Storia Di Un Cro Magnon

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Soloparole

 

I Sogni

 

 

 

 

 

 

 

 

Sara

 

 

Storia di un Cro Magnon

 

 

 

 

 

 

 

 

Soloparole edizioni

 

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Qualsiasi altro utilizzo diverso da quanto espresso verrà perseguito a termine di legge.

Capitolo I6

Capitolo II7

Capitolo III8

Capitolo IV.9

Capitolo V.11

Capitolo VI13

Capitolo VII14

Capitolo VIII15

Capitolo IX.17

Capitolo X.18

Capitolo XI20

Capitolo XII22

Capitolo XIII23

Capitolo XIV.25

Capitolo XV.26

Capitolo XVI28

Capitolo XVII30

Capitolo XVIII32

Capitolo XIX.35

Capitolo XX.36

Capitolo XXI37

Capitolo XXII39

Capitolo XXIII41

Capitolo XXIV.42

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Capitolo XXV.43

Capitolo XXVI45

Capitolo XXVII46

Capitolo XXVIII48

Capitolo XXIX.50

Capitolo XXX.51

Capitolo XXXI53

Capitolo XXXII56

Capitolo XXXIII57

Capitolo XXXIV.59

Capitolo XXXV.60

Note.62

 

 

Capitolo I  

La neve cominciava a fioccare. Lì faceva un casino di freddo; penetrava nelle ossa, e lo strato di pelliche avevo addosso alleviava il suo morso ben poco. L’aria ghiacciata mi saliva dolorosamente per ilnaso, ma io ero tutto concentrato a fissare quell’imponente gruppo di bestioni pelosi, che galoppavano aduna decina di metri da me, muggendo selvaggiamente. Provavo una grande ammirazione per queglianimali: tanto forti, feroci, ma anche attaccati alla famiglia, armoniosi quando si muovono assieme. Il miopropulsore, fatto d’osso intagliato, era legato al polso con una robusta striscia di cuoio, e mi apprestavoa scagliare la zagaglia contro il capo dei bisonti…

Così, trentaquattro mila anni fa, uccisi il capo dei bisonti. Fu sconcertante come questo ricordo mibalenò nella mente mentre stavo davanti al computer del mio ufficio, mentre registravo spese e guadagnidella ditta McCartney (aspirapolvere domestici).

Fu la prima volta; successe così. Una delle solite mattine, nel mio solito ufficio, mi ritrovai in mezzo allasteppa fredda di chissà dove e chissà quando. In quarantun anni non avevo mai visto un bisonte dal vivo,i miei genitori erano animalisti, non mi avevano mai portato in uno zoo. Non mi ero mai allontanato daiconfini della mia città e di quelle circostanti.

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Ma ricordai che trentaquattro mila anni prima avevo affrontato il capo dei bisonti con una zagaglia ed unpropulsore d’osso.

Il computer fece un bip. Sussultai sulla mia sedia: errore! Avete cancellato un file dal computer.

Chi l’avrebbe spiegato al principale, adesso? Dovevo aver digitato qualcosa mentre stavo in quellasteppa. Calma, ora: bisognava assolutamente rimediare, o rischiavo il licenziamento, senza nemmenoavere uno straccio di liquidazione. Stava anche per finire il mio orario di lavoro, quel giorno avrei dovutopranzare a casa, mi aspettava la cucina di Carol. Probabilmente avrebbe preparato l’arrosto. Che fame,mi venne! La mia salivazione aumentò al solo pensiero della carne tagliata, cucinata e fragrante, che miocchieggiava sul piatto. Un capogiro, mi misi una mano sulla testa, quasi per fermarla: stavo leggermentestempiandomi, e dire che da giovane ero un gran capellone… Sciocchezze, io ero ancora giovane, soloche ero un po’ stressato. Dovevo sistemare quel trabiccolo infernale di un computer. Dovevo prendermiuna piccola vacanza.

“Linus, cosa succede? Ti senti male?”

Era Marika, la nuova impiegata, arrivata da due settimane. Bella ragazza, paffuta, simpatica, già cidavamo del tu, anche se non ci avevo parlato più di tanto.

“Sto benissimo, grazie”.

“No, è che sei lì terrorizzato davanti allo schermo da dieci minuti. Cos’è, hai cancellato un file?! Macome hai fatto?”

“Non mi dovevano piazzare davanti ad un aggeggio come questo, ho paura solo a toccarlo… non hoancora capito che cos’è un file!”

Marika si sedette accanto a me, si tirò una lunga ciocca ondulata dietro l’orecchio e cominciò ad agitarefreneticamente le dita sul mouse e sulla tastiera. Un bip dopo l’altro. Sono inquietanti i bip dei computer,acuti, freddi.

“Ecco fatto! – disse, trionfante; poi mi guardò accigliata, mi posò una mano sulla fronte, ed io rabbrividii– Vai subito a casa adesso, Linus. Non stai niente

bene”.

Uscii dal fabbricato, timbrai il cartellino e salii in macchina. Già mi sentivo un po’ meglio, ed avevosempre molta fame, il che era un buon segno.

“Ragazza simpatica!” dissi a voce alta, cercando di ignorare il muggito dei bisonti che mi rombava intesta.

 

 

Capitolo II

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L’arrosto era ancora in forno, Carol era in bagno che faceva la doccia, con la radio accesa. Mi tolsi lagiacca, allentai il nodo della cravatta e mi distesi sul divano.

Mi chiamo Linus Morrison, ho poco più di quarant’anni, marito di Carol Page e padre di due figli, Lidiae David Morrison.

Abito in una città che originariamente era un porto mercantile, ma non ho buoni rapporti col mare, anzi,diciamo che lo odio. Mio padre era un orologiaio, mia madre una casalinga; mi volevano molto bene, miavevano mandato ad una buona scuola, mi avevano insegnato le buone maniere.

Uno dei miei più brutti ricordi è il periodo che trascorsi in ospedale, tra i cinque e i sette anni, per via diuna certa malattia del sangue con un nome troppo complicato. Ero un bambino esile, biondo,lentigginoso, lo sguardo perso. Mi facevano esami ogni giorno, di tutti i tipi: in quel periodo, vedevo piùfrequentemente il medico di famiglia che i miei genitori. Non avevo mai pianto, però; solo una volta, e fuuna crisi di sconforto totale, versai lacrime per tutto un giorno e tutta una notte. Un’infermiera mi iniettòuna dose di calmante e rimase davanti a me finché non m’addormentai.

Quando crebbi, i miei capelli s’inscurirono abbastanza, le lentiggini mi scomparvero dal viso ed il miosangue era normalissimo. Escludendo questo, un matrimonio e due figli, la mia vita non ha avuto nullad’interessante. Trovai lavoro alla ditta McCartney (aspirapolvere domestici), e davanti al computer ebbila visione di una specie di tundra, con neve e bisonti.

Squillò il telefono. Carol era ancora sotto la doccia, così mi dovetti alzare stancamente dal divano eraggiungere l’apparecchio all’entrata.

“Chi è?… Con chi parlo?… No, non mi interessa l’offerta, non consumiamo limonata… sa, l’acidità distomaco… No, no, ci credo che è ottima… senta, non mi interessa. Buongiorno”.

A chi poteva interessare l’offerta speciale di una cassa di limonata? Guardai la tavola apparecchiata perdue: sistemai i tovaglioli, poi mi avviai verso il bagno, da mia moglie, e bussai alla porta.

“Sei tornato, Linus? Entra”

Carol aveva addosso un accappatoio azzurro. Chiusi placidamente le palpebre, per godere il caloredovuto ai vapori dell’acqua calda; poi le riaprii lentamente, e guardai la bella donna davanti a me.

Povera Carol, la vedevo così poco, e quando la vedevo non dimostravo di apprezzarla tanto; certo,avevamo le nostre giornate intime, anche le nostre notti intime, ma non mi ritenevo all’altezza di lei, noncredevo di meritarla. Non era colpa mia. Troppo lavoro, troppa stanchezza al ritorno dal lavoro. Anchelei era impegnata, insegnava geografia alla scuola media. Era proprio una bella donna, e io non la facevosentire tale. E così non potevo avergliene troppo a male, se lei nascondeva un amante, un allenatore dipallavolo.

“Hai visto che ti ho fatto l’arrosto, tesoro?” mi disse, cingendomi la vita con un braccio. Annuii.

“Sei bellissima”

“Anche tu. Mettiti a tavola, arrivo tra un minuto”.

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Un minuto dopo, mi trovavo davanti ad una fetta d’arrosto; studiai a lungo le nervature sottili, chericamavano la carne in modo perfetto ed invitante, lo strato esterno, leggermente dorato dalla cottura, ildelicato e finissimo manto d’olio che penetrava nei filamenti, bianchi e profumati.

Una grossa lacrima mi corse giù per la guancia.

“Amore, che succede? Stai piangendo!”

Non mi avrebbe creduto se le avessi detto che mi ero solo commosso per una fetta di carne. 

 

 

Capitolo III  

La sveglia del mio comodino segnava le cinque: due ore dopo avrei dovuto alzarmi e partire di nuovoper il lavoro. Mattina e pomeriggio, lavoro.

Mia moglie, accanto a me, era una bella addormentata, il suo respiro profondo e regolare arrivava al mioorecchio. Mi misi supino; poi cambiai di nuovo posizione e mi misi a pancia in giù, tirandomi la copertafino al naso. Chiusi gli occhi, passai al dormiveglia, poi piombai in un sogno.

Anzi, un ricordo.

Ero un bambino, stavo disteso su un duro letto d’ospedale; avevo una flebo per braccio, le mie spalle eil mio sedere erano martoriati dalle punture d’ago. Stavo divertendomi a contare i pallini luminosi che lefessure delle persiane abbassate lasciano sulle pareti: partivano dal muro accanto al mio letto edarrivavano fino in fondo alla stanza, in file diverse; avevo perso il conto più di una volta, e stavoricominciando ancora da capo.

Si aprì la porta, entrò il dottor Wonder, il medico di famiglia, che tre mesi prima mi aveva diagnosticatola malattia al sangue. Era seguito da una giovane infermiera, la quale mi prese il polso e mi sparò qualcosain vena. Il dottor Wonder, allora, era sulla cinquantina, aveva una folta capigliatura brizzolata e portavadue spesse lenti d’occhiali sopra il naso aquilino. Non provavo assolutamente nulla per quell’uomo, nésimpatia, né paura.

Era venuto per controllare delle scartoffie, e per visionare alcune radiografie in cui distinsi le ossa dellemie gambe e della mia testa; per tre volte il suo sguardo si posò su di me, ed i suoi occhi mi ammiccaronoda dietro le sue lenti.

Mi svegliai di nuovo, controllai la sveglia: le cinque e un quarto. Mi misi a sedere, non assicurandomi seCarol dormisse ancora; da anni non sognavo più

il dottor Wonder, o le infermiere, o le persiane dell’ospedale.

Quell’edificio, davanti al quale passavo in macchina ogni mattina, non aveva più alcun significato. 

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Ciondolai un po’ il capo, che dopo pochi secondi cadde in avanti; passai ancora al dormiveglia eripiombai in un altro sogno.

Ancora un bambino! L’ambiente in cui mi trovavo era di per sé scuro, tenebroso, e molto umido. Lasensazione era di un piacevole tepore, ma un tepore che velava un freddo rigido, come non avevo maiprovato… non saprei spiegarmi.

Ero completamente nudo, e sedevo a gambe incrociate su qualcosa di peloso, una pelle dai fitti pelibruni; i miei capelli biondi erano sporchi, cordosi, mi toccavano le scapole e mi coprivano gli occhi.Dall’odore che mi sentivo addosso, e da come percepii toccandomi, ero cosparso di grasso liquefatto,che andava però solidificandosi.

Davanti a me, un enorme fuoco: forse non sarebbe stato un granché, ma i bambini vedono tutto piùgrande. La luce di quel fuoco illuminava il mio corpicino nudo, e diffondeva ramificazioni d’ombra sulsoffitto irregolare, come di roccia. Alzai lo sguardo e fissai il soffitto: colsi alcune linee più scure checominciavano a distinguersi dalle ombre, seguite da linee gialle e rosse.

Una grossa linea nera spiccava, sinuosa ed ininterrotta, circondando un’estesa macchia gialla eterminando con un’appendice ramificata. Ecco, mi apparve la visione d’insieme: sopra la mia testa sporcaun lungo caribù dalle poderose corna, con ventre giallo e zampe rosse, mi fissava con un piccolo occhioscuro.

“Carol!!” esclamai spaventato, scrollandomi dagli ultimi residui di sonno. Fui sicuro che ciò che avevosognato era un ricordo, proprio come quello dell’ospedale.

Le sette e due minuti. Balzai giù dal letto, mi recai spedito in bagno; perché Carol non mi avevasvegliato?

Mi fermai davanti al lavandino, non osavo guardarmi allo specchio. Indugiai per qualche istante, indecisosul da farsi; allora aprii il coperchio della tazza e vomitai.

 

 

Capitolo IV  

“Marika, secondo te è grave se uno fa sempre sogni simili tra loro?”

La mia collega distolse lo sguardo dal suo blocco note e mi sorrise:

“Perché?”

“Da più di due settimane mi sogno di stare dentro una caverna tutta dipinta… disegni di animali, caribù,o rinoceronti… cose così. Stanotte, poi, vedevo da lontano uno di quei grossi elefanti pelosi… come sichiamano…”

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“Mammut?”

Mammut, non mi era venuto il nome.

Non mi ero azzardato a parlare dei miei sogni a Carol, tantomeno delle visioni ad occhi aperti. Da duesettimane a quella parte, doveva aver già notato qualche mio cambiamento: proprio a causa di sogni evisioni, mi ero reso conto

di essere più assente del solito.

Non solo lei, ma anche i colleghi dovevano ripetermi una cosa tre volte prima che prestassi loroattenzione; soffrivo da matti il caldo, anche se l’autunno s’avvicinava con velocità allarmante… giravo inmaniche corte, e quando ero a casa passavo ore in giardino a condensare nuvole di vapore.

“Non ti preoccupare – mi disse Marika, vestita con un maglioncino – Anch’io, da piccola, sognavospesso di stare in un castello medievale”

Solo che i miei non sono sogni, l’avrei corretta. Ma non mi avrebbe capito.

Quel pomeriggio mi sentivo comunque particolarmente in forma, ma nel mio ufficio stavo scoppiando dalcaldo. Senza dire una parola, mi alzai dalla scrivania ed andai dal principale, intenzionato a chiedergli diuscire prima… avrei inventato una qualche scusa.

Mentre percorrevo il corridoio che portava alla sua porta, notai un abbassarsi della temperatura.Freddo. Vento, fortissimo. Camminando, facevo uno strano rumore: mi guardai i piedi. Erano avvolti dauna spessa pelle conciata, tenuta insieme da stringhe logore.

Un gran mantello peloso all’interno e cucito grossolanamente mi avvolgeva il corpo; feci per grattarmi ilmento, e la mia mano, mezza assiderata, affondò in una folta barba; con l’altra mano, reggevo unapesante lancia, con punta in pietra.

Aprii la porta dell’ufficio, e il mio riflesso sulla vetrata era quello di un normale contabile d’azienda.

Davanti a me passò un operaio della fabbrica di aspirapolvere, dall’aria molto seccata. Non avevo maiavuto idea di come si fabbricasse un aspirapolvere, considerai.

“Signore, vorrei uscire ora… Questioni familiari”

Niente di più facile; non si era neanche lamentato del mio ultimo scarso rendimento nel lavoro. Usciifischiettando.

Avevo parcheggiato la mia auto piuttosto lontano, e non mi dispiacque farmi una camminata lungo imarciapiedi, per raggiungerla. Stavo aspettando il semaforo per attraversare la strada, quando dalla miasinistra vidi avvicinarsi un bellimbusto, alto, moro e abbronzato.

Era vestito con una tuta da ginnastica di marca, e indossava un paio di occhiali da sole. Sapevo chi era,faceva l’allenatore di pallavolo. Era l’amante di Carol.

“Ciao, Roger” salutai, quando mi passò alle spalle. Lui si fermò, si voltò ed alzò gli occhiali sopra gliocchi:

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“Ci conosciamo?“ chiese; poi inarcò le sopracciglia nere, aveva capito chi ero. Mi squadrò con aria disufficienza e fece per tornare sulla sua strada.

Lo chiamai di nuovo. Quell’idiota si girò e ricevette un pugno in pieno viso. Un dolore terribile per le mienocche, ma ne era valsa la pena; Roger si stava arrabbiando, ora. Non gli diedi il tempo di contrattaccareche gli affibbiai un calcio in mezzo alle gambe, prendendo di punta le palle. In fretta sistemai la cravatta ecorsi dall’altra parte delle strisce pedonali, perché il semaforo stava di nuovo diventando rosso.

Arrivai a casa per cena. Dopo cena, uscii in giardino, ed osservai le prime foglie del platano di fronte alcancello cadere lentamente.

Ero appoggiato vicino alla finestra. Sentii del fiato caldo di lato al mio collo, un fiato animale, rumoroso,spaventevole; esitai nel voltarmi, ma prima di farlo trassi un gran sospiro.

Un orso, un orso gigantesco, stava in piedi di fianco a me, pronto ad agguantarmi coi suoi artigli affilati.Mi ritrovai con una torcia accesa in mano, ma la lasciai cadere per lo spavento.

Gridai così forte che tutti i cani del vicinato si misero ad abbaiare. Carol spalancò la finestra:

“Linus! Che è successo!?”

“Niente, niente” balbettai. Guardai per terra, vidi che la torcia era scomparsa

ed iniziai a ridere; Carol mi chiuse in faccia il vetro della finestra.

Verso le dieci di sera raggiunsi mia moglie, seduta al tavolo del suo studio con la lampada accesa. Miappoggiai allo schienale della sua sedia e le annusai il collo.

Che bel collo aveva Carol! Scostai un po’ i capelli e mi misi a baciarlo, quasi facendo le fusa.

“Linus, ti prego – mi allontanò con la mano, infastidita – devo assolutamente correggere questicompiti…”

Con una manata, feci volare i compiti via dal tavolo.

“Andiamo in camera” disse Carol.

In vent’anni di matrimonio credo che non la feci mai soddisfatta come quella notte. Mi sentivo esploderedi forza, mi davo da fare come uno stallone, sentivo l’irresistibile desiderio di sfinirla prima che mi sfinissiio, di farle mettere al mondo un sacco di figli.

Lei sembrava quasi prosciugarmi di tutte le energie di cui disponevo. Prima di crollarle sopra esausto,emisi un lungo e rauco ululato. Feci ridere mia moglie fino a farle venire le lacrime agli occhi, e miabbandonai tra le sue braccia.

 

 

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Capitolo V  

Sabato, verso l’una e mezzo del pomeriggio.

Carol sarebbe rincasata a momenti, l’attendevo con il cuore in gola.

Dopo una notte simile, il risveglio era stato una cosa dolce per lei. Io fingevo di dormire, e l’avevo vistaalzarsi dal letto molto rilassata, carezzandomi lievemente la spalla…

Adesso, a scuola, avrebbe già saputo della mia aggressione al suo caro allenatore di pallavolo, e nonappena avrebbe messo piede in entrata l’avrebbe colta una sorpresa ancora peggiore.

Non potevo farci nulla, e rimasi ad aspettare seduto al centro della stanza, con le mani imbrattate.

Udii la porta aprirsi cigolando; lei appese il soprabito con furia e in pochi passi arrivò alla soglia:

“Si può sapere che ti è venuto in mente ieri pomeriggio, Linus!? – sibilò – Ti ha dato sul serio di volta ilcervello, se hai picchiato Roger su supposizioni campate in aria!”

Poi il suo corpo, la sua voce, il suo respiro si arrestarono.

Guardò la parete di fronte a me: tutte le stampe cinesi buttate giù dai chiodi, il muro irriconoscibile. Unamandria di imponenti cavalli rossi correva da un angolo all’altro dell’entrata di casa; stampati sulla paretesenza prospettiva, con lunghe code e dritte criniere nere, ventri bianchi ed ampi; fra di loro, dei piccolicacciatori fatti di linee nere lanciavano aste e zagaglie.

Guardò me: vide i miei occhi azzurri sfuggire al suo sguardo, e ritornare ai mucchi di colore nero e rossosul pavimento. Terra, legno carbonizzato ed acqua; sporcavano il parquet e le mie mani.

Ero indubbiamente il colpevole. Non solo le mani, ma anche la mia maglietta e la mia faccia eranomacchiate di colore.

Mi accasciai per terra e singhiozzai sconsolato. Mia moglie rimase muta,

immobile; mi sarei aspettato di vederla fare dietro front e sbattere la porta all’uscita. Avrei compresobenissimo.

Sentii il suono secco dei suoi tacchi avvicinarmisi, le sue mani artigliarono le mie braccia e mi tirarono inpiedi di peso: non volevo guardarla negli occhi, perciò tenni la testa reclinata di lato, sempre continuandoa singhiozzare.

Due schiaffi sonori e brucianti mi presero in pieno viso. Poi, Carol mi trascinò in cucina e mi fece sederesu una sedia; andò al rubinetto e riempì un bicchiere d’acqua.

“Bevi” mi ordinò. Obbedii.

“Perché, Linus? Vuoi mandarmi all’orlo di una crisi di nervi? Prima sembri un ipnotizzato, poi vai in giro

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con la camicia a quindici gradi, poi ancora ti metti a strillare senza motivo… Adesso… adesso questo!”

