Storia di San Salvi, manicomio di Firenze

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Università degli Studi di Firenze Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” Corso di laurea in Comunicazione Strategica Tesi di Laurea Magistrale in Storia Sociale della Comunicazione SAN SALVI, DA ISTITUZIONE TOTALE A DIROMPENTE LINGUAGGIO DI COMUNICAZIONE SOCIALE Relatore: Marco Sagrestani Candidata: Ginevra Freni Anno accademico 2011/2012

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Questo elaborato ripercorre un aspetto poco conosciuto e anche dimenticato della storiadella città di Firenze: la nascita, l’evoluzione e la fine del manicomio di San Salvi.Una storia che non solo si sviluppa all’interno della struttura manicomiale, ma che haavuto effetti anche all’esterno.Ancora oggi, che la struttura non assolve più la funzione per la quale era stata creata, leripercussioni non mancano. Il dibattito, anche acceso, persiste sul futuro di questoenorme patrimonio edilizio che conserva la memoria storica dell’istituzionemanicomiale.

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Università degli Studi di FirenzeFacoltà di Scienze Politiche

“Cesare Alfieri”

Corso di laurea in Comunicazione Strategica

Tesi di Laurea Magistrale inStoria Sociale della Comunicazione

SAN SALVI,DA ISTITUZIONE TOTALE A DIROMPENTE

LINGUAGGIO DI COMUNICAZIONE SOCIALE

Relatore: Marco Sagrestani Candidata: Ginevra Freni

Anno accademico 2011/2012

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Alla mia famiglia

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Una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti,

una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.

Luigi PirandelloUno, nessuno e centomila, 1925

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Indice

Introduzione ....................................................................................................................7

Capitolo 1- Storia di San Salvi, manicomio di Firenze ................................................9

E follia fu.......................................................................................................................9

La Road Map che porta ai “tetti rossi” ........................................................................12

Alla riscoperta “dell’anima”........................................................................................32

Capitolo 2- Il ricordo “dello spazio della follia” attraverso le persone che lo hannovissuto.............................................................................................................................43

La puntualità del destino .............................................................................................43

Luogo che diventa palcoscenico, il luogo, soggetto che comunica: C’era una volta …il manicomio ................................................................................................................49

Testimonianze .............................................................................................................56

Follia in diretta ............................................................................................................74

Lettere e poesie ritrovate nelle cartelle cliniche del manicomio di San Salvi: i pensierie i racconti di due internati ..........................................................................................77

Capitolo 3 - Opinioni a confronto ...............................................................................93

Considerazioni “sull’esclusione sociale”: identità, devianza e stigma........................93

Il cinema interpreta il problema ..................................................................................99

L’opinione pubblica nei confronti della “questione manicomiale”...........................102

Interventi legislativi successivi alla n.180.................................................................111

Inchiesta su ‹‹La Repubblica›› Dove è finita la follia? .............................................113

Articolo 19 maggio 2012 da ‹‹Il Giornale›› Che follia, in Italia si usa l’elettroshock...................................................................................................................................119

Conclusioni ..................................................................................................................121

Appendice ....................................................................................................................125

Bibliografia ..................................................................................................................143

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Ringrazio il Professor Marco Sagrestani e il Dottor Massimo Nardini per i preziosi

insegnamenti, per l’attenzione, per la disponibilità e per il tempo dedicato al mio

lavoro.

Ringrazio, inoltre, i Chille de la Balanza, Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza, che sono

stati sempre presenti durante la stesura della mia tesi con suggerimenti, fornendomi

materiale e coinvolgendomi nella loro attività teatrale.

Un pensiero riconoscente alla signora Concetta Pellicanò, al signor Renato Bartolozzi,

al dottor Pino Pini, alla dottoressa Anna Maria Uncini e alla signora Dana Simionescu

che hanno collaborato e sono presenti nel testo con testimonianze di vita vissuta.

Sottolineo la particolare disponibilità del dottor Giuseppe Fioravante Giannoni per

avermi fornito testi inediti, indispensabili alla realizzazione della tesi.

Desidero ringraziare i miei genitori, Norma e Vincenzo, mia sorella Veronica, i miei

nonni e Clara per il sostegno ed il grande aiuto che mi hanno sempre dato.

Ringrazio in particolare Tommaso per essermi stato vicino, avermi ascoltata e

supportata in questo lungo periodo di studio.

Inoltre vorrei esprimere la mia sincera gratitudine a Sandra per i preziosi consigli che

mi ha dato.

Infine ringrazio affettuosamente le care amiche: Vanessa, Valentina, Elena, Francesca

e Clara sempre presenti nel mio percorso di studio e di crescita.

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Prefazione

Il lavoro svolto nasce dal legame tra San Salvi, ex-manicomio di Firenze, e i laboratori

della compagnia teatrale Chille de la Balanza a cui ho partecipato.

Nel 2002, quasi per caso, arrivai a San Salvi, padiglione B, con mia sorella Veronica,

che era a conoscenza del progetto teatrale che sarebbe stato realizzato in occasione della

giornata mondiale contro l’Aids.

Attraversato il cancello rimasi da subito affascinata da questo luogo di cui sino ad allora

non avevo mai sentito parlare.

Mentre camminavo verso il padiglione, ricordo, rimasi colpita da un gruppo di persone,

direi pittoresche, che incrociai nel vialetto.

In quel momento non avevo ancora ben chiaro di trovarmi dentro una struttura

manicomiale che fino a pochissimi anni prima era stata un contenitore di tante storie di

vita. Non potevo immaginare che quelle persone stravaganti altro non fossero che ex-

internati.

Mi impressionò la vastità di questo ambiente ed i suoi enormi padiglioni immersi nel

verde; per non smarrire la strada seguimmo la segnaletica gialla che portava, e porta

ancora adesso, alla sede della compagnia Chille de la Balanza.

Osservavo i vialetti, i padiglioni e i disegni sui muri che raccontavano un passato che in

quel primo momento non comprendevo completamente.

Una volta arrivati al padiglione, dedicato alla sperimentazione teatrale, ebbi come primo

impatto la sensazione che il modo di lavorare del regista Claudio e della sua compagna

di vita, Sissi, fosse straordinariamente diverso, nuovo rispetto alle mie esperienze

precedenti. Parole, gesti, musiche si intrecciavano con il luogo, un teatro di emozioni in

cui tutto, persone e oggetti, partecipavano.

Successivamente, attraverso le tante iniziative della compagnia teatrale, impegnate

anche a mantenere e diffondere la memoria del luogo, sono rimasta affascinata dalla

storia del manicomio e di chi aveva abitato quei luoghi.

È così, semplicemente, che è nato l’interesse di approfondire la tematica con questa

ricerca.

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Introduzione

Questo elaborato ripercorre un aspetto poco conosciuto e anche dimenticato della storia

della città di Firenze: la nascita, l’evoluzione e la fine del manicomio di San Salvi.

Una storia che non solo si sviluppa all’interno della struttura manicomiale, ma che ha

avuto effetti anche all’esterno.

Ancora oggi, che la struttura non assolve più la funzione per la quale era stata creata, le

ripercussioni non mancano. Il dibattito, anche acceso, persiste sul futuro di questo

enorme patrimonio edilizio che conserva la memoria storica dell’istituzione

manicomiale.

Non verrà fatto riferimento agli aspetti tecnici della disciplina psichiatrica, ma

all’impatto comunicazionale esercitato dal manicomio.

È questa una realtà che fino al 1998 è rimasta sconosciuta alla maggior parte dei

fiorentini, eccetto quelli direttamente interessati.

Da questo momento gli eventi, le performance della compagnia teatrale Chille de la

Balanza e, successivamente, gli spettatori coinvolti e la stampa locale hanno fatto da

megafono, diffondendo la memoria del luogo.

Il primo capitolo è dedicato ad un excursus storico dell’istituzione manicomiale

fiorentina, dalla nascita al suo smantellamento. Dopo una descrizione delle varie

strutture utilizzate prima di San Salvi per ospitare i malati di mente, si passa a

raccontare il nuovo complesso dedicato espressamente allo scopo, sia dal punto di vista

architettonico che dal punto di vista funzionale.

Una parte di rilievo è dedicata alla percezione che si aveva della malattia (o meglio

delle diverse patologie) e all’aggregazione tipologico-funzionale nei diversi padiglioni.

Cambia nel tempo il rapporto paziente/medico-infermiere. Un’evoluzione della

comunicazione interpersonale a due vie che sfocerà poi in un vero e proprio

abbattimento delle mura che separavano il malato dall’operatore sanitario. Il personale

infermieristico in questa fase si pone all’ascolto del paziente consentendogli di

esprimersi in tutte le modalità a lui più congeniali: pittura, poesia, musica, graffiti … al

fine di capire come e dove intervenire.

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La seconda parte della tesi prosegue con l’incontro della compagnia teatrale Chille de la

Balanza, alla ricerca di un spazio dove svolgere uno spettacolo, e il manicomio ormai in

fase di smantellamento.

Da questo momento in poi i Chille de la Balanza si stabiliscono nell’area e il forte

contatto con l’ambiente manicomiale, colmo di memoria, crea l’esigenza di comunicare

questa realtà alla città promuovendo in quei luoghi alcuni eventi.

È in questo momento che l’ambiente scenico si fonde con la rappresentazione, cattura il

cittadino in uno spettacolo-affabulazione consegnandogli una parte della storia locale,

che deve essere ricordata.

Nel secondo capitolo la storia del manicomio continua ad essere approfondita da più

punti di vista, sia attraverso i racconti di professionisti che a vari livelli hanno lavorato

ricoprendo ruoli attivi nella struttura, sia attraverso le testimonianze epistolari dei

ricoverati. Utilizzando la tecnica dell’intervista vengono riportate esperienze di vita

vissuta che si intrecciano, si sovrappongono e arricchiscono questo lavoro di emozioni,

umanità e conoscenza.

Il terzo capitolo affronta il tema del “diverso” nella società. Film, articoli di giornale,

testi, documenti, riviste permettono un excursus attraverso i media che consente di

capire la sensibilizzazione socio-politica della società contemporanea verso il problema

della diversità e dell’emarginazione. Nello stesso capitolo si trovano non solo la

legislazione relativa alla riforma di Basaglia, ma anche quelle proposte recenti di

cambiamento che hanno seguito negli anni la legge 180.

Si conclude la ricerca con un’inchiesta recente che fotografa la situazione della

riconversione delle strutture manicomiali dismesse in Italia. Questa indagine dimostra

che tali strutture non hanno ancora trovato un utilizzo che permetta di mantenere la

memoria storica, architettonica, urbanistica di realtà che, se ben riconvertite,

offrirebbero notevoli potenzialità.

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Capitolo 1- Storia di San Salvi, manicomio di Firenze

E follia fu

Attraverso i secoli, nel corso della storia, il malato di mente ha sempre ricevuto

trattamenti, comportamenti estremamente condizionati e determinati dalle

considerazioni, peraltro sempre mutevoli, che l’opinione pubblica si era costruita

riguardo allo stereotipo di chi era ritenuto “diverso”.

Il destino del “folle” fin dall’inizio del XV secolo è stato legato a doppio filo con quello

della gente afflitta dalla miseria, infatti non vi era nessuna distinzione tra il vagabondo e

il folle, in quanto accomunati dai loro comportamenti. Erano simili le condizioni

economiche e la pericolosità sociale, dalle quali dipendeva l’intervento pubblico per

l’allontanamento del folle dalla società civile.1

Lo squilibrio mentale derivato dalla follia era causato dall’invasione del corpo da parte

di un demone e talvolta, era addirittura identificato con l’effetto di una maledizione.

Infatti nelle società dell’antica Grecia, nel 500 a.C., il trattamento per la cura

dell’indemoniato era praticato dai sacerdoti del tempio, i quali, tramite alcuni rituali e

preghiere, cercavano di calmare e interpretare i sintomi della malattia mentale come se

fossero stati inoculati da una divinità. 2

La percezione della follia, che si era sviluppata durante il Medioevo, era di origine

mistica e religiosa. Essa veniva considerata un peccato morale e comportamentale che

distruggeva l’anima e si contrapponeva alle virtù umane3 ed infatti, nella cultura e

nell’iconografia popolare, faceva parte dei cosiddetti “sette vizi capitali”. 4

Ai folli e quindi agli “indemoniati”, così venivano classificati, era vietato l’ingresso

nelle chiese, erano valutati talmente pericolosi per la società, che, quando si trattava di

donne indemoniate, si parlava di stregoneria, con conseguenti accuse di eresia e morte

sul rogo. Durante il XV secolo, malgrado l’esclusione della “follia” dalle sedi delle

istituzioni cittadine, all’individuo alienato non era necessariamente precluso un ruolo

sociale. 5 Durante il Rinascimento i folli venivano generalmente identificati con

1 Donatella Lippi, San Salvi storia di un manicomio, Firenze, Leo S. Olschki, 1996, p. 152 Dattiloscritto di Giuseppe Fioravante Giannoni, Nel dentro di dentro, Lettere da un manicomio e dallafollia, Firenze, 1980, p. 43 Prudenza, giustizia,fortezza,temperanza4 Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia.5 Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, BUR Rizzoli, Milano, 2011, cap. I, p. 16

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l’appellativo di “viandanti e vagabondi”, fino a quando, a partire dalla scomparsa della

lebbra dal mondo occidentale, il loro posto venne ereditato dalla follia. I pazzi furono

rinchiusi e segregati nelle stesse strutture che un tempo ospitavano i lebbrosi.6

Fu nel Seicento che in Europa la polizia cominciò ad esercitare i primi provvedimenti di

sicurezza nei confronti dei malati di mente; da quel momento in poi, la follia venne

considerata non una malattia, ma un reato, al pari di altri reati, così ebbe inizio la storia

del suo internamento, dell’isolamento, fino alla sua emarginazione dalla società.7

Il 27 aprile 1656 Luigi XVI, riconoscendo la presenza dei malati di mente come un

problema sociale, fondò a Parigi l’Hôpital Général, considerato una delle prime strutture

manicomiali. Si trattava appunto di uno dei primi ospedali destinati ad accogliere gli

“alienati”. Il re emanò un editto, in cui ordinava che in ogni città del suo regno fosse

edificato un Hôpital Général, facendo riferimento all’esempio parigino. É da questo

momento che iniziò sia la pratica di rinchiudere il folle in una struttura di sicurezza ad

opera del reparto di polizia, che di riconoscere l’origine patologica della malattia.8

Il medico francese Philippe Pinel, direttore di uno di questi ospizi, fu colui che operò

una distinzione scientifica dei malati mentali dagli indigenti e dai criminali,

riconoscendo la follia come una malattia, oggetto, pertanto, della scienza medica. A

partire da tale mutamento, nella pratica della reclusione degli alienati, si cominciò a

comprendere l’esigenza di osservare e studiare il comportamento del folle al fine di

guarirlo.9

Grazie all’influsso del nuovo spirito e dei valori dell’Illuminismo, in rapida diffusione

in tutta Europa, le malattie mentali iniziarono ad essere analizzate e trattate con criteri

più scientifici ed umani.

Pinel definì la pazzia come una patologia e si spinse sino ad individuare e definire

cinque possibili categorie di malattie mentali: la malinconia, la mania senza delirio, la

mania con delirio, la demenza e l'idiotismo.10

Il medico francese inoltre elaborò un innovativo manifesto sul cosiddetto “trattamento

morale” dei malati di mente fondato sul principio in base al quale il folle non dovesse

essere inteso come “insensato”, bensì quale soggetto puramente “alienato”.11

6 Ibidem7 D. Lippi, Op. cit., pp. 13-158 G. F. Giannoni, Op. cit., p. 49 Ibidem10 Philippe Pinel, Traité médico-philosiphique sur l’aliénation mentale, Paris, 1809, dal Fondo antico del“Centro di documentazione di Storia della psichiatria San Lazzaro”<http://www.ausl.re.it/biblioteca/html/3120.html> p.1/28

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Secondo Pinel, nei soggetti affetti da malattia mentale una residua parte di ragione è

funzionante e, tramite essa, si sarebbe dovuta stabilire una relazione terapeutica.12

Per questo motivo Pinel riteneva che per la cura del folle, oltre che per motivi di

sicurezza, fosse necessario un luogo strutturato e ben organizzato. Tale struttura doveva

essere necessariamente sottratta ad eventuali influenze esterne ed in essa si sarebbe

provveduto a svolgere un monitoraggio continuo della malattia e della sua evoluzione. Il

nuovo metodo, fondato sul rigore dell’osservazione scientifica, sarebbe stato possibile

grazie alla presenza permanente di un medico.13

Il processo di specializzazione di questi medici finì per dare luogo in breve tempo ad un

sistema in cui ad essi fu possibile acquisire progressivamente sempre maggior potere

discrezionale. Spettava loro, infatti, in via esclusiva, la definizione di trattamenti e

metodi per affrontare la malattia lungo l’intero corso della cura. In questi ricoveri per la

malattia mentale si assistette ad un progressivo cambiamento nel trattamento degli

alienati. 14

Nel tempo infatti, agli strumenti estremamente coercitivi e repressivi utilizzati

inizialmente (come le catene, tipiche della detenzione in cella) si sostituirono alcuni

nuovi mezzi di costrizione più consoni al processo terapeutico. Alcuni esempi: sedie di

contenzione, cinture di cuoio, manette, collari, camicie di forza, pareti imbottite.15

I metodi di cura impiegati in queste strutture erano prevalentemente di tipo violento. Era

infatti diffusa la convinzione che per riequilibrare la mente dei folli fosse necessario

sottoporre questi ad interventi che svilivano la condizione umana. Per questo motivo

venivano utilizzate regolarmente docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamento e

contenzione fisica, purghe, salassi ed oppiacei.16

Ad avviso del Pinel l’alienato era un individuo incapace di padroneggiare i propri istinti

che pertanto potevano essere normalizzati e contenuti solamente attraverso l’uso di

strumenti terapeutici di questo tipo.17

Il cambiamento strutturale avvenuto e la diffusione di questi nuovi metodi di cura, come

afferma Foucault, ebbero impatto molto significativo sulla storia. La pratica

11 Dal latino alienus, trad. altro; con il termine alienato si fa riferimento a colui che è altro, fuori da sestesso, straniero e si abbandona invece la considerazione che il folle sia un essere privo di ragione.12 Ibidem13 Ibidem14 Ibidem15 Giuseppe Riefolo, Istituto Ricci per la Formazione in Psichiatria, Roma, Uno spazio per la follia,<www.istitutoricci.it/uno_spazio_per_la_follia.htm> , agg. 2009 [ultima consultazione 2012- 06 -06]16 D. Lippi, Op. cit., p.1917 P. Pinel, Op. cit., p. 1/28

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estremamente frequente dell’internamento rappresenta l’evento principale a

testimonianza di un primo riconoscimento della follia, come malattia che necessita di un

contesto di cura adatto e specifico.

Questo sarà un luogo che, dedicato alla rigida impostazione di scansioni temporali,

porterà il malato a svolgere determinate operazioni in base a cicli di ripetizione

predefiniti e regolati.18

La Road Map che porta ai “tetti rossi”

Nel XVIII secolo l’Europa era attraversata dalle idee dell’Illuminismo, forte spirito

riformatore. In questa situazione si fecero strada due concetti fondamentali per

l’evoluzione scientifica: l’osservazione e la sperimentazione galileiana.

Nella seconda metà del Seicento in Toscana, a Firenze, nasceva il primo istituto definito

“manicomio”. Grazie alla documentazione raccolta nel Regolamento dei Regi Spedali di

Santa Maria Nuova e di Bonifazio, stampato nel 1789, durante la riforma del Granduca

Pietro Leopoldo, è oggi possibile ricostruire la storia sanitaria fiorentina attraverso i

secoli, con particolare attenzione all’ordinamento che essa ricevette alla fine del ‘700.

Nel trattato si trovano notizie sull’evoluzione degli studi medici, sull’organizzazione

assistenziale dell’epoca e sulle relazioni che intercorrevano tra il potere della Chiesa e

quello del Granducato.19

Fino al 1640 ai “pazzi fiorentini” erano destinate sorti distinte in base alla classe sociale

di appartenenza. I benestanti venivano destinati alla reclusione nella Fortezza da Basso.

Per lo più nel loro caso si trattava di un internamento che avveniva “occasionalmente”.

Diversamente, poveri ed “asociali” venivano destinati al carcere delle Stinche, che negli

ultimi tre secoli era stato utilizzato come “contenitore” dei cosiddetti scarti della società,

ovvero delinquenti, criminali, prostitute, alcolizzati e folli.20

Nel 1642 in seguito alla donazione di duemilacinquecento scudi da parte di un frate

dell’ordine dei Carmelitani le cose cambiarono. Tale notevole somma di denaro

contribuì alla realizzazione del primo ospizio destinato al ricovero dei malati di mente a

Firenze. Si trattava di una casa di relativamente piccole dimensioni soprannominata “la

Santa Dorotea dei pazzerelli”, al Canto della Mela, vicino a Via Ghibellina. Essa può

18 M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993, cap. II , pp.186-18719 G. F. Giannoni, Op. cit., p. 420 D. Lippi, Op. cit., pp. 45- 48

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essere considerata il secondo manicomio istituito in Italia, dopo quello di S. Maria della

Pietà a Roma risalente al 1518. 21

Questo piccolo manicomio veniva gestito ed amministrato da una congrega di uomini

appartenenti alla nobiltà e solo i malati di mente, che potevano permettersi di pagare la

retta per le cure necessarie, potevano essere ammessi a ricovero al suo interno.22

Il resto della popolazione, ovvero gli appartenenti alle classi più povere e bisognose, nel

XIII secolo, furono trasferiti dal carcere delle Stinche alla cosiddetta “Pazzeria”, uno

“spedaletto” destinato unicamente al ricovero dei malati di mente, che fu realizzato

all’interno dell’ospedale di Santa Maria Nuova.23

II numero dei “mentecatti” bisognosi crebbe velocemente fino a che, a metà del secolo

XVIII non fu più sufficiente lo spazio rappresentato dal manicomio del Santa Dorotea e

dalla “Pazzeria”. Fu per questo motivo che i ricoverati del Santa Dorotea furono

trasferiti in un nuovo istituto presso il Conservatorio delle Fanciulle di S. Maria e S.

Niccolò al Ceppo in Via Torricelle, con l’antico nome di Santa Dorotea.24

Nel 1754 nacque così il nuovo manicomio di Santa Dorotea, il cosiddetto “Spedale dei

dementi”, chiamato in questo modo per volere del Granduca di Toscana in quanto posto

direttamente sotto la sua tutela amministrativa. Nel corso del tempo il Santa Dorotea

divenne l’ospedale ufficiale per gli affetti da malattia mentale e presto vi furono

trasferiti anche i malati di mente dell'ospedale di S. Maria Nuova. In seguito, nel 1785,

la gestione dei due ospedali fu unificata.25

Le procedure per l’ammissione dei malati adottate nello “Spedale dei dementi” erano in

gran parte differenti alle precedenti utilizzate nella casa dei Pazzerelli in via Ghibellina

e nella Pazzeria. Precedentemente la malattia veniva denunciata in quanto tale dalle

rispettive famiglie, le quali peraltro, quando non povere e disagiate, avevano il compito

di provvedere esse stesse alle spese del malato. 26

Nel caso del Santa Dorotea, le modalità necessarie per accedere al ricovero erano in

gran parte diverse.

Lo status di malato mentale doveva infatti essere dichiarato da parte dell’autorità

amministrativa. L’eventuale consegna del certificato avveniva ad opera del giudice ed

21 Ibidem22 Ibidem23 Ibidem24 Ibidem25 Id., p. 1726 Ibidem

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erano inoltre indispensabili una dichiarazione rilasciata dal medico ed il consenso

accordato dal parroco locale.

Tale sistema di controlli successivi ed approvazioni era studiato nella logica di

ammettere alle cure dell’ospedale soprattutto persone che avrebbero potuto permettersi

il pagamento del ricovero.27

Per volontà del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo, nel maggio del 1788, il

manicomio fu trasferito nell' “Ospedale della carità per Dementi” in via San Gallo.28

Fondato nel 1377 da Bonifazio Lupi, esso era stato impiegato in precedenza come asilo

per i poveri ed era situato dove oggi è collocata la sede della Questura.

La struttura di questo ricovero si estendeva tra Via San Gallo, via delle Ruote, via Santa

Caterina, via Lungo le Mura, l’attuale Viale Lavagnini, e il Conservatorio delle

Mantellate. Occupava il circondario dei Monasteri di San Miniato del Ceppo e di Santa

Maria di Querceto, dell’originale Spedale di Bonifazio, dello Spedale dei Broccardi, del

Monastero di San Luca e dello Spedale della Santissima Trinità degli Incurabili, ovvero

questa era la zona riservata alla cura dei malati di mente.29

Fra il 1785 ed il 1788 il complesso del Bonifazio fu ristrutturato dagli architetti

Lorenzo Martelli e Giuseppe Salvietti. Il manicomio era sviluppato su due piani ed era

costituito da 200 camere. Oltre la struttura dell’edificio, furono rimodernate anche le

attrezzature interne dell’ospedale, in modo tale da poter accogliere un numero più

elevato di malati e bisognosi.30

Il 19 maggio del 1788 avvenne un primo trasferimento di pazienti in cura dall’ospedale

di Santa Dorotea all’edificio del Bonifazio. In quest’ultimo successivamente, oltre ai

pazienti affetti da patologie mentali e sociali gravi, saranno trasferiti anche malati affetti

da malattie cutanee, invalidi e incurabili.

Questo fa capire che l’ospedale era concepito come luogo di asilo e segregazione della

socialità, più che luogo di cura clinica per la guarigione.31

Nella società della fine del XVIII secolo, infatti, come abbiamo visto, non veniva

applicata alcuna differenziazione di status tra malati mentali, delinquenti e disagiati.

Le decisioni sul ricovero dei pazienti venivano prese generalmente dalla classe medica,

la quale utilizzava una politica di “pulizia-polizia-controllo” della società.

26 Ibidem28 G. Riefolo, Op. cit., <www.istitutoricci.it/uno_spazio_per_la_follia.htm >29 D. Lippi, Op. cit, p. 4830 Ibidem31 Id., p. 18

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Lo scopo era quello di emarginare, rinchiudere ed eliminare dalla società sia quella

parte di popolazione alienata e bisognosa di cure mediche per motivi di salute mentale,

sia quella parte di popolazione che viveva nella più totale miseria, ovvero composta da

vagabondi, delinquenti, mendicanti ed alcolizzati.32

La volontà di “depurare” la società dai soggetti dissociati fu uno tra i motivi principali

che indussero l’amministrazione pubblica alla decisione di rendere legale

l’internamento del malato di mente. “Il pazzo deve essere rinchiuso perché pericoloso

per sé e per gli altri33 e quindi i motivi di ordine e sicurezza pubblica devono essere

adottati dal giudice in quanto unica autorità istituzionale che ha il potere di giustificare

la perdita della libertà di un individuo”.34

L’onere di dirigere il nuovo manicomio di Firenze, nel 1785, con il titolo di Primo

Infermiere-Direttore, fu dato a Vincenzo Chiarugi, il quale riuscì a distinguersi subito

per le sue idee innovative, sia nell’ambiente medico, che nel panorama culturale

fiorentino. 35

Tra il Dottor Chiarugi e il Granduca di Toscana, sovrano illuminato, si instaurò fin da

subito un’ottima intesa e una collaborazione armoniosa. Il medico riuscì ad interpretare

il suo incarico soprattutto per quello che riguardava l’assistenza ospedaliera, in

conformità ai progetti e alle idee del granduca, che per primo al mondo aveva abolito la

pena di morte nel Granducato di Toscana. 36

Chiarugi si dedicò ad osservare e a studiare la malattia mentale, trascrivendo e

annotando i suoi studi nel famoso “Trattato”37, un progetto sulla cura specifica della

“follia” basato sull’osservazione, sullo studio, sul controllo e sulla tutela del paziente.38

La sua caratteristica distintiva risiedeva in un approccio diverso e innovativo,

estremamente influenzato dalla corrente della scienza illuministica, soprattutto nei

riguardi della cura dei malati di mente.39

Con Chiarugi ebbe inizio una nuova epoca per la cura della follia. Il nuovo

atteggiamento di assistenza ai malati di mente era improntato all’utilizzo di cure che

32 Ibidem33 L’espressione “pericoloso per sé e per gli altri” era contenuta nella legge promulgata n.36 nel 1904 daGiolitti e completata nel 1909 da un regolamento di esecuzione che resterà in vigore fino al 1978. Sitrattava più di una legge di ordine pubblico che non di una legge sanitaria, riguardava , infatti, più laprotezione della società che non la cura del malato, la cura era subordinata alla custodia.34 Id., p. 1535 G. Riefolo, Op. cit., <www.istitutoricci.it/uno_spazio_per_la_follia.htm >36 Ibidem37 Il Regolamento dei regi spedali di Santa Maria nuova e di Bonifazio (1789)38 Ibidem39 Costanza Lanzara, Teatro Comunque, Firenze, Morgana Editore, 2007, pp. 39- 40

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ripudiavano i classici mezzi di contenzione, estremamente crudeli e basati sulla violenza

fisica.40

I trattamenti utilizzati da Chiarugi erano invece prevalentemente di tipo sedativo.

Venivano utilizzate terapie alternative, come bagni caldi e docce alla nuca, la canfora, i

salassi e cure di tipo stimolante come esercizi muscolari, oppure, in alcuni casi, anche

punizioni morali come l'isolamento.41

Tra le innovazioni più importanti di Chiarugi si ebbe l’introduzione della “cartella

clinica”, sulla quale venivano registrate le diagnosi, le terapie e l’evoluzione del caso in

base alla correlazione con gli interventi clinici.42

La cura della malattia mentale veniva adesso messa in stretta connessione con la

serenità che il luogo di cura doveva trasmettere e con il rispetto delle regole istituzionali

all’interno della struttura.

L’”alienato”, nella visione del Chiarugi tipicamente improntata a valori di umanità e di

razionalità, restava pur sempre un individuo, seppur infelice, non certo un criminale, un

peccatore o un disadattato. Anche il malato di mente doveva risultare parte del contesto

sociale. L’obiettivo che il medico si proponeva era di porre il malato in relazione con

altre situazioni sociali e con altri individui.

Dopo il Chiarugi, a partire dal 31 gennaio del 1844, la gestione dell’ospedale passò al

nuovo Direttore Francesco Bini.

Egli individuò fin da subito l’esigenza di separare l’Ospedale di Santa Maria Nuova dal

manicomio del Bonifazio, ritenendo non molto adeguata la localizzazione del primo

edificio .43

Il nuovo direttore riconobbe l’importanza di separare gli uomini dalle donne, di adottare

una divisione funzionale dei reparti a seconda delle categorie comportamentali delle

relative malattie, cioè raggruppare i malati secondo categorie di comportamento.

I pazienti in cura venivano distinti in “tranquilli”, “furiosi”, “sudici” e in “folli

considerati all’ultimo stadio”. In tal modo veniva sottolineata la diversità a livello

nosologico44 tra malati di mente innocui e pericolosi. 45

40 Prima del Chiarugi per immobilizzare i pazzi durante gli stati di agitazione estrema venivanol’utilizzate catene, cinghie di cuoio, i “caschi del silenzio” (che servivano ad isolare il malato), “anelli diforza”..41 D. Lippi, Op. cit, p.1942 G. Riefolo, Op. cit., <www.istitutoricci.it/uno_spazio_per_la_follia.htm >43 D. Lippi, Op. cit., p. 5044 Nosologia: termine medico che si riferisce alla scienza che si occupa della classificazione sistematicadelle malattie.

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Il Bini attribuì importanza anche agli orari dei pasti 46 , alla qualità del cibo e del

vestiario; quest’ultimo secondo il direttore doveva essere fornito in quantità

soddisfacente, in quanto utilizzato da malati costretti a lunghi periodi di degenza a letto.

Questo inoltre, ad avviso del medico, non doveva assomigliare alla divisa dei detenuti

penitenziari.47

La politica adottata dal Bini fu poi dedicata in gran misura al miglioramento degli

aspetti amministrativi, all’individuazione delle carenze organizzative ed al

miglioramento dell’aspetto estetico del manicomio, in base al tentativo di attenuare le

somiglianze con una struttura carceraria.48

Nel corso dell’Ottocento vari fattori storico-sociali sinergicamente determinarono alcuni

mutamenti socio-culturali profondi. Questi si riflettevano in importanti cambiamenti

sociali che sortirono effetti diretti anche nel campo del trattamento clinico della malattia

mentale e della cura dei disturbi psicologici. In primo luogo, con l’avvento delle prime

manifatture di tipo industriale, la popolazione rurale prese a trasferirsi in massa dalle

campagne ai centri urbani, determinando, in prossimità dei centri storici, la crescita di

vaste zone residenziali e periferiche. Questi quartieri iniziarono, per l’appunto, ad essere

popolati dal nuovo sottoproletariato che si era trasferito in città alla ricerca di lavoro

nelle fabbriche cittadine.

Presto sorsero aree “malfamate”, in cui spesso le condizioni di vita erano al limite della

dignità. In tal modo, progressivamente, all’interno delle sfere familiari, si svilupparono

anche certe dinamiche che potevano favorire la nascita di “nuovi” disturbi psichico

evoluti. 49

Al cambiamento in atto si aggiunse un altro fattore di rilievo: la diffusione della

sindrome pellagrosa e della cosiddetta frenesia alcolica, ovvero l’intossicazione causata

dalle esalazioni di piombo.50 La sindrome cronica era peraltro suscettibile di causare

alterazioni e disturbi nervosi.51

45 Id., p. 2046 Il pranzo era alle 10 di mattina e la cena alle 3 del pomeriggio (in estate alle 5).47 Ibidem48 D. Lippi, Op. cit, p. 2149 Id., p. 5150 Ad esempio a Santa Croce sull’Arno c’erano molte industrie delle pelli, la cui lavorazione prevedeval’impiego del piombo.51 C. Lanzara, Op. cit, p. 40

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In questo contesto sociale il malato poteva facilmente essere considerato come un peso

all’interno della famiglia e la soluzione migliore era spesso rappresentata proprio dal

ricovero in manicomio.52

A quel tempo, erano molteplici le cause più comuni che potevano portare alla

reclusione in manicomio. Oltre a quelle dovute alla malattia vera e propria, esse, per gli

uomini potevano collegarsi a situazioni di indigenza economica o di eccesso di gioco

d’azzardo. Anche i dissidenti politici spesso potevano essere costretti alla reclusione.

Per quanto riguarda le donne invece, le cause di reclusione potevano anche essere

ricondotte a questioni amorose, ad un tradimento, al dissenso religioso o a

comportamenti non contemplati dalla morale comune.53

Tenendo presente l’eterogeneità estrema delle categorie ospitate nell’istituto, è possibile

ipotizzare il sopraggiungere di difficoltà nell’approvvigionamento di spazi adeguati al

gran numero di internati.

Presto infatti, per questioni di sovraffollamento, si verificò l’esigenza di trasferire

almeno parte dei ricoverati in un altro complesso. Fu per questo motivo che, nel 1864, i

malati cronici e cosiddetti “meno bisognosi” di cure furono trasferiti a Castel-Pulci, la

Villa-Colonia nel comune di Scandicci, altro complesso ospedaliero che fu messo in

collegamento amministrativo con il manicomio del Bonifazio. 54

Nel 1863 malgrado il manicomio del Bonifazio avesse potuto accogliere fino a 450

ricoverati, ne conteneva ben 905, di questi 553 peraltro provenivano dalla sola Provincia

di Firenze.

Dal 1865 al 1866 ebbe luogo la separazione del manicomio del Bonifazio

dall’Arcispedale di Santa Maria Nova. Fu infatti riconosciuta l’opportunità di separare

l’amministrazione, i beni, i locali ed ogni relazione di interessi tra i due ospedali. In tal

modo al manicomio fu consentita una ben maggiore autonomia sia dal punto di vista

funzionale dell’organizzazione e del reperimento di attrezzature specifiche per le cure

mediche, sia dal punto di vista dei rapporti economici con la Provincia.55

Con tale separazione si provvedeva anche alla cessione al manicomio da parte del Santa

Maria Nova di tutto ciò che allora era considerato indispensabile per l’assistenza dei

52 D. Lippi, Op. cit., p. 5153 Id., p. 2454 L’epidemia di colera che sterminò parte della popolazione manicomiale fu il fattore decisivo peravviare tra il 1861 e il 1864 il trasferimento di circa 200 malati. (C. Lanzara,Op. cit., p. 40)55 Con la nuova legge comunale del 1865 la Provincia era chiamata a rispondere delle spese per ilmantenimento dei dementi di classi sociali povere, che precedentemente erano spese di competenza delleComunità. (Lippi, Op. cit, p. 29)

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malati di mente. I locali, i mobili, i letti, la biancheria, il vestiario, gli utensili, gli

attrezzi, i vasi ed altre strumentazioni passarono dunque sotto la giurisdizione del

ricovero destinato alla cura dei malati di mente.56

Nonostante i trasferimenti effettuati, intorno al 1880, il problema della mancanza di

spazio non era stato ancora risolto. Oltre alla necessità di ulteriori locali destinati al

ricovero si presentò anche l’opportunità di rendere più funzionale anche la gestione

degli spazi. Il problema riguardava in particolare l’eventualità di creare una struttura più

compatta e centralizzata.

Questo fece sì che venisse presa in considerazione la necessità di operare un nuovo

trasferimento del Bonifazio in un’area più adatta che il sovraffollamento urbano

suggeriva di individuare fuori dal centro storico.

