimento della decadenza di Roma, e nessuno meglio di lui diagnosticò il focolare d'infezione: la Grecia. Ne aveva studiato la lingua; e, colto e avvertito com'era sotto i suoi rozzi abiti, aveva capito che la cultura ellenica era troppo più alta e raffinata di quella romana per non corromperla. Chiamava Socrate "una zitella pettegola", e approvava i giudici che lo avevano condannato a morte come sabotatore delle leggi e del carattere di Atene. Ma lo odiava appunto in quanto lo ammirava e si rendeva conto che le sue idee avrebbero conquistato anche l'Urbe. Credimi sulla parola, scriveva al figlio, se questo popolo riesce a contaminarci con la sua cultura, siamo perduti. Intanto ha cominciato con i suoi medici che, con la scusa di curarci, son venuti qui a distruggere i "bar-bari". Ti proibisco di aver a che fare con loro. Lo preferiva morto piuttosto che guarito dalle aspirine e dalle vitamine greche.

Molto probabilmente fu questo terrore a suggerirgli l'insistenza, per cui è rimasto celebre, sul delenda Carthago. Più che a impedire una rinascita della città fenicia, egli mirava a distrarre Roma dalle tentazioni di una conquista della Grecia. Voleva che la sua patria guardasse a Occidente, non a Oriente, donde, secondo lui, non le sarebbero venuti che vizi e malanni. E

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forse rimase molto deluso dalla rapidità con cui Scipione venne a capo dell'impresa. Avrebbe preferito una guerra difensiva contro dieci Annibali a una offensiva contro l'Ellade. E quando vide i consoli Marcello, Fulvio ed Emilio Paolo tornare di laggiù con carri carichi di statue, dipinti, coppe di metallo, specchi, mobili di pregio e stoffe ricamate, e il popolo fare ressa di fronte a quelle meraviglie e discutere di moda, di stile, di cappellini, di sandali, d'argenteria e di cosmetici, dovette mettersi le mani nei capelli.

Morì nel 149, quando il Senato aveva già deciso di mandare l'ultimo Scipione ad delendam Carthaginem. Forse quel gesto gli ridiede un soffio di speranza; o per lo meno ci piace pensarlo. Avesse vissuto ancora un poco, si sarebbe accorto che la distruzione di Cartagine non era servita proprio a nulla. Anzi, una volta scomparsa quella città dalla faccia dell'Africa e del Mediterraneo, i romani non ebbero più occhi e orecchi e pensiero che per Fidia, Prassitele, Aristotele, Platone, la cucina, i belletti e le "etère" di Atene.

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CAPITOLO SECONDO

"...FERUM VICTOREM CEPIT"

ORAZIO, molto più tardi, convalidò a posteriori i timori che Catone aveva

espresso a priori, con un famoso verso: "Graecia capta ferum victorem cepit'", (la Grecia conquistata conquistò il barbaro vincitore). E per farlo, essa usò varie armi: la religione e il teatro per la plebe, la filosofia e le arti per le classi superiori, che ancora non erano colte, ma purtroppo lo diventeranno.

La religione di Roma, a Polibio, quando ve lo trassero prigioniero, parve ancora salda. Il carattere, egli scrive, per il quale a mio giudizio l'Impero romano è superiore a tutti gli altri, è la religione che vi si pratica. Ciò che in altre nazioni sarebbe considerato riprovevole superstizione, qui a Roma costituisce il cemento dello stato. Tutto ciò che ad essa attiene è rivestito di tale pompa e a tal punto condiziona la vita pubblica e privata, che niente potrà mai farle concorrenza. Credo che il governo l'abbia fatto apposta, per le masse. Non sarebbe necessario, se un popolo fosse composto esclusivamente di gente illuminata; ma per le moltitudini, che sono sempre ottuse e facili alle cieche passioni, è bene che ci sia almeno la paura a tenerle a freno.

A un uomo come lui, che arrivava fresco fresco di Grecia, dove lo scetticismo e l'incredulità non avevano più limiti, si capisce che i romani, i quali un barlume di fede lo conservavano, dovevano far l'effetto di altrettanti monaci. Ma si trattava proprio d'un barlume, anche se certe forme liturgiche (la "pompa", diceva Polibio) erano tuttora, per forza d'abitudine, rispettate. Catone, che pure tirava a salvare tutti i vecchi costumi e credenze, si domandava in un pubblico discorso come facessero gli àuguri, cono-scendo ognuno i trucchi dell'altro, a non ridersi in faccia quando s'incontravano per strada. E sulla scena Plauto poteva impunemente ridico-lizzare Giove nella parte di seduttore di Alcmena e presentare Mercurio come un pagliaccio.

Il popolo che batteva le mani a queste empie commedie era lo stesso che pochi anni prima, alla notizia del disastro di Canne, si era precipitato in piazza gridando: « Quale dio dobbiamo pregare per la salvezza di Roma?». Evidentemente, solo nei momenti di pericolo i romani si ricordavano di

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avere un dio, ma non sapevano chi fosse quello buono, fra i tanti che popolavano il loro paradiso. E curiosa fu la risposta del governo, che decise di affidare la salvezza dell'Urbe non a un dio romano, com'era sempre avvenuto sino ad allora, ma a una dea greca, Cibele, e ordinò che la sua statua fosse trasportata da Pessino, dove si trovava, in Asia Minore, a Roma. Attalo, il re di Pergamo, consentì al trasloco. E così Magna Mater, come la dea fu ribattezzata, un bel giorno giunse a Ostia, dov'era ad attenderla Scipione l'Africano alla testa di un comitato di nobili matrone. A Roma fu sparsa la voce che la nave, arenatasi alle foci del Tevere, era stata liberata e condotta lungo il fiume fin nel cuore della città dalla vestale Virginia Claudia in forza della sua castità. E tutti, ci credessero o no, bruciarono incenso al passaggio della dea, che le matrone portarono in processione fino al tempio della Vittoria. Il Senato rimase un po' scandalizzato e perplesso quando seppe che la Grande Madre doveva essere accudita da preti auto-evirati. A Roma, nei collegi sacerdotali, non ce n'era. Alla fine ne trovarono alcuni, fra i prigionieri di guerra, e li fecero preti per l'occasione.

Da quel momento la liturgia greca si diffuse, ed essa fu applicata non soltanto agli dèi che venivano di laggiù, ma anche a quelli romani. E il risultato fu che, da austera e piuttosto lugubre, qual era stata sino ad allora, diventò allegra e carnascialesca. Nel 186 il Senato apprese con allarmato stupore che il popolino si era particolarmente affezionato a Diòniso, ne aveva fatto il suo santo preferito, riempiva il suo tempio, e gli sacrificava con particolare entusiasmo. Se ne capisce facilmente la ragione: i sacrifici consistevano in pantagrueliche mangiate, in gagliarde bevute, e in un disfrenamento dei rapporti fra uomini e donne. Insomma, erano tutto fuorché "sacrifici". La polizia fece una retata di partecipanti a quelle feste, arrestandone settemila, ne condannò a morte alcune centinaia, gli altri alla prigione, e soppresse il culto. Ma quando si devono far intervenire i gendarmi per salvare i costumi d'un popolo, vuol dire proprio ch'essi sono in agonia.

Lo si vedeva del resto a teatro, che stava diventando il vero tempio di Roma.

Il primo tentativo di spettacolo era stato quello di Livio Andronico, il prigioniero di guerra tarantino, di origine greca, che nel 240 aveva sceneggiato, recitato e cantato in rozzi versi "saturnini" l'Odissea. Come abbiamo già detto, pubblico e governo n'erano rimasti sì compiaciuti, che avevano consentito agli attori di costituirsi in "corporazione" e di organizzare, per le grandi feste dell'anno, i cosiddetti ludi scenici.

Cinque anni dopo quella storica première, un altro prigioniero di guerra, napoletano, stavolta, Cneo Nevio, produsse un'altra commedia che, con piglio aristofanesco, metteva in ridicolo gli abusi e le ipocrisie della società

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romana. Il popolo si divertì. Ma le famiglie influenti, che, si sentivano colpite, protestarono. Esse erano troppo rozze e cafone per accettare la satira, che trova diritto di cittadinanza solo presso i popoli molto civili. Il povero Nevio fu arrestato, e dovette ritrattare. Scrisse un'altra commedia, certo con l'intenzione di non offendere più nessuno, ma siccome era un uomo pieno di spirito non ci riuscì. Anche stavolta di sotto la penna gli uscì qualche frizzo, e lo pagò con la deportazione. Così Roma perse nello stesso tempo un commediografo che poteva dare l'avvio a una produzione originale e non più ricalcata sui modelli stranieri, e un umorista che poteva insegnare a quel popolo tetro e pesante l'arte di sorridere, di accorgersi dei propri difetti e di rimediarvi. In esilio Nevio continuò a comporre. E lasciò un brutto poema drammatico sulla storia romana, che rivelava in lui un forsennato patriottismo.

Da quel momento in poi il teatro romano continuò a scopiazzare quello greco, fino a quando un terzo forestiero venne a dargli un soffio di originalità. Quinto Ennio era un pugliese di padre italiano e di madre greca. Aveva studiato a Taranto, dove si rappresentavano i drammi di Euripide, di cui si era innamorato. Poi era andato a fare il servizio militare, e in Sardegna aveva attirato per il suo coraggio l'attenzione di Catone, ch'era lì come questore, e se lo portò dietro a Roma. I suoi Annali, una storia epica di Roma, da Enea alle guerre puniche, furono, fino a Virgilio, il poema nazionale dell'Urbe. Ma la sua passione era il teatro, per il quale scrisse una trentina di tragedie, prendendo di petto soprattutto lo zelo dei bigotti. Ed ecco, in bocca a un suo protagonista, le sue convinzioni religiose:

« Vi assicuro, amici, che gli dèi ci sono, ma s'infischiano di ciò che fanno i mortali. Come spieghereste altrimenti che il bene non sia sempre ripagato col bene e il male col male?». Cicerone, che riporta questa frase in cui trapelano già le teorie di Epicuro, e dice di averla sentita declamare con le sue orecchie, assicura ch'essa fu a lungo e sonoramente applaudita dalla platea.

Ennio consigliò i suoi seguaci a fare, nelle commedie, un po' di filosofia, ma non troppo. Sfortunatamente fu il primo a non tener conto di questa saggia massima, volle scrivere drammi "di pensiero", come si dice oggi; e il pubblico, annoiato, gli volse le spalle per accorrere alle farse di Plauto, che fu il primo vero commediografo di Roma.

Vi era capitato dall'Umbria dov'era nato nel 254, e già il suo nome faceva ridere. Tito Maccio Plauto voleva dire: Tito, il pagliaccio dai piedi piatti. Cominciò come "comparsa", risparmiò un po' di soldi, li investì in un affare sballato, e li perse. Allora, per mangiare, si mise a scrivere. Dapprima adattò commedie greche, interpolandovi battute su avvenimenti romani d'attualità. Ma quando vide che il pubblico soprattutto di questi rideva,

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lasciò i modelli forestieri e si diede a comporne di originali, prendendo a prestito la trama dalla cronaca della città e inaugurando un vero e proprio teatro "di costume". Fu presto l'idolo del pubblico che amava il suo buonumore cordiale e la sua grossa risata rabelaisiana. Il suo Miles gloriosus mandò in delirio la platea. Tutti gli vollero bene, e da lui accettarono anche l'Amphitrion, che conteneva quell'irriverente satira a Giove, presentato come un volgare dongiovanni che, per sedurre Alcmena, si spacciava per suo marito e invocava se stesso offrendosi sacrifici.

L'anno in cui Plauto morì, nel 184, giunse a Roma come schiavo Terenzio, un cartaginese, ch'ebbe la ventura di capitare nella casa di Te-renzio Lucano, un senatore colto e affabile che scoprì il talento del suo servo e lo liberò. Terenzio, che in origine si chiamava Publio Afro, per gratitudine ne prese il nome. Quand'ebbe scritta la prima commedia, Andria, andò a leggerla a Cecilio Stazio, autore già affermato e che in quel momento furoreggiava, ma di cui non è rimasto nulla. Svetonio racconta che Stazio rimase così colpito che invitò a colazione il suo visitatore, sebbene questi fosse vestito come un mendicante. Terenzio frequentò i salotti e diventò di moda nelle classi alte, ma non raggiunse mai la popolarità di Plauto. La sua seconda commedia, Hecyra, cadde, perché il pubblico abbandonò in massa la platea quando seppe che al Circo era cominciato il combattimento di un gladiatore contro un orso. La fortuna gli sorrise con l'Eunuco che in due spettacoli dati lo stesso giorno gli procurò ottomila sesterzi, circa quattro milioni di lire. A Roma si mormorava che il vero autore di questi lavori fosse Lelio, il fratello di Scipione, grande amico e protettore di Terenzio. Il quale, con molto tatto, non smentì né confermò mai questo pettegolezzo. E forse appunto per sottrarvisi, decise di partire per la Grecia. Non tornò più. Sulla via del ritorno, una malattia lo uccise in Arcadia.

Gli ambienti intellettuali e sofisticati di allora ebbero per Terenzio la stessa passione che quelli francesi di oggi hanno avuto per Gide. Cicerone lo definì "il più squisito poeta della repubblica". Cesare, che di letteratura se n'intendeva ed era più schietto, lo considerava un perfetto stilista, ma un dimidiatus Menander, un Menandro dimezzato, sulla scena. Effettivamente le sue commedie non cadono mai nelle grossolanità di Plauto. I loro personaggi sono più complessi e sfumati, il loro dialogo più raccolto e ricco di sottintesi. Ma purtroppo è svolto in una lingua che non è più quella del popolo: il quale sentì l'artificio. E lo fischiò.

Questo popolo ora andava a teatro sempre più numeroso, anche perché non si pagava biglietto d'ingresso. I locali erano rudimentali, e si approntavano soltanto in occasione delle feste, dopo le quali venivano rimossi. Consistevano di un'intravatura di legno che sorreggeva il palco-scenico, davanti al quale c'era una "orchestra" circolare per i balletti che

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accompagnavano lo spettacolo. Gli spettatori stavano parte in piedi, parte sdraiati per terra, parte seduti su trespoli che si portavano da casa. Solo nel 145 fu costruito un teatro stabile, di legno anch'esso e senza tetto, ma con sedili fissi disposti circolarmente, torno torn-+o il palcoscenico, secondo lo stile greco. Tutti vi erano ammessi: anche gli schiavi, che però non potevano sedere, e le donne, confinate tuttavia in fondo.

Nei prologhi che l'attore recitava prima che il sipario si alzasse, si trovano raccomandazioni alle mamme di soffiare il naso ai loro bambini prima dell'inizio dello spettacolo, o di ricondurre a casa quelli che frignavano. Doveva trattarsi di platee rumorose e indisciplinate, che interrompevano di frequente la recitazione con battute mordaci e frizzi grossolani e che spesso non si accorgevano nemmeno quando finiva lo spettacolo, il quale infatti si concludeva con un nunc plaudite omnes, cioè con un invito all'applauso.

Gli attori erano in genere schiavi greci, meno il protagonista che poteva essere un cittadino romano. Il quale però, dandosi a quella carriera, perdeva i suoi diritti politici, come accadeva in Francia fino al Seicento. Erano gli uomini a interpretare anche le parti femminili. Essi, finché il pubblico fu limitato, si contentarono di una sommaria truccatura. Ma quando le platee diventarono, nell'ultimo secolo prima di Cristo, strabocchevoli, fu introdotto, per distinguere i caratteri, l'uso delle maschere che si chiamavano personae dall'etrusco phersu. Sicché dramatis personae significa letteralmente "maschere del dramma". Gli attori che le incarnavano, quando si trattava di tragedia, portavano i coturni, ch'erano le scarpe a stivaletto; quando si trattava di commedia, portavano il soccus, cioè la scarpa bassa.

Anche allora, come oggi, ci furono continui conflitti tra il gusto del pubblico e la censura, che sorvegliava attentamente la produzione. Era stato in base a una legge delle Dodici Tavole, la quale proibiva la satira politica e prevedeva persino la pena di morte, che il povero Nevio era stato bandito e, per non seguirne la sorte, i suoi successori avevano preso tutto a prestito dalla Grecia: scene, caratteri, situazioni, costumi, e perfino i nomi delle monete. I criteri cui s'ispirava questa poliziesca censura erano, come sem-pre, burocratici e ottusi. Essi consentivano qualunque oscenità, purché non si accennassero critiche al governo e ai cittadini in vista.

Per fortuna gli edili, che approntavano questi spettacoli per piacere alla massa e guadagnarsene i voti, erano sempre dalla parte degli autori e li proteggevano. Plauto dovette averne dalla sua uno molto potente per permettersi tutto quello che si permise. Se non fosse stato per lui, il teatro romano non sarebbe nemmeno nato. Sarebbe rimasto un'imitazione di quello greco e noi non vi troveremmo quello specchio di una società che invece, bene o male, ci ha fornito.

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Ma questo allentamento di freni avvenne soprattutto perché spirava in aria un vento di "libero pensiero". Lo avevano portato i "grèculi", come li chiamavano per dileggio i romani, un dileggio che non impediva loro di prenderseli per maestri. Prigionieri di guerra importati di laggiù in condizione di ostaggi e di schiavi, furono infatti i primi grammatici, retori e filosofi, che aprirono scuole a Roma. Il Senato, nel 172, scoprì fra essi due seguaci di Epicuro, e li bandì. Pochi anni dopo Cratete di Mallo, direttore della Libreria di stato di Pergamo e capo della scuola stoica, venne a Roma come ambasciatore, si ruppe una gamba, e, in attesa di guarire, si diede a far conferenze. Nel 155 Atene mandò in missione diplomatica tre filosofi (non aveva più che quelli, oramai): Cameade il platonico, Critolao l'aristotelico, e Diogene lo stoico. Anch'essi tennero conferenze, e Catone, quando sentì affermare da Cameade che gli dèi non esistevano e che giustizia e ingiustizia non erano che convenzioni, corse in Senato e chiese il rimpatrio dei tre ateniesi.

L'ottenne, ma serviva poco, visto che il pensiero e la cultura greci erano patrocinati da molti degli stessi romani, e fra i più influenti, che li avevano già assorbiti. Flaminino aveva in casa una galleria piena di statue di Policleto, Fidia, Scopa e Prassitele. Emilio Paolo, dal bottino fatto a spese di Perseo, aveva prelevato la biblioteca del re, e su quella educava i figli. Il più giovane di essi, quando egli morì, fu adottato da Cornelio Scipione, figlio dell'Africano. Ne prese il nome, e come Publio Cornelio Scipione Emiliano emulò il nonno distruggendo Cartagine e diventò il capo di quella potente casata convertendola tutta all'ellenismo. Bello e ricco com'era, di maniere affabili, d'intelligenza pronta e d'incorruttibile onestà (morendo, lasciò soltanto trentatré libbre d'argento e due d'oro), era particolarmente indicato per diventare l'idolo dei salotti che in quel momento cominciavano a pul-lulare. Polibio visse per anni ospite in casa sua, dove capitava quotidianamente anche Panezio, altro greco di Rodi, di sangue aristocratico e di scuola stoica. Il suo libro Dei doveri, che Scipione probabilmente suggerì e ispirò, fu il testo su cui si formò la "gioventù dorata" di Roma. A differenza di quelli antichi, i nuovi stoici non predicavano la virtù assoluta e non invocavano una completa indifferenza alla fortuna e alla sfortuna. Essi volevano soltanto proporre un surrogato, pieno di compromessi ma decente, a una fede che ormai non sorreggeva più il costume di Roma. Era l'indulgenza che si sostituiva al severo puritanismo di un tempo.

Il salotto di Scipione ebbe un'influenza enorme. Vi fecero spicco, oltre a Flaminino, Gaio Lucilio e Gaio Lelio, la cui fraternità col padrone di casa ispirò a Cicerone il libro De amicitia. Vi si dibattevano idee alate. Ci si entusiasmava per il Bello. Vi erano d'obbligo modi raffinati, idee originali e preziose, e soprattutto una lingua pulita, lustra, senz'accento: una lingua che

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poi, in mano a Catullo, il quale frequentò quegli ambienti, diventò quella letteraria e colta di Roma, ma che, in bocca ai personaggi di Terenzio, il pubblico fischiò perché la sentiva artificiale e lontana dalla sua.

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CAPITOLO TERZO

I GRACCHI

Fu in uno di questi salotti che si preparò la rivoluzione. La quale,

contrariamente a quel che si crede, non nasce mai nelle classi proletarie, che poi le prestano la mano d'opera; ma in quelle alte, aristocratiche e borghesi, che poi ne fanno le spese. Essa è sempre, più o meno, una forma di suicidio. Una classe non si elimina che quando si è già eliminata da sé.

Cornelia, figlia di Scipione l'Africano, aveva sposato Tiberio Sempronio Gracco, il tribuno che aveva posto il veto alla condanna di Lucio, il fratello dell'eroe di Zama. Era stata una manifestazione di nepotismo a rovescio perché, ciò facendo, egli aveva salvato in sostanza lo zio di sua moglie. Ma, nonostante questa comprensibile debolezza, Sempronio aveva seguitato a godere fama d'integrità, e la meritava. Eletto censore, e poi per due volte console, aveva amministrato la Spagna con criteri liberali e metodi illuminati. Da Cornelia aveva avuto dodici figli, di cui nove erano morti in giovane età. Quando a sua volta egli morì, a Cornelia ne restavano tre soli: due maschi, Tiberio e Caio, e una femmina, Cornelia, non si sa se nata deforme, o diventata tale per paralisi infantile.

Mamma Cornelia fu una vedova esemplare e una grande educatrice. Doveva essere anche belloccia perché, a quel che dice Plutarco, un re egiziano la chiese in sposa. Essa rispose orgogliosamente che preferiva restare la figlia di uno Scipione, la suocera di un altro e la madre dei Gracchi. In quel momento infatti la seconda Cornelia aveva già sposato il distruttore di Cartagine. Non era stato, a quanto pare, un matrimonio d'amore, ma solo di convenienza, come si usava farne in quella società di famiglie e di dinastie per rinsaldarne le alleanze.

Ma Cornelia era anche qualcosa che a Roma non si era visto mai sino ad allora: una grande "intellettuale" e una squisita maitresse de maison. Il suo salotto, dove si riunivano le più illustri personalità della politica, delle arti e della filosofia, somigliava a quelli di certe signore francesi del Settecento e assolse press'a poco le stesse funzioni. Vi dominava, anche per ragioni di parentela, il cosiddetto "circolo degli Scipioni" con Lelio, Flaminino, Polibio, Gaio Lucilio, Muzio Scevola, Metello il Macedonico. Era quanto di meglio ci fosse in Roma a quel tempo, per sangue, per intelligenza, per esperienza. Ma come diversi erano questi nuovi leaders dai loro babbi e

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nonni! Intanto, accettavano come ispiratrice una donna. Poi, si facevano il bagno tutti i giorni, tenendo molto ai vestiti, e non erano affatto convinti che Roma dovesse dare lezioni al mondo. Anzi, erano persuasi del contrario: cioè che dovesse andare a scuola. Alla scuola della Grecia.

I discorsi che si tenevano in questo salotto non erano rivoluzionari, ma "progressisti" sì. Dovevano somigliare vagamente a quelli che oggi si tengono fra "liberali di sinistra", radicali e azionisti. E siccome erano tutte persone che avevano le mani in pasta, sapevano quel che dicevano, e quel che dicevano aveva poi un'eco anche al Senato e al governo.

La situazione di Roma effettivamente non era allegra, e autorizzava le più ampie critiche e le più nere previsioni. L'Urbe digeriva male l'immenso impero che con tanta rapidità aveva divorato. Il grano della Sicilia, della Sardegna, della Spagna e dell'Africa, riversato sui suoi mercati a basso prezzo perché prodotto a basso costo col gratuito lavoro degli schiavi, stava conducendo alla rovina economica quell'Italia rustica di coltivatori diretti, piccoli e medi proprietari, che aveva costituito il miglior baluardo contro Annibale e fornito i migliori soldati per batterlo. Incapaci di reggere alla concorrenza, essi stavano vendendo le loro modeste fattorie che venivano assorbite nei latifondi. Una legge del 220, che proibiva il commercio ai senatori, li obbligava ad investire nell'agricoltura i capitali che avevano accumulato col bottino di guerra. E molta parte delle terre requisite al nemico venivano concesse a speculatori in restituzione del denaro ch'essi avevano prestato allo stato. Ma né questi speculatori né i senatori erano più gentiluomini di campagna. Abituati a vivere in città, fra i suoi comodi e le sue mollezze, fra la politica e gli affari, non intendevano abbandonarla per tornare alla vita semplice e frugale dei loro stoici antenati. Così facevano quello che ancor oggi fanno certi baroni dell'Italia meridionale: acquistato un latifondo, lo davano in appalto a un amministratore che, col lavoro gratuito degli schiavi, cercava di farlo rendere il più possibile, per il padrone e per sé, sfruttando al massimo la fatica degli uomini e le risorse del suolo, senza pensare al domani.

Su questa crisi economica se ne innestava un'altra, sociale e morale: quella di una società che, abituata a basarsi sui suoi piccoli e liberi coltivatori, sempre più ora veniva affidandosi al saccheggio all'esterno e alla schiavitù all'interno. Di schiavi, quello che si riversava a Roma era un torrente senza pause. Quarantamila sardi vi furono importati d'un colpo solo nel 177, centocinquantamila epiroti dieci anni dopo. I "grossisti" di questa merce umana andavano a incettarla dietro le legioni che la procuravano e che ormai erano giunte, sulla catastrofe degl'imperi greci e macedoni, in Asia, sul Danubio e fino ai confini della Russia. Ce n'era tale abbondanza che transazioni di diecimila capi alla volta erano normali sul mercato

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intercontinentale di Delo; e il prezzo scendeva fino a cinquecento lire l'uno. In città, erano gli schiavi oramai che fornivano la mano d'opera nelle

botteghe degli artigiani, negli uffici, nelle banche, nelle fabbriche, condannando alla disoccupazione e all'indigenza i cittadini che prima vi avevano trovato impiego. I rapporti con gl'imprenditori variavano secondo il temperamento di questi ultimi. C'era chi, sebbene verso lo schiavo non fosse tenuto a nulla, cercava di trattarlo umanamente. Ma la legge economica dei prezzi e della concorrenza poneva un limite a queste umane disposizioni. Essa voleva che si esigesse sempre di più e si concedesse sempre di meno.

In campagna, la miseria dello schiavo era ancora più marcata dai tempi in cui esso era una merce rara, e, assunto in casa, finiva col farne parte come un parente povero. La modestia delle proprietà e la scarsezza di braccia da lavoro rendevano dirette e umane le relazioni col padrone. Ma nei latifondi, dove gli schiavi erano ingaggiati a torme, il padrone non si faceva vedere, e al suo posto c'era un aguzzino scelto fra le peggiori canaglie, che cercava di risparmiare anche l'impossibile sul cibo e sui cenci, ch'erano l'unico salario dovuto a quegli sciagurati. I quali, se disobbedivano o si lamentavano, venivano caricati di catene e gettati in un ergastolo sottoterra.

Nel 196 c'era stata una loro ribellione in Etruria. Furono tutti uccisi dalle legioni, e molti crocefissi. Dieci anni dopo un'altra rivolta scoppiò in Apulia: i pochi che sopravvissero alla repressione furono internati in miniera. Nel 139 scoppiò una vera e propria guerra "servile", capeggiata da Euno, che massacrò la popolazione di Enna, occupò Agrigento, e in breve, con un esercito di settantamila uomini, tutti schiavi ribellati, s'impadronì di quasi tutta la Sicilia, sconfiggendo anche un esercito romano. Si dovette faticare sei anni per venirne a capo. Ma il castigo fu, come sempre, adeguato agli sforzi.

Proprio in quell'anno 133 avanti Cristo, Tiberio Gracco, il figlio di Sempronio e di Cornelia, venne eletto tribuno.

Nel salotto di sua madre, egli era cresciuto con idee radicali, che gli erano state ribadite in testa dal suo precettore Blossio, un filosofo greco di Cuma. E all'età in cui si pensa alle ragazze, egli già non pensava che alla politica. Era quello che si suol dire un "idealista". Ma sino a che punto le sue idee, ch'erano eccellenti, fossero al servizio della sua ambizione, ch'era grandissima, o viceversa, lo ignorava egli stesso, come d'altronde capita a tutti gl'idealisti. La situazione del paese la conosceva un po' perché nel salotto se n'era sempre parlato, e con grande competenza; un po' perché, a quel che ci ha detto suo fratello, era andato personalmente a studiarsela in Etruria e n'era rimasto inorridito. Egli comprese che l'Italia correva alla rovina se la sua agricoltura cadeva definitivamente in mano agli speculatori e agli schiavi, e che in Roma stessa nessuna sana democrazia poteva

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trionfare con un proletariato che giornalmente si corrompeva nell'ozio e coi sussidi.

L'unico rimedio da opporre allo schiavismo, all'urbanesimo e alla decadenza militare, gli parve un'audace riforma agraria che, appena eletto, propose all'Assemblea. Essa consisteva di tre proposte: 1) Nessun cittadino doveva possedere più di centoventicinque ettari dell'Agro pubblico, che potevano diventare duecentocinquanta solo se aveva due figli o più. 2) Tutte le terre distribuite o affittate dallo stato dovevano essergli restituite allo stesso prezzo, più un rimborso per gli eventuali miglioramenti apportativi. 3) Esse dovevano essere divise e ridistribuite fra i cittadini poveri in lotti di cinque o sei ettari ognuno, con impegno a non venderli e a pagarvi sopra una modesta tassa.

Erano proposte ragionevoli e in piena coerenza con le Leggi Licinie che già oltre due secoli prima erano state approvate. Ma Tiberio ebbe il torto di condirle di un'oratoria demagogica e barricadiera che, oltre a tutto, stonava con la sua condizione sociale. Perché questi "progressisti", di alta estrazione, nobile o borghese che fosse, non sapevano sfuggire, allora come ora, a una contraddizione fra abitudini di vita raffinate e sofisticate e atteggiamenti politici populisti e piazzaioli. « I nostri generali», egli disse parlando dal Rostro, «v'incitano a combattere per i templi e le tombe dei vostri antenati. Ozioso e falso appello. Voi non avete paterni altari. Voi non avete tombe ancestrali. Voi non avete nulla. Voi combattete e morite solo per procurare lusso e ricchezza agli altri».

Era detto bene perché, per disgrazia, Tiberio era anche un eccellente oratore. Ma c'erano gli estremi del sabotaggio. Il Senato proclamò illegali le proposte, ne accusò l'autore di ambizioni dittatoriali e persuase Ottavio, l'altro tribuno, a opporvi il veto. Tiberio rispose con un progetto di legge per cui un tribuno, quando agiva contro la volontà del Parlamento, doveva essere immediatamente deposto. L'Assemblea approvò la proposta, e i littori di Tiberio scacciarono a forza Ottavio dal suo banco. Poi il progetto di legge fu votato, e l'Assemblea, temendo per la vita di Gracco, lo scortò fino a casa.

Abbiamo l'impressione ch'egli non vi sia stato accolto quel giorno dall'unanime entusiasmo che forse s'aspettava. Forse Cornelia sola seguitò a riconoscerlo uno dei suoi "gioielli", come un giorno aveva definito lui e Caio. Gli altri dovevano essere un po' scossi non tanto dalla legge che aveva imposto e che corrispondeva in pieno alle vedute politiche e sociali del "salotto", quanto dai mezzi incostituzionali che aveva usato contro Ottavio. Ma furono certamente scandalizzati e gli tolsero la loro solidarietà quando, contro una precisa norma che lo vietava, Tiberio si portò nuovamente in lizza per il tribunato.

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Fu obbligato a farlo perché il Senato minacciava, appena scaduto di carica, di processarlo. Ma era un gesto di ribellione. Abbandonato così dai suoi stessi amici di casa, Tiberio accentuò ancora di più la sterzata la sinistra per guadagnarsi i favori della plebe. Promise, se rieletto, di abbreviare il servizio militare, di abolire il monopolio dei senatori nelle giurie dei tribunali e, siccome in quel momento Attalo III di Pergamo moriva lasciando il suo reame a Roma, propose di venderne la proprietà mobiliare per aiutare col ricavato i contadini ad attrezzare i loro poderi. E qui scantonò nella demagogia pura, fornendo validi argomenti all'avversario.

Il giorno delle elezioni, Tiberio apparve nel Foro con una guardia armata e vestito a lutto per dare ad intendere che la bocciatura significava per lui la condanna a morte. Ma mentre si votava, irruppe un gruppo di senatori coi manganelli in mano, guidati da Scipione Nasica. Il prestigio di cui ancora il Senato godeva e che Gracco aveva scioccamente trascurato, è dimostrato dal fatto che dinanzi a quelle toghe patrizie gli amici di Tiberio cedettero rispettosamente il passo lasciandolo solo. Fu ucciso con una mazzata sulla nuca. E il suo corpo, insieme con quello di alcune centinaia di sostenitori, venne gettato nel Tevere.

Suo fratello Caio chiese il permesso di ripescarlo e di dargli sepoltura. Glielo negarono.

Questo avvenne nel 132. Nove anni dopo, cioè nel 123, il secondo dei "gioielli" di Cornelia aveva preso il posto del fratello come tribuno. Lo conosciamo meglio e lo stimiamo di più, perché ci sembra d'intelligenza più realistica del fratello, e anche più sincero. Era stato anche lui un magnifico oratore: Cicerone lo considerava il più grande (dopo di lui, s'intende); aveva militato coraggiosamente sotto suo cognato Scipione Emiliano a Numanzia, e aveva un gran controllo di sé. Infatti andò per gradi, senza voler strafare sin dal primo momento.

In quei nove anni le Leggi Agrarie di Tiberio che, dopo averne ucciso l'autore, il Senato non osò abrogare, avevano dato i loro buoni frutti, nonostante l'applicazione avesse urtato contro molte difficoltà pratiche, L'anagrafe registrava ottantamila nuovi cittadini, che lo erano diventati appunto perché avevano avuto un lotto di terra. Ma molte proteste si erano levate dai vecchi proprietari che non volevano né scorporo né confisca e che affidarono la loro causa a Scipione l'Emiliano. Non si sa perché costui accettasse la difesa di quegl'interessi che erano contrari alle sue idee. Ma forse, a fargliene assumere il patronato, furono proprio le ragioni di famiglia per le quali avrebbe dovuto astenersene. I suoi rapporti con la moglie Cornelia erano andati sempre peggiorando. E una mattina del 129 fu trovato assassinato nel suo letto. Chi lo avesse ucciso, non si è mai saputo; ma naturalmente i pettegolezzi delle case aristocratiche, dov'erano odiate, incri-

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minavano la sposa e la suocera. Cresciuto in mezzo a tante sciagure e in una casa ormai disertata anche

dai più intimi amici, Caio condusse avanti con cautela l'applicazione delle leggi di Tiberio; creò nuove colonie agricole nell'Italia del Sud e in Africa; si guadagnò i soldati stabilendo ch'essi fossero d'ora in poi equipaggiati a spese dello stato; fissò al grano un "prezzo politico", ch'era la metà di quello di mercato. E con quest'ultima misura, che fu poi l'arma più forte nelle mani di Mario e di Cesare, ebbe dalla sua tutto il popolino dell'Urbe.

Armato di questi successi, egli potè ripresentarsi al tribunato dell'anno seguente senza rimetterci la vita, com'era capitato a suo fratello; e vincere. Allora credette di poter giocare le carte grosse, e qui sbagliò. Egli propose di aggiungere ai trecento senatori di diritto altri trecento eletti dall'Assemblea e di estendere la cittadinanza a tutti i non-schiavi del Lazio e a buona parte di quelli del resto della penisola.

Ma aveva fatto male i conti con gli egoismi del proletariato romano, che dei confratelli del Lazio e della penisola s'infischiava. Il Senato prontamente agì, per sfruttare questo errore tattico del suo avversario. Spinse l'altro tribuno, Livio Druso, a proposte ancora più radicali: che si abolissero le tasse imposte dalla legge di Tiberio ai nuovi proprietari e che quarantaduemila nullatenenti di Roma avessero in distribuzione nuove terre in dodici nuove colonie. Subito l'Assemblea approvò il progetto. E quando Caio vi fece ritomo, trovò che tutti i favori ormai li aveva monopolizzati Druso.

Si presentò per una terza elezione, e fu bocciato. I suoi sostenitori dissero che c'era stata frode, ma egli li consigliò alla moderazione e si ritrasse a vita privata.

Quando si trattò di far fronte agl'impegni contratti per liquidare Caio, il Senato si trovò in imbarazzo e tentò di tergiversare. L'Assemblea capì ch'era un primo passo per il sabotaggio della legislazione dei Gracchi, i cui simpatizzanti si presentarono alla successiva seduta in armi. Uno di essi fece a pezzi un conservatore che aveva pronunciato parole di minaccia contro Caio.

L'indomani i senatori apparvero in tenuta di battaglia, seguito ciascuno da due schiavi. I gracchisti si trincerarono sull'Aventino, e Caio cercò d'interporsi per ristabilire la pace. Non riuscendovi, si buttò a nuoto nel Tevere. Sull'altra riva, quando stava per essere raggiunto dai suoi per-secutori, ordinò a un suo servo di ucciderlo. Il servo obbedì. E poi, tratto il pugnale intriso di sangue dal petto del padrone, lo immerse nel proprio. Un seguace di Caio mozzò la testa al cadavere, la riempì di piombo e la portò al Senato, che aveva offerto di compensarne il peso in oro. Intascò la ricompensa e si rifece una "verginità politica". Il popolino che tanto lo

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aveva applaudito, non battè ciglio all'assassinio del suo eroe: era troppo occupato a saccheggiarne la casa.

Cornelia, la madre di due figli morti ammazzati e di una vedova sospetta di assassinio, prese il lutto. Il Senato le ordinò di toglierselo.

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CAPITOLO QUARTO

MARIO

CON Caio vennero uccisi duecentocinquanta suoi sostenitori e altri

tremila furono arrestati. Parve, lì per lì , che i conservatori avessero partita vinta, e ci si aspettò una radicale repressione. Ma essa non venne. Il Senato accantonò la riforma agraria, ma non toccò il calmiere del grano né tentò di ripristinare il monopolio dell'aristocrazia nelle giurie dei tribunali. Capiva che, malgrado quella momentanea vittoria, la situazione non consentiva radicali restaurazioni.

Per qualche anno si visse alla giornata senza sostituire nessun rimedio a quello che i Gracchi avevano tentato, sia pure prematuramente e commettendo molti errori tattici. Con la scusa di favorire ancora di più i nuovi piccoli proprietari creati dalle leggi agrarie, si consentì loro di vendere le terre avute in assegnazione. Essi, rimasti senz'aiuto, lo fecero. E i latifondi si riformarono, sulla solita base del lavoro servile. Appiano, ch'era un democratico dei più moderati, riconosceva in quegli anni che in tutta Roma ci saranno stati sì e no duemila proprietari. Tutti gli altri erano nullatenenti, e la loro condizione peggiorava di giorno in giorno.

A dare il tracollo e a fornire il pretesto della grande rivolta fu il cosiddetto "scandalo d'Africa" che cominciò nel 112. Micipsa, succeduto a Massinissa sul trono di Numidia, e morto sei anni prima, aveva lasciato Giugurta, suo figlio naturale, reggente e tutore dei suoi due legittimi eredi ancora minorenni. Giugurta ne uccise uno e si mise in guerra con l'altro che chiese aiuto all'Urbe, protettrice di quel reame. L'Urbe mandò una commissione d'inchiesta, che Giugurta comprò con una lauta mancia. Chiamato a Roma, corruppe i senatori che dovevano giudicarlo. E insomma si dovette aspettare l'elezione a console di Quinto Metello, ch'era un mediocre galantuomo, per vedere un generale disposto a far la guerra all'usurpatore e a respingere le "bustarelle".

Sebbene a quei tempi i giornali non ci fossero, la gente era ugualmente informata e conosceva benissimo i fatti e i loro retroscena. L'odio che covava contro l'aristocrazia dal giorno dell'uccisione dei Gracchi, scoppiò violento quando si seppe che Metello, pur essendo fra i migliori, si opponeva all'elezione al consolato di Caio Mario, un suo luogotenente, solo perché non era aristocratico. E, senza neanche sapere con esattezza chi

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fosse, l'assemblea votò compatta per costui e gli affidò il comando delle legioni. Perché a Roma si diceva in quel momento quello che dovunque e in tutt'i tempi si dice, quando la democrazia entra in agonia: «Ci vuole un uo-mo...».

E per caso, con quella scelta, lo trovò. Mario era un personaggio all'antica, come ormai se ne incontrava solo in provincia. Era nato infatti ad Arpino, come Cicerone, figlio di un povero bracciante, e per università aveva avuto la caserma, dove si era arruolato giovanissimo. Si era guadagnato i gradi, le medaglie e le cicatrici che tatuavano il suo corpo all'assedio di Numanzia. Tornando, aveva fatto un buon matrimonio. Aveva sposato una Giulia, sorella di un Caio Giulio Cesare, che come famiglia non era nulla di eccezionale perché apparteneva soltanto alla piccola aristocrazia terriera, ma che aveva già per figlio un altro Caio Giulio Cesare, destinato a far parlare di sé per millenni. In grazia delle sue gesta militari, Mario era stato eletto tribuno. Ed egli ne aveva approfittato non per fare politica e mostrarvi tutta la sua incapacità, ma per tornare con accresciuti poteri alla testa dei suoi soldati, sotto il comando di Metello. Costui traccheggiava nella guerra giugurtina. E quando seppe che il suo sottoposto voleva andare a Roma per concorrere al consolato, se ne scandalizzò come di una pretesa fuori di luogo per un povero contadino come lui: il consolato, è vero, era aperto anche ai plebei, ma soltanto in teoria...

Mario, ch'era suscettibile e rancoroso, si offese. E, una volta eletto, reclamò il posto di Metello, che dovette cederglielo. La guerra prese subito un altro ritmo. In pochi mesi Giugurta fu costretto ad arrendersi e adornò il carro del vincitore, che a Roma fu gratificato con un superbo trionfo dal popolo che vedeva in lui il suo campione. Questo popolo non sapeva che il colpo decisivo all'usurpatore di Numidia lo aveva dato non Mario, ma un suo questore di nome Silla, ch'era un po' rispetto a Mario proprio quello che Mario era stato rispetto a Metello.

Per il momento tuttavia era Mario l'eroe della città che, ignorando una Costituzione ormai agli sgoccioli e ravvisando in lui "l'uomo che ci voleva", gli riconfermò per sei anni di seguito il consolato. Infatti il pericolo esterno non era finito con Giugurta, anzi incombeva più grave di prima per via dei galli tornati in massa all'offensiva. Cimbri e teutoni si erano rifatti vivi, più numerosi e aggressivi che mai, rotolando come una valanga dalla Germania alla Francia. Un esercito romano che li incontrò in Carinzia era stato distrutto. Poi ne distrussero un secondo sul Reno, e un terzo e un quarto, finché il Senato ne mandò un quinto agli ordini di due aristocratici, Servilio

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Cepione e Manlio Massimo. I quali non seppero far di meglio che litigare fra loro, per gelosia, e ognuno disfare quel che l'altro faceva. A Orange ottantamila legionari, il prestigio dell'aristocrazia donde quegli inetti generali venivano e quarantamila ausiliari rimasero sul terreno. E Roma trattenne il fiato nel terrore di vedersi venire addosso quelle orde. Grazie a Dio, invece delle Alpi, esse scavalcarono i Pirenei per mettere a sacco la Spagna. E quando tornarono sui loro passi per assalire l'Italia, Mario, console da quattro anni, era pronto a riceverli.

Egli aveva preparato un nuovo esercito, che costituì la sua vera grande rivoluzione, quella che poi fornì le armi a suo nipote Cesare. Aveva capito che non c'era più da fare assegnamento sui cittadini che si chiamavano "atti alle armi" solo perché, iscritti a una delle cinque classi, erano tenuti al servizio militare, ma non volevano prestarlo. E si rivolse agli altri, ai nullatenenti, ai disperati, attirandoli con una buona paga e con la promessa di bottino e di lauta assegnazione di terre dopo la vittoria. Era la sostituzione di un esercito mercenario a quello nazionale: operazione rischiosa e, alla lunga, catastrofica, ma resa necessaria dal decadimento della società romana.

Egli condusse le sue proletarie reclute, inquadrate da sottufficiali veterani, al di là delle Alpi. Le indurì con le marce. Le allenò alla battaglia con scaramucce su obbiettivi minori. E alla fine fece loro costruire un campo trincerato nei pressi di Aix in Provenza, punto di passaggio obbligato per i teutoni.

Costoro vi sfilarono accanto per sei giorni di seguito, tanto erano numerosi, e derisoriamente chiesero ai soldati romani di sentinella sugli spalti se avevano messaggi per le loro mogli in patria. Erano rimasti quelli di tre secoli prima: alti, biondi, fortissimi, coraggiosissimi, ma senza nes-suna nozione di strategia, altrimenti non si sarebbero lasciati alle terga quel po' po' di nemico. E infatti la pagarono cara. Dopo poche ore, Mario piombò alle loro spalle, e ne sterminò centomila. Plutarco dice che gli abitanti di Marsiglia drizzarono palizzate con gli scheletri e che, concimate da tanti cadaveri, le terre diedero quell'anno un raccolto mai visto.

Dopo quella vittoria, Mario rientrò in Italia e attese i cimbri presso Vercelli, là dove Annibale aveva guadagnato il suo primo successo. Come i loro fratelli teutoni, anche costoro mostrarono più coraggio che cervello. Avanzarono baldanzosamente nudi nella neve, e si servirono dei loro scudi come slitte per scivolare sui romani lungo i pendii ghiacciati, gaiamente schiamazzando, come se si fosse trattato d'un'esercitazione sportiva. Anche

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lì, come a Aix, più che una battaglia, fu un mostruoso macello. A Roma, Mario fu accolto come un "secondo Camillo". E, in segno dì

gratitudine, gli regalarono tutto il bottino catturato al nemico. Così egli diventò ricchissimo, proprietario di terre "grandi come un reame". E per la sesta volta consecutiva lo elessero console.

Nel giuoco della politica, che per la prima volta ora gli toccava di affrontare, l'eroe, come spesso capita agli eroi, si mostrò meno illuminato che nel maneggio delle legioni. Egli aveva fatto ai suoi soldati delle promesse che ora bisognava mantenere. E per mantenerle, dovette far lega con i capi del partito popolare: Saturnino, tribuno della plebe, e Glaucia, pretore. Erano due canaglie, espertissimi in tutti i raggiri parlamentari, che, all'ombra del popolarissimo Mario, volevano semplicemente fare i loro affari. Le terre furono effettivamente distribuite in applicazione delle leggi dei Gracchi; ma nello stesso tempo, per guadagnar voti al loro partito, il calmiere del grano, già bassissimo, fu ancora ridotto di nove decimi. Era una misura assurda che metteva in pericolo il bilancio dello stato. I più moderati fra gli stessi popolari esitarono, il Senato persuase un tribuno a porre il veto, ma Saturnino, contro la Costituzione, presentò ugualmente la legge. Ci furono incidenti. Per il consolato dell'anno 99, candidati per fare da collega a Mario si portarono Glaucia per i popolari e Caio Memmio, uno dei pochi aristocratici tuttora rispettati, per i conservatori. Questi venne assassinato dalle bande di Saturnino. E allora il Senato, ricorrendo alla misura di emergenza del senatoconsulto per la difesa dello stato, ordinò a Mario di fare giustizia e di ristabilire l'ordine. Mario esitò. Non faceva altro, del resto, da quando si era cacciato nella politica. Era invecchiato, ingrassato, e beveva molto. Ora si trattava di scegliere fra un'aperta ribellione e la liquidazione dei suoi amici. Scelse la seconda strada, e lasciò che Saturnino, Glaucia e i loro seguaci venissero lapidati a morte dai conservatori che per l'occasione egli stesso capeggiò. Poi, sapendo ormai di essere inviso a tutti, all'aristocrazia che vedeva in lui un infido alleato, e alla plebe che vedeva in lui un traditore sicuro, si ritirò pieno di rancore e partì per un viaggio in Oriente.

Non erano trascorsi due anni da quando Roma lo aveva trionfalmente accolto come un "secondo Camillo". E se egli avesse accettato con un po' più di filosofia questa ingratitudine, sarebbe passato alla storia con un nome immacolato. Ma era rozzo, passionale, pieno di ambizioni insoddisfatte, e più che mai convinto di essere "l'uomo che ci voleva". Per cui, quando gli avvenimenti lo richiamarono sulla scena, egli vi si ripresentò senza

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esitazione alcuna, a rappresentarvi una parte piuttosto ambigua. Nel 91, Marco Livio Druso fu eletto tribuno. Era un aristocratico, figlio

di colui che si era opposto a Tiberio Gracco, e padre di una ragazza che più tardi sposerà un certo Ottaviano, destinato a diventare Cesare Augusto. Egli propose all'assemblea tre riforme fondamentali: distribuire nuove terre fra i poveri; ridare il monopolio nelle giurie al Senato, ma dopo avervi aggiunto altri trecento membri; e conferire la cittadinanza romana a tutti gl'italiani liberi. L'assemblea approvò i primi due progetti. Il terzo non venne in discussione, perché la mano di un ignoto assassino ne soppresse l'autore.

Subito dopo, tutta la penisola era in armi. Essa seguitava ad essere trattata, dopo secoli di unione a Roma, come una provincia conquistata. La si spremeva con le tasse e con le leve militari. La si sottoponeva a leggi approvate da un Parlamento in cui essa non aveva nessuna rappresentanza. E il grande sforzo dei prefetti romani nei vari capoluoghi era stato quello di fomentarvi il contrasto fra ricchi e poveri in modo da tenerli perpetuamente disuniti. Soltanto qualche milionario aveva ottenuto, brigando e distribuendo mance, la cittadinanza romana. Ma nel 126 l'assemblea aveva proibito agl'italiani di provincia di emigrare nell'Urbe, e nel 95 ne aveva scacciati quelli che c'erano già.

La ribellione si estese in un lampo, salvo in Etruria e Umbria che rimasero fedeli. E reclutò un esercito, armato più di disperazione che di lance e di scudi, specialmente fra gli schiavi, che subito unirono le loro sorti a quelle dei ribelli. Costoro proclamarono una repubblica federale con capitale a Corfinio, che fece tutt'uno della "guerra sociale" con questa seconda "guerra servile". Nel panico che si diffuse a Roma, dove nessuno si faceva illusioni sulla vendetta che quei diseredati dovevano covare verso chi per tanti secoli li aveva oppressi, risorse il mito di Mario, "l'uomo che ci voleva". Egli improvvisò un esercito col suo solito sistema, e lo condusse di vittoria in vittoria, ma senza badare a spese, devastando e massacrando l'intera penisola. Quando già oltre trecentomila uomini erano caduti da ambo le parti, il Senato si decise a concedere la cittadinanza agli etruschi e agli umbri in premio della loro fedeltà, e a tutti coloro ch'erano pronti a giurarla, per fargli deporre le armi.

La pace che seguì fu quella di un cimitero, e torna poco a gloria di colui che l'aveva imposta. Per di più Roma tenne la sua parola inglobando i nuovi cittadini in dieci nuove tribù, che dovevano votare dopo le trentacinque romane che formavano i comizi tributi: cioè senza nessuna possibilità di contraddirne i verdetti. Per ottenere i pieni diritti democratici, essi dovettero

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aspettare Cesare, cui infatti aprirono con tanto entusiasmo le porte, senza rendersi conto ch'egli era la fine della democrazia.

Ed ecco l'anno dopo la guerra riprendere: non più "servile", non più "sociale", ma civile. E stavolta Mario non si limitò ad approfittarne; fu colui che la provocò, convinto di essere ancora "l'uomo che ci voleva".

Un uomo infatti continuava, purtroppo, a volerci. Ma non era più lui. Era quello che, anch'essi per caso com'era capitato ai popolari, avevano trovato i conservatori: l'antico subalterno e questore di Mario in Numidia: Silla.

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CAPITOLO QUINTO

SILLA

SILLA fu eletto console l'anno 88 avanti Cristo, cioè poco dopo la fine

della rivoluzione sociale e servile che Mario aveva così sanguinosamente represso. E la scelta, voluta dai conservatori, era un po' fuori della Costituzione e della consuetudine, in quanto era quella di un uomo che non aveva seguito un regolare cursus honorum.

Lucio Cornelio Silla veniva dalla piccola e povera aristocrazia, e si era sempre mostrato refrattario alle due grandi passioni dei suoi contemporanei: quella per l'uniforme militare, e quella per la toga di magistrato. Aveva avuto una giovinezza scapestrata. Si era fatto mantenere da una prostituta greca più anziana di lui, l'aveva tradita e maltrattata. Non si era mai occupato di politica e di cose serie, forse non aveva fatto nemmeno studi regolari. Però aveva letto molto, conosceva benissimo la lingua e la letteratura greca, e aveva un gusto raffinato in cose d'arte.

Le sue qualità di fondo, ch'erano enormi, forse non sarebbero mai emerse, se, eletto non si sa come questore e assegnato col grado press'a poco di capitano all'esercito di Mario in Numidia, non si fosse trovato direttamente implicato nella liquidazione di Giugurta. Fu lui infatti a persuadere Bocco, il re dei mori, a consegnargli l'usurpatore. Era una brillante operazione che coronava quelle già compiute con la spada in pugno. Silla si era mostrato un magnifico comandante, freddo, scaltro, coraggiosissimo, e di grande ascendente sui soldati. Aveva preso interesse alla guerra, e ci si divertiva perché implicava il giuoco e il rischio: due cose che gli erano sempre piaciute. Perciò seguì Mario anche nelle campagne contro i teutoni e i cimbri, contribuendo potentemente alle sue vittorie.

Rientrato a Roma nel 99 con questi meriti al suo attivo, avrebbe potuto benissimo concorrere a magistrature più alte. Invece, nulla: si era stufato. E per quattr'anni si rituffò nella vita di prima fra prostitute, gladiatori del Circo, poeti maledetti e attori squattrinati. Poi, d'improvviso, si presentò candidato alla pretura, e fu bocciato. Allora, morso dall'orgoglio che in lui teneva il posto dell'ambizione, concorse come edile, fu eletto, e incantò i romani offrendo loro, nell'anfiteatro, lo spettacolo del primo combattimento

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di leoni. L'anno dipoi naturalmente era pretore; e come tale ebbe il comando d'una divisione in Cappadocia per rimettere sul trono Ariobarzane, spodestato da Mitridate. Riportò a Roma, con la vittoria, un grosso bottino. Ma ancora più grosso pare che fosse quello che si era intascato. Era stanco di debiti, e preferiva finanziarsi da solo le campagne elettorali, piuttosto che dipendere da un partito. Infatti non era iscritto a nessuno. Essendo nato aristocratico, ma povero, nutriva la stessa indifferenza e il medesimo disprezzo per l'aristocrazia che lo aveva "snobbato" e per la plebe che non lo considerava dei suoi. Aveva sempre vissuto per se stesso, in compagnia di gente ai margini. E il suo litigio con Mario non avvenne su questioni politiche, ma solo perché si era fatto regalare da Bocco un bassorilievo d'oro in cui era rappresentato il re dei mori che consegnava Giugurta a lui, Silla, invece che a Mario. Miserie, come si vede.

Al consolato dell'88, Silla si presentò non per fare politica, ma per avere il comando dell'esercito che si stava allestendo contro Mitridate nella solita turbolenta provincia dell'Asia Minore, dove già egli aveva combattuto contro Ariobarzane di Cappadocia. E vinse soprattutto per via di donne. Egli infatti divorziò, coprendola di regali, dalla sua terza moglie, Delia, per sposarne una quarta: Cecilia Metella, vedova di Scauro, e figlia di Metello il Dalmatico, pontefice massimo e principe, cioè presidente, del Senato. Fu per questa parentela con una delle sue più potenti famiglie, che l'aristocrazia cominciò a vedere in Silla il proprio campione. E ne favorì l'elezione, assegnandogli subito dopo l'agognato comando.

Il tribuno Sulpicio Rufo cercò d'invalidare queste nomine e propose all'assemblea di trasferirle a Mario che, sebbene quasi settantenne, ancora brigava posti, incarichi e onori. Ma Silla non era uomo disposto a rinunzie. Corse a Nola, dove l'esercito si stava organizzando. E, invece d'imbarcarlo per l'Asia Minore, lo condusse su Roma, dove Mario ne aveva improvvisato un altro per resistergli. Silla vinse facilmente e rapidamente, Mario fuggì in Africa e Sulpicio fu ucciso da un suo schiavo. Silla ne espose sul Rostro la testa decapitata, e compensò l'assassino prima liberandolo in cambio del servigio che aveva reso, eppoi uccidendolo in cambio del tradimento che aveva compiuto.

Altre rappresaglie, dopo questa prima restaurazione, non ce ne furono, o ce ne furono poche. Con i suoi trentacinquemila uomini accampati nel Foro, Silla proclamò che d'ora in poi nessun progetto di legge poteva essere presentato all'Assemblea senza il preventivo consenso del Senato, e che il voto nei comizi doveva essere dato per centurie, secondo la vecchia

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Costituzione serviana. Poi, dopo essersi fatto confermare il comando militare col titolo di proconsole, consentì all'elezione di due consoli per il disbrigo delle faccende in patria: l'aristocratico Cneo Ottavio e il plebeo Cornelio Cinna. E partì per l'impresa che gli stava a cuore. Non era ancora in vista delle coste greche, che già Ottavio e Cinna si azzuffavano. E, dietro di loro, scendevano in lizza per le strade i conser-vatori, o optimates, da una parte, e i democratici o populares dall'altra. La guerra sociale e servile di due anni prima sboccava nella guerra civile. Ottavio vinse e Cinna fuggì, ma in un solo giorno si erano accatastati sui selciati dell'Urbe oltre diecimila cadaveri.

Mario si affrettò a tornare precipitosamente dall'Africa e a raggiungere Cinna, che girava in provincia per suscitarvi la rivolta. Melodramma-ticamente si presentò con una toga a brandelli, i sandali logori, la barba lunga, le cicatrici delle ferite bene in vista. E in un battibaleno raccolse un esercito di seimila uomini, quasi tutti schiavi, con cui marciò sulla capitale, rimasta ormai senza difesa. Fu un massacro. Ottavio aspettò la morte con calma, seduto sul suo scranno di console. Le teste dei senatori, issate sulle picche, furono portate a spasso per le strade. Un tribunale rivoluzionario condannò migliaia di patrizi alla pena capitale. Silla fu proclamato decaduto dal comando, tutte le sue proprietà vennero confiscate, tutti i suoi amici uccisi. Si salvò solo Cecilia perché riuscì a fuggire e a raggiungere il marito in Grecia. Sotto il nuovo consolato di Mario e Cinna, il terrore continuò implacabile per un anno. Avvoltoi e cani mangiavano per le strade i cadaveri, cui si era rifiutata la sepoltura. Gli schiavi liberati seguitarono a saccheggiare, incendiare e rubare finché Cinna, con un distaccamento di soldati galli, non li ebbe isolati, circondati e massacrati tutti. Per la prima volta nella storia di Roma, ci si servì di una truppa forestiera per ristabilire l'ordine nella città.

Furono queste le ultime gesta di Mario, che morì nel bel mezzo della carneficina, roso dall'alcool, dai rancori, dai complessi d'inferiorità, dalle ambizioni deluse che gliel'avevano ispirata. Peccato, per un così grande capitano che, prima d'immergerla nella guerra civile, aveva tante volte salvato la patria.

Restava Cinna, ormai praticamente dittatore, perché Valerio Flacco, eletto al posto di Mario, fu spedito con dodicimila uomini in Oriente per deporvi Silla.

Tagliato dalla madrepatria, costui stava assediando Atene che si era alleata con Mitridate, in arrivo dall'Asia con un esercito cinque volte

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superiore. Era una situazione quasi disperata, che poteva diventare senza uscite, se egli si fosse fatto sorprendere sotto le mura della città da Mitridate e da Flacco contemporaneamente. Ma in Silla, diceva chi lo conosceva, sonnecchiavano insieme una volpe e un leone, e la volpe era molto più pericolosa del leone. Un certo numero di "miracoli" da lui provocati ad arte avevano persuaso i suoi soldati ch'egli fosse un dio e, come tale, infallibile. Era soltanto, si capisce, un formidabile generale che conosceva perfettamente gli uomini e i mezzi per sfruttarne, con freddo e lucido calcolo, la forza e le debolezze. Rimasto senza aiuto di denaro, aveva procurato la "cinquina" alle sue truppe, lasciando loro saccheggiare Olimpia, Epidauro e Delfi. Ma sempre, subito dopo, aveva ristabilito la disciplina. L'imprendibile Atene fu presa con un assalto di sorpresa. E Silla ne ricompensò i soldati lasciando loro in balìa la città. Non si sa quanta gente uccisero, dice Plutarco. Ma il sangue corse a fiumi per le strade e inondò i suburbi.

Dopo giorni e giorni di massacro, Silla che, con tutto il suo amore per la Grecia, per la sua cultura e per la sua arte, vi aveva assistito con totale distacco, disse che in nome dei morti bisognava perdonare ai sopravvissuti. Riordinò le falangi e le condusse contro l'esercito di Mitridate che avanzava su Cheronea e Orcomeno. Lo battè in una magistrale battaglia, ne incalzò i resti attraverso l'Ellesponto fin nel cuore dell'Asia. E si preparava ad annientare definitivamente le ultime forze nemiche, quando Flacco sopraggiunse con l'ordine di sostituirlo al comando.

I due generali s'incontrarono. E, al termine di quella conversazione, Flacco non solo aveva rinunziato a eseguire gli ordini, ma si era spon-taneamente messo sotto quelli di Silla. Il suo luogotenente Fimbria cercò di ribellarsi. E allora Silla offrì una vantaggiosa pace a Mitridate, ga-rantendogli il rispetto del suo reame entro i vecchi confini, ed esigendo solo, per risarcimento, ottanta navi e duemila talenti, con cui pagare la truppa e ricondurla in patria. Poi mosse verso la Lidia incontro a Fimbria, ma non ebbe bisogno di batterlo, perché la truppa, appena lo vide, si unì a quella sua, tale oramai era il prestigio del nome di Silla. E Fimbria, rimasto solo, si uccise.

Silla tornò sui suoi passi senza trascurare di saccheggiar tesori e di spremere quattrini in tutte le province in cui passava. Attraversò la Grecia, imbarcò il suo esercito a Patrasso, e nell'anno 83 arrivò a Brindisi. Cinna, precipitatoglisi incontro per fermarlo, fu ucciso dai suoi soldati. A Roma scoppiò la rivoluzione.

Silla portava al governo un bel bottino: quindicimila libbre d'oro e

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centomila d'argento. Ma il governo, tuttora in mano ai popolari guidati dal figlio di Mario, Mario il Giovane, lo proclamò nemico pubblico e gli mandò incontro un esercito per combatterlo. Molti aristocratici fuggirono dall'Urbe per unirsi a Silla. Uno di essi, Cneo Pompeo, considerato il più brillante campione della "gioventù dorata", gli portò un piccolo esercito personale, composto esclusivamente di amici, clienti e servi della sua famiglia.

In battaglia, Mario il Giovane fu sonoramente battuto. Ma, prima di fuggire a Preneste, mandò l'ordine ai suoi seguaci di Roma di uccidere tutti i patrizi che ancora erano rimasti nella capitale. Il pretore convocò il Senato, com'era suo diritto. E i senatori segnati nella "lista nera" vennero scannati sui loro seggi. Poi gli assassini sgombrarono la città per raggiungere Mario e le altre forze popolari che si preparavano a giocare l'ultima carta contro Silla. La battaglia della Porta Collina fu una delle più sanguinose del-l'antichità. Dei cento e più mila uomini di Mario, oltre la metà giacquero sul terreno. Ottomila prigionieri vennero indiscriminatamente massacrati. E le teste decapitate dei generali, issate sulle picche, furono portate in processione sotto le mura di Preneste, ultimo bastione della resistenza popolare, che poco dopo si arrese. Mario si era già ucciso. Anche la testa sua fu mozzata, spedita a Roma e issata nel Foro.

Il trionfo che la capitale riservò a Silla il 27 e il 28 gennaio dell'81 fu immenso. Il generale era seguito dal corteo entusiasta dei proscritti di Ma-rio, tutti con corone di fiori intorno alla testa, che lo acclamavano come padre e salvatore della patria. E i soldati stavolta non motteggiavano il loro capitano. Osannavano anch'essi. Silla celebrò i sacrifici di rito sul Campidoglio, poi nel Foro arringò la folla ritracciando con ipocrita modestia l'incredibile serie di successi che lo avevano condotto sin lì e ascrivendoli unicamente alla fortuna, in onore della quale chiese, o meglio impose, che gli venisse riconosciuto il titolo di felix, che letteralmente vorrebbe dire felice, ma in questo caso significava baciato dal destino, unto del signore, in una parola "l'uomo della provvidenza". Il popolo s'inchinò, e stabilì di erigergli, per gratitudine, la prima statua equestre, di bronzo dorato, che si fosse vista a Roma, dove non si era mai tollerato che qualcuno venisse rappresentato altrimenti che a piedi.

Non fu questa la sola novità che Silla introdusse per sottolineare l'assolutezza dei suoi poteri. Egli fu il vero inventore del "culto della perso-nalità". Fece coniare nuove monete col suo profilo e introdusse nel calendario, come obbligatorie, le "Feste della vittoria di Silla". Dall'alto del suo totalitarismo di dittatore, trattò Roma come una qualunque città

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conquistata, lasciandola sotto la guardia del suo esercito in armi, e sottoponendola alla repressione più feroce. Quaranta senatori e duemilaseicento cavalieri che avevano parteggiato per Mario furono con-dannati a morte e giustiziati. Premi fino a cinque milioni dì lire furono distribuiti a coloro che consegnavano, vivo o morto, un proscritto fuggitivo. Il Foro e le strade furono ornati di teste decapitate, allegramente, come oggi si fa coi palloncini colorati. Mariti, dice Plutarco, furono scannati tra le braccia delle loro mogli, e figli tra quelle delle loro mamme. Anche molti fra coloro che avevano cercato di barcamenarsi senza prender partito per nessuno vennero soppressi o deportati, specie se erano ricchi: Silla aveva bi-sogno del loro patrimonio per ingrassare i suoi soldati. Uno degl'indiziati era un giovanotto di nome Caio Giulio Cesare che, nipote di Mario per parte della moglie di costui, sì rifiutò di rinnegare lo zio. Poi comuni amici si misero di mezzo, e il giovanotto se la cavò con una condanna al confino. Nel firmare la sentenza, Silla disse, come fra sé e sé: «Commetto una sciocchezza, perché in quel ragazzo ci sono molti Marii». Ciò nonostante, la firmò ugualmente.

Pochi giorni dopo essersi definitivamente insediato al potere, Silla si trovò di fronte, in una pubblica cerimonia, al gesto d'insubordinazione di uno dei suoi più fidi luogotenenti, Lucrezio Ofella, il conquistatore di Preneste, un bravo soldato, ma di carattere spavaldo e indisciplinato. Dinanzi alla truppa, che pure lo adorava, Silla lo fece pugnalare da una guardia, come Hitler doveva fare, duemila anni più tardi, con Roehm, e Stalin con dozzine di suoi amici. Era il segnale della "normalizzazione".

Silla governò da autocrate per due anni. Per colmare i vuoti provocati dalla guerra civile nella cittadinanza, ne concesse il diritto a stranieri, so-prattutto spagnoli e galli. Distribuì terre a oltre centomila veterani, specie in quel di Cuma, dov'egli stesso aveva una fattoria. Per scoraggiare l'urbanesimo, abolì le distribuzioni gratuite di grano. Abbassò il prestigio dei tribuni e ristabilì la regola dei dieci anni d'intervallo per chi concorreva al consolato per la seconda volta. Rinsanguò il Senato, svuotato dai massacri, con trecento nuovi membri della grossa borghesia a lui fedeli; e gli restituì tutti i diritti e privilegi di cui aveva goduto prima dei Gracchi, Era proprio una "restaurazione aristocratica". Egli la compì sino in fondo, congedò l'esercito decretando che d'allora in poi nessuna forza armata potesse più bivaccare in Italia. Poi, ritenendo esaurita la sua missione, in mezzo al generale sbalordimento, rimise nelle mani del Senato i suoi poteri, ripristinò il governo consolare. E, come un privato qualsiasi, si ritirò nella

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sua villa di Cuma. Cecilia Metella, in quel momento, era già morta. Si era ammalata poco

dopo il trionfo di suo marito che, siccome si trattava dì un male infettivo, l'aveva fatta trasportare in un'altra casa, e lì l'aveva lasciata crepare, come una cagna rognosa.

Poco prima dell'abdicazione, Silla, ormai vicino alla sessantina, aveva conosciuto Valeria, una bella ragazza di venticinque anni. Il caso gliel'aveva fatta trovare accanto, al Circo. Essa vide un capello sulla toga del dittatore, e con due dita glielo tolse. Silla si volse per guardarla, stupito dapprima del suo sfrontato ardire, poi dalla sua avvenente bellezza. «Non fartene, dittato-re», gli disse lei, «voglio anch'io partecipare, sia pure solo per un capello, alla tua fortuna». Pare che sia stato l'unico vero disinteressato amore di Silla, troppo egoista per nutrire di questi sentimenti. Egli la sposò di lì a poco, e nessuno può sapere quanto il desiderio di godersi appieno quella bella e giovane moglie abbia influito sui suoi propositi di abdicazione.

Il giorno in cui, deposto il potere e le insegne del comando, egli rincasò come un privato qualsiasi, in mezzo allo sbigottito e impaurito silenzio dei passanti, uno di costoro si mise a seguirlo ingiuriandolo. Silla non si volse, nemmeno quando il marrano gli lanciò uno sberleffo. Solo disse ai pochi amici che lo accompagnavano: «Che imbecille! Dopo questo gesto, non ci sarà più un dittatore al mondo disposto ad abbandonare il potere».

Trascorse gli ultimi due anni della sua vita a far l'amore con Valerla, a cacciare, a discorrere di filosofia con gli amici e a scrivere le sue Memorie, che ci son giunte solo a pezzi e a bocconi. Il "Felice" pare che sia stato felice davvero, in quel crepuscolo della sua esistenza, ch'era stata piena e senza delusioni né rimpianti (di rimorsi egli non era capace), quale egli stesso l'aveva sognata affacciandovisi. Fra i suoi veterani di Cuma, egli restò vigoroso e alacre fino all'ultimo giorno, dirimendo le loro controversie al suo solito modo imperioso e spiccio. Quando un certo Granio gli disobbedì a proposito di non so quale bagattella, lo fece venire nella sua camera e strangolare dai servi, come ai tempi in cui era dittatore. Il suo orgoglio e la sua prepotenza non vennero meno neppure quando si trovò a faccia a faccia con la morte, che bussava alla sua porta sotto forma di un'ulcera maligna che forse era un cancro. Coi suoi occhi celesti e freddi sotto la chioma dorata, con quel pallido viso che sembrava "una bacca di gelso spruzzata di farina", come diceva Plutarco, seguitò a nascondere le sue sofferenze sotto un gaio sorriso e parole scherzose. Prima di spirare, dettò il proprio epitaffio:

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«Nessun amico mi ha reso servigio, nessun nemico mi ha recato offesa, che io non abbia ripagati in pieno».

Era vero.

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CAPITOLO SESTO

UNA CENA A ROMA

LA restaurazione di Silla aveva un difetto fondamentale: era, appunto,

una "restaurazione", cioè qualcosa che negava le esigenze o, come oggi si direbbe, le "istanze" che avevano provocato la rivoluzione. Al suo autore era mancato, per compiere un'opera vitale e duratura, ciò che più le è necessario: la fiducia negli uomini. I quali non se la meritano, ma la esigono in coloro che si propongono di guidarli. Silla non credeva a nulla, e tanto meno alla possibilità di migliorare i suoi simili. L'amore che aveva per se stesso era così grande che non gliene restava per loro. Li disprezzava ed era convinto che l'unica cosa da fare era tenerli in ordine. Per questo aveva creato un formidabile apparato poliziesco e lo aveva lasciato in appalto all'aristocrazia: non perché la stimasse, ma perché era convinto che gli altri, popolari, fossero ancora più spregevoli e che ogni loro riforma sarebbe stata un peggioramento. La conseguenza fu che dieci anni dopo la sua morte la sua opera politica era in pezzi.

I patrizi che si erano ritrovati con tutto quel potere in mano, invece di usarlo per rimettere ordine nel governo e nella società, ne approfittarono per rubare, corrompere e uccidere. Tutto oramai non era più che una questione di quattrini. Comprare l'elezione a una carica era un'operazione normale, e c'era un'industria apposta per procurare voti, con tecnici specializzati: gli interpreti, i divisori e i sequestri. Pompeo, per far eleggere il suo amico Afranio, invitò nel suo palazzo i capi delle tribù, e contrattò i loro suffragi come altrettanti sacchi di mele. Nei tribunali avveniva anche peggio. Lentulo Sura, assolto dai giurati con due voti di maggioranza, disse, picchiandosi una manata sulla fronte: « Accidenti, ne ho comprato uno di troppo. E ai prezzi cui sono saliti!...».

Poiché tutto dipendeva dal denaro, il denaro era diventato la sola preoccupazione di tutti. Nella burocrazia c'erano ancora, si capisce, fun-zionari capaci e onesti. Ma la maggior parte erano dei predoni incompetenti che, per avere un posto nell'amministrazione di una provincia, non solo rinunciavano agli stipendi, ma lo pagavano, sicuri di potere, in un anno, abbondantemente rifarsi. E infatti si rifacevano: con le tasse, con la rapina,

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con la vendita degli abitanti come schiavi. Cesare, quando gli fu assegnata la Spagna, doveva ai suoi creditori qualcosa come mezzo miliardo di lire. In un anno ripagò tutto. Cicerone si guadagnò il titolo di "galantuomo" perché, nel suo anno di governo in Cilicia, mise da parte solo sessanta milioni, e lo strombazzò a tutti come un esempio nelle sue lettere.

I militari non si comportavano meglio. Lucullo tornò a casa, dalle sue imprese in Oriente, miliardario. Pompeo portò dalle stesse regioni un bottino di sei o sette miliardi al tesoro dello stato e di quindici a quello suo privato. Tale era la facilità di moltiplicare il capitale quando se ne aveva abbastanza per comprarsi una carica, che i banchieri lo prestavano a chi non ne aveva a un tasso d'interesse del cinquanta per cento. Il Senato proibì ai suoi membri di praticare questa ignobile usura. Ma il divieto fu aggirato con dei prestanome. Anche uomini di grande dignità come Bruto erano associati con strozzini che amministravano il loro denaro prestandolo a quelle po' po' di condizioni. In mano a una classe dirigente così corrotta, Roma era ormai diventata una pompa che succhiava quattrini in tutto il suo impero per consentire a una categoria di satrapi una vita sempre più fastosa e un lusso sempre più insolente.

Una sera Cicerone cominciò a prendere in giro Lucullo per la fama che si era fatto di raffinato ghiottone. Cicerone era un giovane avvocato di Arpino, figlio di un agricoltore benestante, che gli aveva dato una buona educazione. Appena ventisettenne e ancora quasi del tutto sconosciuto, aveva affrontato un processo celebre e per lui molto pericoloso: perché si trattava di difendervi Roscio contro Crisògono, ch'era un grande favorito di Silla, in quel momento ancora dittatore. Vinse con un'arringa magistrale. Poi, forse temendo qualche rappresaglia da parte di Silla, partì per la Grecia dove rimase tre anni a studiarvi la lingua, l'oratoria di Demostene e la filosofia di Posidonio, mediocre epigono di Socrate e della scuola stoica.

Tornò tre anni dopo, quando Silla era già morto, sposò Terenzia e la sua dote, ch'era cospicua e, con la professione di avvocato, coltivò la politica che del resto vi era strettamente connessa. Subito ebbe per le mani un altro celebre processo, quello contro Verre, un senatore che, andato a governare la Sicilia, vi aveva commesso ogni sorta di ladronerie e birbonate, ma era sostenuto da tutta l'aristocrazia. Si trovò contro Ortensio, il principe del Foro romano, l'avvocato di fiducia dell'aristocrazia e del Senato. Quella causa fu un po' l'affare Dreyfus del tempo, con i patrizi da una parte, e il popolo, ma soprattutto la grande borghesia equestre dall'altra. E ancora una volta Cicerone vinse, togliendo lo scettro di mano a Ortensio e diventando così

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l'idolo di una classe sociale ch'era anche quella in cui egli stesso era nato. Lucullo era un ex luogotenente di Silla, che per otto anni ne aveva

proseguito l'opera in Oriente combattendo contro Mitridate. Veniva da una famiglia aristocratica, povera e malfamata. Dicevano che suo padre si era fatto corrompere dagli schiavi insorti in Sicilia, che suo nonno aveva rubato statue e che sua madre aveva più amanti che capelli in testa. Forse eran tutte calunnie. Comunque Lucullo, da giovane, non aveva mostrato nessuno di questi vizi, aveva soltanto una grande ambizione e tutte le qualità per soddisfarla: l'intelligenza, l'eloquenza, la cultura e il coraggio. Finché era stato vivo Silla, che per lui aveva un debole, la carriera gli era stata facile. Morto il protettore, non aveva esitato, per continuarla, a procurarsi i favori di una donna, Precia, molto potente per i suoi amorosi intrighi; e attraverso di lei ebbe il proconsolato della Cilicia, cioè la possibilità di seguitare a comandare, a guerreggiare, a vincere e ad arricchirsi con le spoglie del nemico. Per raggiungere, come capitano, la statura dei Mario, dei Silla e dei Cesare, gli mancò una qualità sola: l'intuito psicologico. Condusse i suoi soldati di vittoria in vittoria, ma li stancò fino al punto di provocarne l'ammutinamento. E come, per intrigo, aveva avuto il comando, per intrigo lo perse. Richiamato a Roma, si era ritirato dalla vita pubblica, e ora badava soltanto a godersi le sue ricchezze, ch'erano immense, e a farne insolente sfoggio. La villa di Miseno gli era costata oltre un miliardo di lire, la fattoria di Tuscolo aveva oltre ventimila ettari, e il palazzo che si era costruito al Pincio era celebre per la galleria di statue, per i preziosi manoscritti che aveva saccheggiato in Oriente, per i giardini dov'egli coltivava con diligenza di appassionato botanico piante sino ad allora ignote a Roma, come il ciliegio, e soprattutto per la sua cucina, laboratorio delle più raffinate squi-sitezze.

Cicerone dunque una sera, in un ritrovo di amici, cominciò a prendere in giro Lucullo sulla sua ghiottoneria dicendo che si trattava di una posa e scommettendo che se si fosse andati a casa sua senza avvertire i cuochi, si sarebbe trovata una cena frugale, da contadini o da soldati. Lucullo accettò la sfida, invitò tutti a fare un sopralluogo e solo chiese il permesso di mandare ai suoi servitori l'ordine di apparecchiare per tutti nella sala di Apollo. Bastò, per far capire al suo personale di cosa si trattava; nella sala di Apollo, un pranzo non poteva costare meno di duecentomila sesterzi. Vi erano d'obbligo, come antipasti, frutti di mare, uccellini di nido con asparagi, pasticcio d'ostrica, scampi. Poi veniva il pranzo vero e proprio: petti di porchetta, pesce, anatra, lepre, tacchino, pavoni di Samo, pernici di

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Frigia, morene di Gabes, storione di Rodi. E formaggi, e dolci, e vini. Plutarco, che ci racconta l'episodio, non dice chi intervenne al banchetto.

Ma doveva esserci il fior fiore della società romana. Non mancava certamente Marco Licinio Crasso, un aristocratico figlio di un famoso luogotenente di Silla, che si era ucciso piuttosto che arrendersi a Mario. Silla aveva ricompensato l'orfano lasciandogli comprare a prezzi di liquidazione i beni dei marianisti proscritti e permettendogli di organizzare il primo corpo dei pompieri che si sia visto a Roma. Quando scoppiava un incendio, Crasso correva sul posto; ma, invece di spegnere le fiamme, contrattava su due piedi l'edificio che bruciava col proprietario, ch'era sempre ben felice di liberarsene. E solo quando era suo metteva in azione le pompe. Altrimenti, lo lasciava bruciare. Un altro che certamente non poteva mancare era Tito Pomponio Attico che, sebbene di ascendenze borghesi, rappresentava un tipo di aristocratico più raffinato. Non avendo bisogno d'insudiciarsi con affari loschi perché era già ricchissimo di famiglia, aveva badato soltanto a perfezionare la sua cultura a Atene. Lì lo conobbe Silla e ne rimase così sedotto che voleva farne un suo collaboratore. Ma Attico aveva rinunziato per seguitare a studiare. Poi investì il suo patrimonio, che assommava a quasi un miliardo, in una fattoria in Epiro per l'allevamento del bestiame, nell'acquisto di appartamenti a Roma, in una scuola per gladiatori, e in una casa editrice per libri di alta cultura. Cicerone, Ortensio, Catone e molti altri grossi personaggi del tempo si servivano di lui, oltre che come consigliere finanziario, anche come banca di deposito. E tali erano la stima e il prestigio di cui godeva che, sebbene vivesse frugalmente, da vero epicureo, non c'era salotto della società romana dove non fosse in permanenza invitato, né festa cui non partecipasse.

E ci sarà stato certamente anche Pompeo, il favorito e genero di Silla che, con un po' d'ironia, lo chiamava "il Grande". Di lignaggio equestre, cioè borghese, anche lui, era il "principe azzurro" della "gioventù dorata" di Roma. Si era guadagnato la vittoria sul campo e un trionfo, prima ancora di raggiungere la maggiore età. Ed era così bello che la cortigiana Flora diceva di non potersi staccare da lui senza dargli un morso. Passava per un giovane integro e, per quel tempo, lo era: cercava di fare il bene di tutti con lo stesso impegno con cui faceva quello suo proprio. Gli si attribuivano molte ambizioni. In realtà ne aveva una sola: quella di essere al di sopra di tutti, in tutto. Ma, più che un'ambizione, era una vanità.

Eran tutti personaggi che, nella Roma stoica di tre secoli prima, non si sarebbero incontrati. E non solo per la foggia raffinata dei loro abiti, per i

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piatti che mangiavano, e per i discorsi che tenevano in un bel latino liscio e pulito, condito di richiami letterari, ma anche perché a queste feste partecipavano in compagnia delle donne ormai uscite dal loro stato di soggezione. Clodia, la moglie di Quinto Cecilio Metello, era a quei tempi la "prima signora" della città, e faceva scuola alle altre. Essa era femminista, usciva sola la sera e, quando incontrava un conoscente, invece di abbassare pudicamente gli occhi com'era sempre usato, lo abbracciava e baciava. Invitava a cena gli amici quando suo marito era assente, affermava il diritto alla poligamia anche per le donne, e lo praticò senza risparmio, prendendosi amanti a dozzine e piantandoli con molta grazia, ma senza rimorso. Uno di essi fu il poeta Catullo, che non riuscì più a dimenticarla, si strusse di gelosia e la sfogò nei suoi versi, dov'essa appare col nome di Lesbia. Celio, un altro abbandonato, per vendicarsi, l'accusò in tribunale di averlo voluto avvelenare e la chiamò pubblicamente quadrantaria, che vuol dire "quarto di centesimo": la tariffa delle prostitute povere. Clodia fu condannata a una multa: non perché fosse colpevole, ma perché era la sorella di Publio Clodio, uno dei capi del partito radicale, inviso agli aristocratici allora onnipotenti e nemico giurato di Cicerone, che sostenne le parti di Celio dicendo che gli seccava accusare una donna, e specialmente quella che si era mostrata così buona amica di tanti uomini.

Con questi esempi davanti agli occhi, era difficile alle ragazze trasformarsi in buone madri di famiglia. Dettati unicamente dai calcoli politici e d'interesse, i matrimoni si facevano e si disfacevano con disinvoltura. Pompeo, per fare carriera, divorziò dalla prima moglie per sposare Emilia, la figliastra di Silla. Poi, rimasto vedovo, sposò Giulia, la figlia di Cesare, che di mogli ne cambiò quattro e le tradì regolarmente tutte. «Questa città», diceva Catone, «non è più che un'agenzia di matrimoni politici corretti dalle corna». E Metello il Macedonico, in un accorato discorso ai suoi compatrioti, li invitò a mettere ordine nella loro vita familiare dicendo: «Capisco anch'io che una moglie è soltanto una noia...». Il matrimonio con mano, cioè quello che non ammetteva divorzio, era praticamente scomparso, appunto per consentire ai coniugi di rinnegarlo quando volevano. E bastava, per farlo, una semplice lettera. Figli non se ne volevano, perché sarebbero stati un impaccio. Essi erano diventati ormai un lusso che solo i poveri potevano consentirsi. Non più preoccupate dalle gestazioni, dagli allattamenti e dalle pappine, le spose cercavano, come oggi si direbbe, "evasioni". E le trovavano soprattutto nelle tresche amorose e nella cultura, che ormai cominciava a diventare un fatto mondano e di

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salotto. I gusti letterari di questa società ricca e frivola non si orientarono verso il

più grande poeta e scrittore del tempo, Lucrezio. L'autore di De rerum natura fu probabilmente un aristocratico, ma visse ritiratissimo anche per ragioni di salute: pare che fosse afflitto da una forma ciclica di mania depressiva, e la sua ispirazione era troppo alta, tragica e profonda per diventare di moda. A furoreggiare era Catullo, poeta facile e sentimentale, qualcosa di mezzo fra Gozzano e Géraldy. Era un borghese di Verona, benestante e avaro, che piangeva sempre miseria, ma aveva casa a Roma, una villa a Tivoli e un'altra sul Garda. Piaceva alle signore perché parlava solo d'amore e aveva reso morbida e salottiera una lingua che sembrava fatta solo per codici di legge e proclami di vittoria.

Con lui andavano per la maggiore Marco Celio, un aristocratico squattrinato, simpatizzante per le idee comuniste; Licinio Calvo, un dilettante di poesia e di oratoria non privo d'ingegno; e Elvio Cinna, che, dopo la morte di Cesare, fu scambiato per sbaglio per uno degli assassini e ucciso dalla folla. Erano tutti degl'intellettuali "di sinistra", che si opponevano alla dittatura senza far nulla per difendere la democrazia. Ma ebbero un'influenza superiore forse ai loro meriti, perché ora avevano a disposizione, oltre ai salotti e alle donne, una vera e propria editoria per diffondere le proprie opere.

Attico aveva introdotto la pergamena, e ne faceva "volumi" (che vuol dire "rotoli") con pagine composte di due o tre "colonne" di manoscritto. Adibiti a riempirle a mano erano schiavi specializzati, cui si pagava solo il mantenimento. Nemmeno gli autori erano retribuiti se non con qualche dono occasionale; e quindi solo i ricchi, praticamente, potevano dedicarsi alla letteratura. Un'edizione si aggirava quasi sempre sulle mille copie che venivano distribuite ai librai, dai quali venivano a comprare gli amatori. Fu uno di costoro, Asinio Pollione, a istituire la prima biblioteca pubblica di Roma.

Questo progresso tecnico stimolò la produzione. Terenzio Varrone pubblicò i suoi saggi sulla lingua latina e sulla vita rustica. Sallustio, fra una battaglia politica e l'altra, diede alle stampe le sue Storie, magnificamente scritte, ma piuttosto partigiane. E Cicerone, diventato ormai "il maestro" per eccellenza dell'arte oratoria, tradusse in libri le sue orazioni, di cui soltanto cinquantasette sono giunte sino a noi.

La cultura insomma non era più il monopolio di qualche solitario specialista, ma aveva cominciato a diffondersi in quella società che oramai

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voltava risolutamente le spalle ai rudi costumi e alla sana ignoranza della prima èra repubblicana. Ci si avvicinava a quella che si suoi chiamare "l'età dell'oro" di Roma, e che, come tutte le "età dell'oro", preluse all'agonia della sua civiltà.

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CAPITOLO SETTIMO

CICERONE

POMPEO e Crasso, che abbiamo incontrato nel capitolo precedente, non

erano soltanto dei gaudenti affaristi, ma anche degli uomini politici che pretendevano recitare una parte di primo piano. E ci riuscirono, sebbene poi l'abbiano pagata ambedue con la vita.

Come favoriti di Silla, ebbero dapprincipio la carriera facile. Fu infatti a loro che, dopo il ritiro del dittatore, il Senato ricorse mettendoli alla testa di due eserciti, per domare le rivolte di Spagna e d'Italia.

La Spagna si era già rivoltata varie volte contro le malversazioni dei governatori romani. Ma ora alle malversazioni si erano aggiunte le inutili crudeltà. Nel 98 il generale Didio, imitando l'esempio del suo predecessore Sulpicio Galba, attirò nel suo campo una intera tribù d'indigeni con la promessa di una distribuzione di terre, e la sterminò. Un suo ufficiale, Quinto Sertorio, indignato da sì inutili barbarie, disertò, chiamò alle armi le altre tribù, organizzò fra loro un esercito, per otto anni lo condusse di vittoria in vittoria contro i romani, e per altrettanti governò saggiamente la "provincia". Metello, il generale che il Senato aveva mandato a combatterlo, non riuscendo a venirne a capo, promise qualcosa come duecento milioni di lire e diecimila ettari di terra a chi riuscisse a ucciderlo. Perpenna, altro rifugiato romano nel campo di Sertorio, lo pugnalò. Ma, invece di andare a riscuotere il premio, preferì prendere l'eredità del morto e continuare in proprio la guerra. Allora il Senato mandò Pompeo, che sconfisse facilmente il rinnegato, lo catturò e lo soppresse, restituendo la Spagna alle malversazioni dei governatori.

Più grave era la rivolta che intanto stava insanguinando l'Italia. Lentulo Baziate teneva a Capua una scuola di gladiatori, frequentata naturalmente da schiavi, che vi si preparavano, praticamente, alla morte nel Circo per il divertimento degli spettatori. Un giorno duecento tentarono di fuggire, settantotto ci riuscirono, saccheggiarono i dintorni e si scelsero come capo un tracio di nome Spartaco, che dovett'essere un uomo di buon lignaggio e di notevoli qualità. Egli lanciò un appello a tutti gli schiavi d'Italia, che si contavano a milioni, ne organizzò settantamila in un esercito assetato di

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libertà e di vendetta, insegnò loro a fabbricarsi le armi, e batté i generali che il Senato gli mandò contro.

Queste vittorie non lo ubriacarono. Era un politico accorto e sapeva benissimo che la sua era, a lungo andare, una lotta senza speranza. Per cui avviò la sua orda verso le Alpi, col proposito, una volta, attraversatele, di scioglierla e di rimandare ognuno a casa propria. Così almeno racconta Plutarco. Ma i suoi seguaci vollero tornare indietro, si misero a saccheggiare città e campagne, e Spartaco, che doveva essere un uomo di coscienza e che cercava d'impedire queste predonerie, non si sentì di abbandonarli. Perse una battaglia, ne vinse un'altra ancora contro Cassio. E finalmente si trovò a faccia a faccia con l'Urbe che trattenne il fiato nel terrore di vedere tutti gli schiavi d'Italia e quelli di Roma stessa, che vi costituivano una pericolosa quinta colonna, unirsi agl'insorti e formare con loro una valanga.

Allora fu dato il comando a Crasso, e sotto le sue bandiere si arruolò volontariamente il fiore dell'aristocrazia. Spartaco si rese conto di avere di fronte a sé l'Impero, e si ritirò verso il Sud pensando di traghettare le sue forze in Sicilia e di lì in Africa. Crasso lo seguì, agganciò e distrusse la sua retroguardia, lo incalzò. A marce forzate, dalla Spagna, stava intanto sopravvenendo Pompeo con le sue legioni. Conscio di essere ormai alla fine, Spartaco attaccò, si gettò di persona in mezzo alla mischia, uccise di sua mano due centurioni e fu a sua volta talmente crivellato di colpi che non fu più possibile, dopo, identificarne il cadavere.

La maggior parte dei suoi uomini perirono con lui. Circa seimila, snidati nei boschi, vennero crocefissi ai margini della via Appia.

Correva l'anno 71, e i due vittoriosi generali, di ritorno a Roma, non congedarono i loro eserciti, come voleva la legge e come desiderava il Senato. Fra loro non si amavano: erano ambedue troppo ricchi, troppo fortunati e troppo ambiziosi. Ma quando il Senato rifiutò il trionfo a Pompeo e la distribuzione di terre ch'egli aveva promesso ai suoi veterani, strinsero alleanza e accamparono minacciosamente i loro uomini nei dintorni della città stessa.

Subito i popolari, che dalla morte di Silla spiavano il momento di vendicarsi dei soprusi dell'aristocrazia, si schierarono intorno a loro, ne fecero i propri campioni, e li elessero consoli per l'anno 70. Pompeo e Crasso non erano affatto popolari: appartenevano anzi per nascita all'alta borghesia. Ma il cieco egoismo dell'aristocrazia aveva sortito appunto questo effetto: di spingere l'alta borghesia dalla parte del proletariato. I due consoli infatti, come prime misure, adottarono quella di restaurare il potere

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dei tribuni, che Silla aveva esautorato, e di togliere ai patrizi il monopolio delle giurie nei tribunali, riammettendovi anche i cavalieri. Dopodiché rinnovarono la loro alleanza per la spartizione dei vantaggi personali. Pompeo avrebbe avuto il comando supremo delle operazioni in Oriente sostituendovi Lucullo e aggiungendo ai suoi poteri di generale quelli di ammiraglio per la repressione dei pirati del Mediterraneo che rendevano insicure le rotte per l'Asia Minore; in compenso s'impegnava a riaprire i mercati orientali agl'investimenti dei banchieri, alleati di Crasso, che ne diventava così il supremo patrono.

Nel Senato, che si oppose unanimemente a questa misura, una sola voce si elevò a difenderla: quella di un giovane, tuttora quasi sconosciuto e poco amato dai suoi aristocratici confratelli: Giulio Cesare. L'Assemblea l'approvò altrettanto unanimemente, trascinata da un altro giovane: Cicerone. La vittoria dell'Assemblea e di Pompeo segnò la fine della supremazia patrizia e della restaurazione sillana che vi era imperniata sopra, ed ebbe conseguenze decisive sul seguito degli avvenimenti. Subito dopo la partenza di Pompeo alla testa di centoventicinquemila uomini, cinquecento navi e centocinquanta milioni di sesterzi, il commercio con l'Oriente riprese, e di conseguenza cadde il prezzo del grano, sostegno dell'aristocrazia terriera.

Solo un avvenimento venne a turbare questo pacifico e progressivo ritorno alla democrazia, ridando ossigeno alla reazione. Noi non conosciamo Lucio Sergio Catilina che dalle descrizioni dei suoi nemici, e particolarmente di Sallustio e di Cicerone. Quest'ultimo ce lo dipinge come: un torbido individuo in perpetuo litigio con dio e con gli uomini, che non riusciva a trovar pace né in sonno né da desto: di qui il suo colorito terreo, i suoi occhi iniettati di sangue, il suo andazzo epilettico: in breve, il suo aspetto di pazzo. Il guaio è che Cicerone era, per parte di moglie, cognatastro di una vestale, della cui deflorazione Catilina era stato accusato. Al processo lo avevano assolto. Ma nei salotti si diceva ch'era vero e che non faceva meraviglia poiché aveva già assassinato il proprio figlio per contentare la sua amante.

Forse anche per questa ostilità che incontrava dovunque, Catilina, sebbene di aristocratiche ascendenze, passò dalla parte dei più scalmanati popolari e si tinse di giacobinismo. Il suo programma era radicale: reclamava l'abolizione di tutti i debiti per tutti i cittadini. E si cominciò a sussurrare ch'egli aveva già organizzato una banda di quattrocento disperati per uccidere i consoli e impadronirsi del governo.

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In realtà nessuno vide mai questa famosa banda, e Catilina si contentò di presentare molto democraticamente la sua candidatura al consolato, sperando evidentemente che sul suo nome si facesse l'unanimità antisenatoriale che aveva così bene funzionato per Crasso e Pompeo. Ma l'alta borghesia, cui appartenevano i creditori e che aveva in gran sospetto quella specie di comunista, stavolta non marciò. Essa era con la plebe quando si trattava di rintuzzare i monopoli dell'aristocrazia; ma era con l'aristocrazia, e quindi col Senato, quando erano in giuoco lo stato e il capitalismo.

Lo si vide nell'atteggiamento di Cicerone che oppose la propria candidatura a quella di Catilina e vinse predicando la "concordia degli or-dini", cioè la Santa Alleanza dell'aristocrazia con la grande borghesia, e di essa fu per quell'anno il grande interprete.

Trombato alle elezioni, come oggi si direbbe, Catilina cominciò a organizzare la famosa congiura raccogliendo segretamente qualche migliaio di seguaci a Fiesole e costituendo una quinta colonna anche nell'interno della città. Di essa faceva parte un po' di tutto: schiavi, senatori e due pretori, Cetego e Lentulo. Con questa forza alle spalle si ripresentò l'anno dopo alle elezioni e, per assicurarsene l'esito, architettò l'assassinio del suo rivale e di Cicerone.

Questa fu almeno la versione che costui diede, quando si presentò nel Campo di Marte seguito dai suoi armigeri per il conteggio dei voti. Catilina risultò ancora una volta battuto.

Il 7 novembre del 63, Cicerone disse che durante la notte i cospiratori erano venuti a casa sua per ucciderlo, ma erano stati ricacciati dalle sue guardie. E l'indomani, incontrando Catilina in Senato, pronunciò contro di lui quella celebre orazione («Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?...») che tuttora costituisce la croce e la delizia degli studenti di ginnasio. Non gli bastò un giorno, per quella requisitoria: gli ce ne vollero tre. Fu il suo capolavoro, e vi profuse in egual misura tutti i tesori della sua eloquenza rotonda e cantante, della sua vanità e della sua gigioneria.

II 3 dicembre riuscì a far spiccare mandato di arresto contro Lentulo, Cetego e altri cinque cospiratori di alto rango. Ma già Catilina, nottetempo e in silenzio, aveva abbandonato Roma e raggiunto le sue truppe in Toscana. Il 5 Cicerone chiese che i prigionieri fossero condannati a morte. Silano e Catone il Giovane lo appoggiarono. E a difendere gl'imputati di nuovo non si levò che una fresca e giovane voce: quella di Cesare, fedele avvocato dei popolari, che chiese una semplice pena detentiva. La sua oratoria,

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all'opposto di quella di Cicerone, era sobria e scarna. Quand'ebbe finito di parlare, alcuni giovani aristocratici cercarono di ucciderlo. Cesare riuscì a sfuggire, mentre Cicerone si recava alla prigione per far eseguire la sentenza e l'altro console, Marco Antonio, padre di un giovanotto destinato a diventare più famoso di lui, partiva alla testa dell'esercito per annientare Catilina.

La battaglia ebbe luogo presso Pistoia, e nessuno degl'insorti si arrese. Schiacciati dal numero, combatterono sino all'ultimo uomo intorno alla loro bandiera, le aquile di Mario, e a Catilina, che ne seguì la sorte.

Il primo ad essere sorpreso ed entusiasmato dell'energia che aveva mostrato, fu Cicerone, che non sospettava di averne tanta. In un discorso al Senato egli disse modestamente che l'impresa che aveva compiuto era così grande da superare i limiti di quelle consentite agli uomini. E, posta così la candidatura alla divinizzazione, aggiunse che avrebbe paragonato se stesso a Romolo se il salvataggio di Roma non fosse stato un avvenimento molto più glorioso della sua fondazione.

I senatori sorrisero a quel linguaggio, ma gli decretarono volentieri il titolo di "Padre della Patria". E quando, alla fine del 63, egli lasciò la carica, lo scortarono in segno di omaggio fino a casa. Tutto questo contribuì ancora di più a montare la testa del grande oratore, che ormai si considerava l'arbitro di Roma. Egli possedeva ville ad Arpino, Pozzuoli e Pompei, una fattoria di cinquantamila sesterzi a Formia, un'altra di cinquecentomila a Tuscolo, e un palazzo di tre milioni e mezzo sul Palatino. Era tutta roba comprata con prestiti dai clienti perché la legge proibiva agli avvocati di rimettere "parcelle". E i "prestiti", che naturalmente non venivano rim-borsati, le sostituivano. Ma Cicerone escogitò anche un altro mezzo per arricchire: i testamenti, dove si faceva designare erede. In trent'anni ereditò dalla sua clientela venti milioni di sesterzi, un miliardo di lire.

Era logico che un simile uomo predicasse la "concordia degli ordini" cercando un punto di equilibrio, che non fosse la bieca reazione di una casta aristocratica cui non apparteneva, ma nemmeno il progressismo di chi era interessato al generale livellamento.

Ricco com'era, principe del Foro e "Padre della Patria", sembrava che non gli mancasse più nulla. Invece gli mancava la cosa più importante: la pace in famiglia. Terenzia era una sposa virtuosa e insopportabile che gli avvelenò la vita con i suoi nervi, i suoi acciacchi reumatici e un'eloquenza non inferiore a quella del marito. Due oratori, in una casa, sono troppi. Il principe del Foro, in quella sua, cedeva lo scettro alla moglie, che lo usava a

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proposito e a sproposito per lamentarsi continuamente di qualcosa. Quando alla fine si decise a lasciarlo vedovo, Cicerone la rimpiazzò con Publilia, che gli portò una dote non inferiore a quella della povera defunta. Ma poi la mandò via perché non era nelle grazie di sua figlia Tullia, l'unico suo vero e disinteressato affetto.

Dopo l'affare Catilina, la sua stella politica cominciò a tramontare, sebbene qualche bagliore le fosse ancora riservato sotto Cesare, di cui fu a volta a volta amico e nemico, come vedremo, ma a cui non perdonò il fatto di essere un oratore grande per lo meno quanto lui, sebbene in tutt'altro stile. Sempre più intensi diventarono i suoi ozi letterari, cui dobbiamo alcune fra le più belle pagine della lingua latina. A noi piacciono soprattutto, per la loro immediatezza, le lettere, piene di aneddoti autobiografici. Ne scrisse a profusione e vi si dipinse qual era: un lavoratore assiduo, un tenero padre, un accorto amministratore delle finanze pubbliche e di quelle private, il buon amico di amici che potevano essergli utili, e un vanitoso così inconscio della propria vanità da immortalarla in una prosa impeccabile con una specie di candore che ne redime il difetto quasi trasformandolo in virtù.

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CAPITOLO OTTAVO

CESARE

NEL momento in cui Catilina cadeva, giungeva a Roma Metello Nepote,

luogotenente e avanguardia di Pompeo, sbarcato a Brindisi di ritorno da un seguito di brillanti vittorie in Asia Minore. Aveva anticipato il viaggio per concorrere alla carica di pretore e, una volta eletto, favorire una nuova candidatura di Pompeo al consolato.

Il primo obbiettivo lo raggiunse coi voti dei popolari, ma si trovò accanto come collega Marco Catone, rappresentante dei più intransigenti conservatori, i quali, dopo la vittoria su Catilina, credevano di essere ridiventati i padroni della situazione. Essi non videro perché dovevano ap-poggiare le ambizioni di Pompeo, il quale non avrebbe chiesto di meglio che di diventare il loro campione. Se l'avessero scelto come tale, forse si sarebbero salvati, o per lo meno avrebbero ritardato la propria disfatta, visto il prestigio di cui Pompeo godeva. Ma la maggior parte erano invidiosi di lui, della sua ricchezza, dei suoi successi, e pensarono di non averne bisogno.

Ancora una volta una sola voce in Senato fece "stecca" sul coro, appoggiando Pompeo: quella di Cesare, anche lui pretore. L'Assemblea quel giorno fu tumultuosa. Cesare, destituito insieme con Nepote, fu salvato dalla folla che venne a proteggerlo e che voleva sollevarsi. Egli la calmò e la rimandò a casa. Per la prima volta il Senato si accorse che quel giovanotto rappresentava qualcosa e si rimangiò la destituzione.

Caio Giulio Cesare aveva allora ventisette anni e veniva, come Silla, da una famiglia aristocratica povera che faceva risalire le sue origini ad Anco Marzio e a Venere, ma che, dopo questi opinabili antenati, non aveva più dato alla storia di Roma personaggi di grido. C'erano stati dei Giuli pretori, questori, e anche consoli. Ma di ordinaria amministrazione. La loro casa sorgeva nella Suburra, il quartiere popolare e malfamato di Roma, e qui egli nacque chi dice nel 100, chi nel 102 avanti Cristo.

Non sappiamo nulla della sua infanzia, se non ch'ebbe come precettore un gallo, Antonio Grifone, il quale, oltre al latino e al greco, gl'insegne forse qualcosa di molto utile sul carattere dei suoi compatrioti. Pare che nella

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pubertà fosse afflitto da mali di testa e attacchi di epilessia, e che la sua ambizione fosse allora quella di diventare uno scrittore. Fu calvo molto presto e, vergognandosene, cercò di rimediarvi coi "riporti", tirandosi i capelli dalla nuca alla fronte. Perdeva molto tempo ogni mattina in questa complicata operazione.

Svetonio dice ch'era alto, piuttosto grassottello, di pelle chiara, d'occhi neri e vivi. Plutarco dice ch'era magro e di mezza taglia. Forse hanno ragione ambedue. L'uno lo descrive da giovane, l'altro da uomo maturo, quando di solito ci si appesantisce un po'. I lunghi periodi di vita militare dovettero irrobustirlo. Fu sin da ragazzo un eccellente cavaliere, e usava galoppare con le mani incrociate dietro la schiena. Ma camminava molto anche a piedi alla testa dei suoi soldati, dormiva nei carri, mangiava sobriamente, il suo sangue si serbava sempre freddo e il suo cervello lucido. Di viso non era bello. Sotto quel cranio pelato e un po' troppo massiccio, c'erano un mento quadrato e una bocca arcuata e amara, incorniciata da due rughe dritte e profonde, e col labbro di sotto che sporgeva su quello di so-pra. Tuttavia fu sempre fortunato con le donne. Ne sposò quattro e ne ebbe infinite altre come amanti. I suoi soldati lo chiamavano moechus calvus, l'adultero calvo e, quando sfilavano per le vie di Roma in occasione di un trionfo, gridavano: « Ehi, uomini, chiudete in casa le vostre mogli: è tornato il seduttore zuccapelata!». E Cesare era il primo a riderne.

Contrariamente a una certa leggenda che lo riveste di una seriosa - sussiegosa solennità, Cesare era un perfetto uomo di mondo, galante, elegante, spregiudicato, ricco di umorismo, capace di incassare i frizzi altrui e di rispondervi con mordente sarcasmo. Era indulgente coi vizi degli altri, perché aveva bisogno che gli altri lo fossero coi suoi. Curione lo chiamava "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti". E una delle ragioni per cui gli aristocratici l'odiarono tanto era ch'egli seduceva regolarmente le loro spose, le quali a dire il vero facevano a gara per essere sedotte. Fra esse c'era anche Servilia, sorellastra di Catone, che anche per questo gli fu irriducibilmente ostile. Servilia gli era così devota che gli sacrificò anche la figlia Terzia, cui lasciò il suo posto quando gli anni l'obbligarono a ritirarsi. Cesare ricompensò la generosa madre facendole attribuire i beni di certi senatori proscritti ad un prezzo ch'era un terzo del loro valore. E Cicerone ci ricamò sopra un giuoco di parole, dicendo che quella svendita era stata fatta Tertia deducta. Lo stesso Pompeo, per quanto più bello, ricco e, in quel momento, famoso di Cesare, si vide portar via la moglie da lui e la ripudiò. Cesare se ne fece perdonare, dandogli in sposa la figlia sua.

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Questo straordinario personaggio intorno a cui, d'ora in poi, tutta la storia di Roma e del mondo comincia a ruotare, era dunque, quanto a moralità, figlio dei suoi tempi. E infatti debuttò in un modo che non lasciava presagire nulla di buono. Finiti gli studi sui sedici anni, partì al seguito di Marco Termo che andava in Asia a farvi una delle tante guerre. Ma, invece che un bravo soldato, diventò un favorito di Nicomede, re di Bitinia, che aveva un debole per i bei ragazzi. Tornato a Roma diciottenne, sposò Cos-suzia, perché così voleva suo padre. Ma quando costui morì, la ripudiò e rimpiazzò con Cornelia, figlia di quel Cinna che aveva a suo tempo preso la successione di suo zio Mario. E così venne a rinsaldare i vincoli che già lo legavano al partito democratico.

Silla, quando instaurò la dittatura, gli ordinò di divorziare. Cesare, sebbene abituato a cambiar moglie come si cambia vestito, spavaldamente rifiutò. Venne condannato a morte e la dote di Cornelia fu confiscata. Poi, come già abbiamo detto, comuni amici si interposero, e Silla lo lasciò andare in esilio. Cesare ripagò quel gesto di clemenza definendolo "una fesseria". Però s'ingannava. Silla aveva capito benissimo la "fesseria" che stava facendo: ma forse aveva per lui una segreta simpatia.

Quando il dittatore si fu ritirato, Cesare tornò a Roma. Ma, trovandola ancora in balìa dei reazionari, che lo detestavano come nipote di Mario e genero di Cinna, ripartì per la Cilicia. Una barca di pirati lo catturò in mare e chiese per il suo riscatto venti talenti, qualcosa come quaranta milioni di lire. Cesare rispose insolentemente ch'era un prezzo troppo basso per il suo valore e che preferiva dargliene cinquanta. Mandò i suoi servi a procurarli e ingannò l'attesa scrivendo versi e leggendoli ai suoi rapitori che non li gustarono punto. Cesare li chiamò "barbari" e "cretini", e promise loro d'impiccarli alla prossima occasione. Tenne la parola, perché, appena liberato, corse a Mileto, noleggiò una flottiglia, inseguì e catturò quei filibustieri, riprese i suoi quattrini, cioè quelli dei suoi creditori (cui non li restituì) e, manifestazione di clemenza, prima d'impiccarli, tagliò loro la gola.

Fu lui stesso a raccontare quest'avventura in alcune lettere agli amici, e non giureremmo sulla sua autenticità. Cesare non era ancora, in quel momento, il sobrio e spassionato scrittore del De bello gallico, che, avendo vinto realmente molte battaglie, non aveva più bisogno di romanzarle. Era un ragazzaccio chiacchierone, arrogante e dissipato che quando, rientrato a Roma nel 68, si presentò candidato al posto di questore, era già carico di debiti. Li aveva contratti con Crasso dopo aver sedotto anche a lui la moglie

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Tertulla. Con quei soldi comprò i voti, fu eletto, ebbe un governatorato e un comando militare in Spagna, combattè contro i ribelli, e tornò a Roma con la fama di bravo soldato e di accorto amministratore.

Nel 65 si ripresentò alle elezioni, fu eletto edile e ringraziò i suoi sostenitori finanziando spettacoli mai visti. Ma fece anche un'altra cosa: fece ritrasferire in Campidoglio i trofei di vittoria di Mario, che Silla aveva epurato. Tre anni dopo fu nominato propretore in Spagna. I suoi creditori si riunirono e chiesero al governo che non lo lasciasse partire prima di aver pagato. Egli stesso riconobbe di dover loro venticinque milioni di sesterzi. E Crasso, come al solito, glieli prestò. Cesare tornò fra gl'iberici, li sottomise quasi completamente, e riportò a Roma un tale bottino che il Senato gli accordò il trionfo. O forse lo fece soltanto per impedirgli di concorrere al consolato, visto che la candidatura non poteva essere presentata in propria assenza, e al trionfatore la legge impediva di tornare a Roma prima della cerimonia. Ma Cesare ci venne ugualmente, lasciando l'esercito fuor delle porte di città. E proprio durante questa campagna elettorale cominciò la sua grande azione politica.

I conservatori detestavano Cesare che aveva difeso Catilina, ricollocato i trofei di Mario in Campidoglio e ora si presentava come capo dei popolari. E potevano benissimo impedirgli il successo opponendogli un uomo del prestigio di Pompeo, che invece delusero, come abbiamo detto, perché erano gelosi delle sue vittorie e delle sue ricchezze. Queste erano tali che gli consentivano di tenere un esercito suo proprio: quello con cui sbarcò a Brindisi di ritorno dall'Oriente e che poteva eleggerlo dittatore con la forza. Generosamente, Pompeo lo congedò, e fu solo con un piccolo seguito di ufficiali che entrò a Roma e vi celebrò il trionfo. Coraggioso in battaglia, Pompeo era timidissimo in fatto di responsabilità politiche e non voleva mai fare nulla contro la legalità e il "regolamento". Il Senato lo sapeva, ne approfittò per trattarlo con freddezza e si rifiutò di distribuire ai suoi soldati le terre ch'egli aveva loro promesso. Cesare ci vide una buona occasione per attirarlo dalla parte sua e di Crasso.

Questo capolavoro di diplomazia si saldò con un accordo tripartito: il primo triumvirato. Pompeo e Crasso mettevano la loro influenza, ch'era grande, e le loro ricchezze, ch'erano immense, al servizio di Cesare per farlo eleggere console. Questi, assunto il potere, avrebbe distribuito le terre ai soldati di Pompeo e concesso a Crasso gli appalti cui questi aspirava.

Così fu rotta la famosa "concordia degli ordini" auspicata da Cicerone, cioè l'alleanza fra l'aristocrazia e l'alta borghesia. Quest'ultima, che vedeva

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in Crasso e Pompeo i suoi legittimi rappresentanti, fece lega invece coi popolari di Cesare. E l'aristocrazia, stupidamente e arrogantemente convinta di non aver bisogno di aiuti e di non dover dividere i suoi privilegi con nessuno, rimase isolata. Essa presentò come suo candidato un personaggio insignificante, Bibulo, che fu eletto. Ma non potè impedire che fosse eletto anche Cesare, figura di ben altro rilievo.

Cesare mantenne gl'impegni che aveva assunto con gli alleati. Propose subito la distribuzione delle terre e la ratifica delle misure adottate da Pompeo in Oriente. Il Senato si oppose. E allora Cesare portò i disegni di legge davanti all'Assemblea. Era quello che avevano fatto anche i Gracchi, i quali ci avevano rimesso la pelle. Ma i tempi erano cambiati. Bibulo oppose il veto dicendo che gli dèi, interrogati, si erano dimostrati contrari. L'Assemblea gli rise in faccia e un popolare gli rovesciò un vaso da notte in testa. I progetti furono approvati a grande maggioranza. Pompeo diventò il genero di Cesare, sposandone la figlia Giulia, borghesi e proletari si strinsero in un grande abbraccio, e per mesi e mesi si divertirono a spese dei triumviri, che offrirono magnifici spettacoli nel Circo.

In quest'atmosfera di favore popolare fu facile a Cesare attuare le sue riforme economiche e sociali, ch'erano poi quelle dei Gracchi. Il Senato le contrastò tutte mandando regolarmente Bibulo in Assemblea a dire che gli dèi le disapprovavano. L'Assemblea si infischiava degli dèi e rideva di Bibulo che alla fine si chiuse in casa e non ne uscì più. Poiché l'uso era di battezzare l'anno col nome dei due consoli, i romani chiamarono il cinquantanovesimo "quello di Giulio e Cesare".

Questi lo concluse facendo eleggere come suoi successori per il 58 Gabinio e Pisone, del quale sposò la figlia Calpurnia dopo regolare divorzio dalla sua terza moglie Pompea, che stava per essere processata per oltraggio al pudore e alla religione: l'accusavano di aver introdotto il suo amante Clodio, travestito da donna, nel recinto sacro alla dea Bona, di cui Pompea era sacerdotessa. Il fatto era vero. Clodio, giovane aristocratico bello, ambizioso e senza scrupoli, frequentava la casa di Cesare, ne ammirava la politica e ancora di più la moglie. Non si sa tuttavia se costei fosse sua complice, quando lo colsero in quell'empio tentativo. Cesare, chiamato a deporre, proclamò l'innocenza di Pompea. Quando il giudice gli chiese come mai in tal caso aveva divorziato da lei, rispose: «Perché la moglie di Cesare non può essere macchiata neanche da un sospetto». E testimoniò anche in favore di Clodio dicendo che non lo riteneva capace di un simile gesto, sebbene risultasse ch'egli ne aveva compiuti anche di peggiori: quello

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per esempio di sedurre la sua propria sorella, la famosa Clodia, moglie di Quinto Cecilio Metello, colei che Catullo chiamava Lesbia e che Cicerone perseguitava con la sua linguaccia. Rancoroso e impiccione com'era, il grande avvocato venne a testimoniare anche contro il fratello. Ma Cesare mise in moto Crasso, che comprò i giudici. E Clodio fu assolto.

Perché Cesare tenesse tanto a salvare quello scapestrato che, come oggi si direbbe, gli aveva disonorato la moglie, lo si vide subito dopo, quando Clodio si portò candidato per il tribunato della plebe e Cesare lo sostenne. Evidentemente, dopo aver installato il suocero e un amico intimo nella carica di consoli, voleva un debitore alla testa del proletariato. Cesare s'infischiava dell'onore coniugale. Clodio, con tutta quella faccenda, gli aveva dato il pretesto di liberarsi di una sposa che non gli serviva più a nulla e di rimpiazzarla con un'altra che gli serviva molto con la sua parentela. Al momento di lasciare la carica, egli si era autonominato proconsole per cinque anni della Gallia Cisalpina e Narbonese.

Poiché la legge proibiva di far stazionare truppe dall'Appennino in giù, chi aveva il comando di quelle dall'Appennino in su era praticamente il padrone della penisola. E Cesare ormai voleva essere questo padrone.

Sapeva benissimo che il Senato avrebbe fatto il possibile per impedirglielo. Ma Cesare aveva dimostrato che si poteva governare anche senza di esso, facendo approvare direttamente le leggi dall'Assemblea. Negli ultimi tempi si era spinto anche più in là: aveva imposto che tutte le di-scussioni che si svolgevano in quel solenne e aristocratico consesso venissero registrate e pubblicate giorno per giorno. Così nacque il primo giornale. Si chiamò Acta diurna, e fu gratuito, perché, invece di venderlo, lo affiggevano ai muri in modo che tutti i cittadini potessero leggerlo e controllare ciò che facevano e dicevano i loro governanti. L'invenzione fu d'immensa portata perché sancì il più democratico di tutti i diritti. Il Senato, che traeva prestigio anche dalla sua segretezza, fu così sottoposto alla pubblica opinione, e non si riebbe mai più da questo colpo.

