STIVALACCIO TEATRO DON CHISCIOTTE CITTA’ DI BASSANO · sanese ospita anche cinque giovani...

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Città di Bassano del Grappa Assessorato alla promozione del Territorio e della Cultura martedì 26 gennaio 2016 NATALINO BALASSO LA CATIVISSIMA epopea di Toni Sartana mercoledì 13 gennaio 2016 GIULIA BEVILACQUA/CATERINA GUZZANTI GIULIA MICHELINI/PAOLA MINACCIONI DUE PARTITE lunedì 7 dicembre 2015 MICHELA CESCON IL TESTAMENTO DI MARIA mercoledì 16 dicembre 2015 STIVALACCIO TEATRO DON CHISCIOTTE tragicommedia dell’arte mercoledì 10 febbraio 2016 ANNA GALIENA/ENZO DE CARO DIAMOCI DEL TU martedì 23 febbraio 2016 TEATRO STABILE DEL VENETO ARLECCHINO il servitore di due padroni mercoledì 9 marzo 2016 GIULIA LAZZARINI MURI prima e dopo Basaglia mercoledì 23 marzo 2016 MILENA VUKOTIC REGINA MADRE lunedì 18 aprile 2016 OTTAVIA PICCOLO ENIGMA niente significa mai una cosa sola martedì 26 aprile 2016 GIUSEPPE BATTISTON NON C’È ACQUA PIÙ FRESCA CALENDARIO STAGIONE TEATRALE CITTA’ DI BASSANO 2015/2016

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Città di Bassanodel Grappa

Assessorato alla promozionedel Territorio e della Cultura

martedì 26 gennaio 2016NATALINO BALASSO

LA CATIVISSIMA epopea di Toni Sartana

mercoledì 13 gennaio 2016GIULIA BEVILACQUA/CATERINA GUZZANTIGIULIA MICHELINI/PAOLA MINACCIONIDUE PARTITE

lunedì 7 dicembre 2015MICHELA CESCONIL TESTAMENTO DI MARIAmercoledì 16 dicembre 2015STIVALACCIO TEATRODON CHISCIOTTE tragicommedia dell’arte

mercoledì 10 febbraio 2016ANNA GALIENA/ENZO DE CARODIAMOCI DEL TUmartedì 23 febbraio 2016TEATRO STABILE DEL VENETOARLECCHINO il servitore di due padroni

mercoledì 9 marzo 2016GIULIA LAZZARINIMURI prima e dopo Basaglia

mercoledì 23 marzo 2016MILENA VUKOTIC REGINA MADRE

lunedì 18 aprile 2016OTTAVIA PICCOLOENIGMA niente significa mai una cosa sola

martedì 26 aprile 2016GIUSEPPE BATTISTONNON C’È ACQUA PIÙ FRESCACA

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Torna la STAGIONE TEATRALE CITTÀ DI BASSANO promossa dall’Assessorato alla promozione del Territorio e della Cultura al Teatro Remondini che per la prima volta si avvale della prestigiosa collaborazione del Teatro Sta-bile del Veneto, riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali come uno dei 7 Teatri Nazionali Italiani. Un’ulteriore marchio di qualità per un’edizione che prosegue la lungua tradizione teatrale bassanese, proponendo 10 titoli di grande interesse, 2 appuntamenti al mese tra dicembre e aprile che, alternando tematiche e generi tea-trali, compongono un cartellone vario e pieno di spunti.

Attualità, religione, famiglia, satira sociale, conflitti generazionali, i mutamenti della storia recente... E poi racconti d’amore e di coraggio, ma anche la grande tradizione tra 500 e 700, alle radici fondanti del teatro d’autore, transi-tando per il teatro poetico di Pierpaolo Pasolini, fino ad intercettare le voci di autori contemporanei tra i più interes-santi, soprattutto Italiani: Renato Sarti, Manlio Santanelli, Stefano Massini, Cristina Comencini e Natalino Balasso, ma anche internazionali: Colm Toibin e Norm Foster. A dare vita a queste scritture, classiche o innovative, capaci di commuovere, di sorprendere e di emozionare saranno alcuni protagonisti del teatro italiano.

In programma un poker al femminile che mette insieme Anna Galiena, Giulia Lazzarini, Milena Vukotic e Ottavia Piccolo. Anna Galiena assieme ad Enzo De Caro in DIAMOCI DEL TU (10/02) racconta come a volte superare gli scalini sociali che ci dividono riservi delle bellissime sorprese, umane e sentimentali. Giulia Lazzarini in MURI (9/03) dà prova di un talento sconfinato, unendo piccola e grande storia sulle tracce della straordinaria rivoluzione medica e culturale apportata da Franco Basaglia intorno al tema della malattia mentale. Milena Vukotic, affiancata da Antonello Avallone, veste invece i panni di una REGINA MADRE (23/03) dal temperamento implacabile in un effervescente confronto generazionale pieno di segreti inconfessati e risvolti inaspettati. Infine Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi invitano gli spettatori a risolvere con loro un ENIGMA (18/04) sulla storia recente, legato alla cadu-ta del muro di Berlino, in un ordigno ad orologeria costruito con sapienza da Stafano Massini per dimostrare che niente significa mai una cosa sola.

Ad affiancare queste inarrivabili artiste in un ideale passaggio del testimone tutto al femminile, la stagione bas-sanese ospita anche cinque giovani protagoniste del grande e piccolo schermo come Michela Cescon, Giulia Be-vilacqua, Caterina Guzzanti, Giulia Michelini, Paola Minaccioni. Sola in scena a inaugurare il cartellone 2015/2016 Michela Cescon sarà protagonista di IL TESTAMENTO DI MARIA (7/12) un testo toccante, delicato e doloroso al tempo stesso, firmato dallo scrittore irlandese Colm Toibin che, con sguardo laico, racconta la figura della madonna in tutta la sua carnalità terrena di madre. Bevilacqua, Guzzanti, Michelini e Minaccioni è invece il nuovo quartetto che riporta in teatro a 10 anni di distanza DUE PARTITE (13/01) una storia tutta al femminile ironica e commovente che ha conquistato il pubblico sulla scena come sul grande schermo candidandosi a diventare un vero e proprio classico del teatro anni 2.000.

