Storia Degli Stati Uniti d'America

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Storia degli Stati Uniti D’America, a cura di Enzo Santilli – Compendio basato su Storia degli Stati Uniti di Horst Dippel liberamente interpretato, rielaborato ed arricchito. Info: [email protected] Pag. 1 STORIA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA Sommario L’epoca coloniale .............................................................................................................................................. 2 L’epoca della Rivoluzione .................................................................................................................................. 5 La giovane Repubblica ..................................................................................................................................... 10 L’espansione verso Ovest e il crescente conflitto tra Nord e Sud ................................................................... 14 Guerra civile e ricostruzione ............................................................................................................................ 18 L’ascesa a potenza mondiale ........................................................................................................................... 23 Riforma e reazione .......................................................................................................................................... 27 La riorganizzazione dell’America e del mondo ................................................................................................ 33 Dalla sovrabbondanza materiale alla crisi morale........................................................................................... 38 Un viaggio incompiuto? ................................................................................................................................... 48 Dalla lotta al terrorismo a “Yes, We Can!” – Il Paese delle contraddizioni e delle opportunità ..................... 55

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STORIA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

Sommario L’epoca coloniale .............................................................................................................................................. 2

L’epoca della Rivoluzione .................................................................................................................................. 5

La giovane Repubblica ..................................................................................................................................... 10

L’espansione verso Ovest e il crescente conflitto tra Nord e Sud ................................................................... 14

Guerra civile e ricostruzione ............................................................................................................................ 18

L’ascesa a potenza mondiale ........................................................................................................................... 23

Riforma e reazione .......................................................................................................................................... 27

La riorganizzazione dell’America e del mondo ................................................................................................ 33

Dalla sovrabbondanza materiale alla crisi morale........................................................................................... 38

Un viaggio incompiuto? ................................................................................................................................... 48

Dalla lotta al terrorismo a “Yes, We Can!” – Il Paese delle contraddizioni e delle opportunità ..................... 55

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L’epoca coloniale

(1607-1763)

Escludendo i nativi indiani d’America, si può affermare che la storia vera e propria degli Stati Uniti d’America inizia nel 1607, quando sulla costa orientale nordamericana venne fondata dagli inglesi la prima colonia permanente. In realtà già precedentemente c’erano stati numerosi insediamenti da parte di Inglesi, Francesi, Spagnoli e Olandesi, che portarono fra l’altro anche alla creazione di alcuni gruppi sociali e città, come St. Augustine (Florida, 1565), ma nessuno di questi perdurò tanto a lungo da poter essere considerato come parte integrante della storia americana oppure si trattava di città sviluppate da coloni non inglesi, quindi relativamente collegate a quelli che sarebbero stati i successivi e importantissimi sviluppi che si ebbero in quella parte del continente di li a breve. In quel periodo tutta la vita degli allora non ancora Stati Uniti dipendeva esclusivamente dagli scambi che alcune compagnie mercantili, come la Virginia Company, avevano con la madre patria e fu per una sorta di innesco naturale che vennero quindi a formarsi sempre più insediamenti, piccole cittadine e vere e proprie “zone di appartenenza” che presto divennero colonie a tutti gli effetti. Insediarsi per favorire gli scambi fu uno dei vari motivi che differenziò le colonie inglesi da quelle spagnole presenti sul territorio, colonie spagnole che invece si limitavano a prendere possesso dei vari territori e a ridurre in schiavitù le popolazioni preesistenti in nome del re e della corona diventando così colonie di appartenenza, non di insediamento. Ciò non voleva dire che il sovrano inglese non intendesse far giovare i propri diritti sui territori conquistati, anzi le società mercantili erano vincolate da un mandato regale che le legava comunque al commercio con la madre patria e che anche per questo motivo spingeva sempre più interessati a dirigersi nel nuovo mondo. Il fatto che queste imprese rientrassero nella sfera del diritto privato comportò che il governo inglese dedicasse loro un interesse tale da essere definito piuttosto come una sorta di “benevola non curanza” almeno per i primi decenni, finché non si rese conto che la situazione gli stava man mano sfuggendo di mano. Sempre a differenza delle colonie spagnole, spietate nei confronti dei residenti, quelle inglesi furono capaci di mescolarsi con le tribù indiane del posto, non senza molti conflitti, ma di certo non vi fu mai una vera e propria campagna di sensibilizzazione e di (malcelato) acculturamento come fu per i conquistadores ne tantomeno di accettazione dello straniero (anche se in realtà gli stranieri erano loro stessi!) e gli indiani vennero a lungo tempo visti come una sorta di nazione straniera con la quale stipulare accordi quando necessario e da evitare quando possibile. Assieme al commercio di beni in quei tempi iniziò quasi casualmente quello degli schiavi. La Virginia Company, che nella colonia che prende il suo nome fondò la città di Jamestown, barattò con dei pirati olandesi venti africani che furono di fatto i primi schiavi neri d’America. Questo ci porta ad un altro aspetto molto significativo della società americana: il fatto che non tutti coloro che sarebbero giunti in America negli anni a venire lo avrebbero fatto spontaneamente, così come fu per gli oltre 70.000 inglesi emigrati che per motivi bellici, religiosi, sociali, economici nel secolo successivo e per le altre centinaia di migliaia di emigranti che raggiunsero il continente da ogni parte d’Europa fino a giorni nostri. Non solo motivi economici, quindi, ma anche religiosi spinsero emigranti stranieri a stabilirsi nel nuovo mondo, tant’è che Lord Baltimore nel 1632 ottenne dal sovrano inglese il permesso di colonizzare una regione a nord del Potomac che egli stesso chiamerà Maryland, in onore dell’intento che lo aveva spinto. Ancor più noti e importanti sono i Padri pellegrini puritani che salparono per l’America a

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bordo della nave Mayflower e che nel 1620 approdarono nei pressi di Cape Code, in quello stato che diventerà il Massachusetts. Essi erano una minoranza dei 101 passeggeri presenti a bordo della Mayflower ma divennero di straordinaria importanza quando l’11 Novembre 1620 sottoscrissero quel “contratto della Mayflower” sulle leggi che dovevano regolare la convivenza fra i popoli con regole giuste ed uguali per tutti e che fu di fatto il primo documento di auto amministrazione della storia americana. In quei decenni furono, sostanzialmente, tre i motivi che spinsero i coloni a stabilirsi in America; oltre a quelli economici che portarono alla nascita della Virginia, delle due Caroline (1663) e del New Jersey (1664), ci furono le sopracitate motivazioni religiose che oltre al Massachusetts e al Maryland portarono alla nascita nel Connecticut (1631), Rhode Island (1636), New Hampshire (1638) come distacchi dal Massachusetts e nel 1680 della Pennsylvania. Il terzo motivo fu almeno per allora di tipo prettamente filantropico e vide, nel 1732, la nascita della Georgia. Particolare è invece la nascita dello stato di New York e del Delaware nel 1664, che ebbero vita dall’acquisizione di territori precedentemente appartenenti all’Olanda. Queste prime tredici colonie possono essere divise ulteriormente in colonie di proprietà, regie e charter (o di concessione). Le prime erano quelle create da proprietari come piccole famiglie o società alle quali successivamente subentrò il re, rilevandone i possedimenti e stabilendo in esse la propria autorità ed i propri ordinamenti trasformandole di fatto in colonie regie. La stessa Virginia, la colonia di proprietà per antonomasia, divenne colonia regia nel 1624. Al termine dell’epoca coloniale britannica si contavano otto colonie regie: New Hampshire, Massachusetts, New York, New Jersey, Virginia, Carolina del Nord, Carolina del Sud e Georgia, tre colonie di proprietà: Pennsylvania, Delaware e Maryland e due colonie charter: Connecticut e Rhode Island. Nelle colonie regie era il re a governare delegando i suoi poteri nella figura di un Governatore che, affiancato da una Assembly che eletta da suffragio censitario gestiva le finanze, governava secondo il modello del parlamento inglese. Nelle colonie di proprietà il potere era in mano ai proprietari, le charter si governavano da se. Nelle regie colonie spesso il Governatore era un esponente della media nobiltà inglese desideroso di accrescere i propri possedimenti che si circondava spesso di amici o persone a cui si dovevano dei favori e fu anche per questo motivo che vennero istituiti altri tre organi governativi e cioè il Ministero del commercio (Board of Trade), la Tesoreria (Treasury) e la Commissione doganale (Customs Commissioners), e tutti avevano voce in capitolo nella gestione della vita e del commercio delle colonie. Furono quelli anni di grande eterogeneità, che, causa le lotte interne inglesi o con la Francia, l’espansione verso ovest e l’arrivo di una moltitudine di immigrati e schiavi, contribuirono man mano a formare le identità delle singole colonie. Altri motivi non meno importanti che portarono alla fondazione e all’espansione di molte colonie fu il desiderio di sfuggire dalla povertà che imperversava l’Europa e, mentre i primi coloni furono furbi e fortunati nel trovare praticamente un intero continente da sfruttare e coltivare, i successivi dovettero adeguarsi e migrare sempre più verso ovest per non parlare delle notevoli differenze che si vennero man mano creando fra le colonie del sud, ricche di terreni fertili e quindi bisognose di schiavi da utilizzare come manodopera, e quelle del nord comprendenti la vasta area del New England (Massachusetts, Rhode Island, Connecticut e New Hampshire) che dovettero sfruttare gli altri elementi che il posto forniva loro, sviluppando così i settori dell’edilizia navale, portuale e della pesca. D’altro canto fu la ricerca religiosa di una nuova terra promessa da parte di alcuni gruppi religiosi che portò alla formazione di territori molto aperti alle varie razze, etnie e credi come quello della città di Providence e di tutto il Rhode Island e della Pennsylvania. Vi furono anche dei tentativi non riusciti di insediare nell’intero territorio il Credo della chiesa anglicana e fu proprio questa diversificazione nonché libertà di culto che diede alla Chiesa una notevole influenza

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nelle coscienze e negli stili di vita degli americani dall’epoca del colonialismo fino ai giorni nostri. Per tutti questi motivi vi fu un incremento quasi esponenziale della popolazione che si riversava nelle grandi città le quali avevano raggiunto oramai le decine di migliaia di abitanti (Philadelphia 40.000, New York 20.000) e che raddoppiava circa ogni venticinque anni tanto da raggiungere nelle sole tredici colonie a metà ‘700 il numero non indifferente di 2,5 milioni di abitanti. L’identità delle colonie andava quindi formandosi piano a piano anche e soprattutto in base al ruolo che queste svolgevano all’interno dell’economia americana e inglese. Le colonie sud atlantiche del Maryland, Delaware, Carolina del Nord e Sud e Georgia si erano imposte come grandi fornitrici di prodotti (tabacco, riso, indaco e cotone) e dove mancava la possibilità di vie navali per il commercio era comunque presente una forte agricoltura anche se, spesso, a solo carattere familiare, mentre in quelle più a nord (Pennsylvania, New York, New Jersey) oltre al già presente senso del commercio si vedeva una forte crescita di latifondisti e grandi coltivatori. Il fatto che, alla fine, si trattava comunque di situazioni lontanissime da una più radicata e grande come poteva essere l’Inghilterra diede da subito un altro elemento di modellamento a quella che è l’autocomprensione americana, e cioè la forza dell’individuo e i benefici tratti dal duro lavoro e dal raggiungimento di un obbiettivo prefissato. Per questo stesso motivo, data la sterile presenza effettiva di un’amministrazione lontana un continente, i coloni e gli abitanti delle colonie vennero indirettamente sempre più spinti ad auto amministrarsi, o comunque a sviluppare un desiderio di auto amministrazione politico, sociale, amministrativo che non tardi sfocerà in desiderio di indipendenza e ad i vari percorsi da seguire per raggiungerla. Ruolo fondamentale in tutto ciò ebbero le Assemblee che forti di poter operare direttamente sul campo prendevano sempre più piede e potere a discapito del Governatore, e quindi di Londra. Date citate: 1565 – Fondazione di St. Augustine (Florida) 1607 – Primo insediamento permanente inglese 11.Nov.1620 – I Padri pellegrini sbarcati a bordo della Mayflower a Cape Code fondano il Massachusetts e stipulano il contratto della Mayflower 1624 – La Virginia diventa colonia regia 1631 – Fondazione del Connecticut

1632 – Lord Baltimore ottiene dal sovrano inglese il permesso di colonizzare una regione a nord del Potomac che chiamerà Maryland 1636 – Fondazione del Rhode Island 1638 – Fondazione del New Hampshire 1663 – Fondazione della Carolina del Nord e della Carolina del Sud 1664 – Fondazione del New Jersey 1664 – Fondazione dello stato di New York e del Delaware 1732 – Fondazione della Georgia

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L’epoca della Rivoluzione

(1763-1789)

Questa graduale erosione della posizione di potere britannica non era affatto presente al governo di Londra che era impegnato nella battaglia dei sette anni contro la Francia. Al termine di questa alla madrepatria occorreva riparare ai danni e alle spese belliche e la maniera migliore di provvedere fu subito identificata nella tassazione delle colonie. Anche se i possedimenti britannici d’America erano aumentati (Québec) e quelli della Francia notevolmente diminuiti (dovette cedere la Luisiana alla Spagna) i coloni diedero molto più peso alle imminenti tasse che di li a poco sarebbero stati costretti a pagare rispetto al fatto di potersi ulteriormente spingere verso Ovest. Il primo passo verso la Rivoluzione lo fece proprio il governo inglese che con la proclama del regio decreto del 7 Ottobre 1763 fissava fra la cresta superiore degli Appalachi e il corso del Mississippi un’area dedicata alle popolazioni indiane per impedire scontri con i bianchi, impedendo quindi di fatto a ai coloni la possibilità di potersi spostare ulteriormente ad ovest. Qualche mese più tardi venne varata la cosiddetta “legge fiscale americana” meglio nota come “legge dello zucchero” che imponeva un dazio sulla melassa importata dalle Indie occidentali. Di li a poco vennero emesse anche la “legge sulla valuta” che impediva la stampa di cartamoneta nelle colonie e nel 1765 quelle sugli alloggi e sulla tassa del bollo. I coloni iniziarono a sentirsi a tutti gli effetti cittadini di seconda categoria ed un desiderio di rivalsa iniziò ad echeggiare nelle loro menti, spinti anche da un’idea che queste leggi fossero anticostituzionali in quanto, secondo la costituzione britannica, non si potevano applicare leggi e norme su un popolo che non veniva rappresentato i parlamento, come erano i coloni. Iniziarono a formarsi le prime società indipendentiste che presero il nome di “Figli della Libertà” e mentre le varie élite si riunivano per discutere sulla legittimità o meno di certe leggi, i commercianti di alcune città come New York, Philadelphia e Boston decisero di boicottare il commercio con la madrepatria finché dette tasse non fossero state abolite. Di fronte all’impossibilità totale di esportare merci nelle colonie Londra si vide costretta ad intervenire militarmente o a ritirare i dazi; optò per la seconda scelta e mentre da una parte si dimostrò un saggio modo per evitare scontri armati, dall’altra questa decisione non fece altro che far accrescere negli animi dei coloni la consapevolezza che l’Inghilterra poteva essere controllata. La quiete apparante che si venne a formare fu, comunque, subito messa in discussione due anni dopo, nel 1767, quando il Parlamento varò le “Leggi Townshend” che abolivano i dazi interni per gli scambi ma aumentavano quelli per gli scambi con l’estero e prevedevano inoltre un rinfoltimento delle figure di controllo britanniche nelle colonie in quanto quelle americane non venivano più considerate abbastanza affidabili. Di nuovo seguirono i boicottaggi in alcune città e molte colonie, prima fra tutte il Massachusetts, aderirono alla mozione redatta da Samuel Adams che condannava duramente queste leggi. Ciò portò finalmente l’Inghilterra ad intervenire militarmente in America quando, dopo alcuni scontri, il I ottobre 1768 due battaglioni vennero fatti sbarcare a Boston. Il 5 marzo 1770 si arrivò per la prima volta al conflitto aperto quando cinque dimostranti vennero uccisi in quello che fu definito il “massacro di Boston”. La situazione nel Massachusetts divenne a quel punto insostenibile tantoché il Governatore Hutchinson fu costretto a chiedere al governo di Londra di dislocare le truppe su un’isola del porto. Nonostante anche le leggi Townshend vennero ritirate la situazione si fece sempre più insostenibile e gli episodi che ne seguirono furono soltanto un’escalation verso la più drastica delle soluzioni. Nel 1772 una goletta doganale britannica, la Gaspee si era arenata nei pressi di

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Providence e con il favore delle tenebre alcuni uomini la arrembarono e incendiarono e, nonostante venne istituita una commissione per rintracciare i colpevoli, nessuno venne mai incolpato, anche se a Providence tutti sapevano, e un anno dopo la commissione stessa fu costretta a sciogliersi per mancanza di prove. Ma l’episodio più eclatante avvenne un anno dopo quando, dopo la revoca della cosiddetta “legge sul tè” (una legge fatta esclusivamente per salvare le finanze della Compagnia delle Indie Orientali), i coloni si sentirono nuovamente e ulteriormente alla mercé di un Governo che mirava a salvaguardare soltanto i propri interessi senza curarsi delle necessità d’oltreoceano, allorché una fazione dei Figli della Libertà, travestiti da indiani e guidati da Samuel Adams, arrembò tre navi cariche di tè ormeggiate nel posto di Boston. Le navi erano ferme al porto già da svariati giorni, ma visto il nuovo boicottaggio nei confronti dell’Inghilterra da parte dei coloni la merce non era mai stata scaricata e si attendeva solo l’ultimatum di venti giorni per scenderla a terra e bollarla come merce non pagata chiedendo così di saldare un risarcimento al Governo di Londra e alla Compagnia delle Indie, ma ancora prima che l’ultimatum scadesse i Figli della Libertà le assaltarono rovesciando l’intero carico di 342 casse di tè in mare. Questo episodio venne ironicamente chiamato “Boston Tea Party”. Da quel momento era ufficialmente iniziata la lotta per l’indipendenza. Il governo di Londra reagì in maniera drastica: il porto di Boston venne chiuso e venne ordinato che in futuro i funzionari della Corona non avrebbero più dovuto corrispondere ad alcun tribunale americano, la legge fondamentale del Massachusetts fu revocata, e il Consiglio con tutti i suoi rappresentati sarebbe stato eletto solo da re, venne varata la “legge sul Québec” che dava a questo territorio fino ad allora inorganizzato la libertà di culto e nel quale veniva riconosciuto il diritto francese, il territorio di questa terra venne esteso fino all’Ohio a segnale di un’evidente ostracismo alle colonie di potersi espandere più ad ovest. Il grande errore fu quello di prendere provvedimenti che danneggiassero tutte le colonie, non solo il Massachusetts, scatenando così l’ira e la voglia di rivalsa di tutti i ceti popolari di tutte le colonie, compresa quell’élite più prudente che fino ad allora non si era pronunciata. Proprio quest’élite chiese ed ottenne la convocazione del primo Congresso continentale nell’autunno del 1774 al quale parteciparono tutte le colonie ad eccezione della Georgia nel quale dopo non troppe titubanze le colonie stabilirono un’alleanza con i Figli della Libertà richiamandosi al principio di sovranità popolare e all’anticostituzionalità delle leggi britanniche in America. Venne stabilito che fino alla revoca di dette leggi il popolo del Massachusetts non avrebbe pagato alcun dazio alla Gran Bretagna e venne esortata tutta la popolazione ad armarsi. Così come in America si erano fatti da parte i moderati anche in Inghilterra avevano preso completamente piede i radicali, qualcuno proponeva addirittura di ridurre in schiavitù le colonie ma la scelta più ovvia fu quella di intervenire in maniera decisa e importante, militarmente. Sebbene il conflitto durò circa otto anni non furono molti i momenti salienti della guerra; uno di questi fu sicuramente il primo, quando un’unità britannica di 700 uomini diretta a Concord per rintracciare un deposito d’armi si vide sbarrare la strada da una milizia americana. La dinamica dei fatti è molto incerta, non si è nemmeno sicuri di chi fu il primo a sparare, fattostà che gli inglesi furono costretti alla ritirata. Gli americani si riunirono in una sorta di esercito mentre si teneva il II Congresso continentale, senza però i moderati stavolta, che dichiarò lo stato di difesa per tutte e tredici le colonie ed esortò la popolazione del Canada ad unirsi a loro. Mentre Londra era ancora all’oscuro di tutto data l’impossibilità di comunicazioni repentine, in America era già scoppiata una guerra; l’esercito americano fu affidato al generale George Washington. Nonostante l’esercito inglese vantasse un’esperienza di guerra secolare nonché truppe più preparate e soprattutto numericamente più consistenti, per non parlare della flotta navale, quello americano aveva dalla sua il grande vantaggio di conoscere a memoria il territorio di battaglia, di poter quindi trasformare la guerra in

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guerriglia, nei boschi, con attacchi a sorpresa o di soppiatto, e, anche se mal organizzati, potevano contare quantomeno sul supporto bellico non ufficiale da parte della Francia e dai Paesi Bassi almeno finché, nel 1778, la Francia stessa entrò ufficialmente in guerra contro gli inglesi. Gli inglesi, nonostante disponessero di un contingente di 30.000 uomini e svariate navi da guerra, avevano il difficile compito di conquistare, controllare ed organizzare un paese vastissimo cercando di rimanere sempre in contatto con l’altra sponda dell’Atlantico, ma come detto sul piano strategico gli americani avevano troppo vantaggio, tanto che riuscirono a vincere le due battaglie decisive. La prima fu quella del 17 Ottobre 1777, a Saratoga. Il generale britannico Burgoyne muoveva dal Canada verso New York per incontrare il collega Howe partito proprio da New York a metà strada in maniera da chiudere gli americani in una morsa e separare il New England dalle altre provincie. Inspiegabilmente però Howe scelse di marciare verso sud, direzione Philadelphia. Privo di una via di fuga Burgoyne capitolò. La seconda ebbe luogo a York Town, vicino a New York, circa quattro anni dopo, il 19 Ottobre 1781. Le truppe dell’esercito inglese capeggiate dal generale Cornwallis si erano quivi appostate per poter muovere, in caso, rapidamente verso la costa dove avrebbe potuto dar loro manforte la flotta; Washington, intese tali intenzione, face si che l’esercito francese del generale Lafayette circondasse la flotta ormeggiata a New York mentre quelle di terra furono brave ad arginare le avversarie britanniche che non potevano, a quel punto, contare più nemmeno sull’aiuto degli uomini presenti sulle imbarcazioni. Era la fine della guerra, e gli americani avevano vinto in quanto Londra non era più disposta ad inviare truppe oltreoceano. Ma l’indipendenza era già stata raggiunta cinque anni prima. I primi di gennaio del 1776 Thomas Paine pubblicò uno scritto politico intitolato “Common Sense” nel quale per la prima volta in maniera esplicita si iniziava a sentir parlare di indipendenza. Il Congresso continentale fece di questa parola e degli argomenti trattati in quello scritto il proprio diktat e, riunitosi il 2 Luglio 1776 deliberò formalmente l’indipendenza. La dichiarazione redatta sotto la guida di Thomas Jefferson venne approvata e sottoscritta da tutte le colonie due giorni dopo, il 4 Luglio 1776. Seguirono, come descritto, le vittorie di Saratoga e New York e il 3 settembre 1783 con il trattato di pace di Parigi l’Inghilterra riconobbe di fatto come indipendenti le colonie americane anche dal punto di vista del diritto internazionale, il territorio del “Nuovo Stato” venne più che raddoppiato ed esteso fino al Mississippi, la Florida rimase alla Spagna ed il Canada alla Gran Bretagna. Gli oltre settemila lealisti alla Corona inglese furono costretti a tornare in patria o a migrare verso il Canada, le loro proprietà vennero confiscate e vendute all’asta. È da notare il fattore molto importante che vede gli oppositori alla rivoluzione andare via, che fece sì che in America non vi fu mai una controrivoluzione, come successe in Francia. Con la nascita di questo nuovo stato, nacque anche un nuovo modo di concepire il singolo e la società, che tutt’oggi vale ed è forte, un vero e proprio Novus Ordo Sæculorum in cui la proprietà terriera non veniva considerata come un privilegio sociale ma come una merce, non esistevano diritti primo genitali ne aristocratici inalienabili, l’unico obiettivo era il lavoro finalizzato al raggiungimenti di un obiettivo. Gli americani non si erano dovuti liberare di oppressori, ma bensì di poteri al di fuori del loro controllo, avevano combattuto e vinto una battaglia più nella loro mente che nel loro ventre e iniziavano a basare la loro società, come sarà dichiarato anche sulla Dichiarazione di Indipendenza, sull’aspirazione alla “vita, libertà e ricerca della felicità come verità di per sé evidenti”. Vinceva il singolo, su tutto, non più l’individuo in favore della società. Ottenuta l’indipendenza, c’era un nuovo stato da dover organizzare. Il primo problema fu quello di dare un ordinamento costituzionale rifiutando comunque a priori i modelli britannico ed europei, troppo obsoleti. C’era un élite bramosa di uno strapotere legislativo ed i rappresentati dei ceti medio-bassi che invece volevano venisse affermata la sovranità