Stava per piangere anche lei; volli alzarmi dalla sedia e confortarla un po’, per quanto mi fosse possibile:

“Cara…”

“Fermo dove sei – disse con voce inespressiva – Voglio che mi spieghi, maledizione!”

Spiegarle. Non sapevo spiegare nemmeno a me stesso, cosa avrei potuto spiegare a lei? Potevo sempreprovarci, descrivere ciò che sentivo, chiederle di aiutarmi.

“Mi hai tradito con quel Roger”

Che frase infelice.

Di botto, Carol si alzò ed andò al telefono:

“Chiamo l’ospedale”

“No! – esclamai, afferrandole il lembo della giacca – L’ospedale no, ti prego! Ho sbagliato, non lo faròpiù, te lo prometto!… Non è vero che mi tradisci”.

La poveretta fu tanto buona da darmi ascolto; mi fece ingurgitare una dose di valium da stendere un toroe mi mise a letto.

Ero sicuro di avere la moglie più dolce e comprensiva del mondo; avrebbe perfino pensato lei achiamare un imbianchino a sistemare la parete, avrebbe risolto tutto.

Ma quando, il mattino dopo, la svegliai saltando sul letto con una specie di lancia in mano, fatta durantela notte con un ramo del platano e con un pezzo di selce scolpito, arrivai irreversibilmente al suo limite dicomprensione.

 

 

Capitolo VI  

Martedì pomeriggio, invece di andare al lavoro, mi recai al museo di storia naturale.

I miei sogni, le mie visioni e i miei strani impulsi non avevano niente a che vedere con la preistoria deiFlintstones, ma con qualcosa di veramente serio, che mi coinvolgeva in maniera totale, a livello di tutti isensi del corpo.

Entrando in quel museo di storia naturale, magari avrei esorcizzato parte dei miei problemi, avrei avutoqualche risposta. Una vocina sussurrava, proveniente dalla mia mente razionale, che avrei trovato larisposta da un buono psichiatra, ma cercavo di ignorarla.

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In un museo nessuno ti può diagnosticare la schizofrenia o un tumore al

cervello.

Due elaboratissimi leoni, neanche un barocco italiano, aprivano la scalinata di pietra che entravanell’edificio. Entrai, acquistai un biglietto e mi diressi verso la sala di paleontologia. Attraversai vetrinestraripanti di minerali, di conchiglie fossili, una sala con tre mastodontici scheletri di dinosauro; non miinteressava, i dinosauri erano già morti e sepolti quando comparve l’uomo, questo lo sapevo. Mica comedai Flintstones.

Intravidi una vetrina con ciò che mi poteva riguardare: in fondo alla sala due o tre manichini vestiti dipelle erano in diverse posizioni dietro il vetro, come attori su di un palcoscenico.

Volevo leggere tutta la pappardella di scritte posta di fianco alla vetrina; nella sala c’erano soloun’anziana signora e un nipotino, che guardavano la ricostruzione di una capanna.

Il mio breve percorso di pochi metri fu bloccato da un’enorme figura: era il fantoccio, devo dire moltorealistico, di un orso gigante, ritto sulle zampe posteriori, con fauci ed artigli esposti.

Mi tornò in mente l’orso che mi aveva assalito vicino alla finestra di casa, sembrava proprio lui.

Rimasi come immobilizzato al cospetto di quell’animale che tanto mi spaventava. Allucinato, vidi la lungazampa anteriore ondeggiare, poi scagliarsi verso di me, per uccidermi.

Non potei fare a meno di urlare, l’immagine era troppo reale per rifiutarla; prima che il colpo della belvami prendesse, girai su me stesso, perdendo l’equilibrio. Ma subito mi rialzai e fuggii via dal museo distoria naturale.

Riuscii a rientrare nella ditta McCartney (aspirapolvere domestici) con solo pochi minuti di ritardo.Nessuno mi fece domande, tanto erano sicuri che non li ascoltavo.

Tornato a casa, l’atmosfera era di una desolazione unica: luci spente, silenzio inquietante. Trovai unbiglietto attaccato al frigorifero:

“Ti ho lasciato qualcosa nel microonde. Stasera sono fuori per una cena di lavoro, tornerò tardi. Carol”

Una cena con Roger, senza dubbio. Odiai Roger. Ladro di mogli, spione, sportivo di merda.

Telefonai a Marika, dopo aver cercato il suo numero nell’elenco telefonico: la invitai a casa mia, amangiare una pizza.

La ragazza accettò, e non si fece aspettare. L’aveva fatto per assecondarmi, per

non farmi star male, per compassione.

Mangiammo, ci mettemmo a parlare del più e del meno, dei miei figli, del cane di Marika.

Alle undici la mia collega tornò a casa, la ringraziai per la compagnia. Era stata solo una cena di lavoro,ma Carol non l’avrebbe saputo.

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Capitolo VII  

L’autunno era arrivato, e con lui la pioggia. Dall’interno della casa la si sentiva scrosciare nelle grondaie,picchiare contro i vetri.

Avevo le palpebre chiuse, mi godevo il rumore della pioggia mentre stavo in

bagno, in piedi davanti alla tazza.

Reagivo splendidamente alle mie visioni, mi rendevo conto di accettarle ormai come fatti naturali. C’eraqualcosa che mi affascinava nella neve, nel freddo, negli animali selvaggi.

L’unico problema fra i problemi era l’Orso: non mi dava pace, mi perseguitava soprattutto negli incubi.Avevo sfogliato un’enciclopedia in biblioteca, solo per vedere che razza di orso era, non per altro. Dopol’ultimo tentativo di cercare una risposta, non mi curavo più di avere informazioni. Comunque, l’odiosobestione doveva con ogni probabilità essere un Orso delle Caverne, estintosi da migliaia di anni.

Lo scroscio della pioggia e delle mie sostanze fisiologiche fu interrotto da un grido furioso:

“Linus!!”

Carol. Era tornata a casa. Aveva trovato tutto il disastro che avevo lasciato in giro. Mi era propriosfuggito di mente.

Scarti di selce dappertutto, persino sopra il letto; tentativi mal riusciti di bastoni appuntiti (i manici discopa non erano stati facili da lavorare); il disegno di un bisonte dove prima c’erano i cavalli in corsa; incucina, le pareti riportavano le impronte delle mie mani.

Intuii che la moglie si fiondava in camera da letto, tirava fuori un paio di valige e rovistava l’armadio incerca di roba per riempirle.

“Carol, non fare pazzie!” le urlai, mentre mi affrettavo a svuotare la vescica.

Che frase infelice.

“Non sei affatto spiritoso, dannato! – abbaiò lei – Io vado a stare da mia madre, hai capito!? Civedremo, Linus!”

E sbatté la porta dietro di sé. Poi la sgommata dei pneumatici della sua auto, che dopo un poco lasciòspazio al rumore della pioggia.

Uscii dal bagno. Avevo addosso solo un paio di boxer.

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Page 15: Storia Di Un Cro Magnon

Mi avventurai all’entrata, in cui ancora permaneva l’odore di esterno lasciato dallo sbattersi della porta.Appoggiai mani e faccia contro il disegno del bisonte nero, sporcandomi tutto: quella figura mi davaconforto, ci trovavo qualcosa di magico.

Dopo cinque minuti me ne staccai e guardai l’orologio da muro; era molto

deprimente dover uscire per andare al lavoro con un tempo come quello, in cui non si vuole altro chestare tra le pareti domestiche.

D’altronde avevo bisogno di uno stipendio.

Andai in camera, mi infilai dei calzini, un paio di pantaloni, la camicia ed una cravatta marrone. Stavoltamisi anche la giacca. Presi un ombrello accanto alla porta d’entrata e mi recai all’autorimessa, dopo averchiuso a chiave.

 

 

Capitolo VIII  

Alla ditta McCartney (aspirapolvere domestici) mi accolse il principale in persona.

Lo salutai con la dovuta reverenza e finsi di avviarmi al mio ufficio, ben sapendo che mi avrebbe fermato.

“Signor Morrison – disse il caro vecchio – mi segua un secondo nel mio studio”

“Signorsì, signore!”

“Come?”

“Signorsì, signore!”

Sorrise debolmente. Aprì la porta, mi fece entrare per primo e mi fece sedere di fronte a lui; non miavrebbe licenziato.

Il principale cominciò a dire qualcosa, ma non lo ascoltai: stavo guardando le mie mani.

Tremavano terribilmente, mi facevano quasi pena. Potevo addirittura vedere lo strato di gelo sopra diloro. Cercai di infilarle sotto il pesante mantello di pelliccia cucita che mi avvolgeva.

Al posto della cravatta avevo un filo di budello con alcuni ciondoli appesi, dei denti di lupo; dietro ilcollo, i capelli lunghi fino alla schiena si impigliavano nella collana, tirando.

Devo andare dal barbiere, pensai.

“Morrison! Mi sta ascoltando?”

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Page 16: Storia Di Un Cro Magnon

Mi riscossi, con le mani nascoste sotto la giacca:

“No, signore, mi scusi…”

“Lasci stare – sospirò – Mi dica, ha qualche problema con i colleghi, da un po’ di tempo a questa parte?Si trova male nel suo ufficio?”

“Va tutto benissimo, mi creda. Non ho problemi a lavorare per voi”. Non potevo lamentarmi del caldo.

“E’ sempre stato un ottimo dipendente, Linus, posso chiamarla Linus? E sono sicuro che continuerà afare un impeccabile lavoro; la McCartney ha bisogno di uomini come lei”

“Ma non dica sciocchezze, signore”.

Era andato tutto liscio come l’olio. Mi sistemai alla mia scrivania ed accesi il computer; un promemoriami diceva di fare certe fotocopie.

Notai che il posto di Marika era vuoto… già, si era presa un giorno di vacanza, come ricordai subitodopo.

Stavo per uscire dall’ufficio per quelle fotocopie, quando proprio lei aprì la porta.

“Ehi, Linus! – salutò – Avevo dimenticato qui alcune carte da farmi a casa… Vai a fare quellefotocopie? Bene, bene… se vuoi te le stampo io, tu continua pure”.

Veramente carina e gentile, Marika. Le affidai le mie cose, ma invece di tornare a sedermi uscii nelcortile interno, a prendere una boccata d’aria. Aveva smesso di piovere da un quarto d’ora.

Mi trovai di fronte alla macchina sportiva della mia giovane collega: verde metallizzato, probabilmentenuova. Qualcosa si muoveva sul sedile posteriore: sbirciai all’interno.

L’Husky di Marika. Era un gran bel cane, con occhi azzurri come il cielo sereno e la pelliccia bianca eargento; pareva un lupo.

Povera bestia, per un lupo non doveva essere bello stare dentro una macchina; aprii lo sportello e lo feciuscire. Gironzolò lì intorno, fiutando l’aria, scodinzolando e mugolando; sorrisi compiaciuto.

Il lupo si accostò alla mia auto, alzò la zampa e fece pipì contro la ruota. Mi avvicinai per scacciarlo,quando mi ricordai che nel bagagliaio conservavo una lancia riuscita abbastanza bene, con una punta diselce nuova nuova. Il lupo aveva una bellissima pelliccia.

Aprii con cautela il bagagliaio, afferrai la lancia e la puntai contro la mia preda; l’animale ringhiòsommessamente e, con uno scarto, corse via.

Mi sentivo folle di eccitazione. Lo inseguii di corsa, sempre con la lancia puntata, e lo raggiunsi in pochefalcate: sferrai un colpo senza dover mollare la mia arma.

Un acuto guaito irruppe nel cortile dell’azienda, assordante, ma nessuno parve sentire nulla. Colpii il lupoaltre due o tre volte. Servendomi degli orli taglienti della selce, praticai qualche taglio nei punti giusti esfilai la pelle della bestia; già che c’ero, cavai i denti canini per la mia collana e li misi in tasca.

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Page 17: Storia Di Un Cro Magnon

Tolsi la giacca, gettandola a terra, e mi coprii con la pelliccia bianca e argentata, ancora sanguinolenta:ero felice.

In fretta e furia salii in macchina, abbandonando la carcassa scuoiata della preda vicino all’auto diMarika; imboccai il vialetto d’uscita e fui in strada. Mi ero scordato di timbrare il cartellino, ma pazienza.

Ad un incrocio, però, mi ritrovai davanti l’Orso delle Caverne: come al solito gridai, e sterzai di colpo ilvolante facendo un testa coda.

L’automobilista dietro di me scese dalla sua vettura, probabilmente per vedere che cosa mi avevaspaventato tanto; non avevo voglia di discutere.

Qualche manovra, e ripartii.

 

 

Capitolo IX  

Da due giorni, dopo la mia prima caccia, non mi facevo vedere in ufficio. Non avevo arricchito la casacon altre immagini magiche, né mi ero azzardato a fabbricare un’arma. Mi mancava terribilmente Carol.

Guardando la pelle dell’Husky appesa in cucina a seccare, mi prese del vero e proprio rimorso. Tornòla vocina, a dirmi stavolta chiaro e tondo che stavo impazzendo; non era possibile, tutti quei fatti avevanoun significato…

‘Sì, significano che ti sei bevuto il cervello’

“Chiudi il becco” dissi alla vocina.

Povero cane; ammazzarlo così crudelmente per tre peli e quattro denti. E povera Marika, chissà comec’era rimasta!

Dovevo darmi una calmata, e non crollare a piangere come altre volte… Bastava mettersi d’impegno, esarei tornato il grigio impiegato di prima.

Presi la pelliccia di cane, conciata e pulita, e me la legai intorno alla vita, cingendo i fianchi. Mi diressiverso l’entrata, verso il telefono. Passai davanti allo specchio: con solo quella pelle addosso facevo uncerto effetto. Non mi ero mai accorto di avere tanti muscoli guizzanti, nascosti sotto la mia corporaturamingherlina.

Ero anche trascurato: i miei capelli, spettinati, andavano in tutte le direzioni e la barba cresceva come l’erba cattiva. Avevo preso l’abitudine di tenere la bocca semiaperta.

Composi il numero telefonico di Marika. Mi rispose la segreteria telefonica: potete lasciare un messaggio

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Page 18: Storia Di Un Cro Magnon

dopo il segnale acustico.

“Sono Linus… Mi dispiace per il tuo cane, Marika, davvero. Se ti spiegassi come è successo non micrederesti mai; non ti chiedo di perdonarmi, volevo solo che tu sapessi che mi sono ripreso, sonopentito…”

Il segnale acustico di fine chiamata mi bloccò. Abbassai la cornetta e mi guardai intorno: ero ancora nellasteppa ghiacciata, in lontananza vidi un

grosso Mammut.

Decisi di ascoltare la mia vocina: avrei parlato con un dottore.

Fu una gran fatica, in quel momento, vestirmi. Misi dei vecchi jeans ed una camicia di tela. Ancora piùtriste fu separarmi dalla pelliccia di lupo.

A pochi isolati dal mio quartiere c’era un ambulatorio medico. Mentre mi ci avviavo a piedi, iniziai adomandarmi che cosa avrei detto al dottore. Gli avrei parlato delle mie visioni, del caldo che avevoquando non c’erano? Ecco, avrei detto che mi sentivo sempre distratto, che ero tormentato da incubi emezze verità del genere.

In fondo, volevo solo parlarne con qualcuno, e non pretendevo una cura: bastava che mi controllassi io.

La sala d’aspetto era vuota, ed entrai titubante nello studio; il dottore, alto, sulla sessantina d’anni,leggeva alcune carte, e mi disse di accomodarmi senza alzare lo sguardo.

“Mi dica, signor…”

“Morrison”

Silenzio. Okay, mi decisi a partire.

Il mio discorso fu breve, forse un po’ troppo vago. Ma il medico non parve avere problemi. Misuròbattito cardiaco e pressione, poi disse:

“Nel peggiore dei casi potrebbe trattarsi di una forma schizofrenica, ma probabilmente è solo un po’esaurito, signor Morrison. Non è il primo caso del genere che mi capita tra le mani, e vedrà che ne usciràquanto prima, se evita forti emozioni e alcolici”

“Io non bevo, dottore”

“Bravo. Senta, mi ha detto che avverte molti sbalzi di temperatura, vero?”

“Beh, diciamo che è così… Normalmente ho molto caldo, ma a volte sento un freddo terribile”

“Allora, facciamo una cosa. Io non le posso prescrivere alcun farmaco, senza una diagnosi certa; puòprendere un qualsiasi calmante, senza eccedere. Comunque, oggi è giovedì… per lunedì deve recarsiall’ospedale e farsi fare un check up completo, per vedere la situazione generale… analisi e tutto. Unmedico, in base ai risultati, le darà adeguate indicazioni. Adesso devo chiudere. Mi faccia sapere, allora”

“Grazie, dottore…”

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Page 19: Storia Di Un Cro Magnon

Dopo la visita camminai, camminai ed arrivai fino al mare. Solo in fondo si scorgeva in ormeggio qualchebarca privata, ma la mia parte di molo era deserta; mi accucciai all’orlo, guardando il mio riflessosull’acqua verde e opaca.

Un check up all’ospedale… l’idea non mi allettava affatto, ma era la cosa migliore, se lo aveva detto ilmedico.

Mi resi conto che non potevo resistere, in quella casa vuota e grottesca, fino a lunedì. Se entravo, o miveniva in mente Carol o altri ricordi di migliaia di anni prima.

Chiusi la bocca semiaperta. Avevo bisogno di qualcuno che mi stesse vicino, su cui potevo contare…pensai a David, il mio figlio maggiore.

 

 

 

Capitolo X  

David abitava dall’altra parte della città.

Adesso aveva vent’anni, se ne era andato in un appartamento in affitto a diciotto; né io né sua madre cieravamo opposti.

Era molto appassionato nel suo lavoro, non come lo era stato con lo studio, e guadagnava una cifrapiuttosto considerevole. Non sapevo ancora che il mio stipendio, in confronto al suo, era ben poco.

Da quando il ragazzo aveva levato le tende, non ci eravamo più messi in contatto, magari nelle festivitàse ci ricordavamo. Ma non gli sarebbe dispiaciuto di ospitare suo padre a casa per un po’ di tempo.

Avevo con me pochissimo bagaglio… ma non avevo resistito al prendere su la pelle di lupo e qualcheblocco di selce. Il giardino era pieno del materiale, e sarebbe stato difficile trovarne in un appartamento.

La zona straripava di discoteche e vari locali notturni; e quando ci arrivai erano le undici di sera.

Molti giovani per le strade, tutti sembravano fatti con lo stampino. Erano eleganti, firmati, molto ricchi.

Avevo chiesto ad un gruppetto di loro se sapevano chi era David Morrison. Capirono Jim Morrison.Ripetei il nome, ma mi mandarono al diavolo.

La musica proveniente dai locali era ovattata, ma martellante. Mi avvicinai, sempre con l’auto, ad unaltro paio di ragazzi. Sapete dov’è David Morrison? Mi dissero il nome di un locale, un nome francese.

Cercai il locale dal nome francese finché non lo individuai, ma dovetti parcheggiare la macchina molto

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Page 20: Storia Di Un Cro Magnon

più in là. Mentre scendevo, un tozzo cavallo di steppa mi passò davanti, sventolando la coda.

Entrare lì fu come entrare in una bolgia dantesca, era molto più esasperante delle mie visioni… odore di fumo soffocante, spintonate da tutte le parti,

martellio assordante, luci intermittenti, confusione di dialoghi urlati.

La clientela, in quel posto, o forse solamente per quella precisa ora, era prevalentemente femminile. Agomitate, mi misi accanto ad una giovane ossigenata, vestita piuttosto succinta:

“Conosci David Morrison?” le gridai, per farmi sentire.

“E’ quello” rispose lei, indicando un ragazzo su una specie di passerella                      sopraelevata.

Non fu molto piacevole vedere la propria creatura fare uno spogliarello in un locale infernale, al cospettodi una massa di ragazzine urlanti; si toglieva un capo di vestiario ogni mezzo minuto circa, muovendo ilbacino, mandando occhiate come un cretino al suo pubblico.

La sua faccia sembrava quella di un personaggio freddo, senza scrupoli.

Non mi vide, e non volevo certo stare lì fermo ad aspettare che mi vedesse.

Disperatamente cercai la via d’uscita di quel posto: tutto girava, il soffitto sembrava altissimo; dallevetrate in cima, diverse ombre stavano immobili, simili a longilinei alieni.

Quasi quasi mi veniva la nostalgia del mio calmo e silenzioso ufficio.

Rimasi davanti all’uscita sul retro del locale, ed aspettai. Aspettai fino alle quattro di mattina,sforzandomi di scacciare le visioni prodotte dal mio esaurimento. L’aveva detto il medico, che era unesaurimento… ma io non ne ero affatto convinto.

Comunque, quando mio figlio si degnò di uscire, ero già mezzo addormentato, appoggiato al muro. Nonmi vide, e riuscii a svegliarmi in tempo per fermarlo con una mano.

“… papà?” balbettò.

Era in tiro in una maniera sconcertante, almeno per me. D’accordo, aveva dei bei pettorali, ma una felpaaderente come una seconda pelle era così… così… . Pantaloni di marca, giacca di marca, due quintali digel in testa e tre orecchini ad un orecchio, uno al sopracciglio, uno al capezzolo (l’avevo visto durante ilsuo numero).

Ma la faccia era quella di sempre, perfettamente ovale risaltata da due occhi verde nocciola, presi daCarol.