Come contraltare a questo agguerrito manipolo di donne protagoniste, il programma presenta due beniamini del pubblico come Natalino Balasso e Giuseppe Battiston che tornano a calcare il palcoscenico del Teatro Remondini dove sono stati sempre accolti con grande entusiasmo. Balasso, affiancato da cinque attori autori di grande talento come Francesca Botti, Marta Dalla Via, Andrea Pennacchi, Silvia Piovan e Stefano Scandaletti, si mette alla prova con una drammatugia originale intitolata LA CATIVISSIMA (26/01): un divertente spaccato delle contradizioni di una terra, il Nord-Est, che diventa specchio di un’umanità universalmente alla deriva. Battiston invece chiude la stagione confrontandosi con l’inarrivabile linguaggio poetico di Pierpaolo Pasolini in NON C’E’ ACQUA PIU’ FRESCA (26/04).

A completare il programma un gruppo di giovani talenti alle prese con Cervantes e Goldoni in allestimenti originali e pieni di inventiva firmati da Stivalaccio Teatro e Giorgio Sangati. DON CHISCIOTTE (16/12) di Stivalaccio Teatro è un lavoro che, attingendo alla tradizione della Commedia dell’Arte, si è guadagnato sul campo il riconoscimento del pubblico. Stasso dicasi dell’ARLECCHINO (23/02) prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, che ha consegnato alla storia del teatro un nuovo grande classico, superando l’impossibile confronto con il mito di Strelher.

Il teatro a Bassano è tutto questo: è un viaggio interiore che ti interroga sulla vita che scorre attorno a te; è una fantasia che ti rapisce e, per una sera, ti porta in un’altra dimensione!

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MICHELA CESCON

traduzione ed adattamentoMarco Tullio Giordana e Marco Perisseregia Marco Tullio Giordanaproduzione Teatro Stabile del VenetoTeatro Stabile di Torinocon Zachar Produzioni

Coppia consolidata, al cinema come a teatro, il regista Marco Tullio Giordana e l’attrice Michela Cescon tornano a collaborare grazie al testo di Colm Tóibín, uno dei maggiori autori irlandesi, che riscrive il rappor-to fra Maria e Gesù, nei giorni della predicazione alle folle e poi in quelli drammatici della crocifissione. È una madre che racconta, cercando di accettare il destino atroce che ha colpito il giovane amatissimo figlio e lei stessa. La personalità, il talento e la determinazione di Gesù nel portare avanti la sua fede risultano dolorosamente incomprensibili alla donna, perché troppo piena di paura e di amore. La celebre protagoni-sta della fiction “Braccialetti Rossi” e di tanti film d’autore darà voce a questa madre, condividendo con gli spettatori un’esperienza che ha a che fare con le nostre radici più profonde.

“Il testamento di Maria” è il racconto, intenso e senza retorica, di Maria e del figlio Gesù, vissuto come la peregrinazione di una madre nel dolore per il figlio perduto, condannato e ucciso. Una madre rabbiosa, vio-lenta, cupa: non il ritratto della mitezza femminile dell’iconografia cristiana, ma dell’orgoglio, della solitudi-ne, della resistenza. Il testamento di Maria di Colm Tóibín (Bompiani) è un libro che prende il cuore, perché riscrivendo il rapporto di Maria con Gesù nei giorni drammatici della crocefissione, ci trascina in quel sen-timento eterno che le donne conoscono che è l’amore materno, e perché, attingendo alla storia cristiana, senza essere nè blasfemo né confessionale, diventa una pessimistica meditazione sulla natura umana. “Sì, l’aspetto umano è ciò colpisce di questo libro così lontano dall’agiografia cattolica. Qui c’è una madre che non accetta il sogno di salvezza del mondo del figlio, consapevole dei rischi che lui corre, odia gli apo-stoli che secondo lei l’hanno rovinato. Una donna che avrebbe voluto invecchiare col figlio e ora, sola, lo piange”, dice Michela Cescon l’attrice che porta in scena il testo dello scrittore irlandese diretta da Marco Tullio Giordana. Insieme Cescon, “mamma” anche nella fiction tv Braccialetti rossi, e Giordana avevano già realizzato nel 2012, lei produttrice, lui regista, l’avventura di “The coast of utopia” di Stoppard, otto ore di spettacolo, oltre 30 attori... “Ma se quella era una grande sinfonia qui c’è lo strumento solista - dice Giordana - per un testo che non chiede l’esibizione di bravura, ma un attore che rivela cose profonde”. “Io posso solo dire che a metà libro ho pianto - confessa la Cescon - per come ha toccato corde personali nella sofferenza di questa madre rispetto al destino del figlio, quel volerlo preservare dal destino, anche se è potente come quello di Gesù. Il fatto che ci sia lo sfondo religioso dà un contesto popolare, condiviso. Ma credo che Tóibín abbia voluto sottolineare l’aspetto umano, non cristiano. Maria dice sempre “mio figlio”, non “figlio di Dio”... e dopo che hai letto il libro, non vedi più Gesù come prima”. ”Non voglio fare il femministo - incalza Marco Tullio Giordana - ma le donne in genere sono più interessanti degli uomini e questa Maria è una figura potente. Al centro c’è la maternità, che è un’esperienza ambivalente, gioiosa e dolorosa, una forma di alienazione, perché tu custodisci dentro di te una cosa che poi devi strappare da te per farla vivere. L’uomo non conosce una simile cosa, ha l’illusione che tutto quello che nasce da lui sia suo. E’ il possesso. La donna è la società. Ed è più interessante”.

