Storia. Piemonte anni compresi tra la battaglia di Waterloo (1815) e la conclusione dei processi di...

26
1 Ad esclusivo uso didattico. Gli altri diritti riservati. Storia. Piemonte Nicola Crepax Giugno 2005 Testo per Storiaindustria.it

Transcript of Storia. Piemonte anni compresi tra la battaglia di Waterloo (1815) e la conclusione dei processi di...

1 Ad esclusivo uso didattico. Gli altri diritti riservati.

Storia. Piemonte Nicola Crepax Giugno 2005 Testo per Storiaindustria.it

2

Storia. Piemonte

1. Prima dell’industrializzazione La Fiat viene fondata nel 1899, la Olivetti nel 1908: durante la belle époque l’economia piemontese si trasforma con l’irrompere di un sistema di grandi imprese impegnate in produzioni di nuovo tipo, come la moderna industria meccanica e quella elettrica. Anche le industrie di prodotti tradizionali come le stoffe di cotone e di lana o quelle alimentari mutano il proprio assetto diventando più grandi e complesse. Le città, intanto, cambiano volto: fabbriche e uffici; case operaie e tramway; biciclette e illuminazione elettrica. Questo sviluppo, che nell’arco di pochi anni pone l’economia piemontese alla testa dell’industrializzazione del paese, è l’esito di due diversi stimoli: da un lato, la nascita delle nuove imprese rappresenta una positiva reazione all’evoluzione economica e sociale in atto, nello stesso periodo, oltre le Alpi; dall’altro, si presenta come il frutto di un lunghissimo, secolare processo di modernizzazione delle strutture produttive regionali. Questo processo di lungo periodo si articola in due sequenze principali: l’ampia fase, tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, in cui anche il Piemonte, pur non del tutto isolato, sconta il progressivo allontanamento della penisola dalle grandi correnti europee di sviluppo economico e sociale; una seconda fase ottocentesca, quando nel Regno di Sardegna, soprattutto durante il decennio cavouriano, e, in seguito, durante i primi anni dello stato unitario, iniziano a ripercuotersi le dinamiche innescate dalla rivoluzione industriale europea e si pongono le basi per l’industrializzazione dell’economia regionale; è l’avvio di un percorso accidentato e contraddittorio, che vede tra l’altro Torino perdere definitivamente il ruolo di capitale. Il progressivo superamento del sistema economico rinascimentale rappresenta per il Piemonte, rimasto ai margini del grande sviluppo manifatturiero avvenuto nel quadrilatero Milano-Venezia-Firenze-Genova, un fenomeno graduale durante il quale non si interrompono i rapporti internazionali a lungo coltivati dall’economia regionale e che anzi vede via via i diversi sistemi locali sviluppare capacità di adattamento nei confronti dello spostamento del centro dell’economia mondiale verso l’Europa nord-occidentale. Nella regione sub-alpina l’evoluzione dell’artigianato urbano porta a due fenomeni diversi, che definiscono gli assetti economici complementari delle aree urbane e di quelle rurali. Nelle città, e in particolare a Torino, i cui abitanti raddoppiano nel Seicento, superando la soglia di 40.000 a fine secolo e aumentano a ritmo ancora maggiore durante il settecento, crescono di numero le botteghe artigiane che rispondono alle necessità dei consumi urbani e il cui lavoro resta a lungo coordinato dalle potenti corporazioni cittadine: tessiture, sartorie, calzolerie, mulini, macelli, forni, falegnamerie, produttori di carrozze, lavoratori edili creano un tessuto di minuti e operosi opifici che animano l’economia urbana. In campagna si sviluppano invece le produzioni tessili, la voce più importante della produzione manifatturiera preindustriale: le tele di lino e canapa, gli ancora rari fustagni di cotone, le stoffe di lana sono destinati ai mercati locali e vanno sostituendo almeno in parte i manufatti importati. É però la produzione del preziosissimo filo di seta a caratterizzare l’espansione manifatturiera nelle campagne della regione fino ad improntarne l’intera economia perché fornisce un contributo assolutamente preponderante alle esportazioni del Regno. La straordinaria crescita della produzione del filo di seta si integra con il lavoro nei campi: ampie aree agricole, soprattutto nelle colline, trovano, in questa evoluzione, insperate occasioni di reddito aggiuntivo al lavoro agricolo, mentre l’aumento della domanda del semilavorato serico da parte delle tessiture europee (tra le quali emerge il polo lionese, collegato con le grandi corti europee e in particolare con Parigi) accompagna e sostiene la sempre più ampia diffusione dell’allevamento del baco; nel corso del Settecento quest’ultimo rappresenta, insieme alla coltivazione della vite, la differenziazione tipica per gli agricoltori piemontesi. Nelle colline una quota crescente degli abitanti delle campagne, senza abbandonare la comunità contadina di appartenenza, si trova impegnata periodicamente in opifici che, a intermittenza, come la luce delle lucciole, avviano il lavoro per alcuni mesi all’anno. Altri lavoratori agricoli, pur restando all’interno del proprio domicilio, entrano a far parte di organizzazioni complesse in cui la

3

Storia. Piemonte

produzione manifatturiera viene frazionata in numerose lavorazioni specializzate. Le singole fasi sono coordinate da un mercante che si assume il rischio d’impresa e commissiona, dalla città, il lavoro in funzione degli andamenti del mercato. A partire dagli anni sessanta del Seicento vengono impiantati a Borgo Dora, a Porta Susa e poi a Racconigi e a Chieri, nel resto della provincia di Torino e nel Cuneese numerosi filatoi idraulici, per l’epoca enormi mulini integrati con il lavoro delle filande per la produzione di trame e organzini di seta. Nel Settecento sono 200.000 le famiglie di contadini che integrano il proprio reddito dedicandosi al faticoso allevamento dei bachi da seta, 60.000 bambine, ragazze e giovani donne lavorano per qualche mese all’anno nelle filande per trarre dai bozzoli il prezioso filo di seta, 25.000 donne e uomini lavorano tutto l’anno presso i filatoi idraulici per la produzione del filato ritorto, mentre 5.000 lavoratori sono impegnati, utilizzando quella piccola parte di filo che non viene esportato, in città: nelle tinture, nelle tessiture, nei laboratori per la produzione di calze e passamanerie. Nel corso del diciottesimo secolo il commercio di esportazione del filo di seta copre da solo i quattro quinti degli interi traffici in uscita dal Regno ed è controllato da grandi mercanti imprenditori: questi operano nel settore serico in sostanziale libertà dal sistema delle corporazioni. I mercanti imprenditori coniugano frequentemente il commercio, l’esercizio del credito e l’attività manifatturiera condotta secondo il sistema del putting out (delegando cioè singole fasi della produzione a lavoratori che operano presso il proprio domicilio rurale o riuniti in opifici). I patrimoni accumulati dai mercanti imprenditori del settore grandini questa fase sono tali da collocarli tra i cittadini più abbienti di Torino. Gli impieghi delle ricchezze derivate dal commercio della seta appaiono quelli tipici dell’aristocrazia finanziaria, costituiti per la gran parte da acquisti di tenute nelle aree più fertili della pianura e da investimenti immobiliari in città, che in questi anni, grazie anche alle fortune del commercio serico, si arricchisce di nuovi grandi palazzi. Dinamici operatori commerciali, i negozianti banchieri gestiscono in prima persona, fino a oltre la metà dell’Ottocento, le correnti di traffico con le principali piazze europee. L’attività dei grandi mercanti di seta costituisce allora un veicolo molto importante per il trasferimento delle conoscenze tecniche e delle informazioni commerciali dalle nazioni europee ad alto sviluppo all’Italia. Le imprese mercantili del settore rappresentano un fenomeno vasto e articolato che coinvolge rappresentanti, spedizionieri, commissionari e tutte quelle figure professionali indispensabili alla gestione delle grandi correnti commerciali a lunga distanza.

2. La transizione verso un mondo industriale Gli anni compresi tra la battaglia di Waterloo (1815) e la conclusione dei processi di unificazione nazionale in Italia e Germania (1871) rappresentano per l’Europa un’età percorsa da cambiamenti economici intensi e rapidi. In questo periodo l’industria diventa il principale fattore di sviluppo per le economie europee più dinamiche. A partire dalla rivoluzione industriale inglese, la diffusione del sistema di fabbrica segue però percorsi non uniformi, lasciando dietro di sé spazi vuoti, sperimentando arretramenti, crescite incomplete e viziate da limiti strutturali. Questi limiti evidenziano progressivamente le distanze tra i singoli stati e, al loro interno, tra le diverse regioni. Dalla fine del Settecento gli imprenditori inglesi avevano tracciato la via del nuovo sistema produttivo e organizzativo che, ponendo al centro la fabbrica dotata di forza motrice inanimata (ruote idrauliche e macchine a vapore), aveva sviluppato la meccanizzazione in alcune produzioni di base, in particolare stoffe e semilavorati di ferro come lamiere, lingotti e vergelle. Alla metà dell’Ottocento le principali tecnologie necessarie per avviare quei processi industriali e per la costruzione delle ferrovie sono, di fatto, a disposizione di tutti. Eppure pochi mostrano di possedere la capacità di seguire tempestivamente l’esempio inglese. Durante il periodo precedente l’unificazione, è rara in Piemonte la presenza di fabbriche costruite sul modello inglese: le poche iniziative avviate dagli imprenditori stranieri costituiscono momenti significativi nel lento processo di modernizzazione che attraversa l’economia locale. Nella prima

4

Storia. Piemonte

metà dell’Ottocento detentori di abilità tecniche, giovani esponenti di famiglie industriali, commercianti, direttori di stabilimento si trasferiscono nella regione subalpina con spirito pionieristico, attratti da facilitazioni governative e dalla possibilità di conquistarsi un ruolo di primi attori in ambienti economici ancora legati a vecchi sistemi produttivi, ma non per questo privi di potenzialità di crescita. Per quanto riguarda la lavorazione del cotone, il fenomeno assume una certa consistenza con la nascita di alcune imprese che avviano impianti di dimensioni, per l’epoca, non del tutto modeste. L’impatto complessivo di questa prima ondata preunitaria di insediamenti stranieri nell’area piemontese è ancora ben lontano dal prefigurare i massicci trasferimenti dalla Svizzera che nell’ultimo quarto dell’Ottocento, sulla base di dimensioni e modalità del tutto differenti, daranno un decisivo apporto all’affermazione dell’industria cotoniera nel nord del paese. In questa fase le aziende guidate da imprenditori stranieri si affiancano alle non numerose iniziative di imprenditori locali, i quali devono però ricorrere quasi sempre a tecnici d’oltralpe per la direzione degli impianti; spesso il compito di introdurre le nuove tecnologie resta comunque alle imprese degli stranieri. È il caso della prima filatura meccanica piemontese impiantata nel 1810 a Intra dallo svizzero Gian Giacomo Müller, cui segue un analogo impianto dalla ditta Oëtiker, mentre nel 1822 Giuseppe David del Delfinato e Gaspare Hirt di Mulhouse fondano a Venaria una tintoria con annessa stamperia. Nella Valpellice viene impiantato nel 1830, per iniziativa dell’imprenditore valdese Giuseppe Malan e degli svizzeri Grainicher e Trog, uno dei maggiori cotonifici della regione, che a metà degli anni 1840 possedeva 10.000 fusi e dava lavoro a 300 operai. Al 1804 risale, invece, la fondazione della Annecy e Pont da parte della famiglia Duport. L’azienda possedeva svariati stabilimenti tra cui i maggiori erano quello di Annecy in Savoia e di Pont nel Canavese. Nel 1828 la ditta è trasformata in società anonima e le sue azioni suddivise tra capitalisti svizzeri (tra cui la ditta Mérian di Basilea che deteneva la maggioranza del patrimonio), francesi e italiani; la gestione rimane nelle mani dei Duport. A metà degli anni quaranta la società, con 22.000 fusi e circa 3.000 operai, è l’unica azienda cotoniera della penisola a poter vantare dimensioni quasi paragonabili a quelle dei cotonifici in Alsazia o in Belgio. Dopo l’Unità, con la cessione della Savoia alla Francia, l’azienda diventa una multinazionale e lo stabilimento di Pont rimane a guida straniera. L’avvio dei cantieri per la costruzione di tratti ferroviari nel Regno di Sardegna è all’origine di altri trasferimenti imprenditoriali, mentre la domanda di materiale ferroviario sollecita l’incremento dell’attività per alcune officine locali. In nessun caso si crea però un circolo virtuoso tra costruzioni ferroviarie e diffusione dell’industria meccanica paragonabile a quanto stava avvenendo all’estero e a quanto sarebbe avvenuto in Italia a partire dalla fine dell’Ottocento; la capacità realizzativa delle officine piemontesi resta in questa fase inadeguata al complesso delle pur limitate esigenze espresse dalle compagnie ferroviarie. Alla fine degli anni quaranta dell’Ottocento il Regno di Sardegna conta una dotazione di ferrovie inferiore ai 60 chilometri; nell’ultimo decennio preunitario si assiste però a una straordinaria accelerazione delle costruzioni in Piemonte e Liguria, che arriva a superare gli 800 chilometri di linee in esercizio. Alla fine degli anni 1850 le maggiori città dell’Italia settentrionale sono collegate tra loro. Da Torino, una volta completato il ponte sul Ticino, la ferrovia raggiunge Venezia, mentre il traforo del Frejus, iniziato nel 1857, è concluso solo nel 1871. Nella regione, oltre agli arsenali per la produzione di materiale bellico, il settore manifatturiero più sviluppato resta quello tessile. Per la seta la trattura resta un’attività temporanea e condotta solitamente a fianco del podere, e solo la torcitura aveva acquisito da tempo le caratteristiche dell’opificio accentrato, sulla base però di una tecnologia che non tiene ancora conto delle conquiste della rivoluzione industriale inglese in termini sia di risparmio di lavoro, sia di costanza qualitativa. Nonostante ciò, in Piemonte la produzione del filo di seta cresce ulteriormente nell’Ottocento e riesce a inserirsi, con i suoi semilavorati, nel movimento di sviluppo dell’industria tessile internazionale.