Con Gabinio e Pisone a guardargli le spalle come consoli; con un avventuriero facilmente ricattabile come Clodio alla testa della plebe; con l'amicizia di Pompeo e il sostegno finanziario di Crasso; col Senato imbrigliato e costretto a rendere conto delle sue decisioni; Cesare ora poteva allontanarsi anche da Roma per procurarsi quello che tuttavia gli mancava: la gloria militare e un esercito fedele.

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CAPITOLO NONO

LA CONQUISTA DELLA GALLIA

QUANDO Cesare vi giunse nel 58, la Francia era per i romani soltanto un

nome: Gallia. Essi non ne conoscevano che le province meridionali, quelle che avevano sottoposto a vassallaggio per assicurarsi le comunicazioni terrestri con la Spagna. Cosa ci fosse più a nord, lo ignoravano.

Più a nord non c'era ciò che oggi si chiama una nazione. Sparpagliate nelle varie regioni, vivevano delle tribù di razza celtica che passavano il tempo a farsi la guerra tra loro. Cesare, che tra l'altro era anche un gran giornalista e aveva il dono dell'osservazione, vide che ognuna di queste tribù era divisa in tre ceti: i nobili o cavalieri che avevano il monopolio dell'esercito, i preti o druidi che avevano il monopolio della religione e dell'istruzione, e il popolo che aveva il monopolio della fame e della paura. Cesare pensò che per dominare queste tribù bastava tenerle divise, e che per tenerle divise bastava opporre i cavalieri ai cavalieri. Ognuno, per combattere l'altro, si sarebbe portato dietro un pezzo di popolo. C'era un solo pericolo: che i druidi s'intendessero fra loro e costituissero il centro spi-rituale di una unità nazionale. E per questo bisognava averli tutti dalla parte di Roma.

Cesare aveva in simpatia i galli per due ragioni: anzitutto perché uno di loro era stato il suo primo precettore, eppoi perché erano i fratelli di sangue di quei celti del Piemonte e della Lombardia che Roma aveva già assoggettato e che costituivano le sue migliori fanterie. Se riusciva a estendere questa soggezione a tutta la Francia, vi avrebbe trovato una miniera inesauribile per i suoi eserciti.

Cesare non aveva le forze necessarie a una conquista. Gli avevano dato solo, per tutto quel po' po' di territorio, quattro legioni, neanche trentamila uomini. E proprio nel momento in cui ne assumeva il comando, quattrocentomila elvezi straripavano dalla Svizzera sulla Gallia Narbonese, minacciando di sommergerla, e centocinquantamila germani traversavano il Reno per rinforzare nelle Fiandre il loro confratello Ariovisto che già vi si era stabilito tredici anni prima. Tutta la Gallia impaurita chiese protezione a Cesare che, senza neanche avvertirne il Senato, arruolò a proprie spese altre

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quattro legioni e ingiunse ad Ariovisto di venire a discutere un accomodamento con lui. Ariovisto rifiutò e Cesare, per affermare il suo prestigio agli occhi dei suoi nuovi sudditi, non ebbe altra scelta che la guerra contro di lui e contro gli elvezi.

Furono due campagne temerarie e folgoranti. Battuti, nonostante la loro enorme superiorità numerica, gli elvezi chiesero di poter ritirarsi nella loro patria, e Cesare glielo consentì purché accettassero il vassallaggio a Roma. I germani furono addirittura annientati presso Ostheim. Ariovisto fuggì, ma morì poco dopo. Lo scapestrato e indebitato donnaiolo si rivelava, sul campo di battaglia, un formidabile generale.

Approfittando di quel successo che aveva lasciato a bocca aperta tutta la Gallia, Cesare le chiese di unirsi sotto il suo comando per evitare d'ora in poi altre invasioni. Ma i galli erano pronti a tutto, fuorché ad andare d'accordo tra loro. Molte tribù si ribellarono e domandarono aiuto ai belgi, che accorsero. Cesare li sconfisse, poi sconfisse coloro che li avevano chiamati, e annunziò a Roma, piuttosto prematuramente, che tutta la Gallia era sottomessa. II popolo tripudiò, l'Assemblea acclamò, il Senato fece la bocca torta. Cesare subodorò che i conservatori gli stavano preparando qualche brutto tiro, rientrò in Italia, e convocò a Lucca Pompeo e Crasso per rinsaldare con loro, a comune difesa, il triumvirato.

Roma infatti era in preda alle convulsioni, dacché Cesare aveva lasciato il consolato. Il campione degli aristocratici fino a quel momento era stato Catone, un reazionario piuttosto ottuso, ma galantuomo. Forse avrebbe avuto anche idee più aperte, se non avesse portato il nome di suo nonno, il grande Censore, che le aveva avute chiusissime. Quel nome lo rovinò, obbligandolo a recitare una parte in cui forse non credeva. Per difendere l'austerità degli antichi costumi, andava in giro scalzo e senza tunica, sempre brontolando contro quelli nuovi. Lo aveva fatto anche il primo Catone, ma mescolando ai suoi brontolii risate schiette e gorgoglianti, sarcasmi pun-genti, strippate di fagioli e bevute di chianti. Suo nipote aveva un viso accigliato e scontroso, un colorito itterico da pastore protestante, e una bocca acerba, da zitella ossessionata dal rimorso dei peccati non commessi. Forse rompeva tanto le scatole agli altri perché se le rompeva anche lui, a fare sempre quella professione di moralista guastafeste. Ma poi era un moralista a modo suo, che non trovò nulla da obbiettare, per esempio, al fatto che sua moglie Marcia, scocciata anche lei da un marito così scocciante (e chi potrebbe darle torto, povera donna?), si prendesse per ami-co l'avvocato Ortensio, il rivale di Cicerone, ch'era bello e facondo come un

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Giovanni Porzio giovane. Anzi, quando se ne accorse, disse all'adultero: «La vuoi? Te la presto» (così almeno racconta Plutarco). Non solo. Ma quando, di lì a poco, Ortensio morì, Catone si riprese in casa Marcia e continuò a vivere con lei come se nulla fosse avvenuto.

Questo curioso uomo aveva tuttavia le sue qualità. Era, anzitutto, onesto. E ciò spiega come mai in un'epoca in cui era in vendita tutto, ma specialmente i voti degli elettori, non riuscì a far carriera oltre il grado di pretore. I senatori, di cui egli difendeva il monopolio politico e che all'onestà non ci tenevano, avrebbero preferito ch'egli lottasse con armi più adeguate alla generale corruzione e al nemico che ora si trovavano di fronte: quel Clodio che, dopo la partenza di Cesare, era diventato il padrone di Roma e, fra le altre cose, aveva ottenuto dall'Assemblea che Catone fosse mandato come alto commissario a Cipro Catone obbedì, e i conservatori si trovarono senza un capo (la testa l'avevano già persa da vari anni).

Per loro fortuna Clodio era, più che un grande politico, un grande demagogo, e quindi non aveva il senso della misura. Nel suo cieco odio contro Cicerone si mise a perseguitarlo obbligandolo a fuggire in Grecia, ne confiscò il patrimonio e ne fece radere al suolo il palazzo sul Palatino.

Ora, Cicerone non era a Roma quello che Cicerone credeva di essere. Ma rappresentava pur sempre una specie d'istituzione nazionale, e Pompeo e Cesare furono i primi a disapprovare quelle misure. Ma Clodio non se ne diede per inteso, si rivoltò contro i suoi due potenti padroni, arruolò una banda di manganellatori e si diede a terrorizzare la città. Quinto, il fratello di Cicerone, che aveva chiesto all'Assemblea di richiamare il proscritto, subì un attentato e se la cavò per miracolo. Ma perché la sua richiesta venisse accolta, Pompeo dovette assoldare a sua volta una squadra di delinquenti al comando di Annio Milone, un aristocratico con pochi quattrini e punti scrupoli come Clodio, cui mosse guerra. Roma diventò allora ciò che quarant'anni fa era Chicago.

Cicerone, accolto al ritorno da grandi feste, diventò ora l'avvocato dei triumviri che lo avevano salvato, ne sostenne la causa di fronte al Senato, fece concedere a Cesare nuovi fondi per le sue truppe in Gallia e a Pompeo un commissariato con pieni poteri per sei anni per risolvere il problema alimentare della penisola. Ma nel 57 Catone tornò da Cipro dove aveva brillantemente assolto le sue mansioni e, sotto la sua guida, i conservatori ripresero la lotta contro i triumviri. Calvo e Catullo riempirono Roma di epigrammi contro di loro. Presentandosi candidato per il consolato del 56, l'aristocratico Domizio impostò la sua campagna elettorale sulla revoca delle

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leggi agrarie di Cesare. Cicerone fiutò, come al solito, il vento, credette che spirasse in favore delle destre, si schierò dalla parte di Domizio, e denunzie per malversazioni Pisone, il suocero di Cesare.

Fu per mettere riparo a tutto questo che i triumviri s'incontrarono a Lucca, dove fu deciso che Crasso e Pompeo si ripresentassero al consolato e, dopo la vittoria, riconfermassero Cesare governatore della Gallia per altri cinque anni. Spirato il loro termine, Crasso avrebbe avuto la Siria e Pompeo la Spagna. Così, fra tutti e tre, sarebbero stati padroni di tutto quanto l'esercito.

Il piano funzionò perché le ricchezze di Crasso e di Pompeo, aumentate dai contributi di Cesare che ora aveva in mano il portafogli di tutta la Gallia, bastarono a comprare una maggioranza. E così il proconsole potè tornare nelle sue province, dove frattanto si profilava una nuova invasione germanica. Cesare massacrò gl'intrusi respingendoli oltre il Reno, poi attraversò con un piccolo distaccamento la Manica, e per la prima volta con lui i romani calpestarono il suolo inglese. Non si sa con precisione perché ci andò: forse solo per vedere cosa c'era. Ci rimase pochi giorni, sconfisse le poche tribù che trovò sulla sua strada, prese qualche appunto e tornò indietro. Ma l'anno dopo ritentò l'avventura con forze maggiori, battè un esercito indigeno guidato da Cassivelauno, si spinse fino al Tamigi, e forse sarebbe andato anche più in là, se di Gallia non gli fosse giunta la notizia che la rivolta era scoppiata.

Cesare lo ritenne lì per lì un episodio di ordinaria amministrazione. Sbarcato sul continente, sbaragliò gli eburoni che avevano preso l'iniziativa rivoluzionaria, e lasciò nelle loro settentrionali province il forte del suo esercito a presidiarle, per tornarsene con piccola scorta in Lombardia. Ma vi era da poco arrivato quando seppe che tutta la Gallia era in subbuglio, per la prima volta unita agli ordini di un abile capo, Vercingetorige. Cesare lo conosceva: era un guerriero dell'Alvernia, terra di soldatacci montanari e robusti, figliolo d'un Celtillo che aveva aspirato a diventare re di tutta la Gallia, e per questo i suoi lo avevano ammazzato. Forse il giovanotto nutriva le stesse ambizioni del padre e aveva sperato di ricevere l'investitura da Cesare, di cui si era mostrato amico. Deluso, si rivoltava. Ma, più giudizioso degli altri, faceva appello al sentimento nazionale e si era assicurato l'appoggio dei druidi, che gli avevano dato una sanzione religiosa.

Ora Vercingetorige stava con grosse forze fra Cesare a sud e il suo esercito a nord. La situazione non poteva essere peggiore. Cesare l'affrontò

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con la consueta audacia. Coi suoi sparuti drappelli, riattraversò le Alpi e prese a risalire la Francia, paese ormai tutto nemico. Camminò a piedi gior-no e notte, alla testa dei suoi soldati, fra le nevi delle Cevenne, puntando sulla capitale avversaria. Vercingetorige vi accorse per difenderla. Cesare lasciò il comando a Decimo Bruto e, con una scorta di pochi cavalieri, filtrò fra le linee nemiche verso il grosso delle sue forze. Le riunì, battè separatamente gli àvari e i cenabi, saccheggiando le loro città, ma di fronte a Gergovia dovette ritirarsi, tallonato dagli edui, che aveva considerato i più fedeli tra i suoi alleati e che ora lo abbandonavano.

Si accorse di essere solo, uno contro dieci, in un paese ostile, e si considerò perduto. Giocando tutto per tutto, mosse su Alesia, dove Vercingetorige aveva ammassato l'esercito, e vi mise l'assedio. Subito, da tutte le parti i galli accorsero per liberare il loro capitano. Erano duecentocinquantamila quelli che si concentrarono contro le quattro legioni romane. Cesare ordinò ai suoi d'innalzare due valli: uno verso la città assediata, uno di fronte alle forze che accorrevano in suo aiuto. E fra questi due bastioni sistemò i suoi con le poche munizioni e vettovaglie che ancora avevano. Dopo una settimana di disperata resistenza su due fronti, i romani erano alla fame, ma i galli erano a loro volta nell'anarchia, e cominciarono a ritirarsi in disordine. Cesare racconta che, se avessero insistito ancora per un giorno, avrebbero vinto.

Vercingetorige in persona uscì dalla città stremata a chiedere grazia. Cesare la concesse alla città, ma i ribelli diventarono proprietà dei legionari che li rivendettero come schiavi e ci fecero il loro gruzzolo. Lo sfortunato capitano fu condotto a Roma, dove l'anno dopo seguì in catene il carro del trionfatore, che lo "sacrificò agli dèi", come si diceva a quei tempi.

Cesare rimase ancora quell'anno in Gallia a liquidare i resti della rivolta. Lo fece con una severità che non era abituale in lui, mostratosi sempre generoso con l'avversario vinto. Ma, una volta inflitto il castigo con la soppressione dei capi, tornò ai suoi metodi di clemenza e di comprensione. E così, dosando con sapienza il pugno duro e la carezza, fece dei galli un popolo rispettoso e attaccato a Roma, come si vide durante la guerra civile contro Pompeo, quando essi non abbozzarono nemmeno un tentativo per scuotere il tentennante giogo che li teneva soggetti.

Roma non si rese conto della grandezza del dono che il suo proconsole le aveva fatto. Essa vide nella Gallia soltanto una nuova provincia da sfruttare, grande due volte l'Italia e popolata di cinque milioni di abitanti. Certo, non poteva supporre che Cesare vi avesse fondato una nazione

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destinata a perpetuare e diffondere la civiltà e la lingua di Roma in tutta Europa. Eppoi, in quel momento non aveva tempo di occuparsi di queste faccende, impegnata com'era nelle sue discordie.

Crasso, dopo il consolato, era partito per la Siria, come si era stabilito a Lucca; nella sua smania di gloria militare aveva mosso guerra ai parti, ne era stato sconfitto a Carre e, mentre trattava col generale vincitore, questi lo aveva ucciso e ne aveva mandato la testa mozza a decorare in teatro una scena di Euripide. Pompeo invece, fattosi dare un esercito per governare la Spagna, era rimasto con esso in Italia in un atteggiamento che non lasciava presagire nulla di buono. Il più forte vincolo che lo univa a Cesare era scomparso con la morte di Giulia. Cesare gli offrì di rimpiazzarla con la nipotina Ottavia. E, il vedovo avendo rifiutato, offrì se stesso come sposo della figlia di lui al posto di Calpurnia da cui avrebbe divorziato. A Roma si passava con disinvoltura dalla condizione di suocero a quella di genero. Ma Pompeo respinse anche questa proposta: non teneva a una parentela con Cesare, perché finalmente s'era messo d'accordo coi conservatori e n'era diventato il campione. Sapendo che il proconsolato di Cesare sarebbe finito nel 49, si fece protrarre il proprio fino al 46. Così sarebbe rimasto il solo, fra i due, ad avere un esercito.

La democrazia agonizzava sotto i colpi di Clodio e di Milone che l'avevano ridotta a una questione di manganelli. Alla fine Milone accoppò Clodio, che poco prima gli aveva bruciato la casa. La plebe tributò al defunto onoranze da martire, ne portò il cadavere in Senato e appiccò il fuoco al palazzo. Pompeo chiamò i suoi soldati a sedare il tumulto, e così rimase padrone della città. Cicerone salutò in lui il "console senza collega"; e la formula piacque ai conservatori che l'adottarono perché consentiva di attribuire a Pompeo i poteri del dittatore evitando la sgradita parola. Pompeo acquartierò in Roma tutto il suo esercito, all'ombra del quale l'Assemblea tenne le sue sedute e i tribunali i loro processi. Fra questi ultimi, famoso quello di Milone che venne condannato per l'assassinio di Clodio, no-nostante la difesa di Cicerone, il quale poi pubblicò la sua arringa. Quando Milone, fuggito a Marsiglia, la lesse, esclamò: «O Cicerone, se tu avessi davvero pronunziato le parole che hai scritto, non sarei qui a mangiar pesce!». Il che ci fa nascere molti dubbi sulla rispondenza degli scritti del grande avvocato coi suoi discorsi veri.

Pompeo ripropose la legge che esigeva la presenza in città per concorrere al consolato. L'Assemblea, presidiata dalle sue truppe, approvò. Era l'esclusione di Cesare, che non poteva tornare prima del giorno fissato

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per il trionfo. Correva l'anno 49, la carica di Cesare spirava il 1° di marzo, ma Marco Marcello sostenne che bisognava anticipare quel termine. I tribuni della plebe opposero il veto, ma il veto presupponeva una legalità democratica che non c'era più. E Catone rincarò la dose proclamando che Cesare doveva essere processato e bandito dall'Italia.

Come ringraziamento per la conquista della Gallia, non c'era male.

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CAPITOLO DECIMO

IL RUBICONE LE esitazioni di Cesare prima di scatenare la guerra civile hanno fatto la

gioia di molti scrittori e la fortuna di un fiumiciattolo, di cui altrimenti nessuno conoscerebbe il nome: il Rubicone. Esso marcava, presso Rimini, il confine fra la Gallia Cisalpina, dove il proconsole aveva diritto di tenere i suoi soldati, e l'Italia vera e propria, dove la legge gli vietava di condurli; e fu sulle sue sponde che gli storici descrivono Cesare meditabondo e roso dai dubbi. Ma il fatto è che quando Cesare giunse lì, la decisione l'aveva già presa o, per meglio dire, gliel'avevano già imposta.

Pur di evitare una lotta fra romani, egli aveva accettato tutte le proposte avanzate da Pompeo e dal Senato che ormai erano una cosa sola: di mandare una delle sue scarsissime legioni in Oriente a vendicarvi Crasso, di restituirne un'altra a Pompeo che gliel'aveva prestata per le operazioni in Gallia. Ma quando il Senato definitivamente gli rispose impedendogli di concorrere al consolato e mettendolo alla scelta: o sbandare l'esercito, o essere dichiarato nemico pubblico, egli comprese che, scegliendo la prima alternativa, si consegnava inerme nelle mani di uno stato che voleva la sua pelle. Avanzò ancora un'ultima proposta, che i suoi luogotenenti Curione e Antonio vennero a leggere, sotto forma di lettera, in Senato: egli avrebbe congedato otto delle sue dieci legioni, se gli prolungavano il governatorato della Gallia fino al 48. Pompeo e Cicerone si pronunziarono in favore; ma il console Lentulo cacciò i due messi fuori dell'aula, e Catone e Marcello chiesero al Senato, che consentì controvoglia, di conferire a Pompeo i poteri per impedire che "pregiudizio fosse recato alla cosa pubblica". Era la formula di applicazione della legge marziale. Essa metteva definitivamente Cesare con le spalle al muro.

Cesare adunò la sua legione favorita, la tredicesima, e parlò ai soldati, chiamandoli non milites, ma commilitones. Poteva farlo. Oltre che il loro generale, egli era stato davvero anche il loro compagno. Erano dieci anni che li conduceva di fatica in fatica e di vittoria in vittoria, alternando sapientemente l'indulgenza al rigore. Quei veterani erano veri e propri professionisti della guerra, se ne intendevano, e sapevano misurare i loro ufficiali. Per Cesare, che di rado era dovuto ricorrere alla propria autorità per affermare il proprio prestigio, avevano un rispettoso affetto. E quando

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egli ebbe spiegato loro come stavano le cose e chiese se se la sentivano di affrontare Roma, la loro patria, in una guerra che, a perderla, li avrebbe qualificati traditori, risposero di sì all'unanimità. Erano quasi tutti galli del Piemonte e della Lombardia: gente a cui Cesare aveva dato la cittadinanza che il Senato si ostinava a disconoscerle. La loro patria era lui, il generale. E quando questi li avvertì che non aveva neanche i soldi per pagar loro la cin-quina, essi risposero versando nelle casse della legione i loro risparmi. Uno solo disertò per schierarsi con Pompeo: Tito Labieno. Cesare lo considerava il più abile e fidato dei suoi luogotenenti. Gli spedì dietro il bagaglio e lo stipendio, che il fuggiasco non si era curato di ritirare.

Il 10 gennaio di quell'anno 49 "trasse il dado" com'ebbe a dire egli stesso, cioè passò il Rubicone con quella legione, seimila uomini, contro i sessantamila che Pompeo già aveva raccolto. A Piceno lo raggiunse la dodicesima, a Corfinio l'ottava. Altre tre ne formò con volontari del posto, che non avevano dimenticato Mario e ne vedevano in Cesare, suo nipote, il continuatore. Le città si aprono dinanzi a lui e lo salutano come un dio, scrisse Cicerone, che cominciava a non essere più sicuro di aver scelto bene schierandosi coi conservatori. In realtà l'Italia era stanca di costoro e non opponeva resistenza al ribelle, che la ripagava con lungimirante clemenza: niente saccheggi, niente prigionieri, niente epurazioni.

Durante questa incruenta avanzata su Roma, Cesare seguitò a cercare un compromesso, o almeno a darsi le arie di cercarlo. Scrisse a Lentulo prospettandogli i disastri cui Roma poteva andare incontro con quella lotta fratricida; scrisse a Cicerone dicendogli di riferire a Pompeo ch'egli era pronto a ritirarsi a vita privata, se gli garantivano la sicurezza. Ma, senza aspettare le risposte, seguitò ad avanzare contro Pompeo che avanzava anche lui, ma verso sud.

Pur respingendo le offerte di Cesare, i conservatori avevano abbandonato Roma, dopo aver dichiarato che avrebbero considerato nemici i senatori che vi fossero rimasti. Carichi di soldi, di pretese e d'insolenza, ognuno con servi, mogli, amiche, efebi, tende di lusso, biancheria di lino, uniformi e pennacchi, questi aristocratici facevano schiamazzante codazzo a Pompeo, frastornandogli il cervello con le loro chiacchiere. Pompeo non aveva avuto gran carattere nemmeno quand'era giovane e magro. Ora, invecchiato e imbolsito, aveva perso anche quel poco; e per non affrontare una decisione, seguitò a ritirarsi fino a Brindisi, dove caricò tutto il suo esercito sulle navi e lo traghettò a Durazzo. Curiosa tattica, per un generale che aveva un esercito doppio di quello avversario. Ma disse che voleva alle-narlo e disciplinarlo, prima di affrontare la battaglia risolutiva.

Cesare entrò in Roma il 16 marzo, lasciando l'esercito fuori della città. Si era ribellato allo stato, ma ne rispettava i regolamenti. Chiese il titolo di

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dittatore, e il Senato rifiutò. Chiese che fossero mandati messi di pace a Pompeo, e il Senato rifiutò. Chiese di poter disporre del Tesoro, e il tribuno Lucio Metello oppose il veto. Cesare disse: «Tanto mi è difficile pronunciare minacce, quanto mi è facile eseguirle». Subito il Tesoro gli venne messo a disposizione. Cesare, prima di vuotarlo per impinguare le casse dei suoi reggimenti, vi versò tutto il bottino accumulato nelle ultime campagne. Il furto, sì; ma, prima, la legalità.

I conservatori preparavano la riscossa ammassando tre eserciti: quello di Pompeo in Albania, quello di Catone in Sicilia, e un altro in Spagna. Contavano di far capitolare Cesare e l'Italia per fame, senza bisogno di una battaglia che paventavano. Cesare mandò in Sicilia due legioni al comando di Curione, che inseguì Catone imbarcatosi per l'Africa, lo attaccò senz'ade-guata preparazione, fu sconfitto e morì in combattimento chiedendo perdono a Cesare del male che gli aveva fatto. Contro la Spagna andò Cesare in persona per assicurarsi i rifornimenti di grano. Credeva che i pompeiani vi fossero meno forti e si trovò di fronte a impreviste difficoltà. Ma Cesare dava il meglio di sé nei momenti di pericolo. Un giorno, assediato, dirottò un fiume e divenne assediante. Il nemico capitolò, e la Spagna fu di nuovo sotto il controllo di Roma. Il popolo, liberato dallo spettro della carestia, lo acclamò, e il Senato gli diede il titolo di dittatore. Ma ora fu Cesare a rifiutarlo: gli bastava quello di console, che gli conferirono gli elettori.

Con l'abituale speditezza, rimise ordine nelle faccende interne dello stato, ma senza processi, né bandi, né confische. Poi radunò l'esercito a Brindisi, imbarcò ventimila uomini sulle dodici navi che aveva a disposizione, e li sbarcò in Albania sulle tracce di Pompeo, che rimase di stucco convinto com'era che d'inverno nessuno avrebbe osato traversare quel braccio di mare pattugliato dalla sua potente flotta. Perché non abbia attaccato subito quel temerario nemico, capitatogli a tiro con sì poche forze, non lo si è mai saputo. Eppure, ebbe dalla sua anche la tempesta che mandò a picco la squadra di Cesare, impedendole di traghettare il resto dell'esercito. Sulla barca con cui cercò di raggiungere tuttavia la costa italiana, Cesare gridava ai vogatori atterriti: « Non abbiate paura: state trasportando Cesare e la sua stella». Ma l'uragano ributtò sugli scogli l'uno e l'altra, che, se Pompeo in quel momento avesse preso l'iniziativa, non sarebbero mai più risorti.

Il tempo finalmente si rimise al bello, e in rinforzo alle demoralizzate truppe di Cesare giunse Marc'Antonio, il migliore dei suoi luogotenenti, con altri uomini e la sussistenza. Prima di attaccare, Cesare dice di aver mandato a Pompeo una nuova proposta di pace, che non ebbe effetto. Ma nemmeno l'attacco di Cesare ebbe effetto. Pompeo resistè, prese alcuni prigionieri, e li uccise. Anche Cesare prese dei prigionieri, ma li arruolò. I suoi veterani

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riconobbero che la battaglia era andata male perché non ci avevano messo impegno e chiesero di esserne castigati. Cesare rifiutò ed essi lo supplicarono di ricondurli all'attacco. Egli invece li condusse in Tessaglia a riposarsi e a rifocillarsi in quel granaio.

Nel campo di Pompeo, Afranio consigliava di tornare nell'indifesa Roma abbandonando Cesare al suo destino. Ma la maggioranza fu per dargli il colpo di grazia perché lo consideravano ormai già vinto. Pompeo che, non avendo idee, seguiva quelle degli altri, mosse dietro al nemico, e lo raggiunse nella piana di Farsalo. Aveva cinquantamila fanti e settemila cavalieri; Cesare, ventiduemila fanti e mille cavalieri. La vigilia della battaglia, nel campo di Pompeo ci furono gran banchetti, discorsi, bevute e brindisi alla certa vittoria. Cesare mangiò un rancio di grano e cavoli coi suoi soldati, nel fango della trincea. Di fronte a lui, che impartiva ordini indiscutibili ai suoi ufficiali, c'erano mille strateghi chiacchieroni con mille piani diversi e un generale che aspettava che gliene suggerissero uno.

Farsalo fu il capolavoro di Cesare, che perse duecento uomini soli, ne uccise quindicimila, ne catturò ventimila, ordinò di risparmiarli, e celebrò la vittoria consumando, sotto la sontuosa tenda di Pompeo, il pranzo che i cuochi avevano preparato a costui per celebrarne il trionfo. Lo sventurato generale in quel momento cavalcava verso Larissa, sempre seguito da quella turba di aristocratici fannulloni, tra i quali c'era anche un certo Bruto, di cui Cesare aveva cercato il cadavere sul campo di battaglia col terrore di tro-varcelo. Era figlio della sua vecchia amante Servilia, la sorellastra di Catone, e forse ne era egli stesso il padre. Respirò, quando ricevette da Larissa una lettera di lui che gli chiedeva perdono e ne impetrava altrettanto per il cognato Cassio, che aveva sposato sua sorella Terzia (succeduta a sua madre Servilia nelle grazie di Cesare) e che era caduto prigioniero con gli altri pompeiani.

Cesare diede subito l'assoluzione ad ambedue perché Roma era allora ciò che Ennio Flaiano dice che oggi è l'Italia: un paese non soltanto di poeti, di eroi, di navigatori, ma anche di zii, di nipoti e di cugini.

Ma torniamo a Pompeo che, raggiunta a Mitilene sua moglie, con essa s'imbarcava alla volta dell'Africa, probabilmente col proposito di mettersi alla testa dell'ultimo esercito senatoriale: quello che erano venuti organizzando a Utica Catone e Labieno. La nave gettò l'àncora nelle acque d'Egitto, stato vassallo di Roma, che lo amministrava attraverso il suo giovane re, Tolomeo XII. Era un signorotto mezzo degenerato e mezzo citrullo, in balìa di un vizir, cioè di un primo ministro eunuco e canaglia: Potino. Costui sapeva già di Farsalo, e credette di assicurarsi la gratitudine del vincitore assassinando il vinto. Pompeo fu pugnalato alle spalle sotto gli occhi della moglie, mentre sbarcava da una scialuppa. E la sua testa fu

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presentata a Cesare che storse la propria con orrore, quando arrivò e la vide. Cesare non amava il sangue, nemmeno quello dei suoi nemici. E non c'è dubbio che avrebbe graziato Pompeo, se lo avesse catturato vivo.

Oramai ch'era lì, Cesare volle, prima di tornare a Roma, mettere a posto le faccende di quel paese, che da tempo stava andando in malora. Tolomeo avrebbe dovuto, secondo il testamento di suo padre, dividere il trono con sua sorella Cleopatra, dopo averla sposata (questi amori tra fratelli in Egitto son rimasti frequenti fino a Faruk: fanno parte del "color locale"). Ma Cleopatra, quando Cesare giunse, non c'era: Potino l'aveva confinata e rinchiusa per poter fare il suo comodo. Cesare la mandò a chiamare di nascosto. Per raggiungerlo, essa si fece nascondere tra le coltri di un letto che il servo Apollodoro doveva portare negli appartamenti dell'illustre ospite a palazzo reale. Questi la trovò al momento di coricarsi: un momento particolarmente propizio a una donna di quella fatta.

Non bellissima, ma piena di sex-appeal, bionda, serpentina, maestra sapiente di ciprie e di cosmetici, con una voce melodiosa che non cor-rispondeva affatto, come spesso capita, al suo carattere avido e calcolatore, intellettuale quanto bastava per tenere in piedi con brio una conversazione, e assolutamente ignara di tutto quel che potesse rassomigliare al pudore; era proprio quel che ci voleva per un donnaiolo spregiudicato come Cesare dopo tutti quei mesi di trincea e di astinenza. Perché in fatto di femmine Cesare era rimasto quello di prima e di sempre: per lui, quel ch'era lasciato era perso.

L'indomani egli rimise d'accordo fratello e sorella, cioè praticamente ridiede tutto il potere a costei ai danni di Potino che venne discretamente soppresso, con la scusa, forse vera, che stava tramando un complotto. Purtroppo, la città insorse contro Cesare, e la guarnigione romana che la presidiava si unì ai ribelli. Cesare coi suoi pochi uomini trasformò il palazzo reale in un fortino, spedì un messo in Asia Minore a chiedere rinforzi, fece bruciare la flotta perché non cadesse in mano al nemico (e purtroppo l'incen-dio si propagò anche alla grande biblioteca, onore e vanto di Alessandria), e con un colpo di mano ch'egli stesso guidò gettandosi a nuoto, s'impadronì dell'isolotto di Faro, dove aspettò i rinforzi che sopraggiungevano per mare. Tolomeo credette ch'egli fosse perduto, si unì ai ribelli, e non se ne seppe più nulla. Cleopatra rimase coraggiosamente con Cesare che, al sopraggiungere dei suoi, sbaragliò gli egiziani e la rimise sul trono.

Rimase nove mesi con lei, quanti le occorsero per mettere al mondo un bambino che fu chiamato, perché non ci fossero dubbi sulla sua paternità, Cesarione. Dovett'essere un grande amore, per rendere Cesare sordo agli appelli di Roma, caduta preda in sua assenza delle "squadre" di Milone, tornato da Marsiglia. Finalmente, alla notizia ch'egli stava per intraprendere

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con lei un lungo viaggio sul Nilo, i suoi stessi soldati si ribellarono: fra loro era corsa voce che il generale volesse sposarla e restare in Egitto come re del Mediterraneo.

Allora Cesare si scosse, si rimise alla testa dei suoi, accorse in Asia Minore dove "venne, vide, e vinse" a Zela, contro Farnace, il ribelle figlio di Mitridate.

Poi s'imbarcò per Taranto, dove Cicerone e altri ex conservatori gli vennero incontro con la testa coperta di cenere. Con la consueta magna-nimità, Cesare troncò loro in bocca le parole di contrizione e tese la mano. Tutti ne furono talmente felici, che non ebbero né il tempo né la voglia di scandalizzarsi per il fatto che il padrone tornasse in una Roma piena di stragi e di lutti, portandosi al seguito una donna vestita e truccata come una sciantosa che si spingeva avanti la carrozzella con dentro un marmocchio piagnucoloso.

Con questa vivente "preda bellica" egli si ripresentò all'Urbe e alla propria moglie Calpurnia, che non battè ciglio perché c'era abituata. Essa tuttavia fu l'unica, probabilmente, ad accorgersi che Cleopatra aveva il naso un po' lungo. E siamo sicuri che la cosa le fece molto piacere.

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CAPITOLO UNDICESIMO

GL'IDI DI MARZO

LA situazione a Roma non era allegra. Il grano non arrivava più dalla

Spagna, dove il figlio di Pompeo aveva organizzato un altro esercito, né dall'Africa, dove Catone e Labieno erano ormai padroni del campo e avevano ai loro ordini forze uguali a quelle ch'erano state sconfitte a Farsalo. All'interno il caos dilagava. Il genero di Cicerone, Dolabella, si era coalizzato con Celio, il successore di Clodio e il capo degli estremisti. Insieme essi avevano ordinato la cancellazione di tutti i debiti, che voleva dire il marasma economico, e richiamato da Marsiglia Milone, il gran maestro della demagogia e del manganello. Marcantonio che, in rappresentanza di Cesare, doveva mantenere l'ordine e aveva le maniere spicce del soldataccio, aveva scatenato la truppa, un migliaio di romani erano stati sgozzati nel Foro, e Celio e Milone erano fuggiti per organizzare la rivolta in provincia, dove varie legioni si erano ribellate.

Cesare, abituato a battersi a destra, cioè contro i reazionari, detestava aver nemici a sinistra e non voleva far la fine di Mario, costretto, per rimettere ordine, a massacrare i suoi. Cominciò a dipanare la sua matassa politica dai soldati «perché», disse, «essi dipendono dal denaro, che dipende dalla forza, che dipende da loro». Si presentò solo e disarmato alle legioni rivoltate, e disse con la sua abituale calma che riconosceva legittime le loro rivendicazioni e che le avrebbe soddisfatte al ritorno dall'Africa, dove andava a combattere «con altri soldati». A quelle parole, dice Svetonio, i veterani trasalirono di vergogna e di pentimento, gridarono che questo non poteva essere, che i soldati di Cesare erano loro e intendevano restarlo. Cesare finse qualche difficoltà, poi si arrese per il semplice motivo che di soldati non ne aveva altri. Quel gran generale era anche, come oggi si direbbe, un gran filone. Caricò sulle navi quella truppa che ribolliva di ardori di redenzione, sbarcò in Africa nell'aprile del 46, a Tapso, e trovò ad aspettarlo ottantamila uomini al comando di Catone, Metello Scipione, il suo ex luogotenente Labieno, e Giuba, re di Numidia.

Ancora una volta si trovò a lottare uno contro tre. Ancora una volta perse il primo scontro. Ancora una volta vinse la battaglia decisiva, che fu terribile. In quest'occasione i suoi soldati non rispettarono gli ordini di

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clemenza e massacrarono i prigionieri. Giuba si uccise sul campo. Scipione fu raggiunto sul mare e accoppato. Catone si rinchiuse a Utica con un piccolo distaccamento, consigliò a suo figlio di sottomettersi a Cesare, distribuì il denaro che aveva in cassa a quanti gliene chiesero per fuggire, offrì un pranzo ai suoi più intimi amici, li intrattenne su Socrate e Platone. Poi, ritiratosi nella sua stanza, s'immerse il pugnale nella pancia. I servi se ne accorsero e chiamarono un dottore che alla meglio rimise al loro posto gl'intestini traboccanti fuor della ferita e la bendò. Catone si finse in coma. Poi, quando fu lasciato solo, si tolse la fasciatura, e riaprì lo squarcio con le proprie mani.

Lo trovarono morto, con la testa reclinata sulle pagine del Fedone di Platone. Cesare, addolorato, disse che non poteva perdonargli di avergli tolto l'occasione di perdonarlo. Gli fece fare solenni funerali e riversò la sua clemenza sul figlio. Egli stesso sentiva forse che quell'uomo sgradevole e per molti rispetti antipatico si portava nella tomba le virtù della Roma repubblicana. Avrebbe volentieri barattato la vita di quel nemico con quella di molti amici: Cicerone, per esempio.

Dopo una breve sosta a Roma, andò a dare il colpo di grazia all'ultimo esercito pompeiano, quello di Spagna. Lo sbaragliò a Munda, e finalmente potè dedicarsi interamente all'opera di riorganizzazione dello stato. Ne aveva ormai i poteri perché il Senato gli aveva concesso il titolo di dittatore dapprima per dieci anni, poi a vita. Ma l'impresa era gigantesca, e avrebbe richiesto una classe dirigente che Cesare non aveva. Egli invitò i suoi antichi avversari aristocratici, ch'erano i più competenti, a collaborare con lui. Gli risposero con sarcasmi e complotti, ritirando fuori la vecchia favola del progettato matrimonio con Cleopatra e del trasferimento della capitale ad Alessandria. Cesare non potè contare che su un gruppo di pochi amici fidati, ma inesperti di amministrazione, con cui formò una specie di ministero: Balbo, Marc'Antonio, Dolabella, Oppio, eccetera. L'Assemblea era dalla parte sua. Il Senato lo ridusse a un corpo puramente consultivo, dopo averne portato i membri da sei a novecento con l'immissione di nuovi elementi scelti parte tra la borghesia di Roma, parte tra quella di provincia, parte tra i suoi vecchi ufficiali celti, molti dei quali erano figli di schiavi.

Questa manovra faceva parte di un più vasto progetto che Cesare aveva abbozzato quando aveva concesso la cittadinanza alla Gallia Cispadana. Il Senato non aveva mai convalidato quella misura; ma ora dovette accettare ch'essa venisse estesa a tutta l'Italia. Cesare aveva capito che non c'era più nulla da sperare dai romani di Roma, ormai ammolliti, imbastarditi e incapaci di fornire altro che degl'intrallazzatori e dei disertori. Egli sapeva che il buono era solo in provincia, dove la famiglia era rimasta salda, i costumi sani, l'educazione severa. E con questi provinciali di origine

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contadina o piccoloborghese intendeva riformare i quadri della burocrazia e dell'esercito.

La sua vera rivoluzione era questa, ed egli cercò di realizzarla attraverso la grande riforma agraria progettata dai Gracchi. Per riuscirvi, chiamò a collaborare l'alta borghesia industriale e mercantile, che finanziò l'operazione. Grandi capitalisti come Balbo e Attico diventarono i suoi banchieri e consiglieri. Cesare spiegò in questa bisogna la stessa energia che aveva spiegato come generale in battaglia. Voleva tutto vedere, tutto sapere, tutto decidere. Non ammetteva sprechi e incompetenze. E per escludere gli uni e le altre, il tempo non gli bastava mai. La politica del pieno impiego della manodopera si conciliava benissimo col mal della pietra che lo affliggeva. Cesare era un costruttore nato e trascorreva in letizia le sue indaffaratissime giornate. I pettegolezzi dei suoi nemici contro di lui, invece d'irritarlo, lo divertivano.

Se li faceva raccontare per poi riraccontarli egli stesso a Calpurnia, con la quale era tornato a vivere dopo la parentesi di Cleopatra. Era, a modo suo, un buon marito che ripagava la moglie di tutte le corna che le aveva messo, con mille attenzioni, una profonda stima e un affettuoso cameratismo. Aveva sempre qualcosa da raccontarle, quando tornava dall'ufficio, dove trattava collaboratori e sottoposti col signorile distacco che gli era abituale. Era accurato nel vestire, e delle facoltà insite nel suo titolo di dittatore ap-profittava solo di quella che gli consentiva di portare la corona di lauro sulla testa per nascondere la calvizie. Faceva tutto con eleganza: anche il regalo del perdono a chi gli aveva recato offesa. Anzi, le offese preferiva, se poteva, ignorarle. Per questo aveva bruciato, senza leggerla, la corrispondenza che Pompeo aveva lasciato nella sua tenda a Farsalo, e quella di Scipione a Tapso. Chissà quante porcherie, tradimenti, doppi giuochi ci avrebbe scoperto. Quando aveva saputo che Sesto si preparava a vendicare il padre in Spagna, gli aveva mandato i nipoti rimasti a Roma. E dei suoi due avversari Bruto e Cassio aveva fatto due governatori di provincia. Forse in questa magnanimità c'era anche un po' di disprezzo per gli uomini: un carattere che si accompagna quasi sempre alla grandezza. E forse in questo disprezzo sta anche la ragione della sua totale indifferenza ai pericoli che lo minacciavano. Egli non poteva ignorare che intorno a lui si complottava e che la generosità è uno stimolante, non un sedativo, dell'odio. Ma non riteneva i suoi nemici abbastanza coraggiosi per osare. E sognava nuove imprese: di vendicare Crasso contro i parti, di estendere l'Impero sulla Germania e la Scizia, di rifondere definitivamente tutta la società italiana sul livello di una classe media provinciale e campagnola più vigo-rosa e aderente all'antico costume.

Nel febbraio di quell'anno 48 stava già redigendo i piani per quelle

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campagne, quando Cassio si mise alla testa della cospirazione e cercò di attrarvi Bruto, che Cesare seguitava ad amare come un suo figlio, forse sapendo che lo era. I romanzieri e i drammaturghi hanno poi fatto di questo giovanotto un eroe delle libertà repubblicane. Noi dubitiamo che lo fosse. Il complotto era ammantato di nobili ideali: diceva di voler la morte di un tiranno che aspirava alla corona di re per dividerla con Cleopatra, la meretrice forestiera, eppoi lasciarla al bastardo Cesarione dopo averne trasferito la capitale in Egitto. O non si era fatto innalzare una statua accanto a quella dei vecchi re? O non aveva fatto incidere il proprio volto sulle nuove monete? Il potere gli aveva dato alla testa, già turbata da un ritorno di attacchi epilettici. Meglio, anche per lui e per la sua memoria, sopprimerlo, prima che avesse il destro di distruggere in un colpo solo la libertà e la supremazia di Roma.

Furono questi probabilmente gli argomenti che il "pallido e magro" Cassio, come lo descrive Plutarco, usò per convincere suo cognato. Ma forse quelli che trionfarono furono altri, più personali e segreti. Bruto detestava Cesare non perché ignorava di esserne il figlio, ma perché sapeva di esserlo. Forse egli non aveva mai perdonato a sua madre di aver fatto di lui un bastardo. Ma sono supposizioni perché Bruto era taciturno e segreto. Una fonte molto dubbia ha riferito ch'egli scrisse in una lettera a un amico: I nostri antichi ci hanno insegnato che non bisogna subire un tiranno, anche se è nostro padre. Ma è troppo facile attribuire simili pensieri a un uomo dopo che li ha messi in pratica.

Era un uomo colto, che sapeva di greco e filosofia. Aveva governato con onestà e competenza la Gallia Cisalpina datagli in appalto da Cesare. Aveva sposato sua cugina Porzia, la figlia di suo zio Catone, che certo non doveva disporlo favorevolmente verso il dittatore. Ma la cosa più preoccupante di lui era che scriveva saggi sulla Virtù. La Virtù è una di quelle signore perbene che si amano, quando si amano, senza parlarne.

Ai primi di marzo, dopo averlo ben bene "lavorato", Cassio venne a dirgli che ai prossimi Idi, cioè il 15, Cesare avrebbe fatto il gran colpo. Il suo luogotenente Lucio Cotta avrebbe proposto all'Assemblea, già decisa ad approvare, di proclamare re il dittatore perché la Sibilla aveva predetto che solo da un re potevano essere battuti i parti, contro cui si stava preparando la spedizione. Sull'opposizione del Senato non c'era da sperare: la sua recente riforma aveva dato la maggioranza ai cesariani. Non restava quindi che il pugnale, prima che fosse troppo tardi. Questa conversazione si svolse alla presenza di Porzia che caldeggiò la tesi di Cassio e, per mostrare che avrebbe saputo tenere il segreto anche sotto la tortura, s'immerse il pugnale in una coscia. Bruto si arrese, anche per non mostrarsi da meno della moglie.

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Cesare, quella sera, pranzava in casa con alcuni amici. Secondo il costume degli anfitrioni romani, propose un tema di conversazione: "Che morte preferireste?". Ognuno disse la sua. Cesare si pronunciò per una fine rapida e violenta. L'indomani mattina Calpurnia gli disse di averlo sognato coperto di sangue e lo pregò di non andare in Senato. Ma un amico che apparteneva alla congiura venne invece a sollecitarlo, e Cesare lo seguì mancandone di poco un altro a lui fedele che veniva a informarlo del complotto. Per strada un chiromante gli gridò di guardarsi dagl'Idi di marzo. «Ci siamo già», rispose Cesare. «Ma non sono passati», ribattè l'altro. Nel momento di entrare in aula, qualcuno gli mise in mano un papiro arrotolato. Cesare credette che si trattasse di una delle solite suppliche e non lo svolse. Lo aveva ancora in pugno quando morì: era una circostanziata denuncia.

Era appena entrato nell'aula, che i congiurati gli furono tutti addosso col pugnale. L'unico che poteva difenderlo, Marc'Antonio, era stato trattenuto in anticamera da Trebonio. Cesare dapprima cercò di ripararsi col braccio, ma smise quando vide, fra gli assassini, anche Bruto. È molto probabile che abbia detto effettivamente:

«Anche tu, figlio mio?», come ha raccontato Svetonio. È una frase che avrebbe pronunciato qualunque padre, in quelle condizioni.

Cadde trafitto di colpi ai piedi della statua di Pompeo, che aveva fatto egli stesso installare lì e cui usava inchinarsi quando vi passava davanti.

Il colpo lasciò sgomenti e incerti coloro stessi che lo avevano fatto. Agitando il pugnale insanguinato, Bruto lanciò un reboante evviva a Cice-rone, chiamandolo "Padre della Patria" e invitandolo a tenere un discorso. Atterrito all'idea di venire mescolato in quella faccenda e avvertendo l'inopportunità di ogni retorica, il grande avvocato rimase, per la prima volta in vita sua, senza parola. Marc'Antonio rientrò, vide il cadavere steso per terra, e tutti si aspettarono da lui uno scoppio d'ira vendicatrice. Invece il "fedelissimo" tacque e silenziosamente uscì. Fuori, la folla si ammassava inquieta per la notizia che già aveva cominciato a circolare. Timorosamente, i congiurati si fecero sul portone, e qualcuno di loro cercò di spiegare l'accaduto giustificandolo come un trionfo della libertà. Ma la parola non aveva più alcun fascino per i romani che l'accolsero con minacciosi brontolii. I congiurati si ritirarono, barricandosi in Campidoglio e mettendovi a guardia i loro servi armati, e mandarono un messaggio a Marc'Antonio perché accorresse a trarli d'impaccio.

Il "fedelissimo" venne l'indomani, quando Bruto e Cassio avevano già inutilmente pronunciato un secondo discorso per calmare la folla, sempre più minacciosa. Vi riuscì alla meglio lui con un abile discorso, in cui chiese il mantenimento dell'ordine promettendo in cambio il castigo dei colpevoli. Poi andò da Calpurnia, annientata dal dolore, e si fece dare, sigillato in

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busta, il testamento di Cesare. Lo consegnò alle Vestali, com'era l'uso di Roma, senz'aprirlo, tanto era sicuro di esservi designato come erede. Mandò segretamente a chiamare le truppe accampate fuor di città; e, tornato in Senato, pronunciò un'allocuzione di cesareo equilibrio ch'era già un programma di governo e mirava alla distensione. Approvò la proposta di amnistia generale avanzata da Cicerone a patto che il Senato ratificasse tutti i progetti lasciati in sospeso da Cesare. Promise a Cassio e a Bruto un governatorato che gli consentisse di allontanarsi da Roma, e li trattenne quella sera a cena con sé.

Il 18 fu incaricato di pronunciare l'elogio di Cesare in occasione del suo funerale, che fu quanto di più solenne si fosse mai visto a Roma. La comunità israelitica, grata a Cesare dell'amichevole trattamento che ne aveva ricevuto, seguiva il feretro mescolata ai veterani cantando i suoi antichi e solenni inni. I soldati gettarono le loro armi sulla pira, gli attori e i gladiatori i loro costumi. Tutta la notte l'intera cittadinanza rimase raccolta intorno alla bara.

L'indomani Antonio si fece consegnare il testamento dalle Vestali, solennemente lo aprì dinanzi alle alte cariche dello stato, e ne diede pubblica lettura. Della sua privata fortuna che ammontava a circa cento milioni di sesterzi, Cesare ne lasciava a ogni cittadino romano; e al municipio, come pubblico parco, donava i suoi meravigliosi giardini. Il resto doveva essere diviso fra i tre suoi pronipoti, uno dei quali, Caio Ottavio, veniva adottato come figlio e designato erede.

Il "fedelissimo", che quarantott'ore dopo l'assassinio del suo capo aveva invitato a cena gli assassini, era ripagato della sua strana fedeltà.

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CAPITOLO DODICESIMO

ANTONIO E CLEOPATRA

SALVO i più intimi amici di casa, che ve lo avevano visto adolescente,

nessuno a Roma conosceva questo Caio Ottavio, destinato a cambiare due volte di nome, e con l'ultimo, Augusto, a passare alla storia come il più grande uomo di stato di Roma. Sua nonna era stata Giulia, la sorella di Cesare, andata sposa a un provinciale di Velletri, cafone e quattrinaio. Suo padre aveva fatto una discreta carriera ed era finito governatore in Macedonia. Quanto a lui, il ragazzo, era cresciuto sotto una disciplina quasi spartana, aveva studiato con profitto, e lo zio Cesare che, rimasto senza figli legittimi nonostante tutte quelle mogli che aveva impalmato, se l'era preso in casa, ci s'era affezionato. Se l'era condotto dietro in Spagna, quando vi andò nel 45 a debellarvi gli ultimi resti pompeiani. E in quell'occasione aveva ammirato la forza di volontà di quel giovanottello imberbe e fragile nell'affrontare fatiche sproporzionate alla sua salute. Infatti soffriva di colite, di eczema e di bronchitelle: malanni che col tempo diventarono sempre più acuti e l'obbligarono a vivere come un pulcino nella stoppa, con pancere, scialli, berretti di lana, un armamentario di pillole, unguenti e sciroppi al seguito, e un medico a portata di mano, anche in battaglia. Non beveva, mangiava come un uccellino, aveva un sacrosanto terrore degli spifferi, ma affrontava il nemico col più freddo coraggio, e non compiva un gesto, anche il più. ordinario, senz'averne prima soppesato accuratamente i pro e i contro.

Cesare, il brillante improvvisatore scavezzacollo e di manica larga, dalla generosità irriflessiva, dalla parola pronta e dal gesto vivace, dovette prenderlo in simpatia per amor di contrasto. Ne seguì gli studi, lo istradò versò quelli di strategia e di amministrazione, e appena diciassettenne gli affidò un piccolo comando in Illiria perché facesse pratica di milizia e di go-verno. Fu qui che un messo lo raggiunse sulla fine di marzo con la notizia della morte dello zio e del suo testamento. Accorse a Roma e, contro il parere di sua madre che diffidava di Marc'Antonio, andò a trovare costui che lo trattò con disprezzo chiamandolo "ragazzetto".

Il ragazzetto non se la prese. Ma chiese quietamente se il denaro che Cesare aveva lasciato ai cittadini e ai soldati era stato effettivamente distribuito. Antonio rispose che c'era qualcosa di più urgente a cui pensare.

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E Caio Ottavio che ora, per l'adozione, aveva preso il nome di Caio Giulio Cesare Ottaviano, si fece prestare i fondi dai ricchi amici del defunto e li distribuì come questi aveva ordinato. I veterani cominciarono a guardare con simpatia al "ragazzetto" che prometteva di saperci fare.

Irritato, Antonio dichiarò qualche giorno più tardi di essere stato vittima di un attentato e di aver saputo dall'attentatore ch'era stato Ottaviano a organizzare il colpo. Ottaviano chiese delle prove. E, siccome esse non vennero addotte, raggiunse le due legioni che frattanto aveva richiamato dall'Illiria, le unì a quelle dei due consoli in carica, Irzio e Pansa, e con essi marciò contro Antonio.

Non aveva che diciotto anni, in quel momento, e per questo il Senato fu dalla sua parte. Gli aristocratici erano allarmati dalle prepotenze di Antonio che, una volta vistosi defraudato dell'eredità di Cesare, cercava di accaparrarsela con la forza. In quei pochi giorni di potere, egli aveva saccheggiato il Tesoro, appropriandosi quindici miliardi, occupando arbitrariamente il palazzo di Pompeo e autonominandosi governatore della Gallia Cisalpina per avere il pretesto di tenere un esercito in Italia e diventarne così il padrone. Il Senato si accorse che, a lasciarlo fare, al Cesare morto se ne sarebbe sostituito un altro e peggiore. E per questo decise di favorire Ottaviano, un "ragazzetto" che avrebbe dato meno ombra. Cicerone prestò la sua oratoria a questa lotta contro Antonio in una serie di Filippiche che si appuntavano soprattutto sulla sua vita privata. Materia ce n'era. Antonio, che aveva allora trentott'anni, li aveva riempiti di prodezze militari, di soprusi, di generosità e di indecenza. Lo stesso Cesare, pur di manica larga com'era e volendogli bene, aveva dovuto scandalizzarsi per l'harem di ambo i sessi che il suo generale si portava dietro, anche in guerra. Antonio era un aristocratico ignorante e amorale, robusto, sanguigno e manesco. Cicerone, frugandone la condotta, vi trovò pretesto a tutte le accuse.

Lo scontro fra i due eserciti avvenne presso Modena. E la fortuna assistè così sfacciatamente Ottaviano da lasciarlo unico generale superstite: Irzio e Pansa erano caduti, e Antonio, battuto per la prima volta in vita sua, era fuggito. Così il "ragazzetto" rientrò a Roma alla testa di tutte le truppe acquartierate in Italia, andò in Senato, impose la propria nomina a console, l'annullamento dell'amnistia ai cospiratori degl'Idi di marzo e la loro condanna a morte. Il Senato, che aveva contato di usarlo come suo strumento, s'indignò e resistè. Ottaviano convocò un altro luogotenente di Cesare, Lepido, lo mandò come ambasciatore di pace ad Antonio, e stabilì con loro due il secondo Triumvirato, mostrando anche così di aver messo a profitto la lezione dello zio. Il Senato chinò la testa ed ebbe agio di riflettere che il successore d'un dittatore fa sempre rimpiangere il predecessore.

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Pattuglie di soldati furono dislocate a tutte le porte della città, e la gran vendetta ebbe inizio. Trecento senatori e duemila funzionari furono incolpati dell'assassinio, processati e uccisi, dopo il sequestro di tutti i loro beni. Venticinquemila dracme, circa dieci milioni di lire, era la taglia posta sulla testa di chi fuggiva. Ma i più preferirono uccidersi, e nel gesto ritrovarono lo stile dei grandi romani antichi. Il tribuno Salvio diede un banchetto, bevve il veleno, e la sua ultima volontà fu che il pranzo continuasse, presente il proprio cadavere. Lo accontentarono. Fulvia, la moglie di Antonio, fece impiccare sulla porta di casa l'innocente Rufo, solo perché costui non aveva voluto vendergliela. Suo marito non potè impedirglielo perché in quel momento era a letto con la moglie di Coponio, il quale in tal modo ebbe salva la vita.

Ma la preda più ghiotta, per Antonio, fu Cicerone, non solo perché aveva ancora nel gozzo le Filippiche del grande avvocato, ma anche perché doveva vendicare Clodio, di cui aveva sposato la vedova, e Lentulo, che Cicerone aveva fatto trucidare in galera al tempo di Catilina, e di cui Antonio era il figliastro. Il "Padre della Patria" aveva cercato di fuggire imbarcandosi ad Anzio. Ahimè, soffriva il mal di mare che gli parve peggiore della morte e lo costrinse a sbarcare a Formia. Le pattuglie di Antonio gli piombarono addosso. Cicerone vietò ai suoi servitori di tentare la resistenza, e offrì docilmente il collo. La sua testa decapitata fu portata insieme con la mano destra ai triumviri. Antonio ne tripudiò di gioia. Ottaviano s'indignò, o finse d'indignarsi. Non aveva mai avuto simpatia per Cicerone, che si era mostrato ambiguo verso lo zio, con gli assassini del quale aveva fatto lega dopo averlo esaltato da vivo. Quanto a lui, Ottaviano, lo aveva definito laudandum adolescentem, ornandum, tollendum. Sembravano elogi. Ma tollendum voleva dire non soltanto "da esaltare", ma anche "da uccidere". E nella bocca di Cicerone questi doppi sensi si sapeva benissimo come dovevano essere interpretati.

Così finì, vittima della propria oratoria, il più grande oratore di Roma. Ora restavano da castigare i due principali colpevoli, Bruto e Cassio che,

andati governatori rispettivamente di Macedonia e di Siria, avevano unito le loro forze e formato con esse l'ultimo esercito della Roma repubblicana, che non era destinato a lasciare un gran ricordo in quelle province. La Palestina, la Cilicia, la Tracia furono letteralmente spogliate. Intere popolazioni, specialmente ebree, che non avevano di che pagare i contributi, furono ridotte in schiavitù e vendute. La virtù non impedì a Bruto di assediare, affamare e ridurre al suicidio in massa gli abitanti di Xanto. Le armate di Antonio e Ottaviano, quando giunsero, furono accolte come "liberatrici".

Lo scontro avvenne a Filippi nel settembre del 42. Bruto ruppe lo schieramento d'Ottaviano, ma Antonio sfondò quello di Cassio che si fece

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uccidere da un attendente. Ottaviano era a letto, dentro la tenda, con una delle sue solite influenze. Antonio aspettò che guarisse per gettarsi con lui all'inseguimento di Bruto. Questi, vedendo i suoi uomini sbandarsi, si avventò sulla spada di un amico restandovi infilzato. Antonio ne ricercò il cadavere, lo coprì pietosamente con la sua tunica di porpora. Si ricordava che Bruto aveva posto una sola condizione alla sua partecipazione al complotto contro Cesare: che Antonio venisse risparmiato.

A Filippi caddero, con la Repubblica, i più bei nomi dell'aristocrazia che ne costituiva il puntello. Coloro che non vi trovarono la morte sul campo, la cercarono nel suicidio, come fecero il figlio di Ortensio e quello di Catone. Erano quanto restava di meglio dell'antico patriziato romano: per lo meno, si mostrarono sino all'ultimo soldati coraggiosi. A casa erano rimasti gl'imboscati e gl'intrallazzatori, gente disposta, pur di non faticare e rischiare, ad accettare tutto, anche la spartizione che i vincitori fecero del grande Impero. A Ottaviano toccò la fetta europea; a Lepido quella africana; Antonio scelse l'Egitto, la Grecia e il Medio Oriente. Ognuno di questi tre uomini sapeva che l'accomodamento era provvisorio; ognuno di essi, meno Lepido che si contentava, sperava di far fuori, prima o poi, gli altri due. Il più sicuro di riuscirci era Antonio, che credeva solo nella forza militare e sapeva di essere, come generale, superiore agli altri.

Egli mandò, come prima cosa, un messaggio a Cleopatra, ingiungendole di raggiungerlo a Tarso per rispondere alle accuse, che qualcuno le muoveva, di aver aiutato e finanziato Cassio. Cleopatra obbedì. Il giorno fissato per la sua comparsa, Antonio si dispose a riceverla dall'alto d'un maestoso trono in mezzo al Foro, dinanzi alla popolazione eccitata dall'imminente processo. Cleopatra giunse su una nave con le vele rosse, il rostro dorato, la chiglia laminata d'argento. La ciurma era composta dalle sue cameriere vestite da ninfe che facevano corona a una canopia di lamé sotto la quale essa stessa giaceva in un provocante costume da Venere, intenta alle arie che intorno le suonavano con pifferi e flauti.

Quando la notizia di questa straordinaria apparizione sulle acque del fiume Cidno si sparse in città, tutti accorsero al porto, per vederla, come oggi accorrono per vedere Sofia Loren, lasciando Antonio solo e fuori dei gangheri. La mandò a chiamare. Essa gli fece rispondere che lo aspettava a bordo per pranzo. Furioso, Antonio andò, sempre considerando se stesso il giudice e lei l'accusata. Ma, vedendola, rimase di stucco. L'aveva conosciuta bimbetta ad Alessandria, poi non l'aveva più rivista, e ora se la ritrovava di fronte, donna fatta, e fatta in un certo modo che spiegava benissimo come mai perfino Cesare c'era rimasto impigliato. I suoi generali erano già tutti rimbambolati ai piedi di lei. All'aperitivo, egli cominciò ad accusarla burbanzosamente. Alla frutta, le aveva regalato la Fenicia, Cipro e grossi

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bocconi dell'Arabia e della Palestina. Essa lo ricompensò quella notte stessa, e i generali dovettero contentarsi delle ninfe. Poi se lo rimorchiò ad Alessandria, dov'egli sembrò aver del tutto dimenticato la provvisorietà della sua condizione. Cleopatra invece se ne rendeva conto benissimo. Essa sapeva che l'Impero non tollerava tre padroni. Non amava Antonio, forse non aveva mai amato nessuno. Ma pensò di farne lo strumento del colpo che non le era riuscito con Cesare.

Mentre questo avveniva ad Alessandria, Ottaviano, a Roma, gettava le basi della riunificazione. Il compito non era facile. Sesto Pompeo, in Spagna, aveva ricominciato ad agitarsi e bloccava i rifornimenti, la disoccupazione dilagava, l'inflazione minacciava, il Senato faceva la fronda e bisognava comprarlo volta per volta. Per di più la moglie di Antonio, Fulvia, forse per sottrarre il marito alle stregonerie di Cleopatra richiamandolo a Roma, organizzò un complotto col fratello di lui, Lucio. Essi arruolarono un esercito e lanciarono un appello di rivolta agl'italiani. Dovette intervenire Marco Agrippa, il più fidato luogotenente di Ottaviano, per soffocare il tentativo. Lucio si arrese a Perugia. Fulvia morì di rabbia, di delusione e di gelosia.

Cleopatra vide in questo avvenimento il pretesto per spingere Antonio a giocare la gran carta. Egli adunò l'esercito, lo imbarcò sulla flotta. E, sbarcato a Brindisi, vi assediò la guarnigione di Ottaviano. Ma i soldati si rifiutarono di battersi dall'una e dall'altra parte, obbligando i loro generali a far pace. Essa fu saldata con un matrimonio: quello di Antonio con la sorella di Ottaviano, Ottavia, una donna perbene, da cui era pazzia sperare che quello scavezzacollo si lasciasse imbrigliare.

La storia non ha registrato le reazioni di Cleopatra a questo episodio che mandava in fumo tutti i suoi piani. Antonio, lontano da lei, sembrò aver ritrovato un po' di ragionevolezza. Condusse la sposa a Atene, dove essa, donna istruita, lo portò a visitare i musei e ad ascoltare le lezioni dei filosofi, nella speranza di fargli prendere gusto alla cultura. Antonio fingeva di guardare e di ascoltare. In realtà pensava a Cleopatra e alla guerra, le uniche due cose al mondo che gli piacessero veramente. Forse rifletté che, delle due, la guerra era meno pericolosa. E, stanco di perbenismo e di virtù casalinghe, rimandò Ottavia a Roma e si avviò col suo esercito contro la Persia dove Labieno, figlio del generale traditore di Cesare, stava organizzando un'armata al servizio di quel re ribelle. Cleopatra raggiunse Antonio ad Antiochia, disapprovò l'impresa, si rifiutò di finanziarla, ma vi seguì l'amante. Questi corse inutilmente dietro al nemico per cinquecento chilometri, perse buona parte dei suoi centomila uomini, impose un teorico vassallaggio sull'Armenia, si proclamò vincitore, offrì a se stesso un solenne trionfo ad Alessandria scandalizzando Roma che si riteneva unica

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depositaria di quelle cerimonie, mandò un'intimazione di divorzio a Ottavia rompendo così l'unico vincolo che tuttora lo legava a Ottaviano, sposò Cleopatra, dando in dote tutto il Medio Oriente ai due figli che aveva avuto da lei, e nominò Cesarione principe ereditario di Egitto e Cipro.

Così egli stesso rese inevitabile il conflitto con Ottaviano che lo andava preparando con la sua abituale e cauta tenacia. Anche lui aveva avuto le sue complicazioni sentimentali. Si era innamorato, figuratevi, di una donna incinta di cinque mesi, Livia, la moglie di Tiberio Claudio Nerone. Si era già sposato due volte, prima di allora, sebbene fosse sotto i trenta: prima con Claudia, poi con Scribonia che gli aveva dato una figlia: Giulia. Ora divorziò anche da questa seconda sposa e persuase amichevolmente Tiberio Claudio Nerone a fare altrettanto con Livia, per prendersela lui, con due figli: Tiberio, già grandicello, e Druso che stava per nascere. Li adottò come fossero stati suoi.

Ma, liquidate queste pendenze coniugali, si era messo di buzzo buono al lavoro di ricostruzione. Il blocco di Sesto fu eliminato con la distruzione della sua flotta, l'ordine fu ristabilito, una rinata fiducia disgelò i capitali imboscati. Marco Agrippa, oltre che un buon generale, si rivelò un ministro della Guerra incomparabile. Egli fu il vero riorganizzatore del grande esercito che doveva riportare l'unità di comando nell'Impero romano.

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CAPITOLO TREDICESIMO

AUGUSTO

NELLA primavera dell'anno 32 avanti Cristo giunse a Roma un messo di

Antonio con una lettera al Senato in cui il triumviro proponeva ai suoi due colleghi di deporre tutti insieme il potere e le armi e di ritirarsi a vita privata dopo aver restaurato le istituzioni repubblicane. Ci pare impossibile che uno scervellato di quella fatta abbia potuto concepire una mossa così accorta. Ci doveva essere lo zampino di Cleopatra.

Ottaviano si trovò nei pasticci. Per superarli, egli tirò fuori il testamento di Antonio, dicendo di averlo avuto dalle Vestali che lo tenevano in custodia. Esso designava suoi soli eredi i figli avuti da Cleopatra e costei reggente. Abbiamo molti dubbi sull'autenticità di quel documento. Ma esso servì a confermare i sospetti che tutta Roma nutriva per quell'intrigante e permise a Ottaviano di bandire una guerra "d'indipendenza", che con molta perspicacia egli non dichiarò ad Antonio, ma a Cleopatra.

Fu una guerra di mare. Le due flotte si scontrarono ad Azio. E quella di Ottaviano, comandata da Agrippa, sebbene inferiore come unità, mise in rotta quella avversaria che ripiegò in disordine su Alessandria. Ottaviano non la inseguì. Sapeva che il tempo lavorava per lui e che più Antonio restava in Egitto, e più vi si logorava in orge e mollezze. Sbarcò ad Atene per rimettere ordine nelle cose di Grecia. Tornò in Italia a sedarvi una rivolta. Poi la prese larga, dall'Asia, per distruggere le alleanze che vi aveva lasciato Antonio, isolandolo. Alla fine mosse verso Alessandria, e per strada ricevette tre lettere: una di Cleopatra unita a uno scettro e a una corona, pegni di sottomissione; e due di Antonio che impetrava pace. A lui non rispose. A lei replicò che le avrebbe lasciato il trono se uccideva il suo amante. Dato il tipo, stupiamo ch'essa non lo abbia fatto.

Col coraggio della disperazione, Antonio lanciò un attacco e ottenne una parziale vittoria, che non impedì a Ottaviano di chiudere la città in una morsa. Ma il giorno dopo i mercenari di Cleopatra si arresero e ad Antonio giunse notizia che la regina era morta. Cercò di uccidersi con un colpo di pugnale. E quando, agonizzante, seppe ch'essa era invece ancora viva, si fece trasportare nella torre dove si era barricata con le sue ancelle, e fra le sue braccia spirò. Cleopatra chiese a Ottaviano il permesso di seppellire il cadavere e di accordarle un'udienza. Ottaviano glielo concesse. Essa si

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presentò a lui come si era presentata a Antonio: profumata, bistrata e am-mantata solo di regali veli. Ahimè, sotto quei veli c'era ora una donna di quarant'anni, non più di ventinove, e si vedevano tutti. Il suo naso aveva smesso di trovar compensi nella freschezza delle carni e nella luminosità del sorriso. Augusto non ebbe bisogno di ricorrere a una gran forza di carattere per trattarla con freddezza e annunziarle che l'avrebbe condotta a Roma come ornamento del suo carro di trionfatore. Forse, più che come regina, Cleopatra si sentì perduta come donna; e fu questo che la spinse al suicidio. S'incollò un aspide al seno e se ne lasciò avvelenare, imitata dalle sue ancelle.

Ottaviano liquidò l'eredità sua e di Antonio con un "tatto" da cui si può ricostruire tutto il suo carattere. Concesse che i due cadaveri venissero seppelliti l'uno accanto all'altro. Ammazzò il giovane Cesarione, mandò i figli dei due defunti a Ottavia, che li allevò come se fossero stati suoi, dell'Egitto si proclamò re per non umiliarlo proclamandolo provincia romana, ne intascò l'immenso tesoro, vi lasciò un prefetto, tornò a casa; quietamente fece sopprimere anche il maggiore dei figli avuti da Antonio con Fulvia. E con la tranquilla coscienza di chi avesse compiuto con quegl'infanticidi il proprio dovere, si rimise al lavoro.

Aveva appena trentun anni in quel momento, e si ritrovava padrone assoluto di tutta l'eredità di Cesare. II Senato non aveva più né la voglia né la forza di contestargliela, e solo per cautela egli non gli chiese l'investitura al trono. Gliel'avrebbero data. Ma Ottaviano conosceva il peso delle parole e sapeva che quella di re era sgradita. Perché risvegliare certi uzzoli che ormai sonnecchiavano nelle coscienze intorpidite? I romani avevano smesso di credere alle istituzioni democratiche e repubblicane perché ne conoscevano la corruzione, ma tenevano alle forme. Essi domandavano ordine, pace, sicurezza, una buona amministrazione, una moneta sana e i risparmi garantiti. E Ottaviano si accinse a darglieli.

Con l'oro riportato d'Egitto liquidò l'esercito, che contava mezzo milione di uomini e costava troppo, trattenendone duecentomila in servizio, dei quali si proclamò Imperatore titolo puramente militare, e accasando gli altri come contadini in terre comprate apposta; annullò i debiti dei privati verso lo stato; e diede l'avvio a grandi opere pubbliche. Ma questi furono soltanto i primi passi, e i più facili. Come Cesare, Ottaviano non mirava soltanto ad amministrare, ma voleva compiere una gigantesca riforma che rifondasse tutta la società sul modello disegnato dallo zio. Per far questo, gli occorreva una burocrazia, di cui egli fu il vero inventore. Intorno a sé, formò una specie di gabinetto ministeriale, composto di tecnici, nella cui scelta ebbe la mano felice. C'era un grande organizzatore come Agrippa, un gran finanziere come Mecenate, e vari generali, fra i quali fece presto spicco il

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figliastro Tiberio. Poiché costoro appartenevano quasi tutti alla grande borghesia, e gli

aristocratici si lamentavano d'esserne esclusi, Ottaviano scelse una ventina di loro, tutti senatori, e ne fece una specie di Consiglio della Corona, che piano piano diventò il portavoce del Senato e ne vincolò le decisioni. L'Assemblea o Parlamento continuò a riunirsi e a discutere, ma sempre con meno frequenza e senza mai un tentativo di bocciare qualche proposta di Ottaviano. Questi concorse regolarmente al consolato per tredici volte, e naturalmente altrettante volte vinse. Nel 27 d'improvviso rimise tutti i suoi poteri al Senato, proclamò la restaurazione della Repubblica e annunciò che voleva ritirarsi a vita privata. Non aveva che trentacinque anni in quel momento e l'unico titolo che aveva accettato era quello, nuovo, di principe. Il Senato rispose abdicando a sua volta e rimettendo a lui tutti i suoi poteri, supplicandolo di assumerli e conferendogli quell'appellativo di Augusto, che voleva dire letteralmente "l'aumentatore" ed era un aggettivo, ma poi nell'uso diventò un sostantivo. E Ottaviano vi consentì con aria rassegnata. Fu una scena perfettamente recitata da ambedue le parti e dimostrò che ormai la fronda conservatrice e repubblicana era finita: anche gli orgogliosi senatori preferivano un padrone al caos.

Ma il padrone seguitò a mostrarsi discreto nell'uso dei suoi poteri. Abitava il palazzo di Ortensio, ch'era molto bello, ma non lo trasformò in una reggia, e come appartamento personale si riservò una piccola stanza al pianterreno con uno studio, monacalmente arredati. Anche quando, tanti anni dopo, l'edificio andò in rovina per un incendio ed egli ne costruì un altro uguale, tenne a che gli rifacessero identiche quelle due stanze. Perché era abitudinario, sobrio e ligio agli orari. Lavorava duro, considerandosi il primo servitore dello stato. E scriveva tutto: non solo i discorsi che doveva pronunciare in pubblico, ma anche quelli che teneva in casa, con la moglie e i familiari. Bisognerà aspettare Francesco Giuseppe d'Austria, cui in molte cose somiglia, per trovare nella storia un sovrano altrettanto ligio al dovere, rispettabile, prosaico, poco amabile e sfortunato negli affetti domestici.

Questi erano rappresentati da Giulia, la figlia avuta da Scribonia; da Livia, la sua terza moglie; e dai due figliastri che costei gli aveva portato in casa: Druso e Tiberio. Livia fu, come moglie inappuntabile, anche se un po' noiosa col suo ostentato virtuismo. Educò bene i ragazzi, fece molta beneficenza, e portò con disinvoltura le corna che suo marito via via le faceva. Tutto lascia credere ch'essa teneva, più che all'amore, al potere di Augusto e alla carriera dei figli, che infatti la fecero alla svelta. Generali a vent'anni, furono mandati a soggiogare l'Illiria e la Pannonia. Augusto, che realizzò la pax romana, rinunziò presto alla guerra e a nuove annessioni. Ma voleva garantire i confini dell'Impero, continuamente minacciati. Druso, il

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suo preferito, li spostò dal Reno all'Elba per renderli più sicuri, battendo brillantemente i germani. Ma cadde da cavallo e si ferì gravemente. Tiberio, che lo adorava e si trovava in Gallia, galoppò quattrocento miglia per raggiungerlo e fece in tempo a chiudergli gli occhi. Augusto fu scosso dalla morte di quel ragazzo allegro, impetuoso ed espansivo, di cui pensava di fare il proprio successore. Ora sperò che Giulia gli desse un altro erede.

Era lei, quella ragazza vivace, sensuale e scorbellata, il suo occhio destro. A quattordici anni l'aveva sposata a Marcello, il figlio di sua sorella Ottavia, la vedova di Antonio. Ma Marcello era morto poco dopo; e Giulia era diventata la "vedova allegra" di Roma, Si divertiva non solo a farle, ma anche a raccontarle. E suo padre, che aveva cominciato a emanare leggi per il ristabilimento della morale, pensò di rimetterla sulla buona strada con un altro marito: quel Marco Agrippa, ministro della Guerra, che, dopo avergli dato la vittoria ad Azio, era diventato il suo più fidato e abile collaboratore. Gran gentiluomo, gran soldato, grande ingegnere, egli aveva pacificato la Spagna e la Gallia, riorganizzato i commerci, costruito strade, ed era l'unico pezzo grosso di cui non si mormorasse nemmeno che ci speculava sopra. Augusto, che aveva la stoffa del "pianificatore" e si riteneva in diritto di regolare anche la felicità altrui, non si curò del fatto ch'egli avesse quarantadue anni, mentre Giulia ne aveva diciotto, e fosse il marito di una moglie che lo rendeva felice. Gl'impose il divorzio e le nuove nozze.

La coppia non poteva essere peggio assortita, sebbene mettesse al mondo cinque figli, che stranamente somigliavano ad Agrippa. Quando sfrontatamente ne chiesero la spiegazione a Giulia, questa rispose altrettanto sfrontatamente:

«Io non faccio salire nuovi marinai sulla nave che quando è già carica». Otto anni dopo Agrippa morì, e Giulia ridiventò la vedova allegra di Roma. Di nuovo Augusto volle porvi rimedio e le impose un terzo matrimonio: con Tiberio stavolta, in cui vedeva ora, o in cui Livia gli faceva vedere, un possibile reggente dell'Impero fin quando non fossero stati maggiorenni i figli di Giulia, Gaio e Lucio. Anche Tiberio era già sposato, e precisamente con la figlia di Agrippa, Vipsania, che lo rendeva felice. Ma questa felicità non coincideva con quella pianificata da Augusto, che la distrusse per creare al suo posto un'infelicità. Divenuto il successore di Agrippa dopo esserne stato il genero, Tiberio subì da Giulia tutto quello che il più disgraziato dei mariti può subire dalla moglie. Quando non ne potè più, si ritirò a vita privata a Rodi, e ci visse sette anni, dedito solo agli studi, mentre Giulia offuscava coi suoi scandali il ricordo di Clodia. Gaio e Lucio erano morti, l'uno di tifo, l'altro in guerra. Augusto, ormai sessantenne, affranto da queste sciagure, roso dall'eczema e dai reumatismi e sempre più sotto la pantofola di Livia, alla fine bandì sua figlia per immoralità, facendola rinchiudere a

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Ventotene, richiamò Tiberio e lo adottò come figlio ed erede, sempre continuando a disamarlo.

Forse credeva in quel momento di essere sull'orlo della morte. La colite e le influenze non gli davano tregua, e non faceva un passo senza il suo medico personale, Antonio Musa. Era diventato puntiglioso, sospettoso e crudele. Per una indiscrezione, fece rompere le gambe al suo segretario Tallo. E per proteggersi da inesistenti complotti, inventò la polizia, cioè quei "pretoriani" o guardie del corpo, che dovevano svolgere una così nefasta parte sotto i suoi successori. Fatto più scettico e amaro dalle sofferenze, egli vedeva con chiarezza il fallimento della sua opera di ricostruzione. Sì, c'era la pax augusta, e i marinai orientali venivano a rendergli grazie per la sicurezza con cui ora navigavano. Ma sull'Elba Varo era stato massacrato con tre legioni da Arminio, il confine aveva dovuto esser ritirato sul Reno, e Augusto intuiva che al di là di esso, nel buio delle loro foreste, le tribù germaniche erano in ebollizione. Sì, i commerci riorganizzati da Agrippa rifiorivano, e la moneta, risanata da Mecenate, era sicura. La burocrazia funzionava. L'esercito era forte. Ma la grande riforma del costume era fallita. Divorzi e malthusianismo avevano ucciso la famiglia e il ceppo romano si era quasi estinto. L'ultimo censimento rivelava che i tre quarti della cittadinanza erano liberti o figli di liberti forestieri. Si erano costruiti centinaia di nuovi templi, ma dentro non c'erano dèi perché nessuno credeva che ci fossero. Una morale non si rifà senza una base religiosa. Augusto aveva cercato di rianimare l'antica fede, senza condividerla, e il popolo gli rispose facendo finta di adorare lui come dio.

Giulia, che morì in esilio, aveva lasciato ad Augusto una nipotina, che si chiamava Giulia come lei, e purtroppo dimostrò subito di voler imitare sua madre non solo nel nome. Anch'essa il nonno dovette confinare per immoralità. Distrutto da questo nuovo dolore, pensò di lasciarsi morire per fame. Poi i doveri d'ufficio, cui era restato attaccatissimo, e la certezza di non averne più per molto, ebbero la meglio. Invece, come tutti coloro che reggono l'anima coi denti, egli resse la sua molto a lungo, per quei tempi. Aveva settantasei anni quando, in convalescenza a Nola dopo una bronchite, lo sorprese la fine. Quella mattina aveva lavorato come al solito, dalle otto a mezzogiorno, firmando tutti i decreti, rispondendo a tutte le lettere, da quel perfetto funzionario che era. Fece chiamare Livia, con cui stava per celebrare le nozze d'oro, e la salutò affettuosamente. Poi, da vero grande romano, si rivolse agli astanti e disse: «Ho recitato bene la mia parte. Congedatemi dunque dalla scena, amici, coi vostri applausi».

I senatori portarono la bara sulle loro spalle per tutta Roma, prima di cremare il cadavere nel Campo Marzio. Forse sarebbero stati contenti della sua morte, se non avessero saputo che a succedergli era già designato Tiberio.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

ORAZIO E LIVIO

ANNI prima, quand'era tornato vittorioso dalla campagna contro Antonio,

Augusto aveva trovato, ad aspettarlo a Brindisi, Mecenate con un giovane poeta mantovano, Virgilio. Era il figlio di un impiegato di stato di sangue celtico, cui i legionari avevano sequestrato la piccola fattoria in cui aveva investito i suoi risparmi. Il ragazzo era venuto a Roma, vi aveva pubblicato un libro di poesie, Le ecloghe, che avevano avuto un bel successo, Mecenate lo proteggeva e ora voleva farne uno strumento della propaganda di Augu-sto, cui era venuto a presentarlo.

Augusto si fece leggere dall'autore il manoscritto delle Georgiche, ancora inedite, e lo prese in simpatia per due ragioni che con l'arte, di cui s'infischiava, avevano poco a che fare: prima di tutto perché Virgilio era malaticcio e scassato come lui e quindi poteva discorrerci a suo piacere di bronchiti, di tonsilliti e di coliti; eppoi perché quelle poesie celebravano i piaceri della vita rustica e frugale, cui Augusto voleva che tutti i romani tornassero. In realtà, come disse poi Seneca, Virgilio descriveva la campagna col tono e il gusto di chi vive in città, cioè su una nota falsa. Ma Augusto non aveva orecchio per avvertirlo. Quel che gl'importava era che la poesia di Virgilio avesse delle qualità didattiche. Ne ricompensò l'autore facendogli restituire la fattoria che avevano requisito a suo padre. Virgilio non vi tornò perché preferiva scrivere di campi standosene a Roma, ma rimase grato a Augusto e in suo onore compose l'Eneide, destinata a celebrarne le vittorie. Scriveva lentamente, con molta diligenza e scrupolo di stile, dedicando al lavoro la maggior parte della giornata perché con le rendite della fattoria e le liberalità di Mecenate non aveva bisogno di lavorare per vivere e altre distrazioni non conosceva. Non si era sposato per ragioni di salute, e i suoi amici di Napoli, dove ogni tanto andava a svernare, lo chiamavano "la verginella". Augusto era ansioso di vedere il lavoro finito. Virgilio gliene leggeva ogni tanto un pezzo, ma non arrivava mai alla conclusione. Nel 19 interruppe la stesura per raggiungere l'imperatore ad Atene, si buscò un'insolazione, e sul punto di morire a Brindisi, dove lo avevano trasportato, raccomandò di bruciare il manoscritto del poema. Forse si era reso conto che l'epica non era nelle sue corde, e preferiva affidare il proprio ricordo ad altri scritti, frammentari ed elegiaci. Augusto proibì che

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la volontà del morto fosse eseguita. Volendo serbare a propria gloria quell'incompiuto monumento, salvò alla poesia un autentico capolavoro di artificio.

Le sollecitudini di Augusto per la letteratura non si fermarono a Virgilio, ma si estesero anche a molti altri scrittori, fra cui Orazio e Properzio. Glieli presentava Mecenate, ch'era il loro impresario e dette il nome alla categoria dei protettori delle arti, facendosi perdonare con ciò i cattivi versi ch'egli smesso si piccava di comporre. Ma questo atteggiamento era diffuso ormai fra tutti i romani ricchi, diventati sensibili alla "cultura" anche quando non ne avevano. Dopo la prima casa editrice di Attico, ne erano nate molte altre, che avevano dato l'avvio a un fiorente commercio. Edizioni di cinque o diecimila copie, tutte scritte a mano dagli schiavi, venivano esaurite in pochi mesi, a mille, a duemila lire l'esemplare. Il libro era diventato guarnitura d'obbligo in ogni casa che si rispettasse, anche se poi non lo si leggeva, e dalla provincia piovevano gli ordinativi.

Questa moda ebbe un grande effetto sulla società che, da guerriera e incolta, si fece sempre più salottiera e letteraria. E appunto per questo, Augusto ci vide uno strumento di riforma morale. Fin quando la vecchiaia e i dolori non l'ebbero reso suscettibile e permaloso, egli si mostrò molto tollerante anche per gli epigrammi e le satire che lo colpivano personalmente. Fece costruire pubbliche biblioteche, raccomandò sempre a Tiberio di astenersi dai castighi e di guardarsi dalla censura, e una volta compose egli stesso qualche verso per mandarlo a un greco che ogni giorno lo aspettava all'uscita del palazzo per leggergli i suoi. Il greco lo ricompensò con una mancia di pochi denari e una cortese lettera in cui si scusava, data la sua povertà, di non poter pagare meglio. Augusto si divertì assai a quella replica spiritosa e gli fece rimettere centomila sesterzi.

Gli scrittori e i poeti però delusero le speranze dell'imperatore dando alla propaganda di stato il peggio della loro produzione, e secondando col meglio le deplorevoli tendenze di una società che si faceva sempre più libertina e scanzonata e rifiutava i grandi temi della gloria, della religione, della natura, ad essi preferendo quelli dell'amore e della galanteria. Il bardo di questi nuovi motivi fu Ovidio, un avvocato abruzzese che aveva ama-reggiato suo padre rifiutandosi di fare una carriera politica e si proclamò designato personalmente da Venere a parlare di Eros. Egli sposò tre donne, ne amò molte altre, e di tutte scrisse con gran spregiudicatezza, dichiarando che s'infischiava di tutti i catoncelli che lo criticavano. Il successo che ottenne coi suoi versi dolci e lascivi gli fece credere a tal punto di essere un grande poeta, che le ultime parole delle sue Metamorfosi furono modestamente: "Vivrò nei secoli".

Le aveva appena tracciate, che un ordine di Augusto lo raggiunse,

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intimandogli il confino a Costanza sul Mar Nero. Non si è mai saputo con precisione di cosa l'imperatore volesse castigarlo. Dicono di una sua relazione con la nipotina Giulia, che infatti era stata bandita negli stessi giorni. Ovidio, come tutti gli uomini dal successo facile, non aveva la stoffa per sopportare la disgrazia. I suoi lamenti da quel luogo di confino, Ex Ponto e Tristia, vanno più a lode della sua vena elegiaca che del suo carattere. Tornò a Roma da morto, dopo aver inutilmente chiesto in mille lettere pietà all'imperatore e aiuto agli amici,

In genere, sebbene la si sia chiamata Periodo Aureo, l'epoca di Augusto non vide una fioritura letteraria e artistica da confrontarsi con quella della Grecia di Pericle o dell'Italia del Rinascimento. Sotto quell'imperatore borghese, si sviluppò un gusto altrettanto borghese che prediligeva ciò che è medio, e ciò che è medio spesso è mediocre. La moderazione e la misura, condite di un certo bonario e casalingo scetticismo, erano le qualità più apprezzate. E infatti lo scrittore vero di questo tempo è colui che meglio le rappresentò: Orazio.

Era il figlio di un agente delle tasse pugliese, che voleva fare di quel suo rampollo un avvocato e un uomo politico e, a prezzo di chissà quali sacrifici, lo mandò a studiare prima a Roma, poi a Atene. Qui Orazio conobbe Bruto, il quale si preparava alla battaglia di Filippi, prese in sim-patia quel giovanotto e lo nominò su due piedi comandante di una legione, il che ci aiuta a comprendere come mai il suo esercito fu battuto.

Orazio, nel bel mezzo dello scontro, buttò via elmo, scudo e sciabola, e tornò a Atene per scrivervi una poesia su come sia dolce e nobile morire per la patria.

Rimpatriato senza un quattrino, s'impiegò presso un questore e si mise a scrivere versi sulle cortigiane che frequentava, perché nei salotti non era invitato, e signore perbene non ne conosceva. Un giorno Virgilio lesse un suo libro e ne parlò con entusiasmo a Mecenate che lo pregò di condurgli l'autore. Prese subito in simpatia quel provinciale un po' cafoncello, tracagnotto, orgoglioso e timido, e lo propose come segretario ad Augusto, che consentì. Ma Orazio rifiutò quella che a chiunque altro sarebbe parsa la manna del cielo: un po' perché il temperamento lo portava più alla contemplazione che all'azione, un po' perché non era né ambizioso né avido, e molto, crediamo, perché non si fidava di legar la sua sorte a quella di un uomo politico che domani poteva essere accoppato e trascinare anche lui alla medesima fine. Mecenate, per dargli modo di dedicarsi con più agio alla letteratura, gli regalò una villa in Sabina con buone terre. Essa è stata disseppellita nel 1932, e ci ha dato la misura della generosità di quel riccone. Aveva ventiquattro stanze, un gran portico, tre bagni, un bel giardino e cinque poderi.

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Ora ch'era un agiato possidente, Orazio potè abbandonarsi in pieno alla sua vera vena ch'era quella del moralista. Le sue Satire sono un prezioso campionario dei più comuni personaggi romani di quel tempo. Egli li prese dalla strada, non dalla storia e dai palazzi, e li rappresentò con scanzonato distacco, di ognuno facendo un "carattere". Ogni tanto, per mettersi al sicuro col governo, scriveva qualche verso di lode retorica e insincera a Augusto, che ne fu molto lusingato e gli ordinò di completare le Odi con un Carme secolare in cui fossero celebrate le sue imprese e quelle di Druso e di Tiberio. Orazio vi si accinse sospirando e senza punta ispirazione. Doveva vedersela con la Gloria, il Fato e gli Immancabili Destini: tutte cose più grandi di lui e per le quali non aveva simpatia. Finì quel brutto poema spossato e annoiato, dopo averlo interrotto mille volte per scrivere quelle Epistole agli amici, soprattutto a Mecenate, che rimangono, con le Satire, il suo capolavoro.

Si faceva sempre più sedentario anche per via della salute che l'obbligava a molti riguardi e a una rigida dieta. Invano Mecenate lo invitava a viaggi turistici. Orazio preferiva restare a Roma, e più ancora nella sua villa, a mangiarvi due spaghettini fatti in casa, un filino di lesso e una mela cotta. Salvo poi a vendicarsi decantando nelle sue poesie l'amicizia conviviale, i banchetti succulenti, le gran bevute e gli amori con Glicera, Neera, Pirra, Lidia, Lalage, e infinite altre donne mai esistite o appena conosciute. Aveva per la virtù un rispetto da stoico, per il piacere una simpatia da epicureo, ma non potè praticare né quella né questo per i bruciori di stomaco, i reumatismi e l'insufficienza epatica.

Non s'ingannava sulla decadenza della società e l'attribuiva giustamente a quella della religione. Ma non aveva la forza di puntellarla anche perché non credeva a nulla egli stesso.

L'angoscia della morte annuvolò i suoi ultimi anni, durante i quali non volle più venire neanche a Roma. Le sue lettere ne sono gonfie. "Hai fatto, mangiato, bevuto abbastanza, ora è tempo di andare", ripeteva a se stesso. Ma non era vero. Avrebbe voluto fare, mangiare, bere ancora un po', e senza mal di stomaco.

Morì a cinquantasett'anni, lasciando la sua proprietà all'imperatore e pregandolo di farlo seppellire accanto a Mecenate, ch'era scomparso pochi mesi prima. E fu contentato.

Quello che l'età augustea non seppe dare alle arti e alla filosofia, lo diede invece alla storia attraverso Tito Livio, altro celtico come Virgilio, e nato a Padova. Anche lui, secondo le intenzioni della famiglia, avrebbe dovuto essere un avvocato, ma preferì darsi allo studio della Roma antica per il disgusto che gl'ispirava quella contemporanea. Purtroppo, egli non ha lasciato scritto nulla delle sue personali vicende; era troppo indaffarato a

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raccontarci quelle degli Orazi e degli Scipioni, che riempivano, ab Urbe condita, cioè dalla fondazione della città, centoquarantadue libri, di cui soltanto una quarantina son giunti fino a noi. Era un lavoro immenso, a farlo come lo faceva lui, cioè senza risparmio, alla Bacchelli. E si capisce come, arrivato alle guerre puniche, non avesse più fiato e volesse smettere. Fu Augusto a spingerlo avanti.

C'è un po' da stupirne visto che l'opera di Livio è tutta a esaltazione della grande aristocrazia, repubblicana e conservatrice, e come tale avversa a Cesare e al cesarismo. Ma è anche un inno agli antichi austeri costumi, cioè al "carattere" romano, ed era questo che piaceva all'imperatore. Sull'esattezza di quel che Livio riferisce facciamo le nostre riserve, specie là dov'egli mette in bocca ai suoi personaggi interi discorsi che somigliano più a Livio che a loro. La sua è una storia di eroi, un immenso affresco a episodi, e serve più a esaltare il lettore che a informarlo. Roma, a dargli retta, sarebbe stata popolata soltanto, come l'Italia di Mussolini, da guerrieri e navigatori assolutamente disinteressati, che conquistarono il mondo per migliorarlo e moralizzarlo. Gli uomini, secondo lui, sono divisi in buoni e cattivi. A Roma c'erano solamente i buoni, e fuori di Roma solamente i cattivi. Anche un grande generale come Annibale diventa, sotto la sua penna, un comune mariuolo.

Ciò non toglie che la storia di Livio, costata cinquant'anni di fatiche a un autore che si dedicò soltanto ad essa, resti un gran monumento letterario. Forse il più grande fra quelli, piuttosto mediocri, eretti sotto il segno di Augusto.

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CAPITOLO QUINDICESIMO

TIBERIO E CALIGOLA

L'UNICA cosa sicura che si può dire di Tiberio è ch'egli era nato sotto una

cattiva stella. Giudicatene voi stessi. Quando sua madre lo portò, ragazzo, in casa d'Augusto, l'imperatore non

ebbe occhi che per suo fratello Druso, chiassone, simpatico, prepotente, impulsivo, quanto lui era timido, riservato, riflessivo e sensibile. Tiberio avrebbe potuto derivarne qualche sentimento di rancore e d'invidia. E invece ammirò affettuosamente Druso, rischiò la vita per tentare di salvarlo quando era ferito in Germania, e la sua morte fu per lui un'autentica tragedia. Ne scortò il feretro a cavallo, dall'Elba a Roma, e gli occorsero anni per guarire da quel dolore.

Aveva studiato intensamente e con profitto; appena gli diedero un esercito lo condusse di vittoria in vittoria contro nemici agguerriti e insidiosi come gl'illiri e i pannoni; quando gli diedero delle province da amministrare, le rimise in ordine con competenza e integrità. A vent'anni, già lo chiamavano "il vecchietto" per la sua serietà. Dedicava le poche ore di ozio che gli avanzavano dal lavoro per rinfrescare il greco, che sapeva benissimo, e per darsi a studi di astrologia che gli valsero la riputazione di "eretico". Non frequentava né i salotti né il Circo. E forse la prima donna che conobbe fu sua moglie Vipsania, la figlia di Agrippa, che era signora di grandi virtù e di abitudini casalinghe come le sue.

Avesse potuto restare con lei, forse il suo carattere si sarebbe serbato qual era in gioventù: quello di uno stoico sereno nella sua semplicità, generoso verso gli amici, più intransigente verso se stesso che verso gli altri. Il fatto che i soldati lo adorassero mentre a Roma lo detestavano come il modello di una virtù che costituiva un rimprovero per tutti, lo dimostra. Ma Augusto lo fece divorziare per dargli in sposa sua figlia Giulia, una sciaguratella simpaticona, ma la meno adatta a far da compagna a un uomo come quello. Perché Tiberio accettò? C'era in giuoco l'eredità, è vero. Ma egli non aveva mai mostrato di aspirarvi troppo. Era stato uno zelante collaboratore del suo patrigno, ma non gli aveva fatto mai molto la corte, e aveva preferito esserne stimato che amato. Certamente nella sua acquiescenza ci fu lo zampino di Livia, esemplare moglie di Augusto, ma terribile madre per Tiberio, di cui volle la gloria anche a costo della felicità.

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Tiberio portò le sue disgrazie coniugali con grandissimo decoro. E non è vero che si rifiutasse di denunziare Giulia per adulterio, come la legge gliene dava il diritto, anzi gliene imponeva il dovere, per non perdere i favori di Augusto. Tant'è vero che piantò baracca e burattini per ritirarsi da privato cittadino a Rodi, dove visse forse il periodo più tranquillo. Poi l'imperatore, mandata al confino Giulia e persi i figli di costei Gaio e Lucio, lo richiamò. E anche in questo riconosciamo lo zampino di Livia. Tiberio riprese il suo lavoro a fianco del patrigno fattosi ancora più insopportabile e malinconico, ne subì l'antipatia. E aveva già cinquantacinque anni, quando gli toccò di succedergli. Lo fece presentandosi al Senato e chiedendogli di esonerarlo dalla carica per restaurare la Repubblica. Il Senato la ritenne una commedia come forse era, lo supplicò di restare detestandolo e gli chiese il permesso di dare il suo nome a un mese dell'anno, come si era fatto con Augusto. «E che farete», rispose Tiberio, « dal tredicesimo successore in poi?».

Con questo sarcastico atteggiamento verso ogni forma di adulazione, il taciturno e casto Tiberio si mise a governare, lo fece con molta equità e accortezza, lasciando alla sua morte uno stato più florido e ricco di quello che aveva trovato. Ma cadde sotto la penna di Tacito e di Svetonio, due storici repubblicani, che fecero di lui il capro espiatorio di tutti i vizi del tempo.

La colpa più grave che gli si addebita è quella di aver fatto sopprimere suo nipote Germanico, dopo averlo adottato come figlio e designato come erede. Germanico era figlio di Druso e nipote di Antonio: un bel ragazzo intelligente, vivace, coraggioso, che piaceva a tutta Roma. Tiberio lo mandò a fare il governatore in Oriente per impratichirsi, e la gente mormorò che lo aveva esiliato per gelosia. Laggiù morì, e la gente disse ch'era stato Pisone ad assassinarlo su ordine dell'imperatore. Pisone si uccise per sottrarsi al processo, e la vedova di Germanico, Agrippina, fu tra le più spietate accusatrici di Tiberio, mentre la madre, Antonia, gli rimase fedelissima. E noi, fra una moglie e una madre, crediamo più alla madre.

Un'altra accusa che gli si muove è quella di crudeltà verso Livia. A Livia, certo, egli doveva il trono. Ma non doveva essere facile vivere con lei, che pretendeva di controfirmare i rescritti imperiali, ad ogni passo gli ricordava che, senza il suo aiuto, egli sarebbe rimasto un privato cittadino emigrato a Rodi, e soprattutto in casa si considerava la padrona rifiutandosi di dargliene le chiavi quando usciva. Alla fine Tiberio andò a vivere per conto suo, in un appartamento modesto e malinconico, dove nessuno gli rompesse le scatole. Ma ebbe da vedersela con Agrippina, che vantava anch'essa un credito verso di lui: la vita di Germanico.

Oltre che nipote per il matrimonio col figlio di suo fratello Druso, questa

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Agrippina era anche sua propria figliastra, perché gliel'aveva portata in dote Giulia dal matrimonio che l'aveva unita a Agrippa: una donna querula e avida con tutti i vizi della madre e senza nessuna delle sue qualità: la simpatia, lo spirito, la generosità. Essa aveva avuto da Germanico un figlio: un certo Nerone che, secondo lei, ora doveva essere designato erede al posto del defunto padre. Tiberio subiva i suoi assalti con rassegnata pazienza. « Ti senti proprio defraudata dal fatto di non essere imperatrice?», le diceva. Anche lui aveva un figlio, Druso, dategli dalla virtuosa e cara Vipsania. Ma era un buono a nulla, pieno di vizi, e lo aveva rinnegato. Cercava effettivamente un successore, ma nemmeno di Nerone era persuaso.

Una serie di complotti fu organizzata contro di lui. Gliene portò le prove Seiano, il comandante dei pretoriani del palazzo. Chissà se erano vere. Ma a poco a poco Tiberio cominciò a fidarsi solo di lui e gli permise di aumentare la guardia fino a nove coorti, senza rendersi conto del terribile precedente che stava per creare. E si ritirò a Capri.

Non si può dire che di laggiù smettesse di governare. Ma gli ordini li trasmetteva attraverso Seiano, che li modificava a suo piacere e in grazia di essi diventò il vero padrone della città. Egli scoprì un ennesimo complotto fomentato da Poppeo Sabino, Agrippina e Nerone, facendosi autorizzare a punirli. Il primo fu soppresso, la seconda esiliata a Pantelleria, il terzo si uccise. Anche Druso era morto, e anche Livia, la "Madre della Patria", come veniva chiamata per dileggio.

Un giorno sua cognata Antonia, la madre di Germanico, gli mandò segretamente, a rischio della vita, un biglietto per avvertirlo che Seiano stava a sua volta complottando per assassinare l'imperatore e sostituirlo. Tiberio impartì per lettera l'ordine di arrestare il traditore e lo consegnò per il processo al Senato, che da anni viveva nel terrore di quel satrapo. Non solo lui, ma tutti i suoi amici e parenti vennero uccisi. La figlia giovinetta, poiché la legge vietava la soppressione delle vergini, fu deflorata prima del processo. La moglie si uccise, ma non senz'avere scritto una lettera a Tiberio per denunziare Livilla, figlia di Antonia, come complice di Seiano. Tiberio la fece arrestare. Essa si uccise in carcere rifiutandosi di mangiare. Anche Agrippina si uccise. E il Tiberio che emerse da questa ecatombe familiare, da questo inferno di sangue e di tradimento, è naturale che non fosse più l'uomo di una volta. Sopravvisse sei anni, e pare che la sua mente fosse in disordine. Nel 37 si decise a lasciar Capri, e mentre risaliva la Campania una malattia lo colse, forse un infarto cardiaco. Quando videro che si riprendeva, i cortigiani lo seppellirono sotto un cuscino e lo soffocarono.

Tiberio aveva mantenuto la pace, migliorato l'amministrazione, arricchito il Tesoro. L'Impero sembrava intatto, ma la sua capitale marciva sempre di più. Per mettere una diga al disfacimento, ci sarebbe voluta la

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mano dura d'un grande riformatore. E forse Tiberio credette di ravvisarne la stoffa nel secondo figlio di Agrippina e Germanico, Gaio, che i soldati fra i quali era cresciuto in Germania chiamavano Caligola, o "Stivalino", dalle calzature che portava, di tipo militare.

E infatti sul principio parve una buona scelta. Caligola si mostrò generoso coi poveri, ridiede una parvenza di democrazia restituendo all'As-semblea i suoi poteri, era già conosciuto come un soldato valoroso e coscienzioso. La sua improvvisa e rapida trasformazione non è spiegabile che con l'ipotesi di qualche malanno, che gli sconvolse il cervello: un caso tipico di schizofrenia, o dissociazione della personalità. Cominciò ad avere crisi notturne di terrore, specie se c'era il temporale, e ad aggirarsi nel palazzo chiedendo aiuto. Grande e grosso com'era, atletico, sportivo, passava ore davanti allo specchio a farsi smorfie, che gli riuscivano benissimo per via degli occhi scoppati e di una macchia di calvizie che gli faceva una chierica in testa. A un certo punto, s'innamorò della civiltà egiziana e pensò d'introdurne i costumi a Roma. Pretese dai senatori che gli baciassero i piedi, che duellassero nel Circo coi gladiatori facendosene regolarmente accoppare, e che eleggessero console il suo cavallo, Incitato, cui fece costruire una stalla di marmo e una greppia d'avorio. Sempre per imitar l'Egitto, si prese come amanti le sue sorelle. Anzi, una, Drusilla, la sposò addirittura nominandola erede al trono, eppoi ripudiandola per impalmare Orestilla il giorno in cui essa stava andando a nozze con Gaio Pisone. Si fermò alla quarta moglie, Cesonia, ch'era incinta quando la conobbe, e piuttosto bruttina. A lei fu, chissà perché, devoto e fedele.

Può darsi che Dione Cassio e Svetonio, nel loro odio per la monarchia, abbiano un po' calcato la mano. Ma matto, Caligola doveva esserlo davvero. Una bella mattina si svegliò con l'allergia per i calvi, e tutti coloro che lo erano li fece dare in pasto alle belve del Circo, affamate dalla carestia. Poi prese in uggia i filosofi, e li condannò tutti alla morte o alla deportazione. Si salvarono solo suo zio Claudio perché era ritenuto idiota, e il giovane Seneca perché si fece credere malatissimo. Non sapendo più chi perseguitare, obbligò al suicidio la nonna Antonia solo perché un giorno, guardandola, trovò che la sua testa era bella, ma le stava male sulle spalle. Alla fine, se la riprese anche con Giove. Disse ch'era un pallone gonfiato che usurpava il posto di re degli dèi, fece mozzar la testa a tutte le sue statue e la rimpiazzò con la propria.

Peccato, perché nei rari momenti di lucidità era simpatico, cordiale, spiritoso, aveva il sarcasmo facile e la risposta pronta. A un calzolaio gallo che gli diede del "gigione" in faccia, rispose: « È vero, ma credi che i miei sudditi valgano più di me?». Infatti, se avessero valso qualcosa di più, in un modo o nell'altro se ne sarebbero sbarazzati. Invece lo applaudivano e gli

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baciavano i piedi, senatori in testa. Ci volle la risolutezza del comandante dei pretoriani, Cassio Cherea, per

liberare Roma da quel flagello. Caligola si divertiva a dargli, come parole d'ordine, osceni insulti. Cassio era permaloso e una sera, mentre accompagnava l'imperatore in un corridoio di teatro, lo pugnalò. La città stentò a crederci. Temeva che si trattasse di un trucco di Caligola per vedere chi gioiva della sua morte e punirlo in conseguenza. Per mostrare a tutti ch'era vero, i pretoriani accopparono anche la moglie Cesonia, e fracassarono la testa contro la parete alla figlia bambina.

Era una conclusione intonata ai personaggi e al fosco clima di terrore e di demenza in cui avevano vissuto. Ma ormai questa era Roma: la capitale di un Impero dove allo sfrenato satrapismo non c'era altra alternativa che il regicidio, e per il regicidio ci volevano i mercenari. I romani non sapevano più neanche ammazzare i loro tiranni.

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CAPITOLO SEDICESIMO

CLAUDIO E SENECA

I PRETORIANI che, avendo ucciso Caligola, erano padroni della situazione

e volevano restarlo, si guardarono intorno alla ricerca d'un successore di cui poter disporre a piacimento. E parve loro che il personaggio più indicato fosse lo zio del defunto, quel povero Claudio già cinquantenne, con le gambe inceppate dalla paralisi infantile e la lingua dalla balbuzie, e con l'aria stordita, che la notte dell'assassinio fu trovato nascosto dietro una colonna, a tremar di paura.

Era il figlio di Antonia e di Druso, figlio a sua volta di Druso Nerone. Ed era passato in mezzo alle tragedie della casa Claudia, protetto da una ben accreditata fama di mentecatto. Se era stata una commedia, la sua, bisogna dire ch'egli l'aveva recitata molto bene, sin da piccino, perché perfino sua madre lo chiamava "un aborto" e quando voleva dir male di qualcuno, lo definiva "più cretino del mio povero Claudio".

È difficile dire sino a che punto questo personaggio, rivelatosi poi un eccellente imperatore, fosse un idiota, o lo facesse per non pagare dazio. Certo che, in questo modo, fu l'unico della famiglia a salvarsi. Trascinando le gambette sinistrate, sputacchiando, quando parlava, in faccia a tutti, alto, appesantito dalla trippa e col naso rosso di vino, aveva vissuto sino a quell'età senza dar ombra a nessuno, studiando e componendo storie, fra cui la sua autobiografia. Parlava il greco, la sapeva lunga di geometria e di medicina. E quando si presentò al Senato per farsi proclamare imperatore, disse: «Lo so che mi considerate un povero scemo. Ma non lo sono. Ho finto di esserlo. E per questo oggi son qui». Dopodiché però sciupò tutto, tenendo una conferenza sul modo di curare i morsi delle vipere.

Claudio debuttò con una buona mancia ai pretoriani che lo avevano eletto, ma in cambio si fece consegnare da loro gli assassini di Caligola e li soppresse per instaurare, disse, il principio che gl'imperatori non si ammazzano. Poi cancellò con un colpo di penna tutte le leggi del suo predecessore e si diede a riordinare l'amministrazione, spiegandovi un senno e un equilibrio che nessuno sospettava in lui. Convinto che fra i senatori non ci fosse più nulla di buono, formò un ministero di tecnici, scegliendoli nella categoria dei liberti. E si diede a studiare e realizzare con loro opere pubbliche di grossa portata, divertendosi a fare di persona calcoli e progetti. Quello che più l'occupò fu il prosciugamento del lago Fucino. Impiegò

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trentamila sterratori e undici anni per scavare un canale e far defluire le acque. Quando tutto fu pronto, offrì ai romani, come ultimo spettacolo, prima del disseccamento, una battaglia navale fra due flotte di ventimila condannati a morte, che gli rivolsero il famoso grido: «Ave Cesare! I morituri ti salutano!», si colarono a picco gli uni contro gli altri, e affogarono. Il pubblico, che tappezzava le colline intorno, si divertì moltissimo.

Tutti si misero a ridere quando nel 43 questo imperatore sbevazzone e dall'aria scimunita e gioconda partì alla testa del suo esercito per conquistare la Britannia. Non aveva mai fatto il soldato anche perché lo avrebbero riformato alla leva, e Roma era convinta che sarebbe scappato al primo scontro. Ma quando si sparse la notizia ch'egli era morto, il cordoglio fu grande e generale: i romani si erano sinceramente affezionati a quel loro imperatore che, con tutte le sue stravaganze, si era mostrato il migliore, o almeno il più umano, fra quelli succeduti ad Augusto.

Invece Claudio non solo non era morto, ma aveva conquistato davvero la Britannia, e ora tornava portandosene dietro il re, Caractaco, che fu il primo, dei re vinti da Roma, ad essere graziato. Il merito di questa vittoria, certo, sarà stato, più che di Claudio, dei suoi generali. Ma i generali era lui che li nominava, e in queste scelte non prendeva granchi. Fu sotto di lui che si formò anche Vespasiano.

Purtroppo questo brav'uomo aveva un debole: le donne. Era un pomicione incorreggibile. Aveva già avuto, e tradito, tre mogli, quando, quasi cinquantenne, sposò la quarta, Messalina, che aveva sedici anni. Messalina è passata alla storia come la più infame di tutte le regine, e forse non è vero. Forse fu soltanto la più scostumata. Siccome non era bella, quando qualche giovanotto le resisteva, gli faceva impartire da Claudio l'ordine di cedere, trasformando così l'amore in un gesto di patriottismo. Claudio si prestava purché Messalina gli lasciasse mano libera con le cameriere. Erano, in fondo, una coppia bene assortita, ma il guaio era che Claudio si era messo in testa di riformare il costume romano su basi di austerità, e una moglie di quella fatta non costituiva il migliore esempio. Un giorno, mentre egli era assente, essa sposò addirittura il suo amante di turno, Silio. I ministri ne informarono l'imperatore dicendogli che Silio voleva sostituirlo sul trono. Claudio tornò, lo fece uccidere, eppoi mandò due pretoriani a chiamare Messalina che si era nascosta nella casa materna. Timorosi di una vendetta, i pretoriani la pugnalarono nelle braccia di sua madre. Claudio ordinò loro di uccidere anche lui, se avesse accennato a risposarsi.

Si risposò l'anno dopo, e la quinta moglie virtuosa fece rimpiangere la quarta svergognata. Agrippina, figlia di Agrippina e di Germanico, era sua

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nipote, aveva già avuto due mariti, e il primo di essi le aveva lasciato un figlioletto di nome Nerone, la cui carriera fu la sua unica passione. In lei riviveva una Livia peggiorata. Coi suoi trent'anni, le fu facile mettere sotto la pantofola quel marito quasi sessantenne, infiacchito dagli strapazzi con le cameriere. Essa lo isolò dai suoi collaboratori, mise il suo amico Burro alla testa dei pretoriani, e instaurò un nuovo regno di terrore, di cui senatori e cavalieri fecero le spese. Le condanne capitali portavano una firma di Claudio che, dopo la morte di costui, si rivelò falsificata. Il pover'uomo, sebbene rimbambito, parve accorgersi a un certo punto di quel che succedeva e voler porvi rimedio. Agrippina lo prevenne propinandogli un piatto di funghi avvelenati. Nerone, che aveva a modo suo un certo spiritaccio, disse più tardi che i funghi dovevano essere una pietanza da dèi, visto che erano riusciti a trasformare in dio un povero ometto come Claudio.

Nerone, in dialetto sabino, voleva dire forte, e nei primi cinque anni di regno il figlio di Agrippina tenne fede al suo nome, mostrandosi un imperatore magnanimo e assennato. Ma il merito non fu suo; fu di Seneca, che in suo nome governò.

Seneca era uno spagnolo di Cordova, milionario di famiglia e filosofo di professione, che già aveva fatto parlare di sé, prima che Agrippina lo arruolasse come precettore di suo figlio. Caligola lo aveva condannato a morte per "impertinenza"; poi lo aveva graziato perché malatissimo di asma. Claudio lo aveva mandato al confino in Corsica per una tresca con sua zia Giulia, la figlia di Germanico. Seneca era rimasto laggiù otto lunghi anni scrivendo eccellenti saggi e alcune brutte tragedie. Non sappiamo chi fu a proporlo ad Agrippina come l'uomo più adatto ad allevare Nerone secondo i dettami dello stoicismo, di cui era considerato l'incontestabile maestro. Comunque, nello spazio di pochi giorni, egli passò dallo stato di recluso a quello di padrone del futuro padrone dell'Impero.

Era uno strano uomo. Usò la sua posizione, senza troppi scrupoli, per moltiplicare il patrimonio, ma non usò il patrimonio per menar vita da signore. Mangiava pochissimo, beveva solo acqua, dormiva sul tavolaccio, scialava solo in libri e opere d'arte, dal giorno che sposò fu fedele solo a sua moglie, e a chi gli rimproverava di amare troppo il potere e i quattrini, rispondeva:

« Ma io non lodo la vita che faccio. Lodo quella che dovrei fare, e di cui a distanza imito, arrancando, il modello». Mentre era all'apice della sua fortuna, un libellista lo accusò pubblicamente di aver rubato allo stato trecento milioni di sesterzi, di averli moltiplicati con l'usura, e di essersi liberato dei rivali e dei nemici con la denunzia. Seneca, che in quel momento poteva far sopprimere chi voleva, rispose astenendosi dal denunziare il suo denunziatore. Però l'usura continuò ad esercitarla, a quanto

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dice Dione Cassio. Quando il suo pupillo salì sul trono, Seneca gli diede da leggere in Senato un bel discorso, in cui il nuovo imperatore s'impegnava a esercitare solo il potere di comandante supremo dell'esercito. Nessuno ci credette, probabilmente, ma la promessa fu mantenuta per cinque anni, durante i quali tutti gli altri poteri furono esercitati da Agrippina e da Seneca. E le cose procedettero abbastanza bene finché costoro furono d'accordo. Nerone, con quei due suggeritori alle spalle, prese alcune risoluzioni giudiziose: respinse la proposta del Senato di elevargli statue d'oro, si rifiutò di firmare condanne a morte, e quando per una dovette fare eccezione esclamò brandendo la penna: «Potessi non aver mai imparato a scrivere!». Sembrava davvero un bravo ragazzo, interessato quasi esclusivamente alla poesia e alla musica, e nessuno pensava che queste buone disposizioni potessero rivelarsi un giorno pericolose.

Poi Agrippina volle strafare, cioè fare tutto da sola. Seneca e Burro se ne allarmarono e, per neutralizzarla, spinsero Nerone a far valere la sua autorità. Incollerita, Agrippina minacciò di disfare la sua opera, mettendo sul trono Britannico, figlio di Claudio. E Nerone rispose facendo sopprimere costui e confinando la madre in una villa, dove essa rese alla storia, crediamo, un brutto servizio, scrivendo un libro di Memorie su Tiberio, Claudio e Nerone, cui Svetonio e Tacito attinsero a piene mani e che, ispirato com'era dalla vendetta, temiamo che non fosse molto attendibile.

Che parte abbia avuto Seneca nell'uccisione di Britannico, ce lo domandiamo. Come autore di un saggio intitolato Della clemenza, ci augu-riamo che non ne abbia avuta punta. Ma, dati i precedenti, non oseremmo giurarlo.

Finché Nerone seguitò a razzolare come Seneca predicava, Roma e l'Impero furono tranquilli, le frontiere sicure, prosperi i commerci e in ascesa le industrie. Ma a un certo punto il pupillo, che aveva appena vent'anni, cominciò a volgersi verso un altro maestro, che soddisfaceva di più le sue tendenze di esteta: Caio Petronio, l'arbitro di tutte le eleganze romane, il fondatore di una categoria umana abbastanza diffusa: quella dei dandies.

Noi troviamo una certa difficoltà a identificare questo ricco aristocratico che Tacito descrive raffinato nei suoi appetiti, delicatamente voluttuoso, d'ironica ed elegantissima conversazione, nel Caio Petronio autore del Satyricon, libello di rime volgari fino all'oscenità con personaggi banali e situazioni trite. Se è vero che si tratta della stessa persona, vuol dire che fra il modo di vivere e di essere e quello di scrivere e di apparire c'è di mezzo non il mare, ma l'oceano. Comunque Nerone, incantato dal Petronio che conobbe in società, raffinalo, colto, seduttore di uomini e di donne, intenditore infallibile del Bello, trovò più facile imitare il cattivo poeta e

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praticarne gl'insegnamenti letterari. Si prese per compagni gli eroi del Satyricon e con essi si diede all'orgia nei quartieri più malfamati di Roma.

