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Storia delle codificazioni moderne 2012- parte I · Le Costituzioni piemontesi e quelle modenesi...
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Storia delle codificazioni moderne 2012- parte I
Sommario
I codici tra attualità e storia. Problemi e principi della 'codificazione' come strumento di certezza del
diritto. ................................................................................................................................................... 3 Gli antefatti: la crisi del sistema di diritto comune. Il particolarismo giuridico oggettivo e
soggettivo. ............................................................................................................................................ 8 Le prime riforme e le 'consolidazioni' ................................................................................................ 12
Le ordonnances francesi ................................................................................................................. 12 Le Costituzioni piemontesi e quelle modenesi .............................................................................. 15 Consolidazioni e codici: categorie ancora attuali? ......................................................................... 17
Le ultime riforme legislative dell’Europa pre-illuministica .............................................................. 20 I ‘codici’ bavaresi ........................................................................................................................... 20
L’esperienza svedese ...................................................................................................................... 20
Illuminismo, Illuminismo giuridico e codificazione .......................................................................... 22 Montesquieu ................................................................................................................................... 26
Voltaire........................................................................................................................................... 27 Jean-Jacques Rousseau .................................................................................................................. 31
L’Illuminismo italiano ....................................................................................................................... 33 Gaetano Filangieri .......................................................................................................................... 34 Pietro Verri ..................................................................................................................................... 35
Cesare Beccaria (Milano 1738-1794) ................................................................................................ 38
Le codificazioni illuministiche di fine Settecento. Prussia e Austria ................................................ 41 La Lombardia austriaca e la codificazione penale ......................................................................... 50
Costituzioni e codici........................................................................................................................... 51
Le carte costituzionali degli Stati Uniti d’America ....................................................................... 51
Le carte costituzionali della Rivoluzione francese ........................................................................ 55 Il droit intermediaire I. Giustizia e diritto penale............................................................................... 59
Nuovi istituti giudiziari .................................................................................................................. 59
L’attività di codificazione rivoluzionaria ........................................................................................... 64 Il codice penale .............................................................................................................................. 64
Il codice dei delitti e delle pene ..................................................................................................... 69 Il droit intermediaire II. Il diritto civile e i progetti di codice ............................................................ 72
Le riforme della Rivoluzione in materia sociale ed economica ..................................................... 72
La famiglia tra il 1789 ed il 1804 .................................................................................................. 77 I progetti di codice civile ............................................................................................................... 80
Verso il code civile des Français ........................................................................................................ 87 Il codice Napoleone: struttura e contenuti ......................................................................................... 91
Gli ‘altri’ codici napoleonici: il diritto penale, la procedura, il diritto commerciale ....................... 102 La codificazione civile in Italia. Dalla Rivoluzione alla Restaurazione .......................................... 104
I progetti delle ‘Repubbliche giacobine’ .......................................................................................... 104 Il codice civile francese in Italia ...................................................................................................... 106 I codici degli Stati preunitari ............................................................................................................ 107 Il codice civile austriaco: iter formativo e caratteristiche ................................................................ 112 Codici civili a confronto: struttura ................................................................................................... 117
I lavori preparatori del codice civile unitario (1859-1865) .............................................................. 118 Struttura e contenuti del codice Pisanelli ......................................................................................... 124
Il diritto di famiglia ...................................................................................................................... 126 L’ applicazione del codice civile nella società italiana dell’Ottocento ............................................ 131
Il diritto di famiglia ...................................................................................................................... 131
Le materie economiche e sociali .................................................................................................. 135 Il nuovo codice di commercio .......................................................................................................... 136
L’unificazione del diritto penale in Italia ......................................................................................... 137 I codici penali preunitari .............................................................................................................. 138
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I lavori preparatori ....................................................................................................................... 142
Il codice Zanardelli e il contributo della scienza giuridica: scuola classica e scuola positiva ......... 145
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I codici tra attualità e storia. Problemi e principi della 'codificazione' come strumento di
certezza del diritto.
Attualmente nel nostro sistema legislativo sono in vigore 5 codici principali (senza contare
quelli speciali come ad esempio quelli militari o quello della strada), cioè, come si sa, quelli civile,
penale, di procedura civile, di procedura penale, e della navigazione. Nelle librerie giuridiche
peraltro abbondano volumi più o meno tascabili con le più varie denominazioni, dal codice del
condominio a quello amministrativo a quello urbanistico a quello dei beni culturali etc.; inoltre nella
terminologia corrente questo nome è usato assai spesso con i significati più diversi.
Che differenza c'è tra i vari tipi i testi e, se c'è, qual' è la sua importanza ?
Ed ancora, quali caratteristiche distinguono un codice ad esempio da un Testo Unico,
definizione utilizzata ancora oggi con una certa frequenza dal Legislatore per i propri interventi
riformatori di una certa ampiezza e rilevanza e che spesso di fatto sono talora denominati anch’essi
‘codici’ (qualcuno di quelli citati prima, ad esempio il cosiddetto Codice dei Beni Culturali, è in
realtà un riordino di leggi esistenti ed andrebbe quindi considerato più un Testo Unico che un
codice in senso stretto) ? Quale è oggi il ruolo dei codici all'interno di questo complesso sistema
delle fonti normative ?
Una significativa parte di questi quesiti può trovare risposta o può ricevere chiarimenti di
rilievo con uno sguardo al momento in cui i codici sono entrati per la prima volta nel nostro sistema
giuridico, carichi dell' entusiasmo di coloro che per essi avevano combattuto una vera e propria
battaglia in nome del progresso, dell'equità e della giustizia.
Quel momento si verifica, in tutta l'Europa continentale, tra gli ultimissimi anni del 1700 ed
i primi del XIX secolo.
Ad essere nuovo in realtà non è tanto il termine codice, che anzi è antichissimo, ma il
significato che ad esso si assegna. Nel corso della storia del diritto romano e poi del diritto
medievale e moderno, il nome codice è infatti stato attribuito a molte opere giuridiche e/o
legislative, ma nel particolare momento storico che ruota intorno alle ideologie illuministiche ed
alla rivoluzione francese, si è attribuito a queste opere legislative un nuovo significato e un nuovo
valore.
Il vocabolo codex significa per i romani semplicemente libro (anzi letteralmente ‘tronco’,
poiché originariamente si scriveva su tavolette di legno incerate) con una forma simile a quella
odierna (cioè compatto e cucito sul dorso), che lo distingueva dall'uso, più comune ma con alcuni
inconvenienti pratici, dei rotoli (di pergamena o papiro), per i quali si usava il termine volumen.
Proprio perché evocativo di un insieme di fogli riuniti, il termine codice fu poi traslato ed
usato nel periodo del tardo impero romano a significare ‘raccolta’ e in particolare ‘raccolta di leggi’.
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Già in questo periodo fiorivano dunque i ‘codici’ che tuttavia erano opere di portata e di
valore assai diverso. Occorre in particolare distinguere i testi che erano frutto del lavoro di un
privato giureconsulto, che, per rispondere alle necessità della pratica, si era preoccupato di reperire
e riunire le molteplici leggi emanate nel corso degli anni dagli imperatori, raccogliendole appunto in
un unico libro per facilitarne la consultazione (le due opere più celebri di questo tipo erano state
scritte probabilmente negli ultimi anni del III secolo sotto Diocleziano e ci sono note con il nome di
Codex Gregorianus e di Codex Hermogenianus), dalle opere ufficiali con le quali un imperatore
ordinava la raccolta di leggi già vigenti, proprie e dei predecessori, leggi che tuttavia venivano non
solo riunite ma anche modificate e ritoccate ed entravano in vigore nel nuovo testo unitario,
soppiantando le stesure preesistenti. Le più importante di queste opere furono nel V secolo (a. 438)
il Codex Theodosianus, voluto appunto dall'imperatore Teodosio II, contiene appunto solo le leggi
che, pubblicate da Costantino in poi, dovevano ritenersi ancora in vigore. Cento anni dopo vi fu poi
la grandissima opera di Giustiniano che, in seno al suo piano di completa riforma legislativa, inserì
appunto un nuovo Codex (approntato nel 529 e ritoccato nel 534), che dal momento della sua
entrata in vigore abrogava il precedente.
Questo cenno alle opere chiamate nell'antichità ‘codici’, ci consente di cogliere da una parte
la variabilità di uso di questo termine, che perciò induce a una certa cautela nel valutare poi
l'effettivo contenuto e la reale portata di un testo così denominato, ma dall'altra ci mostra anche un
elemento importante che accomuna nel corso dei secoli questi testi, o meglio una delle motivazioni
che stanno alla base e all'origine di queste ‘imprese’, più o meno difficili e delicate: l'esigenza di
dare CERTEZZA al diritto vigente in un certo ordinamento.
Proprio con questo obiettivo e con questa meta, anche nel corso dell'età moderna si sono
susseguite in tutta Europa redazioni private o predisposte per ordine sovrano e chiamate appunto
‘codici’; ancora una volta il termine indica in realtà a volte semplici raccolte, più o meno parziali, di
materiale normativo vario, disposto in ordine semplicemente cronologico o suddivise più o meno
organicamente in base alla materia per la meritoria ricerca di qualche esperto giureconsulto; altre
volte invece furono i re o comunque i Governi a ordinare queste redazioni per dare più chiarezza ed
anche più forza al proprio diritto. In questo secondo tipo di opere la varietà di contenuti può venire
dal fatto che le leggi possono essere solo radunate e ordinate (cronologicamente o in modo
sistematico) ma possono anche essere coordinate, modificate, ritoccate o anche affiancate a norme
del tutto nuove e promulgate per la prima volta in seno al testo del ‘codice’.
Se dunque è impossibile utilizzare il solo termine ‘codice’ per classificare tutti questi testi
che compaiono numerosi soprattutto nel corso del Seicento e del Settecento nei diversi Stati
europei, vi è però un momento storico in cui questa parola acquista un significato nuovo e diverso,
capace di evocare una vera e propria svolta epocale dal punto di vista della storia giuridica e non
solo.
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Questo passaggio avviene in particolare a cavallo tra XVIII e XIX secolo allorché con il
termine codice si comincia ad indicare (e ad invocare !!) una legge, o meglio un insieme organico di
norme, che disciplini in modo unitario ed uniforme un intero settore del diritto, anzi che costituisca
l'unica normativa atta a disciplinare in modo completo, esauriente ed esclusivo quel settore,
considerando eventuali deroghe solo come delle eccezioni. In particolare il codice per eccellenza è
quello civile, perché segnala per la prima volta la scelta politica di ‘dominare’ il settore dei rapporti
tra privati: «solo dimostrando di poter dominare la materia del diritto privato il codice si è
definitivamente consacrato come forma principe di legislazione … Qualunque legislatore, per
quanto barbaro o imbecille esso sia, è capace di comandare certe condotte, vietarne altre e
promettere pene a chi non si adegui ai suoi ordini. Circoscrivere le fonti dell’obbligazione è
problema diverso»1.
Vedremo più da vicino e in dettaglio il significato e l'origine di questa definizione che per
lungo tempo è stata ripetuta e quasi ‘sbandierata’ da tutti i manuali e i testi giuridici; nel
ripercorrerne il cammino potremo così anche verificare se essa, pur essendo ancora ben presente in
molte enciclopedie e opere giuridiche attuali2, sia in grado di rappresentare il vero significato dei
nostri vigenti codici e anzi, più radicalmente, se essa abbia mai realmente rappresentato la realtà dei
codici o se essa rispecchi piuttosto le aspirazioni e le ‘illusioni’ che hanno portato quasi a
‘mitizzare’ il codice stesso.
Per indicare il processo che ha portato a questa concezione si utilizza appunto il vocabolo
codificazione; il termine venne utilizzato pare per la prima volta nel 1789, quasi paradossalmente,
da un giurista inglese, appartenente dunque a un'area geografica che, pressoché unica almeno in
Europa, non ha conosciuto i codici nel senso qui indicato (anzi, il processo di codificazione è in
qualche modo uno degli elementi distintivi della tradizione di civil law): Jeremy Bentham.
Egli descrive la codificazione come lo strumento per realizzare la «massima felicità per il
maggior numero possibile (the gratest happines for the greatest number)» di cittadini, grazie ad
alcune fondamentali caratteristiche quali la completezza (il codice deve essere esaustivo, all
comprehensive: deve ricomprendere la totalità del ramo di diritto disciplinato), la chiarezza e
concisione delle formulazioni precettive, la compattezza (compactness: si può tradurre forse con
‘maneggevolezza’, cioè l’insieme di esaustività e concisione) e infine la conoscibilità
(cognoscibility: per farlo capire a tutti Bentham propone di accompagnare il codice con un testo
complementare che contenga le motivazioni esplicative del codice). Egli insiste insomma sul fatto
che il diritto giurisprudenziale vigente in Inghilterra come nel continente, sia pure sotto aspetti
diversi, deve essere sostituito da una «redazione completa» di norme, tale per cui «tutto ciò che non
1 A. GAMBARO, voce Codice civile, in Digesto delle Discipline privatistiche, II (1988), pp. 442-457.
2 Non è un caso peraltro che enciclopedie di rilievo come l' Enciclopedia del diritto edita dalla Giuffrè rinuncino del
tutto a una qualche definizione generale limitandosi ad offrire una voce storica che dia un cenno del percorso di nascita
del codice (cfr. V. Piano Mortari, voce codice (premessa storica) in Enc. Dir., VII, Milano 1960, pp. 228-236).
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è nel corpo di leggi non sarà legge» (non si potranno quindi più richiamare gli usi, i diritti stranieri,
il «preteso diritto naturale» o il preteso «diritto delle genti»).
In questo senso il processo di codificazione ha riguardato sia il diritto privato nelle sue
diverse ramificazioni (codice civile, di commercio, della navigazione) sia il diritto penale, sia quello
processuale, ma anche, sia pure in un modo e con significato in parte diverso, il diritto
costituzionale, con la redazione di Carte dei diritti e Costituzioni.
Per tornare alla nozione di codice come insieme unitario ed esauriente di norme che
disciplinano un settore, si può cercare di comprenderne la portata originaria dando voce ad una
perplessità che forse può già essersi affacciata: per uno studente di giurisprudenza può infatti, mi
pare, risultare in qualche misura sconcertante imbattersi ad esempio in un codice civile, che, come
accennato, è stato il perno di quest’attività di legislazione volta a regolare in via generale i diritti e
gli obblighi dei cittadini (anche in materia di contrattazione e di famiglia), e che ora si trova ad
essere una fonte tutt'altro che principale quando si debba individuare la disciplina di importantissimi
istituti ed interi settori del diritto civile, dai contratti (cfr. per esempio le locazioni, i c.d. nuovi
contratti, i contratti di lavoro etc.) alla famiglia (cfr. ad esempio adozione o divorzio).
Così come – si accennava e vedremo meglio più avanti – è stata la redazione del codice
civile a porre questa forma legislativa in posizione dominante, allo stesso modo i «dubbi recenti
sulla codificazione come forma superata di legislazione vengono costantemente alimentati da
esempi che comprovano la incapacità del codice civile a dominare la materia dei rapporti
patrimoniali tra privati» (Gambaro).
Tale situazione è stata vista infatti come una ‘perdita’, perdita di centralità e quindi anche di
importanza e persino di utilità dei codici, tanto che da molti anni, anche e soprattutto da parte della
scienza giuridica civilistica, si è aperta una forte discussione sulla eventualità che l'esperienza dei
codici sia da considerarsi ormai superata o abbia invece ancora un suo spazio e un suo ruolo (si è
coniato al riguardo il termine ‘decodificazione’).
A pesare su questo dibattito è forse, in realtà, proprio l'enfasi con cui per molto tempo si
associata all'idea di codice questa concezione di completezza, uniformità e quasi assolutezza. Ora, a
distanza di due secoli, possiamo meglio cogliere il contesto in cui tali idee sono nate e quindi
valutare con maggiore equilibrio i problemi e le sfide (ma anche le potenzialità) che la grande
complessità della società del XXI secolo presenta al legislatore ed all'interprete.
Un altro aspetto al quale dedicheremo qualche riflessione è quello del rapporto e
collegamento tra codificazione civile (e con essa anche penale, commerciale, processuale etc.), e
‘codificazione’ costituzionale.
I due percorsi non sono necessariamente collegati l’uno all’altro e non sempre infatti lo sono
stati nella storia.
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Per esempio, gli Stati Uniti d’America, i primi ad avere una codificazione, cioè una carta,
costituzionale, non hanno avuto codici civili, tranne l’eccezione della Lousiana (anch’essa
spiegabile storicamente).
Viceversa in Europa, nell’Ottocento, moltissimi paesi tra cui ad esempio l’Austria ma anche
gli Stati italiani preunitari, hanno avuto codici civili, penali etc., ma non hanno avuto costituzioni.
Eppure, benché storicamente non collegati in modo indissolubile, i due processi possono
vedersi collegati e lo sono stati, soprattutto se guardati attraverso prospettive ideologiche, cioè
chiedendosi quali operazioni politiche si sono realizzate, per poi giudicarle:
- un primo collegamento tra codificazione costituzionale e civile, ad esempio, è stato colto
dal punto di vista di una ideologia liberale. Si è cioè notato il collegamento storico tra le prime
costituzioni europee e un tipo particolare di codice, sotto il profilo del contenuto, «cioè un codice
civile che avesse come scopo la tutela del proprietario, della libera disponibilità della proprietà e
della iniziativa economica privata» (Tarello).
- un secondo collegamento è stato colto dal punto di vista dell’ideologia socialista: alcuni
ideologi hanno ipotizzato che costituzioni e codici civili svolgano una medesima funzione (che essi
giudicano negativamente). Imporrebbero cioè una formale uguaglianza politica (le costituzioni) e
civile ed economica (i codici civili) che coprirebbe, mistificando la realtà, una realtà di
disuguaglianza
E altri esempi si potrebbero portare…
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Gli antefatti: la crisi del sistema di diritto comune. Il particolarismo giuridico oggettivo e
soggettivo.
Al termine di una lunga evoluzione cominciata nel XII secolo, il sistema giuridico che
caratterizza quasi tutta l'Europa continentale nel Settecento è ormai in grave crisi, una crisi che
viene avvertita anche in quel tempo sia dai più attenti uomini di cultura, giuristi e non, sia dai
sovrani e, talvolta, anche dalla stessa popolazione.
Ricordiamo con pochi cenni quale è la situazione che si determina in quella che si cita
comunemente come crisi del sistema di diritto comune.
Sulla base fondamentale del diritto romano giustinianeo, al quale si affianca, in stretto
collegamento anche se con alcune differenze, il diritto canonico, si viene a costruire nel corso degli
anni un complesso sistema nel quale vengono ad inserirsi ed integrarsi anche molte altre fonti
normative di diversa provenienza, dagli statuti e consuetudini delle singole città (Comuni) o
località, alle leggi dei sovrani, che via via prendono sempre più potere, alle decisioni dei tribunali
supremi che in qualche modo vincolano l'orientamento degli interpreti, alle stesse opinioni dei più
illustri professori e giuristi che hanno un'autorevolezza tale da essere quasi legge esse stesse...
Il diritto comune, quando cambiano gli assetti sociali e politici d'Europa, non scompare
davanti a tutte queste altre fonti normative, ma 'scivola' in una posizione in qualche modo
secondaria. Si crea cioè una gerarchia di fonti nella quale la soluzione per i casi che si presentano
viene cercata prima, per esempio, nelle norme regie poi, se queste non prevedono nulla, magari
nello statuto della città, e solo se neppure questo dice nulla, nel diritto comune che rimane quindi
come sussidiario strumento essenziale perché per la sua ricchezza (aumentata dai fiumi di
interpretazioni che ormai lo accompagnano inseparabilmente come parte integrante della legge
stessa) consente di risolvere pressoché qualsiasi questione.
• La situazione è però molto complicata dal fatto che tutte queste norme non sono tra loro in
un rapporto sempre così chiaro e limpido ma spesso si sovrappongono, contraddicono, confondono,
e su tutte si intrecciano innumerevoli interpretazioni date dai giuristi i quali, grazie alle loro abili
tecniche interpretative riescono a sostenere qualunque tesi in opposizione ad altre senza che appaia
chiaramente quale sia la soluzione preferibile, nonostante i vari tentativi della stessa prassi
(communis opinio, usus fori etc.).
• Questa situazione viene definita dagli storici con il termine particolarismo. Il vocabolo,
come appare intuitivo, ha un'accezione negativa. A coniarlo furono infatti i giuristi positivisti
dell'Ottocento (e per il nostro percorso di comprensione del valore attribuito alla novità dei codici la
circostanza non è affatto irrilevante!) nell'intento proprio di esaltare il valore positivo dell'avvenuta
codificazione del diritto, in contrasto con la infelice situazione delle età precedenti. Il termine
‘particolarismo giuridico' indica dunque la mancanza di unitarietà e di coerenza dell'insieme delle
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leggi vigenti in una data sfera spazio-temporale nella quale invece ci si 'aspetterebbe' che vi fosse
unità e coerenza di leggi. Si comprende bene però come dietro questa definizione vi sia una sorta di
'giudizio di valore' che ci fa dire che appunto in una certa sfera le leggi 'dovrebbero' essere unitarie
e coerenti (per intenderci: nessuno potrebbe mai giudicare negativamente in assoluto il fatto che
p.es. le leggi italiane e cinesi siano diverse, mentre, oggi, ci potrebbe colpire una disuguaglianza o
una disorganicità tra norme vigenti a Padova e a Verona o Venezia; eppure nel 1200 nessuno
avrebbe avuto da ridire su ciò... Allo stesso modo non ci stupiamo di avere nel 2011 norme assai
diverse da quelle vigenti in questi stessi luoghi nel 1011 etc.).
Con queste cautele che uno storico deve tener ben presenti per evitare fraintendimenti e
confusioni, possiamo comunque ancora utilizzare il termine 'particolarismo' per indicare il fatto che
quella che era una, anche proficua e ricca, molteplicità di fonti (pluralismo) è, col passare del tempo
ed il continuo complicarsi delle situazioni, degenerata in una gran quantità di norme appunto
sovrapposte e confuse. In particolare il fatto che uno stesso caso sia, per esempio, diversamente
regolato in due città anche vicine che hanno ciascuna il suo statuto, e che magari il diritto comune
dica cose ancora diverse e le opinioni degli interpreti siano confuse etc., viene chiamato anche
particolarismo oggettivo perché, a complicare ancora, se possibile, la situazione, si aggiunge anche
un altro tipo di particolarismo: il particolarismo soggettivo.
Con questo termine si indica un altro aspetto tipico del diritto dal medioevo fino a tutto il
Settecento e che non è altro che il riflesso della società e della mentalità di quei tempi: le situazioni
cioè non erano regolate per tutti allo stesso modo ma con leggi diverse a seconda del ceto e
dell'ambiente di appartenenza dei soggetti coinvolti. In particolare leggi diverse vi erano per i
nobili rispetto al popolo, per gli ecclesiastici che erano non solo soggetti al diritto canonico ma
erano anche sempre giudicabili solo dai tribunali ecclesiastici, così come un loro diritto, creato dalle
loro corporazioni ed applicato dalle loro corti avevano pure i mercanti etc. (il particolarismo
soggettivo si aveva dunque sia dal punto di vista del diritto sostanziale sia dal punto di vista della
giurisdizione). Anche un semplice elenco delle fonti vigenti, ad esempio, nei vari Stati regionali
italiani tra la fine del '500 e la fine del '700 fa ben comprendere a quali livelli fosse giunta la
complicazione del sistema: la prima distinzione è, dunque, quella tra il diritto comune, sussidiario, e
i vari diritti particolari da applicarsi con precedenza su quello comune. In realtà però il rapporto tra
questi due tipi di diritti è meno lineare di quanto possa apparire a una prima lettura perché all'
interno dello stesso ius commune vi erano diverse componenti che non avevano un identico ruolo e
valore (il diritto feudale, per esempio, è in parte esso stesso diritto comune nella misura in cui era
stato accolto nel corpus iuris; anche il diritto canonico è diritto comune per eccellenza ma, proprio
per le sue caratteristiche, esso non svolge funzioni sussidiarie ma prevalenti e non ammette deroghe
da parte delle legislazioni particolari).
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Il coordinamento tra diritto comune e diritti particolari, tuttavia, nell'età moderna non
avviene più in modo 'diretto' ma richiede sempre l'interferenza dell'autorità; in mezzo cioè c'é la
legislazione sovrana e principesca che, in quanto normativa generale dello Stato ha la precedenza
assoluta su tutte le altre fonti. In particolare al binomio ius commune-iura propria la legge
principesca toglie tutto l'ampio ambito del diritto pubblico (amministrativo, fiscale, militare, in
parte penale etc.).
Vi era infine l'arbitrium giudiziale che interveniva in tutti i casi incerti.
Se questa situazione, essendo coerente con le strutture sociali e con la mentalità, per lungo
tempo non era stata affatto fonte di disagio o di scandalo, essa viene invece sentita come
fondamentalmente ingiusta ed inaccettabile con l'avanzare dell'età moderna e con l'emergere di
nuovi valori etico-sociali. Con il quadro che abbiamo delineato risulta però evidente con quale
lungo e difficile percorso si poté arrivare ad affermare l'idea che all'interno di uno Stato debba
vigere un unico diritto generale uguale per tutti. Questo presupponeva infatti l'uguaglianza giuridica
di tutti i consociati. Ecco allora l'importanza di quelle dottrine che, come il Giusnaturalismo e
l'Illuminismo, teorizzano proprio questa uguaglianza giuridica in nome di una uguaglianza naturale
di tutti gli uomini.
Già a partire dal Seicento e poi soprattutto nel Settecento il diritto comune comincia ad
essere visto come un diritto troppo vasto e controverso, nel quale il testo e il significato di una
norma, alla luce della interpretatio fattane dai giuristi, si dissolveva in una serie di opinioni
dottrinali diverse dalle quali di volta in volte il giudice traeva la soluzione per il caso singolo
attraverso un procedimento altamente discrezionale e arbitrario.
Si stigmatizza il fatto che il diritto comune era e restava monopolio dei giuristi poiché a loro
soltanto era affidata la sua "creazione" ed evoluzione attraverso appunto l'attività interpretativa; ciò
spingeva ormai molti a imputare a questa circostanza la 'fluidità', l'incertezza del suo contenuto.
Mancavano a dargli certezza sia atti ufficiali dell'autorità sia anche, almeno, un rigoroso sistema dei
precedenti che rendesse vincolanti in linea generale i precedenti giudiziali. Si vedeva ormai come
un limite anche la necessaria integrazione che il diritto comune aveva con i vari diritti locali.
Tutti questi aspetti vengono sempre più sentiti come elementi negativi, soprattutto sotto il
profilo della esigenza di certezza, che si faceva sempre più forte e che, palesemente, il diritto
comune non riusciva più a garantire per la sua complessità e per la sua struttura prevalentemente
casistica.
L'esigenza di certezza, in realtà, era stata presente anche nelle età precedenti ma, finché la
società condivideva l'idea che la gestione di questi problemi potesse e dovesse essere affidata ai
giuristi era stato possibile ricorrere anche con una certa efficacia a rimedi e soluzioni di creazione
appunto giurisprudenziale. Con il cambiare dell'assetto sociale e della mentalità corrente questi
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rimedi non soddisfano più, sono ritenuti sempre più discutibili e inefficaci proprio perché sta
emergendo l'idea dell'unità e soprattutto della statualità del diritto.
È su questi presupposti che si farà gradualmente strada l'idea della codificazione; l'idea cioè
che un codice emanato dalla autorità statale per ciascun ramo del diritto potesse adeguatamente
sostituire la confusa pluralità di fonti, costituendo un sistema di norme organico, razionale e
completo.
Ancor prima dell'emergere delle idee illuministiche, che daranno una forte spinta al
cambiamento sociale e giuridico, il malcontento e la protesta avevano già cominciato a diffondersi
ad opera di alcuni esponenti del mondo giuridico (non però i piccoli e medi rappresentanti del ceto
forense, sostanzialmente conservatori, né i giuristi preposti alle massime funzioni giudiziarie e
quindi detentori del potere, che difendono gli interessi sociali ed economici delle loro corporazioni,
quanto piuttosto quelle minoranze di intellettuali e professori universitari) ed anche (non però in
Italia) di alcuni strati dell'opinione pubblica (cfr. in Francia le assemblee degli stati generali) ed
avevano trovato una certa rispondenza nei programmi di riforma di alcuni sovrani più attenti.
Da varie parti sia da parte della popolazione, dove poté esprimersi, sia da parte dei giuristi
più colti e consapevoli, si invocava a vario titolo proprio l'intervento autoritativo del sovrano come
atto necessario a risolvere e gravi problemi di certezza del diritto.
Gli interventi in effetti vi furono, di diverso tipo e di portata più o meno radicale: un primo
genere, più limitato, è assai indicativo di una mentalità che da una parte riteneva ancora valido il
sistema di diritto comune, pur accogliendo le proteste antigiurisprudenziali: si hanno così le c.d.
leggi delle citazioni, volte a limitare la possibilità di allegare in giudizio e di citare nelle sentenze le
opinioni dei giuristi; tali atti, che nel 1700 arrivarono al totale divieto delle citazioni, mostrano la
lentezza e la fatica con la quale si andava gradualmente superando il sistema di diritto comune, pur
da tempo in crisi.
Le ragioni di ciò - è bene ricordarlo - non si devono soltanto alle incapacità dei sovrani
europei di attuare la loro politica o alle resistenze delle forze conservatrici, ma si deve soprattutto
tener presente il fatto che, se si era affermata l'idea di elaborare un sistema normativo unitario e
certo, non si era ancora maturata la convinzione che, per farlo, si dovesse sostituire integralmente
l'ordinamento tradizionale ancora in vigore; anzi, il sistema di diritto comune era ancora considerato
la base, la struttura indispensabile di qualsiasi sistema giuridico.
Questa considerazione è indispensabile per comprendere perché, al di là di ogni altra
considerazione contingente, tutti i numerosi tentativi di riordino e semplificazione delle fonti
mantennero un carattere in un certo senso incompleto e parziale.
Vi furono in effetti numerose iniziative che miravano alla raccolta, al riordino, alla
semplificazione delle leggi vigenti.
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Le prime riforme e le 'consolidazioni'
All'interno di questa varia casistica si distinguono tradizionalmente, in linea generale, due
tipi di norme:
a) compilazioni giuridiche realizzate o privatamente da singoli autori o ufficialmente per
ordine regio, che si limitano però a raccogliere il materiale giuridico esistente in repertori e
COLLEZIONI, con il solo scopo di facilitarne l'individuazione e il reperimento
b) opere più innovatrici, compiute per iniziativa sovrana e che costituiscono veri e propri
testi legislativi con valore ufficiale nei quali il diritto non è semplicemente raccolto ma risistemato
in modo razionale e organico, abrogando norme contrastanti o superate e aggiungendo precetti del
tutto nuovi. Qui anche le norme preesistenti, in quanto inserite in un nuovo schema, perdono la loro
vigenza originaria individuale perché, al posto delle singole leggi, ciò che diviene vigente e
operante è il nuovo testo nel suo complesso. Tale testo inoltre si presenta ovviamente come fonte
primaria all'interno dell'ordinamento e fa sì che vengano ad essere abrogate molte leggi preesistenti
che si occupavano di materie ora regolate dalla nuova compilazione. Questo secondo tipo
rappresenta certamente una profonda innovazione perché si pone con più decisione sulla strada
dell'unificazione e concentrazione delle fonti del diritto.
Le ordonnances francesi
Le prime in ordine cronologico, tra queste, si sono avute in Francia sotto il regno di Luigi
XIV e grazie al contributo del suo abile e potente Primo Ministro Jean Baptiste COLBERT.
Questi testi sono nuovi dal punto di vista tecnico, ma anche per il progetto politico da cui
nascono, anche se non possono ancora definirsi propriamente dei Codici in senso moderno.
Il progetto del re di Francia e del Colbert era quello di una vera e propria unificazione del
diritto francese. Lo dice il Ministro con chiarezza nel rapporto che egli presentò al sovrano nel 1665,
denominato Mémoire sur la réformation de la justice. I giuristi che affiancavano Luigi nel suo
programma di governo assolutistico avevano infatti chiaramente individuato nell’unificazione
accentrata del sistema giuridico, ad opera del re, un essenziale strumento di governo.
Le più importanti di queste opere furono quattro Ordonnances emanate tra gli anni Sessanta e
Ottanta del Seicento (+ una quinta in materia coloniale del 1685, il c. d. code noir):
1) l’ Ordonnance civile pour la réformation de la justice, promulgata nel 1667.
Interviene sull’ordinamento giudiziario e la procedura civile, allo scopo di uniformare, almeno sul
piano del rito, tutti i tribunali del regno. Ben consapevole del rischio che la sua stessa legislazione
sia poi ‘plasmata’ e adattata dalla giurisprudenza, il re vieta qualunque interpretazione del testo,
pretendendo che in caso di dubbi ci si rivolgesse direttamente al re per avere le precisazioni
necessarie. In tal modo vi era la sola autorità normativa regia e spariva l’attività della dottrina. Lo
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chiariscono bene, in particolare, gli articoli 7 e 8 dell’ordinanza stessa, precisando in modo tassativo
che:
“se, nel corso dei processi davanti ad un Parlamento o a un’altra Corte, sopravviene
qualche dubbio o difficoltà sull’esecuzione di qualche articolo di nostre ordinanze, editti,
dichiarazioni e lettere Patenti, (quindi sull’applicazione o sul testo di qualunque norma regia e
non solo sull’ordonnance in questione) vietiamo loro di interpretare ma vogliamo che in
questi casi si rivolgano a noi, per apprendere quale sarà la nostra intenzione”.
Dunque è vietata ogni interpretazione dottrinaria, ma dovrà essere interpellato il re per
conoscerne l’interpretazione. Di conseguenza (art. 8) saranno nulle le sentenze emanate
contrariamente a tale precetto ed i giudici che le avranno emanate saranno considerati responsabili
dei danni causati. L’ intervento è pesante, ma in verità, dopo lo sconcerto iniziale, viene ben presto
disatteso.
Sul piano della formulazione è certo un testo ben più innovativo delle precedenti
compilazioni-raccolta. È divisa in 35 titoli, formulati con norme chiare e brevi, concise.
2) Tre anni dopo, nel 1670, viene emanato il secondo provvedimento, l’Ordonnance
criminelle che ristruttura la procedura penale e la relativa struttura giudiziaria. Rappresenta un
notevole passo in avanti sul piano della certezza del diritto perché prevede che anche i tribunali
ecclesiastici e signorili seguono la stessa procedura di quelli reali; non arriva però ad una effettiva
unificazione della giurisdizione perché appunto questi tribunali signorili ed ecclesiastici rimangono
in vita e anche sul piano del diritto sostanziale permane la distinzione tra diritto penale comune e
diritti penali particolari.
Inoltre la procedura descritta nell’ordinanza, se aveva nella precisa e razionale formulazione
degli aspetti di modernità, era però durissima e quasi disumana nelle forme, nelle pene e nel limitare
le possibilità difensive degli imputati. Gli Illuministi l’avrebbero infatti duramente attaccata come
emblema dell’assolutismo di ancien régime.
Le più innovative e meglio riuscite, sia nelle tecniche di redazione sia nei contenuti sono le
due ordinanze relative alla materia commerciale:
3) nel 1673 l’Ordonnance du commerce formata da 12 titoli divisi in circa 120 articoli
formulati con estrema chiarezza e precisione e rielaborava tutta la materia commerciale. Con grande
intelligenza, nell’andare a toccare un settore che fino a quel momento era stato svincolato dalla
legislazione regia e che era monopolio della classe mercantile, si pensò proprio di coinvolgere le
varie corporazioni con i loro organi e rappresentanti; in particolare fu essenziale la consulenza di un
esperto mercante di Parigi, Jacques Savary, che partecipò ai lavori preparatori, tanto che questo
testo circolò anche con il nome di Code Marchand e di Code Savary. L’emanazione dell’ordinanza
rappresentava un passo assai importante perché realizzava la STATALIZZAZIONE del diritto
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commerciale la cui creazione, oltre che applicazione, era fin dall’origine opera delle corporazioni
con i loro statuti. Per la prima volta ora il sovrano ribadisce con forza di essere – almeno in via
tendenziale – l’unico legislatore in tutti i settori. Quella che non cambia è la caratteristica del diritto
commerciale di essere un diritto speciale dal punto di vista soggettivo. Cambia cioè la fonte delle
norme ma non cambiano i destinatari: il diritto commerciale non è ancora quello degli ‘atti di
commercio’ (lo diventerà solo con il codice) ma è ancora quello dei commercianti.
4) l’ultima ad essere emanata sotto il regno di Luigi XIV è l’ordonnance de la marine
(1681) che disciplina il diritto commerciale marittimo. Dal punto di vista della fattura è la più
perfetta; è un testo costruito con una struttura logica e armonica, con 5 libri divisi poi in titoli ed
articoli, che regolamentano la materia (prima disseminata in testi e fonti sparsi e diversissimi ed in
parte, addirittura, regolata solo da consuetudini) in modo completo. Fu così ben costruita da
rappresentare in effetti un modello essenziale per coloro che, più di 100 anni dopo, si accinsero a
redigere i codici, tanto che l’influsso di essa si può ritrovare perfino nei codici di diritto marittimo
odierni, come il Codice della navigazione italiano del 1942.
Dopo Luigi XIV, anche il successore, Luigi XV, opera, nella prima metà del ‘700, alcuni
interventi in ambito legislativo ed anche in questo caso molto del merito si deve al primo ministro
Henri François Daguesseau.
Egli è colpito dalle idee razionaliste di Domat, ma ha anche una concezione volontaristica che
lo avvicina a Pufendorf; è cioè convinto che la razionalizzazione del diritto non sia tanto
un’operazione dottrinale ma il risultato di un intervento incisivo della volontà sovrana.
Egli dunque è convinto (lo scrive nel suo Memoire sur la réformation de la justice) che sia
opportuna una unificazione e riformulazione delle leggi francesi e che possa nascere, in conseguenza
di ciò, una scienza giuridica nuova e una conoscenza del diritto più accessibile a tutti.
È tuttavia realisticamente convinto che tale risultato sia raggiungibile solo gradualmente e con
molta lentezza. La prima tappa di questo lungo e difficile percorso può essere costituita, secondo lui,
dall’emanazione di piccole riforme per settori specifici, da coordinare poi tra loro fino a completare il
rinnovamento.
Egli constata inoltre che i problemi del particolarismo giuridico si pongono sotto due piani
diversi:
- pluralità di norme
- diversità e arbitrarietà della giurisprudenza dei vari tribunali
Poiché l’obiettivo di unificare le troppe norme e coutumes sembra ancora troppo lontano e
quasi irraggiungibile allo stato delle cose, il Daguesseau fa predisporre alcune ordinanze con lo scopo
almeno di raggiungere il secondo obiettivo, cioè l’uniformità generale della giurisprudenza, da
ottenere fissando principi uniformi cui tutti i tribunali si dovessero ottenere. Attraverso, anche in
questo caso, un lungo lavoro preliminare fatto da un’ equipe di tecnici, consultando anche i
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Parlamenti e con la collaborazione del Procuratore generale del re Joly De Fleury, si giunse ad
approntare 3 ordinanze che regolavano, questa volta, alcuni istituti privatistici e puntando appunto
soprattutto ad evitare in questi settori – che erano tra i più delicati e controversi – la contraddittorietà
della giurisprudenza.
Furono emanate allora nel 1731 l’ordinanza sulle donazioni, nel 1735 l’ordinanza sui
testamenti e nel 1747 l’ordinanza sui fedecommessi.
È dunque importante la acquisita consapevolezza che una riforma dell’intero diritto civile era
impossibile se non attraverso un cambiamento radicale dell’intero sistema.
Le Costituzioni piemontesi e quelle modenesi
All’incirca nello stesso periodo in cui venivano preparate in Francia le Ordonnances del
Daguesseau, una riforma del diritto era stata avviata anche in Piemonte, ad opera del re di Sardegna
Vittorio Amedeo II di Savoia, grazie soprattutto alle idee innovatrici del Platzaert. L’acuto Ministro
suggeriva infatti al re di riformulare integralmente i testi non limitandosi a raccoglierli, ma cercando
di costruire un diritto nuovo, uniforme e coerente, e che esprimesse appieno la politica del sovrano.
Con questo intento venne dunque redatta una raccolta che sarà emanata in una prima edizione
nel 1723 con la denominazione di Leggi e Costituzioni di Sua Maestà il Re di Sardegna, più
comunemente nota come Costituzioni piemontesi.
Nel proemio si legge che
“e perché i saggi editti e gli ordinamenti de’ Reali Nostri Predecessori per le sottigliezze
de’ litiganti e pel cambiamento dei tempi, hanno variata sorte e vicenda, di modo che o non si
considerano o sono diversamente considerati, ci siamo risoluti di spiegare l’intrinseco loro senso e
sostanza, riducendoli in un limpido e breve compendio, acciochè uniti a quelle dichiarazioni e
ampli azioni che un lungo maneggio del Governo ci ha fatte conoscere per necessarie si stabilisca
una legge facile e chiara, e resa la spedizione degli affari più pronta, restino sepolte quelle inutili
superfluità che partorivano sì spessi i sì gravi sconcerti”.
Si tratta di un ampio complesso normativo, diviso in 5 libri, in vigore in tutti i territori del
regno tranne in Sardegna (poiché il trattato stipulato al momento dell’acquisto dell’isola vincolava il
sovrano al rispetto della legislazione e delle consuetudini vigenti nella regione):
1) Norme sull’osservanze del culto cattolico, sui non cattolici e in particolare sulle
limitazioni imposte agli ebrei
2) Giurisdizione e competenza degli organi giudiziari
3) Procedura civile
4) Diritto e procedura penale
5) Le maggiori novità: successioni, fedecommessi, tutela e curatela, pubblicità,
esecuzioni forzate
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Subito dopo questa edizione, fu avviata anche una revisione alla luce di precise istruzioni
formulate dal re stesso facendo proprie le idee del Platzaert; tali istruzioni indicavano alcuni obiettivi
essenziali da raggiungere:
Concisione precettiva nella formulazione delle norme
Generalità e astrattezza
Essenzialità e coerenza dei precetti
Chiarezza e omogeneità sistematica dei precetti
Esclusione di ogni arbitrio del giudice
Legalità e proporzionalità delle pene
Semplificazione delle leggi allo scopo di evitare liti inutili su cavilli legali.
Con questi criteri venne redatto il testo legislativo della seconda redazione delle Costituzioni
che uscì nel 1729, e nella quale, oltre ad aver affinato alcuni concetti, si inseriva pure un libro
6) contenente Norme sui diritti del re, sui feudi e sui privilegi fiscali.
Rispetto al diritto comune, le Costituzioni si pongono formalmente come una legge speciale e
quindi non intendono mutare il sistema e la pluralità delle fonti; in concreto però intervengono in
modo incisivo anche in alcuni settori fondamentali del diritto privato, come la disciplina dei fondi
agricoli e delle successioni e quindi sottraggono ampio spazio allo stesso diritto comune. Un
mutamento profondo veniva poi dal divieto di citazione delle autorità dottrinali nelle liti e nelle
sentenze, inserito esplicitamente, come visto, nel terzo libro.
La gerarchia rigorosa delle fonti che in esse veniva fissata prevedeva perciò al 1° posto le
stesse Costituzioni; poi, solo in caso di lacuna, si poteva ricorrere agli statuti locali e infine al diritto
comune. Si attribuiva però anche un ruolo importante alle sentenze dei tribunali centrali di Piemonte
e Savoia che si ponevano come vincolanti per i giudici inferiori.
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Un testo comunque piuttosto ben riuscito da questo punto di vista, affina a quello realizzato
in Piemonte (e che a sua volta viene revisionato, non a caso, una terza volta nel 1770 sotto re Carlo
Emanuele III) venne compilato proprio facendo tesoro delle idee del Muratori dal dica Francesco III
di Modena nel 1771: il Codice di Leggi e Costituzioni del ducato di Modena, detto anche Codice
Estense, anche se, come abbiamo più volte avvertito, non si tratta ancora di un codice in senso
moderno.
I contenuti delle varie disposizioni sono ben poco o per nulla innovativi; quanto al sistema
delle fonti, si precisa che con la promulgazione delle Costituzioni vengono abolite tutte le Leggi,
statuti, ordini etc. che risultassero in contrasto. Resta, come sussidiario, il solo diritto comune:
“abolendo Noi ed annullando quelle leggi Statuti Ordinazioni e Pratiche, le quali o in tutto o in parte
si opponessero a quanto è stato disposto e prescritto in questo nostro Codice”.
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La novità più grossa è rappresentata dal modo con cui si prevede debba avvenire la
risoluzione di eventuali dubbi interpretativi: «Vogliamo – dice il Duca nella Patente di
promulgazione – che il Nostro Supremo Consiglio di Giustizia ne sia l’interprete e che le di lui
Dichiarazioni si dieno al fine di ciascun anno alle stampe, perché passino alla notizia del Pubblico,
il quale dovrà osservarle, come se fossero fatte da Noi medesimi»3.
Si è così in sostanza introdotto un istituto nuovo, il Supremo Consiglio di Giustizia, appunto,
che è il prototipo di altri organi simili destinati a diffondersi in Europa. E’ infatti previsto come un
organo speciale, distinto dalle magistrature ordinarie e direttamente collegato con il Sovrano inteso
quale depositario del potere legislativo, con la funzione di risolvere in modo autoritativo, con atti di
interpretazione autentica (le ‘Dichiarazioni’) i dubbi interpretativi sulla legge, secondo una linea di
politica che va verso la separazione del sistema legislativo da quello giudiziario.
Dal punto di vista della struttura, il testo delle Costituzioni era diviso in 5 libri:
1. Strutture giudiziarie e procedura civile
2. diritto privato
3. feudo e materie finanziarie
4. procedura penale
5. diritto penale
La politica di Francesco III era giurisdizionalista; colpì soprattutto il clero, ma non intaccava
il potere dei feudatari che continuavano ad avere anche propri tribunali.
Intorno alla metà del XVIII secolo vi fu un certo fermento riformatore anche in altri due
territori italiani: 1. nel Granducato di Toscana e nel Regno di Napoli, che tuttavia non condussero
ad alcuni risultato concreto sul piano del diritto vigente.
Consolidazioni e codici: categorie ancora attuali?
Nonostante i molti elementi innovativi che caratterizzano tutti questi testi, essi, secondo una
interpretazione ancora molto diffusa ed accolta da molta parte della storiografia italiana, non possono
considerarsi dei codici in senso moderno.
In realtà molti storici francesi lo affermano per le ordonnances colbertine, perché mettono in
luce i caratteri tecnici che presiedettero alla loro emanazione e che ne fecero dei testi effettivamente
moderni da molti punti di vista.
In particolare, nel formulare questo giudizio, si punta l’accento su una ‘norma di chiusura’
presente in 3 di queste ordinanze (manca in quella sul commercio); una norma cioè che chiarisce il
valore di legge primaria e generale che si vuole attribuire a questi testi. Vi si dice espressamente che,
dal momento di entrata in vigore dell’ordinanza, sono ABROGATE tutte le altre ordinanze, leggi,
3 Cfr. le citazioni fatte da Cavanna a pp. 289 ss..
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statuti, coutumes, etc. DIVERSE O CONTRARIE alle disposizioni in essa contenute. Quanto poi al
problema dell’interpretazione, si precisa che l’unica ammissibile per l’ordinanza stessa è quella
letterale e, per i casi dubbi, si introduce il principio dell’interpretazione autentica, cioè si impone ai
giudici di fare appello direttamente al re.
Nonostante questi elementi, tuttavia, la diversa corrente di storici, che, seguendo Mario Viora,
distingue tra consolidazioni e codici, ha fatto notare che a questi testi manca ancora qualcosa per
poterli definire dei veri e propri codici. È vero infatti che esse riformano e riscrivono interamente
ampie parti del diritto vigente in Francia e che semplificano grandemente il sistema; tuttavia non lo
sostituiscono integralmente.
Qui In realtà questo primo aspetto, della NOVITA’ del diritto, non è quello decisivo, come
abbiamo già accennato: così come si può sostenere che nelle ordinanze ci sono molte norme nuove e
che comunque la riformulazione stessa rende innovativo il testo anche talvolta se il precetto giuridico
o l’istituto preesisteva; allo stesso modo non è affatto detto che i codici che sarebbero poi stati
emanati avrebbero avuto norme integralmente ‘nuove’; al contrario molte regole e istituti tradizionali
rimangono ancora vivi anche nei codici.
La novità peculiare dei codici, che manca ancora alle ordinanze di Luigi XIV, è di carattere
concettuale e strutturale. I codici infatti si presentano come un sistema assolutamente completo;
quella che cambia radicalmente è dunque la teorica delle fonti: il codice, nella materia che disciplina,
diventa l’unica ed esclusiva normativa. Ciò non accade con queste ordinanze che, è vero, abrogano
molte norme concorrenti o contrastanti, ma non tutte. Per i casi non previsti nell’ordinanza è sempre
possibile cercare la regola adatta ricorrendo ad altre fonti normative e soprattutto agli usi
giurisprudenziali delle diverse corti e i cosiddetti Arrets de reglement, cioè pronunce fatte dai
Parlamenti in presenza di un punto controverso e che avevano valore normativo, anche al di là del
caso concreto, all’interno del territorio su cui quel tribunale aveva giurisdizione.
Questa pluralità di fonti, sebbene semplificata rispetto al passato, permane dunque anche dopo
l’emanazione delle ordinanze (una conferma indiretta verrà dal fatto che se ne lamentano gli Stati
Generali del 1789).
Si tratta delle riforme legislative cui a metà del secolo scorso una corrente storiografica ha
attribuito il nome di consolidazioni.
Fermiamoci dunque ancora un momento su questo termine e sulla differenza tra
consolidazioni e codici.
Negli anni ’60 del Novecento, un illustre storico del diritto italiano, Mario Viora,
analizzando queste compilazioni sei-settecentesche (e prendendo spunto in particolare dalle
Costituzioni piemontesi) ha individuato alcuni elementi distintivi dei codici, mancanti invece in
queste leggi di riforma.