IL TESTA-MENTODI MARIAdi Colm Tóibín

lunedì 7 dicembre 2015

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STIVALACCIO TEATRO

soggetto originale di Marco Zoppelloelaborazione dello scenario e dialoghiCarlo Boso e Marco Zoppellointerpretazione e regiaMarco Zoppello e Michele Morimaschere Roberto Maria Macchi

Un successo decretato a furor di popolo quello di questo spettacolo che ha portato all’attenzione del grande pubblico una giovane compagnia capace di mischiare generi che pescano dalla tradizione, dal tea-tro d’attore alla commedia dell’arte, rileggendoli con originalità grazie al carisma straordinario degli attori: Michele Mori e Marco Zoppello. La storia di Don Chisciotte e Sancho Panza viene così raccontata da due improbabili saltimbanchi in un tosco-veneto condito di emilianismi e partenopeismi, citando mostri sacri come Cecco Angiolieri, Pulci, Dante, Manzoni, Ruzante, De la Barca, Fo e tanti altri. Duelli, salti, capriole, lazzi ma anche uno sguardo critico sull’inquisizione sono gli ingredienti di uno spettacolo capace di coin-volgere gli spettatori e di divertirli in modo intelligente.

...) Questo spettacolo non è altro che una rivisitazione in chiave di Commedia dell’Arte del Don Chisciotte di Miguel De Cervantes. La produzione è di Stivalaccio Teatro e si affida a due giovani interpreti, anche registi dello spettacolo, come Michele Mori e Marco Zoppello (quest’ultimo anche autore del testo), guidati dalla consulenza artistica di uno dei più grandi maestri di Commedia dell’Arte, Carlo Boso, proveniente dal Piccolo Teatro di Milano, direttore dell’Accademie international des arts du spectacle di Versailles e storico fondatore del TagTeatro di Vene-zia. Le Maschere sono di Roberto Macchi, i costumi di Antonia Munaretti e le scenografie di Mirco Zoppello. (...)

(Stefano Cucco - L’Arena)

(...) Marco Zoppello e Michele Mori interpretano il testo di Cervantes in un contesto metateatrale, raccon-tando, nelle vesti di due attori della commedia dell’arte, nella Venezia del 1542, la messa in scena valsa a salvar loro la vita dalla sentenza di morte dell’inquisizione. La vox populi vox dei, ovvero il plauso del pub-blico, raccontano i due, decretò la loro assoluzione e al pubblico odierno, confuso con quello passato in un passaggio temporale continuo, è dovuta la replica dello spettacolo che tanto ha potuto. Giulio Pasquati, in arte Pantalone, padovano, e Girolamo Salimberi, in arte Piombino, fiorentino, sono due saltimbanchi e mettono in scena il Don Chisciotte in una versione inventata, improvvisata e forgiata sulla gestualità della commedia dell’arte, in un duetto tra vernacolo veneto e toscano, con la comparsa di maschere e una vis comica da teatro popolare di altissimo livello. Il ritmo è giocato sul continuo passaggio dal racconto dei due alla loro interpretazione di Don Chisciotte e Sancho Panza, dai loro dialoghi con l’inquisitore all’intera-zione con il pubblico di ieri e di oggi, vero dispensatore della grazia. L’effetto è pirotecnico e vorticoso, in una sovrapposizione temporale che travolge anche il testo, contaminato da citazioni letterarie e teatrali di ogni epoca. Don Chisciotte recita Cyrano, combattendo contro i mulini a vento che diventano i riconosciuti “vecchi nemici di ieri”, confessa infine la sua disillusione, nel finale, con le parole di Calderon de la Barca sulla vita che è sogno. E poi Dante, Manzoni e fonti diverse e preziose fuse in un tutto orchestrato da una tecnica e da un’intesa perfette, che attingono ad un linguaggio alto declinato con una gestualità da teatro popolare esilarante e di enorme impatto. (...)

(Nicoletta Cavanna - radiogold.it).(

DONCHISCIOTTEtragicommedia dell’arteliberamente ispirato all’opera di Miguel de Cervantes di cui ricor-rono nel 2016 i 400 anni dalla morte

mercoledì 16 dicembre 2015

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GIULIA BEVILACQUACATERINA GUZZANTIGIULIA MICHELINIPAOLA MINACCIONI

regia Paola Rotaproduzione Artisti Riuniti

Dopo avere conquistato il pubblico, sia teatrale che cinematografico, questo emozionante testo di Cristina Co-mencini torna in palcoscenico a 10 anni di distanza con un nuovo grande cast al femminile, che mette insieme alcune tra le protagoniste di numerosi film e fiction di successo. L’Italia degli anni ‘60 e quella di oggi, 4 attrici che diventano 8 donne, nell’eterno scontro generazionale tra madri e figlie. Questi gli ingredienti di una commedia costruita come un meccanismo perfetto, che alterna momenti di comicità ad attimi di autentica commozione. Le protagoniste della storia sono donne che si proiettano madri, madri che immaginano come saranno le loro figlie, figlie che hanno messo in discussione le proprie madri per farsi donne autonome... ma tutte meravigliosamente solidali tra loro.

Nel primo atto quattro donne, molto amiche tra loro, giocano a carte e parlano in un salotto. Si ritrovano lì ogni settimana. Nella stanza accanto le loro figlie giocano alle signore, si ritrovano anche loro ogni volta che si incontrano le loro madri. Nel secondo atto le quattro bambine sono diventate ormai delle donne che si vedono nella stessa casa e continuano quel dialogo, interrotto e infinito, sui temi fondanti dell’identità fem-minile. Sono le stesse attrici che avevamo visto interpretare il ruolo delle madri. Gli eventi che tengono unite queste donne, sono i più naturali e significativi dell’esistenza: la nascita e la morte. La conversazione procede tra di loro con un ritmo incalzante, tragico e comico al tempo stesso, e in questo flusso di pensieri e parole le loro identità si confondono e si riflettono in quelle delle loro madri, in una continua dinamica di fusione e opposizione, come in un gioco di specchi deformanti. La commedia lavora su diversi livelli, è un meccanismo perfetto che alterna momenti di comicità a momenti di vera e propria commozione.

