Stefano Garroni - Ripensare Marx

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Questo volume raccoglie scritti recenti, ma diversamente occasionati. Tuttavia,sembra a me che un filo rosso li leghi con evidenza: la convinzione che liberareHegel dall’immagine che ne è stata costruita dalla tradizione (filosofospeculativo, conservatore sia da un punto di vista politico che, in verità, ancheteorico), comporti non solo poter constatare convergenze tra il suo pensiero edepisodi importanti del pensiero novecentesco, ma anche aiuti a coglierne ilprofondo legame col pensiero di Marx, nella prospettiva di una società libera –perché sottratta al dominio della ‘necessità’; e più umana, perché emancipataormai alle varie forme di estraneazione e di ‘positività’.Naturalmente questo filo rosso si riesce a cogliere, nel limite di una raccolta discritti e non di un libro strictu sensu; tuttavia, va sottolineato che i singoliscritti sono il frutto di una lunga collaborazione con alcuni compagni, chehanno frequentato i miei seminari e degli insegnamenti, che ho ricevuto inparticolare dal professor Francesco Valentini –uno dei più insigni studiosiitaliani di Hegel; dal professor Hans Heinz Holz –per l’acutezza delle suepagine e per l’ampiezza della sua cultura; ed infine dai frequenti colloqui conAlessandro Mazzone i compagni del Collettivo di formazione marxista, per itanti stimoli, che i loro interventi ed osservazioni mi hanno dato.

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Collettivo di formazione filosofico- marxista

Stefano Garroni

Ripensare Marx

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Questo volume raccoglie scritti recenti, ma diversamente occasionati. Tuttavia, sembra a me che un filo rosso li leghi con evidenza: la convinzione che liberare Hegel dall’immagine che ne è stata costruita dalla tradizione (filosofo speculativo, conservatore sia da un punto di vista politico che, in verità, anche teorico), comporti non solo poter constatare convergenze tra il suo pensiero ed episodi importanti del pensiero novecentesco, ma anche aiuti a coglierne il profondo legame col pensiero di Marx, nella prospettiva di una società libera –perché sottratta al dominio della ‘necessità’; e più umana, perché emancipata ormai alle varie forme di estraneazione e di ‘positività’. Naturalmente questo filo rosso si riesce a cogliere, nel limite di una raccolta di scritti e non di un libro strictu sensu; tuttavia, va sottolineato che i singoli scritti sono il frutto di una lunga collaborazione con alcuni compagni, che hanno frequentato i miei seminari e degli insegnamenti, che ho ricevuto in particolare dal professor Francesco Valentini –uno dei più insigni studiosi italiani di Hegel; dal professor Hans Heinz Holz –per l’acutezza delle sue pagine e per l’ampiezza della sua cultura; ed infine dai frequenti colloqui con Alessandro Mazzone i compagni del Collettivo di formazione marxista, per i tanti stimoli, che i loro interenti ed osservazioni mi hanno dato.

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Indice 1 – Appunti per ‘rileggere Marx’ –pag. 6 2 – Scienza o immediatezza nella Vorrede dell’hegeliana Fenomenologia- Pag 13 3 – Dal casuale all’ente sociale – pag. 33. 4– Due pagine sulla dialettica – pag. 75 5 – Note sulla polisemia di dialettica: dal quotidiano alla riflessione formale- pag. 90 6 – Note sulla problematica dialettica di Gramsci- pag . 95 7- Il tema hegeliano del riconoscimento. – pag. 102 8 – La morale in Marx – pag. 110

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1 -Appunti per <Rileggere Marx>. Lo scopo di questi scritti è mostrare l’attualità- in un’accezione non negativa del termine- della riflessione marxiana, qui esemplificata con la sua opera maggiore, Das Kapital. In sostanza mi sembra che questo si debba dire: il pensiero di Marx ha legami profondi con la parte più viva, dinamica e consapevole della cultura moderna, di quella cultura, cioè, che definisce lo’spirito’ del nostro tempo. In questo senso, attraverso Marx (anche attraverso Marx) giungiamo alla consapevolezza di noi stessi, della problematica e delle alternative, che son proprie della nostra vita attuale (appunto!). Il che naturalmente non nega la possibilità di un giudizio anche negativo della riflessione marxiana, ma dice che una tale critica è legittimata solo da una critica più vasta e radicale, che investa una parte sostanziale della coscienza moderna: per dirla con un apparente paradosso non basta mostrare che questa o quella tesi economico-sociale, elaborata da Marx, non ha trovato riscontro nello svolgersi effettivo dei fatti, perché l’autentico problema è mostrare l’inadeguatezza della angolatura etico-epistemologica (filosofica, insomma), entro cui Marx si colloca e che costituisce il retroterra delle analisi, che egli compie e delle soluzioni che prospetta. Nel titolo della mia ricerca c’è il termine “Appunti”: perché? Ma perché piuttosto che l’analisi puntuale di specifiche questioni, ciò che mi preme è indicare una problematica, che Marx raccoglie da quel più ampio filone culturale, di cui ho detto sopra e che, certamente, ha in Hegel un momento decisivo. Das Kapital è opera dialettica, in quanto intende mostrare l’ essenza della kapitalistische Produktionsweise (modo capitalistico di produzione; d’ora in avanti KPW), facendo risaltare quel regolato gioco di forze e contro-forze, su cui appunto essa si costruisce. Insomma, si tratta di un’opera, per la quale l’essenza si identifica con la legge (Gesetz) di movimento ‘della cosa stessa’. In tutto ciò è implicito che ‘la cosa stessa’ sia un insieme non casuale di piani e livelli, per cui la dimensione propriamente e specificamente economica esiste ed opera entro un complesso politico, sociale e culturale, che per altro la influenza e la plasma anche – così come ne è esso stesso plasmato. Ciò che mi preme sottolineare è che se non ha senso, in una prospettiva dialettica come quella di Marx, concepire l’economico come un livello d’esperienza a se state e, nella sostanza, indifferente agli altri livelli dell’esperienza sociale, tuttavia questo non impedisce che, per motivi ermeneutici, si possano descrivere processi limitatamente economici, senza esplicitarne le relazioni con la totalità sociale, di cui son parte. Ciò che conta è che, quando si proceda in questo modo ‘astratto’, si abbia consapevolezza che la realtà effettiva astratta non è e che,