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popolare. Iniziarono ad essere stilate, quindi, le prime Costituzioni statali che furono inizialmente anche molto differenti fra loro. Quella della Pennsylvania, ad esempio, prevedeva un’Assemblea legislativa monocamerale che aveva la grande maggioranza dei poteri, affiancata da un Consiglio esecutivo, il popolo era comunque tenuto a partecipare all’approvazione delle leggi, ma le altre colonie si dissociarono in maniera netta da questa, indicando che era più opportuno realizzare costituzioni liberali, non radicali, dove era pienamente applicato il principio della suddivisione dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario ad organi differenti, sottoposti a vicendevole controllo, a garanzia dei diritti e della libertà dei cittadini. In certi casi la costituzione veniva affiancata da una carta dei diritti umani, che si rifaceva spesso alla Virginia Bill Of Rights del 12 Luglio 1776, e alcune di queste erano talmente innovative ed al contempo stabili che sarebbero perdurate per anni; addirittura quella del Massachusetts del 1780 è ancora in vigore oggi ed è la più antica al mondo ad essere ancora applicata. Naturalmente ci si indirizzò verso la realizzazione di una Costituzione unica, che sarebbe stata legge suprema e intoccabile (a differenza di quella inglese) e che avrebbe dato un senso comune a tutte quelle che sarebbero state scritte successivamente o che già esistevano nelle colonie, una legge suprema e immutabile quindi, espressione della sovranità popolare, alfine di garantire ai singoli cittadini la libertà anche nei secoli futuri, indipendentemente delle varie fazioni politiche che si sarebbero alternate. Fondamento di tutte le costituzioni che man mano venivano stilate era quello dell’equilibrio, non si voleva fare come la Pennsylvania che dava troppo potere ad un unico ente per poi trovare un contrappeso che lo limitasse, e tutte facevano capo ad un'unica Federale Costituzione che le sovrastava dando così di fatto alla luce gli Stati Uniti d’America. Vennero redatti gli Articoli di Confederazione del 1777 (che entrarono in vigore 1781) con i quali si riconosceva l’esistenza di una libera confederazione di stati, con un Congresso al suo vertice nel quale ciascuno stato disponeva di un voto, e nel Giugno 1787 vennero pubblicati gli articoli della North-west Ordinance che stabilivano che la regione a nord dell’Ohio veniva suddivisa in cinque territori ognuno dei quali doveva essere inserito nell’unione come Stato libero e con pari diritti qualora il numero dei suoi abitanti fosse stato almeno pari a quello dello stato che ne aveva di meno di tutti. E’ questo un principio che vige ancora oggi, che ha permesso alle Hawaii e all’Alaska di entrare a far parte dell’Unione in tempi recenti e che garantisce comunque un’omogeneità demografica fra i vari Sati, ma soprattutto dava un senso alla spinta verso occidente che le colonie si erano ripromesse. Il 17 Settembre 1787, riunitasi a Philadelphia una Commissione di 55 delegati di tutti i tredici stati ad eccezione del Rodhe Island presieduta da George Washington, venne stilata una nuova Costituzione per gli Stati Uniti, che fu più che altro una sorta di compromesso fra tutti gli stati, che accoglieva i principi della separazione di poteri e ribadiva i diritti fondamentali di libertà emanati nel 1776; ogni stato ne era soggetto, pur conservando la propria costituzione e secondo certi limiti la propria autonomia. Fatto ciò però era necessario scegliere le figure che avrebbero rappresentato questa associazione di stati e fu deciso che sarebbe stato eletto un presidente unico in qualità di capo dell’esecutivo e un Congresso che avrebbe avuto a carico il potere legislativo. Il Congresso sarebbe stato suddiviso a sua volta in due organi: la Camera dei Rappresentati, eletta ogni due anni, nella quale ogni stato era rappresentato in base alla propria popolazione, ed un Senato, eletto ogni sei anni, al quale avevano accesso due membri di ogni singolo stato. Il potere giudiziario apparteneva ad una Corte Federale, la Supreme Court. Lo stato federale era competente solo su determinate questioni come la sicurezza nazionale e gli indennizzi, le tasse e l’esercito mentre tutto il resto era competenza dei singoli stati. Nonostante ci furono i soliti contrari alla nuova Costituzione, molti si prodigarono affinché questa venisse definitivamente e ufficialmente approvata, come James Madison che in “The Federalist” la difende a spada tratta facendo entrare il suo scritto, di diritto, nei grandi classici del pensiero politico. Non si sa quanto

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The Federalist abbia influito affinché la Costituzione venisse approvata, fattostà che il 26 Luglio 1788 lo stato di New York, l’ultimo tirato in causa, approvò finalmente la Costituzione rendendola di fatto, ufficiale, in vigore. Rimaneva solo da eleggere un presidente. Date citate: 07 Ottobre 1763: L’Inghilterra proclama il regio decreto che fissava fra gli Appalachi e il Mississippi un’area riservata agli indiani. 1764: Legge fiscale americana o legge sullo zucchero e legge sulla valuta 1765: Legge sugli alloggi e Legge sul bollo 1765: Abrogazioni delle leggi in seguito a boicottaggi 1767: Le leggi Townshend diminuiscono i dazi interni ma aumentano quelli esteri. Samuel Adams stila una mozione di critica che tutte le colonie appoggiano I ottobre 1768: Due battaglioni vengono distaccati a Boston 05 Marzo 1770: Massacro di Boston. 5 dimostranti vengono uccisi 1772 – assalto alla Gaspee 16 Dicembre 1773 – Boston Tea Party Autunno 1774 – I Congresso continentale 1775 – II Congresso continentale Gennaio 1776 – Thomas Paine pubblica “Common Sense” 02 Luglio 1776 – Il Congresso delibera formalmente l’indipendenza 04 Luglio 1776 – La dichiarazione d’indipendenza, redatta fra gli altri da

Thomas Jefferson, viene approvata e diventa effettiva 12 Luglio 1776 – Viene redatta la Virginia Bill Of Rights, la carta dei diritti umani che affiancherà molte delle costituzioni che sarebbero state realizzate a seguire 1777 – Vengono redatti gli Articoli di Confederazione che diverranno esecutivi nel 1781 17 Ottobre 1777 – Vittoria di Saratoga 1778 – La Francia prende parte alla guerra Anglo-Americana 1780 – Viene redatta la Costituzione de Massachusetts. Oggi è la più antica al mondo ad essere ancora in vigore. 19 Ottobre 1781 – Vittoria di New York 03 Settembre 1783 – L’Inghilterra riconosce le colonie americane come indipendenti Giungo 1787 – Vengono emanati gli articoli della North-west Ordinance 17 Settembre 1787 – Approvazione della Costituzione 26 Luglio 1788 – Lo stato di New York approva la costituzione che diventa ufficiale.

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La giovane Repubblica

(1789-1825)

Il 7 gennaio 1789 in tutti gli stati ad eccezione del Rhode Island, che avrebbe ratificato la Costituzione solo un anno dopo, vennero eletti i delegati del collegio che il 4 febbraio scelse il presidente che, ovviamente, fu George Washington, eletto all’unanimità. L’unico suo avversario sarebbe potuto essere Benjamin Franklin ma alla veneranda età di 83 anni aveva ben poche speranze di ambire ad una carica tanto alta. Vicepresidente diventò John Adams del Massachusetts. Nel 1791 dopo l’accettazione da parte del Rhode Island della Costituzione, vennero inseriti nella stessa dieci dei dodici emendamenti elaborati da James Madison, che vennero chiamati Bill Of Rights. Già da quei primi anni vennero a formarsi due correnti di pensiero politico ben differenti all’interno della vita Parlamentare; mentre da un lato Alexander Hamilton, ministro delle Finanze, appoggiato da Adams voleva un paese rivolto agli scambi con l’estero che promuovesse l’industrializzazione, il commercio e la navigazione (filobritannico) dall’altra parte il ministro degli Esteri Thomas Jefferson sognava un’America orientata verso l’agricoltura, popolata da virtuosi “farmers” liberi ed uguali, e diffidava da un governo centrale che avesse troppi poteri a discapito dei cittadini. I primi presero il nome di “Federalists”, mentre gli altri vennero chiamati “Jeffersonians Republicans”, partito dal quale molto tempo dopo nacque il moderno Partito Democratico. I Jeffersonians erano spinti anche da quelli che erano gli ideali della Rivoluzione francese e all’epoca i rapporti fra i due stati erano anche abbastanza felici, ma era evidente che con la flotta Britannica presente in mezzo all’Atlantico qualsiasi tipo di sussidio o contrattazione con i Transalpini era improbabile, quindi un accordo, quantomeno commerciale, con gli Inglesi sembrava la scelta più opportuna. Il problema dei rapporti con l’estero è sempre stato un argomento delicato in America ed il primo a proferire parola a riguardo in maniera ufficiale e importante fu proprio il Presidente Washington che nel suo celebre messaggio di addio alla nazione Americana alla fine dei suoi otto anni di mandato sottolineò che l’America doveva “evitare alleanze permanenti con qualsiasi altra parte del mondo” - pensiero che perdura fino ad oggi - ma soprattutto volle far notare che per colui che guidava gli stati dell’Unione otto anni di governo erano più che sufficienti; infatti tutti i suoi successori, ad eccezione di Roosevelt, seguirono la sua guida e non ebbero mai più di due mandati. Anche il successore di Washington, John Adams, dovette confrontarsi con i problemi relativi alla Rivoluzione francese in quanto i rapporti fra i due Stati nel frattempo erano diventati sempre più tesi, ma soprattutto dovette affrontare la diatriba che si scatenò riguardo le leggi sulle rivolte che, a detta dei Jeffersonians, miravano ad ammutolire il diritto di opposizione secondo principi anticostituzionali; alché la Virginia ed il Kentucky (che si era formato da una parte della Virginia stessa) redassero due documenti firmati da Jefferson e Madison che attribuivano ai due Stati il diritto di mettere in discussione una legge se questa entrasse in contrasto con gli inalienabili diritti costituzionali e, in caso, di respingerla. Questo clima di tensione venne parzialmente allentato dalle elezioni del 1800 nelle quali si affermò Jefferson. Egli cercò di riportare gli animi allo spirito del 1776 ed in questo contesto ebbe fondamentale importanza iconografica il fatto che lui fosse stato anche il primo presidente ad insediarsi nella nuova capitale federale, Washington. Jefferson detiene anche un altro primato: fu il primo di una lunga serie di presidenti che si videro limitare nei poteri dalla Supreme Court. Nel 1803 il Chief

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Justice John Marshall (che diventerà uno dei più grandi giuristi della storia americana avendo presieduto la Corte suprema per 34 anni) si dichiarò in favore di Madison dichiarando come legittimo il diritto di revisione delle leggi. Nonostante fosse stato un fautore di tale proposito Jefferson ora si vedeva limitato nella sua autorità, anche se successivamente avrebbe rivendicato lo stesso diritto per sé. In quel periodo era fervente la voglia e soprattutto la necessità economica di doversi espandere ad Ovest ed un punto nevralgico di quest’espansione era sicuramente il porto di New Orleans, un porto importantissimo compreso fa il Mississippi e gli Appalachi. Jefferson venne a conoscenza del fatto che la Spagna aveva ceduto la Louisiana alla Francia e decise quindi di mettersi immediatamente in contatto con i francesi per assicurarsene la proprietà. Nonostante gli oltre tre anni di trattative ed un costo di 15 milioni di dollari che sicuramente le finanze americane non erano in grado di sostenere, alla fine la Louisiana venne venduta agli stati dell’Unione. Nel 1803 faceva dunque parte degli Stati Uniti anche quella vastissima regione che andava dal Mississippi alle Montagne Rocciose raddoppiando di fatto l’estensione territoriale dell’Unione. Questo fattore che poteva apparire un vantaggio, era invece abbastanza contestato dalle provincie del Nord-Est, che lo ritenevano un attacco alle proprie ambizioni di sviluppo in quanto grandi quantità di fondi sarebbero state utilizzate per migliorare la produttività di queste nuove zone. A tal proposito il Presidente ordinò la spedizione Lewis e Clark, volta a documentarsi sulle effettive risorse del territorio acquistato. In quanto il suo unico avversario alle successive elezioni, Hamilton, perse la vita in un duello, Jefferson vinse anche nel 1804, in piena era di guerre napoleoniche. Erano tempi duri per il commercio, quelli, in quanto le navi americane erano preda dei soprusi di quelle inglesi in mezzo all’Atlantico tanto che il Governo di Washington fu costretto dapprima a vietare il commercio via terra e via acqua con qualsiasi altro stato; successivamente, di fronte ad un totale fallimento e pericolo per l’economia si limitò a stabilire l’embargo solo nei confronti della Francia e dell’Inghilterra e cioè le uniche due nazioni che non avevano, all’epoca, nessun rispetto per le leggi di navigazione internazionali. A Jefferson successe, nel 1809, James Madison, anche lui Repubblicano jeffersoniano e anche lui dalla Virginia, e dal momento che i rapporti con la Gran Bretagna non miglioravano, anzi correva voce che Londra finanziasse la resistenza degli indiani, il 18 giugno 1812 l’America dichiarò formalmente guerra all’Inghilterra. Il pretesto principale fu quello degli arruolamenti forzati da parte della marina inglese che attaccava navi mercantili americane al largo dell’Atlantico e ne requisiva l’equipaggio per costringerlo ad arruolarsi fra le proprie fila, al fine di avere una forza militare maggiore nella guerra contro Napoleone in Europa. Almeno per la prima parte del conflitto l’esercito americano venne innumerevoli volte sconfitto lungo la linea del confine col Canada ed anzi le truppe inglesi riuscirono a penetrare addirittura fino a Washington ed incendiarla. Va comunque ricordata la valorosa resistenza degli americani a Fort McHenry – a guardia di Baltimora – la notte fra il 13 e il 14 settembre 1814. Alla fine dei bombardamenti le navi della truppa inglese non riuscendo a trovare una breccia fecero dietrofront, ed un avvocato americano che assistette tutta la notte alla battaglia da una nave ormeggiata a pochi chilometri di distanza, il signor Francis Scott Key, trovò l’entusiasmo e l’ispirazione per dedicare a questo evento un poema, che poi diverrà il testo dell’inno americano. Venne dunque stipulato un trattato di pace in Belgio che lasciava praticamente tutto così com’era. Era il 24 dicembre 1814. Il nord, contrario fin dall’inizio alla guerra, decise così di unirsi in tutte le sue colonie e seguire l’esempio di Virginia e Kentucky adottando quella dottrina che le consegnava il diritto di porre il veto ad alcuni emendamenti se considerati pericolosi, anche per contrastare la sempre più potente crescita del Sud-Ovest e di tutti i suoi grandi latifondisti bramosi di conquista. Questa

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decisione, purtroppo, avvenne in un pessimo momento. L’8 gennaio del 1815 infatti le truppe americane guidate dal generale Andrew Jackson inflissero una dura sconfitta alle truppe inglesi, nei pressi di New Orleans dando all’America un eroe nazionale ed una parte dell’Unione (tutto il New England, praticamente) ed un intero partito (i Federalists guidati da Hartford) dall’altra come traditori. Era la fine dei Federalists che comunque alle successive elezioni del 1816 presentarono quattro candidati di cui come prevedibile nessuno dei quali riuscì a far fronte all’avversario Monroe. I suoi otto anni di Governo vengono oggi definiti come anni di sostanziale concordia nazionale, ma furono soprattutto gli anni dell’espansione territoriale. Venne costruita la prima strada, che collegava Cumberland (Maryland) e a Wheeling (Virginia) e in quanto allora era molto più importante costruire collegamenti via mare che via terra vennero iniziati i lavori per il canale che collegava la costa Atlantica al dilà degli Appalachi partendo dal fiume Hudson, presso Albany, procedendo sul Mohawk e raggiungendo Buffalo per poi sfociare nell’Erie a monte delle cascate del Niagara. I lavori terminarono nel 1825 rendendolo una sorta di capolavoro della progettazione anche per gli anni a venire - in quanto i canali successivi dovettero sottostare alla concorrenza delle nascenti ferrovie - e rese di fatto New York il porto più importante dell’East Coast. Precedentemente, nel 1818, erano stati risolti alcuni contenziosi con l’Inghilterra: primo fra tutti quello che dava agli Stati Uniti il diritto di pesca la largo delle coste di Terranova e del Labrador in secondo luogo la definizione dei confini con i possedimenti inglesi del Canada. Venne istituito come confine settentrionale quello naturale del Lago Superiore e del Lago delle Foreste, procedendo ad Ovest lungo il corso del Rainy e da lì alla cresta principale delle Montagne Rocciose lungo il 49° parallelo. La mancanza di scrupoli da parte del generale Jackson nell’affrontare gli indiani avevano portato gli spagnoli, nel 1819, a cedere la Florida agli Stati Uniti in cambio del riconoscimento della presenza spagnola in Messico e nel Texas mentre la Spagna stessa, riconoscendo come confine settentrionale il 42° parallelo dava all’unione ogni possibilità di espandersi verso Ovest in direzione Oceano Pacifico. Nei 5 anni successivi gli americani riuscirono ad accordarsi coi russi nel delimitare le proprietà di questi ultimi fino al 50° 42’ meridiano nord, ed allora rimase da discutere solo la questione dell’Oregon con gli inglesi, in quanto questo era un territorio condiviso. Questo dinamismo espansionistico americano sollevò subito la questione degli altrui possedimenti. Nacque e si sviluppò quindi la cosiddetta “dottrina Monroe”. Gli Stati Uniti non erano in grado, allora, di sostenere militarmente tutti i possedimenti sino ad allora ottenuti in caso di rivendicazione da parte di stati esteri (quella della Spagna era prevista da li a poco) quindi il 2 dicembre 1823 il Presidente Monroe pronunciò al Congresso un famoso discorso in cui sottolineava l’estraneazione da parte degli Stati dell’Unione da tutte le faccende Europee purché queste non interferissero nella politica interna americana. Questa nuova visione della politica estera, denominata appunto “dottrina Monroe” era espressione crescente di autocoscienza americana e per molti aspetti vige ancora oggi. Gli ultimi anni del Governo Monroe videro una crisi economica frutto di una precedentemente verificatasi in Europa, la quale aveva portato dapprima i grandi coltivatori dell’Ovest a produrre grandi quantitativi di prodotti destinati al commercio causa guerra, per poi ritrovarsi con un surplus difficile da smerciare, mentre le banche creditrici dell’est (dipinte allora come il mostro che divorava i laboriosi contadini dell’ovest) rimasero inflessibili nel richiedere in dietro il danaro prestato. Ancora un volta furono provvidenziali le elezioni politiche, nel 1824. Non potendo candidare un valido rappresentante dalla Virginia i repubblicani jeffersoniani scelsero fra gli altri Andrew Jackson del Tennessee forte della sua popolarità, ma ai voti ebbe la meglio John Quincy Adams, figlio di John Adams.

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In questi primi trentasei anni di repubblica nacquero e si unirono all’Unione 11 nuovi stati: il Vermont, il Kentucky, il Tennessee, l’Ohio, la Louisiana, l’Indiana, il Mississippi, l’Illinois, l’Alabama, il Maine e il Missouri, per un totale di 24, più il District Of Columbia. Note: Samuel Adams (il rivoluzionario) e John Adams (Presidente U.S.A.) erano cugini in seconda. John Adams ebbe due figli: James Adams e John Quincy Adams (Presidente U.S.A.) Date Citate: 04 Febbraio 1789 – George Washington (Virginia) viene eletto come primo presidente degli Stati Uniti 1790 – Anche il Rhode Island accetta la Costituzione 1791 – I Bill Of Rights redatti da James Madison entrano a far parte della Costituzione 1797 – John Adams (Federalista, Massachusetts) viene eletto secondo Presidente dell’Unione 1800 – Thomas Jefferson (Repubblicano jeffersoniano, Virginia) è il terzo presidente dell’Unione 1803 – Acquisto della Louisiana 1803-1806 – Spedizioni di Lewis e Clark 1809 – James Madison (Repubblicano jeffersoniano, Virginia) è il quarto presidente dell’Unione 18 giugno 1812 – L’America dichiara guerra all’Inghilterra 13-14 settembre 1814 – Assalto a Fort McHenry

14 settembre 1814 – Francis Scott Key compone un poema che diventerà il testo dell’inno americano 24 dicembre 1814 – Trattato di pace a Gand (Belgio) 08 gennaio 1815 – Vittoria di New Orleans 1817 – James Monroe (Repubblicano jeffersoniano, Virginia) è il quinto presidente dell’Unione 1818 – Delimitazione dei confini settentrionali col Canada (U.K.) 1819 – Accordo per l’acquisizione della Florida (Spagna) 02 dicembre 1823 – Il Presidente Monroe pronuncia il discorso sull’unità a se stante e indipendente dall’Europa degli Stati Uniti 1824 – Accordo sui confini russi 1824 – John Quincy Adams (Repubblicano jeffersoniano, Massachusetts) viene eletto come sesto presidente dell’Unione 1825 – Terminano i lavori per la costruzione del canale dell’Erie

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L’espansione verso Ovest e il crescente conflitto tra Nord e Sud

(1819-1860)

Con l’elezione di John Quincy Adams si rafforzarono i tratti nazionalistici del Congresso che vennero concretizzati in tariffe doganali che prevedevano dazi altissimi verso l’esterno ed il trasferimento degli indiani al dilà del Mississippi. Acerrimo avversario del presidente Adams era Martin Van Buren che con una politica denigrativa nei confronti di questo lo costrinse dapprima all’applicazione praticamente forzata delle sopracitate normative e poi alla sconfitta alle successive elezioni presidenziali del 1828 a giovamento di Andrew Jackson, i cui sostenitori e seguaci si sarebbero chiamati, in futuro, Democrats. Jackson fu il primo presidente a non appartenere all’élite del Nord che da decenni aveva il controllo ed il potere sul Governo americano, e, circondatosi di collaboratori altrettanto estranei a tale rango, venne spesso definito come un “piccolo uomo” che favoriva l’inserimento di uomini rozzi e incolti. Nonostante le evidenti difficoltà nell’ottenere una forte accettazione in Parlamento egli fu sempre un uomo forte e carismatico come quando, ad esempio, il suo vecchio avversario Henry Clay nel 1832 volle scavalcarlo politicamente cercando di far approvare una legge sulla proroga delle concessioni alla Banca degli Stati Uniti che, anche se privata, esercitava come un’amministrazione pubblica; Jackson dall’altra parte non solo fece si che la legge non fu approvata facendola passare come una legge che aiutava i ricchi e i potenti a diventare ancor più ricchi e potenti, ma emanò un decreto che gli consentiva di intervenire con le armi nel caso in cui qualsiasi Stato non avesse rispettato le leggi federali. Questa decisione fu necessaria anche perché il governatore della Carolina, John C. Calhoun, rivendicava per il suo Stato il diritto di pronunciarsi contro una qualsiasi legge federale se ritenuta incongruente con gli interessi dello Stato stesso, come ad esempio la già menzionata legge sui dazi del 1828. Jackson venne riconfermato alla Presidenza anche per il quadriennio successivo e la Carolina, che aveva dato il via a quella che fu definita la Nullification Crisis, fu costretta ad indietreggiare in quanto, allora, l’idea di secessione non era neanche lontanamente considerata perché che nessun altro Stato sudista voleva seguire il suo esempio. Era chiaro, comunque, che d’ora in avanti il ruolo del Sud sarebbe stato discriminante ai fini stessi dell’Unione. Il Sud, vale a dire tutti quegli stati che si trovavano a sud della Pennsylvania e dell’Ohio, aveva maturato nel tempo un certo distacco dal Nord, per conservare la propria autonomia di regione schiavista che, a differenza di quella settentrionale, basava la sua economia sullo sfruttamento dei neri, viste le sconfinate piantagioni di cotone presenti in quella zona, a discapito dello sviluppo di un’agricoltura moderna, industriale, capitalista. È fuori discussione che i proprietari terrieri sudisti potessero permettersi manodopera retribuita a buon mercato, la ma questione schiavismo diventava sempre più un fattore di principio, e veniva difesa a spada tratta con motivazioni che col passare del tempo diventavano sempre più forzate e bizzarre. Nel sud il monopolio della gestione degli schiavi apparteneva al 12% dei grandi proprietari terrieri, che a loro volta erano il 3% dell’intera popolazione sudista, e, mentre molti bianchi emigravano al Nord, questa minoranza otteneva sempre più potere e influenza politica. L’abbandono del Sud da parte di circa un milione di bianchi fece si che si venisse a creare subito un primo problema di fondo: il numero di rappresentanti al Congresso. Secondo il compromesso costituzionale del 1787 gli stati inviavano alla Camera dei Rappresentati una quota di deputati pari e proporzionale al numero degli abitanti dello stato stesso e a causa dell’infausta clausola dei tre quinti (uno schiavo valeva 3/5 di un

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bianco, pur non avendo diritti), il Sud aveva sempre una forte rappresentanza al Governo, indicata come sovrarappresentanza dal Nord. Ciononostante al Sud non bastava avere una sorta di parità politica alla Camera pur non meritandola, l’egemonia assoluta all’interno della Supreme Court con i maggiori rappresentanti di quel secolo (Marshall e Teney, di chiare simpatie sudiste/schiaviste); voleva addirittura rappresentare la maggioranza in Senato e lo fece quando –anni prima- nel 1919 il Missouri fu annesso all’Unione e si dichiarò stato schiavista, pur avendo un territorio che non consentiva la coltivazione del cotone e quindi l’urgenza di disporre di schiavi ma soprattutto, nonostante la mancanza di confini ben definiti ad Ovest del Mississippi, che si trovava geograficamente in pieno Nord. Qui il problema diventava più ampio. Se alla Camera dei Rappresentanti il numero di deputati era proporzionale a seconda degli Stati, in Senato ogni stato veniva rappresentato da due senatori a prescindere dal numero di abitanti che contava, e fino ad allora anche al Senato c’era stato un certo equilibrio in quanto il numero degli stati del Sud era uguale a quello degli stati del Nord. Si pose rimedio, prima di tutto, dando il riconoscimento di Stato dell’Unione (non schiavista) anche al Maine, che venne distaccato dal Massachusetts, ma urgeva un compromesso. Questo venne stilato nel 1820, nominato appunto “Compromesso del Missouri”, e stabiliva che nella successiva espansione verso Ovest il confine fra Nord e Sud sarebbe stato appunto il confine Meridionale del Missouri, latitudine 36° 60’, e che tutti gli Stati che sarebbero nati al di sopra di quella linea (quindi ex-territorio della Louisiana, alta California e territorio dell’Oregon) non avrebbero potuto praticare lo schiavismo ad eccezione del caso particolare del Missouri. La spaccatura diventava sempre più netta e mentre nell’espansione ad Ovest il Sud continuava a sfruttare i propri terreni con coltivazioni dirette, nel Nord prevalse sempre di più l’agricoltura industriale finalizzata alla produzione di massa, esportazione, contrattazione. Le basi del capitalismo, almeno al Nord, erano state gettate. Il Sud almeno per l’epoca non ne aveva bisogno: la manodopera era gratuita e le spese di trattamento del prodotto praticamente inesistenti, in quando essendo il cotone un materiale imballabile e spedibile direttamente sulle navi, i grandi proprietari terrieri preferivano lasciare il compito della raffinatura alle industrie tessili Inglesi o di altre parte d’Europa. Nonostante le crescenti iniziative volte all’abolizione della schiavitù, come la nascita dell’American Antislavery Society e del conseguente “movimento abolizionista” il Sud continuò per la sua strada e la Federazione non intervenne, a salvaguardia dell’unità. Il successore di Jackson, Van Buren, in carica dal 1837, fu comunque costretto a respingere, causa pressioni del Nord, la richiesta del Texas (che nel frattempo, con l’aiuto degli Stati Uniti, aveva ottenuto l’indipendenza dal Messico) di entrare a far parte dell’Unione, ma dall’altra parte ottenne che una prima proposta di annullare lo schiavismo venne bocciata. Era in atto, in quegli anni, una forte crisi economica che fece nascere negli spiriti dei votanti un forte senso di cambiamento, tanto che, nel 1841 nuovo presidente fu eletto William Harrison, del partito dei Whig, un partito nato negli anni trenta che si dichiarava fortemente contrario alla politica pseudo-monarchica di Jackson. Harrison morì un mese dopo la sua elezione ed a lui successe, per la prima volta nella storia degli States, il suo vice: John Tyler. Nei suoi quattro anni di mandato l’azione di maggiore importanza fu l’annessione del Texas all’Unione il 1° marzo 1845, anche vista la minaccia britannica di ambire a quelle terre. A partire da quell’anno iniziò la conquista finale dell’America ai territori che portavano fino all’Oceano Pacifico. Le due questioni più importanti erano quelle Messicana e dell’Oregon. La prima fu risolta dichiarando apertamente guerra al Messico il 13 maggio 1846 sotto il Presidente James K. Polk (seguace di Jackson). Essendo subito chiara l’intenzione dell’Inghilterra di non dare man forte alle deboli truppe messicane, la guerra fu facilmente vinta in un paio d’anni e,