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Le compilazioni di cui parliamo sono certamente una risistemazione organica e razionale del
diritto, dotate di valore ufficiale e quindi decisamente innovative, poiché, come si diceva, le norme
ivi accolte perdono la loro individualità per divenire parte di un sistema; inoltre, ponendosi come
fonte primaria, abrogano molte leggi e norme preesistenti attuando una profonda opera di riduzione,
unificazione, concentrazione del diritto esistente. Le distingue dai codici, dunque, non tanto il fatto
che i codici abbiano materiale giuridico nuovo (vi sono infatti anche in queste riforme norme nuove,
ed inoltre anche i codici possono al contrario riproporre materiali giuridici vecchi); neppure vale a
separare i due tipi il metodo di formulazione fraseologica dei precetti né la coerenza sistematica
interna di norme e principi (essa infatti anche in alcune consolidazioni è presente e anzi è molto
avanzata).
L’elemento distintivo per eccellenza colto ed individuato dal Viora sarebbe quello della
completezza o non-eterointegrabilità: nelle consolidazioni si ammette ancora necessariamente la
sopravvivenza del diritto comune e dei diritti particolari che possono ancora intervenire ad integrare
il dettato della nuova legislazione in caso di lacuna.
Prima di proseguire il nostro riepilogo sulle vicende che portarono alla codificazione,
dobbiamo soffermarci un momento proprio su questo binomio consolidazioni-codici.
La distinzione ha avuto infatti grandissima fortuna, tanto da diventare un normale schema
interpretativo (anche i manuali sui quali avete studiato per l’esame di storia del diritto medievale e
moderno se ne servono); da un po’ di tempo, tuttavia, a questa classificazione si sono mosse alcune
critiche e si sono proposti correttivi e revisioni.
Una prima critica fa presente che la netta contrapposizione tra consolidazioni e codici ha
fatto sì che si spezzasse la continuità storica del processo di formazione dei codici, quasi che quello
di ‘consolidazione’ e poi di ‘codificazione’ siano due processi diversi e non un medesimo sviluppo
storico. Si fa poi presente che creare due categorie rigorosamente distinte ha portato di fatto a
forzare la realtà della storia: di fronte a un dato testo normativo, si doveva per forza inserirlo in una
o nell’altra categoria, con risultati talora fuorvianti, dato che vi sono testi che non si lasciano
facilmente inserire né nell’una né nell’altra categoria.
Un altro importante studioso del Novecento, Giovanni Tarello, ha allora proposto anche un
diverso modo di considerare il passaggio cruciale che indubbiamente si è verificato a fine
Settecento.
Secondo Tarello la vera innovazione dei codici è di aver superato il pluralismo e il
particolarismo soggettivo di antico regime. In effetti questo è un requisito fondamentale del codice:
esso si fonda sul soggetto unico di diritto, sull’uguaglianza giuridica dei soggetti destinatari della
norma, che altro non è se non la traduzione e la conseguenza del riconoscimento dell’uguaglianza
naturale degli uomini, emerso nell’humus culturale del giusnaturalismo e dell’illuminismo.
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Le ultime riforme legislative dell’Europa pre-illuministica
I ‘codici’ bavaresi
A metà del XVIII secolo anche in Baviera si dà corso a una serie di riforme legislative che
sono un vero e proprio punto di confine tra le consolidazioni e la più profonda idea di riforma
portata in Europa dal pensiero illuministico.
Il Principato di Baviera è una delle 3 grandi realtà politiche che compongono l’area
germanica, accanto ad Austria e Prussia (della cui legislazione dovremo parlare più ampiamente).
Il rinnovamento e ammodernamento delle strutture dello Stato viene perseguito anche in
Baviera attraverso una riforma del diritto. Il Principe elettore Massimiliano Giuseppe III ordina tale
riforma nel 1750. La Baviera aveva in effetti già dal ‘600 una redazione ufficiale del suo diritto
territoriale, ma si voleva ora rinnovarla su basi più moderne.
Sotto la guida del cancelliere von Kreittmayr si riesce in effetti a giungere in porto in tempi
piuttosto rapidi:
- già nel 1751 è pronto il Codex iuris bavarici criminalis, che si sostituisce alla
normativa preesistente e dunque, da questo punto di vista, costituisce una notevole novità.
Come impostazione, peraltro, esso è ancora legato alle idee di reato e pena della tradizione
di ancien régime. Il codice penale dunque abroga tutto il diritto precedente, pur lasciando
grandi spiragli ad una sua persistente vigenza attraverso la legittimazione del ricorso
all’analogia e all’equità.
- Nel 1753 è poi promulgato il codice di procedura, Codex iuris bavarici
iudiciarii. Questo NON abroga le norme previgenti ma si presenta come una loro riduzione
a “completo sistema del diritto giudiziario”.
- Infine nel 1756 è redatto anche il Codex Maximilianeus bavaricus civilis.
Rispetto ai primi due, segue una strada intermedia e abroga il diritto precedente in soli due
casi:
a) quando la materia è completamente regolata ex novo dal codice stesso
b) quando il diritto previdente è modificato in modo anche implicito.
Se dunque, sotto l’aspetto tecnico, questi testi sono un punto di transizione tra le vecchie
raccolte e i codici moderni, sul piano dell’impostazione e dei contenuti è certo che non c’è in questi
codici ancora nessuna influenza illuministica e ciò li differenzia nettamente dalle legislazioni
prussiana e austriaca pur non di molto successive.
L’esperienza svedese
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Una menzione merita anche un testo emanato in Svezia nel 1736. Si trattava di una riforma
che giunge, anche in questo caso, dopo un primo avvio già risalente alla II metà del XVII secolo. Si
era già avuta, in effetti, una certa unificazione del diritto svedese e il problema che qui si poneva
non era quindi tanto quello di risolvere conflitti di leggi, quanto di riformulare le leggi vigenti in
modo organico.
L’iniziativa viene presa nel 1686 sotto re Carlo XI e i lavori proseguono con il successore
Carlo XII. La riforma preparata è presentata alla Dieta del regno, un’assemblea che riunisce i 4 ceti
o ‘stati’ (nobili, clero, borghesi, contadini) e che ha compiti non solo legislativi ma anche
amministrativi e giudiziari. La Dieta esamina e approva le varie parti della riforma tra il 1731 e il
1735 e il re Federico I la promulga appunto il 23.1.1736 con il titolo di Sveriges Rikes Lag, cioè
Legge del Regno svedese.
La parte preminente di questo testo è dedicata alle materie procedurali; con essa si
costituisce in particolare un tribunale supremo con funzioni di appello rispetto ai tribunali cittadini e
si riformano in modo chiaro e razionale le regole in materia di prove.
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Illuminismo, Illuminismo giuridico e codificazione
Attorno alla metà del XVIII secolo può considerarsi conclusa l'epoca della progettazione di
'codici' nel vecchio senso, cioè di collezioni di leggi realizzate per semplificare, certificare il diritto
e facilitarne la reperibilità, come pure per snellire il sistema delle fonti.
In realtà, anche dopo la metà del secolo continuano a realizzarsi (come abbiamo visto, ad
esempio a Modena) collezioni di questo tipo ma, al contempo, si comincia a pensare che la
codificazione e la riformulazione del diritto si debbano accompagnare, o addirittura dipendano, in
via subordinata, dalla riforma politica.
La codificazione comincia allora a non essere più espressione di mere esigenze tecnico-
giuridiche, ma espressione di particolari politiche del diritto o, meglio ancora, di particolari
politiche condotte anche (ma non solo) attraverso la riforma del diritto.
Questa impostazione è presente già nell'ottica di alcuni esponenti di quello che sarà detto
'assolutismo illuminato'; questa politica è infatti in genere qualificata come illuministica.
È infatti ormai emersa, in quasi tutta Europa, quell'ampia corrente di pensiero che appunto è
denominata Illuminismo. Come ben chiarisce Cavanna, l’Illuminismo è più una mentalità, un modo
di ragionare, che non un coerente sistema filosofico dottrinale; un modo di pensare che si diffuse (al
punto da diventare ‘di moda’ nei circoli e salotti) negli ambienti intellettuali della seconda metà del
Settecento.
Nella nostra prospettiva, ciò che è di particolare interesse, è che, nel suo modo di ragionare
sulla natura dell’uomo, il sapere scientifico, l’economia, la religione, il bene comune, l’Illuminismo
chiama in causa anche e in primo luogo il diritto, tanto che un acuto illuminista napoletano, Gaetano
Filangieri, dirà che “la legislazione è oggi l’oggetto comune di coloro che pensano”.
La diversità di orientamenti e di esiti che, come noto, fa prendete strade diverse alle stesse
dottrine illuministiche in area germanica e francese, si coglie in tutte le dottrine relative all’essenza
del diritto e all’organizzazione giuridica che in Francia appunto sono rifiutate in blocco da una
monarchia sorda a ogni appello e, fino alla Rivoluzione, non hanno quindi alcun concreto utilizzo.
Probabilmente è anche questo carattere di ‘ideologia di opposizione’ a dare all’Illuminismo
giuridico francese una colorazione ben diversa da quello austriaco e prussiano, facendolo apparire
da una parte più decisamente innovatore e sovvertitore e dall’altra più incline alla teorizzazione
astratta, nel senso che appare svincolata dalla preoccupazione di immediata applicazione e
realizzazione pratica e ad un tempo più estremista, utopistica più che pragmatica. Eppure, queste
idee astratte erano destinate ad avere, alla fine del XVIII e nel primo XIX secolo, una utilizzazione
operativa ed efficace in diversi contesti di riforma giuridica e politica.
Pur con queste precisazioni, possiamo dunque continuare a parlare di illuminismo giuridico.
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A grandi linee si possono indicare le concezioni fondanti di questa dottrina, in particolare
per gli aspetti che legano le teorie illuministiche al processo di codificazione:
I punti caratterizzanti dell’insieme di dottrine definite ‘illuminismo giuridico’ si possono
dunque suddividere in quattro principali categorie:
a) il presupposto giusnaturalistico: sulla scia, appunto, dei giusnaturalisti, si concepisce la
legge come un’espressione della ragione, cioè della natura umana; si ribadisce la convinzione che
esista un immutabile e universale diritto naturale e che la legge costituisca semplicemente la
positivizzazione di quel diritto, cioè una manifestazione storica della ragione. Inoltre si stabilizza
irreversibilmente la concezione soggettiva del diritto naturale stesso e quindi la legge, che ne
rappresenta appunto la positivizzazione, è vista come la CODIFICAZIONE POSITIVA DEI
FONDAMENTALI E IMPRESCRITTIBILI DIRITTI DELL’UOMO: libertà, uguaglianza,
proprietà, sicurezza etc.
b) l’aspetto del volontarismo e positivismo: è collegato al precedente, anche se può apparire
in contrasto. La legge è infatti concepita anche come manifestazione di volontà del legislatore
statuale. Si afferma che lo Stato è l’unico cui è riservato il compito di fissare in legge le attribuzioni
naturali dell’individuo e di imporre l’osservanza coattiva della legge quale ineludibile espressione
della sua volontà. In questa idea si attua proprio l’equilibrio tra i concetti di giusnaturalismo e
giuspositivismo perché la legge è appunto intesa come fedele positivizzazione storica in un testo
giuridico dei diritti soggettivi universali dell’uomo. In questo contesto si colloca la definizione di
legge adottata nell’Enciclopedia, formulata da Montesquieu come “ragione umana” e al contempo,
nei singoli paesi, come “regola prescritta dal Sovrano”.
c) l’istanza di certezza del diritto: si capisce allora perché sia riaffermata come esigenza
primaria la certezza del diritto. Se, nello Stato, anche gli atti del Sovrano sono sottoposti alla legge,
se cioè si attua lo Stato di diritto in cui la legge è sì espressione della volontà del Sovrano, ma di
una volontà subordinata alla ragione che non può aver di mira che il bene dei sudditi, le norme
positive emanate a garanzia dei diritti individuali devono essere chiare, semplici e non suscettibili di
dubbio.
d) la concezione dell’interpretazione come attività puramente dichiarativa. Il passaggio
logico che collega i primi tre punti all’ultimo è altrettanto evidente: quella legge che rappresenta il
sacro deposito dei diritti naturali e ne costituisce al contempo la garanzia, che è espressione della
intangibile volontà del legislatore statuale, che è presupposta come semplice, chiara, certa, non può
assolutamente essere oggetto di una interpretazione dottrinale e giudiziale che la corrompa e ne
muti il significato. Ne consegue che le teorie illuministiche dell’interpretazione si fondano sul
principio della separazione dei poteri per cui il giudice deve essere il mero e automatico applicatore
della legge; è rigidamente sottoposto alla legge e non può fare in alcun modo una attività di
interpretazione che vada oltre quella puramente letterale.
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Dal momento che abbiamo rapidamente percorso il lungo arco di crisi del sistema di diritto
comune e abbiamo visto come da molto tempo il mal funzionamento della giustizia e il dilatarsi a
dismisura dell’arbitrio giudiziale avessero provocato una larga diffusione delle ideologie
antigiurisprudenziali, non è ora difficile comprendere perché nel pensiero illuminista traspaia in
modo così palese una netta sfiducia e una forte diffidenza nei confronti dei giudici e dei giuristi in
genere, nei confronti dei quali vi è il timore che si approprino in modo esclusivo e pericoloso della
legge, che possano distorcerla e manipolarla a danno della certezza e sicurezza per i cittadini.
Questi aspetti appariranno ben presenti, specialmente nella attuazione in campo legislativo
fattane con la Rivoluzione francese e le codificazioni, in particolare penali, che in quel periodo
furono preparate e applicate.
Una terza chiave di lettura suggerita da Cavanna pone accanto all’idea
giusnaturalistica/razionalistica e a quella volontaristica, l’idea della centralità della politica nella
vita della società. Cavanna mette così in luce anche alcuni nodi problematici come il rapporto di
identificazione tra giusto e utile. La formula della maggiore felicità possibile per il maggior numero
pone in realtà il quesito: è sempre giusto ciò che è utile ai più? In questo punto problematico si
inserisce la questione del diritto come strumento per attuare la giustizia.
Un altro elemento complesso è il rapporto con l’opinione pubblica e l’ elitismo pedagogico,
legato all’idea del popolo come ‘minore’ rispetto a ‘coloro che pensano’ (infantilizzazione delle
masse, concepite come incapaci da sole di compiere scelte razionali). L’elite pensante è anche
capace ed ha il compito di guidare il sovrano, appunto ‘illuminandolo’ perché guidi l’umanità verso
la sua elevazione morale (perfettibilità del genere umano).
Ma se l’uomo è totalmente modificabile tramite tecniche educative volte a perfezionarlo,
quale è la sua natura originale? Qui sorge il grande problema della LIBERTÀ dell’uomo, che infatti
da molti illuministi è vista in modo assolutamente riduttivo (con eccezioni, come p. es. Rousseau).
Cavanna in sostanza invita a guardare a quale ANTROPOLOGIA di fondo ispirasse i diversi
esponenti dell’illuminismo per comprendere molti aspetti della loro dottrina dello stato e delle
istituzioni giuridiche:
a) vi sono coloro che vedono l’uomo come essere non libero ma
condizionato dalle proprie sensazioni a ricercare il piacere (sensisti e materialisti):
per costoro il saggio legislatore deve saper far funzionare come socialmente utili
queste pulsioni egoistiche dei singoli, per far cooperare gli uomini al bene comune
quasi a loro insaputa
b) altri autori (specie gli intellettuali lombardi come Beccaria e i Verri)
pensano l’uomo come non libero, ma capace di libertà grazie alla virtù innata della
perfettibilità. Il legislatore è quindi un educatore che deve elevarlo alla libertà e
garantirgliela
25
c) una corrente, derivata dal pensiero di Wolff e molto seguita da
pensatori e riformatori in area germanica, afferma che la natura dell’uomo come
essere votato alla perfezione è a fondamento di un razionale sistema di obblighi e
libertà innati
d) vi sono poi le correnti fisiocratiche: partendo dall’idea che occorre che
le leggi di produzione e circolazione della ricchezza di uno stato obbediscano ad un
razionale ordine di natura, affermano che la legge, se vuole produrre benessere e
libertà deve rispettare una necessaria razionalità giuridica naturale. (in questo si
avvicinano al Wolffismo).
Da tutte le diverse prospettive emerge comunque un dato comune: tutti gli illuministi
guardano alla necessaria RIFORMA GIURIDICA economica e istituzionale della società; tutti
ritengono che per raggiungere tale obiettivo lo strumento essenziale sia LA LEGGE, una legge che
deve basarsi sua certi PRESUPPOSTI ANTROPOLOGICI cioè sulla natura umana.
Qui poi le correnti si divaricano a seconda che si pensi ad una legge che asseconda e si
adegua alla natura umana stessa, oppure che al contrario la deve cambiare e plasmare.
Anche sui contenuti della legge si registrano di conseguenza differenze importanti:
- vi è chi, per elitismo pedagogico, pensa che tali contenuti debbano essere
quelli della nuova filosofia della libertà individuale e della giustizia
- vi sono i despoti illuminati che impongono la loro idea di bene comune
trasformandola in ‘bene dello stato’
A dispetto di tali differenze, però, tutti si orientano verso un'unica direzione, quella della
codificazione.
26
Montesquieu
(Charles de Secondat de la Brède, barone di, 1689-1755)
Il pensiero di Montesquieu è per molti aspetti lontano dalle idee che più direttamente
influenzeranno il processo di codificazione; in particolare la sua concezione della legge lo allontana
dalle teorie volontaristiche per adottare invece un’idea relativistica e naturalistica che prevede come
necessaria una notevole diversificazione e pluralità di leggi, in relazione ad una serie di variabili
legate a fattori ambientali, economici, sociali, politici…
La sua importanza e influenza nel percorso verso la codificazione si può cogliere tuttavia in alcuni
aspetti che riguardano comunque i caratteri poi attribuiti ai codici:
primato del potere legislativo
legge fissa e sicura
legge chiara
interpretazione solo letterale etc.
Questi concetti sono affermati da Montesquieu specialmente nell’ambito della sua celeberrima
concezione della separazione dei tre poteri che fondano lo Stato, necessaria per una costituzione che
voglia garantire la libertà dei cittadini. In particolare, nel delineare le caratteristiche che ciascuno
dei poteri deve avere, Montesquieu sottolinea appunto un ‘primato’ del potere legislativo che
idealmente è nelle mani del popolo, rispetto ad esecutivo ed anche (e soprattutto) al giudiziario;
quest’ultimo deve secondo lui essere affidato a semplici persone prese dal popolo in tempi e modi
stabiliti e per singoli processi, senza cariche stabili. Inoltre il compito dei giudici è semplicemente
quello di applicare la legge: se i tribunali non devono essere fissi, dice Montesquieu, i giudizi
invece devono esserlo “a tal punto da non essere mai altro che il testo preciso della legge”.
Questa situazione può realizzarsi solo se si realizza appunto la certezza del diritto, se cioè le
regole del giudicare sono precostituite al giudice, sono chiaramente formulate e mutano poco: in tal
caso i giudici non saranno altro che “la bocca che pronuncia la parola della legge, esseri inanimati
che della legge non possono moderare né la forza né il rigore”.
Come è ben comprensibile Montesquieu ha in mente soprattutto la legge penale, la più
importante per la realizzazione della libertà intesa come senso individuale della sicurezza. Saranno
proprio le dottrine penalistiche di Montesquieu ad avere un grandissimo influsso in ambito europeo
ed anche in Italia, soprattutto attraverso il pensiero di Cesare Beccaria.
Il maggior contributo dovuto direttamente a Montesquieu sul piano della codificazione sta
comunque proprio nell’aver indicato leggi fisse e stabili, precostituite al giudizio e prodotte da un
organo diverso dal giudicante.
27
Voltaire
(François Marie Arouet, 1694-1778)
Se si guarda all’Illuminismo come teso a diffondere appunto la conoscenza e i ‘lumi’ della
ragione in vista di un maggior beneficio degli uomini e quindi teso a distruggere le credenze
tradizionali reputate dannose perché ‘irragionevoli’ e non scientifiche, la figura più rappresentativa
è quella di Voltaire. Egli, a differenza della maggior parte degli altri, non fu un uomo di legge né
scrisse opere specificamente giuridiche; eppure l’influenza che le sue opere esercitarono sulla
cultura giuridica fu tra le più rilevanti. La ragione di tale importanza sta soprattutto nel fatto che
Voltaire non esercitò quasi per nulla una critica tecnica nei confronti dell’ordine giuridico vigente,
ma piuttosto una continua critica ideologica, che non si soffermava su aspetti di dettaglio ma
condannava e polemizzava attraverso l’ironia e l’invettiva.
Per questo i suoi scritti circolarono subito con grande facilità diventando spesso la bandiera
per quanti, nel ceto intellettuale, erano insofferenti in qualche modo all’assetto esistente.
Si deve tenere presente, peraltro, che Voltaire è rivoluzionario solo nel senso in cui lo era,
ancora a metà del ‘700, lo stesso assolutismo monarchico, in quanto cioè era appunto antifeudale,
giurisdizionalista, tollerante e illuminato (Voltaire ha infatti grandissima ammirazione per sovrani
come Federico II di Prussia o Giuseppe II d’Austria). Solo nel contesto francese il suo pensiero
risulta anche antiassolutistico.
Il filo conduttore di tutta la sua critica è l’affermazione della libertà: libertà dall’ignoranza e
dalla superstizione e perciò da tutte le leggi e le istituzioni che oppongono barriere alla libertà
intellettuale, culturale, religiosa, di gestione economica della proprietà, che spetta ad ogni uomo.
Libertà dunque non in senso filosofico ma come potere di agire liberamente. Reclamando questo
potere di agire per gli intellettuali, V. lo intende in primo luogo come libertà di pensiero, di
opinione e di parola, denunciando i mali del “fanatismo” prima di tutto in materia religiosa.
La sua polemica si indirizza perciò in varie direzioni, che per semplicità espositiva si
possono far confluire in tre principali filoni: I. anticonfessionale; II. politico-costituzionale; III.
antinobiliare e antifeudale (ideologia specificamente borghese).
Vediamo allora più da vicino i diversi aspetti della polemica di Voltaire:
I. polemica anticonfessionale: è l’aspetto più caratteristico della battaglia di Voltaire per
la libertà individuale. Il punto di partenza è infatti l’affermazione di un diritto naturale di libertà;
gli sviluppo sono 4:
a) la propaganda per la tolleranza religiosa e la critica della legislazione discriminatrice:
egli non vuole semplicemente separare l’ordine giuridico della società dalla religione
istituzionalizzata, ma persegue quello scopo con il tentativo di suscitare il disprezzo per la
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religione mondana, mettendone in ridicolo non solo taluni riti e forme, ma tutti i riti e tutte le
forme istituzionali di religiosità.
Per Voltaire quindi la tolleranza legale è un sistema di governo ed un tipo di ordine
giuridico opportuno in quanto favorisce la pluralità di osservanze religiose nello Stato e quindi
impedisce che una diventi troppo potente. Questa polemica, condotta spesso con il semplice
scherno e il disprezzo, si fonda sul piano teorico sull’affermazione, anche semplicistica, ma
proprio per questo facilmente assimilabile dalla cultura media dell’epoca, della diretta
derivabilità del principio della tolleranza dal semplice e chiaro diritto naturale, il cui principio
fondamentale è “non fare mai ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Vi è cioè l’idea che il diritto
naturale sia fonte del diritto positivo e che quel diritto vigente non fondato sul diritto naturale
sia solo un complesso di “superstiziosi paragrafi”. Ben si capisce da qui perché queste idee
piacessero alle classi borghesi: gli avversati “paragrafi” erano quegli istituti vigenti che non
rispondevano ad un principio di uguaglianza formale e in primis quelli del diritto canonico e
del diritto feudale. Alla propaganda per la tolleranza si accompagnano quindi:
b) la propaganda per la separazione del diritto statale dal diritto di una determinata
religione istituzionale, con connessa critica del diritto canonico e della sua vigenza come diritto
positivo, in particolare in materia matrimoniale.
c) la propaganda contro la religione intollerante, identificata con la cattolica romana e
soprattutto contro quei suoi istituti che rendono economicamente potente la Chiesa: feudo
ecclesiastico, decima, manomorta etc.
d) la propaganda a favore del libero godimento della proprietà.
II. Polemica antinobiliare e antifeudale. Anche in questo tema sono in gioco passioni e
‘umori’ personali di borghese dotato di mezzi e di ingegno che si vede ostacolare dalle differenze
di ceto; anche qui poi vi è la prospettiva economica; già nelle lettere giovanili scrive infatti
chiaramente che “il commercio, che in Inghilterra ha arricchito i cittadini, ha contribuito a
renderli liberi, e questa libertà a sua volta ha esteso il commercio; di qui si è formata la
grandezza dello Stato”.
Non è quindi soltanto il risveglio di una coscienza di classe borghese ma una presa di
posizione politica in ordine alla preminenza degli aspetti economici. Voltaire ne trae peraltro la
convinzione che l’assolutismo, sia pure illuminato, sia l’unico strumento praticabile per
l’attribuzione ai borghesi dei poteri effettivi di gestione economica del paese (alleanza tra
sovrani e borghesi). Nella sua propaganda antifeudale ed egualitaria, Voltaire parla perciò di
unificazione fiscale, di giurisdizione e sistema giudiziario e della concezione della proprietà
come proprietà assoluta dell’utilista, così come concepita da Pothier. Voltaire non affronta il
problema da tecnico, ma dal punto di vista politico, cioè non con l’obbiettivo di dividere le
ricchezze, ma di dare più poteri agli utilisti, uomini di spirito borghese.
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III. Polemica costituzionale. È connessa in modo inestricabile con le due precedenti. Egli
sostiene l’idea che la forma politica entro cui può e deve realizzarsi la libertà dell’uomo, cioè
quella che si potrebbe chiamare libertà borghese, è un regime di assolutismo monarchico nel
quale il monarca sia un uomo illuminato.
Da tutti questi filoni polemici emerge una coerente concezione della legge e della riforma
del diritto. Al problema della legge Voltaire presta infatti un’attenzione particolare che spiega
anche in parte l’influenza del suo pensiero sui successivi sviluppi della codificazione. Dalle sue
diverse critiche emerge infatti l’idea che esiste, ed è riconoscibile, una giustizia naturale e un
diritto di natura universalmente valido ed eterno. È un diritto molto ristretto, fatto di poche
proibizioni e di molte norme di libertà, che sono le libertà individuali. Invece, egli osserva, il
complesso delle leggi positive vigenti nei vari Paesi, lungi dall’essere un compimento del diritto
naturale, è creazione di uomini interessati e ignoranti (“Il fatto che sia così difficile trovare un
solo paese con buone leggi non dipende esclusivamente dall’essere le leggi opera degli uomini;
perché gli uomini hanno pur fatto delle ottime cose e … potevano pur combinare un codice
tollerabile. Ma le leggi sono stabilite in quasi tutti gli Stati per l’interesse del legislatore, in vista
del bisogno di quel momento, fra l’impotenza e la superstizione. Sono state fatte una dopo
l’altra, a caso, irregolarmente, come si costruivano le città”, Dictionnaire Philosophique, voce
Lois).
In particolare secondo lui lo è certamente il diritto in Francia (forte è la polemica contro
le coutumes: “ci sono, si dice, centoquarantaquattro coutumes in Francia che hanno forza di
legge; queste leggi sono quasi tutte diverse... Il nostro diritto consuetudinario di Parigi è stato
interpretato in ventiquattro diversi commentari: è dunque ventiquattro volte provato che esso è
mal concepito” Dictionnaire Philosophique, voce Coutume).
Date tali condizioni, afferma, non resta altro che sostituirlo con un diritto nuovo e diverso,
non di origine ‘divina’, ma positivo. Infatti una società senza regole non è concepibile e la vera
libertà consiste nel vivere sotto le leggi e non dipendere che dalle leggi (per questo non è
ragionevole vivere sotto leggi cattive, superstiziose, ingiuste). La creazione del diritto nuovo è
compito del monarca; questi deve però ovviamente essere egli stesso ragionevole e illuminato e
deve produrre una legislazione ragionevole, cioè fatta per tutelare la libertà naturale dell’uomo.
Voltaire ha molta fiducia nella forza di convincimento della ragione umana, anche riguardo
ai monarchi, e tenta per tutta la vita di rivolgere appunto i suoi insegnamenti ai vari sovrani europei.
Secondo lui dunque la legislazione ragionevole deve tutelare la naturale libertà dell’uomo:
per farlo deve
- permettere indiscriminatamente l’accesso alla piena proprietà di qualsiasi specie di bene
- riconoscere la libertà personale eliminando ogni forma di servitù
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- favorire l’esercizio delle libertà naturali come quelle di idee, di stampa, di contratto e in
genere di commercio
- reprimere i comportamenti lesivi della libertà.
Anche il diritto penale deve essere ispirato alla ragionevolezza e le pene devono essere miti
e non crudeli (a proposito della pena di morte, tuttavia, ha idee lontane da quelle di Beccaria:
ipotizza di restringerne l’applicazione ma non è un abolizionista; Voltaire attacca duramente il
sistema inquisitorio allora in vigore (ma anche sulla tortura, che pure biasima, ipotizza ancora
qualche caso n cui può essere utile…).
Sul piano organizzativo, il diritto deve essere unico per tutto il paese (o addirittura per tutta
l’umanità); il processo deve essere snello e, se possibile, sostituito da sistemi volti a comporre le
controversie tra privati (conciliatore).
Una volta fatta, inoltre, la nuova legislazione deve essere sottratta alle manipolazioni degli
interpreti.
Da tutti questi elementi emerge che, in effetti, quella di Voltaire è una vera e propria
ideologia della codificazione, una codificazione completamente innovativa, preparata dal monarca
anche contro la volontà del ceto giuridico, con contenuti ispirati a un diritto naturale borghese, a
soggettività unica e ispirata alla tutela della proprietà e del commercio.
Attraverso di lui, quindi, il mito del codice penetrò profondamente la cultura francese ed
europea.
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Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 - 1778)
Anche le sue idee filosofiche si pongono in un certo senso a metà strada tra le posizioni del
cosiddetto riformismo illuminato e le posizioni ben più estreme e radicali che caratterizzeranno la
Rivoluzione Francese. Sulle ideologie e sull’operato dei rivoluzionari la sua influenza fu infatti
notevole, anche se è oggetto di discussione il modo in cui molte sue idee furono recepite. Certo
Rousseau non aveva affatto previsto la rivoluzione; egli aveva orrore della violenza (scrive ad
esempio che “la libertà sarebbe comprata a un prezzo troppo alto con il sangue di un solo uomo”.
Come hanno osservato alcuni studiosi, per sua fortuna R. morì prima di sapere che uso altri
avrebbero fatto delle sue idee!
Nel 1762 esce il suo testo più rilevante nella nostra prospettiva: Il contratto sociale.
Il titolo è tradizionale e sembra porlo nella scia di un filone già consolidato di teorie sul
passaggio che avrebbe portato all’uscita degli uomini dallo stato di natura e alla nascita della società
e dello Stato. Il contenuto però è nuovo e diverso.
La novità sta proprio nella sua concezione di contratto che è antivolontaristica e
antisoggettivistica, ma oggettivistica.
Egli parte dalla constatazione che “l’uomo è nato liberto e dovunque è in catene”, vittima di
un ordine sociale fondato sulla disuguaglianza, nel quale il più debole è oppresso dal più potente
che lo costringe ad obbedire in base a un innaturale diritto del più forte. Eppure gli uomini per
natura sono liberi e uguali.
Come sia potuto accadere ciò, R. dice seccamente che lo ignora. Non gli interessa in
quest’opera indagare le ragioni (lo aveva fatto nel Discorso sull’origine e il fondamento
dell’ineguaglianza fra gli uomini: usurpazioni della terra e sviluppo della proprietà privata e della
divisione del lavoro), ma di capire come le cose DEVONO essere e non come sono.
A R. interessa di individuare il modello giuridico teorico, cioè il contratto ideale, perfetto
per definizione.
Ipotizza quindi il presupposto logico dello stato di natura e cerca di capire
A) quale soluzione contrattuale si sarebbe dovuta adottare per tutelare libertà e
uguaglianza tra gli uomini
B) come poter praticare in futuro questa soluzione che
C) è L’ UNICA logicamente pensabile se si vogliono superare le disuguaglianze.
Egli si pone perciò una domanda in questi termini: “Come trovare una forma di associazione
che difenda e protegga per mezzo di tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e
mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a sé stesso e rimanga tanto libero
quanto lo era prima. Questo è il problema fondamentale cui il contratto sociale dà la soluzione”.
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Il contratto come lo considera R., ha dunque una sola clausola, che consiste nell’annullare,
semplicemente, l’individuo contraente per identificarlo nell’entità (‘corpo’) che scaturisce dal
contratto (“l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità”). Il
contratto sociale che consente la conservazione della libertà è dunque così: “ciascuno di noi mette
in comune la propria persona e tutta la propria forza, sotto la direzione suprema della volontà
generale; e noi come corpo riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto. All’istante,
al posto della persona particolare di ciascun contraente, questo atto di associazione produce un
corpo morale e collettivo composto di tanti membri quante sono le voci dell’assemblea”. In tal
modo “ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale ciascuno
non acquisti quello stesso diritto che egli cede su di sé, tutti guadagnano l’equivalente di ciò che
perdono e una maggiore forza per conservare ciò che hanno”.
Il presupposto del contratto è quindi l’uguaglianza, la libertà ne è lo scopo, ma si tratta della
libertà civile e non più di quella naturale.
La razionalità del corpo sociale consiste quindi nell’eliminare nella sfera del diritto i conflitti
che sussistono nella sfera del fatto. Questa eliminazione deriva semplicemente dall’aver identificato
come ente unico cose che sono abitualmente chiamate con nomi diversi: sovrano e sudditi. Secondo
ragione, infatti, - dice Rousseau - per il diritto politico, sovrano e sudditi sono la stessa cosa, perciò
il conflitto è irrazionale e, per il diritto, non esiste: “ciascuno di noi mette in comune la propria
persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale: e noi riceviamo nel
corpo politico ciascun membro come parte indivisibile del tutto”
“Il corpo politico sovrano – spiega chiaramente Rousseau – non essendo formato che dai
singoli che lo compongono, non ha né può avere interesse contrario al loro “ e perciò i singoli non
hanno bisogno di alcuna garanzia contro lo Stato.
I singoli potranno, ciò nonostante, agire irrazionalmente contro l’interesse del corpo sociale
(che razionalmente è il loro stesso interesse) e dunque bisogna introdurre delle sanzioni per
“obbligare i singoli ad essere liberi”.
Un simile corpo sociale sovrano, la cui volontà è “generale” e il cui interesse è “di tutti”,
non tollera concorrenti; la sovranità è indivisibile ed è perciò necessario che non vi siano né corpi
intermedi né fazioni e partiti.
Su questa teoria del corpo politico, del sovrano indiviso e della volontà generale si innesta
anche la teoria della legge, elaborata da Rousseau; uno dei capitoli fondamentali della cultura
giuridica occidentale, che in parte influisce ed opera ancora oggi.
Il bene comune è il fine dello stato nato dal contratto e ad un tempo l’obiettivo unico della
volontà generale nel cui esercizio consiste la sovranità. A sua volta la volontà generale, che “è
sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica”, si esprime attraverso la legge.
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La legge, “volontà” del corpo politico, è concepita da Rousseau (che in quest’unico aspetto
si riavvicina a Montesquieu), come strumento di conservazione del corpo politico stesso. La
profonda differenza rispetto a Montesquieu è che per Rousseau il corpo politico è un ente di
ragione, è un modello normativo, e nulla ha a che fare con le storiche, empiriche formazioni
politiche che secondo Montesquieu la legge serve a conservare.
La legge è la formula delle relazioni nello Stato civile, quello appunto nel quale tutti i diritti
sono tali appunto in quanto stabiliti dalla legge. Il suo carattere di formula deriva dalla generalità,
dato che la volontà generale non può avere un oggetto particolare. La legge per essere tale, cioè per
essere volontà generale, deve essere stabilita “da tutto il popolo per tutto il popolo”, deve cioè
essere generale, essere astratta, cioè non riferirsi ad alcun caso concreto. L’astrattezza e la
generalità sono caratteri formali della legge e non riguardano in alcun modo il contenuto (una legge,
pur restando generale ed astratta, può anche “stabilire che vi saranno privilegi”, distribuire i
cittadini in classi” etc.).
Rousseau fa coincidere il fatto che uno stato sia retto da leggi con la qualità della legittimità
dello Stato. È questa l’origine della teoria dello “stato di diritto” che tanto peso avrà sulle
istituzioni e sulla cultura europea dell’Ottocento.
Questa teoria ha un duplice aspetto ideologico: da un lato nella società civile la vita e la
proprietà degli individui sono il risultato della legge, sempre per definizione giusta, e non lo scopo
della legge, dall’altro la legge è espressione della volontà generale.
Ecco dunque che da un lato la teoria ha potenzialità totalitarie (gli uomini sono fatti dalla e
per la Repubblica), dall’altro ha potenzialità democratiche (la legge è legge e la Repubblica è
Repubblica in quanto è “di tutti”).
Interessanti per i giuristi sono anche le Considerazioni sul governo di Polonia, scritte nel
1772 su richiesta del governo polacco che voleva che gli redigesse un testo costituzionale (ed uscite
postume nel 1782). In quest’opera R. si sofferma a parlare di codici e del relativo problema del
rapporto tra giudice e legge.
R. propone 3 codici: uno POLITICO, uno CIVILE e uno CRIMINALE “tutti e tre chiari,
brevi e precisi il più possibile”, da insegnare nelle scuole e università.
A quel punto non c’è bisogno di altri corpi normativi.
Le questioni che eventualmente restino non risolte, saranno decise “attraverso il BUON
SENSO e RETTITUDINE dei giudici”.
L’Illuminismo italiano
La valutazione complessiva dell’illuminismo italiano ha condotto molti storici a dire che
semplicemente questo filone non ha alcuna originalità di pensiero ed è privo di identità autonoma.
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Ciò vale in particolare proprio per l’illuminismo giuridico, più che per gli aspetti letterari o
economici. Salvo eccezioni, è certamente vero che il pensiero degli illuministi italiani in materia
giuridica è caratterizzato dalla soggezione all’egemonia intellettuale francese e dal conseguente
accoglimento di ragionamenti e di modelli ideologici e teorici sviluppati in Francia. In genere, tra
l’altro, questa recezione avviene senza molto spirito critico, importando e traducendo (più o meno
clandestinamente, a causa della censura) gli scritti dei francesi e spesso, pur cautamente e senza
eccessi estremistici, mescolando le diverse idee, anche tra loro contrastanti, in una sorta di
‘vulgata’.
In tutto ciò, c’è un solo campo nel quale i pensatori italiani fanno eccezione: il diritto penale.
È un’eccezione particolarmente importante dato che il campo penalistico era forse quello
centrale nella polemica e nelle proposte di riforma dell’illuminismo in tutta Europa e in tutta Europa
il vero e proprio manifesto delle idee illuministiche al riguardo sarà il libro di Beccaria.
Nel medesimo settore si segnalano anche altri autori che, senza raggiungere la fama di
Beccaria, hanno certo contribuito con le loro riflessioni a creare il contesto e il clima perché anche
quest’ultimo potesse elaborare il suo capolavoro.
Gaetano Filangieri
Con questa prospettiva e questa valutazione comunque positiva possiamo guardare
all’ambiente Napoletano. Napoli fu infatti, insieme alla Lombardia austriaca, il centro di maggiore
diffusione della cultura illuministica in Italia.
Accanto a importanti intellettuali come Mario Pagano, che a sua volta propugna l’idea di
un codice modellato sulle leggi di natura e sarà a fine settecento tra i politici di spicco della breve
stagione Repubblicana (sarà ucciso nel 1799 durante la sanguinosa repressione), il personaggio
certamente più importante è Gaetano Filangieri, che spicca perché, pur riprendendo spesso idee
altrui (soprattutto di Montesquieu e Beccaria), riesce a rielaborarle, proponendo una riflessione di
alto respiro che ebbe molto seguito e molta fortuna.
Uomo dottissimo e conoscitore di un numero infinito di opere, nella sua breve vita (morì a
soli 36 anni) scrive diverse opere importanti in materia propriamente giuridica.
La sua opera principale è costituita dai ben cinque libri della Scienza della legislazione,
pubblicati per la prima volta a Napoli tra il 1780 ed il 1791 (l’ultimo postumo).
L’opera avrà grande successo in tutta Europa, con varie edizioni e traduzioni, benché, come
detto, sia più frutto della rielaborazione delle innumerevoli letture dell’autore, che non di una sua
idea originale, o anzi forse proprio per questo, perché riesce a condensare e rielaborare tante fonti
diverse in una visione unitaria.
In lui si realizza anche l’incontro tra le due anime sempre presenti nell’illuminismo: la
teorizzazione astratta di modelli ideali e la proposta di concrete riforme attuabili e subito operative.
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Filangieri infatti, su molti punti, riprende dichiaratamente il pensiero di Montesquieu, ma
cercando di farne una proposta. Se Montesquieu ha solo descritto le varie legislazioni, Filangieri
dice di cercare la migliore, facendone una “scienza sicura”.
Propone così di modificare in radice l’ordinamento giuridico tradizionale caotico e
contradditorio sostituendolo con un diritto nuovo. Di questo nuovo impianto dovrà far parte un
diverso regime della proprietà che abolisca tutta le rete dei privilegi feudali e clericali, un diverso
sistema giurisdizionale e soprattutto un diverso diritto penale e di procedura penale. Per questa parte
del suo lavoro egli riprende fedelmente le idee di Beccaria, con l’aggiunta di qualche intuizione
originale.
Pietro Verri
In modo particolare vale la pena di soffermare lo sguardo sulla Lombardia che visse, nella
seconda metà del 700, un periodo di grandi mutamenti in parte legati proprio all’influsso delle idee
illuministiche.
Abbiamo infatti segnalato come esistano in qualche modo due percorsi che queste dottrine
aprono per la codificazione: quella dell’iniziativa presa dai sovrani, come accadde in Austria, e
quella della Rivoluzione sanguinosa e sconvolgente avvenuta in Francia.
La Lombardia è quindi un punto di osservazione particolare proprio perché visse in qualche
misura entrambe le esperienze. Infatti rimase sotto il dominio dell’Austria, con però una breve ma
intensa parentesi, sotto la spinta delle truppe napoleoniche, di adesione alla Rivoluzione e alle
riforme venute dalla Francia.
A metà del 700, dunque, gli Austriaci strappano la Lombardia al dominio spagnolo e
avviano con grande autorità (o cercano di farlo) una serie di riforme giuridiche e soprattutto
istituzionali.
In quegli stessi anni Milano è la culla di un vivace e ricco movimento culturale che dà vita a
un forte dibattito su temi fondamentali, soprattutto legati alla c.d. ‘questione penale’.
In questo gruppo di intellettuali milanesi spiccano in particolare le figure di Cesare Beccaria
e dei fratelli Pietro ed Alessandro Verri.
Con il loro pensiero questi autori si scontrarono anche fortemente, a tratti, con il potere
politico, ma allo stesso tempo contribuirono all’attuazione dei programmi di riforma asburgici nella
veste di funzionari e consiglieri della corona.
Per due anni, il 1764 e il 1765, il vivace gruppetto pubblica con entusiasmo e passione un
periodico di polemica e riformista, Il Caffè, al quale collaborano poi, proprio sotto la direzione del
Verri, importanti esponenti del nuovo movimento culturale e sul quale escono molti articoli dedicati
alle tematiche giuridiche, che criticano duramente il sistema esistente a tutto campo, tanto da
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infastidire l’opinione pubblica, far infuriare le alte magistrature milanesi ed irritare la corte di
Vienna, che infatti lo chiude.
La guida del gruppo è certamente Pietro Verri insieme al fratello Alessandro (membri di una
delle principali famiglie dell’antica nobiltà milanese, sono figli dell’austero e conservatore Gabriele
Verri, illustre membro del Senato di Milano del quale rappresenta un simbolo e del quale svolge
un’accanita difesa).
Nel suo pensiero e nella sua azione non mancano, come accennavamo, eccessi e
contraddizioni. Alcuni aspetti ebbero comunque una notevole influenza sul percorso di riforma
legislativa.
Interessanti dal nostro punto di vista sono soprattutto 3 opere:
1) la prima è l’ Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese pronunciata
all’Accademia dei Pugni nel 1763 (pubblicata solo nel 1938), nella quale, usando abilmente lo
strumento della satira già caro a Voltaire, il Verri compie un ironico elogio del più ottuso
conservatorismo, fingendo di essere un magistrato di convinzioni conservatrici (non è difficile
immaginare a chi si sia ispirato) ponendone in tal modo in luce le assurdità e le distorsioni, forse più
che se ne avesse fatto una condanna esplicita. Elogiando i giudici milanesi ed in specie il Senato
scrive ad esempio:
“si pone per fondamento nel Milanese che vi sia un corpo di Giudici padroni della Legge e
questo è il Senato cui spetta il giudicare delle sostanze, della vita, della fama de’ cittadini o secondo
la Legge, o contro la Legge, o fuori della Legge” ne risulta esaltato “il decoro d’ un tribunale
maggior delle Leggi, d’un Tribunale che in questo senso può chiamarsi illegittimo, d’un Tribunale il
quale riunendo in sé le due persone del Legislatore e del Giudice fa vedere la fallacia dell’opinione
del cancelliere Francesco Bacone e del Presidente Montesquieu i quali osarono asserire che
dovunque queste due persone trovansi riunite ivi è vero Dispotismo”.
2) Negli stessi anni, in un numero del celebre Caffè, il Verri pubblica il saggio Sulla
interpretazione delle leggi, con il quale ribadisce appunto la convinzione che sia essenziale la
separazione tra legislatore e giudice: Il compito di legiferare spetta solo al sovrano, “sia egli un
uomo, o uno scelto numero di uomini, o l’intera nazione”. L’identificare nel sovrano il solo
detentore del potere legislativo porta anche Verri a definire anche la legge come un comando e il
giudice come il semplice esecutore del comando del legislatore.
All’origine di queste forti convinzioni vi è anche l’idea che la libertà si possa attuare
pienamente solo se vi è certezza del diritto. Poiché, osserva Verri, interpretare significa creare
diritto in parte nuovo, questa attività interpretativa deve essere totalmente e rigorosamente vietata,
soprattutto in ambito penale.
37
Ecco dunque riemergere, in modo ancor più ‘teorizzato’ e approfondito, le idee
antigiurisprudenziali sulla necessità di tenere ben distinto il legislatore dal giudice, sull’avversione
per ogni attività interpretativa etc.
Verri fa presenti in particolare i rischi di una vera e propria sostituzione del giudice al
legislatore che si realizzano in due casi:
1. nel silenzio della legge
2. in caso di norme o principi contrastanti che possono creare dubbi sulla scelta
della soluzione.
In entrambe queste ipotesi, afferma Verri, l’unico rimedio è quello di imporre al giudice di
limitarsi all’interpretazione letterale della legge. Questa, peraltro, deve essere redatta in modo da
evitare il più possibile il verificarsi di queste situazioni. È qui ben adombrata ancora una volta l’idea
di un codice.
3) Le Osservazioni sulla tortura, scritte tra il 1770 e il 1776/77, prendono spunto dal
drammatico caso degli ‘untori’ milanesi messi a morte nel Seicento per denunciare la
crudeltà intrinseca al sistema processuale di diritto comune, visto come barbarico e
disumano.
Questi pensieri ricorrono ancor più lucidamente nel fratello minore di Pietro,
Alessandro Verri.
Questi sviluppa nei suoi vari interventi una dura critica (anzi nelle sue parole c’è un vero
disprezzo) verso i testi del Corpus Iuris giustinianeo, definito come un confuso ammasso di
assurdità e di contraddizioni. Proprio per contrasto con questi testi, Alessandro Verri elenca allora i
requisiti ideali di una buona legislazione: generalità, chiarezza e uguaglianza di tutti di fronte alla
legge.
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Cesare Beccaria (Milano 1738-1794)
Il maggior ‘erede’ italiano di Montesquieu è cesare Beccaria, che peraltro conosce ed
utilizza anche l’idea contrattuale di Rousseau.
Beccaria ha però anche una sua impostazione originale, che si coglie bene proprio nella sua
teoria della legge ed in particolare della legge penale.
Questa teoria è sviluppata soprattutto nella sua opera più celebre, che è anche,
probabilmente, la più celebre in assoluto dell’Illuminismo a livello italiano (e forse europeo): il
volumetto Dei delitti e delle pene, apparso anonimo nel 1764 nella più liberale Toscana.
La sua riflessione si apre con una durissima critica al diritto penale vigente descritto come
un cumulo di fonti farraginose e di diversa provenienza, sulle quali domina la dottrina e la
giurisprudenza: il lungo elenco delle fonti vigenti nella Milano del Settecento comprende infatti
a) Il diritto romano
b) Leggi e usi locali con forte componente germanica e in specie longobarda
c) La dottrina sviluppata su queste fonti fin dal medioevo
d) Le opinioni dei giuristi successivi, che hanno finito col sostituirsi alla legge
e) Le deduzioni fatte dai giudici appoggiandosi senza esitazioni alla dottrina
Il risultato è che le sorti dei cittadini sono nelle mani di questo intreccio di dottrina e
giurisprudenza e deve intervenire il sovrano per porre fine a tutto questo.
Fin dalle premesse del suo testo, Beccaria sottolinea una delle sue idee-chiave, ripresa dal
pensiero di alcuni autori francesi e in specie Helvétius, ma sviluppata da Beccaria in modo
originale: Pone cioè l’equazione tra giustizia e utilità sociale.
Afferma infatti che lo scopo del buon legislatore, quello che conosce la “natura umana”, è
“LA MASSIMA FELICITÀ PER IL MAGGIOR NUMERO” di consociati.
Il contributo originale di B. sta nella sua tendenza a sostituire al secondo elemento
dell’equazione, l’utilità sociale, con quelli che egli chiama “gli interessi dell’umanità”, vale a dire la
difesa dei diritti dell’uomo.
Riflettendo sui fondamenti dello Stato e del diritto di punire a questo attribuito, Beccaria
pone un presupposto contrattualistico e definisce le leggi come “le condizioni colle quale uomini
indipendenti e isolati di unirono in società, stanchi di vivere in continuo stato di guerra e di godere
di una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificano una parte per goderne il
restante con sicurezza e tranquillità”
Beccaria quindi immagina la società come l’unione spontanea di uomini liberi, in funzione
appunto dell’utilità comune (ecco perché si parla per lui di utilitarismo).
La somma di tutte le porzioni di libertà sacrificate da ciascun contraente va a formare il
“deposito della salute pubblica” (bene comune) e dà origine alla sovranità poiché il legittimo
amministratore di tale deposito è il sovrano.