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dunque, il processo specificamente economico non vive di fatto, se non nell’ intreccio con la formazione sociale nel suo complesso. ‘Legge della cosa stessa’, dunque, movimento, diacronia – la quale, però, sottende una regola appunto: ciò è vero non solo relativamente al muoversi dei fatti, degli stati di cose, ma anche per la coscienza, che se ne ha. Vale la pena di notare che i tableaux del fisiocratico Quesnay si muovono almeno in una prospettiva analoga –cioè, capace di mediare diacronia e sincronia-, come sottolinea Ridolfi, introducendo Quesnay, Il ‘tableau économique’ e altri scritti di economia, Milano 1973: XXIX. Come osservava Leopardi ( cf. Tutte le opere, vol.2: 222, Mondatori 1968) la verità coesiste con l’errore e, dunque, il processo di ricerca della verità, implica sempre l’esistenza effettiva dell’errore: per dirla con Hegel, la ricerca della verità è una Befreiung, un processo di liberazione, che avviene nel costante corpo a corpo con l’errore; si potrebbe affermare che la verità, in qualche misura implicita l’errore, almeno nel senso che quest’ultimo ne è lo sfondo imprescindibile, da cui la verità può emergere – e questa Befreiung non è solo un processo teoretico, conoscitivo, ma anche di effettiva modifica dello stato di fatto esistente e di creazione di una nuova situazione obiettiva. I due lati dell’hegeliana Befreiung – vale a dire l’implicarsi di livello teoretico e di processo di trasformazione reale – son propri della concezione dialettica del concetto e, dunque, lo si ritrova, quell’intrecciarsi, anche nella dialettica marxiana, per la quale il concetto di merce, ad es., non solo dice una struttura logico-storica, ma anche consente la deduzione delle determinazioni, mostrando così il proprio carattere strutturale e genetico (cf. E.V.Il’enkov, La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx, Feltrinelli 1961). In questa prospettiva va inteso anche l’indubbio legame dell’elaborazione marxiana con la tradizione della riflessione economica – il che, per altro, contribuisce a spiegare quelle pagine di Das Kapital che, a tutta prima, appaiono astrattamente economiche: Marx deve porsi anche a questo livello per mostrare l’errore dell’economista. Per chiarire ulteriormente le implicazioni della prospettiva dialettica, nella quale Marx si colloca, torniamo alla nozione di merce, com’ è tematizzata nel primo libro di Das Kapital. L’analisi mostra che la merce è cosa contorta (vertracktes Ding), è una sofisticheria metafisica (metaphysischer Spitzfindigkeit), è un capriccio teologico (theologischer Mucken); finché è considerata in quanto valore d’ uso, nella merce non c’è nulla di misterioso. E‘ chiaro che l’uomo mediante la sua attività muta le forme della materia in un modo, che gli è utile. (v. Das kapital. I, Berlin 1970: 85). Eppure in questo giudizio – sottolinea Il’enkov- si esprime qualcosa di molto più significativo di una semplice evidenza. “In polemica con i critici

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borghesi del Capitale Marx.. . era costretto a sottolineare che nelle prime sezioni del suo libro si sottopone ad analisi non il concetto di merce, ma la concretezza economica più semplice, la relazione delle merci, un fatto reale sensibile, non un’astrazione esistente nella mente.” (Il’enkov, op- cit.: 36) “L’universalità della categoria del valore è … la caratteristica non solo e non tanto del concetto, dell’astrazione mentale, quanto piuttosto della funzione oggettiva che la forma della merce svolge nel processo di sviluppo del capitalismo.” (Il’enkov, ivi). Dunque, l’analisi marxiana, proprio perché dialettica, distingue due livelli del reale: quello immediato del presentarsi sensibile (l’Erscheinung) e quello dell’essenza, del concetto, della regola, ovvero di ciò che consente la diacronia e la sincronia della Wirklichkeit, della realtà esistente, del Dasein. Ma da questo livello d’analisi, Marx perviene a quello del Gesetz, dell’essenza e così non si limita a cogliere (fassen) ciò, che immediatamente si mostra, ma perviene piuttosto a comprenderne il concetto (begreifen) e con questo a dedurre le determinazioni reali dell’oggetto ib questione. Generalmente il pensiero economico borghese – ovviamente, con l’importante eccezione d D. Ricardo - limita il proprio orizzonte all’immediatezza del movimento economico ed anche Marx deve farlo, per mostrare le contraddizioni non superabili, che derivano da quel confinarsi. La prospettiva dialettica è strettamente congiunta ad un atteggiamento, che è tipico del Sette- Ottocento: ovvero il costruirsi di una coscienza filosofica, basata sulla convinzione che la storia sia una Bildungsgeschichte, un processo di formazione culturale o di educazione, e che, dunque, le tappe che esso percorre siano altrettanti momenti, in cui tra l’altro si vanno sciogliendo i limiti metafisici della realtà umana, che in vero l’uomo stesso si è costruito per render conto della propria impotenza, inerzia e passività. Come si legge in H. H. Holz, Einheit und Widerspruch , Metzler 1997, I: 38, “la storiografia filosofica, che riflette da un punto di vista storico-filosofico, in seguito alle lezioni di Schelling, di Hegel e di Feuerbach, segue questo modello interpretativo: il passato è vivo qual che sia il presente …, in ogni tempo l’uomo è il risultato della storia del suo genere e l’unità intensionale delle forze, materiali e culturali (del genere) divengono efficaci nell’uomo. L’intero passato è condizione e momento del presente; l’unità dell’esser divenuto e del cambiamento, della tradizione e della sua interruzione definiscono una cultura nella sua particolarità storica”. Nel suo Pour Marx, Paris 1965: 37, così L. Althusser descrive il tono dell’opera di Feuerbach: “Il tempo è arrivato. L’umanità è gravida di una rivoluzione imminente, che la renderà signora di se stessa. Che gli uomini ne prendano finalmente coscienza e diverranno nella realtà ciò