(Paola Rota - Regista)

Gli esordi di Cristina Comencini sono in alcune produzioni televisive in cui appare in qualità di co-sceneggiatrice del padre Luigi Comencini in Il matrimonio di Caterina (1982), di Suso Cecchi D’Amico nello sceneggiato televisivo Cuore (1984) e nel film La Storia (1986), nonché di Ennio De Concini in Quattro storie di donne diretto da Franco Giraldi (1986). Il suo debutto alla regia è del 1988 con il film Zoo cui seguono, dopo la sceneggiatura di Buon Nata-le... buon anno (1989), le regie di I divertimenti della vita privata, La fine è nota (dal romanzo di Geoffrey Holliday Hall), Va’ dove ti porta il cuore (dal best seller di Susanna Tamaro), Il più bel giorno della mia vita e La bestia nel cuore (che ha ottenuto una nomination agli Oscar per l’Italia come miglior film straniero nel 2006). Cristina è anche un’apprezzata scrittrice di romanzi: oltre a Matrioska, sono da ricordare Pagine strappate, tradotto in Francia (Pre-mio Air Inter 1995), Passione di famiglia che ha ottenuto il Premio Rapallo Opera Prima 1992, Il cappotto del turco (vincitore del Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo 1997 nella sezione narrativa), L’illusio-ne del bene, con il quale nel 2008 è stata finalista del premio letterario Premio Bergamo, Quando la notte (2009), Lucy (2013) e Voi la conoscete (2014). Negli ultimi anni si è avvicinata alla scrittura di testi teatrali: Due partite, commedia in due atti scritta per quattro interpreti femminili, messa in scena nel 2006 e poi ripresa con successo in tutta Italia. Proprio questo testo, fortemente voluto da Artisti riuniti, segna il suo esordio drammaturgico.

DUEPARTITEdi Cristina Comencini

mercoledì 13 gennaio 2016

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NATALINO BALASSOFRANCESCA BOTTIMARTA DALLA VIAANDREA PENNACCHISILVIA PIOVANSTEFANO SCANDALETTI

produzione Teatro Stabile del Veneto

Cinque attori-autori di grande talento affiancano Natalino Balasso nella messa in scena di questo travolgente testo comico, attraversato da continui colpi di scena tutti da scoprire. Comicità amara e ineluttabile, per l’ideale riscrittura dell’Ubu Re. Toni Sartana smette i panni del pistolero in stile western anni ’60, sospeso tra violenza e ignoranza, e tenta un’ascesa politica che si traduce nella forsennata ricerca del potere fine a se stesso. Si tradisce e si arraffa per il gusto di possedere e si uccide per tradizione. Il racconto è inserito in un nord est surreale e fuori dal tempo, nel quale i personaggi sono guidati da un unico obiettivo che li attira come mosche: i “schei”. Si dice nord est, ma si legge universo mondo. Un’opera corale che sa far ridere e pensare.

Nel Nordest “locomotiva d’Italia” non c’è più spazio per umanità o correttezza. Meglio possedere. A tutti i costi. Come il contadino Mazzarò di Verga, l’Ubu veneto di Natalino Balasso cerca la sua “roba” in un mondo che ha perso ogni coordinata. E lo fa arraffando, imbrogliando, rubando, tradendo amici, affetti, compagni di strada, spietato come l’antieroe degli Spaghetti western Sartana, corrotto come il Cetto LaQualunque di Antonio Albanese. Lo humour nero dell’attore-autore polesano prende corpo nella curiosa lettura scenica “La Cativìssima - Epopea di Toni Sartana” (...).

Balasso, dove ha pescato questo Sartana? «È il pistolero che uccide e arraffa dei film degli anni Sessanta, ma il personaggio e il clima della commedia partono dall’Ubu Re. Un Ubu veneto, se vogliamo. L’epopea gravita attorno questo personaggio puerilmente violento».

Che ascesa avrà questo “Ubu” Veneto? «In ogni commedia della trilogia ci sarà una sorta di ascesa. Nella prima sarà politica. Toni Sartana parte dall’interno di un partito, poi diventa capo della regione, quindi tenta di conquistare un’altra regione militarmente. Cerca il potere fine a se stesso. Ma il potere è lo sfondo, questa non è una commedia sulla politica».

Niente “House of cards” veneta. «No, questa è l’epopea di un personaggio che parte da un paesino e ragiona come quando faceva l’ultrà, facendo a botte con gli avversari. Tenta di imporre la sua visione, la sua supremazia, che si sviluppa solo con la violenza».

Ma poi cadrà? «Sì, ma la sua inconsapevolezza lo salverà nella sua caduta. Come nei fumetti, come Willy Coyote che precipita e non muore mai. Se proprio vogliamo leggerci un’immagine, è la nostra cattiveria a non venir mai sconfitta».

Ha scelto un bel gruppo di attori per questo progetto. «Sì, li ho scelti non soltanto per la loro bravura, ma anche perché sono attori-autori molto propositivi, capaci di immaginare e di scrivere le cose».

Lei è protagonista e regista della trilogia. «Sì, per una volta credo di aver identificato un percorso che somiglia molto a quello che cerco sia il mio teatro: popolare innanzitutto, perché se vogliamo che a teatro ci vadano tutti, dobbiamo anche riuscire a parlare a tutti senza essere mai scontati».

(Il Gazzettino del 13 aprile 2015)

LACATI-VISSIMAdi Natalino Balasso

martedì 26 gennaio 2016

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epopea di Toni Sartana

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ANNA GALIENAENZO DE CARO

adattamento Pino Tiernoregia Emanuela Giordanoproduttore esecutivo Tiziana D’Anellaproduzione Enzo Sanny

Una domestica e il suo datore di lavoro convivono da anni sotto lo stesso tetto senza conoscersi. Lui ri-corda a malapena il nome di Lei, preso com’è da se stesso. E’ un romanziere famoso, o per lo meno lo è stato. Dopo giorni infiniti fatti solo di buongiorno e buonasera, così di punto in bianco l’uomo si interessa alla vita della donna, come se volesse recuperare il tempo perduto, o avesse semplicemente tempo da perdere. Lei sta al gioco e gli tiene testa con un linguaggio ironico, colto e beffardo. I due parlano, si sfotto-no, domandano, rispondono, ma intorno alle parole si consuma altro, in un incrocio di sguardi, svelamenti e bisogni non dichiarati. Una partitura preziosa per due beniamini del pubblico, che scelgono di mettersi in gioco con garbo e sensibilità.