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Poiché dunque la sicurezza pubblica può essere messa in pericolo da ogni singolo criminale,
Beccaria ne deduce che ogni crimine sia un attentato allo Stato, alla sovranità, e che quindi la
reazione ad esso sia e debba essere fatta in difesa della sovranità, cioè dello Stato sociale.
Questo è il fondamento del diritto di punire affidato appunto allo Stato.
C’è però un limite in questa potestà punitiva dello stato. Per rispondere a questo
fondamentale quesito Beccaria ricorre ancora alla impostazione contrattualistica dello stato stesso.
Questo è ovviamente un punto centrale perché, così impostato, lo Stato ha tra i suoi valori
fondanti l’uguaglianza e la solidarietà tra tutti i cittadini; il sacrificio necessario di una parte della
originaria naturale libertà, fatto dai contraenti, si giustifica solo in vista del raggiungimento della
maggiore possibile felicità e sicurezza.
Questo sacrificio deve essere dunque il minore possibile, per garantire che la quota
rimanente di libertà possa essere goduta pienamente.
Come dovrà perciò essere assicurata quella ‘difesa sociale’ che, come detto, è il fine
primario della legge penale?
Non potendo lo Stato ricorrere a premi e ricompense ultraterrene, perché diritto e morale
sono – e devono essere, secondo Beccaria - nettamente distinti, il modo migliore è avvalersi di
quelli che l’autore definisce “sensibili motivi”, atti a distogliere ciascuno dal compiere atti
antisociali, cioè appunto le pene.
Le pene, dunque, non hanno secondo Beccaria la finalità di ricostituire una armonia turbata
o di retribuire il male con il male, ma solo di prevenire il turbamento della pace sociale.
Il compito di definire quali sono i comportamenti vietati e di fissare le relative pene spetta
solo al legislatore che deve definire con chiarezza e semplicità tutti gli elementi. Inoltre Beccaria
precisa che un buon legislatore è quello che introduce una “disutilità”, cioè una pena che funziona
nella misura in cui è percepita dagli individui come appunto “motivo” capace di prevalere e imporsi
su ogni altro.
I principi- chiave del diritto penale sono perciò per Beccaria essenzialmente tre:
1. la legge penale deve provenire dal solo legislatore, che rappresenta tutta la società
(ecco allora che il principio di legalità è strettamente legato alla codificazione del diritto
affidata al potere legislativo). Beccaria accoglie pienamente le idee antigiurisprudenziali.
2. il legislatore deve procedere alla difesa sociale mediante leggi generali, senza farsi
giudice né accusatore: la legge che prevede i reati deve essere appunto chiara, puntuale e
promulgata ufficialmente, uguale per tutti e va tassativamente esclusa ogni attività
interpretativa (l’attività del giudice deve limitarsi ad un semplice sillogismo: premessa
maggiore la legge, premessa minore, l’azione conforme o meno alla legge, la conseguenza:
libertà o pena). Beccaria pensa proprio a un corpo di leggi sistematico, organico, fisso: un
codice appunto: (testo).
40
3. Nella misura in cui l’ “atrocità” della pena è “inutile”, essa è anche “contraria alla
giustizia”, intesa come minimo impiego della forza al fine della difesa sociale.
Quest’ultimo principio costituisce, in Beccaria, la saldatura tra l’ideologia utilitaristica e
quella umanistica del diritto penale, che erano già presenti e circolanti da tempo nel pensiero
europeo.
Il testo di Beccaria divenne ben presto un’opera di enorme successo a livello europeo; le sue
posizioni suscitarono anche attacchi e polemiche, ma non vi è dubbio che furono anche prese quasi
a modello e manifesto dal movimento riformistico dell’Illuminismo.
Esse furono, almeno in parte, accolte anche dai sovrani di alcuni Stati europei e in
particolare dagli stessi imperatori asburgici Giuseppe II e Leopoldo II, che anzi della collaborazione
di Beccaria si volle anche direttamente avvalere, nel quadro dell’amministrazione dei domini
lombardi e di un’attività di progettazione di un codice penale, che animò proprio Milano e la
Lombardia nei primi anni ‘90 del Settecento.
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Le codificazioni illuministiche di fine Settecento. Prussia e Austria
Si è detto, nel presentare il panorama del pensiero illuministico europeo, di come esso si sia
poi tradotto in posizioni e orientamenti diversi in Francia, dove la chiusura della corona a ogni
movimento riformistico lo rese elemento di sovversione e opposizione politica diventando poi
ideologia rivoluzionaria, e nell’area germanica dove invece le sue idee furono almeno in parte fatte
proprie dagli stessi sovrani che, proprio alla luce di queste idee, avviarono movimenti di riforma
istituzionale e giuridica, non sempre riusciti ma comunque di non poca importanza.
Sono significative in particolare le esperienze dei due grandi Stati (Prussia e Austria) usciti
stabilizzati e unificati dalla Pace di Westfalia del 1648 che aveva concluso la Guerra dei Trent’anni
e i cui sovrani perseguivano coerentemente una politica di accentramento e di modernizzazione
degli apparati amministrativi e giudiziari, anche grazie alla figura importante del Cancelliere,
funzionario supremo e uomo di fiducia del re, posto al vertice di questa costruzione burocratico-
amministrativa. Contemporaneamente al riassetto delle strutture statali e amministrative, i sovrani
dei 2 Stati si orientano verso una riforma legislativa e giudiziaria che investe tutti i settori del diritto
anche se certamente al centro dell’attenzione sembra essere soprattutto il problema penale.
Vediamo allora più da vicino le diverse vicende dei due Stati e l’esito cui esse pervennero.
La Prussia
In questo paese, va subito detto, il prodotto finale dello svolgimento della codificazione
costituisce, sotto il profilo della unificazione soggettiva, il codice meno ‘moderno’, cioè meno
‘borghese’ perché manteneva molti assetti sociali preesistenti.
Qui vi fu, già a metà del ‘700, un primo tentativo in gran parte fallito, ma che ebbe una
grande importanza perché costituì un essenziale spunto di riflessione e di analisi per la cultura
illuministica.
Già a fine ‘600 i sovrani avevano avviato un primo processo di riforma volto a limitare
quella struttura degli ‘stati’ in cui la società era ancora rigidamente divisa.
Nel secolo successivo il processo di limitazione e controllo fu portato a termine ad opera di
due grandi sovrani: Federico Guglielmo I e Federico II che attuarono una profonda riforma
amministrativa che aveva, ovviamente, profondi riflessi ‘costituzionali’. Si sottrasse cioè molto
potere al ‘Consiglio Generale/Universale’ (Geheimer Rat), un organo collegiale che era espressione
degli Stände, affidandolo ad altri organi di nuova istituzione, come il Direttorio generale (o il
Ministero del Gabinetto), posti alle strette dipendenze del Principe.
In questo quadro di razionalizzazione dell’amministrazione su basi unitarie per tutto il
territorio si collocano anche le riforme giudiziarie e legislative.
Un passo importante avviene già nel 1731 con la nomina a Cancelliere di Samuel Cocceius
che Federico Guglielmo I incarica di preparare un progetto di organizzazione del diritto per gli Stati
42
prussiani. Abbiamo già incontrato Cocceius come seguace e continuatore della scuola di Pufendorf
e Thomasius, autore di una introduzione all’opera di Grozio e di un testo, intitolato Elementa
justitiae naturalis et romanae (1740) nel quale cerca e indica una concordanza tra diritto romano e
diritto naturale.
Salito al trono Federico II, nel 1740, al Cancelliere Cocceius viene appunto affidato (nel
1746) il compito di riformulare il diritto prussiano in modo più profondo e radicale di quanto non si
fosse fatto fino a quel momento. Il colto sovrano, che è un intellettuale egli stesso, autore di varie
opere dottrinali, spiega esplicitamente in una Dissertazione sulle ragioni per stabilire o abrogare le
leggi (1750) che la legislazione deve essere «ragionevole» e che per essere tale debba tendere alla
«pubblica felicità». Per ottenere questo risultato occorre rispettare alcuni principi:
a) le leggi devono essere chiare e precise nella loro formulazione in modo da
poter essere interpretate «secondo la lettera»
b) le leggi devono essere poche
c) devono essere «riunite in un corpo unitario»
d) dovrebbero prevedere ogni caso futuro, cioè ogni azione dovrebbe essere
giuridicamente qualificata come dovuta, permessa o proibita
e) devono essere benevole, e in particolare le leggi penali debbono stabilire pene
non sproporzionate alla gravità del reato e non devono prevedere che i reati siano provati
con la tortura «prassi tanto crudele quanto inutile».
È un programma che contiene tutti i temi propri del movimento illuminista ad eccezione di
quello costituito dall’ideologia dell’uguaglianza dei soggetti di diritto o del diritto a soggetto unico.
Era un tema incompatibile con la politica del diritto da lui perseguita, volta a rinforzare (non sul
piano costituzionale ma su quello del diritto privato) tutti gli elementi autoctoni dell’ordinamento
territoriale germanico, compresa la peculiarità dei diritti cittadini e locali e la divisione in Stände.
Federico II vuole creare un diritto comune su base tedesca, limitando il campo del diritto
romano (che è imperiale, non prussiano) salvaguardando gli elementi locali.
Proprio l’ostilità della politica regia al diritto romano fa subito capire le ragioni del
fallimento affidando l’opera al Cocceius si era scelta la personalità meno adatta perché egli, come
abbiamo detto, vedeva nel diritto romano, e non in quello germanico, un’espressione della ragione,
un diritto che poteva concordare con quello naturale.
Egli riesce quindi a predisporre due progetti soddisfacenti per il re, per quanto riguarda il
processo (civile e penale), ma non per il diritto sostanziale.
Fu avviata per prima la riforma dell’ordinamento giudiziario e della procedura. A titolo
sperimentale la si iniziò in una delle quattro province del regno, la Pomerania (sul Mar Baltico, oggi
divisa tra Germania e Polonia). Con una apposita commissione di sei giuristi predispose un progetto
di regolamento giudiziario (chiamato Codice per la Pomerania) per quella regione, pronto nel 1747,
43
che entrò in vigore e fu poi ritoccato l’ano dopo per essere applicato alla Marca del Brandeburgo
(con ulteriori ritocchi infine entrò in vigore come regolamento giudiziario generale nel 1781).
Ben più complessa, come detto, l’opera per giungere a una riforma del diritto civile e in
definitiva fallimentare.
Il progetto preparato da Cocceius fu pubblicato in 2 parti, la prima nel 1749 e la seconda nel
1751, con il titolo di Project des Corporis Iuris Fridericiani. Il progetto era però tutt’altro che
rispondente alle istituzioni di Federico II. Per quanto riguarda la chiarezza, la concisione e il piccolo
numero delle disposizioni era una tipica espressione della scuola pufendorfiana ed era ancora molto
legato alla tradizione romanistica. Su basi prettamente romanistiche era infatti sia la struttura, che
ricalca nel dividere le materie la classica tripartizione personae-res-actioes, sia il contenuto:
romanistica è ad esempio sia la disciplina della famiglia sia quella di proprietà, possesso e diritti
reali, delle successioni, delle obbligazioni etc. Il progetto fu contestatissimo perché
1. trascurava completamente o quasi le caratteristiche proprie degli statuti delle città
prussiane, delle consuetudini etc. e soprattutto trascurava la differenziazione di diversi status
personali [N. B. quell’unificazione del soggetto di diritto che avrebbe fatto la fortuna delle idee dei
giusnaturalisti tedeschi in Francia qui è vista come un dato negativo ed è presa a bersaglio dai
fautori del diritto nazionale germanico]
2. era formulato in modo tutt’altro che chiaro e incisivo; le singole disposizioni
avevano un andamento discorsivo e non precettivo.
Il progetto fu quindi accantonato. Federico II però non rinunciò alla sua idea di riforma e,
alcuni anni dopo, con un’ordinanza del 1780 affidò il compito di preparare un nuovo progetto al
Cancelliere di quel tempo.
Fu nominata una commissione, composta da eminenti giuristi, con il compito di predisporre
dei progetti da sottoporre al sovrano e furono richiesti anche i pareri dei corpi giudiziari e dei
docenti delle scuole, man mano che i progetti erano predisposti. Vi fu quindi un’ampia riflessione e
discussione.
Nel frattempo viene ulteriormente perfezionata la riforma giudiziaria con la revisione del
progetto applicato dal 1748 in Brandeburgo che, nel 1781 venne ufficialmente promulgato come
regolamento generale del regno. E’ il primo codice processuale illuministico, con un processo che
dà sì maggiori poteri impulsivi e ispettivi al giudice rispetto alle parti, ma dà al giudice minori
poteri arbitrari ed equitativi rispetto alla legge sostanziale. Il giudice inoltre deve motivare sempre
ogni decisione, anche incidentale, e deve farlo subito, comunicandola alle parti. Sono proprio attuati
gli ideali dell’assolutismo illuminato.
Dopo un primo progetto appunto oggetto di animate discussioni, un secondo progetto di
codice di diritto sostanziale fu presentato in sei parti tra il 1784 e il 1788. Con nuove discussioni e
44
modifiche, esso fu infine ripubblicato nel febbraio 1794 ed entrò in vigore a partire dal 1° giugno
1794 con il titolo di Allgemeines Landrecht für die Königlisch Preussichen Staaten.
Questa codificazione presenta alcune caratteristiche che ancora suggerirebbero di collocarla,
anche se come esempio più avanzato, tra le consolidazioni settecentesche, e altri aspetti che invece
la fanno apparire già come un codice moderno.
* Dal punto di vista del rapporto tra riforma giuridica, diritto comune e diritti locali, il
Landrecht si propone di sostituire, e in effetti sostituisce, NON i diritti particolari, ma il diritto
comune. Dopo la sua promulgazione, il diritto comune per gli stati prussiani è il Landrecht stesso,
che non può essere supplito da un altro corpo giuridico perché si presenta come diritto completo,
non suscettibile di eterointegrazione. Parrebbe dunque in questo senso una codificazione moderna;
bisogna però considerare che esso, pur sostituendo il diritto comune previdente, non elimina il
rapporto tra diritto comune e diritti particolari perché si presenta appunto esso stesso come diritto
comune: non tollera che alle sue lacune si supplisca con un altro, non è integrato da un altro diritto
comune, ma si pone esso stesso come diritto suppletivo di diritti particolari, che vengono integrati,
in caso di lacuna o di conflitto, appunto con il ricorso al Landrecht.
Infatti gli statuti cittadini e le consuetudini delle province continuano ad avere vigore e a
prevalere sul diritto comune a titolo di diritti particolari.
Quindi il Landrecht non elimina il particolarismo giuridico ma lo preserva e lo consacra,
tanto da essere, in questo senso, più vicino addirittura a una semplice collezione che a un codice.
L’opera di unificazione giuridica è perseguita, in realtà, da Federico II e dai suoi successori,
attraverso una graduale assimilazione dei contenuti delle varie norme locali.
* Dal punto di vista delle materie, poi, esso è formato da una Introduzione e da due parti,
una contenente il diritto civile e l’altra materie che nelle partizioni ottocentesche andranno ancora a
ricadere nel diritto civile (famiglia e successioni ab intestato) ma che in precedenza erano
considerate diritto pubblico, e materie riguardanti l’organizzazione politica dello Stato (Stände,
corporazioni, feudi, parte del diritto penale…). Questa mescolanza farebbe avvicinare il Landrecht
più alle consolidazioni che ai codici che di regola contengono solo diritto civile o penale o
commerciale etc.
Il fatto è che la separazione del diritto civile dalle altre parti del diritto, nell’Europa
continentale, è il frutto di una particolare concezione ideologico-politica che si esprime
essenzialmente nella più grande codificazione ‘borghese’, cioè quella napoleonica. È logico perciò
non trovarla nella Prussia di fine ‘700 (Tarello).
* Dal punto di viata della formulazione dei singoli articoli o paragrafi, il Landrecht è
certamente una codificazione moderna: i paragrafi sono brevi e ben formulati, ben collegati l’uno
all’altro e fraseggiati in modo tale da rendere agevole il presentare la disciplina giuridica come un
insieme di proposizioni in cui diritti e doveri appaiono come predicati di soggetti determinati.
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* Infine dal punto di vista dei rapporti tra codice e giudice, il Landrecht è pure un tipico
codice moderno perché è chiaramente stabilito il divieto per il giudice di interpretare la legge e
l’obbligo di ricorrere, in caso di dubbio, alla commissione legislativa per ottenere un’interpretazione
autentica. Al giudice è comunque concesso il ricorso alla analogia legis (norma analoga) e iuris
(principi generali interni al codice) ma non il ricorso a fonti di integrazione esterne.
I limiti principali di questo testo sono perciò soprattutto:
1. la pluralità delle classi di soggetti di cui il legislatore vuole e deve tener conto
2. l’esigenza di codificare assieme il diritto dei rapporti negoziali e il diritto
pubblico
3. il persistere del particolarismo.
L’Austria
Anche in Austria i progetti e le politiche riformiste erano cominciati intorno alla metà del
‘700 con il processo di sottrazione di potere costituzionale agli organi degli Stände. L’operazione
però qui era più difficile che in Prussia, a causa della doppia qualità del sovrano che era anche il
Sacro Romano Imperatore e in questa sua seconda veste non poteva che porsi come tutore
dell’indipendenza degli Stände in tutti i territori germanici.
L’operazione costituzionale a livello dei territori ereditari asburgici, perciò divenne possibile
solo quando venne in rilievo quasi esclusivo la posizione di sovrano della casa d’Austria e passò in
secondo piano la qualità di imperatore, cioè sul finire della guerra di successione austriaca (1740-
1748) e soprattutto durante e dopo la guerra dei sette anni (1756-1763).
Nel frattempo era salita sul trono l’imperatrice Maria Teresa.
Il suo primo passo fu, nel 1748, una riforma finanziaria, fatta in funzione delle necessità
dell’esercito: le contribuzioni dovevano avvenire tutte in denaro e in base a un predeterminato
valore assegnato alle terre, senza tener conto delle antiche esenzioni nobiliari, ecclesiastiche e
cittadine.
Un secondo passo fu la separazione dell’amministrazione della giustizia dal resto
dell’amministrazione. Si creò un organo centrale unico per le materie camerali e finanziarie e un
altro organo centrale unico per la giustizia. Nuovi erano anche gli organi inferiori che sostituivano
tutte le giurisdizioni precedenti tranne quelle feudali (1749).
Infine venne creato, nel 1766 su suggerimento del principe Wenzel Anton von Kauniz,
divenuto Cancelliere, il Consiglio di Stato. Un organo originariamente composto di sei membri e
presieduto dallo stesso cancelliere, con funzione consultiva generale in tutti gli affari di Stato. La
sua caratteristica istituzionale è l’IMPARZIALITA’, anche perché i membri non possono ricoprire
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altre cariche e sono 3 presi tra la nobiltà territoriale e 3 tra quella di toga. Da questo momento entra
proprio tra i principi organizzativi dello Stato quello dell’imparzialità amministrativa.
Si avvia poi la vera e propria riforma del diritto. Nel 1753 l’imperatrice nomina una
commissione con il compito di elaborare un corpo di diritto privato unificato.
Lo scopo politico dei lavori di questa KompilationsKommission era ovviamente quello di
assecondare l’accentramento giudiziario consentendo a organi dipendenti dal sovrano di gestire un
unico sistema giudiziario e non tanti quanti le diverse province. Sul piano della politica economica,
lo scopo principale era quello di rendere agevole, con l’uniformità giuridica, la contrattazione
interterritoriale. L’ideologia professata era quella della certezza del diritto.
La commissione, che era composta da giuristi esperti dei vari diritti territoriali, lavorò per
due anni, producendo tre volumi di materiale sul diritto delle persone. Essendosi verificate
opposizioni, l’imperatrice nominò una Commissione di revisione (RevisionKommission). Le due poi
furono in parte fuse e i lavori proseguirono ancora finché, nel 1766 fu presentato un corpo di diritto
privato chiamato Codex Theresianus.
Il testo rappresenta, pur con molti limiti, una tappa importante verso la codificazione.
La sistematica è quella romanistica, con qualche correttivo. È infatti diviso in 3 libri dedicati
al – Diritto delle persone – Diritto delle cose e diritti reali – obbligazioni.
Ogni parte è poi divisa in capitoli, paragrafi, numeri. La mole però era enorme (8 grossi
capitoli) e le norme non erano formulate come principi generali ma con lunghe serie di disposizioni
particolarissime e lo stile è discorsivo, quasi più consono a un trattato che ad un’opera legislativa.
La novità è comunque l’uso della lingua tedesca invece del latino. Gli aspetti moderni sono
piuttosto quelli dati dalla linea politica dell’imperatrice. Il testo mira infatti a porsi come diritto non
solo comune, generale e unitario per tutti i territori ma addirittura come disciplina unica ed
esclusiva, e non solo suppletiva, della materia regolata. Si abrogano totalmente, secondo la patente
di promulgazione, nelle materie contenute le normative territoriali previgenti.
In secondo luogo esso si presenta espressamente come una codificazione del solo diritto
privato, il che non solo riordina e separa varie discipline giuridiche, ma porta a definire
normativamente alcuni istituti come di diritto privato, talvolta innovando rispetto a idee correnti di
quel tempo, per esempio inserendovi il diritto di famiglia.
Il Codex Theresianus, comunque, non fu mai promulgato. Quando tutto sembrava pronto -
erano già state approntate anche le traduzioni italiana e boema – sorsero forti opposizioni, ispirate
dallo stesso cancelliere von Kauniz che era contrario e di conseguenza dallo stesso re Giuseppe II,
che era stato fatto correggente del regno e che ne seguiva le indicazioni.
Il Consiglio di Stato si divise e il Kauniz decise in senso negativo facendo notare che il testo
conteneva troppe norme romanistiche e quindi non era un progresso rispetto al diritto comune; non
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era abbastanza esplicito nell’abrogare tutti i diritti precedenti; era troppo legato ancora a norme
feudali; era troppo prolisso e discorsivo.
Nel 1771 perciò si decise di accantonarlo e di istituire una nuova commissione.
Parallelamente si era preparata anche una ricompilazione del diritto penale. A differenza di
quello civile, il progetto, pronto nel 1768, fu approvato e, pubblicato con il titolo di Constitutio
criminalis Theresiana, entrò subito in vigore.
La Constitutio non abroga comunque il precedente diritto ma si limita a rifonderlo.
Quanto ai contenuti, bisogna distinguere tra le norme riguardanti i reati dove si nota un
tentativo di limitare quei reati che derivano da distinzioni di status, da quelle sulle pene dove non ci
sono segnali di modernità ma resta immutato l’antico rigore e addirittura la crudeltà.
Da questa prima fase, sotto l’imperatore Giuseppe II i lavori di riforma legislativa
riprendono con grande vivacità.
La politica di questo grandissimo sovrano era semplice e lineare: si trattava di riorganizzare
amministrativamente lo Stato, inteso come società unica, raccolta intorno al monarca; si trattava
perciò di abolire ogni organizzazione politica concorrente con lo Stato.
Si cerca quindi di colpire l’indipendenza, rispetto allo Stato, delle due forze politiche che si
consideravano autonome, cioè la nobiltà organizzata come Stand e la Chiesa.
Per far questo occorreva riformare l’organizzazione giuridica tradizionale, attraverso la
quale questa indipendenza si esprimeva: si dovevano abolire i privilegi, avocare alla giurisdizione
statale anche le materie prima riservate a quella ecclesiastica etc. Con questi presupposti, le decise
scelte legislative di Giuseppe II si rivelarono davvero rivoluzionarie.
Uomo colto, cultore e conoscitore della filosofia e delle dottrine giusnaturalistiche ed
illuministiche, Giuseppe II si ispirava da una parte alle idee di Pufendorf che assegnava la creazione
di diritto esclusivamente all’autorità sovrana, dall’altra però a chi come Leibniz e Wolff, assegnava
al sovrano il perseguimento del benessere comune attraverso l’intervento in tutte le materie di
qualche rilevanza sociopolitica, compresa quella religiosa.
Anche per questo, andando a toccare molti interessi costituiti, la legislazione di Giuseppe II
fu impopolare, anche agli occh dei ceti non privilegiati che comunque spesso erano in rapporti di
dipendenza clientelare coi privilegiati.
Quella di Giuseppe II fu quindi, in un certo senso, una curiosa «rivoluzione dall’alto», ideata
e attuata da lungimiranti funzionari che agivano però isolati.
Gli interventi più rilevanti compiuti da Giuseppe II per il diritto sostanziale furono 5 editti:
1. Editto di tolleranza (1781): si ebbe l’equiparazione giuridica, sotto il profilo
del diritto privato, dei soggetti appartenenti a tutte le confessioni religiose tollerate dallo
Stato. Si voleva in questo modo anche esaltare l’autorità dello Stato al di sopra delle
divergenze religiose. Si prevedeva qundi che la religione cattolica (decisamente
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maggioritaria, specie in Austria e Boemia) avrebbe conservato la posizione di culto
dominante ma che si sarebbero tollerati anche luterani e greci. L’anno successivo fu
aggiunta una analoga patente a favore degli Ebrei. Ai tollerati si lasciava libertà di culto e si
concedeva piena uguaglianza nei diritti civili.
2. Editto matrimoniale (1783): una grandissima novità, precorritrice di quasi un
secolo le scelte italiana e di qualche anno quelle della rivoluzione francese. Si istituiva il
matrimonio civile. Per i sudditi cattolici si consentiva la celebrazione del sacerdote,
precisando però che la sua presenza aveva un valore diverso sul piano religioso e su quello
civile: per l’ordinamento civile il sacerdote assumeva il carattere di pubblico ufficiale. La
disciplina del ‘rapporto’ era ancora lasciata alla giurisdizione ecclesiastica ma il principio
introdotto era fondamentale perché si chiariva come per lo stato ogni atto si regolasse con il
diritto civile.
3. Editto successorio (1786). In questo testo si vedono i segni di una transizione
in atto: vi sono ancora tracce di 3 diversi regimi successori che in precedenza riguardavano
aristocrazia, borghesia cittadina e contadini, ma il regime riguardante la classe borghese
diviene il regime generale e comune mentre gli altri due sono considerati eccezioni, norme
speciali di cui si restringe la portata. La disciplina testamentaria è volta a favorire la libera
circolazione dei beni immobili limitando i vincoli. Solo come eccezione è mantenuto il
fedecommesso nobiliare che però si rendeva possibile, per esempio, trasformare in denaro
etc.
4. Editto sulla libertà commerciale (1786). E’ collegato proprio a questa politica
economica: abolire tutti i monopoli commerciali delle corporazioni e i diritti di veto
all’acquisto di beni su cui gravassero diritti corporativi da parte di soggetti non membri.
5. Editto sui riscatti fondiari (1789). E’ l’ultimo intervento che, collegato col
precedente, è volto a liberare la condizione dei contadini dei fondi nobili che vengono
trasformati da soggetti a dominio feudale in «affittuari ereditari» e al contempo a favorire la
vendita delle stesse terre feudali che veniva autorizzata alla sola condizione che la cessione
fosse fatta a singoli e non a collettività.
Tutta questa importante serie di provvedimenti mostrava quindi chiaramente l’esistenza di
un sottostante disegno unitario, quasi che fossero ‘stralci’ di un unico codice.
In effetti questo testo era in progetto. Partendo dall’editto matrimoniale fu preparato un
primo libro di 293 paragrafi su persone e famiglie, chiamato Codice Giuseppino e pubblicato il 1°
gennaio 1787.
La stessa commissione stava preparando i due libri che avrebbero dovuto completare il testo
(proprietà e diritti reali e obbligazioni – altre norme) ma essi non giunsero a termine e la
commissione stessa fu sciolta.
49
La riforma fu definitiva invece nel campo del processo civile. Il Regolamento giudiziario
civile fu un vero codice di procedura uniforme, entrato in vigore per tutto lo Stato nel 1782. Si
lasciavano sopravvivere, come riti speciali, i processi minerari, mercantili e militari, ma anche per
questi il Regolamento rappresentava il diritto processuale comune cui ricorrere in mancanza di
regole particolari espresse.
Questo Regolamento, come quello di Federico II di Prussia, rappresenta proprio il modello
processuale del dispotismo illuminato e si ispira alle stesse esigenze di accentramento e
razionalizzazione e uniformazione.
Le sue caratteristiche principali sono:
a) attribuzione al giudice di una giurisdizione volontaria estesissima, in
correlazione con la legislazione sostanziale che vedeva un crescente e puntuale intervento
del sovrano in molti rapporti di diritto privato e familiare.
b) Sottoposizione delle domande giudiziarie alla preventiva approvazione del
giudice: vi è sottesa ancora l’idea che la tutela giudiziaria sia una graziosa concessione del
sovrano e non la tutela di un diritto soggettivo.
c) Concessione al giudice di ampia facoltà di agire d’ufficio in vari momenti e
fasi del processo
d) Affidamento al giudice fin dal primo momento di tutta la direzione del
procedimento, con i mezzi idonei per esercitarla (in particolare la gestione dei tempi del
processo)
e) Mantenimento di una procedura tutta scritta, con la redazione, in linea con la
tendenza a burocratizzare, di un fascicolo di ufficio accanto a quelli delle parti.
Il codice penale ‘giuseppino’ del 1787
Anche in campo penale la politica di Giuseppe II si attuò con tutto il rigore e la coerenza
delle convinzioni del sovrano, dando origine a due codificazioni separate di diritto penale e di
procedura. A distanza di 19 anni dalla Constitutio criminalis di Maria Teresa, la politica criminale è
completamente mutata e sente l’influenza del lavorio intellettuale degli illuministi intorno alla
questione penale.
Il Codice penale Giuseppino, promulgato nel 1787 è il primo codice penale moderno, sotto
vari profili:
- autonomia e completezza della disciplina penale: abroga e sostituisce in toto
il diritto penale preesistente; non ammette eterointegrazione. Accoglie in pieno il principio
di legalità e fa esplicito divieto al giudice di ricorrere all’analogia. Inoltre chiarisce
definitivamente il confine del diritto penale come settore autonomo, distinguendolo da
altre leggi comminanti ‘pene’ e separandolo dalla procedura.
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- Tendenza (e spesso realizzata !) verso l’oggettivismo nel diritto penale. Il
codice cioè imputa a comportamenti astrattamente descritti sanzioni astrattamente
determinate senza riguardo alcuno alla qualità cetuale del trasgressore da nessun punto di
vista. Ciò significa il quasi pieno raggiungimento dell’unicità del soggetto di diritto
penale. L’ideologia che lo ispira è in realtà quella dell’appiattimento dei ceti, non
propriamente egualitaria ma l’esito va comunque in quella direzione.
Ciò che rende questo codice meno moderno è il sistema delle sanzioni che vi sono previste.
Gli aspetti ‘illuministici’ della teoria generale della pena che vi si rispecchia sono la dichiarazione
in via generale del principio della personalità della pena, che sul piano pratico però non esclude
ancora la possibilità di indiretti effetti negativi della pena su persone diverse dal colpevole: prevede
ancora infatti come pena accessoria la confisca dei beni.
Sembra anche accettare le istanza umanitarie dell’illuminismo dato che riduce enormemente
la pena di morte (prevede solo un caso, quello dei capi di una sedizione che abbia causato effettivo
pericolo allo Stato) e abolisce la tortura. L’umanitarismo però si ferma qui, percjè poi le pene sono
durissime, calcolate secondo una complessa scala di intensità che segue sì una rigorosa
proporzionalità, ma che non ne attenua minimamente la crudeltà: sono ancora previste pesantissime
pene corporali, compreso il marchio a fuoco, la bastonatura, la berlina etc.
I reati sono divisi in due categorie, delitti criminali e ‘politici’. I secondi sono una serie
enorme con molte figure di difficile collocazione e mostrano il controllo penetrante che il sovrano
assolutista ‘pedagogo’ fa sul privato dei sudditi.
La Lombardia austriaca e la codificazione penale
Anche per queste ragioni fallì il tentativo di Giuseppe II di introdurre il suo codice anche
nei domini italiani di Lombardia, tentativo che si scontrò contro le reazioni assai negative dei
giuristi ed intellettuali lombardi, compresi anche gli esponenti illuminati come lo stesso Beccaria.
Alla morte di Giuseppe II, avvenuta nel 1790, sale al trono imperiale il fratello minore,
Leopoldo II, che fino ad allora aveva retto per alcuni anni, con il nome di Pietro Leopoldo, il
Granducato di Toscana.
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Costituzioni e codici
Abbiamo visto come le dottrine illuministiche aprirono un profondo dibattito sull’essenza
del diritto e della giustizia, sulle caratteristiche dell’ordinamento giuridico e sulla posizione
dell’uomo di fronte alla società ed all’organizzazione del ‘potere’. È un insieme di principi che nel
giro di un tempo relativamente breve, soprattutto rispetto alla lentissima evoluzione dei secoli
precedenti, portarono alle prime carte costituzionali e ai codici. È vero, in effetti, che possono
esistere anche forme costituzionali non scritte, come avviene ad esempio nell’ordinamento inglese,
ma è giudizio comune che con le prime carte costituzionali scritte si ebbe un ben preciso salto di
qualità. Con la costituzione scritta, infatti, si fissano quei principi basilari della convivenza civile e
dei diritti individuali, nel rispetto dei quali si può parlare di una forma di governo legittimo.
Le carte costituzionali degli Stati Uniti d’America
Le prime dichiarazioni dei diritti e la prima carta costituzionale sono quelle scritte nelle ex
colonie inglesi dell’America settentrionale. La rivolta dei coloni contro la madrepatria portò per la
prima volta le idee degli Illuministi a diventare principi operativi attuabili in concreto. Essi
riprendono le concezioni già risalenti ai giusnaturalisti e appunto agli illuministi sulla necessità di
limitare il potere del Principe; in Inghilterra questo obiettivo si era attuato, fin dai tempi della
Magna Charta del 1215, e con il ruolo dei baroni e del Parlamento, e con il Bill of rights del 1689,
ma quanto si attua in America è molto diverso.
Spicca in primo luogo la circostanza che dichiarazioni dei diritti e meccanismi costituzionali
sono strettamente congiunti. Le dichiarazioni del diritti servono per affermare appunto quei diritti
innati e naturali che nessun potere può calpestare, ma queste affermazioni teoriche non hanno solo
un valore ideale, sono anzi finalizzate a mostrare che il re d’Inghilterra ha violato quei diritti e che
perciò sono giustificate sia la reazione al suo potere che la formazione di un ordine nuovo,
rispettoso di tali diritti. Le enunciazioni dei diritti, che nelle carte americane sono particolarmente
ampie, sono perciò funzionali all’abbandono di un ordinamento che non rispetta i diritti innati a
favore di uno che li rispetta e che poi la costituzione delinea nelle sue strutture e istituzioni (ecco
perché invece le carte costituzionali che si ebbero in Europa nel corso del XIX secolo furono molto
più ‘sintetiche’ su questo punto…).
In America, dunque, già a partire dagli anni ‘60 del ‘700 i delegati di un gruppo di Colonie
avevano cominciato a riunirsi in riunioni collegiali per presentare le loro comuni richieste alla
Madrepatria; non si invocavano ancora i diritti naturali ma si era già superata l’idea della
concessione di ‘privilegi’ reali, su cui molte erano state fondate, e si parlava della libertà che ogni
cittadino inglese doveva avere nell’ambito soprattutto del commercio.
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La situazione si fece via via sempre più tesa e, tra il 1774 e il 1776, quando re Giorgio III
inviò un corpo di spedizione militare per riportare le Colonie alla completa sottomissione, si ebbe
una svolta definitiva.
Cominciarono in quel momento ad essere formulate le enunciazioni dei presupposti, infranti
i quali la sovranità non poteva più essere riconosciuta al re.
Tra le varie elencazioni di diritti la più celebre è quella fatta il 12 giugno 1776 dal “buon
popolo della Virginia”: vi si enunciano diritti innati ed irrinunciabili di ogni uomo, dati dalla natura:
vita, libertà, cui è finalizzata la proprietà, ricerca della felicità, sicurezza (art 1). Si prosegue poi con
i principi che diventeranno poi tradizionali al costituzionalismo liberale: sovranità del popolo,
principio maggioritario, separazione del 3 poteri, negazione dell’ereditarietà di cariche e privilegi,
libertà di stampa etc.
Neppure un mese dopo, il 4 luglio 1776, i rappresentanti delle 13 Colonie riuniti a Filadelfia,
constatavano la violazione dei diritti da parte del re nei loro confronti e si dichiaravano
indipendenti.
La Dichiarazione del Congresso di Filadelfia ha un valore politico particolare perché segna
il momento preciso della ribellione formale di tutte le colonie americane: essa infatti parte dalla
premessa che un popolo possa scegliere sia chi lo comanda sia le forme del governo e su questa
base non era volta tanto a elencare tutti i diritti innati; si limita ad affermare che esistono, che si
basano su un’uguaglianza fra gli uomini voluta da Dio e che ogni governo deve agire in funzione
della loro realizzazione. Poiché dunque l’Inghilterra ha deviato dal diritto, ha costretto le colonie
all’insurrezione, in nome del diritto di resistenza al tiranno teorizzato da Locke, come tutrici del
diritto. Vi sono infatti delle “verità evidenti” che non hanno bisogno di dimostrazione (tutti gli
uomini sono uguali e hanno dei diritti inalienabili, diritto alla vita, alla libertà …). Gli individui
hanno questi diritti e i governi sono legittimi solo nella misura in cui li assicurano. La dichiarazione
giustifica così l’avvenuta ribellione. Invocando il “Giudice supremo dell’Universo” si dichiarano
così indipendenti.
Fallita la repressione armata inglese e riconosciuta formalmente l’indipendenza (con la pace
di Parigi del 1783), le 13 ex colonie devono darsi un quadro costituzionale al cui interno far
svolgere la vita politica e i diritti dei cittadini. La via prescelta al riguardo è appunto quella delle
costituzioni scritte: Sono testi interessanti proprio perché vengono dall’incontro tra la tradizione del
costituzionalismo inglese risalente al celebre Bill of Rights con la cultura diffusasi nell’Europa
continentale di impronta giusnaturalistica e giusrazionalistica imperniata sui diritti naturali e sulla
loro garanzia in testi scritti, in norme chiare e precise contro le arbitrarietà del diritto scritto antico e
del diritto comune.
Il Congresso delle colonie lavora lungamente alla predisposizione degli “Articoli di
Confederazione” (approntati nel 1777) che regolano i rapporti tra i vari Stati ex colonie.
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Dopo una decina di anni di percorso di avvicinamento, con varie difficoltà interne ed esterne
ai singoli stati, si verifica una svolta.
Nel 1787, sempre a Filadelfia, nasce una Convenzione, formata da rappresentanti dei vari
stati e formalmente estranea all’iniziativa del Congresso che fino ad allora costituiva l’organo
rappresentativo comune dei vari stati, inizialmente incaricata di rivedere gli “Articoli di
Confederazione” ma che decise invece definitivamente per la svolta federalista, con la creazione di
una nuova entità, lo Stato federale, sotto la presidenza di George Washington.
Le regole essenziali del nuovo patto sociale sono approvate dalla stessa Convenzione
appunto nel 1787 e costituiscono la costituzione degli Stati Uniti d’America: sottoposta a 27 riforme
dette ‘emendamenti’, essa conserva ancora oggi il suo profilo originario.
La Convenzione decise di non ritornare all’elencazione dei diritti innati: da un punto di vista
politico era ormai una questione superata; si scelse perciò di non ribadirli apertamente considerando
semplicemente riconfermata in modo implicito la dichiarazione del 4 luglio 1776.
La Convenzione si limitò a fissare in pochissimi fondamentali articoli (solo 7 !!) i
meccanismi costituzionali di base che regolassero il funzionamento dei nuovi organi dello Stato
federale: era la prima volta che questo avveniva, perciò questa del 1787 è la prima costituzione
scritta.
La struttura del breve testo vede quindi un Preambolo e appunto 7 articoli in cui si prevede
che lo Stato sarà una Repubblica presidenziale, costruita sull’idea montesquieiana della divisione
dei poteri.
Perciò il potere legislativo è affidato a due Camere. Una (il Congresso) eletta dalla
popolazione, con deputati di durata fissa, in numero proporzionale agli abitanti degli Stati e l’altra
(il Senato) composta di rappresentanti degli Stati federati (due per ciascuno), che si rinnovano
parzialmente ogni due anni.
Il potere esecutivo è affidato al Presidente della Repubblica (che liberamente sceglie i
ministri con cui lavorare) scelto ogni 4 anni dalla popolazione in forma indiretta, essendo eletto dai
grandi elettori nominati nei singoli stati. Per attuare la separazione in modo netto si prevede che il
Presidente non deve sottoporsi al parlamento per averne la fiducia perché è investito del suo potere
direttamente dal popolo.
Il Presidente a sua volta non può sciogliere le camere ma solo eccezionalmente convocarle,
proporre provvedimenti; non ha però potere di iniziativa legislativa, ma solo un potere di veto che
gli consente per 2 volte di bloccare un provvedimento di legge (veto superabile se la legge è
approvata dalle camere con maggioranza dei 2/3).
Ai due poteri congiunti spettano solo alcuni poteri straordinari come nominare ambasciatori,
stipulare trattati etc. .
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A tutelare l’ordinamento costituzionale vi è una Corte Suprema composta di 9 membri
vitalizi.
I giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente ma su controllo del Senato.
Per il resto, il potere giudiziario è affidato a giudici elettivi ed è del tutto indipendente
Il testo iniziale, come detto di soli 7 articoli (divisi in varie sezioni), prevede la rigida
procedura per approvare eventuali emendamenti: per entrare in vigore, essi devono essere approvati
dal almeno ¾ degli Stati (una curiosità: tra gli ultimi emendamenti approvati ve ne è uno del 1992
sul divieto di aumenti ai parlamentari mentre sono in carica: era stato proposto nel 1789 ma fino al
1992 non era ancora stato approvato dal necessario numero di stati!).
Importantissimi sono soprattutto i primi 10 emendamenti, chiamati anch’essi Bill of Rights
perché contendono i diritti di libertà. Furono proposti nel 1789 ma entrati in vigore nel 1791.
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Le carte costituzionali della Rivoluzione francese
La Rivoluzione francese è evento di particolare interesse per la storia del diritto e della
codificazione in particolare, perché essa stessa sembra porre la riforma giuridica e il problema della
legge al vertice e al centro di tutte le discussioni e come obiettivo di molte, se non di tutte, le
concrete azioni e deliberazioni.
I suoi stessi promotori erano infatti pienamente consapevoli che la loro era una Rivoluzione
a carattere spiccatamente giuridico. È emblematica la celebre frase del deputato giacobino Saint Just
secondo cui “le rivoluzioni sono meno una faccenda di armi che una faccenda di leggi”.
In effetti le dottrine dei ‘philosophes’ illuministi, fatte proprie dai rivoluzionari, avevano
dato ampio spazio alla descrizione del senso originario delle norme e alle conseguenti proposte
volte a riportare le norme a questo loro significato originario.
L’ideologia della Rivoluzione, dunque, esalta la legge vedendo in essa un’espressione della
sovranità, non più incarnata nella persona del re ma nella ‘volontà generale’.
La legge è perciò ora identificata come piena attuazione di quel ritorno alla natura umana
che la Rivoluzione si propone di attuare. La legge è dunque concretizzazione del diritto naturale, o,
meglio, di quei diritti naturali innati e imprescrittibili della persona, che spettano a ciascuno per
natura ma che il regime giuridico di ancien régime con le sue ingiustizie e disuguaglianze aveva
schiacciato e soffocato.
La legge che i membri delle assemblee rivoluzionarie si propongono di attuare deve perciò
essere la rigorosa e puntuale traduzione in norma di quei diritti naturali che non nascono da essa ma
che essa riconosce e garantisce nel concreto contesto storico.
Quasi paradossalmente, quindi, il rovesciamento rivoluzionario del regime politico e
giuridico esistente viene presentato dai suoi autori come il ritorno alla legalità e l’avvento di quello
Stato di diritto in cui, come abbiamo visto, il punto chiave è la soggezione di tutti (sovrano
compreso) alla legge e solo ad essa.
Questi presupposti portano anche ad esaltare lo Stato, così come si va ora costruendo, come
origine e fonte della legalità e, all’interno di esso – accettata e recepita la teoria di Montesquieu
sulla separazione dei poteri come scelta indispensabile al conseguimento della libertà – ad esaltare
il ruolo del potere legislativo rispetto a quello esecutivo e giudiziario.
Questa fiducia nella possibilità che la legge costituisca la piena positivizzazione dei diritti
naturali appare ben espressa nelle parole della celeberrima Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789 (così come in quella del 1793, premessa alla Costituzione, ed alle
successive via via elaborate).
Nell’art. 6 della Dichiarazione del 1789, del resto, è tradotta in norma alla lettera la
definizione della legge come “espressione della volontà generale” data da Rousseau e, ancor prima,
all’art. 1 aveva solennemente proclamato che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei
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diritti” così come all’art. 2 che “i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo … sono la libertà, la
proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione” e che la loro conservazione è il fine di ogni
associazione politica.
La Dichiarazione del 1789 è dunque composta da un solenne preambolo e da 17 articoli che
enunciano prima i diritti naturali dell’uomo, alla cui realizzazione e tutela deve essere rivolta ogni
associazione politica, poi i punti fondamentali che per giungere a ciò devono rispettare le istituzioni
politiche. Per questo la Dichiarazione fu da subito vista come l’enunciazione dei principi a cui deve
ispirarsi una carta costituzionale e come tale è sempre stata presa a modello, con enorme fortuna,
nel tempo e nello spazio. Traspare bene, da questa breve serie di articoli, il legame ormai
inscindibile agli occhi dei rivoluzionari, tra riforma costituzionale dello Stato e riforma del diritto e
della legge: se il fine dell’ordinamento è la conservazione dei diritti naturali (libertà, proprietà,
sicurezza etc. – si noti la voluta interconnessione tra libertà, proprietà e sicurezza, caratteristica
borghese-) come afferma l’art. 2 e se la libertà, solennemente definita nell’art. 4, può essere limitata
dalla legge e solo da questa (art. 5), questo implica una fiducia quasi fideistica nella bontà della
legge, che si presume voluta dalla maggioranza e appunti ‘espressione della volontà generale’ (art.
6).
Stabilito che la libertà può solo essere limitata dalla legge e che essa deve essere espressione
della volontà dei cittadini vengono poste alcune ‘garanzie’ che comunque devono esistere, in
contrapposizione alla situazione francese dell’ancien régime, ma anche come limite ‘negativo’
verso i poteri dello Stato: garanzia dagli arresti arbitrari (art. 7), principio di legalità in materia
penale (art. 8), presunzione di innocenza (art. 9), libertà di espressione e di religione (artt. 10-11).
Sono principi che informeranno tutta la tradizione ‘liberale’ accanto a quello della proprietà (art.
17): anche per questa l’unico limite può essere quanto previsto dalla legge. La Dichiarazione non si
pronuncia ancora sui principi da adottare nel futuro ordinamento costituzionale, ma chiarisce fin
dall’inizio (art. 16) che senza garanzia dei diritti e separazione dei poteri non c’è costituzione.
Allo stesso modo non si sono ancora date indicazioni specifiche sui caratteri della legge, ma
essi traspaiono come conseguenza logica: se la legge è strumento per il conseguimento del bene
comune deve essere chiara, univoca, semplice, con una formulazione che la renda facilmente
comprensibile a tutti e allo steso tempo assolutamente inattaccabile da parte del giudice. Superata
ormai la fase della teorica convergenza tra le esigenze garantistiche dell’individualismo illuminista
e quelle statualistiche dell’assolutismo illuminato, il principio della certezza del diritto è ormai
legato alle istanze del liberalismo democratico: si vuole che la legge sia sottratta non solo al potere
del giudice, ma anche ormai a quello del sovrano. E’ essa stessa ‘sovrana’.
Questi concetti vengono ulteriormente ribaditi anche nella Dichiarazione del 1793 che, come
la prima, rappresentano dei solenni ‘Prologhi’ anteposti alle rispettive carte costituzionali, seguendo
l’esempio di quanto era avvenuto non molti anni prima negli Stati Uniti d’America. L’ enunciato è
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però poi ben più articolato, ‘filosofico’ ed universalistico della corrispondente dichiarazione
americana.
Dopo la Dichiarazione dei diritti, l’Assemblea Nazionale Costituente si era proposta di
redigere una Carta costituzionale.
Era la prima volta per uno Stato europeo e, forse anche per questo, i lavori non furono
affatto agevoli.
Il primo testo fu perciò pronto solo il 3 settembre 1791, dopo più di due anni.
In questa costituzione non si è ancora deciso di eliminare la forma di governo monarchica.
Si è perciò prevista una monarchia limitata, cui è affidato il potere esecutivo, mentre il legislativo
spetta a una sola Assemblea, chiamata Assemblea Nazionale Legislativa. Il re può scegliersi i
Ministri e ha un diritto di veto per impedire l’applicazione di una legge votata dall’Assemblea. Gli
si è tolta però la sovranità (è ‘re dei francesi’ e non più ‘re di Francia’) che ora appartiene alla
Nazione (è finita la monarchia di diritto divino).
Dopo questo primo testo però gli equilibri politici mutano a sfavore del re che, dopo circa un
anno, viene definitivamente esautorato. Viene eletto un nuovo organo, la Convenzione, che il 21
settembre 1792 proclama la Repubblica e prepara una nuova costituzione.
Il nuovo testo, composto di 124 articoli, esce però solo il 24 giugno 1793 e non entra
neppure in vigore perché i disordini e contrasti politici sono ancora troppo forti.
Le grosse novità della costituzione repubblicana del ‘93 sono la previsione del suffragio
universale per eleggere l’unica Assemblea e del Referendum. E’ preceduta, come accennato, da
una nuova Dichiarazione dei diritti, più democratica di quella dell’ ‘89 (per esempio la sovranità
‘nazionale’ diventa ‘popolare’) con le libertà precisate con maggiori dettagli e più garanzie.
Accantonata la costituzione del 1793 se ne scriverà una nuova solo nel 1795, quando, nel
frattempo, è cambiato ancora il regime e si è insediato il c.d. Direttorio, per porre rimedio al periodo
del Terrore.
Anche questo testo ha una Dichiarazione dei diritti in cui però si riduce l’enumerazione delle
libertà e si aggiunge quella dei doveri dei cittadini.