“Ciao, David… Beh…Ti vedo bene. Come stai?”

Mi squadrò, poi girò gli occhi intorno, come per assicurarsi che nessuno lo vedesse parlare con me.

“Che cosa ci fai qui? E a quest’ora?”

“Niente, niente, volevo vederti…”

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Page 21: Storia Di Un Cro Magnon

David si posò una mano sulla fronte; temetti che fosse seccato.

“Lavori qui? – domandai – Come mai?”

“Perché mi piace, va bene? Mi serviranno soldi, no?”

“Non è che ti prostituisci, vero?”

Un largo sorriso malizioso gli spuntò dalle labbra; poi sospirò e rispose:

“Non dire cazzate, papà! Per chi mi hai preso?… No, no, aspetta, non dirmelo! Tu hai paura che miservano soldi per la droga! D’altronde frequento le discoteche, giusto? E tu sei venuto a salvarmi, che so,a farmi disintossicare o chiedermi se voglio un prestito!”

“Ma, veramente…”

“Senti, ti spiego io: le uniche cose che voglio e che m’interessano sono una macchina bella e costosa, uncasino di ragazze, stare fuori tutta la notte e alzarmi a mezzogiorno. E sono tutte cose che ho! Perciò nonvenire qui a…!”

“David! – esclamai – Non hai capito un tubo! Sono io che mi devo far aiutare da te! Tua madre se ne èandata, sono mezzo impazzito e non ho un posto dove andare!”

Il mio primogenito non batté ciglio.

 

 

Capitolo XI  

Un’automobile che era la fine del mondo: non mi azzardai ad immaginare quanto gli era costata. E quasimi venne un certo imbarazzo ad entrarci.

“Non avevi altri impegni, spero” mormorai timidamente.

David, al volante, grugnì.

Le strade si facevano sempre più deserte, ed immerse in una luce innaturale, tra luna piena e lampioni.Sarei andato a prendere la mia macchina il giorno dopo.

In un silenzio quasi palpabile, arrivammo al condominio, situato alla periferia della città; come appresi piùtardi, solo qualche appartamento, compreso quello di David, era abitato.

Presi il mio esiguo bagaglio e seguii il ragazzo all’ingresso. Non c’era ascensore,

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poiché l’edificio aveva solo quattro piani. A prima vista, sembrava una costruzione molto cadente: i murierano strisciati e mezzi scrostati; agli angoli del soffitto si stendevano grosse ragnatele polverose; e c’eraun odore strano, indefinito. Ma il pavimento era lucidato, ed i mobili spolverati.

Stavamo per imboccare gli stretti gradini delle scale, quando la luce dell’atrio si accese e comparve unavecchia megera, in ciabatte sgualcite e vestaglia color vinaccio:

“Ah, è lei, signor Morrison – disse rivolta a David – Chi è questo ‘signore’?”

Aveva detto “signore” tra virgolette! Va bene che ero in maglietta e barba incolta, ma neppure lei avevaquesto bell’aspetto! Avrebbe potuto guardarsi le sue borse sotto gli occhi e i capelli a cespuglio, quellagrassona.

“Signora Tenpenny… Le presento mio padre, Linus Morrison… Rimane da me per un po’ di tempo”

“Bah – borbottò la signora Tenpenny – Poteva essere una di quelle sgualdrine che porta qui, come alsolito!… Siamo stufi di veder andare avanti e indietro gentaglia del genere!” e se ne tornò nello scuroanfratto da dove era venuta.

Salimmo le scale a chiocciola. David mi precedeva, e non lasciava immaginare cosa stesse pensando; adun tratto si voltò e mi sogghignò, in tono complice:

“Quella foca decrepita non sa che mi ero portato a letto anche la sua cara nipotina, ragazza tanto perbene… E’ peggio di una puttana”

“Ne andrai fiero, immagino” commentai. Mio figlio si rabbuiò. Arrivati davanti alla porta, tirò fuori ditasca le chiavi ed aprì la serratura.

L’appartamento era abbastanza spazioso, e piuttosto in disordine.

“Vuoi del whisky?” mi chiese David, tirando fuori due bicchieri dalla credenza. Si era dimenticato chenon bevevo?

“Un po’, grazie” risposi.

Ci sedemmo nel salottino, su due poltrone, con il nostro bicchiere in mano. Poi

David volle delle spiegazioni sulla mia richiesta.

“Non spero che tu capisca – dissi – ma, vedi… qualche giorno fa Carol se ne è andata di casa… micomportavo in modo strano…”

Mio figlio inarcò un sopracciglio. Continuai:

“Lo ammetto io stesso… Non è colpa mia, però. E’ che spesso ho delle… ahm… delle visioni.”

“Delle visioni!”

“E degli incubi”

“Non è che è qualcosa di patologico, vero?”

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Page 23: Storia Di Un Cro Magnon

“Lunedì devo andare in ospedale, per dei controlli… ma il medico mi ha detto che probabilmente sonosolo esaurito… - pensai un po’, poi ripresi – Il bello è che non gli ho detto che queste visioni mi spingonoa fare cose strane… se tu entrassi in casa nostra, vedresti che macello! Per questo tua madre mi hamollato. Ma sono deciso a resistere”.

David stava iniziando a preoccuparsi; mi si avvicinò di più:

“Ma che genere di visioni sono?”

Fui molto sollevato per il suo interessamento. Provai a descrivergli nei dettagli tutto quello che avevovisto e sentito, e continuavo a vedere e sentire.

Quando terminai, fuori albeggiava, ed un uccello canticchiava solitario.

“Fossi in te – esordì David alzandosi dalla poltroncina – sarei impaziente di vedere i risultati del checkup”.

 

Capitolo XII  

Per tutta la notte successiva rimasi a vegliare, accucciato ai piedi del divano. Mio figlio era fuori, e non siprospettava un suo imminente ritorno.

Meglio per lui: non correva il rischio di finire sbranato dall’Orso delle Caverne. Quella bestiaccia stavacomparendo con allarmante frequenza. Sbucava fuori dal buio, a volte camminando sulle zampeposteriori, a volte lanciato in una goffa ma veloce corsa.

Non ero riuscito a resistere: avevo tirato fuori la mia pelliccia di lupo e me l’ero messa sulle spalle,intrecciando la pelle delle zampe in un nodo sul davanti. Dopo qualche minuto andai a prendere dueblocchi di selce e ritornai al mio posto.

Iniziai a scheggiare un blocco sull’altro, in tanti pezzi più o meno sottili, di dimensioni varie; poi li avreisfaccettati e resi taglienti… Era inutile spiegarmi come mi riusciva tanto naturale. Sentivo di saperlo fareda anni… moltissimi anni.

In mancanza di legno, usai una stanga metallica, che serviva a reggere gli asciugamani, come corpo dellalancia: mi ci volle parecchio per attaccarvi saldamente la punta.

Una sveglia non localizzabile continuava a ticchettare, ma non mi rendeva nervoso. Lancia appoggiataalla spalla, aspettai nel buio stropicciando la coda argentea del lupo.

L’Orso delle Caverne tornò di nuovo, più arrabbiato che mai, ruggendo quasi

umanamente. Vidi i suoi piccoli occhi crudeli brillare nelle tenebre, e percepii la sua vicinanza perl’ombra che proiettava su di me e l’odore che emanava. Stavolta non mi sarei lasciato cogliere

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Page 24: Storia Di Un Cro Magnon

impreparato: con un urlo furioso, scattai in piedi e gli lanciai addosso la mia arma, sbilanciandomi inavanti.

La lancia colpì una cassapanca, spaccandone il legno verniciato. Dell’Orso non c’era più traccia. Miavvicinai al mobile, e recuperai la lancia… non avrei potuto sopportare altre apparizioni dell’Orso, perquella notte, dovevo trovare un modo per tenerlo lontano.

“Che stupido! – esclamai – Il fuoco! Perché non ci ho pensato prima?”

Gli animali hanno sempre temuto il fuoco, se ne facevo uno in salotto il mio nemico non si sarebbeavvicinato. Certo, era strano che un orso perseguitasse così una persona.

Stavolta avevo proprio bisogno di legna; mi scervellai più in fretta che potei, quando mi venne in menteun piccolo sgabuzzino dalla porta quasi invisibile.

Qui c’erano vecchie casse, e diverse riviste: dovevano bastarmi per mantenere il fuoco tutta la notte.Cercai disperatamente un accendino, ma non lo trovai. Alla fine diedi fuoco ad un pezzo di cartaaccendendo il fornello a gas: non ci volle molto a far nascere un bel falò crepitante. L’Orso non sisarebbe avvicinato.

Ripresi ad attendere appoggiato al divano, con la lancia in spalla; intanto il fumo si addensava sul soffitto,e cercava una via d’uscita attraverso le fessure. Non mi dava minimamente fastidio, e rimasi fermo atenere gli occhi fissi sul fuoco, affascinato. Il fuoco era temuto e potente, era sacro.

Non mi resi conto di quanto tempo fosse passato quando udii armeggiare velocemente alla serraturadella porta. Che fosse l’Orso delle Caverne? Tenni la mia arma pronta. Non appena la porta si aprì,lasciando entrare la luce ed uscire buona parte del fumo, superai la fiamma con un balzo di cui non misarei mai creduto capace; protesi in avanti la lancia, spalancando gli occhi e scoprendo i denti, per farmiminaccioso.

David, vedendosi la punta di selce davanti al naso, trasalì, tutto pallido in volto; abbassai l’arma e fissai ilsuolo, desiderando di sprofondare sottoterra. Il ragazzo respirò profondamente, e solo in seguito tossìper il fumo.

Si avvicinò al falò di qualche passo. La sua espressione era allucinata, incredula:

“La signora Tenpenny sarà furibonda” commentò con un filo di voce.

 

 

Capitolo XIII  

Davanti a me sorgeva il triste edificio dell’ospedale.

In quell’edificio erano nati i miei due figli, Carol si era operata di appendicite, ed io avevo passato il

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Page 25: Storia Di Un Cro Magnon

periodo più brutto della mia infanzia.

Rallentai, e girai intorno al parcheggio alla ricerca di un posto libero. Erano le nove di mattina di lunedì, emio figlio dormiva beatamente dopo una nottata di pazzie; la sera prima non aveva lavorato, ma i suoiluoghi di lavoro coincidevano  con  quelli  di  divertimento  (sempre  che  la  discoteca  sia

divertimento).

Prima di partire, l’avevo guardato mentre stava disteso sul letto, ancora vestito. Da padre nostalgico,ricordai i giorni in cui lo facevo saltellare sulle mie ginocchia, che aveva pochissimi anni.

Ma d’improvviso mi sovvenne una seconda immagine: ero all’apertura di una larga caverna, dietro unparavento di pelli tese. Sedevo su una roccia, infagottato in pellicce varie; sopra le mie gambe, coperteda pantaloni di strisce di cuoio cucite, un minuscolo bambino ridacchiava, tirandomi i peli della lungabarba. Non era David, quel bambino. Aveva i capelli rossi.

E così, spaventato, arrivai all’ospedale con questa scena ancora in mente. Mi avvicinai al box di vetro, incui un’infermiera svolgeva dei cruciverba:

“Dovrei fare un check up…”

“Nome?”

“Morrison Linus”.

“Aspetti un attimo, si sieda lì” rispose la donna, indicandomi delle sedie. Aveva preso la cornetta deltelefono e iniziò a parlare: capii solo il mio nome.

Seduto su una delle sedie, mi guardai intorno, e la mia attenzione si focalizzò su di un tabellone, in cuierano indicati i nomi dei professori e il campo in cui lavoravano. Notai un certo dottor Wonder: non era ildottor Wonder che avevo conosciuto io, primo perché questo aveva un nome di battesimo diverso, esecondo perché l’altro era morto da dodici anni circa.

Probabilmente era solo un caso, oppure era un parente. Comunque, questo dottor Wonder aveva unmucchio di specializzazioni, un vero e proprio cervellone.

L’infermiera del box mi fece un cenno, e mi disse di andare in un corridoio a sinistra e aspettare. Feciquanto indicato, con un opprimente senso di insicurezza.

Da una porta uscì un giovanotto di circa trent’anni, con un lungo camice

immacolato ed occhiali in montatura d’oro: era un po’ pelato.

“Lei è Linus Morrison? Sono il dottor Wonder” disse con voce acuta e squillante, stringendomi la mano.

Quello era il cervellone! Porca vacca!

“Mi occuperò personalmente dei suoi esami, signor Morrison” continuò il giovanotto, guardandomiattentamente negli occhi. Mi domandai come mai un semplice check up dovesse farmelo un professoronedel suo calibro, ma non esternai la mia perplessità.

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Il dottor Philip Wonder mi condusse nel suo studio medico, e mi fece accomodare davanti alla suascrivania.

“Mi tolga una curiosità – dissi – non è per caso parente del dottor Bernard Wonder?”

Quello si sistemò gli occhiali e squittì:

“Lo conosceva, vero? Sì, era mio padre. Ho avuto da lui la passione per la medicina… Comunque, mihanno informato che lei accusa allucinazioni, sbalzi di temperatura e cose del genere, giusto?”

“Sì… spero che non mi dirà che sono pazzo”

“Oh, non si preoccupi… esaminerò a fondo…” rispose in tono pensoso, come se fosse sognante.

Cominciò con i soliti esami di un ambulatorio, e poco dopo entrò un’altra dottoressa, di cui non afferrai ilnome. Aveva i capelli biondi, i lineamenti marcati e le sopracciglia perennemente aggrottate.

Con molta freddezza, mi portò in un’angusta saletta e mi fece tirare su una manica, per il prelievo delsangue: mentre mi legava al braccio il laccio emostatico, notai che osservava morbosamente la miafaccia… un’orribile sensazione. La puntura dell’ago mi fece l’effetto di un brutto ricordo. Mi sembrò diperdere un litro di sangue.

Sempre con questo stato d’animo, e un sapore amaro in bocca, “posai” per delle radiografie, mi feciattaccare al torace delle ventose collegate ad un aggeggio e pisciai dentro un barattolo. 

Prima di distendermi per fare la tac, fui colto da un gran freddo, tanto che iniziai a tremare: vedevo deifiocchi di neve cadere.

“Cosa succede?” chiese il dottor Wonder, illuminandosi.

“Sto gelando – balbettai… dopo aver esitato un po’ dissi – vedo della neve”

“Della neve… qualcos’altro?” il giovanotto occhialuto era sempre più interessato, fremente.

Strinsi gli occhi, come per vedere meglio:

“Un piccolo animale… una volpe, bianca…”

Il professore tirò giù qualche appunto scarabocchiato, sulla sua cartella.

“Vede spesso animali? Di che genere?”

“Lupi, caribù, bisonti, tori, mammut, topi enormi, cavalli, conigli, uccelli vari e orsi. E’ normale?”. Non mipiaceva il dottor Wonder.

Mi fecero stendere sul piano, ed entrai in quel soffocante tunnel che avrebbe scovato qualche tumoremaligno nel mio cervello. Tenevo gli occhi fissi, guardando la superficie di fronte a me: ben presto siriempì di particolari disegni, forme di mani circondate da aloni di colore.

“Il risultato della tac è perfettamente normale, signor Morrison – disse il dottore dopo che fui uscito –per le macchine, lei non ha nulla”.

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Capitolo XIV  

Per la tac e le radiografie, dunque, non avevo nulla. Però dovevano ancora esaminare il sangue, leurine…

Perché si erano presi tanta attenzione per il mio stupido caso? Il dottor Wonder prevedeva un nuovomorbo psichico? Non era possibile, di pazzi a questo mondo ce ne sono tanti.

Sarei tornato all’ospedale, per ritirare i risultati delle analisi, il più tardi possibile.

Arrivai al condominio di David, dopo aver girato tre volte lo stesso isolato, per ritrovarlo. Alla stradaasfaltata arrivavano delle foglie morte chissà da dove, e l’aria sapeva di erba bagnata, nonostante losmog.

Entrato nell’atrio, m’imbattei nella megera della Tenpenny. Stava lavando il pavimento, e indossava unadeliziosa cuffia verde marcio.

“Ah, è qui, lei” grugnì.

“Buongiorno” miagolai.

“Guardi che di sopra c’è una ragazza… E’ una delle sgualdrine di suo figlio, starà cercando lui; qui non ce la voglio, veda di farla entrare o di mandarla

via”.

Ringraziai la signora per la gentile informazione, e salii le anguste scale. Davanti alla portadell’appartamento c’era sì una ragazza. E anche molto carina, avrà avuto diciassette o diciotto anni.Aveva capelli scuri e lisci, lunghi fino alle scapole, e occhi… viola? Poi mi accorsi che portava delle lentia contatto. I lineamenti del viso erano delicati, ma lei era pesantemente truccata (labbra color pece); e ivestiti erano così stretti e corti che sembrava una taglia per bambini… a parte gli stivali.

“E’ il padre di David? – chiese, e mi osservò meglio – Gli somiglia”.

Aprii la porta e guardai dentro: David non c’era, se ne era andato via.

“Entri pure, intanto – dissi – Mio figlio non c’è… non saprei dove è andato”. La ragazza entrò,sculettando.

L’appartamento era un disastro. Il divano e il letto disfatti, roba sui fornelli e la grossa macchia di ceneresul pavimento, a causa del mio falò notturno.

“Ha fatto colazione? Vuole un caffè?” chiesi.

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Page 28: Storia Di Un Cro Magnon

“Sì grazie. Davvero non sa dove può essere andato? Mi aveva promesso che saremmo uscitiinsieme…”.

Preparai la caffettiera e mi sedetti al tavolo, di fronte a lei. Chiesi il suo nome.

“Mi chiamo Alice – rispose la ragazza, attorcigliandosi una ciocca sul dito – è con me, che sta”

“Ah, una delle fortunate”.

“Ma lei? Che lavoro fa?”

Mi ricordai di avere un lavoro… da quanto tempo non ci tornavo? Mi venne paura:

“Una ditta di aspirapolvere. Sono venuto qui per cambiare un po’ aria”

“Sua moglie l’ha lasciata, vero? Me lo ha detto David; mi dispiace, sa…”.

La vista di quella giovane donna sulla sedia mi fece venire il desiderio di possederla. In mezzo minuto miaccorsi però che era puro desiderio di procreazione… la mancanza di Carol? O aveva a che fare con lamia fantomatica malattia?

Fatto sta che mi eccitai parecchio, ed avvertii un brusco movimento dentro la

patta dei pantaloni. Imbarazzatissimo, notai che l’aveva capito anche lei.

La presi per le spalle e, inginocchiandomi, la feci stendere sul pavimento. Le tolsi di dosso la maglia e ilreggiseno, scoprendo le mammelle turgide e piccole. Poi le sfilai la minigonna, mentre lei mi sbottonò ipantaloni, ridacchiando sommessamente. Ero sconvolto, terrorizzato e concentrato in quello che facevo.

Agii subito, adempiendo semplicemente alla procreazione; e lo feci più e più volte, spingendo come unmatto, incurvando la schiena e aggrappandomi con le mani alle gambe del tavolo. Lei era moltodisinvolta, come un’esperta.

Dopo poco meno di un’ora, se ne andò dall’appartamento, sempre sculettando e ridacchiando. Mi erodimenticato il suo nome.

Bevvi il mio caffè, ma mi colse una sonnolenza terribile. Probabilmente a causa delle mie notti di veglia.Ma ora non c’era buio, il rumore delle macchine si udiva distinto; nessun pericolo di predatori.

Avevo fatto sesso con la ragazza di David, nell’appartamento di David. Brutta cosa. Mi stesi sul letto esprofondai nel sonno.

 

 

Capitolo XV  

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Page 29: Storia Di Un Cro Magnon

Col sonno, venne il buio. Ma dopo un po’ una luce fioca si fece strada nelle tenebre. Intorno a me sidelineavano una dozzina di volti, rossi e gialli per le fiamme del fuoco; udivo con chiarezza le scintillescoppiettanti, e il lamento della bufera proveniente dall’esterno.

Donne dai lunghi capelli, bambini sporchi, uomini con barbe folte; una vecchia con due denti soltanto.Erano infagottati in strati di pellicce, e mi osservavano attentamente. Un odore indescrivibile ristagnavanell’ambiente.

Guardai in alto, e scoprii il soffitto roccioso ricoperto di immagini, raffiguranti scene di caccia, animaliche sembravano volare, con gli zoccoli penzolanti: per arrivare a disegnarli ci dovevano essere volutedelle impalcature, e molto tempo da dedicarvi.

Io stavo accucciato davanti al fuoco, ed avevo sulle spalle un mantello biancastro, molto pesante, quasinon riuscivo a reggermi sulle gambe. Diverse collane e filari di pendagli e amuleti erano appesi al miocollo, alle mie braccia, alla mia barba ed ai miei capelli; di fronte a me si allungava la carcassa di uncavallo, aperto al ventre. Un numeroso gruppo di mosche e tafani ronzava intorno. Osservai le mie mani,che reggevano l’intestino dell’animale, percorrendolo centimetro per centimetro; come per leggere unaparticolare scrittura, incisa nelle rientranze e nelle protuberanze delle interiora. Mi sentivo tremendamenteconfuso, mentre il gruppo sembrava attendere qualcosa da me.

Scrollai il capo e mi alzai dalla mia posizione. Direttomi verso la fine di quel cunicolo, mi ritrovai in unambiente più ampio: molte stuoie erano stese a terra, e dei paravento m’impedivano la visuale di fuori. Lemie mani erano ancora sporche del sangue del cavallo, le leccai distrattamente.