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che sono in verità: esseri liberi, uguali e fraterni”. Queste espressioni possono essere riferite, in realtà, non solo a Feuerbach, ma alla parte dominante del pensiero dell’Ottocento (o, almeno, del primo Ottocento). Valga, per tutti, il giudizio che Hegel dà sul proprio tempo nella Prefazione alla sua “Fenomenologia”: “… non è difficile vedere che il nostro è un tempo di passaggio e della nascita di una nuova epoca. Lo spirito ha rotto col mondo precedente del suo esserci e della sua rappresentazione e sta per cacciare tutto ciò nel passato; nello stesso tempo, lo spirito è impegnato nell’attività di una sua riformazione. Dunque, lo spirito non è in pace, ma sempre preso in un movimento che si sviluppa. Ma come, nel caso di un bambino, dopo un lungo e tacito nutrimento, il primo respiro, come un salto qualitativo, interrompe la gradualità dello sviluppo solo quantitativo ed, ora, il bambino è nato; così matura lentamente lo spirito, che si forma e, silenziosa, la nuova configurazione scaturisce, dissolve –particella dopo particella - la costruzione del suo mondo precedente, il suo vacillare è significato solo da singoli sintomi; la spensieratezza come la noia, che si diffondono in ciò che persiste, il sospetto indeterminato di un che di sconosciuto, sono segni anticipatori che qualcosa di nuovo è in marcia. Questo rompersi mano a mano, che non modifica la fisionomica dell’insieme, viene interrotto dall’apparizione, dal lampo, che in una volta sola instaura il nuovo mondo.” Notiamo a questo punto che l’uomo libero, nel senso di Hegel, è l’uomo che si riconosce nel ruolo di microcosmo - di particolare riproduzione in micro dello spirito. L’uomo dell’Ottocento ha il coraggio di chiedersi qual è il senso della storia, qual è il suo posto nella storia. Seppure è vero che il senso del marxiano Das Kapital risulterebbe incomprensibile, se non lo si ponesse in relazione con la tradizione della riflessione economica, è altrettanto vero che, rispetto a quella tradizione, l’ opera marxiana segna un momento di rottura e non solo per tesi e soluzioni, che rispetto a quella tradizione lo differenziano, ma, più a fondo, per il suo impianto teorico e metodologico. Questa soluzione di continuità è riconosciuta anche da studiosi del pensiero economico, che si pongono in sostanziale dissonanza rispetto allo scritto marxiano: valga per tutti quanto scrive L. Kramm, nel suo Politische Ökonomie, pubblicato a Monaco nel 1979, quando afferma che il modo marxista di porre problemi va rifiutato come insufficiente, poiché non coglie, o lo fa solo parzialmente, tutta una serie di questioni, e per questo finisce col porsi interrogativi, a cui un Nationaloekonom non è affatto interessato (v. Kramm, op. cit. : 36). E’ questa una questione, su cui torneremo largamente; per ora ci basti notare quanto Marx abbia, in merito al suo rapporto con la tradizione economica, una rappresentazione più articolata e mossa, se la confrontiamo con quanto in proposito scrive Kramm.

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Come ha sottolineato Il’enkov (op. cit.: 37), secondo Marx l’economia politica, a cominciare da Petty, si pone correttamente sulla strada non della comprensione del senso/significato – cioè, dell’uso- del termine ‘valore’, ma sì della scoperta del suo concetto: il che significa che per quanto l’economia politica circoscriva il suo orizzonte all’ evidenza immediata dello scambio mercantile, tuttavia dà prova anche di una sensibilità scientifica più raffinata, tentando, appunto, di porsi non solo sul piano dell’ Erscheinung ma sì anche su quello del concetto o Begriff e, dunque, della comprensione effettiva del movimento economico, dello scambio mercantile. La necessità non solo di distinguere livello immediato del processo economico e suo concetto, ma anche di articolare questi due piani, di coglierne la relazione non casuale, è il motivo sotteso alla pagina marxiana, di cui stiamo per occuparci (ovviamente, se ne potrebbero scegliere altre – come ci capiterà di fare in seguito-, ma per ora valga questa pagina, come esemplificazione della procedura marxiana). In Kapital.1: 85, Marx contrappone due processi, di cui il primo è tutto interno alla natura di un oggetto materiale, nel nostro caso del legno; da esso può ricavarsi, ad es., un tavolo e ciò può farsi realizzando una certa, determinata capacità umana di manipolazione della natura. Il secondo processo, invece, è – immediatamente e nello stesso tempo, un trapasso dal sensibile al sovrasensibile, per così dire, dallo stare con i piedi per terra al porsi invece sulla testa (si tratta, a dirla con Hegel, di un processo mistico, nel senso del rovesciarsi immediato dell’opposto nel proprio opposto). Quest’ultimo processo si ha quando la merce non è più solo valore d’uso (dunque, un oggetto che soddisfa un bisogno, quale che sia) ma anche valore di scambio. Anche se si tratta di un motivo, su cui dovremo in seguito a lungo soffermarci, si noti che storicamente la comparsa del valore di scambio e della sua espressione in denaro è stata tematizzata come soluzione di continuità, come rottura della naturalità, nel senso della comparsa di una assurdità. In proposito, è assai significativo l’atteggiamento di J. Locke, per il quale l’ ampliamento dell’orizzonte economico non comporta differenze qualitative, dacché per il filosofo britannico il valore della merce continua a risolversi nel suo valore d’uso, anche se l’introduzione del denaro ha comportato mutamenti, che Locke sembra limitarsi a considerare deviazioni, assurdità, irrazionalità. Come leggiamo in E. Roll, Storia del pensiero economico, Boringhieri 1967: 106, influenzato dal mercantilismo, Locke “cercò di spiegare attraverso quale processo il denaro, che è per sua natura sterile, acquisti lo stesso carattere produttivo della terra, che produce qualcosa di utile.” Già col Manifesto Marx ha indicato nel capitalismo la forza, che spoglia ogni rapporto sociale di qualunque altro significato, che non sia quello