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il 2 febbraio 1848, con un contributo di 15 milioni di dollari, il Messico accettò di firmare la resa in favore degli Stati Uniti, concedendo tutti i territori a nord del Rio Grande (l’attuale confine meridionale del Texas), e a nord del fiume Gila. Nel frattempo era stata risolta con gli inglesi anche la questione dell’Oregon, questa terra a nord-ovest contesa dai due Stati, e venne stabilito che il confine settentrionale degli Stati Uniti avrebbe proseguito per quello già esistente: il 42° parallelo che dal fiume River si legava alle Montagne Rocciose sarebbe stato ancora confine fino alle coste dell’Oceano Pacifico. Se si esclude quel piccolo territorio sottostante al fiume Gila, i limiti politici degli Stati Uniti d’America erano definiti già da allora. Nel 1853 con il cosiddetto “acquisto Godsen” venne acquisito anche il lembo di terra meridionale al fiume Gila, utile per la costruzione della ferrovia, ed allora, almeno da un punto di vista geo-politico, rispetto all’odierna conformazione degli States mancavano solo la regione dell’Alaska e le isole Hawaii. Da un punto di vista sociale, comunque, il Sud non trasse alcun vantaggio dalla vittoriosa campagna Messicana in quanto la Camera dei Rappresentanti aveva espressamente stabilito che in tutti i territori tolti al Messico non sarebbe stata introdotta la schiavitù ed anzi politicamente ne uscì addirittura indebolito in quanto nel 1850 la California, dopo i ritrovamenti auriferi del 1848, chiese di essere ammessa all’Unione come stato non schiavista. Ora il Sud non aveva nessuno stato da contrapporre e anzi dovette accettare anche il bando dello schiavismo nella capitale federale Washington, e per giunta si vide bocciare la famigerata “legge del Kansas e del Nebraska”. Questa stabiliva che nei futuri stati del Nord-Ovest sarebbe dovuta essere la popolazione stessa a decidere se accettare o meno la schiavitù, ma la legge non passò, ponendo il Sud in uno stato di sempre maggiore minoranza e irrigidendo la sua posizione nei confronti del Nord. Bocciare questa legge però non ebbe conseguenze solo sul piano politico-amministrativo, ma anche su quello politico sociale: tutti i partiti si spaccarono e, in nome del diritto alla “sovranità popolare” molti rappresentati dei vari partiti passarono da uno schieramento all’altro, i Whigs cessarono di esistere e al contempo molti Democratici abbandonarono il partito per cercare ambienti non schiavisti: nacque dunque l’attuale “Grand Old Party”, il Partito Repubblicano, in Michigan nel luglio del 1854. La tensione politica divenne tensione sociale al punto che un senatore del Massachusetts venne assassinato durante un dibattito da uno del Sud. Ancora una volta furono le elezioni a portare tutto all’ordine. Dopo i Presidenti Fillmore (Whig, New York in carica dal 1850 al 1853) e Pierce (Democratico, New Hampshire, 1853-1857), fu la volta di James Buchanan, anche lui Democratico, che vinse le elezioni con quattordici stati schiavisti e cinque non schiavisti dalla sua parte. Lo strappo finale, l’ultimo passo prima della Secessione avvenne un anno dopo quando lo schiavista Taney, presidente della Corte Suprema si pronunciò sul caso Dred Scott, nel quale si doveva decidere se uno schiavo una volta raggiunto uno Stato non schiavista, avesse effettivamente raggiunto anche la libertà. A nome dell’intera Corte Taney dichiarò che i “negri” erano considerati una proprietà e che come tale andavano tutelati, ma che, in quanto tali, non avevano alcun diritto legale. In questo modo, piegandosi al volere degli schiavisti, aveva aggirato sia il Compromesso del Missouri del 1820 che quello del Kansas e del Nebraska del 1850 poiché la proprietà, in quanto sottoposta costituzionalmente alla sovranità popolare, non poteva essere definita libera. L’abolizione stessa dello schiavismo, da quel punto di vista, era anticostituzionale. Ma ancor più sconsiderato fu il tentativo dal parte del Sud di far entrare nell’Unione il Kansas come stato schiavista (tentativo fallito tra l’altro) contro la volontà della sua popolazione. Quest’atto gettò discredito sul Governo e spianò la strada ai Repubblicani per la vittoria alle elezioni successive, quelle del 1860, in cui candidarono Abraham Lincoln. In questi anni entrarono a far parte dell’Unione 10 nuovi stati: l’Arkansas, il Michigan, la Florida, il Texas, l’Iowa, il

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Wisconsin, la California, il Minnesota, l’Oregon e il Kansas, per un totale di 34 più il District Of Columbia. Date Citate: 1819 – Il Missouri entra a far parte dell’Unione come Stato schiavista, il Maine come Stato non schiavista 1820 – Compromesso del Missouri 1828 – Viene emanata la “legge sui dazi” che impone agli stati alti costi di commercio con l’estero 1828 – Andrew Jackson (Democratico, Tennessee) viene eletto come settimo presidente degli Stati Uniti 1832 – Andrew Jackson viene rieletto Presidente 1837 – Martin Van Buren (Democratico, New York) viene eletto ottavo presidente degli Stati Uniti 1841 – William Harrison (Ohio, Whig) è il nono presidente degli Stati Uniti 1841 – John Tyler (Virginia, Whig) è il decimo presidente degli Stati Uniti

1° Marzo 1845 – Annessione del Texas 1845 – James K. Polk (Democratico, Tennessee) è l’undicesimo presidente degli Stati Uniti 13 maggio 1846 – Viene dichiarata guerra al Messico 1850 – La California chiede ed ottiene di essere annessa all’Unione come stato non schiavista 1854 – Viene bocciata la “legge del Kansas e del Nebraska” che conferiva ai cittadini di futuri stati nascenti di decidere se avere o meno la schiavitù Luglio 1854 – Nasce il Partito Repubblicano 1856 – James Buchanan (Democratico, Pennsylvania) è il quindicesimo presidente degli Stati Uniti 1860 – Abraham Lincoln (Repubblicano, Illinois) è il sedicesimo presidente degli Stati Uniti, il primo Repubblicano

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Guerra civile e ricostruzione

(1860-1877)

Di fronte alla sconfitta elettorale il Sud per continuare a tutelare i propri interessi non aveva altra scelta che la Secessione. Il pretesto lo ebbe il 20 dicembre 1860 quando la Carolina del Sud annunciò il suo ritiro dall’Unione (il motivo era lo stesso di quello dell’era della Nullification Crisis). Tutti gli sforzi di vanificare tale decisione furono vani e per giunta altri dieci stati seguirono l’esempio della Carolina del Sud, anche se in tempi diversi: il Mississippi, la Florida, l’Alabama, la Georgia, la Louisiana, il Texas, la Virginia, l’Arkansas, il Tennessee e la Carolina del Nord, per un totale di 11 Stati secessionisti, che elessero addirittura un proprio presidente, Jefferson Davis del Mississippi. Allora il presidente Lincoln per verificare l’effettiva gravità della cosa decise di fare un esperimento a Fort Sumter, situato in Carolina del Sud. Se la Carolina avesse consentito al rifornimento da parte della marina federale allora la secessione non sarebbe stata un fatto, ma la Carolina aprì il fuoco sulle navi dell’Unione e, il 12 aprile 1861, dava effettivamente inizio alla Guerra di Secessione (o Civile) Americana. Questa viene considerata ad oggi come l’ultima guerra napoleonica e la prima guerra moderna, in quanto combattuta sul campo ma con armamenti numericamente imponenti e d’avanguardia; un conflitto che alla fine conterà oltre un milione vittime fra morti e feriti. Come premessa va detto anche che il Delaware, il Maryland, il Kentucky e la parte nord-occidentale della Virginia (che diventerà Virginia Occidentale) decisero di non schierarsi in favore degli stati del Sud, che unitisi sotto un’unica bandiera si facevano ora chiamare Confederazione (CSA). Fu anche in virtù di questi Border States e delle loro comunque innegabili simpatie schiaviste che Lincoln non si espresse mai troppo apertamente nei confronti dell’abolizione della schiavitù durante la guerra, per paura di perderli. Fu una guerra di principi quindi, ma fu soprattutto una guerra di squilibri: almeno inizialmente il Sud aveva generali e strategie forti e vincenti, ma soprattutto non aveva bisogno di dover invadere o avanzare per conquistare qualcosa, bastava mantenere i propri territori e le proprie indipendenze. Nonostante potesse contare su un’ottima industria produttrice di materie prime, armi, rifornimenti, il Nord era guidato da generali incapaci alla conquista di terre che virtualmente già possedeva, al punto che per avere una guida forte e carismatica Lincoln chiese addirittura a Garibaldi di prendere il comando di alcune truppe. Garibaldi rifiutò perché era suo unico intento combattere per l’abolizione della schiavitù, non per la riunificazione di uno stato che, dopo aver ottenuto l’unità d’Italia, non era di certo il suo; pretendeva inoltre il comando supremo dell’esercito Americano e il compito di dichiarare ufficialmente l’abolizione della schiavitù in ogni Stato che avrebbe conquistato, compiti che Costituzionalmente potevano appartenere solo al presidente, quindi non se ne fece nulla. Almeno nella testa i Confederati partivano avvantaggiati: il Nord per vincere doveva occupare il Sud, al Sud per vincere bastava non perdere. La prima battaglia, infatti, fu vinta dai sudisti del geniale generale Lee il 21 luglio 1861 a Bull Run in Virginia, e per tutta la prima metà del conflitto il Sud riuscì ad occupare una posizione di supremazia grazie soprattutto al fatto che in quelle terre era forte la cultura di possedere un’arma per la propria difesa personale e di educare i figli alla vita militare. Questo stile di vita nacque e si sviluppò anche in virtù del fatto che al Sud si erano trasferiti una grande maggioranza di veterani delle guerre del 1812-1815 contro l’Inghilterra, di quella Texano-Messicana e di quella Americano-Messicana, tantoché prima della secessione la Virginia era lo stato che forniva più unità all’esercito regolare

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statunitense. In seguito a questa sconfitta fu subito chiaro all’esercito dell’Unione che il conflitto andava spostato nel cuore della Confederazione, in Tennessee, alfine di spezzarla in due. La strategia risultò vincente in quanto l’esercito del Nord marciò ad est del Mississippi verso il Tennessee e quello del Sud, sentendosi braccato, gli si fece contro (era il 1862-1863), ottenendo anche importanti vittorie come quella del 1862 ad Antietam in Maryland, ma fallendo nel momento decisivo. Nonostante un entusiasmo maggiore, migliore preparazione e generali migliori, il Sud optò troppo pesantemente per la tattica dell’attesa, del non-attacco, perché confidava nello sfiancare il Nord finché non fosse intervenuto qualche stato europeo, a legittimarne l’indipendenza. Così facendo però, fece soltanto il gioco del Nord, che nel frattempo riuscì ad organizzare esercito e strategie sempre migliori, con i suoi grandi industriali e capaci ingegneri che poterono sviluppare nel tempo che avevano a disposizione nuovi armi, strategie e vie di comunicazioni, edifici. All’epoca l’esercito del Nord usava il miglior fucile al mondo e per la prima volta nella storia si videro in campo treni blindati, mitragliatrici a ripetizioni, e sottomarini. Quando poi il generale Grant prese la guida dell’esercito anche i nordisti poterono contare su un abile condottiero, ed il più era già fatto. Il 1° luglio 1863 l’esercito confederato varca i confini della Pennsylvania e presso Gettysburg ingaggiando con l’esercito dell’Unione una dura battaglia che durò ben tre giorni, costando all’esercito del Sud 28.000 vittime (un terzo di tutto l’arsenale) e quindi un’obbligatoria ritirata verso la Virginia. I Nordisti, al seguito del generale Ulysses S. Grant presero possesso di Vicksburg, Mississippi, luogo di importanza strategica fondamentale, e allora rimase solo da concentrarsi sul Tennessee per dare il colpo di grazia al Sud, accerchiandolo da ovest verso le terre più orientali della Georgia, Carolina del Sud, Virginia. L’esercito dell’Unione riuscì ad espugnare e conquistare Chattanooga in Tennessee, da dove il generale Sherman mosse con 100.000 unità ai suoi ordini verso Atlanta, che cadde definitivamente il 2 Settembre 1864. Anziché inseguire le truppe degli stati del Sud Sherman decise di effettuare saccheggi per tutto il territorio conquistato in modo da lasciare il nemico senza provvigioni. Dalla limitrofa Savannah, nel febbraio 1865 la spedizione mosse verso nord e poco dopo un mese più tardi anche la Carolina del Sud era conquistata, e a distanza di trenta giorni appena, questa volta in Virginia, l’esercito del generale Lee capitolò di nuovo nei pressi di Appomattox Court House. Era il 19 aprile del 1865 e la Guerra Civile Americana era terminata, quattro anni e qualche giorno dopo il suo inizio, con la vittoria degli Stati dell’Unione. Il Nord aveva vinto la guerra prima di tutto in forza di un esercito migliore, meglio addestrato e numericamente più ingente, e soprattutto in quanto aveva a disposizione una ben fatta rete ferroviaria a differenza del Sud che privo di buone infrastrutture urbane e industriali, non era in grado di mobilitare tutte le risorse necessarie alla guerra nella maniera più consona. Il Sud aveva inoltre la possibilità di utilizzare i neri anche fra i propri ranghi (ne erano più di quattro milioni) ma preferì attribuire loro compiti molto più banali come quelli di far da guardia alle terre e alle proprietà, mentre le famiglie perdevano il loro unico cavallo, la loro unica forza lavoro maschile. Il Sud aveva finanziato la guerra con la stampa di nuova carta moneta creando così un’incredibile inflazione, e ciò non fece altro che danneggiare la forza e lo spirito delle famiglie più povere, quelle che erano in guerra. Per rendere bene l’idea, basti pensare che nel 1864 circa la metà dei componenti dell’esercito Sudista aveva abbandonato le armi per tornare al proprio lavoro, passando per cittadini sleali all’epoca, ma giustificandosi con fatto che quella fosse ormai diventata una guerra dei ricchi, non del popolo. Un ulteriore motivo determinante la sconfitta del Sud fu il fatto che non poté contare su un valido appoggio straniero; ma altrettanto bravo fu il Nord a bloccare l’accesso a tutti i porti della East-coast almeno fino al 1863, quando fu chiaro che il Sud non aveva più speranze di vincere e quindi ogni Nazione intenzionata ad intervenire in suo favore ripiegò sui propri passi ancor prima di allestire delle truppe.

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Ma all’evidente demerito del Sud va accompagnato l’altrettanto importante merito del Nord e del suo presidente, Lincoln, nel non scendere mai a compromessi e nel combattere sempre una guerra di ri-conquista, non di sterminio, senza mai far trapelare direttamente l’idea di voler porre fine alla schiavitù alla fine del conflitto, per non inimicarsi i favori dei Border States. Un decreto venne comunque emanato il 1° Gennaio 1863 da quale scaturì la cosiddetta Emancipation Proclamation, in virtù della quale la liberazione del neri diveniva effettiva negli stati dell’Unione e veniva discussa la riorganizzazione del Sud al termine della guerra. A questa seguì la dichiarazione del 10 novembre 1863, a seguito della battaglia di Gettysburg (verrà denominata infatti il Gettysburg Address), nella quale Lincoln dichiarò in maniera diretta e semplice che il governo del popolo non sarebbe mai cessato di esistere e dando così all’Europa, con queste due azioni, un forte segnale di apprezzamento da parte del Nord dei valori morali universali. Qualche mese dopo, l’8 aprile 1864, il Senato approva il XIII emendamento alla Costituzione che dava, di fatto, la libertà a tutti gli schiavi d’America. La guerra civile quindi pose fine alla schiavitù negli Stati Uniti, ma non ai rapporti che intercorrevano fra le razze. Il ruolo degli stati dell’Unione venne ridefinito e venne ufficialmente sepolta la dottrina di diritto di annullamento delle leggi federali che aveva portato la Carolina del Sud alla secessione. Lo Stato, o meglio la Federazione, era diventato intoccabile. Rimasero attivi e rappresentati soltanto due partiti: quello dei Democratici che fu chiaramente uno partito del Sud ma soprattutto un partito di minoranza – almeno fino all’elezione di Roosevelt nel 1933 – e dall’altra parte i Repubblicani di chiare simpatie nordiste. Finita la guerra, ebbe inizio la Reconstruction. Non avvenne nessun cambiamento territoriale, se non il distaccamento della Virginia Occidentale, e, anche se il Nord occupò militarmente il Sud, non volle mai farlo con l’intento di alterare l’equilibrio interno di quelle parti ma allo scopo di farlo progredire in favore di tutta l’Unione e quindi, in primis, del Nord. Con la ratifica da parte di quasi tutti gli stati del tredicesimo emendamento a fine 1865, i neri furono liberati dalla condizione di schiavi, ma solo da un punto di vista legale ovviamente, non certo nella mente degli americani. A posteriori, si può dire che la Reconstruction abbia fallito sotto alcuni aspetti proprio per questo motivo: dopo averli liberati i neri non ottennero alcun diritto sul piano sociale, ed i fautori dell’emancipazione se ne disinteressarono. Sul piano materiale della ricostruzione, bisogna far notare che nel dicembre del 1863 Lincoln aveva emanato la Proclamation of Amnesty and Reconstruction che concedeva l’amnistia a tutti coloro che dopo la guerra avessero giurato fedeltà all’Unione e alla Costituzione degli USA e si fossero impegnati a liberare i propri schiavi. Uno stato occupato poteva darsi un nuovo Governo e rientrare a far parte dell’Unione e già nel 1864 la Louisiana e l’Arkansas, sicure di una sconfitta imminente, iniziarono a gettare le basi per la creazione di un nuovo collegio che potesse rappresentarle in Parlamento. Giunto quasi alla fine del suo mandato, ma non ancora alla fine della guerra, il Presidente Lincoln venne assassinato il 14 aprile 1864 al Ford’s Theatre di Washington da un attore della Virginia simpatizzante sudista, che lo uccise sparandogli alla testa al grido del motto “Sic Semper Tyrannis” (così sempre per i tiranni). A Lincoln successe un altro presidente Repubblicano, Andrew Johnson, che si definì sin da subito intenzionato a proseguire la politica di conciliazione attuata da Lincoln, ma essendo di orientamento politico simpatizzante Sudista finì per inimicarsi i Repubblicani radicali e i sudisti allo stesso tempo, non potendo condividere appieno le idee di entrambi. Sin da subito dovette scontrarsi con le cosiddette Black Codes. Queste erano leggi varate in maniera statale o locale in alcune parti del Sud che sottoponevano gli ex schiavi a discriminazioni e duri trattamenti, negando loro diritti che invece erano ovvi per i bianchi, e si basavano principalmente sulla segregazione razziale mirando, fondamentalmente, a tenere i bianchi da una parte ed i neri da un’altra all’interno della stessa realtà sociale. Assieme a queste col passare dei mesi divenne

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evidente che molti Stati stessero riorganizzando le proprie rappresentanze dando cariche di alto livello a personaggi che erano stati protagonisti della secessione o comunque grandi ammiratori dello schiavismo. Urgeva quindi il rafforzamento del potere federale del Congresso e vennero per questo emanate due leggi che dapprima si riservavano di riaccettare gli ex stati confederati solo quando sarebbe stato chiaro che non si sarebbe potuto ritornare ad una situazione simile a quella del 1860 ed in secondo luogo salvaguardavano la tutela e disegnavano un piano di sostentamento per tutti i cittadini meno fortunati (neri e bianchi poveri) in egual misura in maniera da annullare le Black Codes. Johnson si oppose fermamente all’approvazione di queste due leggi approfondendo così il solco già esistente fra sé e il Congresso tanto da essere indotto a dichiarare che avrebbe creato un nuovo partito composto solo da Democratici e Repubblicani di destra. Nonostante tutto il Congresso riuscì a far approvare il quattordicesimo emendamento alla Costituzione che per la prima volta parlava di cittadinanza americana e poneva tutti i cittadini americani sullo stesso piano giuridico e legislativo. Johnson si oppose anche a questo emendamento ma vedendosi sconfitto lasciò praticamente nelle mani dei Repubblicani radicali l’intero controllo del Governo e di tutta la politica statunitense. La politica della Reconstruction prevedeva la presenza militare dell’esercito dell’Unione nelle regioni sudiste al fine di controllare, riorganizzare, sviluppare; il Sud fu diviso in cinque regioni che erano controllate da cinque distretti militari. Il primo compito dell’esercito fu quello di far eleggere nuove commissioni costituzionali, permettendo anche ai neri di votare, commissioni dalle quali erano esclusi tutti gli ex componenti di spicco della Confederazione. Per essere riammesso nell’Unione uno stato doveva avere il consenso dei due terzi della popolazione maschile, ed accettare il quattordicesimo emendamento. Vedendo la continua ostilità del presidente Johnson il Congresso decise di sottoporlo allo stato d’accusa per abuso d’ufficio e solo per un voto non si raggiunse la maggioranza per far avviare il processo di impeachment nei suoi confronti, più per evitare nuovi contrasti a livello sociale che per un effettivo scagionamento dell’accusato. Finito il mandato di Johnson, iniziò quello di Ulysses S. Grant, Repubblicano, che riuscì a far addirittura peggio del suo predecessore, non tanto per le decisioni che prese ma più che altro per essere stato spesso associato a storie di corruzione e tangenti da parte sua e dei suoi subordinati. D’altra parte, egli fu molto docile nei confronti del Congresso e si oppose raramente. Durante il suo mandato, dunque, i principi secondo i quali doveva essere effettuata la Reconstruction non videro concretezza: le promesse di sovvenzioni territoriali o economiche ai neri e ai bianchi poveri non vennero mantenute, ne venne fatto nulla per contrastare le inaudite violenze di certi ceti sociali di bianchi nei confronti dei neri; ma riuscì comunque a far passare il quindicesimo emendamento alla fine del suo mandato, nel 1869, che concedeva ai neri maschi il diritto al voto. Un presidente inetto, e la scomparsa di impegno politico da parte di molti radicali fece si che il Governo perdesse sempre più potere nell’amministrazione del Paese, e questo andò tutto a giovamento dei ricchi capitalisti del Nord e dell’élite conservatrice del Sud, che non aveva mai cessato di esistere davvero. Con l’abbandono della supervisione militare si ottenne, formalmente, la fine della Reconstruction, che in realtà non aveva apportato nulla dei grandi cambiamenti sperati. Tutti gli stati del Sud vennero riammessi nel 1870 e, pare, che per porre fine alla Reconstruction i Democratici di Tilden vincitori delle elezioni del 1876 concessero il Governo ai Repubblicani di Hayes per ottenere in cambio la piena autonomia agli stati del Sud ed il ritiro definitivo delle truppe militari da quelle zone. Il pretesto fu la contestazione dei voti della Carolina del Sud, della Florida e della Louisiana che politicamente erano in mano ai Repubblicani i quali facendo leva su questa loro influenza riuscirono a mascherare l’accordo.

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Durante questi anni entrarono a far parte dell’Unione quattro nuovi stati: la Virginia Occidentale, il Nevada, il Nebraska e il Colorado, per un totale di 38 Stati indipendenti appartenenti all’Unione più il District Of Columbia. Date Citate: 20 dicembre 1860 – La Carolina del Sud annuncia il suo ritiro dall’Unione, seguiranno il suo esempio altri 10 Stati. 12 aprile 1861 – Sparatoria di Fort Sumter, ha inizio la guerra di secessione. 21 luglio 1861 – Il Sud vince la battaglia di Bull Run, Virginia 17 settembre 1862 – Il sud vince la battaglia di Antietam, Maryland 1° Gennaio 1863 – L’Emancipation Proclamation 1° luglio 1863 – Ha inizio la battaglia di Gettysburg in Pennsylvania, che sarà vinta dal Nord 10 novembre 1863 – Lincoln pronuncia il Gettysburg Address Dicembre 1863 – Lincoln emana la Procalmation of Amnesty and Reconstruction 08 aprile 1864 – Il senato approva il XIII emendamento che da di fatto la libertà ai neri d’America.