Fui scosso da alcuni colpi di tosse; notai così che lungo le pareti erano accoccolate altre persone,soprattutto anziani; in mezzo a loro spiccava però un uomo, alto e robusto. Aveva i capelli biondissimi, egli occhi azzurri come un lago di montagna. Mi si avvicinò in pochi lunghi passi, e quando mi fu appressoreclinò la testa di lato. Mi porse una ciotola; un liquido denso e verde che sapevo di dover accettare ebere. Lo feci. L’uomo sorrise discretamente, alzando entrambe le sopracciglia. Mi voltò le spalle ed uscìall’esterno della caverna, nella bufera di neve.

Rimasi lì in mezzo alla “stanza”, aspettando che ricomparisse. Dopo arrivarono le persone che prima miavevano osservato leggere le budella: trascinavano la carcassa del cavallo, tagliata in quarti, e gettarono ipezzi sopra le braci. Io continuavo a pensare all’uomo biondo. Che cos’era andato a fare, fuori, alfreddo, senza armi?

Al vociare si sovrapposero i clacson delle automobili in strada; aprii gli occhi, e vidi lo stipite superioredella porta dell’appartamento. Erano circa le cinque e mezza del pomeriggio, e mi sentivo stanco, stanco,stanco.

Ero soprattutto triste, tanto da aver voglia di piangere; ma non mi veniva. Mi alzai con fatica dal letto etornai nel salotto, vicino alla finestra. Capii di volere una spiegazione che fosse diversa da quella deltumore al cervello o della demenza… ma non ne trovavo nessuna.

Mentalmente, confrontai le facce che comparivano nei miei sogni con quelle dei miei genitori… entrambemi risultavano familiari, come se le conoscessi bene.

Non mi ero mai accorto di quanto poco somigliassi ai genitori; quasi niente. Erano morti a poca distanzadi tempo quando avevo ventidue anni, mio padre per un incidente stradale e mia madre per un ictus.Neanche al loro funerale ero riuscito a piangere, e mi ero profondamente odiato per questo.

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La porta venne aperta, sbattendosi alla parete. Entrò in scena David, furibondo; sembrava lanciarefulmini dagli occhi:

“Alice mi ha raccontato ogni cosa! – urlò – Papà!! Ti sei scopato la mia ragazza! Hai fuso del tutto,stronzo!?”

Non fece cenno al fatto che lei c’era stata senza problema alcuno…

“Si chiamava Alice?” domandai assorto.

Che frase infelice.

David si morse le labbra e mi sferrò un pugno alla mascella. Sbattei la testa contro il muro, ma rimasi inpiedi, con gli occhi chiusi. Leccai il sangue che mi colava dal naso, ed assaporai il suo sapore viscido:ricordai il sangue di cavallo che leccai dalle mani. Ricordai il giovane uomo che mi aveva offerto da beresenza osare guardarmi negli occhi… lo vidi nascere in una caverna, lo vidi giocare sulle mie ginocchia, lovidi cacciare al mio fianco. Quello era mio figlio.

“Porta rispetto per tuo padre, David!!” gridai, affibbiandogli un violento spintone.

“Vattene subito da casa mia!!”

“David…”

“… e crepa!”.

Allora piansi. C’ero rimasto davvero male. Fu inutile cercare di fermarmi.

Mio figlio imprecò, andando in bagno a lunghe falcate.

Quando uscì, cinque minuti dopo, mi trovò ancora lì in piedi, a fissare fuori della finestra, gli occhi ancoraumidi.

“Perché non sei andato da Lidia? – mi domandò – Perché proprio da me?”

Il suo tono non era arrabbiato.

“Lidia? Non posso… lei sta studiando, è quasi una suora, ormai… Non potevo turbarla tanto…”

“Perché, io non provo niente?”

“Non ho detto questo”

“Prima o poi lo verrà a sapere dalla mamma, in ogni caso. Dovresti contattarla”

commentò David.

“Non ho mai capito come le è venuta la vocazione; siamo sempre stati praticamente atei, a casa”

“Tu non mi stai neanche ascoltando, papà!”

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“No”.

 

 

Capitolo XVI  

Una settimana dopo tornai alla McCartney (aspirapolvere domestici) per sentirmi dire che ero licenziato.Niente liquidazione.

Non ebbi occasione di vedere Marika, e ne fui parecchio sollevato. Ancora di più perché sotto la giaccatenevo la pelle del suo cane; era per me un po’ come

la coperta per il Linus di quei buffi bambini di Schulz.

Salii in auto, che era già in riserva, ed avviai il motore.

Passavo gran parte delle mie giornate chiuso nell’appartamento, in preda alle mie visioni; non solo l’Orsodelle Caverne, ma anche il resto della compagnia cominciava a farmi paura, senza un motivo preciso.Sognai diversi miei figli e figlie. Trascuravo sempre di più il mio aspetto fisico, da quattro giorni portavogli stessi vestiti e la barba si allungava a vista d’occhio.

Ma tra le mura del condominio ero in piena attività: ben presto finii i blocchi di selce, avevo un corredodi armi notevole, sebbene non potessi usarlo.

Avevo ritrovato i denti del cane nelle tasche della giacca, li avevo forati ed infilati in uno spago; una voltastavo tentando di accendere un altro fuoco, ma David mi aveva fermato appena in tempo.

Ero quasi sempre da solo. David, che si era lasciato con Alice, trascorreva fuori giorni e notti; mivergognavo al farmi mantenere dal mio stesso figlio…

La cosa più idiota la feci disegnando dei caribù lungo la parete delle scale, cosa che mi tenne impegnatoper delle ore intere. L’odiosa signora Tenpenny diventò una belva, mi minacciò di chiamare la polizia, poiminacciò David, poi mi fece intonacare di nuovo il muro. Ora tutti e quattro i gatti che abitavano nelpalazzo mi conoscevano come il pazzo che disegnava animali sui muri; tra me e la vecchia portinaia c’eraun’antipatia reciproca, in quel periodo.

Frenai di colpo la macchina: mi accorsi di stare per imboccare la via che portava alla casa in cui vivevocon Carol.

Feci retromarcia e tornai sulla mia strada. Accidenti, ero proprio distratto! Avrei potuto benissimoentrare in quella casa, avevo le chiavi in tasca.

Starnutii violentemente.

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“Mi sono preso il raffreddore, maledizione…”

Tamburellai con le dita sul volante, fermo ad un semaforo. Dovevo rientrare in quella casa; potevo farequello che sentivo di fare… anche se era meglio non lo facessi.

Retromarcia un’altra volta. E fermai l’auto sotto il garage, che avevo lasciato aperto.

Avvicinandomi all’entrata, notai che la porta non era chiusa a chiave: era solamente accostata. Forse siera introdotto qualche ladro… Non importava.

Appena entrai, mi vidi davanti la figura del bisonte nero; sospirai, sollevato. Feci qualche passo indietroe mi diressi in cortile: raccolsi molte foglie secche, depositate sull’erba in uno spesso strato, spezzai grossirami dal platano. Tornai, eccitato come un bambino, in casa, ed ammucchiai tutto al centro dell’ingresso.Delimitai il mucchio di combustibile con quattro cerchi concentrici di pietre, ordinate dalle più grandi allepiù piccole, andando verso l’esterno. Soppesavo ogni sasso con entrambe le mani, e lo facevo ruotaretre volte sul pavimento prima di passare al successivo.

Tornai di nuovo in giardino, e stavolta raccolsi della terra e dell’erba. Con queste, entrai nella cucina: uniila terra con l’acqua, pestai l’erba e feci fuoriuscire la linfa verdognola. Due ciotole: una melma marroneed un liquido verde.

Cosa potevo disegnare? Anzi, cosa dovevo disegnare?

Sapevo che non bisognava affidarsi al caso: ciò che avrei rappresentato sarebbe stato qualcosa disignificativo, di magico, non era un divertimento.

Accesi il fuoco, gettando nel mucchio di legna un fiammifero; mentre le fiamme cominciavano a lambire irami, feci sei giri intorno ai cerchi di pietre. Poi mi fermai: mi tolsi i vestiti, e rimasi con solo la pelle di lupointorno alla vita; scelsi una parete candida, libera. La percorsi coi palmi delle mani, poi con tutte lebraccia: sollevai le due ciotole e le tenni sopra il fuoco, dondolandomi sui piedi, ascoltando ogni minimosuono ed annusando ogni minimo odore.

Infine capii cosa dovevo raffigurare. Immersi le dita nel fango, tracciai con sicurezza una linea continua:era un grande animale, molto scuro e peloso; due zanne ricurve ed una proboscide irrealmente flessibile.Era un Mammut, e la sua proboscide indicava qualcosa.

Passai al colore verde, posizionando il dito verso quella direzione; rimasi una manciata di secondi ariflettere. Poi tracciai un circolo, di forma un po’ allungata, con un cerchio pieno al centro: sopra e sotto ilcircolo disegnai due uomini, quello sopra grande il doppio di quello sotto. Di fianco al circolo, tre artigliscuri, artigli di Orso.

Indietreggiai di due metri ed ammirai il risultato finale: mi sentii un artista.

Ma che cosa voleva dire? Quel circolo sembrava non corrispondere a nulla, nulla che potesse riguardarel’ambiente delle mie visioni.

Mi accucciai di fronte al falò e posai a terra le due ciotole, il più lontano possibile l’una dall’altra. Infondo alla stanza vidi qualcosa luccicare al bagliore del fuoco: andai a raccogliere quell’oggetto,sporcandolo di fango.

Era una catenella, con appeso un piccolo brillante. Lo rigirai, portandomelo all’altezza degli occhi, mi

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sforzai a capire da dove provenisse.

Quando il fuoco si spense e la stanza era scura e fumosa, pensai di aver ricordato a chi appartenesse:non era di Carol, tantomeno mio. Era di qualcuno che avevo visto praticamente ogni giorno,precisamente di Marika.

 

 

Capitolo XVII  

Ero in dormiveglia quando David entrò in casa, facendo irrompere la luce del corridoio: mugolaiqualcosa, proteggendomi gli occhi con la mano.

Il giorno prima ero stato a casa mia, ma non ne avevo fatto parola con mio figlio.

“Sei ancora sveglio?” mi chiese.

“Che ore sono?…”

“Quasi le cinque… sono distrutto”

“Fumi spinelli, ho visto… li avevi lasciati sopra il tavolo…”

David rimase zitto un momento, poi si strinse nelle spalle.

“Spero non ti dispiaccia se ne ho preso qualcuno” continuai.

“Non dovresti; non è proprio il caso, già non fumi e stai impazzendo, figuriamoci se…” bisbigliò lui,togliendosi giacca e scarpe e stendendosi sul letto.

“Non ti da fastidio dormire con tutti quegli orecchini?”

“Buonanotte. Dormi”.

Quel pomeriggio il telefono aveva squillato; una voce femminile aveva chiesto di Linus Morrison. Pensaisubito alla collega del dottor Wonder, ma poi riconobbi la voce:

“Marika! – esclamai – Sei proprio tu? Come hai fatto a trovarmi?”

“Ciao, Linus…”

“Sei gentile a telefonarmi!”

“Sono stata preoccupatissima, per te… Non sapevo dove eri finito, poi ho saputo che stavi da tuofiglio… Oh, mi dispiace per il tuo licenziamento!”

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Page 34: Storia Di Un Cro Magnon

“Fa niente, sono contento di sentirti”

“Senti, Linus, dobbiamo vederci. Ti va bene domani mattina, verso le dieci? Alla stazione degli autobus,ti devo parlare assolutamente…”

“Ma certo… devo farmi presentabile, allora!…”

Marika era rimasta in silenzio, e dopo concluse la telefonata:

“Ci vediamo, dunque. Voglio solo che tu sappia che io sono convinta che sei un brav’uomo, Linus…” eriattaccò.

Strana ragazza, non capivo il significato logico di quell’ultima frase.

Se erano adesso le cinque del mattino, tra altre cinque ore avrei dovuto essere alla stazione degliautobus. David si stava già addormentando… ma come faceva con quegli orecchini dappertutto?

Alle otto mi alzai dal divano, sebbene non avessi dormito per tutte le cinque ore. Mi chiusi in bagno efissai la mia immagine allo specchio: a parte due occhi rossi come pomodori, non avevo un aspetto poitanto orribile. Bastava che mi pettinassi capelli e barba, e sarei stato normalissimo. Il mio raffreddorestava peggiorando: sentivo tutto il naso intasato.

Impiegai quasi un’ora per prepararmi, riflettendo un paio di minuti prima di ogni gesto… Uscendo instrada, potevo essere preso per uno che andava al lavoro.

Fui costretto a prendere l’autobus, perché la mia macchina era a secco; niente biglietto, ma c’è unapossibilità su cento di essere scoperti.

Lungo il tragitto osservavo fuori dal finestrino, e quasi non mi accorsi quando il mezzo giunse alcapolinea; sentendo una coppietta ridacchiarmi alle spalle (perché, poi?) me ne resi conto. Scesidall’autobus e guardai intorno. Le dieci e cinque; Marika doveva già essere lì, da qualche parte.

Eccola che arrivava: sotto il cappotto indossava un vestito di lana verde scuro,

lungo fino alle caviglie. Doveva essersi spuntata i riccioli, ed essere un po’ ingrassata: la sua espressioneera molto seria, ma io nel vederla sorrisi.

“Ciao, Linus – disse baciandomi la guancia – Facciamo due passi”.

Iniziammo a percorrere il perimetro della stazione, emettendo nuvole di aria condensata:

“Avevo ascoltato il tuo messaggio alla segreteria, ma non ho potuto rintracciarti

subito…” cominciò. Ruotai gli occhi, cercando di ricordare… certo, il messaggio! Le mie scuse per ilsuo povero cane…

“Oddio, il tuo cane… Mi dispiace Marika, perdonami, tu non sai quanto… Non sai che cosa mi èpreso, quel giorno… Non volevo farlo, davvero…”

Lei mi prese per il braccio, e, invece di sembrare arrabbiata, pareva rattristata… per me, non per

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l’animale. Rabbrividii. Non volevo guardarla negli occhi, ma mi sentii obbligato.

“Ieri ho capito tutto. – disse – Ho saputo che cosa ti è successo, e cosa ti sta ancora succedendo”.Restammo entrambi in silenzio; io ero tutto preso da una profonda angoscia… cosa poteva saperne lei,di me? Tuttavia aveva l’aria di saperne di più.

“Credimi, avrei tanto voluto non immischiarmi in tutto questo… Ma hanno avuto bisogno di me, non ho potuto ritirarmi. Tu… Sapessi spiegarti tutto

adesso!” 

“Cosa diavolo stai dicendo!? Spiegare tutto cosa, e chi ti ha detto…!”

“Conosci il dottor Wonder?”

Quando pronunciò quel nome, mi bloccai di colpo. Non sentivo più saliva in bocca. Un capogiromicidiale. A dieci metri da noi c’era un’automobile parcheggiata: al volante una donna, che fumavaplacidamente una sigaretta… Era la dottoressa di che mi aveva fatto il prelievo del sangue, la collega diPhilip Wonder.

Avrei potuto girare i tacchi e tornare a casa; avrei potuto credere che Marika fosse via di testa emandarla a quel paese; invece mi lasciai condurre fino alla macchina, con le gambe molli.

“Salga, signor Morrison” disse la donna, in tono materno ed autoritario.

 

 

Capitolo XVIII  

Dalla stazione degli autobus all’ospedale erano meno di un paio di chilometri. Li trascorsi tutti come intrance, rigido sul sedile accanto a quello della dottoressa; Marika stava dietro, e rimuginava la faccenda,sconsolata.

Pensai a tutte le ipotesi possibili, che potevano riassumersi in nulla.

“Qualcuno mi può dire che sta succedendo?” domandai, quando la tensione non fu più sopportabile.

“Saprà tutto dal dottor Wonder” rispose semplicemente la guidatrice. Marika sospirò e mi mise unamano sulla spalla: il contatto mi diede fastidio, e mi ritrassi.

Il triste edificio ospedaliero fece capolino all’orizzonte; l’auto entrò nel parcheggio e spense il motore.

Le mie due accompagnatrici ed io uscimmo dalla vettura; entrammo per l’entrata principale,attraversammo il corridoio. Al box di vetro c’era l’infermiera dell’ultima volta: mi guardò distrattamente,poi tornò ai suoi cruciverba.

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La dottoressa, che precedeva me e Marika, svoltò quattro o cinque angoli ed arrivò ad un piccoloascensore (era scritto ‘riservato al personale’); l’abitacolo era piuttosto stretto, e il silenzio da parte diciascuno rendeva l’atmosfera ancora più soffocante. L’aggeggio si fermò al secondo piano sottoterra:ancora qualche corridoio, e poi ci trovammo in una stanza vuota, bianca, con solo un divanetto. Ogniparete, inclusa quella da cui entrammo, aveva una porta di metallo.

Quella di sinistra si aprì e comparve la figura del dottor Wonder, con il suo camice immacolato e il suosorrisino da roditore:

“Morrison! Eccola qui – esclamò – No, no, non si spaventi! Adesso avrà risposta a tutte le domandeche sicuramente si sta facendo”.

Poi mi si avvicinò, con aria ammiccante… senza volerlo, gemetti.

“E’ un uomo molto prezioso per noi… posso dare del tu? Quindi stai calmo e rilassati, se no non va…”

Un infermiere sbucò dalla porta di destra e chiamò il professore. “Torno subito” mi disse, e scomparvein quell’altra stanza, assieme alla collega. Prima Wonder

non mi era piaciuto, ora mi faceva paura.

Ero solo con Marika in quella specie di anticamera: non sapevo come comportarmi, se esserespaventato, curioso o incavolato.

“Non potrei denunciarli per sequestro di persona, eh?” le chiesi.

“E’ molto più di un sequestro di persona, Linus… - rispose lei con voce rotta – E comunque andare allapolizia sarebbe inutile; tu non immagini neanche…”

Capii che ognuno stava facendo un discorso per conto suo, allora lasciai perdere. Un prurito al naso;starnutii con violenza. La ragazza mi porse un fazzoletto.

“Entra, Linus… niente panico” disse il dottor Wonder dalla porta. Feci per raggiungerlo, ma prima mivoltai verso Marika:

“Tu non vieni?”

“E’ meglio di no…”.

La stanza aveva l’aspetto di un laboratorio: un lungo bancone occupava tutta una parete; scaffali convetreria di ogni genere, provette, beute, contenitori e contagocce dalle forme più svariate; da un’altraparte barattoli di vetro etichettati contenenti chissà cosa; e per finire qualche computer qua e là.

L’infermiere era in fondo, e stava consultando una cartella fitta di dati.

Il dottor Wonder e la dottoressa mi condussero in una stanza adiacente più piccola, accesero la luce; alcentro di questa, una teca di vetro collegata a fili elettrici. Dentro la teca c’era qualcosa che al primoimpatto dava l’idea di un mucchio di stracci.

Invece era un uomo, un uomo mummificato e rinsecchito, conservato dal freddo; era messo in posizione

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fetale, con le ginocchia che quasi toccavano il mento. Penso che la mia temperatura corporea si elevò dicolpo, alla vista di quell’essere.

“Da settantacinque mila a diecimila anni prima di Cristo…” parlò Philip Wonder. Da una parte volevoche continuasse, dall’altra sentivo un impulso a scappare via.

“L’ultima grande glaciazione, detta glaciazione del Wurm. Praticamente tutti i continenti, postidiversamente da adesso, sono ricoperti di neve e ghiacciai… In Europa vivono animali delle più diversevarietà: Mammut, rinoceronti lanosi, lupi, orsi, renne, uri e bisonti. E un uomo, ormai estinto, detto uomodi Cro Magnon ”.

Ma si era preparato tutta l’antifona?

“Praticamente uguale a quello attuale, differente per pochissimi geni. E’ un nomade, non conosceagricoltura, allevamento, ruota… vive di caccia. Il primo degli artisti, dipinge, scolpisce la pietra el’avorio”.

Dovevo ammettere che quel bel discorso da testo scolastico aveva qualcosa a

che fare con le mie visioni…

“Eccolo – disse Wonder, ponendo una mano sopra la teca – Osserva bene, Linus”.

Mi chinai su quel povero corpo rinsecchito, provando quasi pietà.

Era coperto da varie pelli cucite insieme, i fili erano straordinariamente visibili… Aveva una profondaapertura al torace, anzi, uno squarcio, che partiva dal costato e finiva alla base del collo. Ma ciò che piùmi terrorizzò fu il suo viso: non per l’espressione di estrema sofferenza, bensì per le sue fattezze…

Non era possibile che un viso vecchio più di diecimila anni fosse rimasto così intatto; e nemmeno cheavesse il mio stesso naso, il mio stesso mento, la stessa attaccatura dei capelli, la stessa bocca, la stessa fossetta tra le

sopracciglia…

C’ero io, dentro quella teca?     

Boccheggiai, trattenni il respiro, impallidii come un cadavere:

“S… sono io…”

Una fitta bruciante mi percorse dal basso torace al collo; allora impazzii, di dolore e di angoscia. Non sose urlai, nella mia testa irrompevano rumori tutti insieme: il muggito dei bisonti, lo scroscio della pioggia, ilvento che soffiava, i lampi, la porta di casa che veniva sbattuta, lo scoppiettio del fuoco, i clacson e leimprecazioni degli automobilisti, il ridacchiare della coppietta, la martellante musica della discoteca, ilruggito dell’Orso delle Caverne.