Parlare di Anna Galiena significa, innanzitutto, parlare di una delle attrice italiane maggiormente apprezza-te all’estero, e, soprattutto, accorgersi della sorprendente versatilità grazia alla quale è riuscita, nel corso di una lunga carriera, a passare facilmente dal teatro al cinema senza desinare il piccolo schermo. Nel 1980 entra all’Actors’ Studio di Elia Kazan, celeberrima scuola di recitazione basata sulla divulgazione del metodo Stanislavskij, e frequentata tra gli altri da Robert De Niro. Fino alla metà degli anni ‘80 recita sui palcoscenici tanto testi classici, come quelli di Shakespeare, quanto commedie di autori americani con-temporanei. Nel 1983 ritorna in Italia, debuttando immediatamente sul grande schermo in Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina. Decide comunque di non abbandonare il suo lavoro in teatro e l’anno seguente interpreta Natasha al Teatro Stabile di Genova in “Tre sorelle” di Cechov diretta da Otomar Krejca. Grazie alla formazione all’estero e, soprattutto, grazie a dei ruoli che la rendono famosa anche al di là delle Alpi, Anna riesce a farsi apprezzare in Europa. Proprio con un film francese del 1990, infatti, riscuote il primo grande successo, interpretando Mathilde in Il marito della parrucchiera di Patrice Leconte. Dal 1993 con Il grande cocomero di Francesca Archibugi inizia a interpretare ruoli dalla forte carica drammatica come Senza pelle di Alessandro D’Alatri, continuando comunque a recitare in commedie tra cui La scuola di Daniele Luchetti e Come te nessuno mai (1999) di Gabriele Muccino. Nell’arco della sua carriera ha spes-so avuto il privilegio di essere scelta da registi stranieri come Claude Chabrol, Bigas Luna, Raoul Ruiz e Manuel Gomez Pereira. Copiosa anche la sua presenza in televisione sia in Europa che in America. È stata anche la prima attrice ammessa a recitare in teatro con la Compagnia del Teatro Nô giapponese, diretta nel 1994 da Takayuki Kawabata in Susanô al Festival di Avignone. Di recente ha collaborato a diverse pellicole in Italia, come Un amore su misura, Lezioni di volo con Giovanna Mezzogiorno, Scrivilo sui muri di Giancarlo Scarchilli, Guido che sfidò le brigate rosse, Senza via d’uscita, Decameron Pie e La donna di nessuno. Nel 2011 la troviamo nel film di impegno sociale di Antonio Falduto Il console italiano; mentre l’anno successivo è la protagonista del drammatico Sleeping around, di Marco Carniti. Nel 2013 partecipa alla commedia con Enrico Brignano e Ambra Angiolini Stai lontana da me e l’anno successivo gira il film di Sergio Castellitto tratto dal romanzo della moglie Margaret Mazzantini Nessuno si salva da solo.

DIAMOCIDEL TUdi Norm Foster

mercoledì 10 febbraio 2016

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TEATRO STABILE DEL VENETOregia Giorgio Sangati scene Alberto Nonnato costumi Stefano Nicolao luci Paolo Pollo Rodighieromaschere Donato Sartori con Anna De Franceschi, Francesco FolenaComini, Eleonora Fuser, Irene Lamponi, Marta Meneghetti, Michele Mori, Stefano Rota, Laura Serena, Marco Zoppello

E’ scelta da audaci cimentarsi con l’Arlecchino, la maschera simbolo del teatro italiano e “Il servitore di due padroni”, il testo di Carlo Goldoni più rappresentato al mondo, grazie alla celebre versione firmata da Giorgio Strelher. E’ il talentuoso Giorgio Sangati ad accettre la sfida di dare nuove suggestioni a questo grande classico. In scena c’è una strana soffitta ingombra di vecchi bauli e una vivace compagnia di attori. Travestimenti e riconoscimenti, servitori e padroni, padri e figli, morti e risorti, duelli e passioni, gioie e pianti: nello spettacolo tutto è doppio, come Arlecchino che, a sua volta, si sdoppia (anzi si triplica) nell’im-presa impossibile di servire due padroni e forse anche sé stesso. Una pietra miliare del teatro di tutti i tempi, resa al meglio da un cast davvero irresistibile.

Un nuovo sorprendente Arlecchino prende vita sulle antiche tavole del teatro Goldoni di Venezia. Già, perché per tutti noi la maschera bergamasca si identifica con le figure di Ferruccio Soleri o di Marcello Moretti, in-terpreti dell’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni messo in scena da Strehler nel ‘47, giunto fino ad oggi con diverse edizioni e con migliaia di repliche. Ma non c’è dubbio che lo smisurato successo di quella storica e ardita operazione abbia però ingenerato qualche paradosso. Il primo è che la nostra immagine della commedia dell’arte, costruita sulle improvvisazioni, si sia legata ad uno spettacolo immutabile da decenni, il secondo è che l’espressione studiata dallo scultore e mascheraio Amleto Sartori per quell’occasione, nata da un sottile lavoro di documentazione ma soprattutto da un’ideazione tutta originale, senza una specifica at-tendibilità filologica, a noi appaia ormai come se fosse il tratto distintivo e tradizionale degli arlecchini di tutti i tempi. (...) Gli audaci artefici della nuova trasposizione scenica sono un gruppo affiatato di artisti, giovani o di più consolidata esperienza, a partire proprio dallo straordinario Arlecchino, Marco Zoppello, ventotto anni, barba e una folta chioma rossa, energico e vitale, per nulla sciocco, tantomeno ingenuo, anzi ben convinto della sua intelligenza, rivendicata orgogliosamente a fine spettacolo, come se fossero le complesse trame amorose dei suoi due padroni ad annodare reti ingarbugliate nelle quali bisogna poi abilmente districarsi, cosa che lui, del resto, riesce a fare benissimo. A tutto questo l’interprete aggiunge anche una decisa carica erotica, tanto che il batocio, quella specie di paletta che porta al fianco e dalla quale ha tratto persino il suo soprannome, diventa una evidente allusione fallica. Sparite le losanghe nel costume, disegnato da Stefano Nicolao, composto di calzoni e giubba rappezzati e sbiaditi, mentre la maschera, disegnata da Donato Sarto-ri, figlio di Amleto, conserva il colore del cuoio, con un taglio d’occhi che le danno un’espressione più risoluta e convinta, persino con qualcosa di demoniaco, per volontà del suo creatore che intende così collegarla alle leggende sull’origine satanica del personaggio. Sarebbe inutile fare paragoni, la versione di Strehler ha un posto indiscutibile nella storia del teatro italiano, ma questa rilettura si pone come una nuova riuscitissima reinvenzione, ed è il regista Giorgio Sangati a scartare con disinvoltura dai moduli consacrati, attento so-prattutto al lavoro di gruppo, con pochi lazzi ben riusciti, qualche accenno di fuori scena a vista, puntando decisamente alla tessitura di un intreccio serrato e godibilissimo, per ambientare il quale bastano tre bauli che fanno da pareti e da porte. (...)