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economico; con ciò, il capitalismo viene a creare un dominio autonomo dell’ economia, di fronte al quale il soggetto si trova, contemporaneamente, all’esperienza di un groviglio di casualità, come anche all’ imporsi di una legge obiettiva ed esteriore. Di qui la ‘naturalizzazione’ del dominio economico; di qui -come applicazione particolare- lo vedremo meglio in seguito- il feticismo, che Marx così definisce: “ è solo il determinato rapporto sociale degli uomini stessi, che si dà la forma fantasmatica di un rapporto fra cose.” (Kapital. 1:86). Quando vuol descrivere come di fatto è organizzata la KPW, Marx recupera il significato hegeliano di ‘natura/naturale’, con la conseguente tematizzazione del feticismo delle merci. Ciò significa che chi vive entro l’ orizzonte immediato della KPW, -dunque, entro la dimensione, in cui tutto è merce messa in circolazione-, fa l’esperienza effettiva del feticismo, nel senso che il modo capitalistico di quella circolazione gli appare come un processo obiettivo e non il prodotto di una certa strutturazione della relazione sociale. Come esempio di cosa intendo per uso marxiano dell’ hegeliano <natura/naturale>, valga questa pagina: “Domanda e offerta si coprono sempre solo momentaneamente, in base alle precedenti oscillazioni di domanda e offerta, in base alla sproporzione tra costo di produzione e valore di scambio, ma queste oscillazioni e questa sproporzione seguono di nuovo poi alla coincidenza momentanea. Questo movimento reale, di cui quella legge è solo un momento astratto, casuale, parziale, viene preso dai moderni economisti come accidentale, come inessenziale. Perché? Perché nelle penetranti ed esatte formule, a cui essi riducono l’ economia politica, la formula fondamentale, a voler esprimere astrattamente quel movimento, dovrebbe significare: la legge è determinata nell’ economia politica dal suo opposto, dalla mancanza di legge. La vera legge dell’ economia politica è il caso, dal cui movimento noi scienziati fissiamo arbitrariamente alcuni momenti nella forma di legge.” (Marx, Scritti inediti di economia politica, Roma 1963: 5-6). D’ altra parte, proprio Hegel ci offre un disegno della vita economica all’interno della KPW, che rimarca come essa si presenti nella forma della mera accidentalità, del puro arbitrio, ma da questo brulichio universale degli arbitri si generano determinazioni universali, dacché risulta che quegli arbitri son, tuttavia, governati da una necessità e cogliere questa necessità è proprio il compito dell’economia politica (cf. Hegel, Le filosofie del diritto, Milano 1989:225-6). Per comprendere il nesso tra il problema qui posto e la concezione della <natura> come <esteriorità>, valga questa pagina di Hegel, Enzyklopödie. III : “Le differenze, in cui si articola il concetto di

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natura, sono più o meno esistenze autonome l’una dall’altra; tuttavia, a causa della loro unità originaria, son comunque in relazione reciproca, tanto che nessuna di esse può esser concettualmente compresa, prescindendo dalla loro connessione, la quale tuttavia, in una misura maggiore o minore, risulta qualcosa di esteriore.“ L’ ottica, che mi porta fuori del feticismo, è quella critica, la quale ha due caratteristiche: (a) nasce quando l’ oggetto ha raggiunto il punto di maturità, che consente già l’ emergere chiaro dei fattori contraddittori che gli son propri; (b) riscopre la matrice sociale dell’ economico stesso. In forza di (a), il punto di vista critico consente di vedere nella società esistente una delle possibili forme sociali e, in forza di (b), riesce a cogliere quale altra forma sociale si vada preparando all’ interno e per opera della stessa dinamica della KPW. Insomma, Il richiamo ad Hegel significa che Marx vede la KPW come realizzazione del momento, in cui il rapporto dell’ uomo con se stesso mediante le cose si capovolge in rapporto tra cose mediante l’ uomo: in tal modo, la relazione acquista, rispetto al soggetto, una sua autonomia e indipendenza, si oggettualizza e, dunque, si svolge secondo leggi, di cui l’uomo deve solo prender atto, perché sono a lui esterne; e, contemporaneamente, quella relazione si impone zufällig, come mero fatto naturale, ovvero in mancanza di una legge determinata e riconoscibile. Come è stato osservato, nelle Note [ai Pariser Manuskripte del 1844] compare … una diffusa analisi del carattere feticistico dello scambio, estremamente significativa per comprendere l'atteggiamento teorico di Marx e lo stretto legame che già nel 1844 unisce il feticismo dello scambio con l'alienazione del lavoro. Lo studio di questa analisi ha almeno un duplice senso: da un lato è una introduzione e nello stesso tempo un chiarimento delle pagine centrali dei Manoscritti dedicate al lavoro alienato; dall'altro lato è una risposta ante litteram di Marx a coloro i quali intenderanno poi vedere nel suo pensiero uno sviluppo dal concetto filosofico di lavoro alienato al concetto economico (o, se vogliamo, scientifico) di feticismo della merce.” ( P.A. Rovatti, Critica e scientificità in Marx, Feltrinelli 1973.: 27). Da quanto abbiamo visto fino ad ora, possiamo dire che in Das Kapital opera una contrapposizione, indubbiamente hegeliana, tra la concezione, da un lato, dell’oggetto (la KPW) come totalità organica, che ha entro di sé l’ insieme delle proprie parti e delle leggi, che le relazionano dinamicamente, e, dall’altro, una visione del reale, sollecitata proprio dalla stessa KPW, dominato dalla separatezza/esteriorità di quelle, che pure son parti della totalità sociale, e dalla esteriorità delle leggi, che ne strutturano la reale