Tutto il mio corpo tendeva all’uscita di quella stanzetta, le mie gambe mi portarono ad oltrepassare laporta. Poi uscii dal laboratorio, sempre più veloce: l’infermiere non riuscì a fermarmi.

Arrivai all’anticamera bianca, distinsi confusamente la figura di Marika, che mi fissava terrorizzata. Le

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afferrai un polso, scartai verso la porta metallica mai aperta; mi accorsi che lei non cercava di frenarmi,ma correva insieme a me. Una rampa di scale di marmo, portava verso l’alto, la luce, l’aria aperta.L’odore del gelo e della morte sembrava volersi attaccare ai miei polmoni.

Percorsi i corridoi alla cieca, come un animale braccato, ma continuavo ad aumentare la velocità.Marika ed io passammo finalmente in mezzo alla gente, pazienti, dottori in camice, in mezzo alle barelle.Raggiungevamo ormai la porta d’uscita.

Uscito dal parcheggio dell’ospedale, non smisi di correre, anche se il fiato se ne stava andando del tutto;sempre tenendo Marika, fuggii per strade, incroci. Infine i piedi si rifiutarono di andare avanti. Eravamo inun vicolo, stretto tra due edifici e sporco, che dava un certo senso di riparo. Mollai il polso della ragazza,e poggiai la schiena contro il muro, ansimante.

“Linus, ti prego, cosa…” balbettò Marika.

“Zitta!… Non ho voluto sapere niente – sibilai – quello che ho visto è bastato…”

Era in arrivo un’altra crisi di pianto; infilai le dita tra i capelli, li tirai fino a farmi male. Alzai gli occhi,guardai Marika tutta preoccupata: le feci una carezza.

“Addio, bella”.

E, non so con quale forza, corsi via.

 

 

 

Capitolo XIX  

Uno starnuto dietro l’altro; per dirla con un’espressione fine, mi sentivo soffocare nel mio stesso muco.

Vagavo per i quartieri come un morto vivente, respirando disperatamente con la bocca. Non saprei sefacessi più spavento o più pena… E andavo avanti così da circa quattro giorni (o cinque?). Non volevoavere contatti con nessuno, evitavo la vicinanza della gente: sapevo di non essere pazzo, ma se non lo erolo stavo diventando ogni ora di più.

Tutto quello che avevo visto, il laboratorio, la mummia, era stato reale. Temevo di essere trovato, magaripreso con la forza; poi mi dicevo che erano sciocchezze, non potevano, contro un libero cittadino!

Il giorno dopo la mia fuga avevo rincontrato Marika, mentre giravo per il parco. Lei mi vide, ed ioscappai, arrampicandomi addirittura su un albero; non avevo intenzione di darle corda, mi ero comesentito tradito.

“Mio Dio, Linus, che ti sta succedendo? – piagnucolava lei, cercando di scorgermi tra i rami ancora

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pieni di foglie – Non essere arrabbiato con me… Ti giuro, mi hanno costretta a raccontare del… del tuostrano comportamento, e poi mi hanno minacciato di non farne parola a nessuno… hanno molti mezziper…”

“Chi?” aveva chiesto la mia voce dall’albero.

“Il dottor Wonder e la dottoressa Allister! E i loro collaboratori… ero andata a casa tua, giorni fa, ealcuni di loro erano già lì… non ho potuto…!”

“Vai via, Marika! Lasciami in pace, non voglio sapere niente!! Lasciami stare!”

Mi lasciò in pace. O meglio, in realtà continuò a cercarmi per tutti i giorni seguenti, ma evidentementenon mi trovò… mi stava cercando anche David? Almeno era un po’ preoccupato?

Non ci pensavo molto: quando non ero in balìa delle mie visioni, avevo in mente solo il cibo.Fortunatamente, avevo in tasca qualche soldo, perché tornare in appartamento o a casa non miazzardavo neanche. Niente di che; mi comprai appena un panino il secondo giorno. Passò poi il terzo, e ilquarto, e il quinto… giunto a quel punto, il pensiero del cibo rimase di sottofondo: infatti mi assalì unafebbre spietata. Passai una giornata seduto su una cassa, dentro al vecchio porto; la notte iniziai a tossiree tossire; mi sembrava di dover sputare i polmoni. Tossivo così violentemente che nel raggio di ventimetri non si avvicinava forma vivente.

“Vidi” molte altre volte mio figlio, quello biondo… scoprii che non era né il primo né l’ultimo. Ce neerano parecchi altri, di età e sesso assortiti; una bambina in particolare era deliziosa. Aveva un visoestremamente intelligente e furbo; mi sembrava di avere con lei un rapporto più tenero e confidenziale.

La tosse e la febbre si facevano sempre più insopportabili, e si rifece vivo il dolore al torace. Misbottonai la camicia, ma non avevo tagli o lesioni di nessun tipo; che fosse un accidente interno? Unprincipio di infarto?

Quando vidi tutto appannato, mi dissi basta.

Fu tremendo cambiare due autobus e farsi un bel tratto a piedi fino a casa di David, nelle mie condizioni;gli ultimi metri per raggiungere l’entrata del condominio mi diedero il colpo di grazia. Era come se i mieiocchi percepissero solo le luci e le ombre…

Sentii dei passi affrettati raggiungermi; svenendo tra le braccia di quella

persona, pensai a Carol.

 

 

Capitolo XX  

Il mio mancamento durò in effetti pochi istanti; tuttavia continuai a rimanere quasi incosciente. La

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persona che mi aveva soccorso si era messa il mio braccio attorno al collo, e tentava di trascinarmi super le scale; lasciai la mia testa abbandonarsi e appoggiarsi al corpo. La voce della vecchia e corpulentasignora Tenpenny sembrava arrivare da chilometri di distanza:

“Sono giorni che suo figlio la sta cercando, signor Morrison!… Ma è possibile che si possa ridurrecosì?”

Gemetti qualcosa come risposta.

La donna spalancò una porta col piede, e sentii chiaro l’impatto col tepore causato dal riscaldamentodell’abitacolo. Non era l’appartamento di David, aveva un odore diverso. Come un burattino didimensioni umane, mi feci posare su un letto: il materasso era tremendamente duro, e le molle cigolavanoda morire… Ricordai i letti dell’ospedale, che avevo sperimentato da bambino.

Ero fradicio di sudore, e la tosse violenta mi impediva di respirare normalmente. La signora Tenpenny siallontanò borbottando, poi ritornò; mi levò la giacca e la camicia, mi mise una mano sulla fronte. Iocontinuavo a tossire.

“Ne so abbastanza per dire che lei ha una polmonite coi fiocchi” commentò quasi schifata.

Polmonite… non era la prima volta che avevo la polmonite, ma mai avevo sofferto qualcosa del genere.Era una polmonite elevata all’ennesima potenza.

Rumore di lenzuola, e poi una coperta, fredda all’interno, mi coprì. Tenevo gli occhi chiusi, e la signorame ne aprì uno per leggerci chissà cosa; mi sforzai di sollevare anche l’altra palpebra.

“Da quanto tempo non mangia?” mi chiese. E chi se lo ricorda, le avrei risposto.

“Comunque ci penserò dopo – apostrofò – Adesso aspetti un secondo…” e ciabattò via di nuovo. Lasentii armeggiare nel bagno; emisi un poderoso starnuto. Un minuto dopo, e la Tenpenny tornò reggendouna siringa in mano:

“Si giri e si abbassi i pantaloni!” ordinò, mentre già mi aveva scoperto, girato e mi stava slacciando lacintura.

Il senso del pudore rimastomi mi indusse a ribellarmi debolmente. Ma ormai avevo già una naticascoperta.

“E’ solo penicillina! – tuonò lei – So fare le iniezioni, quindi stia buono e calmo”.

Spalancai gli occhi quando l’ago mi trapassò la carne: non aveva certo la mano leggera! Moltobruscamente, mi rigirò e seppellì sotto la coperta. Scostò via un ciuffo di capelli che avevo incollato allafronte. Rimase un po’ a fissarmi, poi parlò con dolcezza:

“Poteva finire male, se tornava più tardi… Certi uomini sono peggio dei bambini!… Coraggio, cerchi difarsi una dormita, poi si sentirà meglio”.

Le presi una mano, la accostai al viso e la baciai. La donna sembrava non esserne turbata; però, quandocommentò, la sua voce era più sottile:

“Se non sapessi che è mezzo rimbecillito dalla febbre, direi che è un perfetto

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ipocrita!”.

Non era una strega, la signora Tenpenny. Era solo un’anziana signora inacidita dagli anni.

Nonostante il muco che mi riempiva il naso, riuscii a dormire profondamente, stavolta senza sogni…

La Tenpenny rimase a vegliarmi per parecchie ore, andando ogni tanto a fare i suoi lavori; aspettava ilritorno di mio figlio David. Degli uomini, i collaboratori del dottor Wonder, erano venuti nel palazzo,giorni prima; le avevano chiesto dov’ero, o dov’era mio figlio.

Anche lei, come Marika, e come David (informato da Marika), sapeva che mi cercavano, eprobabilmente anche il perché. Io ancora non lo sapevo; e avevo detto più volte di non volerlo, madovevo rendermi conto che le mie visioni avevano bisogno di una risposta.

 

 

Capitolo XXI  

Le cure della portinaia del condominio non stavano servendo a nulla. La febbre si alzò ancora, ilraffreddore e la tosse non mi diedero pace. Ero in un continuo stato confusionale. Dopo non so quantotempo, sentii di essere scrollato:

“Sveglia – era la Tenpenny – E’ arrivato suo figlio; ha capito?”

“…sì….”

Mi mise seduto sul materasso; avevo la pelle d’oca, ed ero percorso da brividi. La donna mi cacciò unfazzoletto sotto il naso colante. David fece capolino dalla porta, con sguardo disarmante: mugolaiqualcosa per salutarlo, poi lasciai cadere la testa ciondoloni.

“Papà… Cristo Santo!”. Il suo tono era di compatimento o rimprovero?

La padrona di casa gli si avvicinò, e lo appartò in un angolo. Cominciò a parlargli bisbigliando:

“E’ conciato malissimo… Non so quanto può resistere ancora. Eppure è strano, dovrebbe avere solouna polmonite, un raffreddore. Deve portarlo subito in ospedale!”

Mi si gelò il sangue nelle vene. David era piuttosto indeciso:

“Non sono sicuro che sia una buona idea… è proprio dall’ospedale che lo cercano; mi creda, signora,quei coglioni non mi piacciono affatto! Intanto lo porto al sicuro, qui possono ritornare, e poi vedrò comevanno le cose…”

“Come le pare, giovanotto, il padre è suo, se muore è sua anche la responsabilità!”.

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David non si fece convincere: dopo nemmeno cinque minuti ero già sulla sua auto, con lui al volante.Non avevo idea di dove mi stesse portando, e non ero in grado di capirlo.

“Ti porto da Lidia, papà – mi disse – Non penso che ti verranno a cercare là…”. Pur non essendosicuro che lo ascoltassi, continuò:

“Hanno setacciato ogni posto. Quel dottor Wonder ti ritiene importantissimo per non ho capito bene checavolo – poi si girò verso di me – Non me ne frega niente. Quindi cerca di resistere, o diventi una caviadi quel quattrocchi”. Caro David.

Lidia, la mia secondogenita, stava in un centro, situato nel quartiere popolare,

dove operavano le suore. Non aveva ancora indossato il velo, ma era questione di mesi, ormai; avevasentito la cosiddetta “chiamata” a sedici anni.

Si può dire che era l’opposto del fratello. Si teneva sempre in contatto con i genitori, prendeva sul seriol’impegno sociale e non dimostrava di essere morbosamente attaccata ai beni materiali.

Le suore del centro erano prevalentemente insegnanti, o lavoravano nelle cucine popolari. Tuttosommato, poco tempo per pregare.

Quella che aprì il portone si trovò davanti un discotecaro pieno di orecchini che sorreggeva un accattonepiù morto che vivo; per questo stentò un po’ a credere che i due erano la famiglia della novizia. Fucomunque molto gentile, e con un’altra pinguina aiutò David a farmi raggiungere Lidia. Addirittura finoalla sua stanza. Quando ci vide, gli occhi di lei si ingrandirono almeno del doppio per lo stupore:

“Cosa è successo!?” gridò.

Un’ora dopo lei e David discutevano. Non era una bella ragazza, ma aveva un viso piacevolmentesemplice; e anche lei aveva dei limpidi occhi verdi, in contrasto coi capelli quasi neri.

Io me ne stavo steso sul letto di una stanzetta adiacente all’infermeria. Ero arrivato a tenere fuori la linguaper respirare: ma più che respirare, rantolavo. Lidia e un’altra suora mi avevano portato là, mi avevanopulito e misurato la temperatura: quarantadue e mezzo.

Quando entrambi i figli ricomparvero al mio capezzale, stavo peggiorando. Evidentemente Lidia era delparere della signora Tenpenny:

“Capisco che non vuoi portarlo in ospedale, David – io comunque non l’avevo ancora capito – Ma senon lo fai? Solo lì possono sapere con esattezza che cos’ha e cosa bisogna fare… Insomma, è partitocon un raffreddore e sta per finire in coma!”

Pensando che fosse una battuta, sorrisi. La ragazza si inginocchiò, mi posò un bacio sulla guancia e miparlò guardandomi negli occhi:

“Accetti di farti portare in ospedale? Noi non possiamo aiutarti in altro modo… prima di tutto deviguarire”.

Sorrisi di nuovo, ma stavolta proprio non avevo afferrato la frase. David sospirò rassegnato.

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Imbacuccato in strati di coperte, mentre sognavo una mandria di caribù, fui caricato di nuovo nellamacchina sportiva di mio figlio. I due si erano del tutto arresi al malefico dottor Wonder: tanto cheavevano deciso di portarmi proprio da lui. Con sua somma gioia.

Ci accolse come le pecorelle che erano tornate all’ovile, dicendo che “avevamo fatto la scelta giusta” eroba del genere. Si preoccupò subito di farmi ricoverare: e così mi ritrovai in un letto duro, attaccato adiverse flebo e ad un respiratore… Era mancato davvero poco perché entrassi in coma.

Non lo sapevo, ma ero talmente importante per il Dottor Wonder e la sua collega Allister, che non miavrebbero mai lasciato andare; le loro intenzioni non erano sconosciute da alcune autorità non benidentificate, ed avevano molti mezzi per assicurarsi la segretezza. Marika, la Tenpenny, David e Lidia noncostituivano un ostacolo, perché se avessero parlato sarebbero stati facilmente eliminati.

 

 

Capitolo XXII  

Nacqui durante l’ultima glaciazione, detta del Wurm.

Ero il quarto di sette fratelli e sorelle, ma solo tre di noi raggiunsero l’età adulta. Un’infanzianormalissima, per il periodo. Vissi in un clan piuttosto numeroso, capeggiato dall’anziano e da sua moglie.Come mio padre, diventai presto esperto nell’esercizio della caccia, ma alle mie quindici primavere sidecise che ero particolarmente portato per le pratiche magiche e l’arte di interpretare le forze dellaNatura con i disegni.

Conservai con lo stesso rigore entrambe le attività, fino alle mie quarantun primavere, quando morii.

Avvenne in un inverno freddissimo, come pochi ne avevo sperimentati; all’epoca ero uno degli uominipiù influenti del gruppo, possedevo due mogli e molti figli, che amavo e da cui ero amato. Avevo unottimo rapporto con gli spiriti della Natura: sapevo comunicarci, ero capace di compiacerli quasi sempre.La mia esperienza nel campo della medicina, dell’arte e della caccia non aveva niente a che invidiare aquella del mio antico capo (chiaramente ormai morto, alla venerabile età di sessantatré primavere)…Insomma, ero un vero pezzo grosso.

Quell’inverno tutto il clan era in viaggio, aveva smontato le capanne di pelli e zanne di mammut, avevaaccumulato una discreta scorta di cibo, e si avviava verso le regioni più calde, sotto la guida mia e dialcuni anziani. Sorgeva il nono sole di cammino; le famiglie dormivano ancora nelle tende provvisorie,battendo i denti per il gelo crudele; mentre io accompagnai quattro miei compagni cacciatori a perlustrarele caverne circostanti a quella valle. Le raggiungemmo in parecchie ore, dopo aver attraversato unviolento torrente, non ancora ghiacciato.

Caverne ampie all’esterno, ma strette e lunghe a diramarsi in cunicoli simili a vene. In esse, la luce delFuoco doveva riflettersi splendidamente, dando vita ai disegni, rendendoli magici: perciò me ne innamoraisubito.

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Avevo appena percorso metà area di una larga galleria, quando fui sorpreso da un respiro animalescodietro di me. Non volevo girarmi, ma lo feci; e prima di farlo emisi un profondo sospiro.

L’Orso delle Caverne si era svegliato dal suo letargo, e si ergeva in tutta la sua altezza, odiandomi per lamia invasione. Tenevo una torcia in mano, perché le grotte erano buie; ma non la usai per difendermi, e lalasciai cadere a terra. La sua fiamma si spense, lasciando me e l’Orso al buio.

Mi girai di scatto, persi l’equilibrio ed i miei piedi nudi scivolarono sul suolo viscido della caverna.Strisciai, avevo quasi raggiunto l’uscita, ne potevo intuire la luce e la corrente d’aria fredda. Ma l’Orsodelle Caverne mi piombò addosso; all’inizio il suo pareva un enorme ma morbido peso, e solo dopo ci siaccorgeva che spezzava le ossa. Allora gridai, e l'eco del mio grido continuò a girare per la galleria;l’animale si rialzò, tirò indietro la sua zampa anteriore… poi, veloci come una zagaglia, i suoi artiglilacerarono il mio mantello e la mia carne, aprendosi un varco dal costato fino alla base del collo: il varcoera diventato il letto di un fiume straripante sangue. Sangue quasi nero; guardai meravigliato i suoi fiottiche descrivevano un arco nell’aria… Stavo letteralmente volando fuori della caverna, lanciato dal colpodell’Orso. Caddi dolorosamente sulla

neve, che si tinse di sangue.

I compagni avevano udito il mio grido, e mi stavano correndo incontro tutti allarmati; in fretta e furia, mitrascinarono lontano dalla grotta, e il mio assalitore non si curò di raggiungerli. Volevano riportarmiall’accampamento, ed il più forte di loro, un mio caro amico d’infanzia, mi prese sulle spalle; il sanguesgorgava dalla ferita, e sentivo le costole spezzate cedere sotto il peso dei miei stessi polmoni. Feci iltragitto ululando per la sofferenza, desiderando di morire quanto prima: tanto non si sarebbe potuto farnulla per salvarmi; ma i cacciatori volevano che morissi vicino alle mie mogli ed ai miei figli.

Rinunciarono al loro proposito quando dovettero attraversare il torrente. Già il guado all’andata erastato difficoltoso, ed aveva richiesto l’uso di tronchi di legno, perché l’acqua era profonda. E nessunosapeva nuotare. Ora era impossibile oltrepassare quell’ostacolo gelido con un corpo inerme. Si misero adiscutere fra loro sul da farsi; intanto il mio caro amico tentava di bloccare il sangue con le pelli. Quandoiniziai a perdere altro sangue anche dalla bocca, decisero di lasciarmi lì: una bufera di neve era in arrivo.

Mi salutarono con parole d’affetto, e mi assicurarono di prendersi cura della mia famiglia. Ma io sentivosolo il ghiaccio che si formava nella ferita; allora raccolsero il mio corpo, portando le ginocchia vicino almento, nella posizione che hanno i bambini prima di nascere. Non c’era né tempo né possibilità diseppellirmi.

Quando loro erano tornati dal clan, io ero già morto.

In seguito, la neve ricoprì il mio cadavere, e il gelo si fece strada fino alle ossa. La pelle divenne duracome il cuoio; i capelli e la barba simili a fili di cristallo.

E così rimasi, molto, molto a lungo.       

 

 

Capitolo XXIII

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Prima di cominciare ad esistere, tutti noi non siamo che una pallina di acqua, grassi e proteine; questapallina contiene una matassa di filamento, che ereditiamo per metà dalla madre e per l’altra metà dalpadre. Questo filamento ci fa diventare un albero, un’antilope, uno scarafaggio, una piantina di fagioli ouna persona. E lo stesso filamento continuerà ad esistere anche quando la prima pallina sarà scomparsa,ed al suo posto ci saranno miliardi di altre specie di palline, dette cellule. Per ognuna di esse, ci sarà unamatassa del filamento, uguale per tutte loro e per tutte le loro figlie, e nipoti, e pronipoti. Ovviamente, ilfilamento di un albero è diverso da quello dell’antilope e da quello della persona: infatti è il filamento che lirende tali. Il mio filamento era ed è sempre stato quello di un uomo di Cro Magnon, così io sono unuomo di Cro Magnon. Semplice da capire.

Molto dopo la glaciazione del Wurm, negli anni sessanta del ventesimo secolo dopo Cristo, un certodottor Wonder era professore esperto di ingegneria genetica. Non si può dire che questa disciplina fossedel tutto nuova, perché già durante la seconda Guerra Mondiale i dottori nazisti volevano usare i poteridel filamento per creare tanti Hitler; detto in parole povere. Ci si è tanto stupiti e scandalizzati quandoqualcuno è riuscito a far nascere due volte una stessa pecora, ma il dottor Wonder ci era già riuscitoquarant’anni prima con un uomo.