Fu allora che venne presa in considerazione per la prima volta la zona di San Salvi,

periferica rispetto al centro storico della città di Firenze, come postazione dove

trasferire il manicomio. Il progetto del nuovo manicomio fu affidato ai professori

Tamburini, Grilli e Pellizzari, i quali, insieme all’ingegnere Giacomo Roster, ebbero

inizialmente l’incarico di scegliere il terreno più adatto per progettare il luogo sul quale

sarebbe sorto il nuovo edificio.57

La realizzazione del progetto, secondo alcuni calcoli iniziali, sarebbe stata resa possibile

tramite il ricavato derivante della vendita del Bonifazio e dell’intervento della

Provincia.58

La costruzione ebbe inizio l’8 agosto del 1887 e tuttavia ben presto fu evidente che la

spesa da affrontare sarebbe stata superiore al preventivo iniziale. Ben presto infatti, fu

necessario richiedere un intervento economico di supporto alla Provincia.59

Nel 1890 l’Ospedale psichiatrico del Bonifazio fu trasferito da San Gallo alla zona di

San Salvi. La zona, tradizionalmente a carattere popolare, oltre che essere lontana dal

centro storico era tendenzialmente povera.60

56 Annuario dell’opera Pia di Firenze, Ospedali psichiatrici 1960/1961,editrice Caparrini, Empoli, maggio1961, p. 2457 D. Lippi, Op. cit., p. 5758 L’Opera Pia cedeva così alla Provincia tutte le sue proprietà di San Salvi e diventava compito diquest’ultima la costruzione dell’Ospedale. (Annuario dell’opera Pia di Firenze, Op. cit., p. 26)59 Ibidem60 Giuliana Occupati, Campo di Marte da sempre, Testimonianze di vita quotidiana negli anni 1944-1945a Firenze, Firenze, Morgana edizioni, 2006, p.39

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L’ospedale fu inaugurato l’anno successivo e fu chiamato “Vincenzo Chiarugi”, in

memoria dell’eminente medico che anni prima aveva dato origine alla nuova

sperimentazione psichiatrica.

Nel settembre del 1890 il Dr. Algeri presentò l’evento con queste parole: 61

“Anche la colta e gentile Toscana ha un nuovo e grandioso manicomio, che venne

inaugurato il giorno 9 del settembre u.s., e che, in omaggio alla memoria del grande

alienista empolese, porta il nome di Manicomio Chiarugi. Il vecchio Ospitale di

Bonifazio che, se un tempo poté essere considerato come modello pel ricovero di malati

di mente, ora col numero straordinariamente accresciuto dei malati, e colle cresciute

esigenze della tecnica manicomiale, non rispondeva più al suo scopo, era divenuto

ognor più di disadattato o, diciamolo pure, non conveniente ad una città o ad una

provincia come quella di Firenze, che ha così profonde il culto del bello e del buono, ed

ha il vanto di tante e belle istituzioni di beneficienza. Ma se il bisogno si faceva sentire

da lungo tempo, fu solo 5 anni or sono che l’idea, promossa da alcuni benemeriti, prese

corpo ed entrò nel campo dell’attuazione pratica. E col concorso della Provincia, nello

spazio di poco più che 3 anni, lavorando con febbrile attività, è stato eretto San Salvi il

nuovo Asilo per gli alienati, che destinato per 600 malati, abbraccia una estensione di

circa 20 ettari di terreno. La costruzione fu affidata all’ingegner Giacomo Roster, il

quale, sotto la direzione del Prof. Tamburini, seppe giustamente soddisfare le esigenze

della scienza e della tecnica manicomiale in armonia con le tecniche delle vedute

architettoniche. Il manicomio è stato in amena posizione, a breve distanza dalla città,

quasi a ridosso delle ridenti colline fiesolane. Esso è costruito sul sistema di padiglioni

riuniti e consta di tre grandi corpi di fabbrica centrali, il primo dei quali è destinato agli

uffici di amministrazione, di direzione e agli alloggi del direttore e dei medici; il

secondo ai servizi generali; ed il terzo alla lavanderia. Ai lati sono disposti, in modo

simmetrico, i diversi padiglioni per i malati a destra per le donne, a sinistra per gli

uomini. Ogni comparto consta di sei padiglioni, dei quali due per i tranquilli, due per

semiagitati, uno per agitati e furiosi e uno per infermeria; questi due ultimi sono situati

nella parte più eccentrica dello Stabilimento. Tutti questi corpi di fabbrica sono riuniti

fra loro mediante ampie e lunghe gallerie, che permettono il disimpegno di tutti i

servizi, nonché la comunicazione di un padiglione all’altro, comunicazione che ha luogo

61 Da “Archivio Italiano per le malattie e più particolarmente per le alienazioni mentali”

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pure all’aperto, per mezzo di terrazzi che sovrastano alle rispettive gallerie. Tutto

quanto la scienza e l’arte reclamano, è stato messo in opera per conciliare le importanti

e spesso più difficili esigenze di una perfetta igiene manicomiale, colla eleganza ed una

certa severità di linee. Quindi soggiorni ampi, areati; sale di soggiorno gaie, allegre,

ogni ambiente munito di bocche di riscaldamento e ventilazione, celle separate spaziose

pareti stuccate a lucido e inverniciate con vernice Zonca; pavimenti e mattonelle di

cemento od in asfalto; le finestre delle celle per agitati munite di vetri grossi che il

pugno del malato non può spezzare; grandi passaggi accomodati ed eleganti giardini, ed

una bella innovazione per la separazione delle Sezioni fra loro, che cioè, invece che da

muri, sono divisi da alte reti metalliche, munite da un lato e dall’altro di una fitta siepe

di juta. Non mancano anche i comparti per i pensionati, completamente separati dal

resto dello Stabilimento, costituenti ville eleganti, distinte per due sessi, munite di

quanto può convenire ai malati di tal classe. Fra le cose più importanti del nuovo

stabilimento è la diramazione dei servizi di illuminazione, riscaldamento degli ambienti

e dei bagni, ventilazione, distribuzione dell’acqua e servizio di cucina tratti da un centro

unico, cioè da quattro grandi generatori di vapore centrali, per i quali si ha la luce

elettrica disseminata per tutti i padiglioni, un servizio completo di lavanderia a vapore,

il riscaldamento dei singoli ambienti, la distribuzione dell’acqua a tutti i fabbricati, il

riscaldamento dell’acqua dei bagni in ogni Sezione e anche il calore per le grandi

caldaie della cucina. Questo grande impianto costituisce un’opera ardita e forse unica in

Italia per stabilimenti di tale grandezza. Certo, va data grande lode alla Provincia di

Firenze e alla Commissione amministrativa del Manicomio, per avere avuto il coraggio

di deliberare e condurre a termine ed in breve tempo un’opera così grandiosa che era

tanto reclamata dell’umanità e dalla scienza.”62

Nel progetto architettonico, innovativo e funzionale, il Roster ebbe il merito di

sviluppare gli spazi interni funzionalmente rispetto alle pratiche mediche

specificatamente impiegate allora per la cura quotidiana della malattia mentale. Lo

spirito dei trattamenti partiva dal presupposto che la soluzione più valida per affrontare

62 A. Caneschi, M. Ferrara, G. Germano, C. Pellicanò, R. Pisa, Per non dimenticare dagli atti delConvegno “Manicomio: chiuso!”Firenze, 10/13 dicembre 1998, Comune di Firenze, Assessorato allaSicurezza Sociale ed Igiene Pubblica, pp.15-16

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la cura delle patologie mentali si articolasse in un processo di controllo, osservazione e

rigore delle regole.63

Lo spazio del nuovo manicomio infatti non a caso fu organizzato in modo tale da poter

garantire l’isolamento e la reclusione dei malati. Dalla descrizione iniziale del nuovo

progetto dell’ospedale psichiatrico riemerge la constatazione già accennata in

precedenza secondo cui il manicomio da una parte era concepito come strumento di

cura, dall’altra costituiva un mezzo di “difesa” e tutela della società e dunque di

esclusione sociale delle persone affette da disturbi mentali.64

L’area di San Salvi era composta da trentadue ettari di terreno. Questi erano delimitati

da mura di cinta all’interno delle quali si collocava un complesso manicomiale a forma

ellittica. Sull’asse minore, con andamento nord-sud, erano collocati gli uffici sanitari e

amministrativi (ovvero la direzione), i servizi generali, la cucina e la chiesa. Lungo tale

asse si sviluppava un corridoio centrale nel quale a pettine si collegavano i padiglioni.65

L’area del manicomio usufruiva di una gestione completamente autonoma rispetto al

resto della città. L’intera zona era provvista di una distribuzione idrica localizzata, di

una centrale termica, di una ciminiera e di una piccola chiesa. L’area su cui sorgeva,

definita una “città nella città”, ospitava luoghi di riunione, laboratori, il calzolaio, una

farmacia, il mulino, il panificio, la lavanderia, la falegnameria.

Ai margini dell’area manicomiale si trovava una colonia agricola con delle stalle, anche

di suini, utilizzati per lo smaltimento dei rifiuti organici provenienti dai vari reparti e in

seguito venduti ai macelli.

Il complesso manicomiale presentava una suddivisione dei reparti che rifletteva la

classificazione nosografica e comportamentale dei pazienti con relativa dislocazione in

base al sesso e alla pericolosità sociale.

Si crearono i reparti dei “tranquilli”, degli “infermi”, dei “paralitici”, “dei semi-agitati”,

dei “sudici”, degli “epilettici”, degli “agitati”, dei “pericolosi” ed infine dei cosiddetti

“furiosi”. Nelle varie divisioni vi erano alcune stanze dedicate all’uso dei cosiddetti

“strumenti manicomiali”: camicie di forza, macchinari per l’elettroshock, vasche, celle

d’isolamento e letti di contenzione.66

63 V. P. Babini, M. Cotti, F. Minuz, A. Tagliavini, Tra sapere e potere. La Psichiatria Italiana nellaseconda metà dell’ottocento, Bologna, il Mulino, 1982, p.10864 C. Lanzara C., Op. cit., p. 4365 Ibidem66 Silno Pomanti, San Salvi anno zero ovvero “Roba da matti”, Firenze, S.n.,1996, p. 75

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All’interno del complesso manicomiale si trovava anche la “Clinica per malattie

nervose e mentali dell’ Università di Firenze”, dove, si effettuava un periodo

preliminare di osservazione dei pazienti oltre che le pratiche burocratiche riguardanti

l’accettazione dei malati-detenuti.

All’arrivo in ospedale i pazienti erano sottoposti alla consegna degli effetti personali,

alla sostituzione di abiti, ai primi accertamenti diagnostici. Questa prima fase aveva la

durata di trenta giorni, al termine dei quali, il direttore del manicomio doveva

trasmettere al procuratore una relazione scritta sul paziente.

La persona dopo questo periodo poteva essere dismessa, oppure veniva internata in

modo stabile; da quel momento perdeva i propri diritti civili e gli veniva nominato un

tutore. In seguito i parenti potevano intervenire con l’autorizzazione del direttore al

“ritiro” del familiare oppure il ricovero definitivo poteva essere revocato con un

certificato di guarigione, sotto diretta responsabilità del direttore.67

67 Id., pp.62-64

Figura 1: Gaele Covelli, Fra le pazze di San Salvi, 1919, dipinto a olio situato nella Biblioteca V.Chiarugi a San Salvi, foto di Renato Bartolozzi

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Il documento che segue, desunto dall’archivio dell’”Opera Pia di Firenze”, riporta la

planimetria generale del manicomio di San Salvi:

Figura 2: Planimetria generale di San Salvi, Annuario dell’opera Pia di Firenze, Ospedalipsichiatrici 1960/1961, Empoli, Caparrini, 1961

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Davanti alla ciminiera, nel cortile, vi era il reparto che ospitava i bambini dai 4 ai 15

anni. Era soprannominato il reparto dei “figli di San Salvi”, e poteva spesso ospitare

anche bambini nati all’interno del manicomio da giovani ragazze madri.

Nel viale principale, vicino all’entrata, era situata la quattrocentesca Villa Fabbri,

chiamata “Palazzo del Guarlone”, riservata al ricovero privato (a pagamento) dei

pazienti maschi. In questa struttura privata i malati godevano di una sorta di

“privilegio”: potevano indossare un comune pigiama che li contraddistingueva da tutti

gli altri ricoverati, che, erano costretti ad indossare divise tipicamente ospedaliere.68

Un’altra importante innovazione adottata dall’ingegner Roster, sul progetto

architettonico di sorveglianza di Jeremy Bentham69, era rappresentata all’interno del

complesso dai cosiddetti “camminamenti”, che collegavano i vari padiglioni con uno

sviluppo su tre diversi livelli. Oltre al piano terra vi era sia un sistema di gallerie

sotterranee che alcuni percorsi terrazzati sopraelevati.70

In queste aree era sempre presente il personale preposto alla sorveglianza: durante la

notte presiedeva l’addetto alla vigilanza, mentre in orari diurni erano presenti medici e

ed infermieri. 71

Uno dei requisiti principali richiesti per l’assunzione di un infermiere non a caso era una

sufficiente forza fisica, tale da permettergli di contenere i malati anche nei momenti di

maggiore irrequietezza. Gli infermieri avevano le cosiddette “armi del potere e del

controllo”: le chiavi simbolo del “potere di reclusione”, che servivano all’apertura delle

celle dei reparti.72 L’ispettore, il capo degli infermieri, aveva una chiave speciale che

apriva tutte le porte del manicomio.73

Durante i primi anni del ‘900, gli infermieri avevano un ruolo fondamentale all’interno

della struttura manicomiale.

68 S. Pomanti,Op. cit., p. 5769 Il “Panopticon” di Bentham del 1791, è un progetto architettonico relativo all'organizzazione di unaprigione. Questo progetto, attraverso una specifica disposizione degli spazi, assicura un efficace controllodell’intera struttura, che in questo caso deve essere circolare. La sorveglianza è resa possibile collocandoil guardiano al centro di tale edificio. Questa posizione permette al sorvegliante di vedere tutti iprigionieri nelle celle, mentre la particolare disposizione di quest’ultime, non avrebbe permesso aiprigionieri di vederlo. Per i detenuti in questo caso è sufficiente sapere di essere continuamente osservatiper comportarsi come sorvegliati, non potendo avere la possibilità e la certezza di sapere quando ilguardiano non li sta guardando.70 C. Lanzara, Op. cit., pp. 42- 4371 Ibidem72 C’erano tre tipi di chiavi a San Salvi in rapporto al grado di pericolosità del reparto.73 A. Caneschi, M. Ferrara, G. Germano, C. Pellicanò, R. Pisa,Op. cit., p.38

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La maggior parte degli infermieri e degli addetti ai lavori interni, per un 90% uomini,

provenivano dal settore dell’agricoltura, il cui esercizio richiedeva necessariamente

forza fisica. San Salvi in questi anni contava 400 dipendenti e rappresentava una delle

più grandi imprese fiorentine.74

Tramite la cura “istituzionale” rappresentata dal manicomio, il malato veniva inserito in

un ambiente artificiale, “sano” e organizzato secondo principi scientifici per cui ogni

provvedimento clinico aveva necessariamente una sua funzione terapeutica

standardizzata. La struttura dell’edificio, l’arredamento, il rapporto gerarchico tra

medico e paziente, la scansione del tempo, del lavoro e della disciplina erano tutte

componenti che andavano a costituire il valore “curativo” del contesto manicomiale.75

Nel manicomio ai ricoverati non era concesso scrivere né ricevere corrispondenza, che

nell’eventualità veniva controllata e se necessario sequestrata. Quando intercettata, se

utile per il medico, essa poteva anche essere utilizzata ed inserita nella cartella clinica,

costituendo in tal modo una dimostrazione del relativo stato di avanzamento della

malattia del paziente. 76

Era permesso fumare, anche in abbondanza, perché era ritenuto un comportamento

riconducibile alla fase di suzione del neonato e pertanto “tranquillizzante”, mentre era

assolutamente proibito bere sostanze alcoliche. Esse avrebbero alterato gravemente

l’atteggiamento del malato.77

Determinate cure potevano funzionare solo nel quadro di una organizzazione

centralizzata e continuamente sorvegliata quale quella appena descritta. I trattamenti e le

terapie tranquillizzanti più diffuse erano: l’idroterapia, la contenzione, l’uso di sostanze

calmanti e convulsivanti, la terapia del sonno, la malarioterapia e la terapia insulinica.78

Si trattava in ogni caso di un’azione terapeutica che agiva sulle manifestazioni esteriori

della malattia non sulle sue cause e mirava a ridurre gli effetti maggiormente visibili. Il

malato di mente era individuo che andava custodito e sedato più che curato, non

essendo a conoscenza delle molteplici ragioni che portavano alla pazzia. Gli interventi

sui riscontri comportamentali dei pazienti erano i soli rimedi ritenuti efficaci per

controllare la loro pericolosità e ridurre i loro stati di agitazione.79

74 G. Occupati, Op. cit., p. 3975 V.P. Babini, M. Cotti , F. Minuz, A. Tagliavini, Op. cit., p. 10876 S. Pomanti, Op. cit., p.7377 Ibidem78 V.P. Babini, M. Cotti , F. Minuz, A. Tagliavini, Op. cit., p. 108-11179 Ibidem

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Le terapie usate erano le seguenti.

L’idroterapia, intervento che si basava sull’utilizzo di bagni caldi alternati a improvvise

docce fredde, rappresentava una forma di sedazione.

Nella cura degli alcoolisti, ad esempio, si faceva frequente ricorso all’immersione in un

bagno tiepido, la cui azione era ritenuta particolarmente efficace come tranquillante.80

Altro esempio è costituito dalla clinoterapia. Intervento frequente in casi di agitazione

acuta, essa era basata su un programma di prescrizione e somministrazione di oppiacei,

per via orale (o di iniezioni di morfina) durante periodi prolungati di riposo a letto.

In momenti di forte delirio si provvedeva ad inserire il paziente in alcune piccole stanze

per la segregazione, detti “camerini di isolamento”, senza letto, né comodino o sedie,

ma dotate di un solo materasso al centro. Qui il malato, completamente privo di vestiti,

in preda agli effetti prolungati dell’“iniezione”, poteva rotolarsi e dimenarsi anche per

due o tre giorni di seguito, senza essere sottoposto ad altri mezzi di contenzione.81

Le terapie da shock 82 erano rappresentate dalla cardiazolterapia e dall’insulinoterapia.

La prima rappresentava un intervento convulsivante a base di cardiazolo e consisteva

nell’iniettare due volte a settimana per via endovenosa un farmaco in grado di provocare

crisi epilettiche per un ciclo complessivo di 10 iniezioni. La seconda invece, basata

sull’iniezione quotidiana di dosi progressivamente crescenti di insulina, provocava un

coma glicemico profondo. Lo stato comatoso veniva successivamente interrotto con una

ulteriore somministrazione di glucosio, o zucchero.83

Queste due terapie erano molto utilizzate e risultavano efficaci per effetto di una

presunta “ripulitura tossica dell’organismo”.84

Negli anni ’60, al quarto reparto maschile (detto anche “delle terapie attive”),

giungevano i malati “resistenti” alle cure effettuate nel reparto di osservazione in

Clinica e in quello di accettazione dell’ospedale. Costoro erano immediatamente

sottoposti alla pratica dello shock causato da insulinoterapia.85

80 D. Lippi, Op. Cit., p. 10981 S. Pomanti, Op. Cit., p.7282 (Dall’inglese to shock, scuotere). Le terapie di shock indicano metodi di cura, che scuotono cheprovocano improvvise e violente modifiche nell’equilibrio dell’organismo.83 Nel 1939 per ogni cura completa erano necessarie circa 6200 unità di insulina per un costo medio dicirca 310 lire per un totale di 60 coma. (D. Lippi, Op. Cit., p. 112)84 Id., p. 11385 Annuario dell’opera Pia di Firenze, Op. cit., pp. 55-58

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.28/147

Ogni malato veniva tenuto qualche giorno a letto per un periodo di osservazione della

malattia e nel contempo veniva sottoposto ad indagini cliniche, biologiche e

psicologiche.

La maggior parte di questi pazienti finivano per essere classificati come schizofrenici.

Tra il 1958 ed il 1960 furono trattati con questa terapia circa trenta malati, per un totale

di quasi mille stati di coma indotto.86

Nei reparti femminili venivano invece utilizzate le terapie di shock e quelle con

psicolettici87. La sala per l’insulino-shock-terapia, era ritenuta in molti casi efficace, era

composta da 10 posti letto che venivano occupati da sempre nuove pazienti a ciclo

continuo. Ciascun paziente vi veniva sottoposto a cicli di trenta/quaranta/cinquanta stati

comatosi causati da ipoglicemia.

L’elettroshock88 era impiegato nei casi di depressione grave con sintomi psicotici e di

rallentamento psicomotorio. Esso veniva somministrato nei reparti femminili terzo e

quarto di San Salvi. In questo caso si tenevano sedute su base plurisettimanale ed in

genere venivano effettuate cinque/sei applicazioni per ciascuna seduta.89

Grazie all’utilizzo di tecniche ritenute molto moderne San Salvi era considerato uno

degli ospedali più all’avanguardia d’Italia.90 Nella Clinica fiorentina e nell’Ospedale

Psichiatrico, l’acquisto di macchinari per l’elettroshock risale già agli anni Quaranta.91

La malarioterapia era un trattamento di shock che portava artificialmente ad un aumento

della temperatura corporea.

Al paziente veniva praticata una puntura di zanzara infetta o inoculato sangue malarico

in modo da provocare stati febbrili molto alti (per tale scopo a San Salvi venivano

allevate migliaia di zanzare). In seguito alla malattia indotta, i pazienti risultavano più

lucidi e più tranquilli.92

86 Ibidem87 Farmaci ad azione rilassante, deprimente e sedativa sulle attività mentali.88 L’elettroshock, terapia sviluppata da Cerletti e Bini negli anni ’30, è una tecnica terapeutica che si basasull'induzione di convulsioni nel paziente . Si mette in pratica applicando alle tempie, mediante dueelettrodi, una corrente elettrica attraverso il cranio di 100-130 Volt, della durata di 2, 6 decimi di secondoprovocando una alterazione dello stato di coscienza (coma) e perdita della memoria. (vedi Appendice)89 Id., pp. 61-6290 Ibidem (L’applicazione dello shock generale elettrico veniva eseguito in anestesia indotta conbarbiturici e sotto farmaci miorilassanti, mentre la fase transitoria di apnea veniva controllata medianterespirazione indotta.)91 Ibidem92 Annuario dell’opera Pia di Firenze, Op. cit., pp. 61-62

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.29/147

Negli anni Cinquanta la ricerca farmacologica fece un primo passo avanti rappresentato

dalla introduzione (1951) di una nuova molecola: la cloropromazina, un principio attivo

con potenti proprietà ansiolitiche.

Questa novità giunse a mettere in crisi la stessa immagine della struttura manicomiale,

la quale da istituto di prevenzione criminale si trasformò in luogo di cura clinica per

effetto della sua capacità di tranquillizzare i malati sedandone attività motoria, “furia”

ed irrequietezze.93

Negli anni ’50 cominciarono ad essere applicate le psicoterapie ed anche a San Salvi

furono introdotti nuovi trattamenti di cura, meno invasivi. La psicoterapia si basava

prima di tutto sul rapporto clinico ed umano tra il malato e il medico.

Si presumeva infatti che questo rapporto fosse in grado di modificare l’evoluzione

psichica e somatica della malattia permettendo di individuare i motivi e i traumi che

l’avevano scatenata a monte. 94

I metodi di applicazione erano molteplici: si andava dalla “psicoterapia

dell’incoraggiamento”, quella più semplice e comune, alla “psicoterapia della

suggestione”, costituita da vari gradi di condizionamento, alla “psicoterapia della

profondità”, basata sulla capacità del team di operatori di portare a galla nella sfera della

coscienza gli elementi inconsci negativi e mostrare la relazione tra questi e la malattia.95

Fu introdotta anche l’ergoterapia, terapia dell’occupazione, una terapia rieducativa che

tendeva a ristabilire l’ordine comportamentale attraverso l’impegno nel lavoro.

A questo si affiancava anche un’attività ludica (svaghi, sport, pittura, musica) per

impegnare il malato anche in attività nelle quali potesse esprimere e raccontare la sua

interiorità.

Non pochi furono in casi di malati che in questo modo furono riconosciuti come veri e

propri artisti e eccezionalmente bravi nell’attività svolta. L’ergoterapia permetteva al

malato di considerarsi ancora socialmente utile e apprezzato per le sue qualità. 96

Per alcuni l’ergoterapia era una forma di sfruttamento del lavoro, in quanto i pazienti

aiutavano al mantenimento dell’ospedale senza essere pagati, se non con un pacchetto di

sigarette o semplicemente con il privilegio di uscire dal reparto, dove il tempo scorreva

lento.

93 D. Lippi, Op. cit., p.11494 Annuario dell’opera Pia di Firenze,Op. cit., pp. 67-7495 Ibidem96 Ibidem

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.30/147

Negli anni ’60, a San Salvi, un campione di 39 ricoverati su un totale di 2110 malati di

mente era parte di uno studio sull’efficacia dell’ergoterapia. I reparti maschili

specializzati in questa terapia erano il secondo e il settimo.

La terapia occupazionale per le donne era rivolta sia a terapie ricreative come la lettura,

il disegno, la pittura, lo svago, sia a lavori veri e propri quali la sartoria, le pulizie, il

giardinaggio e l’aiuto nei servizi ospedalieri.

Nella sala lettura le malate avevano a disposizione settimanali, alcuni romanzi e inoltre

potevano dedicarsi al gioco della dama, del domino o all’ascolto della musica.97

La caratteristica comune a tutte le terapie occupazionali e ricreative era la costanza e la

sistematicità, regole a cui i malati dovevano attenersi. Compiere lo stesso lavoro

metodicamente, avere gli stessi orari per lunghi periodi era un sistema di rieducazione

del malato nei confronti delle relazioni umane, sia tra malati che tra malati e personale

di sorveglianza.98

Nel 1957 la “terapia occupazionale” più praticata a San Salvi era quella della pittura e

del disegno. La pratica di questa cura si sviluppò grazie al Professor Mario Nistri e alla

collaborazione dei professori Barucci, Mori, Margheri e i dottori Agresti, Germano e

Longhi. 99

L’importanza della pittura e del disegno erano legate alle possibilità che queste

manifestazioni della personalità offrivano per la diagnosi e per il relativo trattamento del

paziente. Queste espressioni artistiche, infatti, anche nella loro semplicità mostravano,

attraverso una lettura psicoanalitica, la gravità della malattia e l’eventuale

miglioramento a livello clinico.100

Uno dei metodi utilizzati nella “arte terapia”, per consentire di disegnare e dipingere con

la massima facilità, era quello di mettere i fogli da disegno attaccati ai muri per creare

una superficie di lavoro larga e verticale, consentendo al paziente di esprimersi come se

dipingesse su un muro. Su questi fogli era comune trovare scritte di “evviva”o richieste

di varia natura.

Il paziente parlava e narrava la propria condizione creando una sorta di giornale

murale.101

97 Ibidem98 Id., pp. 108-10999 Ibidem100 Ibidem101 Ibidem

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.31/147

In questo contesto il ruolo degli infermieri era molto importante, essi capirono e

apprezzarono la “tecnica di libera espressione” offrendo al malato incoraggiamento e

comprensione.

Durante gli anni Sessanta si stavano dunque verificando molti cambiamenti. L’ulteriore

avanzamento della ricerca nell’industria farmaceutica portò progressivamente alla

sostituzione dei farmaci naturali con i principi attivi dei prodotti di sintesi. Vennero così

introdotti nelle terapie gli antidepressivi e poi, con la scoperta delle benzodiazepine,

nuovi prodotti che rivoluzionarono totalmente i trattamenti degli stati della malattia

mentale, gli psicofarmaci.

Figura 3: “San Salvi , 1970 “ foto di Renato Bartolozzi

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.32/147

Alla riscoperta “dell’anima”

I manicomi progressivamente persero la loro funzione primaria di costrizione fisica, e

finalmente le dimissioni cominciavano ad aumentare e le ammissioni a diminuire.102

Negli anni Sessanta infatti l’Italia era attraversata da forti tensioni di cambiamento;

questi anni rappresentano un periodo di grande fermento e contestazione nei confronti

delle Istituzioni autoritarie e gerarchiche e delle cosiddette “Istituzioni Totali.” 103

Per lungo tempo il sistema manicomiale era stato basato sulle procedure di

internamento della “legge Giolitti n.36” del 1904, che si intitolava Disposizioni e

regolamenti sui manicomi e sugli alienati. Con questa legge essere ricoverati nel

manicomio era facile, ma esserne dimessi era praticamente impossibile. L’osservanza

della 36/1904 verrà superata solo a partire dal 1968, quando fu approvata dal

Parlamento la legge n.431 Provvidenze sull’assistenza psichiatrica, nota come “Legge

Mariotti”. L’allora Ministro della Sanità, oltre ad istituire il ricovero volontario,

introdusse la possibilità di trasformare il ricovero coatto in ricovero intenzionale104,

assecondando la volontà del paziente.105

Grazie a questa legge fu introdotta anche la figura dello psicologo che, insieme agli

psichiatri e agli infermieri, entrava a far parte dell’équipe cui venivano affidati i malati.

La gerarchia, quindi, che sino ad allora aveva dominato l’ambiente manicomiale,

lasciava spazio ad una complementarietà di ruoli.

L’équipe e la sua costruzione furono un momento fondamentale che contribuì a creare

una nuova cultura dei servizi. Attraverso una modalità operativa che tendeva alla

realizzazione di un lavoro integrato ed interdisciplinare, non solo i medici e gli

psichiatri, ma più operatori con formazioni diverse, si trovavano a discutere del proprio

lavoro istituzionale.

102 Id., p.110103 Con “Istituzioni Totali” si intendono tutti i sistemi chiusi, soggetti ad un potere, caratterizzatidall’impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno. Questo sistema può essere ilmanicomio, ma anche una prigione, un collegio, un monastero; negli anni ’70 le analogie tra questi istitutie le scuole erano evidenti. (E. Bucaccio, K. Colja, A. Sermoneta, M.Turco, C’era una volta la città deimatti, dal film di Marco Turco, Merano, Edizioni Alpha Beta, 2011, p. 133)104 L’art. 4/1965 della “Legge Mariotti” equipara in parte il ricoverato in manicomio a quello di unqualsiasi altro ospedale, quindi significava che se un paziente del manicomio aveva subito inizialmente unricovero coatto su ordine del questore poteva fare richiesta per rivedere la sua posizione e trasformare ilricovero coatto in ricovero volontario,con le conseguenze che poteva ottenere permessi più facilmente e/oessere dimesso definitivamente con il parere degli psichiatri curanti.105 Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto dell'Università di Firenze, L'altro diritto Centro didocumentazione su carcere, devianza e marginalità<www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/devianza/sbordoni/cap2.htm >

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Si trattava infatti di una formazione professionale, sia individuale per l’acquisizione di

nuove competenze e capacità, sia di gruppo per imparare a lavorare insieme.

Le “assemblee di reparto” con i pazienti, le riunioni del personale facevano parte di

quelle iniziative che attivavano e ricercavano il coinvolgimento e la collaborazione della

collettività, rappresentando un nuovo percorso terapeutico basato sulla riappropriazione

della dignità e della competenza del decidere intorno al proprio sé ritrovato. 106

Inoltre nacquero i centri di igiene mentale, una sorta di day-hospital che alleggeriva il

carico di lavoro della struttura manicomiale, che riconoscevano ai malati i fondamentali

diritti civili dai quali fino ad allora erano esclusi: la carta d’identità, il diritto di voto e

quello di sposarsi.107

Questi nuovi servizi territoriali nacquero all’insegna della multidisciplinarità, intesa

come valorizzazione ed integrazione operativa di diverse culture operative.

Nel corso di questo decennio le nuove generazioni di psichiatri sono state investite da

una presa di coscienza che li ha portati ad una critica profonda verso il sistema

manicomiale, considerato ormai solo uno strumento di oppressione e di controllo

sociale.108

Il manicomio, che fino ad allora aveva rappresentato il luogo e la realtà più distante

dalla quotidianità, si ritrovò così ad essere sempre più oggetto di discussione.

Assemblee, occupazioni universitarie, movimenti studenteschi, sindacati e associazioni

cittadine discutevano sullo stato e sul ruolo dell’istituzione manicomiale e sulla cura

della malattia mentale, ricercando nuove strade nell'analisi e nella cura del disturbo

psichico.

Vennero messe in discussione tutte le terapie shock e le certezze assolute di metodo di

cura, che le avevano sostenute fino a quel momento.

Il loro superamento è da attribuire soprattutto all’ammissione del rischio degli effetti

collaterali e dei tantissimi decessi avvenuti nel corso del loro utilizzo.

Questi trattamenti provocavano irrimediabili danni cerebrali e un progressivo

impoverimento intellettuale con riflessi sul comportamento affettivo. Certi

atteggiamenti tipici, mimica e posture, attribuiti alla malattia mentale altro non erano

che le conseguenze di queste cure violente.109

106 A. Caneschi, M. Ferrara,G. Germano, C. Pellicanò, R. Pisa, Op. cit., pp. 19, 72107 Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto dell'Università di Firenze, Op. cit., Cap. II, Il contestonormativo del trattamento sanitario obbligatorio, par. 2108 Id., par. 3109 E. Bucaccio, K.. Colja, A. Sermoneta, M.Turco, Op. cit., pp. 47- 48

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In questa fase di cambiamento venne introdotta l’”Assemblea” come opportunità

terapeutica e di recupero umano e affettivo.

Gli internati erano invitati a discutere della loro situazione con l’équipe degli operatori,

manifestavano in questo modo anche ai medici la consapevolezza che avevano

dell’istituzione, delle cure a cui erano sottoposti e dei loro bisogni fisici ed affettivi.

Cominciò così un movimento di apertura dell’ Ospedale Psichiatrico da “Istituzione

Totale”, 110 segregante e alienante, a “comunità terapeutica” basata sul dialogo, sul

gruppo e sul confronto.

Sempre nell’ottica di questa rivalutazione umana nel 1964 a San Salvi si sviluppò la

cura tramite l’espressione della pittura e del disegno. “La Tinaia”, una casa colonica

all’interno dell’area di San Salvi utilizzata come deposito dei tini, fu considerata adatta

come luogo di “terapia espressiva” dove poter esercitare questo tipo di attività

riabilitative. 111

L’iniziativa de “La Tinaia” permetteva ai malati di uscire dai propri reparti, per andare

ad incontrarsi in una zona comune. Qui potevano trascorrere il proprio tempo anche

lavorando la creta, considerata una forma di attività espressiva per le persone meno abili

e più problematiche.112

La condizione del malato all’interno del manicomio era di isolamento, aveva perso i

rapporti con la famiglia, con chi lo circondava e con se stesso.

Tramite il disegno, la pittura, e in seguito anche la poesia, riacquisiva ordine dentro se

stesso e ripristinava relazioni con l’équipe di operatori.

I malati in questo contesto espressivo ritrovavano un mezzo di comunicazione in grado

di farli emergere dalla loro condizione di distacco.

Inizialmente non erano molti i malati che frequentavano “La Tinaia”, perché non vi era

sufficiente personale che li potesse seguire e controllare fuori dai rispettivi reparti.

Inoltre la partecipazione era condizionata dai diversi primari di reparto: non tutti erano

favorevoli e vedevano di buon occhio questa novità, che cambiava il rapporto paziente-

medico-infermiere, riducendone l’autorità, ma cambiava anche il rapporto malato

mentale e società.113

110 Il concetto viene da E. Goffman , Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e dellaviolenza, trad. ita, Torino, Einaudi, 1974111 Massimo Mensi, V. Paperini, G. Arcori, “Un’esperienza comunitaria”in Colori dal buio, l’arte comestrumento di liberazione dall’istituzione psichiatrica, Catalogo della mostra al Chiostro Grande di SantaCroce in Firenze, 23 maggio-21 giugno 1981, Firenze, Vallecchi, 1981, pp. 25-26112 Ibidem113 Ibidem

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Intanto negli anni ’70 in Italia, continuava il clima di contestazione e la critica sulla

gestione dei manicomi si inasprì.

La “rivoluzione” in difesa dei diritti del malato di mente fu guidata dal Dottor Franco

Basaglia114 direttore del manicomio di Trieste.

Il principio cardine dell’idea di Basaglia era, infatti, quello di restituire l’identità alle

persone che all’interno del manicomio erano semplici numeri.

La riflessione del dottore porta ad un processo di rinnovamento e di sperimentazione in

altri ospedali psichiatrici, in particolare in quelli di Perugia, di Gorizia, di Arezzo, di

Parma e di Trieste.

Il primo passo fu quello di non intendere più il manicomio come luogo di contenimento

stabile, ma piuttosto di utilizzarlo il più possibile in senso terapeutico, sviluppando un

clima di solidarietà e chiarezza fra medici, infermieri e pazienti, restituendo ad essi i

diritti elementari, e creando condizioni di vita finalmente umane.115

I manicomi stavano modificando il loro assetto, le terapie stavano cambiando, si

lavorava in équipe e vi era un utilizzo sempre più diffuso delle psicoterapie.

114 Franco Basaglia (1924-1980) psichiatra e neurologo, fu il riformatore della psichiatria in Italia eintrodusse la legge 180, che riconosceva i malati mentali come persone a pieno titolo. Con questa legge situtelano i diritti dei malati di mente al pari di tutti gli altri esseri umani. Nel 1962 Basaglia, a Gorizia,avvia la prima esperienza anti-istituzionale nell'ambito della cura dei malati di mente cercando ditrasferire il modello della comunità terapeutica all'interno dell'ospedale. Nel 1971 diventò il direttore delmanicomio “San Giovanni” di Trieste e nel 1978 venne promulgata la legge 180 "Accertamenti etrattamenti sanitari volontari e obbligatori".115 E. Bucaccio,K. Colja, A. Sermoneta, M. Turco, Op. cit., pp. 155-162

Figura 4: “La Tinaia, 1970” foto di Renato Bartolozzi

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Cresceva l'opposizione all'uso degli ospedali psichiatrici e si faceva strada il tentativo di

riportare le persone con problematiche psichiatriche nella comunità sociale, attraverso

gruppi di comunità terapeutiche, basati su principi psicosociali.116

L’ospedale da grande istituzione, in alcuni casi, si parcellizzò in strutture di tipo

familiare di minori dimensioni, restituendo dignità e personalità ai pazienti che

potevano così ricostruirsi un ambiente di vita in cui riconoscersi.117

Si sviluppò il concetto dell’”Antipsichiatria,”118 secondo il quale molti comportamenti e

atteggiamenti che erano classificati come malattie mentali altro non erano che il riflesso

di situazioni sociali che prescindevano dalla situazione individuale.

Venivano pertanto imputate alle “Istituzioni” la maggior parte delle devianze

conseguenza delle ingiustizie sociali. L’antipsichiatria voleva tutelare i diritti di queste

persone che non avevano colpa del loro stato e lasciarle libere di esprimersi e reinserirsi

nel tessuto sociale.119

In Italia l’azione contro il sistema manicomiale cominciò con l’eliminazione di tutti i

tipi di contenzione fisica e delle terapie elettroconvulsivanti; si aprirono i cancelli dei

reparti e si demolirono le reti di separazione tra i reparti femminili e quelli maschili.