Nella costituzione (composta di ben 377 articoli), poi, memori dei pericoli venuti dalla non
perfetta separazione dei poteri, la si cura attentamente:
- il legislativo è bicamerale (Consiglio dei Cinquecento e Consiglio degli Anziani) con una
camera che propone le leggi e l’altra che le accetta o respinge.
- L’esecutivo è un Direttorio di cinque membri in carica a rotazione in base ad una lista
proposta dalla Camere.
- La Magistratura è elettiva.
Il suffragio è però di nuovo limitato (elettore=contribuente). Il complesso meccanismo di
questa costituzione fu di fatto violato da ben 4 colpi di Stato anche se è importante perché, come
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vedremo, fu il modello anche per i tentativi fatti in Italia tra il 1796 e il 1799 (in particolare per
quelle emiliane del 1797 –famose per la comparsa del tricolore-, ligure, romana, della Cispadana e
Cisalpina etc.)
Con un ultimo colpo di Stato si fa strada l’astro nascente di Napoleone e nel 1799 è redatta
una nuova costituzione che prevede un esecutivo forte con soli 3 consoli di cui il primo (Napoleone
appunto) con potere decisionale effettivo. Dall’esecutivo parte addirittura l’iniziativa legislativa
perché i progetti di legge sono redatti per suo conto dal Consiglio di Stato e presentati a 2 assemblee
i cui componenti sono tra l’altro scelti dallo stesso Primo Console, così come i giudici: il Tribunato,
che discute i progetti ma non li vota, e il Corpo legislativo che, sentiti i delegati del Consiglio di
Stato e del Tribunato, li vota senza discuterli. (È il meccanismo che sarà usato anche per i codici).
I componenti di questi organi, inoltre, sono scelti dallo stesso Primo Console così come i
giudici.
Come dichiarerà lo stesso Bonaparte, La rivoluzione è finita!.
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Il droit intermediaire I. Giustizia e diritto penale
Nuovi istituti giudiziari
Già a partire dalle prime dichiarazioni di principio del 1789 era stato posto come obiettivo
fondamentale quello della riforma legislativa, ecco allora l’elaborazione di una serie di effettivi
provvedimenti volti a realizzare la auspicata e proclamata ‘sovranità della legge’, ormai totalmente
identificata con il diritto, quasi ‘deificata’ e divenuta il parametro di riferimento assoluto (come
osserva Cavanna, la stessa Dichiarazione universale, nata quasi per caso da un compromesso tra
visioni molto diverse, stabilisce di fatto che i diritti dell’individuo, si considerino naturali e
preesistenti alla società o civili e istituiti dallo Stato, dovranno comunque essere tutelati e garantiti
dalla legge: i diritti sono assolutizzati, ma al contempo la legge è l’unica a poter porre limiti
all’esercizio delle libertà individuali quando nuoccia alle corrispondenti libertà altrui. È la legge che
“ha l’ultima parola” - Carbasse).
Una volta proclamato il primato della legge e del potere legislativo, questi vanno dunque
difesi, contro tutti, ma in particolare contro le forze che nel precedente regime hanno avuto il
monopolio del diritto: le alte magistrature e tutti i giuristi (con il paradosso, peraltro, che tra i
leaders e gli ideologi della rivoluzione i giuristi sono la stragrande maggioranza!).
Già dal novembre 1789 sono sospesi tutti i processi in corso nei Parlamenti, dei quali si
dichiara la VACANZA ILLIMITATA.
Viene poi creato un sistema giudiziario totalmente nuovo.
Tra il 16 ed il 24 agosto del 1790 viene emanato il Décret sur l’organisation judiciaire, che
contiene una serie di misure e istituti che modificano radicalmente l’ordinamento, introducendo
principi nuovi, in parte destinati a vita breve, ma in parte duraturi e ricchi di sviluppi. Una seconda
ondata si realizza nell’autunno dello stesso anno (27 novembre -1 dicembre). Le principali novità
introdotte sono:
Nel decreto del 16-24 agosto, in ambito civile, si prevede la possibilità per i privati di
sottoporre qualunque questione li riguardi ad ARBITRATO, affidando il giudizio a semplici
cittadini non dotati di alcuna preparazione tecnica ma solo del loro buon senso e della loro onestà
(giudizi di equità). Per le stesse ragioni, sempre legate cioè all’atteggiamento antigiurisprudenziale,
si istituiscono i GIUDICI DI PACE, anch’essi chiamati a giudicare secondo equità per tutte le cause
minori, facendo obbligatoriamente precedere il giudizio da un tentativo di conciliazione. Per le
questioni nate all’interno della famiglia si crea persino un TRIBUNALE DI FAMIGLIA, organo
composto da un certo numero di parenti e le cui decisioni sono appellabili al TRIBUNALE
DISTRETTUALE. In ogni distretto viene infatti istituito un tribunale, cui si appella sia per queste
decisioni, sia contro quelle dei giudici di pace. Non c’è invece un ulteriore grado di giudizio. Le
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decisioni dei tribunali distrettuali possono essere impugnate in un altro tra i più vicini, a scelta delle
parti.
L’ordinamento dei tribunali penali, di pari passo con la classificazione dei reati in crimini
delitti e contravvenzioni, viene diviso in tre livelli e prevede per le infrazioni minori, punite con
pene pecuniarie o fino a 8 giorni di carcere (pene municipali) la competenza del Tribunale di polizia
municipale, affidato a funzionari amministrativi; per i delitti (puniti con pena pecuniaria o carcere
fino a 2 anni, cioè pene correzionali) il Tribunale di polizia correzionale, presieduto dal giudice di
pace. Solo per i più gravi reati, i crimini, si pronuncia il Tribunale criminale, dal complicato
funzionamento: dopo le prime indagini fatte dal giudice di pace del luogo, in veste di ufficiale di
polizia giudiziaria, un magistrato completa l’istruttoria arrivando, attraverso la presenza di una
giuria popolare (di cui diremo subito), a decidere se rinviare a giudizio dell’imputato. Il giudizio di
colpevolezza è poi emesso, al termine del processo, da una seconda giuria popolare.
Nel novembre dello stesso anno 1790 viene previsto il Tribunale di Cassazione. Il suo
solenne accoglimento anche nelle costituzioni rivoluzionarie mostra come esso sia strettamente
correlato all’idea della divisione dei poteri, dell’assoluto primato della legge e della subordinazione
del giudice al legislatore. Sul piano storico questo organo si ricollega in qualche modo ad un ente
preesistente, quella sezione del Consiglio del Re, detta Conseil des parties, incaricata del controllo
sulla giurisdizione dei Parlamenti, e in un qualche precedente logico si può individuare in quel
Supremo Consiglio di Giustizia, istituito dal duca Francesco III di Modena nel 1771, con il compito
di interpretare i casi dubbi attraverso Dichiarazioni ufficiali, stampate annualmente.
Nell’istituzione del 1790 vi è però un elemento di novità perché nuova è appunto la portata
data a questo ‘Tribunale’. Esso infatti non è, come il Conseil des Parties, collegato al potere
esecutivo ma è inteso come il supremo organo custode della norma giuridica (“guardiano supremo
della Legge” lo definisce autorevolmente Merlin), di cui deve curare l’assoluto rispetto,
intervenendo, come si prevede espressamente, in ogni caso di «espressa contravvenzione al testo di
legge». Il Tribunale di Cassazione – che sarà chiamato Corte in epoca napoleonica – è
originariamente istituito nella forma di una Commissione speciale dell’Assemblea Costituente; è
composto da 42 membri, eletti per 4 anni in rappresentanza di ciascuno dei Dipartimenti in cui è
diviso il territorio francese. Già da questi dati emerge la piena conferma che esso, come dichiara
apertamente lo stesso Robespierre in occasione della sua istituzione, «non è affatto il giudice dei
cittadini, ma il protettore delle leggi» … è cioè «fuori dell’ordine giudiziario e al di sopra di
questo»; è piuttosto parte del (e soggetto quindi al) potere legislativo. Proprio per queste ragioni
viene rigorosamente delineato e delimitato il suo campo di intervento, che appunto si ha quando un
atto viola nelle sue forme quanto previsto o quando la legge è espressamente contravvenuta, senza
invece alcun potere decisionale sulle questioni di fatto. A tal proposito di prevede nella legge
istitutiva che le decisioni della Cassazione vengano messe per iscritto con uno «stato della
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decisione» che appunto tenga ben separato il punto di fatto, che non va toccato, dal punto di diritto,
nel quale la Cassazione ha il compito di verificare se il giudice a quo abbia violato la legge. È
quindi rimarcata l’importanza dell’obbligo di motivazione di tutte le sentenze, perché è proprio
indagando sulla logica della motivazione che la Cassazione può cassare una sentenza se tale
motivazione è infondata a causa di ‘errori’ sia procedurali (errores in procedendo) sia appunto di
motivazione (errores in iudicando). La competenza della Cassazione si estende anche a dirimere i
conflitti di competenza tra tribunali e corpi amministrativi. In età napoleonica, essa verrà dotata
anche di poteri disciplinari nei confronti dei magistrati e verrà istituita la possibilità di un ricorso ad
istanza della parte rimasta soccombente. In questo modo la Corte di Cassazione viene inserita
esplicitamente nel quadro dell’ordine giurisdizionale e al suo vertice.
Un tipico istituto che si profila come misura ostile e limitatrice nei confronti della
giurisprudenza è il Reféré Legislatif. Nel Decreto sull’organizzazione giudiziaria dell’agosto 1790
all’art. 10 si precisa che “i tribunali non potranno prendere direttamente o indirettamente parte
alcuna all’esercizio del potere legislativo” e al n. 12 scrivono che “i tribunali non potranno emettere
regolamenti (il richiamo esplicito è agli arrets de règlements) ma si rivolgeranno al corpo
legislativo ogni qual volta ritengano necessaria l’interpretazione di una legge o l’emanazione di una
legge nuova”. In sostanza si prevede cioè che i tribunali devono rivolgersi al Corpo Legislativo ogni
qualvolta essi, trovandosi in difficoltà, ritengono necessaria l’interpretazione extraletterale di una
norma poco chiara o addirittura l’emanazione di una norma nuova per il caso loro sottoposto.questo
è il cosiddetto reféré facoltativo.
L’art. 21 della successiva legge sulla organizzazione della Cassazione rende poi obbligatorio il
rinvio al Corpo legislativo da parte della Cassazione stessa, di ogni questione la cui decisione sia
stata preceduta da due analoghe sentenze entrambe cassate. Si ha qui, come è evidente, una fedele
traduzione dell’idea legalistica che l’interpretazione della norma giuridica spetti esclusivamente al
suo autore, un autore che è ora la volontà nazionale, fonte sovrana del diritto. Si vuole sottrarre con
ancora maggiore assolutezza il ‘pericoloso’ potere interpretativo ai giudici proprio perché si afferma
(così il deputato Bergasse, curiosamente un avvocato) che se il giudice gode del «pericoloso
privilegio d’interpretare la legge» e questa può venire estesa, ristretta o modificata, si attenta alla
stessa fondamentale idea che tutti debbano sottostare ed essere tutelati dalla legge. È già però
evidente, date queste premesse, che il Reféré, proprio perché frutto di una ideologia violentemente
ostile al potere giudiziario e che esalta il primato del legislativo, finisce con il mettere in crisi quello
stesso principio di legalità e certezza della legge che pure era uno dei punti chiave delle
Dichiarazioni dei diritti dell’uomo. Se infatti si può affidare la decisione al Corpo Legislativo, che
può addirittura emanare una norma nuova ad hoc, risulta compromesso il principio che il cittadino
deve poter conoscere esattamente e preventivamente ciò che la legge prevede e quali sono i suoi
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diritti e i suoi doveri. Si arriverebbe ad avere molte norme retroattive. Sono problemi gravi e reali
che balzeranno da subito all’attenzione degli stessi legislatori francesi, tanto che l’istituto, come
vedremo, verrà abrogato dai codificatori napoleonici.
Il terzo, fondamentale, istituto introdotto in via di principio già il 30 aprile del 1790 e poi
stabilito con legge 16 settembre 1791, destinato questa volta di nuovo a lunga vita e ad un
permanente inserimento negli ordinamenti giudiziari europei continentali è la giuria popolare in
campo penale. L’intervento di semplici cittadini nei processi viene previsto solo per i crimini: come
si è ricordato, dopo le prime indagini affidate al giudice di pace, l’istruttoria è condotta da un
giudice istruttore che presiede una giuria d’accusa composta da 8 cittadini sorteggiati, che si
pronunciano sul rinvio a giudizio dell’imputato. Il giudizio di colpevolezza è poi emesso, al termine
del processo, da una giuria di giudizio, di 12 cittadini, che valutano sulla base del loro LIBERO
CONVINCIMENTO su 1) sussistenza del fatto; 2) commissione da parte dell’imputato; 3) esistenza
o meno della intenzione criminosa. La pena sarà poi fissata dal tribunale, composto da un presidente
e tre giudici eletti.
È uno dei capisaldi dell’attività dell’Assemblea costituente. I principi ideologici che
fondano la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia, da Montesquieu in poi,
erano stati molte volte prospettati e discussi: tre diversi punti di riferimento al riguardo erano
rappresentati dal modello antico (Grecia classica e Roma repubblicana), da quello medievale
(costituito dalla giustizia dei pari di origine feudale), ed infine il modello inglese contemporaneo,
che in Francia era conosciuto soprattutto attraverso la traduzione delle opere di Blackstone).
Il principio ispiratore delle riflessioni in tal senso dei philosophes è quello della diretta
partecipazione del popolo alla amministrazione della giustizia e, ancora una volta, della diffidenza
per il ceto dei giudici professionali. L’idea che debba essere un corpo di giudici non professionisti,
sorteggiati in apposite liste, a decidere della libertà, dell’onore e della vita dell’imputato è coerente
al postulato della estrema semplicità della norma giuridica, della sua immediata comprensibilità da
parte di tutti e quindi della sua automatica applicabilità.
Ciò nonostante, se si esaminano i lavori della Costituente, si vede come l’introduzione della
giuria nel sistema giudiziario francese non fosse affatto un esito scontato (tanto più che, ad esempio,
tra i cahiers de doleances, pochissimi la nominano, mentre ben altri sono i punti oggetto di corale
richiesta: pubblicità del dibattimento, diritti della difesa, addolcimento delle pene, revisione del
catalogo dei reati etc.).
Il dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario si avvia il 24 marzo 1790, sulla base di
molti progetti già elaborati e proposti da vari deputati. La ragione fondante, della diffidenza nei
confronti della classe giudiziaria, traspare molto bene anche dai verbali e documenti dell’animato
dibattito che si sviluppa su di essi nel’assemblea costituente.
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Ad infiammare la discussione furono soprattutto alcune proposte dell’ala più ‘estremista’ –
in particolare il progetto presentato dal deputato Adrien Duport – volte a introdurre la giuria
popolare anche nei processi civili.
Il punto chiave del funzionamento dell’istituto nel suo progetto è la precisazione che ai
giurati popolari spetta il compito di decidere esclusivamente in materia di fatto, mentre
l’applicazione tecnica delle norme giuridiche rimane compito del giudice esperto. La scelta dei
potenziali giurati avrebbe dovuto essere affidata alle assemblee primarie di ogni cantone, e
l’eleggibilità essere attribuita ai c. d. “cittadini attivi” (vale a dire a coloro che versano un minimo
di imposta). Da queste liste le giurie dovevano poi essere estratte a sorte. È certamente l’intervento
appassionato di Duport a porre la questione della giuria al centro del dibattito nella primavera del
1790: egli afferma con insistenza che se è vero che la sentenza è il risultato di un sillogismo nel
quale l’accertamento del fatto costituisce la premessa maggiore e l’applicazione della legge la
minore, come è possibile un giudizio espresso su un fatto non previamente accertato con sicurezza?
Solo la separazione formale tra il giudizio sul fatto e il giudizio sul diritto, ottenuta affidando le due
operazioni a uomini diversi (laici i primi, tecnico il secondo) assicurava l’esattezza di tale
ragionamento.
Adottata questa impostazione, secondo lui non occorre più neppure l’appello (dato che è il
popolo stesso a giudicare, non c’è nessun potere al di sopra del popolo) e gli errori di diritto si
possono riparare in Cassazione.
Secondo lui, inoltre, la separazione delle due fasi avrebbe fatto scomparire moltissime
controversie, anche e soprattutto civili, poiché sarebbero quasi scomparse le questioni di diritto.
Nella successiva discussione emergono però evidenti divergenze; a parte alcune voci che
ancora difendono anche l’ordine giudiziario tradizionale, subito messe a tacere, il punto centrale è
proprio di ordine tecnico-giuridico e concerne soprattutto la giuria in materia civile.
È decisivo in tal senso soprattutto l’intervento di alcuni autorevoli personaggi che sono
illustri membri dell’Assemblea ma anche esperti giuristi: ad esempio Thouret si dice favorevole alla
giuria penale, ma la ritiene inutile nel civile dove il rischio di abusi dei giudici è più limitato: la
riforma avrebbe dunque inutilmente provocato le reazioni avverse degli ambienti forensi.
Ancora più deciso – e decisivo –è poi l’intervento di Tronchet, anziano ed autorevole
avvocato, che sottopone ad una analisi rigorosa sia il progetto di Duport sia un altro nel frattempo
presentato e fa osservare come in ambito civile fosse impossibile una netta separazione tra fatto e
diritto (nonostante i tentativi, anche di Robespierre, di sostenere che «un contratto è un fatto»…),
anche perché una regola antica e consolidata del diritto francese imponeva la prova scritta per ogni
controversia di valore eccedente le 100 lire. Nelle questioni civili, insomma, quello che si vuol
chiamare ‘fatto’ è in realtà inscindibilmente connesso con questioni di capacità, forma, condizione
ed altri elementi che richiedono la necessaria conoscenza di regole giuridiche.
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L’esito finale della discussione è perciò la rinuncia ad applicare la giuria in materia civile. Il
principio viene invece recepito subito in materia penale, anche perché appare concretamente più
realistica, in quest’ambito, la possibilità di addivenire ad una riforma legislativa che crei un codice,
espressamente definito «codice popolare», così semplice e alla portata di tutti da rendere inutile (in
prospettiva anche in materia civile, ma lì la riforma appariva assai più difficile…) l’opera della
giurisprudenza ed il suo pericoloso monopolio del diritto.
Nella prospettiva dunque di questa riforma anche delle leggi sostanziali, si realizza una
cospicua serie di altri interventi come la previsione di una procedura quasi interamente pubblica e
orale, la soppressione della venalità delle cariche giudiziarie, l’elettività dei giudici, la soppressione
dell’ordine degli avvocati e di quello dei procuratori, anch’essi visti come nemici della Rivoluzione.
Contemporaneamente viene creata la figura del difensore d’ufficio, carica accessibile ad ogni
cittadino. Nel 1793, quando la violenza ideologica della rivoluzione giunge al suo culmine, si arriva
addirittura a chiudere la Facoltà di giurisprudenza.
Solo nel 1804, Napoleone reintrodurrà l’ordine degli avvocati, spogliato però dei suoi più
evidenti privilegi corporativi.
Si è già visto, da questi primi interventi sull’ordinamento giudiziario, come queste riforme
siano inscindibilmente connesse con l’idea della codificazione. Lo stesso Decret del 1790 diceva
proprio, al suo art. 19, che «sarà formato un codice generale di leggi, semplice e chiaro». È una
norma programmatica che sarà ripresa dalle successive Carte costituzionali, quella del 1791 (che
finalmente completa la dichiarazione dei diritti del 1789, suo ideale prologo) che stabilisce che
«sarà fatto un codice di leggi civili comuni a tutto il regno» e quella del 1793, ove si afferma
solennemente: «il codice delle leggi civili e criminali è uniforme per tutta la repubblica».
L’attività di codificazione rivoluzionaria
Abbiamo visto con quanta solennità, fin dalle carte costituzionali, si fosse affermata, allo
scoppio della rivoluzione, la necessità di avere chiari e semplici codici civili e penali, visti anche
come veri e propri strumenti di riforma politica e sociale.
L’idea rivoluzionaria di codice è quella di un testo che rappresenti il deposito e la articolata
sistemazione normativa dei supremi principi di libertà e di uguaglianza enunciati nelle
Dichiarazioni. Non mancò quindi l’impegno per il raggiungimento di questo risultato. Tale sforzo
però ha esiti assai diversi in ambito penale e processuale penale, nei quali si giunse in tempi
abbastanza rapidi ad approvare ed emanare due importanti codici, e in ambito civile, dove si rimase
al livello della semplice progettazione.
Il codice penale
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La prima codificazione intrapresa è quella del diritto penale. In effetti balza all’attenzione
dei nuovi legislatori con particolare evidenza e gravità la serie di problemi che sul finire dell’ancien
régime caratterizzava, in Francia come un po’ in tutta Europa, la situazione del diritto penale: c’era
una fortissima frammentazione e mancanza di unità, che trasformava il diritto penale in una serie di
fonti, di ampiezza e portata varie, di carattere locale o generale, in difficilissimo equilibrio tra loro;
c’era una pluralità di giurisdizioni tra loro concorrenti e una varietà di situazioni giuridiche e sociali
soggettive sottratte alla normativa ordinaria. Insomma un’assoluta frammentazione territoriale e
personale. Anche dal punto di vista dell’amministrazione della giustizia si vedeva funzionare non
un apparato unitario ma scomposto, macchinoso e lento, complicato e misterioso per coloro che
restavano presi nei suoi ingranaggi, nelle mani di una potente magistratura conservatrice e con
amplissimo spazio per esercitare la sua discrezionalità e il suo arbitrio che certo, insieme ad altri
esperti ‘pratici’, riusciva a far funzionare il sistema ma provocava enormi disparità e abusi. [Solo
l’Ordonnance criminelle emanata nel 1670 da Luigi XIV era intervenuta a fare un certo ordine
portando a un minimo di razionalizzazione ma, essa aveva anche riconfermato e accentuato i
caratteri di rigore, durezza e limitazione dei diritti della difesa. Un sistema che restava fondato sul
meccanismo della prova legale e della tortura, mancante di un quadro complessivo e organico di
reati e di pene e quindi mancante totalmente di certezza.] Un sistema contro cui si erano scagliati a
vario titolo tutti gli illuministi, da Montesquieu a Voltaire a Beccaria e che quindi era stato da subito
nel mirino della rivoluzione: l’art. 8 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, come abbiamo visto,
apriva la strada al completo rinnovamento del diritto penale affermando che “la legge deve stabilire
soltanto pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù
di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata”.
Lavorando a pieno ritmo, il deputato Michel Lepeletier de Saint-Fargeaux, esperto
magistrato e criminalista, alla guida del Comitato di Legislazione criminale, riesce ad approntare un
“code pénal”, promulgato dall’Assemblea Costituente il 25 settembre –6 ottobre 1791.
È questo il primo codice penale che la Francia avesse mai avuto e disciplina solo i crimini
(mentre delitti e contravvenzioni sono regolamentati da una legge approvata poco prima). Fedele
traduzione legislativa delle idee illuministiche e dei principi rivoluzionari, il testo è nuovo anche nei
contenuti, tutto imperniato su principi di uguaglianza, umanità, mitezza.
Vi è tuttavia una certa differenza tra il progetto redatto da Lepeletier ed il testo legislativo
effettivamente approvato.
Innanzi tutto va detto che il progetto di codice viene predisposto da Lepeletier all’interno di
un più ampio disegno di riforma. A suo parere, infatti, il codice penale rappresenta soltanto una fase
transitoria.
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L’autore, che espone le sue idee alla Costituente in un ampio Rapport, è convinto che il
codice da lui approntato riguarderà soltanto la sua generazione di cittadini ma non sarà più
necessario per la generazione futura. Il senso di ciò si comprende se si esamina un altro documento
da lui contestualmente predisposto, cioè un “Piano di educazione nazionale” nel quale ipotizza che i
bambini, dai 5 anni di età, saranno tolti alle famiglie e forzatamente educati con un vero e proprio
lavaggio del cervello, tale da renderli cittadini virtuosi. Il crimine sparirà e non vi sarà alcun
bisogno di un codice penale.
Per questo egli considera il diritto penale una terapia dolorosa ma provvisoria.
Da questa definizione si comprende che per lui il senso della pena è principalmente quello di
una terapia, cioè rieducativo, che deve portare al ravvedimento e recupero sociale del condannato; si
parla poi di terapia dolorosa il che implica che la pena deve comportare il minimo di sofferenza
sufficiente perché abbia l’effetto di deterrente verso la collettività e allo stesso tempo realizzi la
rieducazione della persona. La legge penale deve dunque essere soprattutto umana.
Infine la terapia deve essere provvisoria, dato che secondo Lepeletier tale sistema penale
dovrà essere via via sostituito dal piano di educazione nazionale.
Se quest’ultimo appare in realtà a di poco disumano, invece il codice è certamente
improntato a mitezza ed umanità, equità e proporzionalità, sulla scia delle idee di Cesare Beccaria.
Le pene da lui proposte sono infatti incentrate su umanità, laicità, proporzionalità rispetto al reato,
legalità, uguaglianza dei cittadini, educatività, temporaneità, rigore decrescente nel tempo e nella
gravità.
Le pene previste sono di due tipi: 1) AFFLITTIVE e 2) INFAMANTI.
1) Le pene afflittive sono di tre tipi, tutte detentive. In tutte si prevede il lavoro come libera
scelta del detenuto. La più grave si svolge in catene, in cella di isolamento senza finestre, con
giornate lavorative ad intervallare (cachot, da 12 a 24 anni); la gêne, invece (da 4 15 anni) si svolge
in celle di isolamento non buie, con cintura di ferro in vita, lavoro quotidiano libero e remunerato e
2 giorni di lavoro in comune. Infine la semplice prison (da 2 a 6 anni) con lavoro in comune tra i
detenuti. In tutti e tre i casi il detenuto svolge l’attività lavorativa soltanto in via facoltativa e talora
anche retribuita (il lavoro è visto come mezzo di rieducazione e reinserimento sociale).
2) Le pene infamanti sono invece di soli due tipi: la degradazione civica con seguente gogna
per gli uomini, la sola gogna per le donne.
Terminata l’espiazione è prevista la riabilitazione con un vero e proprio ‘battesimo
civico’.
Nel progetto non ci sono pene pecuniarie, lavori forzati, pene corporali, marchio etc. è
esclusa anche la pena di morte, che Lepeletier giudica immorale.
Del tutto abolite sono anche le misure detentive perpetue, in nome proprio della funzione
moralizzatrice e riabilitatrice della pena.
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Il principio della legalità della pena, che rappresentava un punto chiave dell’ideologia
illuministica, viene non solo applicato, in questo codice, ma portato alle sue estreme conseguenze
perché il testo si strutturava in un meccanico sistema di pene fisse, rigidamente stabilite nel testo
stesso nella loro qualità e quantità, delitto per delitto, senza lasciare al giudice alcuna possibilità di
apprezzamento delle circostanze del reato. Contro il colpevole, riconosciuto tale dal corpo dei
giurati popolari, il giudice, come un vero ‘automa’, come la ‘bocca della legge’ voluta da
Montesquieu, deve e può soltanto irrogare la pena predeterminata dalla legge.
È evidente qui quanto clamorosa e intransigente sia stata la reazione che la rivoluzione ha realizzato
rispetto al vecchio arbitrio del giudice. È però una legge senza compromessi e priva di esperienza
pratica, che mostra ben presto come tale rigidità sia foriera di gravi inconvenienti pratici che
dovranno essere corretti dal successivo codice penale emanato da Napoleone nel 1810, che
reintrodurrà un certo spazio di valutazione per il giudice.
Se questo aspetto viene approvato senza problemi dalla Costituente, così come l’impianto
generale del sistema sanzionatorio, su altri punti la discussione è notevole e comporta diversi
cambiamenti. Innanzi tutto venne inserita la deportazione a vita, il cachot è sostituito dalla pena dei
“ferri” vale a dire dei lavori forzati, e soprattutto, dopo lunga e accesa discussione, si rinuncia alla
completa abolizione della pena di morte, nonostante il suo autore avesse sostenuto, con altri
deputati (ad esempio Duport che invoca la dichiarazione dei diritti dell’uomo e cita beccaria e
Montesquieu, interrotto però da voci di disapprovazione) e lo stesso Robespierre, questa proposta.
La grandissima maggioranza dei deputati è ancora convinta che la pena di morte sia ancora il più
valido dei deterrenti e non si possa abolirla.
La si mantiene comunque senza alcun ulteriore inasprimento o supplizio, per 45 fattispecie
contro le 115 dell’ancien regime. Le modalità di esecuzione sono fissate nella decapitazione, ma si
cerca un metodo meno terribile di quello sino ad allora adottato. Alcuni medici e deputati inventano
e brevettano una macchina a lama obliqua capace di superare questi problemi. La ghigliottina entra
ufficialmente in funzione dalla primavera del 1792.
Il codice ha in tutto 225 articoli, divisi in due parti.
Nonostante l’inasprimento rispetto al progetto originario, il codice entrato in vigore col
decreto 25 settembre-6 ottobre 1791 è comunque mite e garantista. Anche per questo incontra
subito grandi limitazioni applicative, specie nel periodo del cosiddetto Terrore rivoluzionario.
A rendere l’applicazione del codice assai difficoltosa sono però anche ragioni intrinseche e
tecniche: il problema maggiore è rappresentato dal meccanismo delle pene fisse, che il giudice non
può in alcun modo regolare per adattarle al caso concreto, in presenza di circostanze attenuanti.
Il codice infatti fissa la pena per ogni fattispecie con assoluta esattezza, e prevede alcune
figure tassative di reati aggravati.
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In molti casi, all’atto pratico, accade che tali pene risultino sproporzionate ed
eccessivamente severe. Ciò influisce sull’atteggiamento della giuria che dovrebbe ignorare le
conseguenze del proprio verdetto ma in realtà si rende conto che la condanna sarebbe iniqua. Si
finisce allora con il pronunciare un verdetto di assoluzione. (Talora addirittura è già la giuria
d’accusa che non dà luogo a procedere dichiarando insufficienti gli indizi).
Tutto ciò crea naturalmente sconcerto nell’opinione pubblica e negli ambienti della politica,
con aspre critiche all’istituto della giuria.
Un secondo grave motivo per cui il codice di Lepeletier rimane in larga parte disapplicato è,
come accennato, l’evoluzione politica subita dalla rivoluzione negli anni immediatamente
successivi, soprattutto tra il 1793 e il 1795, durante il periodo cosiddetto del Terrore, con la presa di
potere dei Giacobini e la dura repressione di ogni dissenso.
Una prima avvisaglia si era avuta nel 1792 con la creazione di un tribunale speciale per la
repressione dei crimini controrivoluzionari, che era però stato soppresso dopo solo 2 mesi. Nel 1793
si svolge poi il processo a Luigi XVI: Robespierre chiede la condanna a morte ma ribadisce che è
una tragica eccezione alle leggi ordinarie, rimanendo lui contrario in via di principio alla pena
capitale. È un primo segnale però che afferma in via di principio una doppia via: c’è la giustizia
ordinaria e ce ne è una straordinaria, presentata come alternativa dolorosa ma talora necessaria per
la sopravvivenza dello Stato.
Lo stesso concetto traspare dal provvedimento preso contro tutto coloro che erano emigrati
dopo lo scoppio della rivoluzione: per questo solo fatto sono definiti SOSPETTI di congiura,
criminali dunque presunti (e il principio di innocenza?).
Questa pericolosa qualifica viene estesa dal settembre 1793 a molte categorie di persone con
una apposita LEGGE SUI SOSPETTI che elenca tutti quelli che “sia per la loro condotta, sia per le
loro relazioni, sia per i loro propositi o i loro scritti si sono mostrati partigiani della tirannia … e
nemici della libertà; coloro che non potranno giustificare i loro mezzi di sussistenza e di
acquisizione dei loro diritti civili”; i funzionari sospesi dalle funzioni, gli ex nobili che non abbiano
dimostrato “attaccamento alla Rivoluzione”; gli emigrati rientrati e tutti quelli a cui è stato rifiutato
il certificato di civismo, cioè una specie di attestato di patriottismo rilasciato dai comitati
rivoluzionari. Tutti coloro che si ritrovano privi di tale certificato, dal mese di ottobre subiscono la
confisca dei beni e possono finire addirittura sulla ghigliottina. Tutto ciò avviene senza un regolare
processo: le prova non servono perché, come arriva a dire Robespierre, la prova “è nel cuore di tutti
i cittadini indignati” !
Vengono naturalmente istituiti appositi organi come i Comitati rivoluzionari, le
Commissioni militari, il Tribunale criminale straordinario (ma anche quelli ordinari sono autorizzati
a giudicare “rivoluzionariamente”, cioè sommariamente, i sospetti)
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Il culmine verrà toccato il 10 giugno 1794 (legge 22 pratile) che semplifica la procedura
adottata dal tribunale rivoluzionario arrivando a parlare non più neppure di sospetti ma di NEMICI
DEL POPOLO, con una vera e propria presunzione di colpevolezza: basta la denuncia e talora si
arriva alla condanna entro 24 ore senza neppure un interrogatorio. Non c’è appello e l’esecuzione è
immediata.
È il momento definito dagli storici Grande Terrore, allorché si mette da parte anche la
costituzione democratica ed egualitaria appena approvata nel giugno 1793. Si asserisce che essa non
può essere applicata perché gli attentati alla libertà sono tali che la costituzione stessa ne diverrebbe
la garanzia, mancandole “la violenza necessaria per reprimerli” (Saint-Just). Questa violenza
necessaria giustifica una dittatura vera e propria, con il potere concentrato nel Comitato di salute
pubblica di soli 12 membri e, in parte, nel Comitato di sicurezza generale cui è delegata
l’applicazione della legge sui sospetti.
A dominare su tutto è la figura terribile di Robespierre, secondo le teorie del quale il popolo
non si identifica più con tutti i cittadini ma solo con quelli virtuosi, mentre gli altri, cospiratori ed
oppositori sono nemici del popolo che devono essere fisicamente annientati.
Il Terrore ha esattamente questa funzione: si amputerà la parte malata, per far rinascere poi
la parte sana della Nazione. Le numerose correnti interne alle stesse assemblee ed in particolare alla
Convenzione (che ha sostituito l’assemblea costituente) vanno debellate come “congiure che
minacciano il popolo francese”.
Quando tutte le diverse fazioni sono in effetti eliminate e Robespierre è al culmine del suo
potere, cioè nella primavera del 1794, si verifica un ‘imprevisto’ che in realtà, come bene rileva
Cavanna sulla linea della più recente e seria storiografia, è insito nella logica perversa del terrore
stesso. Vale a dire che i nemici, debellati all’esterno, si vengono ora a scoprire all’interno stesso del
piccolo gruppetto al potere, in seno agli stessi Comitati di salute pubblica e di sicurezza pubblica.
Quando Robespierre, che ha creato un nuovo ufficio di polizia per controllare i membri
stessi dei Comitati, preannuncia il 26 luglio 1794 (8 termidoro) nuove epurazioni ed esecuzioni (un
vero bagno di sangue), si ha la reazione di chi si sente preso di mira: il giorno dopo (9 termidoro) la
convenzione accusa Robespierre e Saint Just di preparare una dittatura e, al grido di “abbasso il
Tiranno” li fa arrestare, insieme al presidente del tribunale rivoluzionario e altri.
Con le procedure sommarie da lui stesso progettate, Robespierre è dichiarato fuori legge e
mandato al patibolo il giorno stesso.
Centinaia di “sospetti” vengono subito liberati, i due comitati vengono modificati e
ridimensionati; la legge 22 pratile è abrogata e il Tribunale criminale straordinario abolito. Ci fu,
come è intuibile, anche una ‘caccia’ ai giacobini.
Il codice dei delitti e delle pene
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Chiusa la parentesi (93/94) del Terrore, viene promulgata una nuova costituzione detta
dell’anno III (22 agosto 1795), con la quale si ritorna alla moderazione e all’ordine, con la stesura
anche di una nuova Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino (tra i diritti non
c’è più la felicità). Si attribuisce il diritto di voto ai cittadini ventunenni che paghino un’imposta
diretta e si istituisce il bicameralismo, con il Consiglio dei Cinquecento che propone le leggi e
quello degli Anziani che le vota. Il potere esecutivo è del Direttorio di 5 membri.
Due mesi dopo, nell’ottobre del 1795 esce anche il codice di procedura, intitolato
significativamente Code des délits et des penes (il richiamo esplicito è ovviamente all’opera di
Beccaria). Il progetto era stato redatto con il contributo principale di un altro importante giurista,
deputato alla Convenzione e poi membro del Direttorio, che avrebbe quindi offerto il proprio
contributo di esperto anche in età napoleonica, cioè Philippe Antoine Merlin (1754-1838). Il Merlin
aveva svolto la professione di avvocato presso il Parlamento di Fiandra. Rappresentante del Terzo
Stato agli Stati Generali del 1789 e poi membro appunto dell’Assemblea Costituente, è l’autore dei
provvedimenti sull’abolizione del regime feudale. È rappresentante di quella classe di esperti e
navigati giuristi – ne incontreremo altri – capaci di superare tutte le diverse fasi, anche turbolente,
del percorso rivoluzionario: contribuì alla caduta di Robespierre nel 1794, sarà ministro della
giustizia e poi della polizia sotto il Direttorio; parteciperà al Colpo di Stato del 1797 e, nel 1801,
entra nella procura presso la Corte di Cassazione ottenendo nel 1804 la carica di procuratore
generale. Esiliato alla caduta di Napoleone, tornerà a Parigi nel 1830.
Nel redigere il codice di procedura penale, Merlin si ispira, come Lepeletier, ai principi
dell’uguaglianza, della personalità, della legalità della pena. Il testo è notevole anche sul piano
tecnico.
Il testo, che contiene anche alcune norme di diritto penale sostanziale, è composto di 646
articoli e mira (riuscendoci!) a regolare e razionalizzare con rigorosa precisione il nuovo processo
penale nel quale si inserisce come il punto qualificante il nuovo istituto della giuria popolare, per il
cui funzionamento era indispensabile chiarezza e semplicità di regole. Al contempo si prevedono e
regolano compiutamente le (altrettanto nuove) garanzie introdotte per la difesa.
Ribadito con chiarezza il principio di legalità e irretroattività e riformulati anche i crimini
contro la sicurezza interna dello stato, si delinea la nuova procedura penale.
Il principio ispiratore è quello della garanzia reale della sicurezza e libertà delle persone,
come dimostra la previsione di un grandissimo numero di nullità assolute e relative e la cura per i
diritti della difesa. Vi è però una scelta tecnica che punta ad un certo compromesso anche con la
trazione criminale di ancien régime.
Il nuovo processo ivi previsto è il primo embrione del cosiddetto processo misto. L’azione
penale è pubblica ed esercitata in nome del popolo da appositi funzionari.
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Si distingue poi nettamente la fase istruttoria, che rimane caratterizzata dalla forma scritta e
da segretezza, rispetto al successivo dibattimento, pubblico, in cui le prove devono formarsi,
oralmente, alla presenza dei giurati. I verbali delle deposizioni raccolte durante l’istruttoria saranno
letti in dibattimento solo se emergono contraddizioni con quanto detto in aula.
Nonostante gli eccessi che derivavano a questi testi da una teorizzazione troppo astratta di
principi che si volevano trasporre in norme senza ‘compromessi’, questa codificazione penale
rimane una tappa fondamentale, che aprì la strada a quei principi su cui tuttora si fonda il nostro
diritto penale e, per questo, furono ancor più importanti delle pur innovative leggi civili.
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Il droit intermediaire II. Il diritto civile e i progetti di codice
Le riforme della Rivoluzione in materia sociale ed economica
Nell’esaminare i primi interventi compiuti nel 1790 sull’ordinamento giudiziario si è visto
come queste riforme fossero inscindibilmente connesse con l’idea della codificazione.
Era del resto assai diffuso il rifiuto per le diverse antiche consuetudini locali ed ancor più
per il diritto comune vigente nei paesi del sud.
Come dunque fu avviata e procedette questa attività di riforma legislativa?
Va subito detto che l’Assemblea legislativa non riuscì a tradurre in una immediata attività di
progettazione queste solenni dichiarazioni volte alla realizzazione di un codice civile, espresse dalle
costituzioni. Dal 1793, con l’abolizione della monarchia e la preparazione di una nuova carta
costituzionale repubblicana, la Convenzione Nazionale sostituisce l’Assemblea costituente.
Al voto che ha scelto la Convenzione ha preso parte solo il 10 % del corpo elettorale e che
per di più al suo interno si contrappongono due gruppi, i Girondini ed i Giacobini, in continua lotta
per il potere (al centro siede una maggioranza passiva detta Palude). Benchè dunque venga
nominato un apposito Comitato di legislazione dal quale sono preparati ben 3 progetti di codice,
non si riesce ad approvare, come vedremo, nessuno di questi testi.
Ciò però non significa che non vi siano, nel frattempo, singole leggi di riforma, anche assai
importanti, volte ad attuare anticipatamente i contenuti del futuro codice.
Questa ricca serie di leggi, anticipatrici e annunciatrici di un successivo codice, definita
appunto con la denominazione di “droit intermediaire”, subisce inevitabilmente l’andamento delle
vicende politiche. L’orientamento di tali numerosi provvedimenti segue infatti, anche per il diritto
civile, una parabola che trova il suo culmine nel periodo giacobino, intorno al 1794, per poi in parte
tornare sui propri passi.
I principi che vengono tenuti presenti, e che si cerca di attuare in questo complesso di leggi
rivoluzionarie in materia civile, si ispirano ovviamente ai grandi valori illuministici: supremazia
dell’individuo, sua libertà nei confronti di uno Stato pienamente sottoposto alla legge, proprietà,
diritto naturale ad essere considerato uguale tra uguali.
Proprio al principio di uguaglianza, oltre che di libertà individuale, si ispirano infatti molte
delle riforme adottate.
* L’idea di libertà personale in quanto diritto di professare liberamente la propria fede
religiosa ispira vari provvedimenti che sopprimono le incapacità di Ebrei e Protestanti. Già dal 1787
in realtà un provvedimento regio aveva attribuito ai Protestanti la piena capacità giuridica,
eliminando le restrizioni di cui erano vittime; per gli Ebrei invece le restrizioni erano moltissime:
dovevano versare una tassa per avere accoglienza e abitazione nelle città (la proprietà immobiliare,
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come si è accennato, era invece loro preclusa), dovevano chiedere una pubblica autorizzazione per
sposarsi, pagare pedaggi per poter circolare etc.
Nel dicembre 1789 l’Assemblea Costituente ammette alle funzioni pubbliche i cristiani non
cattolici e dal luglio 1790 restituisce i beni loro confiscati oltre 100 anni prima, nel 1685. Nello
stesso periodo è data libertà di culto e piena cittadinanza agli ebrei.
Le differenze di religione diventano definitivamente irrilevanti per il godimento dei diritti
civili.
Contemporaneamente si interviene ad eliminare drasticamente ogni privilegio e diritto
attribuito al clero cattolico. Già dal famoso 4 agosto 1789 sono state abolite le decime
ecclesiastiche, senza alcuna indennità (come invece previsto per i diritti feudali economici), poi nel
novembre sono confiscate a favore della Nazione le proprietà ecclesiastiche, che saranno messe in
vendita per colmare il grave deficit pubblico: i beni ecclesiastici sono trasformati in beni nazionali;
allo stesso modo i parroci sono definiti semplici salariati dello Stato.
Dal 1790 si arriva a vietare i voti monastici ed a sopprimere tutti gli ordini religiosi, per
culminare nel luglio dello stesso anno con la cosiddetta costituzione civile del clero: diocesi e
parrocchie sono diminuite e riorganizzate; vescovi e parroci sono eletti dai ‘cittadini attivi’ e tutti i
religiosi sono qualificati come pubblici funzionari, obbligati per questo ad un pubblico giuramento
di fedeltà alla Nazione e alla Costituzione.
Questa presa di posizione, davvero eccessiva, provoca una inevitabile e drammatica
divisione nel clero francese. Chi accetta di prestare giuramento (tra i vescovi, solo 7 contro una
maggioranza di circa 80) entra nel nuovo sistema (è definito “clero costituzionale”), mentre chi si
rifiuta (cosiddetto “clero refrattario”) sarà non solo sostituito, ma perseguitato, condannato all’esilio
o alla deportazione, o ghigliottinato.
Dalla prima fase, improntata all’idea della libertà religiosa, si passa così ad una vera e
propria politica di laicizzazione e scristianizzazione della società francese.
Nel settembre 1792 si dispone la laicizzazione dello stato civile istituendo registri presso le
case comunali (con lo stesso provvedimento, come vedremo, si introduce il divorzio).
Poiché molte di queste novità non sono accolte con favore da larga parte della popolazione e
dello stesso clero “costituzionale”, nella fase giacobina più ‘acuta’ si impongono con la violenza:
nell’autunno 1793 gruppi di fanatici della rivoluzione battono le campagne organizzando feste
anticlericali, abbattendo ed incendiando chiese, saccheggiandone i tesori e costringendo i preti ad
umilianti pubbliche cerimonie di abiura. Contemporaneamente entra in vigore il nuovo calendario.
Anche questo dettaglio, all’apparenza banale, ha invece grande importanza culturale: ci si
rende conto che il calendario cristiano ha una grandissima forza educativa, insegnando fin da
piccoli a scandire il tempo sulla base delle feste religiose e mantenendo vive antiche tradizioni e
usanze. A regolare anche lo scorrere del tempo deve invece ora essere lo Stato. Il nuovo computo,
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aboliti santi e feste religiose, comincia dal 22 settembre 1792, proclamazione della repubblica, e si
divide in 12 mesi di 3 decadi. Come è intuitivo non sarà in grado di penetrare nelle abitudini della
popolazione essendo costruito a tavolino ed imposto dall’alto; la dice lunga, tuttavia, sul percorso
che, paradossalmente, partito dall’’idea volteriana di tolleranza e libertà religiosa, arriva all’esito
della istituzione di un nuovo culto, quello della Dea Ragione e dell’Ente Supremo, che passerà sul
sangue di migliaia di oppositori durante il regime del Terrore. L’episodio più noto e terribile è
quello della Vandea, provincia tradizionalista e di maggioranza cattolica e filomonarchica, dove si
arriva ad un vero e proprio genocidio di oltre 120.000 persone.
Accortosi che cancellare ogni riferimento religioso è impossibile, Robespierre inventa una
nuova religione e nel maggio 1794 decreta il culto dell’Ente Supremo, nuova religione di Stato.
Ucciso Robespierre, la Convenzione Termidoriana dovrà ripristinare la libertà di culto; a
poco a poco le chiese si riapriranno. Comprendendo l’importanza della tradizione, anche religiosa,
cui i francesi erano legati, Napoleone sceglierà con il noto opportunismo la strada del Concordato
con la Chiesa Cattolica stipulato nel 1801.
* Nel mondo del lavoro, alla idea di libertà si ispirano norme che sopprimono i monopoli
privati e le corporazioni professionali e di arti e mestieri, stabilendo libertà piena di commercio e di
mano d’opera. Non solo anzi le corporazioni sono abolite, ma nel 1791 la Costituente arriva a
vietare ogni associazione e ogni riunione di cittadini che svolgono la stessa professione: ad essere
vietato diventa così anche lo sciopero (il divieto scomparirà dopo la metà del 1800, nel 1864!) e
ogni forma di impegno e associazione sindacale. Curiosamente, ancora una volta dal punto di
partenza della assoluta libertà, si finisce in restrizioni della libertà stessa.
* Già nella notte del 4 agosto 1789, l’assemblea nazionale vota, quasi di slancio, un
provvedimento che proclama abolita la feudalità e soppressi tutti i privilegi. A spingere verso tale
decisione erano, oltre al clima ‘euforico’ dei primi giorni dopo la presa della Bastiglia, le violente
rivolte contadine per placare le quali occorreva fare subito qualcosa di clamoroso.
Appena pochi giorni dopo, i deputati che sono in larga misura nobili, resisi conto della
portata di un simile provvedimento, soprattutto dal punto di vista economico, dato che comportava
la perdita di censi, decime, tributi, canoni etc., compiono un parziale passo indietro, trasformando
l’abolizione in diritto di riscatto.
Sono comunque definitivamente e totalmente abolite tutte le tipiche prerogative feudali di
tipo personale, che comportavano restrizioni anche della libertà di movimento. Scompare in
particolare il ogni traccia del servaggio della gleba, una condizione personale che vincolava la
persona alla terra e aveva come prima conseguenza la cosiddetta manomorta: la trasmissione
ereditaria di un fondo, per il servo della gleba era possibile solo in linea diretta e con il pagamento
di una imposta da parte dei figli; in mancanza di discendenti, la terra tornava al signore (o passava
ai collaterali, ma solo con un più elevato tributo).
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Va peraltro precisato che queste forme di soggezione personale sono abolite in Francia, ma
nelle colonie rimane la schiavitù. Solo nel 1794 la Convenzione dichiarerà abolita la schiavitù, ma
la Francia ha già perso il controllo politico effettivo su molte colonie e questo decreto resterà
inapplicato. Napoleone ripristinerà la tratta già nel 1802 e la vera abolizione nelle isole francesi
avverrà nel 1848.
* All’abolizione del sistema feudale ed al regime delle terre si ricollega strettamente un’altra
idea forza della Rivoluzione, quella della proprietà che guida molte della attività legislative
rivoluzionarie. Gli artt. 2 e 17 della Dichiarazione dell’89 inseriscono la proprietà tra i diritti
naturali e imprescrittibili dell’uomo e la definiscono “un diritto sacro e inviolabile”. È l’unico tra i
diritti ad avere una definizione così solenne e la sua importanza è confermata dalla costituzione del
1791, in base alla quale senza una qualche proprietà non si è “cittadini attivi” e quindi non si ha
neppure il diritto di voto, dato che esso si basa su un minimo di contribuzione fiscale.
Da questo solenne principio viene la formale condanna di ogni vincolo feudale che ne freni e
limiti l’esercizio, ma viene soprattutto una diversa nozione di proprietà rispetto alla tradizione di
ancien régime. Al riguardo va ricordato che la Francia del 1789 è in larghissima misura incentrata
sull’agricoltura. Oltre 1/3 delle terre è direttamente gestito dalla Corona o dai grandi feudatari o da
enti ecclesiastici e sottratto quindi al sistema fiscale. Queste terre sono per lo più incolte e lasciate a
boschi e paludi, adibite soltanto alla caccia (privilegio e ‘passatempo’ della nobiltà). Vi è poi una
piccolissima quota di terre di proprietà di agiati possidenti, gestite di fatto come i feudi, e poi c’è la
gran parte delle terre coltivate.