Il casto Seneca, sul momento, non trovò nulla da obbiettare, anzi è probabile che abbia spinto su questa via il suo allievo per distrarlo sempre più dai problemi di governo, che preferiva risolvere da solo o con Burro. In tal modo, per alcuni anni, sotto un imperatore che sempre più si degradava, l'Impero seguitò a prosperare. Traiano, più tardi, definì il primo lustro di Nerone: "il miglior periodo di Roma". Ma a un certo punto il giovane sovrano incappò in Poppea, un'Agrippina nel pieno rigoglio della sua bellez-za, che voleva far l'imperatrice, e per riuscirci spinse Nerone a far l'imperatore. Quando la conobbe, Nerone aveva ventun anni, una moglie perbene, Ottavia, che portava con molta dignità le sue disgrazie coniugali, e un'amante, Acte, perbene anch'essa, e innamorata di lui. Ma a Nerone le donne oneste non piacevano, e le tradì ambedue per la scostumata, sensuale e calcolatrice Poppea. È a questo punto che incominciano la sua storia e le tribolazioni di Roma.

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CAPITOLO DICIASSETTESIMO

NERONE

AGRIPPINA era stata certamente una donna nefasta. Ma gli ultimi episodi

della sua vita sono da vera matrona dell'antica Roma. Essa non esitò a mettersi risolutamente contro suo figlio, quando costui venne a chiederle il consenso al divorzio da Ottavia. Tacito dice ch'essa giunse perfino a offrirglisi.

Nerone, sebbene l'avesse confinata in una villa, aveva ancora paura di lei. Ma altrettanta paura aveva di Poppea, che gli si rifiutava schernendolo per questo suo timor filiale. Alla fine essa riuscì a fargli credere che Agrippina congiurava contro di lui, che, non osando ucciderla, tentò di farla morire, una volta avvelenandola, e un'altra facendola cadere nel fiume. Agrippina se l'aspettava. Forse da qualche suo servitore di fiducia lasciato a palazzo era informata di ciò che le preparavano, e cercò di salvarsi la prima volta con una medicina che risolse l'avvelenamento in una colica, la seconda nuotando. Le guardie di Nerone dovettero fare altrettanto per inseguirla sull'altra sponda. E ci domandiamo quali dovettero essere i sentimenti e i pensieri di questa donna nel vedersi incalzata dai sicari di un figlio, cui aveva sacrificato tutta la sua vita. Ma non li mostrò, quando fu da essi raggiunta. Disse semplicemente: «Colpite qui», e indicò il grembo da cui Nerone era nato. Costui, quando gli portarono il corpo nudo di sua madre morta, osservò soltanto: « Toh, non mi ero mai accorto di aver avuto una mamma così bella». E forse l'unica cosa che rimpianse fu di non essersela presa quando lei gli si era offerta.

Come già per Caligola, non abbiamo altra ipotesi che la follia per spiegare simili reazioni. Forse nel sangue dei Claudi c'era un male ere-ditario, che dava al cervello.

La storia assicura che Seneca in questo orrendo delitto non ebbe parte. Ma essa ci obbliga a costatare anche ch'egli lo accettò, rimanendo al fianco dell'imperatore. Sperava forse di trattenerlo sulla china della perdizione? Quella speranza, se la covò, fu presto delusa. Nerone respinse i suoi consigli quando egli cercò di fargli capire che a un imperatore non si addiceva giostrare nel Circo come auriga ed esibirsi in teatro come tenore. Anzi, per mostrare quanto poco ormai teneva in considerazione il suo maestro, ordinò ai senatori di misurarsi con lui in quelle prove ginnastiche e musicali,

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dicendo che questa era la tradizione greca e che la tradizione greca era migliore di quella romana.

I senatori, nel loro insieme, forse non meritavano miglior trattamento; ma in qualcuno di essi brillava ancora un barlume di dignità. Trasea Péto e Elvidio Prisco parlarono apertamente contro l'imperatore, le cui spie li accusarono di complotto. Nerone, che dopo il matricidio aveva mostrato una certa clemenza, si abbandonò a un'orgia di sangue e siccome il Tesoro, che Claudio aveva lasciato florido, sotto le sue sregolatezze si era esaurito, impose ai condannati di lasciargli le loro sostanze. Seneca criticò queste misure. Ma la vera ragione per cui perse il posto fu che criticò anche le poesie del suo padrone. Forse con un respiro di sollievo si ritirò nella sua villa in Campania, e qui si diede alacremente a cercare, come scrittore, una rivincita al suo fallimento di precettore. Burro era morto pochi mesi prima, e lo aveva rimpiazzato lo scellerato Tigellino.

Senza più freni, Nerone precipitava. Il ritratto fisico che ci hanno lasciato di lui ce lo mostra, a venticinque anni, coi capelli gialli annodati in treccine, l'occhio smorto e una pancia adiposa su due gambette rachitiche. Poppea, ormai sua moglie, ne faceva quel che voleva. Non contenta di avergli imposto il divorzio da Ottavia, lo spinse a mandarla al confino. E siccome i romani disapprovarono e coprirono di fiori le sue statue, lo persuase a farla assassinare. Ottavia morì male, impaurita, e chiedendo pietà: aveva vent'anni appena ed era nata per fare la buona moglie di un buon marito, non l'eroina di una tragedia.

Neanche stavolta Nerone ebbe rimorsi perché nel frattempo si era fatto consacrare dio, e gli dèi non sono obbligati a esami di coscienza. Ora voleva soltanto costruire per sé un nuovo palazzo d'oro, che diventasse il proprio tempio e, siccome lo progettava di dimensioni gigantesche, non trovava, nell'affollato centro di Roma, un'area fabbricabile. Da qualche tempo andava brontolando che la città era costruita male, e che si sarebbe dovuto rifarla tutta secondo un più razionale piano urbanistico, quando, nel luglio del sessantaquattro, vi scoppiò il famoso incendio.

Era stato veramente lui a farlo appiccare? Forse no. Egli si trovava ad Anzio in quel momento, accorse subito, e spiegò un'energia che nessuno gli sospettava nell'opera di soccorso. Ma il fatto che subito la voce del popolo lo accusò dimostra che, anche se non lo aveva fatto, la gente lo considerava capace di farlo. Stranamente assai, egli non reagì stavolta alle accuse, non perseguitò nemmeno gli autori dei volantini e dei libelli che lo additavano alla furia popolare. Ma, da vero capo di un regime totalitario, pensò che, dato il disastro, prima ancora che a ripararlo, bisognava pensare a trovar qualcuno cui addebitarlo. E fu così, dice Tacito, ch'egli ricorse a una setta religiosa formatasi in quei tempi a Roma e che aveva derivato il suo nome

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da quello di un certo Cristo, un ebreo condannato a morte da Ponzio Pilato in Palestina al tempo di Tiberio.

Nerone non sapeva altro di loro, quando ne fece arrestare tutti quelli che gli capitarono a tiro e condannare, dopo un processo sommario, alla tortura. Alcuni furon dati alle belve, altri crocifissi, altri spalmati di resina e adibiti a torce. Roma non si era molto accorta di loro. Ma dopo questo martirio in massa cominciò a guardarli con una certa curiosità. Ora l'imperatore poteva finalmente costruire una capitale come piaceva a lui. E in questa bisogna, che lo assorbì completamente, mostrò una certa competenza. Ma mentre la nuova Roma cresceva più bella di quella distrutta, Poppea morì di un aborto. Le male lingue dissero subito ch'era stato il marito a darle un calcio nella pancia durante un litigio. Può darsi. Comunque il colpo fu terribile per lui, che vi perse insieme una moglie amata e l'erede che aspettava. Errando nel dolore per le strade, vi trovò un giovanotto, un certo Sporo, il cui volto stranamente somigliava a quello della defunta. Lo portò a palazzo, lo fece castrare e lo sposò. I romani commentarono: «Ah, se suo padre avesse fatto altrettanto!...».

Soprintendeva ai lavori per l'erezione del suo grande palazzo, quando le sue spie scoprirono un complotto per installare sul trono Calpurnio Pisone. Ci furono i soliti arresti, le solite torture, le solite confessioni. In una di queste furon fatti i nomi di vari intellettuali, fra cui Seneca e Lucano.

Lucano era un altro spagnolo di Cordova, lontano cugino di Seneca, che, venuto a Roma per studiarvi legge, aveva commesso l'imperdonabile errore di vincere un premio di poesia a un concorso cui si era presentato anche Nerone, che perse. L'imperatore gli vietò di continuare a scrivere. Lucano disobbedì componendo un carme sulla battaglia di Farsalo, retorico e mediocre, ma d'intonazione chiaramente repubblicana. Non potè pubblicarlo, ma lo lesse nei salotti aristocratici dove ebbe naturalmente grande successo, fra quei signori che non avevano più la forza di opporsi alla tirannia, ma rimpiangevano la libertà. Partecipò egli veramente al complotto, o vi fu iscritto d'ufficio dagli sbirri che conoscevano l'antipatia di Nerone per quel suo rivale? Negl'interrogatori, egli ammise la propria colpa e denunziò gli altri complici, fra cui, pare, anche sua madre e il cugino Seneca. Condannato, invitò gli amici a una gran festa, mangiò e trincò con loro, si aprì le vene, e morì recitando alcuni suoi versi contro il dispotismo. Aveva ventisei anni.

Seneca apprese forse di aver partecipato alla congiura di Pisone dai messi dell'imperatore che vennero in Campania a partecipargli la condanna. Stava scrivendo una lettera al suo amico Lucilio che terminava così: Per quel che mi riguarda, ho vissuto abbastanza a lungo e mi par d'avere avuto tutto quel che mi spettava. Ora attendo la morte. Ma quando la morte si pre-

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sentò nei panni di quell'ambasciatore, obbiettò che non c'era ragione d'infliggergliela, visto che da tempo non faceva più politica e badava a curarsi soltanto la salute, di cui lasciò prevedere imminente il collasso. Era la scusa che aveva invocato anche con Caligola e che gli aveva permesso di campare fin quasi a settant'anni. L'ambasciatore tornò a Roma, ma Nerone fu irremovibile. Allora Seneca con molta calma abbracciò la moglie Paolina, dettò una lettera di addio ai romani, bevve la cicuta, si aprì le vene, e morì secondo i precetti dello stoicismo meglio di quanto non avesse saputo vivere. Paolina tentò di imitarlo, ma l'imperatore le fece suturare le vene. I secoli hanno cancellato le contraddizioni dell'uomo Seneca e hanno conservato solo le opere dello scrittore, che una sua grandezza la raggiunse. Egli insegnò come si compone un "saggio" e come si concilia la predica della rinuncia con la pratica dei propri comodi. A un simile maestro, gli allievi non potevano mancare.

Fatto il vuoto intorno a sé, Nerone partì per una tournée in Grecia, dove la gente, disse, s'intendeva d'arte più che a Roma. Partecipò come fantino alle corse di Olimpia, cascò, arrivò ultimo, ma i greci lo proclamarono ugualmente vincitore, e Nerone li compensò esentandoli dal tributo a Roma. I greci capirono l'antifona, gli fecero vincere tutti gli altri tornei, organizzarono una clamorosa claque nei teatri in cui l'imperatore cantava (era fatto assoluto divieto di uscire durante lo spettacolo, e ci furono delle donne che vi partorirono), ed ebbero in cambio la piena cittadinanza.

Tornato a Roma, Nerone decretò a se stesso un trionfo in cui, non potendo esibire le spoglie di nessun nemico, esibì le coppe che aveva guada-gnato come tenore e come auriga. Era in buona fede, nel pretendere l'ammirazione dei suoi concittadini. Credeva che ne nutrissero davvero per lui, e quindi fu più stupito che preoccupato quando seppe che Giulio Vindice chiamava la Gallia alle armi contro di lui. La sua prima cura, nell'organizzare l'esercito da guidare contro il ribelle, fu di ordinare un gran numero di carri espressamente costruiti per il trasporto delle scene con cui montare un teatro. Perché, fra una battaglia e l'altra, intendeva continuare a recitare, a suonare e a cantare per farsi applaudire dai soldati. Ma durante questi preparativi, giunse la notizia che Galba, governatore della Spagna, si era unito a Vindice e che con lui marciava su Roma.

Il Senato, che da tempo spiava l'occasione, dopo essersi assicurata la benevola neutralità dei pretoriani, proclamò imperatore il ribelle proconsole, e Nerone si accorse improvvisamente d'essere solo. Un ufficiale della Guardia, cui chiese di accompagnarlo nella fuga, gli rispose con un verso di Virgilio: «È dunque così difficile morire?».

Sì, era molto difficile, per lui. Si procurò un po' di veleno, ma non ebbe il coraggio d'ingerirlo. Pensò di buttarsi nel Tevere, ma non ne trovò la

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forza. Si nascose nella villa di un amico sulla via Salaria, a dieci chilometri dalla città. Lì seppe che lo avevano condannato a morte "alla vecchia maniera" cioè per fustigazione. Atterrito, afferrò un pugnale per immergerselo nel petto, ma prima ne provò la punta e trovò che "faceva male". Si decise a tagliarsi la gola, quando udì uno zoccolio di cavalli fuor della porta. Ma la mano gli tremò, e fu il suo segretario Epafrodito a guidargliela sulla carotide. «Ah, che artista muore con me!», sussurrò in un rantolo. Le guardie di Galba rispettarono il cadavere che fu piamente sepolto dalla vecchia nutrice e dalla prima amante, Acte. Stranamente assai, la sua tomba rimase per molto tempo coperta di fiori sempre freschi, e molti a Roma continuarono a credere ch'egli non fosse morto e stesse per tornare. In genere, sono idee che germogliano solo nei terricci fecondati dai rimpianti e dalla speranza.

Che Nerone fosse, tutto sommato, migliore di come la storia lo ha descritto?

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© 1959 Rizzoli Editore, Milano © 1994 RCS Libri S.p.A., Milano sulla collana storia d’italia © 2001 RCS Collezionabili S.p.A., Milano sulla presente edizione storia d’italia Pubblicazione periodica settimanale Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 197 del 9.4.1994 Direttore responsabile: Gianni Vallardi Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 00262 vol. III Foglio 489 del 20.9.1892

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SOMMARIO

Cronologia

Capitolo Primo Pompei

Capitolo Secondo Gesù

Capitolo Terzo Gli Apostoli

Capitolo Quarto I Flavi

Capitolo Quinto Roma epicurea

Capitolo Sesto II suo capitalismo

Capitolo Settimo I suoi divertimenti

Capitolo Ottavo Nerva e Traiano

Capitolo Nono Adriano

Capitolo Decimo Marc'Aurelio

Capitolo Undicesimo I Severi

Capitolo Dodicesimo Diocleziano

Capitolo Tredicesimo Costantino

Capitolo Quattordicesimo II trionfo dei cristiani

Capitolo Quindicesimo L'eredità di Costantino

Capitolo Sedicesimo Ambrogio e Teodosio

Capitolo Diciassettesimo La fine

Capitolo Diciottesimo Conclusione

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CRONOLOGIA

EVENTI POLITICI

E MILITARI

753 o 754 di Roma Nasce in Palestina Gesù Cristo. 33 ca. Crocifissione di Gesù Cristo a Gerusalemme, sotto il procuratore Ponzio Pilato. 48 Concilio apostolico a Gerusa-lemme con Pietro, Paolo e Barnaba. 49-52 Paolo a Corinto. 54-58 Paolo a Efeso. 60-61 Viaggio di Paolo a Roma. 64 Decapitazione di Paolo a Roma e crocifissione di Pietro nei giardini Vaticani.

68-69 Si succedono al principato Galba, Ottone e Vitellio.

69-96 Imperatori di casa Flavia.

69-79 Tito Flavio Vespasiano. 70 II figlio Tito conquista e distrugge Gerusalemme.

79-81 Tito. 79 Eruzione del Vesuvio e distruzione di Ercolano e Pompei.

81-96 Domiziano. 84 Conquista della Britannia

96-192 Età degli imperatori adottivi.

96-98 M. Cocceio Nerva.

98-117 Traiano. 101-107 Conquista della Dacia oltre il Danubio e del regno dei nabatei nell'Arabia settentrionale. 115-117 Guerra contro i parti. Vengono istituite le province di Armenia, Siria e Mesopotamia. L'impero raggiunge la sua massima estensione.

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

Intorno al 50, Matteo scrive il Vangelo di Cristo, seguito tra il 54 e il 61 da quello di Marco, intorno al 60 da quello di Luca; più tardivo di qualche decennio è quello di Giovanni. 72 Vespasiano da inizio alla costruzione dell'anfiteatro Flavio, il Colosseo, inaugurato da Tito nell'80 con feste che durarono cento giorni e l'uccisione di 5000 belve.

81-96 Persecuzione dei cristiani sotto Domiziano. Sotto Domiziano è costruito l'Arco di Tito in ricordo della vittoria del fratello sui giudei.

98-117 Persecuzione dei cristiani sotto Traiano. Sotto Traiano è costruito in Spagna l'acquedotto di Segovia. Traiano innalza il Foro traiano, opera di Apollodoro di Damasco, con la colonna cele-brante la vittoria sui daci.

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EVENTI POLITICI

E MILITARI

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

Attività letteraria dai Flavi a Traiano

Celso scrive gli otto libri Sulla medicina.

Columella compone il più complesso Trattato di agricoltura dell'antichità, in 12 libri. Frontino (30-104) scrive Le acque di Roma e Gli stratagemmi.

Silio Italico (26-101), poeta epico, è autore dei 17 libri delle Puniche sulla seconda guer-ra punica.

Valerio Flacco (I sec. d.C.) scrive il poema, in 8 libri, A-gonautica.

Plinio il Vecchio (23-79), di Como, scrive una monumentale Storia naturale in 37 libri. Papirio Stazio (45-96), napoletano, è il poeta della Tebaide, poema epico in 12 libri, del-l'Achilleide e delle Silvae (5 libri di poesie).

Cornelio Tacito (55?-117?), tra i maggiori storici di tutti i tempi, autore dei 14 libri delle Storie, da Galba a Domiziano (ne restano circa 4), degli Annali, 16 libri, dalla morte di Augusto a Nerone (ne restano una decina), della Germania, della Vita di Agricola e del Dialogo degli oratori. Plinio il Giovane (61-114), di Como, scrive il Panegirico a Traiano e 9 libri di Lettere, nonché il Carteggio con Traiano.

Valerio Marziale (40-102), spagnolo, autore di 14 libri di Epigrammi e di un libro sugli Spettacoli (le feste per l'inaugurazione dd Colosseo).

Giunio Giovenale (60-140), di Aquino, scrive le Satire, in cinque libri.

Plutarco (46-120), di Cheronea, autore delle Vite parallele, in greco.

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EVENTI POLITICI

E MILITARI

117-138 Adriano. Costruzione del Vallo in Britannia.

132-135 Viene schiacciata una nuova rivolta dei giudei.

138-161 Antonino Pio.

161-180 Mano Aurelio, insieme col fratello Lucio Vero fino al 169. 162-165 Guerra contro i parti. 167-175 Prima guerra contro i marcomanni. 176 II figlio Commodo viene associato all'impero.

178-180 Seconda guerra centro i marcomanni.

180-192 Commodo. Alla morte di lui l'impero cade in mano ai Pretoriani.

793 Elvio Pertinace. Imperatori contemporaneamente Didio Giuliano, a Roma, Pescennio Nigro in Siria, Clodio Albino in Britannia e Settimio Severo in Pannonia.

193-235 I Severi.

193-211 Settimio Severo unico imperatore. 197-199 Guerra contro i parti. 208-211Guerra in Britannia.

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

sec- II Si diffondono l'eresia cristiana di Marcione, che nega l'umanità di Cristo, e quella di Montano, che predira imminente la fino del mondo.

Settimio Severo fa costruire terme imponenti.

125-134 Adriano fa costruire la sua immensa villa di Tivoli.

135 Viene iniziato il mausoleo di Adriano (Castel Sant'Angelo), opera di Demetriano.

176 Viene innalzata la colonna per celebrare il trionfo di Marco Aurelio sui marcomanni (attualmente in piazza Colonna).

1II-V secc. Dilaga per l'impero l'inflazione, ristagna la circolazione monetaria, per la crisi economica i proletari urbani si spostano nelle campagne; si diffonde l'economia fondata sul baratto.

203 Viene innalzato l'Arco di Settimio Severo, nel decimo anniversario della sua nomina a imperatore.

204 Viene eretto l'Arco degli Argentari (cambiavalute) in onore di Settimio Severo e Giulia Donna.

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EVENTI POLITICI

E MILITARI

211-217 Caracalla. 2/2 Caracalla concede la piena cittadinanza a tutti i liberi dell'impero

218 Breve impero di Macrino.

218-222 Eliogabalo.

222-235 Alessandro Severo.

235 Rivolta dell'esercito di Germania sotto Giulio Massimino

235-268 Periodo dell'anarchia militare.

235-238 Massimino.

238 Gordiano I, Balbino; Gordiano II.

238-244 Gordiano III.

244-249 Filippo Arabo.

249-251 Decio.

251-253 Trebonio Gallo.

253 Emiliano.

253-260 Valeriano. 254 Valeriano divide l'impero col figlio Gallieno.

260-268 Gallieno.

268-270 Claudio II.

270-275 Domizio Aureliano, restitutor orbis. 272 Vince la regina Zenobia.

275-276 Claudio Tacito.

276-282 Marco Aurelio Probo.

282-283 Marco Aurelio Caro.

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

206 Settimio Severo inizia le Terme Antoniniane, inaugurate dal figlio Caracalla nel 217, da cui presero il nome.

220 Eliogabalo introduce a Roma il culto di Baal

247 Celebrazione sotto Filippo del millenario di Roma.

249-251 Prima persecuzione generale dei cristiani sotto De-

257-258 Persecuzione dei cristiani sotto Valeriano (morte del vescovo di Cartagine, Cipriano).

271 Aureliano costruisce la cinta di mura che porta ancora il suo nome.

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EVENTI POLITICI

E MILITARI

284-305 Diocleziano. 286 Prende collega Massimiano col titolo di Augusto. Galerio e Costanzo sono nominati Ce-sari e loro successori (Tetrarchia). 297 Divisione ammi-nistrativa dell'impero in 12 diocesi e 101 province.

305-306 Costanzo Cloro.

305-312 Lotte tra Galerio, Massimiano, Massenzio, Severo, Massimino e Costantino.

312 Massenzio è sconfitto da Costantino presso il ponte Milvio.

312-337 Costantino il grande (già Augusto dal 307). 313 Editto di Milano a favore dei cristiani. 325 Indice a Nicea il concilio ecumenico contro Ario. 330 Inaugura a Bisanzio la Nuova Roma, Costantinopoli. 337 Riceve il battesimo.

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

297 Diocleziano istituisce le corporazioni obbligatorie per gli artigiani.

301 Leggi contro l'aumento dei prezzi e l'inflazione. L'impero diventa una monarchia assoluta e il principe è divinizzato; viene istituita la servitù della gleba. Diocleziano fa costruire le Terme che portano ancora il suo nome.

303-311 Massima ed ultima persecuzione contro i cristiani sotto Diocleziano e i suoi successori.

311 Editto di tolleranza per i cristiani di Galerio e Licinio.

313 Piena libertà di culto per i cristiani sotto Costantino (editto di Milano). È abolito il culto pagano di stato.

Attività letteraria da Adriano a Diocleziano

Tranquillo Svetonio (69-140), lo storico delle Vite dei Cesari, da Giulio Cesare a Domiziano. Lucio Apuleio (125-180) di Madaura in Africa è autore delle Metamorfosi in 11 libri, ovvero L'asino d'oro, l'unicó romanzo giunto intero dall'an-tichità.

Cornelio Frontone (100-166), retore, scrive opere di erudizione.

Aulo Gelilo, è autore delle Notti Attiche, in 20 libri, di varia erudizione.

Dione Cassio (155-235), scrive in greco una Storia di Roma dalle origini fino al 229 d.C. Ne restano una ventina di libri.

Marco Aurelio, l'imperatore, scrive i Ricordi.

Si fa risalire a questi anni un carme di anonimo, il Pervigilium Veneris.

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EVENTI POLITICI

E MILITARI

337 Costantino II, Costanzo, Costante, Delmazio, Annibaliano.

337-361 Costanzo II. 355 II nipote Giuliano viene nominato Cesare.

361-363 Giuliano l'apostata. Muore combattendo contro i persiani.

363-364 Gioviano.

364-375 Valentiniano. 375 Guerra contro gli ostrogoti.

Dal 375 al 568 è l'età delle grandi emigra-zioni barbariche che invadono l'impero, dai primi movimenti degli unni alla calata in Italia dei longobardi.

375-378 Valente. 378 Battaglia di Adrianopoli.

378-383 Graziano, con Teodosio I quale Augusto dal 379.

379 Ostrogoti e visigoti vengono accolti nell'impero. 380 Editto di Tessalonica contro gli ariani.

397 II cristianesimo diviene religione di stato.

394-395 Teodosio unico imperatore.

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

Aurelio Nemesiano lascia due poemi sulla caccia. Ulpiano, giurista, lascia opere fondamentali di giurisprudenza.

Modestino, allievo di Ulpiano, chiude a metà del III secolo la giurisprudenza classica.

306-313 Viene innalzata la Basilica di Massenzio o di Costantino. Viene costruito l'Arco di Giano Quadrifronte.

315 II senato innalza l’Arco di Costantino, in onore dell'imperatore vittorioso su Massen-zio.

357 Costanzo II fa trasportare a Roma dall'Egitto l'obelisco oggi in piazza Laterano.

Attività letteraria pagana dei due ultimi secoli dell'impero

Ausonio (IV sec.) scrive il poema La Mosella.

Claudio Claudiano, poeta alla corte di Onorio, scrive la Guerra gotica e il Ratto di Proserpina.

Eutropio, storico alla corte di Valente, scrive il Breviario dalla fondazione di Roma. Ammiano Marcellino (330-400), siriaco, compone 31 libri di Storia, da Domiziano a Valente (rimangono gli ultimi 18). Aurelio Vittore (IV sec.), storico africano, scrive I Cesari, da Augusto a Costanzo.

Macrobio (IV-V secc.) scrive i 7 libri dei Saturnali, di varia erudizione.

Rutilio Namaziano, poeta di Gallia (V sec.), scrive Il suo ritorno.

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EVENTI POLITICI

E MILITARI

395 Divide l'impero tra i figli Arcadie, in Oriente (395-408), e Onorio in Occidente a Ravenna (395-423).

403 Stilicone respinge i visigoti a Verona.

408 Uccisione di Stilicone.

408-450 Teodosio li, figlio di Arcadio, imperatore in Oriente

409 I vandali s'insediano in Spagna.

410 I goti di Alarico saccheggiano Roma.

419-507 Regno visigotico di Tolosa.

425-455 Valentiniano III imperatore d'Occidente.

429 I vandali di Genserico passano in Africa e vi fondano il Regno dei vandali (fino al 534). 430 Assedio di Ippona. Morte di Agostino nella città assediata.

443-534 I burgundi fondano sul Rodano il Regno dei burgundi.

450 Attila scende in Italia.

457 Attila è battuto da Ezio ai Campi Catalauni. 452 È fermato sul Mincio da papa Leone I. 453 Muore.

454 Valentiniano uccide Ezio.

455 Sacco di Roma da parte dei vandali.

455-456 Avito. 457-461 Maioriano.

461-465 Libio Severo è elevato al trono dallo svevo Ricimero.

467-472 Procopio Autemio. Muore Ricime-ro.

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

Scrittori cristiani

II sec. Minucio Felice : l'Ottavio (dialogo).

Tertulliano : Apologetico, Alle nazioni enumerosi altri scritti.

III sec. Cipriano : scritti di apologià cristiana.

Arnobio, Contro i pagani, in 7 libri.

Lattanzio, Così morirono i persecutori.

IV sec. Commodiano: Carme apologetico.

Ambrogio (339-397), vescovo di Milano: Jnn», Esamerone.

1V-V secc. Aurelio l'rudcn-zio : Le corone(14 inni ai martiri).

Gerolamo (340-420) : la Vulgata.

Agostino (354-430) : La città di Dio in 22 libri, Le confessioni in 13 libri

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EVENTI POLITICI

E MILITARI

472 Olibrio. Muore Ricimero.

473-474 Glicerio.

474-475 Giulio Nepote.

475 Oreste depone Giulio Nepote e alza al trono il figlio Romolo Augustolo.

476 Odoacre, re dei barbari, depone Romolo Augustolo e rimanda all'imperatore d'Oriente, Zenone, le insegne dell'impero, assumendo il solo titolo di « patrizio ». Termina così la serie degli imperatori romani d'Occidente.

EVENTI CIVILI,

CULTURALI E ARTISTICI

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CAPITOLO PRIMO

POMPEI

LA catastrofe tellurica che il 24 agosto del 79 fece la disgrazia di Pompei

ha costituito la sua fortuna postuma. Era una delle più insignificanti città d'Italia. Contava poco più di quindicimila abitanti, viveva soprattutto di agricoltura, e al suo nome non era legato nessun grande evento storico. Ma quel giorno il Vesuvio s'incappucciò d'una nuvolaglia nera da cui piovve un torrente di lava che in poche ore sommerse Pompei ed Ercolano. Plinio il Vecchio, che comandava la flotta alla fonda nel porto di Pozzuoli e che ave-va, fra l'altro, la passione della geologia, accorse con le sue navi per vedere di che si trattava, eppoi per salvare gli abitanti che fuggivano a perdifiato verso il mare. Ma, accecato dal fumo e travolto nella ressa, cadde, e fu raggiunto e seppellito dalla lava. Circa duemila persone persero la vita in quella sciagura. Ma sotto il sudario di morte, la città si serbò intatta. E quando, circa due secoli fa, gli archeologi la disseppellirono con le loro escavatrici, quello che piano piano tornò alla luce fu il documento più istruttivo non soltanto dell'architettura, ma anche della vita di un piccolo centro di provincia italiano nel secolo d'oro dell'Impero. Amedeo Maiuri, che vi ha dedicato la vita, ha tratto e seguita a trarre da Pompei insegnamenti preziosi.

Il centro del paese era il Foro, cioè la piazza, che certamente in origine era stata il mercato dei cavoli per cui quella zona andava famosa, ma poi col tempo era diventata anche un teatro all'aperto sia per gli spettacoli drammatici che per i giuochi. Gli edifici che la circondavano erano quelli di pubblica utilità, a cominciare dai templi di Giove, di Apollo e di Venere, per finire al municipio e ai negozi.

È chiaro che la vita si svolgeva lì, il dedalo di viuzze che s'intrecciavano tutt'intorno costituendo una specie di retrobottega gremita di negozietti e di botteghe artigiane, sonanti dì martelli, di scuri, di seghe, di pialle, di lime e del confuso assordante vocio di bambini, donne, gatti, cani, venditori ambulanti, che ancora costituisce una caratteristica del nostro bello, ma non silenzioso paese, specie nel Sud. E siccome quelli che si conservano meglio, del costume di un popolo, sono i vizi, a Pompei possiamo misurare quanto sia vecchio, in Italia, anche quello d'imbrattare i muri e di servirsene come

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strumenti di propaganda delle nostre idee, dei nostri amori e dei nostri odi. Oggi lo facciamo coi manifesti, il gesso e il carbone. Allora lo si faceva coi "graffiti", cioè incidendo la pietra. Ma la differenza è soltanto tecnica: quanto al contenuto, è chiaro che gl'italiani hanno sempre pensato e detto e urlato le stesse cose. Tizio prometteva a Cornelia un amore più lungo della sua stessa vita, Caio invitava Sempronio ad andare a morire ammazzato, Giulio garantiva pace e prosperità a tutti se lo eleggevano questore, e i "Viva Maio!" si sprecavano all' indirizzo di un edile che ha scritturato a proprie spese il gladiatore Paride, come oggi si scritturano gli "oriundi" nelle squadre di calcio, per dare spettacolo nell'anfiteatro dov'erano disponibili ventimila posti, cinquemila più di quelli richiesti dall'intera cittadinanza, che dovevano essere riservati, evidentemente, alla gente del contado.

Le case erano comode e piuttosto lussuose. Non avevano quasi punte finestre e di rado il termosifone. Ma i soffitti sono di cemento, qualche volta a mosaico e i pavimenti di pietra. Solo i palazzi hanno la stanza da bagno, e qualcuno addirittura la piscina. Ma c'erano ben tre terme pubbliche con relativa palestra. Le cucine erano provviste di ogni sorta di utensili: padelle, pentole, girarrosti; e in una libreria privata furono rintracciati duemila volumi in greco e in latino. Del mobilio si sa poco perché, essendo quasi tutto di legno, si è disfatto. Ma sono rimasti calamai, penne, lampade di bronzo, e statue, tutte di derivazione greca, ma di alto stile e raffinata fattura.

Tutto questo suggerisce l'idea d'una vita comoda e bene organizzata, quale dovette essere infatti quella delle città di provincia nei secoli felici dell'Impero. Certo, nessuna di esse poteva gareggiare con Roma, quanto a intensità, servizi pubblici, salotti e divertimenti. In compenso, chi vi abitava era sottratto ai pericoli delle persecuzioni, o per lo meno ne soffriva in misura molto minore, e il malcostume della decadenza vi giunse più tardi e attenuato dalla maggiore solidità delle buone tradizioni. Non per nulla Cesare, e più tardi Vespasiano, tentarono di colmare i vuoti dell'aristocrazia e del Senato romani elevandovi le famiglie di questa borghesia provinciale. E una delle ragioni per cui, caduta Roma, la civiltà romana resistè e corruppe i barbari assorbendoli è che non soltanto nell'Urbe, ma dovunque essi mettessero il piede nella penisola, vi trovarono città superiormente organizzate.

Di esse, non faremo l'inventario. Ci limiteremo soltanto a dire che, al contrario di ciò che accade oggi, quelle meridionali primeggiavano sulle settentrionali perché, ancora prima di quella romana, avevano risentito della civiltà greca. Napoli era la più rinomata per i suoi templi, per le sue statue, per il suo cielo, per il suo mare, per la sottile furberia dei suoi abitanti e,

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come oggi, per la loro pigrizia. Da Roma ci venivano a passare l'inverno, e i suoi dintorni, Sorrento, Pozzuoli, Cuma, brulicavano di ville. Capri era già stata scoperta da un pezzo e Tiberio la "lanciò" facendone la sua abituale residenza. E Pozzuoli fu la più rinomata stazione termale dell'antichità per le sue acque sulfuree.

Un'altra regione che brulicava di città già stagionate era la Toscana, dove le avevano costruite gli etruschi.

Le più importanti erano Chiusi, Arezzo, Volterra, Tarquinia e Perugia ch'era considerata parte di quella regione. Firenze che, appena neonata, si chiamava Florentia, era la meno cospicua e non prevedeva il suo destino.

Più su, al di là degli Appennini, cominciavano le città-fortino, costruite soprattutto per ragioni militari, come piazzeforti degli eserciti impegnati nella lotta contro le riottose popolazioni galle. Tali furono Mantova, Cremona, Ferrara, Piacenza. Ancora più a nord c'era il grosso borgo mercantile di Como, che considerava Mediolanum, cioè Milano, il suo quartiere povero. Torino era stata fondata dai galli taurini, ma cominciò a diventare una città vera e propria solo quando Augusto la trasformò in una colonia romana. Venezia non era ancora nata, ma i veneti erano già arrivati dall'Illiria e avevano fondato Verona. Erodoto racconta che i capi delle tribù requisivano le ragazze, mettevano all'asta le più belle, col ricavato facevano la dote alle più sgraziate, e così riuscivano ad accasarle tutte. Ecco qualcosa a cui i socialisti d'oggigiorno non hanno ancora pensato.

Questo non è un catalogo; è soltanto una esemplificazione. All'ingrossò si può dire che l'Italia già da allora era gremita di città, perché quasi tutte quelle che oggi vi si contano nacquero a quei tempi. E le libertà democratiche vi resisterono più a lungo che a Roma, anche se a esercitare il potere era un autogoverno di tipo piuttosto paternalistico. Esso costituiva il monopolio di una Curia, ch'era un Senato in miniatura, il quale, come a Roma, esercitava il controllo sui magistrati liberamente eletti dalla cittadinanza. La rosa dei candidati però era ristretta ai ricchi perché non solo essi non ricevevano stipendio, ma anzi dovevano colmare i vuoti del bilancio municipale.

Intanto, l'elezione veniva celebrata con un gigantesco banchetto cui tutti erano invitati e che si ripeteva il giorno del compleanno, quello del matrimonio della figlia eccetera. Eppoi, il successo nella carica e la possibilità di ripresentarvisi o di concorrere a una più alta erano misurati dalle opere pubbliche e dagli spettacoli che il gerarca aveva finanziato di tasca sua. Lapidi con iscrizioni trovate un po' dovunque documentano la prodigalità (e la vanità) di questi dirigenti che spesso rovinavano addirittura la propria famiglia per guadagnarsi la stima e i voti dei concittadini. A Tarquinia, Desumio Tullo per battere il suo rivale promise di costruire delle

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terme e ci spese cinque milioni di sesterzi, sordo alle proteste dei suoi figlioli che gli gridavano: «Babbo, ci rovini!...». A Cassino, una ricca vedova regalò un tempio e un anfiteatro. A Ostia, Lucilio Gemala pavimentò le strade. E tutti, quando c'era carestia, compravano grano e lo distribuivano gratis ai poveri. Non sempre costoro glien'erano grati. Ci sono dei graffiti, a Pompei, in cui si accusano i candidati di aver regalato alla popolazione soltanto la metà di ciò ch'essi avevano rubato con le loro malversazioni quando erano in carica.

Le interferenze del governo centrale romano nella vita municipale delle città di provincia fino a Marc'Aurelio furono scarse e quasi sempre volte più a favorirne che ad impedirne lo sviluppo. Gl'imperatori, quasi tutti rapaci per quanto riguardava l'amministrazione delle province straniere, per l'Italia avevano un debole, sia pure interessato. Era qui che reclutavano i loro soldati e sostenitori. La Repubblica aveva trattato duramente la penisola perché aveva dovuto combatterla e sottometterla, e spesso n'era stata tradita. Ma per il Principato ormai essa era lo Hinterland di Roma. Gli imperatori venivano spesso a visitarne le città, e per ogni visita erano doni, sussidi e franchigie in risposta alle entusiastiche accoglienze che regolarmente vi ricevevano, ogni sovrano cercando di superare in munificenza il suo predecessore.

Per la provincia italiana, insomma, l'Impero fu una manna di Dio. Essa ne risentì soltanto i benefici: l'ordine, le strade ben tenute, i commerci vivaci, la moneta sana, gli scambi facili e frequenti, la sicurezza dalle invasioni. Le lotte di palazzo, le persecuzioni poliziesche, i processi e le carneficine non la toccarono.

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CAPITOLO SECONDO

GESÙ

FRA i cristiani che Nerone fece massacrare nell'anno 64, come responsabili

dell'incendio di Roma, c'era anche il loro capo: un certo Pietro, che, condannato alla crocifissione dopo aver visto sua moglie avviarsi alla tortura, chiese di essere appeso con la testa in giù perché non si sentiva di morire nella stessa posizione in cui era morto il suo Signore, Gesù Cristo. Il supplizio si svolse là dove ora sorge il gran tempio che porta il nome del suppliziato. E i carnefici non furono nemmeno sfiorati dal dubbio che la tomba della loro vittima avrebbe fatto da fondamento a un altro Impero, spirituale, destinato a sotterrare quello, secolare e pagano, che aveva pronunciato il verdetto.

Pietro era ebreo e veniva dalla Giudea, una delle province più tartassate dal malgoverno imperiale. Due secoli e mezzo prima era riuscita, con miracoli di coraggio e diplomazia, a liberarsi dal dominio persiano e aveva ritrovato, per una settantina d'anni, la sua indipendenza, sotto la guida dei suoi re-sacerdoti da Simone Maccabeo in giù. La loro reggia era il Tempio di Gerusalemme. E qui gli ebrei si asserragliarono per resistere all'invasione di Pompeo, che voleva estendere anche su questa terra il dominio di Roma. Combatterono con la forza della disperazione, ma non vollero rinunziare alla pausa del sabato, che la religione imponeva. Pompeo se ne accorse, e proprio di sabato li attaccò. Dodicimila persone furono massacrate. Il Tempio non venne saccheggiato. Ma la Giudea diventò una provincia romana. Si ribellò pochi anni dopo, pagò il tentativo con la libertà di trentamila cittadini venduti come schiavi, e ritrovò uno sprazzo d'indi-pendenza sotto un re straniero, Erode, che tentò d'introdurvi la civiltà greca e la sua pagana architettura. Fu a suo modo un grande re, intelligente, crudele e pittoresco, che seppe fare il protetto di Roma senza diventarne il servo e regalò ai suoi sudditi un tempio ancora più bello, ma decorato di quelle immagini che l'austera fede ebraica respinge severamente come peccaminose e contrarie alla legge.

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Sotto il suo successore Archelao di nuovo gli ebrei si ribellarono, i romani rimisero a sacco Gerusalemme, ne vendettero come schiavi altri trentamila cittadini; e Augusto, per tagliar corto, fece della Giudea una provincia di seconda classe sotto il governatorato della Siria. Ma poco prima che questa nuova sistemazione fosse decisa, era avvenuto nel paese un piccolo fatto di cui nessuno, lì per lì, si accorse, ma che col tempo doveva rivelarsi di una qualche importanza per le sorti dell'intera umanità: a Betlemme, vicino a Nazareth, era nato Gesù Cristo.

Per un paio di secoli l'autenticità di questo episodio è stata revocata in dubbio da una "scuola critica" che voleva negare l'esistenza di Gesù. Ora i dubbi sono caduti. Ne resta, caso mai, uno solo, di secondaria importanza: quello sulla data esatta di questa nascita. Matteo e Luca, per esempio, dicono ch'essa avvenne sotto il regno di Erode, che, secondo il nostro modo di contare, sarebbe morto tre anni prima di Cristo. Altri dice ch'era un giorno di aprile, altri di maggio. La data del 25 dicembre del 753 ab Urbe condita fu fissata d'autorità trecentocinquantaquattro anni dopo l'avvenimento, e diventò definitiva.

La storia ci serve poco, a ritracciare la giovinezza di Gesù. Essa ci fornisce testimonianze contraddittorie, date incerte, episodi discutibili, e ha ben poco da opporre alla versione che ce ne danno poeticamente i Vangeli: l'Annunciazione a Maria, la vergine sposa di Giuseppe il falegname, la nascita nella stalla, l'adorazione delle pecore e dei re Magi, la strage degl'Innocenti, la fuga in Egitto. La storia ci aiuta soltanto a farci un'idea delle condizioni di quel paese, quando Gesù vi nacque, e delle ispirazioni che vi trovò. Sono gli unici elementi di cui ci si può fidare.

La Giudea o Palestina era tutto un fremito patriottico e religioso. Ci vivevano circa due milioni e mezzo di persone, di cui centomila erano addensate in Gerusalemme. Non c'era unità razziale e confessionale. In alcune città anzi la maggioranza era dei gentili, cioè dei non ebrei, specie greci e siriani. La campagna invece era interamente ebraica, composta di contadini e piccoli artigiani poveri, parsimoniosi, industriosi, austeri e pii. Passavano la vita a lavorare, a pregare, a digiunare e ad aspettare il ritorno di Jeovah, il loro Dio che, secondo le Sacre Scritture, le quali costituivano anche la Legge, doveva tornare a salvare il suo popolo e a stabilire sulla terra il Regno del Cielo. Commerciavano poco. Anzi, sembra che fossero del tutto sprovvisti di quel genio speculativo, per cui in seguito diventarono così celebri (e temuti).

Il limitato autogoverno che Roma concedeva era esercitato dal Sinedrio, o Consiglio degli anziani, composto di settantun membri sotto la presidenza di un alto sacerdote, e diviso in due frazioni: quella conservatrice e

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nazionalista dei sadducèi, che tiravano più alle cose di questa terra che a quelle del Cielo; e quella bigotta dei farisei, dei teologi che passavano il loro tempo a interpretare i sacri testi. Poi c'era anche una terza setta, estremista, quella degli esseni, che vivevano in un regime comunista, mettevano in-sieme i profitti del loro lavoro, si servivano di oggetti fatti con le loro mani, mangiavano a una stessa tavola, tacendo, e così poco, che campavano in genere oltre i cento anni, e il sabato non evacuavano nemmeno perché lo consideravano contrario alla Legge. Gli scribi invece, cui Gesù tanto spesso allude, non erano una setta; erano una professione e appartenevano per la maggior parte ai farisei. Rappresentavano un po' i notai, i cancellieri, gl'interpreti delle Sacre Scritture, da cui ricavavano i precetti per regolare la vita della società.

Non solo tutta la politica, ma anche tutta la letteratura e tutta la filosofia ebraiche erano d'intonazione profondamente religiosa (e lo sono rimaste). Il loro motivo dominante è l'attesa del Redentore che sarebbe venuto un giorno a riscattare il popolo dal Male, rappresentato nella fattispecie da Roma. E i più, seguendo Isaia, erano convinti che il Messia di questa Redenzione sa-rebbe stato un Figlio di Uomo, discendente dalla famiglia di David, il mitico re degli ebrei, che avrebbe scacciato il Male e instaurato il Bene: l'amore, la pace, la ricchezza.

Questa speranza cominciava ad essere condivisa allora anche dai popoli pagani soggetti a Roma che, avendo perso ogni fede nel loro destino nazionale, la stavano trasferendo sul piano spirituale. Ma in nessun paese l'attesa era così vibrante e spasmodica come in Palestina, dove i presagi e gli oracoli davano per imminente la grande apparizione. C'era gente che passava la giornata nello spiazzo di fronte al Tempio, pregando e digiunando. Tutti sentivano che ormai il Messia non poteva più tardare.

Pure, Gesù trovò qualche difficoltà a farsi riconoscere come l'atteso Figlio dell'Uomo. E pare ch'Egli stesso acquistasse la coscienza di esserlo solo dopo aver ascoltato le prediche di Giovanni il Battista, ch'era Suo lontano parente perché figlio di una cugina di Maria. In genere, noi ci rappresentiamo Giovanni, per la sua qualità di precursore, come molto più anziano di Gesù. Invece sembra che fosse quasi Suo coetaneo. Viveva sulle rive del Giordano, vestito solo dei suoi lunghi capelli, si nutriva di erbe, di miele e di locuste, chiamava la gente a purificarsi col rito del Battesimo, da cui gli derivò il soprannome, e prometteva l'avvento del Messia come corrispettivo di un sincero pentimento.

Gesù venne a trovarlo "nel quindicesimo anno di Tiberio", cioè quando Egli stesso doveva averne ventotto o ventinove. E sostanzialmente ne accettò la dottrina e la riprese per conto Suo, ma astenendosi dal battezzare gli altri di persona, e portando la predicazione in mezzo alla società. Poco

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dopo Giovanni venne arrestato dalle guardie del tetrarca di Gerusalemme, Erode Antipa. Luca e Matteo raccontano che l'arresto fu dovuto alle critiche di Giovanni al matrimonio di Erode con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo. La figlia Salomè danzò talmente bene di fronte al tetrarca che questi si offrì di contentare qualunque suo desiderio. Su suggerimento della madre, Salomè chiese la testa decapitata di Giovanni, e fu contentata.

Fu dopo questo avvenimento che la missione di Gesù entrò nel suo pieno. Egli cominciò a predicare nelle sinagoghe, e dalle concordi testimonianze che ci restano si direbbe che qualcosa di soprannaturale attirasse subito le folle verso di Lui. Egli accompagnava le prediche, di quando in quando, coi miracoli; ma li faceva con riluttanza, proibiva ai Suoi seguaci di sfruttarli a scopi pubblicitari e si rifiutava di considerarli "prove" della Sua onnipotenza.

Intorno a Lui si era formata una cerchia di stretti collaboratori, i dodici Apostoli. Il primo fu Andrea, un pescatore ch'era stato seguace di Giovanni. Egli condusse con sé Pietro, pescatore anche lui, impulsivo, generoso, talvolta timido fino alla viltà. Anche Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, erano pescatori. Matteo invece era "pubblicano" (oggi si direbbe "statale") cioè un collaboratore dell'odiato governo romano. Giuda Iscariota era l'amministratore dei fondi che gli Apostoli mettevano in comune.

Sotto di loro c'erano settantadue Discepoli, che precedevano scalzi Gesù nelle città ch'Egli intendeva visitare per prepararvi la gente alle Sue prediche. Eppoi tutto un codazzo di fedeli, uomini e donne, che Lo seguivano, vivendo fraternamente tra loro secondo la regola degli esseni.

Dapprima il Sinedrio non si preoccupò molto di Gesù. Per due ragioni: prima di tutto, perché i Suoi seguaci erano ancora scarsi; eppoi perché le idee che predicava non erano, nel loro complesso, incompatibili con la Legge e coi suoi dogmi. L'avvento del Redentore e del Regno del Cielo faceva parte della dottrina ebraica e del suo messianismo, come i precetti morali che Gesù propagandava. "Ama il prossimo tuo come te stesso", "Offri l'altra guancia a chi ti ha schiaffeggiato", eccetera erano già nel galateo di quel popolo. Gesù diceva: «Io non sono venuto a distruggere la legge di Mosè, ma ad applicarla».

La rottura con le autorità avvenne quando Gesù annunzio di esser Lui il Figlio dell'Uomo, il Messia che tutti aspettavano, e la folla di Gerusalemme, dov'era tornato dopo la predicazione in provincia e nel contado. Lo salutò come tale. Il Sinedrio ne fu preoccupato soprattutto per ragioni politiche: temeva che Gesù approfittasse del Suo credito di Messia per provocare una sollevazione contro Roma, sollevazione che sarebbe finita in un nuovo massacro.

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La sera del 3 aprile dell'anno 30, Egli fu informato che il Sinedrio aveva deciso il Suo arresto su denunzia di uno degli Apostoli. Pranzò ugualmente con essi in casa di un amico e in quell'ultima cena annunzio che uno fra loro lo stava tradendo, e li avvertì che ormai Gli restava poco tempo da trascorrere con loro. I gendarmi Lo catturarono quella notte stessa nel giardino di Getsemani. E quando al Sinedrio che Gli chiedeva se era Lui il Messia, rispose: « Sì, sono io», fu deferito al procuratore romano, Ponzio Pilato, per empietà.

Ponzio Pilato era un funzionario, che più tardi finì la sua carriera piuttosto ingloriosamente: lo silurarono per malversazioni e crudeltà. Tuttavia nel caso di Gesù non si comportò molto male, dal punto di vista burocratico. Gli chiese se manteneva la Sua pretesa di essere il re degli ebrei, ma in tono di scherzo e forse sperando che l'accusato gli rispondesse di no. Gesù gli rispose invece di sì, e gli spiegò che regno intendeva instaurare. Pietro dice ch'Egli aveva deciso di morire per espiare le colpe di tutti gli uomini.

Pilato impartì con riluttanza la condanna a morte che quella confessione imponeva: cioè a mezzo di crocifissione. Fu inchiodato alle nove del mattino, fra due ladroni, sotto la tortura per un attimo vacillò e mormorò: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Alle tre del pomeriggio spirò.

Due influenti membri del Sinedrio chiesero e ottennero da Pilato il permesso di seppellire il cadavere. Due giorni dopo, Maria Maddalena, una delle più ardenti seguaci di Gesù, andata a visitarne la tomba, la trovò vuota. La notizia volò di bocca in bocca e fu confermata dalle apparizioni che Cristo fece ancora sulla terra, presentandosi in carne ed ossa ai Discepoli.

Quaranta giorni dopo il Suo decesso ufficiale, Egli ascese al Cielo, com'era del resto nella tradizione ebraica, da Mosè a Elia a Isaia. E i Suoi seguaci si sparpagliarono nel mondo ad annunziare la grande novella della Sua resurrezione e del prossimo ritorno.

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CAPITOLO TERZO

GLI APOSTOLI

QUEST'OPERA missionaria dapprima si sviluppò soltanto in Palestina e

nelle contrade vicine, dove vivevano colonie ebree. Perché, in un primo mo-mento, tra gli Apostoli fu tacitamente convenuto che Gesù era il Redentore non di tutti gli uomini, ma soltanto del popolo ebraico. Fu dopo la missione di Paolo ad Antiochia e il successo che egli raccolse fra i gentili di questa città, che si pose e fu risolto il problema dell'universalità del Cristianesimo.

Paolo fu per la "ideologia", come oggi si direbbe, della nuova fede quel che Pietro fu per la sua organizzazione. Era un ebreo di Tarso, figlio di un fariseo benestante, e quindi d'origine borghese, che gli trasmise il più prezioso di tutt'i beni, a quei tempi: la cittadinanza romana. Aveva studiato il greco e seguito le lezioni di Gamaliel, il presidente del Sinedrio. Aveva un'intelligenza acuta, tipicamente ebraica nello spaccare il capello, e un carattere difficile: imperioso, impaziente, e spesso ingiusto. La sua prima reazione verso Cristo, che non conobbe di persona, e i cristiani, fu di violenta antipatia. Li considerava eretici, e quando gliene capitò sotto mano uno, Stefano, condannato per infrazione alla legge, collaborò con entusiasmo alla sua lapidazione. Un giorno sentì che i cristiani guadagnavano proseliti a Damasco. Chiese al Sinedrio di lasciarvelo andare per arrestarli, e durante il viaggio fu folgorato da uno squarcio di luce e udì una voce che diceva: «Paolo, Paolo, perché mi perseguiti?». «Chi sei?», chiese sbigottito. «Sono Gesù». Rimase cieco per tre giorni, poi andò a farsi battezzare, e diventò il più abile propagandista della nuova Fede.

Per tre anni predicò in Arabia, poi tornò a Gerusalemme, si fece perdonare da Pietro il suo passato di persecutore, e con Barnaba andò a dirigere l'opera di proselitismo fra i greci di Antiochia. Quando seppero che i due missionari non richiedevano la circoncisione per accettare conversi, come Mosè prescriveva, cioè li reclutavano anche fra i gentili, gli Apostoli li mandarono a chiamare per avere spiegazioni. Con l'appoggio di Pietro, la battaglia fu vinta da Paolo, ma riprese subito dopo la sua seconda tournée in Grecia. La

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maggioranza degli Apostoli era ancora fedele alla Legge, frequentava il Tempio, non voleva rompere col suo popolo e con la sua tradizione. Paolo sentì che, a lasciarli fare, costoro avrebbero fatto del Cristianesimo soltanto una eresia ebraica, sostenne le sue tesi in pubbliche prediche e andò a rischio di essere linciato dalla folla. Volevano processarlo per empietà. Ma lo salvò la cittadinanza romana che gli dava il diritto di appello all'imperatore. Così lo imbarcarono per Roma, dove giunse dopo un viaggio avventurosissimo.

Nell'Urbe lo ascoltarono con pazienza, non capirono un'acca della questione ch'egli esponeva, compresero soltanto che la politica non c'entrava e, in attesa che arrivassero gli accusatori, lo trattarono bene, limitandosi a mettergli un soldato di guardia alla porta della casa che gli avevano lasciato scegliere. Paolo vi invitò gli esponenti della colonia ebraica, ma non riuscì a persuaderli. Anche i pochi fra loro ch'erano già cristiani respinsero con orrore l'idea che il battesimo fosse più importante della circoncisione, e a lui preferirono Pietro, che giunse poco dopo e trovò un'accoglienza molto più calda.

Paolo riuscì a convertire qualche gentile; ma in sostanza rimase solo e, animato com'era da implacabile zelo missionario, lo sfogò nelle famose Lettere che scrisse un po' a tutti i vecchi amici, di Corinto, di Salonicco, di Efeso, e che costituiscono ancor oggi la base della teologia cristiana. Secondo qualche storico, egli fu assolto, tornò a predicare in Asia e in Spagna, fu di nuovo arrestato e condotto a Roma. Ma pare che non sia vero. Paolo non fu mai liberato, nell'amarezza di quel solitario esilio perse a poco a poco la fede nell'imminente ritorno di Cristo sulla terra, o per meglio dire la tradusse in quella dell'aldilà, sigillando così la vera essenza della nuova religione.

Non sappiamo come, quando e perché lo processarono di nuovo. Sappiamo soltanto che l'accusa fu: "Disobbedienza agli ordini dell'impera-tore e pretesa che il vero re sia un tale chiamato Gesù". Può darsi infatti che non ci fosse nient'altro a suo carico. I poliziotti vanno per le spicce e, sentendo Paolo dare del re a Gesù, quando sul trono c'era Nerone, lo arrestarono e condannarono. Una leggenda vuole ch'egli sia stato soppresso lo stesso giorno dell'anno 64 in cui Pietro fu crocifisso e che i due grandi rivali, incontrandosi sulla via del supplizio, si abbracciassero in segno di pace. La cosa è poco credibile. Pietro si trovò mescolato con gli altri cristiani, uccisi in massa come responsabili dell'incendio di Roma. Paolo era un "cittadino", e come tale aveva diritto a qualche riguardo. Infatti si limitarono a decapitarlo. E là dove si ritiene ch'egli sia seppellito, la Chiesa, due secoli dopo, fondò la basilica che ne porta il nome: San Paolo fuori le Mura.

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Quante reclute aveva fatto il Cristianesimo a Roma, nel momento in cui scomparvero i due grandi Apostoli?

Le cifre sono impossibili da precisare, ma non crediamo che superassero qualche centinaio, al massimo qualche migliaio. Il fatto stesso che le autorità vi prestassero poca attenzione, lo dimostra. L'accusa dell'incendio non faceva parte di una politica persecutoria; fu uno stratagemma estemporaneo per fuorviare i sospetti contro Nerone. Il massacro, sul momento, parve aver distrutto per sempre la setta. Poi, come tutti i massacri, si rivelò un fertilizzante. Ma questo fu dovuto all'organizzazione che Pietro le aveva dato.

I cristiani si riunivano in ecclesiae, cioè in chiese o congregazioni, che in quei primi tempi non ebbero nulla di segreto e di cospiratorio. I paragoni che oggi si fanno con l'organizzazione cellulare comunista sono assolutamente ridicoli e privi di fondamento. Non solo perché nelle eccle-siae si predicava l'amore invece dell'odio; non solo perché non vi si svolgeva nessun proselitismo politico. Ma soprattutto perché non c'era ombra di segretezza, e chiunque si presentasse veniva accolto senza sospetti né diffidenze. Un'altra falsa credenza di oggi è che gli adepti fossero sol-tanto proletari, "la feccia", come l'avrebbe chiamata più tardi Gelso. Niente di più inesatto. C'era di tutto. E in genere si trattava di gente industriosa e pacifica, di piccoli e medi risparmiatori, che finanziavano le comunità cristiane più povere. Luciano il miscredente li definiva: "Degl'imbecilli che mettono insieme tutto quello che possiedono". Tertulliano il convertito precisava: "Che mettono insieme ciò che gli altri tengono separato e tengono separata la sola cosa che gli altri mettono insieme: la moglie".

Una discriminazione, imposta dalle circostanze, ci fu soltanto fra la popolazione di città e quella di campagna. I primi proseliti li diede la prima, per ovvie ragioni: perché solo in città c'è modo di riunirsi assiduamente, perché le scontentezze vi sono più acute e le menti più aperte alla critica, perché in campagna le tradizioni e i costumi si conservano di più e una maggiore forza morale li sorregge. Ed ecco perché i cristiani cominciarono a chiamare i miscredenti pagani, cioè contadini, da pagus che vuol dire vil-laggio.

La prima cosa cui mirarono questi precursori fu l'instaurazione di un modello di vita sano e decente, di cui comprendiamo il prestigio e il fascino ch'era destinato ad esercitare in una capitale che si faceva sempre più malsana e svergognata. L'origine ebraica della nuova fede e di coloro che vi si convertirono per primi era comprovata dall'austerità che imponeva. Le donne partecipavano alle funzioni del culto, che ancora si esaurivano nella preghiera, ma velate, perché i capelli potevano distrarre gli angeli, come dice san Gerolamo che voleva farli tagliare a tutte. E un regime di vita

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ordinato e casalingo era la regola fondamentale. La festa del sabato, anch'essa di origine ebraica, era osservata, e la si celebrava con una cena collettiva, che cominciava e finiva con le preghiere e con la lettura delle Sacre Scritture. Il prete benediceva il pane e il vino, che simboleggiavano rispettivamente il corpo e il sangue di Gesù, e la cerimonia finiva col bacio d'amore che tutti si scambiavano, ma che dovette dare origine a qualche diversivo in contrasto con la teologia perché di lì a poco si prese a praticarlo solo da uomo a uomo e da donna a donna, e con la raccomandazione di tener chiusa la bocca e di non ripeterlo se dava piacere.

L'aborto e l'infanticidio furono aboliti ed esecrati dai cristiani in mezzo a una società che sempre più li praticava e ne stava morendo. Anzi, ai fedeli fu fatto obbligo di raccogliere i trovatelli, adottarli e educarli nella nuova religione. L'omosessualità era bandita; il divorzio era ammesso solo su richiesta della moglie, se costei era pagana. Meno successo ebbe la proibi-zione di frequentare il teatro. Ma, tutto sommato, la regola rimase severa specie finché fu praticata quasi esclusivamente dagli ebrei. Poi, a poco a poco, col crescere di numero e d'importanza dei gentili, essa si fece più accomodante. E la festa austera del sabato diventò piano piano quella più allegra della domenica.

In questo "giorno del Signore" ci si riuniva intorno al prete che leggeva un brano delle Scritture, dava l'avvio alle preghiere, eppoi teneva un sermone. Questa fu la prima rudimentale Messa, che poi si sviluppò secondo un più preciso e complicato rituale. In quei primi anni gli ascoltatori ne erano anche i protagonisti, perché ad essi veniva concesso di "profetizzare", cioè di esprimere in stato di estasi dei concetti, che poi il sacerdote doveva interpretare. Quest'uso finì perché minacciava di provocare il caos proprio là dove la Chiesa si stava sforzando di mettere ordine: nelle questioni teologiche.

Soltanto due dei sette Sacramenti erano allora praticati: il Battesimo non si distingueva dalla Cresima perché veniva imposto a persone già adulte, quali furono i primi conversi. Poi, piano piano, si cominciò anche a nascere cristiani, e allora i due Sacramenti furono separati, il secondo costituendo la "conferma" del primo. Il matrimonio era soltanto civile; il prete si limitava a benedirlo. Invece grandi cure si aveva del funerale, perché, dal momento che un uomo era morto, esso diventava esclusiva pertinenza della Chiesa e tutto doveva essere predisposto per la sua resurrezione. Il cadavere doveva avere la sua propria tomba, e il prete officiava durante il seppellimento. Le tombe erano costruite secondo il costume siriano ed etrusco: in cripte scavate nelle pareti di lunghe gallerie sottoterra: le catacombe.

Questo uso durò fino al nono secolo, poi decadde. Le catacombe diventarono mèta di pellegrinaggio, la terra le ricoperse e furono dimen-

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ticate. Vennero riscoperte nel 1578 per un semplice caso. Il fatto che le loro ramificazioni fossero complicate e ritorte ha fatto pensare che le si fosse costruite come nascondigli per la "cospirazione". E su questa ipotesi si sono imperniati molti romanzi.

Così equipaggiata, nacque la vera religione; quella non più limitata a un popolo e a una razza, come il giudaismo, o a una classe sociale, come il paganesimo di Grecia e di Roma, che la considerava monopolio dei suoi "cittadini". Il suo livello morale, la grande Speranza che apriva nel cuore degli uomini e l'impeto missionario di cui li accendeva facevano dire orgogliosamente a Tertulliano: « Siamo soltanto di ieri. E già riempiamo il mondo»

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CAPITOLO QUARTO

I FLAVI

A DARE involontariamente una mano ai cristiani fu un imperatore che

aveva in uggia gli ebrei e commise l'imperdonabile errore di perseguitarli aiutando, con la loro dispersione nel mondo, la diffusione della nuova fede.

Vespasiano salì al trono l'anno 70, dopo lo spaventoso interregno seguito alla morte di Nerone, con cui terminò la dinastia dei Giulio-Claudi. A succedergli era stato il generale ribelle Galba, un aristocratico non peggiore di tanti altri, calvo, grasso, con le giunture inceppate dall'artrite e la mania del risparmio. Il suo primo gesto, appena proclamato imperatore, fu di ordinare a quanti avevano ricevuto doni da Nerone di restituirli allo stato. E gli costò il trono e la vita perché fra i beneficiati c'erano anche i pretoriani che, incontrandolo, tre mesi dopo la sua proclamazione, nel Foro, dove egli si faceva portare con una lettiga, gli tagliarono la testa, le braccia e le labbra, e proclamarono suo successore Ottone, un banchiere che aveva fatto bancarotta fraudolenta e prometteva di amministrare le finanze pubbliche con la stessa spensieratezza con cui aveva amministrato quelle sue private.

A quella notizia, l'esercito dislocato in Germania sotto il comando di Aulo Vitellio e quello dislocato in Egitto sotto Vespasiano si ribellarono e marciarono su Roma. Prima vi giunse Vitellio che seppellì Ottone già uccisosi, si proclamò imperatore, si abbandonò alla sua passione preferita, quella dei pranzi luculliani, e per seguitare ad abboffarsi di abbacchio trascurò di farsi incontro alle forze di Vespasiano che frattanto erano sbarcate. La sanguinosa battaglia di Cremona decise le sorti di quella guerra di successione. Vitellio fu battuto, e i romani si divertirono un mondo al massacro che seguì nella loro stessa città. Tacito racconta che la gente gremiva le finestre e i tetti per assistere a quel macello, tifando per i contendenti come se si fosse trattato di una partita di calcio. Fra un accoppamento e l'altro, i combattenti entravano nei negozi, li sac-cheggiavano e vi appiccavano il fuoco; oppure sparivano nei portoni, adescati da qualche prostituta, e mentre giacevano con lei venivano pu-

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gnalati da un nuovo cliente della parte avversa. Vitellio, quando fu catturato nel suo nascondiglio, dove, tanto per cambiare, banchettava, fu trascinato nudo per la città con un laccio al collo, bersagliato di escrementi, torturato con ponderata lentezza, e alla fine gettato nel Tevere.

Questa città che si divertiva al fratricidio, questi eserciti che si ribellavano, questi imperatori che venivano subissati di sterco pochi giorni dopo essere stati coperti di osanna: ecco cos'era diventata la capitale dell'Impero.

Tito Flavio Vespasiano ci aveva vissuto poco. Era nato in provincia, a Rieti, eppoi aveva abbracciato la carriera militare che lo aveva condotto un po' dovunque. Non era nobile. Veniva dalla media borghesia campagnola, i gradi e lo stipendio se li era guadagnati con mille sacrifici, e onorava soprattutto due virtù: la disciplina e il risparmio. Aveva sessantanni quando salì al trono, ma li portava bene. Il suo cranio era completamente calvo, il volto aperto, rozzo e franco, incorniciato da due orecchi immensi e pelosi come quelli di Ante Pavelic. Detestava gli aristocratici, li considerava dei bighelloni, non subì mai la tentazione snobistica di farsi passare per uno di loro, e quando un araldista, appunto per nobilitarlo, venne ad annunziargli che aveva rintracciato la sua origine e scoperto ch'essa risaliva a Ercole, scoppiò in una risata da buttar giù i muri e da farci sospettare che in quella piaggeria ci fosse un po' di verità. Quando riceveva qualche dignitario gli palpava la tonaca per vedere s'era di stoffa troppo fine e lo annusava per sentire se odorava d'acqua di colonia. Non sopportava queste sofisticherie.

La sua prima cura fu quella di riordinare l'esercito e le finanze. Il primo lo diede in appalto a ufficiali di carriera, quasi tutti provinciali come lui. Per le seconde, scelse la via più spicciola: quella di vendere, a prezzi salatissimi, le alte cariche pubbliche. «Tanto», diceva, «son tutti ladri, in qualunque modo li promuoviamo. Meglio che vadano avanti restituendo allo stato un po' di refurtiva». Lo stesso metodo seguì per riorganizzare il fisco. Lo affidò a funzionari scelti fra i più rapaci e dissanguatori, e li sguinzagliò con pieni poteri in tutte le province dell'Impero. Figuratevi che pacchia per le povere popolazioni. Mai la tributaria di Roma aveva funzionato con sì spietata puntualità. Ma quando la rapina fu consumata, Vespasiano ne richiamò a Roma gli esecutori, li elogiò, e confiscò tutti i loro personali guadagni, con cui, pareggiato il bilancio, risarcì le vittime. Il figlio Tito, ch'era un puritano pieno di scrupoli, venne a protestare contro questi sistemi repugnanti al suo bigotto e candido virtuismo. «Io faccio il sacerdote nel tempio», rispose il padre. «Coi briganti, faccio il brigante». E per aumentare gl'introiti, inventò quei piccoli monumenti che oramai portano il nome appunto di vespasiani, stabilendo una tassa per chi li usava e una contravvenzione per chi non li usava. Non c'era scelta. Chi la faceva fuori pagava più di chi la faceva

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dentro. Anche per questa misura, Tito venne a protestare. Suo padre gli mise sotto il naso un sesterzio e gli chiese: « Puzza di qualcosa?»

Questo figliolo delicato e perbene, che amava teneramente, era la più grossa preoccupazione di quel sovrano scettico, che non pretendeva rifor-mare l'umanità e abolirne i vizi, ma soltanto mantenerli nella loro sede. Per fargli fare pratica di uomini, lo mandò a rimettere ordine in Palestina, dov'era scoppiata l'ultima e più terribile rivoluzione. Gli ebrei difesero Gerusalemme con un eroismo senza precedenti. Secondo un loro storico, ne morirono due milioni; secondo Tacito, seicentomila. Per venire a capo della resistenza, Tito diede la città alle fiamme che distrussero anche il Tempio. Dei sopravvissuti, alcuni si uccisero, altri furono venduti come schiavi, altri fuggirono. La loro dispersione, cominciata sei secoli prima, diventò la vera e propria "diaspora". E come nello zaino dei soldati di Napoleone c'erano i Diritti dell'uomo, nel sacco di molti fra questi poveri emigranti c'era il Verbo di Cristo.

Vespasiano, inorgoglito, tributò a Tito un trionfo un po' sproporzionato al valore militare di quell'impresa, e in suo onore fece costruire il famoso arco che ne porta il nome. Ma con suo grande sgomento vide suo figlio passarci sotto portandosi appresso come preda bellica una graziosa principessa ebrea, Berenice. Non aveva nulla in contrario che se la tenesse come amante; ma il guaio è che Tito voleva sposarla, sostenendo di averla "compromessa". Vespasiano non capiva perché mai quel ragazzo volesse confondere l'amore, passeggero e volubile capriccio, con la famiglia, istituzione seria e permanente. Dacché era rimasto vedovo, anche lui si era preso una concubina, ma non l'aveva sposata. Perché Tito non faceva altrettanto, tenendosi come concubina Berenice? Sembra di sentir parlare il babbo no-stro, quando gli s'andava a chiedere il permesso di sposare la sciantosa. E, come noi, alla fine anche Tito alla sciantosa rinunziò.

Di lì a poco, toccò a lui far l'imperatore. Dopo dieci anni di saggio regno, il più saggio di cui Roma abbia goduto dopo Augusto, Vespasiano un giorno tornò a Rieti in vacanza. Ci andava spesso per ritrovare i suoi amici di gioventù, fare con loro una battuta alla lepre, quattro chiacchiere, una mangiata di fagioli con le cotiche e una partitella a scopone, ch'erano i suoi passatempi favoriti. Gli venne la cattiva idea di sciacquarsi i reni con l'acqua di Fonte Cottorella. O che la cura non fosse adatta, o che ne sbagliasse le dosi, fatto sta che fu colto da una colica, e subito s'avvide che non c'era rimedio. « Vae!», disse strizzando l'occhio, senza rinunziare nemmeno in quel momento al suo abituale e grezzo buonumore, «puto deus fio». (Ahi ahi, mi sa che sto diventando un dio). Perché in quella Roma di piaggiatori ormai c'era l'uso di divinizzare tutti gl'imperatori, quando morivano. Dopo tre giorni e tre notti di dissenteria, trovò ancora la forza di alzarsi, giallo

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come un limone e con la fronte imperlata di sudore, guardò gli astanti che a loro volta lo guardavano sbigottiti e, ridacchiando per far vedere che si rendeva conto della gigioneria, barbugliò: «Eh lo so, lo so... Ma che volete farci? Un imperatore ha da morire in piedi!».

E in piedi morì, nell'anno 79, questo borghese nato per morire, come tutti i borghesi, in fondo a un letto: da attore coscienzioso, costretto a recitare una parte non sua.

Tito, che gli successe, fu il più fortunato dei sovrani perché non ebbe il tempo di commettere errori, come certo gli sarebbe capitato in grazia non dei suoi difetti, ma delle sue virtù: il galantomismo, il candore e la generosità. Non firmò una condanna a morte. Quando seppe di un com-plotto, mandò un messaggio di ammonimento ai congiurati e un altro di rassicurazione alle loro madri. Nei suoi due anni di regno, Roma subì un terribile incendio, Pompei fu sotterrata dal Vesuvio e l'Italia devastata da una tremenda epidemia. Per riparare i danni, Tito esaurì il Tesoro. Per assistere di persona i malati, si contagiò e perse egli stesso la vita, a quarantadue anni, rimpianto da tutti, meno che da suo fratello, Domiziano, che gli successe al trono.

Non sappiamo che giudizio complessivo dare di quest'ultimo rappresentante della dinastia dei Flavi. Fra gli scrittori che vissero sotto di lui, Tacito e Plinio ne hanno lasciato il ritratto più nero; Stazio e Marziale il più roseo. Non sono d'accordo neanche sul suo aspetto fisico: i primi lo descrivono calvo e panzone su gambe di rachitico, i secondi bello come un arcangelo, timido e dolce. Doveva aver molto sofferto della preferenza che Vespasiano aveva sempre avuto per Tito, questo sì. E quando il padre scomparve, avanzò la pretesa a una metà del potere. Tito gliela offrì. Domiziano rifiutò e si mise a complottare. Dione Cassio sostiene che quando suo fratello cadde malato, ne affrettò la morte coprendolo di neve.

Il suo regno è un po' come quello di Tiberio, cui abbiamo l'impressione ch'egli stesso, come uomo, somigliasse. Identico ne fu l'inizio: saggio e oculato, con qualche venatura di austerità puritana. Domiziano era soprattutto un moralista e un ingegnere. La carica cui più tenne fu quella di censore, che gli dava il titolo di controllare i costumi, e i ministri di cui si circondò erano dei tecnici particolarmente qualificati a ricostruire la città devastata dall'incendio. Non volle guerre. E quando Agricola, governatore in Britannia, tentò di portare i confini dell'Impero fino alla Scozia, lo silurò. Forse fu questo il suo più grave errore, perché Agricola era suocero di Tacito che lo adorava e che si assunse l'incarico di giudicare gli uomini del suo tempo. È naturale che abbia conciato così male questo povero sovrano.

Purtroppo la pace, per ottenerla, bisogna essere in due a volerla. E Domiziano ebbe a che fare coi daci che non la volevano. Essi attraversarono

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il Danubio, batterono i generali romani, e obbligarono l'imperatore a prendere in mano le redini dell'esercito. Lo stava conducendo molto bene, quando Antonino Saturnino, governatore della Germania, si ribellò con alcune legioni, obbligandolo a una pace prematura e sfavorevole coi daci e mettendogli in corpo l'ossessione delle congiure. Colui che sino a quel momento aveva governato piuttosto come un Cromwell, diventò uno Stalin, e per salvare la propria "personalità" ne instaurò il "culto" più smodato. S'installò su un trono vero, volle essere chiamato "Signore e dio nostro", e pretese che i visitatori gli baciassero i piedi. Anche lui espulse dall'Italia i filosofi perché contestavano il suo assolutismo, tagliò la testa ai cristiani perché rifiutavano la sua divinità, e diede la precedenza ai delatori perché credeva che lo proteggessero dai nemici. I senatori lo odiavano, lo incensavano, e ne avallavano le sentenze di morte. E fra questi senatori c'era anche Tacito, il suo futuro spietato giudice.

In un accesso di mania di persecuzione si ricordò che il proprio segretario Epafrodito era quegli stesso che un quarto di secolo prima aveva aiutato Nerone a tagliarsi la carotide. E, temendo che ne avesse preso il vizio, lo condannò a morte. Allora tutti gli altri funzionari di palazzo si sentirono minacciati, organizzarono una congiura e chiamarono a parteciparvi anche l'imperatrice Domizia. Lo pugnalarono di notte. Domiziano si difese fino all'ultimo, selvaggiamente. Aveva cinquantacinque anni, e per quindici aveva regnato prima come il più saggio, poi come il più nefasto dei sovrani.

Così finì, nel buio da cui era sorta, anche la seconda dinastia dei successori di Augusto. Di dieci imperatori avvicendatisi nello spazio di centoventisei anni (dal 30 avanti Cristo al 96 dopo Cristo) sette erano morti ammazzati. C'era qualcosa nel sistema che non andava, che tramutava in sanguinari tiranni anche uomini disposti al bene; qualcosa di più decisivo dello stesso ereditario malanno che forse imputridiva il sangue dei Giulio-Claudi.

E questo qualcosa va ricercato nella società romana, com'era venuta trasformandosi negli ultimi tre secoli.

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CAPITOLO QUINTO

ROMA EPICUREA

LA ROMA di questo periodo, che si suol chiamare epicureo, aveva una

popolazione che qualcuno valutava a un milione, altri a un milione e mezzo. Essa era divisa nei soliti ordini e classi, l'aristocrazia era ancora numerosa; ma, a parte quello dei Corneli, i memorialisti del tempo non citano più i grandi nomi di una volta: i Fabi, gli Emili, i Valeri eccetera. Decimate prima dalle guerre cui davano un alto contributo di cadaveri, poi dalle persecuzioni e infine dalle pratiche malthusiane, queste illustri famiglie si erano estinte ed erano state rimpiazzate da altre, con meno antenati e più quattrini, che venivano dalla borghesia industriale e mercantile di provincia.

«Oggi, nell'alta società», diceva Giovenale, «l'unico buon affare è una moglie sterile. Tutti ti saranno amici sperando nel testamento. Quella che ti fa un figlio, chi ti dice che non metta alla luce un negro?».

Giovenale calcava un po' la mano, ma il malanno che denunziava era autentico. Il matrimonio, che nell'età stoica era stato un sacramento e lo ridiventerà in quella cristiana, era ora una passeggera avventura; e l'allevamento dei figli, considerato un tempo un dovere verso lo stato e verso gli dèi che promettevano una vita ultraterrena solo a chi lasciava qualcuno a prendersi cura della sua tomba, ora era considerato una noia, un imbarazzo da evitare. L'infanticidio non era più consentito, ma l'aborto era una pratica comune, e se non riusciva si ricorreva all'abbandono del neonato ai piedi di una colonna lattaria, così chiamata perché ci stavano di fazione delle nutrici stipendiate apposta dallo stato per allattare i trovatelli.

Sotto l'influsso di questi costumi, la stessa struttura biologica e razziale di Roma era cambiata. Quale cittadino non aveva nelle sue vene qualche goccia di sangue straniero? Le minoranze greche, siriano, israelite facevano, messe insieme, maggioranza. Gli ebrei erano già così forti, soprattutto in grazia della loro unione, al tempo di Cesare, che costituirono uno dei principali puntelli del suo regime. C'erano pochi ricchi, tra di loro. Ma nell'insieme costituivano una comunità disciplinata, laboriosissima, di sani

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costumi. Non altrettanto poteva dirsi degli egiziani, dei siriani e di altri orientali, gran maestri soprattutto di borsa nera.

La mamma romana che si decideva a mettere al mondo un figlio, se non era proprio povera in canna, se ne sbarazzava subito affidandolo prima a una balia per l'allattamento, poi a una istitutrice greca, che teneva il posto oggi occupato da quelle tedesche o inglesi, e infine a un pedagogo, in genere greco anch'esso, per la sua istruzione. Altrimenti lo mandava a qualcuna delle scuole che oramai erano nate un po' dovunque, ma erano private, non statali, promiscue e dirette da magistri. Gli allievi frequentavano le elementari fin verso i dodici o i tredici anni. Poi i sessi venivano separati. Le femmine completavano la loro istruzione in appositi collegi dove s'insegnava soprattutto musica e danza. I maschi intraprendevano le secondarie, tenute da grammatici che, essendo anch'essi per la maggior parte greci, insistevano soprattutto sulla lingua, letteratura e filosofia greche, che finirono infatti per sommergere la cultura romana. L'università era rappresentata dai corsi dei rètori, che non avevano nulla di organico. Non c'erano esami, non c'era tesi di laurea, non c'era dottorato. C'erano soltanto delle conferenze, seguite da discussioni. I corsi costavano fino a duemila sesterzi, fra duecento e duecentocinquantamila lire, l'anno. E Petronio la-mentava che non vi s'insegnassero che astrazioni di nessuna utilità per la vita pratica. Ma essi solleticavano il gusto tipicamente romano, per la controversia, la sottigliezza e il cavillo: un vizio ch'è poi trasmigrato nel corpo degl'italiani. Le famiglie più facoltose mandavano i loro ragazzi a perfezionarsi all'estero: a Atene per la filosofia, a Alessandria per la medicina, a Rodi per l'eloquenza. E spendevano tanti quattrini per mantenerveli, che Vespasiano il parsimonioso, per impedire questa emorragia di valuta, preferì reclutare i più illustri docenti di quelle città e trapiantarli a Roma in istituti statali che pagavan loro stipendi di centomila sesterzi l'anno, cioè cinque milioni di lire.

La moralità di questi giovani, per i maschi, non era stata mai granché, neanche ai tempi stoici. Dai sedici anni in su, era sottinteso che il ragazzo frequentasse i lupanari e non si badava molto nemmeno al fatto che corresse qualche avventura non solo con le donne, ma anche con gli uomini. Ma allora tutto questo era allo stato grezzo, i bordelli erano ignobili, e la stagione delle scostumatezze finiva col richiamo alle armi eppoi col matrimonio che inauguravano quella dell'austerità. Ora, dal servizio militare i ragazzi si facevano esentare, i bordelli erano diventati di lusso, le meretrici si sentivano in dovere d'intrattenere i clienti non soltanto con le loro grazie, ma anche con la conversazione, con la musica, con la danza, un po' come facevano le geishe in Giappone, e i clienti seguitavano a frequentarle anche dopo il matrimonio.

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Più severi si era con le ragazze, finché restavano ragazze. Ma esse si sposavano in genere prima dei vent'anni perché dopo questo traguardo erano considerate zitelle, e il matrimonio procurava loro le stesse libertà dei maschi, o poco meno. Seneca considerava fortunato il marito la cui moglie si contentava di due amanti soli. E un epitaffio iscritto su una tomba suona così: "Rimase per quarantun anni fedele alla stessa moglie". Giovenale, Marziale, Stazio ci parlano di donne della borghesia che giostrano nel Circo, girano per le strade di Roma guidando di persona i loro calessini, si fermano a far conversazione sotto i portici e "offrono al passante", dice Ovidio, "il delizioso spettacolo delle loro spalle nude".

Le "intellettuali" fiorivano. Teofila, l'amica di Marziale, avrebbe vinto di sicuro i cinque milioni a "Lascia o raddoppia?" in fatto di filosofia stoica; Sulpicia scriveva versi, naturalmente d'amore. E c'erano anche le soroptimists che avevano organizzato dei clubs femminili, i cosiddetti collegi delle donne, dove si tenevano conferenze sui doveri verso la società, come avviene in tutte le società dove i doveri non sono più osservati.

S'ingrassava. La statuaria di questo periodo, a confrontarla con quella della Roma stoica, tutta di figure secche e angolose, ci mostra un'umanità allentata e arrotondita dall'ozio e dalle indulgenze dietetiche. La barba è scomparsa, i tonsores si sono moltipllcati, la prima rasatura è una festa inaugurale nella vita dell'uomo. I capelli, la maggioranza li taglia ancora a zero; ma ci sono degli elegantoni che invece li lasciano crescere e poi li annodano in treccine. La toga porporina è diventata monopolio esclusivo dell'imperatore. Tutti gli altri ora portano una tunica o blusa bianca, e i sandali di cuoio "alla caprese", cioè col laccio infilato fra i diti.

La moda femminile invece si è complicata. La signora di qualche riguardo non impiega la mattina meno di tre ore e di una mezza dozzina di schiave per acconciarsi. Buona parte della letteratura è dedicata a illustrare quest'arte, e le stanze da bagno sono ingombre di rasoi, forbici, spazzole, spazzolini, creme, ciprie, cosmetici, oli, saponi. Poppea aveva inventato una maschera notturna intrisa di latte per rinfrescare la pelle del viso, ch'era diventata d'uso comune. E il bagno nel latte era normale, sicché le riccone viaggiavano seguite da mandrie di mucche per averne sempre di fresco a disposizione. Specialisti alla Hauser predicavano diete, ginnastica, bagni di sole, massaggi contro la cellulite. E ci furono dei tonsores che fecero la loro fortuna inventando qualche originale pettinatura diversa da quella usuale: capelli all'indietro, annodati sulla nuca o graziosamente sostenuti da una rete o da un nastro.

La biancheria era di seta o di lino. E cominciava a far la sua comparsa il reggipetto. Le calze non si usavano. Ma le scarpe erano complicate, di cuoio morbido e leggero, col tacco alto per rimediare al difetto delle donne

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romane, che è anche quello delle italiane: il sedere basso; e con ricami di filigrana d'oro.

D'inverno usavano le pellicce, ch'erano il regalo dei mariti o degli amanti dislocati nelle province settentrionali, specie la Gallia e la Germania. E in tutte le stagioni si faceva gran scialo di gioielli, ch'erano la gran passione di queste signore. Lollia Paolina andava in giro con quaranta milioni di sesterzi, cioè due miliardi di lire, sparpagliati addosso sotto forma di pietre preziose, di cui Plinio annovera più di cento specie. C'erano anche delle "imitazioni" che pare fossero capolavori. Un senatore fu proscritto da Vespasiano perché portava al dito un anello con un opale di centocinquanta milioni di lire. Il severo Tiberio tentò di mettere un freno a questi esibi-zionismi, ma dovette arrendersi: ad abolire le industrie del lusso, si rischiava di precipitare Roma in una crisi economica.

L'arredamento della casa era in tono con questi sfarzi e forse li superava. Un palazzo degno di questo nome doveva avere un giardino, un porticato di marmo, non meno di quaranta stanze, fra cui qualche salone con colonne di onice o di alabastro, piancito e soffitto a mosaico, pareti intarsiate di pietre costose, tavoli di cedro su gambe d'avorio, broccati orientali (Nerone ne aveva comprati per trecento milioni di lire), vasi di Corinto, letti di ferro battuto con zanzariera, e qualche centinaio di servi: due dietro la sedia di ogni ospite per servirgli il pranzo, due per togliergli simultaneamente le scarpe quando si coricava, eccetera.

Il gran signore romano di questi tempi si alzava al mattino verso le sette e come prima cosa riceveva per un paio d'ore i suoi clienti, offrendo la guancia al bacio di ognuno di essi. Poi faceva la prima colazione, molto sobria. E infine riceveva le visite degli amici e le restituiva. Questo era uno degli obblighi più rigidamente osservati dalla social life romana. Rifiutarsi di assistere un amico mentre stendeva il testamento, o di partecipare alle nozze di suo figlio, o di leggere le sue poesie, o di sostenerne la candidatura, o di avallarne le cambiali, era un'offesa e procurava discredito. Solo dopo il pagamento di questi debiti, si poteva pensare ai propri affari personali.

Questa regola valeva anche per la gente di condizione più modesta, della media borghesia. Costoro lavoravano sino a mezzogiorno, prendevano un pasto leggero, all'americana, tornavano al lavoro. Ma tutti, chi prima, chi dopo, secondo il mestiere e l'orario, finivano poi per trovarsi alle terme per il bagno. Nessun popolo è mai stato tanto pulito come quello romano. Ogni palazzo aveva la sua piscina privata. Ma ce n'erano oltre mille di pubbliche, a disposizione della gente comune, con una capienza media di mille utenti alla volta. Esse erano aperte dall'alba all'una per le donne, dalle due al crepuscolo per gli uomini finché diventarono promiscue, e l'ingresso costava dieci lire, servizio compreso. Ci si spogliava in cabine, si andava a fare in

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palestra esercizio di pugilato, giavellotto, pallacanestro, salto, lancio del disco; poi si entrava nella sala di massaggio. E alla fine si cominciava il bagno vero e proprio, che seguiva una stretta regola liturgica. Prima ci s'immergeva nel tepidarium ad aria tepida, poi nel calidarium ad aria calda, poi nel laconicum a vapore bollente, dove si faceva uso di una novità importata da poco dalla Gallia, il sapone. E infine, per provocare una sana reazione del sangue, ci si buttava a nuoto nell'acqua ghiaccia della piscina.

Dopo tutto questo, ci si asciugava, ci si spalmava d'olio, ci si rivestiva e si passava nella sala da giuoco per una partita a scacchi o a dadi, o in quella di conversazione per una buona chiacchierata con gli amici che si sapeva con certezza di trovarvi, o nel restaurant, per una buona cenetta che, anche quando era sobria, consisteva di almeno sei portate, di cui due di carne di porco. La si consumava giacendo sui triclini, specie di divani a tre posti, col corpo disteso per riposarlo dagli esercizi fatti poco prima, il braccio sinistro appoggiato sul cuscino per sostenere la testa, il destro allungato a prendere le vivande dal tavolo. La cucina era greve, con molte salse di grasso animale. Ma i romani avevano uno stomaco solido, e lo dimostravano in occasione dei veri e propri banchetti che con molta frequenza celebravano.

Questi avevano inizio alle quattro del pomeriggio, e duravano sino a notte avanzata, se non fino all'indomani. Le tavole erano cosparse di fiori e l'aria di profumi. I servitori, in ricche divise, dovevano essere almeno, come numero, il doppio degli invitati. Non si ammettevano che pietanze rare ed esotiche. «Per i pesci», diceva Giovenale, «ci vogliono quelli che costano più dei pescatori». L'aragosta rossa faceva premio, le pagavano anche sessantamila lire l'una, e Vedio Pollione fu il primo a tentarne l'allevamento. Le ostriche e i petti di tordo erano d'obbligo. E Apicio si fece una posizione in società inventando un piatto nuovo: il paté de foie gras, ingrassando le oche a furia di fichi. Era un curioso uomo, questo Apicio: si mangiò in pranzi un patrimonio colossale, e quando lo vide ridotto a un miliardo solo si uccise ritenendosi caduto in miseria.

In queste occasioni il banchetto si trasformava in orgia, l'anfitrione offriva in dono agli ospiti oggetti preziosi, e i servi passavano fra i tavoli distribuendo degli emetici che provocavano il vomito e consentivano di ricominciare a mangiare.

Il rutto era consentito. Anzi, era un segno di apprezzamento della bontà dei cibi.

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CAPITOLO SESTO

IL SUO CAPITALISMO

ROMA non era una città industriale. Di grossi stabilimenti c'erano soltanto

una cartiera e una fabbrica di coloranti. Sin da quegli antichi tempi, la sua industria vera era la politica che offre, ai guadagni, scorciatoie molto più rapide che non il lavoro vero. E questa vocazione non è cambiata nemmeno ai giorni nostri.

La fonte principale di ricchezza dei signori romani erano l'intrallazzo nei corridoi dei Ministeri e il saccheggio delle province. Essi spendevano molti soldi per far carriera. Ma, una volta arrivati a qualche alto grado amministrativo, si rifacevano con larghi interessi, e i guadagni li investivano nell'agricoltura. Giunio Columella e Plinio ci hanno lasciato il ritratto di questa società latifondista e dei criteri che seguiva per lo sfruttamento delle fattorie.

La piccola proprietà che i Gracchi, Cesare e Augusto avevano voluto ripristinare con le loro leggi agrarie non aveva retto alla concorrenza del latifondo: una guerra o un anno di siccità bastavano a distruggerla a profitto dei grandi feudi che avevano possibilità di resistere. Ce n'erano di vasti come reami, dice Seneca, accuditi da schiavi che non costavano nulla ma trattavano la terra senza nessun criterio, e specializzati nell'allevamento del bestiame, che rendeva più dell'aratura dei campi. Pascoli di dieci o venti mila ettari con dieci o ventimila capi non erano una rarità.

Ma fra Claudio e Domiziano cominciò una lenta trasformazione. Il lungo periodo di pace e l'estensione della piena cittadinanza ai provinciali interruppero il rifornimento di schiavi che cominciarono a farsi rari e quindi più costosi: e il miglioramento degl'incroci condusse a una crisi di sovrapproduzione del bestiame che si procurava con difficoltà i mangimi e scadde di prezzo. Molti allevatori trovarono più conveniente tornare alla agricoltura, divisero le fattorie in poderi e li diedero in sfruttamento a degli affittuari, o coloni, che furono gli antenati dei contadini d'oggidì e molto, se

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è vero quel che Plinio racconta di essi, gli somigliano: tenaci, solidi, avari, diffidenti e conservatori.

Costoro di terra se n'intendevano e avevano interesse a farla rendere. Di colpo cominciò l'uso dei concimi, la rotazione delle colture e la selezione delle sementi. I frutticoltori importarono e trapiantarono dopo razionali esperimenti l'uva, la pesca, l'albicocca, la ciliegia. Plinio enumera ventinove qualità di fichi. E il vino fu prodotto in tale quantità che Domiziano, per impedire una crisi, proibì l'impianto di nuovi vigneti.

Le industrie nacquero, su base artigianale e familiare, intorno a questi microcosmi agricoli per completarne l'autarchia. Una fattoria tanto più era considerata ricca quanto più bastava ai propri bisogni. Lì c'era il macello, dove venivano uccise le bestie e insaccate le loro carni. Lì c'era la fornace per cuocere i mattoni. Lì si conciavano le pelli e si confezionavano le scarpe. Lì si tesseva la lana e si tagliavano i vestiti. Non c'era ombra di quella "specializzazione" che oggigiorno rende il lavoro insopportabile e trasforma in un automa chi lo fa. L'industrioso contadino di quei tempi, staccate le bestie dall'aratro, diventava falegname o si metteva a battere il ferro per ricavare ganci o pentole. La vita di questi agricoltori artigiani era piena e varia molto più che ai tempi nostri.

Le uniche industrie condotte con criteri moderni erano quelle estrattive. Proprietario del sottosuolo, teoricamente, era lo stato, che però ne affidava lo sfruttamento, dietro modesti canoni di affitto, ai privati. L'interesse guidò costoro a scoprire lo zolfo in Sicilia, il carbone in Lombardia, il ferro all'Elba, il marmo in Lunigiana, e il loro impiego. I costi di produzione erano minimi perché il lavoro nei pozzi era affidato esclusivamente a schiavi e a forzati ai quali non si doveva pagare nessun corrispettivo e che non era necessario assicurare contro nessun infortunio. Date le condizioni delle miniere, di Marcinelle ce ne dovevano essere ogni settimana, con migliaia di morti. Gli storici romani hanno trascurato di dircelo perché per loro questi episodi non "facevano notizia" come si dice in gergo giornalistico. Un'altra grande industria era quella edile, coi suoi specialisti, dai boscaioli ai trombai ai vetrai. Ma un vero e proprio capitalismo industriale non potè svilupparsi soprattutto per la concorrenza che il lavoro servile faceva al macchinario. Cento schiavi costavano meno di quanto sarebbe costata una turbina, e la meccanizzazione avrebbe creato un in-solubile problema di disoccupazione.

Eppure, molti servizi pubblici furono meglio organizzati allora che nell'Europa, poniamo, del Settecento. L'Impero aveva centomila chilometri di autostrade, l'Italia sola possedeva circa quattrocento grandi arterie, sulle quali si svolgeva un traffico intenso e ordinato. La loro pavimentazione aveva consentito a Cesare di percorrere millecinquecento chilometri in otto

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giorni, il messaggero che il Senato mandò a Galba per annunziargli la morte di Nerone impiegò trentasei ore a battere cinquecento chilometri. La posta non era pubblica, sebbene si chiamasse cursus publicus. Modellata da Augusto secondo il sistema persiano, essa doveva servire soltanto come valigia diplomatica, cioè per la corrispondenza di stato, e i privati potevano approfittarne solo su speciale permesso. Il telegrafo era sostituito da segnalazioni luminose attraverso fari postati sulle alture, ed è rimasto sostanzialmente identico fino ai tempi di Napoleone. La posta privata era gestita da compagnie private, oppure affidata ad amici e a gente di passaggio. Ma i gran signori come Lepido, Apicio, Pollione avevano un servizio per conto loro e ne erano fierissimi.

Raccordi e posteggi erano magnificamente congegnati. Ogni chilometro c'era un capitello che indicava la distanza dalla città più vicina. Ogni dieci chilometri c'era una stazione con trattoria, camere da letto, stalla, cavalli freschi da affittare. Ogni trenta, c'era una mansione cui a quanto sopra, più spazioso e meglio organizzato, si aggiungeva anche un bordello. Gli itinerari erano sorvegliati da pattuglie di polizia, che però non riuscirono mai a renderli del tutto sicuri. I gran signori li percorrevano seguiti da interi treni di carri, dentro i quali essi dormivano sotto la guardia dei loro servi armati.

Il turismo fioriva, quasi quanto ai nostri tempi. Plutarco ironizza sui globe-trotters che infestavano la città. Come quella dei giovani inglesi del secolo scorso, l'educazione del giovane romano non era completa prima del grand tour. Lo facevano soprattutto in Grecia, via mare, imbarcandosi a Ostia o a Pozzuoli, ch'erano i due grandi porti del tempo. I più poveri prendevano uno dei tanti carghi che andavano a incettare in Oriente; per i più ricchi c'erano veri e propri transatlantici, che navigavano a vela, ma stazzavano fino a mille tonnellate, erano lunghi centocinquanta metri e possedevano cabine di lusso.

La pirateria era scomparsa quasi completamente sotto Augusto che, per debellarla, aveva istituito due grosse home fleets permanenti in Mediterra-neo. Sicché ora le navi viaggiavano anche di notte ma quasi sempre costeggiando per paura delle tempeste. Orari non ce n'era perché tutto dipendeva dai venti. Normalmente si andava sui cinque o sei nodi all'ora, e da Ostia ad Alessandria ci volevano circa dieci giorni. Ma anche il biglietto costava poco; su un cargo, il tragitto sino a Atene non superava le cinquanta lire. Le ciurme erano allenate e somigliavano a quelle d'oggi: gente spregiudicata e manesca, con spiccate tendenze alla bettola e al bordello. I comandanti erano degli specialisti, che piano piano trasformarono il mestiere della navigazione in una scienza vera e propria. Ippalo scoprì la periodicità dei monsoni; e i viaggi dall'Egitto all'India, che prima

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richiedevano sei mesi, ora si cominciarono a fare in uno. Nacquero le prime carte, furono installati i primi fari.

Tutto questo avvenne rapidamente perché i romani covavano in corpo, oltre alla passione delle armi e delle leggi, quella dell'ingegneria. Essi non portarono mai gli studi matematici alle altezze speculative dei greci, ma li applicarono con molta più praticità. Il prosciugamento del Fucino fu un autentico capolavoro, e le strade che essi costruirono rimangono ancor oggi dei modelli. Furono gli egiziani a scoprire i princìpi dell'idraulica, ma furono i romani a concretarli in acquedotti e fognature di colossali proporzioni. A loro si deve lo zampillio di fontane della Roma di oggi. E Frontino, che ne organizzò il sistema, lo ha anche descritto in un manuale di alto valore scientifico. Egli giustamente raffronta queste opere di pubblica utilità alla totale inutilità delle Piramidi e di tante costruzioni greche. E nelle sue parole risplende il genio romano, pratico, positivo, al servizio della società e non a rimorchio dei capricci estetici individuali.

È difficile dire fino a che punto lo sviluppo economico di Roma e del suo Impero fu dovuto all'iniziativa privata e fino a che punto allo stato. Quest'ultimo era proprietario del sottosuolo, di un largo demanio e probabilmente anche di alcune industrie di guerra. Garantiva il prezzo del grano col sistema degli ammassi e intraprendeva direttamente i grandi lavori pubblici per rimediare alla disoccupazione. Esso usava anche il Tesoro come banca prestando ai privati, su solide garanzie, ad alto interesse. Ma non era molto ricco. I suoi introiti, sotto Vespasiano che li aumentò e li amministrò con rigore, non superavano i cento miliardi di lire, ricavati soprattutto dalle tasse.

All'ingrosso si può dire che era uno stato più liberale che socialista, il quale lasciava persino all'iniziativa dei suoi generali il diritto di batter moneta nelle "province" da essi governate. Il complesso sistema monetario che ne derivò fu la pacchia dei banchieri che vi basarono sopra tutte le loro diavolerie: i libretti di risparmio, le cambiali, gli assegni, gli ordini di pagamento. Essi fondarono istituti appositi con succursali e corrispondenti in tutto il mondo, e questo complesso sistema rese inevitabili i booms e le crisi come succede anche oggi.

La depressione di Wall Street nel 1929 ebbe il suo precedente a Roma quando Augusto, tornato dall'Egitto con l'immenso tesoro di quel paese in tasca, lo mise in circolazione per rianimare i traffici che languivano. Questa politica inflazionistica li stimolò, ma stimolò anche i prezzi che salirono alle stelle fin quando Tiberio non interruppe bruscamente questa spirale risucchiando il circolante. Chi si era indebitato contando sul proseguimento dell'inflazione, si trovò a corto di liquido e corse a ritirarlo dalle casse di risparmio. Quella di Balbo e di Ollio si trovò in un solo giorno a far fronte a

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trecento milioni di obbligazioni, e dovette chiudere gli sportelli. Le industrie e le botteghe che vi attingevano non poterono pagare i fornitori e dovettero chiudere anch'esse. Il panico dilagò. Tutti corsero a ritirare i loro depositi dalle banche. Anche quella di Massimo e di Vibone, ch'era la più forte, non potè soddisfare tutte le domande, e chiese aiuto a quella di Pettio. La notizia si sparse come un baleno, e allora furono i clienti di Pettio che si precipitarono da lui coi loro libretti impedendogli il salvataggio dei suoi due colleghi. L'interdipendenza delle varie economie provinciali e nazionali nel seno del vasto Impero fu provata dal contemporaneo assalto alle banche di Lione, di Alessandria, di Cartagine, di Bisanzio. Era chiaro che un'ondata di sfiducia a Roma si riverberava immediatamente in periferia. Anche allora ci furono fallimenti a catena e suicidi. Molte piccole proprietà, sotterrate dai debiti, non poterono aspettare il nuovo raccolto per pagarli, e dovettero essere vendute, o meglio svendute a profitto dei latifondi ch'erano in condizione di resistere. Rifiorirono gli usurai che il diffondersi delle banche aveva diradato. I prezzi crollarono paurosamente. E Tiberio dovette alla fine arrendersi all'idea che la deflazione non è più sana dell'inflazione. Con molti sospiri distribuì cento miliardi alle banche perché li rimettessero in circolazione con l'ordine di imprestarli per tre anni senza interesse.

Il fatto che questa misura bastò a rianimare l'economia, a scongelare il credito e a ridare la fiducia, ci dimostra quanto le banche contassero, cioè quanto fosse sostanzialmente capitalista il regime imperiale romano.

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CAPITOLO SETTIMO

I SUOI DIVERTIMENTI

QUANDO Augusto assunse il potere, il calendario romano conosceva settantasei giorni di festa, press'a poco come oggi; quando il suo ultimo suc-cessore ne decadde, ce n'erano centosettantacinque, cioè era festa un giorno sì e uno no. Esse venivano celebrate coi ludi scenici e coi giuochi atletici.

I ludi scenici non erano più il classico dramma, pomposo e solenne, estintosi, dopo una breve stagione, molto più rapidamente di quanto non fosse nato. C'è qualcosa nell'aria non solo di Roma, ma di tutta Italia, che le rende piuttosto allergiche al teatro. Drammi si continuò a scriverne anche in questo primo secolo d'Impero ma come esercitazioni poetiche che trovavano qualche ascoltatore nei salotti in cui l'autore le leggeva, non spettatori nei teatri e attori per interpretarle. Un pubblico rozzo, composto in buona parte di stranieri che conoscevano soltanto un latino elementare, preferiva la pantomima in cui la trama è resa evidente non dalla parola, ma dal gesto e dalla danza. Si formò allora quella tradizione del "gigione", grossolano, volgare, che arrota gli occhi, che smorfieggia, gesticoloso, cui ancora oggi i nostri attori si ispirano. Roma ebbe i suoi Totò e Macario in Esopo e Roscio, le vedettes di quel tempo, che commettevano stravaganze per farsi pubblicità, mandavano in delirio le platee coi loro sketches scollacciati e pieni di doppi sensi, diventarono i "cocchi nostri" dei salotti aristocratici, si prendevano per amanti le gentildonne più in vista, guadagnavano fior di milioni e lasciavano in eredità dei miliardi. Essi avevano ora nelle loro compagnie anche delle donne, le girls del tempo, che venendo a causa di questa professione ufficialmente equiparate alle prostitute, non avevano più nulla da perdere in fatto di pudore e contribuivano senza ritegno alla oscenità degli spettacoli.

La libidine dell'applauso spesso portava questi interpreti a rappresentare scene colme di allusioni politiche in barba alla censura, come sempre capita nei regimi di tirannia, quando nessuno osa dir qualcosa, ma tutti vanno in visibilio per chi lo fa. La sera dei funerali di Vespasiano, un attore ne

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parodiò il cadavere drizzandosi nella bara e chiedendo ai beccamorti: «Quanto costa questo trasporto?». «Dieci milioni di sesterzi». «Be', datemene centomila», rispose il cadavere, «e buttatemi nel Tevere». Che era, bisogna riconoscerlo, un'uscita in tono col carattere del defunto. All'empio andò bene, perché il successore era Tito. Ma pochi anni prima Caligola aveva fatto bruciar vivo l'autore d'un'allusione molto più timorata.

Mentre il teatro scadeva così nella rivista di varietà, sempre più cresceva la fortuna del Circo. Cartelli murali come quelli che oggi annunziano i film, annunziavano gli spettacoli atletici. Essi costituivano l'argomento del giorno, se ne discuteva appassionatamente in famiglia, a scuola, nel Foro, alle Terme, in Senato, e perfino il giornale, Acta diurna, ne faceva la presentazione e la recensione. Il giorno delle gare, folle di centocinquanta o duecentomila persone si avviavano al Circo Massimo, come oggi allo stadio, recando fazzoletti coi colori della squadra del cuore, e i maschi facendo sosta, prima di entrare, nei bordelli che si allineavano ai lati degl'ingressi. I dignitari avevano palchi a parte con sedili di marmo ornato di bronzo. Gli altri si sistemavano su panche di legno, dopo essere andati a frugare negli escrementi dei cavalli per assicurarsi ch'erano stati nutriti a dovere, aver impegnato fin la camicia nelle scommesse ed essersi procurati un panino e un cuscino perché lo spettacolo durava tutta la giornata. L'imperatore aveva addirittura, per sé e la famiglia, un appartamento con camere da letto per schiacciarvi un pisolino fra una gara e l'altra, e l'immancabile bagno per le abluzioni e altre comodità.

Come oggi, cavalli e fantini appartenevano a scuderie private, ciascuna con la propria casacca di cui le più famose erano le rosse e le verdi. Le corse al galoppo si alternavano con quelle al trotto con due, o tre, o quattro cavalli. Quasi tutti schiavi, i conducenti portavano elmetti di metallo, tenendo in una mano le briglie, nell'altra la frusta, e a tracolla un coltello con cui tagliare i finimenti in caso di caduta. Era un caso frequente perché la corsa era spericolata, come lo è oggi quella del Palio a Siena. Si dovevano percorrere sette circuiti, cioè altrettanti chilometri, attorno alla ellittica arena, evitando le metae e prendendo le curve quanto più stretto si poteva. I calessini entravano facilmente in collisione, e bipedi e quadrupedi ruzzolavano giù con stanghe e ruote per essere schiacciati dagli equipaggi che sopraggiungevano. Tutto questo in mezzo ai boati degli spettatori che atterrivano i cavalli.

Ma i numeri più attesi erano le lotte gladiatorie: fra animale e animale, fra animale e uomo, fra uomo e uomo. Il giorno in cui Tito inaugurò il Colosseo, Roma spalancò gli occhi per la meraviglia.

L'arena poteva essere abbassata e inondata come un bacino lacustre, oppure riemergere diversamente addobbata, come un pezzo di deserto o un

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ciuffo di giungla. Una galleria di marmo era riservata agli alti dignitari, e in mezzo si elevava il suggestum, o loggia imperiale, con tutti i suoi accessori, dove imperatore e imperatrice sedevano su troni d'avorio. Chiunque poteva avvicinarsi al sovrano a impetrare una pensione, un trasferimento, la grazia per un condannato. Ad ogni angolo fontane lanciavano in aria zampilli di acqua profumata; e nei ridotti si preparavano i tavoli per gli spuntini fra un numero e l'altro. Tutto era gratuito: ingresso, sedile, cuscino, arrosto, vino.

Il primo numero fu la presentazione di animali esotici, molti dei quali i romani non avevano ancora mai visto. Fra elefanti, tigri, leoni, leopardi, pantere, orsi, lupi, coccodrilli, ippopotami, giraffe, linci eccetera ne sfilarono diecimila, e molti erano caricaturalmente addobbati per parodiare personaggi della storia o della leggenda. Poi l'arena fu tirata giù e riemerse adattata al combattimento: leoni contro tigri, tigri contro orsi, leopardi contro lupi. Insomma, alla fine dello spettacolo, solo la metà di quelle diecimila povere bestie era viva. L'altra metà era scomparsa nella loro pancia. Poi di nuovo l'arena fu tirata giù e riemerse addobbata a plaza de toros. La corrida, già praticata dagli etruschi, era stata poi importata a Roma da Cesare che l'aveva vista a Creta. Egli aveva un debole per queste feste, ed era stato il primo a offrire ai suoi concittadini un combattimento di leoni. Quello col toro piacque enormemente ai romani che vi si appassionarono subito e da allora in poi lo reclamarono sempre. I toreri non conoscevano il mestiere ed erano quindi destinati alla morte. Infatti venivano scelti fra gli schiavi e i condannati, come tutti gli altri gladiatori del resto. Molti di essi non combattevano nemmeno. Dovevano rappresentare qualche personaggio della mitologia e subirne per davvero la tragica fine. Per ravvivare la propaganda patriottica, uno veniva presentato come Muzio Scevola e obbligato a bruciarsi la mano sui carboni, un altro come Ercole cremato vivo sulla pira, un altro come Orfeo sbranato mentre suonava la lira. Volevano essere insomma degli spettacoli "edificanti" per la gioventù e come tali essi non erano affatto vietati ai minori dì sedici anni, anzi.

Seguivano i combattimenti fra gladiatori, tutti condannati a pene capitali per omicidio, rapina, sacrilegio o ammutinamento, ch'erano i delitti per i quali la morte veniva inflitta. Ma quando ce n'era carestia, compiacenti tribunali condannavano a morte anche per altri motivi molto meno gravi: Roma e i suoi imperatori non potevano fare a meno di questa carne umana da macello. Tuttavia c'erano anche i volontari, e non tutti di bassa estrazione, che s'iscrivevano alle apposite scuole per poi combattere nel Cir-co. Erano forse le più serie e rigorose scuole di Roma. Vi sì entrava quasi come in seminario, dopo aver giurato dì essere pronti a farsi "frustare, bruciare e pugnalare". I gladiatori avevano, ad ogni combattimento, una probabilità su due di diventare eroi popolari, cui i poeti dedicavano i loro

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carmi, gli scultori le loro statue, gli edili le loro strade e le signore le loro grazie. Prima della gara si offriva loro un pantagruelico banchetto. E, se non vincevano, avevano l'obbligo di morire con irridente indifferenza. Si chia-mavano con vari nomi secondo le armi che usavano, e ogni spettacolo contava centinaia di questi duelli che potevano anche finire senza il morto se il soccombente, essendosi condotto con coraggio e bravura, veniva graziato dalla folla col gesto del pollice alzato. A uno spettacolo offerto da Augusto e durato otto giorni, diecimila gladiatori presero parte. Guardiani vestiti da Caronte e da Mercurio pungevano i caduti con forconi acuminati per vedere se erano morti, i simulatori venivano decapitati, schiavi negri appilavano i cadaveri e portavano nuova sabbia per i combattimenti successivi.

Questo modo di divertirsi al sangue e alle torture non sollevava obiezioni nemmeno fra i moralisti più severi. Giovenale, che criticava tutto, era un tifoso del Circo e lo trovava del tutto legittimo. Tacito ebbe qualche dubbio; ma poi riflette che quello che si versava nell'arena era "sangue vile" e con questo aggettivo lo giustificò. Perfino Plinio, il più civile e moderno gentiluomo di allora, trovò che quei massacri avevano un valore educativo perché abituavano gli spettatori allo stoico disprezzo della vita (altrui). Non parliamo di Stazio e Marziale, i due poeti lodatori di Domiziano, che nel Circo passavano la vita e vi attinsero le loro ispirazioni poetiche. Stazio era un napoletano che si era fatto un bel nome con un brutto poema, La Tebaide, aveva recitato nei teatri, fu invitato a pranzo dall'imperatore e, per farlo sapere a tutta Napoli, ci scrisse sopra un libro rappresentando Domiziano come un dio e dedicandogli le sue Silvae, che sono le sole poesie leggibili di questo autore. Morì sui cinquant'anni, quando già la sua stella era offuscata da Marziale che cercava le sue ispirazioni soprattutto nel Circo e nel bordello.

Marziale era uno spagnolo di Bilbao che venne a Roma a ventiquattr'anni e vi godè la protezione dei suoi compatrioti Seneca e Lucano. Perché gli spagnoli allora si aiutavano, come fanno oggi i siciliani. Non fu un gran poeta. Ma anticipò Longanesi nella "battuta", che lasciava il segno come un morso. «Le mie pagine sanno di uomini», diceva; ed è vero. I suoi personaggi sono di basso rango perché li sceglieva in quegli ambienti malfamati delle prostitute e dei gladiatori; ma appunto per questo sono vivi nella loro) volgarità e abiezione. Era lui stesso un tipo piuttosto ignobile. Piaggiò Domiziano, calunniò i suoi benefattori, visse nei bassifondi mangiandosi i soldi in vino, dadi e scommesse alle corse. Ma non seppe cosa volesse dire retorica, i suoi Epigrammi rimangono il più perfetto monumento del genere, e la testimonianza ch'egli ci ha lasciato di Roma è forse la più autentica. Finì per tornarsene a Bilbao, ch'era allora un paesello, dove visse, tanto per cambiare, alle spalle di un amico che gli regalò una

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villa, e dove, di Roma, rimpianse una cosa sola: il Circo, non avendo più l'età per rimpiangere anche l'altra: i bordelli.

Soltanto Seneca ci ha lasciato una condanna dei giuochi gladiatori che dice di non aver mai frequentato. Egli andò a visitare il Colosseo una volta sola, e rimase sbigottito. "L'uomo, la cosa all'uomo più sacra, qui viene ucciso per sport e divertimento", scrisse tornando a casa.

Ma il fatto è che questo sport e divertimento era ormai in tono col livello morale di una Roma non ancora cristiana, ma non più neanche pagana. L'imperatore che vi presiedeva era anche l'Alto Sacerdote, cioè il papa, di una religione di stato che non trovava nulla da obiettare a simili ignominie per il semplice motivo che non credeva più a niente essa stessa. Celebrava le feste con una liturgia sempre più complicata, innalzava templi sempre più fastosi, creava nuovi idoli come Annona e Fortuna. Ma a sorreggerli c'erano soltanto dei capitelli di marmo. La fede, no. Essa era monopolio di quelle poche centinaia o migliaia di cristiani, soprattutto ebrei, che, invece di andare al Circo a tripudiare per la morte degli uomini, si riunivano nelle loro piccole ecclesiae a pregare per la loro anima.

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CAPITOLO OTTAVO

NERVA E TRAIANO

Gli uccisori di Domiziano non avevano dato alla loro vittima il tempo di nominare un erede. E il Senato, che non aveva mai ufficialmente rico-nosciuto il diritto degl'imperatori a designarne, ma aveva sempre accettato in pratica le loro scelte, ne approfittò per farne una di suo gusto nella persona di un suo membro.

Marco Cocceio Nerva era un giurista che si dilettava a tempo perso dì poesia, ma non aveva né la litigiosità degli avvocati né la vanità dei poeti. Era un omaccione alto e grosso, che non aveva mai fatto del male a una mosca, non aveva mostrato ambizioni e, alla fine del suo regno, potè dire con piena ragione di non aver fatto nulla che gli vietasse di tornare alla vita privata senza correre rischi.

Forse la sua scelta fu dovuta non tanto alle sue virtù, quanto al fatto che aveva già settant'anni ed era debole di stomaco, il che lasciava prevedere un regno di breve durata. Infatti durò due anni soli, ma a Nerva bastarono per riparare i torti del suo predecessore. Richiamò i proscritti, distribuì molte terre ai poveri, liberò gli ebrei dai tributi che Vespasiano aveva loro imposto e rimise ordine nelle finanze. Ciò non impedì ai pretoriani, scontenti di quel nuovo padrone che si opponeva alle loro prepotenze, di assediarlo nel palazzo, scannare alcuni suoi consiglieri ed imporre la consegna degli assassini di Domiziano. Nerva, pur di salvare i suoi collaboratori, offrì in cambio la propria testa. E, siccome gliela risparmiarono, diede le proprie dimissioni al Senato che le respinse. Nerva non aveva mai preso nessuna decisione senza consultare il Senato e in opposizione ad esso. Anche stavolta si arrese. Sentiva di essere alla fine, e il poco tempo che gli restava da vivere lo impiegò a cercarsi un successore che il Senato gradisse e ad adottarlo come figlio (di suoi non ne aveva), in modo da togliere ai pretoriani la tentazione d'incoronare qualcuno di testa loro. La scelta di Traiano fu forse il miglior servizio che Nerva abbia reso allo stato.