1864 – Il Nord conquista Chattanooga, Tennessee 02 settembre 1864 – Il nord conquista Atlanta, Georgia Marzo 1865 – Il nord vince e conquista la Carolina del Nord 19 aprile 1865 – Con la vittoria di Appomattox il Nord conquista anche la Virginia e pone fine alla guerra 1865 – Con il tredicesimo emendamento della Costituzione gli schiavi diventano liberi 1865 – Andrew Johnson (Repubblicano, Tennessee) è il 17° presidente degli Stati Uniti 1869 – Ulysses S. Grant (Repubblicano, Illinois) è il 18° presidente degli Stati Uniti 1869 – Il quindicesimo emendamento riconosce ai neri maschi il diritto al voto 1870 – Gli stati del Sud vengono riammessi nell’Unione 1876 – Rutherford B. Hayes (Repubblicano, Ohio) è il 19° presidente degli Stati Uniti

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L’ascesa a potenza mondiale

(1877-1898)

Il ventennio successivo alla Reconstruction fu quello che, di fatto, consegnò all’America l’egemonia economica mondiale. Va premesso che nonostante l’ufficializzazione dell’emancipazione dei neri, questi non erano effettivamente più sottoposti alle leggi schiaviste, ma dovevano comunque continuare a fare i conti con quelle razziali. Se il Nord si era sempre prostrato per abolire la schiavitù, da un certo punto di vista era sempre stato più razzista addirittura del Sud, considerando i neri come cittadini liberi, certo, ma sicuramente diversi, di ceto inferiore, e come tali andavano considerati. Si arriverà addirittura a stabilire l’assurdo status di “separate but equal”, con una sentenza della Corte Suprema del 1896. Nacquero in quel periodo le cosiddette Leggi Jim Crow, che vennero applicate in maniera statale o locale dal 1876 al 1965, e che stabilivano fondamentalmente la segregazione razziale dei neri e di altre comunità razziali per quanto riguardava tutti i servizi pubblici (scuole, mezzi di trasporto, locali e ristoranti, addirittura l’esercito), fino alla negazione sistematica del loro diritto di voto. Valeva per i neri come per gli indiani d’America che, se fino a quel punto venivano semplicemente confinati in riserve esterne alla sempre più allargata border line del confine degli States, ora con la corsa all’oro e la conquista del West vedevano i loro spazi vitali, le loro riserve, sempre più compromessi e sempre più dipendenti dalle sovvenzioni statali. Scoppiarono delle guerre fra indiani e americani (1865-1878) che terminarono con la vittoria di questi ultimi, la segregazione completa dei nativi in zone del tutto inadeguate e fuorimano e lo sterminio quasi totale dei bufali. Quello che rimase della vita indiana fu soltanto il folklore commercializzato dai bianchi e una popolazione che rispetto a duecento anni prima risultava più che decimata. Alla decadenza forzata delle società di colore e indiane si contrapposte il risplendere di quella bianca. Con l’intelligente decreto del 1862, l’Homestead Act, veniva data ad ogni famiglia americana che avesse pagato una tassa di 10$ la possibilità di acquistare 160 acri di terra (circa 64 ettari), a condizione però di stabilirsi nella zona corrisposta e coltivare gli appezzamenti ricevuti per almeno cinque anni. Dalla fine della guerra al 1900 si avvalsero di questa opportunità circa 600.000 famiglie, per un totale di 2,5 milioni di americani che, accompagnati dai valorosi avventurieri che cercavano l’oro o da coloro che volevano semplicemente distaccarsi dagli stili di vita dell’est, contribuirono rapidamente ad un popolamento quasi totale anche di tutta la zona occidentale del Paese. Questi nuovi farmers non solo videro un’opportunità per loro di cambiare tenore di vita, ma contribuirono in maniera imponente allo sviluppo dell’industria della carne e della lavorazione della frutta e dei prodotti della terra, dando una spinta non indifferente all’economia interna, e, soprattutto, fecero si che nel 1900 tutte le zone ad ovest delle Montagne Rocciose, escluse l’Oklahoma, il New Mexico e l’Arizona, ottenessero di entrare a far parte dell’Unione come Stati. Ma non fu solo agricoltura. Lo spostamento di grandi masse intendeva anche un rapido ed obbligatorio sviluppo dei mezzi di trasporto, ferrovie in primis, che nel 1880 percorrevano distanze pari a quelle delle reti ferroviarie di tutta l’Europa, Russia asiatica inclusa. Il governo favorì la vendita o la cessione di territori ai costruttori e ricevette in cambio la possibilità di trasportare truppe militari, prodotti postali e servizi governativi a tariffe particolari, si realizzò che la ferrovia diventava indispensabile per collegare le zone rurali alle grandi città, quelle di produzione agraria alle industrie di lavorazione

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dei prodotti e con lo sviluppo di queste ebbe un’impennata anche il proliferare delle industrie pesanti, dell’acciaio, del ferro e dell’estrazione carbonifera. Questa situazione di forte crescita industriale favorì la nascita dei primi grandi cartelli, e la mitizzazione dell’inventore, che diventava ogni volta l’eroe del giorno. Thomas Alva Edison era uno di questi e si ricordano, fra le innovazioni da lui introdotte, il perfezionamento della lampadina, l’invenzione della macchina per stampare e della sedia elettrica. L’America dunque finanziava e sosteneva il progresso tecnologico, per il quale divenne rapidamente la nazione più avanzata, e fu proprio per questo che in quelle terre videro la luce invenzioni più o meno trascendentali, ma sicuramente utili alla vita quotidiana che diventava sempre più frenetica e a quella lavorativa, che richiedeva sempre più supporti per gestire e velocizzare le comunicazioni: il telefono, la macchina da scrivere, il registratore di cassa, la macchina compositrice e anche la calcolatrice erano tutti brevetti Made in USA. Per quanto riguarda i primi grandi commercianti e le loro imprese va comunque detto che queste poterono avere campo libero dopo le varie crisi che accompagnano ogni era di benessere, crisi che a fronte di una concorrenza già spietata e dei conseguenti prezzi bassissimi, facevano fuori le piccole imprese dando terreno a quelle già ben piazzate. Non si può dunque non citare, fra gli altri, John D. Rockefeller, che diede vita alla maggiore raffineria di petrolio al mondo arrivando a controllare quasi il 90 percento del commercio del settore e raggiungendo secondo molte riviste del settore la posizione dell’uomo più ricco di tutti i tempi, anche ad oggi. Con un impero commerciale del genere, comunque, anche altri settori ne beneficiavano, come quello dei trasporti, della navigazione, delle comunicazioni, dello smaltimento fino alla piccola distribuzione. Assieme a lui altre famiglie, come quella dei Carnegie nel campo delle industrie siderurgiche, dei Morgan in quello degli istituti di credito e degli Swift accumularono grandi fortune, partendo talvolta dal nulla e coronando a pieno quello che allora iniziava a prendere la forma del sogno americano. In quel periodo iniziarono ad avere buoni riscontri anche le prime catene di negozi e supermercati, e comunque qualsiasi attività, se ben gestita, poteva portare grandi somme di denaro a chi ne era a capo. Era l’età dell’oro, la Gilded Age. Ma come fu possibile per l’America aver raggiunto e di gran lunga superato, in soli trent’anni, lo sviluppo industriale dell’Europa intera? Prima di tutto bisogna considerare le regole del ristretto mercato interno americano, interdipendente si col resto del mondo, ma sempre ben attento a non farsi contaminare negativamente da fattori esterni grazie all’utilizzo di dazi molto austeri, accompagnato dal sempre maggiore interesse che grandi capitalisti stranieri concedevano alla possibilità di piazzare le proprie fabbriche in territorio statunitense riversando, quindi, quivi infinite quantità di capitali; ed inoltre non va tralasciato il fattore non indifferente che il Governo centrale così come i vari stati concedessero di buon grado terreni e locazioni a prezzi ragionevoli, se notavano che se ne poteva ottenere un ritorno in termini prettamente economici. Nulla di tutto ciò era possibile in Europa. Anche se questo periodo segnò profondamente l’intera nazione in maniera positiva, è quasi scontato dire che interessò quasi esclusivamente il Nord. Il Sud stava ancora leccandosi le ferite della guerra, e doveva gestire la ricostruzione autonoma che aveva richiesto e ottenuto, mentre l’80% dei prodotti lavorati in America veniva dal nord-est e l’Ovest era una forte regione produttrice di materie prime. Ma nonostante questo evidente handicap, il PIL dell’Unione crebbe per trent’anni del 4% ogni anno. Ma non era solo oro. Molti immigrati disperati in terra natia decisero di migrare nel nuovo mondo per avere fortuna, si conta che dal 1865 al 1920 circa 30 milioni di persone sia giunto negli USA dall’Irlanda, la Germania, la Russia, Gran Bretagna, Austria-Ungheria e Italia che, sommati alla popolazione americana già di per se raddoppiata grazie allo sviluppo, portavano i residenti all’esorbitante cifra per l’epoca di circa cento milioni di abitanti. Gli immigrati, assieme ai neri,

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sebbene portassero manodopera a buon mercato non erano sempre benvenuti e accettati. Si creò una mescolanza di lingue, razze e religioni oltre che di etnie e presto non divenne difficile capire che i più salariati erano comunque gli Americani, adulti, maschi, bianchi, protestanti. Anche le donne ed i bambini lavoravano, e anche se americani non guadagnavano tanto quanto un uomo adulto. Queste diversità fecero nascere i primi sindacati e diedero vita ai primi scioperi (che a fine secolo furono più di 25.000), ma nulla cambiò mai veramente. I movimenti operai tentarono in vano di far sentire la propria voce arrivando addirittura allo scontro armato nel 1886 a Chicago dove la polizia uccise due scioperanti e, successivamente, all’impiccagione di quattro dimostranti rei di aver lanciato una bomba che fece sette vittime. Mentre la maggior parte dell’America riteneva queste persone adepti del cosiddetto “radicalismo operaio”, il Partito democratico riuscì a tornare alla ribalta acquisendo il consenso di molti lavoratori schierandosi apertamente dalla loro parte, riuscendo a piazzare addirittura un presidente per due volte in parlamento (Grover Cleveland nel 1885 e nel 1893) e grazie soprattutto al suo rappresentante alle elezioni del 1896, William Jennings Bryan, che in forza del discorso più celebre che sia mai stato tenuto in una convenzione di partito americano riuscì a guadagnare le simpatie di molti aventi diritto al voto delle classi inferiori. Richiamandosi a Johnson egli si schierò apertamente contro una politica che rendeva i ricchi ancora più ricchi a discapito delle masse che lottavano ogni giorno per la sopravvivenza. Le elezioni del 1896 rappresentarono dunque il picco più alto della Gilded Age con tutte le sue contraddizioni: da un alto vi erano i ricchi plutocrati forti di una macchina politica che li appoggiava che non volevano alcun cambiamento, dall’altro un vago insieme di idee riformistiche che sventolavano aria di novità. Vinse McKinley, repubblicano, (verrà assassinato da un anarchico polacco all’inizio del suo secondo mandato, nel 1901) con uno scarto di mezzo milione di voti, trovando il successo nei 22 stati del Nord e dell’Est mentre Bryan riuscì ad avere la meglio nei 21 stati del Sud e dell’Ovest. Tanta meraviglia in casa propria portò molti americani a guardare oltre: il continente era stato conquistato praticamente ovunque fin dove era conquistabile, l’Alaska era stata acquistata dai russi nel 1867 per sette milioni di dollari e vennero intavolate delle trattative dapprima prettamente commerciali con le Hawaii. Il governo statunitense aveva aperto il mercato ai paesi aldilà del Pacifico che sembravano sempre più “vicino Ovest” che “lontano Est” e l’oceano un Mare Nostrum. A fronte di tanta grazia, gli animi della gente iniziarono ad intravedere, magari in maniera anche solo atavica, una possibilità espansionistica reale e di conseguenza anche in quegli anni di apparente serenità l’America non perse occasione per dichiarare guerra a qualcuno quando, il 25 aprile 1898 lo fece nei confronti della Spagna. Questa decisione aveva radici molto antecedenti e se ne può identificarne l’inizio una ventina di anni prima, 1868, quando Napoleone III si ritirò da Messico dando all’opinione pubblica americana un valido motivo per poter concepire la seria possibilità di potersi espandere commercialmente e territorialmente. Vennero stipulati molti accordi con Cuba e Puerto Rico, Messico, Santo Domingo, le isole britanniche delle Indie Occidentali, la Colombia, oltre alle già citate Hawaii, e iniziarono a riecheggiare i valori della dottrina Monroe, questa volta però in un contesto globale. Gli USA volevano avere voce in capitolo nelle faccende che riguardassero il continente americano, l’Oceano Pacifico e i territori presenti nel loro raggio d’interesse commerciale ed in cambio davano sicurezza negli scambi e protezione militare, così come successe nelle guerre indipendentiste Hawaiane del 1893 nelle quali l’esercito americano depose il governo e istituì in quelle isole la Repubblica. Sebbene la successiva proposta di annettere le isole agli stati dell’Unione fu bocciata al Senato, questa fu rivalutata qualche anno dopo quando ci si rese conto dell’importanza strategica che questi luoghi avevano per le operazioni commerciali e militari del Pacifico. In virtù di quanto detto, per tornare al discorso della guerra alla Spagna, l’Unione sentì il bisogno di aiutare Cuba nella sua lotta d’indipendenza

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dall’Impero iberico che oramai vedeva solo in quest’isola e in quella di Puerto Rico gli ultimi suoi bastioni di un regno oramai sgretolato, e intervenne posizionando una nave da guerra, la Maine, nel porto dell’Avana nel gennaio del 1898 come atto di solidarietà umanitaria ai miliziani cubani che dovevano lottare contro le barbarie degli spagnoli. La nave esplose per cause allora sconosciute il 15 febbraio dello stesso anno causando la morte di 266 marinai e portò il Congresso americano ad assumere un atteggiamento sempre più ostile nei confronti della Spagna dichiarando dapprima l’indipendenza di Cuba il 19 aprile 1898 e poi guerra alla Spagna il 25 aprile. Paradossalmente, a guerra terminata, si scoprì che la Spagna non ebbe nessuna responsabilità nell’incidente alla Maine, ma questo ovviamente all’epoca fu soltanto un ottimo pretesto. Per quanto non fosse militarmente pronta a guerreggiare, l’America vinse il conflitto (successivamente chiamato “splendid little war”, splendida guerretta) in soli 113 giorni con due vittorie nelle Filippine, dove la marina statunitense sconfisse quella della Spagna nella baia di Manila, e a largo di Cuba a fine giugno, per poi invaderla, e costringere la Spagna a firmare il trattato di pace alla Casa Bianca, il 12 agosto. Dalle nuove disposizioni la Spagna dichiarava Cuba indipendente e cedeva Puerto Rico, Guam e le Filippine agli States. Gli Stati Uniti erano diventati, dopo soli duecento anni di storia, una potenza coloniale nata da una serie di colonie ed ora gestiva una specie di impero che andava dall’Atlantico all’Asia. A differenza di quanto successo in molti altri Stati nei secoli precedenti, però, una grande quantità della popolazione non accettava questa politica imperialista e nacque addirittura una lega che si batteva contro di essa: la Anti-Imperialist League. D’altro canto, mentre altri stati come le Filippine, non accettavano il dominio statunitense (vedi le guerre filippino-americane del 1898-1902), altri territori come quello di Puerto Rico strizzavano l’occhio ad un’ipotetica annessione, al punto che l’isola venne dichiarata territorio americano e i suoi cittadini ottennero la cittadinanza nel 1917. Tuttavia una politica espansionistica non vide mai una vera e propria realizzazione pratica, a vantaggio di una più liberare Open Door Policy che invece di annessioni territoriali vere e proprie favoriva accordi ecomico-commerciali con gli stati di interessi e un accesso sicuro da parte degli Stati Uniti ad un mercato libero e vantaggioso, che non fece altro che rafforzare la già ingente presenza degli States nell’ambito dei traffici commerciali mondiali. Dal 1877 al 1898 quattro nuovi stati divennero membri dell’Unione e per la precisione: Dakota del Nord e Dakota del Sud, Montana e Washington, Idaho, Wyoming e Utah per un totale di 45 stati uniti e indipendenti ai quali andava aggiunto il distretto federale della Columbia. Date citate: 1862 – Lincoln emana l’Homestead Act 1865-1878 – Guerre fra nativi e americani 1867 – Acquisto dell’Alaska dalla Russia 1876 – Vengono emanate le Leggi Jim Crow 1896 – William McKinley (Repubblicano, Ohio) è il 25° Presidente degli Stati Uniti Gennaio 1898 – La Maine viene ormeggiata a L’Avana 15 febbraio 1898 – La Maine viene fatta esplodere

19 aprile 1898 – Il Congresso dichiara Cuba indipendente 25 aprile 1898 – Il Congresso dichiara guerra alla Spagna 12 Agosto 1898 – La Spagna firma la resa concedendo l’indipendenza a Cuba e cedendo Puerto Rico, Guam e le Filippine agli USA 1901 – Il Presidente McKinley viene assassinato

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Riforma e reazione

(1898-1932) L’ascesa a potenza mondiale aveva comunque messo in luce le storiche contraddizioni del Paese: la voglia di continuare per la strada di un più rassicurante stile di vita agrario-classico cozzava sempre di più con quella della novità, del cambiamento, dello sviluppo e delle riforme. Furono soprattutto le prime due decadi del ‘900, quindi, che videro l’affermarsi del cosiddetto movimento Progressista, un movimento che, per definizione, mirava alla promozione dei diritti civili e sociali. Questo era rappresentato dai membri del ceto medio benestante dell’epoca che contava, fra gli altri, scienziati, intellettuali, giornalisti, politici e più generalmente riformatori sociali che però dietro lo scudo di apportare novità risultarono spesso in contraddizione fra di loro e a volte addirittura con le proprie stesse idee. Ben presto infatti il movimento progressista assunse toni sempre più rigidamente morali (in maniera più o meno esasperata) tanto da sfociare in proposte di legge di forte stampo razziale o proibizionistico e arrivando addirittura a trasformarsi nel suo esatto contrario: il conservatorismo. Un forte esponente del primo movimento progressista fu il signor Robert La Follette, che partendo da governatore del Wisconsin riuscì ad arrivare addirittura in senato. Fra le cose buone, comunque, il movimento Progressista (che si basava sulla politica del Riformismo) portò l’introduzione delle elezioni primarie, le quali davano più potere nel decidere della propria politica ai cittadini concedendo loro la possibilità di scegliere i propri rappresentanti alle elezioni. Come conseguenza della rielezione di Theodore Roosevelt nel 1905 (grande progressista), inoltre, si vide l’approvazione del diciassettesimo emendamento alla Costituzione che permetteva l’elezione del Senato da parte dei cittadini e l’abolizione dei trust “cattivi” che danneggiavano la libera concorrenza e l’adeguamento dei costi di vendita dei prodotti, supportata anche dalla nascita, nel 1906, del primo movimento a difesa dei consumatori. Il suo successore – Taft – non venne considerato dallo stesso Roosevelt altrettanto intraprendente, tanto da indurre il partito Repubblicano ad una scissione interna che avrebbe avuto come più grave delle conseguenze la sconfitta alle successive presidenziali del 1913. Roosevelt infatti si candidò in prima persona con la sua “fetta” di repubblicani ma pur ottenendo molti voti non fu in grado di contenere l’inevitabile vantaggio ottenuto dai Democratici di Woodrow Wilson. Nonostante appartenesse ad una fazione politica opposta a quella di Roosevelt, anch’egli si dimostrò fortemente attivo nel campo delle riforme, agevolando soprattutto lo sviluppo della politica bancaria, dei controlli sull’economia ed il sostegno agli agricoltori. Gli anni del Progressismo (essenzialmente 1898-1917), furono anche gli anni della migrazione di forti quantità di persone dall’America rurale a quella urbana. Basti pensare che ad inizio secolo le campagne contavano 46 milioni di abitanti e le città 30 milioni, mentre nel 1917 gli abitanti delle campagne erano diventati 52 milioni e quelli delle città ben 54 milioni. La sola città di New York crebbe di 2.2 milioni di abitanti in soli venti anni. Oltre alla citata migrazione interna non può essere non presa in considerazione quella ovvia, ma sempre più massiccia, da parte di cittadini provenienti principalmente dal sud ed est Europa. Ovunque, ma soprattutto nelle grandi metropoli, crescevano comunità e nuovi quartieri di italiani, ebrei, cinesi, neri e messicani che spesso però alla speranza di trovare un posto migliore dove vivere dovevano arrendersi a condizioni di vita a dir poco precarie, ammassati in grandi casermoni privi di qualsiasi servizio igienico, di nettezza urbana o di qualsivoglia messa in sicurezza. Mentre piano piano, si cercava di stare dietro all’incremento demografico con l’attuazione di piani sanitari, costruzione di parchi e strade e regolamenti edilizi, un'altra classe sociale iniziava a prender forma e ad avere sempre più

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peso all’interno della vita della città stessa: quella dei colletti bianchi. Questi erano quelle persone che in quegli anni avevano trovato un lavoro nelle molteplici aziende, imprese e agenzie che erano spuntate per far fronte alla sempre maggiore richiesta di servizi, miravano alla scalata e al benessere sociale, erano orgogliosi di sé pur nella loro discrezione, sostenevano la famiglia, il tempo libero, il lavoro come mezzo per concedersi degli sfizi. E alla fine costituivano quasi un quarto della popolazione attiva. Di questo ceto facevano parte sempre più donne, fattore che se da un lato gettò le prime basi per una giusta emancipazione, dall’altro diede addito a nuovi motivi di stress e frustrazione, e un dato che rispecchiò fortemente questo cambiamento fu l’aumento esponenziale del numero di divorzi. Le donne si sentivano sempre più al pari degli uomini e sempre meno dipendenti da loro, iniziarono a lottare per i propri diritti e si unirono in comitati ed associazioni, fu grazie al loro indiscutibile ausilio nelle industrie e nei posti di lavoro occupati prettamente dagli uomini che durante la prima guerra mondiale l’America non si paralizzò, ed ottennero finalmente la delibera del diciannovesimo emendamento alla Costituzione (1919), che dal 1920 concedeva loro il diritto al voto. Ciò che avevano conquistato le donne, comunque, non era ancora dovuto a neri e bambini. Se i bambini avevano zero diritti e come unica speranza quella di trovare qualcuno che si prendesse cura di loro, i neri videro, per l’ennesima volta, la nascita di movimenti atti a tutelare i loro diritti. Le associazioni che nacquero in quegli anni volevano soprattutto ricordare al Governo e alla società che c’erano un quattordicesimo e un quindicesimo emendamento i quali mettevano tutti i cittadini di colore sullo stesso piano di quelli bianchi e che come tali, come cittadini americani, andavano trattati. Ma l’acuirsi del Progressismo, che diventava fanatismo, che diventava sempre più bigottismo, diede modo al Ku Klux Klan di poter rinascere sotto la bandiera della tutela della purezza della razza americana e dei futuri cittadini americani. E visto il grande successo popolare che ottenne almeno fino al primo quarto del secolo il K.K.K. avrebbe potuto davvero fare molti più danni di quelli che effettivamente fece, non fosse stato per uno scandalo che ne portò al definitivo scioglimento. Nel 1925 uno dei suoi Gran Dragoni fu infatti condannato per il rapimento, la sevizia, violenza sessuale e tortura di una maestra di asilo, fatto che gettò forte discredito su tutta la setta e ne segnò la fine per la seconda volta. In questo contesto di forti contraddizioni sociali, in cui erano sempre più numerosi coloro che volevano vedere riconosciuti i propri diritti, e sempre più numerosi coloro che volevano un’America identica a com’era sempre stata, poté fare il suo gioco il partito socialista americano (Socialist Party of America) che in ben due occasioni – 1912 e 1920 – rischiò di mandare un proprio rappresentante a Washington. Riforma e repressione si diceva. Venne quasi automatico a molte persone, ad un certo punto, doversi scagliare contro abitudini e situazioni sociali per il semplice (presunto) diritto di doverlo fare. Il progresso significava cambiamento e quando non c’era più nulla di nuovo da cambiare, si iniziò ad attaccarsi a tutto. I cinema, luna park, case da gioco, fin’anche ai bar, divennero luoghi di perdizione, corruzione e mal costume; la donne venivano messe in guardia dagli uomini che frequentavano questi posti o che erano soliti bere dell’alcohol e gli uomini si videro sempre più privati di quei luoghi che fino ad allora consideravano semplici posti di passatempo. Si arrivò addirittura, nel 1918 alla fine della prima guerra mondiale, al proibizionismo sugli alcolici con il divieto e la messa al bando di qualsiasi tipo di produzione, compravendita e consumo di alcolici all’interno dei confini nazionali. La decisione fu talmente sentita da essere addirittura inserita in un emendamento, il diciottesimo (successivamente annullato dal ventunesimo), che oltre agli alcolici abbracciava temi come quello della limitazione delle immigrazioni, della sterilizzazione coatta di chi era colpevole di reati sessuali, e di disposizioni favorevoli alla segregazione razziale. Il Riformismo era nella piena coscienza di sé, e al contempo nella più totale confusione apportata da

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un movimento che, in realtà, aveva condotto la società certo ad un nuovo ordine sociale, rispecchiato però da valori estremamente antiquati. Questa mentalità arrogante e aggressiva ebbe una sua riscossa anche nell’ambito delle relazioni internazionali: sotto il governo Roosevelt l’America fece valere tutto il suo spessore di superpotenza dapprima tornando ad occupare Cuba – che già dopo l’indipendenza dalla Spagna era diventata una sorta di protettorato USA – obbligandola a non firmare alcun trattato con altri Paesi che avesse potuto mettere in discussione l’egemonia commerciale statunitense, poi muovendosi contro l’espansionismo giapponese in Asia, costringendo quindi i nipponici a firmare un accordo di pace con la Russia nel 1905 e iconografando il tutto con un’imponete visita navale in quelle terre nel 1908. Anche in centro America gli USA vollero avere voce in capitolo finanziando segretamente la rivolta della provincia colombiana di Panama nei confronti della madre patria e, una volta ottenuta l’indipendenza, agire in quel territorio per iniziare i lavori per il canale omonimo che fino all’indipendenza di Panama non era voluto dal governo colombiano. Il successore di Roosevelt, Taft, per quanto suo collega-rivale, non fu da meno: si adoperò per limitare la crescente evoluzione della Cina all’interno dei mercati mondiali e velocizzò lo sviluppo dei lavori nel canale di Panama, tant’era importante ai fini del commercio statunitense, che verranno ultimati il 15 agosto 1914. Nel 1921, comunque, il Congresso riconobbe alla Colombia un risarcimento pari a 25 milioni di dollari. Questa sorta di dottrina Monroe tradotta in interventismo ed estremizzata a livello internazionale danneggiò notevolmente i rapporti con l’America Latina. Nel 1914, intanto, quando già da un anno era diventato presidente Wilson, era scoppiata la prima guerra mondiale e nonostante gli Stati Uniti si fossero dichiarati da subito neutrali, iniziarono sempre più pesantemente a fornire armamenti bellici a Francia e Gran Bretagna, inserendosi in maniera impercettibile ma importante fra le dinamiche del conflitto e cercando di gettare i presupposti per arrivare a confitto ultimato ad una specie di pax americana. L’inasprirsi delle battaglie e della posizione della Germania fece si, alla fine, che anche gli USA entrassero in guerra al fianco degli Alleati nell’aprile del 1917. Nonostante i forti contributi economico-bellici forniti agli Alleati, gli Stati Uniti erano in realtà poco preparati militarmente ed il governo fu costretto ad introdurre la leva obbligatoria e la delibera di regolamentazioni statali che avrebbero diretto le industrie alla produzione di massa di materiali utili per la guerra. Nel gennaio del 1918, a guerra ultimata, il presidente Wilson elencò nel suo discorso in 14 punti gli obiettivi dell’America per questo conflitto; fra di essi vi era l’autodeterminazione in nazioni dei vecchi imperi come quello di austroungarico, l’attuazione di un commercio e di una navigazione liberi e la realizzazione di una lega per le nazioni. Sebbene le basi erano puramente democratiche e liberali, e gli ideali di una pace durevole nobili, questo programma finì in alcuni casi per fomentare le idee di liberazione della patria e pulizia etnica in alcuni stati come ad esempio Russia e Germania, per non parlare del fatto che entrava in contrasto con accordi segreti già stipulati con le forze Alleate. Fu proprio in Russia infatti che dietro il dichiarato intento di impedire che materiale bellico cadesse nelle mani dei tedeschi, le truppe americane combatterono al fianco dei rivoluzionari anti-bolscevichi. Il programma dunque, per quanto importante, non ebbe ma il riscontro che meritava. Nel 1919, Wilson tornò in patria e porse all’attenzione del Parlamento il trattato di Versailles ma trovò una situazione politica del tutto mutata: i Repubblicani avevano preso il controllo del Congresso e lui ebbe un crollo da esaurimento nervoso che lo rese praticamente inabile fino alla sua morte, ma il tutto fu sempre tenuto segreto. Non poté pertanto far valere la sua influenza nella decisione finale, tanto che il trattato fu respinto e con esso la proposta di entrare a far parte della Società delle Nazioni. L’America dunque si chiamava fuori dal dibattito sulla riorganizzazione mondiale del primo dopo guerra dando così uno dei primi ma più netti esempi del suo isolazionismo che lo avrebbe contraddistinto da allora, in avanti, in svariate circostanze. La cosa