5

Storia. Piemonte

Alcuni segni di progresso si registrano nell’industria laniera, in quella cotoniera e nell’abbigliamento. Inizia nei decenni centrali del secolo nella filatura la diffusione delle tecnologie inglesi. Nel 1844 sono installati 24.000 fusi in cinque lanifici e 100.000 fusi in qualche decina di piccoli cotonifici posti a Intra, Novara, Biella e Chieri. Solo tre filature di cotone superano però i 10.000 fusi. Anche la tessitura appare in crescita, ma resta prevalentemente condotta con telai a mano dispersi tra le case di famiglie contadine che integrano il reddito agricolo con il lavoro manifatturiero. Il settore dell’abbigliamento fa registrare la nascita della fabbricazione industriale di cappelli: fondata nel 1857 da Giuseppe Borsalino ad Alessandria, la ditta omonima arriverà verso fine secolo a produrre 750.000 cappelli l’anno, e ben 2 milioni alla vigilia della Grande Guerra. Nessun progresso si registra invece in questi decenni nell’industria siderurgica delle valli alpine che resta molto arretrata, legata all’attività di piccoli forni accesi per solo alcuni mesi all’anno e collocati nelle vicinanze delle miniere. L’industria meccanica è invece praticata pressoché esclusivamente nell’ambito dell’artigianato urbano, ad esclusione della produzione di armamenti su commesse statali. La crescita della spesa pubblica comincia a sollecitare importanti effetti positivi sul settore manifatturiero a partire dalla seconda parte del regno di Carlo Alberto, e con maggiore evidenza nel decennio cavouriano. Le forniture belliche creano una domanda in crescita per specifiche produzioni. In particolare sono i lanifici di Biella che in questi anni crescono attorno all’attività di alcune famiglie di imprenditori come i Sella, i Piacenza, gli Ambrosetti, i Vercellone, i Borgnana-Picco, che via via accolgono le nuove tecnologie nei propri stabilimenti meccanizzati. Una ripercussione più articolata e di più ampio respiro hanno però gli interventi rivolti all’adegua-mento delle infrastrutture della regione alle novità che si stavano imponendo nei contesti europei più dinamici. L’ampliamento della rete idrica (completato nel 1866 con l’inaugurazione del canale Cavour), la riorganizzazione del sistema stradale, l’apertura dei nuovi valichi (negli anni quaranta Genova fu collegata all’entroterra attraverso il passo dei Giovi), l’avvio dei collegamenti telegrafici hanno rilievo non solo ai fini del complessivo ammodernamento dello stato ma anche, direttamente, nei confronti dell’aumento della domanda di lavoro manifatturiero. Le costruzioni ferroviarie, davvero intense in relazione all’epoca e alle dimensioni dello stato, hanno finalmente un impatto sull’economia locale di particolare ampiezza. Negli anni che seguono l’unificazione del paese, in un quadro improntato da un sostanziale continuità delle politiche economiche italiane rispetto a quelle del piccolo stato piemontese, le correnti di sviluppo delineatesi a partire dal decennio cavouriano trovano sostanziale conferma. L’industria meccanica mostra qualche segno di ulteriore dinamismo, da un lato confermando e ampliando le commesse provenienti dalla domanda di materiale bellico e ferroviario, dall’altro grazie alla fondazione di alcune nuove attività per prevalente iniziativa di imprenditori di origine svizzera e tedesca, impegnate, perlopiù su basi dimensionali modeste, nella produzione di macchine utensili e a vapore, prodotti per l’edilizia e per la tipografia. Mentre il comparto serico soffre per la terribile epidemia che nella seconda metà degli anni Cinquanta e per tutto il decennio successivo colpisce gli allevamenti di bachi compromettendo le rese produttive, l’industria cotoniera vede il trasferimento di un nuovo gruppo di imprenditori elvetici: tra questi sono i Sütermeister a Intra, Ackermann, Oetiker, Fürter-Bebié a Novara, Graincher-Trog in provincia di Torino. Il sopraggiungere dell'euforia finanziaria, seguita in Europa alla fine della guerra franco-prussiana del 1870, contribuisce con un primo impulso alla crescita del settore secondario anche nell’area regionale piemontese. La sospensione della concorrenza esercitata dalle merci francesi come conseguenza transitoria di quel conflitto crea allora condizioni favorevoli alla nascita di una circoscritta ma significativa schiera di iniziative imprenditoriali. L’effervescenza creditizia di quegli anni induce infatti gli imprenditori a considerare anche fonti di finanziamento esterne alla famiglia: circuiti locali, legati al ciclo serico e alla figura del banchiere privato, cominciano ad essere attivati e orientati in senso industriale. Si realizzano i primi tentativi di creare banche d'affari e società ano-nime nel comparto industriale, e gli investimenti di capitale straniero iniziano ad affluire, soprattutto

6

Storia. Piemonte

nel settore cotoniero. Nel 1872 viene fondata la Manifattura di Cuorgné e poco più tardi la Manifattura di Rivarolo, per iniziativa dei fratelli De Planta. Ad Alba, nel 1884, nasce la Miroglio, oggi uno dei maggiori gruppi italiani nel settore del tessile, filatura e abbigliamento. La Manifattura lane Borgosesia (oggi parte del gruppo Zegna) era invece attiva sin dal 1850. Nuove società sorgono anche in altri settori, come la Cartiera Italiana e, nel campo dell’industria conserviera, la Cirio. La prevalenza dell'agricoltura ancora sussisteva, ma la produzione di manufatti in fabbrica comincia a suscitare interesse. Qualche rivista specializzata inizia le pubblicazioni e le prime edizioni di manuali tecnici avviano una pur circoscritta diffusione delle conoscenze sui principali metodi di lavorazione in uso nelle fabbriche straniere. La scuola politecnica di Torino inizia a immettere sul mercato del lavoro i primi diplomati, rispondendo parzialmente a una domanda di direttori tecnici, che per molti anni ancora sarebbe stata comunque soddisfatta con il ricorso all'immigrazione di personale specializzato dalle nazioni europee più avanzate.

3. Il decollo industriale. Dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta dell’Ottocento, il lento progredire dell’industrializ-zazione attraversa una prima importante fase di accelerazione che pone le basi per la definitiva affermazione del triangolo Torino-Genova-Milano quale motore dell’economia del paese. La crisi agraria europea, la rivoluzione dei trasporti e la discesa dei prezzi creano allora il presupposto per la convergenza tra gli interessi agrari e quelli industriali in vista di una svolta protezionista nella po-litica doganale del paese, mentre la minor convenienza agli investimenti agricoli, liberando risorse per le altre attività economiche, favorisce la raccolta dei capitali per le iniziative industriali. Nel 1878 è approvata la prima tariffa generale, contrassegnata da un moderato indirizzo protezionista in favore delle industrie della lana e del cotone: la svolta protezionistica si inscrive nel generale superamento delle politiche economiche liberiste in Europa. In Italia i governi della Sinistra storica varano i primi piani per la costruzione di opere pubbliche, con attenzione soprattutto ai collegamenti ferroviari e alle linee del telegrafo. Significativi sono in questo contesto anche i diversi provvedimenti in favore dell'industria meccanica nazionale e di quella siderurgica. Alla prima tariffa protezionistica segue un periodo non privo di novità nel panorama industriale piemontese: si verifica una moderata crescita dei settori ad alto contenuto di capitale, parallelamente allo sviluppo dei settori già affermati, quali il laniero e il cotoniero. Nel 1887 il governo accoglie le reiterate richieste di maggiore protezione avanzate negli ambienti agrari, cui si erano naturalmente associati gli imprenditori industriali, stabilendo una tariffa più elevata che dischiude una nuova prospettiva per l'industria italiana, anche se negli anni immediatamente seguenti gli esiti di tutti i settori industriali sono condizionati dal pessimo an-damento complessivo dell'economia. Le uniche industrie che traggono un vantaggio immediato sono le imprese di filatura e tessitura del cotone, in virtù dei significativi progressi già compiuti nella produzione di un bene di consumo di massa a basso prezzo. Proprio dalla protezione scaturisce anzi un sostegno decisivo al processo di espansione del settore. Nel panorama industriale nazionale, il settore tessile è quello dove più netta appare la prevalenza delle regioni del nord sul resto della penisola. Nel 1911 quasi il 90% dei lavoratori è piemontese, ligure, veneto o lombardo. Un’altra caratteristica distingue questo settore dagli altri: le fabbriche sono grandi; a quella data in media ogni opificio tessile dà lavoro a circa 80 operai. Nel 1887 gli operai che lavorano nei moderni cotonifici piemontesi sono già oltre 20.000. Tra i maggiori impianti vi è la Manifattura di Cuorgnè con 90.000 fusi, la filatura di Pont con 30.000 fusi, seguita per dimensione dalla Guidotti-Pariani a Gravellona Toce e dalla Mazzonis; nella tessitura le maggiori concentrazioni di telai sono presso la fabbrica Poma a Biella, nell’impianto di Pont e presso la Manifattura di Rivarolo Canavese. Tra il 1870 e il 1910 la produzione nazionale si

7

Storia. Piemonte

moltiplica di oltre dieci volte. I cotonifici della regione assieme a quelli lombardi sono tra i più modernamente attrezzati nell’Europa continentale e, grazie anche alla capacità di produrre stoffe di qualità, alimentano crescenti correnti di esportazione. Nel 1891 i fusi installati negli opifici piemontesi, secondi per dimensione solo a quelli lombardi, sono quasi 400.000, mentre i telai superano i 10.000; all’inizio del nuovo secolo quasi un terzo dei filati e un quinto dei tessuti di cotone italiani escono dagli opifici piemontesi grazie al lavoro di oltre 30.000 operai. Nel paese si affermano nuovi gruppi di imprenditori, motivati all’espansione di un’attività produttiva condotta sulla base di moderni criteri di efficienza gestionale e organizzativa. Vengono fondate allora anche numerose nuove imprese. Nelle vallate piemontesi si affermano sistemi locali di imprese legati all’attività cotoniera e gruppi di imprenditori svizzeri trasferiscono le loro imprese nella regione. Wild-Abegg, De Planta, Leumann, Gruber, Remmert sono i cognomi dell’imprenditoria giunta da oltralpe. Chiesa, Rolla, Mazzonis e Poma quelli delle dinastie piemontesi. Opifici di vecchia costruzione vengono ampliati e resi adatti ad accogliere le nuove macchine, mentre altri vengono costruiti secondo i più moderni canoni dell’architettura industriale. A partire dagli anni 1870 sorgono i primi nuclei di complessi industriali di grande avvenire nel panorama industriale del paese e si assiste alla realizzazione di alcuni insediamenti industriali coordinati con quelli abitativi, che danno vita a veri e propri villaggi operai. Cotonificio Valle Susa, Manifattura Leumann, Manifattura di Rivarolo, Cotonificio Italiano, Cotonificio Piemontese, Manifattura di Cuorgnè sono tra i maggiori impianti industriali che, parallelamente a quanto stava avvenendo in Lombardia, avviano, per la prima volta in Italia, un processo di sostituzione dell’importazione di manufatti con un prodotto nazionale. L’industria laniera piemontese è inoltre la maggiore nel paese, con quasi 15.000 operai nel 1900. L’uscita dalla crisi degli anni 1890 è accompagnata, dal lato dell’industria, da un profondo mutamento di rotta. Esaurita la forza propulsiva della rivoluzione industriale inglese, si va imponendo a livello internazionale un nuovo sistema dominato dai principi della meccanizzazione e della velocità. Macchine utensili in fabbrica, macchine per scrivere e calcolatrici in ufficio, macchine per cucire in casa, macchine per il trasporto di merci e persone. Il grado di sviluppo dell’industria meccanica arriva a rappresentare d’ora in avanti una misura attendibile dell’efficienza di ogni sistema industriale, mentre il nuovo corso industriale modifica anche settori tradizionali strettamente collegati con l’agricoltura, come l’alimentare. Alla fine del secolo gli impianti per la lavorazione del riso a Novara e Vercelli raggiungono dimensioni ragguardevoli e utilizzavano nuovi, costosi macchinari: il settore è dominato da grandi complessi, tra cui emergono la Riseria italiana di San Germano, la Lombardi e C., la Tacchini, Grignaschi e C. e poche altre imprese. Nell’industria vinicola si segnalano la Martini e Rossi, la Gancia e la Cinzano nella produzione e commercializzazione di spumanti e vermuth, a testiominanza di una generalizzata trasformazione ed espansione della produzione di vini nella regione. Già alla metà dell’Ottocento il piemontese Francesco Cirio coglie le opportunità legate alla spedizione a lunga distanza di prodotti alimentari utilizzando la nuova rete ferroviaria in costruzione per collegare il proprio laboratorio di produzione ai mercati continentali. Alla fine degli anni 1870 l’azienda è oramai una moderna impresa industriale con stabilimenti in Piemonte e nel Napoletano, punto di incontro tra un’agricoltura che tiene conto dell’evoluzione tecnologica di quegli anni e delle moderne pratiche per la conservazione dei cibi: pomodori, uova, ortaggi, frutta, pesce, burro e formaggi. I difficili anni 1880-1890 costringono ad accantonare i progetti più ambiziosi ma non l’idea originaria. All’inizio del secolo l’impresa è una moderna holding industriale connessa alla grande banca (il Credito italiano) e con la partecipazione del capitale straniero. Grande banca, in particolare la Banca Commerciale e il Credito italiano, e intervento del capitale straniero sono gli ingredienti indispensabili alla comparsa delle nuove grandi imprese in Piemonte. All’inizio del Novecento gli operai piemontesi sono già più di 150.000 e l’industria della regione, seconda solo a quella lombarda, può contare sull’energia installata di oltre 120.000 cv.: solo un decennio più tardi questi valori sono più che raddoppiati. L’ascesa dell’industria meccanica nella