Traiano era un generale che in quel momento comandava un esercito in Germania, e quando seppe che lo avevano proclamato imperatore, non si

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scompose molto. Mandò a dire al Senato che ringraziava della fiducia e che sarebbe venuto ad assumere il potere appena avesse avuto un minuto di tempo. Ma per due anni non lo trovò, perché doveva regolare certe pendenze coi teutoni. Era nato appena quarant'anni prima in Spagna, ma da una famiglia romana di funzionari, e funzionario era sempre rimasto egli stesso, cioè mezzo soldato e mezzo amministratore. Era alto e robusto, di costumi spartani e d'un coraggio a tutta prova, ma senza esibizionismi. Sua moglie Plotina si proclamava la più felice delle spose perché egli non l'ingannava, ogni tanto, che con qualche giovanotto; con altre donne mai. Passava per un uomo colto perché usava portarsi appresso, sul suo carro di generale, Dione Crisostomo, un celebre rètore del tempo, che gli parlava continuamente di filosofia. Ma un giorno confessò che non aveva mai capito una sola delle molte parole che Dione aveva pronunciato, anzi non le ascoltava nemmeno: si lasciava cullare dal loro suono d'argento pensando ad altro: ai conti della spesa, al piano di una battaglia, al progetto di un ponte.

Quando alla fine trovò il famoso minuto per cingere la corona, Plinio il Giovane fu incaricato di rivolgergli un panegirico in cui cortesemente gli si ricordava ch'egli doveva la sua elezione ai senatori e quindi doveva interpellarli per ogni decisione. Traiano sottolineò il passaggio con un segno approvativo del capo, cui nessuno prestò gran fede. Ma ebbero torto, perché quella regola egli l'osservò strettamente. Il potere non gli diede mai alla testa, e nemmeno la minaccia dei complotti valse a trasformarlo in un despota sospettoso e sanguinario. Quando scoprì quello di Licinio Sura, andò a pranzo da lui, e non solo mangiò tutto quello che gli venne servito nel piatto, ma poi offrì la gola al barbiere del congiurato per farsela radere.

Era un formidabile lavoratore e pretendeva che lo diventassero anche tutti coloro che gli stavano intorno. Mandò molti sfaticati senatori a fare ispezioni e a rimettere ordine nelle province, e dalle lettere che scambiò con loro e di cui qualcuna c'è rimasta, si possono indurre la sua competenza e diligenza. Le sue idee politiche erano quelle di un conservatore illuminato che credeva più alla buona amministrazione che alle grandi riforme, escludeva la violenza, ma sapeva ricorrere alla forza. Per questo non esitò a muover guerra alla Dacia (che corrisponde oggi alla Romania), quando il suo re, Decebalo, venne a insidiargli le conquiste fatte in Germania. Fu una campagna condotta da brillante generale. Battuto, Decebalo si arrese, ma Traiano gli risparmiò la vita e il trono, limitandosi a imporgli un vassallaggio. Tanta clemenza, nuova negli annali della storia romana, fu mal ricompensata, perché di lì a due anni Decebalo nuovamente si ribellò. Traiano riprese il sentiero di guerra, batté di nuovo il fedifrago, ne dilapidò le miniere d'oro transilvane, e con questo bottino finanziò quattro mesi di giuochi ininterrotti nel Circo con diecimila gladiatori per celebrare la sua

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vittoria e un programma di lavori pubblici destinato a fare del suo regno uno dei più memorabili nella storia dell'urbanistica, dell'ingegneria e dell'ar-chitettura.

Un gigantesco acquedotto, un nuovo porto ad Ostia, quattro grandi strade, l'anfiteatro di Verona, furono tra le sue opere più insigni. Ma quella più conosciuta fu il Foro Traiano, dovuto al genio di Apollodoro, un greco di Damasco, che già aveva costruito per lui, in pochi giorni, quel meraviglioso ponte sul Danubio, che gli aveva consentito di prendere a rovescio Decebalo. Per innalzare la colonna che ancora si erge di fronte alla basilica Ulpia, furono trasportati da Paro diciotto cubi di un marmo speciale, di cinquanta tonnellate ciascuno: un miracolo, per quei tempi. Su di essa furono incise, in bassorilievo, duemila figure, secondo uno stile vagamente neorealista, cioè con molta propensione alla crudezza delle scene rappresentate. È un'incisione troppo gremita per essere bella, ma dal punto di vista documentario è interessante, e fu questo che piacque di certo a Traiano.

Dopo sei anni di pace, occupati in quest'opera di ricostruzione, Traiano fu ripreso dalla nostalgia dell'accampamento e, sebbene toccasse ormai la sessantina, si mise in testa di completare l'opera di Cesare e di Antonio in Oriente, portando i confini dell'Impero fino all'Oceano Indiano. Ci riuscì dopo una marcia trionfale attraverso la Mesopotamia, la Persia, la Siria, l'Armenia, tutte ridotte a "province" romane. Costruì una flotta per il Mar Rosso. E rimpianse di esser troppo vecchio per imbarcarsi e muovere alla conquista dell'India e dell'Estremo Oriente. Ma erano paesi in cui non bastava lasciar guarnigioni per stabilirvi un ordine duraturo. Traiano era ancora sulla via del ritorno, quando le ribellioni gli scoppiarono alle spalle un po' dovunque. Il guerriero stanco voleva tornare indietro per sedarle. L'idropisia lo trattenne. Mandò in sua vece Lucio Quieto e Marcio Turba, e riprese il viaggio verso Roma sperando di arrivarvi in tempo per morire. Una paralisi lo folgorò a Selino nell'anno 117 dopo Cristo, sessantaquattresimo della sua vita. E a Roma non tornarono che le sue ceneri, e furono seppellite sotto la sua colonna.

Nerva e Traiano furono certamente due grandi imperatori. Ma fra i molti effettivi meriti che li raccomandano al nostro ricordo, ebbero anche una fortuna: quella di guadagnarsi la gratitudine di uno storico come Tacito, e di un memorialista come Plinio, le cui testimonianze dovevano essere decisive per il tribunale della posterità.

Tacito, che ha raccontato la vita di tanta gente, si è dimenticato di dirci qualcosa di quella sua. Non sappiamo con precisione dove sia nato, e non siamo nemmeno certi che fosse figlio di quel Cornelio Tacito che amministrava le finanze del Belgio. La sua famiglia doveva appartenere a

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quella borghesia quattrinaia che poi era entrata a far parte dell'aristocrazia. Ma, più che della propria, egli andava fiero della casata di sua moglie, figlia di quell'Agricola, proconsole e governatore della Britannia, che Domiziano aveva avuto il torto di silurare. Questo Agricola lo conosciamo attraverso la biografia che ce ne ha lasciato suo genero, il quale di biografie doveva restare un insuperato maestro. Ma siccome in Tacito si compendiano tutte le qualità del grande scrittore meno l'obiettività, non sappiamo se quel ritratto sia del tutto veridico. Sappiamo soltanto che doveva essere sincera l'ammirazione che lo ispirava.

Tacito era un grande avvocato. Plinio lo considera più grande dello stesso Cicerone. Ma noi temiamo ch'egli abbia composto le sue storie un po' con gli stessi criteri con cui difendeva i suoi clienti: e cioè più per far trionfare una tesi che per stabilire la verità. Debuttò con un libro dedicato al periodo fra Galba e Domiziano, di cui era stato egli stesso spettatore. E la sua potente requisitoria contro la tirannia ebbe un tale successo nei circoli aristocratici che n'erano stati le maggiori vittime, da indurlo a risalire nel tempo ai regni di Nerone, Claudio, Caligola e Tiberio. Onestamente egli riconosce di aver dovuto egli stesso, al tempo di Domiziano, piegarsi ai capricci satrapeschi di quel sovrano e avallare, come senatore, i suoi soprusi. Non è difficile indurne che l'amore per la libertà dovette nascergli in corpo proprio allora. Scrisse quattordici libri di Storie, di cui solo quattro sono giunti sino a noi, e sedici di Annali di cui ne sopravvivono dodici, oltre a vari lavori come l'Agricola e un pamphlet sui germani in cui con straordinaria abilità polemica si esaltano le virtù di quel popolo per denunciare, sotto sotto, i vizi di quello romano.

Tacito va letto con criterio. Non bisogna chiedergli analisi né sociologiche né economiche. Bisogna contentarsi di grandi reportages, perfetti come meccanica di narrazione, col thrill e la suspense come si dice in linguaggio cinematografico, e animati da personaggi probabilmente falsi, ma straordinariamente caratterizzati, che si scolpiscono nella memoria con un vigore di stile che nessuno scrittore ha mai più avuto dopo di lui. Le sue fonti sono dubbie, e forse non si scomodò mai a ricercarne. Va per sentito dire, attingendovi quel che gli fa comodo, anche se falso, e respingendo quel che non gli torna, anche se è vero, al solo scopo di propagandare le sue tesi favorite: che il massimo bene è la libertà e che la libertà è garantita soltanto dalle oligarchie aristocratiche; che il carattere vale più dell'intelligenza; e che le riforme non sono che passi verso il peggio. Tutto sommato, fu un grosso peccato che Tacito si piccasse di storia. Avesse avuto le ambizioni del romanziere, sarebbe stato meglio per lui e per noi.

Meno geniale e colorito, ma più circostanziato e attendibile, è il ritratto che della società di quel tempo ci ha lasciato Plinio il Giovane, un gran

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signore che ebbe tutte le fortune, comprese quelle di uno zio ricco che gli lasciò il nome e il patrimonio, di una eccellente educazione, di una moglie virtuosa (che per quei tempi doveva essere una rarità) e di un buon carattere che gli faceva vedere il lato bello di tutto e di tutti. Era insomma nella tradizione di Attico: quella dei gentlemen. Era nato a Como, e naturalmente debuttò come avvocato. Tacito gli propose di dividere con lui l'onere e l'onore dell'accusa contro Mario Prisco, funzionario incriminato di malversazioni e crudeltà. Plinio accettò. Ma invece di pronunciare un'arringa contro l'imputato, pronunciò un elogio esclamativo, lungo due ore, del suo collega, che, quando fu il suo turno, lo ricambiò (e Prisco, nella gabbia, doveva frattanto fregarsi le mani nel sentirsi completamente dimenticato).

Gli diedero alcuni incarichi. Li assolse tutti con diligenza e onestà. Ma particolarmente brillò in quelli diplomatici, per i quali lo prescelse Traiano, gran conoscitore di uomini. La sua qualità fondamentale infatti era il "tatto". Basta leggere la lettera che scrisse al suo vecchio precettore Quintiliano, il gran giurista, per scusarsi di non potergli dare più di cinquantamila sesterzi (qualcosa come tre milioni di lire) per la dote di sua figlia: sembra che chieda un favore, invece di offrire un'elemosina. Quando lo mandavano per qualche ambasceria o ispezione, rifiutava stipendio, trasferte e diaria, si riempiva le valigie di regali per le mogli dei governatori, dei generali e dei prefetti che avrebbe incontrato per strada, e si portava al seguito, pagandolo di tasca propria, qualcuno con cui parlare di letteratura: Svetonio, in generale, perché aveva un debole per lui. Siccome, con quella mania che aveva di scrivere lettere a tutti, manteneva i "contatti" (ch'è sempre stata una gran furberia in tutti i tempi), gl'inviti, dovunque arrivasse, gli grandinavano sulla testa. Rispondeva sempre per iscritto: Accetto il tuo invito a pranzo, amico, ma a patto che mi congedi presto e mi tratti frugalmente. Che intorno alla tavola s'intreccino filosofici conversari, ma anche di quelli godiamo con moderazione.

Con moderazione: ecco la sua etica, la sua estetica e la sua dietetica. Plinio fece tutto con moderazione: anche l'amore. E di tutto con mo-derazione parlò nelle sue lettere descrittive all'imperatore, ai colleghi, ai parenti, ai clienti, che sono quanto di meglio ci resta di lui e costituiscono la testimonianza forse più preziosa di quella società e dei suoi costumi.

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CAPITOLO NONO

ADRIANO

Si prova, lo confessiamo, qualche riluttanza ad ammettere che un episodio così fausto come l'avvento al trono del più grande imperatore dell'antichità fosse dovuto a una coincidenza banale e piuttosto sudicia come l'adulterio. Eppure, Dione Cassio ci da per certo che Adriano fu qualificato a prendere il posto di Traiano, morto senza designare eredi, da un titolo solo: quello di amante della moglie di costui, Plotina.

Ai "si dice" bisogna far credito fino a un certo punto, specie in fatto di corna. Ma, certo, Plotina almeno una mano per incoronarlo, a Adriano la diede. Erano zia e nipote, ma non di sangue, eppoi le parentele a Roma non avevano mai impedito nessun amore. Traiano e Adriano erano compaesani, perché nati nella stessa città di Spagna, Italica. E il secondo, che portava quel nome perché la sua famiglia veniva da Adria ed era di ventiquattr'anni più giovane, venne a Roma chiamatovi dal primo, ch'era amico di casa e suo tutore. Era un ragazzo pieno di vita, di curiosità e d'interessi, che studiava tutto con fervore: matematica, musica, medicina, filosofia, letteratura, scultura, geometria, e imparava presto. Traiano gli diede in moglie sua nipote Vivia Sabina. Fu un matrimonio rispettabile e ghiaccio, dal quale non nacquero né amore né figli. Sabina, statuariamente bella ma priva di sex appeal, si lamentava a mezza voce del fatto che suo marito avesse più tempo per i cani e i cavalli che per lei. Adriano la conduceva con sé nei suoi viaggi, la colmava di cortesie, licenziò il proprio segretario Svetonio perché un giorno parlò di lei poco rispettosamente, ma di notte dormiva solo.

Aveva quarant'anni appena quando salì sul trono, e il suo primo gesto fu quello di chiudere rapidamente le pendenze militari lasciate da Traiano. Era sempre stato contrario alle imprese guerresche del suo tutore. E, presone il posto, si affrettò a ritirare gli eserciti dalla Persia e dall'Armenia, con gran malumore dei loro comandanti, i quali pensavano che una strategia pura-mente difensiva fosse l'inizio della morte per l'Impero o la fine della carriera, delle medaglie e delle "diarie" per loro. Non si è mai saputo con esattezza come avvenne che quattro di questi comandanti, i più valorosi e

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autorevoli, venissero di lì a poco soppressi senza processo. Adriano era sul Danubio in quel momento a cercarvi una soluzione definitiva coi daci, che escludesse ulteriori conflitti. Si precipitò a Roma, e il Senato si assunse tutte le responsabilità dell'eliminazione, dicendo che i generali si erano macchiati di complotto contro lo stato. Ma nessuno credette all'innocenza di Adriano, che se la comprò distribuendo ai cittadini un miliardo di sesterzi, liberandoli dai debiti col fisco e divertendoli per intere settimane con magnifici spettacoli nel Circo.

Questi debutti fecero temere a molti romani un ritorno neroniano. E i sospetti furono avvalorati dal fatto che Adriano cantava, dipingeva, componeva appunto come Nerone. Ma poi si vide che in queste sue ambizioni artistiche non c'era nulla di patologico. Adriano vi si abbandonava solo nei ritagli di tempo, per riposarsi delle sue fatiche di scrupoloso e abilissimo amministratore. Era un bell'uomo, alto, elegante, coi capelli ricciuti e una barba bionda che tutti i romani vollero imitare forse ignorando ch'egli se l'era lasciata crescere solo per nascondere certe sgradevoli chiazze bluastre che aveva sulle gote. Ma non era facile capirne il carattere complesso e contraddittorio. Di solito era gentile e di buon umore, ma talvolta fu duro sino alla crudeltà. In privato si mostrava scettico, irridente agli dèi e agli oracoli. Ma quando adempieva le sue funzioni di Pontefice Massimo, guai a chi dava segno d'irriverenza. Personalmente, non si sa a cosa credesse.

Forse agli astri, perché ogni tanto strologava ed era pieno di superstizioni sulle eclissi e le maree. Ma considerando la religione un puntello della società, non ammetteva pubbliche offese ad essa, e di persona redasse il progetto del tempio di Venere e di Roma, dopo aver messo a morte Apollodoro che aveva risposto al suo invito con uno sprezzante rifiuto.

Intellettualmente, propendeva per lo stoicismo, ed era un ammiratore di Epitteto che aveva studiato con attenzione. Ma in pratica non si sforzò mai di applicarne i precetti. Prese il piacere dovunque lo trovò secondo un gusto raffinato, ma senza vergogna né rimorso. S'innamorava indifferentemente di bei ragazzi e di belle ragazze, ma nessuno di costoro gli fece perdere la testa. Gli piaceva mangiar bene, ma detestava i banchetti; e alle orge preferiva cenette di poche scelte persone che, più che bere, sapessero con-versare. Anche per procurarsene, istituì una università, dove chiamò a insegnare i più grandi maestri del tempo, specialmente greci. Eran costoro e i loro allievi i suoi ospiti abituali. Nelle discussioni, era buon giocatore: accettava contestazioni e critiche. Anzi, un giorno rimproverò a Favorino, un intellettuale gallo, di dargli troppo spesso ragione. «Ma un uomo che basa i suoi argomenti su trenta divisioni in armi ha sempre ragione», rispose

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spiritosamente il giovane filosofo. E l'imperatore riraccontò la storiella in Senato, divertendolo e divertendocisi.

Il suo tratto più straordinario fu di non sentirsi "necessario", anzi di fare tutto il possibile per non diventarlo e per non essere scambiato per il solito "uomo della provvidenza" quali si credono e aspirano ad essere considerati tutti i monarchi assoluti. Il suo costante sforzo fu quello di mettere in piedi una organizzazione burocratica cui bastasse la supervisione del Senato per andare avanti. Aveva la vocazione dell'ordine e cercò d'instaurarlo semplificando le leggi che si erano accumulate in un caos inestricabile. In quest'opera, che affidò a Giuliano, precorse Giustiniano.

A questa razionale divisione del lavoro, che consentiva all'apparato statale una certa meccanicità di funzionamento, egli tendeva anche per ragioni egoistiche: perché aveva la passione dei viaggi e voleva intraprenderli senza la preoccupazione che tutto, in sua assenza, andasse in malora. Infatti ne fece di lunghissimi, che durarono fino a cinque anni, per conoscere da vicino l'Impero in tutti i suoi angoli. Scrupolo del dovere? Curiosità? Un po' l'uno e un po' l'altra. Quattr'anni dopo l'incoronazione partì per un'accurata ispezione della Gallia. Viaggiava come un privato qualsiasi, con un seguito composto quasi esclusivamente di tecnici. Governatori e generali se lo vedevano piovere addosso all'improvviso, e dovevano mostrargli le bucce della loro amministrazione, fino all'ultima. Adriano ordinava un nuovo ponte o una nuova strada, concedeva una promozione o impartiva un siluro; e, se capitava, prendeva in mano una legione, lui, l'uomo della pace, per definire con una battaglia un confine incerto. Batteva da fantaccino, alla testa dei fantaccini, sino a quaranta chilometri al giorno, e non perse una scaramuccia.

Dalla Gallia passò in Germania, vi riorganizzò le guarnigioni, studiò a fondo i costumi degl'indigeni, dei quali ammirò con preoccupazione la vergine forza, discese il Reno su una nave, salpò per la Britannia e vi ordinò la costruzione di quella specie di "Linea Maginot" che fu il famoso Vallo. Poi tornò in Gallia e passò in Spagna. A Tarragona fu aggredito da uno schiavo. Forte com'era, lo disarmò e lo consegnò ai dottori che lo dichiararono pazzo. Adriano, accettando questo alibi, lo graziò. Scese in Africa, alla testa di un paio di legioni soffocò una rivolta di mori, e continuò per l'Asia Minore.

A Roma si era un po' inquieti per le manie peripatetiche di quell'imperatore che non tornava più. E le chiacchiere cominciarono a farsi maligne quando si seppe ch'egli si era imbarcato su una nave che risaliva il Nilo con un nuovo ospite di nome Antinòo, dagli occhi vellutati e dai capelli ricciuti.

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Sembrava un destino, da Cesare in poi: appena toccavano l'Egitto, i gerarchi romani inciampavano in qualche disgrazia sentimentale. Di che natura fosse, per Adriano, quella incarnata da Antinòo, non si sa. Sabina, che accompagnava l'imperatore, non risulta che abbia protestato contro la presenza di quel ragazzo. Comunque, non si è mai chiarito come questi morisse, annegando nel fiume, a quanto pare. Per Adriano, fu un colpo terribile. Pianse, dice Sparziano, come una donnicciola, fece innalzare un tempio in onore del povero defunto, e intorno al tempio fece costruire una città, Antinòpoli, che diventò importante al tempo di Bisanzio. Secondo una leggenda, forse posteriore agli avvenimenti, Antinòo si era ucciso perché aveva saputo dagli oracoli che i piani del suo protettore si sarebbero realizzati solo se egli fosse morto. Certo, scomparendo, un servigio quel ragazzo lo rese: quello di lasciare la successione al trono aperta a un monarca della stoffa di Antonino. Se fosse vissuto, forse Roma se lo sarebbe trovato sul gobbo come imperatore.

L'uomo che tornò a Roma dopo quella sciagura non era più il brillante, allegro, gioviale sovrano che ne era partito. Adriano si era fatto un po' misantropo e, mentre un tempo abbandonava il tavolo di lavoro con sollievo, felice di potersi prendere un po' di riposo e sapendo benissimo come utilizzarlo, ora sembrava aver paura di quelle ore vuote, e le riempiva scrivendo. Una grammatica, alcune poesie e un'autobiografia furono il frutto di questa sua solitudine. Ma quel che più lo teneva occupato erano i piani di ricostruzione. Adriano aveva il mal della pietra, accompagnato dall'estro e dal gusto. Rifece il Pantheon, che Agrippa aveva innalzato e il fuoco distrutto, secondo quello stile greco ch'egli preferiva al romano. E non c'è dubbio che si tratta del monumento meglio preservato dell'antichità. Quando il papa Urbano VIII smantellò il soffitto del portico, ne ricavò bronzo per costruire oltre cento cannoni e il baldacchino che tuttora si trova sull'altare maggiore di San Pietro.

Un altro capolavoro della sua architettura fu la villa intorno a cui poi nacque Tivoli. C'era di tutto: templi, ippodromo, librerie e musei, dove per duemila anni gli eserciti di tutto il mondo son venuti a saccheggiare, trovandoci sempre qualcosa. Ma vi si era appena stabilito, che una malattia cominciò a roderlo. Il suo corpo si gonfiava e abbondanti emorragie gli sgorgavano dal naso. Sentendosi vicino alla fine, Adriano chiamò e adottò come figlio, per prepararlo alla successione, il suo amico. Lucio Vero, che la morte stroncò di lì a poco.

La scelta di Adriano cadde allora su Antonino, cui, mantenendo per sé il titolo di Augusto, conferì quello di Cesare, che d'allora in poi fu adottato per tutti gli eredi presuntivi al trono.

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Le sue sofferenze erano così grandi, ch'egli non aspirava più che alla tomba. Se la fece costruire di là dal Tevere con un ponte apposta, il ponte Elio, per raggiungerla: ed è quel grande mausoleo, che oggi si chiama Castel Sant'Angelo. Un giorno, quando l'edificio era già terminato, il filosofo stoico Eufrate venne a chiedergli il permesso di uccidersi. L'imperatore glielo diede, discusse con lui sull'inutilità della vita; e quando Eufrate ebbe bevuto la cicuta, la chiese anche lui per seguirne l'esempio, ma nessuno volle dargliela. La ordinò al suo medico; e questi, per non disobbedirgli, si uccise. Pregò un servo di procurargli una spada o un pugnale; ma il servo fuggì.

«Ecco qui un uomo», esclamò disperato, «che ha il potere di mettere a morte chi vuole, salvo se stesso».

Finalmente, a sessantadue anni, dopo ventuno di regno, chiuse gli occhi. Pochi giorni prima aveva composto un piccolo poema sulle memorie del tempo che fu, che costituisce forse il più squisito capolavoro della lirica latina: Animula vagula, blandula, hospes comesque corporis...

Con lui non morì soltanto un grande imperatore, ma anche uno dei più complessi, inquietanti e cattivanti personaggi della storia di tutti i tempi e forse il più moderno fra quelli del mondo antico. Come Nerva, si congedò da Roma rendendole il più insigne dei servigi: quello di designare il successore meglio qualificato a non farlo rimpiangere.

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CAPITOLO DECIMO

MARC'AURELIO

IL titolo di Pio fu dato ad Antonino a posteriori dal Senato, che lo chiamò anche Optimus princpeps, il migliore dei principi. Il suo successore Marco Aurelio lo definì "un mostro di virtù" e, quando non sapeva che pesci pigliare, raccomandava a se stesso: "Fa' come in questo caso avrebbe fatto Antonino". Precetto, a dire il vero, più facile da enunciare che da seguire perché il problema era appunto di sapere come avrebbe fatto Antonino.

Non era più giovanissimo quando nel 138 dopo Cristo salì sul trono, perché aveva già passato la cinquantina. Eppure, se si fosse chiesto a uno dei tanti romani che salutavano con gioia il suo avvento per quali ragioni tutti n'erano così felici, lo si sarebbe messo in imbarazzo. Antonino, sino a quel momento, non aveva fatto nulla d'insigne.

Era un bravo avvocato, ma, avendo piuttosto in uggia la retorica, esercitava poco, e quel poco gratuitamente perché era ricchissimo. La sua era una famiglia di banchieri venuta di Francia un paio di generazioni prima, ed egli aveva ricevuto una educazione da grande borghese. Aveva studiato filosofia, ma senza troppo addentrarcisi e sempre preferendo, come puntello, la religione. Non era bigotto, ma rispettoso: forse fu uno degli ultimi romani a credere sinceramente negli dèi, o per lo meno a comportarsi come se ci credesse. Sapeva di letteratura e protesse molti scrittori, ma trattandoli un po' dall'alto, con indulgente e aristocratico distacco, come elementi decorativi della società da non prendersi troppo sul serio. Ma tutti gli volevano bene e lo avevano in simpatia per la sua faccia paciosa e serena, issata su due larghe spalle, per la sua gentilezza, per la sua sincera partecipazione ai casi altrui, per la discrezione con cui seppe nascondere i suoi senz'annoiare nessuno. Quest'uomo senza nemici ne ebbe uno in casa: sua moglie. Faustina era bella, ma, a dir poco, vivace. Anche a far la tara su quello che si diceva di lei, ne restava sempre di che mandare fuor dei gangheri qualsiasi marito. Antonino volle ignorare tutto. Aveva avuto da lei due figlie: una gli morì, l'altra aveva ripreso da sua madre e non diversamente da lei trattò suo marito Marc'Aurelio. Antonino portò le sue

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delusioni in silenzio. Quando morì Faustina, istituì in suo onore un tempio e un fondo per l'educazione delle ragazze povere, dopo averla rimproverata una sola volta in vita: quando lei, sapendosi imperatrice, aveva avanzato alcune pretese di lusso. «Non ti rendi conto», le disse, «che ora abbiamo perso quello che avevamo?».

Non era retorica, perché il primo gesto di Antonino imperatore fu quello di versare la sua immensa fortuna privata nelle casse dello stato. Alla sua morte il suo patrimonio personale era ridotto a zero, quello dell'Impero si elevava a due miliardi e settecento milioni di sesterzi, cifra mai più raggiunta. A questo risultato giunse con un'amministrazione giudiziosa, ma senza taccagnerie. Rivide e ridusse il programma ricostruttivo di Adriano, ma non lo revocò. E per ogni spesa, anche per la più trascurabile, chiedeva l'autorizzazione del Senato, cui rendeva i conti sino al centesimo. Sempre col suo consenso, condusse avanti il riordinamento e la liberalizzazione delle leggi iniziati dal suo predecessore. Per la prima volta, i diritti e i doveri dei coniugi furono parificati, la tortura quasi del tutto bandita e l'uccisione di uno schiavo proclamata delitto.

Al contrario dell'inquieto e curioso Adriano, il gran bighellone, aveva un temperamento sedentario, da burocrate ligio all'orario. E infatti non risulta che si sia allontanato neanche per un giorno al di là di Lanuvio dove aveva una villa e andava a passare il week-end pescando o cacciando in compagnia di amici. Da quando era vedovo, si era preso una concubina, che gli fu più fedele di quanto gli fosse stata la moglie. Ma la teneva in disparte, senza mescolarla alle faccende di stato. Volle la pace. Forse la volle anche un po' troppo: cioè a costo perfino del prestigio dell'Impero, per esempio in Germania dove si mostrò eccessivamente arrendevole incoraggiando la baldanza dei ribelli. Ma non c'è scrittore forestiero di quel tempo che non abbia esaltato la tranquillità e l'ordine che il mondo godé sotto di lui. A sentire Appiano, Antonino era addirittura assediato dagli ambasciatori di tutti i paesi che chiedevano l'annessione all'Impero. Come tutti i regni felici, quello suo, sebbene durato ventitre anni, fu senza storia, cioè senza eventi. L'ideale, dice Renan, sembrava raggiunto: il mondo era governato da un padre.

A settantaquattr'anni, forse per la prima volta in vita sua, Antonino cadde ammalato. E, siccome non c'era avvezzo, sebbene si trattasse solo d'un mal di pancia, capì ch'era finita. Egli aveva già il Cesare di ricambio: glielo aveva indicato, morendo, lo stesso Adriano, nella persona di un diciassettenne, Marco Aurelio, che di Antonino era anche nipote. Lo mandò a chiamare e gli disse semplicemente: «Ora, figliolo, tocca a te». Poi ordinò ai servi di portare nelle stanze di Marco la statua d'oro della dea Fortuna, diede all'ufficiale di guardia la parola d'ordine per quel giorno:

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«Equanimità», disse che lo lasciassero solo perché voleva dormire, si girò dall'altra parte nel letto. E si addormentò davvero. Per sempre.

Marco aveva in quel momento, 161 dopo Cristo, quarant'anni esatti. Ed era uno di quei rari uomini che, essendo nati con la camicia, lo riconoscono lealmente. Ho un grosso debito, ha lasciato scritto, con gli dèi. Essi mi hanno dato buoni nonni, buoni genitori, una buona sorella, buoni maestri e buoni amici. Fra questi ultimi c'era stato anche Adriano che frequentava la sua casa e lo aveva preso sin da piccolo in gran simpatia. La ragione di questa amicizia era la comune origine spagnola. Anche gli Aureli venivano di laggiù, dove si erano guadagnati il soprannome di "Veri" per la loro onestà. Era stato il nonno, allora console, a occuparsi del ragazzo rimasto orfano a pochi mesi; e che fiducia riponesse in quel nipotino lo dimostra il numero di precettori che gli diede: quattro per la grammatica, sei per la filosofia, uno per la matematica. Insomma, diciassette in tutto. Come abbia fatto quel ragazzo a imparar qualcosa senza diventar matto, lo sa Iddio. Egli predilesse, fra questi pedagoghi, Cornelio Frontone, il rètore, ma disprezzò la sua disciplina. Il curialismo e l'oratoria erano quanto egli amava di meno nei suoi concittadini. Viceversa si appassionò alla filosofia, preferì quella stoica, e non solo volle studiarla a fondo, ma anche praticarla. A dodici anni fece portar via dalla sua camera il letto, dormì sul nudo pavimento e si attenne a tale dieta e astinenza che la sua salute alla fine ne risentì. Ma non se ne dolse. Anzi ringraziò gli dèi anche di questo: di averlo mantenuto casto fino ai diciotto anni e capace di reprimere gl'impulsi sessuali.

Forse sarebbe diventato addirittura un sacerdote dello stoicismo, e fra i più puritani, come ne usava allora, se Antonino non lo avesse fatto Cesare quand'era ancora adolescente e non se lo fosse associato al governo, dopo averlo adottato insieme con Lucio Vero, il figlio di colui che Adriano aveva nominato suo successore e che invece gli era premorto. Ma Lucio era di tutt'altra stoffa: un uomo di mondo, donnaiolo e gaudente, che non se n'ebbe punto a male quando Antonino più tardi lo escluse per designare come Cesare il solo Marco. Costui ricordando i desideri di Adriano, chiamò tuttavia Lucio a condividere il potere e gli diede in sposa sua figlia Lucilia. Purtroppo, la lealtà in politica non è sempre buona consigliera.

Tutti i filosofi dell'Impero, quando Marco fu coronato, esultarono, vedendo nel suo il loro trionfo e in lui il realizzatore dell'Utopia. Ma sbagliarono. Marco, non fu un grande uomo di stato: non capiva nulla di economia, per esempio, sbagliava i bilanci, e ogni tanto bisognava riguardargli i conti. Ma dal tirocinio fatto sotto Antonino, l'illuminato conservatore realista e un po' scettico, aveva tratto la sua lezione sugli uo-mini. Sapeva che le leggi non bastano a migliorarli, per cui tirò avanti la riforma dei codici intrapresa dai suoi due predecessori, ma fiaccamente e

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senza troppo credere ai suoi benefici. Da buon moralista, credeva di più all'esempio, e cercò di darlo con la sua vita ascetica, che i sudditi ammirarono, ma senza essere tentati d'imitarla.

Gli eventi non gli furono favorevoli. Era appena asceso al trono che i britanni, i germani e i persiani, incoraggiati dall'arrendevolezza di Antonino, cominciarono a minacciare i confini dell'Impero. Marco mandò in Oriente con un esercito Lucio, che ad Antiochia trovò Pantea e ci si fermò. Era la Cleopatra del luogo, e Lucio era un Marc'Antonio senza il coraggio e il genio militare di costui. Quando vide quel po' po' di donna, perse completamente la testa. Dicono che lei ne aiutò la smemoratezza con dei filtri. Ma se era veramente bella come ce l'hanno descritta, dei filtri non dovette averne nessun bisogno.

Marco non protestò contro il contegno di Lucio che seguitava a fare il ganimede con Pantea, mentre i persiani scorrazzavano a loro piacere in Siria. Si limitò a mandare discretamente un piano di operazioni al capo di stato maggiore del suo socio, Avidio Cassio, con l'ordine di eseguirlo a puntino. Era, dicono, un piano che rivelava un gran talento militare. Lucio rimase a gavazzare ad Antiochia mentre il suo esercito batteva bril-lantemente i persiani, e non ne riprese il comando che per farsi incoronare d'alloro il giorno del trionfo che Marco gli fece decretare. Purtroppo, con le spoglie del nemico vinto, egli portava ai suoi concittadini un brutto regalo: i microbi della peste. Fu un terribile flagello che uccise nella sola Roma oltre duecentomila persone. Galeno, il più celebre medico del tempo, racconta che i corpi dei malati erano squassati da una tosse rabbiosa, si riempivano di pustole e il loro fiato puzzava. Tutta l'Italia ne fu contaminata, città e villaggi rimasero disabitati, la gente affollava i santuari per invocare la protezione degli dèi, nessuno più lavorava, e dietro l'epidemia si profilava la carestia.

Marco non era più un imperatore, era un infermiere che non abbandonava nemmeno per un'ora le corsie degli ospedali, ma la scienza a quei tempi non offriva rimedi. A queste pubbliche calamità se ne aggiunsero per lui di private. Faustina, la figlia che Antonino gli aveva dato in moglie, somigliava in tutto e per tutto alla sua omonima mamma: nella bellezza, nella gaiezza e nell'infedeltà. I suoi adulteri non sono provati, ma tutta Roma ne parlava. Forse essa aveva delle attenuanti: quel marito ascetico e malinconico, assorto nel suo sacerdozio di "primo servitore dello stato", non era fatto per una donnina col pepe in corpo e piena di vita come lei. Gran gentiluomo come il suo predecessore e suocero, Marco la colmò solo di attenzioni e di tenerezza, non pronunciò una parola di deplorazione o di la-mento, e anche nelle sue Meditazioni ringraziò gli dèi per avergli dato una moglie così devota e affettuosa. Dei quattro figli nati da quel matrimonio,

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una era morta, un'altra era diventata l'infelice moglie di Lucio, che si comportò bene solo il giorno in cui si decise a lasciarla vedova, e quanto ai due gemelli, di cui tutta Roma diceva che il vero padre era un gladiatore, uno morì nascendo, e l'altro, che si chiamava Commodo, aveva ora sette anni, era una meraviglia di bellezza atletica, già faceva disperare i suoi istitutori per la sua renitenza allo studio e una sfrenata passione per il Circo e la lotta con le belve. Quando si dice: il sangue... Ma Marco lo amava di-speratamente.

Le decimazioni della pestilenza e la carestia avevano fatto di Roma una città cupa e sfiduciata. Già vecchio prima della cinquantina in mezzo a tanti triboli, il galantuomo Marco, roso dall'insonnia e dall'ulcera di stomaco, non faceva in tempo a riparare un guaio che un altro ne cominciava. Ora erano le tribù germaniche che dilagavano verso l'Ungheria e la Romania. Quando Marco si mise personalmente alla testa delle legioni, molti sorrisero: quell'omino fragile e macilento, costretto a una dieta vegetariana, non dava affidamento come trascinatore d'uomini. E invece poche volte i legionari avevano combattuto con tanto impeto come fecero sotto il suo diretto comando. Quest'uomo di pace fece la guerra, per sei anni, battendo uno dopo l'altro i più aggressivi nemici: i quadi, i longobardi, i marcomanni, i sarmati. Ma quando, dopo una giornata di battaglia, si ritrovava solo con se stesso, sotto una tenda di semplice soldato, apriva il quaderno delle Meditazioni e scriveva: Un ragno, quando ha catturato una mosca, crede di aver fatto chissacché. E così crede chi ha catturato un sarmato. Né l'uno né l'altro si rendono conto di essere soltanto due piccoli ladri. Però il giorno dopo ricominciava a combattere contro i sarmati.

Stava coronando in Boemia un brillante seguito di vittorie, quando Avidio Cassio, generale in Egitto, si ribellò proclamandosi imperatore. Era l'ex capo di stato maggiore di Lucio, che col piano di Marco aveva battuto i persiani. Marco concluse una rapida e generosa pace coi suoi avversari, riunì i soldati, disse loro che, se Roma lo voleva, volentieri si sarebbe ritirato per lasciare il suo posto al concorrente, e tornò indietro. Ma il Senato rifiutò all'unanimità e, mentre Marco muoveva incontro a Cassio, "questi fu ucciso da un suo ufficiale. Marco rimpianse di non aver potuto perdonarlo, si fermò ad Atene per uno scambio di vedute coi maestri delle varie scuole filosofiche locali e, tornato a Roma, subì a malincuore il trionfo che gli tributarono e vi associò Commodo, che ormai era celebre per le sue gesta di gladiatore, per la sua crudeltà, e per il suo vocabolario da bassofondo.

Forse anche per distrarre quel ragazzo dalle sue malsane passioni, riprese subito dopo la guerra contro i germani, conducendoselo dietro. E di nuovo fu alle soglie della vittoria definitiva, quando a Vienna cadde malato, cioè più malato del solito. Per cinque giorni, rifiutò di mangiare e di bere. Al

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sesto, si alzò, presentò Commodo, come nuovo imperatore, alla truppa schierata, gli raccomandò di portare i confini di Roma fino all'Elba, tornò a letto, si coprì il volto col lenzuolo e attese la morte.

Le Meditazioni ch'egli compose in greco sotto la tenda sono giunte fino a noi. Esse non rappresentano un gran documento letterario, ma contengono il più alto codice morale che ci abbia lasciato il mondo classico. Proprio nel momento in cui la coscienza di Roma si spegneva, essa trovava in questo imperatore il suo più luminoso barbaglio.

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CAPITOLO UNDICESIMO

I SEVERI

NEL presentarlo ai soldati come suo successore, Marco aveva chiamato Commodo "il sole nascente". E forse i suoi occhi di babbo (se lo era) lo vedevano così. Ma anche ai legionari quel ragazzo manesco, di pochi scrupoli, di appetito gagliardo e di turpiloquio pronto, piacque. Lo cre-devano più militaresco di suo padre.

Grandi furono quindi il loro stupore e malumore quando il giovanotto, invece di liquidare il nemico già intrappolato in una "sacca", gli offrì la più sconsiderata e frettolosa delle paci. Per due volte un miracolo interveniva a salvare quei turbolenti germani: un miracolo di cui Roma doveva fare più tardi le spese.

Commodo non era un codardo, ma la sola guerra che amava era quella contro i gladiatori e le belve nel Circo. Alzandosi, rifiutava la colazione prima di aver scannato la sua tigre quotidiana. E siccome di tigri in Germania non ce n'era, aveva furia di tornare a Roma, dove dall'Oriente i governatori erano incaricati di mandarne a branchi. Per questo, infischiandosi dell'Impero e dei suoi destini, stipulò quella rovinosa pace che lasciava insoluti tutti i problemi. Il Senato rinunziò al suo diritto elettivo attraverso l'adozione che da Nerva in poi aveva dato sì buoni frutti, e accettò il ripristino, che quell'imperatore incarnava, del principio ereditario.

Come per Nerone e Caligola, anche a voler fare un po' di ribasso su quello che i contemporanei hanno scritto di lui, ce n'è d'avanzo per catalogare Commodo fra le pubbliche iatture. Giocatore e bevitore, con un serraglio, dicono, di centinaia di ragazze e giovanotti per i suoi piaceri, pare che abbia avuto un affetto solo: quello per una certa Marzia, che, essendo cristiana, non si capisce come conciliasse la sua fede austera con quell'amante debosciato, ma che tuttavia fu utile ai suoi correligionari salvandoli da una probabile persecuzione.

Il peggio cominciò quando alcuni delatori denunziarono a Commodo una congiura capeggiata da sua zia Lucilia, la sorella di suo padre. Senza curarsi di prove, la uccise, e fu l'inizio di un nuovo terrore che venne dato in appalto

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a Cleandro, il capo dei pretoriani. Per la prima volta dopo Domiziano, Roma cominciò a tremare sotto i soprusi di queste guardie. Un giorno la popolazione, più per paura che per coraggio, le assediò nel Palazzo e chiese la testa di Cleandro. Commodo gliela diede senza esitare, sostituendo la vittima con Leto, un uomo accorto, il quale si rese subito conto che, una volta salito a quel posto, o si faceva uccidere dal popolo per compiacere all'imperatore, o si faceva uccidere dall'imperatore per compiacere al popolo. Per sfuggire a questo dilemma, c'era un'altra via sola: uccidere lui, l'imperatore. E la scelse con la complicità di Marzia, di cui anche in questa occasione discerniamo male la cristianità, e che propinò a Commodo una bevanda avvelenata. Lo finirono strangolandolo nel bagno perché il giovanotto, appena trentenne, era duro a morire.

Era il 31 dicembre del 192 dopo Cristo. Cominciava la grande anarchia. I senatori, felici per la morte di Commodo, agirono come se ne fossero

stati essi gli autori, eleggendo a successore un loro collega, Pertinace, che non voleva saperne e aveva ragione. Per rimettere in sesto le finanze, dovette fare economia; e per fare economia, dovette licenziare molti profittatori, fra cui i pretoriani. Dopo due mesi di governo in questo senso, lo trovarono morto, ucciso dalle sue guardie, le quali annunziarono che il trono era all'asta: vi sarebbe salito chi offriva loro la mancia più alta.

Un banchiere miliardario di nome Didio Giuliano stava tranquillamente mangiando nel suo palazzo, quando la moglie e la figlia, ch'erano piene di ambizioni, gli buttarono addosso la toga ordinandogli di precipitarsi a concorrere. Riluttante, ma temendo più le sue donne che le incognite del potere, Didio offrì ai pretoriani tre milioni a testa (doveva averne, oh!), e vinse.

Il Senato era caduto in basso, ma non sino al punto d'inghiottire un simile mercato. Spedì segretamente disperate richieste di aiuto ai generali dislocati in provincia, e uno di costoro, Settimio Severo, venne, vide, promise il doppio di quel che aveva dato Giuliano, e vinse. Il banchiere piangeva, rinchiuso in una stanza da bagno, dove lo decapitarono. Sua moglie rimase vedova, ma si consolò col titolo di ex imperatrice.

Per la prima volta, con Settimio, saliva al trono un africano di origine ebrea. Roma non se l'era scelto; anzi, il Senato si dichiarò per un altro generale, Albino. Ma non se ne trovò male, quando Settimio ebbe vinto la partita, messo a morte i suoi oppositori e trasformato definitivamente il Principato in una monarchia ereditaria di stampo militare. Era triste che si fosse arrivati a questo punto. Ma, una volta arrivatici, e non certo per colpa di Settimio, costui non poteva agire diversamente. Ci voleva una mano di ferro per indigare la catastrofe, e Settimio la ebbe. Era un bell'uomo sulla cinquantina, robusto, eccellente stratega, conversatore spiritoso, ma co-

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mandante di pochi spiccioli. Veniva da una famiglia benestante, aveva studiato filosofia ad Atene e diritto a Roma, ma parlava il latino con un forte accento fenicio. Non aveva certo la stoffa morale di un Antonino o di un Marc'Aurelio, né la complessità intellettuale di un Adriano. Era anzi un cinico, ma diritto e onesto, col senso chiaro della realtà. L'unica sua bizzarria era l'astrologia, cui doveva un matrimonio che a Roma non portò fortuna. Si trovava in Siria, quando gli morì la prima moglie, ch'era una brava e semplice donna. Il vedovo, che subito interrogò gli astri, seppe che uno di essi, un meteorite probabilmente, era caduto nei pressi di Emesa. Vi andò, e su quel frammento di cielo trovò eretto un tempio, dove se ne venerava la reliquia, accudita da un prete e da sua figlia, Giulia Donna, che, oltre tutto, era anche un fior di ragazza. Vedendola, fu facile a Settimio convincersi ch'era quella la sposa che gli astri gli ordinavano. E fin qui, nulla di male. Diventata imperatrice, Giulia fece parecchi torti a suo marito, che aveva troppo daffare per avvedersene. E anche questa fu una sciagura, sì, ma di carattere soltanto privato. Era una donna intelligente e colta, che riunì un salotto letterario e vi portò i modi e le mode dell'Oriente. Purtroppo però mise al mondo Caracalla e Geta.

Settimio governò diciassette anni, rivolgendosi al Senato solo per impartirgli ordini, e quasi sempre guerreggiando. Egli introdusse una grande e pericolosa novità: il servizio militare obbligatorio per tutti, ad eccezione degli italiani, ai quali era invece proibito. Era il riconoscimento della decadenza guerriera del nostro paese e della sua irrimediabilità. D'ora in poi esso era in balìa di legioni straniere. Con esse, Settimio combattè un seguito di guerre fortunate, non solo per rinforzare i confini, ma anche per tenere in allenamento le guarnigioni. E ne stava portando a compimento una ennesima, quando la morte lo sorprese in Britannia nel 211 dopo Cristo. Colui che aveva criticato Marc'Aurelio per aver designato a successore Commodo, designò Caracalla e Geta. Perché era un babbo anche lui, o perché non conosceva i suoi figli, dai quali era sempre stato lontano? Forse perché non gliene importava nulla. A un suo luogotenente disse: «Sono di-ventato tutto quel che ho voluto. E mi accorgo che non ne valeva la pena». E ai suoi due eredi raccomandò: «Non lesinate quattrini ai soldati e infischiatevi sempre di tutto il resto».

Raccomandazione superflua: Caracalla e Geta talmente s'infischiavano di tutto il resto, da includervi anche il loro padre, e ordinarono ai medici di affrettarne il trapasso.

Dei due, il primo fu il Commodo di turno, e non tardò a dimostrarlo. Seccato di dover dividere il potere con suo fratello, lo fece assassinare, condannò a morte ventimila cittadini sospetti di parteggiare per lui e, memore delle istruzioni impartitegli da suo padre, placò i malumori dei

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soldati riempiendogli le tasche di sesterzi. Non era un ragazzo sprovveduto; era, semplicemente, un amorale. Ogni mattina, alzandosi, voleva un orso vivo con cui misurarsi per tenere i muscoli in esercizio, a tavola sedeva con una tigre per commensale, e si coricava con un leone dormendo fra le sue zampe. Non riceveva i senatori che affollavano la sua anticamera, ma era cordiale coi soldati e li colmava di favori. Estese la cittadinanza a tutti i maschi dell'Impero, ma solo per aumentare il gettito delle tasse di successione, cui solo i cittadini erano astretti.

Di politica si occupava poco. Preferiva lasciarla a sua madre che se n'intendeva, ma naturalmente la faceva da donna, cioè basandosi sulle simpatie e antipatie. Era lei che sbrigava la corrispondenza e riceveva in udienza ministri e ambasciatori. A Roma dicevano che si era procacciata questa posizione di favore cedendo alle incestuose voglie di suo figlio. Probabilmente non era vero. Caracalla da questo lato era abbastanza serio, e la sua unica vera passione erano le guerre e i duelli. Un giorno qualcuno gli parlò di Alessandro il Grande. Egli se n'entusiasmò e volle imitarlo. Reclutò una "falange" armata come quelle dell'eroe, mosse verso la Persia, ma nelle battaglie si dimenticava di essere il generale perché si divertiva di più a fare il soldato e a provocare il nemico in singoli corpo a corpo. Finché un giorno i legionari, stanchi di quel marciare e di quel guerreggiare senza capo né coda, senza programmi e soprattutto senza bottino, lo pugnalarono.

Giulia Donna, deportata ad Antiochia dopo aver perso tutto, marito, trono e figli, rifiutò di mangiare finché morì. Ma si lasciò dietro una sorella, Giulia Mesa, che la valeva come cervello e ambizione. Essa aveva due nipoti, figli di due sue figlie: uno si chiamava Vario Avito e faceva, con lo pseudonimo di Elio-gabalo, che vuol dire dio-sole, il prete a Emesa, donde la famiglia dell'imperatrice era originaria; l'altro si chiamava Alessiano, ed era ancora bambino.

Mesa sparse la voce che Eliogabalo era figlio naturale di Caracalla, e i legionari, che laggiù in Siria si erano convertiti alla religione locale e rispettavano in quel chierichetto quattordicenne il rappresentante del Signore, lo proclamarono imperatore e lo condussero trionfalmente a Roma, con la nonna e la madre.

Un giorno di primavera del 219 dopo Cristo, l'Urbe vide arrivare il più strano degli Augusti: un ragazzo tutto vestito di seta rossa, le labbra tinte di rossetto, le ciglia ripassate con l'henné, una fila di perle al collo, braccialetti di smeraldi ai polsi e alle caviglie, e una corona di diamanti in testa. Ma lo acclamò ugualmente. Oramai nessuna mascheratura la scandalizzava più.

Ancora una volta il vero imperatore fu una donna: nonna Mesa, la sorella di quella precedente. Per Eliogabalo il trono era un balocco, e lo usò come tale. Nella sua infantile innocenza, quel ragazzetto era anche simpatico

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come un cucciolone. Il suo piacere preferito era quello di fare scherzi a tutti, ma innocenti: tombole e lotterie con la sorpresa, burle, giuochi di carte. Ma era anche un sibarita, voleva il meglio di tutto, e ci spendeva cappellate di quattrini. Non viaggiava con meno di cinquecento carri al seguito, e per una boccetta di profumo era pronto a pagare milioni. Quando un indovino gli disse che sarebbe morto dì morte violenta, vuotò le casse dello stato per provvedersi di tutti i più raffinati strumenti di suicidio: una spada d'oro, un armamentario di corde di seta, scatole tempestate di brillanti per la cicuta. Ogni tanto, ricordando i suoi trascorsi sacerdotali, aveva crisi mistiche. Un giorno si circoncise, un altro tentò di evirarsi, un altro ancora si fece spedire da Emesa il famoso meteorite del suo bisnonno materno, vi fece costruire sopra un tempio e propose agli ebrei e ai cristiani di riconoscere la loro religione come quella di stato, se gli uni accettavano di sostituire Jeovah e gli altri Gesù con quella sua pietruzza.

Nonna Mesa capì che quel nipotino metteva in pericolo la dinastia. Lo persuase a adottare il cuginetto Alessiano e a nominarlo Cesare con l'imponente nome di Marco Aurelio Severo Alessandro. E con la disinvoltura ch'era una caratteristica della famiglia, lo fece uccidere con sua madre, ch'era poi sua figlia.

È curioso veder nascere, da un così orrendo massacro, il regno di un santo, Alessandro Severo, che aveva quattordici anni, faceva onore al suo nome: aveva studiato con diligenza, dormiva su un duro giaciglio, mangiava sobriamente, prendeva la doccia fredda anche d'inverno, si vestiva come uno qualunque, e del suo predecessore aveva ereditato una cosa sola: l'imparzialità verso tutte le religioni, con pronunciate simpatie per la regola morale degli ebrei e dei cristiani. Il loro precetto: "Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te", fu da lui scolpito su molti pubblici edifici. Discuteva imparzialmente coi teologi, ed anche su pressione della madre Mammea, che aveva preso il posto di Mesa ormai morta, e propendeva verso il cristianesimo, ebbe un debole per Origene, un asceta che portava nella nuova fede una vocazione di stoico.

Mentre Alessandro si occupava soprattutto del Cielo, Mammea governava bene la terra, assistita dai consigli di Ulpiano, che di Alessandro era stato il tutore. Essa condusse un'abile politica economica, ridusse le influenze dei militari e ridiede al Senato parte dei suoi poteri. Ingiustizie ne commise solo verso la nuora perché, dopo averla data in sposa a suo figlio, se ne ingelosì e la fece bandire. Anche le imperatrici son donne e mamme. Ma quando i persiani ricominciarono a minacciare, essa partì con suo figlio alla testa dell'esercito per respingerli. Alessandro, prima di ingaggiare battaglia, mandò al re nemico una lettera in cui cercava di convincerlo a non farla. L'altro la prese come un segno di debolezza, attaccò e fu battuto.

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L'imperatore, che non amava la guerra, cercò di evitare almeno quella coi germani. E, incontratine in Gallia gli emissari, offrì loro un tributo annuo se accettavano di ritirarsi.

Fu forse il suo unico sbaglio, e lo pagò caro. I legionari non erano più ansiosi di battaglie, ma non erano ancora pronti a comprarsi le paci. In-dignati, si ribellarono, uccisero Alessandro sotto la tenda con la madre e tutto il seguito, e acclamarono imperatore il generale dell'esercito di Pannonia, Giulio Massimino.

Correva l'anno 235 dopo Cristo.

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CAPITOLO DODICESIMO

DIOCLEZIANO

L'ANARCHIA che seguì la morte di Alessandro Severo durò cinquant'anni, cioè fino all'avvento di Diocleziano, e già non fa più parte della storia di Roma, ma della decomposizione del suo cadavere. Diventa perfino difficile seguire la successione al trono, e non c'è speranza che il lettore, per quanto volenteroso, possa ricordare i nomi di tutti coloro che vi si diedero il cambio, ognuno sgozzando regolarmente il suo predecessore. Limitiamoci a un "promemoria".

Massimino si sarebbe dovuto chiamare Massimone perché era alto più di due metri, con un torace in proporzione e delle dita così grosse che usava come anelli i braccialetti di sua moglie. Era figlio di un contadino della Tracia, aveva il complesso d'inferiorità della propria ignoranza, e nei suoi tre anni di regno non volle mettere piede a Roma che infatti non lo vide mai. Preferì restare tra i soldati in mezzo ai quali era cresciuto, e per finanziare le guerre, che costituivano il suo solo divertimento e nelle quali riusciva benissimo, impose tali tasse ai ricchi che costoro gli aizzarono contro la rivalità di Gordiano, proconsole in Africa, signore colto e raffinato, ma già ottantenne. Massimino gli uccise il figlio in battaglia, e Gordiano si suicidò.

I capitalisti si rivolsero allora a Massimo e a Balbino, proclamandoli congiuntamente imperatori. Massimino stava per batterli ambedue, quando fu assassinato dai suoi soldati. I suoi avversari non poterono godere di quel gratuito trionfo perché ne seguirono immediatamente la sorte ad opera dei pretoriani, che sul trono installarono il loro uomo, un altro Gordiano. I le-gionari lo uccisero mentre li guidava contro i persiani, e acclamarono Filippo l'Arabo, che a sua volta fu accoppato da Decio a Verona.

Decio riuscì a restare imperatore due anni, che per quei tempi era quasi un primato, e mise in cantiere alcune serie riforme, tra cui il ripristino dell'antica religione a danno del Cristianesimo che egli voleva distruggere. Ma fu sconfitto e ucciso dai goti, sostituito da Gallo che venne assassinato dai suoi soldati, i quali acclamarono Emiliano e pochi mesi dopo accopparono anche questo.

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Sul trono salì Valeriano, già sessantenne, che si trovò con cinque guerre contemporanee sul gobbo, contro i goti, gli alemanni, i franchi, gli sciti e i persiani. Andò a combattere i nemici d'Oriente, lasciando quelli d'Occidente alle cure di suo figlio Gallieno; ma cadde prigioniero, e Gallieno diventò unico imperatore. Aveva meno di quarant'anni, coraggio, decisione e intelligenza. In altri tempi sarebbe stato un magnifico sovrano. Ma non c'era ormai più forza umana che potesse arginare la catastrofe. I persiani erano in Siria, gli sciti in Asia Minore, i goti in Dalmazia. La Roma di Cesare, per non dire quella di Scipione, avrebbe potuto far fronte a queste simultanee catastrofi. Quella di Gallieno era un rottame alla deriva, in attesa solo di qualche miracolo per salvarsi.

Uno ne avvenne in Oriente, quando Odenato, che governava Palmira per conto di Roma, battè i persiani, si proclamò re di Cilicia, Armenia e Cappadocia, morì, e lasciò il potere a Zenobia, la più grande regina dell'Est. Era una creatura che, nascendo, aveva sbagliato sesso. In realtà aveva il cervello, il coraggio, la fermezza di un uomo. Della donna, aveva solo la sottigliezza diplomatica. Ufficialmente, essa agì in nome di Roma, e come sua rappresentante si annetté anche l'Egitto. In realtà il suo fu un regno indipendente che si formò nel cuore dell'Impero, ma che nello stesso tempo fece diga contro gli invasori sarmati e sciti che calavano in massa dal Nord e avevano già sommerso la Grecia. Gallieno riuscì faticosamente a batterli, e i suoi soldati, per ringraziamento, lo uccisero. Il suo successore, Claudio II, se li ritrovò di fronte più forti di prima.

Anche lui riuscì faticosamente a batterli in uno scontro che, se lo avesse perso, avrebbe significato la fine della stessa Roma. Ma da quella car-neficina si sviluppò la peste, ed egli stesso morì. Era il 270 dopo Cristo.

Ed ecco finalmente salire al trono un grande generale, Domizio Aureliano, figlio di un povero contadino dell'Illiria, e chiamato dai suoi soldati "mano sulla spada". Non aveva fatto che il militare, ma aveva la stoffa anche dell'uomo di stato. Capì subito che contro tutti quei nemici insieme non poteva combattere, per cui pensò di guadagnarsene qualcuno con la diplomazia e cedette la Dacia ai goti, che erano i più pericolosi, per tenerli tranquilli. Poi attaccò separatamente vandali e alemanni, che già invadevano l'Italia, e li disperse in tre battaglie consecutive.

Ma si rendeva conto che la catastrofe, con queste vittorie, era ritardata, non evitata, e per questo ricorse a una misura ch'era già il sigillo della morte di Roma e l'inizio del Medio Evo: ordinò a tutte le città dell'Impero di circondarsi di mura e di fare assegnamento, d'ora in poi, ciascuna sulle proprie forze. Il potere centrale abdicava.

Eppure, questa visione pessimistica della realtà non impedì a Aureliano di continuare a fare il suo dovere sino in fondo. Egli non accettò il separatismo

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di Zenobia, mosse contro di lei, ne batté l'esercito, la catturò nella sua stessa capitale, ne mise a morte il primo ministro e consigliere, Longino, la condusse a Roma in catene e la confinò a invecchiare tranquillamente a Tivoli in una splendida villa e in una relativa libertà. Per un momento Roma credette di essere ridiventata caput mundi e attribuì il titolo di Restitutor, restauratore, a Aureliano, che tentò di impiantare stabilmente questa sua opera su basi anche politiche e morali. Questo curioso uomo, che vedeva tutto con sì disincantata chiarezza, pensò di risolvere il conflitto religioso che rodeva l'Impero creando; una nuova fede che conciliasse i vecchi dèi pagani col nuovo Dio cristiano, e inventò quella del Sole, cui fece costruire uno splendido tempio. Per la prima volta con lui la religione ufficiale fu monoteista, cioè riconobbe un solo dio, sebbene non fosse quello giusto. E fu un gran passo avanti verso il definitivo trionfo del Cristianesimo. Da questo unico dio, e non più dal Senato, cioè dagli uomini, Aureliano dichiarò di essere stato investito del supremo potere. E con ciò sancì il principio della monarchia assoluta, quella che si proclama tale appunto "per grazia di Dio" e che, di origine orientale, si è poi perpetuata nel mondo fino a un secolo fa.

A provare tuttavia con quanto scetticismo i suoi sudditi accogliessero questa invenzione, sta il fatto che, per quanto "unto del Signore", essi accopparono Aureliano come avevano fatto con quasi tutti i suoi predecessori. E al suo posto, senza aspettare nessuna indicazione del Cielo, il Senato nominò Tacito, un discendente dell'illustre storico, il quale accettò solo perché aveva ormai settantacinque anni, e quindi non aveva più nulla da perdere. Infatti sopravvisse sei mesi soli, e sol per questo poté morire nel suo letto.

Gli successe (276 dopo Cristo), Probo, che era tale di nome e di fatto. Purtroppo, era anche un sognatore. E quando, dopo aver vinto le sue brave guerre contro i tedeschi che seguitavano a straripare un po' dovunque, mise i soldati a bonificare le terre pensando di fissarveli come contadini, costoro, ormai abituati a fare i lanzichenecchi di mestiere e a vivere di rapina, lo uccisero sia pure per pentirsene subito dopo ed elevare un monumento alla sua memoria.

Ed eccoci a Diocleziano, l'ultimo vero imperatore romano. In realtà si chiamava Dioclete, era il figlio di un liberto dalmata, e che le sue mire fossero ambiziose lo si vide quando brigò per ottenere il comando dei pretoriani: aveva compreso finalmente che al trono si arrivava non at-traverso la carriera politica o militare, ma attraverso i corridoi di Palazzo.

Ma aveva compreso anche che, una volta coronati, nel Palazzo non bisognava restare, per non farvi la fine di tutti gli altri; anzi non bisognava restare addirittura a Roma. E infatti la sua prima decisione, come

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imperatore, fu quella, sensazionale, di trasferire la capitale in Asia Minore, a Nicomedia. I romani furono offesi, ma Diocleziano giustificò questo passo con le esigenze militari. L'Urbe era fuori mano, il comando supremo doveva avvicinarsi alle frontiere per controllarle meglio, e per questo venne diviso: Diocleziano, col suo titolo di Augusto e la parte maggiore dell'esercito, badò a quelle orientali, come già aveva fatto Valeriano; per badare a quelle occidentali egli designò, col titolo di Augusto anche lui, Massimiano, un bravo generale, che si installò a Milano. Ognuno di questi Augusti si scelse il proprio Cesare: Diocleziano nella persona di Galerio, che pose la sua capitale a Mitrovizza, nell'attuale Jugoslavia; Massimiano in quella di Costanzo Cloro, detto così dal pallore del suo volto, che si scelse come sede Treviri in Germania. Così si formò la cosiddetta Tetrarchia in cui Roma non ebbe nessuna parte, nemmeno di secondo piano. Essa era diventata soltanto la più grande città di un Impero che si faceva sempre meno romano. Vi rimasero i teatri e i circhi, i palazzi dei signori, i pettegolezzi, i salotti intel-lettuali, e le pretese. Ma il cervello e il cuore erano emigrati altrove.

I due Augusti s'impegnarono solennemente ad abdicare dopo vent'anni di potere in favore ciascuno del proprio Cesare, cui cominciarono col dare in sposa ognuno la propria figlia. Ma nello stesso tempo Diocleziano condusse a termine la riforma assolutista dello stato già iniziata da Aureliano, che contraddiceva in pieno a quella divisione di poteri. Il suo fu un esperimento socialista con relativa pianificazione dell'economia, nazionalizzazione delle industrie e moltiplicazione della burocrazia. La moneta fu vincolata a un tasso d'oro che rimase invariato per oltre mille anni. I contadini furono fissati al suolo e costituirono la "servitù della gleba". Operai e artigiani vennero "congelati" in corporazioni ereditarie, che nessuno aveva il diritto di abbandonare. Furono istituiti gli "ammassi". Questo sistema non poteva funzionare senza un severo controllo sui prezzi. Esso fu istituito con un famoso editto del 301 dopo Cristo, che tuttora rappresenta uno dei capolavori della economia controllata. Tutto vi è previsto e regolato, salvo la naturale tendenza degli uomini alle evasioni e la loro ingegnosità per riuscirvi. Per combatterle, Diocleziano dovette moltiplicare all'infinito la sua Tributaria. «In questo nostro Impero», brontolava il liberista Lattanzio, « di due cittadini, uno è regolarmente funzionario». Confidenti, sovrintendenti e controllori pullulavano. Eppure le merci venivano ugualmente sottratte agli ammassi e vendute alla borsa nera, e le diserzioni nelle corporazioni di arti e mestieri erano all'ordine del giorno. Piovvero gli arresti e le condanne per questi abusi, patrimoni di miliardi furono distrutti dalle multe del fisco. E allora, per la prima volta nella storia dell'Urbe, si videro dei cittadini romani attraversare di nascosto i limites dell'Impero, cioè la "cortina di ferro" di quei tempi, per cercar rifugio tra i "barbari". Sino a quel momento erano

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stati i "barbari" a cercar rifugio nelle terre dell'Impero agognandone la cittadinanza come il più prezioso dei beni. Ora avveniva il contrario. Era proprio questo il sintomo della fine.

Eppure, questo esperimento era l'unico che Diocleziano poteva tentare. Esso mirava all'ingabbiamento del mondo romano dentro un busto d'acciaio per frenarne la decomposizione. Per quanto inefficace, il rimedio era imposto dalle circostanze e, nonostante i suoi molti inconvenienti, a qualcosa servì. Costanzo e Galerio, addetti alla guerra, riportarono le bandiere romane in Britannia e in Persia. E all'interno l'ordine regnò. Era un ordine da cimitero, dove tutto si isteriliva e disseccava. Ogni categoria era diventata una casta ereditaria, intesa ad elaborare soprattutto una propria complicata etichetta di modello orientale. Per la prima volta l'imperatore ebbe una vera e propria corte con un minuzioso cerimoniale. Diocleziano si proclamò una reincarnazione di Giove (mentre Massimiano si contentò più modestamente di esserlo di Ercole), inaugurò una uniforme di seta e d'oro, un po' come Eliogabalo, si fece chiamare Domino e, insomma, si comportò in tutto come un imperatore bizantino, prima ancora che la capitale si fosse trasferita definitivamente da quelle parti. Ma non abusò di questo suo potere assoluto, del quale forse fra sé e sé rideva perché era un uomo di spirito, pieno di equilibrio e di buon senso. Fu un amministratore oculato, un giudice imparziale. E, allo scadere dei vent'anni di regno, mantenne l'impegno che aveva assunto salendo al trono.

Nel 305 dopo Cristo, con solenne cerimonia che si tenne contemporaneamente a Nicomedia e a Milano, i due Augusti abdicarono in favore ciascuno del proprio Cesare e genero. Diocleziano, appena cinquantacinquenne, si ritirò nel bellissimo palazzo che si era fatto costruire a Spalato e non ne uscì più. Quando, alcuni anni dopo, Massimiano sollecitò il suo intervento per porre fine alla guerra di successione in cui era sboccata la nuova Tetrarchia, rispose che un simile invito poteva venirgli solo da chi non aveva mai visto con che rigoglio crescevano i cavoli nel suo orto. E non si mosse.

Campò fino a sessantatre anni, e nessuno ha mai saputo cosa pensasse dell'anarchia ricominciata dopo di lui. Egli aveva fatto tutto quello che un uomo poteva fare: l'aveva ritardata di vent'anni.

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CAPITOLO TREDICESIMO

COSTANTINO

FLAVIO VALERIO COSTANTINO era figlio bastardo di Costanzo Cloro, il Cesare di Massimiano, e ora nuovo Augusto di Milano, che l'aveva avuto da Elena, una cameriera orientale diventata sua concubina. Diocleziano, nel nominare Cesare, a Treviri, Costanzo, gli aveva imposto di liberarsi di quella compagna poco qualificata e di sposare Teodora, la figlia di Massimiano. Il ragazzo non aveva avuto una buona educazione dalla matri-gna, ma se l'era fatta da solo al reggimento, dove si era arruolato giovanissimo. L'altro Augusto, Galerio, quello di Nicomedia, chiamò a sé il brillante ufficiale: gli premeva tenerlo come ostaggio in caso di dissapori col padre, il suo collega di Milano, che in realtà doveva restare suo subordinato, e cui aveva imposto, come Cesare, Severo. Per sé si era preso Massimino Daza.

Ma Costantino, al quartier generale di Galerio, non si sentiva tranquillo, e forse ne aveva fondati motivi. Per cui un bel giorno fuggì, attraversò tutta l'Europa, raggiunse suo padre in Bretagna, lo aiutò validamente a vincere al-cune battaglie e gli chiuse gli occhi pochi mesi dopo a York. I soldati, che gli erano affezionati per le sue alte qualità di comando, lo acclamarono Augusto. Ma Costantino preferì il più modesto titolo di Cesare, « perché», disse, « questo mi lascia il comando delle legioni senza le quali la mia vita sarebbe in pericolo». E Galerio, Augusto in carica, sia pure controvoglia, lo ratificò.

Ma intanto il titolo di Augusto, a Milano, era in palio fra due concorrenti. In linea di principio, sarebbe dovuto toccare a Severo, il Cesare in carica. Ma il figlio di Massimiano, Massenzio, avanzò la sua candidatura, sostenuto dai pretoriani. Temendo di non farcela da solo, egli chiamò in aiuto suo padre che riprese la carica cui aveva abdicato insieme con Diocleziano; e con lui marciò contro Severo, che fu ucciso dai soldati. Da Nicomedia, Galerio tentò di risolvere il conflitto nominando un Augusto a capocchia sua, Licinio. Allora anche Costantino scese in campo come Augusto. Per portare al colmo il caos, Massimino Daza, il Cesare di Galerio, fece

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altrettanto. E così Diocleziano, annaffiando i suoi cavoli a Spalato, seppe che la sua Tetrarchia era diventata una Esarchia, tutta di Augusti in guerra l'uno con l'altro.

Onestamente, non ci sentiamo di confondere ancora di più la testa del povero lettore, già messa a dura prova, come quella nostra, da un simile intreccio, seguendone gli sviluppi. E veniamo alla conclusione, che fu anche la fine dell'età pagana e l'inizio di quella cristiana. Il 27 ottobre 312 dopo Cristo i due maggiori aspiranti al trono, Costantino e Massenzio, si trovarono di fronte coi loro eserciti, una ventina di chilometri a nord di Roma. II primo, con abile manovra, addossò il secondo al Tevere. Poi Costantino guardò il cielo e più tardi raccontò allo storico Eusebio di averci visto apparire una croce fiammeggiante che recava iscritte queste parole: In hoc signo vinces, "In questo segno vincerai".

Quella notte, mentre dormiva, una voce gli rimbombò negli orecchi, che lo esortava a segnare la Croce di Cristo sugli scudi dei legionari. All'alba ne diede l'ordine, e al posto del vessillo fece innalzare un labaro che portava una croce intrecciata con le iniziali di Gesù. Sull'esercito nemico svettava la bandiera col simbolo del Sole imposto da Aureliano come nuovo dio pagano. Era la prima volta, nella storia di Roma, che una guerra si combatteva in nome della religione. Ma fu la Croce che vinse. E il Tevere, trascinando verso la foce i cadaveri di Massenzio e dei suoi soldati che lo ingombravano, sembrò che spazzasse via i residui del mondo antico.

Non era finita, perché restavano ancora Licinio e Massimino. Col primo Costantino s'incontrò a Milano nel 313 dopo Cristo, e il risultato di quell'intervista fu la spartizione dell'Impero fra i due Augusti e la compilazione del famoso editto che proclamava la tolleranza dello stato per tutte le religioni e restituiva ai cristiani i beni sequestrati nelle ultime persecuzioni. Massimino morì, Licinio sposò la sorella di Costantino, e per un momento sembrò che i due imperatori potessero dar vita a una pacifica Diarchia.

Ma l'anno dopo erano già di nuovo ai ferri corti. Costantino batté in Pannonia un esercito di Licinio, che si vendicò sui cristiani d'Oriente ricominciando le persecuzioni ai loro danni. Costantino non si era ancora ufficialmente convertito. Ma i cristiani vedevano ormai in lui il loro campione, e costituivano certamente la schiacciante maggioranza, se non la totalità, di quell'esercito di centotrentamila uomini che sotto il suo personale comando mosse contro i centosessantamila difensori del paganesimo agli ordini di Licinio. Prima ad Adrianopoli, poi a Scutari, i primi riportarono la vittoria. Licinio si arrese, ed ebbe salva la vita, che però gli fu tolta l'anno dopo. Nel segno di Cristo si riformò un Impero che ormai di romano aveva soltanto il nome.

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Cos'era dunque avvenuto? Avevamo lasciato i cristiani, a Roma, agl'inizi della loro organizzazione:

dapprima poche centinaia, poi poche migliaia di persone, quasi tutti ebrei, raccolte nelle loro piccole ecclesia, con pochi nessi tra loro, con una dottrina ancora allo stato fluido, e in mezzo più all'indifferenza che all'ostilità dei gentili. Queste sparse e scarse cellule erano unite dalla credenza che Gesù fosse il Figlio di Dio, che il Suo ritorno fosse imminente per stabilire sulla terra il Regno del Cielo, e che la fede in Lui sarebbe stata compensata col paradiso. Ma già grossi dissensi erano cominciati a sorgere sulla data del Ritorno. Qualcuno lo vide annunziato dalle calamità che si abbattevano sull'Impero; Tertulliano disse che c'era da aspettarselo dopo la caduta di Roma, la quale sembrava così imminente che un vescovo di Siria partì addirittura coi suoi fedeli verso il deserto, sicuro d'incontrarvi il Signore; Barnaba proclamò che ci volevano ancora mille anni. Solo molto più tardi trionfò la tesi di Paolo che trasferiva definitivamente nel mondo ultraterreno il Regno del Signore. Ma, per allora, l'attesa della sua imminente instaurazione contribuì potentemente, con le immediate promesse che implicava, alla diffusione della fede.

Ma c'erano altri punti della dottrina che minacciavano di provocare vere e proprie eresie. Celso, il più violento dei polemisti anticristiani, aveva scritto che la nuova religione era divisa in fazioni, e che ogni cristiano vi costituiva un partito adattandola a talento suo. Ireneo di queste fazioni ne contava una ventina. Occorreva dunque un'autorità centrale che distinguesse irrevo-cabilmente quello ch'era giusto da quello ch'era falso.

La prima decisione da prendere, che fu dibattuta per due secoli, fu quella sulla sede. La nuova religione era nata a Gerusalemme; ma Roma aveva dalla sua le parole di Gesù: « Tu sei Pietro, e su questa pietra io costruirò la mia Chiesa». E Pietro era venuto a Roma. A decidere, più che gli argomenti, fu la circostanza che il mondo si dominava da Roma, non da Gerusalemme. Tertulliano assicurò che Pietro, morendo, aveva affidato le sorti della Chiesa a Lino. Ma il primo sicuro successore è il terzo, Clemente, di cui ci resta una lettera vergata con piglio autorevole agli altri vescovi.

Costoro cominciarono a riunirsi sempre più frequentemente nei Sinodi, e furono questi Sinodi i supremi arbitri di quella religione cristiana che si chiamò cattolica in quanto universale. Il termine di papa divenne esclusivo del Supremo Pontefice solo dopo quattro secoli, durante i quali esso veniva dato a tutti i vescovi per contrassegnare la loro parità.

Con questa prima e rudimentale organizzazione, la Chiesa combatté la sua guerra su due fronti: quello esterno dello stato, e quello interno delle eresie. E non sappiamo quale dei due fosse più pericoloso. Sappiamo soltanto che sulla fine del secondo secolo la Chiesa aveva cominciato a inquietare a tal

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punto i romani, che uno di essi, fra i più colti, Celso, dedicò la vita a stu-diarne il funzionamento e ci scrisse sopra un libro accurato e informatissimo, anche se parziale e rancoroso nelle sue conclusioni. Queste erano che un cristiano non poteva essere un buon cittadino. E in un certo senso aveva ragione, finché lo stato restava pagano. Ma il fatto è che il paganesimo non aveva più difensori; e anche coloro che si rifiutavano di abbracciare la nuova fede non trovavano più argomenti per difendere quella vecchia. Sulla scia di Marc'Aurelio e di Epitteto, Piotino fu classificato filosofo pagano solo perché non si battezzò. Ma tutta la sua morale è già cri-stiana, come del resto lo è in Epitteto e in Marc'Aurelio.

Anche quando la negavano, tutte le grandi menti del tempo cominciarono ad arrovellarsi intorno alla dottrina di Gesù e degli Apostoli. Tertulliano che, sebbene di Cartagine, aveva il rigoroso senso giuridico dei romani ed era oltretutto un grande avvocato, quando si fu convertito, trasse dal Vangelo un codice di vita pratica e gli diede l'organicità di un vero e proprio decreto-legge. Questo vigoroso oratore, che parlava come Cicerone e scriveva come Tacito, caratteraccio rissoso e sarcastico, fu di grande aiuto alla Chiesa che aveva bisogno, dopo tanta teologia e metafisica greche, di organizzatori e di codificatori. Tertulliano, a furia di zelo, finì quasi eretico, perché in vecchiaia, inasprendosi il suo temperamento, criticò i cristiani ortodossi come troppo tiepidi e indulgenti e mollaccioni, e abbracciò la più rigorosa regola di Montano, una specie di Lutero avanti lettera che predicava il ritorno a una fede più austera.

Un altro formidabile propagandista fu Origene, autore di oltre seimila fra libri e opuscoli. Aveva diciassette anni quando suo padre fu condannato a morte come cristiano. Il ragazzo chiese di seguirlo nel martirio e sua madre, per impedirglielo, gli nascose i vestiti. Mi raccomando: non rinnegare la tua fede per amor nostro, scrisse il ragazzo al morituro. Quello che impose a se stesso fu un tirocinio da asceta. Digiunava, dormiva nudo sul pavimento, e alla fine si evirò. In realtà Origene era un perfetto tipo di stoico, e del Cristianesimo diede infatti una versione sua, che lì per lì fu accettata, ma non da tutti. Il vescovo di Alessandria, Demetrio, la ritenne incompatibile con l'abito talare che frattanto Origene aveva indossato e ne revocò l'ordinazione. Lo spretato continuò a predicare con ammirevole zelo, confutò le tesi di Celso in un'opera rimasta famosa; fu imprigionato e torturato, ma non rinnegò la sua fede, e morì povero e senza macchia com'era vissuto. Ma duecent'anni dopo le sue teorie vennero condannate da una Chiesa che ormai aveva abbastanza autorità per farlo.

Il papa che più contribuì a rassodare l'organizzazione in quei primi difficili anni fu Callisto, che molti consideravano un avventuriero. Dicevano che, prima di convertirsi, era stato schiavo, aveva fatto i quattrini con

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sistemi piuttosto equivoci, era diventato banchiere, aveva derubato i suoi clienti, era stato condannato ai lavori forzati ed era fuggito con un inganno. Il fatto che, appena diventato papa, proclamasse valido il pentimento per cancellare qualunque peccato, anche mortale, ci fa sospettare che in queste voci un po' di verità ci fosse. Comunque, fu un gran papa, che stroncò il pericoloso scisma d'Ippolito e affermò definitivamente l'autorità del potere centrale. Decio, che dei cristiani fu un irriducibile nemico, diceva che avrebbe preferito avere a Roma un imperatore rivale piuttosto che un papa come Callisto. Sotto di lui il Papato diventò davvero romano in molti sensi. Dai sacerdoti pagani dell'Urbe prese in prestito la stola, l'uso dell'incenso e delle candele accese davanti all'altare, e l'architettura delle basiliche. Ma le derivazioni non si limitarono a queste di carattere formale. I costruttori della Chiesa si appropriarono specialmente l'intelaiatura amministrativa dell'Impero e la ricalcarono istituendo accanto e contro ogni governatore di provincia un arcivescovo, e un vescovo accanto e contro ogni prefetto. Via via che il potere politico s'indeboliva e lo stato andava alla deriva, i rappresentanti della Chiesa ne ereditavano le mansioni. Quando Costantino andò al potere, già molte funzioni dei prefetti, grandemente scaduti di qualità, venivano assolte dai vescovi. Chiaramente, la Chiesa era l'erede designata e naturale dell'Impero in collasso. Gli ebrei le avevano dato un'etica; la Grecia le aveva dato una filosofia; Roma le stava dando la sua lingua, il suo spirito pratico e organizzativo, la sua liturgia e la sua gerarchia.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

IL TRIONFO DEI CRISTIANI

NELLA fantasia della gente, surriscaldata da cattivi romanzi e da brutti film, la persecuzione dei cristiani porta soprattutto il nome di Nerone. Ma è un errore. Nerone fece condannare e suppliziare un certo numero di cristiani per l'incendio di Roma al solo scopo di stornare i sospetti della gente contro la propria persona. La sua fu una manovra di diversione che non si appoggiava su nessun serio risentimento del popolo e dello stato contro quella comunità religiosa che del resto era fra le più pacifiche e che, come tutte le altre, godeva a Roma di una larga tolleranza. L'Urbe ospitava liberalmente tutti gli dèi di tutti i forestieri che venivano ad abitarci, e in questo era realmente caput mundi. Ce n'erano oltre trentamila, di questi dèi, in coabitazione. E anche quando uno straniero chiedeva la cittadinanza, la sua concessione non era sottoposta a nessuna condizione religiosa.

I primi screzi nacquero quando s'impose di riconoscere l'imperatore come dio e di adorarlo. Per i pagani, era facile: nel loro Olimpo di dèi ce n'eran già tanti che uno di più, si chiamasse Caracalla o Commodo, non guastava. Ma gli ebrei e i cristiani, che la polizia non riusciva a distinguere gli uni dagli altri, ne adoravano uno solo, Quello, e non erano punto disposti a barattarlo. Alla fine, prima di Nerone, fu promulgata una legge che li esentava da quel gesto che per loro era di abiura. Ma Nerone e i suoi successori alle leggi facevano poco caso, e così sorse il primo malinteso che mise a nudo. altre e più profonde incompatibilità. Non a caso Celso, che fu il primo ad analizzarle seriamente, disse che il rifiuto di adorare l'imperatore era in sostanza il rifiuto di sottomettersi allo stato, di cui la religione non costituiva, a Roma, che uno strumento. Egli scoprì che i cristiani ponevano Cristo al di sopra di Cesare e che la loro moralità non coincideva affatto con quella romana che faceva degli stessi dèi i primi servitori dello stato. Tertulliano, rispondendogli che proprio in questo consisteva la loro superiorità, riconobbe la fondatezza di queste accuse e andò anche più in là, proclamando che il dovere del cristiano era proprio quello di disobbedire alla legge, quando la trovava ingiusta.

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Finché questa diatriba rimase monopolio dei filosofi, essa non diede luogo che a dispute. Ma quando i cristiani crebbero di numero e la loro condotta cominciò a farsi notare in mezzo alla popolazione, quest'ultima prese a covare delle diffidenze che abili propagandisti sfruttavano a dovere, come più tardi si è fatto contro gli ebrei. Di loro, si cominciò a dire che facevano esorcismi e magie, che bevevano il sangue romano, che veneravano un somaro, che portavano il malocchio. Era il "dalli all'untore" che maturava e creava l'atmosfera del pogrom e del "processo alle streghe".

Dopo Nerone, l'ostilità nei loro riguardi diventò un'ondata di fondo, e la legge che proclamava delitto capitale la professione della nuova fede non fu il ghiribizzo di un imperatore a suggerirla, ma un fremito di odio collettivo a suscitarla. Anzi, la maggior parte degl'imperatori cercarono di evaderla o di applicarla con indulgenza. Traiano scriveva a Plinio, elogiandone la tolleranza: Approvo i tuoi metodi. L'accusato che nega di essere un cristiano e ne fornisce prova con atto di ossequio ai nostri dèi dev'essere assolto senz'altro. Adriano, da bravo scettico, andava più in là: concedeva l'assoluzione anche su un semplice gesto di pentimento formale. Ma era difficile opporsi alle ondate d'odio popolare quando si scatenavano specie in occasione di qualche calamità che veniva regolarmente attribuita all'indignazione degli dèi per la tolleranza che si mostrava verso gli empi cristiani. La religione pagana a Roma era morta, ma la superstizione era sempre viva; e non c'era terremoto, o pestilenza, o carestia, che non venisse messa sul conto di quei poveri diavoli. Neanche quel sant'uomo di Marc'Aurelio, sotto il cui regno le calamità si moltiplicarono, poté resistere a questi soprassalti, e dovette piegarvisi. Attalo, Potino, Policarpo furono fra i più illustri di questi martiri.

La persecuzione cominciò a diventare sistematica con Settimio Severo che proclamò delitto il battesimo. Ma ora i cristiani erano abbastanza forti per reagire, e lo fecero attraverso un'opera propagandistica che qualificava Roma di "nuova Babilonia", ne propugnava la distruzione e affermava l'incompatibilità del servizio militare con la nuova fede. Era la predicazione aperta del disfattismo, e suscitò l'ira di quei "patrioti" che per la patria minacciata dal nemico esterno non si battevano più, ma con quello interno e inerme erano intransigenti. Decio vide in questo soprassalto d'indignazione un cemento di unità nazionale e lo sfruttò dandogli soddisfazione. Indisse una grande cerimonia di ossequio agli dèi avvertendo che si sarebbero presi i nomi di chi non vi avesse partecipato. Ci furono, per paura, molte apostasie, ma anche molti eroismi ripagati con la tortura. Tertulliano aveva detto: «Non piangete i martiri. Essi sono il nostro seme». Terribile e spietata verità. Sei anni dopo, sotto Valeriano, il papa stesso, Sisto II, fu messo a morte.

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La battaglia più grossa fu quella scatenata da Diocleziano. È curioso che un così grande imperatore non ne abbia visto l'inutilità, anzi la controproducenza. Ma pare che sia stato un moto d'ira a suggerirgliene l'attuazione. Un giorno ch'egli stava officiando come Pontefice Massimo, i cristiani che gli stavano intorno si fecero il segno della Croce. Irritato, Diocleziano ordino che tutti i sudditi, civili e militari, ripetessero il sa-crificio e che coloro che vi si rifiutavano venissero frustati. I rifiuti furono molti, e allora l'imperatore ordinò che tutte le chiese cristiane fossero rase al suolo, tutti i loro beni confiscati, i loro libri bruciati, i loro adepti uccisi.

Questi ordini erano ancora in via di esecuzione quando egli si ritirò a Spalato, dove ebbe tutto il tempo e l'agio di meditare sui risultati di quella persecuzione, che costituì la prova più brillante del Cristianesimo e lo "laureò", per cosi dire, trionfatore. Gli Atti dei martiri, in cui si narrano, forse con qualche esagerazione, i supplizi e le morti dei cristiani che non si rinnegarono, costituirono un formidabile motivo di propaganda. Essi diffusero la persuasione che il Signore rendeva insensibili ai patimenti coloro che li affrontavano in nome Suo e spalancava loro il Regno dei Cieli.

Non sappiamo se anche Costantino ne fosse convinto, quando fece stampare la Croce di Cristo sul suo labaro. Sua madre era cristiana. Ma essa aveva potuto poco sull'educazione di quel ragazzo che se l'era fatta sotto la tenda in mezzo ai soldati, dove si era circondato di filosofi e rètori pagani. Anche dopo la conversione, seguitò a benedire gli eserciti e le messi secondo il rituale pagano, in chiesa ci andò di rado, e a un amico che gli chiedeva il segreto del suo successo, rispose: « È la Fortuna che fa di un uomo un imperatore». La Fortuna, non Dio. Nel trattare coi sacerdoti, aveva un po' il piglio del padrone, e solo nelle questioni teologiche li lasciava fare non perché ne riconoscesse l'autorità, ma perché si trattava di faccende di cui s'infischiava. Nella testimonianza dei cristiani contemporanei, come Eusebio, che avevano i più fondati motivi di gratitudine per lui, egli passa per qualcosa di poco meno che un santo. Ma noi crediamo ch'egli sia stato soprattutto un uomo politico equilibrato, freddo, di larga visione e di gran buon senso che, avendo constatato di persona il fallimento della persecuzione, preferì mettervi sopra un sigillo.

È molto probabile tuttavia che a questo calcolo di contingente opportunità, in lui se ne siano aggiunti anche altri, più complessi. Egli doveva essere rimasto molto colpito dalla superiore moralità dei cristiani, dalla decenza della loro vita, insomma dalla rivoluzione puritana ch'essi avevano operato nel costume di un Impero che non ne aveva più nessuno. Essi avevano formidabili qualità di pazienza e di disciplina. E oramai, se si voleva trovare un buono scrittore, un bravo avvocato, un funzionario onesto e competente, era fra loro che bisognava cercarlo. Non c'era, si può dire, città in cui il

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vescovo non fosse migliore del prefetto. Non si poteva forse sostituire, ai vecchi e corrotti burocrati, quei prelati irreprensibili, e far di costoro gli strumenti di un nuovo Impero?

Le rivoluzioni vincono non in forza delle loro idee, ma quando riescono a confezionare una classe dirigente migliore di quella precedente. E il Cristianesimo era riuscito proprio in questa impresa.

Costantino cominciò col riconoscere ai vescovi competenza di giudici nelle loro circoscrizioni o diocesi. Poi esentò i beni della Chiesa dalle tasse, riconobbe come "persone giuridiche" le associazioni dei fedeli, diede un prete per tutore a suo figlio dopo averlo battezzato, e alla fine cancellò l'editto di Milano che garantiva la tolleranza di tutte le religioni su piede di parità, per riconoscere il primato di quella cattolica, che da quel momento fu la religione di stato, rendendo obbligatori per tutti i cittadini i precetti del Sinodo.

Agendo più da papa che da re, indisse il primo Concilio Ecumenico, cioè universale, della Chiesa, per risolvere i dissensi interni che la rodevano. Egli stesso fornì, coi fondi dello stato, i mezzi a trecentodiciotto vescovi e a infiniti altri prelati minori per raggiungere Nicea, presso Nicomedia. C'erano gravi questioni da mettere a posto. Alcuni estremisti dell'ascetismo avevano fatto secessione da un sacerdozio che ai loro occhi si mostrava troppo disposto ai compromessi e attaccato ai beni di questa terra, e avevano dato inizio a un movimento monastico.

Quasi nello stesso tempo il vescovo di Cartagine, Donato, lanciò il progetto, che fece subito proseliti, di un "epurazione" ai danni di quei sacerdoti che avevano abiurato per paura durante le persecuzioni e di coloro che da essi. avevano ricevuto il battesimo. La proposta era stata respinta, ma aveva dato luogo a uno scisma che doveva continuare per secoli. Però il pericolo più grosso era quello rappresentato da Ario, un predicatore di Alessandria che attaccava la dottrina alla base, confutando la consustanzialità di Cristo con Dio. Il vescovo lo aveva scomunicato, ma Ario aveva seguitato a predicare e a fare seguaci. Costantino aveva mandato a chiamare i due litiganti e aveva cercato di far da mediatore fra loro invitandoli a trovare un compromesso. Il tentativo era fallito e il conflitto si era allargato e approfondito. Ed era soprattutto questo che aveva reso necessario il Concilio.

Il papa Silvestro I, vecchio e malato, non poté intervenire. Attanasio sostenne le accuse contro Ario che rispose con coraggio e onestà. Era un uomo sincero, povero, malinconico, che sbagliava in buona fede. Dei trecentodiciotto vescovi, due soli lo sostennero sino alla fine, e furono scomunicati con lui. Costantino assisté a tutti i dibattiti, ma non intervenne che di rado, per richiamare i contendenti alla calma e alla ponderatezza,

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quando la discussione si accendeva. Quando il verdetto che riaffermava la divinità di Cristo e condannava Ario fu formulato, egli lo tradusse in un editto che bandiva l'eretico coi suoi due sostenitori, ne condannava al rogo i libri e comminava la pena di morte a chi li avesse nascosti.

Costantino chiuse il Concilio con un grande banchetto agli intervenuti, poi si diede a organizzare la sua nuova capitale che, con solenne cerimonia, dedicò alla Vergine. La chiamò Nova Roma, ma i posteri le diedero il suo nome: quello di Costantinopoli.

Non sappiamo s'egli si rendesse conto che, con questo trasferimento di capitale, egli decretava praticamente la fine dell'Impero romano e l'inizio di un altro, che avrebbe continuato, sì, a chiamarsi "romano", ma di cui l'Italia sarebbe stata solo una provincia con Roma per capoluogo.

Costantino fu uno strano e complesso personaggio. Faceva gran scialo di fervore cristiano, ma nei suoi rapporti di famiglia non si mostrò molto ossequente ai precetti di Gesù. Mandò sua madre Elena a Gerusalemme per distruggere il tempio di Afrodite che gli empi governatori romani avevano elevato sulla tomba del Redentore, dove, secondo Eusebio, fu ritrovata la croce su cui era stato suppliziato. Ma subito dopo mise a morte sua moglie, suo figlio e suo nipote.

Si era sposato due volte: dapprima con Minervina, che gli aveva dato Crispo, un bravo ufficiale che si era coperto di medaglie nelle campagne contro Licinio; poi con Fausta, la figlia di Massimiano, che gli aveva dato tre ragazzi e tre bambine. Pare che Fausta, per escludere dalla successione Crispo, lo accusasse presso l'imperatore di aver cercato di sedurla; e che poi Elena, che per Crispo aveva un debole, raccontasse a Costantino ch'era stata Fausta a sedurre il figliastro. Per non sbagliare, l'imperatore accoppo ambedue. Quanto al nipote Liciniano, figlio di sua sorella Costanza che lo aveva avuto da Licinio, dicono che lo mise a morte perché complottava.

Niente di tutto questo si trova nella Vita di Costantino scritta da Eusebio a mo' di panegirico e intesa, logicamente, all'esaltazione di chi aveva fatto, di una setta perseguitata, la Chiesa dell'Impero. Costantino non era un santo, come dice il suo biografo. Fu un grande generale, un accorto amministratore, un lungimirante uomo di stato, che commise tuttavia qualche errore anche lui.

Il giorno di Pasqua del 337 dopo Cristo, trentesimo compleanno della sua ascesa al trono, si rese conto di essere alla fine. Chiamò un prete, chiese i sacramenti, lasciò la stola di porpora per indossare quella bianca dei battezzandi, e aspettò tranquillamente la morte.

Dinanzi al tribunale degli uomini, i servigi ch'egli aveva reso alla causa della civiltà cristiana sono largamente sufficienti a farlo assolvere dei delitti di cui si macchiò. Dinanzi a quello di Dio, non sappiamo.

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CAPITOLO QUINDICESIMO

L'EREDITÀ DI COSTANTINO

COSTANTINO fu l'unico fra i successori di Augusto che sia rimasto sul trono oltre trent'anni. Ma sciupò la sua grandiosa opera di ricostruzione col più assurdo dei testamenti, dividendo l'Impero in cinque fette e assegnandole rispettivamente ai suoi tre figli Costantino, Costanzo e Costante, e ai due nipoti Delmazio e Annibaliano.

La cosa ci stupisce perché egli non poteva non aver visto cos'era avvenuto con la spartizione di Diocleziano e che baruffe si erano scatenate fra tutti quegli Augusti e Cesari. Ma, una volta che aveva deciso così, poteva almeno prendere la precauzione di dare ai suoi tre ragazzi dei nomi che li differenziassero un po' meglio. È un bel pasticcio, anche per chi vuol riassumerne la storia, dipanare l'aggrovigliata matassa di quei quasi omonimi. Cercheremo di fare del nostro meglio.

A facilitarci il lavoro semplificando le rivalità provvidero i reggimenti di guarnigione nella capitale che, appena calato nella fossa il grande defunto, insorsero e fecero un bel massacro in cui perirono due dei cinque eredi: Annibaliano e Delmazio. A loro tennero compagnia anche i fratellastri del morto e i loro figli, meno due, Gallo e Giuliano, che vennero mandati al confino e di cui sentiremo riparlare, oltre a un numero imprecisato di alti gerarchi. Costantinopoli era appena nata, e già inaugurava quel repertorio di carneficine che doveva nei secoli punteggiarne la storia.

Era stato davvero Costanzo, come si disse più tardi, a ordinare quella strage? Con precisione non si sa. Si sa soltanto ch'egli si trovava in città quando si svolse, che non fece nulla per impedirla, e che ne rimase il maggior beneficiario. Egli riunì gli altri due fratelli a Smirne e con essi addivenne a una seconda spartizione. Per sé tenne tutto l'Oriente con Costantinopoli e la Tracia; a Costante, ch'era il minore, diede l'Italia, l'Illiria, l'Africa, la Macedonia e l'Acaia, ma obbligandolo a una specie di vassallaggio verso Costantino II, cui erano toccate le Gallie.

Se Costanzo escogitò questa clausola per provocare una rivalità fra i due e restare poi l'arbitro, bisogna dire che il colpo gli riuscì in pieno. Non erano

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trascorsi tre anni ch'essi già venivano alle mani. Ma alla prima battaglia Co-stantino, ch'era di carattere focoso, si buttò troppo avanti, cadde in un'imboscata e fu ucciso.

Costante non perse tempo ad annettersi tutti i suoi possedimenti. E Costanzo, il quale forse sperava in una guerra lunga, che avrebbe logorato le forze di ambedue i contendenti, rimase a bocca asciutta, e con un rivale solo, sì, ma più potente di lui.

La fortuna anche stavolta lo aiutò sotto forma di un complotto contro Costante che, in Gallia, vinceva battaglie su battaglie contro i ribelli perché era un buon generale, ma come uomo di stato non valeva nulla, spremeva i sudditi con le tasse, li irritava con le sue testardaggini e li scandalizzava coi suoi costumi. Un comandante di milizie barbare, Magnenzio, lo uccise, e si proclamò imperatore. Ma altrettanto fecero subito Vetranione, che comandava le truppe in Illiria, e Nepoziano, nipote del morto.

Costanzo aveva ora le carte in regola per intervenire in Occidente col pretesto di ristabilirvi la giustizia. Proprio in quel momento egli aveva concluso una tregua col re persiano Sapore che gli aveva procurato fino ad allora un sacco di grane e tenuto impegnati i suoi eserciti. Alla testa dei quali egli mosse ora contro gli usurpatori, ma accompagnando quella militare con un'abile azione diplomatica, ch'era poi l'arte in cui meglio riusciva. Vetranione abboccò, unì le sue truppe a quelle di Costanzo nella pianura di Serdica dove gli era venuto incontro, e s'inginocchiò dinanzi a lui chiedendogli perdono. Il perdono fu accordato, e anzi vi si aggiunsero galloni e medaglie. Poi i due eserciti marciarono insieme contro Magnenzio, lo sconfissero in Ungheria, lo inseguirono fino in Spagna e qui lo obbligarono a uccidersi con suo fratello Decenzio. Così l'Impero fu di nuovo riunito sotto un solo sovrano.

A differenza del suo predecessore e padre, costui non era un grande generale, non amava le guerre, e cercava di evitarle. Ma quando vi era obbligato, le faceva fino in fondo, sia pure con gran cautela, e vi rischiava coraggiosamente la pelle. Perché aveva una gran coscienza dei suoi doveri e li assolveva senza badare a spese e sacrifici. Era un uomo solitario e sospettoso, malinconico e taciturno, senza slanci, senza calore umano, senza vizi né abbandoni. In molte cose somiglia a Filippo II di Spagna e a Francesco Giuseppe d'Austria. Come loro era pio, ma alla fede non univa le altre due virtù teologali: la speranza e la carità. Anzi era pessimista, incapace d'indulgenza, e credeva che per salvare un'anima fosse molto spesso necessario bruciare un corpo. Aveva sposato tre volte, non per amore, ma per desiderio di un erede. Nessuna delle tre mogli glielo aveva dato. Ora si trovava senza successori. Nemmeno i suoi fratelli avevano avuto il tempo di lasciarne. Di vivo, nel gran cimitero in cui aveva trovato

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sepoltura la vasta progenie di Costantino, non erano rimasti che i due ragazzi scampati al massacro del 337: Gallo e Giuliano.

Costoro da anni vegetavano in una cittaduzza di Cappadocia, sotto la tutela di un vescovo ariano, Eusebio, che anche lui di carità ne aveva poca, in una vita da collegio, solitaria e desolata.

La loro mamma Basilina era già morta, quando sotto i loro occhi si era svolta la carneficina in cui erano periti il padre, gli zii, i cugini, e perfino i servi. Gallo aveva dieci anni, allora; Giuliano, sei. E ambedue seppero più tardi che il responsabile diretto o indiretto del massacro era stato lui, Costanzo, che ora all'improvviso si ricordava di loro.

L'eletto fu Gallo, il maggiore, che dal giorno all'indomani, da prigioniero qual era, si trovò marito di Costantina, la sorella dell'imperatore, nominato Cesare e insediato ad Antiochia con poteri quasi assoluti. A tenergli la testa a posto, in quel brusco salto che avrebbe dato le vertigini a chiunque, non aveva nemmeno l'intelligenza, di cui era cospicuamente sprovveduto. Quel che gli era capitato di vedere da ragazzo gli aveva fatto credere che l'assassinio e l'inganno fossero la regola, fra gli uomini, e per mettere se stesso al riparo seguì quella di dar corpo a ogni sospetto e di uccidere qualunque indiziato. Prima ancora che Costanzo si accorgesse dell'errore commesso con quella scelta, aveva già scannato non solo singoli uomini, ma intere popolazioni. L'imperatore, temendo che una scomunica lo spingesse all'aperta ribellione, fece finta di nulla e, mostrandoglisi sempre amico, lo chiamò a Milano dove si trovava in quel momento. Inquieto, Gallo mandò prima Costantina a scrutare le intenzioni di Costanzo. Ma Costantina morì durante il viaggio. Gallo dovette decidersi a venire di persona. Ma, arrivato in Pannonia, un distaccamento di soldati lo arrestò e lo condusse a Pola, dove lo relegarono nel palazzo in cui Costantino aveva fatto uccidere il suo primogenito Crispo. Costanzo teneva molto alle tradizioni di famiglia, anche negli accoppamenti. Un processo sommario, facilitato dalla testimonianza ben remunerata di un eunuco di corte, condusse alla pena di morte immediatamente eseguita.

Costanzo era di nuovo senza successori, e invecchiava. Il giorno che aveva deciso di liberarsi di Gallo, aveva rimandato al confino anche Giu-liano, sospettandolo complice di suo fratello. Ma quel ragazzo era l'unico nelle cui vene scorresse ancora il sangue di Costantino. Dopo molte esi-tazioni, lo richiamò e lo nominò Cesare. Il successore non poteva essere che lui.

Quella scelta fatta controvoglia si rivelò subito eccellente. Giuliano, che passava per un perdigiorno dedito soltanto alla letteratura e alla filosofia, appena si trovò con qualche responsabilità addosso, ci fece subito la mano. Non aveva mai visto una caserma quando l'imperatore gli diede in appalto le

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province occidentali allora in piena rivolta. Giuliano dapprima lasciò fare ai generali, ma studiando attentamente le loro mosse. Poi prese il comando effettivo delle truppe, affrontò le orde franche e alemanne che s'erano infiltrate oltre il Reno, le annientò, soffocò la ribellione degl'indigeni, e ristabilì l'autorità imperiale sulla Britannia. Mai titolo di Cesare era stato dato a un uomo con tanta pertinenza.

Purtroppo proprio in quel momento il re persiano Sapore riprese il sentiero di guerra, e per pararne la minaccia Costanzo chiese a Giuliano di mandargli una parte del suo esercito. Giuliano, che aveva preso gusto al mestiere di soldato, obbedì, ma a malincuore, e non si sa fino a che punto nascondesse ai suoi uomini il rammarico di doversi separare da loro. Comunque, essi furono sicuri di interpretare i suoi desideri rifiutando di obbedire, e anzi acclamandolo Augusto, cioè imperatore. Subito Giuliano si affrettò a scrivere a Costanzo che tutto questo era avvenuto al di fuori, anzi contro la sua volontà. Ma quando Costanzo gli rispose che lo perdonava se rinunziava al titolo e faceva atto di sottomissione. Giuliano, invece di aderire, gli mosse contro alla testa del suo esercito. Egli non aveva scassinato la banca, ma si rifiutava di restituire la refurtiva che, non si sa come, gli era piovuta in casa.

La guerra non ci fu perché Costanzo, partito anche lui per farla, morì in viaggio. Quando aprirono il testamento, tutti videro con sommo stupore ch'egli aveva designato unico erede colui che era venuto a combattere e, in caso di vittoria, probabilmente a uccidere. Come sempre, egli aveva obbedito non ai sentimenti, ma alla ragion di stato. E, riconoscendo nel fellone le qualità di un grande politico, ne aveva fatto il suo successore. Giuliano lo ricambiò tributandogli solenni esequie, vestendosi a lutto e piangendo a calde lacrime sulla bara. Fu una bellissima commedia, recitata magnificamente da ambedue le parti.

Su Giuliano son corsi fiumi d'inchiostro, come se non bastassero quelli che ha profuso egli stesso. Perché era grafomane e aveva la passione dei proclami, dei panegirici e dei saggi fra il filosofico e il politico. Ma forse l'importanza di questo imperatore, che regnò venti mesi soltanto, è stata un poco esagerata.

La ragione per cui si è fatto tanto baccano intorno al suo nome è che gli si attribuisce il proposito di restaurare il paganesimo contro il Cristianesimo. Già Costanzo aveva dovuto dedicare la maggior parte del suo tempo alle questioni religiose. Egli anzi aveva agito, oltre che come imperatore, come papa, intervenendo nelle beghe interne della Chiesa fra donatisti, ariani e meleziani. Perché era cristiano, sì, e di quelli ferventi. Ma molto paganamente considerava la Chiesa uno strumento dello stato e, con la scusa di proteggerla, intendeva controllarla.

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Giuliano ebbe gli stessi interessi religiosi, ma orientati in senso opposto, e perciò si guadagnò il titolo di Apostata. A riempirlo di rancore verso la nuova fede, non c'è dubbio che deve aver contribuito quel vescovo Eusebio che, come suo tutore, aveva condito con la frusta le lezioni di catechismo. L'unico affetto, nel confino di Nicomedia, Giuliano lo aveva trovato in un vecchio servo scita, Mardonio, che gli leggeva Omero e i filosofi greci. Non si è mai saputo se Mardonio fosse pagano o cristiano. Si sa soltanto ch'era imbevuto di classicismo, e fu lui a ispirarne l'amore al suo padroncino e pupillo. Questi si guardava intorno, e non gli pareva che i cristiani da cui era circondato dessero un grande esempio. Non era, checché si sia detto, un uomo di profondo pensiero, e basta leggere i suoi scritti per convincersene. A volte i suoi ragionamenti si perdono nel vaneggiamento. Aveva una gran memoria, ma non capiva nulla d'arte, si accaniva puntigliosamente su problemi filosofici secondari perdendo di vista quelli principali, si compiaceva di citazioni e di virtuosismi estetizzanti. Era fatale ch'egli confondesse la Chiesa con i suoi cattivi pastori e che accomunasse questi a quella nella medesima antipatia. Comunque, non fa onore alla sua intelligenza politica l'idea, che gli viene attribuita e che forse coltivò davvero, di un ritorno al paganesimo come religione di stato. Già, ogni ritorno, in politica, è uno sbaglio.

La famosa apostasia di Giuliano fu soprattutto un marcato agnosticismo. Egli si disinteressò delle eresie che seguitavano a dilaniare la Chiesa, ed è probabile che le vedesse con simpatia. Ma agli ebrei riconobbe libertà di culto e concesse di ricostruire il tempio di Salomone, le cui impalcature però andarono distrutte da un terremoto, nel quale gli scrittori cristiani salutarono un castigo del Cielo. Che sottomano egli abbia incoraggiato il ripristino degli antichi culti pagani, lo si è detto, ma non è stato provato. Comunque, non ne dovette ricavare molte soddisfazioni, perché la gente non vi aderì che svogliatamente e senza entusiasmo. Ad Alessandria fu ucciso dai pagani il vescovo Giorgio, ad Antiochia fu incendiato dai cristiani il tempio di Apollo: né in un caso né nell'altro Giuliano ordinò rappresaglie. Voleva mostrarsi imparziale.

Dio sa come e dove sarebbe finita questa sua anacronistica politica religiosa, se Sapore non lo avesse costretto a riprendere le armi. Egli preparò quella difficile e pericolosa spedizione con la consueta cura, allestendo uno sterminato esercito e una flotta di mille navi con cui discendere il Tigri. I primi scontri gli furono favorevoli, ma la città di Ctesifonte gli resisté con le sue formidabili fortificazioni e alla fine lo obbligò alla ritirata. Ma chi avrebbe fatto risalire la corrente alle navi? Giuliano diede ordine di bruciarle. Non poteva fare altrimenti, ma la decisione demoralizzò i soldati e li riempì di furore. La contrada era povera, sassosa, bruciata dal sole, ostile.

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Le cavallerie persiane disturbavano la marcia infliggendo gravi perdite coi loro dardi. Uno di essi raggiunse Giuliano conficcandoglisi nel fegato. L'imperatore tentò di estrarlo con le sue mani, allargò lo sbrano e provocò una emorragia mortale. Capì di essere alla fine, si chiamò intorno al letto dove lo avevano adagiato due filosofi amici suoi, Massimo e Prisco, e con loro si mise a discutere serenamente sull'immortalità dell'anima.

Dicono che a un certo punto si ficcò la mano nella ferita, la ritrasse lorda di sangue e, spruzzandone in aria alcune stille, esclamò con rabbia: «Galileo, hai vinto!».

Ma probabilmente non è vero.

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CAPITOLO SEDICESIMO

AMBROGIO E TEODOSIO

A NOMINARE il successore, soprattutto per provvedere alla propria salvezza in quell'ora di pericolo, fu l'esercito, che lo scelse, seguitando a ritirarsi, fra i suoi ufficiali. E fu un certo Gioviano, cui la sorte concesse di compiere, come imperatore, un gesto solo, ma stupido e vile: una pace frettolosa, che concedeva ai persiani l'Armenia e la Mesopotamia, come a pagamento di una vittoria ch'essi non avevano riportato.

Ciò fatto, Gioviano si ammalò e morì, prima di raggiungere la capitale. Di nuovo l'esercito si fermò per designare un altro imperatore e stavolta il

prescelto fu Valentiniano, un bravo generale, figlio d'un cordaio della Pannonia, che Giuliano, dicono, aveva in precedenza silurato perché non aveva voluto rinnegare la sua fede cristiana. Sgomento delle responsabilità che, col trono, gli piovevano sul capo, Valentiniano si associò a parti uguali il fratello Valente, cui lasciò Costantinopoli con le province orientali, per sé tenendo quelle occidentali, di cui Milano era ormai la capitale. Correva l'anno 364 dopo Cristo.

Ambedue i fratelli ebbero subito due grossi problemi da affrontare. Valente si trovò di fronte all'insurrezione di Procopio che, unico parente di Giuliano, si mise alla testa di alcuni distaccamenti in Cappadocia facendosene proclamare imperatore. Fu sconfitto, catturato e decapitato. Valentiniano dovette vedersela con gli alemanni che, alla notizia della morte di Giuliano di cui avevano una paura birbona perché li aveva sonoramente battuti, ripresero i loro sconfinamenti in Gallia. L'imperatore li accerchiò e annientò sul Reno. Poi mandò in Britannia il suo miglior generale, Teodosio, che vi rimise ordine sbaragliandovi sassoni e scoti. Ma questo bravo soldato fu mal ricompensato dei servizi che aveva reso. Perché, spedito subito dopo in Africa a ristabilirvi la pace, cadde vittima degl'intrighi di alcuni funzionari malversatori che, con le loro calunnie, lo fecero processare per tradimento, condannare e decapitare.

Valentiniano, ingannato anche lui, commise certamente questo errore in buona fede. Non era un uomo di eccelsa mente, ma aveva buon senso e un

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carattere saldo e diritto. Purtroppo, era soggetto a scoppi di collera, e fu in questi iracondi soprassalti che compì i due più grossi sbagli della sua vita: la firma al verdetto di condanna di Teodosio, e la propria morte. Infatti si lasciò fulminare dalla sincope il giorno che prese una solenne arrabbiatura con i quadi che gli si erano ribellati.

Siamo nel novembre del 375 dopo Cristo. Ma la successione al trono stavolta era già regolata, perché Valentiniano otto anni prima si era asso-ciato come collega il figlio Graziano; cui, a quindici anni, aveva dato in moglie la tredicenne Costanza, figlia postuma di Costanzo, la cui vedova aveva sposato poi Procopio ed era rimasta vedova anche di lui, ma con un figlio in più: Valentiniano II. Sì, è un po' difficile, me ne rendo conto, e per questo cercherò di spiegarmi meglio.

Valentiniano aveva, oltre al fratello Valente cui restava la metà orientale dell'Impero, un figlio di nome Graziano. Costui aveva sposato Costanza, figlia dell'imperatore Costanzo. Sua madre Giustina, rimasta vedova, aveva poi sposato l'usurpatore Procopio, il quale le aveva dato un figlio di nome Valentiniano, che era quindi fratellastro di Costanza. Ci siamo?

Ora Giustina, ch'era una donna ambiziosissima, tanto aveva armeggiato e intrigato da spingere il consuocero Valentiniano ad assumere come collega non solo Graziano, ma anche Valentiniano, che aveva allora quattro anni. Sicché, alla morte dell'imperatore, mentre a Costantinopoli restava Valente, a Milano saliva sul trono il giovinetto Graziano, tutore di Valentiniano II, con cui poi avrebbe diviso il potere.

Era un brutto momento perché proprio allora stavano calando dalla Russia valanghe di barbari più terribili di tutti gli altri: gli unni. Essi erano già arrivati a contatto dei goti, che il re Ermanrico aveva raccolto in una federazione ai confini orientali dell'Impero. Atterriti, costoro chiesero a Valente di esservi annessi promettendo in cambio di farvi da sentinelle. Valente, dopo molte esitazioni, accettò, ma per pentirsene subito, quando vide quei nuovi sudditi, che oscillavano fra i due e i trecentomila, darsi al brigantaggio e al saccheggio com'era loro costume. Egli era in procinto di riprendere le armi contro la Persia. Dovette accantonare il progetto per accorrere a Adrianopoli, dove i riottosi goti si erano spinti. Invece di aspettare il nipote Graziano che, come si era convenuto, giungeva dal Nord per stritolare il nemico in una morsa, Valente attaccò subito, da solo, e ci rimise tutto l'esercito. Egli stesso, ferito, fu arso vivo nella capanna in cui i suoi attendenti lo avevano ricoverato.

Graziano, rimasto solo, non osò attaccare. Sebbene avesse solo vent'anni, si era già mostrato un buon generale. Ma ora diede prova anche di grande assennatezza. Si ritirò cautamente, dispose le sue forze a protezione dell'Illiria e dell'Italia. E, rendendosi conto di non poter dividere le

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responsabilità dell'Impero con un bambino qual era il suo cognatastro Valentiniano II, pensò di associarsi un collega per l'Oriente. Con molta sagacia, lo scelse nel generale Teodosio, l'omonimo figlio di quello che Valentiniano aveva fatto ingiustamente accoppare in Africa. E gli affidò l'Impero d'Oriente. Ma intanto sulla scena era comparso un altro e decisivo personaggio: quell'Ambrogio, vescovo di Milano, che ora tutti gl'italiani, e specialmente i lombardi, venerano come santo.

Non era un prete e non veniva dal seminario. Era un bravissimo funzionario laico, che sino al 374 aveva fatto il governatore della Liguria e dell'Emilia. Come tale, si era trovato a dirimere le controversie tra cattolici e ariani, che anche in quelle diocesi infuriavano. Lo aveva fatto così bene che alla morte del vescovo Ausenzio, ariano anche lui, fu acclamato suo successore. Non era nemmeno battezzato, in quel momento, e l'elezione aveva tutti i crismi dell'irregolarità. Ma Valentiniano I, che aveva una grande stima di lui, l'aveva confermata. E Ambrogio in pochi giorni ricevette i sacramenti, gli ordini e il cappello episcopale.

Era un uomo che, se fosse nato oggi in America, sarebbe diventato un Ford o un Rockefeller. E Graziano che, morto suo padre, gli si affidò in pieno, trovò in lui il suo più valido collaboratore. Vescovo e sovrano condussero insieme la lotta contro il paganesimo e l'eresia ariana. Quest'ul-tima, morto Valente che n'era stato prigioniero, non ebbe più difensori. Teodosio, che forse doveva in buona parte la sua nomina ad Ambrogio, fu, in materia religiosa, un suo zelante esecutore di ordini. Il paganesimo era definitivamente sepolto. E in seno al Cristianesimo era il Cattolicesimo che trionfava.

Purtroppo, le cose non andarono altrettanto bene sul piano strettamente politico. Accusando Graziano di essere, come oggi si direbbe, un de-mocristiano piedipiatti e baciapile, il governatore della Britannia, Magno Massimo, gli si ribellò. Il complotto aveva degli affiliati anche alla corte del giovane imperatore, che si trovava in quel momento a Parigi e che fu pugnalato mentre cercava di scappare. Ipocritamente, Massimo deplorò l'incidente in una lettera a Teodosio in cui gli proponeva di ripartire in tre l'Impero lasciando a Valentiniano, sotto la tutela di sua madre e di Ambrogio, l'Italia, e di affidare a lui, Massimo, le province occidentali.

Teodosio era un galantuomo dai riflessi lenti. I suoi nemici lo chiamavano "un cacadubbi", e forse effettivamente, nel ponderare le decisioni, esagerava un po'. La fine dell'amico e collega Graziano, cui tanto doveva, lo aveva indignato. Ma una guerra, nelle condizioni in cui si trovava allora l'Impero coi goti in subbuglio e gli unni e i persiani alle porte, gli parve una scelta da scartare. Mandò una risposta dilatoria e tergiversante. Massimo la interpretò in senso positivo. E, dimenticando l'accusa di baciapilismo lanciata contro

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Graziano, spiegò un grande zelo nella lotta contro gli eretici per guadagnarsi il favore di Ambrogio. Nonostante gl'impegni assunti verso Valentiniano, pensava con ghiottoneria all'Italia, riuscì a farvi accettare alcuni fra i suoi reparti più fedeli col pretesto di rafforzarvi le guarnigioni di frontiera, e tutto sarebbe finito con un altro regicidio, se Giustina, impaurita, non fosse scap-pata da Teodosio portandosi dietro il figlio imperatore e la figlia Galla che, fra parentesi, era un fior di figliuola.