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era abbastanza strana se si considera che gli Stati Uniti erano, nel 1922, la maggiore nazione creditrice al mondo. Si optò per una politica estera abbastanza spietata nel chiedere in dietro i capitali prestati, e si decise di punire economicamente i paesi debitori od ostili con un embargo quasi totale nei loro confronti o talvolta con l’istituzione di altissime barriere doganali. Al contrario gli investimenti all’estero divennero sempre più frequenti ma più di tutti vi fu un boom nella richiesta di pezzi da consumo, soprattutto di tipo agricolo, che fecero innalzare drasticamente i valori relativi alla produzione, alla richiesta di crediti e all’abbattimento dei prezzi. Considerando che la valvola di sfogo degli scambi con l’estero era stata otturata e considerando la grande concorrenza che si venne a creare fra le industrie interne al paese, molti imprenditori si ritrovarono pieni di merce in magazzino e pieni di debiti con le banche, iniziarono a fallire le prime società e a queste ne seguirono altre finché il 24 e il 29 ottobre 1929 la Borsa di New York crollò. Tutto il commercio internazionale ne risentì in maniera drastica, diminuendo notevolmente, così come diminuirono i redditi delle persone, il gettito fiscale, e i profitti. Altri fattori contribuirono fortemente al crollo di Wall Street, non si trattò infatti solo di un problema di scambi con l’estero. Dopo la Grande Guerra, come si è detto, tutta la Nazione vide un forte sviluppo economico, e di questo giovarono molti settori industriali a partire da quello nuovo e affascinante dell’automobile (che trascinò con se praticamente tutti gli altri settori produttivi). La produttività alta manteneva alti i salari ed i salari alti mantenevano alti i prezzi di consumo. Ma il potere d’acquisto della moneta non era mutato di molto, visto che molti dei liquidi che giravano erano i risparmi che i cittadini avevano messo da parte prima della guerra. Va considerato anche che ci fu una forte speculazione sui titoli di borsa: i potenti uomini di affari elargivano dichiarazioni ottimistiche che inducevano i cittadini ad acquistare sempre più titoli di borsa al fine di rivenderli, in questo modo cresceva il valore dei titoli stessi ma non quello effettivo dell’azienda che li erogava in quanto la produzione rimaneva la medesima. Dopo una crescita artificiosa quindi, rispetto alle effettive vendite di questa o quella azienda che non rispecchiavano il valore dei titoli stessi, questi scesero inevitabilmente finché di fronte ai primi sentori di crisi tutti iniziarono a vendere provocando il crollo della borsa. Perdendo gran parte dei loro capitali molti cittadini non poterono più acquistare molti dei beni che si potevano permettere negli anni precedenti, primo fra tutti l’auto che, come quando si trattava di trainare l’economia in positivo, anche in questo caso trascinò con se tutti i settori che vi lavoravano attorno. Vedendo mancare la richiesta di materie prime da parte delle grandi holding le industrie più piccole furono costrette a licenziare una gran quantità di personale nel peggiore dei casi, ma anche chi manteneva il proprio posto di lavoro si vide lo stipendio decimato. Tutta la politica degli anni venti, d'altronde, era stata indirizzata verso il mondo degli affari e la mentalità sociale che ne scaturì, fatta di illusioni, frivolezze e chiusura mentale fu uno degli gli elementi principali che lentamente, ma inesorabilmente, portarono il paese dieci anni più tardi nel vortice della crisi. Alle elezioni di inizio decennio (1921) i Repubblicani riuscirono a mandare alla Casa Bianca Warren G. Harding, un uomo tanto inetto nello svolgere il proprio lavoro quanto corrotto che fece si che il dilagare della corruzione raggiungesse cime mai toccate prima, e alla sua morte il suo vice, Calvin Coolidge, pur avendo maggiore spessore politico commise il grande errore di estremizzare al massimo il protezionismo e lo sviluppo interno della Nazione. Il rifiuto di alcune norme riformiste relative ai sussidi a donne e bambini lavoratori e agli aiuti alle vittime di disastri naturali e ai contadini in difficoltà erano elementi evidenti di questo pensiero che voleva far rimanere tutto com’era. Fu comunque rieletto per un secondo mandato. Nonostante le risorse economiche non fossero eccelse vi fu una richiesta di consumo sempre maggiore, le tradizioni europee andavano man mano scomparendo e si delineava uno “stile di vita americano” che richiedeva nuovi aspetti

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della società come dedicarsi ad attività di svago durante il tempo libero, fare la spesa al supermercato e sviluppare e costruirsi una vita nella cosiddetta Suburbia, questa periferia piena di verde che era un vero e proprio quartiere residenziale del nuovo, sempre più numeroso, ceto medio. L’esplosione dei media contribuì a standardizzare il tutto, era la nascita della cultura di massa nella quale l’americano medio riponeva tutte le sue incertezze e allo stesso tempo tutte le sue speranze. A livello mentale si delineava sempre maggiormente quella voglia di volersi amalgamare ad un certo status, che spesso sfociava in chiusura alle novità, a qualche esagerazione, agli extracomunitari. Il governo decise infatti, su questa linea d’onda, di apporre forti limitazioni all’immigrazione, e allo stesso tempo i pochi immigrati che riuscivano ad entrare venivano bistrattati o comunque malvisti. Un episodio eclatante e scandaloso di questa quasi totale mancanza di tolleranza venne dalla condanna a morte di due italiani: Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti che vennero arrestati in seguito ad una rapina con omicidio e condannati a morte anche se la loro colpevolezza non venne mai provata. Nonostante la confessione di un detenuto portoricano vennero comunque condannati alla pena di morte sulla sedia elettrica e giustiziati il 23 Agosto 1927. Erano i due perfetti agnelli sacrificali per quel Governo puritano che ancora rappresentava buona parte degli americani: tendenze anarchiche, partecipazione alle manifestazioni operaie, alla propaganda politica e alle lotte contro la guerra, conoscenza imperfetta dell’inglese (per non capire e non potersi difendere) e provenienza estera. E nonostante le tante manifestazioni in Europa e in America a loro difesa dovettero comunque andare in contro alla loro triste sorte. C’era dunque un’America liberale che non voleva tutto ciò, che riuscì in alcuni casi anche a dare forti schiaffi morali a quella parte più fondamentalista del Paese. Basti pensare al celebre “processo delle scimmie”, celebratosi nel Tennessee, in cui si discuteva sul divieto di insegnare la teoria evoluzionistica di Darwin nelle scuole. Si fronteggiarono in quell’occasione due avvocati: Clarence Darrow per il liberali, a difesa di un professore di ginnastica che durante una supplenza di biologia insegnò ai suoi alunni che l’uomo derivava dai primati, e William Jennings Bryan per i fondamentalisti. Darrow ebbe buon gioco nel mettere in ridicolo tutta la grettezza dei pensieri del suo avversario (Bryan era candidato alla presidenza degli Stati Uniti e morì qualche giorno dopo la fine del processo per le fatiche sostenute), e nonostante tutto Darrow perse la causa, anche se successivamente la sentenza fu rivista. Su questa falsariga nacquero due correnti sociali e politiche: i cosiddetti Drys sostenevano il proibizionismo e avevano radici profondamente continentali mentre i Wets erano più liberali, intellettuali e di origini straniere. Le elezioni del 1928 furono lo specchio di questa diversità sociale. Vinsero i Repubblicani di Hoover, Dry, un uomo intelligente che si era fatto da se, tradizionalista, lavoratore e imprenditore di successo, fece di alcohol, religione, prosperità e lavoro i temi principali della sua campagna elettorale promettendo soprattutto un posto di lavoro per tutti. Ma solo qualche mese dopo il suo insediamento si trovò di fronte alla grande crisi del ’29. Con una disoccupazione che salì fino al 20% e migliaia di famiglie e imprese buttate sul lastrico anche la popolarità del presidente scese rapidamente ma, nonostante tutto, Hoover si presentò sicuro anche alle elezioni del ’32. Oltre ai 45 stati presenti fino al 1898, entrarono a far parte dell’Unione in questo periodo l’Oklahoma, il New Mexico e l’Arizona che assieme al distretto federale della Columbia componevano allora i 48 Stati Uniti ai quali rimanevano da aggiungere solo le Hawaii e l’Alaska.

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Date citate: 1898-1917 – Movimento Progressista 1901 – Gli USA occupano Cuba per tutelare la propria egemonia commerciale 1903 – L’America finanzia la lotta per l’indipendenza di Panama 1904 – Theodore Roosevelt viene eletto Presidente per la seconda volta 1906 – Nasce il movimento a tutela dei consumatori 1909 – William H. Taft (Repubblicano, Ohio) è il 27° presidente degli Stati Uniti 1913 – Woodrow Wilson (Democratico, New Jersey) è il 28° presidente degli Stati Uniti 15 agosto 1914 – Viene inaugurato il canale si Panama 1915 – Rinasce il Ku Klux Klan Aprile 1917 – Gli Stati Uniti entrano in guerra al fianco degli Alleati Gennaio 1918 – Discorso di Wilson sugli obiettivi dell’America durante la Grande Guerra

1918 – Il diciottesimo emendamento decreta il Proibizionismo agli alcolici 1919 – Fine della prima guerra mondiale 1919 – Viene emanato il diciannovesimo emendamento alla Costituzione 1920 – Grazie al 19° emendamento le donne ottengono il diritto di voto 1921 – Warren G. Harding (Repubblicano, Ohio) è il 29esimo presidente degli Stati Uniti 1923 – Calvin Coolidge (Massachusetts, Repubblicano) è il 30° presidente USA 1925 – Il Ku Klux Klan viene sciolto in seguito ad uno scandalo 23 Agosto 1927 – Sacco e Vanzetti vengono giustiziati 1928 – Herbert C. Hoover (Repubblicano, Iowa) è il 31° presidente USA 24-29 ottobre 1929 – Crollo della Borsa di New York

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La riorganizzazione dell’America e del mondo

(1932-1945)

Per superare la Grande Depressione i Democratici elaborarono un programma di risanamento che prese il nome di New Deal. Tale nome gli fu attribuito dopo che il candidato democratico alle presidenziali, Franklin Delano Roosevelt, si pronunciò in merito ad “una nuova distribuzione delle carte per il popolo americano” (“a new deal for the american people”). Questo spirito di rinnovamento gli permise di vincere le elezioni del ’32 con una maggioranza schiacciante (58% di voti) ma allo stesso tempo gli pose dinanzi una Nazione da gestire vogliosa di ricominciare. I primi cento giorni di mandato videro una mole impressionante di carte da firmare per il nuovo Presidente, in virtù del fatto che una nuova distribuzione delle carte voleva dire una nuova distribuzione di leggi, concessioni, editti e regolamenti sotto ogni piano sociale. Detti provvedimenti includevano rigorosi controlli alle banche, progetti per la tutela del patrimonio naturale, costruzioni di infrastrutture e grandi opere, nuovi incarichi amministrativi, crediti per l’acquisto della casa o della fattoria e leggi a tutela dei lavoratori. Non a caso in questo periodo i sindacati vennero riconosciuti sul piano nazionale, cosicché gli imprenditori non poterono più discriminare i lavoratori e questi ultimi si videro riconosciuto il diritto di riunirsi in sindacati e partecipare alle trattative per i rinnovi dei contratti nazionali. Vennero emanati l’Agricultural Adjustment Act e il National Recovery Act a tutela della sovrapproduzione Agricola, per impedire un nuovo crollo dei prezzi e garantire un’equa competizione fra li agricoltori grandi e piccoli. Fondamentalmente, il New Deal non portò davvero la svolta epocale che prometteva, anzi alle volte alcune delle misure adottare erano in contrasto con altre o controproducenti, ma riuscì ad infondere negli Americani quella fiducia e quella speranza di cui avevano bisogno; fu l’entusiasmo, più che una serie di leggi, a mandare avanti la Nazione in quegli anni così bui. Nel complesso si trattava di una politica favorevole alle imprese, che correggeva soltanto i maggiori eccessi del sistema economico, e nonostante una lieve ripresa nel ’33 i due anni che successero furono tutto fuorché positivi. Il New Deal fu talmente attaccato dai suoi oppositori che perfino la Supreme Court, nel 1935, lo definì un fallimento, addirittura anticostituzionale. Nonostante la sua propensione a favorire lo sviluppo industriale, questo risultò comunque molto utile a quello agricolo: dal ’33 al ’37 le entrate degli agricoltori aumentarono del 50%; ma si trattava dei grandi latifondisti e di coloro che potevano investire, i fittavoli o i piccoli agricoltori si trovarono spesso più in difficoltà che avvantaggiati e molti di loro iniziarono a trasferirsi nelle grandi città o nel West dando origine al mito della Route 66. Per tutti gli anni ’20 e ’30, a causa di tecniche di coltivazioni improprie, i terreni sfruttati al massimo si ritrovarono senza l’erba che li avrebbe idratati e quindi i forti venti stagionali iniziarono a trasportare grandi masse di polvere il tutto il centro del Paese sommergendo, letteralmente, vaste aree coltivati. I piccoli agricoltori che spesso rimanevano anche senza una casa si videro dunque costretti a cercare vie alternative per sopravvivere, e spostarsi ad ovest sembrava la scelta più accettabile. La Route 66 fu la prima strada statale, fu inaugurata nel 1926 e originariamente collegava Chicago a Santa Monica per una distanza complessiva di 3755 Km. Supportò la migrazione degli americani verso ovest per tutti gli anni trenta e rimase inattività fino al dopoguerra quando fu firmato il decreto per la costruzione ed il potenziamento di un sistema autostradale che avrebbe coperto tutto il Paese. Nel 1985 fu

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dunque ufficialmente esclusa dalla lista delle highways nazionali ma compare tutta via sulle cartine sotto il nome di “Historic Route 66”. Nonostante le grandi riforme diedero risultati più dal punto di vista psicologico che effettivo il New Deal e Roosevelt continuarono ad avere un forte consenso da gran parte della popolazione cosicché nel 1934 i Democratici poterono confermare la loro maggioranza al Congresso e candidare nuovamente lo stesso Roosevelt alle elezioni del 1936 dove, nuovamente, vinse con un risultato che non ammetteva repliche: il 61%. C’è da dire, tuttavia, che i suoi avversari avevano ideologie politiche e proponevano soluzioni alla crisi abbastanza astruse, si andava da quelli che stavano fra i Democratici radicali e i Repubblicani ei pre-fascisti i quali, indipendentemente dalle loro capacità politiche, non seppero mai davvero proporre una buona alternativa la New Deal. Roosevelt rispondeva sistematicamente con l’attivismo all’utopia e già nel 1935 si poteva parlare di un secondo New Deal. I provvedimenti furono molteplici: c’era il Work Progress Administrarion che elargiva a milioni di americani aiuti statali per la realizzazione di opere pubbliche mentre il National Labor Relations ampliava di numero e d’importanza i diritti dei lavoratori e dei sindacati e infine c’era il Social Security Act alla base di un nuovo ed affidabile sistema pensionistico. Furono inoltre rafforzati i controlli sulle banche e venne aumentata l’aliquota delle imposte sui redditi più alti. Tutto ciò, come qualcuno vide bene di far notare, comportò comunque un certo aumento della spesa pubblica. La stessa Supreme Court, abbastanza contraria a tanto riformismo, non poté fare nulla al cospetto di tutto quel feeling che ormai c’era fra gli americani ed il loro Presidente ed anzi, rischiò addirittura di essere stravolta nella sua formazione e nel suo campo di potere quando proprio Roosevelt propose di inserire nuovi membri per ogni membro ultrasettantenne. La cosa in sé non aveva aspetti anticostituzionali, visto che in nessuna delle sue parti la Costituzione stabilisce quanti e quali debbano essere i membri della Corte Suprema, ma sollevò una coltre d’indignazione talmente elevata che Roosevelt fu costretto a ritirare immediatamente la proposta. I suoi avversari riuscirono a prendere questa sconfitta e a trarne il massimo vantaggio: la posizione ed il potere di Roosevelt rimasero intaccati, ma il grande riformismo del New Deal si avviò alla fine. Se si vanno a considerare tutti gli avvenimenti degli anni ’20 e ’30, i fattori che portarono alle elezioni di Roosevelt e le conseguenze che questi produssero, potremmo dire che l’entrata in carica di questo presidente il 4 Marzo 1933 segnò l’inizio di una nuova epoca, per tre ragioni:

1. Roosevelt fu il primo presidente degli Stati Uniti ad esercitare la carica di capo dell’esecutivo nel pieno della sua forma sistematicamente e ripetutamente a differenza dei suoi predecessori, e diede estrema importanza a quello che era The Executive Office of the President.

2. Diede una nuova connotazione al Partico democratico. Non era più quello dei ricchi latifondisti del nord-est di cento anni prima, poteva invece vantare una base elettorale composta da operai, intellettuali e minoranze etniche, diventando di fatto il partito di maggioranza del Paese.

3. Ripensò completamente i compiti dello stato nei confronti dell’economia e della società fondando un nuovo (se non il primo) stato sociale americano. Lo Stato sociale, conosciuto anche come “welfare state” (stato di benessere) è un sistema di norme con il quale lo Stato cerca di eliminare le diseguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, aiutando in particolar modo i ceti meno benestanti.

Tutto ciò si rifletteva sugli elettori votanti e su tutti i cittadini in generale: essi credevano nello Stato perché lo Stato si adoperava per aiutarli e tutte le crisi economiche che si abbatterono nel mondo in quegli anni furono affrontate, e superate, diversamente rispetto agli angosciati Paesi

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europei. Nacque la moderna idea di politica americana, quindi, ed essa vige ancora oggi, ed ancora oggi è oscura a molti europei in quanto non segue una precisa via per raggiungere i propri scopi ma si “avventura” in tutte le possibili direzioni per capire quale scelta è quella più giusta da seguire. E per capire meglio di volta in volta quali strade intraprendere e quali scelte considerare Roosevelt si circondò di una schiera di eminenti scienziati – un Brain-Trust – che lo consigliavano e indirizzavano regolarmente, ed anche sua moglie Eleanor ebbe un importante ruolo di consigliera di scelte di vita e politiche. Il ruolo della First Lady diventa quindi di importanza pubblica e, molto più importante, dà alle donne (che all’epoca erano il 51% dell’intera popolazione) un nuovo stimolo di emancipazione ed esempio da seguire. La questione della politica centro-americana che tanto aveva fatto penare gli USA negli anni precedenti venne relativamente ammorbidita in quanto vennero ritirate le ultime truppe da Haiti e dalla Repubblica Dominicana e le varie banche nazionali avrebbero avuto il pieno potere sui propri fondi, senza più alcun controllo da parte degli States. Libertà totale riconosciuta alle nazioni vicine dunque, anche se in ognuna di queste – oltre alle due citate anche Cuba e Nicaragua – con l’annullamento del controllo americano ebbero terreno fertile le fiorenti dittature di Trujillo (Rep. Dom.), Somoza (Nicaragua), Duvalier (Haiti) e Batista (Cuba). Diverso fu l’approccio statunitense all’imminente avvento della seconda guerra mondiale. Inizialmente sia il Congresso che tutta l’opinione pubblica erano abbastanza indifferenti alla minaccia nazista europea, e fascisti e nazisti sembravano più ridicoli che pericolosi e anzi, Hitler e Mussolini erano addirittura visti con un occhio benevolo in quanto parevano assicurare l’ordine e l’anticomunismo. L’accordo di Monaco del 1938, che cedeva parte della Cecoslovacchia alla Germania (abile mossa per facilitarne la successiva invasione), sembrava mantenere la pace e quindi fu addirittura supportato dagli Stati Uniti i quali, però, dovettero repentinamente guardare tutta la situazione sotto un’altra ottica quando nel Marzo dell’anno successivo la Germania invase la Cecoslovacchia ed in Aprile l’Italia occupò l’Albania. Nonostante l’America continuasse a dichiararsi neutrale, Roosevelt aveva già chiesto al Congresso lo stanziamento di 300 milioni e poi 1,3 miliardi di dollari per la difesa e l’allestimento dell’esercito, e permise in pochi anni a più di 80.000 profughi ebrei di trovare rifugio in terra americana. Il I di settembre del 1939 la Germania invase la Polonia dando di fatto inizio ad un nuovo conflitto mondiale; gli Stati Uniti avevano dichiarato e difeso la loro neutralità e quindi non si immischiarono da subito in un affare che non fosse strettamente il loro ma, per evitare di essere trascinati nella guerra dalla porta di servizio come accadde per la Grande Guerra, diedero sin da subito il loro appoggio agli Alleati inglesi dapprima con la legge “cash-and-carry” poi con la legge “Lend-lease”. La prima permetteva agli inglesi di acquistare materiali bellici dagli Stati Uniti a condizione di pagarli subito ed in contanti, la seconda, varata successivamente, andò in contro alle sempre più ingenti esigenze di armamenti richiesti dagli Stati Alleati e prevedeva di cedere, prestare, scambiare o dare in affitto materiali a tutte quelle Nazioni che ne avessero fatto un utilizzo che avrebbe potuto garantire la sicurezza degli Stati Uniti. Addirittura l’Unione Sovietica, dopo che venne a sua volta aggredita dalla Germania, ne poté beneficiare. Fu disposta la scorta americana delle navi da trasporto britanniche e furono preventivamente occupate Islanda e Groenlandia per evitare che se ne impossessassero i tedeschi. Fra l’emanazione delle due leggi si svolsero le elezioni del 1940 e Roosevelt a sorpresa accettò la candidatura per un terzo mandato. Mai nella storia si era verificato che un presidente rimanesse in carica per più di otto anni, lo stesso George Washington rifiutò tale onore, ritenendo che tanto potere non poteva rimanere per troppo tempo nelle mani di un solo uomo. La lotta per l’investitura fu dura all’interno dei Democratici ma quando Roosevelt riuscì a battere il compagno

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di partito Garner, precedentemente suo vice presidente ed ora massimo esponente di tutti quei Democratici anti-New Deal, la vittoria sui Repubblicani venne ottenuta con un inoppugnabile 55%. Nel 1941 Roosevelt e Churchill, primo ministro britannico, si incontrarono su una nave da guerra a largo di Terranova e sottoscrissero la Carta Atlantica: essa prevedeva l'enunciazione di alcuni principi per il futuro ordine mondiale. Trattava sul divieto di espansioni territoriali, autodeterminazione interna ed esterna, democrazia, pace intesa come libertà dal timore e dal bisogno, rinuncia all'uso della forza, sistema di sicurezza generale che permettesse il disarmo. Riprendeva i "Quattordici punti" di Wilson ed affermava la libertà di commercio e di navigazione e il diritto dei popoli a vivere "liberi dal timore e dal bisogno". Essa fu il seme della nascita dell'ONU. Fondamentalmente, era un mettere gli Stati Uniti davanti a tutti nelle future decisioni sull’assetto del dopoguerra. Ed escludere l’URSS. Nonostante l’estremo sostegno agli inglesi, comunque, la guerra deli Stati Uniti non cominciò nell’Atlantico ma nel Pacifico. Già da tempo si erano incrinati i rapporti con il Giappone per via delle sue mire espansionistiche in Asia e si arrivò addirittura ad un embargo totale nei confronti dei nipponici decretato nell’estate del 1941. Quando vennero decifrati i codici segreti Giapponesi sull’imminente esaurimento delle risorse di petrolio, l’intervento in guerra sembrava imminente. Il 7 dicembre del 1941 alle 7.55 oltre 300 velivoli dell’aereonautica Giapponese sganciarono nugoli di bombe sulla base militare hawaiana statunitense di Pearl Harbor, posta nel Pacifico, in due ondate d’attacco. Alla fine dei bombardamenti il bilancio fu tragico: Pearl Harbor fu un mare di fiamme. Ovunque fuoco, fiamme, rottami e navi affondate. Su 96 navi statunitensi 3 furono distrutte o capovolte in maniera irrimediabile (le corazzate Arizona e Oklahoma, la corazzata bersaglio Utah), 6 affondate, rovesciate o arenate seppur recuperabili (le corazzate California, West Virginia, Nevada, il posamine Oglala, i cacciatorpediniere Cassin e Shaw), 7 gravemente danneggiate (la corazzata Pennsylvania, la nave officina Vestal, la nave d'appoggio idrovolanti Curtiss, gli incrociatori Raleigh, Helena e Honolulu e il cacciatorpediniere Downes), 2 mediamente danneggiate (le corazzate Tennessee e Maryland) e 4 danneggiate lievemente (3 incrociatori e il cacciatorpediniere Helm). Sui campi d'aviazione di Oahu furono distrutti 188 aerei americani e altri 159 danneggiati; le perdite umane ammontarono a 2.403 morti americani (2.008 della Marina, 109 dei Marines, 218 dell'Esercito, 68 civili) e 1.178 feriti. Secondo i calcoli di Tokyo i giapponesi persero 29 aerei, tra cui 9 caccia, 15 bombardieri e 5 aerosiluranti, un grande sommergibile e tutti e cinque i sommergibili tascabili. I morti da parte nipponica furono 64 di cui 55 aviatori. Non si seppe mai quanti fossero stati i marinai a bordo del grande sommergibile. Alle 5,05 (ora in Giappone), l'ammiraglio Nagumo confermò alle supreme autorità militari il "kishu-seiko", il successo dell'attacco di sorpresa. Sette ore più tardi il Mikado appose il sigillo imperiale al rescritto che proclamò lo stato di guerra con gli Stati Uniti d'America. L’America era entrata in guerra e a discapito di quanto potesse apparire non ne era affatto preparata. Di colpo l’intera Nazione si trasformò nella più grande fabbrica da guerra del mondo, l’intera economia fu posta sotto l’ Office of War Mobilization, tutte o quasi tutte le fabbriche furono adibite alla produzione di materiale bellico e di conseguenza l’occupazione crebbe vertiginosamente. 15 milioni di uomini vennero arruolati e probabilmente altrettante donne trovarono occupazione in fabbriche di ogni tipo, ci fu un cambiamento sociale radicale, forse uno dei più importanti del XX secolo, con migliaia di famiglie che migravano ed altrettante situazioni familiari in continuo mutamento: crebbe il numero degli occupati, il numero dei traslochi, il numero dei divorzi ed una nuova concezione della vita lavorativa che metteva il singolo uomo al centro della società e lo rendeva indispensabile per la società, ma anche estremamente più solo e frustrato. In tutto ciò però la guerra era diventata il simbolo della lotta al fascismo per la libertà dell’uomo e sull’onda di questo spirito di libertà vennero abbattute anche moltissime barriere razziali che fino

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ad allora erano rimaste inviolate. Molti neri, utili alla causa bellica, trovarono il loro posto al fianco dei bianchi e svariate associazioni a loro tutela o a tutela della parità dei diritti videro la luce. Per contro, oltre 112.000 americani di origine asiatica, anche se nati in America, vennero segregati nei campi di lavoro, costretti a vendere le proprie proprietà ed a pagare per una colpa che in realtà non era la loro. Soltanto quarant’anni più tardi il Governo statunitense si scusò e pagò di tasca propria per gli errori commessi nei confronti di queste persone. Si avvicinavano intanto le elezioni del 1944 e Roosevelt si candidò per una quarta volta. Molti dei suoi colleghi sapevano che probabilmente non l’avrebbe portata a termine per via dei suoi gravi problemi di salute, decisero quindi di affiancargli un senatore esperto – Harry S. Truman – nella campagna elettorale che avrebbe potuto sostituirlo nel caso in cui le circostanze l’avessero richiesto. Roosevelt, specchio e guida degli Stati Uniti negli ultimi quindici anni, non poté che vincere, quasi solo grazie alla spinta d’inerzia che il suo carisma a le sue vicende avevano generato fra la gente grazie alla fondatezza e all’importanza delle sue decisioni. Nonostante il 54% dei voti fosse il suo risultato più basso, la vittoria fu netta. Ad oggi, Roosevelt è stato l’unico Presidente USA a ricoprire tale ruolo per più di due mandati e una disposizione costituzionale del 1951 impedirà che chiunque altro possa ambire a tanto quindi, a meno di ulteriori modifiche, rimarrà anche l’unico Presidente ad aver ricoperto più di due mandati. Ancor prima delle elezioni furono gettate le fondamenta per gli interventi atti a sconfiggere la Germania (conferenze di Mosca) e gestire la gestione dei territori e dei risarcimenti nel dopoguerra (conferenza di Potsdam, 1945). Ne uscirono fuori trattati ed accordi fortemente a favore degli Stati Uniti per la questione del Lend-Lease, ma soprattutto volevano garantire la libertà degli scambi, rimuovere tutte le discriminazioni nel commercio mondiale e garantire a chiunque libero accesso ai mercati e alle materie prime; nacque la International Bank for Reconstruction and Development, l’odierna Banca mondiale, che era dominata dal capitale americano e che fu gestita da americani fino agli anni ’80, che fra le altre cose prevedeva la concessione di vantaggi economici sugli scambi agli Stati Uniti nei confronti dei Paesi che avevano beneficiato di aiuti americani durante la guerra e che non potevano saldare facilmente i debiti contratti. Un’ultima conferenza importantissima fu quella di Dumbarton Oaks presso Washington DC nel ’44 e la successiva a San Francisco il 25 aprile-26 giugno ’45: fra le varie decisioni di tipo militare e gestionale si decise di fondare un organo internazionale per la composizione dei contenziosi, con l’impiego di truppe multinazionali per la dissuasione degli aggressori. Nasceva l’ONU. Date citate: 1932 – Franklin Delano Roosevelt (Democratico, New York) è il 32° Presidente degli Stati Uniti. Questo sarà il suo primo di quattro mandati 1933-37 – New Deal 1933 – Primo New Deal: National Recovery Act e Agricultural Adjustment Act 1935 – Secondo New Deal: Works Progress Administration, National Labor Relations e Social Security Act 1936 – Secondo mandato Roosevelt 1938 – Trattato di Monaco