(Antonio Audino - Il Sole 24 ore)

ARLECCHINOil servitore di due padronidi Carlo Goldoni

martedì 23 febbraio 2016

Città di Bassanodel Grappa

Assessorato alla promozionedel Territorio e della Cultura

iL teatro i rapisce

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Page 9: STIVALACCIO TEATRO DON CHISCIOTTE CITTA’ DI BASSANO · sanese ospita anche cinque giovani protagoniste del grande e piccolo schermo come Michela Cescon, Giulia ... Balasso, affiancato

GIULIA LAZZARINI

musiche Carlo Boccadoroscene Carlo Salaluci Claudio De Paceproduzione Teatro della Cooperativain coproduzione con Mittelfest

Una delle grandi protagoniste della cultura e dello spettacolo italiano del ‘900, premiata nell’ultimo anno sia in Cinema (David di Donatello per la magistrale prova offerta in “Mia madre” di Nanni Moretti) che in teatro (Maschera del Teatro come miglior monologo per questo altissimo esempio di teatro civile). Renato Sarti ricostruisce con sensibilità e vigore la testimonianza di Mariuccia Giacomini, infermiera all’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste dove a partire dal 1971 Franco Basaglia avvia la sua straordinaria rivolu-zione che propone un diverso possibile dialogo tra “normalità” e “follia”. La melodiosa cadenza triestina scandisce i singoli passaggi del racconto, che la voce di Giulia Lazzarini fa vibrare in onde cariche di deli-cata intimità e travolgente emozione.

Quello che il personaggio al centro dello spettacolo Muri. Prima e dopo Basaglia fa fare allo spettatore è un viag-gio da un lato attraverso i luoghi dell’ospedale psichiatrico di Trieste, seguendo il corso dei ricordi della protago-nista che si snodano lungo gli anni movimentati della psichiatria in Italia, e dall’altro attraverso l’esperienza di chi in questo campo ha scritto un importante pezzo di storia, Franco Basaglia. Protagonista anch’egli, nel suo caso del racconto che si sviluppa in scena, del quale costituisce lo spartiacque - come si intuisce dal titolo stesso - che divide la vicenda in due momenti distinti. Lo spettacolo infatti è un commovente assolo incentrato sulla figura di Basaglia e sulla grande rivoluzione che ha apportato nel campo delle malattie mentali, che viene ripercorsa dall’interno, contestualizzata e mostrata in profondità attraverso gli occhi di un’infermiera, interpretata da Giulia Lazzarini. La tipologia narrativa è dunque quella della testimonianza in prima persona, rivolta ad un interlocutore che si percepisce ma non si vede in scena, e che ben presto diventa ogni spettatore presente. Ne nasce un rac-conto emotivamente coinvolto da parte dell’attrice protagonista ed emotivamente coinvolgente per il pubblico. Non appena Giulia Lazzarini entra in scena colpisce per la delicatezza con cui caratterizza il suo personaggio, nei gesti composti e soprattutto nella voce pacata, che si fa sempre più avvolgente con lo svolgersi dello spettaco-lo. È come se la Lazzarini prendesse per mano gli spettatori e li guidasse attraverso l’esperienza personale di un’infermiera, che quasi per caso entra a lavorare nell’ospedale triestino e si ritrova dopo alcuni anni a collaborare con Basaglia, vivendo in prima persona la sua riforma. Anche in questo spettacolo si ritrovano quei tratti distintivi del modo di fare teatro della Lazzarini, quella dedizione al personaggio e quel rigore attoriale che ne hanno fatto una grande attrice nel senso pieno del termine. Mai una sbavatura, mai un calo di tensione nell’interpretazione, Giulia Lazzarini è costantemente calata nel personaggio e partecipe del racconto. Le bastano pochi movimenti delle mani per enfatizzare la lettura del monologo, mentre le espressioni del volto ne sottolineano il senso e lo rendono vivo (...). L’infermiera a cui la Lazzarini dà voce, ormai in pensione, continua ad andare all’ospedale come volontaria e passa del tempo con i malati mentali perché così dà un senso alla sua vita e alle sue giornate. Questo è il lato più privato del monologo, poiché il racconto non ha solo il carattere pubblico della storia di Franco Basa-glia, ha anche quello privato della vicenda personale, in un perfetto equilibrio drammaturgico tra i due ambiti. (...) La protagonista sottolinea come l’esperienza con Basaglia le abbia fatto acquisire il senso di responsabilità verso gli altri ma anche verso se stessa. (...)