8

Storia. Piemonte

regione è ormai avviata. La Società Nazionale delle Officine di Savigliano, fondata nel 1881, con il nuovo secolo vede crescere la produzione di materiale ferroviario e materiale elettromeccanico. La Tedeschi e l’Officina Morelli, Franco, Bonamico sviluppano anch’esse la produzione di materiali elettrici. Sono molte le nuove industrie meccaniche, e i laboratori artigianali che si ingrandiscono per la produzione di mezzi di trasporto, macchine utensili, parti staccate: la Diatto e la Ansaldi si collocano in questi anni ai vertici del settore. Nel 1908 l’ingegnere Camillo Olivetti, socialista riformista e straordinaria figura di intellettuale utopista, avvia a Ivrea la prima fabbrica italiana per la produzione di macchine per scrivere, dopo aver sviluppato nel decennio precedente quella degli strumenti di misura con la C.G.S. (Centimetro-Grammo-Secondo) la cui sede è presto trasferita a Milano. Olivetti, dopo aver viaggiato e vissuto in America, porta in Italia la suggestione dei modelli organizzativi e produttivi che, su basi dimensionali del tutto diverse, stanno improntando, oltre oceano, il nuovo modello di sviluppo economico tipico della seconda rivoluzione industriale e della grande impresa, mentre a Torino sono già comparse le prime filiali delle multinazionali, quali la Westinghouse Italia. La penisola è in questi anni partecipe del cambiamento nella congiuntura economica internazionale che innesca un processo espansivo protrattosi, su scala mondiale, dalla metà degli anni 1890 fino alla grande guerra. La drastica contrapposizione con gli orrori del periodo bellico, e con la disarticolazione dei meccanismi sociali e dei sistemi economici seguita alla guerra, avrebbe sottolineato successivamente la percezione positiva dei risultati raggiunti: la belle époque. Fondata nel 1899 a Torino con i capitali di un gruppo di aristocratici e possidenti quasi tutti piemontesi, la Fiat, guidata da Giovanni Agnelli, vede le sue azioni protagoniste nelle tumultuose fasi del mercato mobiliare nel 1906 e 1907. I titoli automobilistici moltiplicano il proprio valore, per poi crollare all’esplosione della bolla speculativa. È la prima crisi borsistica moderna: nata fuori d’Italia, mostra i disequilibri della crescita economica velocissima all’inizio del secolo. Le maggiori difficoltà sopraggiungono per i maggiori settori industriali, quello della produzione dell’acciaio in particolare. Giovanni Agnelli riesce a governare le difficoltà e, alla fine, a uscirne saldamente al comando di un impresa di cui oramai controlla il capitale. Per la Fiat è una svolta: da quel momento si accantona la produzione di lusso e si punta su vetture di cilindrata minore che, per i parametri di allora, appaiono in grado di conquistare un pubblico appena un po’ meno ristretto. La Tipo 1 è venduta nel 1910 a 14.500 lire e, due anni dopo, la Tipo 0 è sul mercato per la metà di quella cifra. Nei 50.000 metri quadrati della fabbrica Fiat di corso Dante, attrezzati con macchine americane e tedesche, si producono alcune migliaia di automobili ogni anno cercando di utilizzare là dove possibile pezzi standardizzati e, pur negli angusti limiti imposti dal mercato interno, si cerca di recepire qualche suggestione organizzativa dal modello americano. Nel 1913 la Fiat detiene, grazie al lavoro di 3000 operai, la metà della produzione nazionale di autoveicoli – circa 4500 unità su 9000 - e alimenta un cospicuo tessuto di imprese ausiliarie localizzate nella cintura torinese: Tedeschi, Zerbini, Michelin, Microtecnica. Parallelamente Agnelli persegue una strategia di crescita, anche attraverso l’acquisizione di imprese minori, volta a fare della Fiat un grande gruppo industriale: da un lato, attraverso la diversificazione produttiva in settori correlati, come la motoristica per navi, sommergibili, aerei e, dall’altro, mediante l’integrazione verticale e la realizzazione di una rete di vendita. Nonostante l’evidente disparità dimensionale, numerose imprese minori sorte a fianco della Fiat esprimono in quegli anni una propria originalità imprenditoriale e riescono a mobilitare importanti capacità tecniche e organizzative nel settore dell’automobile: è il caso, a Torino, della Diatto (1905), della Lancia, fondata nel 1906, nonchè della costellazione di imprese automobilistiche nate dalla intensa attività dei fratelli Ceirano, che comprendeva - per citare solo le più note - l’Itala (1904), produttrice della vettura che nel 1907 vinse la Pechino-Parigi, la Sca.-Società Ceirano Automobili Torino (1906), la Spa.-Società Ligure Piemontese Automobili (1907). La maggior parte di esse saranno in seguito assorbite dalla Fiat. Sempre a Torino viene prodotta una delle prime “vetturette” utilitarie del mondo, la Temperino (fondata nel 1906 come fabbrica di motociclette ed entrata nel settore auto pochi anni dopo), e una delle primissime vetture destinata esclusivamente

9

Storia. Piemonte

alle corse, la Chiribiri (1910), portata alla vittoria in numerose gare da Tazio Nuvolari. A fianco delle suddette imprese cresce in questi anni entro e attorno la capitale piemontese un intero apparato di industrie correlate che è ormai in grado di fabbricare i telai, i cuscinetti a sfere, i motori, le carrozzerie e gli allestimenti interni. Giovanni Agnelli aveva visitato in America la fabbrica inventata da Ford con il lavoro alla catena di montaggio, ma nessun paragone è in questi anni possibile tra l’Italia e lo sviluppo dell’industria automobilistica americana. In Francia, Germania e Inghilterra la crescita è comunque molto superiore. Eppure lo sviluppo della Fiat dalla data della sua costituzione era stato stupefacente e l’impresa torinese domina incontrastata già prima della guerra il mercato nazionale. L’Itala, la Lancia, la Bianchi, l’Isotta Fraschini, l’Alfa Romeo occupano alcune nicchie di mercato ma devono lasciare alla Fiat i numeri più ampi. La Fiat grazie all’autofinanziamento e all’appoggio della Banca commerciale, costruisce in pochi anni un gruppo industriale e attraverso acquisizioni e partecipazioni azionarie avvia un vasto processo di integrazione verticale e di diversificazioni correlate. Controlla a monte l’approvvigionamento di parti staccate e semilavorati, dirige a valle la commercializzazione dei propri prodotti e consolida teste di ponte produttive in alcuni importanti mercati esteri. È presente nella produzione dei motori per navi (con la Fiat San Giorgio) e nella nascente industria aeronautica (con la Società italiana aeronautica). Durante la belle époque nell’industria automobilistica trovano piena realizzazione le abilità tecniche e la capacità di innovare dell’imprenditoria dell’Italia del nord-ovest. Il settore, del tutto nuovo, avrebbe nei decenni acquisito una funzione guida dell’industria italiana, impiegando però almeno mezzo secolo per modificare la struttura dei consumi di massa del paese. Nel 1913 in Italia le vetture circolanti sono solo 20.000, quando la produzione americana annua supera le 500.000 unità grazie a imprese che hanno ormai pienamente colto le opportunità della lavorazione in serie e della diffusione di massa di automobili a basso costo. In Italia l’automobile è ancora un prodotto di lusso in grado di alimentare significative correnti di esportazione — circa la metà delle 7000 vetture prodotte all’anno nel periodo 1911-1913 — grazie alla cura e alla qualità delle lavorazioni, più che in ragione dei costi, sostanzialmente non inferiori a quelli dei concorrenti europei. La ristrettezza del mercato interno, le lavorazioni di pregio, la rete stradale inadeguata, la mancanza di significativi aiuti governativi in termini di imposizione fiscale e protezione doganale, cristallizzano la struttura del settore attorno a una grande impresa — la Fiat — affiancata da un ampio numero di imprese minori, alcune poco più che ditte artigianali, legate a nicchie di mercato a volte determinate da passioni sportive o imposte da mode estrose.

4. La Grande Guerra e il primo dopoguerra Con lo scoppio della Grande guerra giunge a compimento la parabola del modello di sviluppo che ha caratterizzato la belle époque. Fino ad allora le aspettative degli imprenditori erano state rivolte alla convergenza dei consumi privati agli standard europei. Il conflitto induce una distorsione del processo di diffusione dell’industria, prevalentemente fondato, nonostante tutto, sull’agire delle forze del mercato. Il ruolo dello stato era già fondamentale nell’indirizzare la crescita industriale, ma con la guerra l’intervento pubblico compie un salto di qualità, spostando drasticamente il baricentro del sistema capitalistico italiano. Le grandi imprese, dotate di decine di migliaia di addetti, si sviluppano grazie all’intervento dello stato rivolto a sostenere l’approvvigionamento di materiale bellico e questo costituisce una formidabile premessa per il progressivo coinvolgimento della mano pubblica nei sistemi imprenditoriali del paese. La partecipazione dell'Italia a una guerra in cui, per la prima volta, le esigenze della strategia mili-tare risultano essere variabili subordinate alla capacità produttiva del settore industriale, rappresenta un’occasione di sviluppo anche per le imprese piemontesi e soprattutto per la Fiat, che proprio in questi anni raggiunge i vertici del sistema industriale del paese. Cambiano i beni prodotti, le tecniche utilizzate e, in parte, l'organizzazione delle imprese. Enormi complessi indu-

10

Storia. Piemonte

striali nascono in funzione delle commesse di materiali per la guerra. Si affermano grandi imprese integrate verticalmente e orizzontalmente, capaci di fornire un ventaglio ampio di produzioni alta-mente specializzate. Negli anni di guerra, 1915-1918, la Fiat passa da 4000 a 40.000 dipendenti. Giovanni Agnelli, come i rivali fratelli Perrone dell’Ansaldo, e molte altre grandi imprese del paese, persegue l'obiettivo dell'integrazione verticale con l'acquisizione di aziende, tra cui le Officine Diatto, le Ferriere piemontesi o le Industrie metallurgiche di Torino. La Fiat sostiene così un piano strategico già affermatosi nell'anteguerra, di crescita attraverso l'acquisizione di unità minori portatrici di competenze e collocate in specifici segmenti di mercato. Alla fine del conflitto la Fiat appare impegnata su uno spettro amplissimo di produzioni, comprendente tra l'altro: grandi motori, motori avio, autoveicoli, veicoli industriali, macchine utensili, macchine agricole, materiale ferroviario, armi e munizioni. Dei quasi 90.000 veicoli prodotti in Italia nel quinquennio di guerra, poco meno del 70% è fabbricato dalla Fiat. Inizia allora la costruzione del grande stabilimento del Lingotto, che avvia la produzione nel 1922 e diventa il simbolo dell'applicazione dei principi del fordismo nel si-stema di fabbrica italiano. Durante la guerra un “nuovo esercito del lavoro”, formato per la prima volta da una larga componente femminile, affolla le fabbriche di Torino; la città è trasformata in un immenso cantiere, si costruiscono i nuovi opifici. Anche nei cortili, nelle cantine si lavora per preparare il materiale bellico, ma le vere novità sono visibili nell’espansione dei moderni stabilimenti a nord lungo l’arco della Dora e a sud ovest: Diatto, Westinghouse, Ferriere piemontesi, Lancia, Ansaldi, Rapid, Nebiolo, Pomilio, Michelin, Dubosc, Scat, Itala. Sempre negli anni del conflitto la capacità produttiva dell'industria elettrica appare in lenta crescita, ma la trasformazione affrontata dal settore è in realtà radicale. Grazie, infatti, all'aumento dell'utilizzo degli impianti idroelettrici, la produzione cresce rapidamente fino a raggiungere, nel 1918, il doppio del quantitativo erogato nel 1913. Gli utili allora accumulati vengono impiegati dalle maggiori società per ribadire quelle linee evolutive, già evidenti nell'anteguerra, che tendono al controllo oligopolistico di un mercato suddiviso per sfere di influenza, un'azione che non poteva essere contrastata dalle imprese municipalizzate sorte nelle principali città, tra cui Torino. L'uscita della Siemens dal capitale della Società elettrica Alta Italia di Torino rappresenta un esempio di un’operazione risoltasi con l'aumento del grado di concentrazione finanziaria del settore attorno a un ristretto gruppo di imprese all'interno delle sfere di influenza delle maggiori banche del paese: la Banca commerciale italiana e il Credito italiano, tra le quali si è temporaneamente inserita la Banca italiana di sconto. In questo panorama cade la nascita, nel 1918, della Società idroelettrica piemontese (Sip) sotto la guida di Gian Giacomo Ponti, come trasformazione della Società indu-striale elettrochimica di Pont Saint Martin; la Sip può in seguito esercitare un ruolo concorrente alla Edison in Lombardia attraverso l'acquisizione della Società lombarda per distribuzione elettrica (Vizzola). Il conflitto ridimensiona temporaneamente il ruolo del maggiore vincolo allo sviluppo industriale italiano, costituito dalla ristrettezza del mercato interno. La mancata crescita della domanda è, però, solo una questione accantonata. Al di là delle inevitabili effervescenze del dopoguerra, essa si ripropone quale fattore frenante all'affermazione, in tutti i settori, della grande impresa. Le commesse dell'esercito favoriscono il prevalere dei settori ad alto contenuto di tecnologia rispetto a quelli tradizionali. Le produzioni di beni di consumo cedono il passo all'industria pesante. Il danaro pubblico consente alle imprese di autofinanziare, in larga parte, la costruzione dei nuovi stabilimenti ovviando ai limiti del mercato azionario italiano. Il repentino dileguarsi dei flussi di danaro statale riversa sul sistema bancario l'onere del finanziamento della riconversione industriale nella temperie del periodo postbellico. I massimi istituti di credito (ancora Banca commerciale italiana e Credito italiano), chiamati a svolgere un ruolo di coordinamento e iniziativa nel disegnare le strategie industriali del tempo di pace, non contribuiscono a restituire equilibrio al sistema industriale italiano. Le grandi imprese elettriche, che pure si erano dimostrate le più vitali anche negli anni difficili, non si pongono come centri promotori