Furono eliminate progressivamente le casacche manicomiali che etichettavano

ulteriormente la condizione di malattia sia allo stesso degente che ai presenti nella

struttura. Si restituirono ai malati gli abiti civili e inoltre fu introdotta, all’interno della

struttura ospedaliera, la possibilità di servirsi di una parrucchiera per rendere le donne

più curate, fino alla possibilità di utilizzo degli anticoncezionali.

Si promuoveva così il ritorno ad una vita “normale” dove l’apparire più piacevoli e

curati diventava la condizione del vivere insieme, con tutto ciò che questo comporta

anche la riscoperta delle emozioni e della sessualità. Fu garantita la libertà di

movimento all’interno dell’istituto e i malati dovevano essere chiamati per nome e non

in modo anonimo con il numero di classificazione. Si riconobbe l’importanza che il

116 G. Magherini, G. Zeloni, R. Gottuso, Op, Cit,. pp. XIII-XV117 E. Bucaccio,K. Colja, A. Sermoneta, M.Turco, Op. cit., p. 163118 L’”Antipsichiatria” è un orientamento che si sviluppò a metà degli anni ‘60 in contrapposizione allepratiche e alle metodologie utilizzate nella psichiatria tradizionale. Il termine “antipsichiatria”, coniato dalmedico anglosassone David Cooper nel 1967, raggruppa due posizioni critiche. Una è rappresentata dachi riconosce l’esistenza della malattia mentale ed utilizza una prassi terapeutica alternativa allapsichiatria tradizionale, l’altra da chi non riconosce la scienza medica psichiatrica e la malattia psichica,in quanto la considera soltanto un’espressione diversa di concepire la realtà.Il movimento antipsichiatrico, a partire dagli anni ’50, si oppone elle pratiche di terapia shock e all’uso dipsicofarmaci.119 Giuliana Proietti, Antispichiatria e legge 180, 19 ottobre 2002, <psicolinea.it> p. 1

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personale potesse salutare, parlare con i degenti e sollecitare le visite dei parenti e degli

amici.120

Lo scopo di Basaglia era quello di trasformare il manicomio in comunità terapeutica, al

fine di riabilitare il malato. L’idea finale che accompagnò il medico fino alla sua morte

fu che il manicomio andava chiuso ed al suo posto istituita una rete di servizi esterni,

nel territorio, per provvedere all'assistenza delle persone affette da disturbi mentali.

Secondo Basaglia la psichiatria, che non aveva compreso i sintomi della malattia

mentale, doveva cessare di praticare una esclusione del "malato di mente", voluta da un

sistema ideologico convinto di poter negare e annullare le proprie contraddizioni,

allontanandole da sé ed emarginandole.121

In parallelo alle “conquiste basagliane” nel 1975 122 “La Tinaia” prese il nome di

“Centro e attività espressive la Tinaia”. Qui trovava accoglienza qualunque tipo di

ricoverato; era questo il luogo dove riprendere ad essere attivi e quindi essere presenti

per se stessi e per gli altri. Due anni dopo il “Centro” cominciò ad accettare tirocinanti

psicologi, i quali contribuivano a creare uno scambio continuo tra il dentro e il fuori. 123

Il malato di mente, che sino ad allora era stato isolato nella sua angoscia e nel suo

dolore, senza riuscire ad esprimerli, da questo momento, attraverso la pittura, imparò a

manifestare le proprie emozioni.124 Come esempio qui di seguito vengono riportati i

disegni eseguiti in diverse fasi della cura da un paziente di 24 anni affetto da

schizofrenia.

Risulta così evidente, anche a un non esperto, la correlazione tra l’evoluzione in

positivo del disturbo psichiatrico e la precisione della rappresentazione artistica,

secondo il progetto proposto da “La Tinaia”.

Il primo disegno fu eseguito in un momento di maggiore gravità, dove era forte la

componente autistica; il disegno è infatti frammentario e incoerente e la mancanza di

profondità indica anche il tipo di rapporto esistenziale con la realtà.

Nel secondo e nel terzo disegno appare il miglioramento. Gli oggetti sono sempre più

delineati fino ad appoggiarsi alla linea orizzontale, che serviva da guida alla

composizione.125

120 E. Bucaccio,K. Colja, A. Sermoneta, M.Turco, Op. cit., p. 163121 Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto dell'Università di Firenze, Op. cit., Capitolo II, Il contestonormativo del trattamento sanitario obbligatorio, par. 3122 “La Tinaia” dal 1972- 1975 fu chiusa per 3 anni123 M. Mensi, V. Paperini, G. Arcori, Op. cit., pp. 25-26124 G. Magherini, G. Zeloni, R. Gottuso, Op. cit., p. XVIII125 Annuario dell’opera Pia di Firenze, Op, cit,. p. 109 (idem immagini)

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L’esempio qui riportato dimostra come lo squilibrato, comunicando agli altri le proprie

sofferenze e i propri pensieri, si avvii ad un reinserimento nel mondo circostante.126

Il “Centro di attività espressive la Tinaia” prevedeva un programma settimanale, con

tutti i giorni la possibilità di lavorare la ceramica o disegnare.

Il programma settimanale era il seguente: nell’assemblea del lunedì si discutevano i casi

dei malati, uno a uno, tra gli operatori e il medico; il martedì era dedicato a varie attività

di gruppo basate sull’utilizzo della tecnica del disegno, della poesia e del canto127; il

venerdì era destinato ad un’attività di gruppo sull’analisi critica dei disegni realizzati

nella settimana; il sabato, grazie ad alcuni esperti del teatro, venivano insegnati ai

ricoverati alcune facili tecniche per costruire le marionette.

126 Ibidem127 M. Mensi, V. Paperini, G. Arcori, Op. cit., pp. 25-26

Figura 5: primo disegnodisegno,aaaaann Figura 3: secondo disegno

Figura 3: terzo disegno

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“La Tinaia” si stava trasformando sempre di più in un laboratorio di idee, di ceramica,

di disegno e di pittura, diventando così un ausilio determinante nella cura della malattia

mentale.

Dal “Centro” partirono molte iniziative verso l’esterno. La natura “comunicazionale”

fece diventare “La Tinaia” il ponte tra l’istituzione ospedaliera e la società civile.

Non era più un laboratorio interno dell’Ospedale Psichiatrico, ma un centro culturale,

con un preciso orientamento nell’attività artistica ed espressiva.

Si organizzavano dibattiti, incontri, interviste con la televisione nazionale ed

internazionale,128 mostre ed esposizioni.129

“La Tinaia” rappresentava l’”interfaccia” tra l’istituzione manicomiale, il cittadino, e il

fermento culturale del movimento di “socializzazione e libertà dalla follia”.130

Il malato mentale era diventato l’artista e il disegno, non era più solo il prodotto di una

terapia, ma rappresentava un’opera d’arte, aspetto di una forma artistica ben definita:

l’Art brut, un'arte spontanea, senza pretese culturali.131

I dipinti de “La Tinaia” erano molto apprezzati e giravano il mondo: Losanna, Chicago,

Parigi, Milano, Palermo, Fiesole, Amburgo.

Nel 1978 per opera di Basaglia entrò in vigore la legge 180132 che imponeva la chiusura

dei manicomi, cosa che avverrà definitivamente nel ventennio successivo.

128 La televisione di Amburgo, in un programma sulla nuova psichiatria italiana, dedicò ben 45 minutidella trasmissione ad esibire le attività che si svolgevano alla Tinaia; inoltre gli artisti del “Centro”furono invitati ad esporre la propria produzione artistica all’Università di Berlino.129 Si ricorda la mostra del 1981 presso il chiostro Grande di Santa Croce di Firenze.130 Ibidem131 Il concetto di Art brut (in italiano, letteralmente, Arte grezza) è stato inventato nel 1945 dal pittorefrancese Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti o pensionantidell'ospedale psichiatrico che operano al di fuori delle norme estetiche convenzionali (autodidatti,psicotici, prigionieri, persone completamente digiune di cultura artistica).132 Alcuni estratti delle legge 180 (vedi Appendice):Articolo1: Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari. Possono essere disposti dall’autoritàsanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritticivili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta delmedico e del luogo di cura.Articolo 6: Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati dinorma dai servizi e presidi psichiatrici extraospedalieri.Articolo 7: È in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici utilizzare quelli attualmenteesistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali o sezioni psichiatriche e utilizzarecome tale divisioni neurologiche o neuropsichiatriche.Articolo 10: il codice civile e stato modificato come segue:Nella rubrica del libro III, titolo I, capo I, sezione III, paragrafo 6 del Codice Penale sono soppresse leparole: di alienati di mente;Nella rubrica dell’articolo 716 del Codice Penale sono soppresse le parole: di infermi di mente.

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Anche nel linguaggio istituzionale vennero soppresse tutte quelle parole che si

riferivano con senso dispregiativo alla malattia mentale, sottolineandone atteggiamento

criminale o antisociale.133

Il compito di chiudere l’Ospedale Psichiatrico di San Salvi fu affidato dalla Regione

Toscana al Dottor Carmelo Pellicanò, che nel 1975 aveva già maturato l’esperienza di

chiusura del manicomio di Volterra.

Nel 1984 arrivò a Firenze e trovò da parte di tutto il personale ospedaliero una grande

disponibilità derivata dal fatto che ormai la “legge Basaglia” era diventata una realtà

accettata e consolidata.

Dopo le dismissioni dei pazienti, il manicomio era diventato un luogo abbandonato,

carico della sua immagine del passato, aveva preso il nome di “residuo manicomiale.”

Sulla scia della n.180 il Dott. Pellicanò si dedicò alla riorganizzazione degli spazi

all’interno del manicomio per gestire la collocazione di tutte quelle persone

autosufficienti senza famiglia.

“La battaglia etica per i diritti civili dei malati di mente è ancora viva” così inizia la

trascrizione degli interventi del Dott. Pellicanò avvenuti durante la giornata mondiale

per la salute mentale del 1994:

”Ci siamo accorti che un progetto di superamento di manicomio non può che passare

attraverso una cultura accettante le problematiche psichiatriche e non viceversa,

supportata da un’organizzazione territoriale adeguata […] è necessario affrontare

immediatamente l’incontro con l’altro, con il cittadino […] l’ambiente cittadino deve

accogliere queste persone.

Se questo incontro non si realizza, io credo non sarà mai realizzato un reale

superamento del manicomio […] Si deve entrare in una logica di responsabilizzazione

nei confronti del paziente, che tenga conto di tutti i fattori, e non di uno solo: né solo

sociale, né solo biologico, ne solo psicologico, ma tutti e tre insieme. [...] Questo è uno

dei primi motivi che ci hanno spinto dopo tanto tempo ad andare ad un incontro con la

città. Fin dall’inizio abbiamo sempre sperato che la città si riappropriasse di questo

territorio, non soltanto in termini geografici, non soltanto in termini assistenziali, ma

che coniugasse un buon incontro, un’intersecazione reale con la sofferenza che era

rinchiusa dentro il manicomio, con tutti i problemi, ovviamente che questo comportava.

133 Vedi art.10 legge n. 180

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[…] Quindi il reinvestimento. Questo è un altro punto che volevo discutere con voi […]

I familiari da anni erano perduti; non sapevamo dove fossero, noi li abbiamo rintracciati

quasi tutti, e stanno venendo. Hanno cominciato a frequentare, finalmente, e non era

colpa loro se non venivano: non ricevevano più notizie dei loro parenti […] Nei primi

anni Ottanta, la situazione di San Salvi era di totale abbandono, con tutte le conseguenze

che ne derivavano. Allora prima di accettare io personalmente questa responsabilità, ho

preferito agire così: ho bloccato intanto tutte le dismissioni da San Salvi se prima non

c’era la garanzia di una collocazione dei dismessi. […] Sono rimasti comunque a San

Salvi diversi pazienti. Noi abbiamo deciso che era tempo di finire il frazionamento,

visto che ormai erano persone che non potevano rientrare nei loro territori: o perché non

c’erano i familiari o perché non c’erano le strutture […] Attualmente abbiamo ancora

cento persone ricoverate effettivamente, mentre altre sono sistemate in altri tipi di

strutture, create all’interno dell’Ospedale Psichiatrico […] da un reparto ristrutturato

abbiamo fatto degli appartamenti; si sono inserite cinquanta persone […] sono dei

piccoli appartamenti di 2-3 posti letto, con l’autonomia, per quanto è possibile, di

gestione da parte del paziente, con il sostegno personale infermieristico-ausiliari. […]

Questi appartamenti erano stati progettati per i pazienti che ritenevamo in grado di poter

vivere fuori, ma che fuori non potevano tornare perché non avevano più famiglia,

perché non c’erano possibilità strutturali, non c’erano case. Nessuno offriva

appartamenti per loro anzi come qualcuno ricorda, noi abbiamo dovuto prendere

persone sfrattate in difficoltà o che venivano allontanate da alcuni alberghi popolari.

Voglio dire che si era realizzato un processo inverso: invece di essere la città che

accoglieva, dovevamo essere noi a raccoglierli […] Si sono fatti questi appartamenti che

hanno assunto in seguito caratteristiche anche terapeutico - riabilitative. Nel senso che

questi appartamenti dovevano servire a ridare ai pazienti quelle capacità che in quaranta

anni le istituzioni avevano completamente distrutte, per poi poterli preparare alla vita.

[…] Per questo abbiamo creato un piccolo centro protetto, di 25 posti, dove ci sono

appunto questi pazienti più gravi […] quindi non si tratta di persone abbandonate, ma di

gente a cui viene riconosciuta la malattia e l’assistenza necessaria […]”134

Il Dott. Pellicanò abilitò dunque, un centro diurno per anziani e riuscì a trasformare

alcuni padiglioni dismessi in “miniappartamenti”.

134 Dalla giornata mondiale per la salute mentale del 1994 trascrizione dell’intervento del Dottor Pellicanòda Tavola rotonda: “Ospedale Psichiatrico e Città” organizzata da : Unità operativa Psichiatrica USL10/E – Istituto A. Devoto

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Si costituì in questo modo la una cosiddetta “Residenza Sociale Assistita”, che riusciva

ad ospitare 41 persone, che ottenevano così la possibilità di vivere in appartamenti con

una, due, tre camere da letto, in un contesto che evocava fortemente l’esperienza della

“casa”. Si trattava di inserire dei malati quasi autosufficienti in una dimensione abitativa

a basso livello assistenziale. 135

Fece realizzare inoltre la “Residenza Protetta”, una struttura invece che ospitava e

assisteva circa 25 persone con pesanti bisogni assistenziali e con grave deterioramento

psichico e fisico. Furono attivate due case famiglia nella città, nei quartieri 1 e 2, per 14

ex degenti che avevano iniziato un percorso riabilitativo all’interno dell’ospedale con la

costituzione di due gruppi di appartamento. Una delle due case famiglia, ospitava sei

artisti de “La Tinaia”.136

135 A. Caneschi, M. Ferrara, G. Germano, C. Pellicanò, R. Pisa, Op. cit. pp. 49-51136 Ibidem

Figura 6: Testimonianze fotografiche di Carla Cerati

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Capitolo 2- Il ricordo “dello spazio della follia” attraverso le persone

che lo hanno vissuto

La puntualità del destino

Nel 1997 la compagnia teatrale “Chille de la balanza”, allora impegnata al Teatro Tenda

con lo spettacolo I costruttori di imperi di Boris Vian, arrivò a San Salvi, su consiglio

di conoscenze comuni, che erano al corrente del loro tipo di teatro, alla ricerca di un

luogo dove esibirsi con il nuovo spettacolo Van Gogh il suicidato dalla società di

Antonin Artaud.137

Claudio Ascoli è regista e fondatore della compagnia “Chille de la balanza”, nata a Napoli

nel 1973 e ormai trapiantata nel capoluogo toscano. Ascoli nasce da una famiglia di attori e

teatranti napoletani da tre generazioni. Gli Ascoli, insieme ai Maggio, agli Scarpetta e

naturalmente ai De Filippo formano un po’ l’ossatura storica del Teatro napoletano a

cavallo tra l’800 e il 900.

Il gruppo “Chille de la balanza” vede i suoi primi passi al Teatro, comunque, nella Via dei

librai: Port’ Alba, nel quartiere universitario della città di Napoli. Ascoli inizia il suo lavoro

partendo da un recupero, molto rigoroso, delle tradizioni popolari locali.138

Il significato del nome napoletano della compagnia teatrale “Chille de la balanza”,

quelli della bilancia, deriva dagli antichi venditori di frutta e ortaggi del Seicento.

Questi giravano tutti i giorni per i mercati del centro storico muniti delle loro bilance,

appunto, catturando i racconti del popolo e gli aneddoti più stravaganti e li

riproponevano la sera nelle osterie davanti ad un bicchiere di vino.139

Il concetto espresso dal nome anticipa il tipo di teatro proposto dalla compagnia che

presenta sia un indirizzo di Avanguardia, che riporta in vita testi di poeti futuristi, dadà

e surrealisti, sia un teatro che recupera le tradizioni della cultura popolare e la letteratura

del secondo dopoguerra.

La tipicità della compagnia è lo stretto contatto con il luogo, reso evidente nelle

performance di Teatro in strada, e l’interesse nei confronti del rapporto individuo-

società. Infatti i movimenti futurista e dadà, nel rifiutare il tradizionale rapporto platea-

palcoscenico, avevano concesso in questo tipo di teatro uno spazio sempre crescente

137 C. Lanzara, Op. cit., pp. 49-50138 Id., pp. 25-26139 Ibidem

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alla partecipazione fisica dell’attore, che finì con il prendere il sopravvento sulla parola

assumendo il valore di un vero linguaggio.140

Ascoli e i “Chille” con questo nuovo teatro in strada viaggiarono in tutta l’Europa, come

moderni commedianti dell’Arte. Raccolsero significativi successi in Germania, Spagna

e soprattutto Francia.

A metà degli anni Ottanta Ascoli e i “Chille” si trasferirono in Toscana e precisamente a

Pontassieve fino ad approdare al manicomio di San Salvi. In questo luogo di memoria

esplode sia l’arte teatrale dei “Chille” indirizzata a scardinare le antiche concezioni di

spazio che la spontanea volontà di coinvolgimento del pubblico.

La grande innovazione del Novecento si articolò infatti nel passaggio dallo spazio della

drammaturgia alla drammaturgia dello spazio, restituisce così alla scena la sua necessità

estetica e rafforza il sodalizio fra dramma e spazio.141

Era intenzione della compagnia dei “Chille” ottenere un’intesa diversa tra attore e

spettatore, tra attore e oggetti scenici, per raggiungere nuovi equilibri, provocare

un’emozione profonda nell’osservatore e superare quegli elementi ritenuti propri

dell’attività teatrale: la recitazione come imitazione o finzione, l’illusione scenica, lo

spazio diviso tra scena e platea.

Come dice Peter Brook infatti: “il teatro può e deve essere una pratica di comunicazione

viva e profonda in grado di parlare al maggior numero di persone e di attivare una

coscienza critica sul presente e sul mondo che ci circonda”.142

Tale principio configura anche la linea d’azione seguita da Artaud143 che sostiene la

necessità di recuperare e sviluppare un genere artistico autonomo e indipendente. Lo

spettacolo deve essere separato dal testo poetico e dalla letteratura: “il dialogo nella

forma scritta e parlata, non appartiene specificamente alla scena, appartiene al libro”.144

Secondo Artaud la parola perde il predominio, per essere considerata al pari del segno,

del gesto e del movimento. In questo modo il corpo umano e le emozioni dei sensi

entrano prepotentemente nel lavoro teatrale.

Lo spettacolo deve essere mobile, dissolvere la barriera che fino a quel momento aveva

separato i due mondi chiusi della scena e della platea, creando un luogo unico

dell’azione e della fruizione.

140 C. Lanzara, Op. cit., p. 29141 Id., p.37142 Peter Brook, Lo spazio vuoto, Roma, Bulzoni Editore, 1998143 Antonin Artaud (1896 –1948) fu commediografo, attore teatrale, scrittore e regista teatrale francese.144 Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 2000, p.155.

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In tal modo si arriva così a sommergere e coinvolgere il pubblico sotto ogni aspetto

sensoriale e renderlo parte fondamentale dello spettacolo stesso.145

Tutto questo non richiede necessariamente un teatro tradizionale, ma è quasi opportuna

la realizzazione in luoghi inconsueti, come ad esempio un capannone, un granaio, o

altro in base alla disponibilità.

Le intenzioni dei “Chille” trovano uno spazio adatto nell’area di San Salvi. Qui

incontrano la signora Dana Simionescu, moglie di Massimo Mensi; erano entrambi

operatori della struttura, dediti al progetto della Tinaia. Sarà di Dana, dopo la morte del

marito, il compito di continuare a combattere per la conservazione di quel magico luogo

di incontro e punto di riferimento per i pazienti.146

Il direttore intuì che la compagnia teatrale sarebbe stata il mezzo ideale per far

conoscere l’area manicomiale ai cittadini, che attraverso lo spettacolo sarebbero entrati

in contatto con un luogo dove si erano perpetuate ingiustizie e violenze su molti

sofferenti.147

Fu reciprocamente fondamentale l’incontro tra Dana e i “Chille”, che erano alla ricerca

del luogo che si prestasse allo spettacolo di Artaud, mentre Dana cercava un’occasione

per attirare visitatori nell’area e per far conoscere l’attività svolta nella Tinaia.

Il primo spettacolo fu presentato nel padiglione B, ovvero il terzo reparto, che era

appena stato inaugurato come “casa-famiglia” che ospitava 6 pazienti-artisti de “La

Tinaia”.

La coincidenza ha voluto che i “Chille”, che già avevano scelto l’opera Van Gogh il

suicidato dalla società, trovassero nell’area, di cui stiamo parlando, l’ambiente adatto

per il loro spettacolo. Si vede qui come l’ambiente scenico si fonda con il tema dello

spettacolo che rappresenta la categoria dei folli e degli emarginati dalla società.

Van Gogh “alienato” raccontato tra alienati. Una società responsabile di tanta

alienazione perché non riconosce il diverso. Ad esempio Van Gogh, Poe, Baudelaire

sono stati emarginati, considerati folli per impedire che rivelassero "verità scomode",

come sostiene Artaud. L’autore infatti rivaluta la figura dell’alienato schiacciato dalla

società che non comprende la sua sensibilità, le sue diverse potenzialità. La società non

decodifica il suo linguaggio, non instaura una comunicazione biunivoca.

145 Ibidem146 C. Lanzara, Op. cit., pp. 49-52147 Ibidem

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Il teatro e la pittura, proiezioni, l’uno sull’altro, si incontrano nello spettacolo e nella

vita.148 Infatti la rappresentazione del Van Gogh sarebbe stata affiancata da una mostra

dei lavori svolti dagli artisti di cui ormai abbiamo già parlato. Era un’iniziativa

scambievole in quanto il pubblico non solo avrebbe seguito lo spettacolo, ma anche

avrebbe potuto visitare la mostra che avveniva nello stesso padiglione e forse anche

portarne all’esterno la conoscenza.

Il regista Claudio Ascoli andava personalmente all’ingresso dell’area a ricevere gli

ospiti. Da lì con una passeggiata fino al Padiglione B, essi chiedevano informazioni

sugli spazi: vialetti, edifici, strutture più o meno grandi e notizie su ciò che la struttura

rappresenta. Gli spettatori si dimostravano curiosi, interessati e meravigliati vedendo da

vicino quello di cui per tanto tempo avevano solo sentito parlare.

Questo tragitto sarà il tema dello spettacolo del 1999 Passeggiata nella notte di San

Salvi che verrà rappresentato l’anno dopo la chiusura definitiva del complesso

manicomiale.149

Il manicomio fiorentino infatti fu chiuso definitivamente nel 1998; per celebrarne la

definitiva chiusura furono organizzate nell’area quattro giornate di festa, durante le

quali ci fu anche un convegno.

148 C. Lanzara, Op. cit., pp. 59-52149 Ibidem

Figura 7: ‹‹La Nazione›› 10 dicembre 1998

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A suggellare questo inizio è stato inaugurato il “Centro Culturale Paolo Paoli”150 tra la

compagnia teatrale “Chille de la Balanza” e il laboratorio artistico “La Tinaia”. Le

dolorose esperienze del passato avevano gettato le fondamenta per una rinascita.151

Manicomio Chiuso!, titolo del convegno, era strutturato sulle riflessioni degli psichiatri,

psicologi e operatori che avevano lavorato all’interno dell’Ospedale. Riferivano sulle

proprie esperienze e sui processi di cambiamento che si erano innescati, in linea con la

legge n.180, confermando l’importanza del lavoro di équipe e ricordando le atrocità del

passato. Tutto questo “per non dimenticare”. 152

La prima esperienza teatrale ha avuto successo e seguito. I degenti avevano stretto un

legame di amicizia con gli attori tanto da sensibilizzare il direttore Pellicanò a dare

un’altra possibilità da cui è nato lo spettacolo I fiori del male ispirato a Baudelaire.153

I Chille utilizzarono uno spazio disabitato e in pessime condizioni; lo ripulirono e

risistemarono. Le repliche dovevano essere tre, in realtà durarono tre mesi.

Da questo derivò la curiosità di parlare di questo spettacolo con Sissi Abbondanza,

compagna di Claudio Ascoli, scenografa della compagnia teatrale e prima persona

intervistata nell’ambito di questa indagine su San Salvi:

“Dopo il Van Gogh ci siamo rivolti al direttore Pellicanò per ottenere uno spazio da

adibire a laboratorio che prevedeva uno spettacolo finale. C’è stato assegnato un

padiglione veramente orribile: sporco, abbandonato, forse usato per pernottamenti di

fortuna, probabilmente da tempo liberato dai degenti spostati nelle case-famiglia. Ci

siamo rimboccati le maniche, sistemandolo a dovere.

Lo spettacolo finale portato in scena da attori professionisti, lavorava “sull’architettura

del luogo”, utilizzando il piano di sotto, il piano di sopra, le scale e il terrazzo. Era

molto intrigante per lo spettatore muoversi in questi spazi, entrando e uscendo da una

situazione di “caldo soffocante” a “un freddo estremo”e passare dall‘800 al ‘900. Lo

spettatore veniva guidato tra sofferenza, voluttà, solitudine, bisogno d’amore. Tra male

di vivere e attaccamento alla vita.

150 Paolo Paoli fu un pittore de “La Tinaia” dal 1976 al 1986. È morto nel 1995. Negli ultimi nove annilasciata Firenze, non ha più avuto la possibilità di dipingere. (C. Lanzara, Op. cit., p. 95)151 Ibidem152 A. Caneschi, M. Ferrara, G. Germano, C. Pellicanò, Pisa R., “Per non dimenticare”, dagli atti delConvegno “Manicomio Chiuso!”, Firenze 10-13 dicembre 1998153 Ibidem

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Mi ricordo che le attrici nella parte superiore venivano guidate dall’attore-protagonista,

in questo spettacolo itinerante, attraverso un percorso articolato tra diverse stanze.

Qui viene sottolineato l’aspetto rivoluzionario di Baudelaire, espresso attraverso

l’analisi della condizione interiore dell'individuo, troppo spesso negata per

condizionamenti sociali.

Questa esperienza nel padiglione A è durata un anno, poi lo spostamento definitivo,

dove siamo attualmente, al padiglione B, occupato precedentemente da una casa-

famiglia.

Il direttore Pellicanò, nella fase di smantellamento manicomiale, ha seguito molto il

nostro progetto reputandolo utile e importante per la zona e per la città e si è prodigato

per farci avere una convenzione e una risonanza attraverso i canali di informazione.

All’inizio tutto ciò suscitò curiosità ed interesse, soprattutto nelle fasce giovani, che

entravano a conoscenza di realtà diverse.

Non fu difficile per il Dott. Pellicanò accogliere la nostra richiesta di lavorare

stabilmente nell’area e aprire un laboratorio per varie fasce di età: gli adulti iniziano

subito l’attività, i giovanissimi invece dovranno aspettare la sensibilizzazione della città

verso l’ambiente per potersi avvicinare all’iniziativa.

Un atteggiamento più aperto era quello assunto dalla scuola elementare “Andrea Del

Sarto”: i ragazzi con gli insegnanti frequentavano “La Tinaia” per la lavorazione della

creta.”

Altra richiesta rivolta a Sissi riguardava le previsioni per il futuro della compagnia

teatrale nell’ambito dell’area manicomiale:

“Non è facile per noi fare progetti a lungo termine. Il futuro lo viviamo

quotidianamente. Quando siamo arrivati era più facile avere una progettualità, mentre

adesso vediamo che l’area è assorbita in maniera sostanziale da uffici della Asl.

Il nostro “sogno nel cassetto”, comune anche ai Pellicanò, è vedere in questa area più

situazioni “artistiche”, aprire il luogo a più comunità culturali: da musicisti, a pittori,

scrittori, artisti in genere. Il luogo potrebbe aprirsi all’organizzazione di eventi

occasionali o ad attività permanenti; quello che adesso già stiamo vedendo all’ex-

carcere delle Murate.

Indubbiamente l’area è in parte occupata anche se con il classico orario di ufficio; è

un’area molto vasta che non ha bisogno, come diceva Pellicanò, di barriere alle finestre,

ma necessita di vita. C’è bisogno che sia uno spazio vissuto con regolarità e con

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partecipazione costante nell’arco della giornata, per non diventare come alcune piazze

di Firenze, che diventano luogo di spaccio, e come dice Claudio, e questo mi fa sempre

ridere, luogo “dello stupro in pattini a rotelle”, un modo ironico per dire che la società

quando non interviene su certe situazioni è come se autorizzasse le persone a fare quello

che vogliono, senza rendersi conto che in tal modo legalizza comportamenti illeciti.”

Luogo che diventa palcoscenico, il luogo, soggetto che comunica: C’era una volta …

il manicomio

Da allora la compagnia teatrale è una presenza costante nel panorama cittadino. É nato e

vive il progetto denominato prima San Salvi la città negata, perché era effettivamente

una parte di città negata ai cittadini, poi San Salvi la città ri-nata e ora San Salvi Città-

Aperta, luogo delle differenze.

All’interno di questa idea vengono proposti regolarmente i programmi: Agosto a San

Salvi, punto di riferimento per la città, tra spettacoli, manifestazioni, eventi, la Festa del

Salvino, ovvero la Libera Repubblica delle arti e delle culture, il Contro-Anniversario,

per festeggiare San Salvi da città negata a città aperta e la rappresentazione costante

della Passeggiata nella notte di San Salvi, che fino a oggi ha superato le cinquecento

repliche.154 Questi sono gli spettacoli che hanno più risonanza nella vita cittadina, ma

oltre a questi ci sono varie attività in collaborazione con compagnie esterne, gruppi di

lavoro e di formazione teatrale aperti a varie fasce di età. Oltre tutto questo Claudio

Ascoli propone, con una certa regolarità, una rivisitazione di figure importanti della

nostra realtà territoriale come Padre Balducci e Don Milani.

154 C. Lanzara, Op. cit., pp. 51-52

Figura 8: San Salvi Città- Aperta. Abitare i Confini 2011-2012

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Come riferisce Claudio Ascoli durante un’intervista: “Questa passeggiata è sempre

cambiata sera dopo sera e molti sono gli spettatori che hanno partecipato a più edizioni,

se non altro per accompagnare amici e conoscenti: lo spettatore record vanta ormai sette

presenze […] La cosa che nel tempo mi ha più colpito è l’estrema eterogeneità del

pubblico: sono già passati con me nella notte di San Salvi tanti giovani e casalinghe,

intellettuali, lavoratori, anziani, studenti, persone con evidenti disagi … etc.”155

I “Chille” sono presenti ormai da anni nell’area grazie a un comodato con l’Azienda

Sanitaria. La loro è perciò una condizione provvisoria che non risponde alle aspettative

del Dottor Pellicanò, che avrebbe desiderato per tutta l’area un utilizzo stabile e rivolto

ad attività culturali e sociali, come risulta dall’intervista a Sissi Abbondanza.

Adesso molti padiglioni sono abbandonati e fatiscenti, altri sono occupati da uffici e

alcuni ambulatori della Asl, un centro sociale nella zona est dell’area, una cooperativa,

“La Tinaia” ancora funzionante, un centro diurno. Il tutto ben riscaldato con notevole

spreco di denaro pubblico.

C’era una volta … il manicomio racconta per la prima volta Claudio Ascoli. Il

manicomio è stato aperto nel 1999 al pubblico che poté visitarlo la prima volta con un

“giro turistico” usufruendo di piccoli pullman elettrici. Claudio e Dana furono gli

ideatori di questo progetto nel ferragosto di tanti anni fa. Il pubblico fu numeroso,

interessato e curioso, e da quel giorno l’esperienza si ripete ormai regolarmente più

volte durante l’anno, la sera, quando gli uffici della Asl sono chiusi.156

Prima che lo spettacolo inizi Ascoli saluta gli spettatori, invitandoli ad accomodarsi

nello spazio riservato allo spettacolo che può essere o all’interno, nel padiglione B, o

nel giardino dove viene montato il palco estivo.

Si spengono le luci e comincia la proiezione di foto-documento di vari ospedali

psichiatrici italiani, tra cui viene dato risalto all’Ospedale Psichiatrico di Collegno, in

Piemonte e di testimonianze di ricoverati.

La guida-attore racconta dell’importanza di Collegno, sia perché è stato uno dei pochi

ad essere fotografato dopo la chiusura e l’abbandono, creando una memoria storica, sia

perché qui si è verificata una significativa forma di protesta e di rivolta dei ricoverati

contro lo staff ospedaliero che è stato sequestrato.

155 Id., pp. 72-79156 Ibidem

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Questo dimostra che i ricoverati, del reparto, che si chiamava non a caso degli

“anarchici”, avevano una capacità organizzativa e di reazione “normale”.

Altro documento fotografico di rilievo, significativa testimonianza di comunicazione, è

la storia di Nannetti Oreste Fernando (che si firmava NOF4) e del suo “libro di muro”.

Scrive un libro lungo 180 metri sui muri del cortile del manicomio di Volterra

servendosi della fibbia del panciotto-divisa. Dimostra il piacere di giocare con la

scrittura e con l’espressione grafica componendo poesie, frasi e disegni che dimostrano

l’interesse alla comunicazione che per tanto tempo gli era stata negata e di cui dà

ulteriore prova spiegando i suoi graffiti ad un infermiere che aveva incontrato durante

uno dei suoi ricoveri precedenti. Con l’esperienza di NOF4 si riconosce l’importanza

della comunicazione, in tutte le sue sfaccettature, come ponte tra l’isolamento della

malattia mentale e la vita vissuta.157

Questa proiezione fotografica è seguita poi da un vecchio video del 1978 con la colonna

sonora I grandi successi di Paolo Conte, girato da un giovane psichiatra Cesare Micheli

durante la festa del 25 aprile e del primo maggio, quando l’Ospedale iniziò ad aprirsi

alla città. Si colgono in questo video le reazioni extemporanee di tanti ricoverati che

finalmente possono fare cose diverse, semplici e normali: mangiare un cornetto,

applaudire, ridere e muoversi in libertà.

157 Da appunti autobiografici di Concetta Pellicanò, A Memo, Firenze, s.d

Figura 9: “Libro di muro” di NOF4 nell’ex-manicomio di Volterra

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Durante lo spettacolo c’è diretta interazione tra attore e spettatori con l’obiettivo di far

vivere a chi entra nella struttura momenti e pratiche che sono stati la quotidianità per

molti ricoverati.

Vengono riproposte e messe in atto pratiche tipiche dell’Ospedale per sensibilizzare il

pubblico verso il problema.

Ad esempio il pubblico affrontava delle prove che erano le stesse alle quali erano

sottoposti i ricoverati per diagnosticare la malattia:

esecuzione del test di valutazione culturale, e non psicoattitudinale,

appello per numero, che si ripeteva fino a quattordici volte nella giornata tipica

del manicomio, e non per nome, a dimostrazione del poco rispetto per l’identità

umana.

immedesimazione nella condizione dei ricoverati: due spettatori vengono legati

con strisce di stoffa alla sedia e obbligati a mangiare un piatto di spaghetti

servendosi del cucchiaio; il pubblico aveva così modo di vivere la stessa

difficoltà dei malati, che si sporcavano come si vede a volte in molte fotografie.

Dopo questa prima parte inizia la passeggiata nel manicomio. Il gruppo degli spettatori

esce dal padiglione-teatro per immettersi nei viali che circondano e dividono le varie

strutture. Seguendo il regista-attore si cammina nel buio alla luce di alcune torce.

L’atmosfera è suggestiva e quei luoghi prendono vita dai racconti di Claudio Ascoli.

Si passa davanti a quello che era il cinema, ascoltando i rumori del riscaldamento

ancora attivo, alla centrale termica, al parco adesso riservato a “Vigilandia”, che ha

privato parte del patrimonio “verde” della zona, perché asfaltato. Si entra a questo punto

in un corridoio riservato al personale, proprio davanti alla stanza dei minori. Sui muri

del corridoio si notano delle scritte che testimoniano i pensieri e i disagi di chi è passato

di lì.

Arrivati davanti alla piccola chiesa Claudio ne racconta la storia. Non era prevista nel

progetto originario, nessuno aveva fatto attenzione a questo fino al momento

dell’inaugurazione. Dovendo invitare le autorità, tra cui anche l’arcivescovo fu chiaro

che mancava un locale religioso. Quindi fu per necessità che fu sacrificata a tale scopo

parte della lavanderia: ne derivò una cappella frequentata prevalentemente dalle suore, e

utilizzata per le funzioni funebri.

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.53/147

Ascoli ha saputo sfruttare la dimensione misteriosa del luogo, il buio, i luoghi

sconosciuti, passaggi tra porte che si aprono e si chiudono, giocando

sull’immaginazione che ognuno mette in moto nella visione e nell’ascolto di quei

frammenti di memoria.

La scenografia, il luogo reale e lo spettatore si fondono; il “cicerone-cantastorie” aiuta i

partecipanti a immergersi nel passato che si imprime e diventa esperienza indelebile.