Tra queste ultime, tuttavia, ben poche sono terre in regime di dominio pieno, dette terre
allodiali, cioè senza nessun tipo di vincolo feudale; l’enorme maggioranza è invece costituita da
terre cosiddette signorili, vale a dire tenute e coltivate da famiglie di piccoli contadini, cui però il
terreno è ‘solo’ concesso, magari in epoca remota e in perpetuo, ma comunque concesso da un
signore con il contraccambio di lucrosi pagamenti in denaro o in natura, di servigi vari, anche
personali (le famose corvée), privilegi di caccia e pesca, prerogative di giurisdizione e simili.
È il regime del cosiddetto dominio diviso, che già conosciamo dalla sua origine medievale,
in cui il diritto di chi coltiva la terra è detto dominio utile, mentre al signore spetta il dominio
diretto. Il dominio utile, nella realtà francese di fine settecento, quando anche è incontestato, talora
è così gravato dai privilegi signorili e dal fisco statale, da risultare insufficiente anche al puro
sostentamento del suo titolare e della sua famiglia. A questo si sommano infine perfino i
numerosissimi diritti delle comunità di villaggio, spesso di origine consuetudinaria (per esempio
non si può recintare perché dopo il raccolto i compaesani hanno diritto alla spigolatura, oppure c’è
diritto di pascolo etc.). Un ultimo rischio corso è infine quello del retratto: quando acquista un
terreno, il contadino non è tranquillo per 1 anno e 1giorno, perché entro quel tempo la famiglia del
venditore o il signore stesso può rivendicare il bene.
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Non sorprende quindi che tra i cahiers del 1789 moltissimi pongano queste questioni come
prioritarie. Un periodo di carestia appena trascorso quell’anno ha ulteriormente esacerbato gli
animi, di qui le rivolte cui si accennava parlando del decreto del 4 agosto. I suoi decreti attuativi,
però, ponendo le condizioni per l’effettiva abolizione del feudo, limitano molto l’iniziale proclama.
Cadono infatti, come detto, senza indennità, i diritti spettanti al signore in quanto tale, cioè
privilegi personali ed onorifici, così come il servaggio della gleba e la manomorta, le corvées e i
diritti di caccia; quanto ai diritto economici, che derivano dalla titolarità del dominio diretto, non si
prevede la semplice abolizione ma la possibilità del RISCATTO, che consentirebbe all’utilista di
divenire finalmente unico proprietario.
Per poter riscattare i diritti del dominio diretto, occorre in sostanza pagare una somma pari al
20-25 volte il canone annuo.
Il comitato feudale che deve stendere la lista dei diritti riscattabili nel marzo 1790, tuttavia,
provoca nuovo malcontento perché, influenzato dalle classi nobili, rende troppo facile ai signori la
prova dei loro titoli mentre è quasi impossibile quella contraria dell’utilista. Dopo una dura reazione
nelle campagne, la svolta vera si attua due anni dopo, nel 1792, quando l’Assemblea Legislativa con
due decreti ribalta completamente la situazione affermando che “ogni proprietà fondiaria è da
ritenersi franca e libera da qualunque diritto” a meno che il signore sia in grado di produrre l’atto
originale di infeudazione, cosa pressoché impossibile.
La Convenzione il 17 luglio 1793 metterà la parola fine dichiarando che tutti i diritti in
precedenza definiti riscattabili, sono ora aboliti senza indennità. Tutti i titoli che documentano
qualsiasi diritto signorile devono essere portati all’ammasso entro tre mesi perché siano bruciati
pubblicamente.
Scomparso così il dominio diretto, ciò che rimane è una nuova figura di proprietà, è la
proprietà, sacra e inviolabile, che va ora distribuita perché sia accessibile al maggior numero di
persone.
Si è già visto come fossero stati confiscati i beni ecclesiastici, nazionalizzati e messi in
vendita tra primavera ed estate del 1790. Secondo il piano studiato al riguardo dalla Convenzione,
l’obiettivo di tale grandissima operazione (le terre confiscate sono di enorme ampiezza) è di
aumentare di molto il numero dei cittadini proprietari, oltre a alleggerire il drammatico deficit dello
stato.
Per tali ragioni le grandi proprietà ecclesiastiche vengono divise in piccoli lotti messi all’asta
a un prezzo ‘politico’ e con pagamenti rateizzati (occorre versare un acconto del 12% del prezzo,
salito poi al 20% e poi 12 rate mensili che slittano fino a 4 anni e 1/2).
In una tappa successiva, nell’estate 1792, si dispone anche obbligatoriamente la divisione di
quelle terre che erano soggette ad un regime di proprietà collettiva di villaggio: le fortissime
resistenze delle popolazioni rurali, che da questo uso collettiva traevano spesso il sostentamento,
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fanno cambiare dopo solo 1 anno (giugno 1793) da obbligatoria in facoltativa tale divisione, con in
più la precisazione che se si decide di farla, dovrà portare a un equo riparto tra tutti gli abitanti del
villaggio.
Infine un terzo passaggio di questa ampia operazione politico-giuridica è la messa in
vendita, dopo quelli ecclesiastici, dei beni degli emigrati (agosto 1792), che vengono messi all’asta
con le stesse regole usate per le terre della Chiesa. Anche in questo caso si tratta di quantità e valore
ingenti (si è infatti calcolato che a fuggire all’estero furono oltre 150.000 persone, sia appartenenti a
clero e nobiltà, sia anche a borghesia e popolo, ad esempio fuggiti per ragioni religiose).
Con la nuova definizione giuridica di proprietà e con queste massicce nazionalizzazioni ed
aste si vuole dunque attuare una politica sociale davvero rivoluzionaria, con una ingente crescita
numerica delle piccole proprietà rispetto ai grandi feudi.
Gli storici hanno tuttavia rilevato che ciò non ha significato una vera e profonda
democratizzazione della proprietà stessa e un largo accesso a tale ‘sacro’ diritto da parte dei ceti più
popolari come operai e braccianti.
Poiché tra gli scopi della vendita, oltre che quelli sociali, ci sono e sono preponderanti quelli
economici, legati al debito pubblico e al bilancio dello Stato, nelle aggiudicazioni viene privilegiato
chi può pagare in contanti. Oltre a molti episodi di imbrogli e accaparramenti illeciti, vi è dunque il
fatto che chi può permettersi di pagare in contanti il prezzo delle terre, calmierato ma comunque
notevole, non sono certo i piccoli contadini e operai, ma spesso gli stessi signori nobili o grandi e
facoltosi mercanti e professionisti. Lo slogan ‘tutti proprietari’ non è quindi attuato; si crea semmai,
accanto alla vecchia nobiltà di ancien régime che in parte risolleva le sue sorti con questi acquisti,
una nuova nobiltà di proprietari terrieri.
La famiglia tra il 1789 ed il 1804
La legislazione rivoluzionaria (soprattutto tra il 1789 e il 1795), ispirandosi all'idea del
primato della legislazione e della legge come strumento di rigenerazione, creativo di libertà e di
uguaglianza, impronta ai propri principi fondanti anche le riforme, questa volta davvero profonde e
radicali, del diritto di famiglia. Essa peraltro continua ad essere esaltata, sulla scia illuministica,
come nucleo affettivo veramente libero e naturale. Di fatto però se ne avvia la crisi perché i principi
rivoluzionari, portati al loro estremo, finiscono in qualche modo con il collidere.
Anche nell’ambito del diritto di famiglia le idee portanti sono quelle di libertà personale, di
proprietà individuale e di uguaglianza.
L'idea di libertà personale, concepita appunto, abbiamo detto, come diritto del singolo che supera
anche i legami familiari, conduce alla piena secolarizzazione del matrimonio assimilato anche nel
testo costituzionale del 1791 (art. 7: “la Legge non considera il matrimonio se non come un
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contratto civile”) a un mero contratto civile. Anche in precedenti ordinanze regie si erano previste
forme di pubblicità o di verifica degli impedimenti e si era parlato di un contratto matrimoniale;
tuttavia tale contratto (su cui ad esempio anche Pothier scrive un trattato Contrat de mariage nel
1771), non aveva mai avuto forme proprie regolate dal diritto civile; lo Stato riconosceva
comunque come unica forma ammessa quella canonica e l’unica prova della sua celebrazione
erano i registri parrocchiali. Ora invece per la prima volta la Costituente decide di non considerare
più il matrimonio se non come un contratto civile.
Il contratto di matrimonio così inteso può essere stipulato, ovviamente, senza più bisogno
del consenso paterno e senza alcuno dei vincoli previsti dal diritto canonico (voti, parentela etc.;
rimane solo il divieto tra fratelli ammettendo invece zio e nipote o cugini germani: è abolito
ovviamente anche il celibato ecclesiastico che per lo Stato non ha alcun rilievo) e documentato poi
da registri pubblici dello stato civile.
Su questa base si giunge come conseguenza logica, a proclamare che anche la "facoltà di
divorzio" risulta dalla libertà personale di cui un impegno irrevocabile costituirebbe la perdita. Il
principio è così dichiarato il 20 settembre 1792, sopprimendo contestualmente la separazione,
reputata inutile e illogica, dato che non scioglie il vincolo.
Si tratta di un provvedimento davvero dirompente e persino di una forzatura rispetto alla
volontà popolare, dato che il tema, ad esempio, non è neppure toccato in nessuno dei cahiers de
doleance e anche la maggioranza dei deputati è contraria.
A risultare decisivo è però proprio il richiamo all’irriducibile diritto dell’uomo alla felicità,
una felicità che non può realizzarsi che nell’assoluta libertà (un forte contributo è dato al riguardo
dai movimenti femministi che difendono il divorzio come strumento di liberazione della donna
dalla schiavitù dell’uomo).
Nel corso del periodo rivoluzionario e specialmente negli anni che vanno dal 1792 al 1795,
le ipotesi di divorzio previste dalle leggi che via via si susseguono vanno così facendosi sempre più
numerose. Si ammette dunque il divorzio per mutuo consenso, incompatibilità di umore e di
carattere addotta da uno dei coniugi (in tal caso l’unico limite è costituito da un triplice tentativo di
conciliazione attuato dal tribunale di famiglia durante un periodo di 6 mesi) ed infine ben 7 altre
cause allegate da uno dei coniugi: demenza, follia o furore di uno dei coniugi; condanna a pene
afflittive o infamanti; delitti, sevizie o ingiurie gravi; notoria sregolatezza di costumi; abbandono di
almeno 2 anni; assenza di almeno 5 anni senza notizie; emigrazione politica.
Solo due anni dopo, nell’aprile del 1794, si giunge a comprendere tra le cause sufficienti a
sciogliere il matrimonio la semplice separazione di fatto durata 6 mesi e attestata con un atto
notorio.
Benché fin dall’inizio si affermi il valore contrattuale del matrimonio e l’intenzione di
risanare e non certo di distruggere l’istituzione familiare, l’idea di libertà dell’individuo spinta alle
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sue estreme conseguenze porta ad un esito socialmente pericoloso ed in contrasto anche con
l’impostazione iniziale che equiparava il matrimonio a un contratto (che si può sì sciogliere o
consensualmente o anche unilateralmente ma, in questo secondo caso, richiede che si alleghi una
giusta causa). Se ne rendono conto, dopo la fine del Grande Terrore, gli stessi deputati della
Convenzione termidoriana che abrogano il decreto del 1794 e avviano una politica di ritorno
almeno parziale al passato.
Il medesimo principio libertario porta alla demolizione dell’intera struttura tradizionale della
famiglia.
A cadere sotto i colpi dei legislatori rivoluzionari è prima di tutti l’istituto della patria
potestà, insieme ad uno dei più grandi poteri attribuiti al padre, la libertà di testare.
Già nel 1791 nel dibattito svoltosi alla Costituente per approvare una prima legge sulle
successioni intestate, emergono durissimi attacchi contro l’autorità paterna: si descrive la
Rivoluzione stessa come movimento dei figli contro l’ideologia retriva dei padri…
Le prime radicali riforme sono legge già l’anno successivo: si afferma che la patria potestà
cessa al compimento dei 21 anni, cioè può essere esercitata solo fino alla maggiore età dei figli, e
può cessare anche prima in caso di emancipazione o matrimonio, e nel loro esclusivo interesse.
Il padre è così privato dei più forti strumenti del suo potere come il diritto discrezionale di
far incarcerare il figlio (tale potere è attribuito da una legge dell’agosto 1790 al tribunale di
famiglia, con il controllo del Tribunale di distretto, e solo su figli minori di 20 anni e non oltre un
anno).
Un’altra idea chiave rivoluzionaria, quella della libera proprietà concepita come diritto pieno
ed assoluto, porta come abbiamo visto, alla condanna di tutti i vincoli feudali facendo così
scomparire le vecchie strutture allargate e vincolanti delle famiglie nobili. Nel settembre dello
stesso 1792 si vietano le sostituzioni fedecommissarie e nel marzo 1793, nel corso di una
animatissima seduta della Convenzione, già ormai sotto il dominio giacobino, si afferma che “la
facoltà di disporre dei propri beni sia a causa di morte sia tra vivi sia per donazione contrattuale in
linea diretta è abolita”. Ciò significa naturalmente che il padre non ha più la facoltà di
diseredazione. Nell’estate dello stesso anno il percorso ‘egualitario’ viene completato stabilendo
che non vi sia più alcuna differenza tra i vari tipi di filiazione (“davanti alla legge non esistono
bastardi” art.1)
Al contempo, per ampliare la famiglia e dividerne il patrimonio si favorisce anche l'adozione, cui
si attribuisce pure una nuova funzione sociale. L’istituto è liberalizzato al massimo: vi è ammessa
ogni coppia fino ad un massimo di 12 figli di età massima 16 anni.
Alla stessa finalità egualitaria mira il regime legale di comunione dei beni tra coniugi anche se
l'obiettivo qui rimane 'spezzato' dal mancato accoglimento da parte della Convenzione della
proposta, avanzata da Danton e Desmoulins, di affidare a entrambi i coniugi l'amministrazione dei
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beni comuni, che rimane invece solo al marito, ancora considerato capo della famiglia. Alla donna
infatti non è mai, neppure dalla Rivoluzione, garantita la piena uguaglianza: solo nel diritto
successorio è abolita ogni prevalenza maschile; rimane invece la potestà maritale. A giustificarla è
qui invocata, si badi bene, proprio quell'idea di natura che giustificava la libertà e l'uguaglianza: si
parla infatti di superiorità naturale dell'uomo sulla donna.
Nel complesso, l'intenzione dei rivoluzionari non è dunque quella di distruggere la famiglia,
ma semplicemente di sostituire a quella di ancien régime, una nuova tipologia, meno 'dispotica' e
più fondata sulla solidarietà e sugli affetti.
Il trionfo dell'individualismo porta però ben presto ad una crisi di questa istituzione. Nel
pieno del Terrore giacobino sono approvate leggi che ammettono alla successione i figli naturali
con parità di diritti (novembre 1793) e che riducono drasticamente la quota disponibile di qualsiasi
testamento, riducendola solo ad in 1/10 o 1/6 a seconda che vi siano o no figli. La cosa più
incredibile è che entrambi questi provvedimenti sono dichiarati RETROATTIVI a tutti i testamenti
formulati dal 14 luglio 1789.
Infine si ritocca ancora la successione intestata secondo il criterio della più rigorosa
uguaglianza tra tutti i figli.
Dal 1795 si muta però in parte l'indirizzo politico cercando di tornare indietro ridando più
prerogative alla famiglia legittima per restituirle stabilità. Un ritorno che diventerà nettamente
evidente con il codice civile del 1804.
I progetti di codice civile
Abbiamo visto come numerose siano state le leggi che intervenivano in importanti settori del
diritto privato . Contemporaneamente non si è certo rinunciato all’idea di arrivare ad una redazione
uniforme in un codice civile che rifondi alla radice tutto il sistema giuridico previgente. Forse è
proprio questa fiducia di poter riscrivere e rigenerare per intero il diritto civile a non far cogliere
appieno ai legislatori rivoluzionari la difficoltà dell’impresa e a determinare dunque il fallimento di
tutti i progetti preparati a tale scopo.
Vi è la convinzione che il nuovo codice civile non debba in nulla appoggiarsi a punti fermi
della tradizione, che non vi sia nulla che può e deve essere conservato, che vada troncato ogni
rapporto con la storia, secondo la dura affermazione pronunciata fin dal 1788 dal deputato grondino
Rabaut-Saint-Etienne (poi ghigliottinato nel 1793) per cui “la nostra storia non è il nostro codice”,
che fa eco a sua volta anche alle idee di Robespierre. Questi, in un suo discorso del 1794, asserisce
con decisione che “la natura ci dice che l’uomo è nato per la libertà, e l’esperienza dei secoli ci
mostra l’uomo schiavo. I suoi diritti sono scritti nel suo cuore e la sua umiliazione nella storia”.
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In questo clima si spiega perché i lavori per approntare un codice iniziano solo nel 1793 e si
spiega allo stesso tempo l’accoglienza negativa riservata dalla Convenzione nello stesso 1793 al
primo di tre successivi progetti di codice civile che vengono sottoposti al suo esame.
Nell’ambito del Comitato di Legislazione viene delineata (giugno 1793) una
sottocommissione di 12 membri che deve dedicarsi al codice civile. Ne fanno parte alcuni giuristi
dagli orientamenti assai riformisti (come Berlier e Oudot) e lo stesso Merlin che è però impegnato
nello stesso momento anche nei lavori del codice di procedura e non collabora molto.
L’autore effettivo, di questo come degli altri due progetti che vedremo, è il deputato Jean-
Jacques-Régis de Cambacérès (1753-1824). Nato a Montpellier era stato presidente del tribunale
penale prima di essere eletto alla Convenzione nel 1792. Si tratta quindi di un giurista esperto, di
notevolissime capacità tecniche, abile statista che sarebbe stato in grado di superare senza danni le
situazioni più delicate, grazie ad una straordinaria capacità di adattamento e di vero e proprio
opportunismo (Cavanna ne dà un giudizio piuttosto duro, sottolineandone il carattere pavido e la
vanità e ricordando soprattutto i suoi continui voltafaccia durante il processo a Luigi XVI), tipica di
quegli esponenti della classe di governo rivoluzionaria, capaci di superare indenni il periodo del
Terrore e persino di rimanere al potere anche poi, nel successivo regime napoleonico. Cambacérès
infatti sarebbe divenuto nel 1799 Ministro della Giustizia e, dopo il colpo di stato del 18 brumaio
che avrebbe consolidato il potere napoleonico, sarebbe stato nominato Secondo Console; infine, nel
1804, sarebbe divenuto addirittura duca di Parma e arcicancelliere dell’Impero e come tale
presidente del Senato e del Consiglio di Stato.
Esiliato alla caduta di Napoleone, torna in patria riabilitato nel 1818.
Nella vicenda della progettata codificazione civile, Cambacérès gioca un ruolo essenziale,
dimostrandosi assai duttile dal punto di vista politico e talmente abile sul piano della elaborazione
normativa da poter confezionare nel giro di pochissimi anni ben 3 progetti, ognuno dei quali
rispondente a un determinato momento dell’evoluzione ideologica della Rivoluzione.
a) Il primo progetto, come detto, è presentato alla Convenzione il 9 agosto 1793. È
costituito da 719 articoli, distribuiti, secondo una sistematica di matrice ancora chiaramente
romanistica, in 3 libri, dedicati rispettivamente allo stato delle persone, alle cose e ai contratti (in
origine prevedeva anche un 4° libro dedicato alle azioni, che non viene però mai realizzato). È un
testo ben congegnato, che intende dare concreta attuazione ai principi dell’uguaglianza dei cittadini
di fronte alle legge e della libertà contrattuale.
In tema di obbligazioni Cambacérès utilizza ampiamente Pothier e per il resto attinge
ampiamente alle opere dei giusnaturalisti. Le parti più nuove e originali del testo concernono il
diritto delle persone e della famiglia: qui infatti, dando piena attuazione alle idee rivoluzionarie, si è
cancellata l’antica patria potestà e anche la potestà maritale, con anche la previsione della
amministrazione comune dei beni; si introduce un divorzio molto ‘facile’ con procedura
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semplificata (in sostanza il matrimonio esiste solo finché c’è la volontà degli sposi); si dà poi piena
apertura ai figli naturali, ammessi a succedere alla pari. Al testatore è lasciata una disponibile di
solo 1/10 del patrimonio se vi sono discendenti (1/6 negli altri casi).
In materia di proprietà si vuole confermarne il valore sacro e inviolabile e si predispone il
suo completo affrancamento da ogni vincolo feudale.
Allo stesso modo nella materia dei contratti si pone al centro di tutto la volontà delle parti.
Per gli stessi principi, il fatto illecito che causa un danno ingiusto è indicato tra le fonti di
obbligazione: è la prima previsione della responsabilità civile, anche se non definita espressamente
in questi termini (non si accenna al fatto che deve esservi la colpa).
L’autore ritiene che il suo testo sia pienamente corrispondente ai principi del diritto naturale
e dotato dei caratteri illuministici dell’unità e della semplicità. Ciò nonostante viene accolto con
diffidenza dalla maggioranza dei deputati che, nel corso di un vivace dibattito protrattosi dal 22
agosto al 28 ottobre 1793, dopo una prima accoglienza che appariva favorevole, alla fine lo
respingono (3 novembre) poiché lo giudicano «troppo giuridico», vale a dire ancora troppo legato al
tradizionale tecnicismo giuridico e quindi non sufficientemente comprensibile per il comune
cittadino; anche sul piano del contenuto, il progetto è giudicato non ancora completamente libero
dai condizionamenti del diritto di antico regime e quindi non pienamente conforme agli ideali
propugnati dall’Illuminismo, in particolare laddove accoglie alcuni principi desunti dal droit
coutumier (in materia di diritto di famiglia e di successioni) o dal diritto romano (in tema di
obbligazioni). Dimostrando appieno il polemico scetticismo e quasi ‘fastidio’, tipico di questa fase
rivoluzionaria, verso i professionisti del diritto, eco dell’ideologia antigiurisprudenziale che anima
anche la legislazione rivoluzionaria in materia penale e giudiziaria, la Convenzione, il 3 novembre
1793, decide di sottoporre il progetto a una Commissione di revisione, formata non da giuristi ma
da 6 ‘filosofi’. La delibera – ben significativa sul piano ideologico (a determinarla è in realtà la
volontà politica contraria del Comitato di Salute pubblica di Robespierre, che ormai spadroneggia e
soprattutto che non vuole un codice civile proprio perché fisserebbe quei diritti che il Terrore sta per
vanificare) – in concreto non viene però realmente applicata; o meglio, la revisione del progetto
avviene, ma l’opera di riforma venne condotta, sempre all’interno del Comitato di legislazione,
dallo stesso Cambacérès, che ottiene in questa fase maggiore aiuto da Merlin, che pure sta ancora
lavorando alla redazione anche del codice di procedura penale che porterà il suo nome, oltre che da
altri.
b) Ancora a nome del Comitato di legislazione, dunque, Cambacérès presenta alla
Convenzione un secondo progetto il 9 settembre 1794, poche settimane dopo la caduta di
Robespierre. Il testo è assai più breve ed agile del precedente. Benché sempre diviso in 3 libri
secondo la consueta tripartizione (persone, beni, obbligazioni) è composto di soli 297 articoli, oltre
tutto scritti con sintesi estrema: veri e propri proclami, quasi slogan (alcuni esempi: «i beni sono
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mobili o immobili», «non c’è convenzione senza consenso», «chi causa un danno è tenuto a
risarcirlo» etc.). Esso rappresenta un vero e proprio compendio dei principi del giusnaturalismo più
radicale e dell’Illuminismo giuridico rivoluzionario e rappresenta il punto di maggiore distacco, in
questo percorso, dalla tradizione giuridica romanistica, che è ormai rispettata solo nella tripartizione
delle materie, come pure da quella consuetudinaria. Specialmente in tema di diritto di famiglia, esso
porta alle estreme conseguenze i principi di libertà e di uguaglianza propugnati dall’ultima e più
radicale fase del pensiero illuminista: ne sono esempio la nozione di matrimonio come puro
contratto e la facile possibilità di divorzio, la soppressione della patria potestà, l’abolizione della
potestà maritale, la completa parificazione tra figli legittimi e figli naturali (solo se riconosciuti: la
ricerca della paternità resta vietata), l’apertura all’adozione. È concepito in realtà più che altro come
un codice di principi e di leggi fondamentali che avrebbero dovuto ispirare i successivi legislatori;
come un insieme di chiare e semplici prescrizioni di carattere generale, che non attuano una
compiuta disciplina della materia civilistica, ma piuttosto una “pura e cristallina introduzione
filosofica al diritto civile” (Cavanna). Rappresenta quindi appieno l’idea di abbattere con la ragione
la “tirannia della tradizione giuridica” che anima i legislatori rivoluzionari, come dimostrano le
parole introduttive dello stesso Cambacérès: «tre cose sono necessarie e sufficienti all’uomo che
viva in società; essere padrone della sua persona; possedere dei beni per far fronte ai suoi bisogni;
poter disporre, in vista del proprio massimo interesse, della propria persona e dei propri beni. Tutti i
diritti civili si riducono dunque ai diritti di libertà, di proprietà e di contrattare».
Espressione della fiducia illuministica nella legislazione come mezzo per creare e garantire
la felicità del popolo e traduzione in campo giuridico dei dogmi libertari ed egualitari del partito
giacobino esso è però posto in discussione dopo la sanguinosa eliminazione del gruppo di potere
guidato da Robespierre, Saint Just etc., e va perciò incontro al rapido rigetto da parte della
Convenzione, nel cui ambito il clima politico e ideologico è ormai profondamente mutato.
Giudicato un semplice indice di materie piuttosto che un vero codice di leggi civili; descritto come
troppo conciso, sommario e generico; criticato per il suo astrattismo etico e il suo estremismo
dottrinario e considerato in sostanza come utopistico, questo progetto viene archiviato, dopo la
discussione e l’esame solo dei primi 10 articoli, nel dicembre 1794.
c) Ancora a Cambacérès viene comunque affidata la redazione anche del terzo progetto
di codice, alla presidenza di una commissione di cui fa di nuovo parte anche Merlin. Il 12 giugno
1796 Cambacérès presenta i frutti del suo lavoro al Consiglio dei Cinquecento, il nuovo organo
legislativo che, dall’ottobre 1795, ha sostituito, insieme ad un Direttorio esecutivo e all’altro
consiglio, quello degli Anziani, la Convenzione Nazionale. Questo terzo progetto vede riemergere
in seno alla legislazione civile la tradizione giuridica romanistica e consuetudinaria.
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Si abbandonano le posizioni estreme raggiunte 2 anni prima e si torna a un compromesso tra
esperienza e riforma, tra tradizione e innovazione (in parte già presente nel primo progetto) dal
quale nascerà poi anche il Codice Napoleone.
Il progetto è il più ampio dei 3; contiene ben 1104 articoli, divisi, secondo l’impostazione
ormai consolidata, in 3 libri (persone, beni, obbligazioni). Dal punto di vista della formulazione dei
singoli articoli, si nota un’accurata ricerca di chiarezza, di concretezza e di precisione tecnica e, sul
piano sostanziale, una rinnovata ispirazione alle dottrine del diritto naturale, moderata però
dall’accoglimento di numerosi principi ripresi dalla tradizione giurisprudenziale e consuetudinaria,
oltre che da quella romanistica. È un progetto che ha molti pregi, sia formali che sostanziali (tanto
che sarà tenuto ben presente dai futuri redattori del Codice Napoleone) ma che appare ai membri del
Consiglio dei Cinquecento pur sempre legato a certe scelte ideologiche tipiche del recente passato
giacobino, dalle quali ormai la cauta Francia del Direttorio si sta rapidamente allontanando.
Si conserva ad esempio il divorzio per incompatibilità di umore, ormai molto criticato per la
sua eccessiva facilità, e si continua a considerare la patria potestà come semplice «dovere di
protezione», così come rimane il netto sfavore per il testamento (la disponibile è ancora 1/10). Nei
rapporti tra coniugi, invece, si invoca nuovamente il diritto naturale per rinnegare la parità che nel
precedente progetto si era posta appunto in nome dello stesso «ordine naturale» e si affida
l’amministrazione al solo marito. Sulla stessa linea si torna a distinguere la situazione dei figli
naturali (solo ½ della porzione ereditaria) rispetto ai legittimi e si limita l’adozione solo ai coniugi
senza figli.
Per questi motivi in realtà il progetto risulta in qualche modo contraddittorio, a metà tra
rivoluzione e reazione.
A causa di queste difficoltà e soprattutto ancora una volta a causa del momento politico, con
i dubbi nel frattempo insorti circa l’effettiva opportunità di realizzare in tempi brevi un codice civile
e infine per quella più generale perdita di entusiasmo che caratterizza gli ultimi anni della
Rivoluzione, anche questo progetto segue la sorte dei precedenti e si perde in una stanca e
inconcludente discussione. Viene letto al Consiglio tra dicembre 1796 e gennaio 1797, ma poi la
discussione è ripetutamente interrotta e ripresa senza mai giungere in porto. Si approvano solo 2
articoli e si esamina solo il diritto di famiglia, quello che più interessa in questa fase di reazione.
In effetti in questo campo i mutamenti di orientamento rispetto a solo due anni prima sono
moltissimi. Lo si vede anche dagli ultimi abbozzi e progetti predisposti tra il 1798 e 99, privati e
ufficiali:
d) Un primo progetto frutto del lavoro privato di un singolo giurista è quello predisposto da
Guy Jean-Baptiste Target: grande avvocato durante l’ancien régime, aperto però alla cultura
illuministica e quindi entrato nell’Assemblea Costituente, poi presidente della sezione civile del
Tribunale di Cassazione, sarà ancora ai vertici dell’attività legislativa con Napoleone. Il suo
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progetto disciplina la famiglia secondo gli orientamenti emersi dopo Termidoro,cioè con una figura
paterna di nuovo forte, differenza tra figli legittimi e naturali, donna sottoposta all’autorità maritale,
divorzio reso meno facile etc. Quanto alla proprietà, vi si trova già un atteggiamento che sarà tipico
anche del code Napoléon, vale a dire che essa è sì definita sacra e inviolabile, ma il suo esercizio è
sottoposto al controllo della legge.
Torna anche, nel progetto, l’istituto dell’incarcerazione per debiti.
e) Tra i giuristi che già facevano parte del gruppo di redazione del 3° progetto Cambacérès
vi è anche Jean Guillemot, autore tra l’altro di un progetto di codice di procedura civile nel 1797.
Questi, a titolo personale, presenta al Consiglio dei Cinquecento nel 1799 un progetto di codice
delle successioni fatto di 244 articoli e improntato a orientamenti decisamente reazionari: prevede
infatti la reintroduzione di patria potestà e testamento, nella convinzione che sia illusorio
immaginare una famiglia incentrata solo sugli affetti. Occorre secondo lui dare al padre armi
concrete di controllo e il testamento ha appunto questo scopo, compresa la diseredazione
(naturalmente va secondo lui anche ripristinata la distinzione tra figli legittimi e naturali).
f) Si è accennato anche alla redazione di progetti ufficiali. Nel 1798 infatti era stata formata
una nuova commissione presieduta da Jean-Ignace Jacqueminot e composta da 6 giuristi. Per
ragioni pratiche e ‘tattiche’ il metodo adottato è quello di preparare la codificazione a tappe
approvando una legge alla volta corrispondente grosso modo a ogni titolo del futuro codice (lo
stesso farà, con più successo, Napoleone). Il progetto predisposto da Jacqueminot è quindi solo
parziale, concernendo semplicemente il 1° libro.
È presentato alla Commissione legislativa del Consiglio dei Cinquecento il 21 dicembre
1799, pochi giorni dopo il colpo di stato del 18 Brumaio (cioè 9 novembre) con cui Napoleone ha
definitivamente preso il potere. L’autore gode infatti della stima di Bonaparte. Il progetto contiene
quindi 9 titoli riguardanti matrimonio, maggiore età, tutela dei minori, donazioni, successioni e
poco altro per un totale di circa 900 articoli. Benché non sia andato oltre un sommario esame da
parte della commissione, anche questo progetto ha comunque avuto una certa importanza. Nelle
materie trattate, infatti, esso si presenta curato nei dettagli e notevolmente avanzato dal punto di
vista tecnico-sistematico, con una disciplina anche ben approfondita. Esso perciò avrà una rilevante
influenza per quelle materie, insieme al 3° progetto Cambacérès ed a quello coevo di Target, sul
progetto successivo, quello che porterà al codice del 1804 (lo dirà apertamente Portalis nel suo
discorso preliminare, ricordando gli «utili lavori» della commissione).
Nel suo progetto, Jacqueminot si propone dichiaratamente di individuare una disciplina
civilistica che assicuri pace e stabilità attraverso l’unione familiare: va dunque reso più stabile il
matrimonio, rendendone meno facile lo scioglimento, ridata autorità al marito sulla moglie, e ridato
al padre lo strumento per punire o ricompensare i figli sia in vita (torna il carcere per il minore
ribelle) sia con l’arma del testamento.
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Con il 1799 si chiude comunque la prima fase dell’opera di progettazione di un codice civile
intrapresa in Francia dopo la rivoluzione del 1789. Apparentemente queste vicende non conducono
ad alcun risultato concreto, eppure sono state molto importanti per la elaborazione della stessa idea
moderna di codice, spianando così la strada alla realizzazione del Code civil. Certo tra le cause di
questi primi insuccessi vi fu soprattutto, accanto ai problemi tecnici e ideologici, la mancanza, nei
momenti decisivi, di una precisa, univoca e persistente volontà politica intesa alla realizzazione di
una compiuta legislazione civile. Questa volontà politica si realizza in modo non equivoco solo
dopo il colpo di Stato del 18 brumaio anno VIII, cioè il 9 novembre 1799, che porta alla presa di
potere da parte di Napoleone e all’istituzione del governo consolare.
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Verso il code civile des Français
Il 24 frimaio anno VIII (15 dicembre 1799) il Primo Console Bonaparte può ormai
affermare che «la Rivoluzione è finita» e avviare la trasformazione della Repubblica in uno Stato
accentrato a vocazione imperiale. Ciò provoca ovviamente un drastico ridimensionamento degli
ideali rivoluzionari, ma non il totale abbandono delle conquiste giuridiche incominciate coi fatti
dell’Ottantanove e ormai penetrate nella coscienza civile della nazione. Tali conquiste giuridiche
continuano ad informare una parte non esigua della legislazione e influiscono sullo stesso codice
civile, tanto è vero che, dopo la Restaurazione del 1814, esso sarà da molti reazionari giudicato
pericoloso o, dai sostenitori, descritto come prezioso strumento di progresso sociale e di liberazione
dall’oppressione.
Napoleone ha in effetti un rapporto molto particolare con i giuristi, su molti dei quali riesce
ad esercitare uno straordinario fascino. Si rende conto dell’importanza di affiancarsi tecnici di alto
livello e li sa scegliere con grande oculatezza. Molti dei suoi collaboratori hanno infatti
caratteristiche simili, cioè in particolare il fatto di avere svolto già nel periodo di ancien régime una
professione giuridica (avvocati e giudici), di avere poi aderito ai valori illuministici e rivoluzionari,
ma senza cedere agli eccessi giacobini (per lo più infatti le loro preferenze erano per una monarchia
costituzionale), tanto da essere stati perseguitati durante il periodo del Terrore, rischiando anche la
vita. Per questo, tutti sono dunque convinti dell’importanza di restaurare ordine e sicurezza. Con
questi giuristi Bonaparte stipulerà una vera e propria alleanza: il ritorno alla tradizione giuridica
auspicato da molti di questi giuristi si incontra con il progetto autoritario di Napoleone e il momento
di convergenza massimo si realizza proprio nel codice civile. Per Napoleone il codice è strumento
fondamentale di governo e di controllo; per i giuristi è il simbolo dell’ordine e del salvataggio della
tradizione. Per coloro che collaborano alla sua stesura è anche la grande occasione per
riappropriarsi, come ceto, del monopolio del diritto. Con il codice si potrà stabilizzare ciò che di
utile e positivo è venuto dal periodo rivoluzionario e proclamare i principi di libertà e uguaglianza
davanti alla legge.
Si diceva dunque che soltanto a Napoleone si deve quella decisa volontà politica che era
necessaria a portare a termine l’opera di codificazione civile. Questa volontà si manifesta già il 24
Termidoro anno VIII, cioè il 12 agosto 1800, con un decreto che istituisce presso il Ministero della
Giustizia, una commissione incaricata di redigere entro il 30 brumaio anno IX, cioè il 21 novembre
dello stesso 1800 (poco più di 3 mesi!!) un nuovo progetto di codice civile.
La commissione è composta di soli quattro membri, scelti però con grande accortezza. Sono
quattro illustri magistrati e grandi giuristi, diversi per mentalità, orientamento ed estrazione
culturale, ma accomunati da quello spirito di moderazione e da quelle tendenze liberali che
avevano loro permesso di superare indenni i momenti più critici della Rivoluzione. Sono
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1. François Tronchet, presidente del Tribunale di Cassazione, già esperto avvocato fin
da prima della rivoluzione e sempre autore di decisivi ed autorevoli interventi nell’Assemblea
Costituente (come quello che fece cadere la proposta di introdurre la giuria anche nei processi
civili). È tra i 4 certamente il più conservatore tanto che era stato difensore di Luigi XVI nel suo
processo e durante il periodo giacobino ha dovuto rifugiarsi nella clandestinità.
2. Felix Bigot de Prémeneu, avvocato e poi commissario del Governo presso il
Tribunale di Cassazione. Nel 1794 ha dovuto subire anche il carcere per le sue tendenze moderate.
3. Jacques Maleville, prima avvocato al parlamento di Bordeaux e poi giudice del
Tribunale di Cassazione, è sempre stato un sostenitore della monarchia costituzionale
4. Jean-Etienne-Marie Portalis, la vera mente e anima di tutto il lavoro della
commissione. Il Portalis aveva svolto per molti anni la professione di avvocato ad Aix e al
contempo era stato autore di opere e saggi filosofici. Nella prima fase della Rivoluzione, pur
condividendo gli ideali illuministici si era tenuto lontano dalla politica attiva, proprio per la sua
moderazione. Solo dopo la caduta di Robespierre era divenuto parlamentare, ma era stato costretto
all’esilio dopo un colpo di Stato avvenuto nel 1797. Durante il soggiorno in Svizzera aveva scritto
quella che resterà la sua opera dottrinale più nota ed importante, il saggio De l’usage et de l’abus
de l’esprit philosophique au XVIIe siecle. Rientrato in Francia con l’avvento al potere di
Napoleone, viene da lui chiamato in seno al Consiglio di Stato e in seguito nominato Ministro dei
Culti, grazie alla sua preparazione in materia di rapporti tra Stato e Chiesa, che ne fa anche
l’autore del Concordato stipulato tra la Francia e la Santa Sede nel 1801.
Come accennato, i membri della commissione sono portatori di differenti tradizioni
giuridiche: Tronchet è legato al modello nazionale francese di matrice consuetudinaria, e in
particolare alla Coutume di Parigi; Bigot de Premeneu e Maleville si sono formati giuridicamente
nel culto del diritto romano-comune, ma il primo ha anche vasta esperienza di droit coutumier.
Portalis infine, oltre ad essere originario dei paesi di diritto scritto, è un profondo conoscitore del
diritto romano.
Li unisce, appunto, la comune adesione a quel moderato riformismo illuminista che appare
ormai vincente nei confronti dell’estremismo rivoluzionario. Particolarmente significative appaiono
le idee politiche e giuridiche di Portalis, relatore del progetto e giurista dalla personalità più spiccata
rispetto agli altri tre e quindi maggiore ispiratore delle scelte di fondo operate dalla commissione.
Queste idee sono ben espresse proprio nel citato saggio su ‘uso ed abuso dello spirito
filosofico’: Portalis afferma un liberalismo non astratto, teso a conciliare le conquiste civili, sociali
e giuridiche del pensiero Settecentesco di matrice giusnaturalistica e razionalista (lo ‘spirito
filosofico’ appunto, dato che gli illuministi sono i ‘filosofi’ per antonomasia) con la parte più solida
della tradizione giurisprudenziale nazionale e romanistica.
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Portalis condanna sia i difensori dell’Ancien Régime, iniquo e feudale, sia i fautori del
giacobinismo, violento e improduttivo; respinge la dottrinaria e utopistica radicalizzazione dei
principi di libertà e di uguaglianza operata dai rivoluzionari più dogmatici e ritiene invece che
quegli stessi principi possano essere realizzati con saggezza e moderazione. Come detto, egli cioè
sostiene apertamente quello spirito di cauta conciliazione e di meditato accordo tra tradizione e
rivoluzione che costituisce appunto la solida base filosofica del codice napoleonico (“le nuove
teorie non sono che le massime di qualche individuo; le massime antiche sono lo spirito dei
secoli”).
Così costituita, la Commissione lavora alacremente, dividendo razionalmente i compiti tra i
quattro membri e utilizzando abilmente anche i progetti del decennio rivoluzionario, così come le
compilazioni e sistemazioni dottrinali del Sei e Settecento, specie le opere di Domat e Pothier,
filtrate e interpretate attraverso un’attenta applicazione dei canoni illuministi. In pochi mesi è pronto
un progetto, completato nel gennaio 1801 e subito inviato al Tribunale di Cassazione e a tutti i 28
tribunali d’appello, invitati ad esprimere in tempi brevi il loro parere al riguardo. Al contempo il
testo è depositato presso il Consiglio di Stato. Accompagna il progetto un celebre Discours
préliminaire, sottoscritto da tutti e quattro i membri ma redatto dal Portalis, nel quale vengono
delineati i caratteri principali del lavoro svolto; i presupposti ideologici di dialogo tra il vecchio e il
nuovo che hanno caratterizzato le scelte della Commissione; la stessa filosofia di lavoro dei quattro
giuristi è espressa in perfetta sintesi nella massima, divenuta celeberrima, per cui “è opportuno
conservare tutto ciò che non è necessario distruggere”.
Dice infatti Portalis che la situazione giuridica della Francia prerivoluzionaria era “un
immenso caos” di leggi, un “ammasso confuso” e contraddittorio di consuetudini, un “dedalo
misterioso” di privilegi e che perciò la realizzazione di una legislazione generale ed uniforme deve
essere considerata forse il più grande merito della Rivoluzione. Con fiducia tipicamente
illuministica nell’esistenza di una superiore giustizia naturale e nella possibilità di positivizzarla,
dice che tale attività è espressione di ragione, e in tal senso certamente rivoluzionaria. Si dice però
convinto che essa non si deve basare solo sulle astratte teorie dei philosophes, ma deve tener conto
anche delle “massime antiche” che sono “lo spirito dei secoli”.
Il lavoro compiuto dalla Commissione si è dunque fondato in misura non secondaria sul
recupero e sulla fusione di diritto romano (definito “il diritto che ha civilizzato l’Europa”) e droit
coutumier, e sullo sfruttamento delle grandi sistemazioni razionaliste di Domat e Pothier.
Come detto, già dai primi mesi del 1801 il progetto si trova presso il Consiglio di Stato. La
costituzione che ha istituito il governo consolare nel 1799 prescrive, come si è visto, che ogni
progetto di legge sia discusso e predisposto dal Consiglio di Stato e in seguito dibattuto (ma non
votato) da un apposito organo detto Tribunato, e infine sia approvato o respinto, ma non più
discusso o modificato dal Corpo legislativo, sentiti i rappresentanti del Governo e del Tribunato.
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Il momento di maggiore importanza di tale complesso iter formativo è proprio la discussione
che si svolge nel Consiglio di Stato, vero perno di tutta l’attività normativa e amministrativa dello
Stato napoleonico, anche perché le assemblee legislative vengono gradualmente rese ‘docili’ ed
esautorate da Napoleone.
In un primo tempo, infatti, anche nella vicenda del codice civile, ci sono degli ostacoli: nel
dicembre 1801 il Corpo legislativo aveva respinto i primi titoli, su precisa raccomandazione del
Tribunato, ove vi erano ancora parecchi elementi fedeli alle ideologie rivoluzionarie e contrari al
pur parziale abbandono di alcuni principi del droit intermediaire. Il Primo Console reagisce con
decisione a questo parziale insuccesso: il 2 gennaio 1802 sospende per 6 mesi i lavori delle camere
e in quel periodo di tempo svolge una energica opera di ‘persuasione’ presso il Tribunato, dal quale
sono anche allontanati alcuni membri assai critici verso il potere personale di Napoleone.
Nel luglio 1802 il Tribunato ricomincia dall’inizio l’esame del progetto e da quel momento i
lavori procedono senza intoppi. Già da questi primi segnali si comincia a capire perché con tanta
fierezza l’Imperatore, dall’esilio di Sant’Elena, abbia lasciato nelle sue memorie questa solenne
affermazione. “la mia vera gloria non è d’aver vinto 40 battaglie; Waterloo cancellerà il ricordo di
tante vittorie. Quello che non sarà cancellato, quello che vivrà eternamente è il mio codice civile”
(affermazione vicina al vero se si pensa che il codice nel 2004 ha compiuto i suoi 200 anni di vita,
essendo ancora, sia pure con ampie parti riscritte, vigente in Francia!).
In effetti il ruolo di Napoleone si può considerare realmente decisivo per la riuscita
dell’impresa di codificazione.
L’iter prevede che, per sveltire i tempi, il progetto non sia discusso nella sua totalità, ma
settorialmente. Il testo viene cioè suddiviso in 36 progetti separati, tanti quanti i titoli di cui sarebbe
poi risultato composto il codice; ogni sottoprogetto viene quindi preso in considerazione
separatamente, seguendo il percorso di cui s’è detto (Consiglio di Stato, Tribunato, Corpo
legislativo) e venendo promulgato, entrando in vigore come legge speciale. La discussione in
Consiglio di Stato si articola in due momenti: in un primo tempo i singoli titoli sono esaminati e
discussi solo dalla Sezione di Legislazione e poi dal Consiglio intero a sezioni unite.
In Consiglio siede il fior fiore della cultura giuridica francese, un gruppo di tecnici e politici
di grande valore, ed è presieduto, quando è presente, dallo stesso Napoleone.
Dal 1801 al 1804 il Consiglio dedica al progetto di codice civile ben 102 sedute (luglio
1801-marzo1804), ben 57 delle quali presiedute da Napoleone personalmente, assistito dalla
consulenza personale (talvolta nascosta) di un giurista del calibro di Merlin. Questa diretta presenza
di Napoleone è essenziale innanzi tutto come concreta espressione di quella volontà politica che,
come si è detto, si rivela decisiva per il felice esito dei lavori; ha però un ruolo anche sul piano
sostanziale per le scelte da fare su alcuni aspetti formali e sostanziali del testo. Questi aspetti sono,
da un lato, la non comune chiarezza del dettato legislativo, in parte attribuibile all’atteggiamento di
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Napoleone che, da profano, pretende di ben comprendere il significato delle singole prescrizioni;
d’altro lato vi è la presenza, specie in materia di diritto di famiglia e successioni, di soluzioni
normative talora conformi alla tradizione romanistica o consuetudinaria, più spesso dettate da senso
comune o, semplicemente, da spirito autoritario. In effetti, la maggior parte dei consiglieri si mostra
favorevole a soluzioni d’impronta romanistica, anche se non mancano discussioni anche tese e
vivaci tra i sostenitori delle consuetudini del nord e giuristi originari dei paesi di diritto scritto.
Le discussioni e approvazioni delle singole parti portano alla graduale emanazione di 36
leggi speciali (+ un titolo preliminare) che entrano man mano in vigore come normative a sé stanti e
infine vengono fuse e promulgate come unico codice, denominato code civile des Français, dalla
celeberrima legge del 30 ventoso anno XII, cioè il 21 marzo 1804, momento davvero storico per la
Francia.
Al suo articolo 7, questa legge decisiva decreta l’abolizione della vigenza delle fonti
normative d’Antico Regime dichiarando solennemente che “a far tempo dal giorno in cui queste
leggi sono esecutorie, le leggi romane, le ordinanze, le coutumes generali o locali, gli statuti, i
regolamenti, cessano di avere forza di legge generale o particolare nelle materie che sono l’oggetto
di tali leggi che compongono il presente codice”.
Tre anni dopo, nel 1807, confermando un uso già diffusosi nella pratica, il decreto che ne
pubblica la seconda edizione lo denomina ufficialmente e celebrativamente code Napoleon.
Il codice Napoleone: struttura e contenuti
Il code civil è composto da 2281 articoli, distribuiti in tre libri preceduti da un Titolo
preliminare, dedicato alla “pubblicazione, gli effetti e l’applicazione della legge in generale”, che
occupa i primi 6 articoli.
Il libro I, Delle persone, è composto di 11 titoli che disciplinano lo stato civile, matrimonio e
divorzio, paternità, filiazione, adozione, patria potestà e tutela (artt. 7-515).
Il libro II, Dei beni e delle differenti modificazioni della proprietà, è costituito di 4 titoli
dedicati al regime dei beni, alla proprietà e ai diritti reali su cosa altrui, alle servitù prediali (artt.
516-710).
Il libro III, Delle diverse maniere in cui s’acquista la proprietà, raccoglie in ben 20 titoli la
complessa e in parte eterogenea materia che comprende successioni, donazioni e testamenti,
contratti e obbligazioni, rapporti patrimoniali tra coniugi, transazione, pegno e ipoteca,
espropriazione forzata e prescrizione.
La struttura quindi non si discosta di molto da quella presente nei progetti realizzati da
Cambacérès.
92
La duttile tripartizione gaiana viene riutilizzata alla luce della ideologia individualista di
matrice illuministica, tesa a porre in risalto i diritti e le prerogative del singolo in quanto parte di un
corpo sociale. Ispirandosi anche alla elaborazione fatta da Pothier nel suo trattato di diritto civile, si
costituisce uno schema che vede appunto:
I. Diritti delle persone
II. Diritti reali (proprietà e altri diritti)
III. Acquisto della proprietà a) successioni e testamenti
b) obbligazioni
Che l’antica tripartizione romanistica si adatti perfettamente alle concezioni e ai programmi
elaborati dal pensiero settecentesco è confermato dallo stesso Cambacérès che nel presentare il suo
secondo progetto alla Convenzione, il 9 settembre 1794, aveva individuato le basi ideologiche della
nuova legislazione civile dicendo che l’uomo ha necessità di essere “padrone della propria
persona”, di “avere dei beni” e di poter disporre dell’una e degli altri e che quindi i tre oggetti della
legislazione civile sono le persone, la proprietà e le convenzioni.