Nemmeno un uomo qualsiasi, ma un uomo che non esisteva più da migliaia di anni, quando ancora non sierano differenziate le quattro razze. Una specie differente, chiamata uomo di Cro Magnon per il nome diun luogo in Francia. Dove aveva trovato il filamento di un uomo di Cro Magnon?

Il dottor Wonder era riuscito ad acquistarne una mummia congelata, trovata nei ghiacciai dell’attualeSiberia, dove quell’uomo abitava. Era un maschio, di circa quarant’anni di età, morto di freddo e didissanguamento per il colpo letale di una bestia feroce, un Orso delle Caverne. Anche lui ormai estinto.

Ci volle molto tempo di lavoro per recuperare la matassa completa di filamento, anzi, fu praticamente unmiracolo, perché era vecchio più di trentamila anni. L’uomo era un quarantenne, ma il filamento era lostesso di quando era un cosino lungo pochi millimetri, dentro la pancia di una donna di Cro Magnon.Tolse il filamento di una cellula della pelle, lo mise dentro la pallina iniziale che doveva essere di un nuovobambino, di cui aveva tolto la matassa originale. Il filamento era rinvigorito, riprese a operare, e mise inatto tutti i suoi poteri: dentro il corpo di una donna, fece dividere la pallina in tante altre; fece organizzarequeste in organi, ossa, muscoli e pelle. Ma dopo molti tentativi diversi…

La donna era una casalinga, moglie di un orologiaio di nome Geremia Morrison. Il dottor Wonder leaveva impiantato la pallina iniziale, ricompensandola con molto denaro. Così, da lei, nacque di nuovo unuomo di Cro Magnon; quello che, millenni prima in Siberia, era un personaggio importante e rispettato eche era stato ucciso da un Orso delle Caverne. Fu chiamato Linus Morrison.

Molto simile ai suoi coetanei, Linus cresceva e si comportava come un qualsiasi Homo Sapiensmoderno. Ma più tardi il dottor Wonder capì che il bambino, cioè il suo filamento, non erano adatti asuperare certi ostacoli.   

I microbi patogeni, ad esempio. Quando aveva cinque anni, Linus si fece un piccolo taglio: vipenetrarono dei piccoli protozoi, e gli venne la toxoplasmosi; malattia innocua per le persone, cheaddirittura non si rendono conto di prenderla.

Ma trentamila anni prima il filamento di Linus non la conosceva, e non seppe difendersene. Il bambino siammalò gravemente, ed il dottor Wonder gli disse che aveva una rara malattia del sangue. Ne approfittò

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per fare vaccini speciali e iniettarglieli, per studiare se il suo filamento reagisse a questa cosa. Fu attento aiminimi cambiamenti della struttura, del metabolismo eccetera. Per due anni, Linus credette di curarsi lamalattia al sangue.

Uscì finalmente sano e vaccinato a sette anni. Crebbe, frattanto morirono l’uomo e la donna che loavevano allevato; si sposò con una certa Carol, trovò un triste impiego presso una ditta diaspirapolvere… A quarantun anni cominciò ad avere delle visioni sulla sua vita trascorsa in Siberia.

Il dottor Wonder era già morto, per un attacco cardiaco improvviso, dodici anni prima; suo figlio Philipper alcuni mesi ne recuperò le carte sul caso del Cro Magnon, e raccolse informazioni su Linus Morrison. Venne a conoscenza delle visioni, e se ne interessò assieme alla collega dottoressa Amber Allister: dacosa erano causate quelle visioni? Era solo un caso che riguardassero la glaciazione del Wurm?

Il filamento di Linus Morrison, Homo sapiens di specie Cro Magnon, si stava ribellando?

 

Capitolo XXIV  

John Baggins era un infermiere del laboratorio; Trentasei anni, spilungone, naso a forma di squalo.

“Come butta?” mi domandò, entrato nella mia stanza; cioè quattro pareti con una branda.

“Come butta a uno che si soffia il naso da più di un mese?” gli domandai io.

“Tra mezz’ora vogliono farti il lavaggio del cervello…”

“Seccante. Ascolta, vorrei vedere…”

Baggins scosse il capo, supplicante, pover’uomo:

“Morrison, non posso farlo tutte le volte che vuoi! Se mi beccano, finisco per la strada…!”

“Ti prego, John… Non posso farne a meno! Se solo potessi spiegarti… Guarda che potrei diventarepericoloso, se non mi ci porti”.

Uscii dalla mia cella, dopo essermi soffiato il naso ed aver gettato a terra il fazzoletto; sotto le freddelampade al neon, camminai di fianco all’infermiere attraverso il corridoio. Portava alla stanza dellamummia. Passammo vicino ad una vetrata, ed ebbi l’immagine del mio attuale aspetto: capelli stopposi escarmigliati, ombreggiavano i miei occhi, e la barba era lunga e folta, circa dodici centimetri; stavo a piedinudi, ed ero vestito di pelli, compresa quella di cane.

Il dottor Wonder figlio era riuscito a sottrarmi alla brutta fine a cui mi stava portando una banalepolmonite; ed un ancora più banale raffreddore. Dopo due settimane di ricostituenti, vaccini, sieri eintrugli vari via flebo, mi ero rimesso in sesto, ed ero uscito dal letto. Sperai di poter tornare a casa, o daDavid, o in convento, purché fuori dall’edificio dell’ospedale.

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“Ma tu sei il centro di tutti gli studi di una vita, Linus – mi aveva detto quel giovanotto in tonopateticamente paterno – Dopo la grande conquista di mio padre, devo continuare degnamente il suolavoro… E credo proprio che sia il tuo DNA a causare quelle visioni, magari un piccolo frammento digene di cui nessuno sospettava l’esistenza. Forse è una caratteristica della tua specie, o una mutazionedovuta a sostanze chimiche… si sta ripercuotendo nella tua mente. Non è un problema solo di psichiatria,ma soprattutto di ingegneria genetica…”

Allora avevo capito ben poco. Comunque, Wonder e la Allister mi studiavano continuamente, assieme adue o tre psichiatri, cercavano di scavare nella mia mente, ed intanto analizzavano e rianalizzavano ognicellula del mio corpo. Lasciavano libero sfogo ai miei impulsi, mettendomi a disposizione animali, pietra,vari tipi di terra… imbastivo cerimonie di cui ancora non afferravo del tutto il significato, tracciavo disegniparietali, fabbricavo armi e vestiti; il tutto in enormi stanzoni con finestrelle a specchio e telecamere. Inquei momenti non m’importava di essere osservato…

I miei figli e Marika non potevano fare nulla, avevano le mani legate; Lidia veniva a vedermiregolarmente, David e Marika erano venuti due volte o tre.

Insomma, stavo conducendo un’esistenza vuota e sfasata, fuori dal mondo. Presto mi ero reso conto dicome il mio vecchio corpo, refrigerato nella teca, fosse importante per me: dovevo stargli vicino appenane avevo occasione. Era come se vi fossi unito attraverso un cordone ombelicale immaginario. Devoammetterlo, le mie confidenze con l’infermiere John Baggins erano puramente mirate alle occasioni diavvicinarmi al corpo… comunque provavo simpatia per John.

Mi condusse, tutto teso, fino alla teca: un sorriso mi segnò la faccia da un orecchio all’altro. Miinginocchiai accanto ad essa, portandomi all’altezza della mummia; sembrava così piccola, vulnerabileanche per un filo d’aria.

“Standogli vicino, ricordo – dissi all’infermiere – Questo sono io… sono morto sepolto dal ghiacciotrentamila anni fa, e posso rivedermi… rivedo la mia vita a poco a poco… bellissimo”.

“Che narcisista!” commentò l’altro.

 

 

Capitolo XXV  

Mezz’ora dopo entrai nella stanza degli esami, scortato da Baggins in veste ufficiale; mi aspettavanoovviamente il dottor Wonder, la dottoressa Allister e uno psichiatra, un certo Edgar Vattelappesca.

Sotto cenno di quest’ultimo, mi sedetti sulla sedia di fronte a loro: un’altra infermiera mi appiccicò dellespecie di elettrodi ai polsi, alla fronte e dietro il collo; poi li collegò ad un monitor… Non avevo e non hola più pallida idea a che apparecchi venivo sottoposto.

“Sono pronto… Tanto non riuscirete a cavarmi fuori nulla, come l’altra volta. Vabbè, almeno dopo mirispedite in camera…”

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Page 48: Storia Di Un Cro Magnon

Parlavo un po’ troppo durante i test. La signorina Allister comunque mi apostrofò:

“Dopo devo prelevarti altri campioni di tessuti, Linus”

“Ah…”

Mi chiedevo perché mai dovessero prelevare campioni così spesso… La cosa non era affatto piacevole,a volte dolorosa; si arraffavano di tutto: dal sangue, alla pelle, al cuoio capelluto, allo sperma. I peggiorierano i prelievi di succhi gastrici… e soprattutto della mucosa intestinale. Già a sentire nominare questecose viene il voltastomaco, figurarsi farle.

L’infermiera se ne andò, dopo avermi iniettato un liquido nella vena. Il professor Vattelappesca parlò:

“Oggi vorrei che mi parlasse dell’Orso delle Caverne… quello che la ‘perseguitava’ nelle visioni…”

“Eccolo lì, lo vedo proprio dietro di lei, dottore! – strepitai – Stia attento!! E’ armato, ha una pistola!”

Philip Wonder batté un pugno sulla scrivania, rosso in viso:

“La finisci di bluffare, dannazione!? Qui non stiamo mica scherzando!! C’è in

ballo una delle più grandi scoperte della genetica, e tu non fai altro che sparare idiozie ogni santogiorno!!”

In effetti aveva ragione, il dottor Wonder; quando non ero preso dai ricordi, mi dedicavo a prenderli peri fondelli, e non erano certo stupidi. Tanto valeva dire balle lampanti.

“Lo faccio apposta, Philip, figliolo. E della tua scoperta genetica non me importa un fico secco, figliolo”.

Il dottor Wonder sembrava un vulcano che dovesse esplodere. Venne a rompere la tensione che si eraformata Edgar Vattelappesca:

“Allister, stacca l’apparecchio e vai a fargli quei prelievi… Oggi è inutile, direi”. Se non fosse stato unodei miei aguzzini, avrei considerato Vattelappesca un gran signore.

Ambulatorio della dottoressa Allister. Siringhe, tamponi, tubi e sonde. L’unico posto al mondo dove sipoteva vedere una dottoressa del secondo millennio dopo Cristo, con tanto di camice, fare qualcosa disimile alla gastroscopia ad un uomo di Cro Magnon vestito di pellicce.

Anche stavolta, sostenni tutte le torture con discreto stoicismo…

“Mi dispiace di trattarvi male… è che proprio non sopporto che roviniate così la mia seconda vita” dissidopo alla signorina. Lei sistemò le provette di sangue e mugugnò qualcosa.

“Capisco che è il tuo lavoro – continuai – però potresti almeno tu dire a quel

dottor Wonder che…”

“Baggins! – gridò l’altra, facendomi sussultare – Lo riporti indietro! Ho terminato!”

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Page 49: Storia Di Un Cro Magnon

La dottoressa Allister doveva aver paura di me. Certo, non le avrei mai torto un capello, ma una volta,proprio durante un esame, cercai di farla mia. Non ritengo affatto che la mia gente fosse tantoanimalesca, probabilmente ero io che ero sempre stato abituato ad ottenere facilmente una donna. Mi eravenuto un desiderio simile a quello verso la ragazzina di David… La Allister ovviamente non provava perme altro interesse che quello scientifico, e non conclusi nulla. Pazienza, non era neanche questa granbellezza.

 

 

Capitolo XXVI  

Avevo fatto lo spavaldo, il buffone, lo stoico. Adesso ero solamente distrutto, distrutto e terrorizzato.Quel che era peggio, stavo iniziando ad odiare le mie visioni, che ancora prima di capire avevo imparatoad accettare e ascoltare.

Per loro, i medicastri mi stavano facendo soffrire come un cane: Vattelappesca ed altri strizzacervelli,con artifici segreti, mi forzavano a farle venire, mentre ero collegato ad un altro ordigno elettrico. Di piùnon potrei spiegare, sapevo solo che spesso e volentieri l’effetto era quello di un elettroshock; e quelli,tutti esaltati, discutevano e fantasticavano sulla potenza che un mio piccolo gene aveva sulla mente e cosecosì.

Li odiavo tutti. Odiai il dottor Wonder padre da morto, verso cui, da bambino, provavo totaleindifferenza; lui era stato il colpevole di tutta la storia. Perché diavolo aveva voluto disturbare il riposoeterno di un povero cadavere mummificato e farlo rivivere in un mondo totalmente diverso? Dovevaessere malato, ma per quanto mi riguardava non perdonabile.

Mi stavano facendo impazzire sul serio. Avrei voluto fuggire dalla realtà senza ritrovarmi nella glaciazionedel Wurm, ma non mi era possibile. Perciò rimanevo tutto il tempo accucciato in un angolo della miacella, fissando la parete di fronte; a volte non volevo essere né Linus Morrison né lo stregone di CroMagnon di cui nemmeno conoscevo il nome. Capitava che Baggins mi trovasse nudo come un verme,avendo scaraventato via il mio vestiario.    

Quel pomeriggio ero immerso nella solita apatia, indossando dei pantaloni e una felpa, quando entrò ilmio angelo custode. Fuori c’era l’inverno.

“Visita, Linus…”

Probabilmente era Lidia. Senza particolari motivi, non avevo voglia di vederla, ma mi scollai dal muro eseguii John.

Il sotterraneo dell’ospedale era molto esteso, composto di parecchi corridoi e sale; mia figlia avrebbedovuto aspettarmi in un piccolo ambiente, con due sedie in mezzo al pavimento. La donna che miattendeva, seduta in una di esse, non era lei… strabuzzai gli occhi, stentando a crederci:

“Carol!” esclamai con voce acuta. Poi, dal movimento inaspettato tra le mie gambe, mi accorsi di essere

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eccitato.

“Linus…! Tesoro, come sei cambiato…”

“Trovi?”

“Sei molto più magro, pallido… Che cos’hai in faccia!?”

Portai una mano al viso. M’avevano rasato, perché intorno alla bocca, oltre ad un herpes, ero copertodi macchioline rossastre, che mi procuravano un costante prurito.

“Ah, questo… Niente, hanno detto che sono stato infettato da un fungo… Ne ho preso anche uno inbocca, qualcosa di simile al mughetto, quello che viene ai neonati; quello sì che fa male… E’ perché sonoimmunodepresso, o qualcosa del genere”.

“Sono stati i farmaci?”

“Può darsi. Oppure il mio DNA… Amore, ma tu cosa ci fai qui? Sembrano secoli che non ti vedo, daquando sei uscita di casa…”

“Il dottor Wonder mi aveva contattata non appena ti aveva fatto la prima visita in ospedale… mi spiegòtutto. Ancora non posso crederci, sembra un racconto di fantascienza serie zeta”

Mi alzai di scatto dalla sedia:

“Sapevi già tutto!? E perché non me l’hai detto prima!?”

Carol parve spaventarsene. Si guardò timidamente intorno, tutta rigida; io attendevo una risposta;

“Mi ha detto che era meglio non parlartene… E di dargli dettagliate descrizioni su quello che facevi; eristato molto vago all’esame…”

“Quanto ti ha dato?”

“C-come?”

“Non far finta di non capire, cara. Quanto ti ha pagato!?”

Carol non riusciva a nascondere il suo imbarazzo. Adesso si contorceva sulla sua sedia; non l’avevo maivista così. Ma non mi fece pena. Stavo in piedi di fronte a lei, fissandola negli occhi: lei cercò didistoglierli.

“All’inizio non volevo, Linus – parlò con un filo di voce – Ma poi Roger…”

“Roger!?! – gridai – Ancora quel merdoso di Roger!! Cosa diavolo c’entra!?”

Allungai le braccia verso mia moglie; Carol si fece scudo con le mani, piangendo istericamente.Improvvisamente la porta si aprì, ed entrò di corsa un infermiere: reggeva in mano una siringa.

Sentii l’ago infilarsi dentro la mia spalla, mi voltai e fulminai con lo sguardo l’infermiere. Quello mitrattenne circondandomi con le braccia, mentre mi dibattevo:

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“Lasciami, stronzo! Sto parlando con mia moglie!… Che roba mi hai dato!?”. Poi capii che era unnarcotizzante; sentii intorpidirsi la parte superiore del corpo, e subito dopo quella inferiore. Prima dicrollare dal sonno, sorretto dall’uomo, guardai Carol con espressione estremamente delusa.

Avrei saputo un paio d’ore dopo il motivo della sua visita; era venuta perché

Wonder aveva pensato di “scuotermi” un po’ dalla mia apatia. Ci aveva pensato lei, e molto più delprevisto…

 

 

Capitolo XXVII  

“Speravo che avessi finito di pensare a quel coso!” bisbigliò John, cercando di staccarmi dalla teca divetro.

“Inutile. Non posso essere qualcun altro… Sono quest’uomo preistorico, per nascita. E tale continueròad essere”.

John aveva una paura matta di venire sorpreso a trasgredire. Non me ne importava più di tanto, mastavolta lo seguii via tanto per mettergli il cuore in pace.

Erano circa le nove di sera; quello stesso pomeriggio i professori erano riusciti a cavarmi fuori dallamente la cerimonia funebre di una mia figlia. Era la bambina che avevo sognato più volte: sapere che morìprima di me, mi fece scoppiare in lacrime mentre ancora ero attaccato alla macchina. Quell’arnesetracciava linee a zigzag, assieme ad un inquietante stridio. Le specie di elettrodi che avevo appiccicatidappertutto erano muniti di piccoli aghi, che mettevano in circolazione un liquido sospetto. Alsopraggiungere del penoso ricordo, mi sembrò di avere acido solforico nelle vene.

“Qual era il nome della bambina?” chiese il dottor Vattelappesca.

“Come diavolo faccio a saperlo, se non conosco il mio!? – ringhiai, stringendo i denti – Che nomiandavano di moda, secondo lei? Burg? Gork? Sembrano nomi da cavernicolo, no?”

“Non dovresti avere un’opinione simile di te stesso, Linus” mi rimproverò Amber Allister.

Ora, mentre percorrevo con Baggins il corridoio, mi trovavo su una luminosa distesa di neve. Cristalliminuscoli, soffici e ghiacciati; un vero piacere guardarli. Seguivo una serie di impronte, forse quellelasciate da un cinghiale…

“Cerca di non grattarti, Linus” mi ammonì John, distogliendomi dalla visione. Avevo ancora quellafastidiosa micosi checchessia.

“L’hanno avuta tutti e due i miei figli, questa malattia. Quando avevano pochi giorni…”

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“A proposito, è da qualche giorno che tua figlia non si fa vedere. Non ti

preoccupi?”

“Ma no, avrà i suoi impegni! Non può mica starmi dietro ventiquattr’ore su ventiquattro, povera crista…Tu non hai famiglia, John?”

“Sono ancora scapolo. E ho intenzione di rimanerlo!”

“Fai bene”. Per un solo attimo, non so perché, detestai John Baggins.

La porta della mia stanza si chiuse, si spense la luce. Mi coricai sul letto, cercando di adattare gli occhiall’oscurità per guardare il soffitto; intanto cominciai a pensare: perché Lidia non si era fatta vedere?Sentivo il bisogno di qualcuno vicino a me, che mi confortasse. Soprattutto sentivo ancora quel liquidobruciante che mi correva per ogni capillare. Che avrebbero fatto di me, una volta fatta la loro scopertagenetica? Mi avrebbero lasciato andare? E avrei vissuto con il peso di una vita del tutto diversa nellamemoria?

Il mattino seguente fui svegliato da un altro infermiere, quello che aveva

interrotto il mio discorso con Carol. Dormivo, sì, ma ero teso come una corda di violino; non appena fuisfiorato, sussultai con una specie di guaito soffocato.

Presi le mie tre quattro cinque pastiglie di antibiotici e antivirali, poi andai al gabinetto. Avrei dovutoradermi quotidianamente, per via del fungo superficiale, ma quella mattina decisi di smettere ancora unavolta. Feci una doccia, anche se usciva solo acqua ghiacciata; starnutii tre volte.

Inaspettatamente, mi fu annunciata una visita. Lidia. Era ora, mi aveva fatto stare in pena!

La ragazza mi aspettava nella solita saletta, vestita semplicemente, come sempre. Notai che la suaespressione era abbacchiata… anzi, sembrava aver pianto parecchio.

“Papà…” mormorò con voce rotta. Le presi il viso tra le mani, cercando di scrutarle dentro:

“Cos’hai, angelo mio?”

Ci sedemmo uno di fronte all’altra, e cominciammo a parlare. Lidia aveva saputo della visita di suamadre: e probabilmente le sue opinioni al riguardo erano uguali alle mie. La mia certezza che qualcosa laturbasse cresceva sempre di più, ma non avevo il coraggio di interrogarla… magari era una stupidaggine,ma volevo esserne inconsapevole, almeno per i minuti in cui lei avrebbe taciuto.

“Che mi dici di David? E di Marika?” le chiesi.

“Lui sta bene, sì… - vidi le sue mani imbiancarsi – Ma ti volevo parlare proprio di Marika, papà…”

“Le è successo qualcosa?”