Ogni singolo spettatore rimane colpito da tanti particolari legati a questi muri alti,

invalicabili e tutti uguali: le finestre murate, le scritte, le recinzioni, i segni dei cerini

impressi sul muro per accendere le tante sigarette e le colonne nei padiglioni consumate

dallo strusciamento continuo dei ricoverati che così passavano la loro esistenza.

Questi dettagli sono quelli che più colpiscono e che rimangono nella memoria: sono le

piccole cose, infatti, che fanno rivivere e rimanere in maniera permanente il ricordo di

avvenimenti del passato dell’uomo.158

È la strategia che viene utilizzata anche nei musei e negli ambienti culturali: creare dei

percorsi ai quali partecipare attivamente, cogliere sfumature, prestare attenzione ai

dettagli al fine di capire, memorizzare e ricordare. Questi luoghi sono luoghi di

memoria intorno a cui si costruisce una conoscenza commemorativa che la storia e il

vissuto di ciascuno di noi aiuta a ricomporre e trasformare.159

I processi della memoria permettono di conseguire e produrre sequenze narrative dotate

di significato e non di ricordare soltanto avvenimenti isolati.

È un processo in continua evoluzione, che si arricchisce sempre e che suscita

cambiamenti, sia in meglio che in peggio, in un continuo divenire.

Spesso durante lo spettacolo Ascoli citando Mejerchol’d, regista russo del Novecento,

dice: “Il teatro sta alla vita come il vino sta all’uva, con la consapevolezza però che il

vino non è uva e il teatro non è vita. Certo sarei pazzo a credere di poter cambiare il

mondo con il teatro, ma sono convinto che si possono suscitare cambiamenti, sia in

meglio che in peggio, attraverso il contatto con ognuno, che inevitabilmente inducono

movimento.”160

Secondo il regista nella società contemporanea esiste un individualismo sfrenato che

può essere combattuto con l’interazione e con la compartecipazione tra individui, la

comunità appunto. La comunicazione è segno di progresso e di evoluzione.

158 C. Lanzara, Op. cit., p.75159 Ibidem160 Vsevolod Mejerchol'd, Rivoluzione teatrale, a cura di Donatella Gavrilovich, Roma Editori Riuniti,2001

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Per Ascoli non è importante soltanto cosa dire in teatro, ma soprattutto come lo si dice,

poiché l’intento finale è la trasmissione del sapere.

Come sostiene Sissi Abbondanza, la Passeggiata è condotta con il metodo delle

“stazioni”, utilizzato anche nella commemorazione della Via Crucis.

È un procedere, un fermarsi, un riflettere e un ricordare proprio per mantenere viva la

memoria in modo che in ciascuno si crei una coscienza critica.

La Passeggiata che ormai si ripete da anni, in continua trasformazione per il pubblico

sempre diverso e per il contesto storico che cambia, è un mezzo per tenere viva la

memoria del luogo.

Claudio Ascoli nel corso di un’intervista spiega l’importanza della comunicazione

partendo dal suo significato etimologico, dal latino commūnis, composto da cum,

insieme, e munus, inteso come un dono che obbliga a uno scambio. La comunicazione è

un'espressione sociale, un mettere un valore al servizio di qualcuno; avviene quando è

compresa e diventa patrimonio comune: 161

“Il mio obiettivo è trasformare questo luogo di segregazione in luogo d’incontro, dove

si comunica. È così che l’attore prende il suo corpo e lo mette in gioco. Questo avviene

anche nella comunicazione.

Nella mia attività teatrale la persona è sempre il soggetto principale. Cerco di

coinvolgere il pubblico perché acquisisca conoscenza di sé e si renda disponibile agli

altri.

Noi, compagnia teatrale, con il nostro il progetto è come se dessimo voce agli

“indignados” della cultura, dando la possibilità alle persone del pubblico di partecipare

a vari livelli, sia durante lo spettacolo, sia dietro le quinte, con impressioni a caldo,

consigli, suggerimenti. Per esempio durante l’ultima Passeggiata eravamo in

settantasei, dei quali trenta erano nuovi spettatori, in particolare di questi ventuno si

sono preoccupati e attivati a iscriversi autonomamente alla lista e-mail per essere

informati sulle nostre attività.

Questo comportamento è abbastanza atipico, soprattutto perché utilizzano la mail non

tanto per essere informati, ma per partecipare in modo personale e critico.

Questa collaborazione è il nostro “fare comunità”, un modo diverso di concepire

l’esistenza, dove l’interesse comune è il punto d’incontro.

161 Dizionario etimologico essenziale della lingua Italiana, Milano, Garzanti, 1970, p. 37

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Fare comunità per noi significa creare relazioni, mettere in gioco energia, forza comune,

e comunicazione. La comunità, in qualsiasi modo la si voglia fare, significa: essere parte

di un tutto e assumersi ciascuno le proprie responsabilità. San Salvi è una

microcomunità. Questo concetto si può anche espandere nella macrocomunità,

coinvolgendo addirittura il pianeta Terra.

Tutta la nostra attività teatrale si sviluppa intorno all’idea di comunità. La Passeggiata

ne è una prova. Si ripete regolarmente in un luogo che sta perdendo sempre di più la sua

fisionomia originaria e si sta sempre più chiudendo in se stesso. Nonostante questo la

Passeggiata è sempre un momento d’ incontro, di partecipazione, quasi a ricordare i riti

religiosi dell’Italia del Sud, dove si incontrano tutti per festeggiare un santo patrono o

una festa collettiva.

In società avanzate come la Germania e la Danimarca, come tu ben sai, tutto funziona

apparentemente molto bene. Ti dico apparentemente perché in queste società viene

distrutto il “soggetto”, e il diverso si va a chiudere perché gli viene negata ogni

iniziativa personale, in quanto la società provvede a tutti i bisogni, costringendolo a

rifugiarsi in un luogo marginale, forse abbandonato, dove c’è una sorta di libertà, che la

società ben organizzata nega. Questa ricerca di rifugio o segregazione crea dei diversi,

perché disadattati in quanto fuori dagli schemi sociali.

La diversità fa paura alla società. Perché il diverso non teme di mettere a nudo le

proprie idee, questo lo rende un emarginato, perché considerato pericoloso e quindi da

escludere. Si tende sempre a scartare chi esce dagli schemi e chi crea condizioni

conflittuali. Non ti sembra che questo sia il ruolo riservato all’artista?

L’artista è un diverso, perché fa uno più uno uguale cinque, cioè crea un mondo non

convenzionale, che è quello che, come dico io, mette in gioco il nero, che raffigura i

turbamenti personali, i lati nascosti del carattere che sono quelli per esempio che

possono emergere con il teatro. San Salvi è ormai una comunità, punto di incontro di

diversità, cresciuta in questi dodici anni di mia permanenza qui e, non considerarmi

presuntuoso, ma penso di aver segnato un percorso che anche senza di me, può

continuare ad essere frequentato. La Passeggiata con il suo numero di partecipanti che

si allarga sempre di più è la dimostrazione di quanto ho detto.

Il tutto dipende ovviamente dalle amministrazioni pubbliche e da quello che hanno in

serbo per San Salvi.“

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Testimonianze

Sono riportati di seguito i risultati di interviste condotte a persone che hanno vissuto

direttamente l’esperienza professionale a San Salvi, soprattutto nell’ultimo decennio

della struttura: professionisti e dipendenti che hanno riferito la loro testimonianza

diretta.

Il signor Renato Bartolozzi, conosciuto quest’anno durante una mostra fotografica nel

padiglione B apre il ciclo di interviste. Le fotografie fatte da lui ritraggono San Salvi

negli anni Settanta. Le sue foto “pulite” rappresentano la realtà dell’ospedale

tralasciando le atrocità, esaltando momenti di quiete dei ricoverati.

L’incontro è avvenuto successivamente in modo informale e ha permesso di esaminare

da vicino tutto il materiale fotografico con commenti e spiegazioni precise, oltre al

racconto del suo periodo lavorativo dentro San Salvi.

Il signor Bartolozzi è entrato a San Salvi nel 1963; ha lavorato per 29 anni, trentasei ore

settimanali da lunedì al sabato dalle sette alle una, per il pranzo.

Ha messo a disposizione la raccolta fotografica della mostra allestita a Santa Croce nel

1969: foto di pazienti, di lavori svolti alla Tinaia, disegni e sculture in creta.

Da qui comincia il suo racconto:

“Lavoravo come operaio in una fabbrica di scarpe; eravamo un numero piuttosto

rilevante, ma le esalazioni di benzolo allo stato puro mietevano vittime tutti gli anni; io

ho retto bene, non so come ho fatto, ma a un certo punto mi sono licenziato. Feci

domanda a San Salvi, si erano liberati dei posti in cucina, accettai. Dopo un periodo

passai in portineria a Castel Pulci, poi per pensionamenti entrai in calzoleria e poi da lì

al guardaroba, infine come coordinatore ai magazzini generali.

Avevo fatto anche un corso di infermiere di due anni, ma non mi è mai piaciuta questa

attività.

Ricordo come se fosse adesso quando entrai nel guardaroba: lo sporco era indescrivibile

tanto che presi un aspiratore di quelli professionali e cominciai a pulire, poi riorganizzai

il guardaroba sistemando i camici, le scarpe ecc …

Terminato l’orario di lavoro, andavo a “La Tinaia” e lì mi dilettavo a fotografare i lavori

dei pazienti. A proposito de “La Tinaia”, Massimo Mensi, marito di Dana, era sempre in

“battaglia” per portare all’esterno i lavori della “Centro” e cercare finanziamenti.

Io fotografavo tutto perché avevo il libero accesso ai reparti e per questo i malati si

fidavano di me e si facevano tranquillamente fotografare. Come lei mi chiede dalle mie

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foto traspare tranquillità, ordine; in effetti quello che vede è il manicomio, che a volte

sembrava un dormitorio, anche perché i ricoverati erano calmati farmacologicamente.

Questo è il manicomio dell’ultimo periodo, con una certa apertura; all’inizio invece, mi

ricordo, i reparti erano chiusi ed io vedevo poco i malati.

Nel tempo mi abituai velocemente, mi diventò quasi normale vedere i malati a giro per i

reparti, nei corridoi, nei cortili. Mi viene in mente un amico entrato a lavorare; dopo il

primo giorno abbandonò tutto, in quanto rimase scioccato dallo spettacolo di tanti

ricoverati incontinenti.

Io ho un buon ricordo di quegli anni: i malati li ho sempre trattati bene, da me si

facevano fotografare volentieri, addirittura sono stato io a fare le loro prime foto-tessera

utilizzando le lenzuola dell’ospedale come sfondo. È chiaro che non era tutto sereno ed

edulcorato: ricordo chi scappava e doveva essere legato con i sistemi di contenzione o

chi prendeva delle fissazioni; ma non erano mai violenti nei confronti del personale. A

un ricoverato che camminava in maniera strana consumando le punte delle scarpe avevo

trovato un sistema di rinforzo metallico per potersi muovere più liberamente.

Quando lavoravo in cucina preparavo regolarmente il minestrone: pentolone di rame da

200 litri, trentasette manciate di sale per novecento litri di minestrone, sughi avanzati da

altri tegami, di solito cinquanta chili di riso.

Figura 10: Foto di Renato Bartolozzi - cucina di San Salvi 1980

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Tutto quello che avanzava dalla cucina e dalla tavola, stiamo parlando di duemila

ricoverati e mille dipendenti, diventava nutrimento per i duecento maiali che stavano

nelle colonie agricole che rimasero pesantemente coinvolte durante l’alluvione.”

A conclusione del suo racconto, ricorda di una gita fatta a Quercianella, in pullman con

i ricoverati, che anche in quella occasione furono fotografati da Bartolozzi con uno

sguardo affettuoso.

L’intervista che segue ha avuto luogo nel Palazzo Asl 10, situato nel Lungarno Santa

Rosa, al “Centro Salute Mentale”. Alle ore undici di un sabato mattina ha inizio

l’intervista con la signora Dana Simionescu. Persona molto disponibile, ha individuato

un ambiente libero all’interno del reparto, adatto alla chiacchierata.

Con una sola domanda le vengono chieste più informazioni in modo che lei poi parli

liberamente riguardo alla durata del periodo lavorativo a San Salvi, al ruolo svolto nella

struttura:

“Mi chiede di ripercorrere gli anni importanti sia della mia vita che della struttura

manicomiale fino al suo smantellamento. Era il 1975, avevo ventitré anni, frequentavo

la facoltà di pedagogia e cominciai a partecipare a San Salvi ad un corso per infermieri

psichiatrici, vedendone uno sbocco professionale.

In quello stesso periodo mio marito Massimo era già inserito nell’organico di San Salvi,

ma, in quanto Maestro d’Arte e quindi sensibile alle varie forme di espressione artistica,

pensava di trasferirsi all’Istituto Medico Pedagogico, già esistente e all’avanguardia per

l’applicazione del metodo Staineriano 162 che già conosceva dai suoi studi. Questo

trasferimento non avrà mai luogo per la chiusura dell’Istituto.

Massimo rimarrà comunque infermiere di San Salvi. Dal collega Giuliano Buccioni sarà

informato dell’esistenza dentro l’ospedale di una casa colonica, chiamata “La Tinaia”,

perché utilizzata per contenere i tini dell’Azienda Agricola, dove era rimasto, da

esperienze precedenti negli anni ’60, un forno per la ceramica. Questa prima esperienza

fu interrotta e spostata sul territorio costituendo il centro sociale diurno “Dino

Campana”, nella zona di Firenze Centro.

Questi sono i presupposti per la realizzazione dell’obiettivo di Massimo. “La Tinaia”

nasce con cinque pazienti: quattro ceramisti e un pittore; poi il numero dei partecipanti

162 Rudolf Steiner (1861 –1925) è stato un filosofo e pedagogista austriaco, fondatore di una particolarecorrente pedagogica. La pedagogia Waldorf mira a sviluppare individualità libere, con il binomio“L'agile mobilità delle dita è il presupposto della parola”.

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si allarga, interessando anche gli operatori di stampo antipsichiatrico163: sia psichiatri,

che assistenti sociali, che assistenti sanitari.

Questa era una realtà aperta a tutti, non erano richieste competenze artistiche, non si

effettuava nessun tipo di selezione. Questo è stato il motivo per cui sono entrate a far

parte di quest’ambiente persone che mai si erano avvicinate alla creatività e alla

manualità, ma che nel tempo dimostrano di avere una grande ricchezza interiore.

Ricordo a questo proposito un paziente, catatonico164 grave, tutt’ora vivente, indifeso e

sottoposto a angherie di ogni genere, che si aprì al disegno rompendo il suo silenzio

patologico dopo un anno di presenza ne “La Tinaia”. Un giorno come un altro mentre

gli operatori erano assenti, realizzò un disegno, meravigliando tutti.

La prima “uscita” de “La Tinaia” nel territorio risale al settembre del 1975. A Prato ad

una fiera sono stati venduti i primi oggetti realizzati. L’esperienza è cresciuta fino al

1987 tra mostre, come quella in Santa Croce, e partecipazione all’esposizione alla

Mostra dell’Artigianato.

Questi interventi erano un momento gratificante a conclusione di quel percorso che

aveva migliorato le loro condizioni di vita. Favoriva infatti il reinserimento sociale e

familiare dei ricoverati che si sentivano così utili e considerati; per alcuni addirittura si è

potuto procedere a un reinserimento lavorativo.

L’apprezzamento del loro operato si manifestava attraverso le vendite.”

La domanda che viene spontanea era indirizzata alla gestione del guadagno derivante

dalle vendite dei lavori dei pazienti:

“Per tanti anni è stata una vendita “alla buona”: metà del guadagno andava nella cassa

comune e l’altra metà all’artista-autore. Dalla cassa comune venivano prelevate le quote

di partecipazione, da distribuire ai partecipanti che non vendevano, mentre il rimanente,

aumentato dal contributo della Asl, costituiva il nostro fondo per acquisti collettivi: il

materiale necessario, un pulmino e viaggi per partecipare a mostre all’estero in Francia,

in Germania, in Svizzera, addirittura fino in America.”

163 L’antipsichiatria si contrappone con le teorie e le pratiche della psichiatria tradizionale.164 La sindrome catatonica è un aspetto della schizofrenia, è caratterizzata da mutismo, rifiuto, blocco,ripetizione dei gesti. Il significato di catatonia deriva dal greco katà “giù” e teinein “tendere” che significaridurre ai limiti estremi la propria attività di relazione, le attività motorie e la volontà. La catatonia è stataosservata prevalentemente negli Ospedali Psichiatrici e si manifestava con un arresto delle attivitàmotorie, che poteva durare minuti, settimane o mesi. Questa condizione era legata ad uno stato diangoscia intensa che portava all’immobilità e alla mancata risposta a qualsiasi stimolo. Con l’apertura deicancelli degli istituti psichiatrici e il conseguente cambiamento di vita dei pazienti, le manifestazionicatatoniche sono diminuite fino ad estinguersi del tutto. È possibile dunque affermare che in buonamisura la sindrome catatonica sia la conseguenza della privazione e delle restrizioni istituzionali. (E.Bucaccio, K. Colja, A. Sermoneta, M. Turco, Op. cit., p. 58)

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Cambiando argomento viene chiesto a Dana in quali reparti abbia lavorato:

“Ho iniziato nell’Ottavo reparto Tbc, sinceramente con poca soddisfazione in quanto

mancava un’équipe all’avanguardia. Poi sono stata trasferita al Sesto reparto-donne, che

era quello del Firenze Centro, successivamente per alcuni anni a Prato, come altri

colleghi giovani spostati nelle zone periferiche del Mugello, o Sesto o comunque nella

provincia di Firenze.

Ricapitolando 1987-89 ho lavorato nel territorio; nel 1989 sono rientrata a San Salvi

dopo la morte di Massimo e lì sono rimasta dodici anni.

Questi trasferimenti sono la conseguenza della nuova organizzazione della struttura

nell’ambito del territorio. I reparti anticamente ospitavano malati con comportamenti

affini: tranquilli con tranquilli, agitati con agitati, anziani con anziani, sudici con sudici

etc …

Poi lentamente siamo passati alla suddivisione territoriale in base alla quale venivano

riuniti nello stesso reparto pazienti e medici che provenivano dalla stesso quartiere o dal

territorio della provincia, prima separati per sesso poi gruppi misti.

San Salvi in quegli anni era una situazione a macchia di “leopardo”. Finché c’è stato

come direttore il Professor Nistri i vari reparti erano gestiti con una certa libertà di

manovra da parte dei medici primari, per cui si notavano differenze di terapie e metodi

di approccio più o meno orientati a un recupero sociale.

Con l’incarico al Direttore Pellicanò si cominciò a vedere progressivamente un

cambiamento nell’organizzazione dei reparti orientati ormai verso la chiusura.”

A questo punto del racconto nell’ambito della trasformazione ormai in atto avviene

l’incontro con i “Chille de la balanza”:

“Noi eravamo predestinati! L’incontro è avvenuto in questo momento di crescita e

apertura guidato dal Pellicanò, sensibilizzato al potenziamento di forme culturali ed

espressive.

Un giorno ci siamo incontrati per caso a “La Tinaia”, loro cercavano uno spazio per

recitare Artaud.

Tranne un breve cambio di sede in un padiglione abbandonato dal 1980, quindi

immagina le condizioni, sono sempre stati dove adesso, nell’ambiente che era stato

preparato per accogliere la casa-famiglia di sei pazienti molto gravi, frequentatori de

“La Tinaia”.

Siamo nel 1998 e erano rimasti gli ultimi tre reparti da chiudere; le persone furono

distribuite nei “miniappartamenti” dentro San Salvi tra i “Girasoli” e le “Civette”, e la

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casa-famiglia. Era questo il momento giusto per cercare di realizzare un centro culturale

aperto a nuove esperienze legato al movimento del centro artistico “La Tinaia”.

I sei della casa famiglia erano: Guido Boni, grande artista, Umberto Gelli, Angela,

Margherita, Franca e Giuseppina, detta Giusi, che non avevano la possibilità di essere

reinseriti in famiglia.

Nella casa-famiglia da poco inaugurata si svolgono le prove dell’Artaud; i sei ricoverati

hanno modo così di assistere ad un qualcosa di diverso: si relazionano con Claudio e

Sissi, danno anche un qualche semplice contributo che li fa sentire utili e meno

emarginati.

Claudio ricorda quando chiese a Giusi chi fosse l’autore di un quadro lì esposto,

sapendo comunque che era fatto da lei, ma non firmato:

“Non è importante firmare le cose, ma farle!” questa fu la risposta di Giusi a Claudio,

molto sensata, attuale, fuori dalla logica del commercio, purtroppo non applicata nel

mondo di oggi.

La memoria della presenza di queste sei persone puoi notarla tra le stanze della casa-

famiglia: ogni stanza è caratterizzata da un colore diverso: giallo, rosso, verde, blu …

come hanno voluto gli ospiti-pazienti; nella zona regia c’era la cucina e c’erano anche

delle scale che portavano al piano superiore, utilizzato per le mostre.

La casa-famiglia è stata trasferita in Viale dei Mille per poco tempo, perché i sei abitanti

sono o deceduti o ricoverati in Rsa165 o ritornati nei miniappartamenti a San Salvi.

Questi spostamenti quasi come “valigie” sono stati per me un finale molto triste e uno

dei motivi per cui poi ho chiesto nel 2002 il trasferimento dove mi vedi adesso. Io mi

ero affezionata a loro, li consideravo come parte della mia famiglia; il mio obiettivo era

quello di dar loro un recupero di vita sotto tutti i punti di vista; per un periodo ci sono

riuscita, ma vederli rientrare o separarsi definitivamente per me è stato un quasi

fallimento, accompagnato dal grande dispiacere per l’isolamento che ne è conseguito.”

Dopo queste interviste ho reputato curioso andare a sentire l’opinione e il vissuto della

signora Concetta Pellicanò, moglie del direttore Dottor Carmelo Pellicanò, che ha

guidato la chiusura di San Salvi. Entusiasta al telefono mi ha fissato un appuntamento a

casa sua e, una volta incontrate, ha con piacere ed emozione accettato di parlare di quel

suo periodo.

165 Residenza Sanitaria Assistita

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È stato un piacere ascoltare la signora Concetta perché con semplicità, entusiasmo e

coinvolgimento mi ha guidata dentro i manicomi di Volterra e di San Salvi. Mi ha

colpita e appassionata perché le sue parole piene di emozione mi hanno trasmesso il

grande amore che prova ancora per il compagno di una vita e i valori che li hanno

guidati in cinquantanove anni di lavoro insieme.

Inizia così il racconto della signora Pellicanò, tratto da un suo libro di memorie A

Memo. Ho preferito riferire direttamente da questa fonte biografica per non alterare in

alcun modo il pensiero di colei che ha vissuto questo momento storico.

“Racconto la storia professionale di mio marito evidenziando per prima cosa la sua

umiltà e modestia, caratteristiche che rendevano prezioso tutto quello che faceva. Ora

sento quasi il diritto-dovere, non di riscattare la sua modestia, ma appunto di

evidenziarla con orgoglio e tenerezza attraverso tutte le tappe, scelte, fatiche, lotte e

soddisfazioni della sua vita.

Ci siamo conosciuti a Messina, mia città natale, io frequentavo il quinto ginnasio, lui da

Catanzaro era matricola alla facoltà di Medicina.

Si laureò entro il sesto anno, subito dopo gli venne offerto un posto di assistente in una

casa di cura privata per malattie nervose e mentali dove imparò a praticare l'elettroshock

e l'insulino-terapia, ovvero le cure praticate a quell'epoca.

Si iscrisse a Modena alla scuola di specializzazione e nonostante le offerte dei

proprietari della clinica di coinvolgerlo nella loro società, preferì entrare volontario

nell'ospedale psichiatrico di Catanzaro situato a Girifalco, uno dei peggiori e più

affollati d'Italia.

Non potrò mai dimenticare una mia visita al manicomio di Girifalco: c'è da dire che

frequentavo sempre i luoghi dove lavorava mio marito ed anche i nostri figli crescevano

a latte e follia. Tanto è vero che ho passato interi pomeriggi con loro in carrozzina,

prima nel giardino della clinica privata, poi in quello di un istituto medico

psicopedagogico che lui dirigeva, perché intanto si era specializzato anche in

neuropsichiatria infantile. È lì che cominciò a far confrontare i nostri figli con bambini

più svantaggiati di loro.

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Pellicanò cominciò a frequentare il professar Basaglia e si fece mandare a Milano per

seguire il seminario di Maxwell-Jones 166 che aveva creato in Inghilterra la prima

comunità terapeutica.

Mio marito vinse il concorso di primario all’Ospedale Psichiatrico di Volterra il 17

Gennaio del 1972; noi potemmo raggiungerlo solo in settembre.

Subito dopo arrivati a Volterra i rispettivi presidenti del Rotary e del Lions Club

invitarono il Dott. Pellicanò ad associarsi. Il gentile rifiuto evidenziò subito lo nostra

collocazione politica.

Il reparto che fu assegnato al primario Pellicanò si chiamava "Verga", giusto per

ricordarci il nostro sud.

Così aprì il reparto-donne, primo atto rivoluzionario e rischioso; convinse le malate ad

uscire in giardino, a vestirsi decentemente e guardarsi allo specchio, cosa impossibile

fino ad allora poiché gli specchi erano stati rimossi da tutti i reparti a mangiare a tavola

con le posate e non con le mani. Quante volte ho mangiato con loro sia per compagnia

che per insegnare l’uso delle posate!

Le pazienti cominciarono ad uscire anche in città, prima accompagnate dalle infermiere,

poi da sole ed anche la città fu costretta a distogliere lo sguardo dall'immenso

manicomio immobile e senza speranza (le guide turistiche di Volterra lo menzionavano

con vanto come uno degli ospedali più grandi d'Italia con ben cinquemila ricoverati) e

confrontarsi con degli esseri umani disperati ma innocui che da anni vivevano come

carcerati.

La maggior parte dei ricoverati nei manicomi erano i poveri, le prostitute, gli alcoolisti

ed i "politicamente scomodi"; insomma i veri matti con patologie, forse, erano una

minoranza.

Ricordo una donna che io e Carmelo chiamavamo "la sindachessa" perché era

un’istituzione, lì ricoverata da ben cinquanta anni: in gioventù aveva avuto una

delusione d'amore e per rabbia aveva dato fuoco ad un capanno per gli attrezzi dei

contadini. Quella colpa le costò il manicomio a vita!

Naturalmente l'esperienza del “Verga” suscitò l'interesse dei giovani assistenti ed anche

di qualche primario di altri reparti.

166 Lo psichiatra Maxwell Jones creò nel 1952 la prima comunità terapeutica in Inghilterra, con l'obiettivodi far partecipare i pazienti, e quindi responsabilizzarli. L'idea era quella di trasformare l’ organizzazionegerarchica, in una organizzazione basata su un rapporto paritario fra gli utenti e gli operatori sanitari.

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Il direttore di Volterra vinse il concorso per la direzione dell'Ospedale Psichiatrico di S.

Maria della Pietà di Roma ed il presidente dell'amministrazione affidò ad interim (in

attesa del concorso) l'incarico di direttore al dottor Pellicanò, incarico divenuto effettivo

dal 1 gennaio 1975.

Inizia subito l'immane e rischioso lavoro di deistituzionalizzazione da sempre sognato,

prima ancora che la “legge Basaglia” diventasse operativa.

L'ospedale psichiatrico di Volterra era la fabbrica della città. Si può immaginare, quindi,

quanto e come sia stato arduo ed impopolare per il Pellicanò il compito assunto con gli

ottocento infermieri, che si trovarono alla perdita del posto di lavoro, costretti ad

accettare un trasferimento sulla provincia e oltre: Cecina, Cascina, Pontedera, Pisa,

Livorno fino all'isola d'Elba.

Nella riorganizzazione manicomiale Pellicanò fu costretto ad affrontare il problema

della “mistizzazione”.

Con questo criterio si formarono naturalmente dei reparti misti, divisi solo per piani,

mentre prima erano organizzati solo per sesso.

Questa iniziativa scatenò una vera e propria guerra moralistica e la gelosia irrefrenabile

dei mariti delle infermiere che con i reparti misti si trovavano a contatto con i “matti”

uomini.

La rivolta si concretizzò in numerose lettere e telefonate anonime, con minacce

vergognose. Altre forme di protesta saranno assemblee e scioperi degli infermieri fino

ad accogliere il direttore e il presidente con solenni fischi e striscioni con scritto:

"Pellicanò e Verdianelli (il presidente) levatevi dai corbelli" mentre a giorni alterni

sostavano davanti al cancello di casa con lo striscione "Pellicanò Carmelo sei salvo per

un pelo".

Altra forma di protesta degli operatori sarà legata alla sospensione degli stipendi per un

paio di mesi perché lo Cassa di Risparmio di Volterra, tesoriera dell'amministrazione

dell'ospedale, temeva l’imminente mancanza di rette dei ricoverati. In tutto questo si

crearono fratture politiche sempre più marcate tra gli schieramenti dell’epoca.

Il Pellicanò aprì il cancello d'entrata dell'ospedale per renderlo tutt'uno con il quartiere e

facendo entrare l'autobus di città fin dentro i viali con le relative fermate. L'ospedale

ridiventava così territorio cittadino.

Il comune di Volterra concesse delle case popolari per l'inserimento di alcuni ricoverati

autosufficienti.

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.65/147

Alcuni reparti diventarono case-famiglia, altri centri di riabilitazione, mentre la maggior

parte sono stati riconvertiti in un ospedale civile moderno ed efficiente.

C'è da ricordare la collaborazione continua con il teatro di Pontedera e l'”Odin Theatre”

di Eugenio Barba che organizzavano meravigliosi spettacoli coinvolgendo i malati e

tutta la città.”

Fu in questa occasione che sono venuta a conoscenza del “libro di muro” di Nannetti di

cui ho precedentemente parlato e della raccolta di lettere ritrovate nell’archivio

dell'Ospedale Psichiatrico di Volterra da Pellicanò e pubblicate con il titolo

Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli (1883-1974). Questo libro ha

appassionato tanti, tra cui la poetessa Alda Merini e il cantautore Simone Cristicchi, che

da una di queste lettere ha tratto l’ispirazione della sua canzone Ti regalerò una rosa

vincitrice del Festival di Sanremo del 2007.

Da questo momento in poi il racconto della signora Concetta si è spostato su Firenze.

“Nel 1984 Pellicanò arrivò a Firenze. Cominciò l'ultima immane fatica: chiudere anche

il manicomio San Salvi. Trovò collaborazione in tanti colleghi ed operatori, anche

perché ormai la legge Basaglia era realtà consolidata. Le difficoltà non mancarono.

A Firenze il confronto amministrativo era con Regione, Provincia, Comune, Università

e questo voleva dire anche rapporto con tutte le forze politiche e pubblicazione i sui

giornali cittadini, di destra e di sinistra, per ogni iniziativa che facesse.

Si impegnò seriamente per ottenere una convenzione con l’Università affinché i

neuropsichiatri risultassero sostenuti non solo da una preparazione teorica, ma anche

pratica.

In una sua pubblicazione su ‹‹Neuropsichiatria››, che poi mio marito, tra l’altro direttore

della rivista, ha cambiato in ‹‹Neo-psichiatria››, dal titolo Una progettualità tecnico-

politica sull'agire dell'uomo sull'uomo insieme al collaboratore Raimondi diceva:

"La trasfusione dei saperi parcellizzati rende la pratica leggibile e storificante.

Sperimentare acquista così un senso di compiutezza efficace sull'uomo per l'uomo.

Ricordiamo che solo attraverso un ampliamento delle conoscenze è stata possibile una

diversa visione dell'uomo sequestrato nei campi di concentramento dei manicomi … la

ricerca debba essere il supporto dell'assistenza intesa questa non come spazio per letti su

cui si poggiano "i casi" da studiare, ma incontro con il reale, con l'uomo e i suoi

problemi. "

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.66/147

“Per quanto riguarda l’ambito della comunicazione, - continua la signora Concetta -

sarebbe molto importante dar voce al manicomio, a ciò che è stato. Non c’è mai stata

una comunicazione tra il manicomio e la città, e la città non ha mai comunicato con il

manicomio. Noi abbiamo il dovere di far sapere cosa erano i manicomi, affinché queste

crudeltà non si ripetano mai più nella storia dell’uomo.

Il rischio di ricadere in un errore c’è sempre, il tempo passa, mutano le situazioni, ma il

problema di persone che possono nascere con delle malattie mentali ci sarà sempre, no?

Chi ha detto che non potrebbe capitare a noi … a un conoscente?

Ci sono tutt’oggi delle cliniche convenzionate che sono tanti piccoli manicomi che

nessuno controlla.

Il manicomio è un pezzo di storia e di vita di tutti, abbiamo il dovere di raccontare.

Custodire la memoria è diverso da fare museo, perché il museo è una memoria che è

stata e non c’è più, statica.

Mantenere viva la memoria invece è una cosa diversa, ed è per questo che l’anno scorso

con i “Chille” abbiamo creato un’Associazione per la memoria viva di San Salvi,

intestata a mio marito di cui sono presidente. È dal 1983 che combatto con le forze

politiche locali e con le Istituzioni a proposito della riconversione dell’area; le proposte

fatte sono state folli!

Chi voleva utilizzare l’area per fare degli appartamenti, chi, invece, la caserma dei

carabinieri … Io credo che lascerò purtroppo il testimone ai miei figli, perché in trenta

anni ancora non si è deciso niente.

Si può comunicare con tante cose e in tanti modi, no? Non è questa mancanza di

comunicazione?

La conoscenza del fenomeno manicomiale e degli “alienati” è una cosa che deve

passare alle nuove generazioni.

So quanto ci teneva mio marito e quanto ci tengo io personalmente come cittadina, non

è possibile tralasciare un problema per trenta anni, prometto che fino a che avrò forza di

gridare e di interessarmi non mi fermerò!”

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.67/147

Le parole della signora Concetta Pellicanò mi ricordano molto quelle lette in un libro di

Sociologia La conversione dello sguardo. Verso nuovi orizzonti epistemologici negli

studi di comunicazione, che analizza l’importanza della comunicazione e della

conoscenza, ovvero l’apprendimento alla base della trasformazione sociale.

L’autore auspica una nuova cultura della comunicazione. La “buona comunicazione”,

che si contrappone alla “cattiva comunicazione” o l’“incomunicazione”, che diventa una

risorsa fondamentale per acquisire consapevolezza, risvegliare attenzione e

responsabilità, soprattutto nei riguardi della vita di tutti i giorni e quindi della società.167

La buona comunicazione e le pratiche educative sono le basi di una società che vuole

funzionare.

Socrate ha cercato di insegnare come sia possibile comunicare a tutti, anche con

“l’uomo della strada” usando un linguaggio semplice, ed insegnare a diventare cittadini.

L’uomo è un essere sociale e l’arte del saper vivere si concretizza nell’arte del saper

vivere con gli altri, senza utilizzare una forma di dominio dell’uomo sull’uomo.168

L’utilizzo del dialogo e della comunicazione può diventare un antidoto alla violenza, “il

processo di civilizzazione prevede una riduzione della violenza conseguita attraverso

lenti e contraddittori processi di apprendimento che consentono agli esseri umani di

imparare sempre meglio a controllare e a gestire le loro pulsioni distruttive: imparando

così a distaccarsi da se stessi e a coinvolgersi nelle situazioni e nei contesti sociali nei

quali vivono.”169

La comunicazione è infatti il tessuto connettivo e nervoso della società, per mezzo del

quale si costruisce l’identità dell’individuo e della collettività. Attraverso il dialogo si

creano significati condivisi: la cultura, le tradizioni, la vita di relazione.

Comunicare, nel suo significato etimologico, comporta un flusso di informazione che va

nelle due direzioni cioè dall’emittente al ricevente e viceversa, attraverso un codice

comune.170

Nel passato, fino al secondo dopoguerra, non si poteva parlare di comunicazione: i

rapporti erano gerarchici, dall’alto al basso, era un’accettazione passiva delle

indicazioni a vario livello, tutto veniva subito senza che venisse messo in discussione.

167 G. Bechelloni, La conversione dello sguardo. Verso nuovi orizzonti epistemologici negli studi dicomunicazione, Ipermedium, Cesena, 2009, pp. 78-85168 Id., p.13169 G. Bechelloni, Op. Cit., p.78170 Giovanni Bechelloni, Enrico Cheli, Comunicazione e non violenza. Dai problemi di comunicazionealla comunicazione come risorsa, Mediascape Edizioni, Firenze 2003, pp. 23-24

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.68/147

Sarà con il secondo dopoguerra che la società si aprirà alla comunicazione.

La diffusione dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, le riforme scolastiche che

aprono la scuola ad un utenza sempre più vasta permettono di diffondere la conoscenza,

di creare cultura e di promuovere lo spirito critico individuale. 171

Con gli anni le cose matureranno fino ad arrivare ai grossi cambiamenti degli anni

Sessanta e Settanta.

Da questo momento in poi diminuirà l’esclusione di tanti dalla conoscenza e

dall’apprendimento favorendo così la consapevolezza e la capacità di operare scelte

consapevoli dettate dalla sicurezza nei propri mezzi. Questi risultati consentono di

superare la “violenza distruttiva” che sta alla base dell’ignoranza. 172

Quanto detto fin qui si riflette anche nella realtà manicomiale, gerarchia e

comunicazione unidirezionale, allontanamento sociale, “tipizzazione” di luoghi comuni

legati all’assoluta mancanza di sola informazione.

I cittadini erano completamente all’oscuro della realtà di vita sotto “i tetti rossi”, anzi

c’era l’omertà “popolare” di tenere nascosto qualsiasi collegamento con le

problematiche lì dentro trattate.

Questo succedeva perché la vita di relazione andava secondo regole e schemi ferrei.

Tutti si dovevano uniformare alle consuetudini consolidate, importava molto più “cosa

eri” che “chi eri”, movente spesso per la segregazione dalla società nei manicomi dove

l’autorità gestiva la libertà, la spontaneità e la creatività.

Il cambiamento a San Salvi infatti parte proprio dalla libertà di espressione,

rappresentato dalla Tinaia.

I cambiamenti degli ultimi decenni sono stati senza dubbio positivi: sono modificati i

rapporti umani, la società è diventata democratica e libera grazie all’autodeterminazione

e alla comunicazione che hanno portato a riforme e riorganizzazioni sociali di cui siamo

a conoscenza.

In questo quadro si inseriscono i cambiamenti che la struttura manicomiale da

Istituzione Totale è passata all’attuazione della legge n.180.