1939 – La Germania invade la Cecoslovacchia e l’Italia occupa l’Albania 1° Settembre 1939 – La Germania invade la Polonia 1939-41 – Leggi “cash-and-carry” e “Lend-Lease” a supporto degli Alleati 1940 – Terzo mandato Roosevelt 07 dicembre 1941 – Attacco a Pearl Harbor 1942-45 – Trattati di Mosca e Potsdam 1944 – Quarto mandato Roosevelt 21 agosto 1944 – 25 aprile 1945 – Conferenze di Dumbarton Oaks e San Francisco

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Dalla sovrabbondanza materiale alla crisi morale

(1945-1968)

Il Presidente Roosevelt non assistette alla fine della guerra. Morì il 12 aprile 1945 per un’apoplessia cerebrale e gli successe l’allora vice: Harry Truman che, come descritto nel capitolo precedente, fu un vero e proprio candidato di compromesso alle ultime elezioni viste le già precarie condizioni di salute di Roosevelt. Truman prese in mano il Paese in una situazione molto delicata per il mondo. La Germania era pressoché vinta ma il confitto in Giappone era ancora nel pieno del suo svolgimento e a Truman toccò subito di dover scegliere se utilizzare una nuova e micidiale arma in possesso dell’intelligence americana: la bomba atomica. La prima boma atomica su civili della storia – alla quale venne dato il nome di Little Boy – fu sganciata sulla città giapponese di Hiroshima il 6 agosto 1945 alle 08:15 del mattino: l’esplosione uccise oltre 70.000 persone e rase al suolo circa il 90% degli edifici. Nei tre giorni che seguirono la Russia ruppe l’accordo di non belligeranza coi nipponici e Truman li intimò di accettare una resa incondizionata per evitare ulteriori bombardamenti. Di fronte alla quasi inesplicabile indifferenza degli alti comandi militari giapponesi il 9 agosto alle 11:02 un’altra boma atomica – Fat Man – fu fatta detonare su Nagasaki e causò immediatamente 40.000 vittime. Fra i tanti numeri e retroscena di questa carneficina non vanno trascurate le oltre 430.00 vittime totali dei due bombardamenti fra morti immediati e vittime delle radiazioni, e il fatto che la città di Kokura era l’obiettivo principale sia del primo che del secondo raid ma entrambe le volte fu scartata perché le cattive condizioni metereologiche non ne permettevano la precisa localizzazione. Nagasaki rimase a dubbio bombardamento fino all’ultimo minuto in quanto il comandante dell’aereo che trasportava l’arma al plutonio si oppose fermamente di tornare indietro e rischiare un ammaraggio con un’arma nucleare a bordo e, contraddicendo gli ordini, accese il radar che gli permetteva di avere una discreta visuale della città anche se questa era velata da nubi. I due bombardamenti nell'arco di così pochi giorni, le centinaia di migliaia di vittime e la potenza annientatrice di quest'arma costrinsero i giapponesi alla resa il 15 Agosto 1945. Era la fine della seconda guerra mondiale, il conflitto più violento e sanguinoso della storia dell'umanità. Il primo problema del dopoguerra da affrontare per il nuovo Presidente fu quello di trovare un’occupazione agli oltre nove milioni di veterani di guerra e la gestione di questo affare fu resa possibile soprattutto grazie alla riconversione della produzione bellica in produzione di beni di consumo ed al cosiddetto Bill of Rights del 1944 che permise a tutti i veterani di avere un’istruzione dal 1945 al 1950 alimentando così la spinta della ripresa dell’economia e della società. La forte industria americana, i grandi prestiti concessi alle nazioni europee che piano piano sarebbero dovuti rientrare – se non sotto forma di soldi in prestiti e concessioni commerciali – e la praticamente inesistente presenza di un vero e proprio rivale commerciale permisero quindi agli Stati Uniti di diventare la prima potenza mondiale e di non avere alcun tipo di contrasto a livello commerciale in quanto possedeva una produzione forte e libero accesso a praticamente tutti i mercati esistenti. Al conflitto non era sopravvissuta l’alleanza con l’Unione Sovietica ed il Comunismo era visto sempre più di cattivo occhio. E mentre in Russia si cercava in ogni modo di trovare una soluzione per arginare l’incontenibile ascesa americana gli Stati Uniti si muovevano affinché la Russia limitasse i propri interessi d’influenza. Il tutto viene tradotto dalla cosiddetta “Dottrina Truman”:

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in un discorso tenuto alle due camere riunite il 12 marzo 1947 il Presidente faceva carico al suo Paese del diritto di intervenire nel caso in cui la sicurezza interna degli Stati Uniti potesse essere messa in pericolo qualora uno o più Paesi esteri avessero ceduto a movimenti interni o esteri finalizzati all’assoggettamento alla Russia o a regimi comunisti. Per sottrarre terreno fertile all’avanzata politica russa in Europa ed Asia – e comunque i tutti i Paesi del Terzo Mondo – soprattutto in virtù dei forti movimenti comunisti presenti anche in Paesi dell’Europa occidentale importanti come Italia e Francia, venne stilato il cosiddetto piano Marshall, una piano di intervento in aiuti economi e finanziari da erogare ai Paesi europei che dovevano affrontare la ricostruzione post-bellica. Nel quinquennio successivo beneficiarono di aiuti per oltre 17 miliardi di dollari 16 Paesi europei, quelli che rifiutarono gli aiuti furono quelli che avevano deciso di sottostare all’influenza sovietica. Quindi le pressioni americane e russe sull’Europa si facevano sempre più importanti e si arrivò ad un punto in cui non stare da una parte equivaleva dire stare dall’altra. Il culmine di questa divisione ideologica ed il successivo inizio della Guerra Fredda si ottenne nel 1948. Dalla data della resa incondizionata firmata l’8 maggio 1945 la Germania fu amministrata da Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Russia che divisero il Paese per “zone di occupazione militare”. Alla Francia spettava la zona sud-ovest, all’Inghilterra la nord-ovest, alla Russia la nord-est e agli U.S.A. la sud-est. La stessa Berlino, presente nella zona russa, fu divisa in quattro settori ed i capi militari di ogni Nazione occupante avevano il compito di gestire dapprima il loro territorio di competenza e la Germania tutti insieme. Nel 1948 gli occidentali ritennero opportuno iniziare un piano di decentralizzazione per favorire lentamente il rientro dei tedeschi nel pieno potere di ciò che spettava loro, cioè una nazione libera ed indipendente, e come prima cosa decisero di effettuare una riforma finanziaria di rivalutazione del Marco per porre un freno alla sempre più minacciosa crescita dell’inflazione, anche grazie agli aiuti del Piano Marshall. La Russia non accettò questa politica in quanto, evidentemente, aveva altri programmi per la Germania e si ritirò da tutti gli accordi che sarebbero stati presi dalle altre tre da lì in avanti fino a quando il 24 giugno 1948 stabilì una sorta di embargo nei confronti della Berlino occidentale che si trasformò di colpo da ex baluardo del nazismo in conteso avamposto della libertà occidentale. L’embargo divenne presto ponte aereo, a causa del quale gli unici aiuti degli Alleati potevano pervenire solo dall’alto, e durò fino al 5 maggio 1949 quando Stalin lo ritirò senza una particolare ragione. Molto importate fu l’anno 1949: entrambe le potenze si mossero per dar vita ad associazioni o territori che avrebbero potuto dar loro man forte su larga scala: gli USA fondarono la NATO e la Repubblica Federale Tedesca, la Russia la DDR ed elaborò il Patto di Varsavia. Il patto di Varsavia entrò ufficialmente in vigore solo nel 1955 per contrastare la NATO e vi aderirono tutte le Nazioni in cui vigeva l’influenza russa; trattava fondamentalmente di reciproca protezione in caso di aggressione. Iniziò dunque in Europa la Guerra Fredda ma si estese immediatamente anche in Asia dove, però, fu l’America ad avere le maggiori responsabilità per quanto riguarda guerre e rivolte. Il Giappone era governato (è il caso di dirlo) dal generale Douglas Mac Arthur che teneva il popolo quasi come sotto un regime dittatoriale e che aiutò con i suoi mezzi la Francia a combattere una guerra per rioccupare l’Indocina, mentre alla Russia veniva negata ogni pretesa di espansione in terra nipponica. All’Unione Sovietica rimanevano dunque una parte dello Sachalin e della Corea. In Cina, invece, l’influenza americana non aveva attecchito e anzi era ora governata da un regime comunista al quale faceva capo Mao Tre-Tung, molto intimo coi russi. Il 24 giugno 1950 scoppiava intanto la guerra di Corea. La Corea, come la Germania, era divisa in zone amministrative sin dalla fine delle guerra: a nord c’erano i russi e i cinesi comunisti, a sud gli americani. Entrambe le Coree, comunque, miravano ad una totale indipendenza susseguente alla riunificazione (che, in questo caso, voleva dire per l’una assoggettare l’altra) ed il 25 giugno del ’50 alle 04:00 del mattino i cannoni Nordcoreani iniziarono a fare fuoco oltre il confine stabilito fra le

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due giurisdizioni, il 38° parallelo. Truman puntò sin da subito ad una pace negoziata mentre Mac Arthur voleva intervenire pesantemente a terra e dal celo anche con l’uso di armi atomiche. Il generale Mac Arthur si distinse durante la seconda guerra mondiale per le molte operazioni alle quali prese parte in estremo oriente, alcune delle quali discutibili, ed era presente sulla corazzata Missouri quando la delegazione Giapponese firmò l’armistizio e successivamente ottenne l’incarico di comandante supremo delle forze Alleate in Giappone con controllo assoluto di tutte le istituzioni giapponesi, compreso l’imperatore. Era un uomo molto forte, di polso e carismatico, ma anche eccessivamente egocentrico; non si tirava mai indietro davanti ad una dichiarazione ad effetto che potesse scuotere gli animi degli americani ancora stravolti dalla guerra e quindi godeva del rispetto e dell’appoggio della stragrande maggioranza di essi quando parlava di usare l’atomica in Corea mentre Truman, nonostante fosse il solo a dimostrare un minimo di buon senso, veniva duramente criticato per la sua mancanza di polso nel gestire questa crisi e soventemente anche avvicinato ai comunisti. Mac Arthur nella sua lunga carriera militare combatté tre guerre e ottenne innumerevoli successi, nonostante la sua fermissima autorità in Giappone protesse sempre la famiglia reale per non minare l’identità della Nazione ed introdusse norme e sussidi che fecero innescare nel paese una sorta di circolo virtuoso che lo portò dalle macerie di Hiroshima e Nagasaki alla grande società che è oggi. D’altro canto il suo spirito estremamente militare riteneva che una volta entrati in un conflitto si doveva combattere allo stremo per annientare quanto prima il nemico, la sua propensione per l’utilizzo del nucleare era comunque quasi insana e fu proprio lui a comandare l’esercito in quella che forse è stata la più grande sconfitta americana del XX secolo, escluso il Vietnam: la ritirata nella battaglia dello Yalu (Corea) contro l’esercito cinese, che durò svariati mesi. Giunto oramai alla fine della sua carriera, in pieno contrasto con le idee di una guerra “soft” da parte della Casa Bianca iniziò a minacciare apertamente Cina e Russia (probabilmente con l’obiettivo di arrivare a combattere contro i russi stessi) tanto da costringere il presidente Truman a revocargli il comando delle truppe per “grave insubordinazione” il 10 aprile 1951. La guerra di Corea andò avanti fino al 27 Luglio 1953 quando, dopo continue vittorie ed occupazioni da parte di entrambe le fazioni e dopo continui rinvii per la firma dell’armistizio, la situazione rimaneva pressoché simile a quella antecedente la guerra. Questa volta però le Coree non erano occupate ma libere, sempre due, il cui confine correva ancora sul 38° parallelo. Nascevano la Corea del Nord con capitale Pyongyang e la Corea del Sud con capitale Seoul. Affinché questo avvenisse ci vollero 2 milioni di morti. La politica interna americana del tempo, dunque, era paradossalmente anche quella estera, quasi ogni decisione era atta a gestire fattori esterni ai confini nazionali: la crescente espansione d’influenza della Russia, la sua ascesa a potenza atomica, i legami degli Stati Uniti con Nuova Zelanda ed Australia per ottenere una sicura alleanza nel Pacifico, la militarizzazione della Germania, l’appoggio alle truppe indipendentiste cinesi e a quelle francesi in Indocina. L’opinione pubblica era molto confusa, una buona fetta di americani nutriva dubbi sullo spessore dei propri politici e sempre più spesso venivano imbastiti dibattiti, ad ogni livello, sulla presunta penetrazione del comunismo all’interno dell’America stessa, vista la sempre più minacciosa (ed inesplicabile) espansione sovietica. A tal proposito ebbe molto lavoro la cosiddetta “Commissione per le attività antiamericane”, nata sotto in New Deal, e la rete di spionaggio internazionale. Questo clima distrusse completamente la già precaria sinistra politica americana, e spesso traduceva lecitissime manifestazioni o attività sindacali in veri e propri atti terroristici; ne risentì soprattutto la cultura generale, con le università indirizzate solo ed esclusivamente verso l’anti comunismo e la stessa libertà d’opinione di molti cittadini messa in discussione. Tutte le riforme vennero rinviate e la stessa essenza dell’America, il liberalismo, veniva oscurata da questa sorta di caccia alle streghe.

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Il senatore Repubblicano McCarty si avvalse di quest’atmosfera di paura di sovversione per imbastire feroci battaglie con i Democratici, ed utilizzava qualsiasi mezzo e qualsiasi fonte – anche se falsa – per gettare fango sui suoi avversari politici pur di affossarli e soddisfare il suo desiderio di realizzare un’America ultraconservatrice. Bastava diffamare qualsiasi liberale come amico dei comunisti per avere la metà del Paese ai propri piedi, soprattutto la classe votante forte, quella dei farmers e delle classi meno abbienti che non lo vedevano come un millantatore ma come il difensore della vera America. Egli parlava di una lista che conteneva un numero – modificato varie volte, andava da 57 a 205 – di comunisti o simpatizzanti del comunismo che lavoravano o avevano lavorato per il dipartimento di Stato e che sobillavano in segreto contro la Nazione. Venne istituita una commissione presieduta dai Democratici alla quale però presero parte entrambe le fazioni politiche che alla fine, dopo lunghi studi, giudicò i pochi nomi snocciolati da McCarty come non comunisti ed il senatore fu accusato di aver mentito al popolo americano e di averlo confuso più di quanto i comunisti stessi progettassero di fare. Truman quindi, nonostante il poco gradimento che aveva dai suoi connazionali, riuscì anche grazie a questa mossa a rivincere le elezioni del 1948 con il 49,5% dei voti. Nel quadriennio successivo, come già detto, egli dovette affrontare la Guerra di Corea e la caccia alle streghe comuniste ma diede vita alla NATO e riuscì anche ad imbastire un piano di riforme che prese il nome di Fair Deal. Nonostante sia stato un presidente essenzialmente giusto la sua notorietà ebbe alti e bassi e nel finire del suo secondo mandato calò nuovamente; i suoi avversari politici riuscivano puntualmente a bloccare svariati suoi progetti e questo non giovò di certo ai neri (lui era un liberale, i suoi avversari Democratici conservatori e Repubblicani). Il suo avversario politico dunque, ebbe facile vittoria alle elezioni del ’52: si trattava del generale dell’esercito durante la seconda guerra mondiale, Dwight D. Eisenhower, nominato dai Repubblicani. Gli otto anni di mandato di Eisenhower vengono generalmente ricordati come anni felici e tranquilli, in cui la società media viveva con un tenore di vita abbastanza soddisfacente, con i prodotti a buon mercato ed uno stile di vita molto semplice. Eisenhower fu comandante in capo delle Forze Alleate in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale e comandò, fra le varie missioni, gli importanti sbarchi in nord Africa e Italia del 1943 e l’Operazione “Overlord” che nel Giugno del ’44 portò allo sbarco in Normandia quindi alla fine della guerra pareva in evitabile che qualche forza politica l’avrebbe scelto come suo rappresentante. A differenza di quello che pensavano in molti egli non smantellò il New Deal, anzi collaborò spesso con i sindacati e iniziò una rigorosa politica di quadramento dei conti. Il grande apporto alla società americana Eisenhower lo diede ringiovanendo la Supreme Court dandole un’impronta liberale la quale vietando come anticostituzionale la segregazione razziale diede spunto ai primi movimenti d’emancipazione che sarebbero sfociati, a meno di una decina di anni di distanza, nelle grandi manifestazioni degli anni ’60. Nasceva quindi anche l’immagine forte di Martin Luther King che con i suoi discorsi alla nazione nutriva le speranze dei neri di raggiungere l’uguaglianza con i bianchi sotto ogni aspetto legale, civile e sociale, facendo appello alla disubbidienza civile e alla resistenza non violenta sulla falsa riga del pensiero di Gandhi. Ovviamente spesso e volentieri questo scontro di idee si trasformava in scontro fisico e innumerevoli furono le rivolte e le conseguenti soppressioni da parte delle autorità. Un’altra parte dell’America costituiva invece quella “generazione silenziosa”, gelosa di propri averi e dedita al lavoro e al consumismo finalizzati al benessere familiare: ne scaturì un vero e proprio baby boom. In questo clima interno teso ma comunque stabile Eisenhower poté facilmente vincere anche le elezioni del 1956. In politica estera la filosofia di Eisenhower fu invece abbastanza ambigua. In campagna elettorale egli aveva accusato Truman di perseguire una lotta al comunismo del tutto inefficace ma praticamente continuò con la linea del suo predecessore limitandosi a stringere quante più alleanze possibili in

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Europa e nel mondo per accerchiare o isolare i paesi filocomunisti. Non riuscì ad evitare l’avvento di Castro e del comunismo a Cuba e allo stesso tempo il progresso tecnologico statunitense sembrò vivere una fase di stallo tantoché i russi nel 1957 furono i primi a lanciare in orbita un satellite artificiale, lo Sputnik. Si iniziò a parlare di “rappresaglia massiccia” e cioè di aiutare con mezzi e fondi quei Paesi che vivevano in regimi comunisti alfine di aizzare rivolte e colpi di stato addestrando gli abitanti stessi di quei Paesi alla lotta armata e si iniziò a parlare di “corsa allo spazio”. Gli Stati Uniti erano arrivati secondi nella gara a chi lanciasse per prima in orbita un oggetto fabbricato sulla Terra, ora dovevano essere i primi a mandare un uomo sulla Luna. L’America voleva un volto nuovo, giovane, che sapesse relazionarsi col pubblico e con il Mondo e John Fitzgerald Kennedy divenne l’uomo giusto al momento giusto. Anche lui combatté la Seconda Guerra Mondiale, nel Pacifico, si laureò giovanissimo in scienze politiche e alla scomparsa di suo fratello maggiore, sempre in guerra, ereditò per così dire il compito di rappresentare la sua famiglia in politica. In pochi anni diventò senatore, poi governatore del Massachusetts, infine, a soli 39 anni 35° Presidente degli Stati Uniti. Era il 1960 e vinse le elezioni contro Richard M. Nixon, Repubblicano e ultraconservatore, per una manciata di voti. Internamente si fece promotore dei diritti dei cittadini, dell’intraprendenza del singolo e dello slancio innovativo il tutto accomunato dallo slogan della New Frontier, una sorta di nuovo New Deal e Fair Deal. Nonostante i buoni propositi, comunque, la sua legislazione non poté neanche minimamente avvicinarsi allo stravolgimento che portarono quelle di Roosevelt, anche perché l’opposizione repubblicana e democratica del Sud all’epoca erano molto forti e serrate nel respingere i disegni di legge di stampo riformistico. Così il Congresso respinse regolarmente le iniziative liberali del Presidente finalizzate a combattere la povertà e a favorire l’istruzione e l’assistenza medica agli anziani nel quadro previdenziale sociale, aumentare il salario minimo e dare impulso ai trasporti pubblici e all’edilizia privata. Tutto veniva annacquato dal Congresso. Egli viveva inoltre un momento della società molto delicato in cui doveva tenersi stretto i suoi elettori bianchi ma allo stesso tempo fare i conti con la sempre più crescente rivalsa degli afro americani ed i loro sit-in di protesta in quanto la segregazione, ancora fortissima nel sud, era superata ma solo dal punto di vista costituzionale. Non essendo riuscito a portare vere e proprie riforme internamente, la breve seppur indimenticata (poco meno di 1000 giorni) esperienza di Kennedy alla presidenza si concentrò principalmente sulla politica estera ed i rapporti con la Russia. Il primo grande dilemma da affrontare era quello di gestire la questione cubana. Un piano di invasione già ideato da Nixon ai tempi della vicepresidenza per Eisenhower era ancora molto apprezzato all’interno degli ambienti militari americani: si voleva far insorgere la popolazione contro il comunismo e al contempo agire militarmente per smantellare qualsiasi organizzazione di sinistra. Le motivazioni dell’atto erano comunque pressoché valide: Castro propagandava l’unificazione degli stati del centro-sud America (e indirettamente la “sovietizzazione” di questi) e quindi la sicurezza stessa degli USA era messa, o meglio considerata, in pericolo. Sarebbe dovuta essere una grande azione militare atta a liberare un Paese dall’oppressione comunista, iniziata dall’interno e conclusa con l’intervento Americano, ed invece fu una disfatta: fra il 17 e il 20 Aprile del 1961 la forze armate cubane affondarono due navi americane e nove bombardieri, i circa 1500 controrivoluzionari cubani si arresero quasi subito, 157 morirono, e gli altri furono arrestati e processati – pare in maniera molto umana – i pochi che riuscirono a fuggire e a mettersi in salvo su un sommergibile americano erano quasi in fin di vita visto che furono lasciati senza cibo ne acqua per cinque giorni. Non fu un grande insuccesso dal punto di vista militare o economico (sebbene gli Stati Uniti dovettero rimborsare a Cuba 53 milioni di dollari) quanto da quello dell’immagine: l’America si batteva per la libertà degli

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uomini e come super potenza predicava la libertà di ogni singolo Stato libero e sovrano di poter decidere del proprio destino, ed invece ne aveva invaso (tecnicamente fatto invadere) uno non riuscendo, per giunta, a raggiungere l’unico obiettivo prefissato che era quello di destituire Castro. Kennedy probabilmente non aveva fatto i conti con il fatto che i cubani stessi non volevano questo cambiamento e che quindi l’idea di fondo era di persè sbagliata, ma imparò allo stesso tempo a non dare più tanto peso a quelle che erano le “indicazioni” degli alti stati militari. Nei circa tre anni di mandato come Presidente, comunque, il momento più critico della gestione Kennedy fu quello della cisi dei missili sovietici a Cuba circa un anno dopo la disfatta della Baia di Porci. Già dal 13 agosto del ’61 l’Unione Sovietica dava inizio alla costruzione del Muro di Berlino minando di gran lunga le speranze di chiunque di porre fine a quel continuo stato di tensione ed incertezza, non bastasse quello il 14 ottobre 1962 un aereo spia U2 della marina americana intercettò costruzioni di tipo militare che contenevano basi e appoggi per testate nucleari. Il giorno dopo iniziò la crisi. I motivi che condussero a questo status erano semplici: la Russia voleva una base strategica forte in caso fosse scoppiata una guerra nucleare e Cuba sentiva il bisogno di una buona ala protettrice dopo il collasso totale dei rapporti con gli Stati Uniti seguito dall’invasione mancata. Da quel momento, a detta di molti, si raggiunse il massimo picco di tensione durante la Guerra Fredda, e si continuò così per circa due settimane. Mai se non come in quei 13 giorni il mondo aveva avuto tanta paura di un olocausto nucleare e mai come in quei 13 giorni il mondo c’era andato tanto vicino. Il 22 ottobre il Presidente fece un discorso televisivo alla nazione ignara di tutto in cui spiegava ai suoi elettori cosa stesse succedendo, informando il mondo che qualsiasi attacco da parte di Cuba sarebbe stato considerato come un attacco da parte della Russia e che l’America avrebbe reagito di conseguenza, dichiarava inoltre la “quarantena” (parola sapientemente usata al posto di “blocco navale” che sarebbe sembrata una vera e propria dichiarazione di guerra) ai porti cubani. Il 25 ottobre in una sessione d’urgenza dell’ONU l’esponente russo negò l’esistenza di queste basi e rimase quasi indifferente quando poco dopo quello americano, Adlai Stevenson (candidato quattro anni prima alla Casa Bianca contro Eisenhower), mostrò a tutti le foto delle basi. L’allora leader dell’unione sovietica e successore di Stalin, Chruščëv, inviò fra il 23 e 24 ottobre due lettere a Kennedy nelle quali descriveva le intenzioni deterrenti, ma pacifiche, di quest’azione da parte della Russia ed il 26 ottobre arrivarono a Washington le disposizioni per lo smantellamento dei missili. La Russia chiedeva sicurezza per il proprio territorio e l’astensione da parte degli USA ad intentare nuove invasioni a Cuba, nonché lo smantellamento delle basi missilistiche statunitensi in Turchia (anche se ce ne erano altre con testate puntate verso la Russia in Italia e Gran Bretagna). Il 27 ottobre fu il giorno dove si decise il destino del mondo. Un bombardiere americano partito per un ordine locale vene abbattuto su Cuba ed uno quasi intercettato nei cieli russi. Il generale Thomas S. Power, capo del Comando Aereo Strategico USA, diede disposizione alle sue truppe di prepararsi in assetto di guerra, ma senza consultare la Casa Bianca. Allo stesso tempo dei mercantili sovietici, partiti in estate e carichi di armamenti, stavano per raggiungere le coste Cubane violando così la quarantena e, si scoprì quarant’anni più tardi, uno arrivò ad una sillaba dal lanciare una testata nucleare quando l’ufficiale Vasili Alexandrovich Arkhipov si rifiutò di confermare il lancio di una testata nucleare mentre era sotto attacco da una nave da battaglia americana. Per iniziare tale attacco, le procedure navali sovietiche richiedevano che il capitano e altri due ufficiali confermassero l'ordine. L'altro ufficiale in servizio e il capitano stesso approvarono il lancio, ma Arkhipov espresse un "niet" e convinse gli altri due ad attendere istruzioni da Mosca prima di procedere. Kennedy rispose alla richieste russe accettando pubblicamente la prima richiesta dei russi, quella di non invadere Cuba, e mandò suo fratello Robert a Mosca per discutere privatamente sulla