“E’ morta”.

Le pareti fecero un unico, velocissimo giro attorno alla mia testa. Come morta? Come morta?

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“… come morta?”

“Non piangere così, ti prego – supplicò mia figlia, asciugandomi le lacrime che mi scorrevano giù per leguance… non me ne ero accorto – Dicono che è stato un incidente…”

Allora Lidia abbassò il tono di voce, come per assicurarsi di non essere sentita da nessuno. L’ambientenon era comunque controllato.

Marika aveva un conoscente nella polizia. “Trasgredendo” agli ordini del dottor Wonder, gli avevaparlato di me; lui ovviamente l’aveva presa per rimbecillita. Ma Marika aveva comunque violato laregola, e i fantomatici collaboratori di Wonder lo vennero a sapere.

Due giorni dopo, fu ritrovata morta stecchita, caduta giù da una ripida rampa di scale, a casa sua:frattura cranica. Banale incidente, per la cronaca. Fin troppo logico che era stata eliminata, per averparlato… per colpa mia.

Il giorno prima avevo vissuto la morte di una figlia. Adesso Marika.

Caddi in ginocchio, aggrappandomi alle gambe di Lidia.

 

 

Capitolo XXVIII  

Il corpo umano è tanto fragile, gli basta rotolare giù per degli scalini, e finisce di funzionare; si spegne,come una macchina. Il funerale di Marika avrebbe avuto luogo entro alcuni giorni; ci sarebbero stati i suoiparenti, gli amici, i conoscenti, colleghi di ufficio. Io non ci sarei stato, ed era morta per causa mia: avevavoluto tirarmi fuori da quello schifo di ospedale.

Baggins, per tutta la giornata, non osò rivolgermi la parola; avevo l’aria di un gatto infastidito, pronto asferrare il graffio. Se mi fossi trovato davanti la Allister, o Wonder, o qualsiasi altro di quei macellai, nonavrei esitato a strangolarlo.

Naturalmente, verso sera, me li trovai davanti, attaccato ad uno dei soliti aggeggi di tortura. Ero in piedi,nudo bruco, con cinque lunghi aghi infilati sotto la pelle: due all’interno delle cosce, due ai polsi, unosottilissimo al collo; attraverso dei tubicini, riversavano nelle vene un liquido trasparente, sembrava acqua.In realtà, come ebbe la premura di spiegarmi il dottor Wonder figlio, era una soluzione di sostanze efarmaci da loro preparati, per adattare di nuovo il mio sistema immunitario e distruggere gli ultimi residuidi malattie rimaste.

La Allister esaminò il mio fungo nella bocca, sollevando appena un sopracciglio.

“La micosi se ne sta andando, Linus” annunciò il collega.

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Che bella notizia, mi ci voleva. Li guardai entrambi con odio, vedendo come facevano finta di essersidimenticati l’omicidio alle spalle. Ero soggiogato ad un branco di carogne.

“Non essere così rancoroso – continuò Wonder – Apprezza almeno che stiamo cercando di aiutarti, chediamine!”

Deglutii con forza, e sentii il freddo dell’ago che mi penetrava nel collo:

“Siete due maledetti assassini!!” gridai, diventando rosso in volto. Quelli ingigantirono gli occhi inmaniera spaventosa e descrissero delle ampie “o” con la bocca. Non era stato per quello che avevodetto, nemmeno l’avevano capito; ma per l’idioma con cui l’avevo detto. Un idioma strano, del tuttodiverso da qualsiasi altra lingua conosciuta; scomparso da millenni.

Il dottor Wonder mi si precipitò addosso, e mi afferrò le spalle:

“Cosa hai detto!?”

Ricevette una sberla in pieno viso, che lo fece cadere all’indietro; non se l’era aspettato, perché erostato intorpidito preventivamente da tranquillanti. Lì disteso sul pavimento, ringhiò qualcheapprezzamento su mia madre; io intanto sentivo qualcosa che mi colava giù per il naso, probabilmentesangue e muco. Mi mancò l’aria dai polmoni, e credetti di soffocare; infine i muscoli diventarono molli dicolpo, e mi accasciai a terra, con una fitta lancinante allo stomaco.

Quando mi risvegliai, erano passate nove ore.

Ero su di un letto, immobile e rigido, come se fossi completamente ingessato.

Dovevo aver lacrimato parecchio, perché sentivo le guance stringersi sotto l’acqua che s’asciugava. Unmonitor registrava le pulsazioni del mio cuore, ed ero attaccato ad altri misteriosi fili. Di fronte a me, ladottoressa Allister:

“Hai avuto una brutta reazione alla soluzione di prima – disse inespressiva – Forse abbiamo eccedutocon la dose. Ne hanno risentito soprattutto i polmoni, il cuore e lo stomaco; adesso ti stiamo facendo unatrasfusione, e stiamo succhiando via della soluzione che è entrata nella mucosa gastrica”.

Infatti avevo due tubi di plastica infilati per ogni fianco, che andavano in su; che buchi avrebberolasciato? Avrebbero dovuto cucire, una volta toltili di lì.

“Sei fuori pericolo, comunque, e l’immunizzazione dovrebbe aver funzionato. Tra un po’ ti sfilerò anche iltubo nella trachea – proseguì – E ci devi promettere di non fare più fesserie come quella di oggi: credimi,sapremmo sistemarti a dovere. Se hai capito e acconsenti, sbatti le palpebre”.

Chiusi le palpebre, ma non le riaprii fino a che la donna non se ne andò.

 

 

Capitolo XXIX

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Il giorno dopo David (con un nuovo orecchino al labbro inferiore) fece irruzione nella stanza del mioricovero. Ero piuttosto debole, ma non c’era più nulla da temere. Mi stava persino scomparendo ilraffreddore, dopo più di un mese.

“Papà! Cosa ti è successo?”

“Niente”.

“Cristo, che roba hai infilata addosso?”

“Stai buono, sono solo dei tubi… me li tolgono oggi. Non è che potresti convincerli a ridarmi le miepelli…?”

Mio figlio scosse la testa. Poi si mise a camminare avanti e indietro, come un animale in una gabbia. Ognivolta che veniva, non avevamo mai nulla da dirci.

Assordante, il muggito di un bisonte mi spaccò i timpani; portai le mani alle orecchie con un sussulto.David sembrò ignorarlo.

Occhi chiusi e orecchie tappate: non vedevo e non sentivo nulla, per pochi secondi mi estraniai da tutto.Trovai gli istanti per riflettere ancora.

Quello che mi stava succedendo non era umano. Nessuno avrebbe dovuto prendersi il diritto di farmitornare a vivere e sbattermi in un laboratorio senza tanti problemi. A questo si aggiungeva laconsapevolezza di aver passato un’esistenza totalmente diversa, migliore di quella attuale. Volevoritornare dove avrei dovuto stare; non a casa, non in questo periodo. Ma nella mia vera casa, e nel miovero periodo.

Riaprii gli occhi, e guardai mio figlio:

“Devi aiutarmi a scappare”.

Lui non sorrise, né proferì parola. Si avvicinò al mio letto e sedutosi sul pavimento, nascose la faccia trale lenzuola. Aveva intenzione di piangere? Non

ne ero sicuro; magari stava solo pensando.

“E come vorresti scappare?” chiese, sempre con la faccia nascosta.

Wonder e la Allister, tutto sommato, passavano poco tempo in quel sotterraneo; avevano una vitaprivata, e di giorno svolgevano il loro normale incarico di medici ospedalieri. In genere rimanevano afarmi compagnia il buon John Baggins e qualche altro addetto al laboratorio. Sembrava facile, fin troppo.

“Mi devi aiutare”

“Questo l’ho capito, ma non hai risposto alla mia domanda”.

Il tubo collegato al mio stomaco emise una specie di risucchio; David si allarmò (non sapeva che era

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tutta la notte che quel coso faceva rumore), ed alzò la testa. Notai che gli occhi erano più umidi delnormale.

“Ci devo pensare; e devo avere il momento opportuno…”

“Dove hai intenzione d’andare, quando e se uscirai di qui? Non si arrendono mica, quei due!”

Dove potevo andare?

“Il più lontano possibile da questa città di merda… verso le montagne, dove fa freddo”.

Lui ridacchiò amaro:

“Non ti ci vedo proprio… Ma ti rendi conto di come sei conciato? Da quando sei qui dentro, non hai laforza di tenere gli occhi aperti per più di due ore”

“Devo andarmene. Non resisto più, come farò a cavarmela lo risolverò… Non voglio rimanere tra questiassassini”.

David capì a cosa alludevo. Si stropicciò le mani, poi si tormentò l’orecchino al labbro.

“Hai già in mente la meta precisa?” chiese infine.

 

 

Capitolo XXX  

La fuga era prevista per le dieci e mezza della sera circa: a quell’ora, Wonder e la Allister lavoravano aireparti ospedalieri, ed era finita l’ora di visita ai pazienti. Quindi, poca gente ai piani di sopra.

Aspettavo in trepidazione seduto sulla mia branda, accarezzando insistentemente la pelle del cane diMarika. Erano passati tre giorni dalla visita di David, la micosi alla bocca era praticamente scomparsa, ela barba iniziava a farsi vedere.

Va bene, ero stato molto male come condizioni fisiche, ma continuavo a chiedermi come avevo potutoaspettare quasi due mesi, fino ad un omicidio, prima di tentare la fuga da quel maledetto posto. Se ciavessi provato prima, e se ci fossi riuscito, Marika probabilmente si sarebbe messa il cuore in pace e nonsi sarebbe esposta al pericolo di essere eliminata.

Comunque era inutile concentrarsi in questi ragionamenti, perché ogni volta arrivavo ad una conclusionediversa.

Mi avvicinai alla porta metallica e chiamai John Baggins. Quello arrivò dopo un minuto, sapendo giàcosa gli avrei chiesto.

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“C’è gente in giro?” chiesi infatti.

“No… Ma potrebbero sempre beccarci…”

“Allora portami, su…”

Era ormai come un cerimoniale. Io chiamavo John Baggins, gli chiedevo se ci fosse qualcuno in giro,John Baggins rispondeva di no; poi apriva la porta, mi accompagnava fino alla stanza della teca di vetro easpettava che passassi un po’ di tempo accanto al mio corpo; alla vista di un infermiere, mi tirava per unbraccio in fretta fino alla mia cella. Routine.

Ma quel giorno avrei dovuto tradire la fiducia di Baggins: lo avrei dovuto tramortire, avviarmi versol’ascensore sprangando le porte dietro di me, chiudendo dentro il personale. E tutto in silenzio e rapidità.Mio figlio, e forse Lidia, mi avrebbe aspettato ai limiti del parcheggio, col motore acceso.

Percorrendo pensieroso il corridoio, scortato da John, mi sentii tremendamente vecchio per una simileimpresa. Inoltre ero intontito dai farmaci, e avevo due tagli appena cuciti su ogni fianco e su due lati dellostomaco.

La teca mi comparve davanti agli occhi, e al suo interno il mucchietto di ossa e stracci che ero io. Fissaiil volto del cadavere, ed osservai il mio riflesso sul vetro sovrapporvisi.

Capivo che solo con quella mummia accanto, le mie visioni avevano un senso e che erano qualcosa di positivo; se ne fossi stato lontano? Avrei finito con

l’impazzire…

“Non posso. Non posso lasciarlo qui…” mormorai.

“Mi hai detto qualcosa?” domandò John, guardandomi dalla porta.

Durante il tragitto, non aveva notato che tenevo in mano, nascosta sotto le pellicce, una pietrafermacarte; l’avevo fregata dall’ufficio di Vattelappesca, durante uno dei suoi interrogatori.

“Vieni qui” gli dissi, sperando di non fargli troppo male.

Non appena quello mi si chinò accanto, lo colpii dietro la testa con il fermacarte; cadde in avanti senza ilminimo lamento. Erano le dieci e mezza precise.

Dovevo assolutamente portarmi via il corpo, anche se questo non era stato previsto; strappai dallaparete i fili a cui era collegata la teca, cercai di aprirla. Non ci riuscii, aveva un meccanismo complicato…ma il vetro non pareva infrangibile. Afferrai di nuovo il fermacarte di pietra, lo scagliai contro la facciasuperiore del contenitore: rumore tintinnante di vetro frantumato, aria fredda uscente, che si condensavain nuvolette bianche.

Col cuore in gola, immersi le mani nel fumo bianco, e finalmente toccai il mio primo corpo: mi percorseun brivido, ma forse solo perché ero terribilmente agitato.

Il cadavere era rigido, e rimase nella sua posizione fetale quando lo tirai su: aveva la consistenza delcartone, ed era leggerissimo; non emanava alcun odore.

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“Cosa è stato!? Baggins! Sei tu là dentro!?” esclamò la voce di un infermiere fuori della stanza. Credettidi avere un infarto; mi precipitai verso la porta e chiusi il chiavistello. La voce continuava a strepitare.

Mi ero chiuso in quella stanzetta senza uscite, col mio cadavere in braccio, Baggins svenuto a terra, unuomo nemico all’uscita e i miei figli fuori ad aspettarmi. Vedevo nero per la rabbia.

Poi notai una sporgenza sotto il camice di John Baggins, all’altezza della cintura; scostai il lembodell’indumento con un piede nudo, e trasalii. Era una pistola… Non me ne ero mai accorto; altro chefiducia, il mio custode era sempre stato armato. Volli giustificarlo, e mi dissi che glielo imponeva il suoruolo; probabilmente era vero, ma sapere che l’unica persona del laboratorio con cui simpatizzavo erapronta a spararmi non fu piacevole. La cosa, in ogni modo, si rivelò molto utile.

Aprii la porta della stanza, e non appena l’infermiere all’esterno si affacciò, si ritrovò con la canna di unapistola puntata alla fronte. L’arma sembrava tanto pesante, ed in più dovevo reggerla con una mano sola,perché l’altra era impegnata a trattenere il mio corpo; ma potevo sempre premere il grilletto.

Feci cenno all’uomo di scortarsi e farmi passare, sfilai dalla cintura anche la sua pistola; camminai dietrodi lui fino al laboratorio, allora mi balenò un’altra bella idea. Distruggere l’opera di quei maledettisegaossa, tutti i loro dati, i loro computer, le loro schifose pozioni. Magari non sarebbe stato possibileeliminare tutto, ma mi sarei tolto questa soddisfazione. Perciò posai la mummia in un angolo e mi misiall’opera.

La cosa non era affatto prudente, ma esaurii una pistola e mezza contro i computer ed i macchinari, chesprizzarono scintille in aria. Obbligai il mio povero spettatore a tirare fuori tutte le carte presenti nellaboratorio, dai cassetti, dalla scrivania, e di ammucchiarle sul pavimento. Sempre tenendolo sotto tiro,scaraventai sul mucchio le provette e i contenitori di vetro, con la loro robaccia dentro. La fortuna volleche posati alla parete ci fossero uno straccio e una bottiglia di alcol denaturato: irrorai il mucchio con illiquido rosa, mentre l’infermiere si lamentava timidamente.

“Hai da accendere?” gli chiesi.

L’uomo tirò fuori di tasca un accendino, cercò di porgermelo, ma la mano gli tremava talmente che lolasciò cadere a terra. Mi chinai a raccoglierlo, feci guizzare la fiammella: con fare solenne, incendiai unfoglio arrotolato e lo gettai sul combustibile… Fu una magnifica fiammata, quasi ruggiva. Purtroppo, siazionò l’allarme antincendio.

Raccolsi in fretta il mio corpo, ed uscii di corsa dal laboratorio. Non mi parve vero di essere riuscito adentrare nell’ascensore e salire al piano terra… mi orientai ricordando la mia prima fuga dall’ospedale,quando ancora non volevo sapere, e scappai verso l’uscita, minacciando chiunque mi si parasse davanticon la pistola.

Non appena vidi l’auto di mio figlio, mi fiondai sul sedile posteriore, facendo posto alla mummia: c’eranosia lui che Lidia. Lui pareva furibondo per il fuggiasco in più, lei era stranamente raggiante… Le mandaiun largo sorriso, non accorgendomi che stavo puntando loro la pistola.

“Tranquilli, non ho ammazzato nessuno” esclamai.

Eravamo già partiti in quarta, che la gettai fuori dal finestrino.

 

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Capitolo XXXI  

Per tutta la durata del viaggio in macchina, Lidia continuò a implorare David di rallentare; aveva avutosempre il terrore della velocità. Il fratello sopportava in silenzio, roteando gli occhi ogni tanto.

Constatai che quello che mi aveva detto David l’ultimo incontro era vero: stavo già faticando a tenere gliocchi aperti. Ma ora ero libero, e una volta ripresomi dagli effetti dei farmaci, sarei ritornato in forma; cheparadosso. Sedevo accanto al corpo mummificato; me lo misi sulle ginocchia e presi a cullarlo.

“Papà, ti prego! – disse David disgustato – Capisco il valore che ha per te, ma così è troppo macabro!”

“Chi avrebbe mai detto che ero un Cro Magnon? E che voi lo eravate per metà? Siamo esternamenteidentici agli altri… eppure un’altra specie…”

Il ragazzo sbuffò seccato, e riprese a guardare avanti: eravamo da poco usciti dal centro abitato, versonord, dove c’erano le montagne. Non erano casa mia, certo, ma almeno rispecchiavano un po’ i luoghidelle mie origini; e pensare che non mi ero mai allontanato tanto dalla città di mare.

“Dormi – mi consigliò dolcemente Lidia, calmatasi – Sei stanchissimo. Domani saremo arrivati”.

Dovevo arrivare il più lontano possibile. E poi li avrei lasciati per sempre.

Mi svegliai quasi alle sei del mattino seguente; la macchina continuava a correre, ed io rimasi ad occhichiusi, nella posizione seduta con cui avevo dormito, a testa all’indietro.   

Lidia era ancora addormentata, ma il suo sonno pareva piuttosto agitato. Presso l’orizzonte il cielo eraarancione, la strada che percorrevamo era deserta, e stavamo per addentrarci in mezzo ai boschi.Fortunatamente avevo vissuto, trentaquattro mila anni fa s’intende, anche nelle foreste; anche se il miovero ambiente era la steppa… purtroppo quella si trova solo in Siberia. Spruzzate di neve cominciaronoa risaltare ai lati della carreggiata, non eravamo ancora in salita.

“Non avrai guidato per tutta la notte?” chiesi a David. Lui si portò uno spinello alla bocca ed aspirònervosamente:

“Secondo te?”.

In poco meno di un minuto terminò di fumare, e la sorella si stava svegliando, tossendo. Si stropicciò gliocchi, ed aprì un finestrino, facendo entrare l’aria gelida. Poi fissò lo specchietto retrovisore:

“Guarda, c’è un’altra macchina…”

Era un’automobile rossa, sembrava guidata da due persone. Mi rese inquieto; probabilmente erano deiviaggiatori molto mattinieri, ma…

Mezz’ora dopo, quella macchina era ancora dietro di noi. David aveva fumato parecchio, frattanto,

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intossicando me e la sorella. Ad un tratto imprecò con forza, facendoci sussultare; buttò via l’ennesimasigaretta:

“Siamo senza benzina”.

“Siamo… Ma non avevi fatto il pieno?”

“No!”

Avremmo fatto pochi, pochissimi chilometri ancora; e l’automobile alle calcagna rappresentava ilpericolo. Il giorno ormai si manifestava completamente, e con lui i richiami degli uccelli nel bosco.

Così successe l’inevitabile: l’auto di David esalò il suo ultimo respiro, e si rifiutò di andare avanti. Mistrinsi morbosamente la piccola mummia addosso, con un groppo alla gola. Il primogenito fece perimprecare contro quel Qualcuno contro cui non si dovrebbe imprecare, ma si fermò in tempo; lo avrebbefatto se non ci fosse stata Lidia… tuttavia anche lei era estremamente nervosa.

Dopo qualche interminabile secondo, l’altra macchina ci passò accanto, con un rumore sordo:percepimmo solo la veloce chiazza rossa lasciata dalla carrozzeria. E si allontanò, inoltrandosi tra glialberi che si addossavano sulla strada.

Aprii di scatto il mio sportello, ricevendo un forte impatto con l’aria fredda. Poggiai i piedi nudi sullasottile pellicola di neve che ricopriva l’asfalto; minuscoli cristalli di ghiaccio percorsero ogni mia fibramuscolare, e circondarono il cervello.

Emettendo nuvole d’aria condensata, percorsi un paio di metri lungo l’argine innevato, tracciando unafila di impronte. Il naso era libero, i peli delle braccia erano drizzati, i muscoli pronti a scattare e gli occhiattendevano un qualsiasi movimento dell’ambiente. L’auto rossa sarebbe tornata indietro… magari i suoipasseggeri avevano contattato altre auto, che ci avrebbero raggiunto.

“Devo allontanarmi assolutamente!” annunciai a Lidia e David, usciti anche loro dalla vettura ferma.

“Ti ritroveranno subito – mi avvertì Lidia; anche loro avevano fatto il mio ragionamento – Potremmosolo spostarci a piedi, ma lasceremmo delle tracce evidenti…”

“Lidia… devo scappare solamente io… se tornano, non vi faranno niente, ormai pensano solo aprendermi”.

Nessuno parlò più.