Un discorso a parte meritano i 6 articoli del titolo preliminare dedicato alla legge in
generale: essi hanno contenuto prevalentemente pubblicistico e anzi propriamente costituzionale
perché raccordano l’intera disciplina civilistica con il resto della produzione normativa statuale e
simboleggiano il primato della codificazione civile sul resto della legislazione dello Stato.
Tale preminenza costituisce una caratteristica specifica del testo civilistico ed è per lo più
rimasta in tutte le successive codificazioni; essa si appoggia sulla considerazione che il codice civile
deve contenere lo statuto dei privati, mentre la Costituzione deve fissare lo statuto verso lo Stato, il
primo come espressione del garantismo nei rapporti tra i singoli, la seconda come espressione del
garantismo verso la comunità organizzata.
Nel titolo preliminare ritroviamo quindi principi fondamentali come quello della
irretroattività della legge e della inderogabilità delle leggi che interessano i limiti dell’ordine
pubblico e del buon costume. Di particolare importanza sono poi gli artt. 4 e 5 in tema di
interpretazione della legge.
Essi attenuano le rigide costruzioni antigiurisprudenziali elaborate nel periodo rivoluzionario
e restituiscono al giudice un certo potere interpretativo, anche se implicito e non incondizionato.
Chiarito all’art. 2 che “la legge non ha vigore che per l’avvenire”, l’art. 4 prevede infatti che
“il giudice che rifiuterà di giudicare adducendo a pretesto il silenzio, l’oscurità o l’insufficienza
della legge, potrà essere perseguito come colpevole di denegata giustizia”. Imponendo al giudice di
risolvere ogni controversia nonostante il silenzio, l’oscurità o il difetto della legge si prevede di
fatto che egli possa individuare anche in questi casi un’opportuna soluzione. Con questa norma
viene così abrogato l’istituto del reférè legislatif che, come detto, si era rivelato fonte di abusi e
distorsioni oltre che di incertezza del diritto, dato che implicava o un venir meno al principio della
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separazione dei poteri (perché il corpo legislativo decideva il caso) o si emanavano norme singolari
e retroattive. Ora, imponendo al giudice di pronunciarsi, si torna a dare un certo spazio alla sua
attività interpretativa, pur precisando con chiarezza che non vi è nessuna volontà di tornare
all’arbitrio o ad assegnare al giudice il compito di creare diritto nuovo.
L’art. 5 chiarisce infatti che “è vietato ai giudici pronunciarsi in via di disposizione generale
e regolamentare nelle cause loro sottoposte” che, cioè, la sentenza è una “norma” solo individuale,
obbligatoria solo nei confronti delle parti e non entra tra le fonti del diritto.
Una scelta del genere, da parte dei compilatori, si giustifica proprio alla luce della
sussistenza del nuovo codice che non è più giudicato oscuro e sovrabbondante ma chiaro e
razionale, e viene applicato nell’ambito di strutture giurisdizionali uniformi, condizionate dal
controllo e dall’opera unificatrice della Cassazione.
In realtà però, bisogna precisare che gli autori del testo e, in primo luogo, lo stesso Portalis,
non ritenevano che il codice fosse totalmente privo di ambiguità o lacune (lo mostra il testo stesso
dell’art. 4). Anzi, il progetto originale presentato dalla Commissione conteneva, al posto del breve
titolo preliminare, un ben più ampio ed articolato LIBRO PRELIMINARE, redatto dallo stesso
Portalis e dedicato alla formazione, classificazione, applicazione e interpretazione delle leggi. Tale
libro era caratterizzato dall’enunciazione di alcuni principi generali in tema di diritto naturale e di
equità. Si accoglieva cioè il postulato giusnaturalista secondo cui “esiste un diritto universale e
immutabile, fonte di tutte le leggi positive: non è che la ragione naturale, nella misura in cui
governa tutti gli uomini” (così era formulato l’originario art. 1) e stabiliva che “nelle materie civili
il giudice, in difetto di una legge precisa, è un ministro d’equità. L’equità è il ritorno alla legge
naturale o agli usi accolti nel silenzio della legge positiva” (art. 11 del Libro preliminare); si
consentiva appunto “nel silenzio della legge positiva”, il ricorso all’equità intesa come ritorno alla
legge naturale”. L’intenzione non era certo quella di ritornare all’arbitrium di ancien régime, come
è chiarito da diversi altri articoli presenti nel testo, che imponevano molti vincoli all’interprete. Si
disponeva ad esempio che “il ministero del giudice è di applicare la legge con discernimento e
fedeltà” o che l’interpretazione concessa al giudice consiste semplicemente “nel cogliere il genuino
significato della norma nella sua applicazione al caso concreto”. Ancora si statuiva che “quando
una legge è chiara non bisogna eluderne la lettera su pretesto di penetrarne lo spirito” e si vietava di
ammettere eccezioni non previste dalla legge etc.
Questa elaborazione giusnaturalistica, però, dopo una vivace discussione in Consiglio di
Stato, non viene accolta nel testo definitivo sulla base della considerazione che il nuovo codice, in
quanto esso stesso razionale positivizzazione del diritto naturale, deve costituire l’unica fonte del
diritto.
È quindi il codice Napoleone, prodotto prestigioso e punto di arrivo della scuola del diritto
naturale, ad avviare il passaggio dalle dottrine del giusnaturalismo a quelle del giuspositivismo.
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Si è detto, infatti, che l’art. 7 della legge 30 ventoso anno VIII (21.3.1804) di promulgazione
del codice, dispone l’abrogazione totale di tutte le fonti previgenti nel sistema di diritto comune e le
sostituisce integralmente con il codice che diviene perciò l’unica fonte; un corpo normativo
unitario, privo di rapporti con altre fonti e completo. Portalis tenterà ancora di sostenere che il senso
dell’art. 4 (l’unico sopravvissuto, con l’art. 5, su questo punto, di tutto il suo libro preliminare …) è
lo stesso, cioè che il giudice è ministro d’equità; alle vibrate contestazioni dei deputati deve però
tornare sui suoi passi e chiarire che l’equità di cui si parla nel testo è l’equità legale, vale a dire
un’equità che si ricava dalla legge.
Si parla, per questa impostazione, di una visione legalistica e ‘codicocentrica’, che tende
cioè a svalutare completamente le altre fonti e in particolare usi e consuetudini, per esaltare la legge,
assegnarle il primato su ogni altra fonte giuridica e quindi, in sostanza, finire con l’identificare il
diritto con la legge stessa.
La completezza di cui si sta parlando è ovviamente una completezza del sistema di diritto,
che identifica e concentra nel codice tutta la disciplina del diritto privato e pretende così di
prevedere e disciplinare tutti i casi concreti che anche in futuro possano verificarsi.
Questo però non significa che il codice abbia una effettiva completezza normativa; i
redattori sono cioè ben consapevoli che è impossibile pensare a un corpo di leggi che abbia previsto
in anticipo tutti i casi possibili (“prevedere tutto è uno scopo di impossibile raggiungimento …
sarebbe dunque un errore pensare che possa esistere un corpo di leggi che abbia in anticipo
provveduto a tutti i casi possibile e che tuttavia sia alla portata del cittadino medio … un codice,
comunque possa apparire completo, è appena perfezionato che già mille questioni inattese vengono
a presentarsi al magistrato. Giacché le leggi, una volta redatte, restano tali quali sono state scritte.
Gli uomini, al contrario, non si fermano mai” così Portalis). Ecco perché però al magistrato è
restituito un certo potere interpretativo, perché se anche non li prevede espressamente, il codice
offre i principi e gli schemi in cui anche i casi nuovi potranno e dovranno essere inseriti.
Eliminato ogni riferimento al diritto naturale, il giudice può e deve far riferimento allo
“spirito generale delle leggi” che emerge dal codice, alla sua logica interna, alle “massime generali
del diritto”, attraverso l’uso del procedimento analogico. È il codice stesso a indicare criteri
interpretativi unitari e coerenti.
Questa linea verrà coerentemente perseguita e anche accentuata dagli interpreti del codice
che, specie negli anni immediatamente successivi alla sua emanazione, attraverso la cosiddetta
Scuola dell’Esegesi, accentueranno ancor più la visione giuspubblicistica che esclude ogni criterio
esterno di riferimento.
Alla base delle teorie elaborate dai rappresentanti di questa corrente dottrinale vi è infatti la
convinzione che tutto il diritto civile debba necessariamente coincidere con quanto contenuto nel
codice Napoleone; si esalta il valore del testo come completa e perfetta attuazione di tutti i principi
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legislativi in materia e di conseguenza si afferma che l’unica possibile forma di interpretazione di
esso sia appunto la sua esegesi, la sua lettera, articolo per articolo, attraverso la forma del
commentario che è quindi, anche dal punto di vista dei generi letterari, l’unica forma possibile di
studio. Quasi come novelli glossatori, quindi, mostrano una vera e propria venerazione per il testo
napoleonico, come ben si coglie nella celebre frase attribuita a Jean-Joseph Bugnet, uno dei più
illustri esponenti della Scuola, che appunto affermò solennemente «io non conosco il diritto civile,
io insegno il Codice Napoleone». L’autorità del Codice Napoleone sta per questi autori nella
concezione della legge come comando indirizzato dal legislatore a cittadini uguali tra loro, in nome
dei principi della sovranità generale. È dunque, quella che ispira i civilisti della Scuola dell’Esegesi,
una concezione volontaristica.
Dal punto di vista del contenuto normativo, le scelte dei legislatori napoleonici sono
informate alla visione di un codice che, tenendo presenti i principi fondamentali del pensiero
settecentesco, poi fatti propri dalla legislazione rivoluzionaria (uguaglianza di fronte alla legge,
laicità dello Stato, libertà di coscienza, libertà di lavoro), deve assumere il ruolo di strumento di
distensione politica e di pacificazione sociale. Per poter svolgere tale ruolo il codice deve realizzare
una serie di compromessi tra differenti impostazioni filosofiche e tra varie tradizioni giuridiche,
deve delineare nuovi schemi in ordine alle funzioni della legge e ai compiti della giurisprudenza;
deve infine ridefinire i rapporti tra singoli, famiglia, società e Stato.
Con queste premesse, i punti qualificanti del Code Napoleon sono individuabili da un lato
nella disciplina del ruolo e dei diritti dell’individuo, e in particolare degli elementi della proprietà e
del contratto (giudicati manifestazioni essenziali della libertà del cittadino) e dall’altro nella difesa
della famiglia, considerata nucleo essenziale della società e dello Stato.
Mentre sul primo punto il codice ribadisce, almeno all’apparenza, i postulati illuministici e
rivoluzionari (autonomia individuale, libertà, uguaglianza), in ordine al secondo, introduce (o
reintroduce) taluni principi conservatori e autoritari che allontanano il testo dell’esperienza
legislativa del droit intermediaire.
La proprietà: uno dei due pilastri che reggono il codice è costituito, insieme a quello
dell’autonomia della volontà (come vedremo), dalla nozione di proprietà. Evocando il principio
solennemente dichiarato all’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo della proprietà come
‘sacra e inviolabile’, l’art. 544 del codice civile definisce la proprietà come «il diritto di godere e
di disporre delle cose nella maniera la più assoluta, purchè non se ne faccia un uso vietato dalle
leggi o dai regolamenti».
È una celebre e fortunatissima definizione, il cui autore materiale è proprio Portalis, cui
questa parte era stata affidata e che segue le impostazioni di Pothier. Lo stesso Portalis, nel Discorso
Preliminare, dichiara quindi che il Code civil considera la proprietà un diritto naturale, «une
institution de la nature», che, lungi dall’essere all’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini, si
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caratterizza per essere elemento fondante della società civile. Per tali motivi deve presentare i
caratteri della assolutezza (deve cioè essere libera da condizionamenti di natura reale od
obbligatoria), della unità (in quanto tutte le attribuzioni devono spettare a un solo e indeterminato
tipo di soggetto), dell’inviolabilità e della certezza (poiché il pieno godimento del diritto deve
essere garantito dalla legge anche nei confronti dello Stato). La proprietà inoltre deve essere
formalmente accessibile a chiunque.
In effetti i lavori preparatori del codice rivelano come i suoi autori non avessero della
proprietà questa idea giusnaturalistica; la vedono piuttosto come nata dal lavoro dell’individuo in
seno alla società civile organizzata. È quindi sì sacra e inviolabile, ma non concepita a prescindere
da una legge che la generi e da uno Stato che la garantisca e la sorvegli. L’autorità dello Stato è
condizione necessaria perché la proprietà si ponga come diritto soggettivo e possa essere come tale
tutelata e allo stesso tempo è lo Stato stesso a stabilirne i limiti (ecco la precisazione “purchè non se
ne faccia un uso proibito dalle leggi o dai regolamenti” ed ecco l’art 545 sull’espropriazione).
Non c’è dubbio che la disciplina unitaria del 1804 si sostituisce definitivamente alla
situazione d’Antico Regime caratterizzata da un’estrema frammentazione delle forme di dominium
e pesantemente condizionata dalla larga diffusione delle strutture feudali e di innumerevoli forme di
servitù. Si unifica la proprietà in un tipo unico di diritto e così si dà piena corrispondenza anche
all’unificazione del soggetto titolare del diritto stesso.
Da questo punto di vista, il Codice Napoleone nasce quindi come testo legislativo ideale per
una nazione organizzata secondo il modello delle dottrine economiche fisiocratiche del ‘700, che
teorizzavano un ‘ordine naturale’ anche nell’economia e incentravano l’attenzione soprattutto
sull’agricoltura e sul regime delle terre. Ciò, del resto, ben corrispondeva alla realtà francese di fine
‘700 e inizio ‘800; la Francia è ancora un paese prevalentemente agricolo, la cui economia è
essenzialmente basata sulla coltivazione di fondi piccoli e medi, frutto del frazionamento dei grandi
latifondi feudali.
L’enfasi posta dalla prima parte dell’art. 544 sulla pienezza e assolutezza del nuovo diritto si
spiega dunque con ragioni essenzialmente politiche: si vuole assicurare sull’impossibilità di un
ritorno al regime signoriale delle terre. Si vogliono tranquillizzare gli acquirenti dei beni
nazionalizzati e messi all’asta negli anni novanta del settecento, circa la stabilità del loro status di
proprietari.
Non sorprende, dunque, la constatazione che, complessivamente, la disciplina del codice
dedica poca attenzione alla proprietà mobiliare. Ciò nonostante, anche nel momento in cui la
rivoluzione industriale e il successivo sviluppo economico-sociale della Francia richiederanno una
disciplina adatta, non sarà necessaria una modifica formale del testo codicistico, ma semplicemente
un adeguamento dottrinale. La formulazione dell’art. 544 infatti, proprio per la sua perfezione
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tecnica e la sua generalità e astrattezza, si rivela estremamente duttile e adattabile anche a una
diversa tipologia di diritto di proprietà.
A facilitare l’utilizzo del codice anche in un contesto sociale diverso è la presenza anche di un
altro principio importante per il regime dei beni, quello cioè relativo alla disciplina e tutela del
possesso. L’art. 2279 sancisce cioè che, quando si tratta di beni mobili, «il possesso vale titolo»
per cui anche il proprietario che abbia perduto la cosa o che ne abbia subito il furto, trascorsi 3
anni, perde il diritto a rivendicare la cosa nei confronti di chi la possegga.
Si tratta di una norma decisiva per agevolare la circolazione dei beni perché non solo limita
le possibili contestazioni ma consente di rendere stabile e definitiva la posizione del possessore e la
conseguente situazione giuridica instauratasi, cosicché il possessore può poi trasferire
legittimamente anche la piena proprietà della cosa mobile, senza timore che il suo acquirente possa
subire l’evizione.
Strettamente collegate a queste norme, che mirano a rendere più certa la proprietà dei beni ed al
contempo a facilitarne il trasferimento, sono anche le fondamentali previsioni in materia
contrattuale. La libertà di contrattare, e quindi di esercitare un’attività economica, intesa come
manifestazione particolare della più generale libertà della sfera individuale di ogni soggetto,
costituisce infatti la chiave di lettura di un’ampia sezione del codice, dedicata alla materia delle
obbligazioni, che rimane la più vicina, nella forma se non nello spirito, al modello romanistica.
La disciplina napoleonica in materia di autonomia della volontà risulta molto avanzata,
anticipatrice anche delle dottrine che su questo tema si svilupperanno nell’ ‘800 specie in area
germanica (dalle quali per esempio nacque l’elaborazione del concetto stesso di ‘negozio giuridico’
etc.); essa è pienamente rispondente ai principi del liberalismo economico.
Infatti riconosce compiutamente la rilevanza della volontà contrattuale del singolo, libero di
muoversi anche al di fuori della pur ampia disciplina dei contratti tipici.
Entro i limiti generici e larghi dell’ordine pubblico e del buon costume stabiliti all’art. 6,
infatti, la volontà individuale può regolare autonomamente e compiutamente i rapporti giuridici fra
privati. L’art. 1134 prevede espressamente che alle «convenzioni legalmente formate» sia attribuita
forza di legge nei confronti di coloro che le hanno poste in essere.
La concessione del primato della volontà individuale opera peraltro in un quadro di precise
regole, ricavate per lo più dall’esperienza romanistica e sistemate dalle elaborazioni razionaliste,
soprattutto – in tema di obbligazioni – di Domat. Per esempio all’art. 1108 si prevedono quattro
requisiti necessari per la validità delle libere contrattazioni private: il consenso di chi si obbliga, la
capacità contrattuale, l’oggetto determinato, la causa lecita. Si impongono poi alcuni particolari
adempimenti con finalità probatorie, come la forma scritta per i contratti di valore superiore a una
certa cifra (150 lire).
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In materia contrattuale, comunque, la visione giusnaturalistica e illuministica dell’autonomia
privata trova la sua massima espressione nell’art. 1138, il più spiccatamente innovativo rispetto alla
tradizione romanistica. L’articolo, che disciplina le obbligazioni di dare, dispone che il
trasferimento della proprietà si perfezioni sulla base del solo consenso manifestato dalle parti.
Il ruolo della volontà è qui portato alle estreme conseguenze: il contratto si identifica nel
consenso delle parti e, mentre al contratto viene riconosciuta efficacia reale, il consenso prende il
posto dell’antica traditio. Scompare così la distinzione romana tra patto e contratto ed è abolita
l’antica massima secondo cui il trasferimento avviene solo dopo la consegna della cosa.
Eliminato anche quest’ultimo vincolo, è evidente come il codice abbia predisposto tutti gli
strumenti tecnico-giuridici per garantire la massima libertà ed espansione dei traffici commerciali e
per lo sfruttamento economico più redditizio delle terre. Al centro sono certamente gli interessi
della borghesia anche se, ad esempio, il mutamento del regime delle terre certamente favorisce
anche l’emancipazione dei ceti contadini.
Se in questi settori, dunque, le novità ideologiche della Rivoluzione vengono pienamente accolte
ed anzi si offre loro una coerente attuazione normativa, diverso è il discorso riguardante il diritto
di famiglia e le successioni.
In questo campo, infatti, la disciplina napoleonica appare informata alla volontà di creare
basi normative atte a diffondere un’idea forte della famiglia, basata sul principio d’autorità, in
funzione di una forte e coesa compagine statuale. Tale scelta comporta un difficile equilibrio e
fusione di concezioni spesso tra loro diverse e opposte, nate dall’abbandono parziale della
legislazione individualista ed egualitaria elaborata nel periodo rivoluzionario.
Alcune delle riforme seguite al 1789 vengono comunque mantenute, perché giudicate
indispensabili per garantire e salvaguardare il principio della laicità dello Stato.
Se dunque vi è in questo senso, con il rifiuto di ogni fondamento etico-religioso, il distacco
dalla disciplina di ancien régime, non viene però accolta neppure l'idea della 'famiglia naturale'
come era stata sostenuta dallo spirito rivoluzionario: nasce la 'famiglia legittima della società
borghese' (I rapporti familiari hanno un essenziale interesse pubblico. Il matrimonio costituisce
un'obbligazione sociale!) fondata sul rifiuto delle più audaci novità rivoluzionarie in tema di diritto
di famiglia e, al contrario, sulla piena accettazione delle conquiste nel campo della proprietà
privata. In particolare sono considerati irrinunciabili il sistema dei registri di stato civile, la
secolarizzazione del matrimonio e, in parte, il divorzio.
Quest'ultimo peraltro è ridotto a istituto in buona sostanza eccezionale (si ripristina del resto
anche la separazione): le 7 cause previste in età rivoluzionaria sono ridotte a tre: adulterio (per la
donna – concubina in casa per l'uomo: anche le pene sono diverse, l'adultera rischia il carcere da 3
mesi a 2 anni, il concubinario un'ammenda da 100 a 2.000 franchi. La ragione è la difesa ad oltranza
della famiglia legittima), condanna a pena infamante, eccessi, sevizie o ingiuria grave.
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Il divorzio per mutuo consenso poi, voluto fortemente dall'Imperatore, è accompagnato da
rigide procedure e assai limitato nei presupposti: non si può compiere prima di 2 anni né dopo 20; la
moglie deve avere un’età compresa tra 21 e 45 anni; occorre l’ autorizzazione di genitori o
ascendenti; il consenso va manifestato 4 volte in un anno; vige il divieto di nuove nozze per 3 anni;
metà dei beni dei divorziati spettano agli eventuali figli nati dal matrimonio così sciolto. (N.B. il
divorzio sarà poi soppresso nel 1816 e ripristinato solo nel 1884).
L'ideologia 'accentratrice' emerge invece pienamente in tema di patria potestà e nella
disciplina della posizione dei figli naturali e della donna: la patria potestà è restaurata pressoché
integralmente, con ampi poteri correttivi e direttivi. I figli naturali perdono la qualifica di eredi a
pieno titolo e si prevede il divieto della ricerca della paternità.
La donna è posta indiscutibilmente sotto la tutela giuridica del marito: l’art. 213 dichiara
espressamente che ella ha il dovere di obbedire al marito ed è posta sotto la sua tutela giuridica
attraverso l'autorizzazione maritale necessaria per comparire in giudizio, alienare beni, accendere
ipoteche e per ogni atto di straordinaria amministrazione.
I rapporti patrimoniali sono disciplinati con un compromesso tra innovazione e tradizione.
Pur essendo prevista la possibilità di stipulare convenzioni particolari la legge propone soprattutto
due modelli tipici ed alternativi: la comunione, – non di tutti i beni ma dei mobili e degli acquisti –
(più diffusa nel Nord), regime legale che scatta in mancanza di volontà espressa contraria, e la dote.
In ogni caso solo il marito ha il potere di amministrazione dei beni dotali e comuni (per la donna c'
è solo l'ipoteca legale sugli immobili).
In ambito successorio rimangono alcune essenziali conquiste quali l'uguaglianza di maschi e
femmine e l'abolizione di fedecommessi, primogeniture e simili; quasi nessun diritto è invece
riconosciuto al coniuge, collocato all'ultimo posto tra i successibili, anche dopo il parenti fino al 12
grado e dopo i figli naturali (di fatto ciò limita soprattutto la donna). Il potere del padre è però
riampliato allargando, rispetto al droit intermediaire la quota disponibile.
Il modello 'monarchico' della famiglia emerge infatti, come detto, soprattutto nei poteri
assegnati al padre: per sposarsi occorre il consenso dei genitori (ma in caso di dissenso tra loro
prevale il padre) anche oltre la maggiore età (fissata a 21 anni): fino a 25 per i maschi e 21 per le
femmine. Sono sempre necessari gli 'atti rispettosi'.
L'interesse dello Stato per la famiglia legittima, strumento essenzialmente politico, traspare
anche nella disciplina dell'adozione: ammessa solo quella dei maggiorenni, per chi abbia più di 50
anni e sia privo di figli, con il consenso dei genitori dell'adottando.
Alla stessa ottica risponde la disciplina degli illegittimi, la cui posizione è nuovamente
peggiorata rispetto agli anni della rivoluzione: sono esclusi dalla successione ereditaria; la ricerca
della paternità è vietata, tranne in caso di ratto; i figli naturali riconosciuti hanno diritto solo agli
alimenti e alla successione nella misura di un terzo di quanto avrebbero se legittimi, se concorrono
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con altri discendenti (1/2 con ascendenti, 3/4 con altri collaterali). Ancora peggiore la posizione di
adulterini o incestuosi.
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Gli ‘altri’ codici napoleonici: il diritto penale, la procedura, il diritto commerciale
Accanto al codice civile e a completamento del sistema normativo imperiale furono emanati
in Francia altri quattro codici: il codice di procedura civile nel 1806, il codice di commercio nel
1807, il codice di procedura penale nel 1808 e infine il codice penale nel 1810.
Questi testi non avevano lo stesso rilievo del Code Napoléon, né potevano averlo, dato il più
alto significato che in un ordinamento fondato sull’individualismo liberale aveva il diritto civile
rispetto alle altre branche del diritto.
Le altre branche venivano perciò necessariamente pensate come complementari e sussidiarie
rispetto al diritto civile. In questa linea conducevano:
- l’antichità classica e tutta l’impostazione del diritto romano
- il giusnaturalismo, specie le correnti razionaliste francesi (Domat)
- la stessa Rivoluzione che, esaltando al massimo i diritti dell’uomo sullo Stato
e sui gruppi sociali aveva ulteriormente elevato il ruolo del diritto civile, facendo il Code
Napoleon il fulcro del sistema normativo.
Comunque anche gli altri codici emanati in età napoleonica sono caratterizzati da un’elevata
tecnica legislativa, precisi e chiari nelle enunciazioni normative, privi di divagazioni astratte.
Contribuivano così a dare completezza e coerenza all’intero sistema e anche agli aspetti più
irrazionali e disumani del diritto penale di antico regime, vennero in genere accolti favorevolmente.
E’ vero perciò quello che osservano alcuni storici, e cioè che questi testi sono opere di minor
valore per sistematica e contenuto giuridico rispetto al codice civile, come se la loro preparazione
avesse risentito di una maggiore fretta e come se l’impegno politico e culturale trasfuso in quello si
fosse invece in questi allentato.
Però va anche tenuto presente che il superiore livello qualitativo del codice civile rispetto
agli altri si spiega anche guardando a ciò che esso ha alle spalle. Con tutta la sua crisi, infatti, c’era
per il diritto civile e la sua sistematica la comunque solida tradizione romanistica dell’età di diritto
comune, le cui categorie e principi, ben filtrati e rielaborati da abili giuristi e politici, indirizzarono
le soluzioni codicistiche risultando ancora capaci di soddisfare le esigenze della nuova società
individualista, liberale e garantista ad un tempo.
Invece le procedure civile e criminale e il diritto penale, legati per il carattere pubblicistico
delle loro norme al modo di essere e di atteggiarsi del potere di fronte ai problemi della
giurisdizione e della repressione, non potevano riallacciarsi che in modo assai tenute e vago a quella
tradizione antica.
Gli istituti processuali e penali del mondo romano e dell’impero medievale non erano
applicabili a uno Stato moderno, con ordinamenti e principi ispiratori ormai diversissimi.
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Anche il diritto commerciale, legato all’economia dominante la vita sociale di un dato
periodo storico, doveva essere costruito ex novo rispetto ai modelli romani e medievali.
Da questo punto di vista, perciò, questi 4 codici possono apparire per contenuti normativi e
per sistematica interna persino più nuovi di quello civile, anche se il loro valore intrinseco e il loro
significato furono indiscutibilmente inferiori a quelli del Code Napoleon.
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La codificazione civile in Italia. Dalla Rivoluzione alla Restaurazione
Il primo codice civile dell’Italia unita fu emanato, come si è già più volte accennato, nel
1865.
Esso può essere considerato il punto d’arrivo di un percorso che risale ben più in là
dell’ultima rapida fase di elaborazione, seguita all’espansione, con le guerre d’Indipendenza, del
Regno di Sardegna nella II metà del XIX sec.
L’esperienza codicistica era infatti iniziata, anche in Italia, più di 60 anni prima, in
concomitanza con quanto avveniva in Francia. Le tappe che portano all’emanazione del codice
civile del 1865 sono all’incirca quattro:
1) L’attività legislativa svolta, a cavallo tra 7 e 800 dalle c.d. Repubbliche giacobine, nate
sulla scia dei moti rivoluzionari francesi.
2) La dominazione napoleonica con l’applicazione in quasi tutto il territorio italiano dei
codici francesi.
3) Le codificazioni redatte e vigenti nei diversi stati preunitari costituiti o ri-costituiti dopo il
Congresso di Vienna e la Restaurazione del 1814/15. (In particolare un possibile modello
alternativo è costituito dal codice austriaco).
4) I lavori preparatori veri e propri, cominciati nel 1859 e completati appunto con
l’emanazione del codice civile Pisanelli.
I progetti delle ‘Repubbliche giacobine’
Il disegno di una sistemazione generale del diritto privato che rifletteva le istanze
dell’illuminismo giuridico e tendeva a ottenere * l’unificazione delle fonti, * dei soggetti e *
degli oggetti del diritto e * la razionalizzazione e semplificazione dell’intera materia
civilistica era stato, come abbiamo visto, fin dall’inizio posto al centro degli obiettivi della
Rivoluzione francese. Se anche, per 15 anni, non si riuscì a giungere a compimento, non
mancarono certo molti interventi legislativi e una vivace attività di studio e progettazione.
Ebbene, di questo lavorio furono partecipi anche gli esponenti dell’Illuminismo
operanti nelle ‘Repubbliche’ fiorite in Italia durante in cosiddetto ‘triennio rivoluzionario’
(dal 1796 al 1799). Questi giuristi e intellettuali illuministi agivano in stretto legame con la
Francia, tanto più che li animava la convinzione, anch’essa tipica di una certa impostazione
illuministica (di Voltaire, non di Montesquieu…) che l’uguaglianza naturale di tutti gli
uomini al di là di ogni frontiera politica consentisse, e anzi imponesse, una legislazione
uniforme ovunque, razionalmente concepita ed attuata proprio sul modello che si stava
seguendo in Francia.
105
A far apparire questa scelta praticamente l’unica possibile contribuiva anche il netto rifiuto
di tutto il sistema giuridico vigente negli Stati dell’antico regime.
Anche in Italia quindi emersero le istanze codicistiche, che vennero affermate nelle varie
costituzioni delle nascenti Repubbliche intorno al 1796/1797.
Nella stessa direzione si impegnò anche la dottrina giuridica italiana che si mostrò in gran
maggioranza favorevole all’idea dell’unificazione legislativa. Come contenuti, i giuristi
propendevano per lo più per quegli stessi che erano in via di sperimentazione in Francia, considerati
i più idonei ad una società democratica.
Non mancano, del resto, le tesi polemicamente ‘antiromanistiche’, divenute già da tempo
quasi un leit motiv delle critiche al sistema vigente. Da parte dei giuristi più equilibrati, tuttavia, vi
sono sì proposte di riforma, che tengono però comunque come punto di riferimento anche concetti
della tradizione romanistica e della tradizionale sistematica degli istituti.
Questo è un dato importante per cogliere gli aspetti ‘originali’ o legati alla tradizione
specificamente italiana che ci furono perfino nel momento di maggiore adesione ‘ideale’ al modello
francese.
Se neppure la Francia vi era riuscita, va detto che anche in Italia nel triennio giacobino non
ci fu la possibilità di elaborare un’organica codificazione. Vi furono però anche in Italia lavori in
tale direzione, che talvolta si limitarono alla nomina di apposite commissioni, che lavorarono per un
certo tempo, ma in qualche caso giunsero anche a qualche maggiore risultato.
a. Un primo esempio si attuò a Roma dove, nel 1798, venne redatto un Project du code
civil de la Republique romaine. Tale progetto, pur essendo stato scritto da un giurista francese
(Pierre-Claude François Daunou) e modellato sull’esempio del 3° progetto approntato in Francia nel
1796 dal Cambacérès e in quel momento ancora in discussione, presentava, in alcuni settori, alcune
significative divergenze rispetto alla linea francese e testimoniava una certa sensibilità per la
diversa tradizione giuridica italiana oltre che per il diverso contesto sociale. In materia di stato
civile, ad esempio, si attribuisce ancora una certa efficacia ai registri parrocchiali; non si ammette lo
scioglimento del matrimonio né per divorzio né per morte civile e, al contrario, si mantiene l’istituto
della separazione coniugale per le stesse cause che in Francia valgono per il divorzio.
b. Anche in Lombardia, nella cosiddetta Repubblica Italiana, si mise in opera la
progettazione di un codice civile. Ben 2 furono anzi i progetti, elaborati tra il 1802 e il 1803 dal
giurista Alberto De Simoni (esperto anche come criminalista). Questi progetti, che poi furono
abbandonati per l’introduzione del code Napoléon, mostrano come, accanto all’esigenza di leggi
uniformi, vi fosse la difficoltà, in Italia, ad attuare un taglio netto con il passato, dato che, a quanto
vi si legge, questi progetti sembrano voler mantenere ancora in vigore il diritto comune, richiamato
come “legge sussidiaria”. Anche nei contenuti, poi, tali progetti hanno aspetti originali rispetto a
quelli francesi. I più evidenti riguardano ancora l’esclusione quasi totale del divorzio che è qui
106
ammesso, e con cautela, solo in caso di attentato di un coniuge alla vita dell’altro e di adulterio con
scandalo (concubina con scandalo per il marito). Un distacco si ha pure in materia di rapporti
patrimoniali tra coniugi, perché si ammette la comunione ma solo per via convenzionale e si lascia
sopravvivere la dote. Scelte più ‘moderate’ della Francia valgono anche nel riformare i sistemi
successori, in cui si salvano ancora elementi del passato (per esempio alcune figure di sostituzione).
In questa prima analisi sono quindi già emersi sia i legami, sia anche le divergenze
dell’attività di codificazione italiana rispetto a quella francese. Si pone allora – il che è ancor più
importante - proprio il problema del rapporto tra un modello legislativo straniero e le peculiarità
della storia giuridica italiana, di una vera e propria ‘identità giuridica nazionale’.
Il codice civile francese in Italia
Nei primi anni dell’800 viene poi introdotto in Italia il codice civile napoleonico e, dopo la
loro emanazione nel 1810, anche quelli penali (con la sola eccezione, per la Lombardia del codice
di procedura penale redatto da Gian Domenico Romagnosi nel 1807). In particolare nel Regno
d’Italia il codice civile è introdotto ufficialmente nel 1806, mentre a Napoli nel 1808.
Per un breve ma significativo periodo, quindi, tutta la Penisola è accomunata dalla
legislazione francese che fornisce così effettivamente un quadro unitario di riferimento per la
società civile, imponendo al contempo anche la nuova idea del monopolio dello Stato-legislatore
sulle fonti del diritto.
Quanto questa esigenza di un diritto chiaro e uniforme fosse sentita, si capisce bene – e a sua
volte serve a capire – dal fatto che le opposizioni all’imposizione di un codice straniero rispetto ad
una realtà storica diversa furono molto scarse. Gli unici punti discussi, sul piano dei contenuti,
furono, come vedremo, quelli riguardanti alcuni istituti del diritto di famiglia e in particolare il
divorzio e la comunione dei beni (che infatti anche nella pratica ebbero scarsissima applicazione).
Nel complesso però appare innegabile la facilità con la quale l’imperatore poté imporre
l’introduzione del suo testo negli ordinamenti italiani e il generale favore con cui esso venne accolto
dalla popolazione. Questo si spiega anche per l’aderenza alle categorie romanistiche di molte delle
sue norme, che lo fecero apparire abbastanza familiare alla società civile italiana, e per la perfezione
tecnica. Più in generale, comunque, il punto chiave è che in quel codice si vedeva proprio il punto
di arrivo di quella tendenza alla razionalizzazione ed alla semplificazione della materia privatistica
maturata per lungo tempo nella crisi del diritto comune e fatta propria da un’ampia parte della
dottrina. Così, se anche alcuni istituti non furono recepiti dalla pratica applicativa, fu certo ben
accolto il nucleo portante costituito dalla concezione di un diritto di proprietà pieno ed intero, così
come la nuova e più liberale visione del possesso che facilitava la sua trasmissione e quindi la
circolazione dei beni. Si può dunque affermare che in effetti il generale consenso che circondò al
107
suo apparire il code Napoléon fu in buona misura spontaneo; per altro verso esso si deve altrettanto
certamente all’abilità politica di Napoleone stesso che, come aveva già fatto con i giuristi francesi,
seppe attrarre dalla sua parte i giuristi italiani, coinvolgendoli nei lavori di progettazione e poi di
traduzione del testo legislativo, dando loro onori, prestigio e potere, conducendoli a familiarizzare
con il diritto francese attraverso una massiccia traduzione e diffusione anche di opere dottrinali
d’Oltralpe, così da preparare pienamente il terreno al successo quasi totale di un’operazione di
sostanziale imposizione all’Italia di un diritto straniero che non venne in realtà mai sentito come
tale4.
I codici degli Stati preunitari
Sconfitto e mandato in esilio Napoleone, le potenze vincitrici si riuniscono nel giugno 1815
a Vienna. Le 5 nazioni predominanti che esercitano la loro influenza in Europa sono l’Impero
austriaco (Francesco I), la Prussia (Federico Guglielmo III), la Gran Bretagna (Giorgio III), la
Francia, restituita a Luigi XVIII e l’impero di Russia dello zar Alessandro I. Dai lavori del
Congresso escono alcuni principi cardine sui quali si dovrà fondare il nuovo assetto europeo: a) la
restaurazione della situazione politica e territoriale così come si presentava nel 1792, ultimo anno di
esistenza della monarchia in Francia. b) il criterio di legittimità, in base al quale tornano in possesso
del trono i principi e sovrani in precedenza spodestati o i loro eredi legittimi. c) una politica di
solidarietà contro ogni futuro rivoluzionario e sovvertitore del potere costituito.
Su queste basi anche in Italia la maggior parte delle dinastie recupera i propri territori; la
Penisola è così suddivisa tra il Regno di Sardegna, il Lombardo-Veneto austriaco, il Ducato di
Parma e Piacenza, di Lucca, di Modena, il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio e il Regno
delle Due Sicilie.
Con la Restaurazione dunque, l’uniformità legislativa raggiunta per qualche anno con la
vigenza dei codici napoleonici viene spezzata.
Almeno inizialmente, nel Regno di Sardegna e negli stati Estensi (Modena) si ha un brusco
ritorno alla pluralità delle fonti ed anche in Toscana e nello Stato Pontificio si rimette in vigore il
diritto comune. Nel Lombardo-Veneto entra in vigore il 1° gennaio 1816 il codice civile austriaco,
mentre nel Regno delle Due Sicilie e a Parma rimane il codice francese, pur in parte mutilato delle
norme più estranee alla tradizione italiana.
L’automatico ritorno al diritto precedente si rivela in breve tempo fatalmente irrealizzabile.
Pressoché ovunque l’esperienza del sistema giuridico napoleonico era stata decisiva per fare
apparire la codificazione come strumento indispensabile al governo di una società civile che era
4 Su questi aspetti fare riferimento a quanto scrive A. Cavanna, Mito e destini del code Napoléon in Italia [se ne può
trarre anche il brano delle memorie di Giovanni Gambini sulla cerimonia di sottoscrizione della traduzione italiana del
code civil].
108
ormai definitivamente uscita dalla cultura di antico regime. E’ ormai radicata l’idea che la
statizzazione di tutto il diritto attuata con l’emanazione dei codici fosse elemento necessario per la
formazione di un potere coerente e monocratico. Inoltre la Restaurazione esalta valori come il senso
dello Stato e del diritto, dedizione e fedeltà al monarca, osservanza e rispetto per le sue leggi, al fine
di dare certezza e stabilità alla legalità che si vuole ripristinare e si vedono quindi i codici come i
pilastri e i garanti di questa ristabilita legalità. Anche per questa ragione la codificazione del diritto
non venne abbandonata.
Anche in questa situazione di rinnovato particolarismo, perciò, si può dire che vi ormai è
irreversibilmente in Italia qualcosa di più di una semplice affinità tra le leggi dei diversi Stati, ma
una vera e propria unità giuridica di tutta la nazione, veicolo della quale unità era proprio il codice
come scelta legislativa inevitabile.
Dietro sollecitazione delle elites di estrazione progressista e liberale, in quasi tutti gli stati
della Penisola, sia pure in tempi diversi , ci si orienta verso la codificazione.
Diversi, e talvolta complessi, furono comunque i cammini che i vari Stati percorsero:
* la Lombardia e il Veneto vedono quasi subito un codice che però costituisce una vera e
propria eccezione nel panorama giuridico italiano, dato che esso non segue la tradizione francese
ma è, come accennato, il codice civile austriaco del 1811, semplicemente tradotto in italiano.
* Abbastanza presto si giunse ad una completa codificazione nel Regno delle Due Sicilie. Il
nuovo codice entrò in vigore già nel 1819. Era formulato come un unico testo, diviso però in 5 parti
dedicate rispettivamente alla legge civile, penale, alla procedura civile, a quella penale e agli affari
di commercio, ed andava quindi a sostituirsi completamente ai 5 codici francesi.
Si tratta semplicemente però di una diversità formale, perché quanto ai contenuti il testo
napoletano riprende quasi totalmente il modello dato dai codici napoleonici. Le maggiori differenze
in ambito civile riguardano, come è logico, la famiglia.
* Un anno dopo, l’esempio napoletano è seguito dal Ducato di Parma e Piacenza, dove nel
1820 vengono emanati 4 codici (civile, penale e le due procedure). Non è sentita l’esigenza di un
apposito codice di commercio perché quello parmense è un territorio soprattutto basato su
un’economia agricola ed è quindi giudicato sufficiente inserire alcuni articoli sul commercio nel
codice civile o di procedura civile. La peculiarità dei codici parmensi consiste nel fatto che, pur
prendendo anch’essi a modello il testo francese, viene tenuto in considerazione per alcune norme e
soluzioni giuridiche anche il codice austriaco. Non si tratta di un dato casuale, ma si lega al fatto
che a reggere il Ducato vi è la duchessa Maria Luigia d’Asburgo. La vicinanza con l’Austria è
allora ben comprensibile. Il codice civile parmense è dunque, anche per questa maggiore
autonomia, il migliore dei testi preunitari.
* Ben più lunghi furono i lavori preparatori in Piemonte. Qui la monarchia, all’indomani
della Restaurazione, aveva assunto una linea nettamente conservatrice. Solo dopo la salita al trono
109
di Carlo Alberto, negli anni ’30 dell’Ottocento, il gruppo dirigente sabaudo si apre a soluzioni più
moderne e si avvia la redazione di codici. Nel 1831 iniziano i lavori che portano all’emanazione nel
1837 del codice civile, seguito da quello penale (1839), commerciale (1842), di procedura penale
(1847) e di procedura civile (solo nel 1854). Sul valore della codificazione Albertina vi è molta
discussione in storiografica e le valutazioni sono differenti. Alcuni criticano questi testi e ne
evidenziano i limiti, anche tecnici, che derivano dalle difficoltà e contraddizioni in cui si dibatte la
classe dirigente piemontese, che esce da un periodo nettamente conservatore e affronta con qualche
incertezza le novità anche politiche. Altri fanno però notare l’esistenza anche di importanti novità,
come la norma, inserita nelle Disposizioni sulla legge in generale, che elenca espressamente tra le
fonti da usare in caso di lacuna, i “principi generali del diritto”, con una formula che resterà
immutata fino ad oggi, andando a confluire nell’art. 12 delle attuali Preleggi. Molto innovative sono
anche alcune norme sul diritto d’autore (cioè sulla proprietà dei beni immateriali e sulle opere
dell’ingegno) o sulle servitù prediali o la disciplina delle acque etc.
* Ancor più lungo fu l’iter seguito a Modena, dove dapprincipio si ripristinò il sistema
giuridico vigente nel ‘700. Solo a metà del secolo, nel 1851, il duca Francesco V fece emanare un
codice civile (del 1852 è poi il codice di procedura civile e del 1855 quello penale e di procedura
penale) che, tra l’altro, nei contenuti è piuttosto arretrato e non particolarmente felice nel dettato
normativo.
* Addirittura, infine, nel Granducato di Toscana e nello Stato Pontificio non si ebbe nessuna
codificazione civile. In Toscana, dove ben diverso sarà il discorso per ciò che concerne il codice
penale, si ripristinò la legislazione di ancien régime, mantenendo in vigore il solo codice di
commercio; a Roma invece il cardinal Consalvi fece svolgere dei lavori di codificazione che
approdarono tuttavia soltanto ad un codice di procedura civile nel 1817 e ad un Regolamento
provvisorio del commercio nel 1821.
Laddove un codice fu fatto, e a parte appunto il Lombardo-Veneto, con praticità e
realismo, pur con qualche autonoma soluzione ‘italiana’ per certe materie (in particolare nel campo
del diritto di famiglia), si scelse di attingere, sia per l’impianto sistematico, sia per il testo stesso
delle norme, al codice francese. Così l’Italia, benché politicamente frammentata e ancora in gran
parte culturalmente estranea all’idea di unità, apparve abbastanza aggregata, per vaste aree, intorno
a un elemento fondamentale: la struttura e i contenuti del diritto privato, che risultavano uniformi in
virtù del “potente collante napoleonico”5. In particolare la suddivisione logica degli argomenti
rimane quella ‘gaiana’ in tre libri e quasi integralmente è riprodotto il libro II, quello sulla proprietà
e sui diritti reali; abbastanza fedele è anche la disciplina dei contratti, mentre, come si è accennato,
le maggiori differenze si ebbero nell’ambito della famiglia.
5 Sono parole di Cavanna, Mito e destini cit.
110
Questa uniformità dei fondamenti normativi civilistici è un punto decisivo perché
avrebbe di lì a poco favorito e legittimato la realizzazione rapida dell’unità politica nazionale.
Perciò, proprio gli intellettuali dell’età liberale, dopo l’unità d’Italia, avrebbero esaltato il codice
Napoleone addirittura come uno dei simboli del Risorgimento, ponendo le premesse per la scelta,
che poi si sarebbe fatta, di recepire questo modello anche per elaborare il primo codice civile
italiano6. Questa interpretazione, fatta dopo l’unità italiana, del Code Napoléon come un modello
perfettamente aderente alla realtà italiana per cui, benché fosse stato imposto con le armi, gli italiani
vi avrebbero riconosciuto ‘il loro diritto’, pur partendo da un dato reale e oggettivo, quello appunto
dell’accoglienza ricevuta dal testo napoleonico nel nostro paese, costituisce però anche una scelta
“ideologica”: enfatizzare meriti e pregi del Code Napoléon serviva:
a) a far recepire come assolutamente irrevocabile, logica e quasi ‘naturale’ la scelta per
quella forma legislativa che è appunto il codice;
b) a far vedere come altrettanto logica e inevitabile, sul piano delle strutture e dei
contenuti, l’adozione del modello francese anche per la preparazione del codice unitario, scartando
invece altri possibili modelli.
Questa visione spiega quindi perché NON si siano colti o si siano in genere minimizzati,
in quel momento storico, i caratteri peculiari dei codici preunitari e del diritto del periodo della
Restaurazione, che pure fu abbastanza a lungo vigente nella Penisola. In particolare si spiega con
questa visione la scarsa attenzione riservata al codice austriaco. L’ABGB rimase in vigore in
Lombardia fino alla seconda guerra d’Indipendenza (1859), in Veneto fino alla terza guerra
d’Indipendenza (1866 e anzi, in concreto, fino al 1871) e addirittura fino al 1918 in Trentino, Alto
Adige e Venezia Giulia. Nei lunghi anni della sua applicazione ai territori italiani, esso ottiene
valutazioni ampiamente positive; è ben accolto e assorbito dai giuristi di queste regioni, tanto che
quello lombardi ne difesero alcuni istituti anche durante i lavori preparatori al codice civile unitario
del 1865. Eppure, nonostante i suoi molti pregi, esso venne visto a livello nazionale sempre come
un diritto ‘eccezionale’, imposto dall’esterno e sovrapposto, con la sua ‘mentalità germanica’,
all’identità giuridica delle popolazioni soggette, escludendo a priori la possibilità che esso
costituisse un modello anche per altri codici. Ciò si verificò perfino nel momento di massima
‘reazione antinapoleonica’, cioè appunto nel periodo della Restaurazione. Soltanto nel Ducato di
Parma e Piacenza, appunto, per la presenza al governo di Maria Luigia, fu tenuto presente accanto a
quello francese. Allo stesso modo dunque fu poi ‘trascurato’ al momento dell’unificazione.
Benché non sia mai stato preso a modello per altre codificazioni in Italia, esso ebbe
comunque un ruolo importante: la sua stessa esistenza, mostrando la possibilità di una normazione
codicistica in un ambiente sicuramente estraneo ad ogni nostalgia napoleonica o rivoluzionaria o ad
6 Anche su questo sono essenziali le considerazioni di Cavanna, Mito e destini cit. (lettura di alcuni passi).
111
ogni simpatia per la Francia, contribuì a consolidare l’idea della riforma e favorì il superamento di
remore che in altri Stati della Restaurazione frenavano l’idea di adozione di un codice.
Nel complesso quindi, i codici preunitari, anche se spesso opere poco creative e originali,
ebbero il merito di aver agevolato il definitivo trionfo dell’idea codicistica in Italia.
112
Il codice civile austriaco: iter formativo e caratteristiche
Dopo la morte di Giuseppe II, avvenuta nel 1790, i lavori per la codificazione civile
procedettero lentamente. Leopoldo II, fratello e successore dell’imperatore, dopo aver retto per
alcuni anni, con il nome di Pietro Leopoldo, il Granducato di Toscana, nominò una nuova
commissione affidando la presidenza a un professore di diritto di origine trentina, molto colto e
autorevole, Carl Anton von Martini. Questi riprese in mano il materiale della precedente
commissione (di cui aveva anche fatto parte) riuscendo a completare una nuova redazione tra il
1794 (prima parte) e il 1796 (terza parte, dopo una seconda pronta nel ’95).
Questo progetto fu anche sperimentato in concreto rendendolo vigente in una zona limitata:
si scelse la Galizia occidentale e poi in seguito orientale, ove lo si promulgò nel 1797.
Il cosiddetto Progetto Martini è per certi aspetti un codice moderno e per altri una raccolta
settecentesca. Mira in effetti ormai a sostituire e non solo integrare la precedente legislazione. Esso
è definito dal suo compilatore come ‘diritto comune’ (Allgemeines Recht), ma in un senso ben
diverso, per esempio, dal Landrecht prussiano uscito quasi negli stessi anni.