Fondamentale è l’analisi del punto di vista anche di coloro che si sono trovati, giovani e

grintosi, a contatto con la realtà di San Salvi durante il periodo universitario degli anni

Settanta.

171 Ibidem172 Ibidem

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Gli anni Settanta rappresentano, infatti, il periodo del fermento, di sfiducia nei confronti

delle Istituzioni Totali, della modernizzazione, dell’apertura, delle assemblee, dei

dibattiti, di un utilizzo violento della comunicazione per manifestare le proprie idee, in

misura sempre più accentuata: sentimenti negativi di alienazione, cinismo, apatia,

disillusione, con una conseguente trasformazione della società e dei modelli di vita.

È a questo periodo che appartengono i ricordi di Pino Pini, psichiatra, che si laureava

nel 1970 con una tesi sull’Ospedale Psichiatrico di San Salvi e sulla costituenda Asl.

Sorridendo Pino comincia il suo racconto, che lo fa tornare indietro di qualche anno, in

un periodo, quello di Basaglia, quando le persone che lo hanno vissuto lo ricordano

come un’era di storico cambiamento.

“Ho cominciato a frequentare San Salvi proprio nel 1970, ero studente al quinto anno di

medicina e stavo studiando per l’esame obbligatorio di Neuropsichiatria.173

La Clinica Universitaria Psichiatrica era dentro San Salvi, nel primo padiglione dove

ora c’è una scuola, mentre la Clinica Neurologica era situata a Villa Fabbri. Era una

realtà nuova per me e ne rimasi molto colpito.

Durante le lezioni all’Università del Professor Maleci, neurologo, professore anche di

Basaglia durante il suo periodo di insegnamento a Padova, mi impressionai molto

durante una dimostrazione in classe nella quale era presente un paziente psichiatrico: era

un ragazzo, che avrà avuto la mia età, imbarazzato, classificato come “pazzo”.

Si sviluppò ben presto in me una matrice sociale molto forte, chiesi la tesi al professore

e la possibilità di entrare a San Salvi in Clinica.

Lì avveniva l’osservazione e passavano tutti i malati nuovi, restavano necessariamente

non più di un mese, dopo di che o diventavano associati all’ospedale psichiatrico, socio

a vita, oppure venivano dimessi.

Avevo la possibilità di entrare nei reparti, non potrò mai scordarmi la quantità di chiavi

che possedevano gli infermieri.

L’università e l’ospedale erano due realtà completamente staccate, ed è stato frequentare

l’ambiente ospedaliero che mi ha spinto a decidere per la strada psichiatrica.

Cominciai a lavorare a San Salvi, all’inizio ero nel “reparto agitati” quello della

Dottoressa Magherini, poi sono passato al terzo misto, dove ho lavorato per diverso

tempo.

173 Nel 1972, con le normative europee l’esame di Neuropsichiatria è stato cambiato con l’esame diNeuropsichiatria Infantile

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.70/147

Quando iniziai a lavorare nell’Ospedale Psichiatrico i reparti erano ancora divisi per

patologie e per sesso; era stato appena avviato il cambiamento con la divisione dei

reparti in base alla zona di provenienza, la “mistizzazione” uomini e donne e la nascita

delle prime équipe.

Nell’Ospedale si cominciava a sentire il desiderio di cambiare il sistema. Mi arrivò la

proposta di lavorare nell’Università, ma ho preferito continuare ad operare

nell’ospedale; è li che si è fatta la storia!”

Adesso si pone attenzione sui rapporti umani tra pazienti e personale medico e

infermieristico. Proprio di questo parla il Dottor Pini:

“Quando arrivai, nel periodo di stesura della tesi, era iniziato l’utilizzo in alcuni reparti

delle assemblee. L’idea era partita da “La Tinaia”, frequentata da alcuni medici, per

esempio il Dott. Mori, che sono stati i pionieri di queste sperimentazioni. Creavano dei

gruppi psicoanalitici all’interno dei reparti e nella “Tinaia”, costruendo dei momenti

alternativi alla vita di reparto.

Cominciai a collaborare in “Tinaia”, con la signora Dana e Massimo, tra l’altro a quel

tempo abitavano davanti a casa mia in Santo Spirito,.

Queste riunioni in gruppo erano molto importanti anche per noi perché si imparava ad

avere un approccio diverso con il malato: non più quello del medico col camice bianco.

Si stava tutti insieme a fare la creta, in modo informale, lavoravamo insieme ai pazienti,

qualcuno era un vero artista.

In questo modo si cambiavano le dinamiche del rapporto.

Poi a questi momenti ne seguivano altri dove si analizzavano i lavori, i comportamenti,

le evoluzioni dei rapporti; noi non esaminavamo solo i lavori dei pazienti, ma tutto il

contesto, soprattutto il rapporto fra noi e i pazienti.

Era nel nostro interesse capire come stare con i pazienti, fuori dal reparto.

Si cercava di rompere il vecchio modello medico-paziente e impegnarci

nell’integrazione del paziente nei rapporti umani.

Cominciai a lavorare a “La Tinaia” portando le persone dal mio reparto, e poi una volta

a settimana si faceva entrare la “Tinaia” nel reparto.

Si mangiava tutti insieme, si faceva pittura all’interno del reparto pazienti, medici ed

infermieri.

A “La Tinaia” si lavorava molto con gli psicologi tirocinanti, erano molto importanti,

portavano aria nuova. Questo andò avanti per mesi, forse un anno, poi l’abbiamo

continuata nel territorio fino al 1978.

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Aperto un ambulatorio a Firenze, in San Jacopino, abbiamo pensato di ricreare dei

momenti in cui si facevano attività di gruppo che andavano ad affiancare la terapia, a

volte, farmacologica.

Nella sala di attesa dell’ambulatorio si facevano le attività di gruppo con Dana e

Massimo.”

Parametri previsti per il ricovero ospedaliero. Prima e dopo la legge n.180.

“Il primo era la pericolosità e poi il fatto che una persona fosse affetta o no da una

patologia. C’erano due medici, come tutt’ora, che analizzavano il caso e confermavano

il ricovero se necessario. Uno poteva essere anche un medico di famiglia. Diciamo che

c’era un concorso di opinioni tra medici dove si presumeva una patologia; la

dichiarazione in caso di ricovero era sempre anticipata dalla frase “pericoloso a sé e agli

altri”. Questa comunicazione andava in questura da dove partiva l’ordine di procedere al

ricovero, dal momento che entrando in manicomio si “sporcava” la fedina penale.

Il ricovero volontario avvenne dal 1969; si creò all’interno di San Salvi un reparto di

volontari: era pieno. Questo significava che questo bisogno c’era, che il problema della

salute mentale era un problema sociale rilevante, un bisogno al quale si doveva

rispondere, ma non con l’ospedale e la contenzione, bensì con altre soluzioni.

Il concetto di pericolosità poi fu tolto dalla sanità, non si scrive più che una persona “ è

pericolosa a sé e agli altri”, ma che ha bisogno di cure che possono essere somministrate

territorialmente o che necessita di un ricovero ospedaliero.

Adesso una parte delle persone che ha bisogno di cure va negli ambulatori, oppure per

situazioni particolari si può ricorrere al TSPDC il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e

Cura, previsto della legge n. 180.

La legge Basaglia si era preoccupata di ricavare all’interno degli ospedali generici delle

aree dove ricoverare queste persone, a volte in maniera forzosa; in questo caso si parla

di TSO, ovvero il Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Il TSPDC è riservato ai ricoveri volontari per un 90%, mentre per il 10% ai trattamenti

obbligatori autorizzati dal sindaco che ha in quel caso la prerogativa di autorità

sanitaria.”

È con la testimonianza di Anna Maria Uncini, in quegli anni giovane psicologa

tirocinante, diciottenne curiosa e piena di vita, che si conclude questo ciclo di interviste

di vita vissuta nel manicomio di San Salvi.

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“ Era da tanto tempo che non ripensavo a San Salvi. La mia esperienza là dentro è stata

da tirocinante durante il periodo dell’Università, contemporaneamente alla riforma di

Basaglia. A Firenze nel 1967 non c’era una facoltà di Psicologia, però al magistero di

Pedagogia c’era un nucleo storico dell’Istituto di Psicologia. Tra il ‘67 e il ‘69 nasce il

primo vero e proprio corso di Laurea in Psicologia, ma in attesa del riconoscimento

ministeriale, seguivo intanto l’indirizzo di psicologia sperimentale a Firenze.

Ero molto appassionata all’argomento, perciò mi fu consigliato di fare esperienza sul

campo a San Salvi. È stata un’ esperienza bellissima!

Ero nel terzo reparto-donne, il reparto della Dottoressa Magherini, di cui si sente parlare

molto anche ora per gli studi sulla Sindrome di Stendhal174, e per l’impegno verso

l’apertura dei reparti, pur continuando la pratica dell’elettroshock.

Il primario aveva accettato così un gruppo di ragazzi dell’Istituto di Psicologia. Non

potrò mai scordare la prima cosa che ci ha detto: “Non leggete niente, né di psichiatria,

né di psicologia. Prima si impara con la propria testa poi ci si confronta con il pensiero

degli altri.” Questo insegnamento per me è stato molto formativo. Il nostro compito era

stare con le persone ricoverate, trasformate completamente dalle terapie che le facevano

sembrare delle larve.”

Anna risponde sui disturbi presentati dalle donne nel reparto cui era assegnata:

“Di tutti i tipi. Il manicomio una volta era un posto dove entrava di tutto: dall’isterica

alla schizofrenica175 …

I medici conoscevano molto bene le persone che ci consegnavano; accanto al reparto

che frequentavo, il terzo-donne, mi ricordo che c’era il decimo reparto, chiuso a chiave.

Le chiavi degli infermieri erano enormi!

La paziente che mi era stata assegnata si chiamava Mariellina, aveva 55 anni, era

dolcissima, ma completamente rimbambita dagli elettroshock che aveva subito. I

farmaci erano molto pesanti, le persone camminavano come zombie.

174 Chiamata anche “Sindrome di Firenze”, è una affezione psicosomatica caratterizzata da tachicardia,capogiro, vertigini, confusione in soggetti messi di fronte ad opere d'arte di straordinaria bellezza,soprattutto in spazi limitati.175 La Schizofrenia è uno dei più gravi e comuni disturbi psicotici; il suo nome deriva dal greco con ilsignificato di "mente divisa". La Schizofrenia rende progressivamente frammentata la personalità e lemodalità di scambio interpersonale; il malato risulta infatti del tutto estraneo all'ambiente circostante eagli accadimenti personali ed interpersonali esterni, ritirandosi in un mondo tutto.

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È stata un’esperienza tremenda, molto forte, ma allo stesso tempo bellissima, formativa.

Era una prova con noi stessi tutti i giorni e lo scopo principale era quello di riuscire ad

entrare in contatto con queste persone “spaventose” e non avere paura.

Il nostro ruolo era stare insieme a loro e trattarli umanamente. Si cercava di stabilire un

rapporto affettivo e di sfumare, se non addirittura eliminare, quella divisione derivata

dal ruolo professionale.

Mi ricordo che ci fu dato il permesso di portarli fuori da San Salvi; io con la Mariellina

ci trascorrevo molto tempo, mi ricordo che andavamo in centro con l’autobus.”

Abitando in piazza Oberdan, molto vicina alla zona di San Salvi, la signora Anna parla

della realtà del manicomio nell’immaginario collettivo:

“Andare ai ”tetti rossi” era un marchio; si sapeva che era un lager. C’era paura e

disgusto per la malattia mentale. La cosa più incredibile è che la gente pensava che

fosse il posto giusto dove dovevano stare queste persone; secondo l’opinione pubblica

loro stavano bene nei “lager”, come sta bene un cane arrabbiato in una gabbia nel

canile.

Era pesante l’etichetta che veniva data alla malattia mentale. Non solo il paziente non

riusciva ad uscire dal manicomio, ma i figli, i parenti di questi, erano visti male e per

non essere bollati dovevano mantenerlo nascosto … mi vengono in mente delle

immagini … Per esempio c’era un salone all’interno del sesto reparto dove i parenti

andavano a trovare i degenti, non entravano nemmeno nelle loro camere, era tremendo.

Mi ricordo vedevo queste persone che, nonostante, suppongo, volessero bene ai loro

familiari rinchiusi, non riuscivano a dimostrarglielo.

L’unica cosa che facevano per loro era portagli da mangiare.

L’unico modo per veicolare l’affetto era il cibo, non c’era altra possibilità per

scambiarsi amore e ricordi. Solo questo. E questo mi addolorava.”

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Follia in diretta

In questo paragrafo vengono riportate testimonianze autobiografiche: lettere e pagine di

diario di chi è stato ricoverato e ha subito violenza psicologica solo per il fatto di essere

là dentro o trattamenti terapeutici, che ne hanno modificato le capacità fisiche e

psichiche.

I testi sono originali e non hanno subito alterazioni sul piano dei contenuti, della forma

espressiva e della competenza lessicale.

Lettera ai direttori dei manicomi scritta da Antonin Artaud e pubblicata nella rivista

La Révolution surréaliste n.3 intitolata Lettre aux Medecins-chief des asiles de fous

(Lettera ai direttori dei manicomi) rappresenta uno dei primi documenti antipsichiatrici

e di denuncia contro la situazione manicomiale:

Signori,

le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano. Questa

giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l’esercitate a vostra descrizione. Lasciate che

ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei sapienti, dei governanti dota la psichiatria

di non si sa quali lumi sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il

verdetto anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza, né

la dubbia esistenza delle malattie mentali.

Ma per ogni cento classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere

utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo cerebrale

in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad esempio, il sogno del

demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono un’insalata di parole?

Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il quale non ci

sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il diritto attribuito a uomini

di vedute più o meno ristrette di sanzionare mediante l’incarcerazione a vita le loro

ricerche nel campo dello spirito umano.

E che incarcerazione! Si sa- e ancora non lo si sa abbastanza – che gli ospedali, lungi

dall’essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle quali i detenuti

forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le sevizie sono la regola, e

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questo voi lo tollerate. L’istituto per alienati, sotto la copertura della scienza e della

giustizia, è paragonabile alla caserma, alla prigione, al bagno penale.

Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per evitarvi il

penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri

ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione ufficiale, sono, anch’essi, internati

arbitrariamente. Non ammettiamo che si interferisca con il libero sviluppo di un delirio,

altrettanto legittimo, altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni

umane. La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica quanto

inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le vittime individuali

per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria

dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri forzati della sensibilità,

perché è pur vero che non è nel potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che

pensano e agiscono.

Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle manifestazioni di certi

pazzi, nella misura in cui siamo in grado di apprezzarle, affermiamo la assoluta

legittimità della loro concezione della realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.

Possiate ricordarvene domattina, all’ora in cui visitate, quando tenterete, senza

conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete riconoscerlo, non

avete altro vantaggio che quello della forza.

Antonin Artaud

Figura 11: "San Salvi 1970", foto di Renato Bartolozzi

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Leggere i diari e le lettere di Artaud significa restituire la parola ad un uomo che è stato

internato per 9 anni in diversi ospedali psichiatrici e ha subito ben 51 elettroshock.

Artaud con la scrittura e il pensiero ha percorso durante tutta la vita il crinale sottile che

divide la normalità dalla follia.

Una dimensione che il genio dell’artista trasforma in una “costruzione umana e poetica”

di sentimenti d’amore, di politica, di sogni, di speranze. 176

La scrittura dei quaderni rappresentano il tentativo dell’autore di opporsi allo “shock

elettrico” con lo “shock della parola”. È la scrittura che gli ha permesso di rigenerarsi.

L’elettroshock provoca sempre un cancellazione di tutto ciò che può risiedere nella

mente e questo sforzarsi a scrivere riporta in vita i pensieri e gli ideali di chi l’ha

subito.177

Artaud alterna il codice verbale con il codice grafico per esprimere i suoi sentimenti, gli

atteggiamenti, la costrizione a cui è sottoposto e la sua personale opposizione

all’”Istituzione”. È nella parola scritta o disegnata che si rafforzava e così risorgeva la

sua capacità di reazione.

La morte, sempre presente nei suoi scritti, è l’esperienza dei coma da elettroshock

“perché ogni coma mi ha ucciso ed io non voglio più essere assassinato”.178

“Ogni applicazione di elettroshock mi ha gettato in un terrore che durava ogni volta

parecchie ore”.179

La sopravvivenza era rappresentata dalla scrittura che faceva entrare il corpo nel testo,

diventando così una scrittura fisica, a volte una creazione artistica. La cura

dell’elettroshock aveva alterato la calligrafia e il ritmo della scrittura.180

I diari in questa situazione rappresentano la continua rigenerazione dell’essere umano,

ucciso più volte dalla terapia shock, ricreandone il mezzo di espressione: il linguaggio.

Nei diari infatti Artaud scrive: “Il mio cuore crede che qualunque soddisfazione stia nel

pensiero e nell’anima, e che basti nominare i suoi stati interiori e le sue trance, farne un

poema riuscito e un dramma, per farle vivere e dar loro diritto di cittadinanza tra le cose

con lo stesso valore e la stessa ricettività di una casa edificata pietra su pietra e

cementata, o dei vagiti di un nuovo nato.

176 Ida Savarino, Artaud Antonin, Nel vortice dell’elettrochoc, Tivoli, Sensibili alle foglie, 1998, p.9177 Ibidem178 Id., p. 23179 Id., p. 25180 Id., p. 27

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Voglio dire che un poeta e pensatore può creare degli stati d’animo, e appoggiarsi sulle

sue lotte interiori per far nascere un conflitto e un dramma che contenga in sé alla stato

di trama, di tessuto o di corteccia, tutti i problemi della vita.”181

Lettere e poesie ritrovate nelle cartelle cliniche del manicomio di San Salvi: i

pensieri e i racconti di due internati

La pratica della scrittura, di cui siamo venuti a conoscenza soprattutto dopo l’entrata in

vigore della legge n.180/78, che ha permesso di aprire gli archivi di tanti anni di

reclusione, è diffusa a San Salvi come in tutti i manicomi.

I ricoverati scrivevano lettere e pagine di diari, anche se era proibito, anche se nessuno

avrebbe mai risposto.

Sono state raccolte tra il 1978 e 1979 molte lettere ritrovate nelle cartelle cliniche del

manicomio di Firenze.

Lo psichiatra Giuseppe Fioravanti Giannoni ne ha trovate 150, le ha trascritte e

commentate per ritrovare le verità nascoste che si celavano sotto le parole di queste

persone ricoverate. Parole e frasi che a prima vista possono sembrare assurde, ma non

per chi, come lui, ha conosciuto e frequentato quella realtà.

Per intervistare il dottor Giuseppe Fioravanti Giannoni sono andata a Greve, nella sua

casa, era una serata molto fredda di gennaio. È un uomo molto colto, piacevole, che

spazia in vari campi, esemplificando con collegamenti storici, letterari, filosofici,

artistici, rendendo la conversazione coinvolgente.

Abbiamo cominciato dal suo incontro con la psichiatria che lo ha portato a esercitare la

professione dentro San Salvi:

“Ho fatto per diversi anni il medico di famiglia, nel tempo mi sono reso conto che la

parte psicologica nello sviluppo della malattia era preponderante. Era il 1966, avevo

quasi quaranta anni, per l’esattezza trentotto e mi iscrissi alla scuola di specializzazione

per approfondire il problema sulla psicopatologia”

Quello che segue sono esempi delle atrocità praticate all’interno del manicomio e

riferite dal dottore:

“Al manicomio di Firenze, nei primi anni settanta, al Quarto reparto uomini, quello dei

“sudici”, la pastasciutta non veniva servita nei piatti ma versata in terra nel mezzo del

181 Id., p 86

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salone e quei “sudici” la mangiavano come se fossero maiali ed al Terzo donne al

mattino le ricoverate che, legate al letto, nella notte si erano sporcate defecando,

venivano messe nella vasca del bagno, un’infermiera con una sistola le innaffiava,

mentre un’altra portava via il sudicio con una granata di saggina.”

Questa dichiarazione ci fa capire immediatamente il punto di vista dello psichiatra nei

confronti del manicomio; parlando infatti rende nota la sua “antipsichiatria”182: è per la

comunicazione, per le relazioni interpersonali e soprattutto per la guarigione che

permetta un inserimento attivo nella società, ovviamente quando possibile.

Il dottor Giannoni avvalora quanto affermato dandomi un libro da lui scritto Nel dentro

di dentro.

È una raccolta di documenti, la maggior parte lettere, di tre ricoverati che si rivolgono ai

familiari, ai medici, alle autorità per essere ascoltati nelle loro necessità.

“Tanti, in quell’inferno, scrivevano; scrivevano lettere affidandole agli infermieri

perché fossero spedite agli indirizzi, i più vari, e che regolarmente erano cestinate se

non finivano nella cartella clinica. Lì le ho trovate; i colleghi medici mi hanno passato

quelle che avevano conservato.”

Lo psichiatra mi disse che non ha posto molta attenzione alla data delle lettere perché:

“[…] nel manicomio il tempo era senza tempo; il delirio, le allucinazioni , si

avvitorcolavano su di sé senza fine; l’ambiente, cristallizzato e cristallizzante , reificava

anche l’anima, la mente; le rendeva immote, inutili, pur nel loro vorticare di verità che

non trovava ascolto e passava come priva di senso. Ho raccolto così tante lettere che mi

sono sembrate interessantissime sia per forma che per contenuto, testimonianze

eloquenti di una vita travagliata e terribile, sfoghi, aneliti, denunzie, facezie, evasioni,

speranze, reazioni, confessioni, scritte in un linguaggio particolare, a prima vista

incomprensibile e ridicolo, ma certamente estroso quanto stravagante.”

Mi è stato chiarito durante l’incontro che il linguaggio degli schizofrenici è conseguenza

non di una malattia inguaribile, ma di un modo particolare di vivere in relazione e in

reazione a tutto ciò che li circonda.

Nella cosiddetta schizofrenia c’è l’esperienza di vivere la realtà come in sogno e tutto

diventa simbolico come nel sogno, anche il linguaggio e la comunicazione.

182 All’inizio il Dottor Giannoni aderì alla nuova società italiana Psichiatria Democratica, fondata daFranco Basaglia nel 1973, che promuoveva la liberazione del malato dalla segregazione manicomiale.Dal momento che la società praticava anche l’utilizzo degli psicofarmaci nella cura della malattia mentaleil Dottor Giannoni si distaccò dal movimento fino ad assumere un atteggiamento del tutto contrarioall’utilizzo degli psicofarmaci, abbracciando terapie alternative basate sulla relazione e il contatto umano.

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È un modo mentale tipicamente umano di reagire a situazioni insopportabili perché

paradossali, è un nascondersi, è un mascherarsi, una risposta pragmatica ad una realtà di

messaggi paradossali. Anche le allucinazioni sono comunicazione e nel delirio c’è tanta

verità.

Il linguaggio del folle ed il suo comportamento devono essere interpretati per essere

capiti, perciò il commento a queste lettere serve per arrivare al nocciolo, al dentro. Al

dentro del dentro.

Di seguito sono riportate integralmente una scelta di scritti tratti dal libro Nel dentro di

dentro che descrivono con un linguaggio molto colorito e lucido la realtà del

manicomio: sei lettere del paziente Giacomo Tarantini e quattro di Supremo Conti.

Giacomo Tarantini nasce nel 1931, figlio unico, la madre muore di parto, turbe

psichiche sono presenti sia nella famiglia paterna che in quella materna. Il padre si

risposa, avrà una figlia, per Giacomo sarà l’inizio dell’isolamento. Ben presto manifesta

turbe maniacali sottovalutate, studia con fatica, avverte disagio in famiglia. Il primo

ricovero in una clinica psichiatrica avviene a diciotto anni, quando subisce il primo

elettroshock, e da li in poi le turbe maniacali si accentuano e i ricoveri si fanno più

prolungati fino all’internamento definitivo.

Dalle sue lettere, come spiegato dal dottor Giannoni, emergono informazioni reali sulla

vita all’interno del manicomio che l’evoluzione di un crescendo di emarginazione e di

allontanamento dalla realtà.

La sua ossessione di non essere compreso e considerato, la sua sensazione di esclusione

in famiglia gli provoca un delirio di grandezza enorme, sogni di potenza impensabili,

che si espandono a dismisura nel tempo. Ultimo romantico, sogna vendette

inimmaginabili, con armi di sterminio totale.

Scrive lettere come questa del 1970:

“A sua Eccellenza il Ministro delle Finanze attualmente in carica in tale dicastero.

(questa lettera è diretta a S.E. il Ministro di qualsiasi ideale politico esso sia, ma non

della Democrazia Cristiana, partito nettamente avverso.) Chiedo che questa lettera non

venga respinta per nessun motivo al mittente né nella direzione del luogo in cui io sono

chiuso, ma conservata nel Ministero; e non vada in mano né a medici né a donne.

Rivolgo all’Eccellenza vostra questa lettera per spiegare la difficilissima situazione

nella quale io sono chiuso da circa diciotto anni di tempo, situazione davvero terribile di

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reclusione, di mancanza di denaro, di impossibilità di combattere perché privo di armi e

di denaro per comprarle. Tale situazione si verifica pur essendo io un nobile, pur non

appartenendo a razze inferiori, pur non facendo parte né del clero, né della chiesa, né

della razza ebraica, né di correnti sovversive, né di altre situazioni che possono portare

in questo luogo, dove mi trovo chiuso contro mia volontà, anzi internato

ininterrottamente, da undici anni di tempo.

Descriverò nelle righe seguenti la mia situazione. Io che scrivo questa lettera sono il

recluso stesso, ossia il Sig., (anzi Eccellenza io stesso nei secoli precedenti) Giachomho

Taranthini, nel luogo dove sono chiuso fui internato col nome semplificato senza le h

intermedie, ossia come se fossi il Sig. (anzi l’eccellenza, ma qui è ignorato) Giacomo

Tarantini; mi rinchiusero senza tener presente né la razza, né la nobiltà, né gli ideali

politici, né le cariche che io occupai nella storia dello Stato. Se io chiedo di essere

messo in libertà la libertà mi viene negata assolutamente; dai regolamenti politici, Voi

Eccellenza, sapete che per passare attraverso la porta di questi luoghi è necessario

pagare una certa somma, io vengo tenuto senza denaro dagli agenti che sono vestiti in

abiti civili (detti psichiatri) che impediscono, o quasi, che mi venga dato; e vengo tenuto

con cifre esigue che vanno dalle 10.000 alle 20.000 mila lire al mese, cosicché io da

undici anni consecutivi sono chiuso in un luogo che non è precisamente un carcere, né

un campo di concentramento, ma è assai peggio tale luogo di reclusione assoluta è detto

dal pubblico: Manicomio Provinciale di San Salvi è situato all’estrema periferia di

Firenze; luogo che all’interno ipocritamente è chiamato o detto: Ospedale Psichiatrico

“Vincienzio Chiarugi”, il cui canciello principale è situato in via San Salvi N. 12 che è

di estensione grandissima (vari chilometri quadrati) composto tra reparti e servizi di

oltre venti edifici, in questo luogo io mi trovo chiuso nel sesto reparto uomini, e,

complessivamente, da undici anni di tempo in tutti i reparti come ricoverato, come

recluso, come prigioniero. Non chiedo di venire trasferito in altri reparti di questo stesso

Manicomio; ma di venire liberato. Posso aggiungere affinché Voi lo comunichiate al

Tribunale supremo come pervenni in questi luoghi. Fui portato “in clinica chiusa”

nell’anno 1951 e nel 1952 in Roma, luoghi terribili nei quali le “terapie” erano torture in

forma di terapie, come il veleno “insulino”. trattamento atroce e le torture elettriche alla

testa. Abitai in Roma da quando fui generato (nei pressi di Montefiascone) il 14

novembre 1931, fino all’anno 1968, poi fui condotto nel Manicomio di Firenze dove

sono chiuso tuttora da circa dodici anni di tempo, attualmente ho circa trentotto anni di

età, sono celibe e quindi al sicuro di congiure familiari. Nel periodo precedente alla mia

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reclusione in Manicomio, ossia ventidue anni prima di ora, frequentai il liceo classico

parificato “G. Carducci” situato in Via del Corso Trieste N. 99 Roma, allora (ora mi

pare che tale istituto sia altrove); circa venti anni fa tentai in Roma studi di Fisica,

Chimica, Mineralogia, poi, molto tempo dopo, mi iscrissi alla Facoltà di Scienze

Politiche “C. Alfieri” di Firenze (N. 2128 di scheda), non frequentai mai tale facoltà

perché fui portato a forza in manicomio dai nemici che mi trovarono privo di armi.

Sono in questo manicomio, nei vari reparti come recluso ininterrottamente da anni

undici di tempo, sono assolutamente senza denaro, senza abiti civili né divisa militare,

ma vestito con i soliti vestiti tipo Manicomio; poiché temo di morire nella congiura

interna (cosiddetta della “medicina a tortura”) ossia sotto iniezioni, pasticche, gocce, e

“rimedi” vari (elettrici), (mortali), uno più nocivo dell’altro, e poiché l’uscire da questo

luogo è cosa ultra-ultra-ultra difficile perché la porta a mia richiesta non viene aperta

(negazione dell’apertura della porta), per uscire io chiedo all’Eccellenza Vostra di farmi

estrarre dal luogo dove io sono chiuso dai Vostri Ufficiali e dai Vostri soldati ai quali

Voi, Eccellenza, dovete ordinare di invadere il Manicomio dove sono chiuso e di

portarmi almeno parte del denaro che lo Stato mi deve e una rivoltella “composta”, una

divisa, incaricandoli di accompagniarmi in una abitazione che Voi mi farete assegnare

affinché io ci possa abitare da solo o in compagnia di guardie del corpo per non essere

più prelevato e portato in questi luoghi.

Potresti provare a farmi spedire, in una lettera di formato non maggiore di questa che io

indirizzo all’Eccellenza Vostra, tre biglietti di 10.000 lire (diecimila) detraibili dagli

assegni nobiliari ed individuali mensili (perché penso che maggiore somma verrebbe

fermata dal nemico, ossia da chi mi tiene prigioniero) e in una busta successiva della

stessa dimensione una banconota di lire 1.000.000.000; e una successiva con la stessa

cifra col segno di fattoriale vicino (angolo o punto ! esclamativo). Eccellenza poiché

questa pagliacciata del nemico deve finire, Vi chiedo, essendo Voi un abile generale, di

armare una squadriglia di aeroplani da bombardamento pesante e di lanciare bombe ad

altissimo potenziale sul luogo dove io sono chiuso, ossia nel Manicomio di Firenze o di

San Salvi o V.Chiarugi dove io mi trovo chiuso così da distruggerlo completamente e

mettendo nella cientrale-ordini degli aerei (a onde elettromagnietiche di guerra) l’ordine

di lasciarmi vivo e armato e di distruggere tutti gli edifici del manicomio, anche tutti gli

altri reparti diversi da quello dove io sono chiuso che forse è meno peggiore di essi.

Quello che io chiedo che venga fatto è un imponente bombardamento dagli aeroplani

che mi liberi dalla prigionia del Manicomio. Questa lettera ha significato letterale, è

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scritta in fretta e di stile italiano approssimato, ma descrive bene la situazione nella

quale io sono chiuso.

Il reparto dove sono internato ha un cortile caratterizzato da panche metalliche

verniciate a colori strani, giallo, verde, azzurro, rosso, bleu; dovete domandare,

Eccellenza, alle centrali ad onde elettromagnetiche da guerra o d’artiglieria che

significato hanno quei colori e quale è il progetto per farmi uscire dal Manicomio e

attuarlo, estrarmi, effettuare l’iscrizione alla scuola di Guerra Aerea per Generali

d’Armata e per Comandanti di Squadre di Bombardamento Pesante e Membri del

Governo che dovrebbe essere laterale al Ministero dell’Aereonautica Militare da

Guerra, mi pare in Viale dell’ Università degli Studi N.4 Roma (in Italia).

Seguiterò la presente lettera raccontando, affinché voi lo riferiate al Tribunale Supremo,

che negli undici anni di degenza in questo Manicomio Civile sono venute diverse

persone a trovarmi, ma tutte hanno rifiutato di farmi uscire; una donna, una certa Maria

Rosa Tarantini (nella parentela è detta sorellastra ma è clericale e nemica atroce,

sparatele) è venuta dieci o quindici volte deformata in modo caratteristico, tale donna si

è rifiutata di farmi uscire ed è certo che ha adoperato armi insidiose invisibili del tipo

esploditori per eliminazione ritardata con torture mediche (elettriche o veleno insulino)

torture che sono riuscito fino ad ora a evitare (questo dovete raccontarlo al Comandante

della Polizia Segreta del Capo dello Stato e di S.M. il Re incaricandoli di fare indagini

profonde sul perché io vengo tenuto chiuso, trovare i colpevoli e le colpevoli ed

eliminarli con la fucilazione e con l’arsione dei forni per torture; essi ed esse sono

colpevoli di associazione a delinquere anti -Stato, di sequestro di persona, ed infine del

reato di eliminazione di persona con metodi insidiosi, si pensa che le persone (uomini)

chiusi in questi luoghi siano infiniti e che in questi luoghi ogni giorno vengano uccisi un

numero enorme di uomini; potete considerare Eccellenza che ogni “clinica chiusa” sia

un luogo di orribili torture non autorizzate dalla giustizia; in questa istanza chiedo

all’Eccellenza Vostra che tali centri vengano distrutti con azioni di lancio di bombe ad

alto esplosivo dagli aereoplani, e azioni di fanteria e che voi facciate eseguire questo

dall’Esercito e dai Servizi Segreti SS; io non posso partecipare perché chiuso in

”Manicomio” perché assolutamente privo di denaro e di armi. Chiedo all’Eccellenza

Vostra di venire liberato ed estratto assolutamente dal “Manicomio” dalle Forze armate,

riarmato e condotto in una abitazione che voglio Voi mi facciate assegnare, bene inteso,

con il denaro che lo Stato mi deve come assegni personali individuali mensili e

nobiliari; la mia carica nei secoli precedenti era di Generale di Armata, di Primo

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Console, di Capo di Stato, ho diritto dunque agli assegni nobiliari (da nobile) e agli

assegni personali mensili (come se fossi considerato un uomo non nobile, questi ultimi,

perché se mal vestito e se scambiato per persona diversa non possono venire rivolte

accuse né a me né agli Uffici Finanziari dello Stato.)

Mi sono rivolto a Voi Signor Ministro delle Finanze analogamente a come feci in

situazioni disastrose in epoche molto antiche (secoli prima d’ora). Prima di chiudere

questa lettera io Vi consiglio di liberarmi da qui e di far sparare sui colpevoli che a Voi

risulteranno dalle indagini che Voi farete con le macchine da guerra a radioonde da

indagine e preparazione dei piani di guerra. Questa mia reclusione in diversi luoghi,

comunemente detti “Manicomi” che dura quasi da venti anni, chiedo che abbia fine e di

venire liberato dall’Esercito e che mi venga assegnato una abitazione.

Salutandovi sommamente Vi ossequio e sono

Giachomho Taranthinhi ossia qui Giacomo Tarantini attualmente recluso nel luogo che

è detto nelle righe precedenti, ma nei secoli della Storia Antica Primo Console e

Condottiero e Generale Nobile e sommo nella politica e nella guerra e nell’industria

pesantissima di guerra.

Data della presente lettera:

La data del timbro postale;

data locale interna settembre 1969 (oppure 1970 in città)”.

La lettera che segue è significativa. Chiede ad un ingegnere di farlo uscire dal lager,

agendo con astuzia come un avvocato che libera il suo cliente.

“Pregiatissimo Ingegniere,

io vi scrivo da uno strano luogo di reclusione, strano “lagher” situato a sud della città di

Firenze.

Questo Manicomio, Dove sono prigioniero, è il Manicomio Provinciale di Firenze, io

sono chiuso nel Sesto Reparto Uomini, il cancello complessivo del “lagher” è in via San

Salvi 12 Firenze, 50135 è il numero di codice di avviamento postale) con questa lettera

io vi chiedo di espugnare il Sesto Reparto uomini e di condurmi in città lasciandomi

libero. Io sono prigioniero nel Sesto Reparto uomini e non ho la chiave che apra il

portone di uscita, inoltre se chiedo di aprirmi mi rispondono di “no”. quindi occorre

forzare il portone e lasciarmi uscire, chiedo pertanto che voi, agendo come un avvocato

che libera il suo cliente dalle prigioni, mi facciate uscire.

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Dopo, potremo sorvolare il Manicomio a grande altezza con un aereoplano e lanciare

sul manicomio centinaia di bombe esplosive incendiarie di guerra chimico-atomica al

“nitrum” così da rendere incandescente la città ed arrostendo tutti gli uomini del

Manicomio e anche tutte le donne che saranno fatte esplodere con la bomba atomica

all’huranio acqua pesante idrogeno. Io sono generale degli Arditi Imperiali della

Germania.

Questa impresa dovete progettarla e liberarmi e farli saltare in aria nel modo

precedentemente suddetto e metterli nelle macchine per torture fisse per millenni.

Questi uomini sembrano selvaggi ed il luogo (topos ) deriva dal libro elettromagnietico

“I Fantasmi di Mombasa”. Venitemi a trovare.

Di salute sto bene. E’ ora di fare la guerra!

Saluti.

Mi firmo e sono

Giacomo Tarantini

Giachomho Taranthini, Feld Maresciallo e Capo di Stato nella Storia Antica”

L’essere sottoposto all’elettroshock deve essere atroce, Giacomo lo indica come “la

scarica elettrica alle tempie” nella breve lettera che segue del gennaio 1971. Una lettera,

quella che segue, non ha bisogno di commenti e di spiegazioni.

“Al Direttore del Sesto Reparto Uomini

Sono chiuso in questo Manicomio da anni, di salute sto bene.

Chiedo che in primavera finito l’inverno, mi venga concessa la libera uscita, ossia il

permesso di recarmi in città e nei viali.

Evitate qualsiasi trasferimento nel Terzo Reparto dove c’è il pericolo di venire

sottoposti per forza alla scarica elettrica alle tempie ossia al micidiale elettrosciok che è

tremendo come nelle cliniche chiuse, che è mortale, che è da evitarsi assolutamente.

Ossequiandovi sono il recluso da anni

Giacomo Tarantini

figlio di Francesco, io di 49 anni di età e questa lettera riguarda me stesso.”