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connessione ed interazione dinamica. Di qui l’effetto di ‘naturalizzazione’, o ‘oggettualizzazione’, che si realizza nell’oscillazione (apparente, ma in questo limite reale, effettiva) da casualità a necessità ‘positiva’. La totalità organica è il Vorbild, attraverso cui Marx vede il mondo della KPW e che ricava da Hegel -dir questo non significa concepire il Vorbild in termini di mèra mossa convenzionale o di mèro presupposto arbitrario: quel Vorbild o modello è <suggerito> da un’ intera storia del pensiero filosofico, come anche economico, e dalle sue difficoltà. Il tema del feticismo della merce si colloca qua dentro e, dunque, si lega all’ orientamento di Marx ad assumere come vero il modello in questione. Scienza o immediatezza, nella Vorrede dell’hegeliana Fenomenologia. Stefano Garroni 1 - Nella Vorrede (prefazione) di un’opera filosofica, si crede erroneamente –così nota Hegel1 - di poterne indicare l’essenza (intesa come lo scopo, che l’A. si è prefissato; il rapporto, in cui si trova la sua trattazione rispetto ad altri lavori, che hanno affrontato lo stesso argomento ed, in fine, il risultato a cui l’opera è pervenuta), contrapponendola, tale essenza, allo sviluppo, che la ricerca ha seguito per giungere ai suoi risultati. Ma ciò, avverte Hegel, non è confacente rispetto alla natura della cosa (cioè, l’essenza della filosofia) ed è, perfino, contrario allo scopo (dunque, la messa in chiaro di codesta essenza). Avendo, di fatto, sullo sfondo anche un orientamento, che fu dello scetticismo antico, e continuando a riflettere sul tema della Vorrede di un’ opera filosofica, Hegel chiarisce che offrire un’informazione storica a proposito della tendenza e della posizione (che caratterizzano la filosofia in questione), del (suo) contenuto generale e dei (suoi) risultati, oppure prender le mosse da un insieme ordinato di asserzioni ed assicurazioni, assunte e proposte senz’altro circa il vero –ecco il 1 - G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes. Werke 3, Suhrkamp 1998: 11 (d’ora in avanti: Hegel, PH.). Per la mia traduzione del testo, mi servo anche dell’ed. ital. curata da E. De Negri (Firenze 1973) e di quella francese, curata da J. Hyppolite (Paris, 1977).

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richiamo alla polemica anti dogmatica dello scetticismo antico-2, “non rappresentano il modo adatto di esporre la verità filosofica.” Insomma, ciò su cui Hegel vuol richiamare l’attenzione è che, partendo dall’essenza stessa della filosofia –che consiste nell’includere entro di sé il particolare-, si inferisce erroneamente che sia proprio nello scopo e nei risultati finali3, che quell’essenza si mostra più chiaramente, relegando, invece, ai margini, perché inessenziale, “lo sviluppo dell’indagine”, che ha condotto a quello scopo e a quegli esiti. Un analogo errore vien commesso anche riguardo la scienza (Hegel fa l’esempio della biologia), quando si crede che conoscere scientificamente equivalga a conoscere “parti separate dei corpi” –le quali, però, proprio perché così indagate, “risultano prive di vita” ed è chiaro che, fissa questa angolatura, la ricerca continua di una conoscenza più dettagliata del particolare non può far uscire dal limite di impostazione iniziale.4 Già da queste prime battute possiamo ricavare due osservazioni, destinate ad essere approfondite nel prosieguo del testo. Abbiamo visto che due sono gli errori di fondo, che Hegel stigmatizza, ovvero (i) la separazione tra risultato e percorso storico, che ad esso ha portato, perché è proprio il percorso, invece, che consente di ricostruire il senso (e il significato)5 dello stesso risultato; mentre la loro giustapposizione comporta, al contrario, l’intellettualistica separazione di un insieme. Da ciò deriva anche la secondo critica, ovvero (ii), la tendenza a stravolgere i processi, figurandoli come cose separate –ed è per questo, d’altronde, che si perde di vista l’intimità delle relazioni fra le diverse filosofie e ci si vorrebbe invece limitare a confrontarle tra di loro esternamente, quasi realtà intimamente esteriori l’una all’altra, e non fasi di un processo, che si svolge. Approfondendo questo punto, Hegel osserva che, per l’opinione, vero e falso sono così rigidamente opposti, che il confronto tra due sistemi filosofici non può dare come risultato se non la verità dell’uno e la falsità dell’altro, o vice versa; insomma, la diversità fra i sistemi filosofici non vien pensata come sviluppo progressivo della verità, quanto piuttosto, nella diversità, si vede solo la contraddizione. Ricorrendo ad una metafora, che incontriamo anche nelle pagine di Marx, così scrive Hegel: “Il bocciolo scompare nella nascita del fiore, si potrebbe dire che il primo è confutato dal secondo: così come il frutto 2 - Si ricordi il significato di dogma per lo scetticismo antico. 3 - Appunto, indeterminati particlari. 4 - Condanna, si potrebbe dire, alla cattiva infinità 5 - Questo è un tema da tener costantemente presente, ovvero quale rapporto si stabilisca in Hegel fra senso (Sinn) e significato (Bedeutung), che poi significa il rapporto fra storia e logica.

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rende il fiore un falso esserci della pianta; ed, in quanto loro verità, questo si presenta al posto degli altri. Non solo queste forme si distinguono, ma anche si respingono come intollerabili l’una rispetto all’altra. La loro fluente natura, però, rende, nello stesso tempo, quelle forme momenti dell’unità organica, in cui esse non solo non si contrastano, ma anzi si dimostrano l’una tanto necessaria quanto l’altra e la vita del tutto nasce proprio da questa uguale necessità.”6 Dunque, ancora una volta, ci troviamo di fronte alla critica anti-intellettualistica di Hegel, che denuncia l’effetto reificante del Verstand, perché incapace di cogliere il ritmo interno delle cose, il loro essenziale articolarsi in momenti. Sappiamo, però, che nonostante la sua radicalità, la critica hegeliana all’intelletto non comporta l’ esclusione di quest’ultimo dall’ambito della conoscenza scientifica; ed, infatti, precisa Hegel, se un simile fare –ovvero l’intellettualistica maniera di concepire il rapporto tra le filosofie e di definirne l’essenza-, “dovesse valere per qualcosa di più dell’inizio della conoscenza [sott. mia, SG], e se dovesse valere addirittura come effettiva conoscenza, nella realtà esso sarebbe da registrare fra i ritrovati, per girare intorno alla cosa stessa e per legare l’apparenza del conoscere reale e dell’impegnarsi intorno alla cosa, con il trascurare entrambi.” Dunque, pur nel suo limite, l’intelletto (Verstand) appartiene al processo della conoscenza, ne segna un ben preciso momento: quello della distinzione, della separazione; momento, che è essenziale, purché riesca a non irrigidirsi e a non perdere, così, il fluire delle cose ed il trascorrere delle contraddizioni nella mediazione, che le supera e ripropone ad un altro livello. Necessario, dunque, l’intelletto, come momento della conoscenza, nella stessa misura, in cui sappia trapassare –e negarsi- nella ragione o Vernunft. Tornando alla questione del senso e del significato di una filosofia, partendo da quanto sopra, Hegel ribadisce che la ‘cosa’ non è esaurita dal suo scopo, ma dal suo manifestarsi progressivamente (Ausführung); dunque, il risultato non è il tutto reale, ma piuttosto il tutto reale è il risultato, insieme al suo divenire. Esplicativo della prospettiva dialettica, è anche il prosieguo della pagina: lo scopo per sé è l’universale non vivente, come la tendenza è la tensione (Treiben), che ancora manca di una sua realtà, e il nudo risultato è il cadavere, che ha lasciato dietro di sé la tendenza. Per un miglior approfondimento, ricordiamo che, per Hegel, la vera configurazione (Gestalt), in cui la verità esiste, può essere solo il suo sistema scientifico: collaborare a questo, che la filosofia si avvicini alla 6 - Hegel, PH. : 12.