11

Storia. Piemonte

di una nuova imprenditoria nelle diverse aree del paese. Mentre i fratelli Perrone tentano, dal ponte di comando dell’Ansaldo, di assumere il controllo della Banca commerciale italiana, parallelamente Giovanni Agnelli tenta di mobilitare i capitali Fiat, in associazione con la Snia di Riccardo Gualino, per ottenere il controllo del Credito italiano. Proprio in quegli anni Gualino - che era capo di un gruppo polisettoriale di imprese impegnate nel commercio del legname, nella produzione di cemento, nell’edilizia, nei trasporti transoceanici - sviluppa la riconversione della sua maggiore impresa, la Snia, verso la produzione di fibre artificiali: con l’affermazione della Snia, l’Italia diventa, negli anni seguenti, uno dei maggior produttori mondiali di rayon. Le banche, sopraggiunta una congiuntura sfavorevole alle industrie, riescono a cautelarsi dal pericolo delle ag-gressioni finanziarie collocando congrue parti del proprio capitale sociale all'interno di sindacati di blocco, in mano a imprese controllate direttamente o indirettamente dai medesimi istituti. Alla fine di queste avventure finanziarie l’Ansaldo, entrata in una crisi industriale che pare irreversibile, viene smembrata e la Fiat assorbe le produzioni aeronautiche, quelle automobilistiche e lo stabi-limento San Giorgio per la fabbricazione di grandi motori per navi. L’irrompere delle imprese di grandi dimensioni sulla scena torinese, la veloce espansione del tessuto sociale composto dalla manodopera industriale, l’ingresso in fabbrica di nuove fasce sociali, il ritorno nelle periferie urbane trasformate di coloro che avevano combattuto e sofferto nelle trincee della grande guerra sono tutti fenomeni capaci di stravolgere nel dopoguerra il sistema di relazioni industriali con cui devono confrontarsi le imprese nel pieno dello sforzo di riconversione alle nuove produzioni di pace. Dopo la guerra ha una larga diffusione a Torino sia nell’industria automobilistica cge in quella meccanica, nel comparto chimico come in quello della gomma il movimento antagonistico ispirato alla rivista “L’Ordine Nuovo” diretta da Antonio Gramsci. In molte fabbriche torinesi, cresciute con la guerra, sono presenti i commissari di reparto e i consigli operai. Alla politicizzazione dello scontro sindacale nelle fabbriche imposto dalle nuove organizzazioni dei lavoratori si contrappone sul fronte degli imprenditori l’Amma, Associazione metallurgici, meccanici e affini, presieduta da Giovanni Agnelli. Nella primavera del 1920 lo “sciopero delle lancette” si risolve con la sconfitta degli operai e la riduzione dei poteri delle commissioni interne, ma già nell’estate, al culmine di quello che sarebbe stato ricordato come il “biennio rosso”, la conflittualità nelle fabbriche riesplode con le occupazioni dei grandi impianti industriali prima a Torino e a Milano, poi nel resto del triangolo industriale. Gli industriali rispondono con la serrata delle fabbriche. La mediazione esercitata dal governo Giolitti nel settembre 1920 interviene a pochi mesi dalla grave crisi economica che nel 1921 compromette definitivamente ogni ulteriore aspettativa di rivendicazione da parte operaia: l’ambiente sociale è oramai scosso dalla devastante e violenta espansione del fascismo, a Torino come nelle altre città del nord ovest, nel triangolo industriale come nelle campagne della pianura padana.

5. Tra le due guerre Tra il 1922 e il 1938 il prodotto lordo pro capite italiano rappresenta poco più della metà di quello americano e inglese, e circa i due terzi di quello tedesco e francese. I tentativi di perseguire in Italia strategie industriali di tipo fordista rivolte all'abbattimento dei costi unitari attraverso l'ampliamento della produzione continua e standardizzata, trovano insuperati vincoli sia nel basso livello dei consumi, sia nell'ancora alta percentuale di reddito destinato dalle famiglie all'acquisto di generi di prima necessità. Il mercato automobilistico non poteva non risentirne in modo particolare. Nel 1938 il parco circolante italiano è costituito da poco più di 370.000 autoveicoli, di cui 280.000 vetture, mentre negli Stati Uniti gli autoveicoli sono 25 milioni, in Francia e Inghilterra circa 2 mi-lioni, in Germania 1.300.000. L'industria automobilistica italiana cresce, quindi, rivolta alle esportazioni, che assorbono oltre la metà della produzione fino al 1928. In quegli anni la Fiat produce, sull'arco di quasi un decennio, 70.000 automobili modello 501 nello stabilimento del Lingotto, costruito su cinque piani di altezza, con una pista di prova sul tetto e impostato, secondo i

12

Storia. Piemonte

più moderni criteri dell'epoca, per la lavorazione alla catena di montaggio. Ma sono numerosi i mo-delli italiani che, seppure con produzioni numericamente ridotte, sono divenuti celebri a livello internazionale per le qualità sportive o per le qualità costruttive, come la Lancia Lambda. A Torino si sviluppa anche la Viberti, nata come carrozzeria nel 1922 e trasformata in impresa industriale nel 1928: diventerà uno dei maggiori produttori italiani di autobus, semi-articolati e rimorchi. La Fiat, dopo aver riassorbito le conquiste dei lavoratori scaturite dalla speciale conflittualità operaia durante il cosiddetto "biennio rosso" del 1919-20, trae giovamento dal fatto di aver conosciuto negli anni di guerra uno sviluppo degli investimenti incentrato sulla produzione auto-mobilistica. A partire dai primi anni 1920, pur non negando la struttura di gruppo integrato ver-ticalmente, l’impresa torinese concentra i propri sforzi nella produzione automobilistica, dominando il settore con percentuali oscillanti tra il 60% e l'80% della produzione nazionale. Progressivamente sono assorbite imprese lombarde come la Om e soprattutto le imprese dell'area piemontese ancora indipendenti — come Spa, Scat, Itala, Ansaldo — a esclusione della Lancia, che anzi si consolida nella posizione di secondo produttore nazionale con il 9% nel 1938. Grazie alla con-cessione di un prestito di 10 milioni di lire effettuato dalla americana Banca Morgan nel 1926, la Fiat è in grado di affrontare la ristrutturazione produttiva e organizzativa imposta dalla drastica politica di rivalutazione della moneta lanciata da Mussolini con la battaglia della lira, mentre Giovanni Agnelli, con la creazione nel 1926 della Società anonima vendita autoveicoli (Sava) per la diffusione dell'acquisto rateale, e l'immissione di modelli a costo progressivamente inferiore come la 509 nel 1925, la 508 (la Balilla) nel 1932, e la 500 Topolino nel 1936, dirige la strategia di lungo periodo dell'impresa verso l'espansione del mercato interno di vetture utilitarie. Circa un terzo della produzione nazionale ha comunque preso la via dei mercati esteri mentre i quantitativi assoluti di vetture fabbricate, seppure globalmente in crescita, subiscono con violenza gli effetti della crisi internazionale che porta nel biennio 1931-32 al dimezzamento della produzione. Nel 1939 però, Agnelli e Vittorio Valletta — entrato alla Fiat nel 1921 e assurto al ruolo di consigliere delegato nel 1939 — inaugurano, dopo aver superato i 70.000 veicoli prodotti in un solo anno, il modernissimo stabilimento di Mirafiori che, organizzato orizzontalmente per la lavora-zione in serie alla catena di montaggio, avrebbe sorretto negli anni 1950 le sorti dell'industria automobilistica di massa italiana. La struttura dell'industria automobilistica è dunque improntata dalla presenza di una grande impresa affiancata, in posizione ineluttabilmente subordinata, da poche aziende di medie dimensioni. Al di là della fabbricazione di vetture complete, la crescita delle lavorazioni meccaniche porta, più in generale, alla formazione di numerose officine e laboratori con meno di dieci addetti. Questa formazione di microimprese, connessa non solo all'industria automobilistica ma a tutto il settore meccanico, determina una ridefinizione dei sistemi locali su scala subregionale nell'Italia del triangolo industriale. In Piemonte come nel resto del nord-ovest e in ampie aree del nord-est-centro si determina in quegli anni una nebulosa manifatturiera formata da costellazioni locali di imprese, costituite da grandi e piccole unità, dove queste ultime riforniscono le imprese maggiori di parti staccate o completano lavorazioni secondarie o, ancora, si occupano di coprire segmenti specializzati del mercato. In quegli anni l'industria meccanica cresce e si sviluppa fino a coprire molte produzioni di beni di consumo durevole e di macchine utensili. Settori produttivi, questi, dove si sarebbero via via formate qualità e capacità produttive tali da porre nel secondo dopoguerra l'industria meccanica italiana ai primi posti in Europa. Contrariamente a quanto era avvenuto per gli industriali cotonieri, che pure alimentano, a partire dalla belle époque, vistose correnti di esportazione, il proiettarsi sulla scena internazionale di al-cune grandi imprese avviene anche su mercati di nazioni a capitalismo avanzato e per produzioni a alto contenuto tecnologico. In primo luogo la Fiat che, anziché fondare, come altre imprese mec-caniche, la propria strategia di espansione sulla sostituzione delle importazioni, cerca da subito il confronto con i maggiori produttori mondiali sui mercati esteri. In particolare dopo la grande guerra e superato il momento di maggiore sforzo finanziario per la costruzione dello stabilimento del

13

Storia. Piemonte

Lingotto, la Fiat crea una rete di filiali in quasi tutte le nazioni europee, in America latina e, anche, in Asia. A partire dalla fine degli anni 1920, la maggiore difficoltà a esportare indotta dal diffondersi delle politiche protezioniste porta a sviluppare la fondazione di stabilimenti di assemblaggio e di costruzione all'estero. In Germania la Fiat si associa nel 1928 con la Nsu, in Spagna assume nel 1930 il controllo della Fabrica nacional de automoviles di Barcellona e, nel 1931, della Hispano di Guadalajara; nel 1933 è riassunto il controllo della Austro Fiat (fondata nel 1907), e l'anno succes-sivo è costituita in Francia la Simca. Sono stati poi numerosi altri tentativi minori di impiantare officine di assemblaggio in diversi paesi europei e di dare vita a produzioni su licenza. Nel complesso, nella seconda metà degli anni 1930 la produzione estera del gruppo è pari a circa un terzo della produzione totale. Negli anni Venti la Olivetti, che aveva già investito in una rete commerciale in Italia, avvia le esportazioni della macchina per scrivere M20. In quegli anni l'impresa di Ivrea accresce la propria integrazione verticale impiantando una fonderia e creando una società, la Officina meccanica Oli-vetti (O.m.o.) per la produzione di macchine utensili. Sotto la spinta di Adriano Olivetti, rientrato nel 1926 da un viaggio di formazione in America, l'impresa completa la propria rete di vendita e, sul modello delle imprese americane, combina l'efficienza produttiva con l'investimento pubblicitario per creare adeguate barriere all'ingresso di nuovi concorrenti. Nel 1929 è fondata la Hispano Oli-vetti, nel 1930 la Olivetti belga e nel 1932 la Olivetti Argentina. Nel 1938 Adriano Olivetti diventa presidente della società che, con la costruzione del nuovo grande stabilimento di via Castellamonte a Ivrea (1939) imposta anch'essa con largo anticipo la strategia e la struttura per la successiva diffusione di massa di macchine per l'ufficio, contrassegnate da un disegno industriale funzionale e consono a un'immagine pervasiva sui diversi servizi aziendali. Nel campo delle fibre tessili artificiali si verifica un'affermazione di assoluto rilievo dei produttori nazionali: irrilevante fino ai primi anni 1920, la produzione italiana cresce per un decennio a ritmi sostenuti, comparabili con quelli dell'industria tedesca e alla fine del periodo questa industria si mostra ancora in forte progresso, con una produzione superiore alla metà di quella tedesca, ma pari al doppio di quella inglese e di quattro volte superiore a quella francese. In questo settore si impone come impresa trainante la Snia Viscosa, con sede a Torino. Nata come società di trasporti marittimi nel 1917 - in effetti la sigla significava in origine Società di Navigazione Italo Americana – aveva cominciato ad occuparsi di fibre artificiali all’inizio degli anni ’20. Nel 1929 arriva a controllare l'80% della produzione nazionale e il 12% di quella mondiale. La società, creata da Riccardo Gualino, è alla testa di un composito gruppo di imprese costruito se-condo le intuizioni industriali e finanziarie di Gualino. Gli stabilimenti per la produzione di fibre artificiali sono quattro, ma il gruppo sarebbe arrivato via via a comprendere la produzione di massa del cioccolato con la Unica, quella del cemento con la Unione cementi, e altre attività ancora coordinate dalla Banca agricola italiana (Bai). La rivalutazione della lira del 1926-27 colpisce la capacità di esportare della Snia, che non può trovare all'interno un adeguato sfogo alla propria enorme produzione. Nonostante la ricerca da parte di Gualino di accordi di cartello con i maggiori produttori mondiali e un prestito della casa bancaria inglese Hambro's, la Snia deve accusare il contrarsi della domanda e, conseguentemente, portare alla luce lo sbilanciamento finanziario dell'intera costruzione, cresciuta a dismisura inseguendo la vocazione speculativa di Gualino: questi avrebbe concluso in rovina, nel 1931, la sua avventura imprenditoriale. La Snia, invece, passata sotto il comando di Franco Marinotti, mantiene la testa dell'industria delle fibre artificiali, che in Italia può allora contare anche sulla Soie di Châtillon, presente con stabilimenti in Valle d’Aosta (1920) e Ivrea (1923), sulla Società generale italiana della Viscosa (che apre un grande stabilimento a Roma nel 1923), e la Società Seta artificiale Varedo nel milanese (1926) — raccolte nel 1929 in un cartello che controllava un terzo delle esportazioni mondiali. La Sip, invece, è stata fondata nel 1918 attraverso l'ampliamento della Società idroelettrica Pont Saint Martin, allo scopo di limitare il potere della Edison che, affrancata dalla tutela della Banca commerciale, si mantiene ai vertici del settore. Sotto la guida di Gian Giacomo Ponti la Sip incorpora numerose società produttrici e distributrici, sino a muovere concorrenza alla Edison sullo