Questa lettera conferma la paura dell’applicazione dell’elettroshock, paura del resto

fondata perché da queste righe emerge mancanza di pensiero logico, paura crescente per

la pratica subita.

“Il manicomio è un insieme di stupidi completi, essi delirano su argomenti come

l’elettrosciok che è vero sia nefando, è vero sia mortale, ma stavano minacciando di

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volermelo applicare a forza, per respingerlo indietro c’è voluto pacchetti di sigarette

Philippe Morris. Direttore, disponete in modo che l’elettrosciok (che è pessima cosa)

non avvenga mai, dico assolutamente mai.

Dovete pensare che tutte le derrate alimentari che acquisto al bar interno del reparto le

pago con i denari che provengono dalla mia abitazione. Prof. Nistri, volete liberarmi o

no da questa prigionia? Telefonate, io vi prego, alla abitazione della mia sorellastra di

portarmi denaro per acquistare in Firenze un abito.

Sono Giacomo Tarantini.”

Gli anni passano, le terapie subite aumentano, l’internamento è ormai senza via di

uscita. Il risultato delle cure fra il 1971 ed il 1978 è devastante, le “acca” utilizzate nella

firma aumentano fino a diventare undici.

La vita avvilente cui è costretto lo spinge a sognare flotte impossibili, a vaneggiare

infiniti palazzi e case, a presumere di essere creditore di cifre enormi da tutti gli Stati

del mondo.

“Essendo nella Storia Antica Ingegniere Supremo, dovrebbero appartenermi molte

Centrali Termoelettriche situate in Estremo Oriente del Continente Asia, ricostruitele e

passatemele in proprietà a me stesso, portandomi la chiave del Portone d’Ingresso e il

Libro che le descrive e dandomelo qui stesso a me stesso.

Per questa opera di ricostruzione industriale e per procurarmi e farmi ottenere in

proprietà molti Palazzi di Abitazione che mi occorre abitare io stesso da solo, essendo

attualmente privo di Palazzo, (che fu demolito in Roma nell’anno 1953 e che era di altre

persone) occorre far venire dal Ministero delle Finanze dello Stato del Giappone

(situato nella Città Capitale Tokio) la valuta esponenziale anche a 10(dieci) o 12(dodici)

righe di numeri per pagare Voi o i Vostri Impresari il costo di ciò che ho chiesto, e che

mi portiate qui a me stesso la chiave di alcuni Palazzi da abitare io stesso da solo.

Mia firma in Lingua Tedesco e in Lingua Sanscrita

Io stesso mi firmo e sono

Giachomho Taranthinhi Hunhnhoh del Giappone e degli Stati di Manciuria e dello Stato

di Mongolia io stesso detto nella Cartella Clinica Giacomo Tarantini n. anno 1831

Firenze, Data: Giugno dell’Anno 1978, data attuale.

Questo scritto è sempre valido per infinito tempo.”

La lettera alla sorellastra:

“Data: Firenze, 6-8 luglio dell’anno 1978, Data Attuale.

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Pregiatissima Sorella,

ti scrivo dall’Ospedale Psichiatrico di Firenze, dove sono ricoverato da venti anni di

tempo. Di salute sto benissimo, ma sono privo di Appartamento di Abitazione fino

dall’epoca della guerra. Vieni a farmi visita. Vieni a portarmi un piatto di paste dolci

alla crema, e un paio di scarpe da uomo n°45 o 45 e 1/2 che le indosserò io stesso. Sono

al Sesto Reparto Uomini.

Speravo che gli accordi presi per telefono bastassero, mentre invece non sono bastati,

vieni a trovarmi, ci vedremo volentieri.

Portami la chiave di una Dimora da abitare io stesso da solo. Portami anche le sigarette

e un accendino per accenderle.

Augurandovi molte belle cose concludo queste mie righe.

Sono Giacomo Tarantini degli Unni (del Nippon)

Attendo la vostra venuta all’ora dei Colloqui, ossia all’ora del Parlatorio.

Sono Giacomo, figlio di Francesco Tarantini, io nato il 14 novembre dell’anno 1931 in

Montefiascone.”

Chiede poche ed esaudibili cose, piccoli desideri ma che però diventano enormi ed

impossibili ad essere soddisfatti per Giacomo. Da notare che quando scrive al Primario

si firma senza le “h” nobiliari, però fa notare al primario che lui stesso è chiuso.

Lettera del 1970 che urla la sua ossessione di libertà. Lettera al primario del reparto:

“Al Direttore del Sesto Reparto Uomini del Manicomio dove sono chiuso (riguarda me

stesso, leggierla.)

Argomento di questo scritto: Darmi la libertà, mandarmi al Decimo o al Quarto Reparto

che sono aperti, e uscire.”

Dopo aver ricordato per l’ennesima volta le sue condizioni, scrive:

“Vi chiedo di venire inscritto nelle liste di libera uscita del pomeriggio; non

frequentando uffici la situazione finanziaria non può variare.

Voglio assolutamente sopravvivere a questa situazione di povertà e tornare a casa, si

astenga dal sottopormi, ossia mi eviti qualsiasi provvedimento medico che tolga le forze

o che diano la morte, poiché voglio assolutamente sopravvivere.”

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Supremo Conti ventunenne al momento del ricovero. Figlio unico, nato con forcipe,

primo sviluppo regolare, scuole tecniche, amante della filosofia. Il primo approccio con

San Salvi è conseguente ad un’aggressione contro il padre, che peraltro darà queste

informazione inserite nella cartelle clinica:

“Capiva, ma si applicava poco, sempre mesto, isolatissimo, appartato”. Vari traumi nel

corso della fanciullezza-adolescenza, sembra non cranici. A 14 anni tossicosi con stato

confusionale. Dal dicembre ‘64 i parenti si accorsero di inquietudine e di incongruenze

psicomotorie del paziente; interrompeva a metà gli atti; non voleva vedere i quadri

dipinti da lui e li rompeva; era del tutto taciturno; voleva stare al buio. “Aiutami” disse

alla madre, “sono un uomo finito”. Gli ultimi tempi non si lavava né si pettinava,

tendeva a stare a letto. Spesso si guardava di continuo allo specchio. Nel febbraio fu

ricoverato a Poggio Sereno per pochi giorni. A casa ebbe aggressività contro il padre;

era ansiosissimo.”

Iniziano così i primi scritti di Supremo Conti raccolti fin dal primo ricovero:

“18.2.1965. Ore 1,30. Aspetto mio padre in preda ad una crisi depressiva collo scopo di

ucciderlo.

Ore 2. Appena tornato, subito preso da raptus omicida tento di aggredirlo, senza peraltro

essere privo o totalmente privo di coscienza, la tragedia si svolge in pochi minuti, subito

avvertita l’autoambulanza vengono a prendermi due infermieri vestiti di bianco.

Ore 2,30. Mi trovo all’ospedale di S. Maria Nova per essere portato nel reparto

osservazione, per esservi trattenuto, in attesa di decidere della situazione, mi rendo

conto della gravità del caso, ed in un momento di drammatica lucidità penso dentro al

mio pensiero, già consapevole del destino che mi attende. L’unione fra l’anima ed il

corpo e la verità, come se intuissi improvvisamente la ragione della mia follia.

19.2.1965. Ore 10. Vengo trasferito ancora mezzo intontito alla clinica dell’ospedale

psichiatrico di S. Salvi di Firenze.

Ore 11. Dopo aver ripreso parzialmente conoscenza mi trovo all’improvviso nella

clinica, dentro il manicomio, i miei genitori dopo avermi accompagnato, scoraggiato io

li guardo e mi salutano, e rimango solo e mi attengo a studiare la situazione, e mi viene

da pensare cosa fossero i matti credendo in buona fede che quello fosse tutto il

manicomio, ,perché per me lo era, e che lì ci fossero tutti i pazzi del mondo, e che

fossero riuniti in quell’ambiente fatto come una casa, senza mobili, scambiandolo in

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apparenza per un padiglione in cui fossero rinchiuse delle persone, come si chiude dei

cani in gabbia, era questo che mi opprimeva.

Il giorno dopo, dopo aver dormito nel primo letto che mi avevano dato, cominciai ad

essere pervaso da un senso di intollerabile oppressione, data la persecuzione degli

infermieri, che per renderti il soggiorno più piacevole ti inzuppano di medicinali, allo

scopo di disfarti l’equilibrio psichico ed umano di sopportabilità, anzi oltre la

condizione psichica in cui mi trovavo e l’ambiente stesso mi causavano questa

oppressione, finirono per degenerare, io che ero assolutamente sano di mente, in una

vera psicosi, con mania di persecuzione, era l’inizio della schizofrenia, che dai sintomi,

di agitazione psicomotoria, preannunziavano il crollo, la completa rottura della mente,

anche in relazione al fatto ch’io non ero molto influenzabile, e anche in relazione

all’insopportabile senso di claustrofobia, peggiorato dalla situazione di lager nazista od

anche peggio, almeno essi avevano il diritto a morire, che mi opprimevano

inesorabilmente, da quel momento mi resi conto di cosa voleva dire il manicomio e la

repressione organizzata per fare perdere l’equilibrio e la rispettiva coscienza e dei limiti

delle inibizioni che tu conosci, da quel momento ero diventato soltanto un pazzo, e forse

anche peggio trattandosi della mia persona presa di mira dall’odio di tutti che vedevano

in me il capro espiatorio e si organizzavano come belve per trarne vantaggio essi stessi,

colla mia vita. Io mi ero creato in me, oltre il senso di colpa, della vigliaccheria umana,

che non ha confini, in questo mondo di merde, al fatto di essere rinchiuso io un’anima

tanto libera, un’indicibile forza manicomiale di mania di persecuzione.”

Annota come un bravo giornalista la vita nel manicomio puntualizzata con riferimenti

personali. Precisa è la testimonianza dell’effetto degli psicofarmaci, acute le

osservazioni del modo di fare degli infermieri, penetrante il ricordo dei locali,

commovente il distacco dal padre.

Si nota negli scritti seguenti, nonostante le cure, o meglio a causa della cure e della

permanenza in quell’ambiente, che la sua salute psichica peggiora. Infatti in principio le

annotazioni sono coerenti, mentre scorrendo il diario il suo disagio aumenta.

“Dal 20.2. al 17.3 65.

I giorni che seguirono furono tutti a questa maniera, non potevo vedere nessuno, e in

preda a forti disturbi psichici e nel dramma profondo ed interiore non facevo niente per

darmi pace anzi soffrivo il mio dramma con profonda coscienza, perché io intuivo che

non c’era altra speranza, o in quanto io non tolleravo assolutamente gli altri malati, e

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.89/147

spesso quando la mattina dovevamo alzarci, alle 5 ancora nel sonno e ne eravamo

costretti e ancora congestionati dagli psicofarmaci che spezzavano la mente privandone

il più breve attimo di suspense emotiva, fatto di cui non ho saputo il perché, mi esento

di fare credere alla bestia braccata, per motivi umani, e religiosi, mi fermavo alla

finestra a guardare nel buio della notte, mentre un’aria gelida mi soffiava sul volto

infreddolito e stanco, una nausea forte mi cresceva dal di dentro, io sapevo di non essere

pazzo, ma non lo potevo dire a nessuno di questo mondo che mi aveva condannato

senza pietà, mettendomi in mano a carnefici senza pietà e giustizia e che voleva la mia

vita in riscatto della loro.

Come per Gesù Cristo nostro Signore che a causa di ciò che non abbiamo finito dopo

secoli di odiarlo, io lo posso dire giacché grazie a Dio sono ancora vivo. Non possiamo

dire male di nostro Signore se non a cagione dei nostri peccati. A metter fine alla

religione ci penso io perché c’è il fatto che io sono l’Anticristo.

Eppoi arrivato al centrale, vengo destinato al terzo reparto uomini in cui subitamente

vengo rinchiuso dentro, senza peraltro essere o non essere, messo al corrente degli

sviluppi della situazione. La notte stessa, per una crisi nervosa, dopo aver richiesto di

essere trasferito nel luogo peggiore del manicomio, come facessi a sapere questo non lo

so, e come fossi arrivato a conoscerlo non so, so però che era un appuntamento col

destino, io non conoscevo ancora l’ambiente e le strutture interne, ma come fossi

arrivato a conoscerlo questo fatto mi meraviglia ancor oggi, nella vita ci sono fatti del

genere di cui ignoro la vera natura, vengo preso quindi dopo la mia vocale richiesta e

trasportato da due infermieri nella piena notte al sesto reparto uomini, come sapessi

queste cose nella loro vera natura è un fatto inspiegabile, forse era soltanto intuizione o

forse qualcosa di più. Allora il sesto reparto era considerato il reparto peggiore, dove vi

erano i pazzi incurabili e furiosi, come erano ritenuti, ma a me non sembrò, forse chissà

perché quello era il mio ambiente naturale, congeniale alla mia natura, avventurosa e

senza scrupoli di sorta e senza moralismi, a dire il vero l’ambiente era poco rassicurante,

ma gli stessi internati quando mi videro mi fecero una calda accoglienza, sapevo chi

fossero ma subito si familiarizzò affettuosamente.

A causa della mia forte cultura intuitiva , io seppi subito intuire il rapporto che esisteva

fra me e loro. Ciò che in seguito hanno capito anche gli psichiatri, loro malgrado, e a

causa della mia disonestà morale, che ha finito di coinvolgere anch’essi, nei miei panni,

togliendo loro forse la giusta obbiettività che in questi casi è necessaria sopra qualsiasi

altra cosa, che perfino gli internati dopo la prima infatuazione ne avranno trovato del

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danno, fra le loro cose intime a loro e alla loro particolare natura. Perché nei casi della

follia bisogna essere necessariamente anzitutto obbiettivi, come un orologio elettrico, e

lasciare che la pazzia abbia il suo sviluppo, come anche io penso, e come essi stessi

onestamente hanno ammesso e messo in pratica, questo devo dirlo, in tutta onestà, nelle

mie piene facoltà mentali ed intellettive.

Dunque appena mi videro subito mi corsero incontro, affettuosi e comprensivi. Poi il

resto è noto a tutti nell’ospedale chi io fossi, ma questo lo devo dire in onore ai medici

che sono stati sempre molto buoni e tolleranti, specialmente nel manicomio di Firenze,

che io penso si distingua fra tutti i manicomi d’Italia per innovazioni che vi sono state

apportate a vantaggio dei ricoverati, che l’arte medica in questi casi pietosa e umana

deve ottemperare, in favore di chi non si può difendere dalla vita, e in questo senso io

forse li ho traditi, ma sento che è mio preciso dovere dire questo, anche se non verrò

creduto sulla parola, E in onore dei medici va tutto il merito perché a parer mio, hanno

saputo capire a fondo queste anime sciagurate. Dio onnipossente abbia misericordia di

noi tutti. Distintamente la saluto.

Conti Supremo

P.S. Però una cosa è certa in tutto questo discorso, nel mio caso non furono capiti i

misteri segreti di Dio.

Dato che oggi l’arte è a scopo politico, le opere d’arte le terrò per me. Per beneficenza e

per amore del prossimo non si fa nulla, aggiornatevi, oggi è tutto fatto in due.”

Da un’altra lettera emergono acute osservazioni sul manicomio, unico luogo dove

paradossalmente i folli possono vivere ed i veri e unici folli sono quelli che per paura si

adattano a vivere lì dentro.

Lettera inviata al Direttore del manicomio, dura ed aspra nei confronti degli psichiatri i

quali, se in qualche modo si interessano dei pazienti fra le mura manicomiali, se ne

disinteressano quando li hanno dimessi:

“Illustrissimo Professore,

Lei manda fuori gente clinicamente guarita ma dopo aver subito il martirio nel

manicomio ne subiscono un altro assai peggiore fuori nel mondo esterno alle mura

manicomiali.

Le dirò in buona fede, Lei mi conosce, e sa, io credo che io sia, o sia sempre stato, una

persona integerrima moralmente, e ne conosce le ragioni, quindi in tutta coscienza,

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comprende le motivazioni che mi hanno fatto passare anche giorni piacevoli in cui in

qualche modo ero ben visto, perché non deve essere più a quel modo.

Non mi sono spiegato ma fa lo stesso.

Un caso come un altro, ma quanti sono questi casi, Lei è uno psichiatra e se ne sta

comodamente nascosto dentro le sue mura e la sua omertà, anche se in buona fede ed in

armonia, ma pur sempre carnefice della società che le mette in mano i mezzi della

repressione e gli strumenti di tortura per gli errori commessi e per la merda che va

tenuta sotto banco perché se no se ne sente il fetore.

No, non è patologico tutto questo, Lei mi comprende.

Lei in tutta coscienza accetta questa società che si serve dei manicomi per imporre la

paura e come strumenti di repressione organizzata come un esorcista al tempo delle

streghe.

Io credo di NO!

Ammetto però che ne permetta la sussistenza e la sopravvivenza ed è anche appagato

per questo servizio, per tenere in piedi i manicomi che sono nel complesso uno stato di

membra umane distorte dai sofismi di molti, fatti pagare da pochi che la scontano per

tutti.

Io capisco che si viva in un sistema di cose, in cui anche lei personalmente, io penso,

non possiate fare fronte alla mania di persecuzione della società.

Ne convengo è un giro chiuso.

Gente che viene mandata fuori dopo essere servita da cavia a farsi mangiare vivo sotto il

nome di pazzo, nonostante che sia stato riabilitato è una vergogna ancora peggiore di

coloro che ne sono gli esecutori.

Ma i più, i più furbi sono come i lupi braccati, stanno chiusi in manicomio a vegetare ed

a subire ogni umiliazione alla loro dignità, pur di non sortire all’aperto, accettando il

loro destino passivamente e rinunziando alla vita come ultima speranza di sopravvivere

a sé ed agli altri, trattati con vari sistemi e vari metodi che sono pagliativi e buffonate

per non far scoprire la truffa come una caramella ad un bambino; che rispetto alla vera

libertà i manicomi non dovrebbero esistere o per lo meno dovrebbero andarci chi manda

gli altri per dare il buon esempio perché questa è pazzia, di coloro che dicono di non

fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te stesso, e predicano bene e razzolano

peggio, la vera libertà che dovrebbe essere uguale per tutti gli uomini, e non cogito

cartesiano della masturbazione cerebrale.

Lei ora conosce il mio pensiero si tenga bene in mente che glielo ho detto.

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In fede

Conti Supremo

P.S. Ammesso che non manchi l’acqua alla fontana. Se no l’eterna giovinezza andrebbe

a farsi fottere, come la pietra filosofale e tutta quanta la filosofia. Uomo avvisato mezzo

salvato. Questo vale per me. Comunque il presagio è di questa natura.

Conti Supremo, Anticristo.”

Lettera umanissima e malinconica. “…. Ma da quale parte sta la ragione. Io non ci voglio pensare, pensare troppo fa male

alla salute, e come diceva il filosofo è meglio prendere il nutrimento a filo d’onda e

pensare più a sé stesso.

Distinti saluti

Conti Supremo”

Supremo Conti è anche spiritoso, la follia può servire per sfidare gli addetti al lavoro, ed

è anche ironico; e manda un biglietto al Direttore del manicomio dal titolo:

L’agonia del filosofo

“C’era una volta un pazzo furioso che in preda a convulsioni girava velocemente sui

piedi intorno a se stesso. Un infermiere guardandolo stupito gli domanda come mai

girasse così velocemente. A qual modo tutto preso com’era dal turbine delle sue

evoluzioni risponde il pazzo: vedi, dice, voglio vedere chi ha più paura.

Conti Supremo”

Il ciclo di lettere di Supremo Conti si conclude con un inno alla vita; maturato attraverso

le esperienze indirette scaturite dallo studio, dalla lettura, dalla vita dei filosofi da cui

era particolarmente affascinato. La lettura e la scrittura sono state la sua “ancora di

salvezza”.

“La vita dell’uomo è come la verità, un rincorrere la verità, un rincorrere sé stesso nel

tempo di ciò che si è e di ciò che si fu? L’uomo è mosso da un forte vento che si chiama

esistenza. La vita dell’uomo non è che un buffo giuoco fatto in società per sopportare

l’uomo con l’altro e perdonare con le lacrime agli altri le altrui debolezze nella realtà

della finzione da cui ognuno cambia la ragione del proprio essere, ma quando

all’orizzonte della vita il cavallo nero della morte appare all’orizzonte col suo maestoso

cavaliere nessuno ride più. Perché l’uomo pensa più alla vita che alla verità.”

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Capitolo 3 - Opinioni a confronto

Considerazioni “sull’esclusione sociale”: identità, devianza e stigma

“Un'istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di

gruppi di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di

tempo - si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita

in un regime chiuso e formalmente amministrato.”183

Così Goffman definisce le “Istituzioni Totali“, nel suo libro Asylums, che divide in

cinque macrocategorie:

1. “istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi (istituti per ciechi, vecchi,

orfani o indigenti);

2. luoghi istituiti a tutela di coloro che, incapaci di badare a se stessi, rappresentano

un pericolo per la comunità (sanatori per tubercolotici, ospedali psichiatrici e

lebbrosari);

3. istituzioni totali per proteggere la società da ciò che è ritenuto come un pericolo

intenzionale nei suoi confronti (prigioni, penitenziari, campi per prigionieri di

guerra, campi di concentramento);

4. istituzioni create allo scopo di svolgervi una certa attività lavorativa (furerie

militari, navi, collegi, campi di lavoro, piantagioni coloniali e grandi fattorie,

queste ultime analizzate naturalmente dalla parte della manodopera);

5. organizzazioni definite come “staccate dal mondo” che però hanno anche la

funzione di servire come luoghi di preparazione religiosa (abbazie, monasteri,

conventi ed altri tipi di chiostri).”184

La caratteristica che accumuna gli Istituti Totali è rappresentata dal fatto che chi entra a

farne parte viene “snaturato”: si trova costretto a cambiare stile di vita, accettare

imposizioni e regole che si discostano dalla vita che ha condotto fino a quel momento.

183 E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino,Einaudi, 1968, pp. 9-30184 Id., p. 34- 42

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L’“ospite” di queste strutture è escluso, in genere, dalla possibilità di conoscere le

decisioni prese nei riguardi del suo destino, non può né condividere, né scambiare

informazioni.

Nelle istituzioni totali c’è una distinzione fondamentale tra le persone controllate e

quelli che controllano. Tra questi due gruppi, con una notevole distanza sociale, si

creano immagini l’uno dell’altro secondo stereotipi, caratterizzate da un atteggiamento

di superiorità da parte dello staff e di inferiorità da parte degli internati.185

La possibilità di comunicare fra un livello e l'altro è ridotta al minimo, questa

limitazione nel rapporto contribuisce a mantenere i due gruppi distanti e antagonisti.186

L’internato in Istituti del secondo e terzo gruppo era sottoposto ad umiliazioni,

degradazioni e profanazioni del sé che veniva sistematicamente mortificato. Questi

comportamenti influivano direttamente sulla sua "carriera morale"187, trasformata dal

progressivo mutare del tipo di considerazioni che l'individuo ha su di sé e su coloro che

gli sono vicini. 188

La strategia di manipolazione utilizzata sulla persona internata si basa sul cambiamento

del “sé” che avviene immediatamente per effetto della barriera che le Istituzioni Totali

erigono fra l'internato e il mondo esterno.

Il “sé” è qualcosa che non esiste alla nascita, ma si sviluppa nel tempo; è un processo

che prende forma dall’esperienza personale e dall’attività sociale; è il risultato delle

relazioni che l’individuo ha con il suo “Universo sociale”.189

Come analizzato da George H. Mead è tramite il “linguaggio” e il rapporto con il

contesto sociale, che circonda l’individuo, che si formano e acquisiscono significato la

coscienza, il sé e il “gesto”, verbale e non.

La formazione del sé è legata alla capacità di comunicare il proprio gesto e trovare in

se stesso quella risposta che il gesto, verbale o non, evoca negli altri, per il controllo

della propria condotta ulteriore. È in questo modo che i “gesti” diventano significativi

ed è soltanto in questo modo che si entra in comunicazione con l’altro. 190

185 Ibidem186 Ibidem187 Con la definizione “carriera morale” Goffman indica le fasi che attraversa il malato dal momento cheviene ricoverato in un istituto: perdita della propria identità, “degradazione morale”, sostituzione dellapropria identità con quella imposta dalla stessa Istituzione che lo con tiene188 Ibidem189 George H. Mead, Mente, sé e società, Firenze, Giunti, 1966, p. 192190 Id., pp. 19-22

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“L’evocazione della medesima risposta tanto del sé che nell’altro fornisce il contenuto

comune necessario per garantire la comunità del significato.”191

Quando un individuo è completamente impegnato in un’azione, in quel momento non

ha alcuna coscienza, il sé resta escluso, l’esperienza può esaurirsi negli oggetti che lo

circondano, l’individuo si pone irrazionalmente fuori da sé e così diviene oggetto a se

stesso.192

L’individuo pertanto ha esperienza di se stesso in modo indiretto in base alle opinioni

degli altri, che fanno parte della totalità a cui appartiene.193

Il ruolo di questi ultimi è dunque fondamentale nella costruzione del sé, è tramite

l’assunzione del ruolo degli altri che riusciamo a guardare dentro noi stessi.

Questo processo personale con l’esclusione sociale e l’internamento avviene in maniera

distorta, quindi provoca la trasformazione del sé.

L’individuo all’interno delle Istituzioni si trova a perdere alcuni ruoli a causa della

barriera che lo separa dal mondo esterno.194

Avviene in questo modo la rottura della relazione abituale fra l’individuo che agisce e i

suoi atti.

Le azioni dell’individuo, anche quelle legate ai bisogni personali, sono soggette a regole

e a giudizi del gruppo supervisore, che coglie l’occasione di punire anche le piccole

infrazioni, per ribadire la distanza sociale.195 Come si fa con i bambini e gli animali a un

buon o cattivo comportamento segue una punizione o un premio, che assume un

significato diverso da quello che poteva avere nel mondo esterno.196

Machiavelli, infatti, sostiene nel Principe che l’uomo per raggiungere il potere sia

guidato dalle passioni e si serva della “forza” e della “frode”. Per controllare si deve

assumere un codice di comportamento adeguato al contesto al fine di creare forti

tensioni interne che diventino uno strumento per imporre le regole.197

Si verifica in questo modo la “disculturazione” dell’ “ internato”, che nella nuova realtà

opera su di sé una conversione conseguente al bisogno di sopravvivere nella nuova

istituzione. Vive la realtà proposta come se si trattasse di quella vera e assume su di sé il

giudizio che gli viene dato dallo staff nel tentativo di recitare il ruolo del perfetto

191 Ibidem192 Id., p. 195193 Ibidem194 E. Goffman, Op. cit., cap. I , pp. 43-101195 Ibidem196 Ibidem197 Francesco Sidoti, Introduzione alla Sociologia della devianza, Roma, Edizioni Seam, 1999, p.39

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internato. Il cambiamento culturale è legato sia all’ impossibilità di decidere il proprio

comportamento sia all’isolamento dai mutamenti sociali del mondo esterno.198

La trasformazione del sé nelle istituzioni avviene sia a livello psicologico che fisico.199

Parlando della realtà manicomiale siamo venuti a conoscenza degli strumenti adottati

per determinare questo cambiamento fisico:

“Anche i piedi e le mani fanno parte del sé.”200

L’individuo viene privato di qualsiasi incarico, arriva alla cosiddetta “morte civile”,

perde il proprio nome sostituito da un numero, cambia le abitudini, abbandona

l’autodeterminazione e non ha più la volontà, cambia anche l’aspetto fisico per effetto o

delle terapie farmacologiche o per effetto di pratiche di contenzione o per modificazioni

significative del proprio aspetto esteriore (taglio dei capelli e abbigliamento

“anonimizzante”).

La mutilazione personale, che deriva dall'essere privati del “corredo per la propria

identità”, spesso era seguita dalla deturpazione fisica dovuta ad una mutilazione reale

del corpo: punizioni, terapia shock, test farmacologici.201

Nelle istituzioni mancano sia i mezzi d’informazione che la possibilità di operare scelte

a qualsiasi livello, annientando così progressivamente il bagaglio culturale, emotivo,

affettivo dell’individuo internato.

Tutto questo conduce ad una violenta ridefinizione dell’”essere nel mondo” che diventa

priva di punti di riferimento spazio-temporale e di certezze sul futuro nel breve e lungo

termine.

L’individuo sottoposto a tale pressione psicologica rafforza giorno dopo giorno

l’insicurezza e perde ogni forma di stima verso se stesso e quindi perde la voglia di

resistere e lottare per sopravvivere con dignità.

Basaglia nella postfazione di Asylum scrive infatti: “L’istituzione nata per curare […] si

è trovata così a fabbricare un malato a sua immagine, tale da giustificare e garantire

insieme i metodi su cui fonda la sua azione terapeutica. La malattia è venuta a

trasformarsi gradualmente in ciò che è l’”Istituzione Totale” […]”, ovvero gli internati

dal momento che entrano nel manicomio perdono l’identità per entrare a far parte

dell’identità dell’istituzione stessa.202

198 Ibidem199 Ibidem200 George H. Mead, Op. cit., p. 19201 E. Goffman, Op. cit., cap. I, pp. 43-101202 Id., pp. 401-415

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La sociologia in primis, analizzando il comportamento del malato mentale, ritiene che

sia la conseguenza di un disordine nella comunicazione fra individuo e società.203

La modalità di interazione tra il “disadattato” e la società è caratterizzata da una

decodifica diversa degli impulsi; di conseguenza il “diverso” reagirà in un modo

insolito e inaspettato rispetto a quello previsto dalla società che reagirà nei suoi

confronti in maniera differente.

Nella società si crea quella che si chiama “esclusione sociale” che induce l’individuo

”disturbato” a ridurre progressivamente il rapporto fino a rompere definitivamente la

comunicazione.204

La società con i suoi continui mutamenti di norme, di valori, di trend influenza in

maniera profonda gli individui a tutti i livelli, ma chi ne subirà pesantemente le

conseguenze sarà chi ha già latente un disturbo che si manifesterà in una reazione

“paranoide”205.

Buona parte dei profughi, per esempio, che furono sottoposti a un alto grado di stress

durante la guerra e/o la prigionia, avevano sviluppato reazioni paranoidi dal momento

che si trovavano isolati in ambienti stranieri.206

L’esclusione del diverso (per lingua, religione, classe sociale, razza, moda), la

xenofobia, porta un individuo a credere che l’”altro“ sia inferiore e quindi ostile e

pericoloso.

Chiunque non si conformi alla norma è deviante.207La devianza e il controllo della

società sono due concetti intrecciati e relativi, infatti sono il risultato della costruzione

sociale che definisce le azioni come devianti rispetto ai valori condivisi.

La natura del pregiudizio, l’”etichetta sociale”, non è un atteggiamento psicologico

individuale, bensì fa parte dei valori condivisi dalla società in cui è inserito.

È nella seconda metà dell’Ottocento che i sociologi hanno iniziato a parlare di devianza

e normalità. Il termine devianza raccoglieva fenomeni qualitativamente e

quantitativamente differenti: la malattia mentale, la tossicomania, la cleptomania,

criminalità, molestia sessuale, anticonformismo, omosessualità, terrorismo, razzismo e

203 Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale,Milano, B. C. Dalai, 2010, p. 36204 Id., pp.38-39205 Il “paranoide” è caratterizzato dalla tendenza ad interpretare i comportamenti degli altri comepericolosi mantenendo continuamente un atteggiamento sospettoso. Gli individui che presentano questapatologia vivono in un continuo stato di pericolo e si sentono vittime di complotti immaginari.206 Ibidem207 Ibidem

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gioco d’azzardo. Il termine includeva, cioè, un’ampia gamma di comportamenti

anormali e illegali e “serve egregiamente ad abbracciare in modo unitario i diversi

problemi del disagio sociale e di non-integrazione.208”

Goffman mette la devianza in relazione ai processi di costruzione dell’identità sociale

attraverso il rapporto del “ruolo” e dell’”identità” influenzato da tre variabili: l’aspetto

normativo, gli attributi della persona che adotta il ruolo, il contesto nel quale si opera.209

Ci sarà sempre un’aspettativa da parte degli altri ed un contesto in continua evoluzione

dove svolgere il ruolo.

Nell’antica Grecia era molto diffuso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione visiva. Fu

inventata la parola “stigma” per indicare quei segni fisici che caratterizzavano una certa

condizione sociale e morale.210

Questi segni venivano impressi nel corpo degli schiavi, dei traditori, dei criminali o a

fuoco o con un coltello manifestando a tutti l’identità sociale. Lo stigma permetteva alle

persone di non entrare in contatto con queste categorie.

Anche oggi di fronte a sconosciuti, capita spesso che il loro aspetto consenta di stabilire

in anticipo la loro “identità sociale”, riconoscere quindi la categoria di appartenenza e

da qualche speciale attributo riuscire anche a giudicarli.

L’attributo ci permette di valutare ed addirittura declassare una persona, è connesso al

tentativo di emarginare, neutralizzare, espellere il deviante dal corpo sociale. L’attributo

è lo stigma ed ha un significato dispregiativo tanto da essere chiamato: mancanza,

handicap, limitazione.

Lo stigma è “un genere speciale di rapporto tra lo stereotipo e l’attributo”211 relativo al

tipo di rapporto sociale in cui il soggetto è coinvolto.

Ci sono tre tipi di stigma: deformazione fisica, aspetti criticabili del carattere che

vengono percepiti come mancanza di volontà, passioni, credenze malefiche, disonestà e

gli stigmi tribali della razza, della nazione, della religione, che possono essere trasmessi

di generazione in generazione. 212 Si possono distinguere due macrosistemi della

devianza: “devianza primaria” e “devianza secondaria”, in quanto la qualità fisica che

viene etichettata dallo stigma può essere volontaria o indesiderabile.

208 ibidem209 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969210 E. Goffman, Stigma. L’identità negata, Laterza, Bari, 1970, pp. 15-20211 Ibidem212 Ibidem

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Nella “devianza primaria” l’azione dell’individuo è considerata impulsiva e non viene

considerata un atto stigmatizzabile, nella “devianza secondaria” il deviante viene

socialmente etichettato ed escluso.213

A partire dagli anni Sessanta si è creata una sensibilizzazione intorno al problema della

devianza, perciò nell’ambito della criminologia, del diritto e della psichiatria c’è stata

una mobilitazione atta a modificare atteggiamenti, comportamenti credenze nei

confronti della diversità.

Tutto questo ha portato negli anni a una revisione, denuncia, valutazione e approccio

diverso nei confronti dei problemi dell’uomo e della società. Ne è derivata la chiusura,

nel nostro caso, degli Ospedali Psichiatrici e un nuovo atteggiamento nei confronti del

“diverso”.

Il cinema interpreta il problema

Molti sono gli esempi di cinema impegnato che hanno affrontato la tematica del

manicomio e del “diverso” con modalità documentaristiche.

One Flew over the Cuckoo's Nest (Qualcuno volò nel nido del cuculo), è un film del

1975 diretto da Miloš Forman. Il film denuncia il comportamento disumano cui erano

sottoposti i ricoverati nelle strutture psichiatriche americane. Il protagonista, passato da

una struttura carceraria e entrato nell’ospedale per una valutazione psichiatrica,

attraverso varie situazione evidenzia il carattere repressivo e totalitario

dell’”Istituzione”. Tutte le sue reazioni, legate all’autonomia e al contatto con il mondo

esterno, lì dentro sono valutate come rivoluzionarie e da reprimere tanto che la risposta

a tutto questo è data dalla lobotomia a cui viene sottoposto e che lo riduce una larva

umana.

Matti da slegare film-documentario di Marco Bellocchio. Attraverso interviste e

immagini è possibile seguire il percorso di internati: sfruttati nel lavoro, quando

potevano svolgere una qualche attività, trascurati nell’assistenza e “legati” ad un regime

che annientava la loro identità.

C’era una volta la città dei matti di Marco Turco. Una miniserie Rai che da una

narrazione appassionata di vicende individuali guida lo spettatore alla difficile, e al

213 Francesco Sidoti, Op. cit., cap. 1

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tempo impensabile, riforma basagliana incentrata sull’apertura dei manicomi di Gorizia

e di Trieste. Basaglia protagonista sensibilizza la società verso un atteggiamento nuovo

nei confronti della malattia mentale, percorso ancora in atto.

Si può fare di Giulio Manfredonia. La vicenda è ambientata negli anni Ottanta, quando

la legge Basaglia era ormai operativa. Un sindacalista allontanato dal sindacato perché

troppo rivoluzionario, si trova a impegnare le proprie forze nel recupero di pazienti

liberati dalla nuova legge. Da un lavoro ripetitivo cui erano costretti con l’approvazione

dello psichiatra, i pazienti vengono coinvolti nel lavoro in modo consapevole con tutte

le difficoltà e dinamiche personali che si creano negli ambienti di lavoro e nella vita dei

cosiddetti normali.

The Elephant Man film storico di David Lynch del 1980. John Merrick è un uomo che

dalla nascita si porta dietro una malformazione al corpo, causata da una grave forma di

neurofibromatosi; per questo lo chiamano l'uomo elefante. Inizialmente viene trattato

come fenomeno da baraccone e poi viene curato da una équipe medica che gli

restituisce la dignità umana. La difficoltà emerge sempre quando il “diverso” si trova a

contatto con la società.

“Io non sono un elefante... Io non sono un animale! Sono un essere umano! Un uomo...

Un uomo.” È la frase detta dal protagonista al momento in cui non è più protetto da

quegli ambienti che lo hanno considerato “diverso”, ma si trova a contatto con il mondo

esterno, che ha paura di affrontare la sua diversità.

Zelig di Woody Allen. Il regista usa l’ironia e la comicità per affrontare il tema della

devianza e dell’integrazione sociale.

Figura 12: Woody Allen, Zelig, Usa, 1983

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Il mockumentary214 analizza tramite il caso di Leonard Zelig il rapporto tra individuo

“diverso”, società e media.

Leonard è un ebreo americano povero che vive nella New York degli anni ‘20. La

famiglia di Leonard, fin da piccolo, ha un atteggiamento che crea in lui un profondo

senso di colpa, rimproverandolo di tutto senza mai prendere le sue difese.