Esso vuole infatti sostituire la legge ordinaria; eventualmente potranno derogarvi future
leggi particolari, per l’applicazione dei principi Lex posterior derogat priori e Lex specialis derogat
generali.
Inoltre il testo separa accuratamente l’oggetto della sua disciplina escludendone
puntualmente le norme penali, processuali e di diritto pubblico e limitandosi al diritto privato (ma
tutto il diritto privato).
Dal punto di vista della formulazione dei singoli paragrafi, il Progetto è invece abbastanza
discontinuo. Alcuni sono chiari, tecnici, ben formulati come proposizioni logico-grammaticali, altri
sono generici e ambigui.
In questo perciò il testo sembra più legato allo stile delle raccolte settecentesche, benché
meno di quanto non lo sia il Landrecht prussiano.
Anche nel delineare il ruolo del giudice non è innovatore: lungi dal vietare l’interpretazione
sembra anzi ammettere in tale sede persino il ricorso a fonti esterne, e quindi una eterointegrazione
per supplire a norme ambigue od oscure e lacunose. Una novità è invece l’unificazione del soggetto
di diritto che in Austria sembra ormai compiuta, anche se rimane ancora qualche disposizione
particolare relativa alla sola nobiltà o ai contadini.
Pur con queste incertezze e oscillazioni il Progetto Martini è una tappa fondamentale perché
è dalla sua revisione e rielaborazione finale che nascerà all’inizio dell’ ‘800 il codice civile
austriaco moderno sotto ogni aspetto e che si applicò per molti ani nel Lombardo Veneto.
La revisione del progetto Martini, dopo la prima fase di sperimentazione in Galizia, viene
condotta, sulla base di accurate istruzioni governative, da una commissione imperiale nominata da
113
Francesco I nel 1801. Il relatore e il personaggio scientificamente e intellettualmente più qualificato
è un allievo di Martini, Franz von Zeiller, che è particolarmente influenzato dalla filosofia di Kant e
in base a questa è convinto che la codificazione sia davvero l’attuazione dell’idea razionale del
giusto, intesa come disciplina dell’attività individuale entro i limiti strettamente necessari per
garantire la coesistenza delle libertà dei singoli.
Il von Zeiller profonde dunque un grande impegno per far approvare il progetto, che gli
ambienti più retrivi della classe dirigente asburgica sottopongono a dure critiche, facendolo
respingere per ben due volte dal governo imperiale e per ben tre volte ridiscutere e riesaminare nei
minimi particolari.
Dopo dieci anni di lavori arriva finalmente la sospirata Patente di promulgazione,
sottoscritta da Francesco I a Vienna il 1° giugno 1811. Il codice entrerà in vigore dal 1° gennaio
1812 con il nome di Codice Civile Generale per i Territori Ereditari Tedeschi (Allgemeines
Bürgerliches Gesetzbuch für die deutschen Erblande – A.B.G.B.). Come nella legge 30 ventoso
anno XII (21.3.1804), anche nella Patente del 1° giugno 1811 viene inserita una esplicita clausola di
abrogazione di tutte le vigenti fonti concorrenti: “dichiariamo … aboliti il diritto comune fin qui
adottato, la prima parte del codice civile pubblicata il dì primo novembre 1786, il codice civile che
fu promulgato per la Galizia, non meno che ogni altra legge e consuetudine relativa agli oggetti di
questo codice civile generale”.
Le differenze tra il codice civile francese e quello austriaco non riguardano soltanto l’iter
formativo, ma anche alcuni elementi della struttura e del contenuto.
Il Codice Civile Generale austriaco è formato da 1502 paragrafi, divisi in 3 parti.
Dopo una introduzione, intitolata Delle leggi in generale (§§ 1 – 14),
la Parte Prima comprende la sezione denominata Del diritto delle persone (§§ 15 – 284),
ripartita in 4 Capitoli: diritti relativi allo status della persona, matrimonio, rapporti tra genitori e
figli, tutela e cura;
la Parte Seconda, intitolata Del diritto sulle cose, dopo un Capitolo introduttivo (Delle cose e
della divisione legale di esse, §§ 285 – 308), si divide in 2 sezioni: una, Dei diritti reali, disciplina la
proprietà, il possesso, i modi di acquisto della proprietà, le garanzie reali, le servitù, le successioni,
la comunione e le altre situazioni reali; la seconda, Dei diritti personali sulle cose, riguarda i
contratti in generale, le donazioni, i contratti tipici, gli illeciti;
la Parte Terza, Delle disposizioni comuni ai diritti delle persone e ai diritti sulle cose,
contiene, divise in 4 capitoli, le materie della prescrizione, usucapione e della costituzione,
modificazione ed estinzione di diritti ed obblighi.
Pur mantenendo la tripartizione di matrice romanistica, fatta propria del resto anche dal
giusnaturalismo e corretta dalla distinzione operata da Kant tra diritti della persona e diritti sulle
114
cose (questi ultimi ulteriormente distinti in diritti reali ed obbligatori), il codice civile austriaco
presenta, sul piano strutturale, alcuni caratteri originali.
Come nel Code Napoléon, vi è un gruppo di disposizioni introduttive dedicate alla legge in
generale, anzi esse sono più ampie rispetto al modello francese, perché contengono una serie di
definizioni e di dichiarazioni di massima – sulla natura e sulle viarie suddivisioni del diritto civile,
sulla funzione, estensione ed efficacia della legge, sul ruolo ed i limiti dell’interpretazione e
sull’organizzazione delle fonti del diritto – che costituiscono una vera e propria ‘summa’ del
pensiero giusnaturalista nelle sue più compiute e mature elaborazioni.
Alla stessa impostazione giusnaturalistica è improntato anche il diritto delle persone,
fondato sul postulato, esplicitamente sancito al § 16, che “ogni uomo ha dei diritti innati che si
conoscono colla sola ragione”. Nella Seconda Parte sono riuniti non solo i diritti reali ma anche
successioni, obbligazioni e risarcimento del danno, che comprendono dunque materie che nel
codice francese occupano 2 libri, il secondo ed il terzo.
La più innovativa e originale è però sicuramente la Parte Terza, perché rappresenta il primo
organico tentativo di codificare una ‘Parte generale’ del diritto, applicando l’impostazione elaborata
da Wolff e dalla sua scuola. Vi si delinea cioè la disciplina applicabile in generale alla costituzione,
modificazione ed estinzione dei rapporti giuridici, anticipando alcuni ulteriori sviluppi dottrinali (in
particolare la tendenza a costituire categorie generali e astratte, come ad esempio quella del negozio
giuridico) che saranno realizzati in area tedesca nella seconda metà del XIX secolo dalla cosiddetta
Pandettistica e che porteranno, come vedremo, alla elaborazione nel 1900 del codice civile tedesco
(BGB).
La maggior brevità, altra differenza, rispetto al codice francese (1502 § contro 2281 artt.) si
ricollega alla specifica concezione del ruolo della legge e della funzione dell’interprete fatta propria
dal legislatore austriaco.
Questa concezione, che in un certo senso si contrappone a quella accolta nella stesura finale
del testo francese, è ben spiegata dallo stesso Zeiller, nel Commentario al codice, laddove spiega
che la “perfezione” di un codice dipende “dallo stabilire con ponderato giudizio dei principi
generali da cui nascano per diretta conseguenza dei principii particolari ad ogni materia”. Il
legislatore quindi ha il compito di “semplificare le disposizioni del diritto”, mentre l’ “applicazione”
delle stesse disposizioni “deve essere rimessa al savio discernimento del giudice”.
Quindi l’ABGB tende a delineare una disciplina di carattere generale incentrata
sull’illustrazione di principi fondamentali e presuppone in fase applicativa un certo intervento da
parte dell’interprete, a differenza del code Napoléon che nasce come sistema tendenzialmente
chiuso che, non ammettendo specifiche ‘valvole di sfogo’ esterne (specie con la scomparsa del
riferimento ipotizzato da Portalis al diritto naturale), consente un’attività di tipo quasi
esclusivamente esegetico.
115
Il codice austriaco ha dunque qualche lacuna in più rispetto al più preciso codice francese,
ma allo stesso tempo concede una maggiore autonomia all’interprete autorizzando “qualora un caso
non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso naturale della legge”, il ricorso
prima all’analogia e poi ai principi del diritto naturale, i cui postulati sono dunque considerati come
norme positivamente applicabili.
A un modello di ‘norma-comando’, tipico del code Napoléon, si contrappone un modello
alternativo di ‘norma-principio’.
Quanto ai contenuti specifici dell’ABGB, essi sono il frutto di una equilibrata fusione e
riorganizzazione di una pluralità di fonti, individuabili essenzialmente
a) nella tradizione romanistica
b) nei vari diritti territoriali e provinciali
c) nei principi del giusnaturalismo razionalistico, talora già positivizzati nella
legislazione del ‘700, specie da Giuseppe II.
La base ideale che ispira il testo austriaco, pur con la sopravvivenza di qualche situazione di
privilegio, tiene presenti i fondamentali principi di equità e uguaglianza, dandone tuttavia una
lettura in parte diversa da quella francese. I principi giusnaturalistici emergono infatti specialmente
nel diritto di famiglia, che risulta così quasi immune dalla svolta autoritaria imposta in questo
campo dalla legislazione napoleonica. La disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi, in
particolare, ignora del tutto l’istituto dell’autorizzazione maritale e permette alla donna di disporre
liberamente dei suoi beni, così come ben diversa e assai meno autoritaria è la disciplina della
potestà dei genitori, più ampiamente definita come insieme dei ‘diritti e doveri’ dei genitori e assai
significativamente posta in luogo della romanistica ‘patria potestà’ rimasta invece nel codice
francese.
Viceversa, il testo del 1811 NON contiene alcun riflesso dei principi del liberalismo politico
ed economico che, pur attenuati rispetto agli anni della Rivoluzione, sono presenti nel code
Napoléon.
In qualche caso, anzi, il testo austriaco sembra rimanere legato al passato, per esempio
mantenendo l’istituto del fedecommesso e perfino continuando a dare grande rilevanza, nella
disciplina della proprietà, alla distinzione tra dominio diretto e dominio utile.
Infine, essendo esso destinato ad entrare in vigore in uno Stato multietnico, il codice
austriaco si pone il problema delle minoranze non cattoliche e non cristiane, cercando un equilibrio
e un compromesso: per esempio si stabilisce che “la diversità di religione non ha alcuna influenza
sui diritti privati” (§39), e si riserva allo Stato la regolamentazione della materia matrimoniale,
benché poi nel contenuto si segua abbastanza fedelmente la normativa canonistica.
Per i cattolici è escluso il divorzio,mentre lo si consente, in alcuni casi tassativi e nel rispetto
dei principi delle diverse confessioni, per i non cattolici.
116
Figlio, come il codice francese, dell’ Illuminismo giusnaturalista, ma senza essere passato
attraverso l’esperienza rivoluzionaria, questo testo unisce quindi a un indiscutibile rigore
concettuale e sistematico, una altrettanto significativa elasticità e raffinatezza nella tecnica
legislativa. Dato che poi esso tutela rigorosamente equità e uguaglianza nei rapporti privati, ben si
comprende la sua vita altrettanto lunga rispetto al Code Napoléon. Anch’esso infatti, in Austria, è
tutt’ora in vigore.
117
Codici civili a confronto: struttura
Codice Napoleone ABGB
Titolo preliminare. Della
pubblicazione, degli effetti e dell’
applicazione delle leggi in generale
Libro Primo. Delle persone
Tit. 1. diritti civili
Tit. 2. stato civile
Tit. 3. domicilio
Tit. 4. assenza
Tit. 5. matrimonio
Tit. 6. divorzio
Tit. 7. paternità e filiazione
Tit. 8. adozione e tutela
Tit. 9. patria potestà
Tit. 10. minore età
Tit. 11. maggiore età, interdizione
Libro Secondo. Dei beni e delle
differenti modificazioni della proprietà
Tit. 1. beni
Tit. 2. proprietà
Tit. 3. usufrutto, uso, abitazione
Tit. 4. servitù
Libro Terzo. Dei differenti modi coi
quali si acquista la proprietà
* Disposizioni generali
Tit. 1. successioni
Tit. 2. donazioni
Tit. 3. contratti e obbligazioni
convenzionali
Tit. 4. obbligazioni senza convenzione
(=quasi contratti e quasi delitti)
Tit. 5. contratto di matrimonio
(= rapporti patrimoniali tra
coniugi)
Tit. 6. vendita
Tit. 7. permuta
Parte Prima
- Introduzione. Delle leggi in generale
- Del diritto delle persone:
c. 1. Qualità e relazioni personali
c. 2. matrimonio
c. 3. diritti tra genitori e la prole
c. 4. tutela e cura
Parte Seconda. Del diritto sulle cose
- Le cose
Sezione I. Dei diritti reali
c. 1. possesso
c. 2. proprietà
c. 3. occupazione
c. 4. accessione
c. 5. tradizione
c. 6. pegno
c. 7. servitù
c. 8. eredità
c. 9. testamenti
c. 10. sostituzioni e fedecommessi
c. 11. legati
c. 12. limiti alle ultime volontà
c. 13. successione legittima
c. 14. quota legittima
c. 15. acquisto del possesso
dell’eredità
c. 16. comunione
Sezione II. Dei diritti personali sulle
cose
c. 17. contratti in genere
c. 18. donazioni
c. 19. deposito
c. 20. comodato
c. 21. mutuo
118
Tit. 8. locazione
Tit. 9. società
Tit. 10. prestito
Tit. 11. deposito ….
Tit. 15. Transazioni
Tit. 16. arresto per debiti ….
Tit. 18. ipoteche e privilegi
Tit. 19. espropriazione forzata
Tit. 20 prescrizione
c. 22. mandato
c. 23. permuta
c. 24. compravendita ….
c. 28. patti nuziali
Parte Terza. Delle disposizioni comuni
ai diritti delle persone e ai diritti sulle cose
c. 1. Assicurazione dei diritti e degli
obblighi
c. 2. mutazione dei diritti e degli
obblighi
c. 3. modi con cui si estinguono i
diritti e
gli obblighi
c. 4. prescrizione e usucapione
I lavori preparatori del codice civile unitario (1859-1865)
Il notevole grado di omogeneità del sistema normativo preunitario facilitò dunque
l’unificazione legislativa vera e propria, cui si giunse, in campo civile, come detto, nel 1865. Come
è ormai altrettanto chiaro, il modello di questo codice era quello napoleonico, come era logico, dato
che in tal modo lo Stato nazionale risorgimentale collegava la sua codificazione alla normativa che
all’inizio del secolo aveva rappresentato un potente fattore di coesione anche politica.
Le tappe che, tra il 1859 e il 1865, portano all’unificazione, sono varie e condizionate da
vari elementi. Se ne possono individuare almeno 7:
a) la mitizzazione del Code Napoléon e quindi l’esclusione a priori di modelli diversi
b) la consapevolezza, nei contenuti, del suo legame con la tradizione romanistica e
quindi con quella italiana
c) il rifiuto dei postulati della Scuola storica e quindi il rifiuto
I. di ogni forma normativa diversa dal codice e
II. di ogni fonte di produzione diversa dallo Stato legislatore
d) il collegamento di tipo filosofico e politico tra l’idea di Stato nazionale e la
concezione di una legislazione unitaria
e) l’idea di codice come strumento per accostare il popolo allo Stato, facendone
conoscere le leggi
119
f) l’immagine diffusa dalla dottrina di una perfetta simmetria esistente tra l’assetto
pubblicistico creato con lo Statuto albertino del 1848 e la disciplina del diritto privato fissata nel
codice civile
g) infine, la coscienza dell’insostituibilità di una normativa di garanzia della proprietà
privata e dell’autonomia negoziale contro ogni turbativa pubblica o privata.
Di alcuni di questi motivi ispiratori abbiamo già detto, analizzando l’impatto del code
Napoléon sulla società italiana e le ragioni della sua accoglienza largamente favorevole. Altri
aspetti, ed in particolare lo scontro con le idee della cosiddetta Scuola storica (punto c) e il valore
‘nazionale’ o ‘nazionalistico’ dell’unificazione legislativa (punti d,e,f) richiedono un ulteriore
chiarimento.
Nel momento in cui la progressiva espansione del Regno di Sardegna andava pian piano
unificando il territorio italiano fino a costituire uno Stato politicamente unitario, si presentavano in
via di ipotesi tre diverse strade possibili per regolare il problema della legge da applicare:
1) estendere a tutto il Regno i codici sardi
2) mantenere il pluralismo
3) approntare una nuova codificazione pensata appositamente per il neonato Stato
italiano.
Prendiamo in esame per prima la seconda ipotesi, poiché è quella che fu subito scartata con
maggiore decisione, benché avesse trovato qualche sostenitore. Vi fu infatti chi sostenne che fosse
proprio radicalmente inopportuna un'unica legislazione nazionale codificata.
Si trattava di coloro che, in Italia, avevano fatto proprie le idee di una corrente dottrinale
diffusasi nell’800 soprattutto in Germania, la cosiddetta Scuola storica (cfr. punto c), il cui maggior
esponente fu Carl Friedrick von Savigny.
Il bersaglio polemico di questa scuola di pensiero era proprio l’idea dell’ordinamento statale
come creatore esclusivo del diritto, che costituiva la forza della codificazione; contro l’idea della
legge emanata dallo Stato come unica fonte normativa, si difendeva ed esaltava la tradizione
nazionale e si vedeva la storia come esclusiva fonte creatrice del diritto. Quando, all’inizio dell’800,
l’illuminista e razionalista Thibaut aveva pubblicato uno scritto intitolato “Sulla necessità di un
diritto civile generale per la Germania” (1803), nel quale appunto sosteneva la necessità della
redazione di un codice come elemento unificatore della nazione tedesca, gli aveva duramente
risposto proprio il Savigny, con un celebre opuscolo (destinato appunto ad aprire una forte polemica
ed un pubblico dibattito) dal titolo “Sulla vocazione del nostro tempo per la legislazione e la
giurisprudenza” (1814). Savigny si richiamava la cosiddetto ‘spirito popolare tedesco’
(“Volkgeist”), in nome del quale si era combattuto contro la Rivoluzione francese e l’egemonia
napoleonica, per respingere con avversione ogni codificazione e ogni altra legge modellata su
esempi stranieri: sosteneva che il diritto, come la lingua, la religione e ogni altra manifestazione
120
dello spirito, è il prodotto di un’evoluzione storica non riconducibile, come avevano preteso
giusnaturalisti e illuministi, alla sola ragione, ispiratrice di norme astratte e quindi non adatte alla
nazione germanica, ricca di cultura e di civiltà.
La tradizione giuridica era quindi una delle più elevate testimonianze culturali dello spirito
del popolo tedesco; dava il senso dell’unità nazionale più di qualunque legislazione imposta dallo
Stato. Per capire questa particolare impostazione, che influirà molto in Germania tanto da far
attendere fino al 1900 per arrivare ad un codice civile, occorre tenere presente come poi il Savigny
interpretava la stessa storia del diritto tedesco.
In Germania, nell’età moderna, la storia del diritto si era sviluppata attraverso il graduale
prevalere, a partire dalla recezione avvenuta nel 1495, del diritto romano sull’antico diritto
germanico, con il risultato che il cosiddetto ‘Usus modernus pandectarum’, cioè le norme del
corpus iuris civilis interpretare dalla dottrina, aveva quasi totalmente sostituito le antiche
consuetudini del popolo tedesco.
Da questa visuale è fortemente condizionato anche Savigny. Infatti l’esaltazione dello spirito
del popolo tedesco che avrebbe dovuto coerentemente portarlo a sminuire il valore storico della
recezione e a rivalutare parallelamente le antiche consuetudini popolari germaniche, si traduce
invece in una discutibile attribuzione di un carattere nazionale al diritto comune, che per lui era
stato recepito in modo totale dalla coscienza popolare tedesca e fatto proprio da essa. Il diritto che
nasceva dallo spirito del popolo tedesco era quindi per lui non riducibile a una codificazione ma,
ancora filtrato dall’attività interpretativa della scienza giuridica e della giurisprudenza, avrebbe
potuto e dovuto mantenere il suo carattere permanente, continuare a svolgersi come in passato,
senza essere oggetto di una legislazione imposta dall’arbitrio di un legislatore.
Se queste idee ebbero un certo influsso sul percorso della codificazione in Germania, minore
seguito ebbero in Italia. Vi fu, come detto, chi, ispirandosi ad esse, sostenne che non si dovesse
arrivare a una codificazione unitaria, e forse neppure a una codificazione (lo affermano ad esempio
il savoiardo De Maistre e il napoletano Vincenzo Cuoco), ma, come abbiamo visto, nel nostro paese
era di gran lunga prevalente proprio la convinzione che anzi, proprio il codice, e in particolare
quello di tipo francese, rispondesse pienamente tanto alle nuove esigenze economiche e giuridiche
della società italiana e del suo progresso, quanto alla tutela e conservazione della più valida e
genuina tradizione giuridica italiana.
Ecco quindi perché ebbe ben poco seguito l’idea di ‘rinunciare’ a una unificazione
legislativa fatta attraverso la forma del codice civile. La decisione della redazione di codici validi
per tutta la nazione parve quindi subito quasi inevitabile.
Restavano però, come abbiamo osservato, altre due possibili strade alternative e cioè (1)
l’estensione a tutto il Paese dei codici già vigenti in Piemonte o (3) la stesura ex novo di un testo
unitario.
121
Quando il procedimento venne iniziato [e siamo appunto così giunti nel vivo di quella 4°
tappa del percorso descritto per arrivare al codice italiano, dall’età delle Repubbliche giacobine, alla
vigenza del code Napoléon, ai codici preunitari] sembrò in un primo momento prevalere la prima
soluzione.
Con una legge emanata il 25 aprile 1859, nell’ambito dei poteri legislativi ed esecutivi
speciali conferiti al Governo in occasione della guerra con l’Austria, si era dato mandato al Governo
di procedere all’adattamento e redazione di testi civile, penale e di procedura, basati su quelli
emanati da Carlo Alberto negli anni ’30.
Così fu fatto, in effetti, per il codice penale e per i due processuali, che appunto furono
promulgati, con pochi ritocchi, già nel novembre di quello stesso 1859, in tutti i territori già
unificati, con però la significativa eccezione della Toscana ove il codice penale, come vedremo, non
venne applicato.
Anche per la revisione del codice civile albertino del 1837 si erano nominate (ministro
Rattazzi, governo Lamarmora) apposite commissioni: inizialmente erano due diverse, una composta
di giuristi piemontesi e lombardi ed una di emiliani, per gli adattamenti specifici delle varie zone
annesse; esse erano poi state fuse (dal ministro Cassinis, del governo Cavour) in una sola
commissione, con l’aggiunta di componenti toscani, perché fossero rappresentate tutte le province
fino a quel momento unite, ma le difficoltà di questa operazione di revisione si dimostrarono subito
maggiori del previsto, tanto che alla prima commissione ne seguirono varie altre.
Un primo progetto fu proposto, con tempi giudicati fin troppo brevi, a Camera e Senato
nel 1860, in via ufficiosa per consentire l’esame contemporaneo del testo da parte dei due rami del
Parlamento, e quindi sveltire i tempi; al contempo il progetto fu inviato alla magistratura per le sue
osservazioni.
In realtà però sembrava ormai chiaro che la soluzione (1) era stata abbandonata a favore
della diversa ipotesi (3). Non si trattava più affatto di una semplice revisione del codice albertino: lo
dimostrava la struttura stessa del testo che era in 4 libri e non più in 3, avendo scisso l’originario
libro 3° in due diversi per le successioni e le obbligazioni. Anche nei contenuti poi il progetto aveva
importanti innovazioni: un punto su cui subito si accesero discussioni era, per esempio, la
previsione del matrimonio civile e la soppressione dell’autorizzazione maritale e altri aspetti della
materia successoria, come la reintroduzione del testamento olografo, la legittima prevista anche per
i figli naturali etc. Vi era infine prevista la concessione dei diritti civili agli stranieri senza
condizione di reciprocità.
Il progetto incontrò molte resistenze; alcune – le ultime dei rappresentanti della Scuola
storica che metteva in dubbio l’opportunità stessa di un unico codice – furono facilmente superate;
altre però erano più circostanziate e frenarono i lavori.
L’iter fu quindi interrotto nel 1860 a causa della fine della Legislatura.
122
Dopo le elezioni, il Ministro (Cassinis) ripresenta il progetto al Parlamento, seguendo
sempre il metodo dell’ufficiosità per accelerare i tempi di discussione, ma questa volta la strada
‘irregolare’ incontra l’opposizione della Camera dei Deputati che pretende l’uso rigoroso delle
forme ufficiali della presentazione di un disegno di legge. Era un atteggiamento che nascondeva
ancora una volta ostilità di tipo conservatore e interessi di tipo regionalistico/federalistico. I tempi si
allungano nuovamente. Il Ministro ritira questo progetto tentando di sostituirlo con uno più aderente
alla traduzione del code Napoléon a suo tempo fatta nel 1808 per Napoli, sperando di rendere più
facile la votazione. Cade però il governo Cavour e quindi anche il progetto di codice.
Un ulteriore progetto, abbastanza diverso e con alcune importanti innovazioni è di nuovo
sottoposto al Senato il 9 gennaio del 1862 (Ministro Miglietti, governo Ricasoli) ma l’iter è
rallentato dall’esame, che richiede il parere delle varie Corti di Cassazione.
[N.B. in questa fase, in Italia, non vi è ancora un’unica Corte di Cassazione. Questo risultato
non fu raggiunto fino al 1923. Fino a tale data vi sono dunque più Corti, che arriveranno al numero
massimo di 5, aventi sede a Torino, Firenze , Napoli, Palermo e poi Roma; quella di Napoli si era
aggiunta proprio in quegli anni alle prime 3 del centro-nord, e si dovette dunque dar modo anche ai
magistrati meridionali di dire la loro opinione].
Il progetto, pur con successivi cambi di ministri (Conforti poi Pisanelli) proseguì il suo
percorso: fu sottoposto ad altre 5 commissioni formate di giudici ed avvocati, sparse su tutto il
territorio. Tenendo conto anche di tutte le loro osservazioni, il Ministro, che era in quel momento
l’illustre giurista Giuseppe Pisanelli, preparò un progetto che fu presentato via via al Senato tra
luglio e novembre del 1863, accompagnato da un’amplissima Relazione ministeriale. Il testo era in
3 libri, ma l’autore rivendicava per il resto una certa autonomia rispetto alla tradizione francese,
proprio per sottolineare il carattere nuovo ed unitario della codificazione. Da quest’ultimo testo
nascerà il codice che porta appunto il nome di codice Pisanelli. Vi erano però fondati timori di
mancata approvazione, specie in Senato. La commissione senatoria incaricata dell’esame propose
infatti numerose modifiche, tutte di segno nettamente conservatore e volte a limitare alcune
significative innovazioni che il progetto conteneva: per esempio si vogliono dare diritti civili solo
agli stranieri residenti nello Stato, mentre il progetto li concedeva a tutti senza richiedere condizioni
di reciprocità; si vuole reintrodurre l’autorizzazione maritale che Pisanelli non prevedeva, così
come l’adozione etc.
Il mutare della situazione politica sia a livello internazionale, a seguito della stipulazione di
una Convenzione con la Francia, sia interna, con lo spostamento della Capitale da Torino a Firenze,
avvenuto alla fine del 1864, fa finalmente accelerare un iter che appariva ancora lungo, perché
risulta ormai palese l’urgenza di unificare il diritto, in particolare proprio in Toscana, visto che non
sembra accettabile che proprio dove ha sede la Capitale ci sia un sistema giuridico diverso dalle
altre regioni (si ricordi che la Toscana, come abbiamo visto, non si era mai data un codice civile e
123
quindi qui vige ancora il diritto comune!!). Il Ministro in carica (Vacca) presenta perciò al
Parlamento, nel novembre 1864, un progetto di legge che autorizza il Governo a pubblicare e
rendere esecutori i codici civile e di procedura civile, nonché altre leggi speciali, NELLO STATO
IN CUI SI TROVANO dinnanzi al Parlamento, con le sole modifiche strettamente necessarie.
Si tratta di un provvedimento ‘ai limiti’ della regolarità costituzionale. Per questo suscita
vivaci proteste e opposizioni da parte di molti parlamentari. È indiscutibile però che seguire l’iter
ordinario appare ormai impensabile per ottenere un risultato concreto in tempi ragionevoli.
La commissione della Camera fa perciò una relazione favorevole, di cui è relatore lo stesso
Giuseppe Pisanelli, e la Camera approva il progetto nonostante le riserve sulla sua costituzionalità.
In realtà si è notato che in questa occasione le opposizioni non sono particolarmente
combattive, né da parte della Sinistra, né dei cosiddetti ‘clericali’. Questi ultimi, in particolare,
puntano tutta la loro attenzione sul tema scottante del matrimonio civile, discusso con molta
vivacità, nonostante la scelta ‘moderata’ del progetto Pisanelli che, come vedremo, pur adottando il
matrimonio civile, esclude il divorzio.
Non si discute molto, quindi, della forma attraverso cui giungere all’approvazione del testo,
anche perché la prassi non è in realtà nuova e appare ai più anche ragionevole, considerata
l’importanza dell’obiettivo perseguito e l’effettiva difficoltà di raggiungerlo in altro modo. Vi è
infatti la consapevolezza che una discussione dettagliata in ambito parlamentare avrebbe
un’inevitabile insuccesso.
La legge sull’unificazione legislativa è promulgata il 2 aprile 1865 con la nomina di una
commissione consultiva per la redazione definitiva e il coordinamento delle varie norme.
I mutamenti da ultimo apportati al testo sono vari, ma per lo più di forma; altri, di sostanza,
sono respinti dal Ministro che li cancella proprio nella stesura definitiva: per esempio la
soppressione dell’arresto per debiti, pur votata dalla commissione all’unanimità, non viene accettata
e l’istituto rimane nel testo. [Questa oppressiva misura, già allora avversata dai più progressisti, sarà
poi definitivamente eliminata con una apposita legge nel 1877].
Qualche piccolo ammodernamento viene accolto, come la limitazione dei casi di
autorizzazione maritale (ma l’istituto, come vedremo, rimase), la sola inabilitazione anziché
l’interdizione per il prodigo etc. Viene reintrodotta l’enfiteusi, come richiesto ripetutamente in
Parlamento.
Con questi aggiustamenti, il codice civile è finalmente pronto: promulgato il 25 giugno
1865, entrerà in vigore dal 1° gennaio 1866, insieme a quello di procedura civile, di commercio e
della marina mercantile, nonché ad una serie di 6 testi organici di diritto amministrativo, pubblicati
in allegato.
Anche in quest’ultimo periodo dell’unificazione si nota la continua oscillazione tra la
tendenza a presentare il codice ora come frutto di una scelta politica innovatrice, imposta dall’unità
124
nazionale, ora invece in stretto collegamento con la tradizione giuridica nazionale, con una continua
alternanza tra il richiamo della intrinseca modernità del codice e l’invocazione dell’autorità della
tradizione, specie per sostenere scelte legislative conservatrici nei contenuti. La prima posizione
porta perciò ad accentuare il dato della precedente frammentazione legislativa facendo osservare
che ciò era contrario al bene dell’unità nazionale, come fa il senatore De Foresta in Senato il 16
marzo 1865, affermando: “L’Italia è stata unificata nelle materie politiche, è stata unificata
nell’esercito, è stata unificata nelle leggi finanziarie e amministrative. E vorremmo noi che nelle
materie giudiziarie, civili e penali rimanga con sette legislazioni diverse?”.
La seconda posizione porta invece ad insistere sulla continuità e ad enfatizzare l’uniformità
normativa già preesistente al codice e che in qualche modo lo ha generato come un suo frutto
logico. È questa seconda tendenza soprattutto quella che, come abbiamo visto, porta a rivendicare la
‘italianità’ dei principi e delle norme dello stesso code civil.
Struttura e contenuti del codice Pisanelli
Benché compilato in tempi piuttosto rapidi e senza molti studi preliminari, con poca
discussione anche in ambito parlamentare, è universalmente riconosciuto dalla storiografia che il
codice civile Pisanelli sia un risultato decisamente positivo.
Anche se fedele essenzialmente al modello napoleonico, il nuovo ‘codice degli italiani’
contiene anche importanti elementi di originalità, sia nell’ordine sistematico delle materie sia nella
concreta disciplina degli istituti, al punto che su diversi aspetti si può vedere come un
miglioramento rispetto allo stesso code Napoléon e certamente rispetto ai codici preunitari.
In linea generale, si attua una più chiara e netta delimitazione della sfera del diritto privato
rispetto al diritto pubblico, sulla base della garanzia offerta dai principi politico-istituzionali di
libertà e uguaglianza, che nel codice civile trovano la loro concreta espressione, eliminando ogni
residua discriminazione di carattere politico o religioso quanto allo stato delle persone e al
godimento dei diritti civili, offrendo maggiore libertà all’individuo anche in seno alla famiglia e,
naturalmente, tutelando il diritto di proprietà considerato un attributo fondamentale della persona e
la libertà di commercio e negozio, sulla linea in questo proprio del codice francese.
Dal punto di vista dell’ordine delle materie, va detto che la divisione fondamentale in tre
libri resta invariata, rinunciando dunque alle più decise innovazioni dei primi progetti che erano
articolati su 4 libri, ma in più punti viene modificata la sistemazione dei titoli, capi , sezioni etc., per
migliorare l’impianto sistematico: ad esempio viene modificato l’ordine delle successioni legittime
e testamentarie, eliminando alcune incongruenze e separando le donazioni dai testamenti.
L’enfiteusi viene spostata tra i contratti; si radunano le norme sulla comunione etc.
125
Il legame con il code Napoléon si nota comunque fin dai primi articoli. Anche il codice
civile italiano è infatti preceduto da una serie di Disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed
applicazione delle leggi in generale che, come sottolinea il Ministro nella sua Relazione di
accompagnamento, sono applicabili a “tutta quanta la legislazione a modo di teoremi o di principi
direttivi”, a conferma del primato e della ‘centralità’ della codificazione civile rispetto a tutte le
altre. Vengono inserite tra queste anche alcune norme fondamentali di diritto internazionale privato,
con anche importanti novità come la norma che prevede che le successioni siano sempre regolate
secondo la legge nazionale del de cuius, qualunque sia la natura dei beni, mobili o immobili, e
qualunque sia il paese in cui si trovano. Viene così abolita un’antica norma (tot haereditates quot
territoria) che aveva in passato creato non poche controversie.
Viceversa vengono tolte dal codice civile e inserite negli altri testi alcune regole riguardanti
la competenza giudiziaria nei confronti degli stranieri, che meglio si inserivano nei codici di
procedura etc.
I tre libri del testo sono poi dedicati rispettivamente a
1. Persone
2. Beni, proprietà e modificazioni di essa
3. Modi di acquisto e di trasmissione della proprietà e degli altri diritti sulle cose
Nel Primo libro, Delle persone, il codice italiano si discosta da quello francese fin dal primo
titolo, riconoscendo il godimento dei diritti civili non solo alle persone fisiche ma anche alle
persone giuridiche, private e pubbliche e ammettendo gli stranieri a godere dei diritti civili attribuiti
ai cittadini senza condizione di reciprocità: questo principio, del tutto assente sia nel testo francese
sia in quelli preunitari, è frutto di una scelta originale e coraggiosa (voluta da Pasquale Stanislao
Mancini), talmente all’avanguardia che non permarrà nel tempo.
Altre novità sono il riconoscimento di effetti giuridici alla residenza, intesa come luogo della
dimora stabile e una più precisa regolamentazione degli istituti dell’assenza e morte presunta.
Molte discussioni provocheranno alcuni istituti del diritto di famiglia, come subito vedremo.
Un’ultima novità importante contenuta nel primo libro è infine la disciplina organica, nei
due titoli finali, di tutte le disposizioni sulla comunione e sul possesso, che nei precedenti codici di
stampo francese erano sparse in titoli diversi, prendendo esempio in questo caso dal codice
austriaco.
Nel libro secondo, dedicato alla proprietà e alle sue modificazioni, l’influenza del codice
francese è invece molto forte. Lo stesso Pisanelli aveva dichiarato che “l’idea fondamentale del
codice è quella della proprietà e tutte le sue disposizioni ruotano intorno ai beni”. Questa ‘aderenza’
del codice agli ideali individualistici e proprietari già propri del modello francese non deve però
essere valutata come una scelta arretrata o passatista. È vero infatti che sono ormai trascorsi 60 anni
dall’emanazione del code Napoléon e che nel frattempo in molte zone dell’Europa e dell’America
126
settentrionale lo sviluppo industriale ha in qualche modo ‘incrinato’ quei modelli, imponendo la
necessità che, anche in ambito legislativo, si tenesse conto dei problemi connessi, primo fra tutti
l’importanza dell’impresa e del ‘fattore lavoro’; è vero però anche che di questo sviluppo non vi è
ancora alcuna significativa traccia nella società italiana, ancora pienamente e quasi totalmente
incentrata sull’agricoltura.
Alcune novità sono comunque presenti anche nel libro II, come ad esempio la precisa
distinzione dei beni dello Stato in beni demaniali e beni patrimoniali, due categorie spesso in
precedenza confuse da legislazione e giurisprudenza, con conseguenti errori e controversie.
Nel libro III, le maggiori innovazioni si trovano come accennato nella prima parte, dedicata
alle successioni ereditarie. Nel regolare quella legittima si vollero infatti tenere presenti soprattutto i
legami affettivi e la presumibile intenzione del defunto, tralasciando invece i motivi di utilità
politica o l’interesse sociale alla conservazione dei patrimoni familiari. Per chi muoia senza prole si
prevede infatti la successione solo di genitori e fratelli e sorelle germani (per uterini o consanguinei
la metà), escludendo invece tutti gli altri collaterali. Sono compresi tra gli eredi legittimi anche i
figli naturali riconosciuti, anche se con una quota di metà rispetto ai figli legittimi.
Per la successione testamentaria, si ripristina il testamento olografo ma si limita la
possibilità di disporre, regolando con precisione la successione necessaria (la legittima è dovuta ad
ascendenti e discendenti) e sopprimendo la possibilità di diseredazione per giusta causa.
La parte delle obbligazioni e contratti segue più rigorosamente la tradizione romanistica,
così come reinterpretata dal codice francese.
Una novità inserita del legislatore italiano è invece la precisa e compiuta regolamentazione
della trascrizione, che mancava nel codice francese. Essa serve ad assicurare certezza giuridica e
garanzia agli acquirenti e ai terzi, imponendo l’obbligo della trascrizione come forma essenziale di
pubblicità e condizione di efficacia verso i terzi, non solo di atti, contratti, sentenze concernenti la
proprietà di immobili o la costituzione di diritti reali immobiliari, ma anche di domande di
rivendicazione, revocazione, rescissione, risoluzione etc.
I pubblici registri delle trascrizioni e delle iscrizioni divengono così un vero e proprio “stato
civile della proprietà” (N.B. il codice austriaco aveva adottato invece il sistema tavolare che,
basandosi su una rilevazione del territorio, segue le vicende giuridiche di ogni unità immobiliare:
era un meccanismo più efficiente di quello impostato non su base reale ma personale e facente
riferimento non ai beni oggetto del negozio giuridico ma alle parti che hanno posto in essere l’atto;
tuttavia non era mai stato adottato neppure in Lombardia ma solo in Trentino Alto Adige, dove fu
conservato anche dopo l’unificazione).
Il diritto di famiglia
127
In questo campo, al legislatore si ponevano obiettivi importanti; in particolare si avvertiva la
necessità di rimediare ad alcune delle chiusure e arretratezze più vistose dei codici della
Restaurazione. Si pongono però, immediatamente, già in fase di elaborazione del codice, non pochi
problemi.
Va subito detto che l'ideologia liberale che ispirava la politica legislativa del paese induce a
tenere lo Stato rigorosamente distaccato dai convincimenti personali e religiosi dei cittadini; anche
per questo si sceglie di operare assai pochi interventi nel settore del diritto di famiglia.
Lo stesso Pisanelli avrebbe addirittura preferito lasciare questa materia fuori dal codice,
considerandola “una branca di leggi speciali, intermedia tra il codice civile e lo Statuto”, come
risulta dalla sua relazione presentata al Senato per accompagnare il primo libro del codice stesso.
In questo settore, poi, appare evidente come la scelta di rifarsi al modello francese non
impedisca comunque ai redattori di adottare una linea autonoma e prudente, nel rispetto di quelle
diversità, anche profonde, che caratterizzavano la tradizione giuridica italiana rispetto a quella
transalpina.
Già in fase di lavori preparatori, peraltro, la famiglia era stata uno dei temi maggiormente
dibattuti poiché alcuni esponenti più progressisti vedevano appunto nella nuova codificazione
l'occasione per 'correggere' alcune 'chiusure' che avevano caratterizzato i codici preunitari, ad
esempio in merito alla condizione della donna, mentre una frangia più conservatrice, manteneva una
visione tradizionale dell'istituto famigliare e non vedeva favorevolmente alcun cambiamento.
Si giunge così ad una soluzione di compromesso che, come vedremo, fa sì che già subito
dopo l'approvazione il codice si presti a dibattito e critiche.
Il primo indice di questo atteggiamento misurato è costituito dalla disciplina del matrimonio:
l’art. 93 enuncia che: "Il matrimonio deve essere celebrato nella casa comunale e pubblicamente
innanzi all'ufficiale dello stato civile del comune, ove uno degli sposi abbia il domicilio o la
residenza ".
Si giunge a questa svolta decisiva al termine di un lungo percorso, con un dibattito in cui si
erano scontrate posizioni diverse e talvolta nettamente antitetiche.
Il dibattito sulla disciplina del matrimonio più adeguata per il nuovo Stato era cominciato in
concomitanza con i lavori delle prime Commissioni per l'emenda dei codici piemontesi tra il 1859 e
il 1860. Le discussioni erano poi proseguite lungo tutto l'iter legislativo della riforma e, soprattutto,
avevano trovato significativa eco nell' ambiente giuridico e nella stessa opinione pubblica, dando
vita ad un complesso dialogo a più voci, ad animare il quale erano spesso i più illustri ed attivi
esponenti della dottrina giuridica italiana.
Durante l'esame dei numerosi progetti di codice civile, vi è un largo sostegno del mondo
giuridico alla proposta riguardante il matrimonio civile, sostegno argomentato da più parti per
riferimento non tanto a questioni tecnico-giuridiche quanto piuttosto richiamando valori di libertà,
128
progresso, civiltà. Ogni tentativo di riavvicinare la legislazione ad una impostazione confessionale o
di compromesso con la disciplina canonica viene duramente stigmatizzato come retrivo ossequio a
pregiudizi e superstizioni di un lontano passato.
Il titolo V del codice, dedicato al matrimonio, giunge così in porto, come altre parti del testo,
con un ricco corredo di analisi, riflessioni ed osservazioni su ciascun aspetto; nell'intenzione dei
suoi redattori esso perciò si propone quale punto fermo per una organica regolamentazione del
nuovo istituto civile. Eppure, a dispetto di tanto accurato studio, la dottrina e la giurisprudenza
immediatamente successive alla sua entrata in vigore mostrano l'esistenza di molteplici questioni
irrisolte e divergenze interpretative, tanto che lo stesso Parlamento viene chiamato a nuove reiterate
discussioni ed all'analisi di numerosi progetti di legge modificativi della disciplina codicistica, pur
recentissima.
Si prevede dunque il matrimonio civile, ribadendo che esso è l'unico rilevante per lo Stato,
abolendo conseguentemente ogni impedimento di tipo canonico (ordine, voto, disparità di culto,
sponsali, etc.) mantenendo viceversa quelli civili non ammessi dal diritto canonico (il lutto vedovile
per 10 mesi, il limite di età: 18 e 15 anni contro 15 e 12; l’ interdizione; il compimento di un
crimine): particolarmente indicative le norme sull'obbligo, per i figli, anche maggiorenni, di età
inferiore a 25 anni (21 per la donna), di avere il consenso dei genitori o avi (artt. 63 ss.), pur
mitigate dalla scelta di non rendere il matrimonio nullo per questo.
È esclusa la competenza dei tribunali ecclesiastici in materia di nullità.
Benché i più accesi fautori del separatismo avessero addirittura proposto di introdurre
sanzioni per chi scegliesse il matrimonio religioso prima di quello civile, i legislatori adottano
anche a questo proposito un atteggiamento moderato. La relazione ministeriale sul progetto svolta
da Pisanelli osserva, ad esempio, che "se lo Stato impone alla Chiesa di dover far precedere o
seguire al matrimonio civile il matrimonio religioso, e cerca di avvalorare queste sue prescrizioni
con sanzioni penali, allora invade i diritti della Chiesa, viola la libertà della potestà religiosa", fa
insomma cadere miseramente il principio stesso posto a cardine dell'intero sistema: «Libera Chiesa
in libero Stato». Questi rigorosi argomenti sono sempre ribaditi dal Governo, nella convinzione che
solo in tal modo realmente "lo Stato rispetta la coscienza di tutti" ed afferma con coerenza la
propria 'anima' liberale.
Si riafferma comunque l'indissolubilità anche del matrimonio civile: le ragioni, si ribadisce,
sono di carattere sociale, istituzionale e non religioso.
Vi è infatti indubbiamente anche il desiderio di non esacerbare lo scontro, già durissimo in
quegli anni, con gli ambienti più vicini alla Chiesa; a guidare gli autori del codice è però soprattutto
una più realistica percezione delle condizioni sociali dell'Italia del tempo: in primo luogo vi è
l'esperienza dei decenni precedenti in cui in varie zone il divorzio era stato in vigore senza che di
fatto venisse quasi mai utilizzato se non in pochissime famiglie di altissimo livello economico e
129
culturale; in secondo luogo prevale la convinzione che, vista l'accentuata disparità economica e
culturale delle donne, tuttora persistente, specie nelle classi inferiori, il matrimonio indissolubile
continui ad essere il miglior strumento di tutela del coniuge più debole e l'unica possibile forma di
protezione della donna, dato che la società non le consente ancora l'inserimento nell'attività
produttiva in posizione autonoma, né le fornisce una sufficiente istruzione scolastica.
Per evitare le situazioni più aberranti, che naturalmente possono esistere, si preferisce lo
strumento della separazione coniugale che viene meglio disciplinata, prevedendo una serie di
ipotesi ben più dettagliata rispetto al codice napoleone e una serie di garanzie a tutela della parte
incolpevole e più debole7.
Come si è già sottinteso, dunque, il codice Pisanelli sceglie (pur tra le polemiche) di
mantenere in vigore l'istituto dell'autorizzazione maritale per gli atti giuridici della donna (art. 134).
Anche in questo caso va comunque tenuta presente la situazione sociale di quegli anni, in cui di
fatto la donna è praticamente esclusa dalla vita sociale, economica e politica: sarà proprio un
cambiamento drastico di questi fattori a far mutare, come vedremo, anche la legislazione.
Le stesse considerazioni spiegano anche la scelta di continuare a privilegiare, nei rapporti
patrimoniali tra coniugi, il regime dotale, anche se in parte ammodernato.
Nella società dell' Ottocento la dote continua infatti ad avere un valore particolare; si sceglie
così di escludere addirittura la possibilità di una comunione universale, ammettendo solo la
possibilità di scegliere pattiziamente la comunione degli acquisti.
Quanto alla posizione dei figli, si può notare nel legislatore l'intento - all'interno della
famiglia legittima - di favorirli il più possibile, apportando alcune significative riforme rispetto al
passato: la patria potestà (spettante a entrambi i genitori ma esercitata dal padre finché è in vita)
cessa con la maggiore età, l'emancipazione, il matrimonio del figlio.
Per favorire la parità di trattamento in ambito successorio si esclude la diseredazione, si
vietano i fedecommessi e viene eliminato l'obbligo di dotare, correlativamente alla possibilità per le
figlie di rinunciare alla successione8.
Ben diversa, logicamente, la situazione dei figli nati fuori dal matrimonio: è vietata la
ricerca della paternità, salvo nel caso di ratto o stupro violento, mentre è sempre ammessa la ricerca
della maternità9. Si favorisce comunque il riconoscimento spontaneo dei figli naturali, tranne che
degli adulterini o incestuosi, dando loro anche più ampi diritti successori.
7 In particolare, va ricordato che la separazione è sufficiente a liberare la donna dalla potestà maritale ed ha effetti sulla
titolarità e sull'esercizio della patria potestà, sull'amministrazione della dote e sui diritti successori. 8 Peraltro questa legge non sarà affatto rispettata dalle famiglie perché perdura la prassi di dotare le figlie, favorendo al
contempo il primogenito o comunque i maschi 9 È appena il caso di ricordare, peraltro che questa distinzione non si doveva soltanto ad una concezione che poneva la
donna in stato di inferiorità, ma anche a ragioni tecnico-giuridiche: la maternità è infatti (era?) un 'fatto' giuridicamente
accertabile attraverso mezzi di prova veri e propri che consentono di giungere a quella che si definisce 'certezza legale'
(il 'fatto' della maternità è infatti nel modo più ovvio rappresentato dal parto); non così ovviamente la paternità, che non
si poteva in alcun modo dimostrare con certezza (non si può provare il concepimento, ma al più il rapporto sessuale,
che, come ovvio, non è la stessa cosa!).
130
Nel complesso la disciplina del diritto di famiglia nel codice del 1865 è caratterizzata dal
fatto che, nel campo dei diritti-doveri tipici del legame familiare, si pone un accento particolare sul
momento del dovere, che prevale sull'interesse individuale proprio per la convinzione che la
famiglia sia anche un'istituzione dotata di funzioni proprie, anche pubbliche (cfr. art. 233 per la
patria potestà; art. 130 diritti e doveri nascenti dal matrimonio; art. 138 diritti e doveri dei coniugi
verso la prole). In questo campo, inoltre, i diritti individuali sono presentati come 'stati', come tali
aventi carattere di ordine pubblico e sottratti alla disponibilità dei privati.
131
L’ applicazione del codice civile nella società italiana dell’Ottocento
Il giudizio complessivo sul codice è, come si è visto sostanzialmente positivo.
Ciò implica per molti anni una sorta di immobilismo nell’approvare nuove norme nelle
materie di diritto civile disciplinate dal codice stesso. In parte il momento di ‘stasi’ si lega al fatto
che anche in Italia, dopo il 1865, proprio come era accaduto in Francia dopo il 1804, la dottrina
giuridica si orienta per una “Scuola dell’esegesi” che fa del codice unitario il suo precipuo oggetto
di studio, attraverso la stesura di commentari il più possibile fedeli al testo.