Tanto bella che Teodosio, nel vederla, se ne invaghì di colpo, e l'amore fece quello che il calcolo politico non aveva potuto, per spingerlo a castigare l'usurpatore. Lo scontro fra i due eserciti avvenne in Pannonia. E Massimo, sconfitto, venne decapitato. Teodosio sposò Galla, riaccompagnò la suocera e il cognatino a Milano, tenne loro compagnia per un pezzo, e anche con questo gesto stabilì una specie di tutela dell'Impero d'Oriente su quello d'Occidente.

Ambrogio nel frattempo aveva continuato la sua battaglia contro l'eresia. Gli ariani, debellati da Teodosio a Costantinopoli, in Italia erano stati protetti da Giustina, che sulle loro teorie aveva educato Valentiniano. Essa domandò ora che almeno una chiesa venisse loro concessa. Ambrogio rispose di no. Valentiniano gli comminò l'esilio. E Ambrogio non si mosse. Era un santo, sì, ma aveva un gran caratteraccio. Subito dopo avvennero altri clamorosi episodi. I cristiani di Callinico bruciarono la sinagoga. Teodosio, tuttora a Milano, ordinò che venisse ricostruita a spese dei colpevoli. Ambrogio andò a chiedere la revoca di quell'ordine. E, siccome non venne ricevuto, prese penna e calamaio: Io ti scrivo perché tu mi ascolti nel tuo palazzo. Altrimenti mi farò ascoltare nella mia chiesa...

Cos'era successo nel mondo, che consentiva a un prete di elevarsi a giudice del capo supremo dello stato, di cui sino a quel momento non era che un semplice funzionario? Teodosio, se fosse stato Valentiniano I, sarebbe stato colto anche lui da una sincope, tale fu la sua collera. Invece tacque e si piegò. Poco dopo dovette intervenire contro quelli di Tessalonica, che avevano massacrato le guardie, ree di aver arrestato un auriga, idolo dei "tifosi". Ci andò con la mano un po' pesante, è vero, ma stavolta non si trattava di questioni religiose. Eppure anche in tale occasione Ambrogio insorse, parlò dal pulpito, rifiutò d'incontrarsi con l'imperatore e gli proibì l'accesso alla chiesa finché quegli non ebbe domandato solennemente e umilmente perdono. Era il trionfo del potere spirituale su quello temporale, e per celebrarlo fu composto un inno apposta: il Te Deum laudamus.

Il paganesimo ebbe ancora un sussulto con Arbogaste, un condottiero franco che gli era rimasto fedele e che aveva reso segnalati servigi all'Impero sotto Graziano. Ora era capo delle guardie di Valentiniano, ma

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disprezzava quel ragazzetto che si metteva in ginocchio davanti ad Ambrogio e gli baciava l'anello. Un giorno il giovane imperatore fu trovato morto nel suo letto. Arbogaste disse che si era ucciso, ma non ne usurpò il posto. Si rendeva conto che l'Impero romano, per quanto decaduto, non era ancora arrivato al punto di accettare sul trono un barbaro come lui. E v'innalzò Flavio Eugenio, capo degli uffici civili, qualcosa come cancelliere di Sua Maestà, per sé serbando il comando dell'esercito.

Neanche stavolta Teodosio reagì subito. Anzi, lasciò passare due anni prima di decidersi al castigo. In questo periodo Arbogaste impose ad Eugenio una politica che voleva essere di tolleranza e di equidistanza dalle due religioni. Ma dovette rendersi conto anche lui che il paganesimo non resuscitava nemmeno con le iniezioni di adrenalina.

Nel 394 l'imperatore e l'usurpatore scesero in guerra. Flavio e Arbogaste, che aspettavano il nemico in Italia, costellarono i valichi delle Alpi Orientali con statue di Giove, il quale fece così la sua ultima comparsa tra gli umani, armato di fulmini d'oro. Teodosio, prima di partire, era andato nel deserto della Tebaide a visitare un anacoreta che gli aveva predetto la vittoria. Ognuno dei due eserciti aveva insomma mobilitato il proprio dio, e infatti lo scontro fu risolto da una specie di miracolo meteorologico: una violentissima bora che, soffiando negli occhi dei flaviani, quasi li accecò. Giove, Arbogaste ed Eugenio vennero travolti nella stessa catastrofe. Ma a sconfiggerli in nome di Gesù, sia pure sotto il comando dell'imperatore romano Teodosio, erano stati soprattutto i goti pagani agli ordini di Alarico.

Teodosio, giunto trionfatore a Milano, vi morì d'idropisia. L'imperatore romano non aveva ancora cinquant'anni, e non era mai andato a Roma, ormai tagliata fuori dalla grande politica. Era stato non un grande, ma un buon sovrano: leale e onesto, anche se un po' timorato e timoroso.

Lasciava due figli: Arcadio di diciotto anni, e Onorio di undici.

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CAPITOLO DICIASSETTESIMO

LA FINE

QUELLO di Occidente che toccava al bambino Onorio era un Impero che già Teodosio aveva considerato satellite di quello d'Oriente, che un vescovo aveva sottoposto alla tutela spirituale della Chiesa, e che, per difendersi, aveva dovuto accettare entro i propri confini popolazioni barbare, ancora pagane e assolutamente digiune di stato e di diritto. Ma anche all'interno si disgregava. Non più tutelate da un esercito che le guerre esterne risucchiavano ai confini, le piccole comunità di villaggio e di provincia sempre più si rimettono per la loro difesa ai signorotti, che possono disporre di milizie proprie. Si chiamano Potentes, costoro, e si fanno sempre più indipendenti dall'autorità centrale via via che questa sempre più s'indebolisce. A favorirli è anche una legislazione che da Diocleziano in poi ha sempre più pietrificato la società, legando irrevocabilmente il contadino alla terra e al suo padrone, cioè facendone un servo della gleba, e l'artigiano al suo mestiere. Ormai si nasce col proprio destino e non si può più cambiarlo. Chi abbandona il podere o la bottega, anche se riesce a sfuggire ai carabinieri che subito lo ricercano, è destinato a morir di fame perché non trova altro impiego. E chi è ricco deve seguitare a pagar tasse, anche se aliena o perde la ricchezza. Altrimenti va in prigione.

Queste leggi, per assurde che possano sembrare, erano imposte dalle circostanze. Gli scheletri che vanno in pezzi, bisogna ingessarli. Il gesso non impedisce la decomposizione, ma la rallenta. Tutto questo però è la fine di Roma, della sua civiltà, del suo ordinamento giuridico, che faceva di ogni uomo l'arbitro della propria sorte, lo parificava agli altri dinanzi alla legge, e con la cittadinanza ne faceva non soltanto un suddito, ma anche un protagonista. È cominciato il Medio Evo. Il potente prende il posto dello stato, cui si contrappone con sempre maggior successo, fino a romperlo in una miriade di feudi, ciascuno col proprio signore alla testa, armato sino ai denti, sul groppone di una massa amorfa, minuta e inerme, abbandonata ai suoi capricci e senza più nessun diritto: nemmeno quello di cambiar professione e residenza.

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Accanto all'undicenne Onorio, cui toccava in eredità quel crollante edificio, fu messo il generale Stilicone. Era un vandalo, cioè un barbaro di razza tedesca, e la sua scelta ci dice fino a che punto ormai i romani si erano liquefatti. Soltanto lui, fra tutti gli ufficiali dell'esercito, offriva garanzie di lealtà, di coraggio e di perspicacia. E infatti ebbe modo di fornirne subito le prove nella situazione che, calato Teodosio nella fossa, subito si arruffò fra Milano e Costantinopoli. Il defunto imperatore aveva diviso l'Impero, ma non aveva detto quali province appartenessero all'uno e all'altro moncone. Arcadio, salito sul trono di quello d'Oriente, e consigliato dal proprio Stilicone, che si chiamava Ruffino, considerò roba sua anche la Dacia e la Macedonia. Sorse una baruffa tra le due capitali. Alarico, che malgrado le promesse nessuno aveva compensato del contributo fornito a Teodosio nella guerra contro Arbogaste, marciò su Costantinopoli. E certamente l'avrebbe messa a sacco se Ruffino non fosse riuscito a persuaderlo che la Grecia era un boccone più prelibato. L'Impero, incapace di difendersi, salvava la capitale a spese delle province.

A indignarsene fu solo Stilicone, il barbaro, che mandò a Costantinopoli un distaccamento di truppe richiestegli da Arcadio, con l'ordine al loro comandante, Gaina, anche lui barbaro, di accoppare Ruffino. L'ordine fu scrupolosamente eseguito, e al posto del defunto fu nominato un suo avversario, il ciambellano di corte Eutropio, con cui fu possibile ristabilire un'intesa fra i due fratelli. Subito Stilicone ne approfittò per mettere a posto i goti, che saccheggiavano il Peloponneso. Li aveva già insaccati nell'istmo di Corinto, quando Costantinopoli, gelosa di un successo occidentale, stipulò un'alleanza con loro e ordinò al generale di lasciarli in pace. Stilicone si mangiò le mani, ma obbedì anche perché proprio in quel momento si era ribellata l'Africa, aiutata sottomano da Arcadio e da Eutropio, mentre ondate di barbari si rovesciavano in Balcania, e Alarico, l'alleato di Costantinopoli, dopo aver risalito l'Albania e la Dalmazia, entrava addirittura nella pianura padana. Il povero generale vandalo, unico rimasto a credere nell'Impero e a servirlo con fedeltà, e costretto a trascorrere la sua vita sulla sella d'un cavallo lanciato al galoppo per tappare i buchi che si aprivano da ogni parte, tornò in Italia, batté Alarico ma senza distruggerne le forze perché pensava di allearselo contro quelle nemiche sempre più soverchianti. E, non fidandosi più di Milano che, senza difese naturali, poteva essere conquistata da chiunque, trasportò la capitale a Ravenna, un villaggio di poco conto, ma circondato di paludi malariche che avrebbero reso impossibile un assedio. Correva l'anno 403 dopo Cristo.

Il trasferimento fu fatto appena in tempo per sfuggire a un'invasione di altri goti, che si chiamarono ostrogoti per distinguerli dai visigoti di Alarico, e che, sotto il comando di Radagaiso, passarono le Alpi e si abbatterono

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sulla penisola sommergendola fino alla Toscana. Era la prima volta, dal tempo di Annibale, che l'Italia subiva un simile affronto. A Stilicone occorse un anno per raccogliere truppe. Solo nel 406 ne ebbe abbastanza per sorprendere quelle di Radagaiso a Fiesole e sterminarle. Ma nello stesso momento vandali, alani e svevi sfondavano le difese romane di Magonza ed entravano in Gallia, dove sbarcava anche dalla Britannia un usurpatore chia-mato Costantino, che mise in fuga i barbari i quali però, invece di ritirarsi, sommersero la Spagna. Le più belle province d'Occidente erano praticamente perdute, e l'Italia in balìa di se stessa.

In questo marasma, in cui chiunque avrebbe perso la testa, Stilicone era l'unico che l'aveva serbata chiara. Mentre trattava con Alarico per garantirsene l'aiuto bandì una leva fra gl'italiani. Costoro rifiutarono di arruolarsi, ma lo accusarono di capitolazione di fronte al barbaro. Con che soldati da costui il generale potesse difenderli, visto che loro ricusavano di dargliene, Dio solo lo sa. Onorio, impaurito, dimenticò di colpo i servigi che per dieci anni gli aveva reso quel fedele capitano, e ne ordinò l'arresto. Stilicone avrebbe potuto benissimo insorgere perché le poche truppe di cui disponeva l'Impero erano fedeli soltanto a lui. Ma aveva troppo rispetto dell'autorità per ribellarvisi. Lo trucidarono in una chiesa, a Ravenna. E fu forse il più stupido, ignobile e catastrofico dei delitti che siano stati commessi in nome di Roma. Esso non soltanto privò del suo miglior servitore l'Impero, ma fece capire a tutti i barbari, che ancora gli erano fe-deli, che cosa esso fosse diventato. Erano costoro i migliori funzionari e soldati che ancora reggevano la baracca. Essi credevano al prestigio di Roma. E Roma, uccidendo Stilicone, lo distrusse con le sue mani.

Da allora tutto precipitò. Alarico, invece di venire in Italia come alleato, vi giunse da conquistatore. Propose un accordo a Onorio il quale lo respinse con una fierezza che sarebbe stata nobile se accompagnata da qualche gesto di coraggio, ma che diventava insolente e ridicola nella bocca di un uomo che si rinchiudeva a Ravenna facendosi difendere solo dalle zanzare e abbandonando il resto d'Italia all'avversario. Questi marciò addirittura su Roma e l'assediò. Il mondo trattenne il respiro. Come? Si osava addirittura porre assedio a Roma?

Lo stesso Alarico parve colto dal timor panico, quando la città si arrese senza combattere, e vietò ai suoi soldati di entrarvi. Ci venne solo e disarmato per chiedere al Senato di deporre Onorio. E il Senato, che ormai esisteva solo per figura, subito accondiscese. Ma l'anno dopo, siccome Onorio dal trono non scendeva, vi tornò e stavolta vi mise a bivacco tutto l'esercito, ma impedendogli, o cercando d'impedirgli, il saccheggio. I barbari si aggirarono per la città sbalorditi e spaventati dalla loro stessa audacia. Nelle selve germaniche da cui i loro antenati erano discesi, si era sempre

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favoleggiato di Roma come di un irraggiungibile miraggio. Più che spogliare, furono spogliati da una popolazione che aveva disimparato a combattere, ma aveva imparato a rubare. E lo stesso Alarico si trasformò da conquistatore in prigioniero, quando si trovò di fronte a Galla Placidia, la bellissima figlia di Teodosio, sorellastra di Onorio e di Arcadio. Da quel momento il re cui obbedivano i goti ebbe una regina cui obbedire. Se la portò dietro circondandola di tutti gli onori nella sua ultima avventura: la spedizione in Africa. Ma mentre la preparava sulle coste calabresi, la morte lo colse a Cosenza. I suoi soldati gli fecero costruire una immensa e fastosa tomba sotterranea. Eppoi, perché nessuno ne venisse a conoscere il segreto e la violasse, uccisero tutti gli schiavi che avevano lavorato a scavarla. A succedergli fu acclamato il fratello di sua moglie, Ataulfo, un bellissimo ragazzo, di cui Galla Placidia era già da un pezzo l'amante.

La violazione di Roma del 410 e la volontaria scelta di una principessa di sangue reale, che alla sofisticata reggia imperiale aveva preferito la di-sadorna tenda di un condottiero barbaro, precipitarono nello sbigottimento il mondo intero. I pagani dissero ch'era una vendetta degli dèi per il tradimento degli uomini. E i cristiani, i quali avevano lottato per quattro secoli contro Roma, ora alla sua caduta si sentirono improvvisamente orfani e ci videro il segno dell'avvento dell'Anticristo. «La fonte delle nostre lacrime si è disseccata», singhiozzò san Girolamo.

Solo Onorio sembrava infischiarsene. Chiuso tra gli stagni della sua Ravenna, rifiutò l'assenso al matrimonio di Galla con Ataulfo e, insensibile allo sfacelo in cui precipitava la stessa Italia, vegetò fino al 423, quando morì. Troppo presto per i suoi giovani anni. Troppo tardi, per il modo come li aveva riempiti. Anche Ataulfo era morto parecchio tempo prima sotto il pugnale di un barbaro, e Galla era tornata, vedova, a casa. Onorio l'aveva sposata di forza a un generale rimbambito, Costanzo; e siccome non aveva eredi, designò a succedergli il figlio nato da questo matrimonio: Valentiniano III.

Anche Arcadio, a Costantinopoli, era morto da un pezzo, lasciando sul trono un ragazzetto: Teodosio II. E tragicomico fu vedere in quel momento i due tronconi dell'Impero, incalzati dalla medesima catastrofe, rimettersi in contatto solo per litigare sulla delimitazione dei confini. L'Impero era già tutto in mano ai barbari, e i due romani imperatori, fra l'altro cugini germa-ni, si contendevano una teorica sovranità su province praticamente già perdute. Un ultimo sprazzo di orgoglio e di coraggio la romanità lo dava soltanto in Africa, dove il generale Bonifacio, già condannato per alto tradimento, e il vescovo Agostino, assediati a Ippona, resistevano ai vandali di Genserico. Fu nell'infuriare della battaglia, dove cadde, che il presule scrisse la sua opera capitale: La Città di Dio.

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L'incalzante prevalere dell'elemento germanico su quello romano trovava il suo simbolo e riassunto nelle vicende della famiglia imperiale. A Ravenna sul trono c'era Valentiniano III, ma la vera regina era Placidia, che come strumento del suo potere s'era scelto un altro barbaro, Ezio, degno successore di Stilicone. Essa aveva dimostrato di non credere ai romani neanche come mariti. Figuriamoci se se ne fidava come generali e uomini di stato. Quando all'orizzonte spuntò Attila, alla testa dei suoi terribili unni, essa fece fare a sua figlia, Onoria, ciò che aveva fatto lei stessa con Ataulfo: gliela propose in sposa. Capiva che ormai Roma, coi barbari, poteva vincere su un campo di battaglia solo: il letto.

Ma Attila non era Alarico. Invece di entusiasmarsi per Onoria, reclamò anche una dote spropositata: la Gallia. Era la più bella provincia dell'Impero e, sebbene la sovranità imperiale vi fosse soltanto teorica, la corte di Ravenna non vi poteva rinunciare. Attila vi straripò ugualmente, ed Ezio dovette scendere con lui in guerra. Ma, per procurarsi un esercito adeguato, fu costretto, con un miracolo di diplomazia, ad associarsi nell'impresa il re dei visigoti, Teodorico. La gigantesca battaglia si svolse nei Campi Catalauni presso Troyes. E i romani vinsero, ma di romano non avevano che l'etichetta. Barbari erano coloro che sconfiggevano altri barbari, e un barbaro romanizzato era il loro stesso comandante supremo. Esso rimase padrone del campo, ma non inseguì il nemico che si ritirava in buon ordine. Non aveva sufficienti forze o sperava di farsene un alleato, come Stilicone era riuscito a fare coi goti?

Nel 452, Attila ricomparve. Ma stavolta non attaccava la Gallia, sibbene l'Italia stessa. Valentiniano, che, morta sua madre, aveva assunto il potere effettivo, non volle ripetere l'indecoroso errore di Onorio abbandonando Roma al suo destino. E, contro il parere di Ezio che gli consigliava di fuggire in Oriente anche per sbarazzarsene, si trasferì nell'Urbe per condividerne la sorte. E qui si mise d'accordo col papa, Leone I, per mandare un'ambasceria di senatori ad Attila, già accampato sul Mincio.

La leggenda vuole che Attila s'impaurisse alla minaccia di essere scomunicato se osava attaccare Roma. Ma, essendo pagano, non vediamo proprio cosa potesse la scomunica significare per lui. Comunque, invece di passar l'Appennino, ripassò le Alpi, e l'anno dopo morì. Del vasto effimero Impero che si era costruito dalla Russia fino al Po, non rimase nulla, neanche il popolo, che si sbriciolò e venne rapidamente fagocitato dalle popolazioni slave e germaniche in mezzo a cui si era accampato da padrone.

La fine di questo pericoloso nemico fu un sollievo per l'Italia e l'Europa, ma una mazzata in testa per Ezio che, chiuso a Ravenna, non vi aveva punto collaborato. Valentiniano, che sempre aveva mal sopportato quel servitore con piglio di padrone, ci vide la buona occasione per disfarsi di lui, come

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Onorio aveva fatto con Stilicone. E lo fece di sua mano, infilandolo con la spada, un giorno che litigarono. Altro fatale errore perché di colpo tutti i barbari che, accampati nelle province dell'Impero, avevano accettato un teorico vassallaggio, si misero in subbuglio, e uno di loro accoppò lo stesso Valentiniano nel Campo di Marte. Genserico, il re dei vandali che ormai eran padroni dell'Africa, giunse col suo esercito annunziandosi vendicatore dell'imperatore. In realtà voleva farne occupare il posto dal proprio figlio Unnerico sposandolo alla figlia del defunto: Eudocia. Il matrimonio si fece. Ma mentre i soldati lo festeggiavano saccheggiando scrupolosamente la città e dando così alla parola "vandali" il significato che tutti sappiamo, il nuovo re dei visigoti, Teodorico II, faceva eleggere in Gallia un altro imperatore di sua fiducia, Avito.

Genserico tornò in Africa di corsa, ma con un bel bottino: la nuora, la consuocera vedova di Valentiniano con l'altra figlia Placidia, e alcune migliaia di romani altolocati, tra cui qualche dozzina di senatori, come per dire che Roma oramai era roba sua. Giunto a casa, allestì una flotta con cui occupò la Sicilia, la Corsica e l'Italia meridionale. Ma Avito aveva un grande generale, barbaro si capisce, ma della stoffa di Stilicone e di Ezio: Ricimero. Egli sconfisse il nemico in una grande battaglia navale, poi depose Avito che si consolò nella fede e si fece consacrare vescovo di Piacenza, e non gli nominò un successore che quattro anni dopo, nel 457, scegliendolo nella persona di Maioriano.

Lo fece solo per veder di richiamare all'ordine i vandali, i visigoti, e tutti quegli altri barbari che avevano approfittato della mancanza d'un imperatore per proclamarsi anche formalmente indipendenti. Ma servì a poco. Essi seguitarono a fare il comodo loro. Maioriano tentò una spedizione contro Genserico che gli distrusse a tradimento la flotta, e Ricimero, indignato che volesse governare sul serio, lo fece trucidare, per sostituirlo con Libio Severo, uomo più arrendevole. Ma Genserico la pensava diversamente. Avendo rinunziato a far salire sul trono il figlio Unnerico, marito di Eudocia, riponeva ora le sue speranze nel senatore Anicio Olibrio cui aveva dato in moglie la sorella di sua nuora, Placidia. E aveva cominciato una nuova guerra, cioè aveva continuato con più vigore quella che già da anni combatteva contro Roma.

Per difendersene, Ricimero ebbe una buona idea: quella di offrire, alla morte di Severo, il trono a un uomo di fiducia di Costantinopoli, e di garantirsene così l'aiuto. Si chiamava Procopio Antemio. Venne in Italia nel 467, s'incoronò, armò una flotta di mille navi con centomila uomini agli ordini del generale Basilisco e la spedì verso le coste tunisine. Basilisco, appena sbarcato, non seppe far di meglio che accordare una tregua di cinque giorni a Genserico, che attaccò di sorpresa i vascelli e li incendiò. Si parlò di

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tradimento del generale. In realtà il tradimento lo aveva compiuto la corte di Costantinopoli che sotto sotto aveva concluso un patto d'alleanza col re dei vandali. Il quale riprese l'offensiva, sbarcò in Italia e mise per la terza volta Roma a sacco. Ricimero accettò Olibrio come nuovo imperatore, ma ambedue morirono in quello stesso anno 472.

I vandali cercarono d'imporre sul trono Glicerio. Ma Costantinopoli non lo riconobbe, nominò al suo posto Giulio Nepote e, per metterlo al sicuro da Genserico, comprò da costui una pace disastrosa riconoscendogli la signoria non solo su tutta l'Africa, ma anche su Sicilia, Sardegna, Corsica e Baleari. L'anno dipoi il re dei visigoti, Eurico, in cambio della neutralità, ottenne la Spagna. Burgundi, alemanni e rugi si spartirono il resto delle Gallie. E l'Impero d'Occidente si ridusse alla sola Italia. Nepote diede al generale Oreste l'ordine di licenziare l'esercito che non poteva più mantenere. I barbari che lo componevano si ammutinarono, Oreste ne prese il comando, e Nepote fuggì per raggiungere in Dalmazia quel Glicerio ch'egli stesso vi aveva confinato dopo averne usurpato il trono.

Oreste proclamò sovrano suo figlio, Romolo Augusto. Una sorte ironica volle dare a questo ragazzo, destinato a essere l'ultimo imperatore di Roma, il nome del primo. Ma i soldati barbari, inebriati della vittoria, ora reclamarono terre nel cuore stesso della penisola, e chi voleva la pianura del Po, e chi l'Emilia, e chi la Toscana. Uno dei loro ufficiali, Odoacre, prese la testa della rivolta, attaccò Oreste a Pavia, lo sconfisse e lo uccise. Romolo Augusto, che poi la storia ha chiamato "Augustolo", cioè "Augusto il piccolo" per distinguerlo dal grande, venne deposto e confinato nel Castel dell'Uovo a Napoli con una ricca pensione. Odoacre rimandò all'imperatore d'Oriente, Zenone, le insegne dell'Impero, e dichiarò che d'ora in poi avrebbe governato l'Italia come suo luogotenente.

Stavolta era proprio finita: non soltanto di fatto, ma anche di nome. Le aquile erano volate via. Cominciava il Medio Evo.

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CAPITOLO DICIOTTESIMO

CONCLUSIONE

Qui finisce la nostra storia. Come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali interni. E il suo atto di decesso fu segnato non dalla deposizione di Romolo Augustolo, ma dalla adozione del Cristianesimo come religione ufficiale dello stato e dal trasferimento della capitale a Costantinopoli. Con questo duplice avvenimento comincia, per Roma, un altro capitolo.

La maggioranza degli studiosi sostiene che questa catastrofe fu provocata soprattutto da due fatti: il Cristianesimo e la pressione dei barbari che calavano dal Nord e dall'Oriente. Noi non lo crediamo. Il Cristianesimo non distrusse nulla. Si limitò a seppellire un cadavere: quello di una religione in cui ormai non credeva più nessuno, e a riempire il vuoto ch'essa lasciava. Una religione conta non in quanto costruisce dei templi e svolge certi riti; ma in quanto fornisce una regola morale di condotta. Il paganesimo questa regola l'aveva fornita. Ma quando Cristo nacque, essa era già in disuso, e gli uomini, consciamente o inconsciamente, ne aspettavano un'altra. Non fu il sorgere della nuova fede a provocare il declino di quella vecchia; anzi, il contrario. Tertulliano, che ci vedeva chiaro, lo scrisse apertamente. Per lui, tutto il mondo pagano era in liquidazione. E quanto prima lo si sotterrava, tanto meglio sarebbe stato per tutti.

Quanto ai nemici esterni, Roma era abituata da mille anni ad averne, a combatterli e a vincerli. I visigoti, i vandali e gli unni che si affacciavano alle Alpi non erano più feroci ed esperti guerrieri dei cimbri, dei teutoni e dei galli che Cesare e Mario avevano affrontato e distrutto. E nulla ci permette di credere che Attila fosse un generale più grande di Annibale, che vinse dieci battaglie contro i romani, eppoi perse la guerra. Solo, trovò a contendergli il passo un esercito romano composto esclusivamente di tedeschi, compresi gli ufficiali, perché Gallieno aveva proibito il servizio militare anche ai senatori. Roma era già occupata e presidiata da una milizia straniera. La cosiddetta "invasione" non fu che un cambio della guardia fra barbari.

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Ma anche la crisi militare non era che il risultato di una più complessa decadenza, innanzi tutto biologica. Essa era cominciata dalle classi alte di Roma (perché, come dicono a Napoli, "il pesce comincia a puzzare dalla testa") con l'allentamento dei vincoli familiari e il diffondersi delle pratiche malthusiane e abortive. La vecchia orgogliosa aristocrazia, ch'è stata forse la più grande classe dirigente che il mondo abbia visto, e che per secoli aveva dato l'esempio dell'integrità, del coraggio, del patriottismo, insomma del "carattere", dopo le guerre puniche, e più ancora dopo Cesare, cominciò a dar quello degli egoismi e del vizio. Le famiglie che la componevano fu-rono, sì, anche decimate dalle guerre, dove i loro rampolli cadevano generosamente, e dalle persecuzioni politiche, ma soprattutto si estinsero per penuria di figli. Grandi riformatori come Cesare e Vespasiano tentarono di rimpiazzarla con dinastie più solide di borghesi provinciali e campagnoli. Ma essi si corrompevano a loro volta, e la seconda generazione era già di "gagà" rammolliti che non finivano a Cinecittà, solo perché Cinecittà ancora non c'era.

Questo cattivo esempio fece presto a dilagare, e già al tempo di Tiberio furono previste sovvenzioni ai contadini per incoraggiarli a fare figli. Evidentemente, a parte la falcidia delle pestilenze e delle guerre, anche la campagna faceva del malthusianesimo e si spopolava. Pertinace offriva gratuitamente le fattorie abbandonate a chi s'impegnava a coltivarle. E in questo vuoto materiale, conseguenza di quello morale, s'infiltravano gli stranieri, specie d'Oriente, in dosi così massicce che Roma non fece in tempo ad assorbirli e a rifonderli in una nuova e vitale società. Questo processo di assimilazione funzionò fino a Cesare, che chiamò i galli a partecipare alla vita dell'Urbe, facendone dei cittadini, dei funzionari, degli ufficiali e perfino dei senatori. Ma esso diventò impossibile coi germani, molto più refrattari alla civiltà classica, e si risolse in una catastrofe con gli orientali che vi s'insinuarono, sì, ma per corromperla.

Di tutto questo, la conseguenza fu, sul piano politico, il dispotismo cui Tiberio diede l'avvio, e che solo in alcuni casi fu "illuminato". Ma è sciocco prenderlo a bersaglio della critica e addossargli le colpe della catastrofe. Il dispotismo è sempre un malanno. Ma ci sono delle situazioni che lo rendono necessario. Roma era in una di queste situazioni, quando Cesare lo instaurò. Bruto, che lo uccise, se non era un volgare ambizioso, era certamente un povero diavolo che credeva di guarire il gran malato eliminando non il ba-cillo, ma la febbre. Anche l'esperimento socialista e pianificatore di Diocleziano fu un malanno e non risolse nessun problema. Ma le circostanze lo imponevano come ultimo disperato rimedio.

A guardare le cose dall'alto e a voler dare loro una ragione, si può dire che Roma nacque con una missione, l'assolse, e con essa finì. Questa missione

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fu di raccogliere le civiltà che l'avevano preceduta, la greca, l'orientale, l'egiziana, la cartaginese, di fonderle e di diffonderle in tutta l'Europa e il bacino del Mediterraneo. Essa non inventò granché né nella filosofia, né nell'arte, né nella scienza. Ma fornì le strade alla loro circolazione, gli eserciti per difenderle, un formidabile complesso di leggi per garantirne lo sviluppo nell'ordine, e una lingua per renderle universali. Non inventò nemmeno delle forme politiche: monarchia e repubblica, aristocrazia e democrazia, liberalismo e dispotismo erano già stati sperimentati. Ma Roma ne fece dei modelli, e in ognuno di essi brillò per il suo genio pratico e organizzativo.

Abdicando con Costantino, essa consegnò la sua struttura amministrativa a Costantinopoli che ne visse per altri mille anni. E lo stesso Cristianesimo, per trionfare nel mondo, dovette farsi romano. Pietro aveva capito benissimo che solo infilando l'Appia, la Cassia, l'Aurelia, e tutte le altre vie costruite dagl'ingegneri romani, non le labili piste che menavano nel deserto, i missionari di Gesù avrebbero conquistato la terra. I suoi successori si chiamarono Sommi Pontefici come quelli che avevano presieduto alle faccende religiose dell'Urbe pagana. E contro l'austera regola ebraica, introdussero nella nuova liturgia molti elementi di quella pagana: lo sfarzo e la spettacolarità di certe cerimonie, la lingua latina, e perfino una venatura di politeismo nella venerazione dei santi.

Così, non più come centro politico di un Impero, ma come cervello direttivo della Cristianità, essa si apparecchiò a ridiventare caput mundi, e lo è rimasta fino alla Riforma protestante.

Mai città al mondo ebbe più meravigliosa avventura. La sua storia è talmente grande da far sembrare piccolissimi anche i giganteschi delitti di cui è disseminata. Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata, come nome e passato, alla modestia di un popolo che, quando grida:

« Forza Roma!», allude soltanto a una squadra di calcio.

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© 1959 Rizzoli Editore, Milano © 1994 RCS Libri S.p.A., Milano sulla collana storia d’italia © 2001 RCS Collezionabili S.p.A., Milano sulla presente edizione storia d’italia Pubblicazione periodica settimanale Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 197 del 9.4.1994 Direttore responsabile: Gianni Vallardi Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 00262 vol. III Foglio 489 del 20.9.1892

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CRONOLOGIA

EVENTI POLITICI E MILITARI

V sec. a.C. I Goti dalla Svezia passano in Germania e poi nella Scizia, sul Mar Nero.

/// sec. d.C. I Mongoli (Jong-Nu), respinti dalla Cina, si rivolgono ad Occidente. Settimio Severo ricaccia i Pitti, calati dalla Scozia contro il limes romano sotto Com-modo.

250 Sotto l'imperatore Decio i Goti attraversano il Danubio e penetrano nella Serbia. Decio è ucciso da loro nella battaglia di Filippopoli.

267 I Goti sacceggiano Atene.

268 Claudio II batte e distrugge l’esercito goto a Nisch, in Serbia.

313 Editto di Milano (Costantino) e libertà di culto ai cristiani.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

I o II sec. d.C. Sant'Apollinare, primo vescovo di Ravenna, fonda in quella città la chiesa cristiana. A lui sono dedicate le due celebri basiliche.

III-V secc. L' esercito romano è sostanzialmente costituito anche negli alti gradi da elementi barbarici; il gladius cede il posto alla lunga spa-tha; appaiono le picche e le corazze di ferro (catafratti); i municipi romani cominciano a fortificarsi indipendentemente con sistemi propri di difesa; si ricordano, sotto l'imperatore Gallieno (intorno al 250), due architetti, Cleodamo e Ateneo, incaricati di costruire mura intorno alle città danubiane. L'Italia conta non più di cinque milioni di abitanti.

IV sec. Il monaco Ulfila, ariano, diffonde il cristianesimo tra i Goti e traduce in goto il Nuovo Testamento e parte dell'antico. Si debbono a lui i caratteri gotici.

Quinto Aurelio Simmaco (morto nel 402), autore di una Orazione per la collocazione della statua della Vittoria in Senato.

315 I Sinodi di Roma e di Arles condannano l'eresia di Donato (donatismo) che sostiene che la chiesa è formata solo da santi e fa dipendere la validità dei sacramenti dalla santità del prete che li somministra.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

330 Costantino fonda Costantinopoli.

375-378 Valente imperatore: 378, battaglia di Adrianopoli e morte di Valente.

378-383 Graziano imperatore: 379, Teodosio viene nominato Augusto. Ostrogoti e Visigoti sono accolti entro i confini dell'impero. 380, editto di Tessalonica contro gli Ariani. Morte di Atanarico, re degli Ostrogoti. 383, rivolta di Massimo e morte dell'imperatore Graziano.

383-392 Valentiniano II imperatore, sotto la tutela della madre Giustina. 388, Giustina fugge a Costantinopoli presso Teodosio, cui da in moglie la figlia Galla. Massimo è battuto e ucciso ad Aquileia da Teodosio. 390, Ambrogio, vescovo di Milano, interdice a Teodosio l'ingresso in chiesa dopo la strage di Tessalonica (Salonicco).

392 Valentiniano è ucciso da Arbogaste, un franco, che mette al suo posto il romano Eugenio (392-394). Restaurazione momen-tanea del paganesimo.

394 Battaglia sul Frigido (l'Isonzo) e vittoria di Teodosio contro Arbogaste ed Eugenio.

394-395 Teodosio unico imperatore. Morendo, divide l'impero tra i due figli: lascia l'Oriente ad Arcadio, sotto la tutela di Ruffino, e l'Occidente a Onorio, sotto la tutela di Stilicene.

395 I Visigoti eleggono re Alarico che invade la Grecia. Arcadio lo nomina governatore dell'Illiria. In quello stesso anno, sulle rive del Danubio, appaiono i primi Mongoli.

400 I Visigoti di Alarico si affacciano all'Italia. Stilicene console.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

325 Concilio di Nicea.

Eunapio (347-420), storico greco, scrisse una perduta Storia dei Cesari e Vite di sofisti.

Paolino di Fella (370-460), poeta in latino, autore del poemetto Eucharisticos.

Aurelio Prudenzio (tra il IV e il V sec.), poeta, lasciò quattordici inni sotto il titolo Le corone, dove canta martiri cristiani delle ultime persecuzioni.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

405 Cala in Italia Radagaiso (ostrogoto?), disfatto da Stilicone a Fiesole.

408 Muore Arcadio e gli succede in Oriente Teodosio II, sotto la tutela della madre Eudossia. In Italia muore Silicone.

Alarico devasta l'Italia settentrionale e assedia Roma, mentre Onorio è chiuso in Ravenna. Papa Innocenze I permette i riti pagani.

409 I Romani assediati si ribellano a Onorio e nominano imperatore Attalo.

410 Alarico saccheggia Roma; Attalo è deposto. Alarico si dirige verso il sud, ma muore a Cosenza; nomina successore il fratello Ataulfo. Dal sacco di Roma, i Visigoti hanno portato con loro prigioniera Galla Placidia, figlia di Teodosio e quindi sorellastra di Onorio.

414 Ataulfo sposa a Narbona Galla Placidia; l'anno dopo viene assassinato.

415 Galla Placidia è restituita a Onorio e i Visigoti lasciano l'Italia per stabilirsi a cavallo dei Pirenei (regno di Tolosa, 419-507).

418 Galla Placidia sposa Costanzo, generale di Onorio : hanno una figlia, Onoria, e un figlio, Valentiniano.

421 Morte di Costanzo.

425 Morte di Onorio. Sale al trono il figlio di Galla Placidia, Valentiniano III, sotto la tute-la della madre.

427 Bonifacio, già nominato da Galla Placi-dia conte d'Africa due anni prima, per rivalità con Ezio, chiama i Vandali dalla Spagna in Africa.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

404 Onorio pone fine a Roma ai giochi del circo.

Paolo Orosio (tra il IV e il V sec.), lasciò sette libri di Storie contro i pagani, dalla creazione del mondo fino al 417.

Salviano di Marsiglia (V sec.), lasciò lettere e trattati, tra cui Il governo di Dio, in otto libri.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

432 Bonifacio ed Ezio si battono. Morte di Bonifacio.

435 Genserico fa la pace con Valentiniano e organizza in Africa un rigoroso sistema feudale.

443 Fondazione sul Rodano del Regno dei Burgundi (443-534).

444 Attila unico re degli Unni alla morte di Bleda.

447 Attila giunge fin sotto Costantinopoli.

450 Muore a Costantinopoli l'imperatore Teodosio II; gli succede la sorella Pulcheria, moglie di Marciano. Il 27 novembre muore a Roma Galla Placidia.

451 Attila invade il Belgio e la Germania; è battuto da "Ezio ai Campi Catalaunici.

452 Attila cala in Italia nel Veneto, distrugge Aquileia. Incontra sul Mincio papa Leone I. Poco dopo muore. I profughi di Aquileia fondano Venezia.

454 Valentiniano uccide Ezio.

455 Uccisione di Valentiniano III (lascia la vedova Eudossia). Petronio Massimo imperatore. Eudossia chiama in Italia Genserico e i suoi Vandali d'Africa. Petronio Massimo muore. Roma è saccheggiata. Avito imperatore.

456 Nuovo tentativo dei Vandali contro Roma; vengono dispersi in mare da Rici-mero, che assume il titolo di patrizio.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

431 Concilio di Efeso, dove viene condannata la dottrina di Nestorio, patriarca di Costantinopoli (428-431), che sosteneva la separazione in Cristo della natura divina da quella umana.

451 Concilio ecumenico IV di Calcedonia, con la condanna degli Eutichiani e la conferma in Cristo delle due nature.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

457-460 Maggioriano imperatore. È posto sul trono e deposto da Ricimero.

461-465 Libio Severo, anche esso creatura di Ricimero, imperatore.

465-466 L'impero resta per due anni vacante.

467-472 Antemio imperatore.

472 Ricimero incorona Olibrio. Morte di Ricimero.

473-474 Glicerio imperatore.

474-475 Giulio Nepote imperatore.

475 Oreste depone Giulio Nepote e nomina imperatore il figlio Romolo Augustolo.

476 Odoacre cala con gli Eruli in Italia, uccide Oreste e depone Romolo Augustolo. Quindi invia a Costantinopoli le insegne dell'Impero e regna in Italia (fino al 493) col titolo di patrizio. Termina così la serie degli imperatori romani d'Occidente.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

Sidonio Apollinare (430-487), scrittore in latino di Lione. Lasciò nove libri di Lettere.

Prisco (V sec.), storico greco, restano importanti frammenti della sua Storia bizantina, in otto libri, sulle vicende degli Unni.

Zosimo (tra il V e il VI sec.), storico greco bizantino, lasciò una Storia contemporaneain sei libri giunta completa.

Procopio di Cesarea (fine del V sec. - 565), storico greco bizantino, scrisse una Storia delle guerre (quelle contro i Parti, i Vandali e i Goti) e una Storia segreta (su Giustiniano).

Giordane (VI sec.), storico latino, tra il 550 e il 560 scrisse una Storia dei Goti, riassunto della perduta Storia dei Goti di Cassiodoro.

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SOMMARIO

Cronologia

Capitolo Primo Gli Unni alle viste

Capitolo Secondo II "limes" e il suo esercito

Capitolo Terzo I barbari

Capitolo Quarto Teodosio

Capitolo Quinto Stilicone

Capitolo Sesto Roma,A.D.4lO

Capitolo Settimo Galla Placidia

Capitolo Ottavo Gli intrighi di Ravenna

Capitolo Nono Attila

Capitolo Decimo La fine del "flagello"

Capitolo Undicesimo Genserico

Capitolo Dodicesimo Ricimero e Odoacre

Capitolo Tredicesimo L'ultima Roma imperiale

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CAPITOLO PRIMO

GLI UNNI ALLE VISTE

LA STORIA d'Europa comincia in Cina. In questo remoto e sconosciuto Paese si era costituito un Impero che,

come quello Romano in Occidente e pressappoco negli stessi secoli, aveva unificato l'Oriente; eppoi, decadendo, si era trovato esposto alla medesima insidia: quella dei barbari in agguato alle sue frontiere. La sola differenza era questa: che su Roma la minaccia incombeva da Est; sulla Cina, da Ovest.

Contro queste nomadi e selvatiche popolazioni scorrazzanti dal Don alla Mongolia nelle steppe dell'Asia Centrale, gl'Imperatori cinesi avevano elevato la "grande muraglia", come quelli romani avevano elevato il limes. Ma le muraglie reggono finché a presidiarle c'è un esercito valido. Da sole, servono a poco. Verso la fine del III secolo, l'esercito cinese somigliava a quello francese del 1940, e la grande muraglia diventò un ostacolo da concorso ippico per gli spericolati cavalieri mongoli che la presero d'assalto. Gli storici cinesi chiamarono Jong-Nu questi indisciplinati e temerari saccheggiatori che entrarono nel loro Paese e lo misero a soqquadro, distruggendovi tutto senza costruire nulla, finché ne furono cacciati da altri barbari. Costoro si chiamavano Juan-Juan, che piano piano riunificarono la Cina e ne respinsero oltre la muraglia tutti gl'invasori.

Per gli Jong-Nu, condannati al nomadismo dal fatto di non aver nessuna nozione di agricoltura, non c'era quindi altra scelta che ritentare a Ovest l'impresa fallita ad Est. Grandi muraglie da sormontare in questa direzione non ce n'era, eserciti da battere nemmeno. Dalla Mongolia, loro culla, fino all'Elba e al Danubio, non si stendevano che steppe e pianure, abitate da sparse tribù germaniche di pastori. Verso la metà del quarto secolo la grande alluvione cominciò.

In Occidente, gli Jong-Nu si erano già visti circa due secoli e mezzo prima ed erano stati chiamati Unni. Ma ne erano giunti solo pochi e slegati gruppi, che sul Don incontrarono gli Alani, e non riuscirono a venirne a

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capo. Forse a Roma non lo si seppe nemmeno. A quei tempi gl'Imperatori e il Senato si preoccupavano poco di ciò che avveniva oltre il limes, che isolava il mondo incivilito dal mare di barbarie che lo circondava.

Ma nel 395 cominciarono a spargersi voci allarmanti. Un ufficiale dell'armata imperiale di guarnigione in Tracia, Ammiano Marcellino, rac-contò la terrificante apparizione, sulle rive del Danubio, di certi uomini "piccoli e tozzi, imberbi come eunuchi, con orribili volti in cui i tratti umani sono appena riconoscibili. Piuttosto che uomini, si direbbero bestie a due zampe. Portano una casacca di tela con guarnizione di gatto selvatico e pelli di capra intorno alle gambe. E sembrano incollati ai loro cavalli. Vi man-giano, vi bevono, vi dormono reclinati sulle criniere, vi trattano i loro affari, vi prendono le loro deliberazioni. Vi fanno perfino cucina, perché invece di cuocere la carne di cui si nutrono, si limitano a intiepidirla tenendola fra la coscia e la groppa del quadrupede. Non coltivano i campi e non conoscono la casa. Scendono da cavallo solo per andare a trovare le loro donne e i bambini, che seguono sui carri la loro errabonda vita di razziatori".

Essi non minacciarono subito e direttamente l'Impero. Si fermarono sul limes, occupando soltanto un angolo di Pannonia, l'attuale Ungheria. Il loro Re, Rua, si dichiarò pronto a fermarsi lì, se l'Imperatore di Costantinopoli s'impegnava a versargli, anno per anno, trecentocinquanta libbre d'oro, e quello d'Occidente, cui la Pannonia apparteneva, gli riconosceva la sovranità su quel cantuccio di terra. Forse Rua fu sorpreso di vedere prontamente accolte quelle richieste. Via via che si appressava al limes nella sua travolgente cavalcata, doveva aver sentito magnificare dalle popolazioni germaniche con cui era venuto in contatto e che aveva sottomesso, la potenza dell'Impero romano e delle sue legioni.

Prima di affrontarlo, volle vedere un po' più da vicino, da quel comodo posto di osservazione, di cosa si trattava.

A prima vista, questo Impero sembrava solido e compatto come ai tempi di Augusto. Una rete di magnifiche strade collegava le raggelate frontiere della Scozia ai deserti dell'Arabia, e su di esse si svolgeva un serrato traffico, quale il mondo non aveva mai prima di allora conosciuto. Le province occidentali fornivano derrate agricole e materie prime a quelle orientali che le lavoravano nelle loro fiorenti industrie. Erano vino e olio di Provenza, minerali di Spagna, cuoio, lana e legno di Gallia, che salpavano verso Damasco, Antiochia e Alessandria per tornare sotto forma di tessuti, tappeti, profumi, cosmetici, vetrerie, armi e utensili domestici. Lo smistamento di questi prodotti, cioè il commercio, era quasi tutto in mano ai Siriani, che furono un po' i "magliari" del tempo, e a piccoli gruppi, molto ben collegati fra loro, avevano invaso l'Occidente. I Greci e gli Egiziani fornivano invece il nerbo della intellighenzia e delle professioni liberali.

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Col tempo, questa divisione di compiti fra Est e Ovest si era un po' alterata, nel senso che anche l'Occidente aveva cominciato a sviluppare una propria industria. Erano i grandi latifondisti, specie nel Mezzogiorno della Francia e nella valle del Reno, che, avendo accumulato grosse ricchezze, pensarono d'investirle in manifatture.

L'intensità dei traffici e l'unità della moneta basata sul denario d'oro che godeva lo stesso credito dappertutto dal Portogallo alla Crimea, avevano potentemente contribuito al livellamento delle varie province. Come vi era uniforme la legge romana, così vi stavano diventando pressappoco uguali gli usi e i costumi. In molti paesi, la lingua indigena, o meglio il dialetto, era scomparso anche nell'uso quotidiano per lasciare il posto al latino in Occidente e al greco in Oriente. Il centralismo romano aveva trionfato delle resistenze locali. E Caracalla, concedendo nel 212 la piena cittadinanza a quasi tutti gli abitanti dell'Impero, non aveva regalato nulla; aveva soltanto riconosciuto una situazione di fatto.

Quanti erano questi abitanti? Un censimento preciso non lo si ha. Ma da varie testimonianze sembra di poter dedurre una cifra sorprendentemente bassa: non più di centoventi milioni, disugualmente distribuiti, perché l'Oriente era sovrappopolato rispetto all'Occidente. In Italia non ce n'era più di sei milioni, il che la riduceva quasi a un deserto anche perché la maggior parte erano addensati nelle città: le campagne erano vuote. E questi sei milioni d'italiani non godevano più di nessun privilegio, da quando era stato abolito lo statuto di "provinciale" e il cittadino di Aquisgrana era stato parificato nei diritti e nei doveri a quello di Cremona che era già parificato a quello di Roma.

Ma se questo era il panorama visto di lontano, a osservarlo più da vicino come ora poteva fare Attila, venuto ad acquartierarsi in un angolo del suo confine, le prospettive cambiavano parecchio.

Ai primi del quarto secolo, Costantino, Imperatore di sangue illirico, aveva introdotto due innovazioni sensazionali: il riconoscimento del Cristianesimo come religione di Stato e il trasferimento della capitale a Bisanzio.

Niente lascia credere che la prima di queste due decisioni gli sia stata suggerita dalla Fede. Se ne avesse avuta, egli non si sarebbe comportato nella sua vita privata come si comportò, uccidendo senza nessuna pietà cristiana non soltanto i nemici, ma anche i familiari, ogni volta che gli tornava comodo farlo. Egli stesso rimase pagano per tutta la vita, e il battesimo si decise a prenderlo soltanto alla vigilia della morte. La sua nuova politica religiosa fu quindi dettata unicamente dalla "ragion di Stato", ma questa ragione non va ricercata nel fatto che la maggioranza dei suoi sudditi fosse ormai cristiana. Al contrario. La maggioranza era ancora

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schiacciantemente pagana, specialmente nelle province occidentali, dove il rapporto fra pagani e cristiani era, al minimo, di cinque a uno. Senonché quell'uno nel suo Dio ci credeva, e per Lui aveva dimostrato di essere pronto ad affrontare anche il martirio; i cinque nei loro dèi avevano smesso di credere da un pezzo, e quindi erano del tutto indifferenti ai problemi del culto.

La scelta di Costantino fu unicamente dettata da questa costatazione. Ma essa non riuscì a restaurare nell'Impero una unità religiosa. Per quanto scettici, i pagani non potevano non risentire con una certa amarezza la loro progressiva estromissione dallo Stato. E questo spiega i tentativi di restaurazione dell'antica Fede, che culminarono con Giuliano l'Apostata. Essi non potevano trionfare perché sullo scetticismo non si costruisce nulla. Ma la vecchia unità spirituale era rotta, come si stava sempre più rompendo quella politica.

Dacché infatti Costantino vi aveva inaugurato nel 330 la nuova capitale, Costantinopoli si era sviluppata a spese di Roma e di tutto l'Occidente. Commercialmente, era meglio situata. Verso di essa veniva convogliato il grano dell'Egitto, che una volta prendeva la via dell'Italia. E la presenza dell'Imperatore favoriva l'accentramento di un vasto sistema militare e am-ministrativo, che si chiamava "romano", ma in realtà non lo era più.

È vero che ancora prima di trasportare la loro sede in Oriente, gl'Imperatori avevano cessato da un pezzo di farsi eleggere dal Senato e acclamare dal popolo, come aveva voluto Augusto. Piano piano, il potere si era tramutato, come dice Mommsen, in una “autocrazia temperata dal diritto al regicidio". La volontà popolare non c'entrava più. Era di solito qualche generale che, alla testa della sua armata, si ribellava. E se il colpo falliva, egli era un ribelle e veniva trattato come tale. Se riusciva, diventava il legittimo sovrano, e come tale veniva osannato. Ma è certo che il trasferimento a Costantinopoli, mettendo la Corte a più vicino contatto delle satrapie orientali, favorì e affrettò questa corsa al dispotismo.

La centralizzazione tocca, ora il suo apogeo. Tutte le redini del Governo sono in mano al Sovrano, che riceve direttamente da Dio il suo potere e lo amministra senza consultare nessuno. Un diadema di perle gli orna la fronte. Chiunque lo avvicini è tenuto a baciargli le pantofole di porpora. Il palazzo in cui abita è chiamato "sacro" in tutti i documenti ufficiali. I personaggi più importanti della sua reggia, di cui un'etichetta sempre più severa e minuziosa rende sempre più difficile l'accesso, sono diventati le donne e gli eunuchi. Eunuco è anche il Gran Ciambellano o "Preposto del sacro cubiculo".

La posizione di protettore della Chiesa che Costantino ormai gli ha dato, attribuisce all'Imperatore anche i poteri del Papa. Il Patriarca non è che il

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suo Ministro per gli affari del culto e riceve gli ordini da lui, che presiede anche i Concili imponendo la propria volontà perfino nelle questioni di dogma. Le finanze dell'Impero si confondono con quelle personali dell'Im-peratore. La sua parola è legge, e non c'è altra legge che la sua parola. Assorbito da questi immensi compiti burocratici, egli diventa sempre più, come dicono gli spagnoli, hombre de cabinete, perde contatto con la realtà, soprattutto con quella dell'esercito dislocato sugli immensi e lontanissimi confini, e affidato ai magistri militum, cioè a Generalissimi, di cui si paventa il ritorno nella capitale, dove potrebbero defenestrare il Sovrano in carica, per istallarsi al suo posto.

No, la "nuova Roma", come si è chiamata dapprincipio Costantinopoli, non somiglia molto a quella vecchia, anche se ne porta il nome. Perfino la lingua non è più la medesima: il greco ha sostituito il latino. E gl'Imperatori, sempre più sedentari e casalinghi, non si scomodano nemmeno a rendere una visita, sia pure di omaggio formale, all'Urbe gloriosa e decaduta. In cento anni, si lamenta il poeta del quinto secolo Claudiano, tre soli ci hanno fatto capolino. Oramai, anche se vengono in Occidente, si fermano a Milano oppure a Ravenna, che son diventate una dopo l'altra le capitali militari di un'Europa che sempre più se ne va per conto suo.

Sulla carta e nella convenzione giuridica, l'Impero è considerato ancora uno e indivisibile. Ma di fatto i suoi due tronconi vivono d'ora in poi due vite indipendenti. Essi hanno in comune soltanto l'immenso limes che li isola, o che dovrebbe isolarli, dal mondo barbarico che li circonda, e l'esercito che vi monta la guardia.

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CAPITOLO SECONDO

IL "LIMES" E IL SUO ESERCITO

AUGUSTO, per dare una unità difensiva al suo Impero, era andato alla ricerca delle cosiddette "frontiere naturali", e le aveva trovate soprattutto in tre grandi fiumi: l'Eufrate, il Danubio e il Reno. Ma nei punti in cui si era dovuto varcarli per annettere e presidiare qualche zona al di là, si era costruito un limes, cioè un confine fortificato.

Basta considerare l'estensione di questo Impero euro-asiatico-africano, per rendersi conto che doveva trattarsi di un'opera gigantesca. E infatti non fu decisa né realizzata da un uomo solo, e nemmeno da due o da tre. Fu il risultato del lavoro di molte generazioni, e non fu mai portata a compimento perché ogni poco, per esigenze di guerra o ragioni di sicurezza, il limes doveva essere spostato, e bisognava ricominciare tutto daccapo.

Nato non da un "piano" dello Stato Maggiore, ma dalle necessità tattiche e strategiche delle singoli guarnigioni, esso non era dappertutto il medesimo. Ma certi criteri fondamentali li seguiva dovunque. C'erano anzitutto degli avamposti, muniti di fossati, di bastioni di terra battuta, di palizzate e di torrette di osservazione. Poi venivano gli accampamenti, che non erano più di tende, come quando le legioni erano state all'offensiva e animate da uno spirito di conquista, ma di pietra e di calcina: cioè si stavano lentamente trasformando in veri e propri villaggi, sia pure soltanto militari. Molto più indietro c'erano i grandi accantonamenti, dove bivaccava il grosso delle varie armate, pronte ad accorrere sul punto minacciato del limes.

Al momento in cui Adriano perfezionò questo sistema col famoso "vallo" che doveva proteggere l'Inghilterra romanizzata dalle bellicose tribù scozzesi, il limes era ancora organizzato più per la sorveglianza che per la difesa. C'erano dei posti di guardia, c'erano delle caverne; ma non c'erano dei fortilizi veri e propri predisposti per lunghi assedi. Tutto era calcolato per garantire un certo margine di sicurezza a un esercito in sosta, ma di cui si supponeva che avrebbe ripreso la marcia in avanti. Fu quando alla marcia definitivamente si rinunciò, che i fortilizi si trasformarono pian piano in

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cittadelle e le cittadelle in burgi, in borghi. E questa trasformazione, lenta e sincopata da momentanee riprese di programmi offensivi, ma continua, era il sintomo dell'arteriosclerosi di un Impero che si faceva sempre più conservatore e sedentario.

Infatti il limes, proprio come la sua quasi coetanea Grande Muraglia e tutte le altre Maginot di tutti i tempi, dimostrò subito la propria ina-deguatezza al compito. Al tempo di Commodo, i Pitti, calati dalla Scozia, lo scardinarono. Erano dei barbari che la civiltà non aveva ancora nemmeno scalfito. Cacciatori nomadi senza il più piccolo rudimento di agricoltura, mangiavano ancora la carne cruda, tenevano in comune le donne, e combattevano nudi, cioè coperti soltanto di mostruosi tatuaggi che riproducevano belve feroci. Ci volle la spietata energia di Settimio Severo per infliggergli un castigo. Ma il vallo era in rovina. E si era appena ai primi del terzo secolo.

Pochi anni dopo erano i Franchi e gli Alemanni che aprivano una falla sul Reno e devastavano settanta città della Gallia. Le orde gotiche lo sfondavano sul Danubio. Ma è inutile cercar di seguire cronologicamente le violazioni che si susseguivano. Quello che importa è segnalare le conseguenze che tutto questo comportò.

La "fortificazione", prima che un'opera d'ingegneria militare, è uno stato d'animo che nemmeno la prova provata della sua inadeguatezza riesce a distruggere. Un popolo reso conservatore dal benessere, e cittadino e sedentario dalla civiltà, comincia ad accarezzare il sogno della sicurezza, e per realizzarlo, non potendosi più affidare alle proprie virtù militari, si affida alla Tecnica. Più frequenti si facevano i raids dei barbari, più larghe le brecce nel limes, e più nei romani si sviluppava il mal della pietra per tappare i buchi. Senonché, siccome era ormai chiaro che nemmeno il limes meglio fortificato poteva reggere, a quello di frontiera cominciarono ad aggiungersi quelli dell'interno, ogni città mirando a costruirsi il proprio e a provvedere a se stessa.

Gli architetti diventarono i professionisti più ricercati e i personaggi più importanti di quel periodo. L'imperatore Gallieno colmò di favori e di quattrini Cleodamo e Ateneo cui aveva commissionato le mura di cinta delle città danubiane particolarmente minacciate. Nei consigli municipali dei vari centri urbani, grandi e piccoli, l'assessorato all'edilizia era la carica più importante e ambita anche perché era quella che aveva più fondi a disposizione. Verona, porta settentrionale della Penisola, proprio in questo momento sviluppò i suoi splendidi bastioni. E le mura esterne di Strasburgo nacquero prima della città che si sviluppò dentro di esse, come dentro una culla, in un'isola fortificata del fiume Ill. Roma stessa cominciò a fortificarsi. E furono le corporazioni urbane che fornirono la manodopera.

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Questo genere di edilizia provocò un fenomeno nuovo: l'autonomismo delle varie città. Nel nome e nella legge di Roma, quando Roma era forte, cioè fino a dopo tutto il secondo secolo dopo Cristo, i particolarismi cittadini o non erano insorti, o erano stati debellati. L'Impero aveva impedito la formazione di quelle città-Stato che, chiuse in se stesse e incapaci di formare una nazione, erano state la disgrazia della Grecia. Non si era cittadini di Napoli o di Firenze, o di Marsiglia o di Magonza. Si era cittadini romani, e basta. Come non avevano mura perché le legioni bastavano a difenderle e davano a tutti la sicurezza, così queste città non avevano autonomia né politica, né amministrativa, né spirituale. Vi si osservava la stessa legge, vi si parlava la stessa lingua, vi si andava fieri dello stesso Stato. Le fortificazioni che cominciarono a circondarle per ragioni di autodifesa furono insieme la plastica prova della rottura di questa unità e una delle cause fondamentali che la determinarono. Il limes cominciava a spezzettarsi in limites. E dentro di essi si sviluppavano dei mondi sempre più indipendenti l'uno dall'altro.

A questa evoluzione si aggiunse, favorendola, quella dell'esercito, che vi diede un apporto decisivo. Come struttura, esso conservava ancora quella che, con le loro riforme, gli avevano dato Diocleziano e Costantino. Essi avevano separato una volta per sempre la carriera civile da quella militare che un tempo erano confuse in una sola. Nella Roma repubblicana e anche in quella augustea coloro che ricoprivano cariche politiche e amministrative in tempo di pace erano anche coloro che in tempo di guerra ricoprivano i gradi militari. L'edile, il pretore, il questore, il console diventavano, in caso di mobilitazione, capitani, maggiori, colonnelli, generali. Ed era naturale perché l'esercito era composto unicamente di cittadini, e ogni cittadino era un soldato che, fin quando non lo richiamavano alle armi, si considerava in congedo provvisorio.

Ma ai tempi di Diocleziano e Costantino le cose erano cambiate, anzi si erano capovolte. Il cittadino non era più soldato, e non voleva farlo. Categorie sempre più numerose e più larghe erano state esentate dal servizio militare, e l'esercito ormai si riforniva quasi esclusivamente di barbari. "Sono partiti coi barbari" dicevano le mamme dei loro figli richiamati in servizio militare. E la cinquina si chiamava "fisco barbarico".

Era naturale che, se il cittadino non coincideva più col soldato, nemmeno l'ufficiale potesse coincidere più col funzionario. E quindi la separazione delle due carriere l'avevano già imposta i fatti. Ma i due Imperatori, di sangue barbaro anch'essi, non si fermarono a questa riforma, già di per sé molto grave perché praticamente metteva gl'imbelli e disarmati cittadini dell'Impero sotto la protezione di una milizia straniera. Essi anche divisero l'esercito in una "armata di campagna" (comitatenses) e in un "corpo

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territoriale" o di guarnigioni di frontiera (limitanei). Queste ultime, godendo di una quasi assoluta inamovibilità, avevano

messo radici sul posto, vi avevano ricevuto terre, i soldati si erano sposati con ragazze indigene, erano diventati a loro volta piccoli coltivatori diretti, e oramai costituivano una specie di milizia contadina, che dal punto di vista militare non valeva granché. Ma così si era venuta a formare proprio a ridosso del limes una specie dì "terra di nessuno", abitata da una strana popolazione che, a furia di matrimoni misti, non si sapeva più cosa fosse. Quella che avrebbe dovuto essere la "cortina di ferro" dell'Impero, la sua "Grande Muraglia" era in realtà una zona d'incontro fra barbari e romani. E perfino la lingua che vi si parlava era qualcosa di mezzo fra il barbaro e il romano, un dialetto mescolato di latino e di tedesco.

Dietro, l'armata di campagna non era in condizioni diverse. Essa aveva attinto alla grande esperienza romana i criteri strategici e tattici, il culto della disciplina e la ripartizione in legioni. Ma tutto il resto era cambiato, perché erano cambiati gli uomini che la componevano, tutti di razza germanica. Essi non somigliavano più in nulla all'antico legionario di Roma, tozzo e bruno, con la corazza e lo scudo rettangolare. Il corto gladius aveva ceduto il posto alla lunga spatha, e già apparivano le picche che di lì a poco si sarebbero tramutate in lance. La cavalleria era enormemente cresciuta a spese della fanteria, e aveva adottato come arma d'offesa l'arco ricopiato sul modello dei Parti, e come mezzo di difesa il catafratto, cioè la corazza di maglie di ferro.

Essa ricopre ora uomini di ben diverso aspetto, alti e biondi, con occhi azzurri in cui si alternano espressioni di innocenza e di ferocia. Il loro grido di guerra si chiama "barrito" come quello dell'elefante, e gli somiglia per la sua violenza. Invece del gagliardetto, hanno per vessillo un dragone gonfio d'aria e fissato in cima a una picca. Sono bei soldati, che uccidono e muoiono con la stessa facilità. Ma è difficile maneggiarli perché si rifiutano alla manovra. Se un avversario li provoca, escono dai ranghi per andare ad affrontarlo di propria iniziativa, e non rispettano altro legame di fedeltà che quello verso il loro capo. L'idea di patria, di Impero, di Stato, di disciplina e di regolamento è loro del tutto estranea. Hanno insomma i caratteri tipici del mercenario. E infatti si considerano una milizia personale del loro comandante, il quale a sua volta li considera un suo personale comitatus, come lo sono stati fino all'ultima guerra i comitagi jugoslavi che ne derivano. Molti fra gli stessi Generali non sapevano il latino. Andavano vestiti secondo la loro foggia barbarica, le gambe fasciate di pelli, la testa incappucciata di corna.

Erano cittadini romani, da quando Caracalla aveva reso tali tutti gli abitanti dell'Impero. Ma venivano da province di fresca conquista,

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balcaniche e tedesche, che non avevano ancora assorbito la civiltà romana. La mancanza di cultura impediva loro qualunque "carriera" civile. Era solo attraverso quella militare che potevano farsi largo, e già nel terzo secolo l'avevano completamente monopolizzata.

Le cosiddette "invasioni barbariche" furono dunque, prima che un fenomeno esterno, un fenomeno interno, che si compì attraverso l'esercito.

Ora quest'esercito, cui era affidata la difesa del limes, si trovava a proteggerne l'integrità contro popolazioni di cui si sentiva consanguineo e di cui conosceva la lingua, le idee e i sentimenti meglio di quanto non conoscesse la lingua, le idee e i sentimenti romani. Non si può dire che patteggiasse regolarmente col nemico. Ma molto spesso s'intendeva con esso in modo da renderlo amico. La "cortina di ferro" non era sempre tale per quelli che ne stavano al di là. Molti l'attraversavano più o meno clandestinamente, si presentavano agli accampamenti romani e, trovandoli pieni di parenti, chiedevano di essere arruolati. I Generali dell'Impero li accoglievano volentieri perché non avevano molta disponibilità di uomini e, indipendenti com'erano dal Governo centrale, potevano praticamente fare quel che volevano. Così l'esercito di Roma sempre più diventava di sangue tedesco.

Sulla fine del terzo secolo, questa pacifica osmosi, da individuale, si trasformò in collettiva. Alcune tribù germaniche al di là del limes, ormai convertite all'agricoltura, chiesero in blocco di essere ammesse in Gallia, cioè in Francia. E le autorità imperiali diedero loro da bonificare alcune terre abbandonate. Essi conservavano i loro usi, la loro lingua, e una certa autonomia amministrativa. Ma politicamente dipendevano da un Prefetto romano, cui pagavano le tasse e fornivano un contingente di reclute. L'esperimento riuscì.

A distanza di secoli, molti storici hanno creduto di vedere in questo processo un vasto e abile piano, da parte di Roma, per assorbire e incivilire i barbari. Ma son ragionamenti suggeriti dal senno di poi. La verità è che gl'Imperatori lo accettavano perché nella maggioranza dei casi non potevano far altro. Tuttavia questa politica di appeasement e di assorbimento aveva il vantaggio di legittimare in maniera decente l'inevitabile, lasciando intatta, almeno formalmente, la sovranità imperiale che i barbari, varcando il limes, riconoscevano, anche se poi ogni tanto con le loro ribellioni la violavano. Ed è probabile che col tempo questa integrazione si sarebbe realizzata e che il mondo barbarico si sarebbe pacificamente inquadrato nelle complesse e civili strutture di Roma, se gli Unni non si fossero mossi dalla loro Mongolia o, una volta penetrati in Cina, vi fossero rimasti. Il loro avvento in Europa sconvolse ogni cosa rendendo febbrile, tumultuosa e distruttrice l'alluvione barbarica al di qua del limes.

Ma chi erano, e cos'erano, questi "barbari"?

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CAPITOLO TERZO

I BARBARI

I PRIMI scrittori romani che ebbero qualche dimestichezza coi barbari, li descrissero, con un misto di stupore, di ammirazione e d'ironia, come dei ragazzoni troppo cresciuti, d'occhi chiari e di capelli biondi, che mangiavano insieme, bevevano insieme, dormivano insieme davanti ai fuochi del bivacco, s'intenerivano per un nonnulla, e per un innocente scherzo impegnavano duelli dai quali era manna se uno dei due contendenti usciva vivo, perché di solito ci morivano entrambi.

Il loro punto di partenza, ricostruito attraverso incerte leggende tramandate oralmente, sembra che siano stati la Scandinavia e i territori fra l'Elba e l'Oder. Lì, sulle vette delle colline e nelle radure delle foreste, avevano impiantato dei villaggi di capanne effimeri come accampamenti. Non ci restavano mai a lungo perché, siccome vivevano quasi esclusivamente di caccia, una volta esaurita la selvaggina in una zona, emigravano. La loro organizzazione era primitiva, e basata su esigenze soprattutto militari. Il nucleo fondamentale era il gau, che Hitler ritirò fuori duemil'anni dopo, gruppo di famiglie che forniva da 1000 a 1500 guerrieri, soprattutto a cavallo. I gau erano molto indipendenti l'uno dall'altro. Solo in circostanze eccezionali si riunivano nel thing o mallus, specie di assemblea plenaria, per decidere per esempio l'elezione di un nuovo Re, la pace o la guerra.

A differenza del Romano, ch'era sempre un "cittadino", e in qualunque occasione si sentiva parte di qualcosa, la società o lo Stato, il barbaro era soltanto un "individuo" gelosissimo della propria assoluta indipendenza. Egli non riconosceva altro vincolo che quello della parola liberamente data. Il suo patriottismo era la fedeltà giurata al Signore liberamente eletto e a cui si sentiva legato da un vincolo puramente personale. Di qui l'incomprensione fra loro e i latini, che avevano della lealtà un concetto tutto diverso. A parte Cesare e Tacito, dotati di un fiuto troppo fino per fraintendere e sottovalutare il senso dell'onore germanico, tutti gli storici e i

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memorialisti romani non fanno che denunziare la perfidia e la propensione al tradimento dei barbari. È vero, nei rapporti da Stato a Stato. Ma è falsissimo, nei rapporti da persona a persona.

Non si muovevano a masse numerose e compatte. Le cosiddette "alluvioni barbariche" di cui si è tanto farneticato erano carovane composte fino ai centoventimila individui, ma più spesso di trenta o quarantamila, di cui i guerrieri costituivano appena un quinto. Era un mondo fluido ed equestre. A cavallo, gli uomini precedevano e seguivano i carri, dentro cui si ammassavano le donne, i vecchi e i bambini. Questi carri, la notte e durante le battaglie, venivano disposti in un cerchio, al riparo del quale si dormiva e ci si difendeva.

Il trattamento dei popoli che, in questi continui spostamenti, venivano sottomessi, variava secondo la resistenza ch'essi opponevano. C'erano dei casi di totale sterminio. Ce n'erano altri di pacifica fusione. Teodorico, Re degli Ostrogoti, quando giunse in Italia di Ostrogoti ne avrà avuti sì e no cinque o seimila. Il resto erano Gepidi, Alani, Rugi, Sciri, resti di tribù vinte e poi integratesi col vincitore. E nell'esercito di Attila, alla battaglia dei Campi Catalaunici, gli Unni quanti saranno stati? Non si sa con esattezza. Ma tutto lascia credere che si trattasse di una minoranza rispetto agli alleati e federati germanici che ne avevano accettato o dovuto subire la supremazia. I vinti non venivano ridotti in schiavitù perché la schiavitù non era compatibile col nomadismo, e infatti si sviluppò solo dopo la conversione alla sedentarietà e all'agricoltura. Venivano arruolati.

In questo quadro d'insieme, c'erano poi le differenze fra popolo e popolo. I Longobardi non derivavano il loro nome dal fatto di portare la barba ma la barda, una lunga ascia, ch'era la loro arma di combattimento. I Franchi, ch'erano corbellati da tutti gli altri perché si radevano accuratamente il volto, avevano invece come arma la "francesca". E Sidonio Apollinare ri-conosceva i Burgundi dalla loro smisurata statura, dalla forza tonitruante della voce e dal puzzo del burro rancido con cui s'ingrassavano i capelli.

Ostrogoti e Visigoti, che furono i primi a dar la spallata all'Italia, all'inizio formavano un popolo solo, il popolo Goto, originario della Svezia, una delle cui province, il Götheland, ne porta ancora il nome. Non avevano una lingua scritta. E soltanto nel sesto secolo dopo Cristo, uno di loro, Giordane, incivilito dalla cultura latina, raccolse il racconto che i suoi connazionali si erano tramandati oralmente del loro passato.

Mescolando storia e leggenda, essi dicevano che, circa quattro secoli prima di Cristo, mentre Roma era occupata a unificare l'Italia, il loro Re Berig li aveva condotti attraverso il Baltico dalla Scandinavia in Germania. Per fare questo traghetto, non avevano che tre barche, le quali dovettero compiere la traversata chissà quante volte. Una di esse restava regolarmente

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indietro. I rematori delle altre due la chiamarono per dileggio gepanta, che nel loro linguaggio voleva dire "la sfaticata", e gepidi, cioè "bighelloni", soprannominarono i passeggeri.

Rimasero nelle regioni della Prussia Orientale per alcune generazioni, a ridosso dei Vandali, coi quali occasionalmente guerreggiavano. Poi ripresero la marcia verso Sud-Est. Una metà dei loro effettivi fu inghiottita dalle paludi della Lituania. Fu un disastro. Giordane assicura che ancora ai suoi tempi, cioè una diecina di secoli dopo, chi passava da quelle parti incontrava gli spettri dei morti e udiva il lamento del bestiame agonizzante.

Viaggiarono anni, forse decenni, perché erano spostamenti pesanti e lenti, intramezzati da soste, combattimenti, deviazioni. Dalle espressioni che i cantastorie si son tramandati, si capisce che la loro gioia, nel vedere finalmente il mare, non fu minore di quella dei Greci di Senofonte al termine dell'Anabasi. Non gridarono Thalatta! Thalatta! perché non sapevano il greco; ma per generazioni preservarono nei loro poemi il ricordo di quel gran giorno.

Quel mare era il Mar Nero. Ed essi si acquartierarono sulle sue coste settentrionali in quella parte meridionale della Russia che allora si chiamava Scizia. Dalle zone che le varie tribù occupavano, presero tre nomi diversi: gli Ostrogoti guardavano a Est, i Visigoti a Ovest, e i Gepidi, che seguitavano a essere considerati i fannulloni della famiglia, a Nord. Ma non ci stavano mai fermi. E siccome dalla parte d'Oriente c'era il deserto, il loro uzzolo di saccheggio si sfogava verso Occidente, dove si stendeva il limes romano.

I rapporti con le dirimpettaie autorità imperiali variavano come in tutte le altre zone di confine dall'amicizia, all'ostilità, alla guerra fredda, alla guerra calda. Ma molti Goti andavano, come al solito, ad arruolarsi nelle milizie romane, salvo a crearvi ribellioni e ammutinamenti se la cinquina non veniva pagata. Verso la metà del terzo secolo dopo Cristo queste disfunzioni amministrative si verificarono di frequente per via del disordine che regnò dopo la morte di Settimio Severo.

La prima vera e propria azione di guerra dei Goti contro i Romani avvenne nel 250 quando sul trono di Roma c'era Decio, un Imperatore di pochi scrupoli specialmente verso i Cristiani, ma in cui rivivevano le virtù guerriere dell'antica Urbe. I Goti erano condotti da Cniva che alla testa di settantamila uomini attraversò il Danubio, penetrò in Serbia, e mise assedio a Filippopoli. Decio accorse con un forte esercito, e la battaglia fu terribile. Gli storici romani dicono che i Goti lasciarono sul terreno trentamila cadaveri. Ma hanno dimenticato di aggiungere quanti ne lasciarono i Romani, che dovettero perderne parecchi di più, visto che si riconobbero battuti. La città cadde nelle mani dei barbari, che trucidarono centomila

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persone, ma trascurarono nella voluttà del saccheggio di prendere precauzioni contro i ritorni offensivi di Decio, il quale non era uomo da darsi per vinto. A un certo punto si trovarono irretiti da lui, e cercarono di comprare un armistizio che consentisse loro di ritirarsi senza combattere. Decio, che aveva già appostato il suo miglior generale, Gallo, alle loro spalle, rifiutò. Ma, dice lo storico Zosimo, Gallo tradì, e in seguito alla sua defezione fu Decio a trovarsi imbottigliato dentro gli acquitrini. Nella battaglia, suo figlio cadde. "Uno di meno" disse l'Imperatore seguitando a combattere. Poi cadde anche lui con quasi tutto il suo Stato Maggiore. Il traditore Gallo che gli succedette comprò dai Goti quella pace che Decio non aveva voluto vender loro, impegnandosi a pagare una somma che i Romani poi chiamarono sussidio e i Goti tributo.

Cniva tornò nelle sue terre con molto bottino, ma soprattutto con la prova in tasca delle debolezze di un Impero, che sino a quel momento si era retto sul mito della sua invincibilità. Da allora in poi i Goti non gli dettero più pa-ce e sfogarono il loro istinto di saccheggio soprattutto sull'Asia Minore e la Grecia. Troia, Bisanzio, Efeso subirono le loro saltuarie incursioni. Poi fu la volta di Corinto, Sparta, Argo, e alla fine, nel 267, di Atene.

Le incursioni gotiche durarono fino al 268, quando sul trono dell'Impero salì finalmente Claudio II, che volle porvi riparo in maniera definitiva. Era un buon soldato che aveva imparato la lezione di Filippopoli, cioè aveva capito l'importanza decisiva della cavalleria, e in questo senso aveva riformato l'esercito. A Nisch, in Serbia, egli non riportò una completa vitto-ria, ma cinquantamila Goti rimasero sul terreno e gli altri furono sospinti dalla sua superiorità di manovra in un intrico di montagne e di paludi senza sbocco, dove cominciarono a morire lentamente di fame nei loro pesanti carri sprofondati nella melma. Dei pochi superstiti, alcuni tornarono sbandati alle loro case, altri rimasero come federati al servizio del vincitore. Ma i morti si vendicarono del loro carnefice sviluppando coi loro cadaveri insepolti una pestilenza che lo contagiò e lo uccise.

Il successore Aureliano trascinò dietro il suo carro di trionfatore a Roma i condottieri goti prigionieri. Ma non rifiutò la pace al loro Re, concedendogli la Dacia che, tradotta in termini di geografia moderna, significa Ungheria e Romania. Qui, dentro i confini dell'Impero, per un secolo rimasero abbastanza tranquilli, qui diventarono qualcosa di simile a una Nazione, tra-sformandosi almeno parzialmente in agricoltori e mescolandosi con la popolazione locale già mezzo romanizzata. E qui, in questi cento anni di relativa tranquillità, si arricchirono dei due fondamentali strumenti di civiltà: la lingua scritta e la religione cristiana.

A fargliene dono fu un uomo solo. Ulfila non era un goto di razza pura. Era figlio di un orientale della Cappadocia preso prigioniero dai Goti dopo

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una delle loro tante incursioni laggiù, e sposatosi probabilmente in Dacia con una donna del posto. Così il figlio Ulfila crebbe fra i Goti, e goto si sentiva fino alla midolla.

In Dacia la popolazione indigena era, come ho detto, romanizzata, parlava un dialetto latino (i romeni lo parlano ancora), e coltivava il grano e la vite. La maggioranza era pagana. Ma c'erano già anche dei cristiani, che svolgevano opera di proselitismo. Certamente Ulfila, ch'era nato nel 311, venne in contatto con qualcuno di loro, perché quando, ancora giovinetto, fu mandato a Costantinopoli, fu subito ordinato prete, e a trent'anni fu consacrato Vescovo da Eusebio di Nicomedia.

In quel momento la Chiesa non era unita. Era anzi gravemente divisa dall'eresia di Ario, che negava la divinità di Gesù Cristo. Era il più pericoloso di tutti i conflitti che fossero mai scoppiati in seno alla nuova religione. E l'imperatore Costantino, che di questa nuova religione si atteggiava a protettore, ma con la pretesa di farne uno strumento di governo e quindi riservandosi il diritto d'intervenirvi, aveva convocato il Concilio di Nicea, per ristabilire l'unità. Ario si difese con molto coraggio ma fu battuto specialmente per opera dei Vescovi dell'Occidente, e dichiarato eretico. Aveva però molti seguaci, e fra costoro c'era appunto Eusebio, alla scuola del quale Ulfila diventò ariano anche lui.

Gli affidarono una delle imprese più ardue: quella di tornare in patria e di conveire i suoi compatrioti, tuttora fedeli ai loro dèi pagani, Odino e Thor. Il re Ermanrico era fra i più tradizionalisti e bigotti, e le persecuzioni comin-ciarono subito contro chi si lasciava conquistare dalla predicazione del missionario. Goti minori si chiamarono con disprezzo questi conversi che si raccolsero in piccole comunità nelle zone di frontiera per essere pronti ad attraversarla in caso di pericolo e a cercare rifugio nei territori dell'Impero. Essi si attenevano alla resistenza passiva e a una dieta sobria, in cui la carne era quasi abolita e il vino sostituito dal latte.

Ulfila, che aveva su di loro un ascendente profondo (e meritato, a quanto pare, per la santità della sua vita), per facilitare la propria opera missionaria, si diede a tradurre in gotico la Bibbia. E, siccome una lingua gotica scritta non c'era, la inventò lui, disegnando quei famosi caratteri dell'alfabeto, che d'allora in poi furono chiamati appunto "gotici", e mettendo accanto ad ognuno di essi l'equivalente greco. Naturalmente grammatica e sintassi erano sommarie. E lo sforzo per abituare quella rozza gente a dare una forma grafica al loro gutturale balbettamento e una consecutio più o meno razionale al loro pensiero, dovette essere immenso. Ma Ulfila ci riuscì. Egli tradusse nella lingua da lui inventata tutto il Nuovo Testamento e la maggior parte di quello Vecchio, e in tal modo diede alle popolazioni germaniche i due strumenti per diventare le protagoniste della storia europea.

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Tutti i popoli tedeschi, meno i Franchi e i Sassoni, che si convertirono molto dopo a Gesù e all'alfabeto, impararono a scrivere e a credere secondo l'alfabeto e la fede di Ulfila. Purtroppo, questa fede non era quella cattolica, ma quella ariana: e la cosa doveva avere conseguenze assai gravi specie per l'Occidente, e soprattutto per l'Italia, dove alla fine i Goti vennero ad acquartierarsi (e a seppellirsi). Ma questo lo vedremo in seguito.

Giordane ci ha lasciato testimonianza di come i Goti videro gli Unni quando questi apparvero nei loro territori: "Quando il Re Filimer" egli scrive "ebbe condotto il nostro popolo dalla Svezia in Scizia, trovò in mezzo alla popolazione del luogo certe streghe, ch'egli scacciò per via dei loro malefizi. Esse si persero nel deserto dove incontrarono gli Spiriti del Male che errano in quei paraggi e che se le presero come concubine. Dalla loro unione nacquero gli Unni, creature giallognole di odio, piccole, ferocissime, e incapaci perfino di articolare i loro pensieri".

Giordane, da buon goto, aveva ragione di fornire un ritratto così malevolo degli Unni: i suoi antenati erano stati, dopo gli Alani, le loro prime vittime in Europa. Ermanrico, in quel momento, regnava ancora su di essi, ma aveva superato i cento anni, e purtroppo era reduce da un grave incidente. Tradizionalista e austero com'era, aveva condannato a morte e fatto squartare una giovane principessa, Sanici, rea di adulterio. E i fratelli di costei se n'erano vendicati tentando di ucciderlo. L'avevano soltanto ferito, ma in modo tale da indebolire gravemente la fibra di quell'irriducibile vegliardo. Giordane ce lo lascia soltanto capire; ma Ammiano Marcellino dice esplicitamente che un po' per questo attentato, un po' per la dispe-razione che gli procurava il flagello unno, cui non si sentiva in grado di resistere, Ermanrico si suicidò. Comunque, una cosa è certa: che, con o senza resistenza, gli Ostrogoti furono sottomessi dagli Unni e lo rimasero per ottant'anni. Solo una frazione seguitò a combattere sotto la guida di Withimir che fu sconfitto e ucciso. I superstiti cercarono scampo in Valacchia.

Quanto ai Visigoti, essi si ammassarono sulla riva sinistra del Danubio, pressappoco dove oggi corre il confine fra la Bulgaria e la Romania. Era il limes. "Agitando le braccia e piangendo" racconta lo storico Eunapio, "supplicavano che un ponte di barche fosse gettato per lasciarli passare". Le autorità imperiali del posto risposero che non potevano prendersi quella responsabilità senza chiederne all'imperatore Valente che impose le seguenti condizioni: consegna delle armi, il che era logico; rinunzia ai bambini, che sarebbero stati trasferiti in altre regioni dell'Impero, il che era mostruoso.

I Goti dovettero accettare: non avevano altro scampo. E in realtà le due imposizioni rimasero sulla carta, perché sia le armi che i bambini furono nella maggior parte lasciati ai legittimi proprietari. In compenso, gerarchi e

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gerarchetti imperiali fecero a gara nello spogliare di tutti i loro averi quei poveri fuggiaschi tallonati dal terrore unno e nell'accaparrarsi i più solidi giovanotti come schiavi e le più belle ragazze come concubine. Gli altri furono abbandonati alla fame e al freddo dell'inverno. E lo spettacolo che l'Impero diede in quell'occasione di ladrocinio, indisciplina e disorganizzazione fu tale che, fra quei poveri internati, invece della gra-titudine, incubò l'odio e la rivolta.

Testardo e male informato, l'imperatore Valente decise di accorrere personalmente a infliggere un esemplare castigo ai ribelli, e per prima cosa, sapendo che costoro si erano incamminati su Adrianopoli, ordinò ai suoi luogotenenti in quella città di allontanare le milizie gotiche che militavano sotto le sue bandiere. Erano Goti minori, cristianizzati da Ulfila, fedelissimi all'Impero. I loro capi si dichiararono tuttavia pronti a obbedire purché si desse loro la cinquina e i rifornimenti per la lunga marcia che dovevano affrontare. Gli si rispose con minacce. E il risultato fu che quei reparti an-darono ad accrescere le falangi degl'insorti, che si disponevano in assedio intorno alla città.

L'assedio non riuscì: i barbari non furono mai capaci di espugnare una fortezza romana. Il loro capo Fridigern, nel togliere il campo, disse: "Noi siamo abituati a combattere contro gli uomini, non contro mura di pietra". Ma il suo esercito era enormemente cresciuto per l'afflusso degli schiavi goti che accorrevano da tutti i distretti della Tracia. Fu un'annata terribile, quella fra il 377 e il 378, per le province bulgare e romene. I ribelli le misero a sacco scannando e rubando a più non posso. Valente tardava, trattenuto dalle difficoltà di una pace con la Persia. Alla fine venne, dando appuntamento a Adrianopoli a suo nipote Graziano, che governava l'Occidente. I loro due eserciti avrebbero stretto in una morsa e stritolato i ribelli.

Il piano poteva benissimo riuscire, date le alte capacità di comando di Graziano, giovane e brillante generale. Ma appunto perciò Valente, geloso di lui, invece di aspettarlo, commise la follia di attaccare da solo. Sembra che fosse stato male informato dai suoi esploratori che, mandati in avanscoperta, gli avevano riferito che il nemico non aveva più di diecimila uomini. Prima d'impartire l'ordine di attacco, egli ricevette una lettera di Fridigern che, in un supremo sforzo per evitare il conflitto, gli chiedeva per i suoi uomini la Tracia impegnandosi solennemente alla fedeltà all'Impero. Ma Ammiano dice che, insieme a questa lettera ufficiale, Fridigern ne aveva mandata un'altra confidenziale in cui suggeriva a Valente di rifiutare la proposta e di stringere più dappresso i ribelli in modo da impaurire gli estremisti e far trionfare il partito suo, quello dei moderati.

Ciò convinse ancora di più Valente della propria superiorità. Ammiano

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dice che sbagliò lo schieramento e non azzeccò una manovra. Comunque, quella di Adrianopoli (378) fu la più catastrofica disfatta che l'Impero avesse subìto da Canne in poi. L'Imperatore, ferito, si rifugiò in una capanna dove una pattuglia nemica lo bruciò vivo, pare senza sapere chi fosse. I due terzi dell'esercito imperiale, i più esperti veterani, trentasette Generali, rimasero sul campo.

Gli storici cristiani dissero che Valente era caduto in espiazione del peccato commesso consentendo ai Goti, quando li ammise al di qua del Danubio, di restare ariani. Fra non molto avrebbero rimpianto anch'essi quel divino castigo, che lì per lì ebbero l'aria di salutare con soddisfazione.

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CAPITOLO QUARTO

TEODOSIO

SUL momento sembrò che tutto dovesse crollare. L'Impero aveva perso il suo titolare e il suo esercito. In Occidente restava, alla testa di truppe ausiliario franche e alemanne, cioè barbare, un abile e risoluto Generale, Graziano, che sapeva sconfiggere i nemici sul campo, ma in casa non sapeva sottrarsi alla cattiva suggestione di una madre autoritaria, appassionata e in buona fede dissennata: Giustina. In Oriente, il trono era vacante, le guarnigioni vuote e l'orda gotica in marcia su Adrianopoli. Graziano si guardò intorno alla ricerca di qualcuno che potesse venirgli in aiuto, e lo scoprì nella persona di un Generale spagnolo in pensione.

Teodosio era figlio di un altro Teodosio, ch'era stato il migliore e il più fedele luogotenente dell'Impero. Non sappiamo come avesse fatto carriera. Ma fu colui che difese con successo la Britannia e poi fu mandato in Africa a domarvi la rivolta scoppiata fra i Mori. Vi riuscì, coprendosi di benemerenze. Ma la ricompensa fu una condanna a morte. La Storia non è riuscita mai a far luce su questo incomprensibile episodio. Sappiamo soltanto che Teodosio, quando gli comunicarono la sentenza, non pensò né a fuggire né a ribellarsi. Chiese soltanto, racconta Orosio, di essere battezzato perché fino a quel momento era rimasto pagano, eppoi, "sicuro della vita eterna, serenamente abbandonò quella terrena al boia".

Il suo omonimo figlio, che aveva già fatto anche lui una bella carriera militare fino a guadagnarsi i galloni di "Duca di Mesia", diede le dimissioni dall'esercito e si ritirò da privato qualsiasi nella sua Spagna. E qui tre anni dopo lo raggiunse l'invito di Graziano ad occupare, come suo collega, il trono di Costantinopoli. Teodosio aveva allora trentatre anni, una moglie somigliante al suo nome, Flaccilla, perché anemica e malaticcia, e un bambino, Arcadio. È curioso che Graziano avesse scelto proprio lui,

Il figlio di un innocente giustiziato, il quale poteva anche covare qualche proposito di vendetta, per occupare una sì alta carica. Ma si vede che lo conoscevano.

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Teodosio e Graziano svolsero insieme una politica accorta nei confronti dei Goti che, non riuscendo a espugnare Adrianopoli, scorrazzavano ora nei Balcani. Per affrontarli in una battaglia campale, non c'era più un esercito. Cominciarono a logorarli con azioni episodiche, ma sempre tendendo la mano per una riconciliazione. Il loro capo Atanarico aveva giurato a suo padre di non mettere mai piede sul suolo dell'Impero, e infatti se n'era astenuto anche quando la valanga unna aveva spinto i Visigoti a chiedere asilo a Valente al di qua del Danubio. Ma nel 380 gli Unni tornarono e a Atanarico non rimase che attraversare anche lui il Danubio e chiedere ospitalità a Teodosio.

Questi, all'opposto di ciò che aveva fatto Valente, lo accolse con cortesia, lo riempì di doni e lo scortò a Costantinopoli. Giordane descrive benissimo la trasecolata ammirazione del rozzo barbaro alla vista della città. "Ecco, ecco" balbettò "quello di cui tanto mi avevano parlato e a cui tanto poco avevo creduto... Un Dio certamente dev'essere questo Imperatore, e chiun-que alzi una mano su di lui commette sacrilegio". Di lì a poco Atanarico morì, come del resto si era impegnato a fare se avesse contravvenuto al giuramento, e Teodosio gli rese imponenti onoranze cavalcando di persona davanti alla bara. Quella cerimonia impressionò fortemente gli Ostrogoti presenti, che accettarono di farsi assorbire nell'Impero nella solita qualità di federati. Sembravano tornati i tempi di Aureliano e di Costantino. Ma quegli Ostrogoti erano soltanto una minoranza.

Alla pacificazione dell'Oriente corrispondeva l'inquietudine dell'Occidente. Un altro Generale spagnolo, Massimo, si ribellava in Inghilterra, scendeva in Francia e uccideva a tradimento Graziano, il colto, brillante e pio Imperatore, che aveva commesso due soli errori, ma gravi: quello di pensare più allo sport che ai problemi di Stato, e quello di aver dimostrato troppo apertamente le sue preferenze per gli ufficiali barbari, specialmente franchi e alemanni, che militavano sotto le sue bandiere. Egli lasciava come successore il fratellastro Valentiniano II, poco più che bambino, cui suo padre gli aveva raccomandato di fare da tutore e protettore, e al quale ora non restava che la improvvida madre Giustina.

Massimo per il momento non minacciò il ragazzo che risiedeva a Milano, e si contentò di esercitare il potere effettivo su Inghilterra, Francia e Spagna, senza pretendere al titolo di Imperatore, che lo avrebbe messo fatalmente in conflitto con Teodosio. Questi non solo subì l'assassinio del suo amico e collega, cui doveva il trono, con una flemma che lì per lì parve da traditore ingrato, ma non reagì nemmeno alle voci che lo accusavano di aver istigato Massimo all'assassinio di Graziano. Era un uomo di carattere difficilmente penetrabile. Ma i suoi gesti ce lo dipingono come uno spagnolo puro, buon generale, pessimo amministratore, bigotto e spretato, incapace di perdono,

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ma convinto che la vendetta sia, come dicono appunto gli spagnoli, "un piatto da mangiarsi freddo".

Per quattro anni, lungi dal protestare per il regicidio e l'usurpazione del comando, egli si tenne in amichevole corrispondenza con Massimo. E questi forse ne fu indotto a credere che Teodosio non avesse in fondo nessuna voglia di vendicare il figlio di colui che gli aveva ucciso il padre. Con cautela cominciò ad avvicinarsi all'Italia, dove Giustina governava (senza dubbio accatastando spropositi su spropositi) in nome del piccolo Valentiniano. Essa non si stancava di denunziare a Costantinopoli la doppiezza dell'usurpatore, l'insaziabilità delle sue ambizioni e il suo proposito d'incoronarsi Imperatore. E quando lo vide attraversare le Alpi al-la testa del suo esercito, impacchettò Valentiniano, che aveva ormai diciotto anni, e le altre tre figlie; e con essi fuggì oltre Adriatico.

Teodosio le venne incontro a Salonicco, sua residenza favorita. E qui, più che gli argomenti di Giustina, per la quale non doveva avere gran tenerezza, furono le grazie di sua figlia Galla a commuoverlo. Teodosio era rimasto ve-dovo, dopo la morte di Flaccilla, che gli aveva dato un altro figlio, Onorio; e ormai aveva superato la quarantina, mentre Galla era appena adolescente. Ma il matrimonio si fece ugualmente, e subito. E il dono di nozze che lo sposo fece alla sposa, o meglio alla suocera, fu di restituire il trono dell'Occidente al piccolo Valentiniano, ora suo cognato.

Il fatto che, senza por tempo in mezzo, egli s'incamminasse verso l'Italia, dimostra che non era stata la mancanza di forze e di truppe a impedirgli fino a quel momento di vendicare Graziano, come molti storici sostengono. Ma ciò che più conta sottolineare è che la stragrande maggioranza di queste truppe era gota. Contro di esse stavano quelle di Massimo, per la maggior parte franche, cioè anch'esse tedesche. Nei due Stati Maggiori, i nomi dei Generali più in vista erano Stilicone, Sarò, Arbogaste, Gaina, Ricimero, Bauto eccetera. Invano vi si sarebbe cercato un Bruto, un Manlio, cioè un nome romano.

Massimo fu battuto prima a Laybach, poi a Aquileia, dove venne catturato. Quando fu condotto in catene dinanzi a Teodosio, questi gli chiese: "È vero che uccidesti Graziano col mio consenso?" "Non è vero" rispose il prigioniero. "Lo dissi per assicurarmi l'obbedienza dei soldati." Resa questa confessione, Massimo venne decapitato dai soldati senz'aspettare l'ordine di Teodosio (che, crediamo, lo avrebbe dato ugual-mente). E Valentiniano fu istallato nuovamente sul trono.

Seguirono quattro anni di relativa pace. Teodosio era tornato a Costantinopoli a godersi la sua bella, ma sterile moglie, e a esercitare il potere assoluto su un Impero di fatto nuovamente unificato, perché la potestà sull'Occidente del ventenne Valentiniano era soltanto fittizia. Ma nel

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392 Valentiniano fece la stessa fine di Graziano. Stavolta il ribelle si chiamava Arbogaste, un generale franco, rozzo e

insolente, che aveva servito con fedeltà Graziano e Teodosio, ma era montato in superbia dacché lo avevano nominato capo di Stato Maggiore dell'esercito e non sopportava di ricevere ordini da un "ragazzetto". Anzi, lo trattava con sì ostentato disprezzo che il ragazzetto alla fine gli consegnò una lettera di dimissioni ingiungendogli di firmarla. Invece della penna, che forse non sapeva maneggiare, Arbogaste impugnò la spada.

Ucciso il giovane Imperatore, Arbogaste ebbe tuttavia abbastanza buon senso per non occuparne il posto. V'istallò invece un cittadino romano, Eugenio, professore di retorica passato al servizio di Corte. Non apparteneva alla categoria degli "illustri", come allora si chiamavano i personaggi di altissimo rilievo; ma era fra i "rispettabili". Da tempo aveva legato le sue fortune a quelle del Generale franco; ma forse questi lo prediligeva soprattutto per le sue aperte simpatie verso il paganesimo, di cui Arbogaste era ancora seguace.

Di nuovo, come nel caso di Graziano, Teodosio prese con molta calma la notizia dell'assassinio di suo cognato, nonostante le insistenze di Galla che voleva un immediato castigo. La luna di miele ormai era passata. Ed egli si decise ad esaudire i desideri di sua moglie solo il giorno in cui essa morì nel mettere finalmente al mondo una figlia che fu battezzata Galla Placidia, di cui sentiremo ancora parlare.

Questa seconda spedizione in Italia fu molto più ardua della prima. Lo scontro fra i due eserciti ebbe luogo sull'Isonzo, che allora si chiamava "Frigido", e fu proprio l'ultima battaglia combattuta in nome del paganesimo. Arbogaste aveva costellato il suo campo di statue di Giove, effigiato col fulmine in mano. Ma anche Teodosio aveva mobilitato il suo Dio. Dopo una prima scaramuccia finita male per lui, egli raccontò di essersi addormentato e di aver visto in sogno San Giovanni e San Filippo, che lo ammonivano di non dubitare del suo destino. Mentre narrava questo episodio, un soldato irruppe nella sua tenda a riferirgli la visione che anche lui aveva avuto: era la medesima. Gli astanti rimasero impressionati. Fra essi c'erano Gaina, Bacurio, Saul: tutti bei nomi romani, come vedete. E c'era anche un certo Alarico, giovane capitano alla testa di un manipolo di Visigoti.

Lo storico pagano Zosimo ha naturalmente molto insistito sugli aspetti miracolosi di questa decisiva vittoria, che nella sua narrazione fu dovuta soprattutto a un vento violentissimo che, soffiando negli occhi dei pagani, li avrebbe accecati. Probabilmente si trattava di bora, e non crediamo che il suo effetto possa essere stato determinante. Comunque, il successo di Teodosio fu schiacciante. Arbogaste si suicidò. Eugenio, preso prigioniero,

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ne seguì l'esempio. Quale mescolanza fosse Teodosio di pietà e di crudeltà, lo dimostra il

conflitto ch'ebbe con Ambrogio, Vescovo di Milano. Ambrogio appartiene alla Storia della Chiesa. A noi basti sapere che non

era un prete, in origine. Era un funzionario laico che, in qualità di Prefetto, aveva rappresentato con molta energia e competenza il potere imperiale in Liguria e in Emilia. Come tale, si era trovato a dover dirimere, non in nome della Legge divina, ma di quella dello Stato, le controversie fra cattolici e ariani, che anche lì infuriavano con morti e feriti. Lo fece solo come difensore dell'ordine pubblico, ma con tale senso di giustizia e di misura, che gli stessi litiganti alla morte del vescovo ariano Ausenzio, lo acclamarono suo successore.

Non si sa con certezza se Ambrogio in quel momento fosse già cristiano, o ancora pagano. Si sa solo che Valentiniano I (si era nel 374) fu soddisfatto della scelta e l'approvò., Così, nello spazio di una settimana, il funzionario laico ricevette i sacramenti, gli ordini e il cappello episcopale. I favori della Corte gli consentirono di esercitare con piena libertà le sue altissime ca-pacità organizzative. Morto Valentiniano, egli dovette vedersela con Giustina ch'era ariana; ma ebbe dalla sua Graziano cui aveva fatto un po' da tutore e che, stando ad alcune voci, aveva ricevuto da lui il consiglio di prendersi come collega Teodosio.

Dopo che Graziano fu ucciso da Massimo e Giustina fuggita coi figli a Salonicco, Ambrogio, rimasto a Milano, seguitò a riorganizzare la Chiesa. Certamente egli accolse bene Teodosio, quando questi, sconfitto e ucciso Massimo, riportò sul trono Valentiniano II, e un po' meno bene, anzi categoricamente male, Giustina, la quale chiedeva che almeno una chiesa della Diocesi venisse dedicata al culto ariano. Ambrogio rispose di no. Valentiniano, certamente sobillato da sua madre, gli comminò l'esilio. Ambrogio non si mosse. Di lì a poco un'insurrezione scoppiò a Salonicco per un motivo che testimonia la miseria morale di quei tempi. Buterico, il Generale goto che comandava la guarnigione, aveva fatto imprigionare un fantino del Circo, idolo delle folle, che per la sua liberazione insorsero uccidendo alcuni ufficiali e soldati. Teodosio non aveva perso la flemma quando gli avevano ucciso Graziano e non la perderà quando gli uccideranno Valentiniano. Ma guai a chi gli toccava i suoi soldati barbari. Sebbene Salonicco fosse la sua città preferita, ordinò un indiscriminato massacro, le cui vittime qualcuno fa ascendere a 15.000.

Alcuni giorni dopo si presentò in chiesa per ascoltare la messa. Ma sul portale si stagliò Ambrogio, che additandolo alla folla esclamò: "La grandezza del suo Impero e il corruttore esercizio di un potere assoluto possono avergli impedito di discernere l'enormità del suo delitto. Ma sotto la

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sua porpora c'è soltanto un uomo il cui corpo è destinato a disfarsi in polvere e la cui anima deve pur tornare a Dio che gliel'ha data... Faccia egli penitenza in espiazione del suo peccato prima di tornare a mescolarsi al gregge dei fedeli..."

Nessuno mai aveva osato parlare in tal modo a quell'uomo orgoglioso. Dinanzi a un prete inerme egli curvò la testa, e per mesi e mesi ne attese invano il perdono. Lo mandò a sollecitare attraverso Ruffino, un ignobile cortigiano poco qualificato a quella bisogna. Ma Ambrogio scacciò di casa il messaggero dicendogli ch'era "più svergognato d'un cane". Sebbene poi la Chiesa lo abbia riconosciuto Santo, doveva trattarsi d'un Santo di carattere un po' difficile.

Alla fine l'Imperatore venne di persona a chiedere umilmente che penitenza doveva fare. "Poiché il motivo del tuo peccato" rispose il Vescovo " è stata la passione, prepara una legge che renda obbligatorio l'intervallo di trenta giorni fra la firma di una condanna a morte e la sua esecuzione. C'è da sperare che in trenta giorni la passione cada e la ragione ne prenda il posto". Teodosio obbedì. E fu il primo dei numerosi "precedenti" che dovevano consacrare, nella lunga lotta fra Stato e Chiesa, la sottomissione di quello a questa. Ambrogio comprese la importanza dell'avvenimento e, per celebrarlo, fece comporre un inno apposta: il Te Deum laudamus.

Nel 395, dopo la vittoria su Eugenio e Arbogaste, Teodosio tornò a Milano. Le condizioni di salute non gli consentivano di riprendere la strada di Costantinopoli. Zosimo, a lui sempre ostile, dice che lo avevano stroncato i vizi. Ma niente ci fa sospettare che quell'uomo timorato e malinconico ne avesse. Sentendosi vicino alla morte, mandò a chiamare il secondo dei suoi figli, il bambinetto Onorio, che giunse da Costantinopoli accompagnato da Serena, cugina di Teodosio e moglie del suo più fedele Generale, Stilicone. E gli affidò l'Impero d'Occidente, lasciando quello d'Oriente al maggiore, Arcadio, il primo sotto la tutela di Stilicone, il secondo sotto quella di Ruffino.

Con questo gesto chiuse la sua vita Teodosio detto il Grande. Se lo sia stato veramente, è difficile dirlo. Forse lo sarebbe diventato se Dio gli avesse dato ancora un po' di tempo per condurre a termine la sua politica d'integrazione coi barbari e per accorgersi che la scelta dei successori non era stata indovinata. Fu certamente un bravo soldato, che aveva un alto con-cetto del titolo che portava e non venne mai meno agl'impegni che gliene derivavano. Ma l'imparzialità non era il suo forte, e dal punto di vista amministrativo combinò un mare di guai.

Tuttavia fu certamente l'ultimo Imperatore degno di questo nome.

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CAPITOLO QUINTO

STILICONE

IL POETA Claudiano, specialista in panegirici, salutò il nuovo Imperatore d'Occidente, Onorio, col titolo di Porfirogenito, che voleva dire "nato nella camera di porpora", cioè quando suo padre era già Imperatore a Costantinopoli, mentre il suo maggior fratello Arcadio era nato in Spagna, quando suo padre era tuttora un pensionato qualunque. E a questo titolo, dovuto a una pura coincidenza, Onorio non seppe, in tutta la vita, aggiungerne altri, meno quello di pollicultore. Se avesse saputo amministrare lo Stato come sapeva allevare galline, sarebbe stato un grande sovrano.

Invece che da suo padre, egli aveva ripreso dalla madre, l'anemica e malaticcia Flaccilla. Non aveva ambizioni. Non aveva passioni. Non aveva nemmeno vizi. Una cosa sola sembra che abbia visto con chiarezza e voluto con tenacia: sopravvivere. Onorio fu un maestro nell'arte di sottrarsi ai pericoli e di stare al riparo dalle correnti d'aria. Un po' poco, per un Imperatore, in un momento come quello.

Ma alle spalle di questo ragazzo, su lui stendendo una protezione forse un po' sopraffattrice, c'era un grande soldato e un fedele servitore. Il barbaro Stilicone era allora sulla quarantina. Figlio di un capo vandalo che aveva militato sotto le bandiere di Valente, aveva fatto carriera con Teodosio che gli aveva affidato anche delle missioni diplomatiche. Alto e solenne com'era, già il suo aspetto bastava a incutere soggezione. E si vede che fin da allora l'Imperatore riponeva in lui grosse speranze, perché gli diede in moglie sua nipote Serena. Da allora Stilicone era stato il luogotenente di fiducia di Teodosio, lo aveva accompagnato in tutte le spedizioni e probabilmente ne aveva redatto i piani operativi. Per quanto la sua figura sia alquanto controversa, la sua fedeltà non solo alla dinastia ma anche alle idee politiche del suo benefattore è fuori discussione.

Proprio in quello stesso anno 395 in cui egli diventava praticamente padrone dell'Impero di Occidente, i Visigoti eleggevano a loro Re

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quell'Alarico che abbiamo già fugacemente conosciuto nello Stato Maggiore di Teodosio alla battaglia del Frigido. Aveva la stessa età, la stessa esperienza di Stilicone, e avrebbe potuto benissimo essere lui al posto di tutore di Onorio. Ma la sorte lo volle invece alla testa del suo guerriero e turbolento popolo che lo acclamò sollevandolo sugli scudi e ch'egli provvide subito a accasare in una regione decisiva dal punto di vista strategico: la Serbia, passaggio obbligato di tutte le comunicazioni terrestri fra i due Imperi.

Alarico, da buon barbaro, si sentiva impegnato dal suo giuramento alla fedeltà a Teodosio, non a ciò che questi rappresentava. Sicché, Teodosio morto, si considerò libero di fare la politica che voleva, o per meglio dire di fare una politica, perché sino a quel momento i Visigoti non ne avevano avuta nessuna.

Che strano impasto fosse quest'uomo di nazionalismo tedesco e di ammirazione per la civiltà mediterranea, lo dimostrarono l'impeto ag-gressivo con cui condusse un'operazione di conquista della Grecia e la brusca rinunzia a proseguirla quando si trovò di fronte alle statue e alle colonne del Partenone, la cui bellezza lo folgorò. Di colpo, da conquistatore, si trasformò in turista e firmò con gli ateniesi un patto di amicizia.

L'anno dopo (396) Stilicone accorse, per sloggiare i Visigoti dalla Grecia. Riuscì a circondarli in Arcadia e il loro annientamento sembrava sicuro quando invece si seppe ch'erano sfuggiti attraverso un passo non presidiato. Zosimo dice che fu un errore tecnico di Stilicone, Orosio parla di tradimento, Claudiano insinua che era giunto un alt! da Costantinopoli. Forse non fu nulla di tutto questo, ma soltanto il timore da parte di Stilicone di non essere più necessario il giorno in cui i Visigoti e il loro bellicoso Re fossero stati distrutti.

Ma nella gara all'accaparramento della gratitudine di Alarico, subito Arcadio andò ancora più in là, conferendogli, se non il titolo, almeno le funzioni di Governatore dell'Illiria.

Stilicone non reagì a questo gesto provocatorio. La sua posizione sembrava incrollabile, ora ch'era diventato suocero di Onorio, cui aveva dato in moglie sua figlia Maria. Nel 400 fu eletto Console. Era una carica ormai negletta, cui non corrispondevano più poteri paragonabili a quelli che Stilicone di fatto esercitava. Ma i romani di antica famiglia ne facevano un loro monopolio, perché erano sempre i Consoli che davano il nome all'anno in corso, come ai vecchi bei tempi della Repubblica, e con riluttanza ammettevano che questo privilegio, sia pure solo formale, toccasse a un barbaro. Tuttavia a Stilicone si piegarono. Sembrava dunque che per costui il nuovo secolo cominciasse bene.

E invece proprio in quel momento ecco d'improvviso Alarico presentarsi

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alla testa delle sue orde sui valichi delle Alpi Giulie. Si possono fare infinite congetture sui suoi piani e disegni. La sola che trovi conferma negli avveni-menti successivi è che il focoso visigoto intendesse impadronirsi, più che di Roma, del "posto" di Stilicone.

L'Italia era abituata a vedersi scorrazzare addosso eserciti in rivolta. Ma romani, almeno di nome. Da secoli il suo suolo non era calcato da truppe che sventolavano vessilli stranieri. E lo sbigottimento fu grande. Claudiano racconta che, a renderlo ancora più disperato, ci si mise di mezzo anche il soprannaturale. In cielo apparve una cometa, segno sinistro. E l'Imperatore, passando una rivista ai soldati, vide fuggire dai loro ranghi una coppia di lupi, che vennero uccisi e squartati. Nel loro ventre furono trovate due mani.

A Roma i Senatori, che seguitavano a esistere e a riunirsi sebbene le loro decisioni avessero smesso da un bel pezzo di contare, avanzarono l'idea - che a Onorio piaceva assai - di attraversare il Tirreno e di fondare una nuova Urbe in Sardegna o in Corsica. In mezzo a quei balbettamenti di gente impaurita e irresoluta, l'unico che tenne un linguaggio da Senatore vero fu Stilicone. "Cessate" egli disse "questi lamenti che non sono da uomini. I Goti, è vero, ci hanno attaccato a tradimento. Ma l'Italia ha trionfato di pericoli ben più gravi: quello dei Galli, dei Cimbri, dei Teutoni. Se Roma cadesse, non ci sarebbe più al mondo, per i suoi figli, una patria sicura... Andrò al Nord a raccogliere un esercito per vendicare l'insultata maestà di Roma, ma nel frattempo continuerò a partecipare alle vostre ansietà perché tra voi lascio mia moglie, i miei figli e questo mio genero (Onorio) che mi è più caro che la vita stessa."

Così racconta Claudiano, forse abbellendo parecchio l'orazione del suo eroe. Ma che un poeta romano trovasse plausibile e credibile, in bocca a un generale barbaro, un simile discorso, basta a farci capire a che punto ormai s'era arrivati, lì a Roma, e come Stilicone considerasse, con condiscendenza, un suo semplice "protetto" il giovincello che sedeva sul trono.

Nell'inverno 401-402 il Generale marciò contro Alarico che si era spinto fin sotto Torino e ora assediava la cittadina fortificata di Pollenzo. Secondo Claudiano, un veterano goto ammonì il suo Re di non accettare battaglia. Infuriato, Alarico gli rispose di aver udito una voce che gli diceva: "Penetrerai nell'Urbe!"

A questa premonizione i fatti, lì per lì, non diedero ragione. Forse quella di Pollenzo non fu per Stilicone (di cui è incerta, quel giorno, perfino la presenza sul posto) una schiacciante vittoria, ma certo fu una sconfitta per Alarico, che a quanto pare lasciò prigionieri in mano all'avversario la moglie e i figli. Dovette trattarsi di uno dei soliti successi alla Stilicone che, quando aveva a che fare coi Visigoti, li metteva regolarmente in ginocchio; ma al momento di assestare il colpo finale, rinfoderava la spada e lasciava loro

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libera la ritirata. Anche stavolta infatti Alarico poté riordinare le sue scom-paginate falangi e riprendere la strada del Veneto, dove si fermò a bivaccare. Cortesemente, Stilicone gli rimandò la sposa e la prole.

A Roma, dove la notizia della vittoria non era giunta, si lavorava a innalzare una nuova cinta di mura di rinforzo a quelle di Aureliano. La paura aveva restituito di colpo a quella cittadinanza bighellona una gran voglia di lavorare. Ogni tanto si fermavano a spiare l'orizzonte nel terrore di veder apparire le colonne gote. Invece apparvero quelle di Stilicone, che fu accolto stavolta con un entusiasmo indescrivibile e passò in mezzo alla popolazione acclamante su un cocchio, in cui sedeva accanto all'imperatore Onorio suo genero e all'imperatrice Maria sua figlia.

Naturalmente i Romani vollero festeggiare il fausto evento alla loro maniera preferita: e cioè con un grande spettacolo gladiatorio al Circo. Questi spettacoli erano già stati proibiti da Costantino, quasi un secolo prima. I Romani non se ne davano per intesi, dimostrando con ciò di aver avuto anche allora, delle leggi e dei regolamenti, lo stesso rispetto che ne hanno ora. Ma quella volta per loro girò male. Sul più bello di una massiccia carneficina fra prigionieri goti, un frate di nome Telemaco saltò nell'arena per metter fine al massacro. Fu lapidato e ucciso dalla folla imbestialita. Ma Onorio ne rimase talmente sconvolto, che d'allora in poi i giuochi del Circo vennero proibiti davvero, e non più soltanto sulla carta.

Nell'anno successivo, 405, Stilicone fu rieletto Console e per la seconda volta si guadagnò il titolo di "salvatore dell'Urbe". Non era Alarico che la minacciava, ora, ma un certo Radagaiso, di cui non sappiamo con precisione che cosa fosse: forse un ostrogoto, riuscito a sottrarre in tempo una parte del suo popolo al servaggio degli Unni. Era comunque un barbaro nel senso più completo della parola, "il più selvaggio di tutti i nemici che Roma avesse mai avuto", dice Orosio. Discese la Penisola alla testa di un'orda di 200.000 uomini (qualcuno dice 400.000). Ma Stilicone, con un capolavoro di strategia, riuscì a chiuderlo nelle valli ai piedi di Fiesole, proprio là dove, quattro secoli e mezzo prima, era stato disfatto Catilina.

Non ci fu bisogno di dar battaglia: bastò chiudere i passi. Dentro quel budello senza uscita, i Goti cominciarono a morir di fame, e Stilicone li lasciò fare finché di vivo non rimasero che pochi estenuati brandelli, inservibili anche come schiavi. Stilicone sapeva far le cose fino in fondo, quando non si trattava di Alarico.

E così l'Italia sembrò finalmente liberata dalla minaccia delle invasioni, che nessun barbaro infatti per due anni ritentò. Solo che, per raggiungere questo risultato, sì era dovuto sguarnire tutte le altre province dell'Ovest - Britannia, Spagna e Francia -, dove ora si stavano precipitando alla rinfusa, sospingendosi e guerreggiando l'uno contro l'altro, Vandali, Svevi, Alani, in

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conflitto con Alemanni, Franchi e Burgundi che già vi si erano accasati. L'Impero d'Occidente se ne andava. Nel 408 l'Imperatore d'Oriente, Arcadio, morì, lasciando erede al trono un

bambino di sette anni, Teodosio II, sotto la tutela di sua madre, l'imperatrice Eudossia, principessa di sangue franco, cioè tedesco. E qui ci troviamo di fronte a una serie di avvenimenti che ci lasciano piuttosto perplessi sul conto di Stilicone.

Alarico aveva ricominciato ad agitarsi, e col suo esercito era penetrato in Epiro, provincia di Costantinopoli. Poi d'improvviso era tornato indietro, per il solito passo di Laybach si era di nuovo affacciato in Italia, e aveva mandato un'ambasciata a Roma per chiedere in termini piuttosto bruschi un compenso delle spese incontrate in Epiro, "visto che non gli avevano la-sciato finire l'impresa". Chi non gliel'aveva lasciata finire dopo avergliela, evidentemente, ordinata?

In Senato Stilicone spiegò che effettivamente Alarico, andando in Epiro, aveva inteso servire gl'interessi dell'Imperatore, il quale poi gli aveva imposto l'alt e quindi bisognava risarcirlo.