(Sara Nocciolini - Corriere dello Spettacolo)

MURIprima e dopo Basagliadi Renato Sarti

mercoledì 9 marzo 2016

Città di Bassanodel Grappa

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MILENA VUKOTICANTONELLO AVALLONE

regia Antonello Avallonescene e costumiRed Bodòproduzione Compagnia Il Punto

La storia prende le mosse da un classico ritorno a casa. Alfredo, grigio cinquantenne segnato dal du-plice fallimento di un matrimonio naufragato, e di un’attività giornalistica nella quale non è riuscito ad emergere, un giorno si presenta a casa della madre dichiarandosi deciso a rimanervi per poterla assi-stere nella malattia. In realtà egli nutre il segreto intento di realizzare uno scoop da cronista senza scru-poli: raccontare gli ultimi mesi e la morte della vecchia signora. Ma la vecchia signora, di nome Regina, appartiene alla categoria delle matriarche indistruttibili. Tra i due personaggi si instaura così un duello all’ultimo sangue, incisivo e al contempo denso di ironia. Un irresistibile ring domestico orchestrato magistralmente da una grande Milena Vukotic.

2 Febbraio 1984, giorno in cui Alfredo Giannelli varca la porta di casa della signora Regina, sua madre, vedova settan-tacinquenne che vive sola. Alfredo, giornalista, è venuto, dice, su consiglio del medico a trascorrere un periodo con lei, causa la precaria salute materna: i globuli bianchi che superano, e mangiano, i globuli rossi. E’ l’inizio di Regina Madre, testo di Manlio Santanelli scritto nel 1983 e diretto da Antonello Avallone, che interpreta pure il personaggio di Alfredo. L’altro personaggio è assunto da Milena Vukotic, che da sola merita la visione dello spettacolo. Il rapporto madre/figlio è quanto meno problematico, per non definirlo difficile. Regina è dispotica, dolcemente autoritaria, piena di sé e del proprio, inventato, passato, si oppone e comanda ad Alfredo come un’avversaria. Lui è decisamente una vittima, come si vedrà in seguito. La prima parte dello spettacolo è gustosamente conflittuale. Regina si difende dal figlio, ricordando di continuo la figura paterna: un genio che eccelleva in qualunque disciplina, così da farsi amare, e ricordare, a scapito del rampollo pusillanime e fallito. Ad Alfredo non gliene va bene una con sua madre! Non la moglie Erminia, antipatica persino nel nome; neppure per il lavoro: perché è venuto a vivere da lei, se lei non ne ha affatto bisogno? Perché è stato licenziato! Ma tutti quei bicchieri d’acqua sparsi per l’appartamento, e le iniezioni che lei rifiuta di farsi fare? Un dialogo pervaso dalla calma falsa di Regina e dalla sopportazione a scatti arrabbiati di Alfredo, alle prese con pastiglie e pillole per rimanere tranquillo e dormire la notte. Due caratteri opposti che cozzano: un sollazzo per chi ascolta e vede. Alfredo, in verità, è venuto dalla madre (anche) per scrivere un libro su di lei, una specie di cronistoria della sua malattia e della prevedibile morte dell’anziana ma ancora pimpante signora. Il prosieguo si addentra sul personaggio Alfredo, e ciò avviene il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Regina ha preparato una festa per il figlio, che il giorno dopo passerà l’incombenza materna alla sorella Lisa. Un menù speciale interrotto dalle accuse che pesano sul cuore e sul destino del disperato, che imputa alla educazione della Regina Madre, come la definisce, un fallimento plurimo (...). Verrà, infine, la gran torta che ella ha preparato, con le candeline accese, ma il festeggiato, ahimè, non potrà spegnerle. (...) Qui si assiste al fuoriuscire di un vissuto doloroso, che si raggruma nello spazio di una coabitazione indesiderata di madre e figlio, e chi vince è proprio la Regina Madre. Milena Vukotic si conferma attrice di straordinari accenti, da lei sgorga naturale il flusso del personaggio fatto di tantissime sfumature: paure e certezze, bugie e illusioni, finzioni e verità svelate con impuntature improvvise, sorprendenti risposte dette con battiti di palpebre sugli occhioni neri, voce dolcissima e candida semplicità: una classe teatrale assolutamente unica.

(Roberto Zago - gatalteatro.it)

REGINAMADREdi Manlio Santanelli

mercoledì 23 marzo 2016

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OTTAVIA PICCOLOSILVANO PICCARDI

regiaSilvano PiccardiproduzioneArca Azzurra Teatro

Stafano Massini, da poco alla guida del prestigioso Piccolo Teatro di Milano, firma un nuovo testo per Ot-tavia Piccolo, sua musa ispiratrice in tante opere di successo. Ci troviamo a Berlino circa vent’anni dopo il 1989, anno in cui il Governo della Germania Est decretò la soppressione del divieto, per i suoi cittadini, di passare liberamente dall’altra parte del muro che fino ad allora aveva diviso in due la città, il paese e il mondo intero. Decifrare di volta in volta il senso della vicenda, sia personale che collettiva, che lega i due personaggi, Hilder, il padrone di casa e Ingrid, la donna cui presta soccorso, è il compito a cui l’autore chiama i personaggi stessi, ma, attraverso la suspense del gioco teatrale, anche e soprattutto il pubblico. Nel finale la soluzione dell’enigma lascerà spiazzato anche il più esperto giocatore.