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forma della scienza, allo scopo di poter confermare il suo nome di <amore della verità>, passando ad essere sapere effettivo: “è questo che io mi propongo.” Se teniamo presente quanto letto finora, la posizione di Hegel ci risulta chiara: la forma scientifica è quella che consente di superare l’esteriore relazione soggetto/predicato, in quanto fa di quest’ultimo un’ esplicazione, dunque, qualcosa che nasce dallo svolgimento stesso del primo. Il risultato è che, nel suo movimento, nella sua storia, il soggetto non trova predicati, che gli si addicano; piuttosto li svolge da sé stesso, come espressione della sua interiore dinamica. E’ per questo che cercare di definire il senso e il significato di una filosofia, confrontandola con altre –come procede, sappiamo, l’intelletto- significa fallire l’obiettivo: il problema, infatti, è piuttosto quello di cogliere, attraverso il processo storico, proprio della filosofia in questione, il definirsi della sua particolarità, senso e significato.7 Giunta la riflessione a questo punto, chiariti, così, alcuni temi di fondo, Hegel esplicita ulteriormente la sua polemica. Posto che l’autentica configurazione della verità è nella forma della scientificità, ovvero –il che è lo stesso- dato che la verità ha solo nel concetto l’elemento della sua esistenza, ecco allora –osserva Hegel- che tutto ciò si mostra in aperta contraddizione con una presuntuosa rappresentazione e le sue conseguenze, largamente diffuse nei pregiudizi del nostro tempo. Infatti –prosegue l’argomentazione hegeliana- se il vero esistesse propriamente solo in ciò o, meglio, come ciò, che è chiamato sbrigativamente intuizione, immediato sapere dell’assoluto, religione, la conseguenza sarebbe che la rappresentazione della filosofia pretenderebbe addirittura l’opposto del concetto, vale a dire, il sentimento e l’intuizione. Non solo, ché inoltre il ruolo della parola non sarebbe quello di denotare e connotare un reale (distinguendolo così, da un altro), ma piuttosto di esprimere l’immediatezza del sentire. Il Bello, il Santo, la Religione e l’Amore sono l’esca, che è richiesta per 7 - In lingua più strettamente hegeliana, il concetto è tutta la determinatezza, ma come essa è nella sua verità. Dunque, pur se astratto, il concetto è tuttavia il concreto, ed appunto il puramente concreto, il soggetto in quanto tale. Per la nozione di concetto in Hegel, utile quanto scrive H. H. Holz, in AAVV, Interaktionen zwischen Philosophie und empirischen Wissenschaften, H.J.Sandkuehler (hersg.), Frankfurt/Main: 164.

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risvegliare il piacere di abboccare8: non il concetto, ma l’estasi, non la fredda progrediente necessità della cosa, ma l’esaltazione fermentante dovrebbero essere l’atteggiamento e l’espansione continua della ricchezza della sostanza. (sott.mia, SG). All’atteggiamento fin qui descritto, si contrappone l’impegno, affannoso e accanito, e uno zelo bruciante, a sottrarre gli uomini alla cecità del sensibile, del comune e del singolare, ed orientare invece il loro sguardo verso le stelle; come se, dimenticando completamente il divino, come vermi, essi fossero, di fatto, sul punto di soddisfarsi con polvere ed acqua. Vi fu un tempo –prosegue Hegel-, in cui gli uomini avevano un cielo con una grande ricchezza di pensieri e di immagini. Di tutto ciò che è, il significato era nel filo rosso, che lo legava al cielo; invece che sul presente, lo sguardo si soffermava al di sopra, all’essenza divina: se così si può dire, (si posava) su un presente al di sopra di questo (presente mondano). L’occhio dello spirito doveva per costrizione volgersi al mondano e fermarsi ad esso. Fu necessario un lungo periodo di tempo per introdurre (hineinarbeiten) quella chiarezza, che solo il sovramondano ha, nell’oscurità e confusione, in cui è immerso il senso dell’al-di-qua; e per rendere interessante e valida l’attenzione volta al presente come tale, denotato esperienza. Nel nostro tempo, invece, appare il bisogno (Not) dell’atteggiamento opposto, di radicare tanto profondamente il senso nel mondano, che richiede la stessa violenza, elevarlo al di sopra. Lo spirito si mostra tanto povero, che sembra vedersi ristorato solo dall’oscuro sentimento del divino in quanto tale, come il viaggiatore nel deserto da una semplice goccia d’acqua. Con ciò, con cui lo spirito si contenta è da misurarsi l’ampiezza della sua perdita. Chi cerca solo l’edificazione, chi cerca di avvolgere nella nebbia la mondana molteplicità del suo esserci e del pensare, e ricerca l’indeterminato piacere di questa indeterminata divinità, può facilmente stare a guardare dove trova tutto ciò; egli facilmente può raccontarsi, esaltato, qualcosa e con ciò trovare il modo di valorizzarsi. La filosofia, però, deve ben guardarsi dal voler essere costruttiva. Ed ancor meno questa sufficienza (Genügsamkeit = questo sentirsi soddisfatti), che deforma la scienza, deve avanzare la pretesa che una tale esaltazione e opacità sia qualcosa di più elevato che la scienza. Questo parlare profetico pensa di restare tanto rettamente nel centro e nel profondo, da guardare con disprezzo alla determinazione (il confine) e si mantiene intenzionalmente distante dal concetto e dalla necessità, come anche dalla riflessione, che ha la sua sede solo nella finitezza. 8 - <Mordre> traduce Hyppolite, op. cit.