Questo complicato rapporto familiare crea in Leonard un’insicurezza che sfocia in una

ricerca ossessiva di essere accettato e amato; viene colpito da una strana sindrome di

“mimetismo camaleontico”, che lo rende capace di assumere le caratteristiche

somatiche, psichiche e lessicali di chiunque incontri. Il suo disagio e comportamento

eccentrico lo portano ad essere arrestato e finire sui giornali per le stranezze che

compie. I media lo spettacolarizzano, creando un pubblico curioso e critico, catturato

dal dramma umano.

Il malessere di Leonard si concretizza nella moltiplicazione del sé e nel parlare un

linguaggio che si adatta ad ogni situazione, ma mai il “suo”.

La sfiducia totale in se stesso sopprime la sua identità e la società amplifica la sua

situazione etichettandolo come malato: vittima predestinata della ricerca scientifica,

destinato all’esclusione sociale e alla depressione affettiva. Tra i tanti medici psichiatri

solo la dottoressa Eudora Fletcher si prende cura di Leonard cercando, non solo di

capire la malattia, ma anche di guarirla con la terapia analitica.

Anche in questo film la sorella e il cognato approfittano del problema comportamentale

di Leonard esibendolo come un fenomeno da baraccone. Diventa così un oggetto in

balia della volontà degli altri. Solo la dottoressa Eudora tenta di proteggerlo, perché è

l’unica che con l’ascolto e la terapia è riuscita a scoprire la sua identità.

L’effetto del disagio e la pressione da parte del società portano Leonard a scappare

vanificando i progressi raggiunti dalla dottoressa Eudora che lo ritrova a Berlino ad

un’adunata nazista. Lo trae in salvo e insieme tornano su un piccolo aereo a New York.

Il film racconta la storia di Leonard Zelig costruendola tramite la riflessione sul

rapporto tra società e mezzi di comunicazione. Si vede infatti come nella realtà sociale

l'opinione individuale è condizionata dalla massa e l’integrazione del “diverso” è molto

complicata e dipende dalle relazioni che si instaurano con gli “altri”.

214 Mockumentary: ( mock, fare il verso e documentary, documentario) genere cinematografico, raro edifficile, che significa falso documentario

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È questo un film precursore, infatti è del 1983, dell’importanza della comunicazione e

delle relazioni umane.

L’opinione pubblica nei confronti della “questione manicomiale”

Negli anni Settanta la stampa permette di constatare il cambiamento di valutazione del

trattamento della malattia mentale.

Fino ad allora la “follia” e la devianza criminale erano accomunate in un’unica

categoria e ricevevano un’unica risposta di controllo sociale.

Una delle prime riflessioni che si contrapponevano a questo pensiero e andavano in

parallelo e supportavano le idee basagliane furono diffuse da “Magistratura

democratica215”, un gruppo di magistrati di sinistra che così interpretavano la questione:

“L’internamento manicomiale e l’internamento carcerario sono risposta univoca ed

aspecifica ad esperienze umane che esistono e che hanno origini e risposte diverse: la

malattia e la delinquenza. Queste esperienze umane, tuttavia nel nostro sistema sociale,

non possono essere affrontate come tali, perché esse sono annullate in una gestione

repressiva che, forzandole in un’unica modalità di organizzazione istituzionale, ne

uniforma il destino sociale. L’univocità della risposta è espressione dell’univocità di

giudizio che definisce sia lo stato di malattia che quello di delinquenza solo in rapporto

all’organizzazione sociale: cioè come trasmissione dei limiti di norma definiti […]”216

In contrapposizione a questa lettura del problema troviamo la stampa conservatrice,

qualificata come di destra, per esempio ‹‹Il Tempo›› di Roma e ‹‹Il Resto del Carlino››

di Bologna. Queste due testate in particolare mantenevano un’aria conservatrice e restia

ad una visione evolutiva delle realtà manicomiali e del trattamento dei malati e si

opponevano alle nuove teorie del trattamento psichiatrico della “antipsichiatria”.

La stampa di destra si mostrava però più moderata nei suoi giudizi nei confronti della

questione dei manicomi e con una posizione più decisa verso i criminali e il trattamento

carcerario. In questo caso le prese di posizione erano decisamente più rigide.217

La stampa di centro-destra, con un maggiore equilibrio, quella rappresentata dal

‹‹Corriere della Sera››, raccoglieva invece pareri opposti: alcuni psichiatri di

215“Magistratura democratica” è una delle associazioni di magistrati con un orientamento politico asinistra.216Oreste Pivetta, Gianfranco Basaglia. Il dottore dei matti. La biografia, Milano, Baldini Castoldi Dalai,2012, p. 249217 Romano Canosa, Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, Milano, Feltrinelli, 1979, pp.179-180

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orientamento diverso (moderati e più “rivoluzionari”) ritenevano indispensabile un

cambiamento, in quanto “La degenza deve essere un episodio, e non il più importante,

nell’iter terapeutico di un malato.”218

Nel contempo il quotidiano riportava anche le parole dello psichiatra, Dott. Ancona:

“Ciò che non ritengo giustificabile, né efficiente terapeuticamente, è l’indirizzo tendente

all’abolizione delle strutture istituzionali, sotto lo specioso pretesto che il cambiamento

dell’ambiente sociale, che comincia con l’abolizione del manicomio, riassume in sé

tutta la cura del malato […]219”

Queste dichiarazioni, collocabili in un atteggiamento politico di “centro,” evidenziavano

un’ambiguità, ma anche un equilibrio nella valutazione della questione. Le affermazioni

non risultavano omogeneamente contrarie all’attuazione della legge n.180 e

auspicavano l’esigenza di individuare altre tecniche per affrontare la malattia mentale.

L’atteggiamento della sinistra è sempre stato di sostegno allo schieramento progressista

e innovatore. In un articolo della rivista ‹‹Fogli di Informazione››, dedicato

all’argomento (n. 6, dell’aprile 1973), si legge:

“[…] noi accettiamo anche la specificità delle problematiche psicologiche interne

all’individuo, al rapporto interindividuale, alla famiglia, pur se non è concepibile che

tali problematiche non siano avulse dal contesto storico-sociale in cui viviamo”.220

In questo periodo, per far prendere coscienza sociale anche a quella parte della

popolazione ignara del problema, si cominciava a rendere pubblica con documenti e

testimonianze la “spaventosa realtà manicomiale”.

È questo un decennio di grandi cambiamenti sociali che rivelano il nuovo volto del

paese, ben diverso da quello prospettato dai mezzi di comunicazione di massa e da

quello percepito dal “palazzo”: a metà maggio del 1974 si votò per la legge sul divorzio

promossa dai radicali con un esito positivo, per molti inaspettato, ma anche da molti

altri auspicato.221

Nel 1977 fu approvato dalla commissione parlamentare il disegno di legge che

riguardava l’assistenza psichiatrica. In questo disegno veniva data molta importanza alla

fase di prevenzione della malattia e venivano dettate le condizioni per il trattamento

sanitario obbligatorio. I servizi psichiatrici avrebbero dovuto essere inseriti nei servizi

218 R. Canosa, Op. cit., p. 180, (Gli alienati e la società, ‹‹Corriere della sera››, 196)219 Ibidem220 Id., p.181221 O. Pivetta, Op. cit., p. 250

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sanitari generali, in modo da eliminare ogni forma di discriminazione tra le malattie

fisiche e quelle mentali.

Il dottor Basaglia e i suoi sostenitori, pur dichiarandosi critici contro il trattamento

obbligatorio, evitarono di ostacolare la legge per non affrontare il pericolo che anche

questi parziali miglioramenti venissero bocciati.

Era questo un periodo particolarmente turbolento della storia nazionale. Nel 1978 il

governo è democristiano, il Presidente del Consiglio è Andreotti e alla sanità siede l’ex

partigiana Tina Anselmi.222

Quattro giorni prima il 13 maggio 1978, del ritrovamento del corpo di Aldo Moro,

leader democristiano, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse, organizzazione

dell’estrema sinistra rivoluzionaria, venne approvata velocemente la nuova legge

stralcio n.180.

Di lì a poco, il 22 maggio 1978 venne approvata un ulteriore legge progressista, la

n.194, intitolata Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione

volontaria della gravidanza, legge poi confermata dal referendum popolare abrogativo

del 1981. La legge 180 e la legge 194 chiudono un decennio di riforme che si apre nel

1970 con le leggi sul divorzio, sulle norme dei referendum, sullo Statuto dei lavoratori,

sui termini massimi di carcerazione preventiva. A esse seguono le leggi sul diritto del

difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato, sulle lavoratrici-madri e sugli asili

nido (1971); sull’obiezione di coscienza al servizio militare e sull’ampliamento dei casi

in cui è possibile la concessione della libertà provvisoria, la cosiddetta “legge Valpreda”

(1972); sul lavoro e sulla protezione delle lavoratrici-madri e disincentivazione del

lavoro a domicilio (1973); sulla tutela della segretezza e della libertà delle

comunicazioni e sulla delega al governo per l’emanazione del nuovo codice di

procedura penale (1974); sul nuovo ordinamento penitenziario, sulla riforma del diritto

di famiglia e sulla fissazione a 18 anni della maggiore età, con immediati effetti anche

sulla composizione del corpo elettorale (1975); sulla parità tra uomo e donna in materia

di lavoro e sulla disciplina dei ruoli (1977).La legge n.180, quella sul trattamento

sanitario dei malati di mente, confluirà successivamente nella legge n.833 del 23

dicembre del 1978 che istituisce il sistema sanitario nazionale.

Senza scendere nello specifico della legge, i quattro principi fondamentali relativi alla

nuova impostazione del problema psichiatrico sono i seguenti:

222 O. Pivetta, Op. cit., p. 39

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il rispetto della dignità e dei diritti della persona con disturbi psichiatrici;

la chiusura dei manicomi;

la centralità territoriale dei servizi ospedalieri;

la volontarietà del trattamento.

Alla persona con disturbi psichiatrici viene finalmente riconosciuto il diritto di

cittadinanza, dando piena attuazione all’articolo n.32 della Costituzione:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse

della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”

“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per

disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal

rispetto della persona umana.”

La legge n.833, riguardo all’argomento di cui si sta parlando, prevede comunque ancora

una possibilità di trattamento coatto:

Art. 33: Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori.

“Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono

essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da

parte di chi vi è obbligato. L'unità sanitaria locale opera per ridurre il ricorso ai suddetti

trattamenti sanitari obbligatori, sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione

sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità.”

“Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, l'infermo ha diritto di comunicare con

chi ritenga opportuno.”

“Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento

con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio.”

“Sulle richieste di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. I

provvedimenti di revoca o di modifica sono adottati con lo stesso procedimento del

provvedimento revocato o modificato.”

Art. 34: Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori per malattia

mentale.

“Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure

vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni

psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano

accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di

adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. Il provvedimento che

dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve

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essere preceduto dalla convalida della proposta di cui al terzo comma dell'articolo n.33

da parte di un medico della unità sanitaria locale e deve essere motivato in relazione a

quanto previsto nel presente comma.”

“Nei casi di cui al precedente comma il ricovero deve essere attuato presso gli ospedali

generali, in specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura all'interno delle strutture

dipartimentali per la salute mentale comprendenti anche i presidi e i servizi

extraospedalieri, al fine di garantire la continuità terapeutica. I servizi ospedalieri di cui

al presente comma sono dotati di posti letto nel numero fissato dal piano sanitario

regionale.”

Pochi mesi dopo l’approvazione della legge le cronache dei giornali hanno dato notizia

di tutta una serie di ostacoli riguardo all’attuazione della legge stessa:

mancanza di personale psichiatrico (medico e paramedico) negli ospedali

generali;223

resistenze da parte del personale degli Ospedali Psichiatrici a spostarsi e operare

nel “territorio”;

differenze tra Nord e Sud: al Nord si era già verificata una preparazione al

cambiamento, mentre al Sud esistevano notevoli difficoltà;

pericolo che “il grande lager” si sbricioli in prigioni mignon, isolate dai reparti,

dove si possano creare tanti piccoli ghetti224;

chiusura dei manicomi accelerata dal bisogno di risparmio di spesa pubblica;

disagi creati dai pazienti usciti temporaneamente o definitivamente

dall’Ospedale Psichiatrico;

rifiuto da parte delle persone di affittare appartamenti agli ex-ricoverati anche se

gli affitti sono garantiti dai medici stessi dell’ospedale.225

223 D. Pasti, Metti il matto in ospedale e abbandonalo a se stesso, ‹‹La Repubblica››, 8 giugno 1978224 M. Chierici, Viaggio nelle isole dove i matti sono liberi, ‹‹Corriere della Sera››, 18 settembre 1978225 M. Chierici, Eri in manicomio?Non ti do la casa, ‹‹Corriere della Sera››, 7 ottobre 1978

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Figura 13: ‹‹Corriere della sera›› 26 maggio 1978

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Figura 14: ‹‹Corriere della Sera››, 7 ottobre 1978

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Figura 15: ‹‹Corriere della Sera››, 18 settembre 1978

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Nonostante tutto questo, però, la legge ha comunque iniziato un’epoca, un

rinnovamento, una modifica della risposta istituzionale alla “follia”.

Diceva Basaglia:

“Il manicomio ha la sua ragione d’essere nel fatto che fa diventare razionale

l’irrazionale. Infatti quando qualcuno entra in manicomio smette di essere folle, per

trasformarsi in malato, e così diventa razionale in quanto malato […] La follia è una

condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema

è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia,

invece incarica una scienza, la psichiatria di tradurre la follia in malattia allo scopo di

eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragione d’essere.”

La legge ha il merito di aver determinato il passaggio dal prevalente interesse di

custodia del malato mentale ad un approccio terapeutico.

Continuano le riflessioni di Basaglia:

“La novità della legge si incentra sulla scomparsa del concetto giuridico di

“pericolosità” del malato mentale, da cui si deduceva la necessità di custodirlo e quindi

di violentarlo e reprimerlo; sull’opposizione – che da questa scomparsa deriva – alla

creazione di nuove strutture segreganti; sul capovolgimento dell’ottica tradizionale della

psichiatria che si trova per la prima volta in condizione di affrontare colui che soffre di

disturbi psichici senza lo schermo della pericolosità e della custodia”. 226

Le idee di Basaglia continuano ad avere attualità, anche se la legge n.180 non è

perfettamente applicata ed è sicuramente migliorabile; fu lui il primo a sostenere infatti

“Il senso di una riforma sta anche nella possibilità di rimetterla in discussione […] Ciò

che deve mutare per poter trasformare praticamente le istituzioni e i servizi psichiatrici

(come del resto tutte le istituzioni sociali) è il rapporto tra cittadino e società, nel quale

si inserisce il rapporto fra salute e malattia. Cioè riconoscere come primo atto che la

strategia, la finalità prima di ogni azione è l’uomo (non l’uomo astratto ma tutti gli

uomini), i suoi bisogni, all’interno di una collettività che si trasforma per raggiungere la

soddisfazione di questi bisogni e la realizzazione di questa vita per tutti. Ciò significa

capire che il valore dell’uomo, sano o malato, va oltre il valore della salute e della

malattia […]”.227

226 O. Pivetta, Op. cit., pp. 267-268227 Ibidem

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Interventi legislativi successivi alla n.180

Una riforma è uno strumento che dovrebbe servire a migliorare la condizione umana;

non sono imputabili ad una legge le ingiustizie di un sistema. La politica si rinnova

giorno dopo giorno davanti ai problemi ed è lecito misurare, valutare e ponderare la

necessità di rinnovare o arretrare una legge.

Nella storia non sono mancati infatti alcuni episodi di violenza, seppur scarsi, che hanno

riacceso il dibattito dei contro-riformatori alla n.180.

Dal 1978 fino al 1999 non ci sono stati significativi interventi e prese di posizione sulla

legge di cui si parla.

Nel periodo 1996-2000 il Ministro della Salute Rosy Bindi interviene sul problema

stabilendo: l’istituzione del “Dipartimento di Salute Mentale” (Dsm) finanziato dalla

Regione con il compito di assistenza e di intervento a 360°, coinvolgendo medicina di

base, medicina scolastica, guardia medica, consultorio, neuropsichiatria infantile.

Il Dsm comprende il “Centro di salute mentale” (Csm), il “Servizio psichiatrico di

diagnosi e cura”, il “Day-hospital”, il “Centro Diurno” e “la Residenza Assistita”, con

un bacino di utenza massimo di 150mila abitanti.

I principali obiettivi sono, anche in questo caso, la prevenzione, la cura e la

riabilitazione dei disturbi gravi tramite una fitta rete di collaborazione tra servizi

sanitari, associazioni familiari e volontariato, con la possibilità di reperire strutture

residenziali extra-ospedaliere per un recupero socio-terapeutico-riabilitativo.

Rosy Bindi parlava chiaro “I beni mobili e immobili degli ospedali psichiatrici dismessi

sono destinati alla produzione di reddito, attraverso la vendita o l'affitto, e i soldi

destinati all'attuazione del progetto obiettivo “Tutela della salute mentale”. 228

“Le Regioni hanno due anni di tempo per chiudere i manicomi e realizzare centri diurni

e case alloggio. Per quelle che non rispetteranno la legge sono previste le sanzioni: una

riduzione dello 0.5 % del fondo sanitario regionale. A partire dal 1998 il taglio salirà al

2 %.” 229

228 Mario Reggio, Chiusi, venduti, ancora inutilizzati. La strana fine degli ex-manicomi, ‹‹LaRepubblica››, 6 luglio 2012229 Ibidem

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Il ministro della Salute ha preso posizione su questo “ […] perché nel 1996, avevano

scoperto che gli internati erano ancora 17.068: 11.882 rinchiusi in 63 ospedali

psichiatrici pubblici e 5.186 in 13 strutture private. 230Niente a che vedere con i 102.300

ricoverati nel 1956 ed i 78.538 “matti da slegare” nel 1978, anno in cui venne approvata

la legge Basaglia. Oggi, in base ai dati di cui sopra, i manicomi non esistono più e i

circa 60 mila pazienti psichiatrici sono gestiti, appunto, attraverso le strutture

residenziali e semiresidenziali pubbliche e private.”231

Per realizzare questi programmi il “Progetto Bindi” prevedeva lo stanziamento del 5%

del Fondo sanitario nazionale.

Al 30 maggio 2001 risale la proposta di legge n.174 dell’on. Burani Procaccini Norme

per la prevenzione e la cura delle malattie mentali, co-firmata da tre parlamentari

appartenenti alla “Casa delle Libertà”.

Questa Legge, ancora ferma nella “XII Commissione Affari Sociali”, tratta il problema

psichiatrico alla luce delle nuove competenze, privilegiando la difesa sociale ed il

“controllo”, rilanciando il concetto di pericolosità.

Le legge prevede di nuovo “l'inserimento coatto in una struttura protetta” e la nomina da

parte del “Sindaco del Garante del Paziente Psichiatrico” (GPP), una figura che

supporta la famiglia e la comunicazione con il paziente, con le istituzioni e con la

società.

Senza scendere nello specifico della normativa prevista dalla legge, i cambiamenti più

significativi sono:

il Trattamento Intensivo Prolungato in strutture sia “specializzate” per fasi acute

sia “infermieristiche” per stabilizzazione delle fasi post-acute, sia residenziali

destinate al ricovero volontario o obbligatorio con caratteristiche di alta

protezione.

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio applicabile ai soggetti con disturbi

rilevanti, urgenti e che rifiutano le cure. L’eventuale “condizione di

intossicazione da sostanze non limita l’applicabilità del provvedimento”

230 Ibidem231 Ibidem

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Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può essere prolungato fino ad un massimo

di sessanta giorni, prorogabili dal sindaco in strutture ospedaliere e

extraospedaliere accreditate.

La normativa ha ricevuto numerose critiche in quanto non sembra salvaguardare e

tutelare i diritti delle persone (con disagio psichico).

Concluso l’excursus legislativo si nota come a partire del 1978, quando tanto fu detto

sulla riforma Basaglia, non ci sia stata una continuità sul cambiamento che ne è

conseguito. La società è cambiata: ha evidenziato problemi nuovi, orientamenti diversi.

Saltuariamente, forse a seguito di qualche fatto di cronaca clamoroso, ci sono state

inchieste giornalistiche che hanno sensibilizzato e ricordato il dopo-basaglia. Il

giornalista Mario Reggio nel 2011 indaga sulla situazione attuale.

Inchiesta su ‹‹La Repubblica›› Dove è finita la follia?

Mario Reggio il 6 luglio 2012 scrive l’articolo Chiusi, venduti, ancora inutilizzati. La

strana fine degli ex-manicomi.232

“Nel 1996, a quasi vent'anni dalla riforma psichiatrica, si scoprì che c'erano ancora 63

strutture aperte con 17mila internati. Un decreto dell'allora ministro Bindi stabilì che

andavano chiuse e riutilizzate o, se vendute, i soldi ricavati dovevano andare al

“Progetto Obiettivo sulla salute mentale”. Oggi, la “Commissione d'Inchiesta del

Senato” presieduta da Ignazio Marino ha mandato i carabinieri in 82 strutture e ha

scoperto che molte sono inutilizzate. E il ricavato di quelle vendute ha preso altre

strade.”

Sempre dall’inchiesta della Repubblica:

“[…] Che fine hanno fatto i soldi dopo la vendita o l'affitto dell'immenso patrimonio

edilizio costituito dagli ex ospedali psichiatrici? […] I carabinieri hanno visitato 82

strutture. Ecco il risultato. Primo dato, i vecchi manicomi non esistono più. A distanza

di 34 anni dall'approvazione della legge Basaglia è già qualcosa. Ma ci sono molte

situazioni poco chiare.[…] Gli ambienti sono stati per lo più ristrutturati e riutilizzati

dalle Asl anche per l'assistenza e cura dei malati psichiatrici. In altri casi sono stati dati

in comodato d'uso gratuito o dismessi e non utilizzati o venduti o locati in tutto o in

232 Ibidem

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parte a Comuni, Università o privati e il relativo ricavo utilizzato anche per la creazione

di strutture destinate ai malati psichiatrici.”

Secondo l’inchiesta però:

“Le somme derivate dalle vendite o locazioni, a volte, sono state versate direttamente

nelle casse regionali, rendendo difficile una ricostruzione dettagliata del loro successivo

utilizzo.[…] Alcuni numeri: 1.679 strutture, 19.299 posti, 30.375 utenti.

L'attività semiresidenziale è gestita dai centri diurni dove il paziente va la mattina e la

sera torna a casa. I numeri: 763 strutture, 12.835 posti, 32.030 assistiti.

L'assistenza residenziale, quella dove il malato vive, nasconde spesso nelle strutture

private convenzionate una riproduzione del vecchio manicomio. Non sempre le Asl

sono in grado di effettuare controlli continui e stringenti. In molte strutture private

convenzionate, guarda il Don Uva di Bisceglie, il manicomio è chiuso, ma la comunità

di recupero usa gli stessi metodi del passato.

[…] proviamo a vedere se e in che misura la normativa è stata rispettata: se, cioè, le

strutture chiuse sono utilizzate per "produrre reddito" a favore del "Progetto obiettivo

Tutela della salute mentale".

[…] Reggio Calabria […] ha ceduto a titolo gratuito ai Carabinieri l'ospedale

psichiatrico del Rione Modena. L'Arma ha ringraziato per il regalo e ha trasformato la

struttura nella Scuola Allievi.

A Napoli l'ex ospedale psichiatrico di via Liveri è chiuso e inutilizzato, stessa sorte per

quello […] di Capodichino

[…] Toscana. A Pistoia l'ospedale psichiatrico “Ville Sbertoli” ha chiuso i battenti nel

1996 e non li ha più riaperti. Stessa fine […] Parma.

In Liguria […] la Regione ha venduto l'ex di Cogoleto alla “Fintecna Immobiliare” e

alla “Valcomp” per 13 milioni e 648 mila euro.

[…] Quarto. Genova. […] Nella struttura vivono ancora 80 “cronici”, la Regione ha già

cartolarizzato l'immobile, valore 16 milioni e 206 mila euro, ma […] con i malati dentro

nessuno si sogna di sborsare i soldi. Ovviamente, se la situazione si dovesse sbloccare i

soldi andrebbero a coprire il buco del disavanzo sanitario.

[…] Puglia, a Bisceglie. Lì campeggia l'ex ospedale psichiatrico “Don Uva”, gestito

dalle “Ancelle della Divina Provvidenza”. Un mostro fronte-mare che negli anni '90

accoglieva più di 2 mila ospiti.

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Nel '98 si erano ridotti a poco più di mille, ma l'atmosfera non era proprio salubre:

malati che si genuflettevano al passaggio del direttore, mentre i più audaci gli baciavano

la mano: personale scarso, terapie immaginarie, molti decessi sospetti.

Oggi la struttura si è rinnovata, ma il tempo delle "vacche grasse" è finito, così le

“ancelle” hanno deciso di chiedere la cassa integrazione a zero ore per i dipendenti.”233

Mario Reggio, nella sua inchiesta, intervista il Senatore Ignazio Marino, il titolo del

servizio: La nostra inchiesta finirà ai magistrati.

Dall’intervista emerge che le strutture dismesse non hanno seguito l’iter della legge che

prevedeva il riutilizzo nello stesso settore o la vendita e il conseguente ricavato

impiegato per la salute mentale.

Viene puntualizzato questo: i luoghi dismessi sono stati venduti per altra destinazione

(il ricavo non è stato reinvestito nella cura della malattia mentale, ma utilizzato per

ripianare il bilancio regionale); oppure abbandonati e impoveriti, a volte si trattava di

strutture di pregio; o, e nel migliore dei casi affittati, ad Istituti o Associazioni culturali.

Continua il servizio di Mario Reggio.

Dell'Acqua234, il 7 luglio 2012 rilascia questa intervista, Il sogno, adesso è realtà. Ma ci

vorrebbe un'altra rivoluzione:

“Il miracolo è essere riusciti a chiudere i manicomi. Ed è un cambiamento gigantesco.

Lo scandalo è che certi spazi tornino ad essere usati come contenitori di persone

condannate alle più disperate classificazioni psichiatriche”.

Mario Reggio chiede cosa pensa Dell’Acqua della situazione a macchia di leopardo dei

manicomi in Italia.

“Leggendo il rapporto e le tabelle puntuali dei Nas, si coglie prima di tutto il senso di un

gigantesco cambiamento avvenuto nel nostro Paese, che facciamo fatica a ricordare al di

fuori dalla piattezza dei luoghi comuni.

[…] La chiusura avviene per la quasi totalità intorno al 1998 a ridosso di quel Decreto

Bindi, allora coraggiosa ministra della sanità che, rompendo gli indugi, ingiunge a tutte

233 Mario Reggio, Dell'Acqua: "Il sogno, adesso è realtà. Ma ci vorrebbe un'altra rivoluzione", ‹‹LaRepubblica››, 7 luglio 2012234 Beppe Dell’Acqua, salernitano, classe 1947, si è laureato in Medicina a Napoli, ha collaborato conFranco Basaglia nell'ospedale psichiatrico di Colorno a Parma. Nel '71, con il gruppo Basaglia, si ètrasferito a Trieste partecipando all'esperienza di trasformazione e chiusura dell'0spedale psichiatrico. In40 anni di lavoro si è dedicato alla programmazione e gestione dei Servizi di Salute Mentale nel territorioe svolgendo nel contempo consulenze scientifiche in Italia ed all'estero. Collabora con l'OrganizzazioneMondiale della Sanità. Insegna Psichiatria sociale presso la facoltà di Psicologia dell'università di Trieste.E' autore di numerose pubblicazioni scientifiche. E' tra i promotori del Forun Salute Mentale, avampostoper la tutela della legge 180 e la promozione delle buone pratiche in salute mentale. (Mario Reggio,Dell’Acqua: Il sogno adesso è realtà, ma ci vorrebbe un’altra rivoluzione, ‹‹Repubblica››, 7 luglio 2012)

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le Regioni, 20 anni dopo la legge n.180, di uscire da una distratta e paludosa gestione

della salute mentale.”

Continua Dell’Acqua: “La legge, una legge quadro, come si sa, per la prima volta e

giustamente, riconosceva alle Regioni competenza e autonomia sulle materie sanitarie.

È accaduto che, distorcendo il senso dell'autonomia, si sono affermate […] l'arretratezza

culturale, la prepotenza "scientifica", l'inconsistenza etica delle psichiatrie locali.

Improntate a modelli medico/biologici, farmacologici, istituzionali pesantemente

riduttivi negavano (e negano) la stessa ragione del cambiamento.

Hanno avuto spazio le lobby economiche, un intreccio di interessi di potentati locali, di

psichiatri servizievoli, di misericordiosi sguardi confessionali, di università impegnate a

difendere la “scienza psichiatrica” al servizio di industrie farmaceutiche potenti e

generose.”

“[…] Cliniche dai nomi suggestivi continuano a essere sostenute da scellerate e

dispendiose politiche regionali. Non tanto mi stupisce l'uso distorto delle risorse quando

destinate a ripianare disastrosi bilanci regionali o ad accontentare capricciosi primari per

attivare una sala operatoria o un reparto di raffinata specializzazione. Neanche tanto

l'abbandono di terreni, di edifici, di parchi di rara bellezza nel cuore delle città, di

specialissima ricchezza architettonica e storica. Mi stupisce, ma questo già lo sapevamo,

il riuso di molti di questi spazi per permettere politiche immobiliari delle stesse aziende

sanitarie, trovando luogo per archivi, uffici, direzioni, ambulatori, servizi territoriali

senza che questo abbia prodotto un pari investimento, fuori dal manicomio, per la

costruzione di “Centri di salute mentale” (CSM) aperti 24 ore, dignitosi Servizi

ospedalieri per l'emergenza e non nei posti peggiori degli ospedali civili.”

Il giornalista Mario Reggio chiede allo psichiatra se in qualche manicomio ci siano

ancora dentro i malati di mente.

“Il problema non è tanto il luogo. Fare qualcosa di bello nell'ex manicomio non credo

sia un peccato. Vede, per fare un esempio, l'ospedale psichiatrico di Cagliari è stato sede

di uno dei più bei CSM 24h (che ora la scelleratezza del governo regionale attuale

intende chiudere) o le tante e belle attività laboratoriali, culturali, di ricerca, di teatro, di

cinema e altro. Il problema scandaloso è la persistenza oggi di quelle unità di 20 posti.

Contenitori per cronici […]”.

Il giornalista evidenzia l’aspetto della non-comunicazione e non diffusione del problema

“Chiusi, formalmente, i manicomi, pochi hanno continuato a guardarci dentro.”

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“Tenere viva l'interrogazione. Questo era il sogno di Basaglia, io credo. […] Trovo

infatti scandaloso che i media si siano occupati poco e male dei “Servizi di Diagnosi e

Cura” ospedalieri chiusi, dove si opera la contenzione, dei CSM cadenti e vuoti, ma

soprattutto del fatto che le persone possano ancora morire a causa di psichiatrie stupide,

arroganze scientifiche, insensate pratiche farmacologiche”.

Si conclude l’intervista con una domanda proiettata nel futuro che pone l’attenzione a

quali siano gli strumenti che potrebbero migliorare le reti di assistenza nel territorio.

“Oggi è tutto chiaro. Basterebbe solo voler vedere. Esperienze eccellenti esistono in

tutto il territorio nazionale, per fortuna, e non solo a Trieste.

Tante cose bisognerebbe dire. Mi limito: rendere certe e finalizzate le risorse e

destinarle veramente alla cura e alla guarigione sempre possibile delle persone con

disturbo mentale, costruire bilanci che sostengano servizi capaci di progettare e

governare percorsi singolari orientati alla ripresa e ai bisogni delle persone.

Il recente convegno conclusosi a Trieste, “Impazzire si può”, che ha visto la presenza di

oltre 500 persone, la maggior parte con l'esperienza del disturbo mentale, ha prodotto

una “Carta dei Servizi”.

Le cose che le persone vedono e chiedono sono semplici: CSM aperti 24 ore, risorse e

intelligenze capaci di trattenere le persone nel contratto sociale e quindi abitare,

lavorare, essere garantiti nel proprio diritto, porte aperte, abolizione della contenzione

dovunque, sostegno attivo e sempre comprensivo ai familiari e ai contesti circostanti. E

tuttavia, al convegno, i “matti” hanno capito e detto che una seconda rivoluzione

basagliana è quanto mai necessaria”. 235

Si conclude questa inchiesta di Mario Reggio con la pubblicazione di questi dati:236

“L'assistenza residenziale, quella dove il malato vive, nasconde spesso nelle strutture

private convenzionate una riproduzione del vecchio manicomio. Secondo gli ultimi dati

a disposizione del Ministero della Salute che si riferiscono al 2009 il sistema di

assistenza è diviso in due settori. L'attività residenziale, vale a dire comunità

terapeutiche e case famiglia, dove i ricoverati vengono seguiti da uno staff di psichiatri

e di personale infermieristico. Il ricovero in comunità terapeutica non può superare i 2

anni ed il numero massimo degli assistiti è di 20 persone. Alcuni numeri: 1.679

strutture, 19.299 posti, 30.375 utenti. L'attività semiresidenziale è gestita dai centri

235 Ibidem236 Mario Reggio, Posti letto e assistenza così le Regioni gestiscono i folli, ‹‹La Repubblica››, 9 luglio2012

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diurni dove il paziente va la mattina e la sera torna a casa. I numeri: 763 strutture,

12.835 posti, 32.030 assistiti.”

Intanto a San Salvi la situazione attuale è questa “ […] l’area appartiene per il 70%

all’Asl, per il resto al Comune e alla Provincia. Con la chiusura dei manicomi

conseguente alla legge n.180 del 1978, i padiglioni vengono progressivamente liberati e

adibiti dall’Asl secondo le contingenze, senza nessun progetto complessivo di recupero

dell’area, né in funzione dei pazienti ancora ospitati nelle strutture protette né del

quartiere. La scarsa manutenzione sia degli edifici che del parco ha permesso il

deterioramento dell’insieme, aggravato dall’uso a parcheggio di tutti gli spazi

interstiziali, con pregiudizio del patrimonio arboreo.” 237

“L’ex manicomio di San Salvi è un bene culturale e uno dei luoghi simbolo della

memoria cittadina, di altissimo pregio ambientale e di notevole valore; un complesso

con grandi potenzialità di recupero sociale e ambientale, strategico per migliorare

l’assetto urbanistico e le condizioni di vita dei cittadini.” 238

Queste sono testimonianze che scaturiscono direttamente dal blog “San Salvi chi può”.

Dal 2004 è attivo un comitato di cittadini che si interrogano sul futuro di San Salvi

cercando di proporre un utilizzo di tutta l’area. Le proposte sono svariate e vanno

dall’istituzione del “Parco di San Salvi”, al consolidamento di attività agricole nella

zona con relativa fermata ferroviaria, all’utilizzo come risorsa per usi sociali.

Recentemente il quotidiano ‹‹La Nazione›› ha riportato le novità sull’utilizzo dell’area:

sembra che la Asl, proprietaria di maggioranza, possa procedere alla vendita degli

immobili per fare cassa favorendo in questo modo la nascita di una struttura residenziale

di pregio; “[…] via libera di Regione e Comune sulla vendita degli immobili […] in

poche parole stop ai padiglioni sanitari e culturali, avanti con negozi e complessi

residenziali. E la memoria? [….]”239

Queste sono le ultime notizie riportate su una diatriba che va avanti dalla dismissione

dell’area manicomiale. Dal momento che sono state fatte negli anni diverse proposte è

auspicabile che la conclusione di tutta la ristrutturazione, quando avverrà, sia quella più

consona e più adatta.

237 Comitato “San Salvi chi può” <firenzecomitatosansalvi.blogspot.it/>238 Ibidem239 Claudio Capanni, I “Chille” e il ricordo dei “tetti rossi”: ‹‹No al museo degli orrori ››, ‹‹LaNazione››, 7 settembre 2012

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A tale proposito Claudio Ascoli rilascia un’intervista per il giornale ‹‹La Nazione››:

“ […] No al museo degli orrori in San Salvi […] Ci è stato detto del progetto di istituire

un luogo a “presidio della memoria” di San Salvi. Ben venga, basta non si tratti di un

museo con una macchina per l’elettroshock e qualche foto. Il ricordo di questa “città

nascosta” deve rivivere con attività culturali che rendano partecipe la cittadinanza.” 240

“Ci Auguriamo – commenta Ascoli – di non dovere lottare noi stessi contro il mulino a

vento dell’amministrazione. Chiediamo solo di essere interpellati e tenuti di conto

quando si parla del futuro di San Salvi visto che – conclude – con la “Fondazione per la

memoria viva di San Salvi Carmelo Pellicanò” e alcuni comitati cittadini, siamo gli

ultimi custodi della memoria di questo luogo.”241

Articolo 19 maggio 2012 da ‹‹Il Giornale›› Che follia, in Italia si usa l’elettroshock

“Dal 2008 al 2010 sono stati 1406 in Italia i pazienti trattati con la scossa. In

maggioranza donne - scrive Francesca Angeli - aumenta in Italia l’uso dell’elettroshock

per i pazienti psichiatrici. Le linee guida in materia risalgono al ’96 e prevedono

l’utilizzo della Tec242 soltanto dopo il fallimento dei trattamenti con i farmaci […]

Terapia che comunque nella circolare del Ministero della Salute del ’96 venne definita

”un presidio terapeutico di provata efficacia” e dunque assolutamente legittima. Le

strutture ospedaliere coinvolte, cioè quelle che hanno eseguito almeno una Tec in un

anno, sono circa 90. La maggioranza dei trattamenti riguarda le donne, 821 contro i 585

uomini, e la fascia d’età 40-47 anni. Colpiscono i dati relativi agli Spedali Civili di

Montichiari in provincia di Brescia: 108 trattamenti nel 2008, 155 nel 2009, 158 nel

2010. Anche quelli dell’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa: 106 nel 2008, 89 nel

2009, 68 nel 2010. […] Negli Usa però la Tec viene regolarmente applicata su circa

100.000 pazienti all’anno. Difficile reperire dati a livello mondiale e confrontarli anche

perché sono disaggregati. La tecnica elettroconvulsiva viene eseguita una volta all’anno

per ogni milione di abitanti su 500 persone negli Usa; 470 in Belgio; 330 in Scozia; 184

nel Regno Unito. Percentuale che cala drasticamente in Spagna, soltanto 61 su un

milione, e in Germania, 26. In Italia nel 2008 un gruppo di psichiatri convinti sostenitori

dei benefici della Tec rivolse una petizione al ministero della Salute affinché si aprisse

240 Ibidem241 Ibidem242 TEC: terapia elettroconvulsivante, nota come elettroshock

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“almeno” un servizio dei Tec ogni milione di abitanti. Ora visto che le strutture che

eseguono la Tec sono novanta vuol dire che ne abbiamo quasi una e mezza per ogni

milione di abitanti. Proprio mentre si riapre la polemica sull’uso della Tec la

Commissione Affari sociali della Camera approva un testo di riforma della legge

Basaglia che prevede l’allungamento del periodo di trattamento sanitario obbligatorio e

la possibilità di ricoverare il malato anche senza il suo assenso, fino a un massimo di un

anno. Il testo voluto da Pdl e Lega ha già scatenato la rivolta di Pd e Radicali che

accusano il centrodestra di voler riaprire i manicomi.”243

243Francesa Angeli, Che follia, in Italia si usa l’elettroshock, ‹‹Il Giornale››, 19 maggio 2012

Figura 16: Ospedale Psichiatrico Provincialedi Parma 1968, foto di Carla cerati

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Conclusioni

La storia del passato ha un’importanza fondamentale per la comprensione degli

avvenimenti di oggi; il rapporto tra memoria e storia è irrinunciabile.