14

Storia. Piemonte

stesso territorio lombardo. In seguito, raggiunto con la rivale un punto di equilibrio, si collega, tramite uno scambio di azioni, con l'Italgas di Panzarasa e è quindi partecipe sia dei progetti di espansione nel settore chimico, sia del fallimento dei medesimi all'avvicinarsi della crisi del 1929. A partire dal 1924, con la privatizzazione del sistema telefonico, la società piemontese acquisisce il controllo di gran parte della rete nazionale. Nel 1933 la maggioranza delle azioni Sip passa all'Iri insieme a molte altre azioni di società elettriche. L’industria piemontese nel corso del ventennio tra le due guerre mondiali compie un decisivo salto di qualità dimensionale, tecnologico e organizzativo. La società regionale è oramai a tutti gli effetti improntata dalla presenza di alcuni grandi organismi industriali, quasi un sistema oligopolista incentrato in primo luogo sulla Fiat, seguita da Olivetti, Snia, Sip, Italgas: grandi imprese che hanno via via incorporato funzioni finanziarie, industriali e distributive. Le imprese maggiori sono affiancate nel torinese da numerose altre realtà industriali ad esse correlate, come le carrozzerie Garavini (nata nel 1908 col nome di Carrozzeria Piemonte), Bertone (1912), Ghia (1915), Pininfarina (1930), o la Ceat, nata nei primi anni ’20 del Novecento per iniziativa di Virginio Bruno Tedeschi, per decenni seconda produttrice italiana di pneumatici e cavi dopo la Pirelli. Spiccano anche aziende rientranti in settori diversi che avevano tratto origine da iniziative avviate durante la belle époque come la Nebiolo (macchine tipografiche e macchine utensili, sorta a Torino nel 1878). Altre sono il frutto di investimenti esteri come lo stabilimento di vernici Duco (una collaborazione tra la Montecatini e l’americana Dupont); altre ancora rappresentano l’eredità delle tradizioni di lungo periodo espresse dall’economia regionale soprattutto in campo tessile come il Cotonificio Valle Susa. A fianco delle imprese legate alle grandi famiglie della storia dell'industria emergono tuttavia anche figure di imprenditori più spregiudicati, come Riccardo Gualino, le cui carriere, segnate da rapidi successi e da repentini declini, sono costantemente informate a una concezione dell'attività indu-striale subordinata alla speculazione finanziaria. L'affermazione della grande impresa non porta con sé l’arretramento dei sistemi imprenditoriali che a livello locale erano stati alla base della nascita delle prime esperienze industriali. Questi distretti manifatturieri si erano formati nell'Ottocento attorno alle lavorazioni tradizionali del ciclo della seta, della lana o del ferro. Le imprese vi hanno successivamente trovato occasioni di cooperazione scaturite dalla radicata presenza di informali comunità sociali. Con il progredire dell'industria, i sistemi locali sono stati partecipi dello sviluppo di altri settori limitrofi, come il cotoniero, favorendo l'affermazione del sistema di fabbrica e la specializzazione in svariate attività manifatturiere di nuovo tipo. In particolare, nell'area piemontese è stata più evidente la compresenza di elementi favorevoli all'affermazione della grande impresa e di spinte alla diffusione di unità produttive di piccola e media dimensione. Si è così formato un tessuto manifatturiero cresciuto all'interno del reticolo dei numerosissimi piccoli centri urbani della fascia collinare prealpina, tessuto connettivo fra la conurbazione di Torino, Ivrea, Biella, Vercelli e Novara. Il fallimento, poi, della banca universale quale centro regolatore del capitalismo industriale pone le basi di un processo che avrebbe portato lo stato a sostituirsi direttamente nel 1933 con la costituzione dell’Iri all'imprenditoria privata in molti settori. La creazione dello stato imprenditore non avrebbe rappresentato del resto un evento episodico nello sviluppo industriale del paese: la precoce e continua presenza dell'iniziativa pubblica nel determinare gli esiti industriali di alcune branche di attività, in primo luogo la siderurgia e la cantieristica, aveva già trovato ampia giustificazione nella inadeguata mobilitazione del risparmio verso il capitale di rischio delle società industriali e nella scarsa propensione delle imprese familiari a assumere impegni in settori caratterizzati da una remunerazione degli investimenti fortemente differita.

6. Dalla seconda guerra mondiale al miracolo economico Durante la seconda guerra mondiale, l'industria manifatturiera non dimostra un'efficacia produttiva simile a quella, che nonostante tutto, aveva consentito la vittoria nella Grande guerra.

15

Storia. Piemonte

L'impossibilità per il regime fascista di rendere partecipi le maggiori forze produttive della nazione agli obiettivi del conflitto, fa sì che il comparto manifatturiero non si riveli in grado di sostenere lo sforzo bellico i cui esiti sarebbero stati comunque compromessi da scelte militari errate compiute in un quadro di sostanziale marasma organizzativo. L'industria italiana non può produrre gli arma-menti necessari alle diverse latitudini in cui è rivolto l'impegno bellico, ciò mentre la rescissione dei rapporti di mercato con le principali fonti di approvvigionamento di materie prime e con alcuni tra i maggiori acquirenti delle esportazioni italiane, pone limiti invalicabili alla crescita industriale. L'ondata di distruzione durante gli ultimi anni del conflitto colpisce il paese e la sua popolazione con durezza estrema. I danni materiali maggiori si verificano nei confronti delle infrastrutture e del patrimonio abitativo, mentre gli impianti industriali, collocati in netta prevalenza nell'Italia set-tentrionale, sono in gran parte risparmiati dalla furia bellica. La capacità produttiva di Torino nell’immediato dopoguerra è comunque ben superiore a quella degli ultimi anni di pace. Per il Piemonte, i risultati raggiunti prima della guerra sarebbero stati quindi conferiti per lo più intatti all’economia dell’Italia repubblicana. Le poche grandi imprese che avevano avviato, nel settore meccanico, nell’industria elettrica, in quella chimica e della gomma, importanti processi innovativi non mutano rotta. Le premesse poste durante il fascismo per un cambiamento di prospettiva del sistema industriale verso la produzione standardizzata di beni di consumo di massa, sono, dopo la guerra, ancora operanti. Il conflitto non imprime però un'accelerazione né stimola un salto tecnologico e dimensionale dell'apparato industriale. La repubblica italiana eredita quindi un paese in difficoltà economiche a cui si sommano gli scompensi dovuti alla divisione in due del paese nei lunghi mesi in cui intere regioni durante la lotta al nazi-fascismo sono state scenario di devastanti scontri a fuoco. II�������������������������������������������������������������������������������������������������������������������

������������ i devastanti scontri a fuoco,���������������������������������������������������������������������������������������������noltre le imprese manifatturiere, soprattutto nel campo dell’industria meccanica, devono affrontare la difficile riconversione dalle produzioni belliche a quelle destinate a un’economia di pace. L'industria manifatturiera ricomincia a crescere dopo la guerra nonostante i consumi pro capite pri-vati siano necessariamente molto bassi. Già nel triennio 1949-51 la produzione industriale cresce a un ritmo superiore al 13% annuo, grazie anche agli effetti del piano di sussidi americani European recovery program (Erp) che dall'aprile del 1948 avvia la fornitura gratuita di beni e la corresponsione di prestiti a tassi agevolati nell'ambito del quale l’industria piemontese ottiene una quota di aiuti addirittura superiore al suo peso nell’economia del paese e in particolare la Fiat può riattivare e sviluppare i propri impianti. Tra le altre imprese maggiori destinatarie del programma nell’area subalpina vi sono Ceat, Cogne, Officine di Savigliano, Cartiere Burgo, Sip, Aem e Riv. Nella penisola il consumo industriale di energia elettrica cresce, tra il 1951 e il 1960, del 125% e, parallelamente, aumenta sia la produzione di settori di base, come l'acciaio (+230%), il cemento (+256%) e il petrolio (+460%, per le benzine), sia la fabbricazione di beni di consumo durevole, co-me le automobili (+630%), le macchine per scrivere (+360%) e le macchine per cucire (+95%), mentre settori tradizionali come l'abbigliamento e l'alimentare acquisiscono i caratteri propri di una industria moderna. Negli anni 1960 nel gruppo di testa delle pochissime grandi imprese manifatturiere italiane vi sono le piemontesi Fiat e Olivetti che dominano il proprio segmento di mercato costituendo il polo di attrazione per grappoli di imprese minori. A queste seguono, nella regione, nuclei di imprese medio-grandi che operano in settori in rapida espansione come l’alimentare – è il caso della Ferrero di Alba - o l’abbigliamento, come Miroglio ad Alba e il Gruppo Finanziario Tessile a Torino. Costituisce infine il tessuto connettivo del sistema industriale una diversificata massa di microimprese semiartigianali che, specializzandosi all'interno di diversi sistemi economici locali, dà vita anche a produzioni a tecnologia avanzata. Il sistema industriale piemontese continua quindi a

16

Storia. Piemonte

essere composto da unità produttive grandi e piccole. Centinaia di laboratori artigianali affiancano l’attività di costellazioni di imprese di tutte le dimensioni: sono però i grandi organismi ad aver la capacità di tracciare lo sviluppo con l’introduzione di nuovi prodotti e nuovi processi produttivi che avrebbero rivoluzionato i modelli di consumo e gli stili di vita per strati sempre più ampi della popolazione italiana e creato sempre più ampie correnti di esportazione. In comparazione con l’essenzialità dei precedenti modelli organizzativi, La Fiat e l’Olivetti appaiono ormai sistemi complessi: dopo la guerra la gestione dei grandi organismi produttivi non si identifica più solo nel perseguimento delle economie di scala. Il reddito ricavato dall’ordinato susseguirsi delle produzioni in serie non è più un obiettivo sufficiente a giustificare l’azione delle comunità formate da decine di migliaia di lavoratori. Seppure sulla base di una consapevolezza molto diversa da impresa a impresa, tre problematiche di tipo nuovo si pongono alla direzione: la prima era l’organizzazione del consenso interno all’azienda e il coinvolgimento negli scopi aziendali di una moltitudine di persone le cui funzioni sono esplose in una gamma vastissima di compiti e ruoli; la seconda riguardava le relazioni che la grande impresa è indotta a instaurare con l’ambiente in termini di interscambio di servizi, gestione e amministrazione del territorio, organizzazione del tempo libero e della vita esterna all’azienda; la terza è invece determinata dalla necessità di concorrere alla programmazione dello sviluppo economico nazionale all’inseguimento dei nuovi modelli di consumo che si auspicava si potessero diffondere uniformante nel paese. La Fiat attraversa un periodo di crescita rapidissima: 120.000 macchine prodotte nel 1951, 600.000 nel 1961 e un milione nel 1966. Le automobili Fiat sono diverse rispetto a quelle americane e anche rispetto a quelle francesi, tedesche e inglesi: sono piccolissime perché il prezzo doveva essere adeguato al reddito medio italiano. In questa fase l’impresa è a guida manageriale: Vittorio Valletta, principale collaboratore di Giovanni Agnelli, dirige l’azienda dal dopoguerra dopo la scomparsa del fondatore. Il nipote, Gianni Agnelli, avrebbe assunto la presidenza della società soltanto nel 1966. Nel 1949 gli autoveicoli circolanti in Italia superano di poco le 480.000 unità (appena 110.000 in più che nel 1938, ma le vetture sono soltanto 267.000, ossia 22.000 in meno) e ciò alimenta fondate perplessità sul futuro dell'industria automobilistica nazionale. La strategia di Valletta alla Fiat si rivela però vincente, grazie alla individuazione del segmento di mercato, le utilitarie, dove la Fiat può svilupparsi, potendo contare su una domanda interna in crescita e su una minor concorrenzialità delle produzioni estere. Nel 1949 è avviata la produzione della "Topolino C" e nel 1950, completata la moderna ristrutturazione degli impianti, è costruita la "1400", la prima automobile della Fiat a carrozzeria portante; nel 1953 è poi prodotta la "Nuova 1100". Le vetture costruite dalla Fiat, che per tutti gli anni 1950 e 1960 rappresentano circa il 90% della produzione nazionale, superano nel 1959 le 100.000 unità, e nel 1954 toccano quasi le 200.000 unità. A queste si affiancano le automobili, progettate per una fascia di pubblico più ristretta, costruite nello stabilimento Lancia di Torino, capace di circa 10.000 vetture annue. Sotto la direzione di Gianni Lancia, la casa piemontese costruisce nel 1950 le prime "Aurelia" e tre anni più tardi la più piccola "Appia". Il cambiamento di prospettiva nella produzione di automobili in Italia avviene però nel 1955, con l'avvio delle moderne linee di produzione della "600". Questa piccola vettura segna l'ingresso dell'Italia nella fase della motorizzazione di massa. Nel 1960, grazie anche al contributo della ancora più economica "Nuova 500" (commercializzata nel 1957) la produzione annua della Fiat tocca, dopo un ulteriore radicale ampliamento dello stabilimento di Mirafiori, il mezzo milione di unità. Nel 1966, anno in cui Gianni Agnelli, nipote del fondatore, assume la presidenza della so-cietà, con l'immissione sul mercato della "850" in sostituzione della "600", l'impresa torinese addirittura raddoppia quel quantitativo, utilizzando anche il nuovo stabilimento di Rivalta. A metà degli anni 1950 il difficile confronto con la Fiat porta la Edoardo Bianchi a confluire nella nuova società Autobianchi acquisita nel 1958 dalla Fiat, e la famiglia Lancia a cedere il controllo dell'industria di famiglia a Carlo Pesenti, imprenditore proprietario della Italcementi e della Italimmobiliare, dinamico e spregiudicato operatore negli ambienti finanziari in quegli anni.