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A questo punto – mi pare- possiamo meglio dettagliare l’obiettivo della polemica hegeliana, ricorrendo –come abbiamo fatto finora- ad uno stretto legame con il testo stesso di Hegel. Da un lato, -è questo che, in definitiva, Hegel sostiene,- è necessario esser consapevoli dei pregi e dei limiti dell’intelletto, per poterne utilizzare –ai fini della conoscenza scientifica- il suo nesso organico con la finitezza, senza pretendere, però, di arrestare a quel punto il processo dialettico della conoscenza stessa, - perché sappiamo che essa ha il suo compimento solo nella costruzione del concetto. Da un altro lato, dobbiamo ben guardarci dall’identificazione immediata (e perciò mistica)9 di finito ed infinito, di determinato ed assoluto, che caratterizza profondamente il pensiero del nostro tempo (e dobbiamo leggere quel ‘nostro’ non solo nel senso di contemporaneo all’epoca hegeliana, ma sì piuttosto nel senso più forte di a noi contemporaneo: basti pensare a quella ‘famiglia’ di posizioni e orientamenti, che costituisce il frastagliato universo del post-moderno. Nota mia, SG). Perché dobbiamo comprendere che se c’è una vuota estensione, che si dà nella molteplicità finita, senza la forza di tenersi unita; altrettanto c’è un’intensità priva di contenuto che, comportandosi come forza senza estensione, è lo stesso che la superficialità. Del resto, afferma Hegel con grande lucidità, non è difficile vedere che il nostro è un tempo di passaggio e della nascita di una nuova epoca. Lo spirito ha rotto col mondo precedente del suo esserci e della sua rappresentazione e sta per cacciare tutto ciò nel passato; nello stesso tempo, lo spirito è impegnato nell’attività di una sua riformazione. Dunque, lo spirito non è in pace, ma sempre preso in un movimento che si sviluppa. Ma come, nel caso di un bambino, dopo un lungo e tacito nutrimento, il primo respiro, come un salto qualitativo, interrompe la gradualità dello sviluppo solo quantitativo ed, ora, il bambino è nato; così matura lentamente lo spirito, che si forma e, silenziosa, la nuova configurazione scaturisce, dissolve –particella dopo particella- la costruzione del suo mondo precedente, il suo vacillare è significato solo da singoli sintomi; la spensieratezza come la noia, che si diffondono in ciò che persiste, il sospetto indeterminato di un che di sconosciuto, sono segni anticipatori che qualcosa di nuovo è in marcia10. Questo rompersi mano a mano, che non modifica la fisionomica dell’insieme, viene interrotto 9 - Si noti: si ha misticismo, quanto la relazione di A con B viene affermata, ma non dimostrata, esibendo il processo e le condizioni della sua formazione. 10 - E’ azzardato affermare che è il nostro tempo quello, che Hegel sta illustrando, il mondo a noi contemporaneo?

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dall’apparizione, dal lampo, che in una volta sola instaura il nuovo mondo. (18s, sott. mia). Solo che questo nuovo (19) ha tanto poco una compiuta realtà, quanto il bambino appena nato ed è essenziale non trascurare tale considerazione. 2 - La prima apparizione del nuovo è la sua prima immediatezza o il suo concetto11: tanto poco una costruzione è pronta, se son poste le sue fondamenta ed altrettanto poco il raggiunto concetto del tutto è il tutto stesso. Dove noi vorremmo vedere una quercia nella forza del suo tronco, nell’estensione dei suoi rami e nella massa delle sue fronde, non siamo soddisfatti, se al suo posto vediamo una semplice ghianda. Il senso della cosa è chiaro: il nuovo, quando appare, è già tutto nel suo concetto; ma quest’ultimo si presenta dapprima come un seme, che raccoglie ancora in sé implicitamente i propri predicati o qualità, come qualcosa che ha l’oscurità, appunto, dell’implicito : è solo nel movimento, nel processo storico che l’intensione si fa estensione, ovvero che i predicati si svolgono ed appaiono nel Dasein.

Così è la scienza, il coronamento di un mondo dello spirito, non ancora compiuto, al suo inizio. Dacché l’inizio del nuovo spirito è il prodotto di una lunga trasformazione di molteplici forme di cultura, il premio di un cammino assai intricato e, proprio perciò, è la multiforme tendenza ad impegnarsi. Come si vede, in Hegel, il ritmo, la scansione dello svolgersi della scienza è formalmente identico al ritmo della dialettica. Per cogliere ancora meglio questa intimità fra ritmo dello svolgimento dialettico e della scienza, consideriamo questa ulteriore pagina hegeliana. Il tutto è un inizio tale, che ritorna in sé dalla successione come, anche, dalla estensione: questo è il suo concetto divenuto semplice. Ma la realtà di questo semplice tutto consiste in ciò, che quelle configurazioni divenute momenti, di nuovo si ridanno come configurazioni, ma sviluppate nel loro nuovo elemento e senso. Poiché, da un lato la prima manifestazione del nuovo mondo è solo il tutto, ma velato nella sua semplicità, ovvero il suo fondamento generale, così alla coscienza la ricchezza dell’esserci precedente è presente ancora nel ricordo. La coscienza sente, nella configurazione che, nuova, si sta manifestando, la mancanza dell’ampiezza e particolarità del contenuto; ma ancora di più sente la mancanza dell’elaborazione della forma, per mezzo della quale le differenze son determinate con sicurezza e sono 11 - Si noti l’uso particolare, che fa, qui, Hegel di concetto/Begriff, che verrà chiarito nelle righe immediatamente successive.