Sarebbe limitato fare solo riferimento ai fatti accaduti nel passato, senza indagare sulle

possibili cause che li hanno determinati.

Altrettanto importante è la memoria legata al territorio, allo spazio dove i fatti sono

avvenuti e sono diventati “luogo della memoria”.244

Lo sono diventati i campi di battaglia, le trincee, i lager nazisti, ma anche i manicomi e

prima di loro gli “ospitali”, dove sono stati ricoverati i malati di ogni tipo.

In molti casi questi luoghi della memoria sono diventati musei se non mete quasi

turistiche. Questo non è avvenuto per i manicomi, che potrebbero essere conservati

come spazio della memoria e nel contempo convertiti per creare situazioni socialmente

utili, anche per la vastità dello spazio occupato.

Evidentemente è un problema di carenza di comunicazione. Non si è saputo comunicare

a suo tempo alla popolazione la “rivoluzione del trattamento psichiatrico” che è passata

quasi del tutto inosservata e trattata dai giornali dell’epoca solo per un breve periodo.

Successivamente non se ne è quasi più parlato. Il discorso è rimasto confinato tra gli

addetti ai lavori.

La n.180 è passata come legge, ma non è stata assorbita socialmente dalla popolazione

non direttamente coinvolta dal trattamento della malattia.

Chi aveva in casa il malato di mente non ne faceva parola con gli altri, allo stesso modo

l’informazione (quotidiani e televisione) si è “vergognata” di affrontare il tema con

vigore, così come doveva essere affrontato un tema tanto importante.

In verità sono stati prodotti e diffusi film, documentari e pièce teatrali, anche di pregio

professionale, ma indirizzati solo ad un pubblico elitario e socialmente impegnato,

politicamente collocato a sinistra.

244 Il concetto di “luogo della memoria” è stato elaborato per la prima volta a metà degli anni Ottantadallo storico Pierre Nora: “è uno spazio fisico e mentale che si caratterizza per essere costituito daelementi materiali o puramente simbolici, dove un gruppo, una comunità o un’intera società riconosce sestessa e la propria storia mediante un forte aggancio con la storia collettiva. Può essere un museo, unarchivio, un monumento, un anniversario, certi territori o località segnati da eventi significativi, ma anchemiti, pagine letterarie, personaggi, date.” (Paolo Sorcinelli, Viaggio nella storia sociale, BrunoMondadori, 2009, in Storia e memoria <www.osservatoriomq.eu/testi/Storia%20e%20memoria.pdf>)

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La massa popolare non è stata sensibilizzata adeguatamente verso questo problema e al

contempo è stata tenuta fuori da questo tipo di informazione perseguendo l’obiettivo di

evitare l’argomento.

Di fatto la tematica non ha attraversato l’intera società e forse questo è uno dei motivi

per i quali anche la notizia di rilievo sulla chiusura dei manicomi non è sempre stata

trattata dalla stampa.

‹‹La Nazione›› nel dicembre del 1998 ha dedicato solo un articolo di cronaca alla

chiusura del manicomio fiorentino. Non c’è da meravigliarsi che buona parte della

popolazione oggigiorno non sappia cosa sia stato nel passato “San Salvi”.

L’ ospedale psichiatrico è stato smantellato ed il padiglione, occupato dalla compagnia

teatrale “Chille de la balanza,” è l’unico spazio che mantiene in vita, con una serie di

attività, la memoria di un riforma sociale che ha cambiato la cultura del nostro paese e

che, coscientemente o meno, appartiene ad ognuno di noi.

Il problema della “non normalità” è un problema di larga parte della popolazione. Oltre

che dal collegio europeo di Neuropsichiatria, anche dall’OMS 245 le notizie sono

allarmanti; per il 2020 si prevede che la depressione salga al secondo posto in

graduatoria dopo le malattie gravi di natura cardiaca. I dati ufficiali indicano che il 38%

della popolazione europea soffre di un disturbo mentale: ansia, depressione grave,

dipendenza da alcool e droghe, iperattività, schizofrenia, demenza. Ne consegue

soprattutto un problema per le nuove generazioni in quanto circa il 3% dei bambini e

degli adolescenti cresce con un genitore psicologicamente labile. 246

Non è un problema che riguarda il passato, ma è un problema che potrebbe investire

chiunque, in qualunque momento del ciclo di vita. La società in cui viviamo è, e sarà,

sempre più competitiva, stressante e tendente ad escludere i più deboli. Si parla ormai

diffusamente di società dell’incertezza, innanzitutto del lavoro e del mantenimento del

proprio standard di vita.

Negli anni Settanta l’Italia attraversava un momento socialmente pieno di notizie e,

l’apertura dei manicomi, nonostante fosse un argomento importante, veniva oscurato

dalle tante notizie di sommovimenti sociali. Di sicuro era molto più “notiziabile” un

articolo sul sequestro di Aldo Moro piuttosto che sulla chiusura delle strutture

manicomiali.

245 OMS: Organizzazione Mondiale della Sanità, equivalente a WHO, World Health Organization246 Anna Oliviero Ferraris, I figli dei pazienti psichiatrici, ‹‹Psicologia Contemporanea››, Firenze, Giunti,maggio-giugno 2012, n.231, cap. Salute Mentale

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Si consideri che questo era inoltre un argomento meno rilevante dal punto di vista

commerciale, con un’audience limitata e segmentata e veicolato spesso su riviste

specialistiche e non certo di “massa”.

Il problema della malattia mentale, prima della legge n.180, doveva restare circoscritto

all’ambito individuale e familiare del malato, senza il coinvolgimento di una società che

appariva indifferente, se non di ostacolo, ai mutamenti.

Franco Basaglia ha avuto il merito di coagulare intorno alla sua figura le nuove teorie

sul trattamento della malattia mentale e di applicarle nella pratica. Questo è avvenuto

con tutti i difetti del caso dovuti anche all’impreparazione delle strutture, ma ormai il

medico avvertiva come improrogabile la necessità di rivoluzionare il rapporto medico-

paziente e di assimilare la malattia mentale a quella fisica, senza discriminazioni.

Basaglia è riuscito a comunicare ad un vasto pubblico che la malattia mentale è una

malattia come le altre e che deve essere affrontata con strumenti diversi: comunicando

innanzitutto con il malato. Così facendo il malato diventava consapevole della sua

patologia, partecipando attivamente al processo di cura.

La riforma basagliana fu ispirata non solo ai principi di umanità, ma soprattutto al

riconoscimento dei diritti del malato, della sua identità, della sua appartenenza alla

società civile contro l’annientamento della sua personalità, contro l’emarginazione.

Basaglia, investito dallo spirito ribelle del tempo, usa con determinazione gli strumenti

della democrazia: la parola e la comunicazione. Tramite i mezzi ha parlato di norma, di

devianza, di pregiudizi, promuovendo una delle esperienze culturali più importanti degli

ultimi anni.

Il dottore riformista tramite la comunicazione e la diffusione di documenti, filmati, libri

ed eventi ha portato all’attenzione della società le sorti di quelle persone e di quei luoghi

che, per anni, erano stati dimenticati da tutti. La conoscenza è servita a cambiare

l’atteggiamento e il giudizio verso la malattia e gli internati. Il problema continua ad

esistere, ma cambia il paradigma del trattamento: il paziente è cosciente della sua

malattia ed è integrato in quella società che poco prima lo emarginava.

Permane ancora oggi il dilemma sulla destinazione di questi spazi, legato anche alla

persistente carenza di fondi da destinare ai progetti di recupero. Il rischio è di avere un

ulteriore grande contenitore all’interno della città senza un’effettiva funzione, che si

trasformi irrimediabilmente in un luogo del degrado o del sottoutilizzo.

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Chiunque abbia visitato San Salvi è consapevole che un patrimonio urbanistico e di

memoria come questo non possa essere abbandonato a se stesso.

Questo elaborato ha voluto indagare sulle radici storiche della nascita dell’istituzione

manicomiale, sul ruolo assunto nella società e sulla sua evoluzione nell’ottica della

comunicazione sociale tra medico e paziente e tra istituzione manicomiale e società: da

una comunicazione “negata” e gerarchica, tra malato-società e malato-medico, ad una

comunicazione a due vie.

È un mutamento concettuale che grazie a Basaglia ha penetrato in modo irruento la

società dell’epoca. Purtroppo i problemi relativi alla malattia mentale non trovano una

collocazione adeguata nella graduatoria dell’agenda setting dei telegiornali ed dei

notiziari di oggi, se non quando accade un fatto criminoso, una storia “accattivante” o

morbosa che innalzi l’audience Tv o la readership della carta stampata.

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Appendice

Figura 17: Localizzazione e superfici degli ospedali psichiatrici, Atlante ospedali psichiatriciitaliani/ Fondazione Benetton Studi Ricerche

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Figura 18: Firenze, San Salvi, Vincenzio Chiarugi, IGM Firenze 1955, Atalnte ospedali psichiatriciitaliani/Fondazione Benetton Ricerche

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Figura 19: Carta tecnica regionale, Firenze Sud Est-Bagno a Ripoli, 1994, Atlante Ospedali psichiatriciitaliani, Fondazione Benetton Studi Ricerche

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La rimessa a zero

(da Antonin Artaud. Nel vortice dell’elettrochoc di Ida Savarino pp. 15-18)

“Il Dottor Ferdière … mi ha imposto cinquanta volte in tre anni i tormenti

dell’elettroshock al fine di farmi perdere la memoria del mio io.”

Antonin Artaud

La tecnica dell’elettrochoc, a cui Artaud venne forzatamente sottoposto ben 51 volte, è

stata messa appunto in Italia da Ugo Cerletti, professore di neuropsichiatria

all’Università di Roma. Questa terapia si inseriva nell’ insieme di “tecniche di choc” e

“terapie convulsivanti” che si erano massicciamente sviluppate negli anni 1930-1940. Il

modello preso in considerazione era l’epilessia: alcuni medici avevano constatato che

dopo una crisi così forte da scatenare il coma convulsivo, i disturbi dell’epilettico

risultavano come sospesi; mentre un lungo periodo di crisi causava complicazioni a

catena. Queste osservazioni suggerirono l’idea di provocare nel malato crisi artificiali di

coma epilettico.

Nel 1935 il dottor Ladislaus von Meduna, di Budapest, rese noto che tali crisi, indotte

con iniezioni di cardiazol, potevano influenzare favorevolmente anche il decorso di

psicosi depressive. Si decide così di provocare anche su pazienti non epilettici il coma

convulsivo. In questo filone si inserirono le ricerche condotte da Cerletti, il quale

considerava con preoccupazione gli inconvenienti legati all’impiego del cardiazol, e

parallelamente cercava di verificare se le lesioni riscontrate sul cervello degli epilettici

fossero causa o conseguenza delle crisi. Cerletti voleva sperimentare sugli animali i

risultati di crisi epilettiche provocate artificialmente per mezzo di scariche elettriche.

Egli era inizialmente convinto dell’impossibilità di somministrare all’uomo tali

scariche. Ma una visita al macello di Roma gli fece cambiare idea. Vide che i maiali da

uccidere venivano storditi da una scossa elettrica. L’animale cadeva a terra, folgorato, in

preda a convulsioni. Cerletti si accorse che l’elettricità non uccideva l’animale, ma lo

rendeva incosciente momentaneamente.

La bestia, dopo aver ricevuto la corrente alternata a 70-80 volt, stramazzava al suolo,

irrigidita, e poco dopo veniva presa da convulsioni. Non appena il maiale era sdraiato,

un inserviente lo colpiva pesantemente sulla nuca, e l’animale moriva senza aver ripreso

conoscenza.

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Ma i maiali che non venivano uccisi dopo la scarica, si rialzavano: su di loro l’elettricità

aveva provocato “soltanto” un coma epilettico. Osservando che la crisi convulsivante

provocata elettricamente è assimilabile a quella ottenuta col cardiazol, Cerletti ritenne

possibile applicare l’elettrochoc sull’uomo nella cura della psicosi. Insieme al collega

Bini, cominciò la sperimentazione delle scariche di corrente sui cani e nel 1938 passò

alla prima cavia umana: un alcolizzato di quarant’anni affetto da schizofrenia.

Su ciascuna tempia del paziente, coricato e legato nel tentativo di evitare fratture e

lussazioni, veniva applicato un elettrodo; dal momento in cui il passaggio di corrente

veniva aperto, e per tutto il tempo della scarica, il tronco, le membra e i muscoli della

faccia entravano in contrazione spasmodica. L’apparecchio comunemente utilizzato

forniva una corrente a circa cento volt per 0.5 secondi. Il paziente doveva essere tenuto

a digiuno per almeno tre ore prima dell’applicazione, avendo cura che avesse la vescica

vuota. Occorreva anche assicurarsi che fossero state rimosse eventuali protesi dentarie.

Durante la Seconda Guerra mondiale, la pratica dell’elettrochoc si diffuse in tutto il

mondo. I grandi ospedali psichiatrici pubblici cominciarono ad utilizzarlo

massicciamente, non tanto allo scopo di curare, quanto per rendere più docili i pazienti

indisciplinati o poco collaborativi.

Nel 1943, il professor Delay mise a punto una nuova tecnica: l’elettrochoc sotto narcosi.

Lo scopo era quello di evitare al malato la vista dei preparativi di contenzione, eludere

l’eventuale opposizione del paziente, e diminuire l’agitazione post-elettrochoc. La

tecnica così modificata viene oggi praticata in anestesia generale, e sotto il controllo

respiratorio, dal momento che l’apnea provocata dalla scarica elettrica è ulteriormente

rinforzata dall’effetto anestetico. L’elettrochoc, accolto all’inizio con entusiasmo suscitò

ben presto preoccupazione ed allarme. Già nel 1941 Jessner e Ryan ( Shock Treatment

in Psichiatry) dimostrarono l’azione distruttrice sul cervello causata dal trattamento. E

l’anno successivo Roy Grinker, eminente psichiatra americano, segnalò i rischi di

deterioramento mentale causato dalla somministrazione ripetuta di elettrochoc. A

queste prime denunce seguirono moltissime pubblicazioni che elencavano le gravi

conseguenze dell’elettrochoc, tra cui anche casi, segnalati dagli psichiatri Lapipe e

Rodenpierre, di “morte immediata a seguito di elettrochoc”. La cura dell’elettrochoc

riporta momentaneamente a zero lo psichismo di un malato provocandogli il coma,

realizzando una dissoluzione delle funzioni mentali che si può paragonare al crollo di

una casa che la ridurrà a mattoni sparsi. Quando cessa il coma, sopraggiunge una

ricostruzione dell’edificio mentale.

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Legge 14 febbraio 1904, n. 36.

Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati

(pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 43 del 22 febbraio 1904)

Art. 1.

Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa

da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico

scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché

nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente

legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati

di qualunque genere.

Può essere consentita dal Tribunale, sulla richiesta del procuratore del re, la cura in una

casa privata, e in tal caso la persona che le riceve e il medico che le cura assumono tutti

gli obblighi imposti dal regolamento.

Il direttore di un manicomio può sotto la sua responsabilità autorizzare la cura di un

alienato in una casa privata, ma deve darne immediatamente notizia al procuratore del re

e all'autorità di pubblica sicurezza.

Art. 2.

L'ammissione degli alienati nei manicomi deve essere chiesta dai parenti, tutori o

protutori, e può esserlo da chiunque altro nell'interesse degli infermi e della società.

Essa è autorizzata, in via provvisoria, dal pretore sulla presentazione di un certificato

medico e di un atto di notorietà, redatti in conformità delle norme stabilite dal

regolamento, ed in via definitiva dal tribunale in camera di consiglio sull'istanza del

pubblico ministero in base alla relazione del direttore del manicomio e dopo un periodo

di osservazione che non potrà eccedere in complesso un mese. Ogni manicomio dovrà

avere un locale distinto e separato per accogliere i ricoverati in via provvisoria.

L'autorità locale di pubblica sicurezza può, in caso di urgenza, ordinare il ricovero, in

via provvisoria, in base a certificato medico, ma è obbligata a riferirne entro tre giorni al

procuratore del re, trasmettendogli il cennato documento.

Tanto il pretore quanto l'autorità locale di pubblica sicurezza, nei casi suindicati,

debbono provvedere alla custodia provvisoria dei beni dell'alienato.

Con la stessa deliberazione dell'ammissione definitiva il tribunale, ove ne sia il caso,

nomina un amministratore provvisorio che abbia la rappresentanza legale degli alienati,

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secondo le norme dell'art. 330 del codice civile, sino a che l'autorità giudiziaria abbia

pronunziato sull'interdizione. E’ loro applicabile l'art. 2120 del codice civile. Il

procuratore del re deve proporre al tribunale, per ciascun alienato, di cui sia autorizzata

l'ammissione in un manicomio o la cura in una casa privata, i provvedimenti che

convenisse adottare in conformità delle disposizioni contenute nel titolo X, libro I, del

codice civile.

Art. 3.

Il licenziamento dal manicomio degli alienati guariti, è autorizzato. Con decreto del

presidente del tribunale sulla richiesta o del direttore del manicomio, o delle persone

menzionate nel primo comma dell'articolo precedente o della Deputazione provinciale.

Negli ultimi due casi dovrà essere sentito il direttore. Sul reclamo degli interessati il

presidente potrà ordinare una perizia. In ogni caso contro il decreto del presidente è

ammesso il reclamo al tribunale. Il direttore del manicomio può ordinare il

licenziamento, in via di prova, dell'alienato che abbia raggiunto un notevole grado di

miglioramento e ne darà immediatamente comunicazione al procuratore del re e

all'autorità di pubblica sicurezza.

Art. 4.

Il direttore ha piena autorità sul servizio interno sanitario e l'alta sorveglianza su quello

economico per tutto ciò che concerne il trattamento dei malati, ed è responsabile

dell'andamento del manicomio e della esecuzione della presente legge nei limiti delle

sue attribuzioni. esercita pure il potere disciplinare nei limiti del seguente articolo.

Alle sedute della Deputazione provinciale o delle commissioni e consigli

amministrativi, nelle quali debbansi trattare materie tecnico-sanitarie, il direttore del

manicomio interverrà con voto consultivo.

Art. 5.

I regolamenti speciali di ciascun manicomio dovranno contenere le disposizioni di

indole mista sanitaria ed amministrativa, come quelle relative alle nomine del personale

tecnico-sanitario, al numero degli infermieri in proporzione degli infermi, agli orari di

servizio e di libertà, ai provvedimenti disciplinari da attribuirsi secondo i casi, alla

competenza dell'amministrazione o del direttore, e ad altri provvedimenti dell'indole

suindicata. Detti regolamenti dovranno essere deliberati, sentito il direttore del

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manicomio, dell'Amministrazione provinciale dalla commissione amministrativa, se

trattisi di opera pia, e saranno approvati dal consiglio superiore di sanità con le forme e

modi stabiliti dall'art. 198 della legge comunale e provinciale.

Art. 6

Nulla è innovato alle disposizioni vigenti circa l'obbligo delle provincie di provvedere

alle spese pel mantenimento degli alienati poveri. La spesa pel trasporto di questi al

manicomio è a carico dei comuni nei quali essi si trovano nel momento in cui

l'alienazione mentale viene constatata; quella per ricondurli in famiglia è a carico della

provincia a cui incombeva l'obbligo del mantenimento; quella pel trasferimento da un

manicomio all'altro a carico della provincia che l'ha ordinato.

Le spese di qualunque genere per gli alienati esteri sono a carico dello Stato, salvo gli

effetti delle relative convenzioni internazionali. Le spese per gli alienati condannati o

giudicabili, ricoverati sia in manicomi giudiziari, sia in sezioni speciali di quelli comuni,

sono a carico dello Stato per i condannati fino al termine di espiazione della pena e pei

giudicabili fino al giorno in cui l'autorità giudiziaria dichiari non farsi luogo a

procedimento a carico di essi. Negli altri casi, compreso quello contemplato dall'art. 46

del codice penale, la competenza della spesa è regolata dalle norme comuni.

Art. 8

La vigilanza sui manicomi pubblici e privati e sugli alienati curati in casa privata è

affidata al ministro dell'interno ed ai prefetti. Essa è esercitata in ogni provincia da una

commissione composta dal prefetto, che la presiede, del medico provinciale e di un

medico alienista nominato dal ministro dell'interno.

Il ministro deve disporre ispezioni periodiche. E’ applicabile ai manicomi pubblici e

privati la disposizione dell'art. 35 della legge 22 dicembre 1888 sulla tutela dell'igiene e

della sanità pubblica. Le spese per le ispezioni ordinarie e straordinarie sono impostate

nel bilancio del Ministero dell'interno, salvo rimborso dalle amministrazioni interessate,

secondo le norme fissate dal regolamento, nel caso che siano constatate trasgressioni

delle disposizioni contenute nella presente legge e nel regolamento.

Alle dette amministrazioni è fatto salvo il regresso contro gli amministratori e gli

impiegati responsabili delle trasgressioni. Le controversie relative alla competenza di

tali spese, sono decise, anche nel merito, dalla IV sezione del Consiglio di Stato, in

camera di consiglio.

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Art. 9

Nel caso di gravi trasgressioni della presente legge e del relativo regolamento il prefetto,

senza pregiudizio delle sanzioni penali che fossero applicabili, può sentito il consiglio

provinciale di sanità, al quale è per l'oggetto aggregato il medico alienista, di cui

all'articolo precedente, sospendere o revocare l'autorizzazione di apertura e di esercizio

pei manicomi privati. Contro tale provvedimento è ammesso il ricorso al ministro

dell'Interno, il quale provvede, sentito il Consiglio di Stato o il Consiglio superiore di

sanità, a seconda dell'indole della controversia. Pei manicomi pubblici si provvede in

conformità della legge che regola l'ente, al quale appartengono.

Art. 10

Le disposizioni degli articoli 98 della legge 17 luglio 1890, n.6972, e 124 del

regolamento amministrativo 5 febbraio 1891, n.99, sono applicabili a tutti i manicomi

pubblici e privati

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Legge 13 maggio 1978, n. 180

Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori

(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 133 del 16 maggio 1978)

Art. 1

Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari.

Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato

possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari

obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti

dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico

e del luogo di cura.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o

istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti

la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate.

Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha diritto di

comunicare con chi ritenga opportuno.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono

essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da

parte di chi vi è obbligato.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del

sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico.

Art. 2

Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale.

Le misure di cui al secondo comma del precedente articolo possono essere disposte nei

confronti delle persone affette da malattie mentali.

Nei casi di cui al precedente comma la proposta di trattamento sanitario obbligatorio

può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se

esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi

non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che

consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere.

Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di

degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui

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all'ultimo comma dell'articolo 1 da parte di un medico della struttura sanitaria pubblica e

deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel precedente comma.

Art. 3

Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni

di degenza ospedaliera per malattia mentale.

Il provvedimento di cui all'articolo 2 con il quale il sindaco dispone il trattamento

sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, corredato dalla proposta

medica motivata di cui all'ultimo comma dell'articolo 1 e dalla convalida di cui

all'ultimo comma dell'articolo 2, deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero,

tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune.

Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli

eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare

il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il

sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di

degenza ospedaliera.

Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è disposto dal sindaco

di un comune diverso da quello di residenza dell'infermo, ne va data comunicazione al

sindaco di questo ultimo comune. Se il provvedimento di cui al primo comma del

presente articolo è adottato nei confronti di cittadini stranieri o di apolidi, ne va data

comunicazione al Ministero dell'interno e al consolato competente, tramite il prefetto.

Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo

giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio

psichiatrico di cui all'articolo 6 è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta

motivata al sindaco che ha disposto il ricovero, il quale ne dà comunicazione al giudice

tutelare, con le modalità e per gli adempimenti di cui al primo e secondo comma del

presente articolo, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso.

Il sanitario di cui al comma precedente è tenuto a comunicare al sindaco, sia in caso di

dimissione del ricoverato che in continuità di degenza, la cessazione delle condizioni

che richiedono l'obbligo del trattamento sanitario; comunica altresì la eventuale

sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso. Il sindaco, entro 48 ore dal

ricevimento della comunicazione del sanitario, ne dà notizia al giudice tutelare.

Qualora ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che

possono occorrere per conservare e per amministrare il patrimonio dell'infermo.

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La omissione delle comunicazioni di cui al primo, quarto e quinto comma del presente

articolo determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo

che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di

ufficio.

Art. 4

Revoca e modifica del provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio.

Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento

con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio.

Sulla richiesta di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. I

provvedimenti di revoca o di modifica sono adottati con lo stesso procedimento del

provvedimento revocato o modificato.

Art. 5

Tutela giurisdizionale. Chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque

vi abbia interesse, può proporre al tribunale competente per territorio ricorso contro il

provvedimento convalidato dal giudice tutelare.

Entro il termine di trenta giorni, decorrente dalla scadenza del termine di cui al secondo

comma dell'articolo 3, il sindaco può proporre analogo ricorso avverso la mancata

convalida del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio.

Nel processo davanti al tribunale le parti possono stare in giudizio senza ministero di

difensore e farsi rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce al ricorso o

in atto separato. Il ricorso può essere presentato al tribunale mediante raccomandata con

avviso di ricevimento.

Il presidente del tribunale fissa l'udienza di comparizione delle parti con decreto in calce

al ricorso che, a cura del cancelliere, è notificato alle parti nonché al pubblico ministero.

Il presidente del tribunale, acquisito il provvedimento che ha disposto il trattamento

sanitario obbligatorio e sentito il pubblico ministero, può sospendere il trattamento

medesimo anche prima che sia tenuta l'udienza di comparizione.

Sulla richiesta di sospensiva il presidente del tribunale provvede entro dieci giorni.

Il tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, dopo aver

assunto informazioni e raccolte le prove disposte di ufficio o richieste dalle parti.

I ricorsi ed i successivi procedimenti sono esenti da imposta di bollo. La decisione del

processo non è soggetta a registrazione.

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Art. 6

Modalità relative agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di

degenza ospedaliera per malattia mentale.

Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono

attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extra ospedalieri.

A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge i trattamenti sanitari per malattie

mentali che comportino la necessità di degenza ospedaliera e che siano a carico dello

Stato o di enti e istituzioni pubbliche sono effettuati, salvo quanto disposto dal

successivo articolo 8, nei servizi psichiatrici di cui ai successivi commi.

Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, anche con riferimento agli

ambiti territoriali previsti dal secondo e terzo comma dell'articolo 25 del decreto del

Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, individuano gli ospedali generali nei

quali, entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, devono essere

istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura.

I servizi di cui al secondo e terzo comma del presente articolo - che sono ordinati

secondo quanto è previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969,

n. 128, per i servizi speciali obbligatori negli ospedali generali e che non devono essere

dotati di un numero di posti letto superiore a 15 - al fine di garantire la continuità

dell'intervento sanitario a tutela della salute mentale sono organicamente e

funzionalmente collegati, in forma dipartimentale con gli altri servizi e presìdi

psichiatrici esistenti nel territorio.

Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano individuano le istituzioni

private di ricovero e cura, in possesso dei requisiti prescritti, nelle quali possono essere

attuati trattamenti sanitari obbligatori e volontari in regime di ricovero.

In relazione alle esigenze assistenziali, le province possono stipulare con le istituzioni di

cui al precedente comma convenzioni ai sensi del successivo articolo 7.

Art. 7

Trasferimento alle regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera

psichiatrica.

A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge le funzioni amministrative

concernenti la assistenza psichiatrica in condizioni di degenza ospedaliera, già esercitate

dalle province, sono trasferite, per i territori di loro competenza, alle regioni ordinarie e

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a statuto speciale. Resta ferma l'attuale competenza delle province autonome di Trento e

di Bolzano.

L'assistenza ospedaliera disciplinata dagli articoli 12 e 13 del decreto-legge 8 luglio

1974, numero 264, convertito con modificazioni nella legge 17 agosto 1974, n. 386,

comprende i ricoveri ospedalieri per alterazioni psichiche. Restano ferme fino al 31

dicembre 1978 le disposizioni vigenti in ordine alla competenza della spesa.

A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge le regioni esercitano anche nei

confronti degli ospedali psichiatrici le funzioni che svolgono nei confronti degli altri

ospedali.

Sino alla data di entrata in vigore della riforma sanitaria, e comunque non oltre il 1°

gennaio 1979, le province continuano ad esercitare le funzioni amministrative relative

alla gestione degli ospedali psichiatrici e ogni altra funzione riguardante i servizi

psichiatrici e di igiene mentale.

Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano programmano e coordinano

l'organizzazione dei presidi e dei servizi psichiatrici e di igiene mentale con le altre

strutture sanitarie operanti nel territorio e attuano il graduale superamento degli ospedali

psichiatrici e la diversa utilizzazione delle strutture esistenti e di quelle in via di

completamento. Tali iniziative non possono comportare maggiori oneri per i bilanci

delle amministrazioni provinciali.

E' in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente

esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli

ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o

sezioni neurologiche o neuropsichiatriche.

Agli ospedali psichiatrici dipendenti dalle amministrazioni provinciali o da altri enti

pubblici o dalle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza si applicano i divieti di

cui all'articolo 6 del decreto-legge 29 dicembre 1977, n. 946, convertito con

modificazioni nella legge 27 febbraio 1978, n. 43.

Ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura degli ospedali generali, di cui all'articolo 6, è

addetto personale degli ospedali psichiatrici e dei servizi e presidi psichiatrici pubblici

extra ospedalieri.

I rapporti tra le province, gli enti ospedalieri e le altre strutture di ricovero e cura sono

regolati da apposite convenzioni, conformi ad uno schema tipo, da approvare entro

trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministro

della sanità di intesa con le regioni e l'Unione delle province di Italia e sentite, per

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quanto riguarda i problemi del personale, le organizzazioni sindacali di categoria

maggiormente rappresentative.

Lo schema tipo di convenzione dovrà disciplinare tra l'altro il collegamento organico e

funzionale di cui al quarto comma dell'articolo 6, i rapporti finanziari tra le province e

gli istituti di ricovero e l'impiego, anche mediante comando, del personale di cui

all'ottavo comma, del presente articolo.

Con decorrenza dal 1° gennaio 1979 in sede di rinnovo contrattuale saranno stabilite

norme per la graduale omogeneizzazione tra il trattamento economico e gli istituti

normativi di carattere economico del personale degli ospedali psichiatrici pubblici e dei

presidi e servizi psichiatrici e di igiene mentale pubblici e il trattamento economico e gli

istituti normativi di carattere economico delle corrispondenti categorie del personale

degli enti ospedalieri.

Art. 8

Infermi già ricoverati negli ospedali psichiatrici.

Le norme di cui alla presente legge si applicano anche agli infermi ricoverati negli

ospedali psichiatrici al momento dell'entrata in vigore della legge stessa.

Il primario responsabile della divisione, entro novanta giorni dalla entrata in vigore

della presente legge, con singole relazioni motivate, comunica al sindaco dei rispettivi

comuni di residenza, i nominativi dei degenti per i quali ritiene necessario il

proseguimento del trattamento sanitario obbligatorio presso la stessa struttura di

ricovero, indicando la durata presumibile del trattamento stesso. Il primario

responsabile della divisione è altresì tenuto agli adempimenti di cui al quinto comma

dell'articolo 3.

Il sindaco dispone il provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio in condizioni

di degenza ospedaliera secondo le norme di cui all'ultimo comma dell'articolo 2 e ne dà

comunicazione al giudice tutelare con le modalità e per gli adempimenti di cui

all'articolo 3.

L'omissione delle comunicazioni di cui ai commi precedenti determina la cessazione di

ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un

delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio.

Tenuto conto di quanto previsto al quinto comma dell'articolo 7 e in temporanea deroga

a quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 6, negli attuali ospedali psichiatrici

possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta, esclusivamente coloro che

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vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e

che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera.

Art. 9

Attribuzioni del personale medico degli ospedali psichiatrici.

Le attribuzioni in materia sanitaria del direttore, dei primari, degli aiuti e degli assistenti

degli ospedali psichiatrici sono quelle stabilite, rispettivamente, dagli articoli 4 e 5 e

dall'articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969, n. 128.

Art. 10

Modifiche al codice penale. Nella rubrica del libro III, titolo I, capo I, sezione III,

paragrafo 6 del codice penale sono soppresse le parole: "di alienati di mente".

Nella rubrica dell'articolo 716 del codice penale sono soppresse le parole: "di infermi di

mente o". Nello stesso articolo sono soppresse le parole: "a uno stabilimento di cura o".

Art. 11

Norme finali.

Sono abrogati gli articoli 1, 2, 3 e 3-bis della legge 14 febbraio 1904, n. 36, concernente

Disposizioni sui manicomi e sugli alienati e successive modificazioni, l'articolo 420 del

codice civile, gli articoli 714, 715 e 717 del codice penale, il n. 1 dell'articolo 2 e

l'articolo 3 del testo unico delle leggi recanti norme per la disciplina dell'elettorato attivo

e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali, approvato con decreto del Presidente

della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223, nonché ogni altra disposizione incompatibile

con la presente legge.

Le disposizioni contenute negli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9 della presente legge

restano in vigore fino alla data di entrata in vigore della legge istitutiva del servizio

sanitario nazionale.

Fino a quando non si provvederà a modificare, coordinare e riunire in un testo unico le

disposizioni vigenti in materia di profilassi internazionale e di malattie infettive e

diffusive, ivi comprese le vaccinazioni obbligatorie, sono fatte salve in materia di

trattamenti sanitari obbligatori le competenze delle autorità militari, dei medici di porto,

di aeroporto e di frontiera e dei comandanti di navi o di aeromobili.

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Simone Cristicchi Ti regalerò una rosa

La canzone fa parte dell'album Dall'altra parte del cancello pubblicato nel 2007 e

vincitrice del 57º Festival di Sanremo. Cristicchi rielabora in questa poesia le emozioni

e le storie che ha ascoltato durante una visita al manicomio di Girifalco:

Ti regalerò una rosa,

una rosa rossa per dipingere ogni cosa,

una rosa per ogni tua lacrima da consolare,

e una rosa per poterti amare.

Ti regalerò una rosa,

una rosa bianca come fossi la mia sposa,

una rosa bianca che ti serva per dimenticare

ogni piccolo dolore.

Mi chiamo Antonio e sono matto,

sono nato nel '54 e vivo qui da quando ero bambino,

credevo di parlare col demonio

così mi hanno chiuso quarant'anni dentro a un manicomio.

Ti scrivo questa lettera perché non so parlare,

perdona la calligrafia da prima elementare,

e mi stupisco se provo ancora un'emozione

ma la colpa è della mano che non smette di tremare.

Io sono come un pianoforte con un tasto rotto,

l'accordo dissonante di un'orchestra di ubriachi,

e giorno e notte si assomigliano

nella poca luce che trafigge i vetri opachi.

Me la faccio ancora sotto perché ho paura,

per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura,

puzza di piscio e segatura,

questa è malattia mentale e non esiste cura.

Ti regalerò una rosa,

una rosa rossa per dipingere ogni cosa,

una rosa per ogni tua lacrima da consolare,

e una rosa per poterti amare.

Ti regalerò una rosa,

una rosa bianca come fossi la mia sposa,

una rosa bianca che ti serva per dimenticare

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ogni piccolo dolore.

I matti sono punti di domanda senza frase,

migliaia di astronavi che non tornano alla base,

sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole,

i matti sono apostoli di un Dio che non li vuole.

Mi fabbrico la neve col polistirolo,

la mia patologia è che son rimasto solo,

ora prendete un telescopio, misurate le distanze

e guardate tra me e voi, chi è più pericoloso?

Dentro ai padiglioni ci amavamo di nascosto

ritagliando un angolo che fosse solo il nostro,

ricordo i pochi istanti in cui ci sentivamo vivi

non come le cartelle cliniche stipate negli archivi.

Dei miei ricordi sarai l'ultimo a sfumare,

eri come un angelo legato ad un termosifone,

nonostante tutto io ti aspetto ancora

e se chiudo gli occhi sento la tua mano che mi sfiora.

Ti regalerò una rosa,

una rosa rossa per dipingere ogni cosa,

una rosa per ogni tua lacrima da consolare,

e una rosa per poterti amare.

Ti regalerò una rosa,

una rosa bianca come fossi la mia sposa,

una rosa bianca che ti serva per dimenticare

ogni piccolo dolore.

Mi chiamo Antonio e sto sul tetto,

cara Margherita sono vent'anni che ti aspetto.

I matti siamo noi quando nessuno ci capisce,

quando pure il tuo migliore amico ti tradisce.

Ti lascio questa lettera, adesso devo andare,

perdona la calligrafia da prima elementare.

E ti stupisci che io provi ancora un'emozione?

Sorprenditi di nuovo perché Antonio sa volare.

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Ginevra Freni – San Salvi, da Istituzione Totale a dirompente linguaggio di comunicazione sociale p.143/147

Bibliografia

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Il Giornale, <www.ilgiornale.it>

La Repubblica, <www.larepubblica.it>

La Nazione, <www.lanazione.it>

Il Corriere Fiorentino <www.ilcorrierefiorentino.it>

L’Unità <www.unita.it>

Comitato San Salvi chi può <firenzecomitatosansalvi.blogspot.it>

Chille de la Balanza <www.chille.it>