Fra i Senatori, uno solo si alzò a fare opposizione, ritrovando nella requisitoria gli accenti dell'antica Roma: Lampridio. "Questa non è pace" disse, "ma accettazione della servitù." Però, appena pronunziate quelle parole orgogliose, corse a rifugiarsi in una chiesa lì vicino.

La proposta di Stilicone fu accolta. Il Generale ormai sembrava onnipotente. Sua figlia l'imperatrice Maria era morta, ma Onorio l'aveva rimpiazzata con la sorella minore Termanzia, restando così genero dello stesso suocero. E da confidente del Sovrano fungeva ora Olimpio, un gréculo del Mar Nero, che a Stilicone doveva tutta la sua carriera. Ma a quanto pare invece fu proprio questo cortigiano intrigante a suscitare i sospetti di Onorio contro il suo Generale.

L'Imperatore progettava una gita a Costantinopoli per affermare il suo diritto alla tutela del piccolo Teodosio. Stilicone gli prospettò i pericoli e il costo di quel viaggio in termini tali da persuaderlo a mandarci, in sua vece, lui. Ma, si affrettò subito a insinuare Olimpio, Stilicone lo aveva fatto perché in realtà voleva istallare suo figlio Eucherio sul trono d'Oriente.

Elementi di fatto che confermassero questo sospetto non ce n'era, perché Eucherio era sempre stato tenuto da suo padre piuttosto in disparte. Ma, morto Arcadio, a Onorio sembrava di non aver più tanto bisogno del suo Generale che, con la scusa di proteggerlo, lo soffocava. C'erano anche altri motivi di scontentezza verso l'onnipotente vandalo. I pagani dicevano che sua moglie Serena, quando per la prima volta venne a Roma al seguito del suo padre adottivo Teodosio, rubò un gioiello nel tempio di Rea e che lui stesso si era appropriato di certe lastre d'oro del tempio di Giove Capitolino.

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I cristiani, da parte loro, mormoravano che Eucherio era in cuor suo un pagano idolatra. Ma soprattutto, ad alimentare le dicerie, c'era lo strano atteggiamento del Generale nei confronti di Alarico, che irritava l'elemento romano.

Ci fu, nelle legioni, qualche ammutinamento. Onorio ne ordinò la repressione al Generale, che la eseguì con sommarie decimazioni, proprio nel momento in cui un usurpatore, Costantino, calava dalla Britannia, di cui era stato il comandante militare, in Francia, e si attestava ad Arles, minacciando l'Italia. Con l'esercito mezzo in rivolta, Stilicone capiva di non poterlo fermare. E altre truppe non ne aveva da richiamare da oltre confine. Le ultime le aveva macinate nella campagna contro Radagaiso: le province occidentali, ormai sommerse dai barbari, non ne fornivano più. Egli disse dunque a Onorio che stava trattando con Alarico per lanciarlo contro Costantino. E se questo fosse avvenuto in tempo, tutti i sospetti che le sue passate condiscendenze al capo visigoto avevano suscitato, sarebbero svaniti di colpo.

Purtroppo, il tempo non ci fu. Onorio, dopo aver dato il suo consenso a questo piano diplomatico e firmato la lettera a Alarico, partì per Pavia insieme a Olimpio, mentre il Generale che di costui ancora non sospettava, restò a Ravenna per preparare il suo viaggio a Costantinopoli. Come siano andate le cose con precisione non si sa, ma il fatto è che, subito dopo l'arrivo dell'Imperatore e del suo consigliere, le guarnigioni del Ticino si ribellarono accoppando sommariamente tutti coloro ch'erano considerati amici di Stilicone. Queste guarnigioni erano composte degli ultimi soldati di sangue romano, più o meno puro, che ancora popolassero l'esercito; e quindi la loro rivolta acquistava un chiaro carattere di pogrom contro i barbari.

I capi di costoro si riunirono a Bologna in consiglio di guerra intorno a Stilicone. Questi, udendo che anche l'Imperatore era stato assassinato, approvò subito la loro proposta di marciare su Pavia e passare per le armi gli ammutinati. Ma subito dopo arrivò la smentita: Onorio era salvo. Il Generale disse che in tal caso bisognava aspettare i suoi ordini.

Ma non tutti approvarono questo gesto di disciplina; anzi, i più lo disapprovarono. Il goto Sarò disertò addirittura il campo e di notte attaccò e massacrò la guardia personale di Stilicone, che riuscì a fuggire a cavallo verso Ravenna. Pare che Olimpio avesse promesso a Sarò un cospicuo premio, se uccideva il Generale. Questi sembrava tuttora preoccupato più della salvezza dello Stato che di quella sua perché, lungi dall'organizzare una difesa personale, si mise a diramare circolari a tutti i magistrati ordinando loro di respingere qualunque tentativo delle truppe barbare dislocate fuori dalle città di entrare dentro le mura. Non voleva, Stilicone, che corresse sangue fra italiani e tedeschi. Egli restava fedele al gran sogno

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dell'integrazione, ch'era sempre stato quello degl'Imperatori più illuminati da Aureliano a Costantino a Teodosio.

Mentre cercava così di arginare la catastrofe, giunse da parte di Onorio l'ordine di arrestarlo. Forse solo allora al salvatore dell'Urbe la benda cadde dagli occhi. Si rifugiò in una chiesa dove i soldati non potevano entrare. All'alba alcuni di essi, disarmati, furono condotti dal Vescovo in sua presenza. Nelle mani del prelato essi giurarono, probabilmente in buona fede, che la pena comminatagli era un momentaneo confino in un luogo sorvegliato. Stilicone li seguì. Appena fuori del sacro recinto, gli fu data in lettura una seconda lettera di Onorio che, "per delitti contro lo Stato", gl'impartiva la condanna a morte, da eseguirsi immediatamente.

C'era intorno al gruppo una piccola folla di amici del Generale e di soldati barbari che, udendo quell'incredibile verdetto, sguainarono minacciosamente le spade. Stilicone li fermò con un gesto imperioso. Egli conservava ancora un tale prestigio sui suoi che nessuno osò disobbedirgli. Poi mise un ginocchio a terra e stoicamente, senza una parola di rammarico, curvò la bella testa grigia offrendo il collo all'ascia del boia.

Troppi elementi mancano per poter pronunciare un giudizio sicuro su quest'uomo. Ch'egli avesse approfittato del potere per arricchire se stesso e i suoi, è possibile. Che fosse ambizioso e che qualche volta avesse scambiato l'interesse proprio per quello dello Stato, sbarazzandosi sottomano di avversari e di possibili rivali, è probabile. Che il suo modo di proteggere Onorio fosse alquanto autoritario e talvolta prepotente, lo dimostra il fatto che per due volte gli diede in moglie una sua figliola. Ma quella di cui non si può dubitare è la fedeltà ch'egli serbò alla parola data a Teodosio di difendere fino all'ultimo i suoi eredi e la sua politica. In lui rifulsero le qualità migliori del barbaro che si dedicava al servizio di Roma: la sagacia militare, il coraggio, e soprattutto il senso solenne, quasi maestoso, della dignità imperiale. Certo, giuocò doppio con Alarico, battendolo tre volte e altrettante risparmiandolo. Se questa politica, come oggi si direbbe, di "distensione", fosse giusta o sbagliata, potremmo dirlo solo s'egli fosse stato in grado di svolgerla sino in fondo. Comunque, questo barbaro fu uno degli ultimi condottieri dell'Impero che seppero morire da romani.

La sua testa rotolò nella polvere il 23 agosto 408. Il boia che l'aveva decapitata, Eracliano, in premio di questo nobile servigio, fu nominato Generale. Eucherio fuggito da Roma e rifugiatosi anche lui in una chiesa, fu ucciso alcuni mesi dopo. L'imperatrice Termanzia fu rimandata da Onorio alla madre Serena. Un comitato di epurazione (come tutto si ripete nella Storia!) presieduto da Olimpio fece piazza pulita di tutti quei funzionari e ufficiali che, per il fatto di essere stati selezionati da Stilicone, passavano per "collaborazionisti". Nelle guarnigioni, i Romani imbaldanziti compirono

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alcuni massacri sugli "ausiliari" barbari, mescolandovi anche donne e bambini.

Fu insomma una bella purga, che il contemporaneo Orosio, bigotto e declamatorio, salutò come una "purificazione" di Roma. Peccato che il suo risultato più cospicuo, a parte il cambio della guardia nelle cariche (e nelle prebende) fosse il passaggio di trentamila soldati barbari nel campo di Alarico proprio nel momento in cui la "distensione" svaniva nell'aria.

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CAPITOLO SESTO

ROMA, A.D. 410

AFFACCIATO alla finestra di Laybach nel suo solito ambiguo atteggiamento, Alarico sembrò lì per lì accogliere con assoluta indifferenza la notizia della fine del suo amico Stilicone. Anzi mandò un messaggio a Onorio dicendosi pronto, in cambio di una moderata largizione, a firmare un trattato di pace con lui e a ritirarsi in Serbia. Onorio, col coraggio che lo distingueva più quando maneggiava la penna che non la spada, rifiutò. Ma, invece di prepararsi all'altra eventualità che Alarico implicitamente minac-ciava, la guerra, si rimise alle sue occupazioni favorite: allevar polli e redigere decreti di persecuzione contro gli eretici, "affidandosi per tutto il resto" dice Zosimo "alle preghiere di Olimpio". Oramai egli aveva definitivamente trasportato la sua Corte da Milano a Ravenna, una città che gli acquitrini e la malaria bastavano a difendere. La sicurezza, per lui, era soltanto quella della sua persona.

Alarico valicò le Alpi Giulie, discese il Veneto, non fece tentativi contro Aquileia, traversò il Po, giunse a Bologna, seminando dovunque miseria e fame. E a farglisi incontro ci fu soltanto un monaco, che venne a supplicarlo di desistere dai suoi disegni. "Non sono io" rispose Alarico "che me li propongo; è qualcosa dentro di me che mi ci spinge irresistibilmente gridandomi: “Marcia su Roma e fanne un mucchio di rovine." Fu, se non sbagliamo, il primo tedesco che arruolò il buon Dio sotto le proprie bandiere. Ma gl'imitatori non gli sarebbero mancati.

A Roma, dove dai tempi di Brenno non si era più visto un esercito nemico accamparsi sotto le mura della città, lo sbigottimento fu grande. E la prima misura che venne presa fu quella di uccidere Serena, la vedova di Stilicone, cioè dell'uomo che coi Goti aveva sempre patteggiato. I pagani, incolpandola d'intelligenza col nemico, vollero vendicarsi di colei che aveva commesso il sacrilegio nel tempio di Rea. Ma gli antichi dèi, che il cristiano Stilicone aveva contribuito a mortificare, non ricompensarono di tanto zelo l'Urbe, che sulla fine di quell'anno 408 cominciò a morire di fame. Alarico

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non l'attaccava, ma la teneva chiusa nella sua morsa. E da Ravenna arrivavano incitamenti a resistere, ma non battaglioni. Alla fame si aggiunse un'epidemia. Insorsero qua e là casi dì cannibalismo. A tutte queste jatture l'orgoglio romano, riluttante ad ammettere che Roma potesse essere tenuta prigioniera da un nemico, reagì diffondendo la voce che non era Alarico coi suoi Visigoti quello che bivaccava sotto le sue mura, ma un ribelle luogotenente di Stilicone.

Anche per appurare la fondatezza di questa diceria, fu mandato come ambasciatore il capo dei notai imperiali Giovanni che conosceva per-sonalmente Alarico e che dovette convenire che purtroppo era proprio lui. Nel linguaggio che tenne al guerriero barbaro risuonavano gli accenti dell'Urbe imperiale, abituata più a imporre la pace che a chiederla. Ma il guerriero barbaro, lungi dal lasciarsene impressionare, ne rise, e a quell'aulica concione ribatté con un proverbio popolare tedesco: "L'erba folta si falcia più facilmente di quella rada". Chissà cosa intendeva. In compenso, non ci furono dubbi su cosa esigeva: tutto l'oro, tutto l'argento della città, e la consegna di tutti gli schiavi di sangue barbaro. "Cosa ci lasci dunque?" chiese sgomento il messo. "L'anima" rispose Alarico. Era in sostanza la resa senza condizioni.

Il Senato respinse la proposta, e sì rivolse al Papa. Lo Stato, nell'incombenza del pericolo, abdicava in favore della Chiesa, che così rimpiazzava il vacillante potere politico in Italia. Innocenzo I era un Pontefice di alte qualità morali e intellettuali, ma sapeva benissimo che Roma, cristiana in superficie, era rimasta pagana nella sostanza. Il popolino andava dicendo che Alarico rappresentava soltanto la vendetta degli dèi contro l'Urbe che li aveva traditi, mentre altre città come Narni si erano salvate dalla catastrofe riadottando in tempo l'antica fede e i suoi riti.

Innocenzo I, piegandosi all'emergenza, consentì che questi riti fossero riesumati. Ma i sacerdoti pagani risposero che ciò doveva essere fatto in forma pubblica e solenne, in Campidoglio e nel Foro Traiano, con la partecipazione di tutto il Senato. E anche a questo il Papa diede, sia pure controvoglia, il suo assenso. Ma le cerimonie e i sacrifici, che per un momento ritrasformarono l'Urbe nella capitale del paganesimo, non diedero frutto. Alarico non si mosse, e fame e peste seguitarono a imperversare nella città assediata.

Le trattative ripresero, e finalmente un accordo fu raggiunto: Alarico si contentò di 5000 libbre d'oro, 30.000 d'argento, 3000 di pepe, 4000 tuniche di seta. E questa cupidigia di seta e di pepe la dice abbastanza lunga sui cambiamenti ch'erano sopravvenuti nel costume e nelle abitudini dei barbari. Quanto a quelli dei romani, sono documentati dal modo con cui si procurarono i mezzi per pagare quella pesante tassa. La città che pochi

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giorni prima voleva tornare al culto degli antichi dèi, ora ne spogliò le statue di tutti i loro monili.

Alarico volle mostrarsi arrendevole perché perseguiva un più vasto disegno politico: quello di farsi accettare come alleato permanente di Roma e suo difensore. Il momento gli sembrava buono, perché Onorio era allora più minacciato che mai dall'usurpatore Costantino, acquartierato a Valenza e momentaneamente vittorioso in Inghilterra, Francia e Spagna, sulle orde barbariche che le avevano messe a soqquadro. Ai primi del 409 egli mandò a Onorio un messo per dirgli che, se gli riconosceva il comando su quelle province, egli le avrebbe d'ora in poi governate in suo nome. Onorio era dunque alla scelta fra un avversario e un generale fellone. Preferì affidarsi al fellone, che in quel momento stava sommariamente accoppando tutti i funzionari fedeli all'Imperatore, e gli mandò la porpora imperiale associandoselo al trono.

Lo fece forse per coerenza perché l'alleanza con Alarico avrebbe significato un ritorno alla politica di Stilicone. Ma ad andarne di mezzo fu Roma, che aveva mandato un'ambasciata a Ravenna per ottenere la ratifica del trattato di pace col visigoto. Onorio ascoltò i messi, non si commosse al racconto delle sofferenze della città, rifiutò la ratifica, e Alarico rimise assedio a Roma.

Stavolta non si poteva dire tuttavia che la colpa fosse dei cattivi consigli di Olimpio, piombato in disgrazia e in fuga da Ravenna. Il suo posto lo aveva preso un certo Giovio, un personaggio che veniva dal nulla e di cui si sapeva soltanto che aveva avuto buoni rapporti con Alarico, di cui era stato ospite in Epiro. .Egli chiese all'Imperatore il permesso di abboccarsi col Re goto, e con questi s'incontrò infatti a Rimini per un tentativo di risolvere amichevolmente la controversia. Nel rapporto che subito dopo mandò a Ravenna era detto che Alarico chiedeva un tributo annuo oltre l'Istria, la Venezia e la Dalmazia come settlement per il suo popolo, intatta restando su queste province la sovranità dell'Impero. Ma Giovio suggeriva che se Alari-co fosse stato nominato magister militum, ch'era stata la carica di Stilicone, si sarebbe accontentato e non avrebbe chiesto altro. Era l'ennesima riprova che l'ambizione del barbaro non era distruggere l'Impero, ma inserirsi nelle sue strutture.

La risposta di Onorio fu fulminante: "Non soltanto Alarico, ma nessuno della sua razza" terminava la lettera "potrà mai aspirare a simili incarichi". E Giovio commise la dabbenaggine (o il volontario delitto) di leggere questa frase ad alta voce.

La reazione di Alarico fu quella dell'uomo ferito nei suoi più dolenti complessi d'inferiorità: quell'accenno alla razza lo aveva scottato. Tuttavia seppe controllarsi e, prima di riprendere l'assedio di Roma, volle

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cattivarsene la popolazione con un gesto di generosità. Adunò i Vescovi delle città italiane che aveva occupato e li mandò a Ravenna come suoi ambasciatori per dire all'Imperatore che, pur di evitare all'Urbe nuove sofferenze, si contentava di un diritto di asilo in Austria promettendo in cambio la sua assistenza militare contro qualunque nemico di Roma e dell'Impero.

Di nuovo Onorio rifiutò, allegando il giuramento ch'egli aveva fatto di non scendere mai a patti col barbaro. E questi, da nemico, si tramutò, agli occhi dei Romani, nell'amico che cercava di salvarli. Essi tumultuarono nelle strade manifestando la loro indignazione contro un Imperatore che, lungi dal difenderli, sfogava sulla loro pelle la propria ostinatezza. E decisero di ribellarsi tagliando i ponti con Ravenna ed elevando al trono un altro Imperatore, Attalo.

Era costui un intellettuale greco, che aveva fatto una bella carriera a Corte sino a farsi nominare Prefetto del Pretorio dell'Urbe, la più alta carica della città. I pagani lo consideravano dei loro per via della cultura classica di cui era intriso. In realtà era cristiano. Ma aveva ricevuto il battesimo da un Vescovo goto e ariano, il che faceva di lui una persona grata agli occhi di Alarico e dei suoi.

Attalo prese molto sul serio la sua nomina ad Augusto, convocò il Senato e tenne, in perfetto latino ciceroniano, un magnifico discorso, in cui annunzio la ricostituzione del vecchio Impero col ritorno di tutto l'Occidente sotto lo scettro di Roma. Naturalmente una simile operazione egli intendeva compierla non coi Romani, ma coi Visigoti di Alarico. Ma questo non lo disse. Il primo passo lo mosse in direzione di Ravenna per eliminare intanto il decaduto Onorio.

Questi gli mandò incontro non un esercito, perché non ne aveva, ma il solito Giovio con una proposta allettante: rimanesse Attalo imperatore a Roma, purché lui, Onorio, potesse restarlo a Ravenna. Ma fu Giovio stesso, doppiogiochista inesauribile, a consigliare ad Attalo il rifiuto, anzi a dettargli, pare, l'insolente risposta: "Non un vestigio della dignità imperiale ti sarà lasciato, Onorio. Solo come un favore ti concederemo salva la vita". E Onorio, che alla vita ci teneva molto e non si fidava del "favore" già cominciava a preparare la fuga a Costantinopoli, quando ricevette l'inattesa notizia che proprio da Costantinopoli erano in arrivo lì a Ravenna 40.000 uomini, mandatigli da suo nipote Teodosio II.

Niente potrebbe meglio darci la misura della disorganizzazione e del disordine in cui versavano ambedue gl'Imperi, quello d'Occidente e quello d'Oriente, come il fatto che quei quarantamila uomini erano i rinforzi sollecitati due anni prima da Stilicone per parare i continui attacchi dei barbari. Essi avevano impiegato due anni ad accorrere, e non per cattiva

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volontà, ma per totale inefficienza. E così Onorio fu ancora una volta salvato dal Generale ch'egli aveva fatto uccidere e che anche dopo morto seguitava a rendergli servizio.

Giovio, ch'era rimasto a Roma fingendosi alleato di Attalo, ma segretamente corrispondendo con Onorio, approfittava della sua personale amicizia con Alarico per insinuargli all'orecchio che non doveva fidarsi di Attalo, il quale si preparava a tradire il suo protettore assassinandolo. Alarico ascoltava, ma sapeva che in fatto di lealtà le lezioni di Giovio non erano fra le più qualificate. Egli non abbandonò Attalo, anzi mosse prima su Bologna e poi su Genova per imporre a queste città di riconoscerlo Imperatore. E solo quando gli giunse notizia che il popolo romano, nuovamente ridotto alla fame dal blocco dei porti africani, stava per insorgere contro quell'Augusto unicamente inteso a pronunciare discorsi solenni e inutili, lo convocò a Rimini. E qui, di fronte a tutta la popolazione, gli strappò di dosso la porpora e il diadema, e lì mandò in omaggio a Onorio, per un ultimo tentativo di giungere a un accordo con lui.

Stavolta fu un guerriero goto, un certo Saro, da molti anni alle dipendenze dell'Imperatore, a consigliare a quest'ultimo il rifiuto di ogni trattativa. Sembra che questo Saro avesse con Alarico una vecchia ruggine di famiglia. Comunque, non gli ci volle molto a incoraggiare l'ostinazione di quel Sovrano che, come poi si dirà di certi Re Borboni, non dimenticava nulla e non imparava nulla.

Alarico allora tornò per la terza volta sotto le mura di Roma, portandosi dietro Attalo che, riprecipitato nella polvere da cui era emerso, gli aveva umilmente chiesto di restare al suo seguito. E dopo breve assedio, v'irruppe, probabilmente senza incontrare resistenza o incontrandone molto poca.

Correva l'anno 410. E l'avvenimento era così sensazionale che riecheggiò in tutto il mondo eccitando la fantasia della gente, la quale vi ricamò sopra le più sinistre dicerie. Si disse, per giustificare quella rapida resa, che Alarico era ricorso al proditorio stratagemma di mandare in dono ai nobili romani trecento schiavi, i quali poi avevano agito da quinta colonna aprendo le porte della città. Secondo altri, fu invece una gentildonna dell'aristocrazia, Proba, che le fece aprire dalle sue ancelle per risparmiare alla popolazione le sofferenze di un nuovo assedio.

Purtroppo, della caduta di Roma, non abbiamo che i pochi aneddoti raccolti da alcuni memorialisti ecclesiastici tutt'altro che attendibili. Non stentiamo a credere che, dopo esserci ronzati intorno e averla bramata tanti anni, i guerrieri goti abbiano commesso nella città saccheggi e devastazioni. Ma furono molto minori di quelli di cui si favoleggiò. Alarico aveva ordina-to che gli edifici cristiani fossero rispettati. E i soldati obbedirono. Uno di essi, entrato senza saperlo in una chiesa, volle depredarla. Una vecchia

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monaca gli disse: "Fa' pure. Io non sono abbastanza forte per difendere questa roba. Sappi però ch'è dell'Apostolo Pietro". Il goto s'impaurì, sollecitò l'intervento personale di Alarico, e questi ordinò che tutti i preziosi della Basilica fossero portati in processione nel sotterraneo.

Il sacco di Roma durò da tre a sei giorni. Poi, carico di bottino, l'esercito di Alarico riprese la marcia verso il Sud, penetrò in Campania, di qui passò in Calabria, e si diresse verso Reggio. Ma presso Cosenza fu colpito da una violenta febbre. Forse era malaria. Comunque, di lì a pochi giorni il malato spirò.

I suoi soldati, non potendo riportarne in patria il cadavere, decisero di scavargli una tomba che nessuno potesse trovare e profanare. Misero al lavoro migliaia di schiavi per dirottare il corso del Busento, un torrente che dalla Sila scende sul Tirreno, scavarono una fossa nel vecchio letto, e vi ricondussero sopra il fiume. Poi, per maggior precauzione, accopparono tutti coloro che avevano preso parte a quel faraonico lavoro, in modo che nessuno potesse rivelare il segreto della esatta ubicazione.

Era un poscritto in carattere con la figura romantica ed errabonda di questo guerriero tedesco, che apriva la serie di quegli eroi germanici destinati a calare in Italia assetati di un amore omicida per Roma, e a perdervisi. Egli aveva riassunto in sé, meglio di chiunque altro, i torbidi istinti e le confuse aspirazioni del mondo barbarico di fronte alla civiltà latina. Sebbene la sua politica fosse stata contraddittoria e incoerente, Alarico fu il primo, dei condottieri teutonici, a concepirne una. Generoso e avido, nobile e crudele, molto spesso in balìa delle proprie passioni, ma capace anche di freddo calcolo aveva esercitato sui suoi uomini un fascino profondo e ne era stato idolatrato. E di tutti i contemporanei, latini e tedeschi, era stato, con Stilicone, l'unico che avesse visto con chiarezza la necessità dell'integrazione fra i due mondi. Fu lui stesso a chiedere, in punto di morte, di essere sepolto lì, nel letto di un fiume che gli ricordava il Danubio in riva al quale era nato. Come successore, aveva designato suo fratello Ataulfo.

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CAPITOLO SETTIMO

GALLA PLACIDIA

LA NOTIZIA della caduta di Roma aveva precipitato nello sbigottimento il mondo intero. I pagani ci videro la vendetta degli dèi dimenticati e traditi. E i cristiani, che per quattro secoli avevano lottato contro l'Urbe auspicandole la stessa fine di Babilonia, d'improvviso se ne sentirono orfani e si resero conto quanto ad essa e alla sua intelaiatura politica, amministrativa e organizzativa, anche la loro Chiesa era indebitata. Sant'Agostino, allora Vescovo a Ippona, trovò nell'avvenimento lo spunto per la sua opera capitale La città di Dio. E dalla sua cella di Betlemme in Palestina, San Girolamo, che di Roma e dei suoi vizi era stato uno spietate accusatore, scriveva: "La fonte delle nostre lacrime si è disseccata... Di colpo, persi la memoria di tutto, perfino del mio nome..."

L'unico che non mostrò nessun turbamento fu Onorio. Procopio racconta che quando un ciambellano venne ad annunziargli la fine di Roma, l'Imperatore rispose arrabbiato: "Che fine e fine!... Cinque minuti fa, beccava il granturco nel palmo della mia mano!... " Credeva che il ciambellano alludesse a un bellissimo esemplare di gallina faraona, cui appunto aveva dato il nome di Roma. E quando comprese che non era la gallina, ma la città ch'era andata in rovine, trasse un respiro di sollievo. L'unico particolare che dolorosamente lo colpì di quella catastrofe, fu la notizia, che subito dopo gli giunse, della sorte toccata a sua sorella Galla Placidia, catturata dai barbari e da essi condotta al loro seguito.

Placidia era stata il solitario frutto del secondo matrimonio di Teodosio, quello con Galla, la sorella di Valentiniano II. Era cresciuta praticamente orfana perché sua madre era morta quattr'anni dopo averla data alla luce, alla vigilia dell'ultima spedizione di Teodosio in Occidente, donde l'Imperatore non doveva più tornare. Non sappiamo come mai si trovasse a Roma nel momento in cui i Goti la misero a sacco. Forse perché lì era venuta ad abitare Leta, la vedova di Graziano, che a quanto pare le aveva fatto da tutrice. Ma forse era anche perché Placidia non voleva coabitare con

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nessuno dei suoi due fratellastri, coi quali doveva andar poco d'accordo, e quindi evitava sia Costantinopoli che Ravenna. Essa non aveva nelle vene il sangue anemico di Flaccilla, la prima moglie di Teodosio, come Onorio e Arcadio. Se da sua madre aveva preso la bellezza, da suo padre aveva ereditato un carattere.

Nelle cronache dei memorialisti, il suo nome compare per la prima volta a proposito della condanna a morte di Serena, la vedova di Stilicone, che Zosimo attribuisce proprio a Placidia. Quale odio c'era fra le due donne, e perché? Claudiano suggerisce che Serena aveva tentato di darle proditoriamente per marito suo figlio Eucherio. Ma probabilmente sono chiacchiere. Serena, a quanto ci risulta, fu la vittima dei pagani, non degl'intrighi di famiglia.

Comunque, Placidia fu catturata dalla soldataglia di Alarico, che la tenne come ostaggio, pur trattandola con tutti i riguardi dovuti al suo rango di Principessa reale, e se la condusse al seguito nell'ultima sua cavalcata verso Brindisi. La si trova menzionata nelle trattative che il condottiero ebbe con Onorio, il quale ne reclamava con perentoria insistenza la restituzione. I fatti poi dimostrarono che non si trattava, o per lo meno non si trattava soltanto, di amore fraterno. Onorio non aveva affetti. Aveva soltanto puntigli e suscettibilità. Che una sua sorella fosse tenuta prigioniera da un lan-zichenecco barbaro gli sembrava un intollerabile oltraggio al suo imperiale prestigio.

Alarico però, che nella sua smania di trovare un accordo con lui, sui primi tempi si era offerto di rimandargliela subito, cominciò ora a tergiversare. Il suo più giovane fratello Ataulfo, destinato a succedergli nel comando, si era innamorato della bella prigioniera, che lo ricambiava pienamente. E Alarico approvava quell'idillio, nel quale si riassumeva in fondo tutta la sua politica.

Fra i suoi alti e biondi guerrieri, Ataulfo, a quanto riferisce Giordane, era fisicamente fra i meno imponenti. Ma aveva un temperamento appassionato e cavalleresco, che certamente dovette piacere alla Principessa cresciuta fra cortigiani eunuchi, imbelli e calcolatori. Orosio dice di aver saputo da un certo Gerolamo, personale amico del giovane condottiero, che costui in gioventù aveva accarezzato il sogno di rovesciare l'Impero di Roma per sostituirlo con quello gotico, proclamandosene egli stesso Augusto. Poi, familiarizzatosi con la lingua e le leggi latine, si era reso conto che i Goti non erano maturi per sostituirvi quelle loro e si era proposto di restaurare, invece che di distruggere, la gloria di Roma, rinvigorendola col sangue tedesco. Innamorandosi di Placidia, egli non aveva dunque fatto che tradurre in termini coniugali questa concezione politica. Quanto a Placidia, c'è da pensare che la politica non c'entrasse e che essa ricambiasse i sentimenti di Ataulfo solo perché era un bel ragazzo e un intrepido soldato. Però alla

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stessa politica ci arrivò anche lei, più tardi, seguendo il cammino opposto e molto più femminile dal letto all'idea, invece che dall'idea al letto.

Il matrimonio non si poté subito celebrare perché Onorio non dava il consenso, avendo promesso la mano di Galla a Costanzo ch'era il suo miglior Generale e che ora aveva preso il posto occupato successivamente da Olimpio e da Giovio. Di sangue illirico, Costanzo era un uomo non più giovane e fisicamente piuttosto ripugnante per via del testone rinsaccato su un collo corto e largo, e dello sguardo truculento e minaccioso. Stava in sella come un sacco di patate pericolando sul collo del quadrupede. Ma, a dispetto di questo fisico sgraziato e disgraziato, era un buon diavolaccio, pieno di calore umano, specialmente a tavola dove dava il meglio di sé, mangiando con gagliardo appetito, bevendo in proporzione, non disdegnando di recitare pantomime con gli attori ch'egli reclutava per questi simposi, e scambiando con loro battute scurrili e scherzi grossolani. Doveva somigliare un po' a Krusciov. Ma, come Krusciov, sapeva fare molto bene e lealmente il suo mestiere. Era stato lui a catturare ad Arles l'usurpatore Co-stantino e suo figlio Giuliano che, dopo aver ricevuto da Onorio solenne promessa di aver salva la vita, furono regolarmente scannati. E ora, in nome di questi meriti, insisteva per ottener la mano di Placidia.

Ataulfo, dopo la morte di Alarico, cominciò a risalire la Penisola, attraversò le Alpi occidentali e penetrò in Francia, forse per dare a Onorio la prova che non intendeva minacciarlo e ottenere da lui il sospirato consenso al matrimonio. Ma siccome il consenso si ostinava a non venire, allacciò trattative con Giovino, il nuovo usurpatore che aveva rimpiazzato, lì in Francia, Costantino. Quando però seppe che sotto le bandiere di costui stava accorrendo anche Saro, ribellatosi all'Imperatore perché gli aveva ucciso un servo, gli mosse incontro, lo catturò in un'imboscata, lo uccise, e troncò i rapporti con Giovino. Anzi lo attaccò di sorpresa, lo prese prigioniero, e ne mandò la testa decapitata dal tronco, insieme a quella di suo figlio Seba-stiano, a Onorio.

Era un bel dono. Così bello, che l'Imperatore stavolta si lasciò commuovere, nonostante le proteste di Costanzo, e diede il sospirato assen-so. Le nozze furono celebrate a Narbona, e si svolsero secondo la liturgia romana nel palazzo di un ricco proprietario locale. Qui attendeva Placidia, avvolta nella porpora imperiale. Ataulfo venne a prenderla, ammantato in una tunica di lana bianca, armato della sua barbarica ascia di guerra, ma senza il cappuccio e i ghettoni di pelliccia. Dei doni di nozze ch'egli fece alla sposa si parlò per un pezzo in tutto il mondo: cinquanta bellissimi adolescenti a lei destinati come schiavi recavano altrettanti vassoi ricolmi di tutti gli ori e pietre preziose ch'erano stati saccheggiati nell'Urbe. Il guerriero tedesco restituiva alla Principessa romana la preda bellica per

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ricambiarle l'alto onore ch'essa gli faceva acconsentendo a diventare sua moglie. Attalo, ch'era rimasto al seguito dei suoi protettori, riebbe un'ora di gloria compilando e declamando un discorso inneggiante all'imeneo fra i due popoli. I discorsi erano l'unica cosa che sapeva fare. La folla in cui si mescolavano barbari e romani sentì il valore simbolico dell'avvenimento e lo salutò con giorni e notti di baldoria. Era la distensione fra tedeschi e latini.

Nove mesi dopo nacque un figlio, cui fu dato il nome del nonno materno Teodosio, il quale certamente avrebbe approvato quelle nozze. Poteva essere l'erede al trono di Onorio, che figli non ne aveva, e il suggello dell'avvenuta integrazione fra i due popoli. Purtroppo il bambino era ancora in fasce, quando morì a Barcellona dove Ataulfo si era spostato per mettere ordine nella Spagna contesa fra Svevi, Alani e Vandali, forse sperando che Onorio, ora ch'era suo cognato, gliene affidasse il governo. I genitori parvero annientati dal dolore mentre la piccola bara di massello d'argento calava nella fossa.

Subito dopo anche Ataulfo morì, vittima di un attentato, ordito probabilmente da Segerico, il fratello di Saro, che gli successe nel comando. Spirando, sussurrò ai suoi: "Vivete in amicizia con Roma e restituite Placidia all'Imperatore". Segerico non ne tenne conto. Anzi, scacciò la vedova Principessa dai suoi appartamenti, la precipitò al rango di una schiava qualunque, e la obbligò a seguire a piedi il suo cavallo, mentre egli sfilava per le vie della città. Placidia, sebbene distrutta dalla perdita del figlio e del marito, subì quegli oltraggi senza batter ciglio e col sorriso sulla bocca, da vera Regina. E forse fu anche questo suo contegno che contribuì ad abbreviare la rapida carriera di Segerico che, dopo soli sette giorni di comando, venne deposto e massacrato dai soldati furibondi. A succedergli per acclamazione fu Wallia, un prode e leale guerriero che subito eseguì la volontà di Ataulfo, facendo accompagnare Placidia ai Pirenei, dove Costanzo venne a riceverla in pompa magna.

L'addio della Principessa ai "suoi" Visigoti fu malinconico e affettuoso, ma valse a costoro uno stabile trattato di pace con Onorio. Essi mai più fecero ritorno in Italia. Sotto la guida di Wallia combatterono peripateticamente in nome dell'Imperatore, contro Alani, Vandali e Svevi, finché stabilirono un Reame a cavallo dei Pirenei, ch'ebbe per capitale Tolosa. La parte francese fu inghiottita un secolo e mezzo dopo da Clodoveo, quella spagnola dai Saraceni ai primi del secolo ottavo.

Placidia, giunta a Ravenna, resisté ancora per tre anni alla corte di Costanzo e alle insistenze di Onorio che voleva a tutti i costi quel matri-monio. Finalmente si arrese non al pretendente, ma alla "ragion di Stato" : Onorio le aveva commissionato un erede, visto che lui non era riuscito a

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procurarsene. Il maturo Generale volle festeggiamenti nuziali che superassero il ricordo di quelli di Narbona, e li ebbe. Ma non ebbe - pensiamo - la Placidia che Ataulfo aveva avuto. L'anno dopo nacque una bambina, cui fu dato il nome di Onoria. E quello successivo, finalmente, un bambino, cui fu dato il nome di Valentiniano e il titolo di Nobilissimo, che nella terminologia di quella Corte voleva dire Principe Ereditario.

Per rendere definitiva questa scelta, quattro anni dopo Costanzo fu da Onorio associato al trono, e Placidia ricevette il titolo di Augusta. Ma sette mesi più tardi Costanzo morì, e Placidia dovette vedersela con un terzo corteggiatore, il più inaspettato e il meno gradito di tutti: suo fratello. Non sapendo come difendersi da quell'incestuoso capriccio (era una donna sana, Placidia, e di moderati appetiti sessuali), scappò coi due bambini a Costantinopoli da suo nipote Teodosio II. Per sua fortuna, anche Onorio di lì a poco morì, di un male che gli somigliava: l'idropisia. Il Porfirogenito, come lo aveva battezzato Claudiano quando nacque, salutandolo "più augusto di Giove", non aveva che trentanove anni. Ma li aveva spesi talmente male, che a rimpiangerlo forse furono soltanto i suoi polli.

Com'era da prevedere, l'assenza da Ravenna dell'erede legittimo favorì l'usurpazione di un certo Giovanni, capo dei Notai e personaggio as-solutamente di secondo piano. Ma la cerimonia dell'incoronazione fu turbata da un brutto presagio: si udì una voce, non si sa da chi articolata, che diceva: "Casca, casca, non si regge!..." Infatti non si resse.

Teodosio si affrettò a comunicare a Ravenna che non accettava quel collega. Restava da sapere se intendeva deporlo per restituire il trono alla zia Placidia e al piccolo cugino Valentiniano, oppure per tenerselo ricostituendo così la unità dell'Impero. Scelse la prima alternativa, riaccompagnando di persona fino a Salonicco l'Augusta e il Principino, conferendo a questo ultimo la porpora e il titolo di Cesare e affidando entrambi a un Generale di sangue barbaro, Ardaburio, e a suo figlio Aspar alla testa di un corpo di spedizione.

Giovanni fu deposto dopo un regno di diciotto mesi e condotto prigioniero a Aquileia, dove Placidia e suo figlio avevano fatto sosta. Gli fu mozzata la mano destra, venne spinto per le strade a cavallo di un somaro in una parodia di trionfo, eppoi abbandonato alla soldataglia che lo linciò.

Alla fine di quello stesso anno 425, un imponente corteo mosse da Ravenna verso Roma. Lo guidava, per mano a sua madre, il piccolo Va-lentiniano, che aveva ora sette anni. Sul Campidoglio egli rivestì la porpora, si coronò del diadema, e il popolo lo acclamò Augusto.

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CAPITOLO OTTAVO

GLI INTRIGHI DI RAVENNA

QUANDO ONORIO vi aveva stabilito la sua corte, Ravenna era, come lo è oggi Venezia, una città di lagune e di canali, che ne facevano il principale porto dell'Adriatico. Era del resto unicamente a questa cintura d'acqua, che la proteggeva meglio di qualunque bastione di pietra, ch'essa doveva la sua elezione a capitale. Altre attrattive essa non aveva, né di clima, né di paesaggio, né di architettura.

Sidonio Apollinare, che ci capitò alcuni anni dopo, così la descriveva: "È un pantano, dove tutto va all'incontrario: i muri precipitano, le acque ristagnano; le torri affiorano e le barche si arenano; i bagni gelano e le case s'infuocano; i vivi muoiono di sete e i morti galleggiano; i ladri vegliano e le guardie dormono; i preti esercitano l'usura e gli usurai cantano i salmi; i mercanti imbracciano armi e i soldati fanno commercio; gli eunuchi studiano l'arte della guerra e i guerrieri barbari studiano la letteratura. È una città di terra che non possiede che acqua e la cui popolazione originaria è composta solo di zanzare e di ranocchi".

Prima di questo Apollinare, n'era giunto a Ravenna un altro nel primo secolo dell'Era Cristiana, che poi era diventato Santo, Santo Apollinare, e che vi aveva fondato la prima chiesa, quella che porta il suo nome. Era stato lui a dare a Ravenna quel carattere di città assorta e monastica, di nebbiosa necropoli stillante accidia e malinconia, che ha serbato anche nell'età delle automobili e della televisione. Clima, templi e leggende contribuivano a fare di essa una delle poche- città romantiche della Penisola. E fu per questo, probabilmente, che Placidia ben volentieri vi si ritirò coi suoi due figli Ono-ria e Valentiniano. Romantica di temperamento anche lei, vieppiù lo era diventata dopo i lunghi anni trascorsi a fianco di Ataulfo in mezzo ai Goti. E quella quiete, quel silenzio rotto solo dai rintocchi delle campane e dallo sciacquio della laguna, le si addicevano.

Non aveva ancora trentacinque anni, e ne visse altri venticinque di fatto esercitando il potere imperiale, anche se di nome esso spettava a suo figlio.

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Procopio, che scrisse le sue Storie circa un secolo dopo, l'accusa di aver di proposito fatto di Valentiniano uno slombato per seguitare a comandare lei. Ma i fatti non ce ne danno conferma. È possibile ch'essa si sia rifiutata di vedere in suo figlio un uomo, anche quando questi ebbe raggiunto la maggiore età, e abbia seguitato a trattarlo da ragazzo. Questo lo fanno quasi tutte le mamme: sta ai figli dimostrare ad esse che hanno torto, anche a costo di dar loro qualche dispiacere. Ma ancora più probabile è che Placidia abbia seguitato a trattare suo figlio da ragazzo perché si accorse che non riusciva a diventare un uomo.

Gli avvenimenti del suo lungo regno dimostrano, al contrario, ch'essa il comando lo esercitò poco, specie in materia politica; e fu questa, caso mai, la sua vera colpa. Quelli che più la interessavano erano i grandi problemi spirituali e religiosi, e in ciò si mostrò buona figlia di suo padre, specie quanto a zelo persecutorio contro gl'infedeli e gli eretici. Mentre l'Impero cadeva a pezzi, provincia su provincia, essa continuava a patroneggiare Concili e a compilare editti contro chi trasgrediva alle loro decisioni: Nestorio condannato a Efeso, Dioscoro colpito dall'anatema a Calcedonia, erano da lei considerati più pericolosi ed esiziali dei Longobardi, dei Franchi, dei Vandali che stavano sommergendo tutto l'Occidente.

La difesa contro questa minaccia armata essa l'aveva data in appalto a due uomini, "ognuno dei quali" dice Procopio (e in questo forse ha ragione) "poteva rappresentare la salvezza se non si fosse trovato a vivere contemporaneamente all'altro" : Bonifacio e Ezio.

Bonifacio era, come si direbbe oggi, un Generale di carriera, fra i pochi rimasti con le mani pulite e senza ambizioni politiche. Non si sa se fosse romano di sangue. Ma lo era diventato, e nel senso migliore, di scelta, di cultura e di costumi. Per la prima volta, lo si trova citato nel 413 quale comandante della piazzaforte di Marsiglia, quando respinse l'improvviso at-tacco di Ataulfo. Sempre fedele a Onorio, lo rimase anche ai suoi legittimi successori, Placidia e Valentiniano, contro l'usurpatore Giovanni. Passava per un uomo severo e giusto. Un giorno un contadino era venuto a lamentarsi nella sua tenda che un soldato della guarnigione gli aveva sedotto la moglie. Bonifacio fece di notte nove miglia a cavallo per andare a sin-cerarsi sul posto, e l'indomani presentò al marito ingannato la testa dell'adultero spiccata dal busto. Si guadagnò anche un certo odor di santità con la lunga corrispondenza che più tardi ebbe con Sant'Agostino e col voto che fece, quando gli morì la prima moglie, di non sposarne altre. Poi vi contravvenne doppiamente impalmando Pelagia, ch'era anche ariana e quin-di, agli occhi della Chiesa, eretica. Eretica, ma piena di milioni. Placidia teneva Bonifacio in gran conto e dopo aver fatto di lui, uomo comunque di famiglia modesta, un vir spectabilis, cioè un nobile dell'Impero, lo nominò

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Conte di Africa e gli affidò il comando di quella provincia, da cui dipendevano gli approvvigionamenti di grano per l'Italia.

Furono questi onori e riconoscimenti che aizzarono forse le gelosie di Ezio, l'altro "grande" della Corte di Ravenna. Ezio era un barbaro, probabilmente un goto; ma già suo padre aveva fatto carriera nell'esercito romano dov'era diventato Generale di cavalleria. Come usava a quei tempi, quando si stipulavano dei trattati, Ezio era stato dato in ostaggio prima a Alarico, eppoi a Rua, Re degli Unni. Così egli aveva trascorso la giovinezza in mezzo a selvatici guerrieri. E se questo gli servì per capirne i punti deboli quando più tardi si trovò a combatterli, non lo aiutò di certo a formarsi una mentalità romana e a sviluppare un vero e proprio senso dello Stato. Rimase sempre in questo prode soldato un atteggiamento da pretoriano e una spiccata propensione a mercanteggiare i propri servigi. Li prestò anche all'usurpatore Giovanni che, per fronteggiare Placidia e le forze di Aspar, lo spedì a reclutare un esercito unno. Ezio tornò alla testa, pare, di sessantamila uomini, ma tre giorni troppo tardi per dare man forte al suo padrone già sgominato sul campo. Sembra che attaccasse ugualmente battaglia. Ma, anche se lo fece, fu solo per tenere alto il proprio prezzo di mercenario. Placidia non gli mosse rimproveri: a quei tempi la slealtà era, come la le-gittimità, un criterio molto opinabile. Anzi, lo ricompensò della pronta conversione nominando anche lui vir spectabilis e affidandogli, col titolo di Conte d'Italia, il comando militare della Penisola.

Era fatale che fra i due favoriti scoppiasse la rivalità, e che in questa rivalità avesse la meglio quegli ch'era più vicino all'Imperatrice. Procopio racconta che Ezio, pur professandosi grande amico di Bonifacio e scambiando con lui lettere affettuose, cominciò a far diffondere la voce che il Conte d'Africa lavorava sotto sotto per staccare quella provincia dal-l'Impero e incoronarsene Re, com'era già successo con altri luogotenenti. E quando vide Placidia inquietarsi di quelle dicerie, le suggerì, con l'aria di difendere l'onore del collega, di chiamarlo a Ravenna per una franca spiegazione. "Se obbedisce" disse, "è chiaro che non è colpevole." Ma nello stesso tempo spedì di nascosto una lettera a Bonifacio per avvertirlo che a Corte lo aspettavano per incriminarlo di tradimento.

Bonifacio, che non doveva fidarsi molto della giustizia imperiale, credette ad Ezio, e rifiutò di presentarsi. Ciò confermò i sospetti sulla sua pretesa slealtà e fece sì che nel 427 egli venisse dichiarato "nemico di Roma".

Le conseguenze di questo imbroglio furono drammatiche e irreparabili. Bonifacio, sentendosi abbandonato, contrattò un'alleanza coi Vandali, che in quel momento guerreggiavano in Spagna coi Visigoti e gli Svevi, invitandoli a stabilirsi in Africa, ch'era allora infinitamente più fertile e ricca. E così colui che non era un traditore, lo diventò. I Vandali, sotto la

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guida del loro re Genserico, vennero, e non se ne andarono mai più. Pochi mesi dopo, alcuni vecchi amici di Ravenna, che non avevano mai

voluto credere alla perfidia di Bonifacio, andarono di nascosto a trovarlo. Egli mostrò loro la lettera di Ezio, e l'inganno fu chiarito. Placidia mandò al Generale calunniato, insieme col perdono, l'ordine di scacciare i Vandali. Bonifacio cercò di farlo, prima con le buone, poi con le cattive, e ottenne anche qualche vittoria. Ma non aveva forze sufficienti per condurre a termine l'impresa, né c'era da sperare che gliene mandasse Ezio.

Costui in quel momento guerreggiava con successo, ma senza conclusione, in Francia contro i barbari che l'avevano messa a soqquadro. E nessuno pensò, dopo la scoperta del suo raggiro, a togliergli il comando. Anche questo faceva parte della moralità di quei tempi. Anzi, quando seppe che Bonifacio, ormai battuto dai Vandali, si era reimbarcato per Ravenna dove lo attendeva la promozione a Magister utriusque militiae, cioè praticamente a Generalissimo, Ezio scese apertamente in guerra contro di lui. Diviso in due, l'ultimo esercito romano si diede battaglia per i fatti personali dei rispettivi comandanti. Bonifacio vinse. Ma, secondo un costume che già anticipava il Medio Evo e la Cavalleria, dovette scendere in singolar tenzone contro il battuto rivale. E qui invece perse. Ferito gravemente, morì tre mesi dopo. Spirando, raccomandò a sua moglie di non accettare in sposo nessun altri che Ezio, se costui un giorno fosse rimasto vedovo a sua volta. E anche questo era un gesto del più puro rituale cavalleresco.

Ma Ezio vedovo non rimase. La situazione dell'Italia si era fatta disperata, ora che i Vandali gliene

avevano requisito il granaio. E la città che più ne risentiva era Roma, dove molta popolazione si era riversata dalle campagne per sfuggire ai saccheggi delle soldataglie di Alarico. Apollodoro ha lasciato scritto che in tutto quel periodo erano immigrate nell'Urbe sino a quattordicimila persone al giorno. Onorio aveva proibito i circenses, cioè i giuochi del Circo, ma la fame di panem era enormemente cresciuta. Purtroppo quella società rurale di piccoli e medi coltivatori diretti, che aveva costituito un tempo la forza dell'Italia, era scomparsa. C'erano soltanto dei latifondi sprovvisti di manodopera e sfruttati quasi esclusivamente a pastorizia. I dislivelli economici si erano paurosamente approfonditi. Esisteva ancora una grande aristocrazia che viveva principescamente su rendite di miliardi. Il grande storico e umanista Simmaco ne spese otto in un anno per festeggiare la propria elezione a Pretore, una carica puramente onorifica cui non corrispondeva più nessun potere effettivo. C'erano palazzi sontuosi, con legioni di camerieri e di cuochi. C'erano splendidi tiri a quattro e a otto. E c'erano anche vaste distribuzioni caritative. Il popolino affamato si abituava sempre più a vivere

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di elemosina, fidando unicamente sulla generosità dei signori: un carattere che Roma da allora non ha più perso.

Placidia non ignorava tutto questo, ma non aveva i mezzi per rimediarvi. Chiusa nel suo palazzo di Ravenna, seguitava a combattere coi suoi editti la battaglia contro gli eretici, conscia forse che solo la Chiesa poteva sopravvi-vere alla gran catastrofe del mondo romano e assicurare la resurrezione dei suoi valori spirituali e culturali. Non fu certo per mancanza di energia ch'essa rinunziò a impossibili riforme. Questa Imperatrice era l'unico uomo della famiglia; la sola, della progenie di Teodosio, che ne avesse ereditato il carattere. Nella sua inazione c'era soltanto la disperata certezza che ogni giorno perduto fosse un giorno guadagnato. In quell'Impero anchilosato, ridotto praticamente soltanto all'Italia, cioè a quattro o cinque milioni di abitanti affamati e resi imbelli da una ormai secolare esenzione dalla leva, qualunque innovazione poteva affrettare il crollo invece di ritardarlo.

Quando sentì avvicinarsi la morte, trasportò la Corte a Roma. Forse volle, prima di chiudere gli occhi, rivedere la città di San Pietro e consultarsi col Papa, ch'era allora Leone I, più grande come uomo di Stato che come teologo. Essa sapeva che il suo vero successore era lui, il capo della Chiesa ; non certo i suoi figli Valentiniano, piccolo effeminato, e Onoria, piccola scostumata.

Spirò non ancora sessantenne, il 27 novembre del 450. E forse fu per suo espresso desiderio che il corpo, imbalsamato, venne riportato a Ravenna e collocato in un sarcofago nella chiesa dei Santi Nazario e Celso. Vi rimase intatto più di un millennio, e lo si poteva vedere attraverso un pertugio, ammantato nelle sue vesti regali e irrigidito su uno scranno di legno di cipresso. Un giorno del 1577 un incauto visitatore, per vederlo meglio, avvicinò troppo una candela al buco. Le vésti presero fuoco e in pochi secondi tutto si trasformò in un pugno di cenere.

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CAPITOLO NONO

ATTILA

DICIASSETTE anni prima che Placidia morisse, e precisamente nel 433, era

scomparso Rua, il Re che aveva guidato le orde unne fin nel cuore dell'Ungheria. E sul trono sedevano ora i suoi nipoti, Attila e Bleda.

Questa divisione del potere non era un'eccezione, ma il ritorno al vecchio costume di quel popolo equestre e errabondo, nella cui tradizione i primi Re, Basi e Kursik, s'incontrano appunto in coppia. Lo stesso Rua dapprincipio aveva regnato insieme a suo fratello Oktar, e soltanto dopo la morte di costui aveva potuto accentrare nelle proprie mani il comando. Forse fu proprio questa la ragione per cui riuscì a imporre alle sue orde un alt così lungo e così contrario alla loro vocazione, lì sulle rive del Danubio. Il trono bipartito era sempre stato causa di gran debolezza e di anarchia.

Gli Unni erano ancora un popolo nomade. Ma da quando avevano varcato il Volga una settantina di anni prima, la loro marcia si era alquanto rallentata, per due motivi: prima di tutto perché per la prima volta erano venuti in contatto col limes dell'Impero, con le sue fortificazioni e i suoi sbarramenti, per quanto deteriorati; eppoi perché la massa unna aveva convogliato nella sua avanzata i detriti e i brandelli dei popoli germanici ch'essa aveva sottomessi e che ora forse costituivano il grosso del suo esercito. Alemanni, Sciri, Rugi, Gepidi, Goti erano ormai più numerosi degli stessi Unni, e non ne condividevano che parzialmente il nomade istinto. Essi avevano qualche nozione di agricoltura, e preferivano la casa, o almeno la capanna, alla tenda e alla groppa del cavallo.

Uno scrittore greco, Prisco, che fece parte di un'ambasceria di Costantinopoli, ci fornisce infatti degli Unni un ritratto assai diverso da quello lasciatoci da Ammiano Marcellino. Essi avevano una capitale, ora, sia pure di effimere catapecchie, ma che denunziava una certa vocazione alla stabilità. Si chiamava Aetzelburg, sorgeva vicino alla moderna Budapest, e doveva essere un ben curioso villaggio, policromo e poliglotta,

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dove si mescolavano i capitribù mongoli dalla pelle gialla, dagli occhi a mandorla, dagli zigomi in rilievo e dal corpo basso e tozzo, con i Re e i Generali tedeschi dal fusto alto, dagli occhi azzurri e dalla pelle rosea. Non c'era nulla, s'intende, che somigliasse a un'organizzazione statale, e nemmeno cittadina. Non c'era una lingua scritta, non c'erano leggi, non c'era una burocrazia. Le ambascerie straniere che vi giungevano da ogni parte del mondo si acquartieravano sotto tende ch'esse stesse portavano al seguito, e lì restavano talvolta per mesi in attesa che il Re le ricevesse.

Attila e Bleda, quando salirono al trono, non avevano in comune che la giovane età e l'origine dinastica. Per tutto il resto differivano pro-fondamente. L'unico ricordo che Bleda ha lasciato di sé è il suo affetto per un nano negro, Zercone, chissà da chi regalatogli, che lo divertiva come un giocattolo può divertire un ragazzo grossolano, ignorante e capriccioso. Trascorreva le sue giornate con lui, a ridere delle sue smorfie e pagliacciate. E un giorno che Zercone fuggì insieme ad alcuni prigionieri, Bleda mobilitò mezzo esercito per catturarlo. Quando glielo riportarono ammanettato e in catene, invece di punirlo, gli chiese premurosamente perché era scappato. Zercone rispose che lo aveva fatto per andare a cercarsi una moglie, visto che fra gli Unni non ne trovava. La cosa divertì enormemente Bleda che, dopo averne riso fino alle lacrime, mandò a chiamare una damigella di Corte, di nobile lignaggio, e le impose d'impalmare il mostriciattolo. Questi, dopo la morte del suo padrone, venne mandato da Attila in regalo a Ezio. Ma un bel giorno tornò ad Aetzelburg a chiedere che gli fosse restituita la moglie, la quale non lo aveva seguito. Attila non volle saperne, e il nano rimase lì anche lui di propria volontà, a fare il buffone durante le feste e i banchetti.

Erano stati i Goti, che ormai costituivano il nerbo del suo esercito, a coniare quel nome di Attila, che nella loro lingua voleva dire "piccolo padre". Ma si trattava di un padre un po' a modo suo. Di statura piuttosto corta, largo di spalle, con una grossa testa sul collo taurino, naso piatto, una rada barbetta, zigomi sporgenti e occhi a spillo, solo a vederlo questo mon-golo metteva i brividi addosso. La sua voce e i suoi gesti erano imperiosi. Camminava, come tutti i piccoli, a petto in fuori, conscio della propria potenza e importanza. Il suo orgoglio era pari soltanto alla sua avarizia, ch'era immensa. Il suo potere era basato unicamente sulla paura ch'egli ispirava. Non c'erano intorno a lui né entusiasmi né affetti, ma soltanto il terrore. Se fosse un genio come qualcuno ha detto, non sappiamo, e invano ne chiediamo conferma agli avvenimenti. Anche in campo militare, dove lo si vuol paragonare a Annibale e a Napoleone, a conti fatti bisogna riconoscere che l'unica grande battaglia in cui si trovò impegnato la perse, o per lo meno non la vinse. In compenso, era scaltrissimo, rotto a tutti i

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raggiri, paziente e crudele. Francamente poligamo, era però molto sobrio nella dieta. Quando i suoi luogotenenti e dignitari, a contatto della civiltà romana, cominciarono a corrompersi, a ricercare il vasellame d'argento e le vesti di seta, egli seguitò ad andare vestito di pelli, a scaldare la carne cruda fra la propria coscia e la groppa del cavallo, e a mangiarla in rozze scodelle di legno.

Non abbiamo nessun elemento per affermare che Attila soppresse Bleda, come dice Prisco. Ma ne possediamo quanti bastano a ritenerlo capace di averlo fatto. Comunque, dopo una decina di anni di regno a due, e cioè nel 444, si trovò solo sul trono e con tutto il potere nelle mani.

Sino a quel momento, egli aveva svolto verso l'Impero una politica in cui la guerra fredda e la distensione si erano alternate. Abbiamo visto Ezio venir da Rua a chiedergli un corpo di spedizione per sostenere l'usurpatore Gio-vanni contro Placidia e Valentiniano. Altri distaccamenti di mercenari unni combattevano sotto le bandiere di Costantinopoli. Ogni tanto c'erano rivolte, incursioni e saccheggi; ma questo avveniva anche con le truppe tedesche. L'Impero pagava uno stipendio a Rua, che lo considerava un tributo: ma anche questo avveniva pure con gli altri barbari, e non si trattava di una forte somma.

Il fatto è che, sebbene confinanti, Rua e l'Impero avevano ancora un nemico comune che faceva da ammortizzatore fra loro: tutte quelle popolazioni barbare che si aggrovigliavano specie nei grandi spazi settentrionali fra l'Austria e il Baltico. Ma ora, con l'avvento di Attila al trono, i barbari del Nord o si erano sottomessi, com'era capitato ai loro confratelli più a Sud; o, rotto il limes, avevano fatto irruzione in Francia e Spagna, com'era stato il caso dei Franchi, dei Vandali, dei Burgundi (ed era stato appunto questo a far naufragare il sogno della pacifica e graduale integrazione accarezzato da Teodosio e da Placidia). Con la fine di questo "isolante", Unni e Romani si trovavano direttamente di fronte.

Morendo, Rua aveva lasciato in sospeso una " grana " diplomatica con Costantinopoli, cui aveva ingiunto di raddoppiare il tributo e di restituire non solo i disertori unni rifugiatisi dentro le terre dell'Impero, ma anche quei prigionieri romani che, catturati dagli Unni, erano riusciti a evadere, o di riscattarli con otto pezzi d'oro a testa.

A trattare coi successori, cioè praticamente con Attila, perché Bleda si occupava solo di Zercone, vennero da Costantinopoli due diplomatici, Plinta e Epigene, che non conclusero nulla anche per mancanza d'interlocutori. Attila abitava in cima a una collinetta in una baracca di legno che si distingueva dalle altre per le proporzioni e per l'elegante palizzata che la circondava, con torri di guardia. Accanto, c'erano delle rudimentali terme. L'idea di costruirle era stata suggerita da un architetto romano, catturato in

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una scaramuccia. Con infinita difficoltà si era fatto venire del materiale dall'Italia, e il costruttore aveva sperato di ottenere in ricompensa la libertà. Attila invece, per premio, lo aveva nominato bagnino.

Plinta e Epigene invano cercarono ciò che oggi si chiamerebbe una "Cancelleria" o "Segreteria di Stato" con cui mettersi in rapporto e trattare. A Aetzelburg non c'era nulla di tutto questo. Bisognava vedersela direttamente col Re, il quale non era abituato ad avanzar proposte, ma solo a impartire degli ordini. Ai due messi non restò che subirli pur con la ferma intenzione di evaderli.

Alcuni anni trascorsero tranquilli. Poi d'improvviso, nel 447, Attila si mise alla testa delle sue orde e, di saccheggio in saccheggio, le condusse fin sotto Costantinopoli. La città si salvò grazie alle sue mura. Ma l'imperatore Teodosio ebbe una tale paura, che si affrettò a triplicare il tributo che già pagava e coprì d'oro gli ambasciatori unni ch'erano venuti a esigerlo.

L'anno dipoi un'altra ambasciata giunse da Aetzelburg, capeggiata da Edecone e da Oreste. Li citiamo perché sono due personaggi, di cui udremo riparlare. Edecone era un barbaro, probabilmente uno sciro, che aveva fatto carriera sotto Attila fino a diventarne uno dei più importanti consiglieri. Ora era già padre di un marmocchio che si chiamava Odoacre. Oreste era di sangue barbaro anche lui, ma apparteneva a una famiglia della Pannonia che già da almeno un paio di generazioni aveva la cittadinanza romana. Parlava il latino, aveva una certa cultura, conosceva i classici, sapeva cosa fossero le Leggi e lo Stato, e dalla figlia di un certo Conte Romolo di Passau aveva avuto a sua volta un figlio che si chiamava, come il nonno materno, Romolo.

Il più potente ministro di Costantinopoli era a quei tempi l'eunuco Crisafio, ambiguo personaggio, che credette di poter giuocare d'astuzia inducendo Edecone a tradire Attila e ad ucciderlo al suo ritorno. Edecone intascò il denaro, ma raccontò tutto al suo padrone che non se ne meravigliò affatto, e solo ne prese pretesto per mortificare gli ambasciatori romani e avanzare nuove richieste di denaro. Da quanto racconta lo storico Prisco che faceva parte di quelle ambascerie, non era mai su grandi problemi politici e di Stato che Attila s'intestardiva, ma sempre su miserabili questioni di "precedenze" e di quattrini. Una volta minacciò la rottura delle relazioni diplomatiche se non gli mandavano come ambasciatori delle personalità di grado almeno consolare, e pretendeva di designarne egli stesso i nomi. Quando poi essi giungevano, ostentava di non riceverli per settimane, talvolta per mesi, per invitarli alla fine a un banchetto in cui li confinava agli ultimi posti della tavola, facendoli servire dopo i più insignificanti dei suoi dignitari. Si addolciva soltanto quando dalle due capitali dell'Impero gli giungevano doni di gran valore. Allora andava di persona fino ai confini del

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suo Reame incontro ai messi che glieli portavano, e a tavola li faceva sedere al proprio fianco. Ezio, che lo conosceva bene, non lesinava.

L'avarizia e l'orgoglio erano insomma le due principali componenti del carattere di Attila. Una volta egli mandò alla Corte di Costantinopoli un ambasciatore, Esla, incaricato di leggere a Teodosio il seguente discorsino di saluto, dettato personalmente dal suo padrone : "II mio signore, Attila, ha ereditato da suo padre Mundzuk il rango di Re, ma lo ha conservato. Non altrettanto hai fatto tu, Teodosio, che sei decaduto al livello di schiavo di Attila, rassegnandoti a pagargli un tributo..." Ma poi si scoprì che questa bella apostrofe era stata compilata solo per indurre Teodosio a largire a Esla una lauta mancia per addolcirlo. Il taccagno Attila, per arricchire i suoi funzionari senza rimetterci di tasca propria, li mandava come ambasciatori a Costantinopoli per procurarsi, con le minacce, qualche sostanziosa "bustarella". E il giuoco gli riuscì finché sul trono ci fu il gentile ma remissivo Teodosio II, l'Imperatore antimilitarista che preferiva alle guerre la miniatura delle pergamene.

Ma nel 450, l'anno in cui moriva Placidia, morì anche Teodosio, senza lasciare eredi maschi, e a prenderne il posto fu sua sorella Pulcheria, che per ragioni di stato si associò come marito un onesto e coraggioso soldato di nome Marciano. Uno dei primi gesti del nuovo sovrano fu l'invio ad Attila di un ambasciatore, Apollonio. Quando Attila seppe che costui era arrivato a Aetzelburg senza il solito tributo e con modesti doni, gli mandò a dire che, se voleva aver salva la pelle, i doni li lasciasse a un segretario e se ne tornasse pure a casa. Apollonio rispose che gli Unni potevano anche ammazzarlo, ma che i doni lui li avrebbe consegnati personalmente a Attila, o altrimenti li avrebbe riportati con sé a Costantinopoli. E così fece senza che Attila osasse mandare ad effetto le sue minacce.

Il capo unno aveva capito che le cose a Costantinopoli erano cambiate, che con Marciano i ricatti avevano poche probabilità di successo. E forse fu per questo che, dopo essersi per tanti anni occupato quasi esclusivamente dei rapporti con l'Impero d'Oriente, volse d'improvviso la sua attenzione verso quello d'Occidente.

La scusa per attaccar briga con Roma già da un pezzo ad Attila era stata fornita da Onoria, la figlia di Galla Placidia e la sorella di Valentiniano. Questa ragazza scervellata, che doveva aver ereditato da suo padre Costanzo una buona dose di sensualità, aveva dato scandalo nella puritana Corte di Ravenna facendone con tutti di tutti i colori. Finché sua madre l'aveva esiliata a Costantinopoli, mettendola sotto la guardia di sua nipote Pulcheria, donna di carattere duro e severo. Onoria fu messa a una stretta dieta di studio e di preghiere. Finché un giorno, non potendone più, trovò il mezzo di mandare ad Attila un anello come pegno di fidanzamento, dicendosi

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pronta a sposarlo se lui la liberava da quella vita di collegio. Attila di mogli ne aveva già in abbondanza, e poteva rinnovare l'harem

quando e quanto voleva. Ma l'anello se lo mise in tasca, e ogni tanto lo tirava fuori con la pretesa d'impalmare la principessa e soprattutto d'incamerarne la dote ch'egli stesso di volta in volta fissava in una o in più province dell'Impero. Ma si trattava soltanto di uno dei soliti ricatti per estorcere un aumento del tributo e qualche dono in aggiunta alle mance abituali.

Nel '50 Onoria, ormai più che trentenne, era stata restituita a suo fratello Valentiniano, quando a costui fu recato un nuovo messaggio di Attila che gl'ingiungeva di trattarla con tutti i riguardi: egli la considerava la sua fidan-zata e la proprietaria di una metà dell'Occidente. Valentiniano rispose che Onoria era già sposata (ma forse era una bugia) e che le successioni nell'Impero erano regolate per via maschile, non femminile.

Ma Attila ormai aveva deciso la guerra, e guerra doveva essere. Per mesi e mesi egli preparò il suo esercito, che in realtà non era un esercito, ma tutta la nazione in armi, secondo il costume barbarico dell'orda. Sicché quando si dice ch'egli si mosse con settecentomila uomini, non s'intende settecentomila soldati, ma forse settanta o ottantamila. Di questa massa, gli Unni erano una minoranza e ne formavano la cavalleria. Il grosso delle fanterie era costituito dalle tribù germaniche soggiogate: i Rugi, gli Sciri, quei brandelli di Franchi, di Turingi e di Burgundi che non avevano fatto in tempo a varcare insieme ai loro confratelli il Reno, e soprattutto le due grandi famiglie gotiche, gli Ostrogoti e i Gepidi, che Attila aveva interamente asservito. Gli Ostrogoti si erano particolarmente distinti nell'esercito unno, e il loro re Arderico godeva di una posizione di favore nello stato maggiore di Aetzelburg.

La ragione per cui questa policroma e poliglotta armata, appesantita dai carri che trasportavano le famiglie dei guerrieri e da una inverosimile sussistenza, cominciò dalla Francia l'assalto all'Occidente, non la si conosce con esattezza, ma forse va ricercata nella guerriglia che v'infieriva tra i barbari che vi avevano preso stanza. Il predominio dei Franchi non si era ancora affermato. Glielo contendevano i Visigoti che dopo la morte di Wallia avevano fondato un reame abbastanza solido di cui Tolosa era la capitale. I Sassoni si erano acquartierati sulle coste della Manica, gli erculei Burgundi erano in Savoia, e i pochi Alani scampati ad Attila e trascinati verso Ovest dai Vandali formavano un'isola a sé in Provenza.

Cosa restasse di autorità romana in questo Paese alluvionato dai barbari, non è dato sapere con certezza. Però ce n'era ancora un briciolo, rappresentato da qualche Prefetto, da qualche Questore e da alcuni presidi sparpagliati qua e là, a Lione, ad Arles, a Narbona, che cercavano di

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destreggiarsi approfittando delle rivalità altrui. Ogni tanto i rappresentanti imperiali si alleavano coi Visigoti contro i Sassoni o coi Sassoni contro i Burgundi, e vittorie effimere si alternavano con provvisori insuccessi. In realtà l'unica missione che i Romani ancora assolvevano in queste province occidentali era la conversione dei barbari a un certo rispetto della cultura latina, della lingua e dell'ordinamento legislativo e amministrativo. Ma come influenza politica ne esercitavano ben poca.

Attila evidentemente pensò di volgere a proprio favore tutti questi contrasti. E infatti mandò due ambascerie: una a Valentiniano, invitandolo a unirsi a lui per ridurre definitivamente alla ragione il vecchio nemico visigoto contro cui, al servizio di Roma, anche dei contingenti unni avevano combattuto; l'altra a Teodorico, il Re dei Visigoti, invitandolo a unirsi a lui per estromettere definitivamente Roma dalla Francia.

Ma Ezio, che conosceva bene il suo uomo per essere stato a lungo ostaggio a Aetzelburg, ne sventò abilmente i piani. E Teodorico, sebbene fosse stato con lui ai ferri corti sino a poco tempo prima, ebbe abbastanza cervello per capire che, fra i due pericoli, quello unno era infinitamente più grosso di quello romano. Così, fra Ravenna e Tolosa, fu saldata un'alleanza che salvò la Francia da quello che fin d'allora si chiamava "il pericolo giallo".

Attila iniziò l'invasione dal Belgio, e fu la solita mareggiata devastatrice. Purtroppo i memorialisti della Chiesa, invece di darci la cronaca degli avvenimenti, la ridussero come al solito a una filastrocca di miracoli come quello di Servazio, Vescovo di Tongres, che in una visione fu avvertito da San Pietro della imminente catastrofe, o quello di Aniano, Vescovo di Orléans, che poi fu fatto Santo per essere riuscito a convincere Ezio della necessità di difendere la sua città. Tutto questo non impedì ad Attila di distruggere una dopo l'altra Reims, Cambrai, Treviri, Metz, Arras, Colonia, Amiens, Parigi (tuttora piccolo villaggio) e di discendere la valle della Loira lasciandosi dietro solo cumuli di fumanti macerie, fino a Troyes, la cui salvezza sembra che sia da attribuire a un altro mezzo miracolo.

Anche qui fu il Vescovo, Lupo, che si presentò ad Attila supplicandolo di risparmiare la sua città. E Attila accettò, ma a condizione che il sant'uomo pregasse per lui e per la vittoria del suo esercito. Il che Lupo fece, guadagnandosi certamente la gratitudine dei suoi concittadini, ma lasciando noi posteri un po' perplessi non solo sul patriottismo, ma anche sulla fede religiosa di questo prelato che durante la battaglia si trovava nel campo dell'Unno pagano e idolatra a scongiurare il Cielo che lo facesse trionfare dei cristiani impegnati con lui in una lotta mortale. Ma forse, siccome pre-gava in latino, ne approfittò per impetrare il contrario di ciò che aveva promesso.

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La battaglia, comunemente chiamata "dei Campi Catalaunici", ebbe luogo nella piana di Mauriac, e fu sanguinosissima. 162.000 cadaveri, stando a Giordane, rimasero sul terreno; ma il risultato rimane tutt'oggi un mistero. Teodorico cadde, alla testa dei suoi. E Attila dovette ripiegare. Ma lo fece ordinatamente senza che l'esercito romano-visigoto lo incalzasse. Qualcosa, in questo successo di Ezio, ricorda quelli di Stilicone contro Alarico. Ebbe egli il sospetto che, se annientava l'orda unna, Valentiniano e l'Impero non avrebbero avuto più bisogno di lui? Torismondo, ch'era stato acclamato sul campo Re dai Visigoti dopo la morte di suo padre, aveva anche lui qualche ragione a non insistere. La sua successione poteva essere contrastata dai suoi fratelli rimasti a Tolosa, dove non voleva tornare con un esercito a brandelli. Sono supposizioni, intendiamoci; ma purtroppo non abbiamo di meglio per spiegare lo strano episodio.

Comunque, nella piana di Mauriac si decisero le sorti dell'Europa. Essa doveva restare nelle mani dei tedeschi e dei latini.

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CAPITOLO DECIMO

LA FINE DEL "FLAGELLO'

NON C'ERA da aspettarsi che un uomo orgoglioso come Attila si rassegnasse alla sconfitta. E infatti, appena rientrato a Aetzelburg sul finire dell'estate del 451, si diede alacremente a preparare la rivincita.

Nella primavera successiva si mosse, ma non per la strada dell'anno prima. Attraversò le Alpi Giulie e discese sulla pianura veneta. Aveva capito che in Francia i Romani sarebbero di nuovo accorsi a dare man forte ai Visigoti, ma che in Italia i Visigoti non sarebbero accorsi a dare man forte ai Romani. E gli avvenimenti gli diedero ragione. Incontro a lui non si fece nessun esercito. La gente fuggiva. Le città atterrite gli aprivano le porte. Una sola le sprangò preparandosi a resistere: Aquileia.

Era, per quei tempi, una città grande in gara, quanto a importanza e a ricchezza, con Ravenna e Milano; e sorgeva alla foce dell'Isonzo nell'Adriatico. Nata nel 181 come colonia romana, si era poi enormemente sviluppata come centro commerciale per gli scambi con la Germania, con l'Austria (che allora si chiamava Nerico) e con la Jugoslavia (che allora si chiamava Illiria). Aveva una popolazione mista di italiani, di tedeschi, di galli celti e di transfughi di tutte le tribù che si davano il cambio, sospingendosi l'una con l'altra, in Ungheria e Romania : gente attiva, che fra l'altro si era costruita tutt'intorno una cerchia di mura e di solidi bastioni. La Chiesa vi teneva addirittura un Metropolita, la cui diocesi si estendeva da Verona alla Croazia.

Come Metz, Aquileia si chiamava "la fortezza vergine" perché nessun assalitore era mai riuscito a espugnarla: vi si erano invano provati anche l'usurpatore Massimino e più tardi Giuliano. Ezio, che pur considerava impossibile la difesa dell'Italia del Nord, aveva lasciato ad Aquileia un robusto presidio di truppe scelte. Esse resisterono gagliardamente agli attacchi di Attila, che alla fine stava per togliere l'assedio, si racconta, quando vide levarsi in volo dai tetti della città un branco di cicogne. Superstizioso com'era vi scorse il segno della imminente capitolazione, ne

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persuase le sue truppe e le lanciò a un ennesimo assalto. Le difese vennero travolte, e Aquileia subì un castigo proporzionato alla resistenza che aveva opposto. Solo pochi brandelli umani riuscirono a scampare dalla città in cui non era rimasta pietra su pietra.

Giulia Concordia, Altino, Padova subirono pressappoco la stessa sorte. Però, via via che risaliva il Po, la rabbia di Attila si addolciva. Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo si arresero e furono saccheggiate, ma non distrutte. Forse l'ordine e la bellezza delle città italiane, molto superiori in tutto a quelle tedesche e francesi, intimidivano l'Unno. A Milano, Attila si acquartierò nel palazzo imperiale, quello in cui Costantino aveva firmato il famoso editto che segnava il trionfo del Cristianesimo, e in cui Teodosio era spirato. Fra gli affreschi che ne decoravano le sale, ce n'era uno che rappresentava il trionfo di Roma sui barbari: i due Imperatori, di Oriente e di Occidente, seduti sul trono dorato di fronte a un gruppo di Sciti morti o in catene. Attila lo prese come un insulto alla sua persona, mandò a cercare un pittore e gli ordinò di comporre subito un altro affresco che rappresentasse lui, il Re unno, seduto sul trono, nell'atto di ricevere il tributo di Valentiniano e di Teodosio II.

Le orde tartariche giunsero fino a Pavia, e tutta l'Italia cispadana stava col fiato sospeso in attesa di vederle ruzzolare verso Roma, quando invece si fermarono. Non se n'è mai saputo il motivo. Si è detto che, una volta entrato in Italia, Attila era stato colto da una specie di sbigottimento e aveva provato d'improvviso un senso di reverenziale rispetto per questo Paese tanto più civile del suo. Ma è un'ipotesi che s'intona male al suo carattere. Si è detto anche che gli tornò alla memoria il precedente di Alarico che, subito dopo aver conquistato Roma, morì. E questo è più probabile, data la sua su-perstizione. Comunque, mentre deliberava coi suoi consiglieri, giunse notizia dell'arrivo di una ambasceria dell'Urbe, guidata da un uomo il cui rango non poteva essere discusso, visto che si trattava del Papa.

Cosa fosse frattanto successo nell'Urbe, dove ora risiedeva anche Valentiniano, non si sa. Come non si sa per quali ragioni Ezio, mostratosi fino a quel momento un Generale così capace e risoluto, non avesse nemmeno accennato a scendere in campo contro il nemico. È probabile che non avesse forze sufficienti per farlo, perché anche nella piana di Mauriac era stato l'esercito visigoto a decidere le sorti della battaglia e della guerra. Comunque, non risulta che fosse disposto nemmeno a un tentativo, e anzi pare che consigliasse all'Imperatore la fuga.

Fu allora che il Papa prese su di sé la suprema responsabilità, e il gesto segnò una svolta definitiva nella storia dell'Urbe e dell'Italia. Leone I era della stessa stoffa di Ambrogio, e già da anni conduceva una strenua lotta nell'interno della Chiesa per affermare la supremazia del Vescovo di Roma

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su tutta la cristianità. Era un toscano di Volterra, autoritario e massiccio, con scarse propensioni per le dispute teologiche. Era stato lui, al Concilio di Calcedonia, a tagliar corto coi Nestoriani e coi Monofisiti che volevano introdurre sottili discriminazioni fra Cristo-Dio e Cristo-uomo e a dare avvio a quel sistema di precetti che doveva precludere la strada a ulteriori deviazionismi. Era un uomo solido, coraggioso e di buon senso, di gran carattere più che di gran testa, animato da una fede senza dubbi né tentennamenti, e convinto che la disciplina e l'obbedienza valessero più della carità.

Attila si trovò faccia a faccia con lui nell'estate del 452 sulle rive del Mincio dov'era venuto a incontrarlo. Come si svolse l'intervista, nessuno lo sa, perché nessuno ne prese nota. La leggenda corse che l'insolenza abbandonò di colpo l'Unno di fronte al Supremo Pontefice che gl'ingiungeva col crocefisso in mano di abbandonare l'Italia, e Raffaello ne rappresentò la scena in un affresco. L'affresco è mirabile, ma la scena ci pare poco credibile. Attila non era tipo da lasciarsi impressionare e per di più era pagano e quindi non molto ricettivo a chi gli parlava in nome di Cristo. Si disse che Leone era stato preceduto sul Mincio dalle voci di una mobilitazione da parte dell'Imperatore d'Oriente, Marciano, che si preparava a correre in aiuto del suo collega d'Occidente. Ma di questa iniziativa i memorialisti di Costantinopoli non hanno mai detto nulla. L'ipotesi più probabile ci sembra, dato il seguito degli avvenimenti, che Attila avesse già avvertito in quel momento i primi sintomi del male che di lì a poco doveva ucciderlo. Aveva forti emorragie dal naso, accompagnate da vertigini, e forse, superstizioso com'era, pensò che l'Italia gli portasse sfortuna. Non è da escludersi tuttavia che Papa Leone, inserendosi in questo suo stato d'animo, gli facesse un grande effetto e desse il colpo decisivo alla sua tentazione di rinuncia. Egli non chiese ironicamente, come millecinquecento anni dopo doveva fare il suo quasi consanguineo Stalin: "II Papa!?... Quante divisioni corazzate possiede?" Trattò con riguardo l'inerme porporato e, pur ripetendo la sua pretesa alla mano di Onoria e la minaccia, se non gliela concedevano, di tornare l'anno dopo a prendersela con la forza, ripartì per le sue pianure magiare.

Accompagnamolo in quest'ultimo viaggio. Giordane racconta che, appena rientrato a Aetzelburg, Attila si pentì della propria irresolutezza, si rimise in marcia sulla Francia per vendicarsi dei Visigoti e ne fu per la seconda volta battuto. Ma l'episodio è rifiutato dalla Storia. Egli mandò un insolente messaggio a Marciano ingiungendogli di pagare il tributo, eppoi cercò di consolarsi delle delusioni patite in Occidente prendendosi in moglie la bellissima giovinetta Ildico. La sera del banchetto, per la prima volta in vita sua, fece uno strappo alle regole, e mangiò e bevve in abbondanza. Poi salì

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nella camera nuziale e l'indomani lo trovarono morto, soffocato dal proprio sangue, accanto alla sposina che piangeva.

Si parlò di avvelenamento e di regicidio. Si avanzarono anche altre ipotesi che la decenza ci vieta di riferire. Ma quella più verisimile, che è anche la più semplice, è che si sia trattato proprio di un'emorragia, più forte delle altre che aveva già avuto. Il compianto dei sudditi fu grande quasi quanto il sollievo dei nemici. Secondo il loro barbaro costume, essi si tagliuzzarono il viso in modo che fosse inondato di sangue virile e non di lacrime da femminuccia. Il cadavere fu dapprima esposto in una sontuosa tenda intorno a cui i cavalieri unni pazzamente galopparono a lungo, cantando inni funebri. Poi fu composto in una bara d'oro, la bara d'oro in una d'argento, la bara d'argento in una di ferro, che fu portata via segretamente e inumata insieme ad alcuni scrigni pieni di gioielli in modo che Attila non diventasse povero nemmeno da morto. Infine, com'era successo per Alarico, gli schiavi che avevano scavato la fossa furono subito uccisi in modo che non rivelassero dov'era sepolto. Il mestiere di becchino, a quei tempi, non era di tutto riposo.

La fine di Attila fu automaticamente la fine degli Unni, ed è proprio questo a dimostrarci quanto poco grande, in fondo, fosse stato il gran-dissimo Attila, il "flagello di Dio" come lo chiamavano i Romani. Egli non aveva saputo creare nulla che potesse sopravvivergli. I numerosi figli che aveva avuto dalle varie mogli non seppero mettersi d'accordo sulla successione e si divisero. Ma le varie nazionalità che componevano il suo popolo, e particolarmente quelle tedesche, fecero secessione o se la guadagnarono con l'aperta rivolta. Cominciarono i Gepidi sotto la guida del loro re Ardarico. Continuarono gli Ostrogoti, condotti dai tre fratelli Amai. Seguirono gli Svevi, gli Eruli, gli Alani. Ernak, il figlio prediletto di Attila, accettò di acquartierarsi coi suoi pochi seguaci in Dobrugia riconoscendo la sovranità dell'Impero d'Oriente e accettandone la protezione. Ellak, il primogenito, fu ucciso in battaglia dai Gepidi, che si costituirono in Stato indipendente lì in Ungheria. Gli Ostrogoti si accamparono fra Austria e Croazia, gli Eruli in Carinzia. In piccoli gruppi, la maggior parte degli Unni ripercorsero a briglia sciolta le piste dell'est per perdersi ancora una volta nelle steppe russe. Dopo pochi anni in Europa non se ne trovò più traccia. Nemmeno dopo la morte di Alessandro il Macedone si era assistito a una così fulminea dissoluzione. Tanto che, come ha scritto qualcuno, vien fatto di chiederci quale compito la Provvidenza aveva assegnato a Attila, salvo quello di dimostrare, appunto, che la Provvidenza non c'è.

Ma questo non è del tutto vero perché, pur non riuscendo a costruire nulla di durevole, Attila di qualcosa fu causa, sia pure involontaria. Egli fondò Venezia.

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Furono infatti i fuggiaschi di Aquileia, di Padova e di tutte le altre città venete da lui rase al suolo, che per mettersi al riparo da altre sventure del genere si rifugiarono nelle isolette della laguna. Quelli di Altino ne popolarono sette, a ognuna delle quali diedero il nome di una delle sette porte della loro città. Quelli di Aquileia emigrarono a Grado, quelli di Concordia a Caorle, quelli di Padova a Rialto e Malamocco. Venezia si formò lentamente dal coagulo di questi detriti sviluppando quella vita anfibia che doveva dettare il suo destino. Fu una crescita lenta. Duecent'anni dopo questi avvenimenti un geografo di Ravenna scriveva: "Nel Veneto ci sono delle isole dove pare che vivano degli uomini". Erano i progenitori di coloro che dopo qualche secolo dovevano dominare il Mediterraneo e rendere la pariglia ad Attila bloccandovi l'impeto di un altro conquistatore della stessa razza asiatica e turanica degli Unni alla cui famiglia apparteneva: i Turchi.

Ma, oltre a questo, Attila provocò anche la definitiva affermazione del potere spirituale su quello temporale, simbolizzata e riassunta dal-l'ambasceria di Papa Leone sul Mincio. Quali che fossero stati i veri motivi che indussero Attila ad abbandonare l'Italia, a Roma tutti ne diedero il merito, al Papa, che si era fatto incontro al "flagello di Dio", mentre l'Imperatore discuteva la fuga con Ezio. Anche questi usciva piuttosto malconcio dall'episodio. Ma la sua posizione sembrava sicura anche per l'imminente matrimonio di suo figlio Gaudenzio con una figlia di Valentiniano che, non avendo eredi maschi, si supponeva che avrebbe lasciato a lui il trono.

Ma alla notizia della morte di Attila, le cose bruscamente cambiarono. Un giorno del '54 Ezio fu invitato a palazzo reale per discutere gli ultimi dettagli delle nozze. Fu un tranello? Oppure fu un'improvvisa collera che travolse il giovane Imperatore contro quel Generale che lo serviva fedelmente, ma che anche lo trattava con una certa burbanza? Lo s'ignora. Ma fatto sta che Valentiniano trafisse di suo pugno Ezio con la spada e due inservienti lo finirono a pugnalate.

Per quanto ambizioso e arrivista, non alieno da perfidie come quella che aveva messo in opera per sbarazzarsi di Bonifacio, era pur sempre il più grande Generale che l'Impero avesse avuto dopo Stilicone, e colui che lo aveva salvato dalla prima possente spallata di Attila. Eppure, nessuno fece caso alla sua scomparsa né al modo in cui era avvenuta: in fondo, non si trattava che di un mercenario barbaro!... Solo un epigrammista ebbe il coraggio di dire a Valentiniano: "Se tu abbia fatto bene o male, non so. Ma so che ti sei amputato la mano destra con la sinistra".

Si era alla fine del 454. Pochi mesi dopo, nel marzo del '55, Valentiniano cavalcava in Campo Marzio, quando due veterani di Ezio gli si avvicinarono

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e lo pugnalarono. Nemmeno di questo i Romani si turbarono, e infatti i due regicidi rimasero indisturbati. Con Valentiniano scendeva nella tomba l'ultimo discendente di Teodosio sul trono d'Occidente, dove la dinastia era rimasta sul trono per sessantanni. Il defunto lasciava una vedova, l'imperatrice Eudossia, che lo aveva riempito di corna, e due figlie, Eudocia e Placidia. Roma non aveva più né un Imperatore né un Generale.

Esercito e popolo per una volta si trovarono d'accordo nella scelta di colui che doveva salire sul trono vacante. Era un Senatore sessantenne di nome Petronio Massimo, che sembrava fornire le migliori garanzie. Veniva dalla vecchia famiglia dei Probi, che aveva sempre fornito eccellenti Consoli e Pretori.

Ma l'uomo era irresoluto e si mostrò subito impari al grave compito. Si rifiutò di castigare i due regicidi, forse per evitare la rivolta dei loro consanguinei barbari che militavano nell'esercito, e questo fece nascere il sospetto che egli avesse preso parte alla congiura. Per di più proibì all'imperatrice Eudossia di portare il lutto di Valentiniano e le chiese, anzi le ingiunse, di diventare sua moglie. Eudossia era ancora giovane e fra le più belle donne di Roma. Aveva abbondantemente tradito suo marito, ma gli aveva voluto bene e non intendeva essere forzata a sposare un vecchio. Sua zia Pulcheria a Costantinopoli era morta, e quindi non poteva sperare che da quella parte le venissero aiuti. Non sapendo come uscire da quell'imbroglio, seguì lo sciagurato esempio di sua cognata Onoria e, non potendolo più a Attila ormai defunto, si rivolse a Genserico il Re dei Vandali in Africa, perché venisse a liberarla.

Genserico non se lo fece dir due volte; e di lì a poco Roma fu folgorata dalla notizia che la flotta barbarica, vele al vento, si stava avvicinando a Ostia. Chi poté, fuggì. E anche Petronio Massimo si stava preparando a fare altrettanto. Ma il popolino, che fuggire non poteva perché non ne aveva i mezzi, circondò il palazzo. I soldati, invece di difendere il loro padrone, si ammutinarono. E i servi, anche per prevenire una possibile epurazione per collaborazionismo col codardo traditore, lo linciarono.

Che Roma non avesse un Imperatore sotto quella nuova tempesta che si addensava all'orizzonte, non importava più nulla a nessuno. Tanto, c'era il Papa.

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CAPITOLO UNDICESIMO

GENSERICO

PER ARRIVARE a Roma, non si può dire che i Vandali avessero seguito una scorciatoia.

Venivano nientemeno che dalla Prussia Orientale, e probabilmente in origine erano stati, come i Gepidi, un ramo della grande famiglia gotica. Il primo storico romano che ne fece menzione fu Plinio, che li chiamava Vindili. E il primo Imperatore ch'ebbe a che fare direttamente con loro fu Aureliano, che nel 271 li sconfisse in Boemia dov'erano penetrati, ma poi li ammise dentro il limes in qualità di federati e ne assoldò duemila per rimpolpare i suoi reggimenti di cavalleria. Fra di essi si trovava probabilmente il nonno o il bisnonno di Stilicone.

Al tempo di Costantino il loro re Geberico ebbe un diverbio con quello dei Goti, Visumar, venuto ad acquartierarsi accanto ad essi. Ne seguì una sanguinosa battaglia in cui Geberico venne ucciso e il suo esercito quasi interamente distrutto. I pochi scampati chiesero all'Imperatore il permesso di rifugiarsi in Ungheria, e lì rimasero tranquilli per un mezzo secolo a leccarsi le ferite, a fare dei figli per colmare i vuoti e ad assorbire un po' di civiltà col Cristianesimo cui si convertirono anch'essi secondo il credo ariano di Ulfila.

Nel 406 ripresero la loro marcia verso Ovest. I nemici di Stilicone insinuarono ch'era stato costui ad invitare i Vandali, per solidarietà di sangue, nelle province occidentali del vacillante Impero. Ma non c'è bisogno di ricorrere a questa ipotesi perché l'anno 406 fu quello in cui anche Alarico e Radagaiso attraversavano le Alpi e dilagavano in Italia. Stilicone non c'en-trava per nulla. Era l'arrivo delle orde unne di Rua che rimescolava tutto il mondo barbarico provocandone l'alluvione dentro il limes.

Mescolati ai pochi brandelli alani ch'erano riusciti a scampare a Rua, i Vandali, invece delle Alpi, attraversarono il Reno, penetrarono in Francia, si scontrarono coi Franchi che ne stavano diventando i padroni, persero in una battaglia ventimila uomini, attraverso i Pirenei si ritirarono in Spagna, e qui

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vennero raggiunti poco dopo dai Visigoti di Ataulfo e di Galla Placidia, i quali li combatterono in nome dell'autorità imperiale, da cui speravano di i ottenere l'investitura su tutta la Penisola.

Quanto fosse rimasto di sangue vandalo in questa composita massa di fuggiaschi cui, oltre agli Alani, si erano ora mescolati anche dei rimasugli svevi, non si sa. Comunque, non erano più di ottantamila, comprese le donne, i vecchi e i bambini, quando si rifugiarono nella regione che da loro prese il nome di Andalusia. Era una terra devastata, arida e povera che, a quanto pare, obbligò i nuovi occupanti anche a pratiche di cannibalismo. E questo spiega la ragione per cui quando, nel 429, giunse dal Conte Bonifacio il famoso e fatale invito a varcare lo stretto di Gibilterra e a istallarsi in Africa, esso fu accolto senza esitazione.

In quel momento i Vandali erano guidati da due Re, che si dividevano, e forse si contendevano, il trono: uno, Gunterico, era il figlio legittimo del defunto sovrano; l'altro, Genserico, era un bastardo. Subito dopo aver preso di comune accordo la decisione del trasferimento, Gunterico morì. Naturalmente si disse subito ch'era stato Genserico a farlo uccidere e, dato il carattere del personaggio, non ci sarebbe da meravigliarsene. Ma non ci sono prove per affermarlo con certezza. Comunque, se si trattò di fratricidio, a rimpiangerlo non furono certo i Vandali; ma, caso mai, i loro nemici, e anche i loro amici, a cominciare da Bonifacio.

Genserico aveva una trentina d'anni, quando diventò Re. Era di media statura, un po' zoppo per via d'una caduta da cavallo, parco di parole, avido di denaro, ambizioso e sobrio. Non fu un uomo di larghe vedute perché gli mancava un minimo di cultura su cui appoggiarle. Era analfabeta, e quando decise di trasbordare tutto il suo popolo in Africa non sapeva neanche approssimativamente che cosa l'Africa fosse e dove fosse. Non aveva nemmeno il complesso carattere romantico di Alarico né l'altezzoso senso della regalità che caratterizzava Attila. Nel suo cervello non c'erano sogni né nel suo cuore passioni. Più che dall'intelligenza si faceva guidare dall'istinto, ma questo non lo ingannava mai.

Fu il primo capo barbaro a fare un censimento. Ne aveva bisogno per stabilire quante navi gli occorrevano al traghetto. Mise tutti, compresi i vecchi e le donne, al lavori forzati per costruire la flotta. Poi, una volta sbarcato al di là dello stretto, non cercò di salvare nemmeno le apparenze dell'"alleanza" a cui Bonifacio lo aveva invitato. Le città del Marocco, che allora si chiamava Mauretania, furono letteralmente spianate dalle sue orde. Poi fu la volta dell'Algeria e della Tunisia, che allora si chiamavano rispet-tivamente Numidia e Africa Proconsolare. In breve, immuni da quella colata di ferro e di fuoco, perché protette da solide fortificazioni, non rimasero che due città: Cartagine e Ippona.

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In Ippona assediata, concludeva malinconicamente la sua vita Sant'Agostino Vescovo, ormai quasi ottantenne, immerso nella stesura della sua ultima opera: una "confutazione di Giuliano l'Apostata". Ma ancora più malinconicamente ci vegetava Bonifacio che, messa in chiaro la sua posizione rispetto a Ravenna e accortosi dell'equivoco in cui lo aveva indotto Ezio, poteva misurare meglio e rimpiangere ancora di più la catastrofe ch'egli stesso aveva provocato. Dopo qualche inutile tentativo di persuadere quel suo strano "alleato" a tornarsene in Spagna o per lo meno a trattare l'Africa con qualche riguardo, ottenne da Roma e da Bisanzio alcuni rinforzi, che giunsero sotto il comando di Aspar, e con essi tentò una soluzione militare. Fu di nuovo sconfitto. E allora si decise a ripartirsene per l'Italia dove Ezio lo attendeva per ucciderlo in duello. Agostino lo aveva preceduto nella tomba. Dieci giorni prima della morte, presentendola, proibì l'ingresso nella propria stanza a tutti, eccetto il dottore e il servo che gli portava i pasti. Aveva sempre predicato che cristianamente si muore solo in stato di penitenza, e ne diede una dimostrazione restando sino alla fine assorto nei Salmi di David copiati e affissi alle quattro pareti. Così finì, quasi in condizione di prigioniero e nella tristezza di quella catastrofe, il Padre della Chiesa che alla grandezza della Chiesa aveva più contribuito, dopo gli Apostoli.

Nel 435, alla fine, Genserico si decise a concludere qualcosa che somigliava a una pace con Valentiniano, o meglio con sua madre Placidia. Il Vandalo s'impegnava a rispettare la sovranità imperiale su Cartagine e la Tunisia, mandando in pegno, come ostaggio, suo figlio Unerico a Roma. Il resto del Nord-Africa era dato, per così dire, in usufrutto a lui e al suo popolo.

Questo impegno fu rispettato da Genserico fino al 439, quando le residue forze imperiali al comando di Ezio dovettero essere concentrate in Francia per parare la terribile minaccia di Attila. Allora egli richiamò da Roma Unerico, spazzò via Cartagine e il poco che restava intorno ad essa sotto bandiera romana, e di questa città fece la sua capitale.

Immediatamente vi riattò il porto e si diede a costruirvi una potente flotta. Egli non sapeva nulla di mare. Era sempre stato un uomo di terra, come tutti i tedeschi, non aveva mai visto una carta di navigazione, non aveva idea dei venti e delle rotte. Ma nel suo animalesco istinto capiva che solo sul mare l'Africa poteva essere difesa. E per questo il Re brigante si trasformò in Re pirata. Via via che una nuova triremi veniva varata dai suoi improvvisati cantieri cui gli ex-cittadini romani lavoravano da forzati, egli vi saliva col suo passo zoppo, e al timoniere impartiva quest'ordine: "Andate ad attaccare le dimore di coloro che Dio non ama". E siccome, secondo i Vandali, Dio non amava che i Vandali, tutti gli altri erano da considerare preda bellica.

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Così Cartagine ridiventò per il Mediterraneo, per l'Italia e per l'Europa, ciò ch'era stata ai tempi degli Amilcari e degli Annibali.

Genserico fu forse il capo barbaro che per primo realizzò nel suo reame un'organizzazione interamente feudale. La società fu nettamente divisa in due classi: quella dei signori Vandali, guerrieri e dispensati dal lavoro e dalle tasse; e quella dei servi indigeni, ch'erano dei romani colti e raffinati, senza diritto alle armi né a una rappresentanza politica, e legati alla gleba. Egli fu anche il primo a non sentire affatto il complesso d'inferiorità del tedesco nei confronti del latino, che tanto aveva angustiato Alarico, e da cui forse lo stesso Attila era afflitto. L'uomo era così lontano non solo dalla cultura, ma perfino dal sospetto della cultura che per lui un Romano colto non si differenziava da un Romano ignorante e ambedue facevano parte della stessa categoria : quella dei nemici vinti, da tenere in schiavitù. A che si sappia - se non si tratta di una leggenda -, ne discriminò uno solo, ma per pura superstizione. Un giorno, guardando dalla finestra del suo palazzo un gruppo di prigionieri che dovevano essere smistati nei vari campi di lavoro, ne vide uno che dormiva placidamente senza badare, come gli altri faceva-no, a ripararsi dal solleone che in Africa picchia con particolare violenza. Osservando meglio gli parve che ad assicurargli una macchia d'ombra sul capo fosse un avvoltoio che incrociava lì sopra. Pensò che Dio, per concedergli una simile protezione, dovesse avere un debole per quell'uomo, e lo mandò a chiamare. Così seppe da lui che si chiamava Marciano e ch'era venuto da Bisanzio come attendente di Aspar. Lo lasciò libero, convinto che sarebbe diventato qualcuno, e che pertanto fosse conveniente accaparrarsene la gratitudine. E infatti Marciano qualcuno diventò quando, sposata Pulcheria, fu acclamato Imperatore d'Oriente. Forse, ripeto, si tratta di leggenda. Ma dalla Storia è accertato comunque che, una volta presa la porpora, Marciano si rifiutò costantemente di prendere iniziative contro i Vandali.

Anche quella volta, se l'episodio è vero, Genserico non aveva agito per generosità. Non ne era capace. Nemmeno il suo profondo sentimento religioso riusciva a ispirargliene e in lui si trasformava in crudeltà persecutoria. Infatti, lungi dal provare un senso di solidarietà cristiana per i cristiani d'Africa, non aveva visto in essi che dei cattolici da tormentare in nome dell'arianesimo. Anche a fare qualche ribasso sui crimini e i soprusi che gl'imprestano gli storici della Chiesa, rimane un largo margine per poterlo considerare un Loyola a rovescio, inteso più a combattere la causa del diavolo che a difendere quella di Dio.

L'Africa era cattolica in un modo tutto particolare, cioè nel modo fanatico e zelante in cui lo sono i Paesi dove la disputa teologica è stata viva e floride le eresie. La Chiesa aveva dovuto combattere una dura battaglia contro i Do-

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natisti, i Circoncellioni e altri innumerevoli deviazionisti dalla regola ortodossa. Nella lotta si era maturata una più stretta disciplina, che qua e là sconfinava in manifestazioni di puritanismo. I Vescovi con cui Genserico, dopo la vittoria, si trovò alle prese, si chiamavano Graziaddio, Quelchediovuole, Sialodaddio eccetera. Erano cresciuti alla scuola rigorosa di Agostino, avevano aspramente lottato contro gli scismatici, non erano inclini alle ritrattazioni e ai compromessi. Due di loro furono bruciati vivi, altri arrestati e torturati. Quello di Cartagine venne caricato con tutti i preti della diocesi su una nave affidata ai venti, senza timone né remi. Ma i venti la condussero in Italia.

Tipico fu il caso di Sebastiano, il genero di Bonifacio, ch'era rimasto a Ippona e s'era messo al servizio del Vandalo. Questi aveva per lui un certo debole, ma avendo in precedenza stabilito che solo gli ariani potevano frequentare la Corte, gli chiese di abiurare alla fede cattolica. Sebastiano gli mostrò una mollica di pane. "Io sono come questa" gli disse. "C'è voluto un certo quantitativo di grano, un mulino per macinarlo, dell'acqua per impastare la farina, del fuoco per cuocerla, per fare di essa ciò che è, come ci son voluti il battesimo, lo studio della Dottrina e l'ispirazione di Dio per fare di me quello che sono. Credi tu che, convertendomi all'arianismo, diventerei più bianco di questo pane? Se mi rispondi di sì, lo faccio, altrimenti rimango ciò che sono." Genserico si diede per vinto. Ma pochi giorni dopo fece uccidere Sebastiano.

Tuttavia, furbo com'era, si accorse che con quelle persecuzioni, forniva soltanto ai suoi avversari dei nuovi martiri da venerare. Allora cambiò metro. Affidò i renitenti al boia, ma dando segretamente l'ordine a costui di ucciderli solo se all'ultimo momento accettavano la conversione. Morendo da codardi in abiura, non potevano più passare da eroi. Ma la maggior parte resisté. E fu il caso, fra gli altri, di un attore comico, Mascula, che rimase fermo nella sua fede anche quando sentì la lama della spada sul collo, e diventò un "Confessore", come si chiamavano coloro ch'erano reduci dalla morte dopo averla impavidamente sfidata. Probabilmente vandalismo diventò sinonimo di crudeltà non tanto per il trattamento cui i Vandali sottoponevano le città conquistate e i popoli vinti, che non era poi in fondo diverso e peggiore di quello che usavano tutti gli altri barbari, quanto per la fanatica e cocciuta persecuzione religiosa di quella specie di Scarpia sanguinario e bigotto, che fu Genserico.

Questo era l'uomo che nel 455, raccogliendo l'appello di Eudossia, sciolse al vento le vele della sua flotta. I piloti stavolta sapevano benissimo qual era la dimora degli uomini che Dio non ama. I legni barbarici giunsero nelle acque di Ostia sulla fine di giugno. Nella città indifesa la folla inferocita aveva linciato Massimo che si preparava a fuggirne. Roma ormai non ri-

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conosceva che nel Papa il suo naturale interprete e protettore. Leone I si fece incontro al Vandalo con la stessa compostezza e maestà

con cui pochi anni prima si era fatto incontro a Attila. La sua mediazione non ebbe altrettanto successo, ma anche stavolta riuscì a evitare il peggio. Fra i due fu stipulato uno strano Concordato, in base al quale il Sommo Pontefice riconosceva in certo qual modo il diritto di saccheggio e di rapina al barbaro, se questi s'impegnava a non uccidere i derubandi, a non bruciarne le case e a non sottometterli a tortura per sapere dove avevano nascosto i loro beni.

Come poi in pratica si siano svolte le cose, è difficile saperlo, e ci sorprenderebbe che qualche morto non ci sia scappato. Dicono che entrando nell'Urbe alla testa delle sue soldataglie, Genserico esclamasse non con ammirazione, ma con cupidigia : "Dio, quanta roba da rubare!" Forse non è vero. Ma anche se non lo disse, avrebbe potuto dirlo. Quattordici giorni durò la sarabanda dei lanzichenecchi vandali nelle strade e nelle case di Roma. Tutto quello che si poteva portarne via fu spiantato e caricato sulle navi alla fonda. Una di esse era stivata di statue, ma purtroppo l'eccesso di peso la fece naufragare in mezzo al Mediterraneo nel viaggio di ritorno. Il palazzo imperiale e il tempio di Giove furono letteralmente spogliati. Molto del vasellame e argenteria predati in quei giorni venne recuperato dai bizantini a Cartagine nel palazzo di Gelimero, pronipote di Genserico, un'ottantina di anni dopo, e trasferito a Costantinopoli.

Come preda bellica fu portata via anche l'imperatrice Eudossia, causa di tutta quella sciagura, le sue due figlie Eudocia e Placidia, e Gaudenzio, il figlio di Ezio, che aveva aspirato alla mano di una di esse. Per Eudossia fu forse un gesto di cortesia: è facile immaginare che fine avrebbe fatto se si fosse ritrovata faccia a faccia coi suoi sudditi dopo aver loro tirato addosso quel disastro. Quanto alle ragazze, Genserico le considerava due "buoni partiti" da sfruttare convenientemente. Diede infatti Eudocia in moglie a Unerico, di cui si disse ch'era già innamorato di lei sin dai tempi in cui era ostaggio a Roma. I romanzi sentimentali commuovevano la gente anche a quei tempi, ma nel caso specifico si trattava certamente d'invenzione perché quando Unerico si trovava a Roma, Eudocia era in fasce. Placidia rimase a Cartagine con la madre, trattate ambedue con grande generosità e correttezza, finché per le insistenze della Corte d'Oriente, con cui Genserico non voleva storie, furono rimandate a Bisanzio, dove la giovane principessa sposò il senatore Olibrio. E con queste due ragazze finisce la dinastia di Teodosio.

Ma, oltre a questi personaggi di primo piano, Genserico si era portato dietro uno stuolo di tecnici e di artigiani qualificati, come millecinquecento anni più tardi avrebbe fatto il suo compatriota Hitler nei Paesi occupati. Fu

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una operazione alla Todt senza riguardo a casi personali e a vincoli di famiglia. Migliaia di Romani furono disseminati fra il Marocco e la Libia e messi ai lavori forzati per contribuire alla ricchezza e alla potenza del loro carceriere.

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CAPITOLO DODICESIMO

RICIMERO E ODOACRE

PER DUE MESI i Romani rimasero senza Imperatore, ma non risulta che se ne sentissero orfani. Gli ultimi Augusti di imperiale non avevano avuto che il titolo: il potere lo avevano esercitato con regale indegnità. La popolazione aveva visto i Vandali abbandonare la città e dirigere le vele verso l'Africa, di dove erano venuti. I cronisti dell'epoca riferiscono che sull'Urbe violentata e saccheggiata si era stesa una coltre di apatia. Fu in questa atmosfera stracca e neghittosa che, sulla fine dell'estate del 455, varcò le mura della città un vecchio nobile dell'Alvernia, che era una delle province della Gallia. Si chiamava Avito ma nessuno nella capitale aveva prima d'allora udito il suo nome. Qualcuno disse che era il nuovo Imperatore. I Romani lo accolsero con indifferenza e non gli andarono neppure incontro.

Avito era stato incoronato non dai Romani ma dai Visigoti, il dieci luglio ad Arles. Discendeva da una delle famiglie più cospicue della regione. I suoi antenati avevano ricoperto per generazioni cariche importanti nell'esercito e nella pubblica amministrazione. I biografi raccontano che quando divenne Imperatore doveva essere sulla sessantina, essendo nato nell'anno in cui Teodosio morì. Possedeva una buona cultura classica e aveva letto Cicerone e Giulio Cesare che nel De bello gallico, cinque secoli prima, aveva descritto il suo popolo. Agli studi alternava la caccia al cinghiale. Il suo cursus honorum fu molto rapido e in pochi anni riuscì a ottenere una delle cariche più importanti della provincia, la prefettura del pretorio, che tenne per un lustro quando si ritirò a vita privata con la figlia Papianilla. Di quest'uomo non avremmo forse mai sentito parlare se un giorno Roma non lo avesse incaricato di un'ambasceria presso il Re dei Visigoti, Teodorico.

Avito e Teodorico si erano conosciuti da ragazzi ed erano diventati grandi amici. Sul traballante Impero d'Occidente incombeva la minaccia di Attila il quale non aveva rinunciato a trasformare l'Italia in un Deserto dei Tartari. Avito e Teodorico strinsero un patto di alleanza e di mutuo soccorso. Due mesi dopo la ritirata dei Vandali da Roma, col favore del Re goto. Avito fu

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coronato Imperatore. Fu un breve regno. Il poeta Sidonio Apollinare, che aveva sposato Papianilla, lo immortalò in un brutto panegirico. Come ricompensa il suocero gli fece erigere una statua nel Foro Traiano.

Quando a Roma giunse la notizia che la flotta di Genserico era per la seconda volta salpata verso l'Italia, i Romani furono percorsi da un brivido di terrore. Avito fece subito allestire una flotta e vi pose a capo il conte Ricimero il quale investì le triremi nemiche che veleggiavano verso la Corsica, le accerchiò e le colò a picco. Migliaia di Vandali persero la vita. I superstiti, in catene, furono condotti prigionieri a Roma e Avito li fece decapitare. La popolazione che aveva ancora vivo il ricordo del sacco del 455 esultò. Ricimero fu portato in trionfo per le strade imbandierate della Capitale. La folla, in delirio, gli tributò onori degni dei tempi di Augusto. La gloria del nuovo eroe offuscò quella dell'Imperatore il quale, poche setti-mane dopo, fu deposto, anche perché aveva fatto fondere alcune statue di bronzo per pagare la cinquina ai soldati. Riuscì a fuggire ma a Piacenza fu fatto prigioniero e consegnato a Ricimero. Questi non solo gli risparmiò la vita, ma lo fece consacrare Vescovo. Un episodio che testimonia in modo eloquente delle condizioni della Chiesa nel quinto secolo.

Ricimero era un barbaro che aveva fatto una brillante carriera riorganizzando l'esercito e combattendo contro i barbari che minacciavano l'Impero. Grande generale, freddo calcolatore, fu sempre fedele a Roma ma non agli Imperatori che di volta in volta collocò sul trono e da esso sbalzò. Si ricordava di Stilicone, che Onorio aveva fatto assassinare, e di Ezio, giu-stiziato da Valentiniano. Capì che l'Impero era marcio e che la sua fine poteva essere ritardata ma non evitata. Scomparso Avito non volle succedergli perché le leve del comando era meglio controllarle come primo ministro di un sovrano esautorato. Si limitò ad assumere il titolo di Patrizio con cui gli veniva riconosciuto il diritto di proclamarsi padre dell'Imperatore. Giubilato Avito collocò sul trono Maggioriano, ex-aiutante di campo di Ezio al cui fianco avrebbe fatto una rapida carriera se la moglie del generale non lo avesse fatto silurare. Come Cincinnato e Teodosio, Maggioriano si era ritirato in campagna ad allevare polli, in attesa di tempi migliori. Quando Ezio fu assassinato, Valentiniano III lo richiamò. Fu in questa occasione che conobbe Ricimero. Per i Romani l'elezione di Maggioriano fu un avvenimento di ordinaria amministrazione. Dopo l'incoronazione, il nuovo Augusto lesse al Senato un messaggio pieno di de-ferenza in cui dichiarava di assumere la porpora per volontà dei suoi rappresentanti e nel supremo interesse della Patria. I Senatori quando lo udirono trasecolarono. Da tempo immemorabile non erano più abituati a sentirsi trattare con tanto riguardo.

L'incoronazione di Maggioriano riportò alla ribalta Sidonio Apollinare. Il

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poeta, dopo la scomparsa di Avito, era caduto in disgrazia. Fu perdonato perché era l'unico poeta dell'Impero. Il panegirico dedicato a Maggioriano riscosse gli stessi consensi di quello indirizzato ad Avito. In entrambi i componimenti - della stessa lunghezza e nello stesso metro - Sidonio aveva detto suppergiù le stesse cose. Come ricompensa, fu esonerato dalle tasse.

Maggioriano fu un buon Imperatore. Poiché gli Italiani non facevano più figli, proibì alle donne. di prendere i voti prima dei quarant'anni, obbligò le vedove a rimaritarsi, impedì ai giovani di farsi monaci e punì gli speculatori che per costruire nuovi edifici abbattevano quelli antichi dimostrando che a Roma i Vandali erano del tutto superflui. Ma questa saggezza gli costò cara.

Ricimero non tardò ad accorgersi che Maggioriano voleva fare l'Imperatore sul serio e nel maggio del 460 lo depose. Maggioriano si ritirò a vita privata in una villa vicino Roma dove, pochi anni dopo - riferisce Procopio - morì di dissenteria.

Tolto dalla scena un sovrano che avrebbe meritato di restarci, Ricimero, nel novembre del 461, incoronò a Ravenna Augusto un certo Libio Severo, lucano di nascita. Di costui sappiamo solo che regnò quattro anni, visse religiosamente e morì avvelenato. Dopo di lui il trono restò vacante per due anni.

Il suo successore Antemio era genero del defunto Imperatore d'Oriente Marciano. Fu deposto per inettitudine nell'aprile del 472. Ricimero incoronò allora un certo Olibrio, che non fece in tempo a deporre perché dopo un mese un'emorragia uccise lui.

Con la sua morte si chiude la serie di quei generali barbari che negli ultimi tempi avevano retto le sorti dell'Occidente, colmando il vuoto di un potere che gli Imperatori non erano più in grado di esercitare. Per sedici anni Ricimero era riuscito a tenere a galla una barca che faceva acqua da tutte le parti e le cui falle nessuno più era in grado di tamponare. Olibrio non ebbe neppure il tempo di accorgersi di quello che gli stava succedendo intorno: un attacco di idropisia lo eliminò. Prima di morire, aveva nominato Patrizio il nipote di Ricimero, il principe burgundo Gundobado, che nel marzo del 473, dopo un interregno di cinque mesi, proclamò Imperatore a Ravenna Glicerio. Di costui sappiamo solo che quando l'Italia fu minacciata dagli Ostrogoti, egli andò incontro al loro re Teodemiro, lo colmò di doni e lo indusse ad abbandonare la Penisola e a marciare sulla Gallia che, se non di fatto, almeno sulla carta apparteneva ancora all'Impero. Ma questo tradimento gli costò il trono sul quale balzò un generale di nome Giulio Nepote. Gundobado preferì fuggire in Burgundia, dove lo attendeva la corona di un regno meno glorioso di quello romano, ma certamente più comodo.

Giulio Nepote governò quattordici mesi e consegnò l'Alvernia ai Visigoti.

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I Romani non glielo perdonarono e il suo luogotenente Oreste, nell'estate del 475, lo depose e proclamò Imperatore a Ravenna il figlio Romolo Augustolo. Oreste era nato in Pannonia, era entrato al servizio di Attila, e lo abbiamo già incontrato, col suo collega Edecone, alla testa dell'ambasceria che il "flagello" aveva mandato a Costantinopoli nel 448. Il matrimonio con una nobildonna greca gli aveva spalancato le porte della società bizantina. Anche lui, come Stilicone e Ricimero, non indossò la porpora e si accontentò del titolo di Patrizio. Era un uomo ambizioso, ma ottuso. Quan-do gli Eruli calarono in Italia e reclamarono un terzo del suo territorio per acquartierarvisi, Oreste glielo rifiutò. Il loro capo, Odoacre, gli dichiarò guerra e marciò su Pavia dove egli era riparato. Dopo due giorni d'assedio la città capitolò e fu spianata al suolo. Gli Eruli sgozzarono i suoi abitanti e non risparmiarono neppure i vecchi e i bambini. Fu un massacro in piena re-gola, nello stile di Attila e di Genserico. Ma ci si dimenticò di Oreste il quale, per la seconda volta, riuscì a mettersi in salvo a Piacenza. Fu scovato dopo una settimana e passato sommariamente per le armi. Sorte migliore ebbe il figlio Romolo Augustolo. Odoacre gli risparmiò la vita, un po' per la sua giovane età, un po' per la sua straordinaria bellezza, e gli concesse di trascorrere il resto dei suoi giorni in una villa vicino Napoli, con una pensione annua di seimila soldi.