«Gli enigmi sono come gli orologi: costituiti da ingranaggi». E di ingranaggi che, pur avendo una natura complicata seguono una semplicità lineare senza incepparsi mai, si potrebbe parlare anche per descrivere la nuova drammaturgia di Stefano Massini dal titolo Enigma. Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi si fanno perfetti portavoce di questa trama pun-tuale, essenziale e avvincente ambientata nella ex DDR: due sconosciuti si ritrovano, per un caso fortuito, nello stesso appartamento a discutere di quello che è stato e di quello che è oggi, a venti anni dalla caduta del muro, la Germania dell’Est. Ma non è che l’inizio di una vicenda che, scorrendo, porta alla luce enigmatiche verità, nascoste sotto quella realtà che è qui solo apparenza. Enigma oscilla continuamente tra passato e presente, è un’altalena che appare già dal principio della messa in scena nei caratteri dettati da una macchina da scrivere, in quel gusto retrò che si intreccia ine-vitabilmente alla più moderna proiezione video: dei titoli di testa appaiono infatti cinematograficamente sul fondale nero come se fossero battuti dall’ormai vecchio e superato strumento, tornando spesso a scandire il ritmo della storia. Più quest’ultima avanza più retrocede nel tempo per indagare e scoprire un passato sepolto, ma che ritorna come un fanta-sma. Massini costruisce una macchina puntuale divisa in sedici segmenti: forse è una partizione casuale la sua, ma ricor-da quella del capolavoro Finale di partita, in cui Beckett muove i personaggi come fossero le pedine di una scacchiera; le due storie non hanno niente in comune, ma se si va al di là della semplice apparenza, come insegna la logica enigmistica e lo stesso protagonista Piccardi, si troveranno delle affinità; in fin dei conti in entrambi i lavori la trama ricostruisce una realtà paradossale: l’assurdità che ha sede nella grande Storia, dove non sempre chi agisce lo fa per una motivazione comprensibile. La vita nella DDR non era normale come poteva sembrare: ogni sei abitanti esisteva un informatore e il controllo era arrivato al punto che si registrava ogni singolo dettaglio, anche il più intimo, della persona spiata. Ci si impossessava ogni giorno delle “vite degli altri”, proprio come il titolo dello splendido film scritto e diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, che ritorna in mente di fronte alla drammaturgia di Massini. «C’era sempre un colpevole, un responsabile di tutto nella DDR», recita la protagonista femminile di Enigma: e la domanda che torna alla mente una volta lasciato il teatro è se il responsabile di tanta assurdità sia la Storia stessa o l’uomo che vi si assoggetta, scegliendo di non agire ma di eseguire quello che gli viene chiesto, anche quando essa è incarnata in feroci dittatori. E lo scritto di Massini coglie splendidamente questo concetto ribattendo che «la Storia non è una parola, ma è carne»: sono infatti gli uomini a costruirla e a darle corpo.

(Carlotta Tringali - Il Tamburo di Katrin)

ENIGMAniente è come sembradi Stefano Massini

lunedì 18 aprile 2016

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GIUSEPPE BATTISTON

uno spettacolo di Giuseppe Battistondrammaturgia Renata M. Molinarimusiche originali e dal vivo Piero Sidotiregia e spazio scenicoAlfonso Santagatauna produzione CSS

Giuseppe Battiston porta in teatro le splendide poesie in friulano di Pierpaolo Pasolini, per commemorare i 40 anni dalla morte del grande scrittore. Sono parole che evocano una terra di primule e temporali, di feste e sagre paesane, di vento, di corse in bicicletta a perdifiato, dell’avvicendarsi delle stagioni nel la-voro dei contadini. Di colori, suoni e profumi. Di quello che fu la guerra e di ciò che avvenne dopo e dopo ancora... Alle poesie Battiston abbina ricordi legati alla sua storia personale, perché la poesia, una tra le più alte forme d’arte, non è scissa dalla vita, ma è lì che nasce e risiede. Forse non tutte le parole saranno comprensibili, ma Pasolini sosteneva che quando il dialetto viene utilizzato per esprimere sentimenti alti si fa lingua, e con i suoi suoni ci entra nell’ anima e ci porta altrove.

Pasolini iniziò la propria esperienza poetica nei primi anni Quaranta, scrivendo versi nel dialetto friulano di Casarsa. Trascorsa l’infanzia a Casarsa, il paese originario della madre, si trasferì a Cremona dopo aver iniziato il ginnasio a Conegliano; subito dopo andò a vivere a Scandiano, vicino a Reggio Emilia; dal 1936 terminò il liceo a Bologna, e in questa città si iscrisse poi all’Università. Con la guerra e i bombardamenti delle città italiane, nell’inverno 1942-43, Susanna Pasolini decise di sfollare con i due figli, Pier Paolo e Gui-do, a Casarsa, suo paese di origine in Friuli. Di questa “patria friulana” Pier Paolo Pasolini dirà, scrivendo a un amico: “Ogni immagine di questa terra, ogni volto umano, ogni battere di campane, mi viene gettato contro il cuore ferendomi con un dolore quasi fisico. Non ho un momento di calma, perché vivo sempre gettato nel futuro: se bevo un bicchiere di vino, e rido forte con gli amici, mi vedo bere, e mi sento gridare, con disperazione immensa e accorata, con un rimpianto prematuro di quanto faccio e godo, una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo”. In quei luoghi, nei quali ogni gesto che fanno coloro che sono intorno a lui è una fitta al cuore (“chiede una collocazione nuova nella mia immagine del mondo”), Pasolini scrive quello che sarà il suo primo libro pubblicato, Poesie a Casarsa. Il volume è del 1942 e l’editore è la Libreria antiquaria Mario Landi di Bologna. Quando 10 anni più tarni nel 1952 Pasolini curò con Mario Dell’Arco una antologia dal titolo Poesia dialettale del Novecento. Franco Fortini così intervenne su «Co-munità» in merito a tale lavoro: “Non conoscoun libro di poesia che come questo avvii la possibilità d’una storia reale e nuova della nostra generazione. Se è possibile - con l’improntitudine delle quattro parole - accennare ai termini nei quali il discorso sui dialettali potrebb’esser ripreso, Gramsci e Pavese potrebbero darci consigli utili. Il primo, mostrandoci - come in parte ha inteso Pasolini - a quali complessi ideologici e sociali riferire la polemica dei dialettali, quale sia il loro «regresso» e quale il loro «progresso»; e come la debolezza della nostra borghesia nazionale, l’incapacità a prender coscienza di sé e a far fronte al mondo moderno, abbia favorito, forse in Italia più che altrove, la scissione e la contraddizione fra la letteratura d’avanguardia e la letteratura e cultura regionali; questa, impedita ad un certo punto dal risolversi in lingua, quella tagliata fuori dalle radici sociali e diventata letteratura di déracinés (sradicati)”.

NON C’E’ ACQUAPIU’FRESCA

martedì 26 aprile 2016

iL teatro i rapisce

LCittà di Bassanodel Grappa

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