17

Storia. Piemonte

La crescita della Fiat è notevole anche in campo internazionale. Nel 1960 la sua produzione è, in Europa, seconda solo a quella della Volkswagen e di poco superiore a quella della Renault. Nel 1967 la produzione Fiat sopravanza anche quella della casa tedesca. La quota Fiat nella produzione mondiale passa dal 4,7% del 1960 al 6,6% del 1968; in quello stesso anno la percentuale sull'industria automobilistica europea sarebbe stata del 15,7%. Questo nel quadro di un incremento delle esportazioni di autoveicoli, il cui peso complessivo passa da circa 3000 tonnel-late nel 1959 a quasi 85.000 tonnellate nel 1970, anno in cui la produzione Fiat supera il milione e mezzo di esemplari. La Fiat conserva la struttura di gruppo integrato nelle produzioni nel settore dei trasporti con importanti posizioni in diversi settori correlati: ferroviario, dei veicoli industriali, delle macchine agricole, della componentistica auto, elettromeccanico, siderurgico. A questi si aggiungono via via partecipazioni diversificate che trovano un punto di raccordo all'interno dell'Istituto finanziario industriale (Ifi) che, dal 1927, funge da holding controllata dalla famiglia Agnelli. Nel 1965 è ceduta al gruppo svedese Skf la fabbrica di cuscinetti a sfere Riv di Villar Perosa, con cinque stabilimenti e 10.000 operai. La seconda impresa automobilistica piemontese, la Lancia, avvia un tentativo di recupero delle quote di mercato erose dall'Alfa Romeo in ascesa. La lavorazione è suddivisa nel 1958 più razionalmente negli stabilimenti di Torino (auto) e Bolzano (fonderia e veicoli industriali), mentre è avviata la produzione della "Flaminia". Nel 1962 viene costruito un altro stabilimento nei dintorni di Torino, a Chivasso, per la costruzione della "Flavia", un innovativo modello di vettura di media cilindrata a trazione anteriore e, nell'anno successivo, della più piccola "Fulvia". La strategia di Pesenti, però, raggiunta nel 1963 la punta massima di produzione con poco più di 40.000 unità, deve accantonare le aspettative di inserimento stabile al secondo posto del mercato italiano. Il rallentamento, già nel 1964, della congiuntura espansiva, si associa per la Lancia alla duplice constatazione che la Fiat è in grado di competere anche nella fascia alta del mercato e che la progressiva integrazione dell'economia nazionale in quella europea aveva accresciuto il ruolo delle case estere sulla fascia medio-alta del mercato interno. L'evolversi della situazione del mercato internazionale, delle tecnologie adottate e dei conseguenti investimenti necessari aveva alzato progressivamente la soglia minima per la produzione di una casa automobilistica impegnata nella competizione internazionale. La ricerca di una posizione minoritaria sul mercato interno non è quindi, alla fine degli anni 1960, un orizzonte perseguibile e quando, alla nel 1969, la Fiat assume il controllo della Lancia, le prospettive industriali di una vita autonoma per la casa erano ampia-mente compromesse. La struttura del settore automobilistico e dei veicoli industriali si è così configurato come un duopolio dominato da un colosso privato con un'impresa pubblica minoritaria. Come satelliti più o meno direttamente collegati con la grande casa torinese, si sono sviluppate numerose imprese di piccole e medie dimensioni impegnate nella fornitura di componentistica e, soprattutto, per i veicoli industriali, nell'assemblaggio e nella carrozzeria di mezzi di trasporto indirizzati a nicchie di mercato. L'ingegno e la vitalità imprenditoriali che accompagnano la crescita del settore meccanico nell'Italia del nord-ovest hanno così trovato modo di mantenere vitale il tradizionale tessuto manifatturiero. Le piccole e medie unità ottengono nell'integrazione con l'attività della grande impresa un'occasione di stabilizzazione e una possibilità di ingresso in mercati più vasti. In diversi casi però queste riescono a sviluppare approcci originali al mercato, operando in autonomia o in gruppi di imprese informalmente connesse da rapporti di reciprocità economica. La crescita dell’industria meccanica naturalmente provoca l’espansione degli acquisti all’estero (soprattutto Stati Uniti e Germania) di macchine utensili. Anche su questo fronte però l’industria meccanica nazionale sviluppa capacità tecnologiche e produttive già affermatisi prima della guerra nelle aree industriali piemontesi, lombarde e bolognesi. I grandi complessi industriali come Fiat e Olivetti sviluppano proprie divisioni specializzate nella produzione di macchine utensili per le proprie necessità che, come nel caso della Officine meccaniche Olivetti (Omo), avviano le forniture anche all’esterno del gruppo. Comunità di imprese piccole e medie avviano la conquista di nicchie

18

Storia. Piemonte

di mercato per macchine utensili specializzate o per singole parti ponendo le basi per la formazione di quello che presto diviene uno dei punti di forza delle esportazioni italiane. A Torino e in altre città del Piemonte negli anni Sessanta sono attive in questo campo, oltre ai due gruppi maggiori, imprese quali le Officine di Savigliano, Moncenisio, Nebiolo, Elli & Zerboni, Cimat, Graziano, Morando, e nel campo delle tecnologie ottiche di precisione, incluse le macchine cinematografiche, la Microtecnica, fondata nel 1929. In pochi anni la Fiat consegue il duplice risultato di raggiungere i vertici dell’industria automobilistica europea e di motorizzare il paese: in media negli anni 1960 ogni famiglia italiana possiede una vettura, sia pure di cilindrata molto piccola. Una “500” ha un costo compatibile con il salario annuo di un operaio che la costruisce: è quindi avvicinato l’obiettivo fordista che postulava la possibilità che gli operai dell’industria automobilistica costituissero anche parte della clientela delle vetture utilitarie prodotte. Il costo del lavoro è alla Fiat più basso rispetto a quello delle concorrenti estere. Eppure l’operaio di Mirafiori può contare su un salario superiore a quelli mediamente pagati nell’industria meccanica italiana di quegli anni. Alla Fiat i servizi offerti dall’azienda sono migliori: così la mutua Fiat rispetto alla sanità pubblica, o le colonie per i figli dei dipendenti. Le relazioni industriali restano però inchiodate a un rigido autoritarismo aziendale: Valletta gestisce la massa operaia utilizzando metodi antichi: autorità dell’azienda – senza dialogo e senza appello – e fedeltà delle maestranze – ottenuta con metodi paternalistici. Gli alti volumi di produzione sono ottenuti attraverso l’utilizzo delle tecnologie più aggiornate. Mirafiori era stata realizzata prima della guerra, ma il conflitto aveva impedito l’avvio della produzione così come l’avevano immaginata i progettisti. La vera vita di Mirafiori inizia nel dopoguerra quando, con gli aiuti previsti dal piano Marshall, era stato possibile rivedere la dotazione di macchine utensili automatiche. In alcuni segmenti del processo produttivo il mito della fabbrica automatica sembra diventare realtà. Alcuni sistemi transfer integrano sequenze di macchine diverse. I pezzi subiscono numerose lavorazione superando automaticamente le stazioni che scandiscono il fluire della produzione. In questi reparti pochi operai generici controllano la produzione sostituendo i numerosi operai specializzati prima necessari. Al di là dell’autoritarismo paternalista di Valletta, la presenza delle nuove macchine nel flusso continuo della produzione rivoluziona la funzione del lavoro operaio in fabbrica. Tra il 1951 e il 1961 la popolazione torinese (compresa quella dei comuni limitrofi economicamente integrati nel capoluogo) cresce di quasi 400.000 unità. Mirafiori raggiunge nel successivo decennio, con oltre 60.000 dipendenti, la soglia massima della sua governabilità. Enormi masse di operai — spesso provenienti da famiglie di prima urbanizzazione — provocano, già alla fine degli anni 1950, la rottura di quella “pace sociale forzata” su cui Valletta aveva fondato la crescita impetuosa dell’impresa e dei profitti. A cavallo fra il decennio 1950 e il decennio 1960 anche la Fiat deve guardare con maggiore attenzione al “fattore umano” (nelle sue componenti emozionali, psicologiche, e motivazionali); le suggestioni derivate dal pensiero organizzativo d’oltreoceano rispondono d’altra parte a esigenze reali di maggiore efficienza e razionalizzazione nell’organizzazione del lavoro attraverso la considerazione degli aspetti psicologici e sociali del rendimento operaio, ma rappresentano anche il tentativo di superare le rigidità delle prescrizioni che regolavano la vita di fabbrica accogliendo almeno alcune delle istanze sociali poste all’attenzione della giovane democrazia italiana dalle ideologie cattolica riformista, socialista e comunista italiana, allora dominanti nel paese. Il riconoscimento della nobiltà dei valori umani è, però, alla Fiat assunta all’interno di un sistema che si mantiene gerarchico e centralizzato. Una minimale attenzione all’ambiente di lavoro, l’organiz-zazione del sistema assistenziale dell’azienda e del dopolavoro, sono in questi anni le uniche novità riformiste che la dirigenza Fiat è disposta a concedere. Le capacità organizzative alla Fiat si sono sedimentate nel corso della prima metà del novecento attorno al governo centralizzato dell’impresa, con una forte direzione generale che impersona la strategia di crescita dell’azienda, e con questa, dell’intero settore. Gli stabilimenti Fiat dominano il sistema produttivo torinese e la Fiat guida incontrastata il settore automobilistico italiano,

19

Storia. Piemonte

accompagnando la formazione dell’Italia industriale. Valletta lascia il comando della Fiat nella mani del nipote del fondatore solo nel 1966, alla fine cioè dell’onda lunga della crescita economica italiana del secondo dopoguerra: un’impresa cresciuta fino al limite sostenibile del modello accentrato focalizzato sull’area torinese. La Fiat era la quinta impresa automobilistica mondiale. La seconda marca in Europa. La costruzione nel 1966 dello stabilimento di Rivalta conferma la localizzazione concentrata degli impianti presso il capoluogo piemontese. Le principali diversificazioni produttive sono tutte correlate all’attività automobilistica: veicoli industriali, trattori, macchine movimento terra, motori marini e per aereo, materiale ferroviario. La produzione di macchine per ufficio era cresciuta grazie allo sviluppo della Olivetti, che domina il settore in Italia. Il numero delle macchine per scrivere montate negli stabilimenti italiani cresce senza sosta fino al 1967, quando si superano gli 800.000 pezzi. Per le macchine calcolatrici gli incrementi sono ancora più cospicui, passando da meno di 50.000 unità prodotte nel 1950 a quasi un milione vent'anni più tardi. Adriano Olivetti prosegue nel dopoguerra le linee strategiche già impostate e rivolte a fare dell'impresa di Ivrea una grande multinazionale del settore, inserita sui mercati internazionali attraverso un'estesa rete distributiva, filiali e stabilimenti produttivi decentrati. Nel 1955 la Olivetti conta quasi 50.000 dipendenti, di cui la metà in Italia, ed è presente con attività produttive e distributive in 170 paesi del mondo. Continua quindi lo studio di soluzioni organizzative e tecnologiche d'avanguardia allo scopo di allargare la produzione di massa grazie all'eccellenza dei progetti costruttivi e all'innovatività delle strategie di prodotto e di mercato. Nel 1959 la Olivetti incorpora la Underwood Corporation, importante impresa americana del settore, e nel 1959 produce l'Elea 9003, che dà avvio a una società con la francese Bull per la produzione di main frames in sostanziale contemporaneità con l’ingresso in questo mercato della Ibm americana. Alla morte di Adriano Olivetti, nel 1960, il gruppo è quindi finanziariamente impegnato in un ambizioso programma di sviluppo internazionale che riguarda, oltre alle produzioni di macchine per ufficio, i grandi elaboratori elettronici, gli arredi metallici e le macchine utensili. La morte improvvisa del grande imprenditore, nel 1960, è all’origine del disfacimento di un progetto che aveva cercato di coniugare la formazione di un vasto complesso multinazionale alla concretizzazione di un ideale comunitario in cui l’impresa diveniva un’istituzione territoriale aperta e promotrice del rinnovamento politico, socioeconomico e urbanistico, e come centro di servizi culturali e sociali per la comunità. Il pensiero organizzativo di Adriano Olivetti è fondato sul principio della partecipazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni alle decisioni d’impresa nel quadro dinamico di un “negoziato permanente” capace di creare i presupposti per il consenso e la partecipazione collettiva alle scelte aziendali. Il Canavese, l’area circostante Ivrea, diventa un laboratorio per la realizzazione di queste istanze innovatrici, e altri progetti anche se necessariamente meno organici, sono elaborati in Campania e Basilicata. A fianco della motorizzazione di massa e della diffusione delle macchine per ufficio, la vigorosa espansione dell'industria degli elettrodomestici dimostra un'analoga capacità modernizzante per la vita delle famiglie italiane. Anche in questo settore l'industria nazionale riesce a recuperare il divario che la separava dai maggiori produttori mondiali, inserendosi in una posizione di rilievo sul mercato internazionale e in particolare all'interno della Comunità Economica Europea, l’antesignana dell’Unione Europea. La tecnologia semplice e accessibile, unitamente ai moderati investimenti iniziali, portano il settore a crescere attorno a un piccolo gruppo di imprese dinamiche a specializzazione non esclusiva. In particolare la produzione di "elettrodomestici bianchi" (frigoriferi, lavabiancheria e lavastoviglie) si impone per prima in conseguenza all'adozione di soluzioni costruttive originali, che permettono alle imprese dell'Italia settentrionale di reggere positivamente la concorrenza internazionale sul fronte dei costi. In Piemonte sono attive la Westinghouse, la Magnadyne, la Castor, l’Aspera-Frigo e la Indesit (Industria italiana elettrodomestici), la quale, fondata nel 1953 dalle famiglie Campioni e Candellaro con il nome di Spirea (divenuta Indes nel 1956) assume nel 1961 la denominazione definitiva: con 8 stabilimenti