Odoacre era il figlio di quell'Edecone che con Oreste aveva fatto parte del servizio diplomatico di Attila. Il modo in cui trattò il vecchio amico e collega di suo padre, sulle cui ginocchia forse aveva saltato da bambino, ci dice abbastanza del suo carattere. Egli governò l'Italia per diciassette anni, dal 476 al 493. C'era venuto dopo la dissoluzione dell'orda, e nell'esercito imperiale aveva fatto una rapida carriera, proporzionata ai suoi meriti, ch'erano grandi, e all'inettitudine degli Imperatori, ch'era grandissima. Lo storico Eugippio ce lo descrive di notevole statura, rosso di pelo e con un gran paio di baffi biondi. L'imperatore Zenone lo nominò Patrizio, che era un riconoscimento puramente formale. Gli Eruli lo acclamarono Re e gli conferirono, col titolo, i pieni poteri. Sotto di lui vincitori e vinti coabitarono senza fondersi. Le antiche magistrature dei tempi di Silla e di Cicerone e le gloriose cariche repubblicane nominalmente sopravvivevano allo sconquasso dell'Impero; ma ormai non contavano più nulla, come non contava più nulla il Senato, esautorato da questo capitano di ventura ricoperto di pelli di montone. L'Italia era piombata nel Medioevo. Cominciavano i secoli bui.

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CAPITOLO TREDICESIMO

L'ULTIMA ROMA IMPERIALE

NON RISULTA che i Romani, o per meglio dire gli abitanti di Roma, si rendessero esatto conto di ciò che significava la decisione di Odoacre di spedire a Costantinopoli le insegne imperiali e di abolire la carica di Augusto. Il Senato, che pro forma si riuniva per avallare le decisioni del tirannello di turno, lo considerò un fatto di ordinaria amministrazione, anzi lo salutò come una provvida riunificazione dell'Impero dopo la divisione fattane da Costantino. Che tutto l'Occidente se ne fosse separato; che Roma, una volta caput mundi, non lo fosse più neanche dell'Italia, la quale oramai gravitava di più su Milano e Ravenna; e che la Penisola non fosse più che la remota propaggine di un Impero che si proclamava ancora Romano, ma che in realtà era soltanto grecorientale; parvero loro tutte cose di scarso rilievo e di secondaria importanza.

Questa indifferenza è significativa. Non che - intendiamoci - all'atto pratico il Senato avesse la possibilità e i mezzi di opporsi. Se avesse osato, per dirla con Mussolini, i lanzichenecchi di Odoacre avrebbero fatto di quell'aula sorda e grigia un loro bivacco. Ma almeno un addio alle aquile e ai fasci littori, cioè a ottocento anni di Storia e di Gloria, avrebbe potuto risuonarvi. Invece, niente. Fra gli epigoni di quella ch'era stata la più orgogliosa aristocrazia del mondo, non se ne trovò uno disposto a pronunziare un epitaffio.

L'ultimo Senatore degno di questo nome era stato Simmaco, alle cui "Lettere" dobbiamo il più gradevole ritratto dell'agonizzante Roma imperiale. Veniva da una grande famiglia di Consoli e di Prefetti, che avevano servito con la medesima accortezza gl'interessi dello Stato e quelli propri, come dimostrava l'immenso patrimonio che avevano accumulato. Fra l'altro essi avevano disseminato, dal Lago di Garda alla Baia di Napoli, una catena di sontuose ville, in modo da poter scorrazzare la Penisola senza lo scomodo di uscir di casa.

Simmaco era l'ultimo rappresentante della cultura pagana, sebbene in fatto

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di religione si proclamasse agnostico. "Che importanza ha" disse all'imperatore Valentiniano "quale strada si sceglie per giungere al Vero? Quel che conta sapere è che non si arriverà mai a scoprirlo." Gran signore e intimo amico di Vezio Pretestato, capo della minoranza pagana in Senato, egli fu designato a patrocinarla nella sua ultima battaglia contro il Cristianesimo. L'imperatore Graziano, completamente dominato da Ambrogio, sulla fine del quarto secolo ordinò la chiusura e la confisca di tutti i templi dedicati agli dèi e la rimozione dal Senato della statua della Vittoria che Augusto vi aveva istallato. Simmaco si oppose con un discorso degno del miglior Cicerone, e fu bandito da Graziano. Morto costui e succedutogli Valentiniano II, Simmaco riprese la sua battaglia oratoria e l'avrebbe vinta sull'animo del nuovo giovane Imperatore, se Ambrogio non fosse intervenuto con la sua foga abituale. Il Vescovo di Milano trionfò perché aveva dalla sua la Fede. Simmaco non aveva che la ragione.

Le sue "lettere" sono una limpida, ma parziale descrizione della Roma dei suoi tempi, dal punto di vista dei ricchi privilegiati, che ancora vi mantengono posizioni di rilievo, sia pure soltanto decorative. Quella che non lo è più sul piano politico, è ancora però la capitale intellettuale dell'Occidente, dove chiunque voglia parlare al mondo civile è costretto a venire per impararne la lingua e i costumi e per trovare gli strumenti di diffusione. Nei palazzi si sono accumulati libri e oggetti d'arte. Vi sono tappeti che costano fino a duecento milioni di lire. Battaglioni di cuochi preparano pranzi sontuosi. E dalle conversazioni è bandita ogni parola che non sia del più classico latino. Questa società non è chiusa. Accoglie tutti coloro, indigeni o forestieri, che in qualche modo fanno spicco, ma gl'impone la sua etichetta. Le ambizioni sono più intellettuali che politiche. Tuttavia la dedizione al bene pubblico è ancora grande. Questa classe di-rigente, lungi dal trarre profitti dalle sue cariche amministrative e diplomatiche (di quelle militari ha perso perfino il ricordo), se le mantiene finanziando di tasca propria circhi e teatri. È un ceto signorile, di altissima civiltà, che non ruba più perché i suoi avi hanno già rubato abbastanza, e alla cui porta tutti i forestieri, barbari o meno, fanno ressa per esservi accolti.

C'è senza dubbio del vero, in questo attraente ritratto, ma visto da una parte sola. L'altra ce la fornisce un cristiano, anzi un prete di Marsiglia, Salviano, nel suo libro II governo di Dio, di cui Agostino ebbe probabil-mente conoscenza. Salviano non vede che oppressione, corruzione e immoralità, a differenza di quanto avviene nelle società barbariche, rozze ma cementate dallo spirito di sacrificio, da un sentimento di solidarietà e di fratellanza e dalla legge dell'onore. "Roma muore e ride" dice questo puritano che non l'ama e che forse ha letto un po' troppo Tacito. Ma anche

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nella sua descrizione del vero c'è. La città aveva in quel momento meno di duecentomila abitanti, fra i quali

i Romani di razza dovevano contarsi, al massimo, a centinaia. Dai tempi di Cesare essa era una metropoli in prevalenza orientale, che si era abituata a vivere parassitariamente alle spalle delle province romanizzate. A parte una cartiera e una fabbrica di coloranti, le sue uniche industrie erano la politica e il saccheggio. Quest'ultimo aveva riempito il suo tesoro pubblico e quelli privati, come nel secolo decimonono il saccheggio coloniale avrebbe fruttato la ricchezza dell'Inghilterra. Ma esso era finito da un pezzo, ormai: da quando Costantinopoli bloccava i mercati orientali e le invasioni barbare avevano paralizzato quelli occidentali.

Da allora sempre più Roma aveva dovuto contare solo sulla Penisola. Ma neanche qui le cose procedevano bene. La popolazione complessiva non superava i cinque milioni. Ma ai guai della decadenza demografica dovevano aggiungersi quelli del declino della classe media. Dai Gracchi in poi Roma aveva sempre lottato per ricostruire o puntellare quella società contadina di coltivatori diretti che davano i migliori soldati all'esercito e i migliori funzionari all'amministrazione. Ma il sistema fiscale del basso Im-pero l'aveva definitivamente rovinata. La Tributaria era talmente corrotta e prevaricatrice che, stando a Salviano, per la prima volta, nel terzo secolo, si videro dei cittadini romani fuggire, per sottrarvisi, oltre la "cortina di ferro" del limes, e rifugiarsi presso i barbari. L'imperatore Valentiniano I ne fu così colpito che istituì una nuova professione: quella dei "Difensori della Città" cui erano affidati i reclami contro il fisco. Ma nessun rimedio di legge è valido quando il costume si corrompe. I memorialisti del tempo hanno lasciato scritto che coloro che vivevano sulle tasse erano più numerosi di co-loro che dovevano pagarle. Ed era la conseguenza di due fenomeni ugualmente deleteri e che si sviluppano sempre di pari passo: da una parte il proliferare della burocrazia, dall'altra l'assottigliamento dei contribuenti. I quali, incapaci di far fronte al fisco, sempre più vendevano il podere o la piccola fattoria al latifondista, facendosene assumere in qualità di coloni, cioè pressappoco di servi della gleba.

Fu questo il vero inizio del Medioevo, almeno dal punto di vista sociale, e cominciò a verificarsi prima dell'arrivo dei barbari. Da quando le guerre di conquista erano finite, era cessato anche l'afflusso di schiavi. E quindi i grandi proprietari erano ben contenti di assoldare come contadini quelli piccoli, dopo averne ricomprato le terre. Costoro, dal canto proprio, cercavano un padrone: non solo per sottrarsi alla Tributaria, ma anche per avere in lui un protettore nello scompiglio che si andava accentuando.

Il grande feudatario, che sin qui aveva vissuto un po' nel suo palazzo a Roma, un po' nella sua villa in campagna, comincia a cambiare fisionomia, e

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si trasforma nel potente, che è già l'inizio del Feudalesimo. La villa, che finora tirava soltanto al comodo e al bello perché alla sua protezione accudivano i Prefetti e i Generali con le loro forze di polizia, adesso cerca anche la sicurezza, e si trasforma piano piano in castello, cioè in fortilizio, perché lo Stato non è più sempre in grado di difenderla dai briganti che infestano le contrade e dai "federati" che cominciano a calarvi e che con essi spesso si confondono. Quello che invece non cambia è il rapporto umano fra il padrone e il colono, che si è a poco a poco sostituito allo schiavo ma che il padrone seguita a trattare come tale.

Questa è una delle ragioni per cui il Feudalesimo, fenomeno tipicamente germanico, in Italia attecchì prima che altrove, ma vi ebbe anche la vita più corta. I barbari, che non si erano allenati al comando sugli schiavi, avevano del vassallaggio un'idea molto più umana dei Romani, perché lo esercitavano sui loro fratelli, e quindi con molte limitazioni e garanzie. I Romani invece si erano sempre riconosciuti il diritto di disporre della vita dei loro dipendenti, e vi avevano contratto una specie di vizio mentale. Paolino di Pella si congratulava della propria moralità scrivendo, in questi tempi, di essersi sempre contentato, quanto a concubine, delle serve: il che costituiva, secondo lui, solo l'esercizio d'un diritto.

In questo contado scarsamente popolato da una plebe di mezzadri e di braccianti senz'altra protezione che quella graziosamente concessa dai potenti, solo costoro vivevano agiatamente, perché quasi tutto il reddito veniva rastrellato a Roma. Ma anche qui ci si guardava dal distribuirlo equamente. Mentre Simmaco iscriveva nel suo registro dei conti la spesa di oltre cinquecento milioni di lire per uno spettacolo nel Circo, dove trenta gladiatori sassoni preferivano strangolarsi ciascuno con le proprie mani piuttosto che sbudellarsi l'uno con l'altro, un vasto proletariato viveva solo di sussidi, di elemosine e di piccoli intrallazzi, approfittando di ogni disordine per dedicarsi al saccheggio di banche e negozi.

Ad Ammiano Marcellino, che vi giunse sulla fine del quarto secolo da Antiochia, Roma fece l'impressione di una città piacevole e corrotta, dove la raffinatezza e la crudeltà, l'intelligenza e il cinismo, il lusso e la miseria, la tradizione e l'anarchia si mescolavano in dosi ugualmente robuste. Ammiano scriveva in un latino un po' imparaticcio. Ma era un imparziale galantuomo, a cui il paganesimo non impedì per esempio di condannare Giuliano l'Apostata per i suoi tentativi contro le libertà cristiane. E al suo giudizio ci crediamo, anche perché conferma sia il ritratto in rosa di Sim-maco che quello in nero di Salviano. Le due Rome, quella splendida dei pochi e quella miserabile dei molti, convivevano. E si capisce com'essa potesse apparire diversa secondo gli occhi che la guardavano. Altri due cronisti forestieri, Macrobio e Claudiano, non videro che la prima, forse

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perché ebbero la ventura di essere accolti nella buona società. Ma le loro de-scrizioni puzzano di omaggio.

Anch'essi tuttavia ci aiutano a capire come mai Roma accettasse con tanta facilità la sua spoliazione del titolo di Capitale d'Impero. Tutte le decadenze in tutti i luoghi e in tutti i tempi sono contrassegnate dai medesimi feno-meni: le accresciute distanze sociali fra un numero sempre più piccolo di privilegiati e una massa sempre più grande di derelitti, l'affievolimento di ogni vincolo di solidarietà, e la totale indifferenza di tutti agl'interessi della comunità.

Nei salotti della ricca Roma quasi tutta pagana, si parlava di Cicerone e di Catullo, si citava Aristotele, si corbellavano i Generali barbari, le loro rozze maniere, i loro errori di pronunzia e di ortografia. Nei "bassi" della povera Roma cristiana ci si arrangiava come si poteva e si era troppo impegnati a metter d'accordo il desinare con la cena per potersi preoccupare dell'Impero, dello Stato, del Passato e del Futuro. Che un lanzichenecco tedesco cresciuto alla corte di Attila, come Odoacre, avesse rispedito le aquile e i fasci a Costantinopoli e stesse governando l'Italia come un Re indipendente, non interessava più a nessuno.

A intendere e ad esprimere in tutta la sua grandezza e tragicità questa catastrofe ci fu solo un poeta. Ma non era romano, e nemmeno italiano. Era un gallo nativo forse di Tolosa, forse di Narbona, si chiamava Rutilio Namaziano, veniva dalla carriera amministrativa, ed era stato prefetto in Toscana e in Umbria. Prima di tornarsene in patria sotto l'incalzare delle invasioni visigote e vandale, volle pagare il suo debito di gratitudine a Roma, che aveva fatto di lui un uomo civile e colto, dedicandole un'apostrofe che dimostra quanto quella civiltà e cultura egli le avesse assimilate. Forse il suo libro De reditu è l'ultimo capolavoro della latinità classica. Comunque, lo è certamente l'addio all'Urbe che vi è incluso:

Ascolta, regina bellissima di un mondo che hai fatto tuo, o Roma, accolta negli stellati cieli, ascolta, madre di uomini e di dei. Non lontani dal cielo siamo noi quando ci troviamo nei tuoi templi... Tu spargi i tuoi doni eguali ai raggi del sole per ovunque in cerchio fluttua l'Oceano... Non ti fermarono le sabbie infocate di Libia, non l'estrema terra armata di ghiaccio ti respinse... Facesti una patria sola di genti diverse, giovò a chi era senza leggi diventar tuo tributario poiché tu trasformavi gli uomini in cittadini e una città facesti di ciò che prima non era che un globo. Non si poteva dire di più, né meglio. Questo barbaro dal cuore

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traboccante di affetto, di riconoscenza e di ammirazione, aveva composto per Roma il più bell'epitaffio in un latino degno di Virgilio. Ma i Romani non lo lessero. E ancor oggi il nome di Namaziano è noto solo a pochi studiosi.

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© 1959 Rizzoli Editore, Milano © 1994 RCS Libri S.p.A., Milano sulla collana STORIA d’ ITALIA © 2001 RCS Collezionabili S.p.A., Milano sulla presente edizione

STORIA D’ITALIA Pubblicazione periodica settimanale Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 197 del 9.4.1994 Direttore responsabile; Gianni Vallardi Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 00262 vol. III Foglio 489 del 20.9.1982

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SOMMARIO

Cronologia

Capitolo Primo Teodorico

Capitolo Secondo L’Italia gotica

Capitolo Terzo Lo sfacelo

Capitolo Quarto Bisanzio

Capitolo Quinto Giustiniano

Capitolo Sesto La riconquista dell’Italia

Capitolo Settimo I Longobardi

Capitolo Ottavo Gregorio Magno

Capitolo Nono Rotari

Capitolo Decimo La Chiesa e le eresie

Capitolo Undicesimo I Padri della Chiesa

Capitolo Dodicesimo San Benedetto

Capitolo Tredicesimo Fra Roma e Bisanzio

Capitolo Quattordicesimo I Franchi

Capitolo Quindicesimo Pipino in Italia

Capitolo Sedices1mo L’imbroglio delle donazioni

Capitolo Diciassettesimo La fine dei Longobardi

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CRONOLOGIA

EVENTI POLITICI E MILITARI

I Goti e Teodorico

453 Alla morte di Attila, gli Ostrogoti si stanziano in Pannonia.

458 Teodemiro, re degli 0strogoti, devasta l'Illiria. Il figlio Teodorico è dato in ostaggio all'imperatore Leone, a Bisanzio.

470 Teodorico ritorna in Pannonia e diviene capo degli Ostrogoti.

474 Invade la Macedonia.

478 Conduce gli Ostrogoti in Scizia, sulle rive del Mar Nero.

484 È nominato console.

486 Invade la Tracia e assedia Bisanzio. Ma dall'imperatore Zenone è sollecitato a invadere l'Italia.

488 Da inizio alla campagna d'Italia contro Odoacre.

489 Sbaraglia i Gepidi: 28 agosto, vince l'esercito di Odoacre sull'Isonzo. 30 settembre, batte nuovamente, vicino a Verona, Odoacre, che si chiude in Ravenna.

489-493 Assedia Ravenna. Nel frattempo scende a Roma e conquista il mezzogior-no d'Italia.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

V sec. Si diffonde il monachesimo, già attivo nel secolo precedente (Sant'Antonio, 250-356 ca., primo anacoreta; San Pacomio, IV sec., iniziatore del cenobitismo).

480 Nasce a Norcia San Benedetto.

529 Fondazione del Monastero di Montecassino.

L'Italia dei Goti

V-VI secc. L'Italia gotica è divisa in 17 province governate da Presidi, dipendenti dal Prefetto del Pretorio, responsabile davanti al re. Le province di frontiera sono affidate ai Conti. A Roma continua ad operare il Senato e tutti gli anni sono ancora nominati i Consoli, che danno all'anno il loro nome; ma il potere è nelle mani del Prefetto dell'Urbe, alle di-pendenze dirette del re.

VI sec. Opera a Pavia Magno Felice Ennodio, vescovo e santo, autore dell'Eucharisticum (un'autobiografia) e di 297 Epistole, fonte storica importante per il periodo di Teodorico.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

493 5 marzo, cade Ravenna, Odoacre è ucciso. Teodorico è re d'Italia.

493-524 Teodorico svolge una politica di equilibrio e di accordo tra Ostrogoti e Romani: 522, nomina primo ministro il romano Severino Boezio.

524 L'imperatore di Costantinopoli (Giustiniano) emana un editto contro gli eretici che lede gravemente gli interessi dei Goti (ariani). Teodorico impone al papa Giovanni di recarsi a Costantinopoli.

Processo, condanna e morte a Pavia di Severino Boezio.

526 Morte di papa Giovanni: 30 agosto,morte di Teodorico. La figlia Amalasunta reggente in nome del figlio-letto Atalarico.

534 Muore Atalarico e Amalasunta associa al trono il cugino Teodato.

535 Morte di Amalasunta.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

500 Teodorico emana un Editto in 144 articoli, che regola la vita militare e civile del regno.

Per suo ordine, il Prefetto del Pretorio Liberio realizza una vasta riforma agraria che assegna ai Romani i due terzi del suolo e ai Goti un terzo. In questi anni i Goti da soldati si trasformano in coloni. Teodorico restaura a Roma il Teatro di Marcello ed emana leggi contro il vezzo dei Romani di utilizzare come materiale da costruzione gli antichi monumenti in rovina. A Ravenna, Teodorico fa in-nalzare la basilica di S. Apollinare Nuovo e il suo Mausoleo.

Amalasunta fa costruire la Basilica di San Vitale.

524 Simmaco, Prefetto dell'Urbe e Presidente del Senato, viene ucciso per ordine di Teodorico. Lascia una Storia di Roma in 7 libri.

Il 23 ottobre viene giustiziato a Pavia Severino Boezio, già Primo Ministro di Teodorico dal 522 al 523. Lascia una traduzione latina dell'Organon diAristotele e la Consolatio philosophiae,scritta in carcere.

549 A Ravenna viene consacrata la basilica di Sant'Apollinaire in Classe.

573 Muore lo storico Cassiodoro, calabrese, autore di una Storia dei Goti perduta, del Chronicon e delle Variae.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

Giustiniano

482 Nasce in Macedonia.

520 Suo zio Giustino, divenuto imperatore di Costantinopoli, nomina Giustiniano console.

527 Giustiniano succede a Giustino e sposa Teodora.

532 Ribellione di Bisanzio, sedata da Belisario.

534 Giustiniano invia Belisario contro i Vandali del Nord-Africa. Conquista bi-zantina dell'Africa settentrionale, della Sardegna, della Corsica e delle Baleari.

535 Belisario da inizio in Italia alla guerra contro i Goti. Teodato è deposto e sostituito con Vitige. Belis ario a Roma.

536 Arrivo di Narsete e suo breve soggiorno in Italia. Belisario a Ravenna. Suo ri-chiamo a Bisanzio. Totila nuovo re dei Goti.

552 La guerra contro i Goti è portata a termine da Narsete.

553 I Goti, sotto il re Teia, vengono definitivamente dispersi da Narsete in Campania.

553-568 Narsete esarca d'Italia.

554 Giustiniano accorda ai vescovi italiani larghe autonomie.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

Bisanzio

VI sec. Bisanzio, con oltre un milione di abitanti, è la più grande metropoli del Me-diterraneo, centro politico, culturale ed economico (lavorazione della lana e della seta, monopolio di Stato). La seguono, per importanza, Cartagine, Alessandria e Antiochia.

Grande importanza, a Bisanzio, dell'attività ludica dell'ippodromo (corse con le bighe, fazioni dei Verdi e degli Azzurri).

In questi anni Giustiniano fa innalzare dall'architetto Antemio di Traile la chiesa di Santa Sofia.

La lingua ufficiale, fino a Giustiniano, è il latino, poi sarà il greco.

528 Giustiniano da inizio alla riforma dei codici.

529 È pubblicato il Codex constitutionum. 533 Corpus iuris civilis (Pan-dectae e

Institutiones). In questi anni si rendono fa-mosi i monaci:

San Niceforo, eremita; San Daniele, stilita; San Teodoro Siceota; San Basilio Minore. Opera lo storico Procopio di Cesarea, segretario del generale Belisario e autore di una Storia delle guerre e della Storia segreta, dura requisitoria contro Giustiniano e Teodora. Nelle sue Storiesono descritte le spaventose condizioni dell'Italia durante la guerra gotica: la popolazione ridotta a non più di quattro milioni di abitanti, Roma, intorno al 556, con non più di quarantamila anime.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

565 Morte di Giustiniano. Gli succede il nipote Giustino II.

568 Giustino II richiama dall'Italia Narsete e lo sostituisce col prefetto Longino.

I Longobardi

III sec. a.C. ca. Dalla Scandinavia i Longobardi passano nel continente, risalgono il corso dell'Elba e si fermano lungo le coste ungheresi del Danubio.

568 Calano in Italia i Longobardi guidati da Alboino. Prendono Vìcenza e Verona, mentre Longino è chiuso in Ravenna.

569 Conquistano la Liguria. Capitola Milano e Alboino diventa Signore d'Italia. La penisola è devastata da una terribile pestilenza.

572 I Longobardi occupano la Toscana, Spoleto e Benevento.

572 Occupano Pavia che diviene la capitale del regno. Muore Alboino nella congiura ordita dalla moglie Rosmunda, che fugge coll'amante Elmechi da Longino, a Ravenna. Loro morte. Cleti, re dei Longobardi.

574 Clefi muore assassinato. I Duchi governano indipendenti.

577 A Ravenna Longino è sostituito dall'esarca Smarogdo.

584 I Duchi eleggono a Pavia re Autari. Grandi alluvioni devastano l'Italia.

590 Autari sposa Teodolinda. È eletto papa Gregorio Magno (540-604).

597 Muore Autari. Teodolinda si associa al trono Agilulfo.

593 Agilulfo devasta l'Italia e marcia su Roma. Scende a patti con Gregorio.

599 L'Italia è stabilmente divisa nelle tre sfere di influenza longobarda, bizantina e romana.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI 726 Editto di Leone III Isaurico, imperatore

di Costantinopoli, contro il culto delle immagini.

VI sec. d.C. I Longobardi sono stanziati in

Pannonia, e raggiungono una certa unità politica sotto Alboino.

590-604 Anni del pontificato di Gregorio Magno. Riforma della liturgia. Inizio ef-fettivo del potere temporale del papato in Roma. Gregorio compone i Canti grego-riani, lascia un Epistolario di 14 libri e una raccolta di Miracoli.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

603 Conversione dei Longobardi al Cattolicesimo.

604 Morte di Gregorio Magno.

616 Morte di Agilulfo. Teodolinda regina e tutrice del figlioletto Adoloaldo.

625 Morte di Adoloaldo. Diviene re Arioaldo.

628 Morte di Teodolinda.

636-652 Regno di re Rotari.

652-712 Si succedono al trono di Pavia diversi re, tra cui Rodoaldo, Ariperto, Grimoal-do, Pertanto (persecuzione contro gli Ebrei, 67/) e finalmente Liutprando.

662 Tentativo fallito di Costante II, imperatore di Bisanzio, di ricostituire l'impero di Occidente.

712-744 Regno di Liutprando.

728 Donazione di Sutri.

I Franchi

481 Clodoveo, re dei Franchi.

496 Battesimo di Clodoveo.

511 Sua morte. Il regno dei Franchi si estende dall'Atlantico al Reno.

539 Prima incursione dei Franchi in Italia.

576 e 590 Due altre incursioni di Franchi in Italia respinte dai Longobardi.

613 Dopo un periodo di discordie interne, Clotario riunifica il regno dei Franchi.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

A Monza, la regina Teodolinda fa costruire la basilica di San Giovanni Battista, che custodisce la corona ferrea dei re longobardi.

643 Re Rotari emana l'Editto che regola i

rapporti politici e civili dei Longobardi e tra Longobardi e Latini.

730 c..a. Re Liutprando perfeziona e arricchisce l’Editto di Rotari e restaura la zecca di Pavia che conia il soldo e la fremissed'oro.

720-799 Opera lo storico longobardo Paolo Diacono, autore della Historia Longo-bardorum.

757 Sotto papa Stefano è confezionata la falsa Donazione di Costantino, che sarà confutata da Lorenzo Valla nel 1440.

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EVENTI POLITICI E MILITARI

VII sec. I re franchi sono esautorati dai Maestri di Palazzo (periodo dei re fannul-loni).

622 II Maestro di Palazzo Pipino da origine alla dinastia dei Pipinidi. Il più im-portante è Carlo Martello che nel 732, nella famosa battaglia di Poitiers, sconfigge i Mori e li ricaccia in Spagna.

741 Morte di Carlo Martello. Gli succedono i figli Car-lomanno e Pipino il Breve,

751 Pipino il Breve unico re dei Franchi.

768 Muore Pipino. Gli succedono i figli Carlomagno e Carlomanno.

771 Muore Carlomanno. Carlomagno unico re dei Franchi.

Ultime vicende dei Longobardi

744 A Pavia è eletto re Rachis.

749 Gli succede Astolfo.

751 Astolfo conquista Ravenna e pone fine all'ingerenza bizantina nella penisola.

753 Papa Stefano invoca aiuto da Pipino contro i Longobardi.

Pipino scende in Italia, batte Astolfo a Pavia.

756 Morte di Astolfo. Viene eletto re Desiderio.

770 Matrimonio tra Carlo Magno e Ermengarda, figlia di Desiderio.

777 Carlo Magno ripudia Ermengarda.

772 Viene eletto papa Adriano I.

La vedova di Carlomanno, Gerberga, chiede asilo a Pavia.

I Franchi invadono l’Italia, Adelchi figlio di Desiderio è battuto sulle Alpi.

773 Assedio di Pavia. Carlo Magno sposa Ildegarda. Conquista Verona. Adelchi fugge in Oriente.

774 Cade Pavia. Desiderio è fatto prigioniero. Termina il regno longobardo.

EVENTI CIVILI, CULTURALI E ARTISTICI

770-840 Opera lo storico franco Eginardo, autore di una Vita Karoli, biografia di Carlomagno

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CAPITOLO PRIMO

TEODORICO

QUANDO, alla morte di Attila, l’orda unna si era disgregata e i popoli vinti che in essa erano confluiti tornarono liberi, gli Ostrogoti chiesero e ottennero da Bisanzio il permesso di stanziarsi in Pannonia, che corrispondeva alla parte occidentale della moderna Ungheria. Il loro Re, Teodemiro, era un uomo inquieto e ambizioso. Nel 458 invase l’Illiria e la devastò. L’imperatore Leone lo fermò in tempo con una grossa somma di denaro prima che traboccasse in Tracia. Greci e Goti fecero la pace, e si scambiarono - come d’uso - gli ostaggi.

Fra costoro c’era anche il figlio del Re. Si chiamava Teodorico - che significava “capo-popolo” -, aveva sette anni, era un bel bambino biondo con due grandi occhi celesti. La madre Erelieva era stata una concubina di Teodemiro che l’aveva conosciuta nell’accampamento di Attila. Il piccolo Teodorico era cresciuto in mezzo ai guerrieri goti. Sapeva cavalcare, aveva imparato a manovrare l’arco ed era un buon cacciatore. La spada era il suo balocco preferito. Dormiva, come il padre, sotto la tenda, accanto al suo cavallo, al centro del Ring. Qui, nelle tiepide notti d’estate, i cantastorie gli narravano le antiche saghe nordiche e gli leggevano la Bibbia, quella tradotta dal saggio Ulfila. Il giorno della partenza per Costantinopoli, Teodemiro gli donò il suo pugnale, e una scorta di Goti l’accompagnò fin sul Bosforo.

Teodorico era sempre vissuto nella prateria tra i carri, le greggi e i cavalli e non aveva mai visto una città. Bisanzio era la più grande metropoli del mondo. Aveva quasi un milione d’abitanti e ospitava una corte favolosa. Teodorico restò abbagliato dalla profusione di ori e di marmi e dall’abbondanza di tappeti e di arazzi. L’imperatore Leone lo ricevette nella sala della corona, appollaiato su un trono spropositato, sotto un baldacchino di damasco dal quale pendevano due uccelli meccanici. Era un uomo

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piccolo, calvo, privo d’ingegno, balbuziente, un po’ zoppo e pieno di piccole manie. Viveva nel terrore di essere detronizzato e di notte si chiudeva a chiave in camera da letto per paura che qualcuno lo uccidesse nel sonno. Il principino goto, giunto al suo cospetto, s’inchinò, ma lo fece così maldestramente che scivolò. Per sostenersi s’aggrappò al piede del sovrano che spenzolava nel vuoto e per poco non tirò Leone giù dal trono. L’Imperatore ne fu divertito e prese a benvolere il ragazzo. Lo alloggiò a corte e gli assegnò un bell’appartamento al primo piano del palazzo sacro, le cui finestre s’affacciavano sul Bosforo. Poi chiamò due servi e ordinò di preparare un bagno caldo per il piccolo ospite. Teodorico fu calato in una vasca di marmo, schiumante di sapone, e accuratamente lavato. Un parrucchiere gli tagliò i capelli biondi e riccioluti che gli scendevano sulle spalle, e lo cosparse di profumi. Poi, con una tunica azzurra stretta alla vita da una cinturina di marocchino con una fibbia d’oro e un paio di pantofole di porpora, fu condotto a scuola.

A Bisanzio c’erano molti collegi, ma uno eccelleva sugli altri: era qualcosa come Eton o Harrow oggi in Inghilterra. Lo frequentavano i figli dei ricchi e dei nobili, e i rampolli dei satrapi stranieri. Teodorico vi compì tutti i suoi studi, al termine dei quali rimase un analfabeta con qualche nozione di algebra, di astronomia e di galateo. Quando compì quindici anni fece il suo debutto in società. Era un gran bel ragazzo forte, fiero e sicuro di sé. Parlava correntemente il greco, masticava un po’ di latino e non aveva dimenticato il gotico. Era educato e galante, nei salotti le signore se lo contendevano, l’Imperatore lo invitava a pranzo e lo faceva servire per primo. Teodorico era ghiotto di lenticchie, aglio e cinghiale. Gli piaceva il vino ma non si alzava mai da tavola ubriaco. Dopo cena, di solito, andava in qualche locale notturno a fare un po’ di baldoria con gli amici. La domenica assisteva all’ippodromo alle corse dei cocchi. Aveva uno scanno riservato nella tribuna d’onore accanto a quello di Leone, ma preferiva mescolarsi col popolino sugli spalti ed era amico dei fantini. Qualche volta, durante gli allenamenti, scendeva anche lui in lizza. Passava l’estate in allegra compagnia in una villa che aveva preso in affitto sul Bosforo. Era un nuotatore formidabile e di una resistenza a tutta prova.

Nel 470 - ma la data è incerta - tornò in Pannonia. Aveva diciotto anni ed era ormai un uomo fatto. Di statura superiore alla media, aveva una testa grossa e rotonda, una fronte spaziosa, un bel naso aquilino e due sopraccigli folti e cespugliosi che gli coprivano le palpebre, le orecchie spanse e vibratili come radar. La bocca, ai cui angoli spiovevano un paio di poderosi baffi biondi, mostrava una superba dentatura che faceva risaltare le labbra esangui e sottili. Le narici erano così irte di peli che ogni mattina un barbiere, munito di uno speciale rasoio, doveva sfoltirle per facilitargli la

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respirazione. Un petto villoso e gladiatorio sosteneva il collo taurino. Le gambe, diritte e muscolose, poggiavano su due piedi corti e affusolati. Teodemiro quando lo rivide non lo riconobbe. Teodorico trovò il padre molto invecchiato e un po’ rimbambito. Erano stati lontani dieci anni e non si erano scambiati che pochi messaggi.

La Pannonia era allora minacciata dai Sarmati che avevano invaso la Mesia e premevano sui suoi confini. All’insaputa del padre, Teodorico ar-ruolò seimila uomini, passò il Danubio, si avventò sul nemico e lo sterminò. Tagliò la testa al re Badai, la conficcò in cima a una picca e con questo trofeo tornò in Pannonia. Poco tempo dopo fu incoronato Re.

La Pannonia era diventata troppo stretta per i Goti, i quali avevano continuamente bisogno di spazio. Nomadi e pastori, vivevano di pascoli e di saccheggio e la vita sedentaria li affamava. Bisanzio in quel momento aveva ammassato gli eserciti sui confini orientali lasciando aperte, anzi spalancate, le porte della Macedonia. Attraverso queste porte, con tutto il suo popolo, Teodorico si accinse a passare. Colse di sorpresa le resistenze greche e le travolse. Il nuovo imperatore Zenone, succeduto nel 474 a Leone, chiese la pace; e i Goti, in cambio della Macedonia, dove si stanziarono, deposero le armi. Nel 478 però le ripresero e si trasferirono in Scizia, sulle rive del Mar Nero.

Per Bisanzio, il Re goto era diventato un inquilino scomodo e imprevedibile. Nel 484 l’Imperatore lo nominò Console. S’illudeva con gli onori d’amicarselo. Teodorico indossò la toga, e due anni dopo, per tutto ringraziamento, invase la Tracia e cinse d’assedio - ma senza fortuna - la stessa Bisanzio. La Scizia evidentemente non era stata la terra promessa che egli aveva sperato. Zenone allora l’invitò ad occupare l’Italia.

La Penisola era di fatto diventata un Regno indipendente anche se Odoacre la governava in nome di Costantinopoli. Lo storico greco Procopio riferisce che Teodorico accettò con entusiasmo la proposta che in realtà mirava più a liberare i Balcani dai Goti che a riconquistare un Paese sul quale l’Imperatore non esercitava più alcun controllo.

La lunga marcia di Teodorico ebbe inizio nel tardo autunno del 488. Era un intero popolo che migrava: donne, vecchi, bambini, carri, capre, masserizie. Duecentocinquantamila Goti, di cui solo cinquantamila in assetto di guerra e alcune centinaia di mercenari greci in cerca di avventure muovevano verso Occidente lungo l’antica rotta danubiana, attraverso le strade che Roma aveva costruito e gli Unni non avevano fatto in tempo a distruggere. Per i primi cinquecento chilometri non fu che una lunga passeggiata. Poi cominciò l’anabasi, quando i Goti giunsero ai confini della Dacia dove erano acquartierati i loro cugini Gepidi. Teodorico chiese il diritto di passaggio sul loro territorio ma ebbe un rifiuto. I Gepidi furono

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attaccati nei loro accampamenti e sbaragliati. I Goti arruolarono nell’orda i pochi superstiti dopo aver trucidato i vecchi e gli invalidi, e ripresero il cammino verso Nord-Ovest. Nell’agosto dell’anno successivo valicarono le Alpi Giulie e calarono in Italia.

Odoacre non era rimasto con le mani in mano. Aveva mobilitato l’esercito e l’aveva concentrato sulle rive dell’Isonzo dove aveva scavato trincee e eretto fortificazioni. Il 28 agosto, i Goti si scontrarono con le bande di Odoacre e le sconfissero. Il 30 settembre i due eserciti si affrontarono di nuovo a Verona. Prima della battaglia Teodorico, ch’era assai superstizioso, volle indossare un mantello di seta che la madre e la sorella gli avevano confezionato durante la lunga marcia. Ancora una volta Odoacre fu battuto e volto in fuga. Cercò scampo a Roma ma i Quiriti, che lo detestavano, gli chiusero la porta in faccia. Allora ripiegò su Ravenna, dopo aver devastato il Lazio e decimato i suoi abitanti.

Il Re goto non l’inseguì, ma puntò su Milano dove le retrovie nemiche avevano cercato riparo, e la occupò. I seguaci di Odoacre furono fatti prigionieri. Il generale che li comandava, un erulo di nome Tufa, chiese di essere arruolato fra i Goti. Teodorico l’accontentò, lo mise alla testa di un esercito e lo spedì ad assediare Ravenna. Appena vi giunse, divorato dal rimorso - o dalla paura - Tufa si rimise agli ordini di Odoacre. Migliaia di Goti furono catturati e uccisi, e le sorti della guerra minacciarono di rovesciarsi. Teodorico allora abbandonò Milano, e marciò su Ravenna. Poiché la città era praticamente inespugnabile fece scavare un ampio fossato intorno alle mura e vi ammassò le truppe. Quindi partì per Roma, dove fu accolto come un liberatore. Di qui mosse alla conquista del Mezzogiorno che pacificamente gli si sottomise.

Ai primi del 493, stremata da un assedio che durava da oltre due anni e da una carestia che aveva ridotto i suoi abitanti a cibarsi di erba e di carne di cane, Ravenna capitolò. Due giorni dopo fu firmata la pace che il Vescovo Giovanni benedisse. Odoacre invocò la clemenza di Teodorico e gli consegnò il proprio figlio Telano in ostaggio. Il 5 marzo il Re goto attraversò a cavallo la città tra le ovazioni del popolo e del clero. Giovanni ordinò un Te Deum di ringraziamento e gli andò incontro con la croce e un codazzo di preti salmodianti. I festeggiamenti si conclusero con un gran banchetto in onore di Odoacre al termine del quale Teodorico sgozzò il rivale dopo aver fatto sterminare tutti i suoi familiari. Procopio racconta che Odoacre fu ucciso perché aveva osato chiedere al Re goto di poter governare con lui.

La conquista della Penisola era durata in tutto cinque anni: gli eserciti avevano desolato le campagne, spianato le città, trucidato gli abitanti. Ma oltre che dalla guerra la popolazione era stata falciata dalle carestie, dalle

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pestilenze e dagli immancabili cataclismi naturali. Lo storico Ennodio racconta che la fame uccideva chi sopravviveva alla spada. Odoacre non aveva governato né meglio né peggio dei suoi predecessori Non aveva costruito nulla e nulla aveva distrutto. Aveva conservato l’Italia come l’aveva trovata: un terra di rapina e di conquista alla mercé di tutti. Con Teodorico molte cose cambiarono e la situazione migliorò.

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CAPITOLO SECONDO

L’ITALIA GOTICA

AL PRINCIPIO del 494 la conquista gotica era consolidata. Teodorico s’istallò a Ravenna. Dei duecentocinquantamila Goti che con lui avevano intrapreso la lunga marcia non più di duecentomila avevano raggiunto la terra promessa. Di costoro una parte si era acquartierata nella pianura padana, un’altra aveva seguito il Re nella città adriatica, una terza era calata nel Mezzogiorno.

L’insediamento fu lento e difficile. Quello di Teodorico non era un popolo, ma un’orda di guerrieri, di pecorai e di predoni, refrattari a ogni forma di vita organizzata. Erano troppo barbari per fondersi coi vinti e questi troppo marci per assimilarli. Non sarebbe stata una convivenza facile. Il nuovo Regno comprendeva Lombardia, Veneto, Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Lucania, Calabria e Sicilia. Teodorico lasciò inalterata l’antica fisionomia e la tradizionale nomenclatura amministrativa romana : la Penisola restò divisa in diciassette province, governate da diciassette Presidi, ch’erano al tempo stesso giudici, amministratori e intendenti di finanza. Dipendevano tutti dal Prefetto del Pretorio, o ministro dell’Interno, che risiedeva a Ravenna e rendeva conto del loro operato al Re. Le province di frontiera furono affidate ai cosiddetti Conti, generali goti in attività di servizio segnalatisi durante la guerra contro Odoacre. Costoro disponevano di un piccolo esercito, facevano vita di guarnigione e vigilavano sui confini. I loro compiti non erano naturalmente solo militari, ma anche civili e giudiziari.

A Roma il Senato, ridotto a una larva, seguitò a essere, almeno sulla carta, il più alto organo rappresentativo. Il Re gli confermò tutti i privilegi di cui in passato aveva goduto, limitandosi a designarne il Presidente. I Senatori con-servarono il diritto di trasmettere la propria carica ai figli, e anche i Consoli

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salvarono le loro prerogative. Quando venivano eletti potevano affrancare un certo numero di schiavi e avevano ancora l’obbligo di distribuire grano alla plebe e farla divertire. Si vestivano come sotto Silla, Cesare e Traiano, e davano il loro nome all’anno. Ma il vero capo a Roma era il Prefetto dell’Urbe. Lo nominava Teodorico, di cui era il luogotenente. Dirigeva l’amministrazione, presiedeva alla giustizia ed esercitava la sua giu-risdizione persino sui Senatori. Da lui dipendevano tutti i funzionari pubblici della città, il cui numero - riferisce lo storico Cassiodoro - sotto Teodorico subì una drastica riduzione.

Quando nell’anno 500 il Re visitò Roma, fu appunto il Prefetto dell’Urbe il primo a rendergli omaggio, a capo di una delegazione in cui tutte le alte cariche dello Stato erano rappresentate. C’erano il Questore, che faceva da collegamento fra Teodorico e il Senato, il Maestro degli Uffici che sovrintendeva all’annona e alle poste, il Conte delle Largizioni o Ministro delle Finanze, che vigilava anche sul commercio, il Conte degli Affari Privati o Ministro della Corona, che aveva il compito di impedire i matrimo-ni tra parenti e di dare sepoltura ai morti. Tutti costoro avevano il titolo di illustri e percepivano uno stipendio mensile di mille soldi, corrispondente a circa dieci milioni di lire attuali.

Nei suoi non troppo frequenti spostamenti Teodorico si faceva accompagnare da uno stuolo di scudieri e di ufficiali, i quali erano natural-mente tutti goti. Nelle Variae di Cassiodoro non c’è traccia di un solo funzionario militare romano. Il capo dell’esercito era il Re che dichiarava la guerra e ordinava la leva. I Goti mobilitavano in massa e provvedevano personalmente al proprio equipaggiamento che consisteva in una specie di corazza leggera, un elmo e uno scudo. L’armatura comprendeva la lancia, la spada, il giavellotto, il pugnale e le frecce. Si davano di solito convegno in una provincia di frontiera. Lo Stato passava ai soldati stipendio e vettovaglie, ma vietava loro il saccheggio, lo stupro e il ratto. I Romani erano tenuti a procurare alle truppe di passaggio vitto e alloggio. Finita la guerra, i soldati tornavano alle loro case a coltivare i campi. Così lentamente i Goti si emanciparono dalla vita nomade, e come gli antichi legionari romani diventarono agricoltori.

Teodorico trovò la Penisola finanziariamente stremata e le casse dello Stato vuote. Moltiplicò i balzelli e il numero dei pubblicani, che erano gli agenti incaricati di riscuoterli. Le imposte erano pesanti e generalmente si pagavano in natura: olio, vino, grano eccetera. All’erario andava anche il ricavato della vendita dei minerali e del marmo e la cosiddetta tassa sui monopoli che colpiva il diritto di commercio in esclusiva. Teodorico aveva il culto dei monumenti. Restaurò il teatro di Marcello, nominò un so-vrintendente alle cloache e istituì una commissione di vigilanza sui

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vespasiani. Punì i ladri di statue e gli speculatori di terreni. Emanò una legge contro la demolizione indiscriminata e arbitraria degli antichi edifìci pubblici, che era diventato un lucroso passatempo per gli abitanti dell’Urbe. “Le rovine dell’antica Roma - è stato scritto - ci sono state state lasciate dagli stessi Romani. “

Nel 500 Teodorico pubblicò un Editto in centoquarantaquattro articoli. La materia che conteneva e lo spirito che l’uniformava erano romani. Romana era la giurisprudenza che assegnava a tribunali di guerra la competenza a giudicare reati militari e a corti civili quella di pronunciare sentenze comuni. Nominò presidenti dei primi i Conti goti e delle seconde i magistrati romani. Capitava assai di rado che un cittadino romano comparisse dinanzi a un giudice goto. Poteva accadere, anzi regolarmente accadeva, quando scoppiava una controversia fra Goti e Romani. In questo caso i secondi era-no giudicati da un Conte assistito da un magistrato romano.

I suoi biografi ci descrivono Teodorico come un uomo giusto. Un giorno una donna gli presentò un ricorso contro certi giudici che non si decidevano a dirimere una lite in cui essa era coinvolta. Il Re li convocò e ordinò di celebrare seduta stante il processo. Pronunciato il verdetto, fece tagliare la testa ai giudici.

Non avendone di suoi, si servì per governare l’Italia di amministratori romani. Nominò Prefetto del Pretorio un certo Liberio che aveva ricoperto la stessa carica sotto Odoacre, al quale sino alla fine era stato fedele. Liberio coronò la sua carriera come Ministro delle Finanze e legò il suo nome alla riforma agraria che assegnò due terzi del suolo italiano ai Romani e un terzo ai Goti, che a giusto titolo lo avevano reclamato essendone ormai gli unici difensori. Successore di Liberio fu Cassiodoro. Anche lui aveva militato sotto Odoacre di cui era stato Tesoriere. Aveva poi offerto i suoi servigi a Teodorico che l’aveva nominato governatore della Lucania. La sua carriera fu continuata dall’omonimo figlio, il grande storico di questo periodo, che per quasi quarant’anni fu a capo dell’amministrazione gotica in Italia.

Cassiodoro junior era nato a Squillace in Calabria nel 480. Giovinetto si era trasferito a Roma dove aveva compiuto studi di grammatica e ornitologia. Quando il padre fu promosso Prefetto del Pretorio, egli divenne governatore della Lucania, poi assessore a Roma. In tale veste un giorno gli capitò di rivolgere un brindisi al Re. Lo fece con tanta grazia che Teodorico lo nominò prima suo segretario, poi Questore, Patrizio, e nel 514 Console. Cassiodoro non fu solo un uomo di Stato ma anche un grande storico,. nonostante l’ampollosità e il tono agiografico dei suoi scritti. In una brutta “Storia dei Goti”, andata perduta, attribuì a loro un’origine divina e una lontana parentela con Ercole e Teseo. Compilò anche un sommario di antichità - il Chronicon - che prendeva lo spunto dalla cacciata di Adamo ed

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Eva dal Paradiso Terrestre. La sua opera più famosa però sono le Variae, una raccolta di lettere e documenti, attraverso i quali possiamo ricostruire il Regno gotico in Italia. Morì vecchissimo, a novantatre anni, nella sua tenuta di Squillace, dove si era ritirato ad allevare canarini e a trascrivere le opere di Virgilio e di Seneca.

Gli altri collaboratori civili di Teodorico, Simmaco e Boezio, erano entrambi romani. Simmaco discendeva dal console omonimo che sotto Teo-dosio si era opposto alla rimozione della statua della Vittoria, simbolo pagano, dall’aula del Senato. Il pronipote si era convertito al cattolicesimo e ne era diventato un campione. Odoacre l’aveva nominato Console, e Teodorico l’aveva designato Prefetto dell’Urbe col titolo di Patrizio. Nel 524 era stato eletto Presidente del Senato. Era un uomo colto, probo e raffinato. Scrisse una Storia di Roma, dotta e retorica, in sette volumi. Attraverso la figlia, s’imparentò con Boezio, di cui così divenne suocero.

Boezio era nato nel 475 a Roma dove aveva compiuto gli studi che poi aveva continuato ad Atene sui testi di Euclide, Archimede e Tolomeo. Tradusse l’Organon di Aristotele che servì da modello a tutta la filosofia medievale. Scrisse anche un trattato di teologia in cui dimostrò - o cercò di dimostrare - che la Fede trionfa sulla Ragione. A trent’anni Teodorico lo nominò Console, poi Maestro degli Uffici e, nel 522, Primo Ministro.

Simmaco e Boezio collaborarono con Teodorico come avevano collaborato con Odoacre; ma improvvisamente, e in modo clamoroso, nel 523, i loro rapporti col Re si ruppero, quando il referendario Cipriano accusò il Patrizio Albino di aver spedito all’Imperatore d’Oriente alcune let-tere piene di calunnie sul conto del Sovrano. Boezio scagionò Albino e incolpò Cipriano, il quale a sua volta estese l’accusa a Boezio. Teodorico deferì quest’ultimo al Senato che si costituì in tribunale speciale. Fu il processo del secolo, e si concluse con la condanna a morte dell’imputato riconosciuto reo di tradimento, magia e spiritismo. Boezio fu rinchiuso in carcere a Pavia e il 23 ottobre del 524 giustiziato. I carnefici gli cinsero la fronte con una cordicella e la strinsero finché gli occhi non schizzarono fuori dalle orbite. La stessa sorte toccò a Simmaco, colpevole solo di aver preso le difese del genero.

Nella cella di Boezio fu rinvenuto un manoscritto che egli aveva composto durante i lunghi mesi di reclusione, e al quale aveva dato il titolo significativo di Consolatio philosophiae. L’opera è scritta in un bel latino classico che riecheggia quello di Seneca, e alcune pagine sono intrise di un accorato lirismo. La Consolatio fu il best seller del Medioevo. La lesse anche Dante. Fu tradotta in tutte le lingue. L’elenco completo delle sue edizioni riempie ben cinquanta pagine del catalogo del British Museum a Londra.

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CAPITOLO TERZO

LO SFACELO

LE ACCUSE di Cipriano non erano infondate. A Roma da tempo tirava aria di fronda. Ma di questa fronda, più che Boezio e Simmaco, l’anima erano il Pontefice e i Senatori, che trescavano con Bisanzio.

Fino a Odoacre, nel marasma del basso Impero, le province erano state governate dai Vescovi. Con quello di Pavia, Epifanio, i Goti avevano trattato la resa della città. Consolidata la conquista e istallatosi a Ravenna, Teodorico aveva reclutato un corpo di funzionari e li aveva spediti, in qualità di Presidi, nelle province. La giurisdizione civile aveva sostituito quella ecclesiastica e il Re, coi suoi Conti, non più il Papa coi suoi Vescovi, era ora l’arbitro della situazione.

Dapprincipio i rapporti fra lo scettico e tollerante Teodorico e la Chiesa erano stati cordiali. Quando nel 500 per la seconda volta egli si era recato a Roma, il Papa Simmaco gli era andato incontro a Monte Mario e l’aveva accompagnato in trionfo a San Pietro. Il Re ariano aveva pregato sulla tomba dell’Apostolo, e ai piedi dell’altare aveva deposto due candelabri d’argento del peso di settanta libbre. Simmaco era stato eletto contro un cer-to Lorenzo che era il candidato dell’Imperatore d’Oriente. Nel 500 la lite non si era ancora sopita, e il Pontefice era stato addirittura accusato di adulterio e peculato. L’anno seguente Teodorico aveva convocato un concilio in Laterano. Simmaco era stato processato e assolto. Era stata questa l’unica volta che il Re era intervenuto negli affari della Chiesa, e lo aveva fatto perché i Vescovi glielo avevano chiesto. Aveva concesso al clero cattolico la più ampia libertà di culto. Però aveva anche esonerato i preti da quegli impieghi che erano incompatibili con la dignità del loro mi-nistero, e li aveva tassati e privati di molte immunità di cui in passato avevano goduto. Aveva sottoposto anche i monaci al pagamento delle imposte. Ciò fatalmente gli aveva alienato la Chiesa che tramò con Bisanzio

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la sua rovina. Nel 524 l’imperatore Giustino bandì un editto contro gli eretici e i

manichei che li escludeva dalle funzioni civili e militari e riconsacrava le chiese ariane al rito cattolico. L’ariano Teodorico convocò il Papa Giovanni a Ravenna e gli ordinò di recarsi a Costantinopoli a chiedere la revoca dell’editto. Il Pontefice, vecchio e malato, lo scongiurò di mandare qualcun altro, ma Teodorico fu irremovibile. Allora il Papa, accompagnato da tre ex-consoli e da alcuni preti, partì. Durante il viaggio - riferisce il Libro Pontificale - avvennero numerosi miracoli. Quando Giovanni varcò le mura di Costantinopoli, un sordomuto lo toccò con un dito e riacquistò l’udito e la favella. Bisanzio gli tributò grandi accoglienze. Giustiniano andò incontro al Vescovo di Roma e si inginocchiò ai suoi piedi, imitato dai prelati e dai dignitari del seguito. Il giorno di Pasqua, sorretto dal Patriarca di Costantinopoli che gli dava la destra, Giovanni celebrò la messa nella chiesa di Santa Sofia. Al termine incoronò Giustino Imperatore, quindi lo scongiu-rò di revocare il bando, ma senza osare di far cenno all’altra pretesa di Teodorico: che Giustino permettesse a coloro che avevano abiurato all’arianesimo per abbracciare l’ortodossia, di riconvertirsi all’antica fede. Al principio del 526, stremato dal lungo viaggio e dalla gotta, Giovanni tornò in Italia. Dopo lo sbarco fu condotto al cospetto di Teodorico, che pubblicamente l’accusò di tradimento e lo fece imprigionare. Morì in carcere il 25 maggio del 526, e la Chiesa lo considerò uno dei suoi martiri.

II Re fece appena in tempo a dargli un successore, che il 30 agosto dello stesso anno morì. Le fonti ecclesiastiche attribuiscono la sua fine a un attacco di dissenteria. Anche Ario era stato stroncato dalla diarrea. Evidentemente, secondo la Chiesa, è questo il destino degli eretici. Narra Procopio che, dopo la morte di Simmaco, Teodorico fu tormentato dal rimorso. Un giorno, mentre mangiava, vide il merluzzo che gli era stato servito su un vassoio d’argento assumere il sembiante, pallido e smunto, della sua vittima: gli occhi erano sbarrati e iniettati di sangue, in un torvo rigurgito di vendetta. Il Re fu colto da delirio e trasportato a letto dove, due giorni dopo, spirò. Più probabilmente Teodorico, che soffriva di disturbi circolatori, fu vittima di una trombosi. Gregorio Magno, nei suoi Dialoghi, racconta che fu precipitato nell’Inferno attraverso la bocca di un cratere situato al centro dell’isola di Lipari.

Quando calò nella tomba, Teodorico aveva settantadue anni. Negli ultimi tempi era diventato scorbutico, sospettoso e misantropo, ma aveva conservato le sue vecchie abitudini. Si alzava la mattina all’alba, consumava un’abbondante colazione a base di frutta fresca e carne arrostita, e faceva una lunga cavalcata nei boschi. Alle dieci andava a messa. In pubblico era molto devoto. Poi, accompagnato dal Conte degli armigeri, s’avviava alla

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sala del trono. Cominciavano le udienze, che duravano un paio d’ore. A mezzogiorno compiva un sopralluogo al tesoro, che custodiva in un grande forziere di cui portava sempre con sé, attaccate alla cintura, le chiavi. Se gli avanzava un po’ di tempo, visitava le stalle. All’una si metteva a tavola. Gli piaceva la mensa bene imbandita, i piatti d’argento, le brocche d’oro, le tovaglie di pizzo. Dopo mangiato, di rado si concedeva una siesta. Preferiva fare una partita ai dadi con gli amici. Se perdeva si arrabbiava, ma na-turalmente i suoi avversari facevano in modo che questa disgrazia gli capitasse di rado. Alle quattro, fino alle sette, ricominciavano le udienze. Poi andava in giardino ad annaffiare i fiori che coltivava con molta cura. Alle otto cenava, in compagnia della moglie, della figlia e di pochi intimi, circondato da nani e buffoni. Si coricava tardi, dopo essersi fatto leggere dal segretario un capitolo di Tacito o di Svetonio. Si recava spesso in visita al mausoleo che si stava costruendo a Ravenna e che era un massiccio edificio di marmo bianco a due piani circolari concentrici, sormontati da una cupola monolitica. Esempio di architettura romano-barbarica, esso si è mantenuto intatto nei secoli e, dopo aver subito alcuni restauri, è stato trasformato in chiesa. È stato paragonato al Pantheon, ma gli mancano l’imponenza e la levità del monumento di Agrippa.

Teodorico non fu forse quel grande Re che alcuni storici hanno descritto, ma certamente fu il primo barbaro che seppe innalzarsi sopra il livello del capotribù. I suoi Goti portarono in Italia, con le vecchie superstizioni germaniche e il selvaticume dell’orda, la virtù guerriera, il senso dell’onore, il culto della donna e un certo spirito avventuroso e cavalleresco. Siccome il suo popolo era una minoranza, temendo che i Romani lo fagocitassero, Teodorico cercò di impedire, finché fu in vita, che si mescolasse coi vinti.

Negli ultimi tempi aveva trasferito la sua residenza a Pavia, e fu qui che in punto di morte convocò al suo capezzale i Conti goti e la figlia Amalasunta. Il genero Eutarico era calato nella tomba da quattro anni e il nipote Atalarico era ancora un bambino. Amalasunta fu nominata reggente in nome del figlio. Era una donna colta, bella e prepotente. Parlava corren-temente il latino e il greco, conosceva i classici, ed era imbevuta di filosofia. I Goti la detestavano perché si sentivano disprezzati da lei che si circondava di Romani e frequentava i loro salotti. Riabilitò la memoria di Simmaco e di Boezio, e restituì ai figli i beni confiscati. Aumentò lo stipendio ai maestri di retorica e fondò nuove scuole. Si riconciliò col Senato e col popolo romano, e s’impegnò a non violare le leggi dei Quiriti. Affidò il figlio a un precettore romano perché lo iniziasse al culto di quella civiltà latina, di cui essa era intrisa. I Goti protestarono. Il Re, per loro, doveva essere un guerriero, possibilmente analfabeta, come lo era stato Teodorico.

Un giorno Amalasunta rimproverò Atalarico e gli appioppò un ceffone. Il

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bambino scoppiò a piangere al cospetto di alcuni Conti goti che obbligarono la Regina a licenziare il precettore e a consegnare a loro il figlioletto. Atalarico, sottoposto a strapazzi d’ogni genere, morì a diciotto anni, consunto dalla tisi. La madre allora si associò al trono il cugino Teodato.

Era figlio di Amalafrida, sorella di Teodorico, aveva vissuto a lungo in Toscana dove possedeva un castello e vaste tenute. Amalasunta lo prediligeva perché aveva studiato filosofia a Roma e aveva scritto un saggio su Platone. Ma sotto la vernice dell’intellettuale, egli covava una smodata sete di potere. Si era arricchito coi soprusi e la violenza. Amalasunta ebbe a lamentarsi presto del collega che la detestava e voleva liberarsi di lei. Un bel giorno decise di fuggire a Bisanzio. Caricò tutti i suoi tesori su un dromone e si accinse a salpare dal porto di Classe. Troppo tardi. Teodato, informato, fece occupare la nave dai suoi sbirri. La Regina fu arrestata, condotta sul lago di Bolsena e rinchiusa in una torre. Sotto minaccia di morte, il cugino l’obbligò a scrivere una lettera all’imperatore Giustiniano in cui diceva di aver cambiato idea e di voler restare in Italia. Poi diede ordine di ucciderla. Amalasunta fu strangolata nel sonno. Correva l’anno 535.

Era l’inizio di una crisi che il Papa e i Senatori romani attendevano con impazienza. Ne avvertirono subito Costantinopoli, ricordandole che l’Italia, in linea di diritto, era sempre una provincia dell’Impero anche se di fatto Teodorico l’aveva governata da padrone assoluto. L’assassinio di Amalasunta forniva ora un buon pretesto per intervenire nella Penisola nuovamente disponibile.

Vediamo dunque cos’era questo Impero e chi era colui che in quel momento l’incarnava.

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CAPITOLO QUARTO

BISANZIO

COME ROMA, la nuova Capitale era stata costruita su sette colli. Costantino l’aveva scelta per la sua posizione naturale e strategica, estremo bastione europeo e porta d’ingresso al continente asiatico. Nel VI secolo, col suo milione d’abitanti, Bisanzio era la più popolosa città del mondo, seguita, ma a molte lunghezze, da Cartagine in Occidente, e da Alessandria e Antiochia in Oriente. La vita della Capitale ruotava intorno a tre poli: la Corte, l’Ippodromo e la chiesa di Santa Sofia.

La Corte era una specie di città nella città, come a Mosca, fin dal tempo degli Zar, lo è sempre stato il Cremlino. Al centro, circondato da diecine d’edifici, adibiti a ministeri, e da sontuose ville private, sorgeva il Palazzo Sacro, residenza ufficiale dell’Imperatore. A un tiro di schioppo, la reggia dell’Imperatrice era il luogo più misterioso e di più difficile accesso della metropoli. Nessuno, senza uno speciale permesso, poteva varcarne la soglia, vigilata giorno e notte da eunuchi armati fino ai denti. Lo stesso Imperatore, quando si recava a visitare la moglie, doveva farsi annunciare.

Coi suoi sfarzosi vestiboli, coi suoi saloni sfavillanti di ori, marmi e mosaici, il Palazzo Sacro era il cuore di un Impero che la Provvidenza sembrava aver destinato a durare in eterno. A sacralizzarlo gli Imperatori vi avevano ammassato i più preziosi cimeli della Cristianità: il legno della Croce, la corona di spine e gli scheletri dei Santi e dei Martiri più in voga. Sant’Elena vi aveva fatto trasportare quello di San Daniele, Leone VI quelli di Maria Maddalena e di Lazzaro. Niceforo Foca e Giovanni Tzimisces avevano arricchito la collezione coi capelli di Giovanni Battista e i sandali di Cristo. Sotto la colonna di Costantino, alla venerazione dei fedeli che ogni giorno vi affluivano in gran numero, erano esposti i pani del miracolo. Se tutte queste reliquie fossero autentiche; non si sa. Ma il metterlo in

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dubbio era considerato sacrilegio. La Corte non era soltanto la residenza dell’Imperatore, ma anche il

quartier generale della burocrazia e il centro commerciale più importante dell’Impero. Entro le sue mura erano chiusi i ministeri e gli uffici pubblici. I suoi ginecei ospitavano migliaia di donne intese non soltanto a prestazioni di alcova, ma anche a vere e proprie industrie tessili dove filavano la lana e la seta che lo Stato importava e lavorava in regime di monopolio. Commercianti e uomini d’affari erano gli stessi Imperatori. Giovanni Vatatzes per esempio, vendendo polli, riuscì a guadagnare abbastanza denaro per comperare all’Imperatrice una corona nuova.

L’Ippodromo, come il Foro nell’antica Roma, era il luogo dove si svolgevano le corse delle bighe e si ordivano i complotti. Dalle gradinate e dai popolari, capaci di ospitare fino a quarantamila spettatori, partiva la scintilla che poteva scatenare la rivoluzione. Gli omicidi, i ratti, le bastonature erano all’ordine del giorno tra le due fazioni rivali dei “Verdi” e degli “Azzurri”. Contro il “tifo”, la stessa forza pubblica era impotente. E impotente era l’Imperatore che, per conservare il trono, doveva assicurare il regolare svolgimento dei giuochi.

Santa Sofia era il terzo grande centro d’attrazione di Bisanzio, sebbene nella Capitale vi fossero altre quattrocento chiese. Ideata da Giustiniano e realizzata dal celebre architetto Antemio di Tralle, era la residenza ufficiale del Patriarca e il più importante luogo di riunione e di preghiera della Cristianità orientale.

Chiacchieroni, bigotti e superstiziosi, i Greci amavano pazzamente le dispute religiose che il clero secolare apertamente fomentava. È difficile misurare l’influenza che i monaci esercitarono sulla società e sul costume bizantini. Contesi da Principi e da Imperatori, goderne la fiducia era considerato un autentico privilegio. Alessio I, durante le campagne militari, era solito ospitarne uno sotto la sua tenda. Particolarmente riveriti e ascoltati erano gli eremiti. San Niceforo riuscì a indurre l’Imperatore ad abolire la tassa sull’olio santo. San Daniele, che abitava su una colonna alla periferia di Bisanzio, quando scoppiava un temporale, veniva, per ordine di Teodosio II, regolarmente rifornito di ombrello. Solo verso la fine della sua vita decise di farsi costruire una piccola tettoia. Grande fama godettero anche San Teodoro Siceota e San Basilio Minore: il primo per aver passato in una gabbia tutta una Quaresima; il secondo per aver istruito l’imperatrice Elena sul modo di avere un figlio.

Costantinopoli era sotto il patronato della Vergine, al cui culto erano dedicate alcune delle sue più belle chiese. Esse non erano solo luoghi di preghiera, ma anche veri e propri centri diagnostici e terapeutici. Come nella Roma pagana molti malati preferivano affidarsi alle cure di Asclepio e di

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Lucina piuttosto che a quelle del medico, così a Bisanzio si ricorreva alle ri-cette di Cosma e Damiano che, sembra, ne dispensavano a josa e gratuitamente. Fra i Santi che facevano i medici c’erano, naturalmente, anche gli specialisti. Per le malattie sessuali, ad esempio, gli uomini si rivolgevano a sant’Artemio e le donne a santa Febronia. Quando una diagnosi si presentava particolarmente difficile, si faceva ricorso agli astri, e talvolta si chiamava a consulto i maghi e gli stregoni, sebbene la loro principale attività fosse la lettura del futuro. Non sempre costoro azzeccavano i pronostici. Catanance, per esempio, profetizzò la morte di Alessio I, e invece a morire fu il leone di Corte. Ciò non gli impedì, dopo alcuni anni, di rinnovare la profezia. Ma anche questa volta i fatti lo smentirono perché a tirare le cuoia fu l’Imperatrice-Madre.

Era una città cosmopolita, una specie di melting-pot, un crogiuolo di lingue, di razze, di costumi, un miscuglio di Greci, di Illiri, di Sciti, di Asiatici, di Africani, amalgamati e tenuti insieme dall’ortodossia e dalla lingua comune. Lacerato dalle eresie, l’Impero Romano d’Oriente, per la sua eterogeneità etnica, non fu mai agitato dallo spettro del razzismo. Frequenti erano anzi i matrimoni misti che gli stessi Imperatori incoraggiavano. Giustiniano II, per esempio, fece sposare al proprio cuoco negro la figlia di un ricco e influente senatore.

A dispetto di un clima umido e afoso, Costantinopoli era incorniciata da un panorama incantevole e da un paesaggio nobile e lussureggiante. La sapienza urbanistica dei suoi architetti aveva fatto di questa città un gioiello di armonia e di equilibrio estetico. C’erano, si capisce, anche le coree - come oggi si chiamerebbero - ma, tutto sommato, il volto di Bisanzio poteva benissimo reggere il confronto con quello della Roma d’Augusto. Secondo schemi romani infatti erano costruite le case: alte due piani con piccole finestre che si affacciavano su un cortile-patio o che guardavano all’esterno sulla strada. I balconi erano sollevati dal suolo di almeno cinque metri. Le scale esterne erano vietate.

Cure particolari erano dedicate alle fogne che sboccavano direttamente nel mare. Poiché a Bisanzio non esistevano cimiteri, i cadaveri venivano inumati fuori delle mura. Solo i membri della famiglia imperiale potevano essere sepolti dentro la città. Larghi boulevards, costeggiati da alberi e da preziose statue di marmo, attraversavano il centro, che nelle ore di punta doveva essere particolarmente affollato.

Un capitolo a parte meriterebbero gli eunuchi. Erano tutti di buona origine aristocratica e borghese, e venivano castrati per evitare che le loro energie fossero distratte dal servizio di Stato. Di solito si sottoponevano volontariamente a quell’operazione, obbligatoria per chi voleva far carriera a Corte e nelle alte gerarchie amministrative, ecclesiastiche e militari.

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Grandi Patriarchi e ottimi Generali erano eunuchi. La loro condizione era considerata un privilegio: e ciò dimostra fino a che punto l’Impero Romano si fosse ormai orientalizzato. L’Imperatore - o Basileus - erede dei Cesari, aveva diritto di vita e di morte su tutti i sudditi. Eletto da Dio, di cui era il luogotenente in terra, come Dio era infallibile. Il Patriarca lo consacrava sull’ambone di Santa Sofia, ma poi diventava praticamente il suo Ministro del Culto. Il Basileus designava e investiva i Vescovi che poteva deporre quando gli pareva e piaceva. Convocava i Concili, fissava i dogmi, modificava la liturgia. Era legato alla Vergine da speciali vincoli di collaborazione. Sui campi di battaglia, infatti, l’Imperatore e la Madonna erano considerati colleghi di pari grado. Giudice supremo, il suo tribunale giudicava in prima istanza e in appello. I capricci e i gusti del sovrano dettavano la moda e fissavano i limiti del lusso. Di quello degli altri, si capisce.

La successione al trono non era regolata da norme fisse. Ma di solito si praticava il regicidio. In 1058 anni, sui 107 Imperatori, solo trentaquattro morirono di morte naturale e una mezza dozzina in guerra. Gli altri o abdicarono o furono sgozzati.

La divinità del sovrano si manifestava durante le udienze quando, issato su un trono gigantesco, egli riceveva i ministri, i cortigiani e gli ambasciatori stranieri. L’Imperatore si esprimeva a gesti. Nessuno parlava, e tutti stavano in piedi. A intervalli regolari il Basileus scompariva, sollevato in aria con tutto il baldacchino da macchine invisibili e misteriose. Quando ricompariva, indossava vesti nuove e sempre più sontuose. Coloro che gli rendevano omaggio gli facevano tre inchini e gli baciavano le pantofole di porpora.

Gli ordini dell’Imperatore non si discutevano perché nella sua persona si fondevano insieme i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, oltre a quello religioso. Il Senato, completamente esautorato e costretto ad abdicare alla sua tradizionale funzione di organo legislativo, era diventato una specie di Consiglio di Stato, e si limitava a fornire i quadri dirigenti della burocrazia. Di estrazione senatoriale erano i direttori generali, i capi di gabinetto e i ministri dei vari dicasteri. Più che figlia di quella romana, l’amministrazione bizantina col suo forsennato centralismo fu la madre di quella russa, sia zarista che sovietica. Nulla sfuggiva al suo controllo. Nei ministeri della Capitale lavoravano diecine di migliaia di impiegati e di funzionari. La lingua ufficiale, ai tempi di Giustiniano, era ancora il latino. In latino venivano rilasciati i certificati. In latino veniva compilata la “Gazzetta Ufficiale”. Ma dopo di lui il greco prese il sopravvento.

Accanto a una burocrazia vessatrice ma efficiente, operava una diplomazia sottile, spregiudicata e intrigante. È difficile dire quanto ad essa

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l’Impero Romano d’Oriente sia stato debitore della sua longevità. Lo studio dei barbari era la sua maggiore preoccupazione. In un apposito ufficio venivano raccolti dossiers e rapporti confidenziali sui popoli stranieri. Nei collegi e nelle università greche i figli dei Principi unni, degli Emiri arabi, dei Khan tartari si mescolavano con i rampolli dell’aristocrazia e dell’alta borghesia bizantina. Per rafforzare questi vincoli d’amicizia, si combinavano anche matrimoni. Quando l’emergenza batteva alle porte, non ci si faceva scrupolo di seminare zizzania tra gli alleati, alimentandone i dissensi. La morale era subordinata alla Ragion di Stato. Ai fini politici e imperialistici veniva impiegata anche la religione, la cui fastosa liturgia, più che gli oscuri dogmi, colpiva e impressionava la fantasia dei barbari.

L’esercito era la terza pietra angolare di questo Impero. Diocleziano e Costantino lo avevano riformato creando, come abbiamo già detto, un’armata di frontiera e un esercito centrale mobile. I soldati arruolati nella prima erano contadini armati che facevano la guardia ai confini. In luogo del soldo ricevevano terra da coltivare. L’esercito mobile, alle dirette dipendenze dell’Imperatore, era invece regolarmente pagato e stanziava nella Capitale.

Fino al 378 la fanteria fu la spina dorsale dell’esercito bizantino. Dopo il disastro di Adrianopoli che sanzionò il trionfo della cavalleria gotica, Teodosio I decise di assoldare un forte contingente di cavalieri barbari al comando dei rispettivi capi-tribù. Alcuni di costoro, promossi Generali, presero a fare e disfare gli Imperatori che di essi, del resto, spesso si servirono per farsi togliere le castagne dal fuoco.

Circondata da popoli invadenti, bellicosi e famelici, Bisanzio visse sempre sul piede di guerra. L’astuzia dei suoi diplomatici e l’abilità dei suoi generali le assicurarono tuttavia una vita lunga e brillante. L’autocrazia satrapesca dei Basilei che s’avvicendarono al potere fu il mastice che tenne unito un Impero che pure conteneva in sé numerosi germi di disgregazione. Dal 330 ai primi del VI secolo il contenimento dei barbari e la riorganizzazione della sconquassata baracca che Roma gli aveva lasciato in eredità erano stati i due maggiori problemi che l’Impero d’Oriente si trovò ad affrontare. E malgrado tutto, era riuscito a risolverli abbastanza bene.

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CAPITOLO QUINTO

GIUSTINIANO

NON POSSIAMO fare qui la storia circostanziata di Bisanzio che esula da

quella nostra. Parleremo solo del protagonista degli episodi che più da vicino toccano l’Italia e l’Europa: Giustiniano.

Era nato nel 482 a Skoplie, in Macedonia, da una famiglia di pecorai. La Macedonia era, ed è, una delle regioni più grame della Grecia, coperta di boscaglie e irta di monti, patria di pastori selvatici, cocciuti e ignoranti. Giustiniano però aveva dirazzato. Crebbe mingherlino e malaticcio, ma con addosso una gran voglia di studiare. A chiamarlo a Bisanzio fu suo zio Giu-stino che aveva fatto una bella carriera negli eserciti di Anastasio e non aveva figli. Il vecchio soldato era un uomo grossolano e volgare.

Non sapeva né leggere, né scrivere, ma sapeva fare i propri conti. Fece studiare il nipote, e gli diede quell’istruzione che a lui era mancata. Quando Giustiniano si laureò in legge, egli lo assunse come segretario e lo adottò come figlio. Non sappiamo quale parte egli abbia avuto nella scalata al trono dello zio che alla morte di Anastasio ne occupò, anzi ne usurpò il posto. Ma qualche parte l’ebbe di certo perché, appena coronato Imperatore, Giustino lo nominò Console. Giustiniano, che aveva allora trentotto anni, festeggiò l’avvenimento distribuendo al popolo denaro e frumento, e organizzando nell’anfiteatro un grande spettacolo al quale parteciparono venti leoni, trenta pantere e un centinaio di altre bestie feroci.

A Corte la sua influenza cresceva di giorno in giorno. In breve volgere di tempo egli ne divenne l’eminenza grigia. Le dame se lo contendevano, ma senza successo. Giustiniano era un uomo timido, casto, di media statura, nero di pelo, riccioluto e sempre ben rasato. Non beveva, non mangiava carne, rispettava la vigilia e si sottoponeva a lunghi digiuni. Era assai mat-tiniero e cominciava a lavorare all’alba. A tarda notte le sue stanze erano

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ancora illuminate, e lui sprofondato nella lettura di Platone, Aristotele e S. Agostino. Giustino, rimbambito dall’età e dagli acciacchi, passava le giornate a farsi impacchi a una gamba rosa dalla cancrena in seguito a una brutta ferita ricevuta in guerra. Nell’aprile del 527, quattro mesi prima di morire, l’Imperatore convocò il nipote al capezzale e gli annunciò che aveva deciso d’associarselo al trono. Fu una investitura puramente formale perché, di fatto, le redini del potere erano già da un pezzo passate nelle sue mani.

Il giorno stesso in cui il Patriarca gli conferì le insegne imperiali, Giustiniano s’era sposato. La moglie era una ex-baldracca. Si chiamava Teodora e era figlia di un domatore d’orsi. Procopio dice ch’era bellissima. Ma non è vero. Aveva le gambe piuttosto corte, i fianchi robusti, il seno troppo abbondante, l’incarnato anemico. Ma gli occhi neri e vivaci, i capelli corvini, lo sguardo da civetta la rendevano talmente sexy da risvegliare persino i sensi pigri di Giustiniano. A quanto pare questi era, a quarant’anni, ancora vergine, quando la incontrò sulla mesé, ch’era la via Veneto di Bisanzio. Da quel giorno, anzi da quella notte, essa divenne la sua amante, e lui il suo prigioniero. Non potendo alloggiarla a palazzo, le fece costruire una graziosa garçonnière in uno dei quartieri residenziali della Capitale dove, una volta al giorno, andava a trovarla. Costantinopoli era una città pettegola e indiscreta. In capo a ventiquattr’ore la relazione di Giustiniano con Teodora divenne di pubblico dominio. Nei salotti non si parlava d’altro. Le dame dell’alta società la cui reputazione non era, del resto, migliore di quella di Teodora, gridarono allo scandalo. Ma Giustiniano finse di non sentirle sebbene anche Eufemia, moglie di Giustino, di cui un tempo era stata la schiava, tuonasse contro Teodora. Quanto all’Imperatore, non mo-strò di disapprovare la decisione del nipote di sposare una donna di strada. Fu anzi questa probabilmente l’ultima soddisfazione che Giustiniano gli diede prima che, nell’agosto del 527, calasse nella tomba.

A differenza di quanto era accaduto alla morte di Anastasio, la scomparsa di Giustino non fu funestata da disordini. Il trapasso dei poteri era stato predisposto in tempo, e l’elezione fu salutata dalle solite manifestazioni di entusiasmo e omaggio del Senato, del clero e del popolino, anche se il nuovo Imperatore era piuttosto impopolare. Teodora fu proclamata Imperatrice-Regnante e Bisanzio passò una mano di spugna sul suo passato. Nei salotti il suo nome cominciò a essere pronunciato con rispetto. L’adulazione più smaccata dilagò per le strade di Costantinopoli e a Corte. Con la porpora sulle spalle e la corona in testa, l’ex-prostituta sembrava una regina nata. Procopio che la conobbe bene e ne fu, pare, perdutamente inna-morato, racconta che dal giorno del famoso incontro con lui, restò sempre fedele al marito, nonostante Giustiniano fosse immerso fino al collo negli affari di Stato.

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Il Basileus e la Basilissa non s’assomigliavano. Giustiniano era ortodosso, ascetico e solitario; Teodora, al contrario era estroversa, amava il lusso e la buona tavola, e aveva un debole per gli eretici monofisiti. Stava quasi tutto il giorno a letto e, dopo laute libagioni, si concedeva sieste che si protraevano spesso sino al calar della notte. Quando facessero l’amore, con orari così dissociati, non si sa.

Sotto Giustino, ch’era stato un uomo incolto e scalcagnato, Bisanzio aveva perduto il suo rango. Giustiniano glielo restituì. Riformò il protocollo e dettò un cerimoniale austero. Proclamò sacra la propria persona e pretese che chi gli rendeva omaggio s’inginocchiasse e gli baciasse l’orlo del manto purpureo e le dita dei piedi.

Quello di Giustiniano fu un regno abbastanza tranquillo. Una volta soltanto minacciò di crollare. Giustino era morto da cinque anni. L’ascesa al trono del nipote aveva provocato un forte scontento, di cui s’erano fatte portavoce le fazioni dei Verdi e degli Azzurri del Circo. Nel 532 Giustiniano fece arrestare alcuni agitatori di entrambe le fazioni. Fu la guer-ra civile. Gli insorti, ai quali s’erano uniti alcuni Senatori, scesero in piazza, assalirono le carceri, liberarono i prigionieri, e appiccarono il fuoco al palazzo imperiale. Giustiniano, sorpreso dalla rivolta mentre era intento alla lettura di S. Agostino, perse la testa. Si barricò nelle sue stanze, e ordinò a Teodora di fare allestire una nave e preparare la fuga. L’Imperatrice invece convocò un giovane generale, Belisario, e gli comandò di reprimere la rivolta. Belisario radunò le guardie di palazzo e le ammassò all’ingresso dell’Ippodromo dove trentamila insorti si erano dati convegno. A un segna-le, esse irruppero nell’arena e vi trucidarono tutti i ribelli. Il trono era salvo.

Fin da ragazzo, Giustiniano aveva avuto la passione delle leggi. Quelle che Teodosio circa un secolo prima aveva riunito nel codice che porta il suo nome erano un guazzabuglio di norme in mezzo alle quali era impossibile orientarsi. Anche i tempi erano cambiati, l’amministrazione si era fatta più complessa, e per funzionare aveva bisogno di norme chiare, semplici e uni-formi. I Romani avevano conquistato il mondo con le legioni, ma lo avevano tenuto insieme con le leggi.

Nel 528 Giustiniano decise la riforma della vecchia legislazione. Nominò una commissione di esperti, e vi pose a capo il questore Triboniano, un eminente giurista, noto per la sua venalità. La commissione si mise subito al lavoro e l’anno dopo pubblicò il Codex constitutionum, una raccolta di quattromilacinquecento leggi. Nel 533 uscirono le Pandectae, che raccoglievano le opinioni dei più grandi giuristi romani, e le Institutiones, una specie di Bignami del diritto, a uso degli studenti.

Il codice giustinianeo, o Corpus iuris civilis, come fu battezzato, si apre con un’invocazione alla Trinità e l’affermazione del Primato ecumenico cioè

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universale della Chiesa, la quale riceve ordini solo dall’Imperatore. Il Codice proibisce agli ecclesiastici di fare speculazioni finanziarie e di prender parte a giuochi pubblici o a spettacoli teatrali. Condanna a morte e alla confisca dei beni gli eretici. Incoraggia l’affrancamento degli schiavi, ma consente ai genitori indigenti di vendere i propri figli, e obbliga colui che per trent’anni ha coltivato un pezzo di terra a restar inchiodato al proprio podere fino alla morte.

Giustiniano, sotto l’influsso di Teodora, migliorò le condizioni della donna. L’adulterio non è più un delitto capitale, com’era ai tempi di Co-stantino. Il marito tradito può uccidere l’amante della moglie ma solo se, dopo averla avvertita tre volte, la sorprende in casa o in un luogo pubblico col rivale. Chi ha rapporti con una vedova o una zitella paga un’ammenda. Il meretricio è tollerato. Chi si macchia del delitto di omosessualità è punito invece con la tortura, la mulilazione e la morte.

Il Codice favorisce i lasciti e le donazioni alla Chiesa, le cui proprietà sono inalienabili. Ciò consentì al clero d’accumulare un patrimonio che attraverso i secoli divenne assai cospicuo. Numerosi capitoli sono dedicati all’amministrazione della giustizia. Solo un alto magistrato può spiccare un mandato di cattura. Tra l’arresto e il processo, che va celebrato alla presenza di un giudice designato dall’Imperatore, non deve trascorrere un tempo molto lungo. L’imputato può scegliersi l’avvocato, ma questi può difenderlo solo se è convinto della sua innocenza. Le pene sono severe, ma alle donne, ai minori e a coloro che hanno violato la legge in stato di ubriachezza il giudice ha la facoltà di concedere le attenuanti. Agli agenti del Fisco che si lasciano corrompere vengono tagliate le mani. Questa mutilazione è largamente praticata insieme a quella del naso e della gola. Anche l’acceca-mento - a cui verranno sottoposti soprattutto gli usurpatori - è consentito. Le pene capitali comunque più in uso sono la decapitazione per i liberi e la crocefissione per gli schiavi. Uno speciale trattamento è riservato ai disertori e agli stregoni che sono invece condannati al rogo.

Il Codice è insieme un modello di spirito cristiano e un documento di barbarie e superstizione. A esso - e ai suoi orrori - Giustiniano deve la sua gloria.

Il grande legislatore fu un cattivo politico e un pessimo amministratore. Mai infatti come durante il suo regno le finanze bizantine furono tanto allegre. Affetto da mania di grandezza, svuotò le casse dello Stato che aveva trovato piene e ridusse allo stremo le province per costruire conventi, chiese e monumenti. Nella Capitale si rovesciarono decine di migliaia di contadini in cerca di lavoro. In pochi anni la banlieue di Bisanzio si trasformò in una bidonville affamata e cenciosa.

Quanto alla gloria militare, Giustiniano la deve a un accorto Generale che ricondusse sotto la sua sovranità l’Italia e il Nord-Africa. Egli non ebbe altro merito che quello di aver saputo sceglierlo. Ma non è poco.

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CAPITOLO SESTO

LA RICONQUISTA DELL’ITALIA

A CAPO della spedizione contro i Vandali del Nord-Africa, fu chiamato Belisario. Era nato intorno al 505 in una piccola città di Macedonia, e la sua famiglia era nobile. Dopo un breve tirocinio a Corte, a soli ventun anni era stato promosso Generale dell’esercito imperiale. Si era segnalato sul fronte persiano, ma soprattutto si era guadagnato la gratitudine di Giustiniano sal-vandolo dall’insurrezione dei Verdi e degli Azzurri nel 532. S’era sposato con una certa Antonina, una vedova che aveva ventidue anni più di lui e che ciò nonostante passò la vita a riempirlo di corna.

La campagna contro i Vandali si risolse in un trionfo. Il loro re Gelimero fu costretto a fuggire sui monti dove, per tre mesi, trovò ospitalità presso alcuni selvaggi. Quando Belisario, in cambio della resa, gli offrì un cospicuo vitalizio, egli si disse disposto a accettarlo a condizione che il generale gli spedisse subito una spugna, una pagnotta e una lira. Fu accontentato. Ma passò per matto.

Con la distruzione dei Vandali caddero nelle mani di Giustiniano anche quei territori che del regno di Gelimero facevano parte: la Sardegna, la Corsica, le Baleari, Ceuta e numerose altre città della Mauritania. Belisario tornò in patria e fu accolto come un trionfatore. Sfilò per le vie imbandierate di Bisanzio, seguito dalle truppe che con lui avevano combattuto e vinto. Fu un’apoteosi che un’udienza imperiale suggellò. La caduta dei Vandali in Africa parve lì per lì un fausto evento. Invece le sue conseguenze furono disastrose. Con la liquidazione di Gelimero crollò infatti l’unico baluardo in grado di porre un argine all’alluvione araba che di lì a poco si sarebbe abbattuta su quelle province.

La campagna contro i Goti fu molto più lunga e difficile di quella africana. Durò con alterne vicende diciotto anni.

Nell’autunno del 535 ottomila uomini, al comando di Belisario, reduce

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dal trionfo africano, sbarcarono sulle coste della Sicilia. Nell’Italia meridionale l’influenza gotica era stata scarsa. Le popolazioni avevano sempre mostrato poca simpatia per le bande di Teodorico, e lo sbarco era stato preparato con grande cura dalle quinte colonne bizantine. Le guarnigioni gotiche caddero come birilli sotto i colpi dei greci. Quando ebbe saldamente in pugno l’isola, Belisario passò lo stretto di Messina e puntò su Napoli. Anche questo fu un assedio facile. Quasi senza colpo ferire, facendo passare i soldati attraverso un acquedotto, Belisario riuscì a impadronirsi della città partenopea. Sebbene i Bizantini, nel tripudio della vittoria, si fossero abbandonati a un orribile saccheggio, gl’Italiani li accolsero con giubilo. S’illudevano - come al solito - che l’invasione rappresentasse la liberazione dall’invasione precedente.

La notizia dei successi di Belisario allarmò i Goti. Teodato, che aveva dato buone prove solo come uxoricida, fu deposto e sostituito con un valoroso ufficiale di nome Vitige che sloggiò subito le truppe da Roma e le ammassò a Ravenna. Nell’Urbe lasciò poche migliaia di uomini che forse sarebbero riusciti a contenere gli invasori, se il Papa non avesse consegnato con l’inganno a Belisario le chiavi della città. I Goti allora ridiscesero a Sud e cinsero Roma d’assedio. Dopo un anno lo scoppio di una pestilenza e l’annuncio di rinforzi bizantini indussero Vitige a chiedere una tregua. Belisario, smanioso di congiungersi con le truppe fresche che Giustiniano gli aveva inviato, gliel’accordò.

Comandava queste truppe il Gran Ciambellano Narsete, un eunuco di sessant’anni che aveva fatto a Corte una brillante carriera. Quando Belisario seppe di questa nomina, montò su tutte le furie. Di cose militari infatti Narsete non capiva niente. Non aveva mai combattuto una guerra e aveva trascorso gran parte della vita nei salotti e nei ginecei di Bisanzio. Ma pare che Giustiniano non avesse potuto esimersi dal creare quella pericolosa diarchia perché Teodora non gli dava pace. L’Imperatrice era gelosa di Belisario, o per meglio dire era gelosa della popolarità che ne derivava a Antonina la quale, pur seguitando a tradire clamorosamente suo marito, si pavoneggiava delle sue vittorie.

L’idea d’affiancare Narsete a Belisario fu un disastro. Il dualismo di comando provocò una serie di rovesci che culminarono nella conquista gotica di Milano e nel massacro di trentamila abitanti. Malgrado le proteste di Teodora, Giustiniano richiamò l’eunuco e restituì a Belisario i pieni poteri. Libero finalmente di condurre la guerra come voleva, il Generale passò al contrattacco. Per avere ragione dei Goti, doveva però impadronirsi a tutti i costi di Ravenna. A fornirgliene il modo furono gli stessi nemici che, stremati da una lotta che si protraeva ormai da troppo tempo, gli offrirono la corona di Vitige. Belisario finse d’accettarla a condizione che

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gli venisse posta sul capo a Ravenna. I Goti, ignari del tranello, gli spalancarono le porte della città. Solo quando i Bizantini ne ebbero varcate le mura scoprirono l’inganno. Le donne gote, appena videro i greci, sputarono in faccia ai loro mariti corbelloni.

Poco dopo, Belisario fu convocato da Giustiniano che lo spedì in tutta fretta sul fronte orientale dove i Persiani si stavano minacciosamente ammassando. La sua assenza ridiede baldanza ai Goti che frattanto erano riusciti a ricucire i brandelli del loro esercito sotto la guida di un nuovo e valoroso Re, Totila. Ancora una volta le sorti della guerra volsero in loro favore, e Giustiniano fu di nuovo costretto a spedire Belisario in Italia.

Quando vi giunse, il Generale si rese subito conto che la situazione si era pericolosamente deteriorata. Gli ufficiali ai quali aveva delegato il comando ne avevano abusato al punto che le popolazioni erano passate al nemico. Anche le truppe sembravano stremate da una guerra che non finiva mai. Giustiniano, che l’aveva voluta, era stufo di portarla avanti. A Est incombeva il pericolo persiano. Bisognava disimpegnare al più presto il fronte occidentale per difendere quello orientale. Nel 552 l’Imperatore rispedì in Italia Narsete, ormai ultrasettantenne e pieno d’acciacchi. Nello stesso anno, tra Perugia e Ancona, il Gran Ciambellano sconfisse Totila, che perse la vita in combattimento. I Goti furono messi in rotta e si ritirarono verso la Campania dove, al comando di Teia, s’accinsero a un’ultima, disperata resistenza. Battuti una seconda volta sulla piana del Vesuvio, domandarono la pace. In un messaggio a Narsete, ne posero anche le condizioni che egli accettò senza batter ciglio. Chiesero di lasciare l’Italia e di portarsi via tutti i tesori che nelle sue fortezze avevano accumulato. In cambio s’impegnavano a non far guerra entro i confini dell’Impero. Un migliaio di barbari rifiutò di deporre le armi e, organizzatisi in bande partigiane, si diedero alla macchia. Altri settemila chiesero di essere arruolati nell’esercito greco e, come i loro padri, tornarono a Bisanzio a fare i mercenari.

Crollava così il primo autentico regno romano-barbarico instaurato in Italia. E crollava per cause interne più che per i colpi degli eserciti bizantini.

Come fosse ridotta l’Italia dopo diciotto anni di guerra, ce lo racconta Procopio nelle sue Storie. “In Emilia gran parte della popolazione era stata costretta a abbandonare le proprie case e a migrare sulle rive del mare, sperando trovarvi di che sfamarsi. In Toscana gli abitanti andavano sui monti a raccogliere ghiande per macinarle e farne un surrogato del pane. Quelli che s’ammalavano diventavano pallidi e smunti, la pelle s’inaridiva e si contraeva sulle ossa. Le loro facce assumevano un’espressione stupefatta, gli occhi si dilatavano in una specie di spaventosa follia. Alcuni morivano per aver mangiato troppo quando trovavano cibo. I più erano talmente

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dilaniati dalla fame che, se vedevano un ciuffo d’erba, si precipitavano a sradicarlo. Quando erano troppo deboli per riuscirvi, si buttavano bocconi per terra, con le mani contratte sulle zolle.” Qua e là si verificarono veri e propri episodi di cannibalismo. Non possediamo un censimento della popolazione italiana in questi anni. Sembra, comunque, che il suo numero non superasse i quattro milioni d’anime. Nel 556 Roma non aveva più di quarantamila abitanti.

Scarse sono anche le notizie sul viceregno di Narsete che durò dodici anni. Non fu un’impresa da poco per il vecchio eunuco rimettere ordine nell’immenso caos in cui l’Italia era precipitata. Dovunque miseria, abbandono, disperazione. La furia unnica degli eserciti goti e bizantini aveva ridotto le belle città dei tempi d’Augusto a cumuli fumanti di macerie, a focolai di pestilenze che decimavano le popolazioni. Ricostruire l’Italia fu la parola d’ordine di Giustiniano. Ma con quale denaro? Le casse imperiali erano vuote. La campagna gotica aveva condotto Bisanzio sull’orlo della bancarotta. Per rimettere in piedi la baracca non c’erano che le tasse. Un’orda di agenti del fisco sommerse la Penisola. S’inventarono nuovi balzelli e s’inasprirono quelli vecchi. Gregorio Magno racconta che in Sardegna i pagani per poter celebrare i loro riti, dovevano pagare a Bisanzio una tassa. Il bello è che continuarono a pagarla anche quando si furono convertiti al Cristianesimo. In Corsica gli abitanti vendevano i figli. Per Giustiniano tutte le entrate erano esigibili. Con le buone o con le cattive. Dove non era possibile spremere denaro, si ricorse alle corvées, cioè praticamente ai lavori forzati, con l’impiego di vecchi, donne e bambini. Bisanzio costrinse artigiani e agricoltori a vendere a prezzi d’imperio i loro prodotti. Nel 554, l’Imperatore, riconoscendo che da Costantinopoli era difficile governare l’Italia, emanò una Prammatica sanzione con la quale accordò, fra l’altro, ai Vescovi italiani una larga autonomia e molti poteri amministrativi. Essi ne approfittarono per accentuare la loro indipendenza da Bisanzio.

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CAPITOLO SETTIMO

I LONGOBARDI

NEL 565, a ottantatre anni suonati, Giustiniano non era più che l’ombra di se stesso. Nel 548, uccisa dal cancro, era calata nella tomba Teodora. Sul letto di morte s’era fatta promettere dal marito che non avrebbe revocato i privilegi e le immunità di cui sino allora i monofisiti avevano goduto. La perdita di Teodora fu un colpo tremendo per Giustiniano. Essa era stata l’unica donna della sua vita e per amore suo egli aveva rischiato di giocarsi il trono. È difficile calcolare l’influenza che la moglie aveva esercitato su di lui.

Minato dall’arteriosclerosi, di politica aveva finito per interessarsi sempre meno. Hombre de cabinete - come dicono gli spagnoli - lo era sempre stato. Ma da quando Teodora era morta, si era vieppiù isolato. Faceva ogni giorno la comunione e non voleva vedere che preti coi quali s’intratteneva sino a notte fonda. Sotto di lui l’unità religiosa tra Roma e Bisanzio mostrò le prime crepe. Grazie a Teodora, il monofisitismo aveva fatto a Corte molti progressi. Per difendere quest’eresia, Giustiniano si schierò anche contro il Papa di cui, durante la guerra gotica, aveva cercato l’amicizia.

Quando, dopo trentotto anni di regno, il 14 novembre del 565, morì, il popolo, che non lo aveva mai amato, trasse un sospiro di sollievo. A succedergli fu chiamato il nipote Giustino II, un uomo rozzo e un po’ scimunito. Dopo otto anni di governo infatti, uscito di senno, dovette rinunciare al trono.

Scomparso Giustiniano, nei salotti di Costantinopoli era cominciata a circolare una Storia segreta, che fece la delizia di quella pettegola società. Non portava il nome dell’autore, ma non si tardò a indovinarlo: era Procopio, ormai morto anche lui.

Procopio era stato lo storico ufficiale di Belisario, che se l’era portato al seguito in tutte le sue imprese e credeva di avere in lui il più fidato

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segretario, consigliere e apologeta. Procopio infatti lo aveva servito benissimo nei suoi otto volumi di Storia delle guerre, pieni di elogi per il Generale, per l’Imperatore, per le rispettive consorti e per tutti i più altolocati personaggi della Corte. Ma questo, aulico agiografico e cortigiano, era, diciamo così, il suo linguaggio di giorno. Di notte affilava il pennino, lo intingeva nel veleno invece che nell’inchiostro, e si vendicava perfidamente della piaggeria cui lo costringeva quel regime basato sul culto della personalità. Passando dalla storia ufficiale a quella segreta, destinata ai posteri, il suo stile acquista un mordente che fa capire da morto tutto ciò che di questo strano personaggio si era ignorato da vivo: la sua intelligenza e la sua viltà, la sua penetrazione psicologica e il suo doppio giuoco politico, il suo opportunismo e il suo rancore per chi ve l’obbligava. Doveva essere un uomo geniale, ambiguo e marcio, tutto miele di fuori e tutto fiele di dentro. Pare che fosse inacerbito da un amore senza speranze per Teodora. Comunque, nel suo libello ce n’è anche per lei. Ma non si salva nessuno. Voltaire, che con Procopio doveva sentire qualche affinità, fu deliziato di scoprire che il più grande Imperatore di Bisanzio e il suo più valente Generale non erano stati che due stupidi becchi.

Erano morti entrambi ora, contemporaneamente. Sugli ultimi anni di vita di Belisario, gli storici ci hanno lasciato più d’una versione. Una cosa però sembra certa: dopo il secondo richiamo dall’Italia le azioni di Belisario cominciarono a calare. Giustiniano era invidioso della sua popolarità e dei suoi trionfi. Teodora poi non sapeva rassegnarsi all’idea che i favori dei Bi-zantini andassero più al marito di Antonina che al suo. Per ben due volte l’Imperatore ordinò la confisca dei beni del Generale, ma glieli fece regolarmente restituire. Falsa è quindi la leggenda che ci rappresenta Belisario, vecchio e cieco, ridottò a chiedere l’elemosina sulla mesé.

Dei quattro grandi protagonisti della storia bizantina di questo periodo, l’unico ancora in vita era Narsete. In Italia s’era reso talmente odioso che i Romani l’avevano denunciato a Giustino. “Non vogliamo essere trattati come schiavi” gli avevano scritto, e avevano minacciato di rivoltarglisi contro. Giustino, che lo detestava, lo liquidò e chiamò al suo posto il prefet-to Longino. Alcuni storici raccontano che Narsete, per vendicarsi, invitò i Longobardi a invadere l’Italia. Ma non si tratta che di voci. Una cosa però è sicura: da tempo questo popolo di nomadi, premuto dalle tribù vicine, aveva puntato lo sguardo sulla Penisola.

Le poche cose che dei Longobardi allora si sapevano erano contenute nei rapporti di Strabone e di Tacito e negli archivi di Bisanzio. La loro storia sarebbe cominciata qualche secolo avanti Cristo nelle desolate lande della Svezia meridionale. Di qui sarebbero emigrati nel Continente. È probabile che a determinare questo esodo sia stata la necessità di pascoli e di preda. I

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Longobardi erano nomadi, praticavano la pastorizia e il saccheggio, e non avevano alcuna nozione di agricoltura. Abitavano in capanne di legno che piantavano accanto ai rozzi carri di cui si servivano per i loro frequenti spostamenti. Adoravano le capre, il Sole e la Terra, la cui immagine, vigilata giorno e notte da un sacerdote, era custodita in un’isola. Una volta l’anno la preziosa icòna, chiusa in un tabernacolo, attraversava il mare per essere recata in pellegrinaggio fra le sparpagliate tribù, su un carro trainato da buoi. Ricondotta nell’isola veniva immersa in un lago sacro per essere purificata. Compivano l’operazione alcuni schiavi, i quali venivano poi sgozzati. Non sappiamo se queste usanze i Longobardi le conservarono quando, risalendo il corso dell’Elba, in successive migrazioni, andarono a stanziarsi lungo le rive ungheresi del Danubio.

Erano biondi, villosi e gagliardi. Portavano lunghe barbe, lunghissimi capelli spioventi sulla fronte e sulle orecchie, e si rapavano la nuca. In-dossavano ampie vesti di crudo lino dai bordi variopinti e calzavano stivaloni di cuoio. Le capanne in cui vivevano erano miseramente arredate. Decoravano le pareti con lugubri trofei di guerra, e a terra stendevano pelli di capra.

Non avevano un’organizzazione politica. Nomadi, anarchici, divisi in tribù, o fare, al comando ciascuna del suo Duca, in guerra continua fra loro, erano allergici alle più elementari nozioni di diritto e di Stato. Solo con Alboino si configurò un embrione di governo centrale. Come tutti i barbari, non commerciavano e ignoravano l’uso della moneta. L’unico patrimonio culturale che possedevano erano le Saghe, le leggende tramandate oralmente di padre in figlio, che avevano importato dalla Scandinavia e che celebravano le imprese dei loro eroi.

Nel corso delle avventurose trasmigrazioni dalla Svezia al Mar Nero alla Pannonia, a contatto con le popolazioni dell’Europa orientale - Bulgari, Sarmati, Sassoni - l’originario ceppo etnico si era contaminato. In comune questa composita orda aveva solo la religione, che era quella ariana. Ma a differenza dei Vandali che quando si convertirono all’eresia di Ario si die-dero a perseguitare i cattolici, i Longobardi erano tolleranti. Il fanatismo religioso contrastava con la loro natura nomade: solo i popoli sedentari possono permettersi il lusso delle persecuzioni. Vedremo gli Arabi conquistare il Mediterraneo in nome di Allah. Ma solo dove si insediarono stabilmente riuscirono a far trionfare l’Islam. Alboino e i suoi successori si servirono dell’arianesimo per distruggere le chiese cattoliche così come, una volta convertiti alla nuova religione, si sarebbero serviti dei suoi dogmi per abbattere quelle ariane. La Fede era per loro l’alibi del saccheggio e del genocidio.

Per circa tre secoli, dalla fine del secondo agli inizi del sesto, la loro storia

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è avvolta nel più fitto mistero. È probabile che, travolti dalla valanga unna, siano stati trascinati a ingrossarne l’orda. In seguito allo sbandamento provocato dalla morte di Attila - ma anche questa è una semplice congettura - si sarebbero istallati in Pannonia. Qui infatti li troviamo sul principio del sesto secolo.

Non sappiamo quanti mesi trascorsero tra la visita degli ambasciatori di Narsete (se questa ambasciata realmente ci fu) al campo di Alboino e la partenza dei Longobardi alla volta dell’Italia. Probabilmente il tempo necessario per smontare le capanne di legno, caricare le masserizie sui carri e affilare le armi.

Nella primavera del 568 un’orda di trecentomila uomini e una moltitudine di armenti si mise in marcia verso Occidente. Le greggi spianavano i sentieri. Le seguivano i carri con le donne, i vecchi e i bambini. I guerrieri a cavallo chiudevano la carovana. E alle spalle si lasciavano le dolci pianure ungheresi che un tempo erano state verdi e fertili. Cominciava una nuova Saga.

I Longobardi entrarono in Italia attraverso il passo del Predil, sulle Alpi Giulie, di dove dilagarono nelle valli venete senza incontrare resistenza. Anche sul Piave non trovarono opposizioni. Le truppe del viceré Longino che avrebbero dovuto accorrere a presidiarne le rive e a bloccare l’invasione che stava sommergendo la pianura padana non uscirono da Ravenna. Vicen-za, Verona e numerose altre città della provincia veneta caddero sotto i colpi dei Longobardi. Quando ebbe ben salda in mano l’Italia nordorientale, Alboino volle chiudere la porta attraverso la quale era entrato. La chiave di questa porta, che s’apriva sulla città di Cividale, la consegnò, insieme con alcune centinaia di cavalli, al nipote Gisolfo che s’acquartierò nel Friuli con tutta la sua tribù di guerrieri, come luogotenente e guardia armata del Re, e fu il primo Duca longobardo in Italia. Alboino puntò quindi sulla Liguria che ai primi del 569 era quasi completamente conquistata. Di qui risalì al Nord. Il 3 settembre Milano capitolava, e il Re longobardo assumeva il titolo di Signore d’Italia.

Il suggello alla conquista lo impresse la caduta di Pavia. La vecchia città sul Ticino, dove Teodorico aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, presidiata da una guarnigione bizantina, tenne duro fino al 572. Solo dopo tre anni di resistenza, stretta nella morsa di un blocco disperato, s’arrese. Alboino risparmiò i suoi abitanti e la elesse a propria capitale.

Mentre il grosso dell’esercito assediava Pavia, il resto completava la conquista della valle padana, accingendosi a invadere l’Italia centrale. Nel 571 i Longobardi attraversarono gli Appennini e occuparono la Toscana. Alla fine dello stesso anno s’impadronirono di Spoleto e di Benevento. Fu poi la volta delle fortezze dislocate lungo la via Flaminia, il cui possesso

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consentì ad Alboino di isolare i due centri imperiali di Roma e Ravenna, bloccandone le comunicazioni. In ogni città fu nominato un Duca, il quale non era altro che un capo-tribù che aveva combattuto a fianco del Re e si era segnalato.

Vediamo ora che cosa l’alluvione longobarda non riuscì a sommergere. Nel Nord: Venezia, Padova, Cremona, Piacenza e Modena. Sulla costa adriatica: Ravenna e la cosiddetta Pentapoli, roccaforte dei Bizantini, che comprendeva Ancona, Fano, Pesaro, Rimini e Senigallia. Nel Lazio solo Roma e dintorni non furono conquistati, e nel Mezzogiorno Napoli, Pesto, Salerno e parte dell’Abruzzo. I Longobardi, gente terragna, occuparono insomma l’Italia continentale, lasciando ai Bizantini le fasce costiere e le isole.

Nel 569, mentre gli eserciti longobardi devastavano la penisola, fra la popolazione era scoppiata una pestilenza, seguita da una spaventosa carestia. Lo storico Paolo Diacono racconta che le greggi vagavano abbandonate nelle vaste pianure della Lombardia, della Toscana e del Lazio, i genitori lasciavano insepolte le salme dei figli, il grano attendeva invano la falce e i grappoli d’uva marcivano nei vigneti. Dovunque silenzio, desolazione, fetore di cadaveri in decomposizione ammucchiati nelle piazze o sparsi nelle campagne.

Nel 572, dopo tre anni di regno, Alboino improvvisamente morì, vittima di una congiura ordita dalla moglie. Rosmunda s’era vendicata dei continui affronti del marito il quale, durante i banchetti, l’obbligava a bere nel teschio del padre, il vecchio Re dei Gepidi, massacrato in Pannonia dai Longobardi. Dopo il delitto, Rosmunda era fuggita con uno dei cospiratori, un certo Elmechi, di cui pare che fosse l’amante. La coppia era riparata a Ravenna dove era stata accolta con grandi onori da Longino, al quale non sembrava vero di poter mettere contemporaneamente le mani sulla Regina e sul tesoro reale che essa aveva portato con sé. Facendo balenare ai suoi occhi la possibilità di diventare la Prima Signora di Ravenna, il Viceré l’aveva indotta a sbarazzarsi dell’amico. Un giorno Rosmunda, mentre Elmechi stava prendendo un bagno, entrò nel frigidarium e gli offrì un bic-chiere di cordiale. L’uomo, dopo averne bevuti alcuni sorsi, fu colto da lancinanti dolori di pancia. Uscì barcollando dalla vasca, brandì la spada e costrinse anche Rosmunda a bere. I due cadaveri vennero scoperti poche ore dopo dallo stesso Longino.

Dopo la morte di Alboino seguì un breve interregno. Nella tarda primavera del 572 i Longobardi acclamarono Re Clefi, che conquistò l’Emilia, Rimini e parte dell’Umbria seminando stragi dovunque. Gli stessi Longobardi lo detestavano perché era un uomo avido e scostumato. Fu assassinato due anni dopo da uno schiavo. Nel 574 trentasei Duchi si

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diedero convegno a Pavia per dargli un successore. Non riuscendo però a mettersi d’accordo sul suo nome, perché ciascuno proponeva quello proprio, costituirono una specie di confederazione e vi posero a capo il Duca di Pavia che con quelli del Friuli, di Spoleto e di Benevento godeva di una posizione di preminenza. Ma non si trattava che di una supremazia fittizia e di una carica puramente onoraria. In realtà ognuno badava ai fatti propri.

Con la istituzione del Ducato furono spazzati via gli ultimi residui dell’aristocrazia senatoriale romana. Gli stessi Longobardi s’incaricarono di liquidare i superstiti delle grandi dinastie dei tempi di Cesare e di Cicerone. I pochi che sopravvissero alle purghe diventarono schiavi.

Dei Duchi, i più irrequieti erano quelli di Spoleto e di Benevento che volevano conquistare Roma e il Lazio. Nell’estate del 578, alla morte del Papa Benedetto I, cinsero d’assedio l’Urbe, che era presidiata dalla milizia cittadina e da una sparuta guarnigione greca. Il nuovo Papa Pelagio spedì all’Imperatore d’Oriente una ambasceria e tremila libbre d’oro scongiurandolo di inviare un esercito in Italia e di liberarla dai Longobardi, come Giustiniano l’aveva liberata dai Goti. Ma su Costantinopoli incombeva la minaccia persiana. Il Basileus rimandò indietro l’oro al Papa con la raccomandazione d’impiegarlo per corrompere i Duchi, che infatti ri-nunciarono ai loro disegni e si ritirarono.

Nel frattempo, l’inetto Longino era stato licenziato e sostituito con un certo Smaragdo, che fu il primo Viceré greco a essere insignito del titolo di Esarca. Esso era giudice supremo, aveva pieni poteri di pace e di guerra, nominava i funzionari civili e designava le alte cariche militari. Per delega imperiale confermava o revocava l’elezione del Papa, scelto dal clero e dal popolo romano. Ma in qualsiasi momento, e senza preavviso, il Basileus poteva deporlo.

Col denaro fu guadagnato alla causa bizantina anche Drofulto, Duca di Brescello, e il sobborgo di Classe tornò in mano al Viceré. Quando però il Papa invitò in Italia con la promessa di cinquantamila monete d’oro Childeberto, Re dei Franchi, un popolo d’origine germanica che abitava al di là delle Alpi, i Duchi convocarono una dieta, o assemblea straordinaria, a Pavia. Dieci anni d’interregno avevano seminato tra loro la discordia e l’anarchia. Sciolsero la Confederazione e ricostituirono il regno longobardo con il figlio di Clefi, Autari, che ricacciò i Franchi entro i loro confini.

A un dipresso in questi anni un autentico diluvio universale sommerse l’Italia. La furia delle acque spazzò via intere fattorie. Centinaia di villaggi furono letteralmente allagati. L’Adige ruppe gli argini e invase le strade di Verona, dove solo la chiesa di San Zenone riuscì miracolosamente a sfuggire alla furia degli elementi. Nonostante le sue mura fossero state inve-stite da onde alte dieci metri - si legge in una cronaca dell’epoca - non una

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goccia filtrò attraverso le sue pareti, rese impermeabili dalle reliquie dei Santi che in esse erano contenute, A Roma, le acque del Tevere allagarono i quartieri bassi della città. Dalle onde furono visti emergere centinaia di serpenti e un drago di proporzioni gigantesche che, dopo avere attraversato le vie della Capitale, era scomparso verso il mare. Così almeno diceva la gente impaurita. Autari governò sei anni, occupò una vasta fascia di territorio ai piedi delle Alpi e conquistò la Calabria. Si racconta che, giunto a Reggio, scagliò da cavallo la sua lancia contro una colonna di marmo, situata alle porte della città, esclamando: “Qui finisce il mio Regno”. Nel 590 si sposò con una bella ragazza bionda, di origine bavarese, la cattolica Teodolinda, figlia di un duca Garibaldi. Il matrimonio che la ragion di Stato oltre a quella del cuore aveva dettato, fu celebrato con grande pompa a Verona. Dopo un anno Autari improvvisamente morì.

Contro ogni tradizione, i Duchi confermarono Regina Teodolinda la quale, dopo essersene fatta regolarmente impalmare, s’associò al trono il duca di Torino, Agilulfo, un prode e bellissimo guerriero che allargò il dominio longobardo a Padova, Mantova, Cremona, Camerino e Perugia.

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CAPITOLO OTTAVO

GREGORIO MAGNO

NEL GENERALE sfacelo in cui i Longobardi precipitarono l’Italia, solo la Chiesa si salvò. E ci riuscì grazie a un grande Papa, Gregorio Magno, che ne consolidò il potere temporale e pose le condizioni per affrancarlo da quello imperiale di Bisanzio e per imporlo su tutta la cristianità occidentale. Purtroppo, per ricostruirne la figura, non abbiamo che il Libro pontificale. E, come tutte le fonti ecclesiastiche, anche questa serve più alla propaganda che all’informazione.

Era nato nel 540 a Roma da una ricca famiglia patrizia che aveva dato due Pontefici alla Chiesa e una dozzina di Senatori allo Stato. Il padre Gordiano e la madre Silvia abitavano un palazzo sul monte Celio, una delle sette circoscrizioni in cui l’Urbe era divisa. Tre sue zie avevano fatto voto di castità. Due l’avevano mantenuto. La terza aveva finito con lo sposare il proprio cameriere, suscitando grande scandalo nei salotti e negli ambienti ecclesiastici della Capitale.

Un ritratto dell’epoca ci raffigura Gregorio di media statura, precocemente calvo, con grandi occhi neri, il naso aquilino e le dita affusolate. L’espressione del volto è quella di un uomo autoritario, nato più per comandare che per pregare, e abituato a farsi ubbidire.

Compì gli studi nelle migliori scuole di Roma. A vent’anni conseguì a pieni voti il diploma in grammatica e retorica, poi entrò nei ranghi dell’amministrazione civile. Nel 573, dopo un lungo tirocinio pubblico, fu nominato Praefectus urbis. Come tale, Gregorio era Presidente del Senato, indossava il manto di porpora e percorreva le strade della città su una carrozza splendidamente addobbata, trainata da quattro cavalli bianchi. Ma a questo dispiego di pompa non corrispondeva un potere effettivo che potesse soddisfare un uomo come lui. Quando il mandato di Prefetto venne a spirare, si fece frate.

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Suo padre era morto, lasciandolo erede di un immenso patrimonio. Gregorio ne distribuì un terzo ai poveri e col resto finanziò la fondazione di sei monasteri. Per sé tenne solo il palazzo sul Celio, dov’era nato, e che trasformò in convento. Qui trascorse tre anni di studio e di rinunzia. Si nutriva quasi esclusivamente d’insalata, ma la voleva servita su un vassoio d’argento. Nel 578 Benedetto lo nominò Settimo diacono, con l’incarico di provvedere alla distribuzione delle elemosine.

Quando Benedetto morì e sul Soglio Pontificio salì Pelagio II, Gregorio abbandonò il suo ufficio di diacono e partì come Apocrisario - cioè a dire Nunzio Apostolico - per Bisanzio. Il pericolo longobardo, coi Duchi di Spoleto e di Benevento che premevano sui confini del Lazio, si faceva ogni giorno più incombente. Solo l’Imperatore sembrava in grado di scongiurarlo o, almeno entro certi limiti, di porvi un argine.

La missione in Oriente durò sei anni. Nonostante l’affettuosa amicizia che lo legava all’imperatrice Costantina, Gregorio non amava Bisanzio. L’offendevano gl’intrallazzi dei suoi Generali e le mene dei suoi preti, l’infastidiva il formalismo liturgico della sua Corte, e lo amareggiava la diffidenza del Basileus Maurizio che considerava l’Apocrisario una spia del Papa. Ciò tuttavia non incrinò mai la lealtà di Gregorio verso di lui.

Nel 585 Pelagio lo richiamò a Roma. Appena vi giunse, si ritirò di nuovo in convento di dove, cinque anni più tardi, quando il Pontefice morì, fu tratto dal clero e dal popolo che lo acclamarono suo successore. Gregorio scrisse all’Imperatore scongiurandolo di non confermare l’elezione. Ma la lettera non giunse mai a destinazione, per il semplice motivo - crediamo - che non era stata scritta. Essa non era punto in carattere col carattere di quel personaggio autoritario.

Pelagio era stato ucciso dalla peste bubbonica che proprio in quei giorni s’era abbattuta sull’Urbe e ne aveva decimato gli abitanti. Per allontanare dalla città il flagello - racconta il Libro pontificale - Gregorio ordinò una solenne processione alla quale parteciparono decine di migliaia di fedeli. Il mesto corteo attraversò salmodiando le strade di Roma diretto alla basilica di San Pietro. Fu una marcia macabra che lasciò sul terreno ottanta cadaveri: Quando i pellegrini giunsero in prossimità del Mausoleo d’Adriano, Gregorio, che li guidava, vide sulla cima del monumento un Angelo nell’atto di riporre nella guaina una spada. Il simbolo del prodigio era palese. Il gesto stava a significare che la pestilenza era finita. Da quel giorno il Mausoleo d’Adriano mutò il suo nome in quello di Castel Sant’Angelo.