Finché sempre quel Qualcuno, da lassù, non ci mandò un insperato aiuto. Alle nostre spalle, siavvicinava, sempre più distinto, il brontolio di un motore; inizialmente ci mettemmo in allarme,consapevoli di non poter far nulla. Poi apparve da dietro la curva un camioncino verdastro, con rimorchioaperto, ed un telo nero steso sopra di esso. Una rapida occhiata, e tutti e tre ci intendemmo.

David si sbracciava per fermare il guidatore del camioncino, mentre Lidia ed io, zitti, stavamo seduti inmacchina; il guidatore, un uomo con una folta barba nera ed una pesante camicia a quadri, si fermò.

“Qualche problema?” chiese con un vocione da orso.

“Siamo senza benzina – disse David – Guardi, se lei ha una tanica, io non…”

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Senza nemmeno rispondere, l’uomo saltò giù dall’abitacolo e raggiunse il rimorchio; scostò il telo,rovistò all’interno e tirò fuori una capiente tanica riempita per metà. Io intanto osservavo la scena dalfinestrino, cercando di non farmi vedere e ascoltando impotente il cuore battere all’impazzata. Appenaprima che David e il guidatore si avvicinassero all’auto, scivolai fuori, tenendomi stretta la mummia, e inpochi balzi salii sul rimorchio del camion, raggiungendone il fondo annaspando sotto il telo nero.

Sentii David ringraziare il signor barbanera e la tanica vuota venire riposta pesantemente sul camioncino,a meno di un metro da me. Il motore si accese, e il fondo del rimorchio cominciò a tremare; cispostammo. Ero accanto al cadavere congelato, quasi nella sua stessa posizione; sollevai un lembo deltelo, e riuscii ad intravedere i miei figli, che a loro volta cercavano di scorgermi. Loro non mi videro. Alpensiero che non li avrei più incontrati, una lacrima rotolò lungo il naso e si fermò sulle mie labbra; lacatturai con la punta della lingua, ed assaporai il suo gusto salato.

Lì dentro faceva piuttosto caldo; ma divenni di nuovo irrequieto quando sentii la temperatura alzarsisempre di più, e poi abbassarsi di colpo fino a farmi tremare. Sudavo. Non vedevo nulla, ma sentivodiverse voci parlarmi in un linguaggio che ancora non capivo.

 

 

Capitolo XXXII  

Nawkoh, letteralmente “cavallo bianco”; ma il significato vero è quello di “animale che è fatto di nuvole”.E’ il mio nome, che ho acquisito all’età di quindici anni. Linus Morrison, al confronto, non ha alcunsignificato.

Mi venne in mente così, inaspettatamente, mentre mi muovevo in mezzo ai tronchi spogli e i cespugli. Ilterreno era coperto di un consistente strato di neve, mista a foglie morte.

Fortunatamente, il trabiccolo del signor barbanera era proprio diretto per una strada che si inoltrava neiboschi più lontani e meno battuti; il mio viaggio sotto il telone fu di alcune ore. Tutto sommato erotranquillo, anche se a volte passavo dei momenti di totale incoscienza. Circa dieci minuti dopo essermiseparato dai miei figli, l’automobile rossa passò accanto al camioncino… stava tornando indietro. Disicuro erano loro, speravano di trovarmi ancora lì. Poverini.

Poi, finalmente, ero sceso dal rimorchio durante una salita ripida, in cui il mezzo procedeva a passod’uomo. Scivolai cautamente da dietro, senza essere visto, e m’inoltrai nel fitto della vegetazione.

Le montagne attorno alla valle, coperta di alberi e neve. Era bello. Non fui preso dallo sconfortonemmeno per un secondo; sapevo benissimo cosa avrei dovuto fare per sopravvivere, mi sembrava diaver vissuto nei boschi fino al giorno prima. I boschi sono molto diversi dalla steppa, è difficile trovarvigrossi animali da cacciare; ma dopotutto ora ero solo, mi bastava poco. E poi la fauna è varia, la floraancora di più, e lungo le scarpate, ai fianchi delle montagne, c’erano molte grotte.

In fondo alla vallata, oltre il bosco, c’erano vaste radure innevate, che praticamente finivano a ridosso

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del monte. In un posto come quello, a quella mia età, ero morto… era ora di riprendere da dove avevointerrotto a vivere, lo avevano capito anche i miei geni. E a pochi capita un’occasione del genere!

Camminai parecchio, fino a quando venne il buio; comunque non era tardissimo, solo che era inverno.

Non avevo alcun strumento, solo le mie pelli per coprirmi. Mi sarei dato da fare il giorno dopo, intantobastava trovarmi un riparo. Tra salite e macchie più fitte, raggiunsi una delle zone rocciose. Forte odoredi muschio; lo scroscio di un ruscello; addirittura qualche ululato lontano. Ed ecco un’apertura tra lerocce; per passarvi mi dovetti chinare, ma dentro si apriva in un ambiente decisamente più spazioso.Dentro c’era terriccio umido, il buio era totale, a la temperatura appena più alta; per quella mia dimoraprovvisoria, dovevo fare

almeno un piccolo fuoco.

Mi affacciai di nuovo all’esterno, guardandomi attorno. In cielo cominciavano ad accendersi le stelle; lefissai a lungo… Pensai. E mi rattristai un po’ a ciò che avevo pensato. Nawkoh era sempre statoconvinto che le stelle fossero gli occhi degli spiriti del cielo; che il Sole, di notte, andasse a coricarsi inun’immensa caverna sotto il mondo; che la Luna ogni mese fosse gravida di esseri viventi, destinati allaterra, che i tuoni fossero la voce delle nubi. Linus Morrison invece sapeva che le stelle sono ammassid’idrogeno che brucia, che la terra si gira, nascondendosi al sole; che la luna è illuminata dal sole, maperiodicamente è in ombra.

Ed ora non potevo negare che Linus Morrison avesse ragione; e fu triste, perdere tutte le mie precedenticonvinzioni solo a pensarci un po’.

Due ore dopo, dormivo profondamente nella mia grotta, accanto a un falò crepitante.

Mi svegliai, e la luce rosata dell’alba si profuse per le pareti della caverna; il fuoco si era ridotto aqualche legno carbonizzato. Sbadigliai, stirai le braccia e le gambe; sorrisi quando vidi mia moglie (omeglio, una delle mie due mogli) dall’altra parte delle braci, che mi sorrideva a sua volta: non era affattouna brutta donna… certo, era leggermente sporca e spettinata, ma guardavo certe cose ancora con gliocchi di Linus. Seduta accanto a lei, nostra figlia, la piccola dagli occhi furbi; ma il suo viso era pallido, isuoi occhi scavati, e il collo e le braccia magri magri. Ormai stava morendo… probabilmente mancavanopochi giorni. Sorrisi anche a lei, ed i suoi occhi si accesero. Non riuscivo proprio a ricordarne il nome.

Fu per me assolutamente normale scorgere all’esterno l’altro figlio conversare con un compagno dicaccia, e udire alcune donne chiamarsi in un linguaggio antico.

Abbassai le palpebre e le sollevai, il tempo di un battito di ciglia: tutti erano scomparsi. In quella deboleluce, ora, al mio fianco stava Marika.

Compresi che avrei sofferto di solitudine.

 

Capitolo XXXIII  

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Per un certo periodo mi ero convinto di essere l’uomo di trentaquattro mila anni prima. Il mondo che micircondava poteva sembrare identico, tanto più che mi addentravo progressivamente nelle zone piùincontaminate della vallata.

Non cercavo la presenza dell’uomo moderno, della specie a cui non appartenevo, ma ritrovavoinevitabilmente le sue tracce. Fino ad approfittarne.

E’ molto più facile uccidere una capra o una pecora tagliandole la gola, piuttosto che fare la posta aquattro pennuti per ore. Riuscivo persino a sentirmi un ladro, ma non avrei mai, allora, adottato una vitache non era la mia: alla mia morte non esistevano l’agricoltura e l’allevamento. Si raccoglieva il nutrimentovegetale, e si seguivano le migrazioni di quello animale. Ora, io migrare non potevo di certo, perchénient’altro migrava, a parte certi uccelli; il mio territorio, per essere solamente mio, era vastissimo, mastavo sempre rinchiuso tra qualche montagna. Complessivamente, solo per qualche mese soffrii la fame;essere l’unico da mantenere aveva i suoi vantaggi. Ma ci si rende conto di quanto si abbia bisogno dicompagnia.

Mi tenevo occupato per la maggior parte del tempo, cercavo di non farmi mancare nulla, il che richiedeun lavoro continuo. Scolpii centinaia di pietre, fabbricando altrettante armi e utensili, uccisi molti animali,accesi moltissimi fuochi. Vantavo di un buon vestiario: possedevo mantelli, casacche, pantaloni, calzari epersino un rudimentale paio di guanti. E la mia vera passione, come lo era sempre stata, era l’arte.Abitavo principalmente in due caverne: non erano spaziose ed articolate come quelle che conobbi inSiberia, ma sapevano dimostrarsi accoglienti; avevo letteralmente ricoperto le loro pareti di figure.

Cominciai a rappresentare gli esseri viventi con cui convivevo adesso, e che prima non conoscevo…anche le pecore. Avevo soprannominato un piccolo budello di roccia “galleria delle capre” (nel mioidioma non avevo la parola per “capra”), poiché le capre erano l’unico soggetto presente.

Con un certo sollievo da parte mia, non era più ricomparsa l’immagine del cerchio racchiuso in un altrocircolo. Ormai, avevo capito da tempo cosa significava l’immagine disegnata nella casa che condividevocon Carol tempo prima: l’uomo sopra il circolo era Nawkoh, quello più piccolo e sotto Nawkoh eraLinus Morrison; i due condividevano la stessa cellula, e i tre artigli, cioè l’Orso delle Caverne, li avevaseparati. Adesso, all’entrata di una delle due mie grotte, era raffigurato il solo Nawkoh accanto al corpomorto dell’Orso delle Caverne; quel disegno fu una sorta di vendetta.

Mi ero dato anche alla scultura, ed l’opera di cui andavo più fiero era una fila di pesci che saltavanodalle onde, ricavata dai palchi di un vecchio cervo. La conservavo in una nicchia, accanto alla mummia.

 Sentivo sempre un forte attaccamento verso il mio antico corpo, a volte lo liberavo dello strato dipellicce in cui era avvolto e mi mettevo a fissarlo, anche per delle ore. E non era per narcisismo, comeaveva insinuato una volta John Baggins.

Notai pure che le mie visioni si facevano meno frequenti, ma, quando comparivano, le vivevo conmaggior intensità.

Devo ammettere che ogni tanto avevo provato un fortissimo impulso a tornare indietro, mescolarmi dinuovo con la gente come aveva fatto Linus. Una volta, tra le più significative, fu quando alcuni pastoricercavano le mie tracce: nel giro di qualche mese avevo fatto la festa ad un paio di mucche, cosa che miaveva assicurato pappa a volontà. Loro molto probabilmente abitavano nelle zone più vicine ai marginidel bosco, a parecchi chilometri dal primo centro abitato. Comunque, rischiai grosso; alla finerinunciarono alla ricerca del misterioso ladro di bestiame, ma senza rendersene conto si erano avvicinatidi qualche decina di metri. Li avevo osservati da un folto gruppo di arbusti, finché non salirono sul loro

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fuoristrada e scomparvero. Se non l’avessero fatto prima, credo che sarei sbucato dal fogliame: “salve,mi chiamo Nawkoh Morrison, o Linus Nawkoh, come preferite. Sarei onorato di fare la vostraconoscenza”. Quelli mi avrebbero portato alla polizia o in manicomio, magari sarei stato riconosciuto epoi l’inferno di nuovo. Non cedetti perciò alla tentazione.

Era la primavera dei miei quarantatré anni.

 

 

Capitolo XXXIV  

Passò l’estate, l’autunno, passò l’inverno e la primavera successiva, e di nuovo l’estate e l’autunno. Poiincontrai Basil. Si era in pieno inverno, il bosco era ammantato di neve come i picchi delle montagne,nell’aria soffiava di continuo un vento gelido; nonostante ciò, sapere che in altro caso sarei stato nellegrinfie del dottor Wonder mi faceva sentire felice come una pasqua.

Era un primo mattino, quando il rimbombo di uno sparo scosse tutto; ne avevo sentiti parecchi, daquando ero giunto al mio territorio, ma mai uno così vicino. Infatti non mi ero reso conto di essermiavvicinato alla strada; stavo girovagando per macchie e radure, in una delle mie battute di caccia. Questepotevano durare alcuni giorni, costringendomi a dormire fuori di notte; inevitabilmente perdevotemporaneamente l’orientamento. Lungo la strada asfaltata era relativamente facile trovare “esponenti”della vita moderna: turisti di passaggio, semplici viaggiatori, escursionisti, cacciatori e pastori. Scorsiun’auto con catene alle ruote ferma lungo il ciglio; proseguii parallelamente ad un sentierino di terrabattuta che s’inoltrava tra la vegetazione in salita, infine trovai un quarantenne con fucile al braccio che siguardava in giro. Cercava la lepre che aveva impallinato.

Stavolta non seppi resistere, ed uscii allo scoperto; allora, esternamente, era evidente comeappartenessimo a due mondi diversi. L’uomo era di alta statura, ed aveva un viso quadrato, con occhiscuri e sferici; indossava scarponi, jeans, un giaccone impermeabile e un berretto foderato di pelo, checopriva le orecchie. Io, ai suoi occhi (che poi corrispondevano a quelli di Linus Morrison) non dovevoessere un bello spettacolo: come minimo uno si turba nel vedersi davanti un tizio con barba e capellilunghi e cordosi, che nascondono i lineamenti. Ero infagottato di pelli: calzari di lupo, pantaloni spessi edue mantelli… ai fianchi portavo ancora la pelle del cane di Marika; stringhe e lacci un po’ dappertutto, euna collana di denti. Riposi a terra il sacco con le zagaglie, per farmi vedere disarmato.

“Salve” dissi con un filo di voce, accennando ad un sorriso. L’altro rimase muto a fissarmi.

Avevo il respiro grosso; formulai mentalmente la frase successiva, prestando attenzione a che linguausare:

“E’ la prima volta che passa da queste parti?”

“…veramente no…” mugolò.

Era mio ospite; dovevo pur offrirgli qualcosa… Frugai nella bisaccia e tirai fuori una piccola pernice.

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Avvicinatomi di un passo, gliela porsi tenendola per le zampe:

“Prego… - la prese – Come si chiama?”

“Basil…”

“Sono… sono Linus Nawkoh”. Ci stringemmo la mano rapidamente, per poi ritirarla entrambi quasi discatto.

Nemmeno due minuti dopo Basil era arrivato alla sua auto, mentre io ero di fianco a lui fingendomitranquillo. Fece per aprire il bagagliaio e riporre il fucile, quando la vettura, parcheggiata in discesa, simosse e scivolò lungo la strada ad una velocità incredibile.

“Cazzo!!” urlò lui, sbilanciandosi in avanti. La macchina era già a una decina di metri più in giù, erischiava di finire fuori strada: una catena si era rotta. Mi misi a correrle dietro, ma sentendomi le gambestranamente pesanti; riuscii a raggiungerla, ad aprire la porta del guidatore e salire a bordo. Ce la misitutta per riportarla in carreggiata con una sterzata, ma ce la feci solo per metà; tirai il freno a mano.Intanto Basil era arrivato a sua volta.

“Ti eri dimenticato di tirare il freno a mano” gli dissi sorridendo.

“Accidenti… per poco addio auto… Cerchiamo di riportarla in strada”.

Spingemmo la macchina per il cofano, sudando sette camicie, ma alla fine sistemammo la cosa. Poi loaiutai a rimettere una catena nuova alla ruota posteriore, col risultato che si ruppe il cric.

“Neanche tu esperto meccanico, eh?” gorgogliò Basil in un impeto di cameratismo; annuii, scostandomi icapelli davanti agli occhi.

“Abiti qua intorno, Basil?” domandai.

“No, no, abito in una metropoli. Sono nato qui però; i miei erano pastori, e lo sono stato anch’io finoall’età di sedici anni… Poi, sai com’è, sono andato a lavorare e ho fatto su famiglia… cioè, non che midispiaccia, anzi! Ho tutto quello che voglio dalla vita, non mi posso lamentare… Ma non appena ho unbriciolo di ferie torno qui, in genere per cacciare… era la mia passione. Figurati, appena ti ho visto hopensato che fossi uno di quei fanatici di Greenpeace…”

“Ma va?”

“Invece sei uno di qui… un pastore forse?”

Chiusi le palpebre per qualche istante; mi ronzava in testa quel motivo dello Schiaccianoci, la “danzadella Fata Confetto”… boh?

“No – dissi infine – Solo un nostalgico come te”.

E così Basil tornò alla sua città, dopo la battuta di caccia delle ferie. Sembrò calare subito la notte, dopoil mattino. Mi addormentai sul ciglio della strada asfaltata, in una conca tra la neve, ai piedi di un alberospoglio. E stamattina mi sono svegliato.

 

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Capitolo XXXV  

Ho passato nei boschi circa tre anni. Non dico, durante quel tempo, di aver odiato Linus Morrison, masento di aver sbagliato qualcosa. Il fatto di averlo accantonato, forse… No, non credo, in fondo non l’homai abbandonato del tutto: ho avvicinato un suo simile ieri, ho accostato il suo nome a quello di Nawkoh.

Sono stato un cretino; Linus ha due figli e una moglie, mentre la famiglia di Nawkoh non esiste più; laspecie di Nawkoh non esiste più. Perché favorire lui?

Sto sbagliando ancora, non avrei dovuto separarli come due persone diverse. Semplicemente,quarantatré anni fa, alla mia seconda nascita, mi sono adattato alla vita del ventesimo secolo dopo Cristo.

Tornare a tale vita significa ricongiungermi con la mia attuale famiglia, non essere ogni ora tormentatodall’idea di essere l’ultimo di una specie, avere davanti molte opportunità, rispetto all’occuparsi dellapura sopravvivenza. Significa anche andare incontro a gente, vedi dottor Wonder, che blatera di avermicreato e mi sta addosso per osservare ogni particolare della sua creatura… Ma Wonder non mi fa paura,perché adesso so con esattezza chi sono e lui non è più importante nella mia vita; posso benissimoaffrontarlo.

Probabilmente i miei ricordi si faranno vivi per sempre, e non mi abbandoneranno mai. Non è un male.Mi pare che sia tutto a posto: il corpo di Nawkoh, cioè anche quello di Linus, insomma il mio, è al riparonella sua nuova caverna. Quello è il vero posto per le sue vecchie cellule morte; quelle nuove, che micompongono ora, non hanno ambiente proprio… e nemmeno questo è un male. Domani farò unasorpresa ad un bel po’ di gente, e per questo ho da tutta la mattina un sorriso ebete stampato in volto.

Perciò, se state percorrendo una strada asfaltata in discesa, coperta di ghiaccio (mi raccomando lecatene alle ruote dell’auto) sotto la neve fioccante, e vedete un capellone coperto di pellicce che mostra ilpollice sperando in un passaggio, potete dedurre che sono io, e che non sono un pazzo pericoloso.

Se mi fate salire, vi chiederei di informarmi di quello che è successo in questi tre anni nel mondo, magari,se l’avete, di mettere su della musica di Louis Armstrong, che a Linus è sempre piaciuta. Se tirate diritti,pazienza: Nawkoh, fatto di nuvole, ha vissuto nelle gelide steppe per molto tempo, è abituato alle lunghemarce, e tornerebbe a casa anche sulle sue gambe.

   

 

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DiSara

 

 

 

           

    

  

 

 

 

 

 

 

 

 

Note  

Vi è piaciuto? No? Ok…

Comunque, per concludere in raffinatezza, mi sento in dovere di sottolineare le onnipresenti citazioni diquesto racconto…

 

·       Linus Morrisonè ovviamente in onore di Charles M. Schulz, e del suo personaggio Linus (lostupido bambino con la coperta, come direbbe Snoopy), nonché dell’immortale cantante dei Doors, JimMorrison.

·       PageCarol, sua moglie, porta il cognome di Jimmy Page, chitarrista dei Led Zeppelin (e mi perdonilui… che sicuramente sarà in ascolto…)

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·       McCartneyla ditta di aspirapolvere, è un omaggio a Paul McCartney, dei magnifici quattro, iBeatles (vai, Ringo!)

·       Marikaè il secondo nome della mia compagna Silvia…

·       Wonderil dottore, a prescindere dal suo antipatico ruolo, è un tributo all’amato Stevie Wonder.

·       AmberAllister, anche per lei indipendentemente dal ruolo, è per Ambra.

·       Davidè un’attenzione per tutti (e tre) i Davidi che conosco… più David di Michelangelo e FoxMulder.

·       Baggins John(John come Lennon) è in onore agli intrepidi hobbit Bilbo e Frodo Baggins, e del lorocreatore Tolkien… Colgo l’occasione per salutare Gandalf il mago e Gimli il nano.

·       Tenpennyla portinaia, è un nome ispirato ad un brano di musica celtica, “The Tenpenny piece”.

·       EdgarVattelappesca, è un modesto e indegno omaggio allo scrittore Edgar Allan Poe.

·      Basilsi chiama così in ricordo di un comicissimo cartone Disney, tale “Basil l’investigatopo”…Troppo ganzo, raga!

 

 

Soloparole

 

I Sogni

 

 

Edizioni Soloparole

 

www.soloparole.com

 

 

 

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Prima edizione Maggio 2002

 

Realizzazione E-Book a cura di Soloparole.

 

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