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gestione del ritiro dei missili in Turchia. Le navi sovietiche allora fecero dietrofront e Chruščëv si pronunciò il 28 ottobre sullo smantellamento delle basi missilistiche e dei missili sovietici presenti sul territorio cubano. Il mondo era salvo, avevano vinto i più assennati, e il 20 novembre Kennedy ordinò la fine della quarantena su Cuba. Già dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, intanto, si era creata in Vietnam (allora ancora Indocina) una situazione abbastanza delicata. Alla fine della guerra la Francia aveva avanzato rivendicazioni su quei territori del sud est asiatico e inviato svariate truppe per assicurarsene la conquista. Come in Germania, come a Cuba, le sfere d’influenza occidentali e comuniste giocavano il loro ruolo e, alla sconfitta dei Francesi avvenuta nel 1954, la situazione precipitò. Dopo la guerra franco-indocinese venne tenuta una conferenza a Ginevra che divise l’Indocina in quattro stati: il Laos, la Cambogia, il Vietnam del Nord ed il Vietnam del Sud. A nord si stabilì una repubblica popolare di tipo comunista che scelse come leader il capo dei rivoluzionari Ho Chi Minh (i rivoluzionari facevano parte della razza Viet Nim, da lì il nome Vietnam) con capitale Hanoi, mentre nel sud venne instaurato un regime controllato dagli americani che aveva come capo il cattolico Ngô Đình Diệm, la capitale era Saigon. Nel Vietnam del sud erano presenti 700 consiglieri militari americani che sarebbero serviti a mantenere l’ordine ma una serie di eventi portarono i due Paesi, ed indirettamente i Paesi che li proteggevano, allo scontro diretto. La popolazione vietnamita era infatti solo in stretta minoranza cattolica e filooccidentale, sia nel nord che nel sud, e quindi ben presto si formarono associazioni di tipo terroristico atte a riunificare il paese sotto un’unica bandiera. Il governo di Diem, intanto, commetteva un errore dopo l’altro sia dal punto di vista delle riforme sociali che dell’immagine (era un governo fortemente nepotista ed autoritario) e già nel 1957 iniziarono i primi scontri. Nel ’56 ci sarebbero dovute essere delle elezioni popolari che avrebbero unificato i due paesi, poi rifiutate da Diem per paura di brogli da parte delle fazioni comuniste, quindi un anno più tardi un commando di Viet Cong (i vietnamiti del nord) assaltarono un palazzo governativo uccidendo svariati funzionari, fra cui alcuni americani. Il 1960 può essere considerato l’anno di inizio della guerra. L’idea ovviamente era quella di impedire che il Vietnam del Sud venisse in realtà incorporato – non unificato – dal Vietnam del Nord. Le fazioni di Viet Nim che avevano combattuto per l’indipendenza infatti erano presenti in tutto il territorio, non solo al nord, e quindi considerando che, desumibilmente, in nordisti avrebbero votato comunista per scelta o per forza e che parte dei sudisti avrebbero fatto altrettanto, Diem si rifiutò di accettare le elezioni, dietro ovviamente una forte pressione da parte dell’America che vedeva nel Vietnam del Sud una roccaforte importantissima e incedibile per contrastare il comunismo, una sorta di testa di ponte con l’Asia. Nel ’57 veniva fondato nel Nord il FLN (Fronte di Liberazione Nazionale, filocomunista) che raccoglieva tutti coloro che volevano un Vietnam unito sotto l’ala protettrice russa e cinese e assieme a questi si schierarono gli oppositori di Diem nel sud. Appena eletto, e seguendo una linea già tracciata dal mandato di Eisenhower, il presidente Kennedy inviò da subito delle truppe nella zona per contrastare le sempre maggiori guerriglie e guerre vere e proprie che gli indipendentisti ingaggiavano con l’esercito sudista e i consiglieri americani crebbero così da 700 a 16.000 in maniera graduale ma abbastanza repentina. Nonostante nessuno in America era intenzionato a combattere una guerra per il Vietnam era impossibile pensare di lasciare un pezzo di terra, un qualsiasi pezzo di terra, alla Russia o al comunismo. Il 1 novembre del 1963 il governo americano incoraggiò un controverso colpo di stato nel Vietnam del Sud nel quale venne ucciso lo stesso Diệm e suo fratello con lo scopo di sostituirlo con dei leader militari i quali, però, risultarono inefficienti e corrotti tanto da far scivolare pericolosamente il Sud in una disfatta epocale. Qualche giorno più tardi, il 22 novembre del ’63, finì la vita di Kennedy ed cominciò il suo mito.

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Il Presidente era in viaggio propagandistico negli Stati del Sud, e precisamente in Texas, al fine di avvicinarsi ai quegli americani che non vedevano di buon occhio la sua politica favorevole all’abolizione di tutte le segregazioni razziali quando a bordo dell’auto in cui viaggiava per le strade della città di Dallas fu raggiunto da due colpi di fucile. Da allora non si sa tutt’oggi molto sulla dinamica dell’omicidio e su chi possa esser stato l’effettivo esecutore e le teorie sull’accaduto che si sono susseguite sono state molteplici. Molti, ad oggi, ritengono che si sia trattato di un complotto interno mirato a porre termine all’influenza che il Presidente aveva maturato in molti campi, a detta di alcuni scomoda, ponendo fisicamente fine alla sua vita. Poche ore dopo l’assassinio, che avvenne in Dealy Plaza alle 12:30 locali, venne arrestato Lee Harvey Oswald, un impiegato della Texas School Book ivi ubicata, il quale però nonostante le 18 ore di interrogatorio non riuscì a dichiarare limpidamente la sua colpevolezza che non verrà tuttavia mai effettivamente provata in quanto, due giorni dopo, egli stesso verrà assassinato dal gestore di un night club. Furono molteplici le inchieste aperte sul fatto, la prima fu aperta proprio dal successore di Kennedy e suo precedente vice, Lyndon Johnson, ora 36° Presidente in carica. Un primo rapporto, detto Warren, sosteneva che da un solo punto sarebbero partiti tre proiettili dei quali due sarebbero andati a segno. Il primo proiettile dunque sarebbe andato a vuoto, il secondo avrebbe colpito Kennedy al schiena, sarebbe poi uscito dalla gola, per poi entrare nella schiena di Connally (governatore del Texas, seduto nei sedili davanti a quelli dei Kennedy con sua moglie) per uscire dal polso destro e fermarsi nella coscia sinistra del governatore. Un terzo proiettile sparato sempre da dietro il corteo avrebbe ferito mortalmente il Presidente alla testa. Non a caso questa viene definita teoria della “pallottola magica”, e affermava quindi che Oswald avrebbe agito completamente da solo. Studi successivi includevano altri tiratori in quanto i spari sarebbero potuti essere quattro, e non tre, e provenire da punti differenti ma tutte incappano prima o poi in qualche punto oscuro. A detta mi molti contemporanei l’omicidio di Kennedy non fu ideato e realizzato da una sola mente malata ma da una vera e propria organizzazione (semmai governativa) ed è per questo che la teoria più avvalorata dagli americani oggi è quella del complotto. Nonostante il grande impatto che la cosa ebbe sull’opinione pubblica e la successiva mitizzazione del personaggio, Kennedy risultò essere sì un Presidente moderno, abile con i media e lungimirante, ma al contempo macchiò la sua carriera politica con interventi che lasciano forti dubbi sul suo effettivo valore come Capo di Stato come il poco carattere mostrato nei confronti dei vertici militari in occasione dello sbarco nella Baia dei Porci, l’eccessiva sfacciataggine (per alcuni fu solo un giusto atteggiamento deterrente) mostrata durante la crisi dei missili cubani, e la presunta strumentalizzazione dei neri e dei loro diritti durante la sua prima campagna elettorale in quanto tutte le promesse di uguaglianza e libertà poterono essere attuate, se pur mai definitivamente, solo svariati anni più tardi. Gli anni di Johnson come Presidente (1963-1968) furono forse quelli che più di tutti caratterizzarono l’America e la sua società in questo secolo. Furono questi gli anni dell’inizio dell’escalation della guerra nel Vietnam, delle rivolte razziali e del tentativo di costruire la cosiddetta “Great Society”. Per quanto riguarda la realizzazione della Grande Società, potremmo dire, Johnson fece un buon lavoro. Nonostante inizialmente venne considerato un rozzo e ignorante piccolo uomo del sud (almeno agli occhi dei liberali Kennedyani) , si dimostrò invece un grande conoscitore dei meccanismi interni del Congresso e, a differenza del suo predecessore, riuscì a farsi approvare quasi la totalità delle sue proposte di legge. Certo, molte furono in realtà ideate da Kennedy e attuate in onore della sua memoria, ma è indubbio il contributo che Johnson diede alla loro entrata in vigore. Ricordiamo, fra le varie, la legge sui diritti civili che fu la più grande legge di uguaglianza razziale dai tempi della Reconstruction, una legge sull’eguaglianza nel

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lavoro – sempre a favore delle minoranze etniche - , la lotta senza quartiere alla povertà in America e nelle zone meno ricche come quella degli Appalachi, l’emanazione di sussidi e agevolazioni per chi intendesse studiare senza averne la possibilità economica. Con questo insieme di riforme che avrebbero dovuto mettere fine alla povertà e alle diseguaglianze in America Johnson si presentò alle elezioni del ’64 abbastanza sicuro della vittoria. Il suo avversario Repubblicano, Goldwater, tra l’altro non fece nulla per negare le sue simpatie per le teorie di McArty e per non passare da chiuso guerrafondaio, ed in un Paese che aveva appena iniziato ad amare Kennedy non poteva certo sperare di trarre qualche vantaggio da questo atteggiamento. Goldwater si dichiarava contrario alle leggi sui diritti civili e parlava di South Western Patriotism che, qualsiasi cosa volesse significare, non includeva certo un’apertura alla cultura e alle influenze Europee. Inoltre era un forte sostenitore dell’utilizzo dell’atomica in Vietnam e Cuba se queste non avessero ceduto e, nonostante tutto, nonostante la grande sconfitta contro Johnson riuscì ad ottenere il 40% dei voti validi, segno che una parte dell’America, come sempre, era paurosa e conservatrice. Subito dopo la sua elezione Johnson riversò sul Congresso tutte quelle riforme che aveva in mente per attuare la Great Society e ottenne quasi tutto quello che voleva: dall’abolizione della tassa per il voto in modo da garantire a tutti, anche ai meno abbienti, la possibilità di far valere il loro diritto, all’istituzione dell’istruzione minima obbligatoria, all’introduzione di sovvenzioni assicurative gratuite per gli anziani e per i destinatari della previdenza sociale, agli indennizzi per l’acquisto della prima casa, il miglioramento delle infrastrutture e infine alla liberalizzazione dell’immigrazione. Istituì anche un ministero per la salvaguardia dell’ambiente al capo del quale sedette il primo ministro nero della storia degli USA, Robert Weaver. Paradossalmente tante buone riforme sembrarono svegliare le coscienze di praticamente tutte le singole minoranze alle quali erano dirette ed incitarne le ribellioni. I neri d’America si sentirono sempre più in dovere di chiedere un’uguaglianza a tutto campo e passarono dalla lotta non violenta predicata da Martin Luther King a quella fisica di Malcolm X. Entrambi verranno assassinati, il primo nel 1968 il secondo nel 1965. A Malcolm X viene accostata la realizzazione del pensiero Black Power e la successiva fondazione del gruppo delle Pantere Nere i quali lottano per la difesa ed in alcuni casi il predominio della razza afroamericana. Assieme ai neri anche i messicano-americani e gli indiani d’America si riunirono in manifestazioni e rivolte e con loro le donne che iniziarono a fondare vere e proprie associazioni che ne tutelassero il diritto e l’indipendenza. Negli anni ’60 infatti quasi la metà della popolazione femminile del Paese aveva una propria occupazione e la tranquillità della sfera domestica non era più la massima aspirazione della donna. Gli stessi studenti universitari, che ora si avvalevano delle sovvenzioni statali emanate dal Governo Johnson per continuare o iniziare gli studi al college iniziarono a riunirsi in cortei e grandi manifestazioni per dimostrare la loro completa obiezione all’escalation di eventi che stava portando sempre più ragazzi americani (era stata re-istituita la leva obbligatoria) a morire in Vietnam. Fondamentalmente la guerra in Vietnam iniziò, per l’America, sotto l’amministrazione Johnson, e più precisamente con l’episodio dell’incidente del Golfo del Tonchino avvenuto nell’agosto del 1964. In quell’occasione delle navi nordvietnamite attaccarono, pare, delle navi americane (la dinamica dei fatti non sarà mai veramente chiara) e di conseguenza Johnson chiese ed ottenne dal Congresso di firmare la cosiddetta “Risoluzione sul golfo del Tonchino” grazie alla quale il Presidente si assumeva l’incarico di decidere a sua discrezione in che modo ed in che numero utilizzare uomini in Vietnam. Era iniziata quindi l’escalation della guerra vietnamita e, nonostante in campagna elettorale Johnson si fosse dichiarato fortemente contrario alla dottrina pro guerra di Goldwater, ora aveva egli stesso preso in mano le redini del conflitto. Vennero inviate truppe aeree, principalmente elicotteri, per stanare e combattere i guerriglieri i quali però avevano buon

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gioco nel nascondersi fra la fitta vegetazione interna del Vietnam del Sud, visto che la maggior parte della popolazione viveva sulla costa. L’esercito del sud, tra l’altro, venne addestrato dei ben noti consiglieri americani che invece di premere sulle imboscate e gli attacchi a sorpresa (punto forte dei Viet Cong) fornirono ai militari carri armati e armamenti pesanti, del tutto inadeguati. In più iniziarono i bombardamenti veri e propri dei B52 americani in tutto il territorio e, alla fine del ’68, si contavano 540.000 unità americane presenti in Vietnam. Da qui innumerevoli proteste di studenti e civili che vedevano fiumi di dollari spesi per combattere una guerra non americana anziché per migliorare quello che si doveva migliorare all’interno del Paese e sebbene Johnson fu un buon presidente, fortemente liberale e sensibile ai diritti dei cittadini, questa decisione fece calare a picco la sua popolarità, tanto che decise di non ripresentarsi alle elezioni del 1968. A completare l’attuale composizione di 50 Stati più il District Of Columbia vennero annessi agli USA i territori dell’Alaska il 3 Gennaio del 1959 e le Hawaii il 21 Agosto dello stesso anno. Date citate: 02 aprile 1945 – Il Presidente Roosevelt muore in seguito ad apoplessia cerebrale, Harry S. Truman (Democratico, Missouri) diventa il 33° Presidente degli Stati Uniti 05 maggio 1945 – Resa incondizionata della Germania 06-09 Agosto 1945 – Bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki 15 Agosto 1945 – Il Giappone firma la resa. Fine del secondo conflitto mondiale 12 Marzo 1947 – Truman annuncia la Dottrina Truman e da il via al piano Marshall 24 Giugno 1948 – 5 Maggio 1949 – Embargo a Berlino ovest 1948 – Secondo mandato Truman 04 Aprile 1949 – Istituzione della NATO 23 Maggio 1949 – Istituzione della Repubblica Federale di Germania 07 Ottobre 1949 – Istituzione DDR 24 Giugno 1950 – Guerra di Corea 10 Aprile 1951 – Mac Arthur viene allontanato dalla Guerra di Corea 27 Luglio 1953 – Fine della Guerra di Corea 1954 – Sconfitta dei francesi in Indocina e conferenza di Ginevra 1955 – Patto di Varsavia

1952 – Dwight D. Eisenhower (Repubblicano, Kansas) è il 34° Presidente degli Stati Uniti 1956 – Secondo mandato Eisenhower 04 Ottobre 1957 – La Russia manda in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik 1960 – Inizio guerra del Vietnam 1960 – John Fitzgerald Kennedy (Democratico, Massachusetts) è il 35° Presidente degli Stati Uniti 15-17 Aprile 1961 – Disfatta della Baia dei Porci 13 Agosto 1961 – Inizio costruzione Muro di Berlino 15-28 Ottobre 1962 – Crisi dei missili sovietici a Cuba 1° Novembre 1963 – Colpo di Stato in Vietnam 22 Novembre 1963 – Assassinio del Presidente Kennedy 1963 – Lyndon B. Johnson (Democratico, Texas) diventa il 36° Presidente degli Stati Uniti 1964 – Johnson viene rieletto Presidente Agosto 1964 – Incidente del Golfo del Tonchino e Risoluzione sul golfo del Tonchino. Inizio dell’escalation in Vietnam.

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Un viaggio incompiuto?

(1968-2000) Rimane ancora oggi da capire se quello che iniziarono i primi esploratori nel XV secolo sia stato un viaggio che abbia portato alla nascita di una grande nazione che oggi domina e regola le egemonie mondiali o se questa debba ancora trovare il suo assetto. Quello che pareva uno status definitivo, ad esempio, fu fortemente messo in dubbio dalle manifestazioni studentesche degli anni ’60 e ’70 che vedevano coinvolti una nuova generazione di giovani più matura, fortemente votata alle materie umanistiche, contraria alla guerra e rivolta al futuro, l’esatto contrario di quella che sembrava essere la “vera America” e cioè quella società (che Nixon definirà astutamente “maggioranza silenziosa”) attaccata alle proprie radici e impaurita da ogni tipo di cambiamento. Su questo punto il candidato Repubblicano alle elezioni del 1968 Richard M. Nixon basò la sua intera campagna elettorale, egli prometteva un “piano segreto” per porre fine alla guerra nel Vietnam ed il suo temperamento prettamente autoritario e conservatore gli concesse la simpatia della grande maggioranza degli americani radicali, antiprogressisti e conservatori, soprattutto nel sud ovest. Le sue continue battaglie contro gli hippies, i figli dei fiori che di fronte all’impotenza nel riuscire a porre una vera opposizione alla guerra nel Vietnam avevano scelto questo stile di vita naturale e pacifista, lo resero ben popolare all’interno di certi ceti e, seppur con un margine risicatissimo, riuscì ad aggiudicarsi la corsa alla Casa Bianca del 1968. Nixon fu un presidente molto ambiguo a detta di molti, quasi paranoico: fu quello che di più di tutti si avvalse dei servigi dei servizi segreti per affari interni ed esterni ma allo stesso tempo, a differenza di quello che poteva sembrare prima della sua elezione si adoperò molto per riallacciare i rapporti con Cina e Russia. La questione più spinosa del suo mandato, come per il suo predecessore, fu proprio la guerra del Vietnam. Nel 1969 c’erano oltre mezzo milione di americani a fare la guerra nel sud-est asiatico che subivano continue sconfitte e ingenti perdite di fronte ai meglio organizzati guerriglieri del Nord. Gli americani erano soliti attaccare dall’alto con bombe al napalm e diserbanti che comunque non solo colpivano i Viet Cong ma anche l’esercito statunitense a terra e migliaia di civili, per non parlare dei gravi danni economici (l’economia del Vietnam si basa quasi esclusivamente sull’agricoltura) che queste azioni portavano al Paese, senza considerare per di più che i guerriglieri riuscivano regolarmente a riorganizzarsi anche grazie soprattutto ai continui sussidi economico-militari che dall’URSS arrivavano ad Hanoi. Uno degli scontri più sanguinosi e disastrosi avvenne in occasione del Têt, il capodanno buddista, il 30 gennaio 1968. Mentre la maggior parte delle truppe americane erano impegnate al confine col Laos, sul 17° parallelo, oltre cinquantamila combattenti attaccarono contemporaneamente Saigon e svariate città importanti, per poi penetrare nel centro della capitale e instaurare un governo provvisorio. La reazione americana fu violentissima in quanto nei giorni successivi vennero bombardati tutti i centri perduti e quindi riconquistati; quello fu un momento molto importante ai fini della guerra in quanto da allora in poi l’onere di combattere fu affidato ai soli militari del Nord, non più ai Viet Cong (Viet Cong = dispregiativo per indicare un vietnamita “rosso” del Sud) e questo fatto, con la conseguente umiliazione internazionale, indusse Johnson a non ricandidarsi e a lasciare al suo successore l’intero peso della vicenda. Johnson comunicò che la sua rinuncia, comunque, derivasse dall’intenzione di prodigarsi esclusivamente a raggiungere la pace nel Vietnam. Nixon quindi, dopo la conferenza di Parigi nella quale si ammetteva che questa guerra non poteva essere vinta e che bisognava optare per una politica differente e certamente non più militare, fu colui che da

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Presidente si occupò della “vietnamizzazione” del Paese. Con questo termine si intendeva il lento e regolare ritiro delle truppe americane in Vietnam con la sostituzione di truppe locali. Inizialmente la cosa non fu molto presa in considerazione dalla governo americano, anzi il conflitto venne esteso anche in Cambogia, ma per un grande numero di americani la cosa era diventata oramai insostenibile. La guerra non veniva vista come un affare interno, chiedeva una spesa immensa e soprattutto turbava la coscienza di chi poteva guardare tutte le immagini, per la prima volta nella storia, in televisione. Il ’68 rivoluzionario giovanile in America ed Europa prendeva questi elementi come spunto per dar vita a tutte le proteste contro il potere e l’imperialismo dei governi e, per di più, molti volti noti come il campione di pugilato Cassius Clay “Mohamed Ali” rifiutavano di partecipare ad un conflitto – nel suo caso rinunciando alla leva obbligatoria e scontando tre anni di reclusione – conflitto che oramai ritenevano inutile. Molte proteste si tradussero in scontri e molti scontri contarono anche dei morti civili, come i quattro studenti uccisi in Ohio dalla guardia nazionale all’università di Kent State. Nonostante la testardaggine di alcuni nel continuare a credere in una possibile vittoria il disimpiego delle truppe era inesorabilmente previsto e cominciato e questa sorta di ritirata poteva essere facilmente nascosta dietro il termine – appunto – vietnamizzazione. Per di più l’estendere il conflitto in Laos e Cambogia diede spunto agli indipendentisti di quelle due nazioni per iniziare anche i quei posti rivolte contro il potere. Il 27 Gennaio 1973 veniva firmata a Parigi la pace fra Vietnam del Nord e Stati Uniti ed il 30 Aprile 1975 (quando Nixon non era già più Presidente) i guerrieri del Nord attaccarono e conquistarono Saigon, unificavano i due Vietnam e ponevano di fatto fine al conflitto anche dal punto di vista extra-statunitense. Era stata questa una guerra inizialmente sobillata e poi combattuta dagli Stati Uniti per arginare il comunismo e si era trasformata in una delle più grandi sconfitte della storia, in quanto una potenza atomica non era riuscita ad avere la meglio su un paese del Terzo Mondo. Morirono circa 50.000 soldati americani nei quasi quindici anni di conflitto e, per di più, sia il Vietnam che Cambogia e Laos avevano deciso di accettare regimi comunisti. L’avventura politica di Nixon fu dunque prettamente impostata verso la politica estera più che interna, sotto dal dottrina Truman di evitare il dilagare del comunismo . Un esempio forte fu, tanto per citare un caso clamoroso, l’appoggio “segreto” degli Stati Uniti alla rivoluzione cilena del generale Pinochet che dimise il governo democraticamente eletto (filocomunista) di Salvador Allende e ne uccise il massimo rappresentante, sostituendolo con un dittatura a cui capo c’era il generale e che durò svariati anni, apertamente appoggiata dagli USA. Il suo carattere burbero e molto spontaneo dunque, fecero si che Nixon si guadagnasse la presidenza grazie a quella maggioranza timorosa e un po’ bigotta che vedeva in lui il simbolo della vera America, ma gli mise contro tutte quelle altre categorie, fra cui quella pericolosa e forte dei giovani, che mai come in quegli anni entrarono in pieno contrasto generazionale con i propri genitori. Non ci dimentichiamo che furono quelli gli anni dell’esplosione delle droghe e dell’emancipazione sessuale, tanto che addirittura una sorta di nuova sinistra riuscì ad attecchire in certi ambienti anche se poi, ovviamente, dovette declinare miseramente nel Paese del capitalismo. Avere un Presidente dal carattere così duro ed una visione del potere quasi imperialistica, come diranno alcuni, comunque non portò solo mele marce all’interno della società americana, non vanno trascurati gli sforzi di Nixon per riprendere i rapporti con Russia e Cina, la firma di svariati trattati sul disarmo nucleare come il SALT I e la più significativa riforma ambientale dai tempi di Theodore Roosevelt e, ultimo ma non ultimo, lo sbarco sulla Luna. Il 21 Luglio 1969 infatti Neil Armstrong scese dalla navicella Apollo 11 e fu il primo uomo terrestre, americano lui, a mettere piede sul nostro unico satellite: una vittoria d’immagine immensa se si pensa che i sovietici furono i primi a mandare un satellite artificiale ed un uomo nello spazio. Va ricordato inoltre come Nixon diede una forte importanza alla figura ai suoi consiglieri, primo fra tutti Henry Kissinger (Consigliere alla Sicurezza e Segretario