Nell’autunno del 590 giunse a Roma la conferma imperiale. Quando Gregorio ne fu informato - dice sempre il Libro pontificale - s’apprestò a fuggire. Si nascose in una cesta di biancheria sporca e ordinò a due servi di trasportarlo fuori città. Mentre la comitiva s’accingeva a varcarne le mura,

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intorno alla cesta si formò una specie d’aureola. I passanti, insospettiti, obbligarono i due servi a svuotare il recipiente. Gregorio fu così smascherato, e a furor di popolo trascinato in San Pietro dove il giorno stesso venne consacrato Papa.

II primo compito che dovette affrontare fu l’amministrazione dell’Urbe e la gestione del patrimonio ecclesiastico. Nel sesto secolo, in seguito alle cospicue donazioni laiche, questo patrimonio era diventato ragguardevole. Le invasioni barbariche, le pestilenze e le carestie avevano spopolato le campagne. I grandi proprietari si trasferivano in città o si ritiravano nei grandi monasteri nominando la Chiesa erede universale dei loro beni. Il possesso di vasti fondi nel Lazio, in Campania e nelle, isole aveva fatto del Papa il più grosso proprietario terriero della Penisola. Ma, oltre a questo, c’era un problema ben più grave da risolvere, o almeno da impostare: quello dei rapporti fra il potere laico e quello ecclesiastico.

Con la Prammatica sanzione, Giustiniano aveva trasformato i Vescovi in ufficiali imperiali delegando loro quelle funzioni amministrative che i vecchi organi municipali dei tempi d’Augusto e di Traiano non erano più in grado di assolvere. Il potere s’andava ogni giorno di più concentrando nelle mani del Papa. Le vecchie magistrature laiche non erano ormai che fantasmi del passato. Il Senato aveva cessato praticamente d’esistere. Il Praefectus urbis era il portavoce e l’esecutore di ordini che partivano dal Laterano. Il Magister militum istruiva le truppe che il Pontefice arruolava e armava. Delegati apostolici sovrintendevano alle opere pubbliche e a quelle di difesa. La Chiesa costruiva ospizi, brefotrofi e ospedali. I Romani non chiedevano più panem et circenses, ma solo panem, e ogni giorno Gregorio ne faceva distribuire nelle piazze.

Agli agenti fiscali di nomina imperiale il Papa sostituì i Diaconi, ai quali i coloni versavano un regolare canone in denaro o in natura. Il monopolio agrario era per la Chiesa ancora uno strumento di conversione. Gli Ebrei che abiuravano alla loro fede infatti ottenevano la conferma della proprietà e una forte riduzione delle tasse. Una parte degli introiti Gregorio la elargiva pubblicamente al popolo il giorno del suo compleanno. Ogni lunedì distribuiva grano, vino e legumi ai nobili romani decaduti. Alle monache corrispondeva un regolare stipendio e un forte appannaggio annuale per il rinnovo della biancheria. Ai poveri e agli infermi faceva servire il pranzo a domicilio.

Trovò anche il tempo di riformare la liturgia e la disciplina della Curia. La celebrazione della Messa di rito romano gli è debitrice dei suoi schemi semplici e solenni; la musica sacra, delle sue armonie. Gregorio compose infatti inni bellissimi - i cosiddetti Canti gregoriani - che personalmente dirigeva nel coro di San Pietro. Al posto del podio aveva istallato una

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branda sulla quale si coricava durante i frequenti attacchi di gotta che lo tormentavano. In Laterano introdusse un regime di rigorosa austerità. Licenziò il personale civile e affidò l’amministrazione della Chiesa esclusivamente a quello ecclesiastico.

Impegnato in tutte queste imprese, non si sa dove trovasse il tempo da dedicare alla letteratura. Eppure fu uno scrittore rozzo, ma prolifico, che difese la lingua latina dandone pessimi saggi. In un monumentale Epistolario in quattordici libri ci ha lasciato la storia del suo pontificato. Durante la missione apostolica alla corte di Bisanzio aveva composto un commento alla Bibbia per dimostrare che il Libro di Giobbe conteneva e anticipava la Teologia Cristiana. Fu anche autore di una brutta raccolta di Miracoli, che servì da modello a tutto il Medioevo.

Nel 592 il Duca di Spoleto Ariulfo marciò su Napoli. La capitolazione della città partenopea, ch’era amministrata da un governatore bizantino, poteva essere il preludio alla conquista del Lazio. Per scongiurarla Gregorio comprò la ritirata e la pace di Ariulfo.

Le trattative fra il Pontefice e il Duca erano state però condotte all’insaputa di Agilulfo che per rappresaglia, nella primavera del 593, mosse col suo esercito alla conquista dell’Urbe. Quando la notizia giunse nella Capitale, Gregorio ordinò dal pulpito la mobilitazione dei Romani.

Un cronista dell’epoca racconta che le città tosco-emiliane furono spianate al suolo, i villaggi distrutti e le chiese bruciate. Gli uomini subirono orrende mutilazioni. Quando il Papa, dall’alto dei bastioni che cingevano Roma vide la marea degli invasori avanzare verso la città, preceduta da migliaia di prigionieri con la cavezza al collo e le mani mozzate, credette che coi Longobardi s’avvicinasse la fine del mondo. Gli apprestamenti difensivi che aveva messo in atto rischiavano di crollare al primo urto. Ancora una volta, per salvare l’Urbe e risparmiare ai suoi abitanti gli orrori del saccheggio, Gregorio ricorse agli strumenti pacifici del negoziato. Il Papa e il Re s’incontrarono ai piedi della basilica di San Pietro. Le suppliche di Gregorio sortirono l’effetto sperato. Agilulfo rinunciò ai suoi piani. E il Pontefice a una parte dei suoi tesori.

Questo accordo spianò la strada a una pace generale coi Longobardi. L’unico scoglio era rappresentato dall’ostinazione dell’esarca Romano che di trattare coi Longobardi non ne voleva sapere. Ai primi del 597 Romano morì e il suo successore si dichiarò disposto al negoziato. Nella primavera del 599 la pace fu conclusa. Agilulfo, l’Esarca e un delegato pontificio la ratificarono sanzionando lo status quo e la spartizione della Penisola nelle tre sfere d’influenza: longobarda, bizantina e romana.

La pace interna fu per Gregorio, che n’era stato l’artefice, la premessa alla conversione al cattolicesimo dei conquistatori ariani. In ciò egli trovò una

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formidabile alleata nella cattolica Teodolinda. Dopo la morte di Autari, la Regina longobarda s’era circondata di Vescovi cattolici attraverso i quali manteneva i contatti col Papa che non conosceva ma che la colmava di benedizioni e di doni. Le simpatie di Teodolinda verso la Chiesa di Roma, se avevano provocato malumore a Corte, non avevano incontrato resistenza da parte del Re. Sebbene ariano, Agilulfo favoriva i piani della moglie e di Gregorio. Capiva che in un’Europa ormai in gran parte convertita all’ortodossia, l’eresia era pericolosa perché conduceva fatalmente all’isolamento.

Nella primavera del 603, dopo undici anni di matrimonio, Teodolinda diede alla luce un figlio che venne battezzato secondo il rito romano. Era il segnale dell’imminente capitolazione ariana. Dopo pochi mesi infatti i Longobardi si convertirono in massa al Cattolicesimo.

Ai primi di marzo del 604, Gregorio morì stroncato da un ennesimo attacco di gotta. Le sue esequie furono celebrate nella basilica di San Pietro dove la salma venne tumulata. A succedergli fu chiamato un certo Sabiniano che revocò la quotidiana distribuzione di frumento al popolo. I Romani scesero in piazza chiedendo la sua deposizione. Gregorio, che non rinunziava a far miracoli neanche da morto, per tre notti di seguito - racconta il solito Libro pontificale - apparve in sogno a Sabiniano e lo ammonì a revocare il provvedimento. Ma invano. La quarta volta, visto che le parole non servivano a nulla, lo colpì alla testa con un bastone. L’indomani il Papa morì.

Scongiurata la carestia, nell’Urbe cominciarono a circolare voci calunniose sul conto di Gregorio. L’accusa più grave che gli si muoveva era quella d’aver dilapidato il tesoro di San Pietro. Qualcuno propose di bruciare tutti i suoi scritti. I Romani avevano già acceso i primi falò quando un Diacono, di nome Pietro, rivelò d’aver visto un giorno posarsi sul capo del Pontefice lo Spirito Santo sotto forma di colomba. La folla inferocita gli gridò di giurarlo. Pietro lo giurò e cadde a terra stecchito. Così la memoria e i libri di Gregorio furono salvi.

La Chiesa ha fatto di lui un Santo, e ne avrà le sue ragioni. Ma ai nostri occhi egli appare piuttosto un grande uomo di Stato, saggio amministratore e diplomatico accorto. Odiò i Longobardi, ma capì che per conquistarli bisognava prima convertirli. Sperimentò la debolezza di Bisanzio, ma non si ribellò mai alla sua autorità. A lui il Papato deve un potere temporale, di cui tuttavia non sappiamo quale vantaggio abbia recato a quello spirituale.

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CAPITOLO NONO

ROTARI

L’UNICO Longobardo che Teodolinda non era riuscita a convertire al Cattolicesimo era stato suo marito. Neppure sul letto di morte Agilulfo ri-nunciò a quella fede ariana in cui era cresciuto e nella quale non aveva mai creduto. Più tardi alcune fonti ecclesiastiche accreditarono l’ipotesi che il Re longobardo avesse ricevuto in extremis il battesimo. Ma si tratta di congetture prive di fondamento.

Rimasta vedova nel 616, Teodolinda governò in nome del figlioletto Adaloaldo. Ma la vecchia amicizia con Gregorio e i cordiali rapporti coi Vescovi cattolici avevano suscitato diffidenze. A Corte era considerata un’intrusa. Per i Duchi era un’usurpatrice. L’opposizione non cessò quando Adaloaldo uscì di minorità e fu incoronato.

Poco sappiamo di lui, e questo poco è probabilmente leggenda. Si racconta che dopo alcuni anni di regno egli venne affatturato da un mago bizantino che l’avrebbe spinto a uccidere dodici ministri. Il tredicesimo avrebbe assassinato lui ed elevato al trono il Duca di Torino Arioaldo che aveva sposato la sorella del Re, la cattolica e devota Gundiperga. Correva l’anno 625. Nel 628 Teodolinda calò nella tomba. Dopo la morte del figlio, s’era ritirata a vita privata. Raramente usciva dalle sue stanze, dove riceveva frequenti visite di Vescovi che si recavano da lei a chiedere sussidi. Grazie al suo mecenatismo, furono innalzate in Lombardia numerose basiliche tra cui quella bellissima di San Giovanni Battista a Monza, che custodisce la corona di ferro dei Re longobardi.

Il regno di Arioaldo durò dieci anni durante i quali non successe nulla. Alla sua morte Gundiperga fu invitata a rimaritarsi col Duca di Brescia, Rotari. Le nozze furono celebrate a Pavia e i due sovrani trascorsero la luna di miele in un vicino castello sul Po. Dopo pochi mesi Rotari accusò la moglie di propaganda clericale, la confinò nei suoi appartamenti e la

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rimpiazzò con un battaglione di concubine. La Regina si sottomise con rassegnazione alla volontà del marito per la cui anima continuò a pregare fi-no al giorno in cui, cinque anni dopo, per intercessione del Re dei Franchi, fu liberata. Gundiperga tornò a indossare le insegne regali e a sedersi al fianco di Rotari, il quale le restituì le terre e i tesori che le aveva confiscato. Rotari fu un Re saggio e coraggioso malgrado la poligamia, o forse proprio per questo; governò sedici anni, dal 636 al 652, e diede ai Longobardi le prime leggi scritte che soppiantarono le antiche consuetudini tramandate oralmente di padre in figlio e regolate dal principio della faida, o vendetta privata. Nelle steppe ungheresi questo barbaro codice poteva anche funzionare. Lo imponevano, in un certo senso, la precarietà. della vita nomade e la provvisorietà del bivacco. Ma in Italia, dopo un insediamento che durava ormai da oltre settant’anni, una siffatta giustizia andava riformata se si voleva trasformare l’orda in popolo.

Il 22 novembre del 643 Rotari pubblicò un Editto in 388 capitoli, che da lui prese nome. Il Re, che non sapeva leggere né scrivere, lo aveva dettato al notaio di Corte, il quale l’aveva compilato in un latino raffazzonato. Era un codice di diritto civile e penale e fissava le tariffe, o guidrigildo, che l’offensore doveva pagare all’offeso, a riparazione del danno che gli aveva arrecato. Il guidrigildo sostituiva la faida ed era un segno dell’incivilimento dei Longobardi che il contatto coi Romani e la conversione al Cattolicesimo avevano propiziato. Il carattere dell’Editto era militare perché militare era la società longobarda, formata dai guerrieri o arimanni. Fra costoro, i nobili, o adelingi, discendenti da antiche tribù germaniche, avevano una posizione preminente. I Duchi e lo stesso Re appartenevano a questa classe che godeva di privilegi e immunità, e governava. Tutti gli arimanni erano liberi e tutti i liberi arimanni. La guerra e, in tempo di pace, la caccia erano le loro uniche occupazioni. Le terre che essi avevano tolto ai Romani erano coltivate a mezzadria dagli aldii e dagli schiavi. Gli aldii erano dei barbari che i Longobardi avevano arruolato nell’orda, durante le loro scorribande attraverso le pianure danubiane, prima di calare in Italia. Erano uomini liberi, godevano dei diritti civili ma, non facendo parte dell’esercito, erano privi di quelli politici, e non partecipavano all’assemblea del popolo in armi, supremo organo della sovranità. La regolamentazione dei rapporti fra cittadini dimostrava che i Longobardi non avevano fatto complimenti: gl’Italiani erano stati trattati come un popolo vinto e ridotto in servaggio. Il razzismo aveva trionfato.

I Longobardi erano in Italia un’esigua minoranza militare e costituivano una casta chiusa. Nella razza difendevano, per così dire, la superiorità della loro inferiorità numerica e la loro difficile condizione di stranieri in un Paese conquistato con le armi, sottomesso con la violenza e governato col

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terrore. I matrimoni misti non erano consentiti. L’Editto vietava infatti a una ragazza o a una vedova libera di sposare un uomo di condizione servile, com’erano quasi tutti gl’Italiani. Se contravveniva al divieto, esponeva il marito alla pena di morte e se stessa al bando. L’Editto - come tutti i codici germanici - fissava il guidrigildo non solo per i danni arrecati agli uomini ma anche per quelli cagionati agli animali e alle cose. I Longobardi identificavano l’individuo con gli oggetti che gli appartenevano: chi strappava un occhio a un cavallo era come se l’avesse cavato al suo padrone. La multa che doveva pagare - computata in soldi - era proporzionata al rango della vittima. Rotari, che doveva essere piuttosto pignolo, compilò un minuzioso tariffario, e lo corredò di una descrizione particolareggiata dei vari delitti. Stabilì, per esempio, che la frattura di una costola valeva dodici soldi e la rottura di un dente incisivo sedici. Leggendo l’Editto scopriamo con una certa sorpresa che presso i Longobardi la pena di morte era tutt’altro che frequente. Ne erano passibili solo le mogli che uccidevano o tradivano i mariti, gli schiavi che scannavano i padroni, i traditori, gli ammutinati e i disertori.

L’amministrazione della giustizia era ispirata non al diritto romano, ma alle vecchie concezioni tribali. Le procedure giudiziarie erano il giuramento, il giudizio di Dio o ordalia, e il duello. Esse erano richieste per sostenere un’accusa o per difendersi dalla medesima. Il giuramento poteva essere imposto dall’imputato al querelante perché dimostrasse la fondatezza della denuncia o dall’accusatore al presunto reo perché provasse la sua innocenza. Col giuramento prestato sui Vangeli chi si era in precedenza riconosciuto colpevole poteva ritrattare la propria confessione.

Il giudizio di Dio sostituiva il giuramento nelle controversie gravi. L’ordalia si svolgeva alla presenza di un giudice, al cui cospetto imputato e parte lesa convenivano. Il rito, che aveva luogo sul sagrato della chiesa, richiedeva una grossa pentola d’acqua bollente, ed era preceduto da una messa cantata al termine della quale l’officiante pronunciava questa frase: “Fa’, o Signore, che possa ritrarre sana e illesa la mano da questa pentola chi ve l’immerge innocente”. Quindi, rivolgendosi alla caldaia, soggiungeva: “Ti benedico, o creatura acqua che bolli al fuoco, nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo”. L’imputato veniva poi invitato a immergere la mano destra nel recipiente. Se l’arto subiva ustioni, l’accusa era fondata; se usciva illeso, era falsa. Peccato che i cronisti dell’epoca si siano dimenticati d’informarci se vi furono mai sentenze assolutorie.

Oltre al giuramento e all’ordalia, si ricorreva come prova anche al duello che aveva avuto gran voga presso i Goti. Esso si svolgeva in aperta campagna. Lo spazio in cui aveva luogo veniva recintato con delle corde, come un ring di pugilato. Si procedeva alla lettura di un bando che

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comminava pene corporali a chi provocava disordini e turbava il regolare svolgimento del combattimento. Nessuno durante la sfida poteva parlare o fare il tifo per i duellanti o campioni. Al perdente, ritenuto per ciò stesso colpevole, veniva amputata la mano destra. Coloro che si sottoponevano al giuramento, al giudizio di Dio o al duello, non potevano portare sul corpo amuleti o erbe incantate. I Longobardi erano molto superstiziosi. Credevano alle streghe e adoravano le vipere. “Gli uomini di questa età” ha scritto Gabriele Pepe nel suo bel libro sul Medioevo barbarico d’Italia “temevano Satana, e volevano ogni momento essere benedetti; perciò cominciarono a diffondersi le acquasantiere nelle chiese”. La legislazione longobarda venne successivamente perfezionata da Liutprando, Rachis e Astolfo, ma l’Editto del 643 ne rimase il fondamento.

Settantatre capitoli sono dedicati alle condizioni economiche e sociali dei Longobardi. I principali centri di scambio erano le città: Pavia, Milano, Venezia, Ravenna e Roma. Pavia era la capitale del Regno, ospitava la Corte e pullulava di caserme. Era una specie di fortezza e la sua popolazione era in prevalenza militare. Il commercio era in mano agli aldii. Lo sbocco naturale dei prodotti agricoli dell’Oltrepò e della Lomellina era il mercato di Milano che si teneva in quella che è oggi piazza Cordusio. Le colture più diffuse erano quelle dei cereali e della vite. Nelle fattorie della Bassa e nei monasteri si allevavano maiali e cavalli, che furono per tutto il Medioevo gli animali più pregiati. Uno stallone valeva più di una casa e di dieci schiavi messi assieme. Chi provocava l’aborto di una cavalla pagava un soldo di multa, e tre se le tagliava la coda, che era considerata il più bell’ornamento equino.

Gli scambi tra città e campagna erano rari e rare erano le fiere e i mercati, che si svolgevano nei pressi delle chiese. Un commercio fiorente era quello del sale con Comacchio e delle spezie con l’Oriente. Quest’ultimo passava per Venezia che importava droghe ed esportava schiavi. Una conseguenza del ristagno economico fu la crisi demografica. Le famiglie non avevano in media più di due figli. Lo storico Paolo Diacono racconta che nel 679 una pestilenza provocò un numero così alto di morti che padri e figli, fratelli e sorelle venivano composti in due per bara.

La ricchezza era concentrata nelle mani degli Abati e degli arimanni. I monasteri e i castelli erano i grandi centri economici. La decadenza della città favorì la formazione di un proletariato urbano, parassita e turbolento, le cui condizioni non erano migliori di quelle dei contadini inchiodati alla servitù della gleba.

Nel 652 Rotari morì. Gli successe il figlio Rodoaldo, che dopo appena cinque mesi fu pugnalato da un servo al quale aveva insidiato la moglie. Sul trono di Pavia fu innalzato un certo Ariperto il quale governò nove anni e li

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riempì a costruire basiliche. Quando morì fu incoronato Re Grimoaldo, un uomo mite che amava la caccia e la buona tavola. Calò nella tomba nel 671, ucciso da un’emorragia. Fu un accanito difensore della monogamia, in favore della quale promulgò alcune leggi. Gli successe Pertanto, un cattolico fanatico che si segnalò per il suo antisemitismo. Sotto il suo regno, gli Ebrei furono convertiti con la forza al Cristianesimo. Quando Pertarito morì, la corona passò sul capo del figlio Cuniperto che la conservò fino al 700.

Lo spazio non ci consente di ritracciare le vicende dinastiche che ne seguirono. Merita di essere ricordato Ariperto, un Re bigotto, diffidente e taccagno che riceveva gli ambasciatori stranieri che venivano a chiedergli aiuti vestito di stracci per sottolineare la miseria del suo popolo e per rifiutare ogni sussidio. Di notte si recava in incognito nelle taverne e nei lupanari per spiare i sudditi e sentire quello che dicevano di lui. Morì di dissenteria nel 712, e sul trono salì finalmente un grande Re: Liutprando.

Liutprando tentò d’impadronirsi del Lazio e di riportare all’obbedienza i Duchi di Spoleto e di Benevento sempre insofferenti del giogo di Pavia. Quando minacciò Roma, papa Gregorio - come Leone aveva fatto con Attila - gli andò incontro. Liutprando scese da cavallo, gli si prostrò ai piedi, in segno di sottomissione si tolse anche la corona, ed entrò nell’Urbe al suo fianco. L’indomani si recò alla basilica di San Pietro e sull’altare depose le insegne regali. Nel 739 - quando ormai Gregorio era morto - si impadronì di quattro città del Ducato romano; ma tre anni dopo, nella primavera del 742, le restituì al Papa. Già a titolo personale aveva donato alla Chiesa, nel 728, la cittadina di Sutri, ch’era un piccolo borgo con quattro case, una chiesa e un po’ di boschi. Alcuni storici hanno interpretato questo atto come la data di nascita dello Stato della Chiesa. Altri - più verosimilmente - la semplice offerta di un Re bigotto e superstizioso.

Liutprando non fu soltanto un cattolico sincero ma anche un saggio legislatore. Perfezionò l’Editto di Rotari e l’arricchì di 153 articoli. Abolì il guidrigildo e lo sostituì con la confisca dei beni dell’imputato riconosciuto colpevole. Fissò pene a carico dei padri che facevano sposare le figlie prima dei dodici anni. Inasprì le leggi contro la bigamia e l’adulterio. Stabilì che la infedele colta in flagrante doveva essere battuta a sangue e il seduttore arrostito. Punì coloro che durante i matrimoni scagliavano escrementi contro gli sposi. Multò i Romani che s’introducevano furtivamente nelle toilettes delle matrone longobarde e tastavano loro le terga. A Pavia restaurò la zecca che coniava le due monete circolanti del tempo, il soldo e la tremisse d’oro.

Morì nel 744, dopo trent’anni di regno, e fu sepolto nella chiesa di S. Adriano accanto alla tomba del padre.

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CAPITOLO DECIMO

LA CHIESA E LE ERESIE

CON LA Prammatica sanzione, abbiamo detto, Giustiniano aveva delegato ai Vescovi i poteri che sino allora erano stati esercitati dai Prefetti. Ma non era una rivoluzione. Era solo il riconoscimento e il legale avallo di una situazione che già esisteva. In mancanza di uno Stato, la Chiesa ne assume le funzioni. Così diventa protagonista anche della storia politica - e non solo di quella spirituale - del nostro Paese; e ci obbliga a studiare un po’ meglio la sua organizzazione anche a costo di un lungo passo indietro.

Le prime ecclesie - o comunità di fedeli - non erano state né più né meno che delle cellule, come oggi si chiamano quelle comuniste. Erano sparse un po’ dovunque, in tutte le città dell’Impero dov’era giunta la parola degli Apostoli. A capo di ogni comunità era posto un Presbitero, cioè un prete, liberamente scelto dalla piccola assemblea dei fedeli. Ad assisterlo furono designati i Diaconi, i Suddiaconi, gli Accoliti, i Lettori e gli Esorcisti, ai quali era affidata la cura degli ossessi e degli epilettici. Nessuna di queste funzioni costituiva una carriera. Nelle prime ecclesie ognuno prestava la propria opera volontariamente e gratuitamente. A latere, per così dire, dei Diaconi c’erano le Diaconesse, qualcosa come le Dame della San Vincenzo o l’Esercito della Salvezza. Costoro assistevano i poveri e i malati. A fornirne i quadri erano soprattutto le vedove.

In un primo tempo le ecclesie non ebbero tra loro rapporti gerarchici. Il Presbitero rispondeva della propria condotta solo a Dio e ai fedeli che lo avevano eletto. Il che garantiva una perfetta democrazia, ma non costituiva un’organizzazione. Di un’organizzazione vera e propria si cominciò ad avvertire la necessità con la diffusione capillare e massiccia del Cristianesimo nelle province dell’Impero. Moltiplicandosi le ecclesie, in ogni città i vari Presbiteri finirono per eleggere un Episcopo, un Vescovo, che ne coordinasse l’azione. Nel IV secolo cominciarono ad apparire i primi

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Arcivescovi, i Metropoliti e i Primati, ch’erano i supervisori dei Vescovi di una provincia. Finché in cinque città - Roma, Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria - fu installato un Patriarca. Quello di Roma si chiamò Papa. Ma il titolo veniva usato anche per molti altri Vescovi. Il Papa di Roma era soltanto il Vescovo di Roma eletto, come tutti gli altri, dal clero e dal popolo della città.

Su richiesta di un Arcivescovo, tutti i Vescovi di una provincia si riunivano in un Concilio che, perciò, si chiamava provinciale. Quando ad esso facevano capo tutti i Vescovi dell’Oriente o tutti quelli dell’Occidente, prendeva il nome di plenario. Se riuniva sia gli uni che gli altri, si chiamava generale o ecumenico. E le sue decisioni, in questo caso, erano vincolanti per tutti i Cristiani. Fu da questa unità che venne alla Chiesa il nome di cattolica, che vuol dire universale. Fin dai primi tempi, fu stabilito che i Presbiteri dovevano aver compiuto i trent’anni e gli Episcopi i cinquanta.

I Cristiani delle origini compivano i loro riti in case solitarie o in cantine. La Santa Messa, che oggi viene di regola celebrata al mattino, allora veniva officiata la sera. La funzione religiosa era aperta dalla lettura dei testi sacri. Seguivano la predica, l’omelia del Presbitero, il canto dei Salmi e l’orazione dei fedeli. A suggello della cerimonia ci si scambiava il bacio di pace. Questa consuetudine diventò presto causa di deviazionismi spiacevoli a furia di essere troppo piacevoli. Per ovviarvi si raccomandò ai fedeli di tenere la bocca chiusa. Poiché la raccomandazione finiva per essere regolarmente elusa, il bacio di pace fu soppresso.

La comunione veniva amministrata con pane e vino. L’uso dell’ostia consacrata fu introdotto più tardi. Il calice col vino era comune e serviva per tutti. La comunione poteva essere ricevuta solo dai battezzati. Il battesimo, che in greco vuol dire immersione, i Cristiani lo avevano preso dagli Ebrei, i quali a loro volta ne erano debitori agli Egiziani. Nei tempi apostolici ci si faceva battezzare da adulti. Cristo, che non battezzò mai nessuno, fu battezzato da Giovanni Battista, all’età di trent’anni. Nel secondo secolo si cominciò ad amministrare questo sacramento ai bambini, otto giorni dopo la nascita. Chi moriva prima era condannato al Limbo, una specie d’inferno mitigato. Nel III secolo invalse nuovamente l’uso d’immergersi nel bagno sacro in punto di morte. Si temeva, infatti, che il battesimo lavasse i peccati una volta soltanto. L’imperatore Giuliano, nella sua “Satira dei Cesari”, mise in bocca al figlio di Costantino, Costanzo, queste parole: “Chiunque si senta colpevole di stupro, di assassinio, di rapina, di sacrilegio e di tutti i delitti più abominevoli, non appena io l’avrò lavato con quest’acqua, sarà netto e puro”.

Poiché il battesimo per immersione poteva provocare nei bambini, nei vecchi e nei malati delle spiacevoli reazioni, lo si sostituì con la semplice

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aspersione: uno spruzzo d’acqua santa, e via. L’innovazione fece molto rumore. Il Vescovo di Cartagine, Cipriano, se ne scandalizzò al punto da dichiarare che coloro ch’erano stati battezzati per aspersione avevano una dote di Grazia infinitamente minore di quelli ch’erano stati immersi tre volte nel bagno sacro.

La confessione che gli Ebrei praticavano a colpi di Salmi e di frusta, i Cristiani si limitarono a farla seguire da un certo numero di preghiere. Pubblica fino a tutto il IV secolo, fu resa segreta sotto Teodosio quando una donna, dinanzi a migliaia di fedeli, si accusò d’essere andata a letto, il giorno avanti, col Diacono che la stava in quel momento confessando. In Occidente, la confessione dei propri peccati a un prete fu introdotta nel VII secolo. Prima ci si poteva confessare anche fra laici. Nei conventi le badesse confessavano le monache con tanta indiscrezione che i Vescovi si videro co-stretti a revocare loro questa facoltà. Per un certo tempo invalse l’uso di munire i Cristiani di un certificato di confessione, una specie di ricevuta al portatore da esibire al sacerdote al momento della comunione.

Durante la celebrazione della Messa, grande importanza rivestiva la predica che i fedeli scandivano con uragani d’applausi o bordate di fischi. In chiesa chiunque poteva parlare, meno le donne. Ai catecumeni era fatto divieto d’assistere alla parte centrale della celebrazione eucaristica. Solo dopo tre anni d’istruzione religiosa e dopo l’ingestione di un intruglio di lat-te e miele, che era il cibo dei neonati, essi diventavano membri di pieno diritto dell’ecclesia.

La festa settimanale dei Cristiani era la domenica. Il mercoledì e il venerdì erano giorni di magro o di digiuno. La Pasqua e la Pentecoste furono, per alcuni secoli, le uniche festività annuali. Dopo Costantino si cominciò a celebrare anche l’Epifania.

I costumi cristiani nell’età apostolica erano un modello di santità. La Chiesa condannava la magia, l’astrologia e l’aruspicina. L’aborto e l’infanticidio che i Romani praticavano con pagana disinvoltura furono aboliti ed esecrati. Fu denunciata - non sappiamo con quali risultati - la prostituzione che fin allora era stata considerata l’unico sfogo alla monogamia; acerbamente riprovati l’adulterio e la pederastia; caldamente raccomandata, invece, la verginità. Il celibe era considerato più cristiano di colui che si sposava. Nei primi secoli i preti - come oggi i pastori protestanti - furono liberi di prender moglie. Nel 306 un canone del sinodo d’Elvira proibì agli ecclesiastici di contrarre matrimonio, pena la destituzione. Ma il divieto rimase praticamente lettera morta.

Condannata era la cura eccessiva del proprio corpo, e giudicato indecente l’uso di indossare orecchini, di truccarsi gli occhi, di tingersi i capelli e di portare parrucche. Per la Chiesa il maquillage non era solo uno strumento di

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seduzione e di lussuria, ma anche un rimprovero a Dio quasiché non avesse dotato le sue creature di sufficienti attrattive.

Con particolare severità erano giudicati gli sport e i giuochi d’azzardo. Ammesse, invece, la ginnastica, la caccia e la pesca. Scoraggiati i matrimoni misti. Il divorzio veniva concesso solo su richiesta della moglie, se costei era pagana. La schiavitù era tollerata. Ad essa i Romani condannavano la donna libera che sposava il suo servo. Il cristiano Costantino temperò quest’uso facendo giustiziare la moglie e arrostire il marito. Agli schiavi la carriera ecclesiastica era interdetta mentre i liberti potevano facilmente accedervi.

Nel IV secolo i preti, sull’esempio di alcuni ordini monastici, adottarono la tonsura. Nei tempi più antichi l’abbigliamento degli ecclesiastici non era diverso da quello dei laici. Durante la messa i sacerdoti indossavano la comune tunica romana. Sullo scorcio del Trecento ai preti venne imposto l’uso di un abito liturgico fisso. Dalla tunica derivò così il clamide di colore, generalmente, bianco. L’anello e il pastorale diventarono le insegne episcopali. Nel 325 il Concilio di Nicea proibì ai parroci di tenere in casa donne giovani. Si fondarono i primi seminari. L’organizzazione ecclesiastica si perfezionò. Si crearono nuovi uffici. Fra i più importanti, quello dei becchini. Sempre nel IV secolo si diffuse il culto delle immagini e il traffico delle reliquie. In Occidente le dame dell’aristocrazia accolsero nelle loro alcove, come direttori spirituali e amministratori patrimoniali, chierici e monaci.

La teoria che San Pietro, fondando a Roma la prima ecclesia, aveva inteso attribuirle un primato, cominciò a svilupparsi nel quinto secolo. Fin allora il suo Vescovo aveva conservato lo stesso rango e i medesimi attributi di quelli delle altre quattro sedi patriarcali: Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e Gerusalemme. Solo il Concilio di Calcedonia del 381 lo riconobbe con molti contrasti primus inter pares. Nel sesto secolo quella supremazia ch’egli di fatto già da tempo esercitava in Occidente venne consacrata col titolo di Pontefice, cioè a dire di successore di Pietro e vicario di Cristo e capo ecumenico della Chiesa.

A questa organizzazione non si giunse però senza intoppi. Appunto perché mirava all’unità e al comando unico, la Chiesa dovette vedersela con le tendenze centrifughe del Cristianesimo che la primitiva sparpagliatezza delle ecclesie autonome aveva fomentato. Per venirne a capo, essa dovette per forza mettere un po’ d’acqua nel vino della tolleranza, che aveva re-clamato e di cui s’era giovata di fronte allo Stato pagano per crescere e prosperare; ma che poteva minare la sua compattezza, ora che aveva vinto. È un po’ il destino di tutte le religioni, le quali chiedono per sé la libertà di organizzarsi, in nome dei principi laici; eppoi, una volta organizzate, la

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rifiutano agli altri, in nome dei propri dogmi. Queste forze centrifughe furono le eresie, che cominciarono a

manifestarsi nel momento stesso in cui ai Presbiteri, cioè ai semplici preti, si sovrapposero i Vescovi. Ed esse ebbero subito due aspetti: uno teologico, l’altro politico, tra loro strettamente legati. In pratica, era il nazionalismo che rinasceva attraverso di esse. Il pretesto era un diverso modo di concepire Dio e d’interpretare le Sacre Scritture. E chi se ne faceva banditore, magari, mirava davvero solo a questo, come fu certamente il caso di Ario. Ma le forze che agivano nel sottofondo e che le trasformavano in vere e proprie ribellioni, erano quelle della rivolta contro il potere centrale, in favore degli autogoverni locali. In Oriente la Chiesa era diventata uno strumento dello Stato; in Occidente lo stava sostituendo. Nell’uno e nell’altro caso essa era, per i nazionalismi, il nemico da abbattere. Così i Donatisti lottavano per liberare l’Africa da Roma e i Monofisiti per affrancare la Siria e l’Egitto da Costantinopoli.

Noi qui non possiamo seguire lo svolgimento di questa lotta contro le innumerevoli sette che pullularono in questo primo periodo: gli Apolli-nariani, i Priscillanisti, i Sabelliani, i Macedoniani, i Messalini, eccetera. Questo capitolo fa parte della Storia della Chiesa, a cui rimandiamo il lettore che abbia voglia d’istruircisi. Però, tra questi deviazionismi, come oggi si chiamerebbero, ce ne fu uno che influenzò profondamente la vita italiana, anzi rischiò di mutarne il corso : quello di Ario.

Ario era un predicatore di Alessandria del IV secolo che aveva confutato la consustanzialità, cioè negato l’identità di Gesù Cristo con Dio. Il Vescovo dal quale dipendeva lo aveva scomunicato, ma Ario seguitava a predicare e a fare seguaci. L’imperatore Costantino, che aveva fondato la nuova Capitale dell’Impero in Oriente e intendeva esercitare sulla Chiesa un alto patronato, chiamò i due litiganti per cercare di metterli d’accordo. Ma il tentativo fallì. Il conflitto s’era allargato e approfondito. E quindi non restava, per mettere fine a una diatriba che minacciava di rompere l’unità cattolica, che indire un Concilio Ecumenico, che fu tenuto a Nicea, presso Nicomedia.

Il Papa Silvestro I, vecchio e malato, non potè intervenire. Contro il suo accusatore Attanasio, Ario si difese con onestà e coraggio. Era un uomo sincero, povero e malinconico, che credeva nelle proprie idee. Dei trecentodiciotto Vescovi che si erano riuniti per giudicarlo, due soli lo sostennero fino in fondo, e furono scomunicati con lui. Ma evidentemente ce n’erano molti altri che, senza avere il coraggio di dirlo, pensavano come Ario e seguitarono, anche dopo la condanna, a predicare le sue tesi. Uno di essi fu certamente Eusebio. E abbiamo già detto dell’importanza che costui ebbe come maestro di Ulfila, il cristianizzatore ariano dei popoli barbari.

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Non erano ancora trascorsi quattro secoli dalla fondazione della prima ecclesia di Pietro, che già tutto il mondo cristiano era in preda alle convulsioni. In Africa, Donato, contemporaneo di Ario, proclamava che i sacramenti amministrati dai preti che si erano macchiati di qualche peccato, non erano validi. Condannato, ebbe subito con sé una turba di fanatici che innestarono sulla diatriba teologica una rivolta nazionale e sociale: quella dei Circoncellioni, o ladruncoli vagabondi. Fra un saccheggio e un comune furto di polli, predicavano la povertà e l’uguaglianza. E quando incontravano un carro tirato da schiavi, v’issavano sopra questi ultimi obbligando i padroni a spingerlo. Se costoro resistevano, li accecavano riempiendogli gli occhi di sabbia, o li uccidevano, sempre in nome di Gesù Cristo, si capisce. Se toccava a loro di morire, lo facevano allegramente, sicuri di volare in Paradiso. Anzi il loro fanatismo arrivò a tanto che cominciarono a fermare le carovane militari supplicando i soldati di ucciderli. Morivano cantando e ridendo, fra le fiamme del rogo o precipitandosi nei crepacci.

In Oriente, Nestorio revocava in dubbio la verginità di Maria, sostenendo ch’essa era stata la madre non di un Dio, ma di un uomo che aveva sì, qualcosa di divino, ma mescolato a ingredienti umani. Nestorio cercava il martirio, ma la Chiesa gli diede invece un posto di Vescovo a Costantinopoli. L’Arcivescovo di Alessandria, Cirillo, ne scrisse in termini indignati al Papa Celestino I. Questi convocò un Concilio plenario a Roma che offrì a Nestorio le dimissioni o la deposizione. Nestorio rifiutò questa e quelle. Sicché occorse un Concilio Ecumenico a Efeso per scomunicarlo. L’eretico, confinato ad Antiochia, seguitò ad agitarsi e a predicare. L’Imperatore lo fece deportare in un’oasi del deserto libico. Dopo alcuni anni si pentì e mandò a richiamarlo. Ma i messaggeri lo trovarono morente, vegliato da alcuni fedeli che, dopo la sepoltura, emigrarono in Siria, vi costruirono chiese intitolate al loro martire e tradussero nella lingua del posto la Bibbia e le opere di Aristotele, preparando così i fondamenti della cultura musulmana che più tardi lì doveva impiantarsi e che ne rimase molto influenzata. Di nuovo perseguitati dall’imperatore Zenone, si rifugiarono in Persia e di lì si sparpagliarono fino in India e in Cina dove tuttora sopravvivono le loro sètte in guerra contro la Mariolatria, cioè il culto di Maria.

Ma il problema della natura di Gesù seguitava ad alimentare eresie su eresie. Il monaco Eutiche sosteneva che c’era solo quella divina. Flaviano, il patriarca di Costantinopoli, convocò un Concilio per scomunicarlo. Eutiche fece appello ai Vescovi di Alessandria e di Roma. Si dovette indire un altro Concilio a Efeso dove, in odio a Costantinopoli, il clero egiziano difese l’accusato e attaccò con tale violenza Flaviano che questi ne morì. Papa

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Leone I, quello di Attila, si era già espresso in favore del patriarca. Indignato della sua fine rinnegò il sinodo di Efeso chiamandolo il “Sinodo dei ladroni”, e ne convocò un altro a Calcedonia che riconobbe la doppia natura di Gesù e tornò a scomunicare Eutiche. Il clero di Siria e d’Egitto respinse il verdetto e adottò l’eresia monofisita dello scomunicato. Un Vescovo ortodosso mandato ad Alessandria per rimettere ordine fu linciato dalla folla in cattedrale il giorno del Venerdì Santo. Il monofisitismo diventò la religione nazionale dei Cristiani di quei due Paesi, e si propagò anche all’Armenia. Perché, come al solito, esso serviva a coprire soprattutto un moto d’indipendenza da Costantinopoli.

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CAPITOLO UNDICESIMO

I PADRI DELLA CHIESA

SE LE ERESIE di Ario, di Donato e di Nestorio avevano minacciato di scardinare la Chiesa, i suoi Padri - Ambrogio, Girolamo, Agostino - le ridiedero unità e vigore.

Di Ambrogio abbiamo già detto come da governatore diventò Vescovo di Milano e al cospetto di Teodosio proclamò la superiorità del potere spirituale, incarnato dalla Chiesa, su quello temporale, incarnato dall’Imperatore. Fu un grande predicatore e i suoi sermoni erano ascoltati e applauditi da migliaia di fedeli. Compose un’opera di esegesi biblica - l’Hexaemeron - e un commento al Vangelo di S. Luca. Rinnegando il suo passato di funzionario romano affermò che il primo dovere di un cristiano non era l’obbedienza allo Stato ma a Dio, di cui i Vescovi erano i vicari in terra. Fu autore di bellissimi inni fra i quali il celebre “Veni Redemptor Gentium “ ne ispirò uno analogo a Martin Lutero.

Quando Girolamo nacque nel 340 a Stridone, un piccolo villaggio al confine tra la Dalmazia e la Pannonia, non erano trascorsi che quindici anni dal Concilio di Nicea che aveva scomunicato Ario, e l’eco di quella drammatica lotta non si era ancora spenta. In Oriente e in Occidente, .il clero non riuscendo a mettersi d’accordo sulla natura, creata o increata, di Cristo, si divideva e si scomunicava. Girolamo andò giovinetto a Roma per compiervi gli studi, frequentò per alcuni anni la scuola del celebre gram-matico Elio Donato e ne divenne l’allievo prediletto. Era dotato di una grande intelligenza e possedeva una memoria prodigiosa. Sentiva tutto il fascino della cultura classica e conosceva a memoria Catullo e Lucrezio. A Roma imparò anche il greco, sui testi di Platone, Aristotele e Tucidide.

Conseguito il suo bravo diploma, lasciò la Capitale e si trasferì ad Aquileia dove, con alcuni amici, fondò un monastero. Era un asceta vegetariano, portava il cilicio, si sottoponeva a veglie e digiuni, e passava

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buona parte della giornata in preghiera. Le Sue prediche erano in tono con l’austerità della sua vita ma dispiacevano al Vescovo che in fatto di morale era piuttosto accomodante. Girolamo, quando lo seppe, gli diede dell’eretico, e con alcuni compagni abbandonò Aquileia, la “Sodoma dell’Illiria”. Riparò ad Antiochia dove entrò in un convento. Ma il clima della Siria era umido e insalubre. Con una bisaccia a tracolla e una scorta di libri Girolamo si ritirò allora nel deserto e per quattro anni visse come un anacoreta. Pregava e leggeva. Ma più i carmi di Catullo che i Vangeli.

Nel 379 tornò ad Antiochia e fu ordinato prete. Aveva appena trentanove anni ma era già un vecchio, malato, canuto e macilento. Nel 382 Papa Damaso, che cercava un segretario, lo chiamò a Roma e gli affidò la traduzione latina del Nuovo Testamento. Girolamo s’istallò in Laterano. Indossava una mantellina di capra e una tunica unta e sbrindellata, camminava scalzo e portava al collo un crocifisso di legno. Mangiava in piedi in una ciotola di creta e dormiva sulla paglia. I prelati della Curia lo guardavano con un miscuglio di disprezzo e d’invidia dall’alto dei loro sontuosi baldacchini. Due dame dell’alta società, Marcella e Paola, note per la loro filantropia ma più ancora per il loro bigottismo, lo nominarono consigliere spirituale. Girolamo frequentava il loro salotto, commentava la Bibbia e faceva propaganda in favore della verginità e del celibato.

Roma, nonostante la Chiesa, o forse proprio per questo, era una città depravata e le vergini si contavano sulla punta delle dita. Non lo erano forse nemmeno Marcella e Paola sebbene fossero tutt’e due nubili. Qualcuno accusò addirittura Girolamo di trescare con loro. Ma era una calunnia alla quale il Santo replicò con una violenta filippica contro le donne che si dipin-gono, indossano parrucche, vanno scollate, portano il busto e abortiscono. Non risparmiò neppure i preti ai quali rimproverava le vesti troppo ricche e le acconciature ricercate. La piaga dell’umanità - diceva - è il matrimonio. Lo considerava l’ottavo peccato capitale, e si dimenticava che era un sacramento. Era ossessionato dal sesso e proponeva di “abbattere con la scu-re della verginità l’albero del matrimonio”. In una lettera a una fanciulla di nome Eustochio esaltò i piaceri della castità. Forse perché - insinuarono i maligni - non aveva mai gustato quelli della lussuria. Disse che la verginità poteva essere perduta anche con un solo pensiero e raccomandò, per serbarla, il cilicio e il digiuno. Dopo la pubblicazione della lettera fu ag-gredito da alcuni scalmanati e bastonato. Nel 384 una giovane asceta morì in seguito a una prolungata astinenza. La madre ne tenne responsabile Girolamo, e i Romani proposero di ucciderlo e di buttarlo nel Tevere. Dovette intervenire il Papa ma egli fu costretto a lasciare l’Urbe. Partì per Betlemme conducendo con sé la bella Eustochio. Andò ad abitare in una grotta, dove passò, in letture e in preghiere, il resto della sua vita.

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Fu uno degli uomini più dotti del suo tempo. Dall’aramaico e dall’ebraico tradusse in latino la Bibbia, che passò alla Storia sotto il nome di Vulgata. Modello di finezza interpretativa e di stile, essa resta uno dei più alti monu-menti letterari del Medioevo. Girolamo morì in solitudine nel 419. Già da alcuni anni, consunta dalla tisi, era calata nella tomba la vergine Eustochio. La perdita della compagna lo aveva piombato nello sconforto e isolato vieppiù dal mondo. Fu il più bisbetico e il più arcigno dei Padri della Chiesa. Più che un Santo, fu un moralista brillante e battagliero. Paragonò il patriarca di Gerusalemme Giovanni a Giuda e il povero Ambrogio a un corvo. Litigò con gli amici e perseguitò i nemici, che lo accusarono di essere ipocrita e avaro. A S. Girolamo la teologia cristiana è debitrice della sua lingua; la morale, del suo rigore.

Nel momento in cui Girolamo lasciava la nativa Stridone per trasferirsi a Roma a continuarvi gli studi, in una piccola città della Numidia, Tagaste, nasceva nel 354 Sant’Agostino. Il padre Patrizio era assessore comunale e aveva un piccolo fondo. Era un uomo grossolano e scostumato. Amava le donne, il gioco e la buona tavola. La madre, tutta casa e chiesa, si chiamava Monica, e si guadagnò il Paradiso perdonando le numerose infedeltà del marito.

Agostino assomigliava al padre. Era magro, piccolo, bruno, aveva occhi e capelli neri e le gambe leggermente storte. A dodici anni fu mandato a scuola a Madaura e a diciassette a Cartagine. Era un ragazzo turbolento e intelligentissimo. Studiò latino, retorica, matematica, musica e filosofia. Lesse con avidità Platone, ma nella traduzione latina perché conosceva male il greco. A Cartagine conobbe una bella ragazza e ne fece la propria amante. La condusse con sé in casa dell’amico Romaniano, di cui era ospite. Quando Monica ne fu informata, si precipitò a Cartagine per indurre il figlio a regolarizzare la sua posizione e a sposare la concubina. Ma al matrimonio Agostino era allergico. A diciotto anni gli nacque un figlio, cui impose il nome di Adeodato. Nel 385 piantò la compagna e tornò con la madre. Insegnava retorica e grammatica e guadagnava abbastanza per mantenere la famigliola e pagare i debiti del padre.

Cartagine, prima dell’arrivo dei Vandali, era una bella città di provincia, colta e ricca, ma noiosa. A ventinove anni Agostino decise di trasferirsi a Roma. Partì alla chetichella per paura che Monica lo seguisse. Nell’Urbe trovò subito un posto d’insegnante, ma dopo un anno diede le dimissioni perché gli studenti non lo pagavano. Simmaco, il Senatore pagano, gli offrì una cattedra di grammatica a Milano. Agostino emigrò nella città lombarda dove, poco dopo, Monica lo raggiunse. Aveva rinunciato all’idea di ammogliarlo e ora voleva a tutti i costi farlo battezzare.

A Milano Agostino entrò in contatto con le grandi correnti della filosofia

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classica. Per nove anni fu un seguace del manicheismo che nel 383 rinnegò per il neoplatonismo. Un giorno il Vescovo Ambrogio lo invitò ad ascoltare le sue prediche e a leggere le Epistole di S. Paolo. L’impenitente peccatore ne rimase fulminato. La domenica di Pasqua del 387 Agostino e Adeodato furono battezzati, e poche settimane dopo ripartirono per l’Africa. A Ostia, al momento d’imbarcarsi, Monica morì. Ma prima di spirare raccomandò ancora una volta al figlio di sposarsi.

Sbarcato a Cartagine, Agostino vendette i pochi beni che possedeva, distribuì il ricavato ai poveri e si trasferì a Tagaste dove fondò un monastero in cui andò ad acquartierarsi col figlio e con l’amico Alipio. Nel 389, Adeodato morì. Due anni dopo il Vescovo di Ippona, che conosceva Agostino e aveva bisogno di un collaboratore, lo ordinò prete e gli mise a disposizione il proprio pulpito. Ippona era una città di quarantamila abitanti, in maggioranza pagani e manichei. C’era solo una chiesa cattolica e uno sparuto gruppo di fedeli. Il Vescovo manicheo era un certo Fortunato, un predicatore efficace e pieno di foga. Agostino lo sfidò a un pubblico dibattito che si svolse al cospetto di un’immensa folla e durò due giorni. Fortunato fu letteralmente sommerso dall’impeto oratorio del rivale. Sceso dal pulpito, tra i lazzi e gli sberleffi degli spettatori, il poveretto fu costretto a fuggire da Ippona.

Nel 396 il vecchio Valerio si ritirò in un monastero e nominò Vescovo Agostino, che per trentaquattro anni resse la diocesi africana, coadiuvato da due diaconi e due monaci. Dormiva su una branda in un’umida cella, indossava una vecchia tonaca, mangiava solo verdura e spesso digiunava. L’unico comfort era una stufetta a legna che lo riparava dal freddo e dai reumatismi.

Fu un grande Vescovo perché riuscì a cacciare i donatisti da Ippona e a farli condannare nel 411 come eretici da un Concilio, convocato a Cartagine dall’imperatore Onorio. Ma la sua passione era la teologia. Polemista violento e appassionato, scrisse migliaia di lettere e centinaia di trattati, guadagnandosi i galloni di primo Dottore della Chiesa. Il peccato originale, il libero arbitrio, i rapporti tra l’Uomo e Dio furono i grandi temi delle sue ricerche. Nel De libero arbitrio, che fu una delle sue prime opere, dimostrò che Dio lascia all’uomo la libertà di scegliere tra il bene e il male. Pochi sono gli eletti, predestinati al Regno dei Cieli dagli imperscrutabili disegni della Provvidenza. Parecchi secoli più tardi, i calvinisti si riallacciarono ad Agostino elaborando la loro dottrina sulla Grazia. Nel De Trinitate cercò di spiegare la coabitazione di tre Persone - Padre, Figliuolo e Spirito Santo - in una sola: Dio.

Il migliore Agostino è però racchiuso nelle opere filosofiche. Le Confessioni, scritte a quarantasei anni, sono una brillante autobiografia di

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centomila parole. Contengono la storia della sua vita, dagli “anni ruggenti” di Madaura e Cartagine, al viaggio in Italia, all’incontro con Ambrogio. L’autore ripercorre le tappe della sua Fede, fino alla conversione, al battesimo e alla prima milizia cristiana quando Valerio lo nominò Vescovo d’Ippona. “Le Confessioni - è stato scritto - sono poesia in prosa. La Città di Dio è filosofia in storia.” Scritta dal 413 al 426, è uno zibaldone di mille duecento pagine, in ventidue libri. Agostino la pubblicò a puntate, e quando giunse a metà si dimenticò l’inizio. È una superba apologia del Cristianesimo e un atto d’accusa al Paganesimo. I filosofi romani avevano attribuito la decadenza dell’Impero ai cristiani e alla loro nuova religione che aveva liquidato quella antica di Augusto e di Marco Aurelio. Agostino replicò che furono i pagani col loro politeismo a provocare il crollo dell’Impero. I barbari, quando invasero l’Italia, abbatterono i templi di Giove e di Minerva, ma risparmiarono le chiese di Cristo. La Città di Dio, di cui la Chiesa custodisce in terra le chiavi, fu costruita dagli angeli. Ad essa si contrappone la Città degli uomini, edificata dal demonio. Nella Città di Dio affondò le sue radici la teocrazia medievale, la dottrina cioè della supremazia del potere spirituale su quello temporale, del Papa consacrato da Dio sui Re incoronati dagli uomini.

Gli ultimi anni di Agostino furono drammatici e tribolati. I Vandali di Genserico assediavano Ippona, dove il vecchio Vescovo moriva lentamente di arteriosclerosi, di emorroidi e d’inquietudine davanti ai grandi problemi di dottrina che lo tormentavano. La donna conserverà in cielo il sesso che aveva sulla terra? Cosa accadrà il giorno del Giudizio di coloro che furono divorati dai cannibali? Morì a settantasei anni, povero com’era vissuto, senza lasciare testamenti né ricchezze, e senza aver trovato una risposta a queste domande. Sant’Agostino dominò il pensiero occidentale fino a San Tommaso e a lui si ricollegarono i riformatori protestanti. Asservì l’intelletto al sentimento religioso e fondò la filosofia medievale.

È difficile calcolare la portata dell’influenza esercitata dai Padri della Chiesa. Voltaire, a chi gli chiedeva un giorno se li avesse letti, rispose : “Sì, ma me la pagheranno”.

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CAPITOLO DODICESIMO

SAN BENEDETTO

LA DOMINAZIONE gotica e quella longobarda avevano trasformato l’Italia in un immenso deserto di barbarie. Le ombre dei secoli bui si erano allungate sulla Penisola cancellando le ultime tracce di una civiltà ormai in avanzato stato di putrefazione. Ma in questa specie di necropoli vide la luce il più straordinario fenomeno religioso e sociale del Medioevo: il Monachesimo.

Era nato in Oriente nei deserti del basso Egitto, della Siria e della Palestina, e la sua prima manifestazione fu l’eremitismo. Gli eremiti erano uomini che avevano volontariamente rinunciato a ogni comfort e si erano ritirati dal mondo. Abitavano in caverne, in capanne di paglia e di sterco; o, come gli stiliti, in cima a colonne. Su una colonna alta dieci metri, Simeone restò appollaiato trent’anni, esposto ai vermi, alle intemperie e ai proiettili dei monelli che lo bersagliavano con escrementi. Quando morì, la Chiesa lo fece Santo. In Occidente lo stilitismo, per l’inclemenza del clima, non riuscì mai a attecchire. È nota la storia dì quel vecchio Longobardo il quale, dopo essere salito su una colonna, fu costretto precipitosamente a ridiscenderne da un attacco di reumatismo. Abbiamo anche notizia di donne stiliti, soprattutto vergini e vedove.

Il Monachesimo conobbe in Oriente altre manifestazioni estremiste come, per esempio, i Pascolanti, i Reclusi, gli Acemeti. I Pascolanti si chiamavano così perché vagavano continuamente in mezzo ai campi nutrendosi di erbe. I Reclusi, invece, si facevano murare vivi in celle dove trascorrevano il resto della vita. Gli Acemeti, infine, pregavano ininterrottamente e non dormivano mai.

L’eremitismo fu, comunque, la prima fase, e la più rozza, del Monachesimo. Una spinta alla sua evoluzione la diede l’anacoretismo, che in greco vuol dire ritiro. Il primo anacoreta fu Sant’Antonio il quale, dopo

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vent’anni d’isolamento, creò una comunità di religiosi cui però non diede alcuna regola. Finalmente con San Pacomio, fondatore ai primi del quarto secolo di un convento nell’alto Egitto, abbiamo il primo esempio di cenobitismo, cioè a dire di vita comune organizzata. I monaci coltivano i campi, confezionano stuoie e cesti che poi vendono. Col ricavato sostentano il monastero e soccorrono i poveri.

Sempre nel IV secolo il Monachesimo, incoraggiato e favorito dalla Chiesa, si diffonde in Occidente. Nell’Italia meridionale e in Gallia spuntano i primi cenobi. Nel 375, il Vescovo di Tours, Martino, fonda sulla Loira il monastero di Marmoutier. Le regole sono numerose, ma nessuna riesce a sopraffare le altre e a unificarle. Le varie comunità monastiche non hanno in comune che la preghiera e l’esercizio liturgico. Solo agli albori del VI secolo, con San Benedetto, il Monachesimo assume il suo vero volto: quello che, attraverso i secoli, è giunto sino a noi. Per ricostruirlo, oltre là regola benedettina, l’unica fonte a nostra disposizione è il secondo libro dei Dialoghi di San Gregorio. Si tratta naturalmente di una fonte agiografica in cui è difficile sceverare il soprannaturale dall’umano, il miracolo dalla cronaca.

Benedetto nacque verso il 480 a Norcia, nell’Umbria meridionale, da un’agiata famiglia di agricoltori. Terminati gli studi elementari, venne a Roma per compiervi quelli superiori. Dopo breve tempo, decise di abbandonarli e di ritirarsi in campagna, in un piccolo villaggio sulle rive del fiume Aniene. Di qui, operati alcuni miracoli, si trasferì in una grotta nei pressi di Subiaco dove, coperto di una semplice tonaca e di una rozza mantella di lana, passò tre anni a pregare e a lottare contro le tentazioni della carne che lo divoravano. Una notte sognò una ragazza che aveva conosciuto a Norcia. La visione gli mise addosso un tale sgomento che si gettò nudo in un ciuffo di ortiche che - racconta San Gregorio - si mutarono in rose.

La notizia di questo miracolo fece tale rumore che lo chiamarono a dirigere il convento di Vicovaro. Benedetto instaurò un regime così severo che i monaci, per liberarsene, decisero di assassinarlo. Scoperto il complotto, Benedetto tornò a Subiaco e vi fondò dodici monasteri in uno dei quali egli stesso andò a acquartierarsi. L’iniziativa dispiacque al parroco del paese, un certo Fiorenzo, che cercò di sabotare l’opera del Santo mettendogli i bastoni tra le ruote e il veleno nel pane. Anche questo secondo attentato fallì. Il pane, invece di Benedetto, se lo mangiò un corvo. Non riuscendo a aver ragione dell’abate, Fiorenzo pensò di corrompere i monaci, allestendo uno spogliarello nel giardino del convento. Alla rappresentazione presero parte sette giovani donne. Dopo avervi assistito, il Santo fece fagotto e s’allontanò dalla città per non farvi più ritorno. Ma prima di andarsene volle compiere un ultimo miracolo, di cui a fare le spese, stavolta,

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fu il povero Fiorenzo. Il quale, per godersi la scena della partenza, s’era affacciato a un balcone che improvvisamente era crollato sommergendolo sotto un cumulo di macerie.

Montecassino, a mezza strada tra Roma e Napoli, fu la tappa successiva dei vagabondaggi di Benedetto. Appena vi mise piede, ordinò la de-molizione di un vecchio tempio pagano costruito sul cocuzzolo del monte. Al sud posto fece erigere un monastero. Non fu un’impresa da poco tirarne su le mura: il progetto questa volta era dispiaciuto al Demonio che cercò di farlo fallire andandosi a sedere sui mattoni che dovevano servire alla costruzione. Nel 529 tuttavia l’edificio fu ultimato, e Benedetto co’ suoi monaci potè finalmente istallarvisi.

Contenuta in settantatre brevi capitoli, la Regola della comunità rimane ancora oggi uno dei pilastri più alti e una delle testimonianze più originali del Cristianesimo. Si può riassumere nel motto: Ora et labora, prega e lavora.

I monaci cominciano la loro giornata alle tre del mattino quando nella cappella del convento hanno inizio le funzioni religiose: il canto dei Salmi, la recita delle orazioni, la lettura del Vangelo o di qualche passo della Bibbia. Al termine della Messa, si ritirano in biblioteca. Un sorvegliante, appositamente designato dall’abate, bada che nessuno si distragga dalla lettura dormendo o chiacchierando col vicino. A intervalli regolari, allo scadere cioè delle cosiddette ore canoniche, lo studio viene interrotto per la preghiera. Alle nove, il prete, che spesso vive fuori del convento, celebra una seconda Messa alla quale tutti hanno l’obbligo di intervenire. Dopo la funzione ciascuno se ne va per i fatti suoi: i cuochi in cucina, i giardinieri nell’orto, i falegnami in officina.

Alle undici viene servita la colazione. Ecco il menu: mezzo chilo di pane, un piatto di pesce o di carne, contorno di verdura, formaggio e frutta. La carne d’animali a quattro zampe è proibita. La Regola ne tollera la speciale dispensa solo ai vecchi e agli ammalati. Ogni monaco ha diritto a mezza pinta di vino e, talvolta, a una razione supplementare. A tavola nessuno parla a meno che l’abate non inviti esplicitamente a farlo. Un monaco legge a alta voce le Vite dei Santi. Dopo mangiato è consentita una pennechella., Poi ricomincia il lavoro e la preghiera. Al calar del sole, dopo una frugale cena, di nuovo a letto. Il monastero dispone di numerosi dormitori. I materassi sono imbottiti di paglia, di crine o di canne. La mancanza di riscaldamento e la scarsezza di coperte obbligano a coricarsi vestiti, con sandali, tonaca e cappuccio. L’arredamento è sobrio. Non ci sono guar-daroba, non ci sono comodini. I pochi effetti personali - un fazzoletto, un coltello e una penna - sono sistemati ai piedi del letto, accanto a una tonaca da lavoro e a un ricambio di pedalini e mutande. Nessun monaco può

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scrivere o ricevere lettere, accettare o fare doni. Per chi s’ammala c’è l’infermeria, il solo posto dove sia possibile prendere un bagno. Per chi disobbedisce, la frusta. I recidivi sono puniti con l’isolamento, e nei casi più gravi con l’espulsione. Per le decisioni importanti l’intera comunità viene convocata in assemblea plenaria. Tutti possono intervenire nel dibattito ma l’ultima parola spetta sempre all’abate. Nessuno, per nessuna ragione, senza uno speciale permesso, può uscire dal convento o intraprendere un viaggio.

Il monastero è meta di continui pellegrinaggi. Non passa giorno che qualcuno non bussi alla sua porta per mendicare un piatto di minestra o per chiedere di esservi accolto come novizio. Siamo nel VI secolo. In Italia infuria la guerra gotico-bizantina. La carestia, la malaria, la peste bubbonica decimano la popolazione. Il convento è l’unico luogo dove sia possibile mettere d’accordo il desinare con la cena e sfuggire al contagio.

Il novizio viene sottoposto a un’accurata visita medica e a una severa selezione. La vita del monastero è dura e, per sopportarla, egli deve dimostrare di possedere una salute di ferro. Solo dopo un anno di tirocinio e dopo aver superato una lunga serie di tests, diventa membro di pieno diritto dell’Ordine, e fa voto di preghiera, di penitenza e di castità. Rinuncia a tutti i suoi beni in favore del monastero o dei poveri. Col passare del tempo, questa rinuncia verrà fatta più a beneficio del primo che dei secondi. L’oblazione, l’offerta cioè che i padri facevano dei propri figli al convento e che accompagnavano con una cospicua donazione, fu una delle maggiori fonti d’arricchimento dell’Ordine benedettino.

Nel 543, quattordici anni dopo la fondazione di Montecassino, Benedetto morì, in seguito a un attacco di febbre. Il trapasso di cui, una settimana prima, egli stesso aveva dato l’annuncio, avvenne nell’oratorio del monastero dove il Santo, sentendo prossima la fine, aveva voluto essere trasportato. Fu sepolto accanto alla tomba della sorella Scolastica alla quale, in vita, era stato particolarmente legato.

Il Monachesimo ha avuto una parte decisiva nella vita economica e sociale del Medioevo. Quando esso nacque l’Italia era precipitata nel caos. Gli eserciti barbarici avevano spianato al suolo le sue città e i suoi villaggi. Le campagne erano spopolate. I poteri centrali non funzionavano perché nessuno era in grado di farli funzionare. Quelli periferici, affrancati da ogni controllo, si erano mutati in strumenti d’oppressione. Per sfuggire alle violenze e alle angherie alle quali veniva sottoposta, la popolazione italiana si strinse allora attorno ai monasteri. Ai quali, in cambio della protezione ch’essi le accordavano, offrì le proprie braccia. Il Monachesimo anticipò così di alcuni secoli il feudalesimo.

I grandi conventi, a poco a poco, si trasformarono in città fortificate, autarchiche, chiuse, isolate dal resto del mondo. Fra un abate di

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Montecassino e un Duca longobardo non c’è alcuna differenza. Tutt’e due sono sovrani assoluti di Stati più o meno grandi e egualmente indipendenti. Tutt’e due godono di speciali privilegi e di speciali prerogative. Impongono dazi, non pagano tasse e battono moneta. I monasteri arruolano truppe, amministrano la giustizia e non sono sottoposti a alcun controllo da parte dell’autorità episcopale.

Con le continue e cospicue donazioni di Re e di grandi proprietari terrieri, preoccupati di salvare la propria anima, essi vieppiù s’ingrandirono, manifestando la pericolosa tendenza a trasformare i coloni in servi della gleba. Riunendo nelle proprie mani i poteri civili, religiosi e militari, i monasteri non fecero che fronteggiare un’emergenza. Abusandone, finirono per tradire quello spirito evangelico che Benedetto, con la sua Regola, aveva cercato di infondergli. Ma frattanto avevano reso il più prezioso di tutti i servigi: il salvataggio dell’eredità culturale di Roma. Furono le biblioteche dei grandi conventi benedettini infatti a conservare e a tramandarci le Orazioni di Cicerone, le Odi d’Orazio, le Storie di Tacito che sarebbero andate altrimenti perdute, travolte dalla furia devastatrice dei barbari.

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CAPITOLO TREDICESIMO

FRA ROMA E BISANZIO

I GOTI prima, i Longobardi poi sottrassero l’Italia all’Impero. Nella Penisola Bisanzio conservò a lungo un caposaldo: Ravenna, e un interlo-cutore: il Papa. A Ravenna risiedeva l’Esarca, ch’era diventato una specie di Viceré in esilio. Ufficialmente era il rappresentante dell’Imperatore ma, in pratica, non rappresentava che la sua impotenza. Era in relazione col Pontefice. Faceva la spola tra Ravenna, Roma e Costantinopoli. Riceveva ordini dal Basileus e li trasmetteva al Papa che regolarmente li trasgrediva.

Roma ribadiva la propria obbedienza a Bisanzio ma con accenti sempre più polemici. L’Impero d’Oriente aveva scatenato contro quello d’Occidente, di cui l’Urbe continuava a rivendicare il titolo di capitale morale, l’alluvione gotica e non aveva saputo arginare quella longobarda. I rapporti del Papa col Patriarca di Costantinopoli erano tesi. Il secondo non riconosceva la supremazia del primo e reclamava per sé un primato che i grandi concili ecumenici gli avevano rifiutato. Era fatale che il cordone ombelicale che univa Roma a Bisanzio finisse col lacerarsi. Due eventi precipitarono la crisi: l’editto contro le dispute religiose - o Tipo - e quello contro il culto delle immagini - o Iconoclasmo.

Il Tipo fu bandito nel 648 dall’imperatore Costante II. Era un uomo scettico, prepotente e bizzarro. Gli piaceva comandare. Non andava mai in chiesa e detestava i monaci che infestavano l’Impero e lo corrompevano. Solo a Bisanzio ce n’erano circa diecimila. Vivevano di elemosine e custodivano nei conventi le reliquie dei santi e dei martiri che il popolino credulone venerava come talismani miracolosi. Erano rissosi, intriganti e depravati. Fomentavano disordini e ordivano congiure. Erano ricevuti a corte con tutti gli onori, soprattutto dalle Imperatrici di cui talvolta erano i confessori e spesso gli amanti. Il Basileus li proteggeva e il Patriarca li temeva. Col Tipo Costante s’illuse di restituirli alla cura delle anime e di

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porre fine alle interminabili diatribe che essi scatenavano e che avevano finito col contagiare anche il clero secolare. Il Tipo conteneva le sanzioni contro coloro che non si fossero uniformati. Il trasgressore, se Vescovo, veniva deposto; se laico, licenziato in tronco; se nobile, punito con la con-fisca di tutti i beni, che lo Stato incamerava. Il Patriarca ratificò il decreto e lo rese esecutivo.

In Italia esso scatenò tuoni e fulmini. Il Papa Martino convocò in Laterano un concilio di duecento Vescovi che scomunicò il Patriarca. Non osò scomunicare Costante, ma con quel gesto ne sottintese la condanna. Risoluto a imporre il Tipo anche in Italia, l’Imperatore ordinò all’esarca Olimpio di recarsi a Roma e di assassinare il Pontefice. Olimpio partì con una piccola scorta di soldati. I Romani l’accolsero con ostilità. Il sicario incaricato di pugnalare Martino mentre sull’altare della basilica di Santa Maria Maggiore celebrava la Messa, nell’atto di colpire il Papa, fu accecato. Così almeno riferiscono le fonti ecclesiastiche che hanno sempre costruito la storia sui miracoli. Olimpio lasciò Roma e partì per la Sicilia dove, alcuni anni dopo, morì combattendo contro i Saraceni.

Nel giugno del 653 Costante affidò al nuovo esarca Calliopa la stessa missione in cui era fallito il suo predecessore. Martino si rifugiò nella basilica del Laterano e si barricò in un baldacchino che aveva fatto installare ai piedi dell’altare. Ciò non impedì ai soldati bizantini di entrare nel tempio e trascinarne fuori il Papa. Il popolino tumultuò contro l’Imperatore e il san-gue corse. La mattina del 19 giugno, all’alba, il Pontefice, vecchio e malato, fu caricato su una nave con sei accoliti e un cuoco. Trasportato a Nasso fu rinchiuso in una specie d’osteria dove trascorse più d’un anno, sottoposto a continue angherie e a ogni sorta di disagi. Gli sbirri gli proibivano persino di radersi e di tagliarsi i capelli. Due volte sole gli diedero il permesso di fare il bagno.

Nel settembre dell’anno successivo fu condotto a Costantinopoli. Durante la traversata fu colto da un attacco di dissenteria, e quando sbarcò i Bizantini l’accolsero a sberleffi. Tre mesi dopo fu processato. In tribunale i giudici gli impedirono di sedersi. Quando le forze gli venivano meno due soldati lo sorreggevano. Un interprete lo interrogava: Martino non conosceva il greco, e i suoi accusatori ignoravano il latino. Fu riconosciuto colpevole d’intelligenza coi nemici di Cristo, di scarsa devozione alla Vergine, e condannato a morte. La pena gli fu poi commutata in quella del confino che scontò a Cherso, sul Ponto Eusino, dove nel settembre del 655 morì di gotta, dimenticato da tutti e ridotto a comprare il pane alla borsa nera. La Chiesa lo fece Santo.

Durante il suo esilio, a Roma era stato eletto Papa un prete di nome Eugenio che regnò tre anni infischiandosi del Tipo e di Bisanzio. Gli

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successe un certo Vitaliano che con Costante dovette invece fare i conti. Il giovane Basileus aveva deciso di ritrasportare la Capitale a Roma e di restaurare l’Impero d’Occidente. L’assurdo progetto non era ispirato da nobili propositi di gloriosa riconquista. Era solo sollecitato da una vergognosa paura. I Musulmani sfidavano da Est la Grecia e minacciavano di sommergerla. Sullo scorcio del 662, quasi alla chetichella, Costante salpò dalla nuova Roma alla volta di quella vecchia. Quando la nave levò l’ancora si portò a poppa e rivolto ai concittadini che gremivano la banchina sputò ripetutamente al loro indirizzo. Non aveva mai amato i Bizantini i quali lo avevano sempre detestato. Al principio del 663 sbarcò a Taranto. Invase il Ducato di Benevento, ma fu volto in fuga dai Longobardi accorsi in sua difesa. Allora risalì a Nord e puntò su Roma. Il 5 luglio ne varcò le mura. Il Papa lo benedisse e il popolo lo portò in trionfo fin dentro la basilica di San Pietro sul cui altare egli depose ricchi doni.

Costante restò a Roma dodici giorni, il tempo per demolire la cupola del Pantheon e trafugare le tegole di rame che la ricoprivano. Il tredicesimo caricò i coppi sulle navi e partì per Siracusa. Morì nel 668 in Sicilia, assassinato da un servo che lo colpì con un portasapone mentre si trovava nella vasca da bagno. Con lui fu sepolto l’ultimo tentativo di riportare l’Italia sotto l’Impero bizantino.

L’’Iconoclasmo ribadì e inasprì la crisi che il Tipo aveva aperto e che nemmeno la morte del suo autore aveva sopito. L’editto contro il culto delle immagini fu promulgato nel 726 dall’imperatore Leone III. Era nato in Cilicia da genitori armeni, e il padre era un ricco allevatore di pecore. Quando Giustiniano II fu coronato Imperatore, Leone gliene portò personalmente cinquecento in regalo a Costantinopoli. Il Basileus ricambiò il dono nominandolo guardia di palazzo e poi comandante delle legioni anatoliche. Quando Giustiniano II morì, a Bisanzio scoppiarono gravi disordini. Leone, che comandava l’esercito, li soffocò e riuscì a farsi procla-mare Imperatore. Era un uomo caparbio e ambizioso e un magnifico soldato. Nel 717 liberò Costantinopoli dalla flotta saracena che incrociava al largo del Bosforo. Gli storici ecclesiastici attribuirono lo scampato pericolo all’intercessione della Vergine.

Regnava da nove anni quando, nel 726, forse sotto l’influsso del giudaismo e dell’Islam, proibì il culto delle immagini sacre - o icone - e ne ordinò la distruzione. Il Vecchio Testamento interdiceva la riproduzione degli animali terrestri, compreso l’uomo. Le chiese primitive infatti erano disadorne, e la divinità non vi era rappresentata. Le immagini furono una contaminazione pubblicitaria: un veicolo di propaganda imposto soprattutto dal fatto che le popolazioni da convenire, primitive e analfabete, erano più sensibili alla figura che alla parola. Ma se n’era abusato, e la moltiplicazione

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delle immagini aveva dato luogo a uno scandaloso commercio. I santi più in voga erano naturalmente gli Apostoli e i Padri della Chiesa.

Ognuno di essi aveva i propri fans. San Paolo era l’idolo delle donne che ne custodivano l’immagine nella borsetta o sotto il cuscino. I ricchi non si accontentavano della semplice icona. Pretendevano addirittura la statua, e la volevano di grandezza naturale. Quella delle immagini sacre era così diventata in tutto l’Impero un’industria assai fiorente. Impresari ne erano i monaci che in essa avevano investito un immenso capitale di menzogne e d’imbrogli. In Oriente non c’era casa, non c’era bottega, non c’era cantone senza l’effigie di un santo o di un martire. A Bisanzio esistevano persino clubs intitolati a questo o a quello. I membri ne appiccicavano l’immagine sugli abiti come un distintivo e un portafortuna. L’iconolatria diede origine a manifestazioni di fanatismo che spesso degenerarono in tafferugli e in vere e proprie scene d’isterismo collettivo. Quando scoppiava un’epidemia, il popolino scendeva in piazza brandendo croci, sventolando santini e moltiplicando il panico.

Per Leone il culto delle immagini era un elemento di instabilità e una superstizione. Nel 730, davanti al Senato, proclamò traditore della Patria chiunque lo praticasse. L’alto clero appoggiò l’editto, quello basso e i monaci gli si rivoltarono contro, il popolo inorridì. Nella Capitale scoppiarono sanguinosi tumulti. Nelle Cicladi i ribelli deposero Leone e armarono una flotta contro Bisanzio. In Italia il Papa Gregorio convocò un Concilio che scomunicò l’Imperatore e dispensò i Romani dal pagargli le tasse.

E fu un’altra tappa sulla strada della rottura fra Roma e Bisanzio, che doveva consumarsi trecent’anni dopo.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

I FRANCHI

E RIPRENDIAMO il filo del nostro racconto. Nella primavera del 539, la pianura padana era stata sommersa da un’orda di guerrieri biondi fe-rocissimi. Numerosi villaggi furono spianati al suolo, le chiese bruciate, gli abitanti trucidati. Sembravano tornati i tempi di Attila e di Alarico. In Italia, da quattro anni, gli Ostrogoti e i Bizantini si stavano scannando in una guerra che ne durò trenta e che trasformò la Penisola in una necropoli. L’alluvione che d’oltralpe si rovesciò sulle verdi pianure del nord ingigantì il disastro, ma rifluì quasi subito in seguito ad un’epidemia di tifo che decimò gli invasori.

Costoro erano originari del basso Reno dove nel IV secolo avevano costituito una confederazione di tribù alle quali avevano dato un capo e una legge, ch’era quella del più forte. Si chiamavano Franchi, nelle loro vene scorreva sangue germanico, e si erano acquartierati nella parte settentrionale della Gallia che d’allora in poi cambiò nome, e si chiamò, grazie a loro, Francia. Ogni tanto si coalizzavano e mettevano insieme le proprie risorse, ch’erano poche, e la loro ferocia, ch’era molta, per saccheggiare e devastare le terre dei vicini. Più spesso si facevano guerra tra loro, per un ciuffo d’erba o un gregge di capre. Finché i due gruppi più potenti, quello dei Salii e quello dei Ripuarii, emersero sugli altri e li ridussero sotto il loro dominio.

Verso la metà del V secolo i Salii occupavano una vasta area che comprendeva il Belgio, l’Artois e la Piccardia. I Ripuarii si erano stabiliti nel bacino della Mosella. Nel 481 i Salii proclamarono Re un ragazzo di nome Clodoveo (dal quale sembra derivi il francese Louis e il nostro Luigi). Succedeva costui al padre Childerico, figlio di un certo Meroveo che aveva dato il nome alla dinastia: i Merovingi.

Clodoveo fu un guerriero audace e accorto. I Salii avevano bisogno di spazio. Per conquistarlo invasero il territorio compreso fra la Marna e la

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Senna. Entrarono vittoriosi a Parigi, di lì dilagarono nell’Isle de France, e mossero guerra agli Alemanni, ch’erano stanziati nell’alta valle del Reno. Furono costoro per Clodoveo un osso, molto duro. Per domarli, impiegò 5 anni. Gli Annali Ecclesiastici raccontano ch’egli vinse perché rinnegò la fede pagana nella quale era stato allevato per abbracciare quella cristiana. Il giorno di Natale del 496, Clodoveo indossò la veste bianca dei catecumeni e ricevette il battesimo insieme col suo popolo nella basilica di Reims.

Tra i Germani, i Franchi furono i primi a convertirsi al Cattolicesimo. Divenuto il campione barbaro dell’ortodossia, Clodoveo sottomise successivamente i Burgundi, i Visigoti e i Ripuarii. Al principio del VI secolo egli controllava un territorio che si estendeva dall’Atlantico al Reno. Nel 508, l’imperatore Anastasio gli conferì la dignità di console. Nel 511, a solo quarantasei anni, Clodoveo calò nella tomba a Parigi, circondato dai suoi pretoriani. La sua scomparsa fu un grave lutto per la Chiesa che lo celebrò come “il più cristiano dei Re di Francia”. La storia fu meno indulgente.

Alla morte del suo fondatore il regno franco passò nelle mani dei figli. Costoro non possedevano il genio del padre dal quale avevano ereditato solo la barbarie. Si trucidarono a vicenda. Delitti, tradimenti, guerre civili dilaniarono lo Stato. Nel 613, il nipote di Clodoveo, Clotario, lo riunificò e ne allargò i confini. Con lui nacque la Francia. Essa comprendeva: l’Austrasia, tra la Mosa e il Reno, la Neustria, corrispondente alla Francia occidentale a nord della Loira, l’Aquitania, tra la Loira e la Garonna, e la Borgogna nella valle del Rodano.

Quella del 539 fu la prima ma non l’ultima delle invasioni franche nel Nord d’Italia. Due altre volte, nel 576 e nel 590, la pianura padana fu sommersa dagli eserciti merovingi. I Longobardi, che della Penisola erano diventati i nuovi padroni, li ricacciarono con gravi perdite inseguendoli fin dentro i loro confini. Sullo scorcio del VI secolo Agilulfo stipulò coi Franchi un patto di non aggressione. La tregua durò centocinquant’anni. Quando la Provenza fu minacciata dagli Arabi, i Merovingi invocarono l’aiuto dei Longobardi: Liutprando attraversò le Alpi Marittime, sconfisse i Musulmani e li volse in fuga.

Il ricorso alle armi longobarde fu un segno della crisi in cui si dibatteva la monarchia franca dalla morte di dotarlo. I suoi successori, salvo poche eccezioni, governarono male. Anzi, negli ultimi tempi, conservando la corona ma abdicando al potere, che passò nelle mani dei primi ministri, i cosiddetti “Maestri di Palazzo” o maggiordomi, non governarono affatto, guadagnandosi il nomignolo di re fannulloni. Poche dinastie precipitarono più in basso di quella merovingia. Lo storico inglese Hodgkin calcolò che i Re franchi da Dagoberto I a Childerico III, vissero in media 27 anni. Uno

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campò fino a 50, ma regnò appena un lustro e poi fu mandato in esilio. Furono quasi tutti vittime dei piaceri della mensa e dell’alcova. Nessuno, a quanto risulta, morì in guerra. Detronizzato di fatto se non di nome dal Maestro di Palazzo, il re fannullone viveva lontano dalla vita pubblica, in modeste tenute, circondato da concubine, parassiti e schiavi. Erano questi gli unici sudditi ai quali egli impartiva ordini e dai quali era obbedito. A corte si recava di rado e solo nelle grandi occasioni. Il mezzo di trasporto di cui si serviva nei suoi spostamenti era un rozzo carro trainato da una coppia di buoi. Un famiglio lo issava a bordo. Un codazzo di servi e di cortigiane lo seguiva.

Il Maestro di Palazzo non fu una prerogativa della monarchia merovingia. Esso allignava anche nelle corti dei Re ostrogoti, burgundi e longobardi. Ma solo in quella franca riuscì a impadronirsi del potere e a rovesciare coloro che legittimamente anche se indegnamente lo detenevano. Dapprincipio le sue competenze si erano limitate all’amministrazione del demanio pubblico che si identificava con quello del Re. Il suo potere crebbe quando costui gli affidò l’incarico di provvedere alla distribuzione delle proprietà. Nel VII secolo non circolava denaro. L’economia si basava sugli scambi in natura, e la “cinquina” dei soldati la si pagava in terra. I Generali più valorosi diventarono i latifondisti più cospicui. Il Maestro di Palazzo poteva tuttavia revocare in qualunque momento la concessione, o beneficio. Ciò lo metteva in grado di controllare e di manovrare coloro che di questo beneficio godevano.

Nel 622 il re Dagoberto designò Maestro di Palazzo un certo Pipino, che apparteneva ad una ricca famiglia austrasiana e era un uomo avveduto e coraggioso. Quando morì, gli successe il figlio Grimoaldo. Con lui la carica di maggiordomo divenne ereditaria nella famiglia dei Pipinidi, come da allora si chiamarono i successori del capostipite. Non possiamo fare qui la storia di tutti i Maestri di Palazzo franchi. Ma uno va ricordato: Carlo, figlio di Pipino d’Heristal e di una concubina di nome Alpaida. Quando nacque, la levatrice, mostrandolo al padre, esclamò: “È un maschio”. Maschio nell’idioma franco d’allora, si diceva Karl. Pipino, raggiante, rispose: “Lo chiamerò maschio”.

Carlo, che i contemporanei battezzarono Martello per la sua forza erculea, legò il proprio nome e quello dei Pipinidi a uno degli eventi decisivi della storia d’Europa: la sconfitta dei Musulmani a Poitiers, un villaggio a sud della Loira. Correva l’anno 732. Il governatore della Spagna, Abderrahman, da tempo aveva incluso nei suoi piani la conquista della Francia. Con la penisola Iberica, essa doveva entrare a far parte del Commonwealth arabo. L’ondata islamica, di cui diremo più tardi, aveva sommerso il Medio Oriente, la costa mediterranea dell’Africa e la Spagna, si era trasformata in

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marea, e minacciava di travolgere l’Europa. Carlo Martello vide il pericolo e corse ai ripari. Arruolò un grosso esercito nel quale confluirono anche Frisii, Sassoni e Alamanni. Attraversò la Loira e andò incontro agli invasori. Fu un urto tremendo. I Franchi subirono gravi perdite, ma gli Arabi furono annientati. Un secolo e mezzo più tardi Paolo Diacono scrisse che i Saraceni lasciarono sul terreno 375 mila cadaveri, mentre Carlo perdette in tutto millecinquecento uomini. Queste cifre, si capisce, sono false: Paolo Diacono era lo storico ufficiale dei Franchi. Ma la data di Poitiers, 732, è importante perché segnò la fine della guerra santa lanciata da Maometto per la conquista del mondo cristiano. Se i Franchi fossero stati sconfitti, l’Europa parlerebbe arabo, leggerebbe il Corano, e i suoi abitanti avrebbero almeno un paio di mogli.

Carlo Martello trascorse gli ultimi anni tormentato dagli acciacchi. Nel 741 il Papa lo scongiurò di accorrere in aiuto della Chiesa minacciata da Liutprando. Il Pontefice accompagnò l’appello con numerosi doni tra cui le catene di San Pietro e le chiavi del suo sepolcro.

Il Re accettò i doni, ma respinse l’appello, perché le relazioni franco-longobarde, in quel momento, erano ottime.

Carlo fu un governante religioso, ma non bigotto. Favorì l’evangelizzazione dei Germani al di qua e al di là del Reno, fece abbattere gli idoli pagani, e perseguitò coloro che non volevano convertirsi. Separò la Chiesa dallo Stato. Ordinò che le decime fossero versate a questo e non a quella, come s’era fatto fin allora, e fu scomunicato. L’Arcivescovo Hincmar racconta che S. Eucherio, durante uno dei suoi numerosi viaggi nell’aldilà, vide Carlo sprofondato nell’Inferno a cui era stato condannato per i soprusi perpetrati contro i suoi nemici. Erano costoro i benefattori della Chiesa, alla quale avevano legato i cospicui patrimoni che il maggiordomo franco aveva confiscato a favore dello Stato. Ma il biografo del Santo ignorava che Eucherio era morto tre anni prima di Carlo.

Carlo Martello lasciò due figli: Carlomanno e Pipino. Quando il padre morì, Carlomanno aveva trent’anni. Era un uomo ascetico e impulsivo. Pipino, detto il Breve per la sua bassa statura, era più giovane di tre anni e aveva un carattere docile e bonario. Tra i due fratelli il Regno fu spartito così: Carlomanno ebbe l’Austrasia, Pipino la Neustria, la Borgogna e la Pro-venza. Entrambi governarono di fatto i loro rispettivi territori come Maestri di Palazzo: i Re merovingi erano sempre più fannulloni, ma seguitavano a cingere la corona. Nel 746 Carlomanno decise di ritirarsi in convento. L’anno successivo, accompagnato da un folto seguito di nobili, si mise in marcia per l’Italia, diretto a Montecassino. Prima volle fermarsi a Roma. Il Papa gli andò incontro e lo benedisse. Poi lo guidò alla tomba di S. Pietro ai piedi della quale Carlomanno depose una tazza d’argento di 30 chili. Il

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Pontefice gli tagliò i capelli e gli mise addosso il saio benedettino. A Monte Soratte il figlio di Carlo fondò un monastero in onore di Papa Silvestro. Quindi si trasferì a Montecassino.

In Francia Pipino era rimasto l’arbitro della situazione. Tutti i poteri dello Stato erano ora concentrati nelle sue mani, anche se ufficialmente essi spettavano al fannullone di turno, l’inetto e malaticcio Childerico III. I tempi erano maturi per rovesciare una dinastia ridotta ormai a un Cottolengo. Pipino lo fece senza colpo ferire, e invocò il Papa perché legitti-masse il gesto. I rapporti tra il maggiordomo e il Pontefice erano cordiali. Pipino sapeva che su Roma pendeva la spada di Damocle dei Longobardi. Il Papa Zaccaria, dal canto suo, non ignorava che solo il crisma ufficiale della Chiesa poteva consacrare un’usurpazione, gabellandola per un atto della Provvidenza. L’intesa fu raggiunta facilmente. Pipino inviò al Pontefice un messaggio che poneva a Zaccaria il seguente quesito: “È Re chi possiede il titolo ma non detiene il potere, o chi esercita il potere ma non gode del titolo?” Il Papa rispose: “Re è colui che comanda”. Dopo pochi giorni Pipino fu incoronato Re dei Franchi dal Vescovo di Soissons, Bonifacio. Childerico fu rapato e rinchiuso in un monastero.

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CAPITOLO QUINDICESIMO

PIPINO IN ITALIA

QUANDO nel 744 Liutprando morì, sul trono di Pavia salì il nipote Ildebrando che fu spodestato dopo sei mesi. Gli successe il Duca del Friuli, Rachis. Anche il suo regno fu breve. Poco dopo essere stato eletto, stipulò un trattato di pace col Papa, di cui ignoriamo i termini. Nel 749 fu costretto ad abdicare, sotto l’accusa di aver sposato una donna romana invece che longobarda. Ma il vero motivo della sua estromissione era che Rachis faceva una politica clericale, e ciò era bastato a renderlo impopolare. Finì i suoi giorni nel monastero di Montecassino in compagnia di Carlomanno che vi si era ritirato due anni prima.

La corona di ferro passò sul capo del fratello Astolfo, l’ultimo grande Re longobardo. Astolfo sognò l’unità d’Italia, ma non riuscì a realizzarla. Nel 751 strappò Ravenna ai Bizantini. Fu questo un evento di incalcolabile portata storica, non solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa. Con la caduta della città adriatica nelle mani di Pavia, crollò il principale avamposto greco nella Penisola. I Bizantini evacuarono Ravenna, e Roma fu privata dei suoi naturali difensori. Sull’Urbe incombeva ora la minaccia longobarda: la sfida tra il nuovo Pontefice Stefano II e Astolfo era aperta. Dopo Ravenna, capitolarono la Pentapoli e l’Esarcato.

A chi appartenevano questi territori, ora che il rappresentante dell’ Imperatore d’Oriente, l’Esarca, ne era stato scacciato? A questa domanda rispose il Papa: “La Chiesa” proclamò “è l’erede naturale dell’Impero Romano. Se il Basileus è impotente a difendere l’Italia, il Pontefice deve prenderne il posto. Coloro che vi si oppongono saranno dannati”.

Astolfo s’oppose, fu scomunicato, e bandì la persecuzione dei cattolici. Essa infierì non solo nel regno longobardo, ma colpì anche il Ducato romano dove, negli ultimi tempi, s’era costituito un forte partito antipapale sovvenzionato da Pavia. Stefano fu costretto a chiedere la pace. Fu firmata

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una tregua di quarant’anni. Dopo quattro mesi - scrive un cronista ecclesiastico dell’epoca - Astolfo,

istigato dal Demonio, la violò. Ripresero le persecuzioni, e Roma fu sottoposta a un oneroso balzello. Il Pontefice ordinò allora una processione alla quale intervennero il clero e il popolo. Un imponente corteo di uomini scalzi attraversò le vie dell’Urbe. Li guidava il Papa che stringeva una pesante croce sulla quale aveva fatto affiggere il trattato di pace stipulato con Astolfo. Levava alti lamenti e invocava la maledizione divina sul nemico che lo aveva spogliato di un territorio che non gli apparteneva.

La processione non operò lo sperato miracolo. Stefano allora scrisse a Pipino, scongiurandolo di prendere le armi e di marciare, in difesa di Roma, contro Pavia. In cambio gli promise, a nome di S. Pietro, il Paradiso. Il Re gli rispose a stretto giro di posta invitandolo in Francia. Nel frattempo Astolfo invase la Ciociaria, e conquistò Ceccano sul confine del Ducato Romano, tagliando le comunicazioni tra l’Urbe e Napoli dove tuttavia stanziava una guarnigione bizantina.

Il 13 ottobre del 753, il Pontefice partì. Dopo 14 miglia - racconta il Libro pontificale - nei pressi di Vetralla sulla Via Cassia, vide una palla di fuoco cadere dal cielo e precipitare a nord sul territorio longobardo. Il prodigio sembrò di buon auspicio. Nella palla di fuoco, Stefano riconobbe Pipino. Varcati i confini della Lombardia, il Papa fece tappa a Pavia, per tentare an-cora una volta di indurre Astolfo a “restituire” alla Chiesa la Pentapoli e l’Esarcato. La richiesta fu accompagnata da copiose lacrime e da cospicui doni. Il Re longobardo respinse la richiesta, ma accettò i doni, e in cambio autorizzò Stefano a passare in Francia.

Sulla fine di novembre, accompagnato da due Vescovi, quattro presbiteri e due diaconi, il Pontefice attraversò le Alpi, al valico del Gran S. Bernardo. Le cime dei monti erano coperte di neve e le piste gelate. Ai primi di dicembre il corteo entrò nella valle del Rodano, e fece sosta al Monastero di S. Maurizio, dove il Papa trascorse alcune settimane. Pipino gli venne in-contro a pochi chilometri da Ponthion, ch’era una delle sue residenze ufficiali. Il Re franco, accompagnato dal figlio Carlo, giunto al cospetto del Papa, scese da cavallo e si prostrò ai suoi piedi. Era il 6 gennaio 754, festa dell’Epifania. Quindi Pipino e Stefano fecero il loro ingresso nel palazzo reale, ch’era poco più di una spelonca. Nella cappella privata del Sovrano, il Papa indossò il saio benedettino e si sparse il capo di cenere. Poi si chinò ad abbracciare le ginocchia di Pipino, e con la voce rotta dai singhiozzi lo supplicò di indurre Astolfo a “rendergli” l’Esarcato e la Pentapoli. Pipino promise, e Stefano lo incoronò per la seconda volta “Re dei Franchi”. Alla cerimonia intervennero anche la moglie di Pipino, Bertrada, nota alla storia per avere avuto un piede più lungo dell’altro, e i due figli, Carlo e

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Carlomanno, il primo di quattordici, il secondo di tre anni. Anche loro furono incoronati. Dopodiché il Pontefice scomunicò i nemici del Re franco, includendo fra costoro Astolfo. Infine conferì a Pipino e ai figli il titolo di Patrizio, che significava “difensore di Roma”.

Lo scopo della missione di Stefano era quello di promuovere, attraverso una campagna militare franca contro i Longobardi, la “restaurazione” dei territori ex-bizantini a beneficio del Ducato Romano. Astolfo fiutò il complotto, e persuase il fratello di Pipino, Carlomanno, ad abbandonare il suo eremo e a recarsi in Francia a perorare la sua causa. Ma a Ponthion Pipino lo fece arrestare. Carlomanno fu rinchiuso in un convento, dove morì l’anno successivo in circostanze misteriose.

Il Re era favorevole all’impresa, ma alcuni suoi Generali erano contrari. I rapporti con Pavia erano buoni e una guerra comportava grossi rischi. Prima di tentare la sorte delle armi, Pipino volle sperimentare i metodi diplomatici. Spedì un’ambasciata ad Astolfo e l’accompagnò con ricchi doni, chiedendo in cambio l’Esarcato e la Pentapoli. Il Re longobardo, questa volta, respinse non solo la richiesta, ma anche i doni. Pipino convocò allora il Placìto, ch’era l’assemblea generale dei Franchi. In seno ad essa, dopo lunghe discussioni, gl’interventisti furono messi in minoranza dai neutralisti. Costoro non amavano il Re al quale rimproveravano, fra l’altro, la sua bassa statura: Pipino infatti era alto appena un metro e mezzo. Il dibattito degenerò in un vero e proprio diverbio, e un Generale lanciò al Re l’accusa di codardia.

Il Sovrano ordinò a un servo di trascinare in mezzo all’assemblea, che s’era riunita in un’arena, un toro e un leone. Posti uno di fronte all’altro, i due animali cominciarono a dilaniarsi. Al culmine del combattimento, Pipino comandò al Generale che l’aveva insolentito di domarli. Poiché costui esitava, il Re sguainò la spada e si portò personalmente nell’arena. Si avvicinò prima al leone, e poi al toro, e li decapitò. La guerra era dichiarata.

I Franchi e i Longobardi si scontrarono nei pressi di Susa, l’antica città romana situata nella valle omonima. L’esercito di Astolfo fu sconfitto e volto in fuga. Pipino l’inseguì fin sotto le mura di Pavia. La città fu cinta d’assedio e costretta ad arrendersi. Il Papa dettò le condizioni della pace. Astolfo s’impegnava solennemente a restituire la Pentapoli e l’Esarcato alla Chiesa, e il Re franco ripassò le Alpi. Ma durante la marcia di ritorno, fu raggiunto da un emissario di Stefano che gli consegnò un messaggio del Papa: Astolfo aveva stracciato il trattato e s’accingeva a invadere il Ducato Romano. I Longobardi - scriveva Stefano - bruciano le chiese, violentano le monache, bastonano i preti, profanano le tombe dei Santi e ne saccheggiano le reliquie. A questo messaggio ne seguirono altri con appelli sempre più drammatici, alcuni firmati personalmente da S. Pietro. Essi non erano

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indirizzati solo a Pipino, ma anche ai figli, alla moglie, ai Vescovi, agli abati e ai nobili franchi. “Accorrete in difesa di Roma” dicevano “e vi guadagnerete il Paradiso.” Erano un misto di invocazioni, di promesse e di minacce, che ottennero l’effetto sperato.

Per la seconda volta Pipino varcò le Alpi, e per la seconda volta Astolfo fu battuto e obbligato a chiedere la pace. Gli furono imposte le stesse condizioni di quella precedente. Il Re longobardo le accettò. Stavolta non fece in tempo a tradirle perché nel dicembre del 756, durante una partita di caccia, cadde da cavallo, picchiò la testa contro un albero, e dopo pochi giorni morì. La ferale notizia fu comunicata a Pipino da Stefano, che nella scomparsa di Astolfo scorse naturalmente l’intervento della Provvidenza. Sul trono di Pavia fu innalzato il Duca di Toscana, Desiderio.

La scelta fu accolta con favore anche dal Papa, al quale il nuovo Re giurò di restituire tutti i territori ch’egli rivendicava. Desiderio era stato designato alla successione di Astolfo nonostante le opposizioni dei partigiani di Rachis, ch’erano a Corte ancora molto potenti. Per ridurre alla ragione i nemici interni, bisognava propiziarsi quelli esterni; e fra costoro c’erano Stefano e Pipino. Una volta però domati i ribelli. Desiderio rifiutò in parte di eseguire gli accordi sottoscritti dal suo predecessore.

L’annuncio di questo ennesimo, voltafaccia raggiunse il Pontefice nei suoi appartamenti laterani dove da alcune settimane giaceva gravemente malato. Ridotto allo stremo, non ebbe la forza d’invocare un’altra volta Pipino. La morte lo colse il 26 aprile del 757. Era stato un breve pontificato, il suo. Era durato solo cinque anni. Ma erano bastati a fare di Stefano un pugnace assertore del potere temporale dei Papi. Sotto di lui fu confezionata l’impostura storica che fu per secoli la Magna Charta della Chiesa: la cosiddetta “Donazione di Costantino”.

È tempo di rifarne la storia, anche se ci obbliga a un altro salto indietro, perché su questa contraffazione si è basata la politica temporale del Papato, fino al 1870.

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CAPITOLO SEDICESIMO

L’IMBROGLIO DELLE “DONAZIONI”

CON L’EDITTO di Milano del 313 l’imperatore Costantino aveva riconosciuto ai cristiani la libertà di culto. Questo atto non era stato dettato dalla Fede, ma dalla ragion di Stato. Esso era stato il primo passo verso il Cesaropapismo, cioè lo sposalizio, nella persona dell’Imperatore, del potere temporale con quello spirituale. In punto di morte, Costantino aveva rinnegato la religione pagana in cui era vissuto, ma non le idee che avevano guidato la sua azione politica e che i suoi successori, i Basilei bizantini, adottarono e ribadirono. Era stato il primo Imperatore-Papa. La sola autorità che riconosceva superiore alla sua era quella di Dio: e solo perché, non credendo in Lui, non ne temeva la concorrenza. Aveva personalmente designato i Vescovi, che liberamente aveva deposto e scomunicato. Aveva fissato il dogma e la liturgia. Aveva convocato il grande Concilio di Nicea, e lo aveva presieduto. La Chiesa, finché egli visse, era stata uno strumento della sua volontà.

A questa, ch’è la Storia, si sovrappose la Leggenda, tramandata sotto il titolo di “Donazione di Costantino”: una pappardella di cinquemila parole, compilata, se non personalmente dal Papa Stefano, certo su suo suggerimento, e condita di miracoli, anacronismi e menzogne.

Nel 314 - racconta il suo anonimo estensore - un prete di nome Silvestro venne consacrato Papa (che allora significava solo “Vescovo di Roma” senza nessun primato su tutti gli altri Vescovi). L’Urbe era in quei giorni terrorizzata da un drago puzzolente che col fetore del suo alito sterminava gli abitanti. Il mostro abitava una caverna ai piedi della rupe Tarpea, alla quale si accedeva attraverso una scala di trecentosessantacinque gradini. La città era in preda allo sgomento. Nessuno osava affrontare il drago, finché un giorno il Papa si calò disarmato nella tana del mostro e lo catturò.

Dopo alcuni giorni, continua la leggenda, l’Urbe fu colpita da una

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calamità ben più grave: l’imperatore Costantino aveva bandito la perse-cuzione contro i cristiani. Lo stesso Silvestro fu costretto a fuggire e a riparare in una grotta nei pressi del monte Soratte. Qui lo raggiunse la notizia che l’Imperatore era stato colpito dalla lebbra. I medici di Corte erano disperati. Ogni cura sembrava vana. Niente riusciva a lenire le sofferenze di Costantino, al cui capezzale furono convocati i più grandi maghi dell’Impero, che gli ordinarono di immergersi in una vasca piena di sangue spremuto dal ventre di bimbi appena nati. La ricetta era atroce, e Costantino la rifiutò.

La notte stessa gli apparvero in sogno i Santi Pietro e Paolo che gli diedero l’indirizzo di Silvestro. L’Imperatore, credendo che si trattasse di un medico, lo mandò a cercare. Il Pontefice accorse al suo capezzale, e gli somministrò i primi rudimenti della Fede. Costantino, sentendosi meglio, chiese gli altri. Dopo una breve penitenza in cilicio, fu battezzato. La cerimonia si svolse nel palazzo Laterano. L’Imperatore indossò la veste bianca dei catecumeni, e quindi fu calato in una vasca dalla quale riemerse completamente guarito. Le piaghe che gli dilaniavano il corpo erano scomparse, le ulcere si erano cicatrizzate. La persecuzione fu immediatamente revocata, e il Cristianesimo diventò la religione ufficiale dell’Impero. Nuove chiese cominciarono ad essere costruite a spese dello Stato, e di alcune l’Imperatore gettò personalmente le fondamenta.

Un giorno Costantino, sempre secondo la leggenda, ricevette dalla Bitinia una lettera della moglie Elena. In essa l’Imperatrice scriveva che la vera religione non era quella cristiana, ma quella giudaica, e lo invitava ad adottarla. Costantino convocò il Papa e il Rabbino. I tre confabularono a lungo, ma non riuscendo a mettersi d’accordo, decisero di ricorrere al giudizio di Dio. L’Imperatore ordinò allora che fosse condotto al loro cospetto un toro. Si avvicinò per primo all’animale il Rabbino e gli sussurrò all’orecchio un versetto della Bibbia, II toro, come fulminato, piombò a terra, e tutti gridarono al miracolo. Quando fu il suo turno, Silvestro si acco-stò alla vittima e pronunciò il nome di Cristo. Immediatamente il toro morto rizzò la coda e fuggì. L’Imperatore, sconvolto dal prodigio, abbandonò l’Urbe e partì per l’Oriente, dove fondò la città che da lui prese nome. Elena, quando lo seppe, si rifugiò a Gerusalemme.

Prima d’imbarcarsi, in segno di gratitudine, Costantino donò l’Italia e l’Occidente a Silvestro. Fu la prima rata della più cospicua parcella che sia mai stata pagata da un malato al proprio medico. Il conto fu successivamente saldato con il riconoscimento imperiale della supremazia del Vescovo di Roma sui Patriarchi di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli. Il Pontefice ottenne anche le insegne del Basileus: il manto purpureo, lo scettro e la scorta a cavallo. Ciò gli conferiva

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automaticamente la potestà temporale sull’Impero d’Occidente e lo rendeva indipendente da quello di Oriente. Il Clero fu equiparato al Senato e au-torizzato a bardare le cavalcature con gualdrappe bianche; e l’Imperatore depose personalmente l’atto di donazione sulla tomba di S. Pietro.

Questa colossale mistificazione dei rapporti intercorsi tra Silvestro e Costantino, ribadita per secoli dagli storici della Chiesa, dovette aspettare il Rinascimento, cioè un minimo di libertà di pensiero e di stampa, per essere smascherata. Infatti solo nel 1440 l’umanista Lorenzo Valla dimostrò in modo clamoroso la falsità del documento che Stefano nel 757 aveva divulgato per sottrarre la Chiesa al Cesaropapismo bizantino, per salvaguardarla da quello carolingio, e per legalizzare un potere temporale usurpato in nome di Cristo.

Ma nell’Europa dei secoli bui la favola godeva di largo credito, nessuno osava revocarla in dubbio, e forse anche Pipino ci credeva.

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CAPITOLO DICIASSETTESIMO

LA FINE DEI LONGOBARDI

A STEFANO era succeduto il fratello Paolo che ne era stato l’eminenza grigia. La sua elezione incontrò vivaci opposizioni specie nel partito filo-longobardo che a Roma era molto potente L’Iconoclasmo continuava a approfondire il contrasto fra Roma e Costantinopoli. Il Papa, per paura di restare isolato, alla mercé dei Re di Pavia, intensificò i rapporti con Pipino che colmò di benedizioni e di doni tra i quali una grammatica greca, un manuale di ortografia e una clessidra.

Paolo regnò dieci anni, ma li riempì di tali malestri che quando morì non fu rimpianto da nessuno. La sua scomparsa piombò l’Urbe nel caos. Le fazioni rivali, smaniose di raccogliere l’eredità, si sbranarono a vicenda. Il tradimento e il delitto insanguinarono la Chiesa, e Roma si trasformò in un vero e proprio campo di battaglia.

Nel 768, dopo un anno di torbidi, fu eletto Papa un prete siciliano che prese il nome di Stefano III. Nello stesso anno moriva - pare di febbri malariche - Pipino, lasciando il trono ai due figli Carlomagno e Carlomanno.

Carlomanno era nato nel 751 e alla morte del padre aveva 17 anni. Controversa è invece la data di nascita di Carlomagno. Eginardo ne propone tre: 742, 743 e 744. La prima è la più probabile. La spiegazione di questo piccolo mistero anagrafico va ricercata in un’altra data: quella del matrimonio di Pipino con Bertrada. Quando Carlomagno nacque, il Re e la Regina non erano ancora sposati. Presso i Germani primitivi il concubinato era tollerato: niente di male quindi che una coppia avesse dei figli un po’ prematuri. Ma i Franchi si erano convertiti al Cattolicesimo che considerava peccaminose le unioni non sanzionate con l’acqua santa. Eginardo era lo storico ufficiale della dinastia carolingia, come tutti gli storici ufficiali era un cortigiano cauto e ossequioso, e quindi gli seccava dire che il suo Re era

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nato in anticipo sul matrimonio dei genitori. La sua Vita Karoli passa infatti completamente sotto silenzio l’infanzia e la giovinezza di Carlomagno. Solo alla morte del padre, Eginardo aprì su di lui uno spiraglio di luce.

Quando morì, Pipino aveva già diviso il Regno in due parti : l’Austrasia, la Neustria e l’Aquitania erano assegnate a Carlomagno; la Borgogna, la Provenza, l’Alsazia e la Svevia a Carlomanno. Il primo fissò la sua residenza ad Aquisgrana, il secondo a Sampussy.

I rapporti fra i due fratelli non erano mai stati buoni, e sul Regno franco incombeva la minaccia di una guerra civile che avrebbe irrimediabilmente compromesso la faticosa opera di unificazione condotta da Pipino. Il pericolo fu scongiurato dalle manovre combinate del Papa e di Bertrada, che riuscirono a riappacificare i due fratelli. La Regina madre era una donna autoritaria ed intraprendente, che esercitava su entrambi i figli un forte ascendente. Dopo la morte del marito la sua influenza a Corte si era no-tevolmente accresciuta. Partecipava ai consigli dei Ministri, controllava le spese dello Stato, e interveniva personalmente nelle decisioni militari. In politica estera s’adoperò per promuovere la riconciliazione coi Longobardi, e a questo scopo attraversò le Alpi e si recò a Pavia.

Desiderio l’accolse con tutti gli onori. Il soggiorno della Regina in Italia durò pochi giorni, ma le bastarono a combinare due importanti matrimoni : il primo tra Ermengarda, figlia di Desiderio, e Carlomagno ; il secondo tra la figlia Gisila che aveva allora 12 anni e il primogenito del Re longobardo Adelchi. Carlomagno era già sposato con Imiltrude, ch’era stata a lungo la sua concubina. Quando Ermengarda, accompagnata dalla suocera, giunse ad Aquisgrana, Imiltrude fu ripudiata. Il Papa scrisse una lettera indignata a Carlomagno, ma quando Desiderio e Bertrada gli donarono alcune città dell’Italia Centrale egli benedisse l’unione.

A Aquisgrana però, dopo una burrascosa luna di miele, il matrimonio tra Carlomagno ed Ermengarda fu presto sull’orlo del fallimento. La figlia di Desiderio era una ragazza gracile e malaticcia, che non sopportava l’umido clima austrasiano. Non riuscì a dare un erede al marito, e a Corte si diceva che fosse sterile. Nell’estate del 771, nonostante l’opposizione di Bertrada, Carlomagno la ripudiò, rispedendola a Pavia. Quello fu un anno importante. Il 4 dicembre, in circostanze misteriose, all’età di vent’anni, morì Carlomanno. Dopo due mesi, il 3 febbraio del 772, calò nella tomba Papa Stefano. E la scomparsa di questi protagonisti segnò o coincise con la fine della grande tregua franco-longobarda.

A Papa Stefano III successe Adriano I, un diacono romano di nobile origine, sanguigno, generoso e ignorante. Le sue lettere, raccolte nel Codice Carolino, sono un florilegio di spropositi, miracoli e bugie. L’elezione fu accolta con sfavore a Pavia dove il nuovo Pontefice era giudicato un “duro”,

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alieno dai compromessi e fautore di una politica di forza. Nell’Urbe il partito longobardo aveva con tutti i mezzi cercato d’impedire la sua elezione, ma ogni manovra era stata vana. Desiderio allora spedì a Roma tre ambasciatori, con la missione di stringere relazioni amichevoli col Papa. Adriano accordò loro udienza in Laterano. Poi, di fronte alla Curia, accusò Desiderio di tradire i patti. Per tutta risposta, il Re longobardo occupò Faenza, Ferrara e Comacchio, che Astolfo nel 756 aveva ceduto al Papa.

All’aggravamento dei rapporti tra Roma e Pavia, si aggiunse quello delle relazioni fra Pavia e Aquisgrana. Il ripudio di Ermengarda era stato un grave affronto per Desiderio, che in esso aveva scorto il primo passo verso un rovesciamento delle alleanze. Nella primavera del 772, la vedova di Carlomanno; Gerberga, accompagnata dai due figlioletti, attraversò le Alpi e chiese asilo a Pavia. Alla morte del fratello, Carlomagno si era annesso la Borgogna, la Provenza, l’Alsazia e la Svevia, e si era fatto proclamare unico Re dei Franchi, calpestando molti privilegi e quindi provocando altrettanti malumori. Questo concorso di circostanze fece credere a Desiderio che i tempi fossero maturi per vendicare l’onta subita dalla figlia. Nell’autunno dello stesso anno i Longobardi invasero la Pentapoli, s’impadronirono di Senigallia, Iesi, Urbino e Gubbio. Adriano chiese aiuto all’unico alleato che in quel momento era in grado di fornirglielo. Scrisse una lunga lettera a Carlomagno invocando con accenti accorati il suo intervento. Poi apparecchiò la difesa dell’Urbe, fece innalzare barricate, e ordinò di trasferire il tesoro di S. Pietro nelle sue stanze.

A Pavia, i Duchi longobardi seguitavano a lagnarsi di Desiderio. Carlomagno, che aveva appena ricevuto l’appello del Papa, ne colse l’eco e tentò un accordo col rivale. Chiese a Desiderio di restituire al Pontefice quelle città che durante l’ultima campagna militare gli aveva tolto, e, gli offrì in cambio 14 mila soldi d’oro e un numero imprecisato di vasi d’argento. Il Re longobardo rifiutò. Carlomagno allora ordinò la mobi-litazione dei Franchi, e costituì due eserciti: uno l’affidò allo zio Bernardo, l’altro lo condusse con sé.

Il primo varcò le Alpi al Gran S. Bernardo, il secondo al Moncenisio. Desiderio mosse incontro a Carlomagno da Susa, mentre il figlio Adelchi puntò in direzione del Gran S. Bernardo. Il Re franco traverso le Alpi senza incontrare resistenza. I guai cominciarono appena calò a valle. I Longobardi avevano costruito una massiccia catena di sbarramenti. Carlomagno, temen-do una guerra di posizione che avrebbe logorato le sue truppe lontane dalle basi di rifornimento, chiese, ma inutilmente, una tregua. Desiderio aveva vinto il primo round. I Franchi, concentrati sulle rive del fiume Dora, erano letteralmente paralizzati dalle fortificazioni nemiche.

Ma il fronte si capovolse quando a Susa giunse la notizia che Adelchi era

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stato sbaragliato da Bernardo il quale, a marce forzate, si stava ora dirigendo su Pavia. I Longobardi, in preda al terrore, si ritirarono, tallonati dai Franchi ch’erano riusciti finalmente a rompere gli argini. Le truppe di Desiderio giunsero a Pavia stremate dall’inseguimento. Si chiusero nella città e si prepararono a sostenere l’assedio. Esso durò otto mesi, dall’ottobre del 773 al giugno dell’anno successivo. Nell’intervallo Carlomagno si recò in Austrasia, dove aveva lasciato la terza moglie Ildegarda, una principessa alemanna di 13 anni ch’egli aveva sposato dopo aver ripudialo Ermengarda, e il figlio Pipino, un bambino di otto anni gobbo e malaticcio. Dopo alcune settimane tornò con loro al suo quartier generale davanti a Pavia. Nel frattempo Adelchi in compagnia di Gerberga e dei suoi due figli si era ri-fugiato a Verona, dove si trovava una guarnigione longobarda. Carlomagno pose l’assedio anche alla città veneta che immediatamente si arrese. Adelchi riuscì a fuggire. Gerberga e i figli furono fatti prigionieri e rinchiusi in un monastero.

Il Re franco ritornò sotto le mura di Pavia, dove si trattenne sino alla vigilia di Pasqua. Quindi, - accompagnato da un folto seguito di Conti, Vescovi e abati partì per Roma. Il Papa gli mandò incontro una delegazione di cardinali e di notabili che l’accompagnò fin dentro le mura dell’Urbe. Carlomagno comparve a cavallo alla testa del corteo. I Romani, quando lo videro, intonarono un Te Deum di ringraziamento, e a nome del Pontefice gli offrirono una croce e uno stendardo coi colori della Chiesa. Poi tutti mossero verso la basilica di S. Pietro. Quando giunse ai piedi della scalea il Re franco s’inginocchiò, chinò la fronte, baciò il primo gradino, e ripetè il gesto su quelli successivi. In cima al tempio l’attendeva Adriano. Carlomagno e il Papa, che non si conoscevano, si abbracciarono. Entrarono nella basilica e si diressero verso l’altare maggiore dove si raccolsero in preghiera. Il Pontefice celebrò una Messa cantata, poi condusse il suo ospite a rendere omaggio alla tomba di S. Pietro. Il giorno dopo il Papa battezzò alcune centinaia di Romani e di Franchi. Alla cerimonia, seguì una Messa solenne.

Il 16 aprile - racconta il biografo di Adriano - nella basilica di S. Pietro avvenne un fatto storico molto importante. Carlomagno riconfermò al Pontefice la Donazione del padre Pipino, e a titolo personale l’integrò con nuovi territori, alcuni dei quali appartenevano ancora ai Longobardi e ai Bizantini, come i Ducati di Spoleto e di Benevento, Venezia e l’Istria. Il Papa diventava il padrone assoluto di due terzi dell’Italia con la sola eccezione del Piemonte, della Lombardia, di parte del Napoletano e della Calabria.

Gli storici hanno negato l’autenticità di questo racconto che fa il paio con la “patacca” della “Donazione di Costantino”. In realtà Carlomagno si limitò

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a garantire l’incolumità del Pontefice e a difendere i confini del Ducato Romano.

Il Re franco lasciò Roma dopo una decina di giorni per tornare a Pavia, ormai stremata dal lungo assedio e da un’epidemia di dissenteria. Ai primi di giugno la città capitolò. Desiderio con la moglie Ansa e una delle figlie fu fatto prigioniero e rinchiuso nel monastero di Gorbie in Piccardia. Qui passò il resto dei suoi giorni in digiuni e preghiere. Ansa condivise la sorte del marito, e fu relegata in un convento franco.

Così finì l’Italia longobarda, e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all’Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia.

Ma in Francia non c’era il Papa. In Italia, sì.