20

Storia. Piemonte

nei dintorni di Torino, l'impresa si inserisce al terzo posto in Italia, producendo sia "elettrodomestici bianchi" sia "beni bruni" (televisori), esportati per il 70%. Alla fine degli anni Trenta e poi nell’immediato dopoguerra erano stati però i frigoriferi prodotti dalla Fiat a Mirafiori ad essere tra i primi elettrodomestici a entrare nelle case italiane: dal nord al sud, dalla città alla campagna. L’impegno della Fiat sarebbe stato poi rapidamente sostituito dalle imprese specializzate nel settore degli elettrodomestici bianchi affiancate dalle produzioni di radio e, dal 1957, di televisori e telefoni. La dotazione di oggetti comunemente diffusi negli appartamenti urbani dei ceti medi impiegatizi e operai cresce progressivamente. Poco invece cambia per gli acquisti di vestiario — che solo raramente erano effettuati presso i grandi magazzini — e per quelli alimentari — i supermercati avrebbero fatto la loro timida comparsa solo alla fine del decennio 1950. Le produzioni tradizionali - laniera nel biellese e cotoniera in altri distretti piemontesi come il Canavese - attraversano anni non sempre facili, tra cui significative sono le difficoltà del colosso del settore, il Cotonificio Valle Susa. La novità di questi anni è però la crescita della produzione di abiti confezionati: il Gruppo Finanziario Tessile, storica impresa fondata a Torino nel 1930, controllata dal dopoguerra dalla famiglia Rivetti, che incrementa le vendite dei marchi Facis e Cori di abiti confezionati anche attraverso la nuova rete di distribuzione dei negozi Marus, mentre la produzione in serie di giacche, abiti e cappotti avviene negli stabilimenti di Settimo torinese, Torino, Racconigi, San Damiano d’Asti e Borgonero. Anche nel campo dell’industria alimentare è notevole la crescita di nuove produzioni in serie di alimenti confezionati vi sono gli impianti Pavesi, Maggiora, Wamar, Saclà, Talmone, ma è soprattutto la P. Ferrero e C. di Alba a guidare il percorso di modernizzazione avviando la produzione di cioccolato a basso prezzo combinato con surrogati e assumendo presto una struttura multinazionale con stabilimenti produttivi in Francia e Germania. Nel campo della produzione vinicola speciale sono in sviluppo le tradizionali presenze di Cinzano, Martini e Rossi, Cora e Carpano. In questi anni quindi, mentre la crescita impetuosa della Fiat, porta Torino ad ampliare enormemente le proprie periferie assumendo i caratteri della company town, il sistema industriale regionale cresce confermando la propria vocazione multiforme e polisettoriale, in questa direzione, la crescita dell’industria chimica completa il panorama manifatturiero piemontese. Le presenze più significative sono, nel campo farmaceutico, la Farmitalia e la Schiapparelli; in quello delle fibre artificiali, la Snia; mentre nella lavorazione della gomma sono presenti filiali della Michelin e della Pirelli al fianco della Ceat e della più piccola Superga. A questa si devono aggiungere la Saint Gobain per la produzione di vetro, la Unicem e la Cementir per quella di cemento. Un posto a sé è poi occupato dalla Montecatini (dal 1966 Montedison) che a Novara può contare su un impianto per la produzione di ammoniaca e della sede di un prestigioso centro ricerche, l’Istituto Guido Donegani, dal nome del fondatore della famosa impresa chimica. Negli anni 1960, 4 milioni di abitanti lasciano il Mezzogiorno. Metà per espatriare, l’altra metà per trasferirsi nell’Italia del centro-nord. La grande maggioranza si trasferisce in Lombardia e Piemonte. Queste due regioni attraggono popolazione anche dall’Italia orientale, soprattutto dal Veneto. La migrazione interna è un fenomeno avviato negli anni 1920 e 1930. Fino ad allora l’urba-nizzazione avviene soprattutto attraverso la capacità dei grandi centri urbani di attrarre popolazione dalle campagne e dai centri minori circostanti. La crescita degli insediamenti industriali polarizzati su Milano, Torino e Genova mutano drasticamente i meccanismi migratori. Torino cresce più svelta, via via che si entrava nella congiuntura espansiva degli anni 1950-1960, richiamando popolazione da altre regioni del paese, questa volta specialmente dal Meridione: le reti di trasporto e di comunicazione, i nuovi circuiti mercantili e finanziari, il mercato del lavoro, non riguardano più il rapporto tra la città e la campagna circostante ma creano un nuovo reticolo nazionale.

21

Storia. Piemonte

7. La ristrutturazione del sistema industriale alla ricerca di un nuovo modello

Con la fine del miracolo economico l’economia italiana prosegue, negli ultimi trent’anni del secolo, l’inseguimento nei confronti delle nazioni più avanzate: questo risultato è però conseguito in uno scenario contrastato in cui la capacità di sviluppo si riduce e brevi fasi di crescita sono alternate a violente crisi. La fine dell’onda lunga della grande crescita assume così il valore di un punto di snodo nella storia industriale del paese. Durante i primi anni della repubblica lo sviluppo industriale era sembrato inarrestabile: quando però la crisi internazionale arriva in Italia, il miracolo economico è già sfociato in una fase di lotte sindacali di forte intensità, sia per il livello di partecipazione operaia, sia per la nuova articolazione delle istanze avanzate negli scioperi, numerosi e ripetuti negli anni: l’autunno caldo del 1969. Così, come già era stato nel biennio rosso dopo la Grande guerra, le rivendicazioni operaie si estendono oltre le questioni salariali fino ai temi delle condizioni ambientali di lavoro e della gestione del potere all’interno degli stabilimenti. L’inflazione raggiunge negli anni Settanta livelli altissimi: nel periodo successivo l’indebitamento statale, la crisi monetaria e il dissesto dei conti pubblici aumentano nel paese le ripercussioni della crescita del costo del petrolio e delle generalizzate difficoltà economiche internazionali. L’architrave dello sviluppo industriale della prima metà del novecento fondato sull’intervento dello stato e sul ruolo preminente esercitato dalla grande impresa fordista, entra in crisi irreversibile. L’economia piemontese, cresciuta parallelamente all’affermazione di grandi complessi orientati alle produzioni in serie appare particolarmente vulnerabile di fronte alla crisi mentre emergono altri contesti regionali che, soprattutto nell’Italia del nord-est e del centro vedono svilupparsi sistemi di piccole imprese capaci di sviluppare nuove produzioni di beni di consumo rivolte all’esportazione. D’altro lato, a sottolineare la connotazione di momento di svolta che caratterizza gli anni settanta e ottanta stanno importanti elementi di novità. Parallelamente alla comparsa delle nuove tecnologie legate in primo luogo alla diffusione della digitalizzazione delle informazioni e a quella dei calcolatori elettronici si prefigurano modelli organizzativi dell’impresa alternativi al sistema taylor-fordista. Nella penisola i primi a entrare in crisi sono i grandi complessi appartenenti allo stato imprenditore, subito affiancati da quelle imprese private cresciute grazie agli incentivi governativi. Clamoroso è il tonfo dell’intero comparto chimico, straordinarie sono le difficoltà per il settore dell’acciaio. I cambiamenti nella domanda internazionale fermano la capacità espansiva delle grandi imprese del nord-ovest. La crisi del capitalismo familiare si associa così a quella del capitalismo politico: interrompendo i flussi di commesse, inoltre, le grandi imprese in affanno trasmettono la propria crisi ai sistemi locali di piccole e medie imprese cresciuti in connessione con lo sviluppo delle grandi. Proprio in quegli stessi anni fanno però la loro comparsa nuove aziende di medie e piccole dimensioni, dinamiche nell’accogliere le novità tecnologiche e pronte a investire in attività di marketing specializzandosi in segmenti di mercato caratterizzati da limitate economie di scala. Anche in Piemonte, di fronte alle difficoltà dei grandi organismi si affacciano soggetti imprenditoriali di tipo nuovo che nel corso dei decenni successivi avranno la capacità di affermarsi definitivamente. In alcuni contesti medie aziende sorte per la subfornitura alla grande impresa fordista - per esempio l’indotto Fiat, la galassia che in Piemonte ruota intorno alla produzione automobilistica - propongono nuove produzioni. Alcuni esempi di successo riguardano il design, che si avvia a diventare uno dei punti di forza del sistema manifatturiero italiano: la Pininfarina, nata come produttore di carrozzerie di lusso in pochi esemplari, arriva a produrre 45.000 auto nel 1999. Altre migliaia, anche per marche estere, sono prodotte dal Gruppo Bertone, da Garavini e da Ghia. Con queste grandi firme collabora la Italdesign di Carletto Giugiaro, che fornisce modelli anche alla Fiat. L’attività di queste imprese si irradia sull’intero sistema mondiale dell’industria dell’automobile. Il progredire del disegno delle automobili prodotte in ogni continente è spesso il frutto del lavoro di

22

Storia. Piemonte

ricerca e degli studi compiuti nei laboratori delle tre imprese piemontesi. La torinese Saiag-Società Anonima Industria Articoli di Gomma, fondata a Curogné nel 1935 e cresciuta soprattutto con la produzione di componenti in gomma per automobili, agli inizi degli anni 1970 diversifica la produzione e avvia l’espansione internazionale controllando un grappolo di imprese incentrate in particolari produzioni nel campo della gomma e delle pellicole per la conservazione degli alimenti. Ad Asti si sviluppa la Wayassauto (oggi parte del gruppo Arvin-Meritor) nata ai primi del Novecento e specializzatasi nella fabbricazione di ammortizzatori e sistemi di sospensione in genere. La vocazione meccanica dell’industria piemontese è confermata dalle produzioni di cuscinetti a sfere della Riv-Skf e nel campo della produzione aeronautica dalla Alenia sorta nel 1990 quale fusione della Aeritalia, che nel 1969 aveva assorbito le attività della Divisione Aviazione Fiat, e della Selenia. E’ però naturalmente ancora l’industria automobilistica a dominare il settore. A metà degli anni Sessanta la Fiat aveva avviato la produzione nel nuovo stabilimento di Rivalta, vicino a Torino, e sostituito la vecchia “600” con il nuovo modello di utilitaria: la “850”. Vittorio Valletta, dopo aver concluso l’accordo con le autorità sovietiche per la costruzione del grande impianto per la produzione di automobili a Togliattigrad, aveva ceduto il passo a Gianni Agnelli, nipote del fondatore dell’impresa. La Fiat lasciata da Valletta è molto più importante nel capitalismo italiano di quanto non fosse stata sotto la guida di Giovanni Agnelli nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale e occupa incontrastata il vertice del capitalismo industriale nazionale. Attraverso l’Ifi la famiglia Agnelli governa un impero incentrato sull’impresa automobilistica ma oramai impegnato in molti altri settori. Con la ristrutturazione della Olivetti e della Montedison la Fiat entra nel capitale delle due importanti società; partecipazioni di rilevo sono poi detenute nella Unicem, nella Riv-Skf (cuscinetti a sfere), nella Magneti Marelli, nella gestione delle autostrade e, alla fine degli anni 1960, acquisisce dalle famiglie Borletti e Brustio il controllo del gruppo La Rinascente. Nel 1969 Carlo Pesenti che nel 1955 aveva comprato la Lancia, dopo la fallimentare gestione operata dalla discendenza del fondatore, deve arrendersi alla difficoltà cedendo l’impresa alla Fiat. L’immigrazione porta a Torino negli anni Sessanta una massa di operai di prima urbanizzazione privi di un legame con le organizzazioni della tradizione operaia e segnati dalle cattive condizioni di vita, in fabbrica e in città. Le organizzazione della sinistra extraparlamentare dimostrano di avere una base di massa a Mirafiori, la fabbrica simbolo del movimento operaio italiano. Le pratiche di agitazione sono innovative e di grande impatto. Il successo dell’”autunno caldo” è però il frutto della convergenza degli interessi tra i lavoratori recentemente immigrati e le famiglie operaie settentrionali composte dai figli e dai nipoti dei protagonisti delle lotte del “biennio rosso” e di quelle, antifasciste, degli anni 1940. Nel 1970, l’approvazione dello statuto dei lavoratori - nell’ambito di una serie organica di norme rivolte a garantire i diritti fondamentali ai lavoratori - assegna ai sindacati più rappresentativi un ruolo istituzionale che li favorisce nei confronti delle organizzazioni più radicali. Parallelamente anche la Confindustria è indotta a rivedere la propria funzione nel nuovo quadro delle relazioni industriali. L’impresa torinese avvia un processo di applicazione diffusa delle tecnologie dell’automazione nell’ambito di un progressivo decentramento produttivo lontano dall’area torinese mentre Gianni e Umberto Agnelli, nelle rispettive cariche di presidente e amministratore delegato, procedono alla riorganizzazione dell’impresa in direzione di una multidivisionalizzazione capace di restituire i necessari margini di autonomia ai manager. La congiuntura degli anni 1970 porta però a un netto rallentamento della crescita del mercato dell’automobile. I conti dell’impresa peggiorano, trasformando gli ingenti profitti conquistati dalla fabbrica accentrata dell’era di Vittorio Valletta in perdite sempre più pesanti. La Fiat, che avvia nel 1971 la produzione della “127”, punta al superamento della struttura incentrata sul ruolo cardine dello stabilimento di Mirafiori. La grande impresa automobilistica si avvia alla creazione di una configurazione policentrica. Numerose funzioni produttive sono esternalizzate presso piccole e medie imprese diversamente collegate con l’azienda madre, mentre, grazie agli incentivi stanziati