Maggiore vivacità e originalità si avrà a partire soprattutto dagli anni ’80 del secolo, dopo la
svolta politica che porta dal punto di vista interno alla caduta della Destra storica e alla salita al
governo della Sinistra (1876), e dal punto di vista internazionale è caratterizzata da un mutamento
di alleanze, con l’allontanamento dall’influenza francese e l’avvicinamento ad Austria e Germania
(nel 1882 viene siglata la Triplice Alleanza che durerà fino al 1915). Da questo momento infatti
l’influenza germanica si allarga in ogni campo di attività e anche i giuristi sentono meno il fascino
del code civil e dei commentari francesi.
Muta così anche il criterio di studio del diritto; ci si libera dall’ossequio formale al codice e
si fanno non più solo commentari ma monografie, trattati, manuali di istituzioni, secondo un metodo
che può definirsi sistematico (Irti). Molti spunti a questo nuovo metodo vengono in effetti dalle
dottrine tedesche. Anche in Italia, ad esempio, viene elaborata ed approfondita l’importante teoria
del negozio giuridico. Il metodo sistematico durerà per molti anni in una continuità non interrotta
neppure dal ventennio fascista.
Il diritto di famiglia
La formulazione della normativa riguardante il matrimonio, i rapporti tra coniugi e la
posizione della donna ed altri istituti del diritto di famiglia, come abbiamo visto, era stata
accompagnata da ampio dibattito ed era frutto in buona misura di una scelta equilibrata di
compromesso tra la difesa dei valori ‘laici’ e liberali che ispiravano il codice e il rispetto verso un
modo tradizionale di intendere e vivere i rapporti familiari ancora molto radicato nella società
italiana. Risultava perciò abbastanza rispondente alla realtà del momento.
Forse anche per questa ragione, nel settore del diritto di famiglia, per tutto il periodo di
vigenza del codice Pisanelli, dal 1865 fino al 1942, mancano quasi completamente interventi
legislativi, pur non mancando i problemi applicativi della disciplina del codice e le proposte di
riforme anche radicali.
Non si giunge quindi ad approvare delle riforme legislative che prendano atto della profonda
trasformazione delle strutture famigliari ormai irreversibile, tanto che un importante storico del
diritto, Paolo Ungari, ha coniato per questo periodo di storia giuridica italiana la felice definizione
di “un mezzo secolo senza riforme”.
132
Vivacissimo è peraltro il dibattito sui principali istituti come il matrimonio civile e il
divorzio.
Entrano nella discussione anche forze politiche nuove: gli esponenti del socialismo
giuridico, ad esempio, propongono una diversa idea di famiglia, basandosi sull'ottica delle classi
lavoratrici ed operaie più che su quella della borghesia che aveva rappresentato il modello del
codice. Combattono l'individualismo volontaristico dell'ideologia liberale.
Similmente intervengono i gruppi dei Cattolici che si vanno organizzando e richiedono un
miglioramento della condizione della donna e vedono nell'unità della famiglia la miglior difesa
della libertà personale contro l'invadenza dello Stato etc.
Un primo punto sul quale il dibattito è destinato a continuare ancora almeno per il primo
ventennio di applicazione del codice era proprio la nuova disciplina del matrimonio civile.
Le difficoltà al riguardo sono reali e molto serie, da vari punti di vista.
A partire dal 1866, infatti, il numero di matrimoni soltanto religiosi costituisce un fenomeno
tutt'altro che trascurabile, tanto da rappresentare una vera e propria piaga sociale.
Studi storici recenti hanno accertato che dal 1866 al 1873 il numero totale dei matrimoni
religiosi non seguiti dall'atto civile giunge alla preoccupante cifra di 252.625!.
Nonostante le asprezze del contrasto tra la Santa Sede e lo Stato italiano, non mancano
tuttavia, proprio da parte di alcuni vescovi, incoraggianti segnali di apertura e di lungimirante
sensibilità ai problemi sociali delle proprie comunità.
Il problema, emerso in tutta la sua gravità e da più parti segnalato, giunge anche
all'attenzione degli organi governativi e del Parlamento che tuttavia esitano sempre a prendere una
decisione netta perché considerano ancora validi i rigorosi argomenti che fin dai lavori preparatori
giustificavano la scelta di non ingerenza. Il rimedio proposto è costituito dunque dall'imporre con
sanzioni penali l'obbligo di precedenza del rito civile su quello religioso. Numerosi tentativi saranno
riproposti in Parlamento, almeno fino alla Prima Guerra mondiale; nessuno di essi, tuttavia, entra in
vigore.
Un altro degli argomenti su cui il dibattito è più forte, con diversi progetti di legge e relativa
discussione anche tra gli intellettuali ed i giuristi, è il divorzio. Tra il 1878 ed il 1920 si presentano
non meno di 10 disegni o proposte di legge introduttivi di questo istituto.
Una prima serie di proposte proviene dal deputato Salvatore Morelli, tra gli anni Settanta ed
il 1880: in nome soprattutto dell’emancipazione femminile di cui Morelli era un singolare paladino,
si prevedono alcune gravi cause di divorzio (impotenza sopraggiunta, infedeltà, prostituzione della
moglie, condanna ai lavori forzati a vita, prodigalità estrema e incompatibilità di carattere constata
da contrasti e disordini abituali che rendono impossibile la convivenza. NON il mutuo consenso).
Nel 1881 vi è un progetto dello stesso Guardasigilli, Tommaso Villa. In esso si evidenzia
l'esistenza di due concezioni del matrimonio; una di impostazione francese, che lo vede come un
133
contratto, in cui è centrale il consenso delle parti, un'altra che lo considera istituzione sociale. Il
Villa considera la prima molto più 'moderna'; spiega poi che non è in contrasto con essa l'idea
dell'indissolubilità del matrimonio che “pel suo carattere e pel migliore conseguimento dei suoi
scopi è destinato alla perpetuità dell'unione”, ma che possono sussistere legittime eccezioni a questa
regola generale. Egli accompagna la proposta con alcune statistiche 'drammatiche' sugli omicidi
commessi o tentati tra coniugi (una media di circa 46 all'anno) che, a suo dire, si spiegano con la
disperata volontà di rompere un legame divenuto insopportabile. Va peraltro osservato che contro il
progetto Villa viene promossa una petizione che in breve tempo raccoglie quasi 800mila
sottoscrizioni.
Nel 1883 anche il successore, il Ministro Zanardelli, presenta un suo progetto che riprende
quello del Villa cercando di controbattere anche alcune delle molte obiezioni sollevate dagli
oppositori.
Dopo un lungo silenzio durato 8 anni, la discussione riprende nel 1892 - 93 con due nuovi
progetti del Villa. Anche contro questa proposta si ebbe una petizione con circa 700mila firme
raccolte in brevissimo tempo, tanto da suscitare aspre polemiche degli avversari circa le modalità
della raccolta.
Per un nuovo progetto si dovette poi attendere il disegno di legge Zanardelli-Cocco Ortu del
1902. È il più approfondito e meditato tra i documenti divorzisti. I relatori riprendono alcuni punti
chiave per correggere alcuni principi sostenuti dai loro predecessori che, a loro giudizio, sono errati
e si prestano alle opposizioni. In particolare si rifiuta come retaggio superato della rivoluzione
francese la tesi del matrimonio-contratto; esso è visto invece come rispondente ad un fine più
elevato e a un interesse più generale della semplice volontà delle parti.
In concomitanza con le varie proposte di legge il dibattito si ripropone comunque con
grande vivacità anche nella dottrina giuridica, a tutti i livelli, nelle aule accademiche, nei convegni e
con conferenze pubbliche, sia tra i pratici del Foro, sia nella pubblicistica specializzata.
Tra i giuristi italiani, professori universitari, magistrati, politici, pratici di vario livello, non
sembra poter esistere, su questo tema, la 'neutralità'. "La questione – come bene disse Vittorio
Polacco (grande civilista che insegna lungamente a Padova) – è di quelle che hanno radice nel
sentimento e col sentimento si risolvono, prima ancora di essere sottoposte al vaglio della ragione.
Si è divorzisti o antidivorzisti, così come si è credenti o miscredenti, per inconscio impulso
dell'animo, quasi direi per istinto".
In dottrina si vengono così a creare due schieramenti veri e propri; tra i giuristi di accademia
e di professione sono assai numerosi i sostenitori del divorzio, tra i più autorevoli vi sono, oltre ai
deputati e ministri citati, Emilio Bianchi, Enrico Ferri, il Berenini, il Fiore, il Brugi, ed altri, per lo
più appartenenti alle correnti socialiste.
134
Un dato significativo è il fatto che, anche nell'ottica dei fautori dei divorzio, esso non
rappresenta un esito 'prevedibile' o 'normale' di un matrimonio inteso come un contratto da
sciogliersi a discrezione dei contraenti ma un rimedio per situazioni estreme o comunque di grave
crisi fondata su specifiche cause. La tesi del matrimonio visto come un contratto, dal quale le parti
devono potersi sciogliere, è in effetti riaffermata nella prima fase del dibattito, come un presupposto
essenziale, e sarà fieramente combattuta dai più acuti ed abili giuristi dello 'schieramento'
antidivorzista come Carlo Francesco Gabba; tuttavia sembrano di gran lunga prevalere i motivi di
carattere sociale e morale, anche perché gli stessi divorzisti, come fa ad esempio Emilio Bianchi,
finiscono spesso con l'ammettere che le norme civili previste in materia contrattuale non possono
certo integralmente applicarsi ai rapporti personali tra coniugi. Ed ecco allora prevalere le
considerazioni 'politiche': proprio per i vantaggi che una 'sana' istituzione matrimoniale assicura alla
società e per i danni invece della sua crisi, è socialmente utile prevedere il rimedio del divorzio che
consente di moralizzare e mantenere ordinata la società stessa; mentre con la separazione sono
inevitabili disordini e 'dissolutezze', il divorzio consente invece una vita 'onesta' e socialmente
rispettabile.
Emerge anche, chiaramente, la volontà di 'far progredire' o 'moralizzare' per via di riforma
legislativa la stessa società civile.
Tra i numerosi e vivaci oppositori vi sono naturalmente esponenti del pensiero cristiano
cattolico (la posizione della Chiesa è ripetutamente ed apertamente affermata attraverso l'intervento
diretto di esponenti del clero, a vari livelli), ma anche politici di ispirazione laica come il Filomusi
Guelfi e, naturalmente, sia avvocati e magistrati, semplici operatori o personaggi più
intellettualmente impegnati, sia professori universitari, tra i quali spiccano alcuni esponenti di
particolare autorevolezza come Vittorio Polacco e Carlo Francesco Gabba.
È peculiare soprattutto, tra questi, il pensiero del grande Vittorio Polacco, i cui interventi
hanno uno straordinario impatto, non soltanto per il suo prestigio scientifico ed accademico, ma
anche perché egli, ebreo, è come tale esente da pregiudizi di 'clericalismo'.
Le sue posizioni sono affidate soprattutto ad una celeberrima lezione tenuta all'Università di
Padova il 2 maggio del 1892. Tale fu il 'peso' delle parole di Polacco che la sua lezione venne
ristampata dieci anni dopo, nel rinnovato clamore per il progetto Zanardelli-Cocco Ortu del 1902 e
perfino nel 1970, allo scopo di riproporre le sue argomentazioni nel combattere la riforma
introdotta.
Egli osserva che per conservare saldi gli ideali dell'istituzione familiare tutti, compresi i
divorzisti, concordano sul necessario principio di indissolubilità. Lo difendono di continuo ma,
secondo Polacco, è una insensatezza ed incoerenza poiché il fatto stesso di porle delle eccezioni,
annulla l'indissolubilità stessa che, o c'è o non c'è, senza possibili vie di mezzo.
135
Con molto equilibrio, Polacco vuole evitare ogni idealizzazione inutilmente "poetica" del
matrimonio indissolubile; è consapevole che anch'esso presenta rischi e difetti ma ritiene necessaria
una spassionata analisi di pro e contro dei due regimi poiché a suo giudizio, se anche si dovessero
equivalere, ciò farebbe preferire l'indissolubilità proprio perché più rispondente agli ideali, più
rivolta a favorire non il bene immediato del singolo ma il futuro della società.
Polacco giudica una forma di "ipocrisia" aver previsto solo pochi e particolari casi per
divorziare e insistere nel sostenere che sono solo eccezioni alla regola: secondo lui, una volta
aperta, la breccia si allarga; inoltre, nei progetti di legge, non c’è coerenza con alcuni argomenti
addotti consuetamente come quello del matrimonio = contratto (tesi peraltro per lui aberrante)
perché se lo si vuole coerentemente sostenere bisognerà ammettere lo scioglimento per mutuo
dissenso, che invece i promotori insistono a negare recisamente.
Il pensiero di Carlo Francesco Gabba, professore di filosofia del diritto e di diritto civile
all'università di Pisa, poi senatore del regno d'Italia, è pure particolarmente interessante perché il
grande giurista attraversa un vero e proprio stravolgimento di posizioni: da fautore del divorzio ne
diviene uno dei più decisi oppositori e scrive numerosi discorsi e trattati per controbattere, in
particolare, ai progetti del Villa, e con il dichiarato intento di sensibilizzare, in tal senso, anche
l'opinione pubblica che, rimanendo inerte, avrebbe rischiato di vedersi suo malgrado trascinare in
riforme dannose.
Partendo da una valutazione dei danni che il divorzio poteva portare al tessuto sociale,
rigorosamente al di fuori di ogni ideologia religiosa, il Gabba afferma che il matrimonio non è un
fatto puramente privato, che riguarda le sole persone dei contraenti, anzi non è assolutamente
definibile in termini puramente contrattuali; esso costituisce un'istituzione basilare della società
civile, una istituzione propriamente etico-sociale, un elemento del diritto pubblico e non del puro
diritto privato. Proprio in nome di questo bene comune va, a suo parere, escluso il divorzio: lo stato
ha infatti il diritto ed il dovere di imporre anche limitazioni alla sfera privata, in nome della
necessità di assicurare il benessere dell'intera collettività.
Controbatte poi agli argomenti 'umanitari' osservando come i primi a subire le conseguenze
dannose del divorzio sarebbero stati proprio i membri più deboli, donne e figli e quelli 'sociali'
sostenendo che le classi agiate sono le uniche a pretenderlo e a beneficiarne.
Queste posizioni rimarranno sostanzialmente invariate, dunque, anche nell'ultima fase della
discussione, quella sviluppatasi appena prima dell'avvento del regime fascista, negli anni 1919/20.
Le materie economiche e sociali
Se in materia di famiglia non si approva per un cinquantennio nessuna significativa riforma,
la conferma dell’equilibrio di molte soluzioni codicistiche viene dal fatto che anche nella materia
contrattuale, economico-sociale e dello stesso diritto di proprietà, le prime novità legislative si
136
vedono verso la fine del XIX secolo, con l’effettivo mutare di molti assetti socio-economici della
società italiana, e spesso non vanno comunque a modificare ma solo ad integrare il dettato del
codice.
Se comunque ben poche sono le novità legislative in campo familiare e contrattuale, un altro
settore del diritto civile, specie negli anni finali del XIX secolo, vede l’assoluta necessità di un
intervento di riforma da parte del legislatore.
A partire dagli anni ’80 si apre infatti la cosiddetta “questione sociale”, legata allo sviluppo
industriale ormai giunto, in effetti, a un certo livello anche nel nostro paese.
Questi cambiamenti, però, va tenuto presente, non minano alla radice l’assetto dell’istituto-
cardine della proprietà, del quale si toccano solo aspetti collaterali e in particolare alcune norme
successorie; piuttosto quello che va radicalmente ripensato è il regime giuridico del lavoro, quasi
inesistente e comunque fondato su categorie non più adeguate e non in grado di offrire sufficiente
tutela e protezione (si tenga presente che il contratto di lavoro era ancora inquadrato negli schemi
romanistica delle cosiddette ‘locatio operis’ e ‘locatio operarum’). Si ha così in Italia il primo
nucleo di legislazione sociale con una serie di leggi p.es. per la tutela del lavoro delle cosiddette
‘mezze forze’, cioè fanciulli (1886) e donne (1907); sull’assicurazione, prima facoltativa e poi
obbligatoria, a carico dei datori di lavoro contro gli infortuni sul lavoro (1898); sull’istituzione della
Cassa Nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai (iscrizione facoltativa dal
1898 e obbligatoria dal 1919) e di quella di maternità (1910) etc.
Il nuovo codice di commercio
Nel contempo, un inquadramento più propriamente tecnico-giuridico di tutta la materia
commercialistica si realizza allorché al codice civile si affianca, nel 1882, il nuovo codice di
Commercio. Un codice di commercio infatti era già stato approvato nel 1865, insieme a quello di
procedura civile e penale, nel quadro della stessa legge- delega che aveva condotto alla
codificazione civile: si trattava di una semplice revisione di quello piemontese del 1842, a sua volta
in gran parte fondato su quello francese del 1807.
Nel 1869, tuttavia, nel momento dell’unificazione legislativa delle province venete, erano sorte forti
resistenze all’idea di estendere tale codice in queste zone, dove era in vigore il codice di commercio
germanico del 1861, il più avanzato d’Europa, specialmente a confronto con quello, ormai datato, di
impronta napoleonica. Moltissimi erano gli istituti sui quali lo sviluppo dell’industrializzazione e
del commercio sia interno che internazionale avevano profondamente inciso: la normativa delle
società anonime, il diritto cambiario, il trasporto ferroviario, le assicurazioni erano tutti settori per i
quali erano necessarie riforme radicali. È il grande politico e giurista Pasquale Stanislao Mancini a
proporre quindi una revisione totale del codice di commercio, trovando subito pareri favorevoli in
parlamento. Viene perciò istituita una commissione formata da deputati competenti in materia,
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magistrati e professori. Dopo quasi 4 anni di lavori, il progetto predisposto è presentato alle Camere
di Commercio che fanno pervenire moltissime osservazioni.
Infine si discute in parlamento: uno dei temi più approfonditi è quello delle società, lungamente
affrontato in specie dal Senato, fino ad arrivare ad approvare un progetto su questo specifico tema.
Quando il testo approvato passa alla Camera si è già all’inizio del 1876.
Il 18 marzo di quell’anno avviene quel cambiamento profondo della vita politica italiana che è
l’avvento al potere della Sinistra: Mancini è subito chiamato a diventare Ministro di Grazia e
Giustizia. Sarà nominata una nuova commissione che riesamini il progetto preliminare alla luce di
tutte le precedenti discussioni: un anno dopo è pronto un nuovo progetto, che contiene grandi novità
(soprattutto proprio in tema di società per azioni) e nella cui stesura lo stesso Ministro Mancini ha
un ruolo essenziale. Infine, dopo ulteriori lavori e discussioni, si giunge all’approvazione del nuovo
codice nel marzo 1882.
Anche nei lavori di questo codice (come era stato in Francia per quello del 1807) emerge
chiaramente un contrasto di interessi agrari-fondiari da un lato e industriali-commerciali dall’altro
ed anche un contrasto tra una visione più liberista ed una più volta a contemperare gli interessi di
commercio e industria con altri di tipo pubblicistico (si vede per esempio nel favore o disfavore per
certe misure di controllo sulle società commerciali); è però significativo che il prosieguo faticoso
ma regolare dei lavori parlamentari su questa materia sia stato garantito pur essendosi avvicendate
al potere la destra e la sinistra.
La principale novità di impostazione di questo testo consiste nel fatto che, discostandosi dal sistema
francese, dichiara atti commerciali anche quelli in cui uno solo dei contraenti è un commerciante. Il
suo campo di applicazione è perciò molto ampio. Esso certamente riesce a portare la normativa
commercialistica italiana al livello di quella europea: la rinnovata disciplina delle società o del
fallimento, la previsione di figure nuove come le società cooperative, il conto corrente, il contratto
di trasporto ed altri sono certamente ottimi risultati. Molte soluzioni sono chiaramente favorevoli
agli interessi commerciali ed imprenditoriali, ma non deve stupire dato che una delle finalità
dichiarate della nuova codificazione è proprio il “creare una cornice normativa propizia allo
sviluppo dell’attività industriale” (Padoa Schioppa) e del resto questa disciplina è controbilanciata
anche da alcune tutele introdotte per i non commercianti.
L’unificazione del diritto penale in Italia
Si possono individuare, anche nell’unificazione del diritto penale come per il civile, alcune
tappe essenziali.
Un momento significativo e un punto di osservazione importante, a partire dal quale
possiamo cogliere l’evoluzione che, anche in materia penale come sul piano civile, ebbe la
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legislazione italiana nel corso del XIX secolo e l’impatto che questo diritto ebbe anche sulla società,
può essere individuato proprio nell’unità politica faticosamente raggiunta dal Paese, con la
conseguente questione dell’unificazione legislativa.
Partendo da quel momento storicamente così importante potremo dare uno sguardo indietro,
alle esperienze degli Stati preunitari e ai vari testi e codici che in essi erano stati elaborati.
Potremo poi vedere i lavori, lunghi e complessi, per la redazione di un codice penale
unitario, evidenziando quali problemi si ponevano e come vennero risolti.
Infine daremo qualche indicazione sul codice penale del 1889, sulla sua struttura ed
impostazione, ed un breve cenno segnalerà da ultimo i problemi sopraggiunti in fase di
applicazione, i dibattiti e gli scontri rimasti aperti nella dottrina penalistica.
I codici penali preunitari
Come abbiamo visto, la tesi accolta dalla maggioranza degli storici è quella della sostanziale
omogeneità del sistema normativo in Italia al momento dell’unità; elemento unificante di
eccezionale portata era stata infatti, all’inizio del XIX secolo, la codificazione napoleonica che
aveva rappresentato un modello anche per la legislazione della Restaurazione. Questo aspetto si
riscontra non soltanto nella materia civile ma, in buona sostanza, anche in quella penale e
processuale poiché i principi fondamentali fissati nei testi francesi erano stati recepiti integralmente
o in parte e, quand’anche le norme avevano soluzioni diverse, la dottrina, con il suo tecnicismo
esegetico, e la giurisprudenza, con lo stile delle sue sentenze, avevano operato più o meno
consciamente nel dare un senso di affinità ai diritti interpretati, contribuendo all’unificazione della
vita giudiziaria nazionale anche nel più delicato settore penalistico.
Nonostante queste premesse, tuttavia, è un fatto che l’unificazione legislativa penale si presenta
impresa tutt’altro che lineare ed agevole.
Per comprendere queste difficoltà occorre allora uno sguardo più attento alla situazione
preesistente, nella quale vi sono infatti anche esperienze diverse e molto significative. Al momento
dell’unificazione politica sono vigenti in Italia ben 7 codici penali:
- il codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1819
- il codice parmense del 1820
- il codice albertino del 1839 in Piemonte
- il codice austriaco in Lombardia e nel Veneto: questo testo era stato emanato nel
1852, sostituendo il precedente codice penale austriaco, il primo applicato anche nei territori
italiani, che risaliva al 1803 e che era stato applicato, dopo quello napoleonico del 1810, tra il
1816 e appunto il 1852
- il codice toscano del 1853 nel Granducato
- il codice estense del 1855 nel Ducato di Modena
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- infine vi era il Regolamento dei delitti e delle pene, del 1831, nello Stato Pontificio:
benché non ne avesse il nome, era in concreto un vero e proprio codice.
Nel loro complesso, questi testi, come già era avvenuto per la materia civile, si ispirano
ampiamente a quello napoleonico del 1810, anche se i giuristi più liberali l’avevano criticato per la
severità delle pene, il carattere intimidatorio, la scarsa sensibilità agli elementi soggettivi. Pur con
questi limiti, legati certamente alle caratteristiche e alle ‘esigenze’ del potere statale forte voluto da
Napoleone, il suo testo era spesso reputato anche dai giuristi, almeno in alcuni ambienti, superiore a
quello austriaco del 1803.
In realtà la convinzione che il testo francese fosse migliore è stata da tempo rimessa in
discussione da alcuni studi storici che hanno anche mostrato come gli stessi avvocati e giuristi
lombardi e veneti, che applicavano il codice austriaco, lo avessero salutato con grande favore e, al
momento dell’unificazione, spesso ne difendano le soluzioni originali e tecnicamente riuscite.
Resta vero però che il modello francese continua ad esercitare, in Italia, maggiore influenza,
per cui neppure in ambito penale il codice austriaco viene preso a modello dagli altri testi preunitari
degli anni ‘20 e ‘30 dell’ ‘800, forse anche perché esso si fondava ancora sulla tradizione
assolutistica di Giuseppe II del 1787 ed era quindi giudicato troppo repressivo, benché rispettoso,
sul piano formale, del principio di legalità.
In realtà molti di questi aspetti avevano poi subito radicali modifiche nel 1852, ma rimaneva
una differente impostazione: abbondavano le definizioni e distinzioni teoriche e dottrinali e vi era
un maggior numero di articoli rispetto al testo francese (532 contro 483), articoli che spesso erano
lunghi e prolissi. Il codice austriaco era, insomma, anche in ambito penale, un codice
profondamente diverso e rappresentava, rispetto a quello francese, un modello contrapposto.
I vari codici penali preunitari seguono quindi la linea francese, anche se alcuni di essi
apportano dei cambiamenti di struttura:
il codice penale del 1810 aveva un titolo preliminare e 4 libri, 2 di parte generale, 1 sui reati
e 1 sulle contravvenzioni. A Parma e in Piemonte si sceglie invece di concentrare la parte generale
in un solo libro, dando così una migliore visione sintetica. Il codice albertino inoltre riduce molto
anche il libro sulle contravvenzioni.
Al di là dei contenuti specifici, che potevano avere qualche variazione in relazione alle
situazioni particolari, in sintesi estrema si può osservare che:
- i difetti che comunemente si imputano a questi codici sono:
a) il carattere ancora affittivo e infamante delle pene, spesso molto dure
b) il limite eccessivo dato al potere discrezionale del giudice
c) la forte tutela soprattutto per l’assetto sociale e di potere, a danno delle categorie più
deboli
- gli aspetti positivi, comunque prevalenti, sono invece soprattutto:
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a) l’aver bloccato con la loro stessa esistenza ogni ritorno all’ancien régime
b) l’aver obbligato la scienza giuridica a un maggior realismo e ad una maggiore aderenza
alle problematiche normative, ancorandola ad un testo (esegesi) ed evitando così eccessi di
astrazione
c) l’aver mantenuto saldo il legame tra diritto privato e legislazione penale, considerato
essenziale per la tutela di proprietà, obbligazioni e altri diritti soggettivi e quindi per far
sviluppare l’economia di mercato.
Su uno di questi codici redatti e vigenti nei vari Stati italiani del XIX secolo dobbiamo però
fermarci un po’ con una maggiore attenzione, perché si tratta di un testo originale rispetto agli altri,
da molti punti di vista, ed anche molto progredito e innovativo. Si tratta del codice emanato nel
Granducato di Toscana nel 1853.
Questo codice spicca realmente rispetto agli altri per la novità di molte delle scelte
normative adottate, che mostrano una più approfondita visione del reato e della pena e una
repressione assai più mite ed equilibrata. Dal punto di vista strutturale, in esso scompare, per
esempio la distinzione tradizionale dei comportamenti illeciti in crimini, delitti e contravvenzioni,
ma si parla semplicemente di delitti.
C’è grande attenzione soprattutto a curare le nozioni della parte generale, in particolare
l’elemento soggettivo del reato e le circostanze di esclusione del reato.
Vi è però un altro aspetto che rende questo testo più progredito degli altri e lo pone, anche al
momento dell’unità, come un modello alternativo: la concezione delle pene.
Fin dalla sua impostazione, esso prevede pene molto più lievi, proprio perché concepisce la
pena anche come mezzo di emenda del reo.
Inoltre, se per i primi anni vi era contemplata ancora la pena di morte, peraltro mai applicata
e inserita a puro scopo intimidatorio, per alcuni gravissimi delitti, nel momento dell’annessione
all’Italia, subito dopo la cacciata dei Lorena nel 1860, la si ABOLISCE totalmente.
L’unico punto su cui questo codice è più arretrato rispetto agli altri testi preunitari è quindi
la disciplina dei delitti politici e religiosi, che risente ancora del clima assolutistico e che appare
piuttosto severa.
Nel complesso comunque questo testo spicca, rispetto agli altri, per la sua grande modernità
e comunque per la sua diversità.
Il quadro dell’Italia di metà Ottocento che abbiamo così delineato si arricchisce
ulteriormente se si tiene conto del fatto che, nei primi 50 anni del secolo, l’attività codificatoria in
Italia era stata ancor più vivace poiché vi si erano elaborati molti altri testi o progetti, entrati in
vigore in qualche caso per un certo tempo, o anche mai promulgati ma comunque non privi di
qualche influenza.
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Solo per fare qualche esempio significativo si possono ricordare (oltre ovviamente allo
stesso codice penale francese, napoleonico, che come ben sappiamo era stato in vigore anche in
Italia insieme agli altri, negli anni della dominazione) altri 5 esempi del lavoro in atto (e molti
potranno ancora essere ‘scoperti’ perché la ricerca in questo senso è ancora in corso).
1. In Lombardia, vanno ricordati i progetti ripetutamente elaborati dal gruppo dei
giuristi e dirigenti locali, prima che Napoleone imponesse l’applicazione del testo francese;
all’inizio del XIX secolo vi erano stati infatti ben 3 testi elaborati e discussi, nel 1801 (ancora con
l’evidente influsso dell’Illuminismo di Beccaria e Filangieri), nel 1806 (testo molto importante
anche perché pubblicato insieme a una cospicua serie di ‘travagli dottrinali’ e che a sua volta sarà
il modello per un codice che fu realmente approvato ed entrò in vigore, quasi identico a questo
progetto, nel Canton Ticino nel 1817) e ancora uno nel 1809. Tutti caratterizzati da aspetti di
originalità e ‘nazionalità’ rispetto al modello francese poi forzatamente imposto.
2. Nell’area toscana un codice «per l’Etruria» era stato vigente per pochi mesi nel 1807.
3. Nello stesso 1807 si era avuto un progetto di Codice Penale nel Ducato di Lucca e
4. nel 1808 uno a Piombino
5. dello stesso 1808 è il codice napoletano, che adotta soluzioni anche molto diverse
dalle francesi.
Tutte queste esperienze, cui si aggiungono altri progetti ufficiali o redatti privatamente da
giuristi e magistrati, possono apparire marginali perché non giunsero in porto o vi giunsero per
breve tempo, o riguardano realtà locali piccole e periferiche, sono però molto significative perché,
al di là delle differenze di ‘quantità’ e di ‘qualità’, vedono impegnata direttamente la dottrina
giuridica italiana che ha avuto il ruolo, non secondario, consistito talvolta nella vera e propria
elaborazione dei testi normativi, talaltra soltanto (ma neppure questa è una funzione trascurabile)
per la loro lettura, assimilazione e valutazione in rapporto alla realtà italiana.
È quello che avvenne, per esempio, in Lombardia, in rapporto ai 3 codici ‘stranieri’ che vi
si applicarono, il Napoleonico nel 1811 e i due austriaci, quello del 1803 (dal 1816) e poi quello del
1852.
In effetti non soltanto in Lombardia, ma in tutt’Italia fu importante l’atteggiamento tenuto
complessivamente dalla dottrina, in senso favorevole alla codificazione come tale; lo abbiamo visto
molto bene per la materia civile, ma il discorso vale allo stesso modo anche per quel che concerne il
codice penale.
In particolare, infatti, è fiorente e autorevole in Italia proprio la scienza del diritto penale.
Forti di una tradizione secolare, risalente ai grandi nomi di Tiberio Deciani, Giulio Claro, Prospero
Farinacci e, nell’immediato passato, del contributo di Beccaria, Verri e degli altri illuministi; una
tradizione dunque che li rende autonomi rispetto agli altri indirizzi europei.
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Consapevoli della grande rilevanza delle questioni affrontate, i criminalisti italiani sono un
punto di riferimento essenziale per tutto il movimento di riforma e modernizzazione della società;
sono autorevoli esponenti della cultura italiana nel senso più alto e ampio del termine.
Negli anni che precedono l’Unità i problemi maggiori vengono ai giuristi dal carattere
autoritario degli Stati e i temi al centro della loro attenzione sono perciò legati all’idea di libertà in
rapporto alla conservazione dell’ordine sociale; alla riflessione sui limiti del potere di punire; al
problema serio dell’inquadramento dei delitti politici etc.
Proprio per queste ragioni, non sempre si era avuto uno sviluppo scientifico armonico: solo
in Toscana vi sono maggiori aperture, altrove vi sono invece ostacoli e censure.
Nonostante questo, tuttavia, lo studio del diritto penale rimane spesso la sede privilegiata per
un impegno culturale anche sul piano della società civile, specialmente su alcuni temi decisivi quali
appunto l’abolizione della pena di morte, la proporzionalità della pena, il sistema delle prove etc.
Erano problemi già presenti da tempo ma che continuano ad essere attuali, in correlazione
anche con altri, come quelli attinenti alla forma del processo (al funzionamento della giuria), alla
questione carceraria, alla magistratura, alla polizia.
È un impegno che i penalisti italiani manterranno anche negli anni successivi e che ha
condotto a definire gli esponenti di questa generazione di giuristi con il termine di «penalistica
civile».
I lavori preparatori
Questo è quindi il ricco e complesso insieme di esperienze legislative e dottrinali cui
guardano giuristi e parlamentari italiani all’atto di decidere se e per quale via giungere
all’unificazione legislativa. Ancor più che in materia civile (dove, come abbiamo visto le tesi
‘pluralistiche’, anche se presto accantonate, avevano trovato qualche sostenitore) appare subito
enorme la difficoltà – e al contempo la necessità – di unificazione, benché la si fosse subito avviata
fin dal 1859/61 con l’entrata in vigore, in Lombardia e nelle altre province man mano annesse, del
codice penale sardo appunto del 1859.
L’applicazione di quel testo, peraltro, viene immediatamente esclusa per la Toscana, perché
balza all’occhio, ed è convinzione comune tanto dei giuristi quanto degli stessi esponenti del
Governo, che il codice toscano è troppo diverso e migliore, tanto che non si può sostituirlo, per chi
lo sta già applicando, con il più arretrato e pasticciato testo carloalbertino, sia pure aggiustato e in
parte migliorato. Proprio la difficoltà creata e le contrarietà che si erano avute per l’imposizione del
codice sardo desta molte perplessità all’idea di proseguire nella sua estensione a tutta l’Italia.
Il testo piemontese infatti non piace quasi a nessuno, benché come detto sia certamente
migliorato rispetto a quello del 1839.
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In generale il nuovo testo rielaborato nel 1859 prevede pene più miti. In particolare poi la
pena di morte vi è prevista in ‘soli’ 13 casi (i più gravi omicidi, attentato al re e ai suoi familiari,
corruzione di giudici, calunnia o falsa testimonianza con conseguente condanna capitale, incendio
doloso o altro, con morte di una o più persone se si poteva facilmente prevedere…).
Le attenuanti e la prescrizione sono ammesse per tutti i reati; la disciplina dei reati politici e
contro la religione è armonizzata con il nuovo clima di libertà introdotto dalla carta costituzionale
del 1848 e dalle cosiddette “Leggi di libertà” che aprivano a Valdesi, Ebrei e Luterani la strada della
pienezza dei diritti etc.
Viste le forti obiezioni contro la «piemontesizzazione», dunque, già dal 1860 la Camera
avvia la preparazione di un nuovo codice penale più conforme alle diverse tradizioni.
Il problema toscano si rivela però un ostacolo insormontabile, non solo perché quel testo è
giudicato molto migliore, ma soprattutto perché, come abbiamo visto, non prevede più la pena di
morte.
Il problema è subito colto dai pensatori più attenti e cauti; ad esempio lo sottolinea Carlo
Cattaneo in un intervento pubblicato nel 1860 sulla celebre rivista Il Politecnico.
Il punto-chiave è proprio la decisione sulla via da intraprendere: estendere i codici sardi alla
Toscana reintroducendo anche qui la pena di morte – ma appare un regresso ‘scandaloso’ e
inaccettabile – oppure abolirla in tutta Italia, ma vi sono resistenze, timori, la preoccupazione che
sia una scelta troppo ‘avanzata’ per la situazione sociale complessiva del Paese (preoccupa
soprattutto il BRIGANTAGGIO nelle regioni del Sud).
Inizialmente si tenta una soluzione di compromesso proponendo, come fa per esempio il
ministro Minghetti nel 1862, di estendere il Codice Penale del 1859 anche alla Toscana, ma con
delle diminuzioni di pena e riducendo i casi di pena di morte ai delitti definiti «atrocissimi» … non
ottiene però alcun seguito.
Le discussioni continuano per alcuni anni proprio perché è difficile individuare la giusta
soluzione di equilibrio. Proprio questa difficoltà fa dire perfino a un autorevole giurista come
Francesco Carrara che l’unificazione è impossibile perché vi sono province che esigono una
maggiore «energia di castighi», la cui sicurezza sarebbe compromessa senza pene severe, e altre più
tranquille dove inasprire le leggi vorrebbe dire far venir meno la giustizia … Rimane tuttavia, la
sua, comunque una voce isolata.
La convinzione comune è che, per il bene della Nazione, sia più che mai necessaria l’unità
giuridica proprio in materia penale. Il problema appunto è come raggiungerla.
Per esempio, nel 1864, nell’ambito della legge delega di cui abbiamo già parlato per i codici
civili e che vale anche per quelli penali, viene approvato un codice di procedura, che crea minori
problemi.
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Qualcuno, in quella sede, propone anche di estendere alla Toscana il codice penale del ’59
abolendo in tutto il paese la pena di morte. Su questo punto però lo stesso Governo ‘frena’ perché è
una decisione troppo importante per ‘sottrarla’ alla sua ‘sede naturale’.
Deve decidere il Parlamento!
Stranamente, invece, la commissione della Camera incaricata di esaminare la legge-delega
aveva approvato il testo, su questo punto, all’unanimità.
La questione dell’unificazione penale viene portata in assemblea il 24 febbraio 1865: la
discussione è memorabile! La battaglia si incentra ovviamente soprattutto sulla pena di morte; tra le
varie voci prevalgono infine quelle favorevoli alla soppressione. Ben diverso il clima al Senato,
dove hanno la meglio i conservatori, per cui l’iter del progetto viene interrotto.
In effetti va detto che i problemi incontrati dal Codice Penale in Parlamento sono il riflesso
di gravi questioni sociali: già nel 1861 l’insurrezione meridionale aveva posto il problema di come
conciliare le esigenze della sicurezza con le garanzie dello Stato liberale; vi è poi una crescente
criminalità, soprattutto urbana, di nuovo tipo, che pone problemi di repressione e di polizia e
sull’efficienza del sistema giudiziario.
Per far fronte a questi gravi problemi di ordine pubblico si era così dovuta introdurre una
legislazione eccezionale di tipo repressivo, che rimane a lungo in vigore, tra le polemiche dei
difensori delle garanzie liberali che vi vedono una vera e propria perdita di legalità.
Proprio in questi anni difficili ha un ruolo importante un gruppo di grandi intellettuali e
giuristi come Carrara, Pessina, Ellero, Buccellati, che si impegnano in vere e proprie ‘battaglie’, in
Parlamento e fuori, a favore della legalità.
In particolare la campagna contro la pena di morte, che negli anni ’60 non aveva avuto
successo proprio perché la situazione sociale rendeva i tempi non ancora maturi, viene ripresa con
nuovo vigore dal grande giurista Luigi Lucchini attraverso le pagine della sua prestigiosissima
Rivista penale, fin dalla sua fondazione a metà degli anni Settanta.
Questa volta i risultati su questo punto sono ben più concreti; benché infatti non riesca
ancora ad andare in porto il progetto di codice penale all’esame del Parlamento, il problema della
pena di morte viene risolto dallo stesso Governo sul piano dei fatti. Con il favore della grande
maggioranza dei deputati, il ministro – un altro grandissimo personaggio, Pasquale Stanislao
Mancini – ordina la sospensione di tutte le esecuzioni a partire dal 1876.
Per il codice rimangono tuttavia molte difficoltà tecniche e dissensi dividono ancora i
giuristi soprattutto in merito al problema delle pene e della loro severità; per arrivare alla fase finale
dei lavori preparatori si deve attendere perciò il 1883, con un primo progetto proposto dal nuovo
ministro, Giuseppe Zanardelli, e poi soprattutto con il secondo dei suoi progetti, presentato nel 1887
e destinato, finalmente, al successo.
Il 30 giugno del 1889 è approvato il primo codice penale italiano.
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Il codice Zanardelli e il contributo della scienza giuridica: scuola classica e scuola positiva
Osservando, rapidamente i suoi tratti distintivi possiamo vedere pienamente rispecchiata, in questo
codice, la posizione liberale sostenuta da Zanardelli sul piano politico e, sul piano giuridico-
scientifico, le tesi della scuola che in quegli anni venne definita scuola ‘classica’ del diritto penale.
Non si tratta, in realtà, propriamente di una ‘scuola’, ma di un gruppo di giuristi che, pur avendo
orientamenti e sensibilità anche molto diverse, sono però accomunati da alcuni valori di fondo,
appunto di tipo liberale. Il codice coglie tutte queste istanze e risulta in effetti assai moderno, dato
che prevede:
- soppressione della pena di morte
- classificazione dei reati solo in due figure: delitti e contravvenzioni
- esclusione dalla categoria dei ‘reati a mezzo stampa’, quelli di opinione
- limiti minimi e massimi delle pene, ormai chiaramente vista in funzione rieducativa.
Conseguentemente il codice contempla:
- liberazione condizionale
- diminuzione delle pene carcerarie
- disciplina equilibrata del tentativo, della recidiva, del cumulo dei reati, tutta improntata a grande
mitezza.
In tutto, dunque, il codice accoglie le tesi sostenute dalla penalistica classica; esso
rappresenta perciò, per converso, una decisa sconfitta per la nuova scuola che negli anni ’80 si era
affacciata tra i giuristi e i criminalisti italiani, la cosiddetta Scuola positiva, che faceva capo alle
idee di Cesare Lombroso e di Enrico Ferri.
Lombroso, infatti, all’indomani dell’emanazione del codice, scriverà un articolo molto
polemico, significativamente intitolato «troppo presto!» in cui sostiene che l’emanazione, appunto
troppo precipitosa, del Codice penale ha impedito alla sua scuola di diffondere e far prevalere le sue
convinzioni. Lombroso critica l’abolizione della pena di morte, l’eccessiva mitezza delle pene,
contesta perfino la stessa unicità del codice (per lui ne occorrono almeno 4: Nord, Centro, Sud e
isole!).
In realtà, rispetto alle scelte codicistiche, sono radicalmente diversi i fondamenti stessi su cui
la nuova scuola poggia le proprie tesi, che comunque meritano una certa attenzione perché, al di là
di alcuni eccessi e persino ‘aberrazioni’ scientifiche, hanno certamente arricchito e fatto evolvere la
scienza penale.
In estrema sintesi, i punti cardine del pensiero della Scuola positiva sono incentrati su:
1. il diritto di punire fondato sulla necessità della conservazione sociale
2. il delitto considerato come ‘fenomeno naturale’ (umano, individuale e sociale)
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3. la negazione del libero arbitrio e, conseguentemente
4. la negazione dell’imputabilità morale
5. il delinquente protagonista di un complesso di ‘scienze penali’ (diritto, ma anche
antropologia, sociologia, medicina etc.)
6. pena misurata non sulla responsabilità ma sulla temibilità e
7. conseguente classificazione dei delinquenti secondo una ‘tipologia’ antropologica
8. ruolo primario della prevenzione rispetto alla repressione
9. richiesta di opportune riforme della procedura penale e dell’ordinamento giudiziario.
Emblematico del lavorio che porta alla formulazione finale del testo è il diverso modo con
cui i vari codici preunitari impostavano il problema dell’imputabilità e della responsabilità penale e
il lungo percorso di elaborazione che porta alle scelte finali fatte su questo punto delicato della parte
generale dal legislatore unitario:
- il codice penale francese napoleonico unisce le 2 ipotesi di pazzia e forza irresistibile come
fattori di esclusione del crimine;
- a Parma si aggiunge alla forza esterna l’aggettivo esterna per escludere gli impulsi che
vengono dall’interno, dalle passioni della persona;
- a Modena e negli altri Stati si aggiungono poche varianti;
- in Toscana invece si distingue il caso della mancanza di intelligenza o ragione da quello in
cui l’individuo agisce in un modo in cui non agirebbe se fosse pienamente libero.
È una formulazione teoricamente ben più perfetta, ma che presenta gravi problemi
applicativi in connessione con l’istituto della giuria popolare, come si coglie dai tentativi di
aggiustamento dei molti progetti (con aperture e poi ritorni al modello francese).
Anche in dottrina vi è acceso dibattito, nel tentativo di trovare una norma chiara,
comprensibile e al contempo tecnicamente ineccepibile. È Zanardalli, infine, a compiere un deciso
passo avanti nel suo ultimo progetto, del 1887: al termine imputabile sostituisce punibile, per
evitare un concetto troppo filosofico come quello dell’imputabilità e, spostando dal piano
soggettivo a quello oggettivo, toglie il richiamo alla forza irresistibile, limitando la norma ai soli
casi di infermità mentale.
Nonostante l’aspra discussione, con lo scontro tra esponenti della scuola classica e positiva,
il testo viene così approvato.
C.P. napoleonico del 1810 (traduzione ufficiale per l'Italia), art. 64: " Non vi ha né crimine né
delitto, allorché l'imputato trovavasi in istato di pazzia quando commise l'azione, ovvero se vi
fu tratto da una forza alla quale non poté resistere"
C. P. per lo Regno delle Due Sicilie del 1819, art. 61: "Non esiste reato, quando colui che lo
ha commesso era nello stato di demenza o di furore nel tempo in cui l'azione fu eseguita"
art. 62: " Non esiste reato, quando colui che lo ha commesso, vi è stato costretto da una forza
cui non ha potuto resistere"
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C.P. per il Ducato di Parma e Piacenza del 1820, art. 62: "Non vanno soggette a pena le
trasgressioni della legge, se l'imputato trovavasi, quando commise l'azione, in istato di assoluta
imbecillità, di pazzia, o di morboso furore, ovvero se una forza esterna e irresistibile lo spinse
all'atto nonostante il dissenso della sua volontà"
Regolamento su i delitti e sulle pene dello Stato Pontificio del 1832, art. 26: "Non sono da
imputarsi a delitto le commissioni ed omissioni contrarie alla legge se seguirono nello stato di
pazzia saltuaria nel tempo dell'alienazione di mente, e nel tempo di pazzia continua"
C.P. per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, del 1839, art. 99 = C. P. del 1859, art. 94: "Non
vi ha reato se l'imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità, di pazzia, o di morboso
furore quando commise l'azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté
resistere"
C.P. austriaco del 1852, (traduzione ufficiale per l'Italia), § 2: "Non è da imputarsi a crimine
l'azione o l'omissione quando l'autore sia totalmente privo dell'uso della ragione, ovvero
quando egli sia soggetto a ricorrenti alienazioni mentali, ed abbia commesso il fatto nel tempo
in cui durava l'alienazione, o quando il fatto avvenne per forza irresistibile"
C.P. per il Ducato di Modena del 1854, art. 55: "Non vi ha delitto, 1. se l'imputato trovavasi
in istato di assoluta imbecillità, di pazzia o di morboso furore quando commise l'azione; 2. se
vi fu spinto da una forza esterna alla quale non poté resistere"
C.P. pel Granducato di Toscana del 1853, art. 34: "Le violazioni della legge penale non sono
imputabili, quando chi le commise non ebbe coscienza dei suoi atti e libertà d'elezione"
progetto del Ministro di Grazia e Giustizia De Falco, del 1873, art. 55: "Non vi è reato se
l'imputato nel momento in cui commise il fatto, era in istato di infermità di mente che gli tolse
la coscienza de' suoi atti o il libero uso della sua volontà; ovvero se vi fu costretto da una forza
alla quale non poté resistere"
progetto presentato alla Camera il 16 febbraio 1877, art. 52: "Non è imputabile colui che al
momento di commettere l'azione era in istato di follia, o in qualsivoglia stato di mente, che
tolga la coscienza di commettere un reato, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non
poté resistere"
progetto del Ministro Zanardelli, presentato alla Camera il 22 novembre 1887, art. 47: " Non è
punibile colui che nel momento in cui ha commesso il fatto era in tale stato di deficienza o di
morbosa alterazione di mente, da togliergli la coscienza dei propri atti o la possibilità di agire
altrimenti.
Il giudice può tuttavia ordinare che sia ricoverato in un manicomio criminale o comune, per
rimanervi sino a che l'Autorità competente lo giudichi necessario"
C.P. italiano del 1889, art. 46: " Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il
fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei proprii atti.
Il giudice, nondimeno, ove stimi pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, ne ordina la
consegna all'Autorità competente per i provvedimenti di legge."
Su tutti questi temi il confronto e lo scontro continua tuttavia anche dopo l’emanazione del
codice, anche perché la sua stessa impostazione liberale viene messa a dura prova da interventi
duramente repressivi che seguono ai disordini sociali verificatisi nel 1894 e nuovamente nel 1899
(sono le vicende tristemente note che condurranno al drammatico caso dell’ordine impartito
all’esercito di sparare sui manifestanti e che saranno in parte considerati all’origine dello stesso
regicidio del 29 luglio 1900).
Ad alimentare il dibattito sono comunque soprattutto le contestazioni della scuola positiva
che giudica le pene previste dal codice eccessivamente miti, specialmente per i recidivi; contesta la
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scelta di affidare i soggetti prosciolti per infermità di mente ai manicomi comuni invocando invece
l’istituzione di manicomi criminali appositi etc.
A difendere le libertà civili e le scelte liberali del codice è ancora la dottrina penalistica, che
per tutto il XIX secolo conserva le caratteristiche di impegno civile che si sono notate nella fase dei
lavori preparatori con il dibattito sulla pena di morte e sulla codificazione.
Con la fine del secolo, tuttavia, questo impegno sembra scemare; i giuristi scelgono un tipo
di studio semplicemente ‘tecnico’, estraneo ai temi dell’attualità e che allontana la dottrina da un
approccio critico al diritto vigente, affidandole compiti di mera interpretazione ed elaborazione
tecnica, meno rilevante certamente sul piano civile anche se si tratta di aspetti tutt’altro che
secondari dal punto di vista dell’evoluzione del diritto penale.