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di Stato): sarà lui a volare fisicamente a Mosca e Pechino per discutere di disarmo e distensione, e in medio oriente per favorire la tregua nella guerra che Egitto e Siria avevano ingaggiato contro Israele nel Kippur a partire dal 6 ottobre 1973. In quell’occasione l’America diede inizialmente completo appoggio alla causa israelita inimicandosi le simpatie di tutti i paesi arabi e dovendo accusare un embargo petrolifero da parte di questi. Il lavoro diplomatico di Kissinger fu importantissimo per riportare tutto all’ordine ed annullare l’embargo. La carriera politica di Nixon finì ufficialmente l’8 Agosto 1974 a causa dello scandalo denominato “Watergate”, con le dimissioni del Presidente, rieletto da poco più di un anno. Nixon venne inizialmente accusato fin dalla campagna elettorale del 1972 di utilizzare i servizi segreti per il bene suo personale e del suo partito, servendosi di intercettazioni telefoniche, irruzioni, furti e spionaggio che toccarono il culmine nel giugno del 1972 quando delle cimici vennero piazzate nel quartier generale dei Democratici, il centro Watergate appunto, sito a Washington col tentativo di intercettare qualsiasi cosa venisse pronunciata al suo interno. Il tentativo di rendere tutto lo scandalo di pubblico dominio fallì grazie all’intervento delle forze di sicurezza e Nixon negò categoricamente che la Casa Bianca fosse in qualche modo implicata nell’affare. Tutto fu dunque temporaneamente insabbiato e Nixon vinse il suo secondo mandato ma il processo non si arrestò. Il processo giudiziario contro le spie del Watergate aveva accertato che la Casa Bianca era implicata nella vicenda avendo “assunto” degli ex agenti segreti della CIA, ora in pensione, che avevano il compito di penetrare regolarmente nella sede del Partito Democratico per installare/sostituire microspie e due reporter del Washington Post fecero in quei due anni di indagini (1972-1974) del loro meglio per pubblicare qualsiasi rivelazione potesse trapelare. Le prove c’erano tutte oramai, ma il Presidente si rifiutava di mostrarle. Quando il processo arrivò alla Sumpreme Court il vicepresidente Spiro Agnew rassegnò le sue dimissioni (ufficialmente per concorso in accettazione di tangenti) e fu sostituito dal popolare senatore Gerald R. Ford e solo quando fu costretto a consegnare tutti i nastri messo al corrente che alla Camera dei Rappresentanti sussisteva la maggioranza utile per accusarlo d’impeachment (lo stato d’accusa che chi ricopre cariche statali) Nixon decise di rassegnare le sue dimissioni. Lo fece con una comunicazione alla Nazione in data 8 Agosto in cui si dichiarava innocente e nella quale, comunque, rassegnava le sue dimissioni a partire dal mezzogiorno del giorno successivo. Era il primo Presidente degli Stati Uniti a dimettersi dalla sua carica. Gli successe allora Gerald Ford, l’unico Presidente USA a non essere stato democraticamente eletto né da Presidente né da vicepresidente. Il suo mandato non fu molto brillante, anche perché la prima decisione che prese fu quella di concedere l’amnistia a Nixon, suscitando non poche perplessità. Durante la sua presidenza, comunque, fu sottoscritto l’importante trattato di Helsinki (1975) sulla sicurezza e la collaborazione in Europa. Fondamentalmente Ford avrebbe anche potuto vincere le elezioni del ’76 più che altro perché i Democratici non avevano un valido candidato da opporre. Questi ultimi optarono, dunque, per un personaggio pressoché sconosciuto, l’ex governatore della Georgia James Earl Carter che, non avendo un passato eclatante, poté facilmente presentarsi come una persona estranea agli scandali di entrambe le fazioni politiche che avevano scosso la Casa Bianca negli anni precedenti e anche se con un margine risicato ottenne la vittoria. Anche in questo caso non si può dire che siano stati anni di presidenza indimenticabili. Anche lui non aveva un forte carisma, soprattutto in ambito internazionale, e probabilmente il suo più grande insuccesso avvenne in occasione della rivoluzione iraniana del 1979 quando a Teheran 52 ostaggi americani vennero uccisi. L’amministrazione delle operazioni per la liberazione degli ostaggi fu considerata dilettantistica e del tutto inefficace, e, accompagnata da una forte recessione, anche la popolarità di Carter scese bruscamente. Furono quelli anche gli anni di un nuovo irrigidimento con i paesi comunisti nonostante la firma

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dell’accordo SALT II sul disarmo nucleare e dopo l’invasione dell’Afghanistan da parte della Russia del 1980 gli Stati Uniti decisero di boicottare le XXII Olimpiadi che si tenevano a Mosca. In politica interna fu uno dei tanti presidenti che dovette sottostare al potere di un’opposizione e di un Congresso spesso ambigui e anti-costruttivi in nome di un moralismo e di una tradizione americana più controproducenti che altro; forte sostenitore dei diritti umani si adoperò affinché questi venissero rispettati nei paesi del Terzo Mondo (o laddove non andassero in contrasto con gli interessi americani), non intervenne militarmente quando caddero i governi filo-occidentali di Iran e Nicaragua tanto era vivo il ricordo del Vietnam e fu insignito del Nobel per la Pace (2002) per aver gestito e condotto nel ’79 Israele ed Egitto ad un accordo di non belligeranza. Alle elezioni del 1980, comunque, la sua carriera da Presidente poteva considerarsi terminata. Gli successe con una facile vittoria l’ex attore cinematografico (ed ex simpatizzante Democratico, ora Repubblicano) Ronald Reagan, fino ad allora Governatore della California. Dopo Eisenhower fu il primo a completare due mandati nell’integrità della loro durata. Reagan basò la sua campagna elettorale avvalendosi dello slogan di un nuovo inizio che avrebbe risollevato la società dalla frustrazione e dal disagio, soprattutto con il ridimensionamento del ruolo dello Stato e la valorizzazione del singolo cittadino, riduzione delle tasse e liberazione dell’economia da norme troppo restrittive, mentre sul piano internazionale promise di restituire all’America un ruolo di guida. Gli Stati Uniti andavano incontro ad una nuova rivoluzione sociale, una rivoluzione al contrario se vogliamo, dove tutte le utopie degli anni sessanta e settanta venivano messe da parte e la visione del proprio Paese era nuovamente conservativa e radicale. Basti pensare che per la prima volta nella storia la popolazione del Sud e dell’Ovest era numericamente superiore a quella del Nord e dell’Est e che quindi per rappresentare gli americani bisognava andare forte in quegli stati, storicamente poco inclini alle novità; ben il 50% dell’intera popolazione americana, infatti, si concentrava in Texas, California e Florida. Appena eletto fu vittima di un attentato per mano di un neonazista che voleva mettersi in luce agli occhi dell’attrice Jodi Foster il quale gli perforò un polmone con un colpo di arma da fuoco. Dimesso dall’ospedale iniziò da subito la sua politica di risanamento dell’economia che si basava su un abbassamento delle tasse che avrebbe spinto i cittadini a consumare di più. Questa teoria, definita Reaganomics, prevedeva di abbassare le tasse e quindi abbassare la pressione fiscale per incitare il lavoratori a lavorare e consumare di più. Fra il 1981 e il 1983 le imposte calarono del 25 percento a discapito tutti quei fondi che negli anni precedenti erano destinati all’ambiente e allo sviluppo urbano quindi anche se da un punto di vista geo-edilizio il Paese non progrediva, i cittadini vedevano i soldi tornare a fluire nelle proprie tasche. Era un fuoco di paglia. Le industrie del Nord e le campagne non beneficiarono affatto di questa nuova situazione ed in pochi anni deficit e disoccupazione crebbero spaventosamente, con una distribuzione di redditi e patrimoni del tutto diseguale. Venne rafforzata d’altro canto la spesa militare e vennero appoggiate rivolte anticomuniste in El Salvador e Nicaragua, mentre alcune rivelazioni su aiuti militari e vendita di armi a favore di Iran e Nicaragua rischiavano di far scoppiare un nuovo scandalo alla Casa Bianca anche se, a differenza del Watergate, qui la figura del Presidente ne uscì intatta. Nonostante le numerose critiche da parte del mondo politico, l’ossessiva corsa al riarmo atomico e svariati fallimenti in situazioni internazionali Reagan appariva come uomo amabile ed energico e dunque alla fine del suo primo mandato godeva di una certa popolarità. Non gli fu difficile vincerne un secondo. L’America ed il mondo andavano incontro ad un grande cambiamento in quegli anni: sebbene poco fruttuosa l’idea economica di Reagan spinse davvero i cittadini ad un consumismo sempre più sfrenato, agevolato anche dall’avvento dei beni elettronici. Ma se da un lato si vedeva la vita sotto un punto di vista diverso, con cambiamenti che includevano la lotta la fumo, l’attività fisica e la comparsa di nuove figure lavorative importanti come quella del manager, dall’altro nascevano

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barriere sociali sempre più massicce. Sebbene la situazione dei neri risultasse notevolmente migliorata con circa la metà di questi a svolgere mansioni d’ufficio e a possedere una casa propria dall’altro lato i poveri erano sempre più poveri e indipendentemente dal fatto che fossero bianchi o neri erano poco considerati dallo Stato, allo stesso tempo le donne trovavano sempre più frequentemente un’occupazione e di conseguenza le strutture familiari cambiavano, spesso cedevano, facendo innalzare il numero di divorzi quasi fino al 50%. Erano tempi di degrado quindi, ma anche di cambiamento, con un nero ed una donna candidati per la prima volta nella storia alle elezioni presidenziali. Ed il secondo mandato di Reagan abbracciava tutte le contraddizioni tipiche di quegli anni: se da un lato si combattevano i regimi comunisti in ogni angolo del mondo dall’altro la corsa al riarmo aveva prodotto un deficit pubblico impressionante, ma lo stesso Reagan passò dall’essere un ex freddo generale di una guerra mai combattuta al trasformarsi in ambasciatore di pace e di eguaglianza che mise per la prima volta una donna come Capo di Giustizia delle Corte Suprema e incontrava il primo ministro russo, Gorbaciov, per firmare uno dei più importanti trattati sul disarmo anche con lo scopo di gettare i primi presupposti per l’abbattimento del muro di Berlino. Ancora una volta non si assistette ad una politica del tutto chiara e uniforme, ma Reagan mantenne intaccata la sua popolarità e credibilità spianando la strada, alle elezioni del 1988, per la candidatura presidenziale di George H.W. Bush. E nonostante il suo avversario Democratico Dukakis avesse ottenuto più voti di ogni altro candidato democratico dai tempi di Johnson, il conservatorismo americano ebbe ancora la meglio ed elesse il suo rappresentante Repubblicano. Bush proveniva da una famiglia aristocratica e fece fortuna negli anni ’60 fondando alcune compagnie petrolifere, fu sempre molto attivo ed apprezzato in politica fina dall’era di Nixon e ricoprì varie cariche fra cui quella di Presidente del Partito Repubblicano, ambasciatore all’ONU, ambasciatore in Cina dove operò molto per la distensione dei rapporti fra le due potenze, capo della C.I.A. e vicepresidente degli Stati Uniti sotto Reagan, quindi la sua esperienza in campo politico, soprattutto internazionale, era vastissima. Prese in mano l’America in questo periodo in cui sorgevano nuovi problemi, come il disastroso innalzarsi del deficit economico, il dilagare della povertà e l’avvento dell’AIDS mentre al di fuori dei confini nazionali crollava la potenza russa e cresceva il fanatismo in medio oriente. Dopo il collasso comunista in Polonia e Ungheria, anche la Germania, il 9 novembre 1989, poté tornare ad essere un paese libero allorché venne abbattuto il muro di Berlino e la Russia iniziò il ritiro delle truppe; un anno più tardi la DDR scomparve e la Germania unita venne di fatto annessa e riconosciuta dalla NATO. Intanto si scioglieva il Patto di Varsavia e a partire dalla fine del ’90 il collasso del sistema politico e sociale russo portò al distaccamento dalla madre patria di svariate nuove nazioni e alla vittoria, se pur dal punto di vista prettamente ideologico, da parte degli Stati Uniti sui sovietici di quella che era stata una guerra mai combattuta fra oriente ed occidente. Si affermò dunque un nuovo ordine mondiale in cui gli Stati Uniti avevano il ruolo di vigilare sul mantenimento della pace e della democrazia; da subito questo compito venne messo alla prova quando il 17 luglio 1990 il leader iracheno Saddam Hussein pronunciava alla televisione di stato gli intenti del suo Paese di annettere il piccolo sceiccato confinante del Kuwait, per futili motivi derivanti dalla produzione del petrolio. Qualche giorno più tardi truppe irachene invaderanno il Kuwait con conseguente ultimatum (non rispettato) e intervento da parte degli Stati Uniti. Onde evitare una seconda guerra non-americana gli USA si affidarono all’ONU e con l’ausilio di altre 35 nazioni diedero inizio all’operazione Desert Shield in data 2 agosto 1990, che sarebbe servita a riportare l’indipendenza in Kuwait. Dopo sei mesi di incontri internazionali, assemblee, rapimenti di ostaggi europei in terra kuwaitiana e relativi rilasci, embarghi e minacce l’ONU fissa all’Iraq un ultimatum per evitare la guerra dopo del quale gli Stati Uniti con i relativi alleati sarebbero potuti intervenire militarmente. Era il 17 gennaio del 1991 ed aveva inizio l’operazione Desert Storm

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nella quale verranno impiegati circa un milione di effettivi facenti capo alle forze ONU che in virtù di una tecnologia aerea e soprattutto terrestre nettamente superiore riuscirono con bombardamenti e operazioni militari ad avere la meglio sul sempre più rimaneggiato esercito iracheno il quale il 28 febbraio del 1991 aveva completamente abbandonato il Kuwait per rifugiarsi in patria ponendo così fine alla prima Guerra del Golfo con la dichiarazione della riottenuta indipendenza del Kuwait. Considerando che fu uno dei pochi presidenti a non commettere errori eclatanti, se non politici quantomeno d’immagine, Bush non riuscì paradossalmente a vincere un secondo mandato in quanto alle elezioni del ’92 i Democratici presentarono il pressoché sconosciuto William (Bill) J. Clinton mentre il miliardario Repubblicano Ross Perot decise di correre da indipendente sottraendo un buon 19% dei voti proprio a Bush. Clinton veniva quindi eletto come il presidente con il più basso risultato dai tempi di Wilson (1912) e Perot era invece il “terzo candidato” che aveva ricevuto più voti in assoluto nella storia degli Stati Uniti. Sebbene fu priva di mosse positive eclatanti l’esperienza presidenziale di Clinton coincise con una ripresa economica dell’economia americana che non si era mai vista prima, quindi in assenza di grandi guerre da combattere o di grandi riforme sociali da attuare, egli si limitò a mantenere la sua Nazione agli alti livelli che era giunta dopo la vittoria nel Golfo e a fare da paciere nelle varie dispute internazionali. Egli era in carica, ad esempio, quando il 13 Settembre del 1993 i leader di Israele e Palestina Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si incontrarono per discutere della pace fra le due Nazioni il 13 Settembre 1993. In campo interno egli dovette però subire la grave umiliazione di perdere la maggioranza ad entrambe le camere alle elezioni di metà mandato alla quale pose limitativamente rimedio iniziando a prendere in considerazione alcune proposte di quell’ala post-reaganiana e rielaborarle in maniera più incline alle idee politiche del suo partito. Se proprio si vogliono considerare gli operati di tipo militare dell’amministrazione Clinton non si può non citare l’intervento statunitense, sempre sotto la guida dell’ONU, in Bosnia nel 1999. L’operazione militare era atta a rovesciare il regime del dittatore Milošević e a porre fine ai suoi continui atti terroristici e di genocidio nei confronti della popolazione del Kosovo, che chiedeva l’indipendenza, poi ottenuta nel 2006. Prima di questo, comunque, Bill Clinton ottenne un secondo mandato e fu il primo Democratico a riuscirci, se si esclude Roosevelt, dai tempi di Woodrow Wilson. Firmò importanti accordi sulla liberalizzazione del commercio con Messico e Canada che diedero il via al processo della globalizzazione. Il suo secondo mandato fu comunque macchiato dall’accusa di impeachment dovuta dalle presunte relazioni di tipo sessuale che il Presidente avrebbe avuto con la stagista Monica Lewinsky che si trasformarono in un vero e proprio caso che prese il nome di Sexgate e che, di fronte al suo rifiuto di ammettere la propria colpevolezza, lo spinsero di fronte ad un tribunale statale che comunque alla fine lo dichiarò non colpevole. Le elezioni successive, quelle dell’anno 2000 furono le più controverse e fin’ora oscure della storia americana. Vi erano candidati l’ex vicepresidente Democratico Al Gore contro il Repubblicano George W. Bush, figlio di George Bush, il quale ebbe la meglio solo dopo una sentenza della Supreme Court. L’inghippo riguardava il conteggio dei voti della Florida e la relativa assegnazione dei tanti punti che questo Stato attribuiva al candidato vincitore. Il sistema elettorale americano prevede che un presidente per essere eletto debba raggiungere (almeno nel 2000 era così) il numero di 270 grandi elettori, sommando quelli che ogni Stato attribuiva. Chi vinceva in Florida vinceva 25 grandi elettori ed un primo sfoglio contò uno scarto a favore di Bush di solo 1784 voti (meno dello 0,5% di scarto) il che secondo uno statuto federale prevedeva il riconteggio automatico dei voti. Al riconteggio, quando mancava solo una sessione da ufficializzare, lo scarto scese addirittura a 327. Visti i tempi biblici e le sicure manipolazioni che si sarebbero potute effettuare qualora si fosse proceduto ad ulteriori riconteggi il Segretario di Stato della Florida

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validò la vittoria di George W. Bush, poi ufficializzata dalla sentenza della Corte Suprema. Era stato eletto il 48° Presidente degli Stati Uniti nella maniera più rocambolesca possibile. Date citate: 30 Gennaio 1968 – Offensiva del Têt 1968 – Richard M. Nixon (Repubblicano, California) è il 37° Presidente degli Stati Uniti 27 Gennaio 1973 – Pace di Parigi 9 Ottobre 1973 – Guerra del Kippur 1972 – Secondo Mandato Nixon 9 Agosto 1974 – Dimissioni di Nixon in seguito alla scandalo del Watergate, Ford (Repubblicano, Michigan) diventa il 38° Presidente degli Stai Uniti 30 Aprile 1975 – Caduta di Saigon e fine della Guerra in Vietnam 1975 – Trattato di Helsinki sulla collaborazione in Europa 1976 – Jimmy Carter (Democratico, Georgia) è il 39° Presidente degli Stati Uniti 1979 – Pace israelo-egiziana 1980 – La Russia invade l’Afghanistan e gli USA boicottano le Olimpiadi di Mosca 1980 – Ronald Reagan (Repubblicano, California) è il 40° Presidente degli Stati Uniti

1984 – Secondo mandato Reagan 1988 – George H.W. Bush (Repubblicano, Texas) è il 41° Presidente degli Stati Uniti 9 novembre 1989 – Abbattimento del muro di Berlino 1990 – Collasso dell’Unione Sovietica, fine della Guerra Fredda 17 Luglio 1990 – Saddam Hussein si pronuncia sull’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq 2 Agosto 1990 – Inizio dell’operazione Desert Shield dell’ONU 28 Febbraio 1991 – Vittoria finale delle forze ONU con l’operazione Desert Storm, ritiro delle truppe irachene e dichiarazione d’indipendenza del Kuwait. 1992 – William J. Clinton (Democratico, Arkansas) è il 42° Presidente degli Stati Uniti 1996 – Secondo mandato Clinton 1999 – Guerra del Kosovo 2000 – George W. Bush (Repubblicano, Texas) è il 41° Presidente degli Stati Uniti.

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Dalla lotta al terrorismo a “Yes, We Can!” – Il Paese delle contraddizioni e delle opportunità

(2000-2010)

Se volessimo riassumere gli ultimi dieci anni della storia statunitense potremmo, sperando di non togliere credito a nessuno, limitarci a citare due nomi: George W. Bush e Barack Obama, e tre avvenimenti: l’attentato alle Twin Towers con conseguente guerra in Afghanistan, la seconda guerra del Golfo e l’elezione del primo Presidente afroamericano della storia degli USA. Sebbene i primi nove mesi di presidenza per Bush scivolarono via con una certa indifferenza le coscienze degli americani vennero sconvolte – e il loro futuro stravolto – da un attentato terroristico che colpì il cuore commerciale della città più famosa degli Stati Uniti. La mattina dell’11 settembre 2001 quattro aerei di linea vennero dirottati da terroristi di matrice islamica che ne fecero schiantare due contro le Twin Towers del World Trade Center di New York, abbattendole, uno contro il Pentagono (il quartier generale militare americano) mentre un quarto si sfracellò al suolo in un campo della Pennsylvania, probabilmente perché gli ostaggi tentarono di sovvertire il dirottamento. In totale le vittime furono circa 3000. Pochi giorni dopo il fondamentalista Osama Bin Laden facente capo alla cellula terroristica di Al Qaeda rivendicò l’attacco e da allora fino ad oggi iniziò quella che Bush definì la Guerra al Terrore. Il Congresso approvò immediatamente l’istituzione di diversi organi per difendersi da futuri attacchi e stanare le cellule terroristiche sparse per il mondo, e già dal 7 ottobre dello stesso anno diede il via libera per l’invio di un primo contingente di truppe in Afghanistan con lo scopo di sovvertire il regime dei Talebani che reggeva il governo. Con l’ausilio di diverse forze internazionali si riuscì a far cadere questa fazione dal potere ma tutt’ora ci sono violenti scontri fra Talebani ed esercito delle Nazioni Unite o fra Alleati e altre minoranze indipendentiste del Paese. Quasi in contemporanea all’inizio dell’invasione in Afghanistan il Presidente iniziò una politica di diffamazione nei confronti di quello che egli definiva l’ “asse del male” riferendosi al fatto che Iran, Iraq e Corea del Nord si stessero muovendo per procurarsi grandi quantità di armi atomiche, batteriologiche e di distruzione di massa con particolare attenzione alla situazione irachena che ancora sotto la guida del dittatore Saddam Hussein pareva nascondere progetti e siti per la costruzione di queste armi. Sia molti alleati statunitensi che l’ONU stessa non approvarono da subito l’intenzione americana di portare la guerra anche in Iraq, anche in virtù del fatto che gli USA avevano richiesto ed ottenuto aiuto già mesi prima in Afghanistan. Ma con una decisione quasi unilaterale il 20 marzo del 2003 venne inviato un contingente di militari americani e di altri Paesi alleati fra cui Italia, Australia, Polonia e Spagna al fine di spodestare Hussein dal suo ruolo di guida per evitare ulteriori attacchi alla pace del mondo (si presupponeva che Saddam Hussein e Bin Laden lavorassero cooperativamente). Le truppe della coalizione, così vennero definiti gli alleati USA, si assicurarono in poche settimane il controllo di gran parte del territorio iracheno tanto che lo stesso leader Hussein dovette lasciare il proprio palazzo presidenziale ed iniziare a nascondersi come già da tempo aveva iniziato a fare nelle impervie montagne e nei vicoli in esse scavati dai Talebani Bin Laden. Il 9 aprile del 2003 venne presa Baghdad, due figli di Saddam morirono ed il primo maggio dello stesso anno Bush dichiarava la fine delle ostilità. Lo stesso leader iracheno venne trovato nascosto in una cantina nel dicembre del 2003, catturato dai marines, processato da un tribunale speciale iracheno e giustiziato per crimini contro l’umanità il 30 dicembre tramite impiccagione. Da allora, comunque, le truppe alleate ancora non lasciano definitivamente l’Iraq con la motivazione di farlo nel

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momento in cui l’ordine sarà totalmente ristabilito anche considerando i continui attentati e rappresaglie portati da minoranze etniche armante che simpatizzano con la condotta di Hussein e che, come i fondamentalisti afghani, nutrono un profondo odio nei confronti del mondo capitalista occidentale. Nonostante queste due offensive militari siano iniziate in un momento in cui le gli americani avevano paura e chiedevano un intervento di tipo protezionistico fin da subito in alcuni ambienti si cominciò a dubitare dell’effettiva utilità di intervenire militarmente, tanto che le presunte armi di distruzioni di massa non furono mai trovate in Iraq e Bin Laden risulta tutt’ora latitante. Detto ciò, e anche se questa volta con un margine abbastanza basso, Bush riuscì ad assicurarsi anche le elezioni del 2004. In politica interna vanno ricordati l’emanazione di un emendamento contrario ai matrimoni gay e l’abbassamento di alcune tasse come quella sugli atti matrimoniali, ma anche l’annullamento del surplus di capitale che si era creato durante l’amministrazione Clinton e l’avvento di due crisi economiche: una nel 2001 con lo scoppio della bolla dot.com (sulle azioni e gli investimenti via web) ed una alla fine del 2007 che ha investito il mondo del mercato immobiliare. Numerosi americani infatti facevano ricorso a ingenti prestiti per l’acquisto delle case e non potendoli restituire alcune grandi banche del Paese collassarono portando con sé l’intero mercato immobiliare e non immobiliare americano e non americano. Non si vedeva nulla di simile dai tempi della grande recessione del ’29 tanto che Wall Street toccò nei giorni peggiori picchi negativi simili a quelli di quegli anni. Sebbene internamente si sia adoperato per garantire sempre più facile accesso all’istruzione e alle cure mediche, non si può dire che abbia fatto altrettanto per la ricerca scientifica e la salvaguardia dell’ambiente rifiutandosi di firmare, ad esempio, il protocollo di Kyōto per la tutela dell’ambiente, per aver decretato la restrizione dei fondi sulla ricerca sulle cellule staminali e per aver speso l’esorbitante cifra di 410 miliardi di dollari per la difesa (pari a tutte le spese effettuate durante la Guerra Fredda). In più egli è stato il primo Presidente ad essere eletto nell’era di internet e quindi giudicato non solo in casa propria ma a livello globale: sebbene infatti c’è una forte quantità di americani che vedono in un personaggio come Bush la “vera America”, come per molti suoi predecessori simili, all’estero è stato visto spesso come un guerrafondaio autoritario che utilizzava toni – e misure – troppo forti con troppa facilità. Alla fine del suo mandato comunque anche molti americani erano stufi di questa politica giudicata eccessivamente aggressiva e in buona parte del Paese si sentiva il bisogno di un cambiamento. Il cambiamento avvenne il 4 novembre 2008 quando alle elezioni presidenziali Barack Hussein Obama II, nato nelle isole Hawaii da genitori di provenienza afroamericana e fino ad allora senatore dell’Illinois divenne il primo Presidente di colore della storia degli Stati Uniti d’America, per conto dei Democratici. Aveva battuto il senatore Repubblicano dell’Arizona John McCain con 365 grandi elettori contro i 173 del suo avversario. Egli fece del motto “Yes, We Can!” lo slogan della sua campagna elettorale e sbaragliò dapprima la concorrenza della ex first lady Hillary Clinton, poi Segretario di Stato, ed infine quella del suo avversario Repubblicano ricevendo uno scarto di oltre dieci milioni di voti a suo favore. Nella sua campagna elettorale Obama ha promesso il disimpegno delle truppe americane in Iraq ed una riforma sanitaria radicale e almeno la seconda è stata una promessa mantenuta quando il 25 marzo 2010 Obama firmò il decreto su una riforma che avrebbe garantito assistenza medica a 32 milioni di americani in più. Un anno prima era stato insignito del Nobel per la Pace “per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli“ con riferimento al suo incessante tentativo di ridurre gli arsenali nucleari e di intavolare un dialogo distensivo e costruttivo col Medio Oriente. Molti furono i dubbi sugli effettivi meriti di Obama nell’ottenere un tale premio, certo non si può negare che la commissione deve aver tenuto conto del fatto che

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questo personaggio è il simbolo di una generazione che vede nelle opportunità e nella libertà la vera via da seguire dopo le atrocità del secolo scorso. E nessuno più di un uomo di colore venuto dal nulla che è arrivato a governare l’unico Paese che ad oggi è in grado di stabilire e conservare la pace fra i popoli è il simbolo di quelle speranze che gli Stati Uniti hanno il compito, in qualità di prima super potenza mondiale, di rendere reali e mantenere durature. Date citate: 11 Settembre 2001 – Attentato alle Torri Gemelle di New York 07 Ottobre 2001 – Invasione dell’Afghanistan 20 Marzo 2003 – Invasione dell’Iraq e inizio della seconda Guerra del Golfo 09 Aprile 2003 – Presa di Baghdad 30 Dicembre 2003 – Esecuzione di Saddam Hussein

2004 – Secondo mandato Bush 2008 – Barack Hussein Obama II (Democratico, Illinois) è il 44° Presidente degli Stati Uniti D’America 09 Ottobre 2009 – Obama viene insignito del Nobel per la Pace 25 marzo 2010 – Riforma al sistema delle assistenze sanitarie