23

Storia. Piemonte

dal governo per lo sviluppo del Mezzogiorno, sono creati diversi stabilimenti decentrati nel meridione. Con gli anni Ottanta si apre una nuova fase in cui l’impresa torinese deve sottoporre le proprie strategie e la propria struttura a una radicale revisione. L’Ifi, holding della famiglia Agnelli, accresce le partecipazioni in imprese esterne all’industria meccanica, utilizzando allo scopo soprattutto l’Ifil, una consociata presieduta da Umberto Agnelli, fratello minore di Gianni. Più volte, sull’onda delle difficoltà dell’industria automobilistica succedutesi in seguito alle crisi petrolifere degli anni 1970, è ipotizzata la presa di distanza della famiglia dal settore. La fedeltà all’attività caratteristica, sostenuta con fermezza da Gianni Agnelli, è però riconfermata. Le vendite della “Uno”, prodotta a partire dal 1983, contribuiscono a raddrizzare i conti dell’impresa, ribadendo il vantaggio del-l’azienda sui mercati europei nel campo delle vetture di piccola cilindrata. Con una netta sconfitta sindacale, nell’autunno del 1980 è celebrata la fine della lunghissima stagione di lotte aperta con le battaglie dell’autunno caldo nel lontano 1969. Nell’autunno del 1980 il sindacato a Torino è umiliato. Una manifestazione organizzata dai quadri aziendali della Fiat, ma che si guadagna il consenso di quella parte degli ambienti sociali torinesi che non è direttamente coinvolta dalla crisi dell’auto, mostra l’insofferenza per le istanze sostenute dalle organizzazioni sindacali. La Fiat sotto la direzione di Cesare Romiti decide tagli massicci all’entità delle proprie maestranze e cerca un riassetto geografico che prescinde definitivamente dal ruolo centrale di Torino. Una quota sempre maggiore della produzione è collocata altrove. Dopo una serie di anni estremamente positivi in cui l’impresa torinese partecipa della ritrovata dinamicità dell’industria italiana con l’in-gresso nell’ultimo decennio del secolo l’economia si arresta nuovamente. Il peso della produzione automobilistica si riduce rispetto al totale delle attività dell’impresa, arrivate a fine secolo a coprire solo il 42% del fatturato del gruppo nell’ambito di una complessiva ridefinizione della struttura internazionale dell’impresa. Già dagli anni Settanta la Fiat aveva ristrutturato la propria presenza nei settori correlati delle macchine movimento terra con la costituzione della Fiat Allis, e dei veicoli industriali con la creazione del gruppo Iveco. Nel corso degli anni successivi la strategia di diversificazione si riflette nella struttura dell’impresa attraverso lo scorporo dell’attività automobilistica affidata, alla nuova società Fiat auto, e destinando a società operative autonome le produzioni di trattori agricoli, macchine movimento terra, veicoli industriali, prodotti siderurgici, componenti, macchine utensili, energia, vagoni e locomotori. La Fiat capogruppo assume così assunto i caratteri e i compiti di una holding industriale. All’inizio degli anni 1990 attraverso un accordo con la Ford, la Fiat diviene, con quasi il 20% dei mercati, il secondo produttore mondiale di trattori, macchine agricole e macchine movimento terra. Nello stesso periodo è raggiunto un accordo internazionale con l’Ini, l’ente dello stato imprenditore spagnolo, per l’acquisizione dell’Enasa, principale impresa specializzata nei veicoli industriali. Il decennio si chiude con l’acquisizione del gruppo Pico, maggior produttore americano di impianti per la produzione di carrozzerie, le cui attività sono fuse con quelle della Comau, azienda del gruppo specializzata nei sistemi di produzione delle auto. Proseguendo nella direzione di una complessiva strategia rivolta a collocare l’azienda torinese in una posizione di solidità di fronte alla concorrenza internazionale, avviene l’ingresso nel capitale della società Fiat auto del gruppo General Motors, il maggior produttore mondiale di automobili. Dopo un secolo dalla fondazione, la famiglia Agnelli, che attraverso l’Ifi e l’Ifil, controllava circa un terzo del capitale, raggiunge un accordo con la grande impresa americana fondato su uno scambio di azioni tra le due società che si sarebbe risolto in seguito all’ingresso della Fiat in una profonda crisi di cui solo molto recentemente si inizia a intravedere una possibile conclusione positiva. Con gli anni Sessanta si era conclusa un’esperienza imprenditoriale tra le più innovative e lungimiranti nell’Italia del dopoguerra. Adriano Olivetti era morto nel novembre del 1960 lasciando sostanzialmente incompleto il proprio progetto di impresa progressiva. Era stata acquisita, nel 1959, l’americana Underwood, ma Olivetti non aveva avuto il tempo di delineare il piano di ristrutturazione del colosso americano e la sua integrazione nelle politiche di crescita dell’impresa

24

Storia. Piemonte

di Ivrea. L’imprenditore aveva prefigurato lo sviluppo incentrato sulle produzioni elettroniche e la divisione dell’impresa affidata a Roberto Olivetti aveva ottenuto brillanti risultati con la produzione e la commercializzazione dell’Elea 9003, uno dei primi main frames al mondo. La divisione elettronica era cresciuta raggiungendo i 3000 dipendenti e conseguendo risultati di frontiera con il Programma 101, il precursore del personal computer. I piani ambiziosi di espansione in un settore che necessitava di grandissimi investimenti in ricerca e sviluppo, assieme alla necessità di riassorbire il contraccolpo finanziario dovuto alla recente acquisizione della Underwood avevano indebolito però l’impresa. Nel 1964 la situazione degenera e rende inevitabile un’operazione di salvataggio coordinata da Mediobanca che porta nella società, oltre a Mediobanca, l’Imi, la Fiat, la Pirelli e la Centrale. Il primo atto di Bruno Visentini, chiamato alla presidenza del gruppo, è la cessione della divisione elettronica della Olivetti alla General Electric. La vicenda dell’Olivetti disegna nitidamente i limiti del capitalismo familiare italiano. Dopo la vigorosa crescita negli anni del miracolo economico, questa formula si mostra incapace di affrontare le ristrutturazioni organizzative e produttive imposte dallo sviluppo tecnologico e dalla crescente integrazione internazionale dell’economia italiana. All’inizio degli anni Ottanta, con la guida di Carlo De Benedetti la trasformazione della Olivetti è drastica. Il gruppo di Ivrea entra nel mercato dei personal computer e, negli anni Novanta, scontate le difficoltà per l’affermazione di un’impresa europea nella fabbricazione in grandi serie di personal computer di fornite alla concorrenza asiatica, rivoluziona la propria attività concentrandosi nella telefonia in coincidenza con la diffusione dei primi telefoni portatili. Il numero di utenti della telefonia mobile cresce da poco più di 500.000 nel 1991 fino a superare i 30 milioni all’inizio del nuovo secolo. La Omnitel costituita dal gruppo Olivetti sin dal 1990, divenuta operativa nel 1995, è il secondo concorrente con 10 milioni di clienti, mentre la consociata Infostrada, nata entro lo stesso gruppo, si afferma nel campo della telefonia fissa. Nel 1999 la Olivetti, ch’era stata ceduta nel 1996 a Roberto Colaninno, acquisisce il controllo della Telecom, mentre in seguito a diversi passaggi di proprietà la Omnitel sarà fusa nella multinazionale inglese Vodafone e Infostrada entrerà nel gruppo Enel. Parallelamente alla riorganizzazione delle grandi imprese tradizionali e all’affermazione del terziario avanzato, anche in Piemonte si sviluppano le specializzazioni produttive caratterizzate da basso tasso di investimenti e alto livello di esportazioni: il made in Italy, stoffe di lana, vestiti, gioielli, posate e macchine per il caffè, cioccolato, spumante e vermouth. A partire dagli anni 1970 la crisi del modello fordista propone una maggior complessità nella domanda di beni di consumo, che nelle società occidentali erano richiesti in una gamma sempre più ampia e con caratteristiche personalizzabili per il singolo prodotto. Nella maggioranza dei casi la ricerca di economie esterne all’azienda porta le piccole e le medie imprese ad agglomerarsi all’interno di aree territoriali omogenee fino a formare distretti industriali al cui interno i piccoli imprenditori trovano la convenienza a produrre grazie alla suddivisione delle varie fasi di lavoro tra unità indipendenti. Nel Biellese vi è il più importante e il più antico distretto industriale piemontese noto a livello mondiale per le produzioni di stoffe di lana e di maglieria. Alla fine degli anni 1990 il distretto comprende 1700 imprese con 28.000 addetti. Tra le imprese più significative vi sono Zegna, Cerreti, Liabel, ma sono centinaia le aziende, anche piccolissime, che grazie alle nuove tecnologie riescono a differenziare la produzione di stoffe di alta qualità secondo le esigenze via via manifestate dai mercati internazionali. Al fianco delle produzioni tessili si è sviluppata una significativa produzione meccanotessile. Lungo il versante sud occidentale del lago d’Orta è situato invece il secondo sistema locale italiano specializzato nella rubinetteria la cui maggiore impresa è la Zucchetti. A Valenza Po è invece ospitato l’aggregato di piccole imprese specializzate nella produzione di gioielli rappresentando una delle maggiori realtà a livello mondiali con 7.500 addetti e 170 imprese tra le quali emerge la Damiani. A Settimo Torinese si concentrano invece 200 aziende con 4.000 addetti produttrici di penne e pennarelli. Ad Omegna infine attorno alla Bialetti, alla Alessi, alla Lagostina si sviluppa un distretto dedito alla produzione di utensili da cucina.

25

Storia. Piemonte

La Ferrero da piccola impresa nel dopoguerra, era cresciuta molto già negli anni 1960 producendo surrogati del cioccolato e merendine. La Nutella e la “tortina Fiesta” le fanno guadagnare la quarantesima posizione tra le principali società italiane agli inizi degli anni 1970 quando ha più di 6000 dipendenti. Con gli anni, alle linee tradizionali si aggiunge una gamma di prodotti alimentari contraddistinti dal basso prezzo: uova con sorprese, cioccolatini costituiti da miscele di cioccolata e nocciole. Il Gruppo finanziario tessile, controllato dalla famiglia Rivetti, negli anni Settanta intraprende con decisione la collaborazione con gli stilisti in coincidenza con la diffusione del pret-a-porter e con il ruolo guida svolto dall’Italia nell’evoluzione della moda italiana: Valentino, Ungaro, Armani, Dior. Negli anni Novanta però anche questa impresa deve scontare la crisi economica generale e, allo stesso tempo, scelte manageriali errate che la portano alla disgregazione delle attività produttive alla fine del decennio in coincidenza con il venir meno del rapporto con alcune delle firme più prestigiose. Anche nell’ultimo quarto del novecento e negli anni più recenti il tessuto produttivo piemontese ha trovato la via dell’integrazione con l’economia internazionale, sia pure nel quadro di difficoltà crescenti e dovendo scontare il venir meno di alcune delle posizioni di forza più consolidate. Mancate le occasioni di sviluppo per le industrie impegnate nelle tecnologie più avanzate, l’economia regionale ha trovato la propria collocazione nel paradigma segnato dalla mondializzazione dei mercati e delle produzioni dando vita a un sistema eclettico dove, in seguito anche all’annientamento di alcune dinastie imprenditoriali e all’arretramento di altre, le antiche élites economiche hanno visto profondamente mutato il proprio ruolo. Le più antiche e dimensionalmente rilevanti realtà produttive hanno lasciato il passo all’ascesa degli investimenti nel capitalismo “immateriale” delle telecomunicazioni. Le piccole imprese, riunite nei distretti, alimentano la reinternazionalizzazione dell’economia regionale contribuendo al fenomeno del made in Italy. I comparti del design e della componentistica legati all’industria automobilistica, e i settori della moda, dei prodotti per la casa e per l’alimentazione, si affermano sui mercati mondiali grazie alla riqualificazione dei comparti produttivi tradizionali garantendo lo sviluppo a un gruppo non esiguo di medie imprese, di antica e di recente formazione, capaci di occupare solide posizioni in definiti segmenti di mercato. In questo quadro la scomparsa ravvicinata nel 2003 e nel 2004 di Gianni e Umberto Agnelli unitamente al fallimento degli accordi tra Fiat e General Motors assumono il valore di momento simbolico da un lato della raggiunta maturità di un paradigma di sviluppo, dall’altro dell’apertura di una nuova stagione i cui confini e le cui potenzialità possono già essere delineate nelle più recenti mutazioni del sistema economico regionale.