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ordinate nei loro rapporti stabili. Senza questa elaborazione, la scienza manca della generale intelligibilità e sembra essere il possesso esoterico di qualche singolo; -un possesso esoterico, poiché essa è presente solo nel suo concetto o nella sua interiorità; di un singolo, poiché la sua manifestazione non espansa rende singolare il suo esserci. Proprio il modo in cui continua questa pagina è di grande importanza, per smorzare, almeno. la sicurezza della tradizionale lettura idealistica di Hegel. Ciò che è compiutamente determinato è, nello stesso tempo, essoterico, concepibile e capace d’esser conosciuto da tutti e d’esser, dunque, proprietà di tutti; la forma intelligibile della scienza è la strada per essa, a tutti aperta e costruita per tutti e per giungere, attraverso l’intelletto, all’essenza razionale, è la giusta esigenza della coscienza che si accosta alla scienza; poiché l’intelletto è il pensiero, il puro io in quanto tale; e l’intelligibile è il già conosciuto e quanto è comune alla scienza e alla coscienza non – scientifica, mediante cui immediatamente quest’ultima può entrare in quella.12 Come si vede, Hegel è ben lontano dallo svalutare la scienza e l’intelletto, che ne è uno strumento fondamentale; naturalmente, però, dobbiamo tener a mente anche lo stretto rapporto, che esiste fra scienza e concetto o Begriff, perché in questo modo riusciamo a cogliere sia il valore scientifico del Verstand, sia anche il limite entro cui quest’ultimo può operare. L ‘altra osservazione, che è bene non perder mai di vista, è che il sapere scientifico è da Hegel concepito come un processo, che si svolge nel tempo o, in altre parole, che una scienza non è all’inizio come sarà nella sua maturità, ovvero, solo nella sua maturità una scienza mostra appieno la propria novità e determinatezza rispetto alla tradizione.13 La scienza che comincia e che, perciò, ancora non conduce né alla completezza del dettaglio, né alla perfezione della forma, è per questo esposta al biasimo.14 Ma se questo biasimo dovesse concernere la sua essenza, sarebbe ingiusto, come è inammissibile non voler riconoscere 12 - Si noti il nesso tra coscienza non ancora scientifica e l’intelletto, il quale nesso si contrappone ad ogni tendenza esoterica,rendendo invece la scienza qualcosa, che è alla portata di tutti. 13 - E’ interessante notare come questo motivo sarà ripreso dall’anti-hegeliano Althusser. 14 - Ancora una volta, per comprendere una scienza nella sua determinatezza, è necessario coglierla non nel momento iniziale del suo apparire, ma nella maturità del suo sviluppo.

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l’esigenza di perfezionamento della stessa scienza. (p.20. Sott. mia, SG). Qui risulta chiarissimo l’atteggiamento di Hegel: né il limite essenziale dell’intelletto, né il fatto che la scienza sia un processo in espansione (e,dunque, dalla portata limitata in ogni sua fase determinata) possono giustificare un orientamento filosofico, che la critichi in toto, contrapponendo l’immediatezza della fede e dell’intuizione alla faticosa costruzione del concetto. La posizione di Hegel si chiarisce ulteriormente nella distinzione (e nella critica), che egli fa di due orientamenti, a lui contemporanei, che si contrastano a proposito della scienza. L’uno, è l’orientamento fichtiano, il quale insiste sulla necessità di un contenuto determinato e conserva la ricchezza delle determinabilità, mentre la totalità, l’assoluto, resta con tale orientamento un’esigenza mai soddisfatta.15 L’altro, è l’orientamento di Schelling, che certamente pone l’assoluto, la totalità, ma in modo irrazionale, perché sacrifica le determinabilità e le loro opposizioni qualitative. Naturalmente, il compito che Hegel si assume, segna un terzo atteggiamento, ovvero quello della costruzione scientifica dell’assoluto, attraverso la mediazione tra determinabilità e assoluto o totalità. L’orientamento fichtiano si caratterizza, precisa Hegel, per il commettere l’errore di applicare una e la stessa formula ad un molteplice materiale, che in questo modo risulta sì ordinato, ma secondo una regola che non nasce dal suo stesso movimento, dacché è esterno ad essa e che, dunque, le viene sovrapposto. La conseguenza, inferisce Hegel, è che l’idea indubbiamente vera resta, in realtà, sempre solo al suo inizio, posto che lo sviluppo in null’altro consista, se non in una ripetizione della stessa formula. L’unica immobile formula riferita dal soggetto conoscente a ciò che c’è (Vorhandenen), il materiale immerso dall’esterno nel calmo elemento, ciò, come le arbitrarie fantasie sul contenuto, è tanto poco il compimento di quanto è richiesto: esattamente, è ben diverso dalla ricchezza, che nasce da sé e dalla differenza di configurazioni, che determina se stessa. Si tratta invece di un formalismo monocromo, che arriva alle differenze della materia, solo perché questa [e, dunque, anche le sue differenze] è già pronta e conosciuta. Perciò tale formalismo afferma, come assoluto, questa monocromia e l’astratta generalità; lo stesso formalismo assicura che essere insoddisfatti di ciò significa l’incapacità di dominare il punto di vista dell’assoluto e di attenersi ad esso. Fa sempre parte della polemica antifichtiana una importante –anche se 15 - v. Hyppolite, op. cit.: 14n.

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rapida- osservazione di Hegel sul tema del possibile, non casualmente –è ovvio- messo in diretta relazione con un orientamento filosofico, che identifica la scientificità con il dominio di una forma, sempre identica a sé, che dall’esterno ordina le esperienze. Se –leggiamo in Hegel- la vuota possibilità di immaginare qualcosa anche in un altro modo, desse la possibilità di confutare una rappresentazione e la stessa pura possibilità, il pensiero generale, possedesse anche l’intero valore positivo dell’effettiva coscienza, allora vedremmo così attribuire tutto il valore dell’idea universale in questa forma dell’irrealtà e lo scioglimento del diverso e del determinato o, piuttosto, varrebbe come modo di indagine speculativa il fatto di precipitare queste differenze nell’abisso del vuoto, pur quando quel precipitare ancora non sia giustificato, per essersi sviluppato in se stesso.16 Com’è chiaro, la critica hegeliana si muove da una prospettiva, che già conosciamo: l’ordinarsi della ‘cosa’ fa tutt’uno col suo svolgersi e, dunque, la forma, che essa va nel tempo assumendo, è prodotta dal suo stesso svolgimento. Non è, dunque, nulla di esteriore, di sovrapposto, che si possa sostituire con una qualsiasi altra forma arbitraria. In questo senso, il possibile non definisce uno spazio, di cui il reale sia solo una regione, dacché al contrario è proprio il possibile a segnare uno spazio, interno al reale e, dunque, circoscritto da quest’ultimo. Per concludere, possiamo dire che la critica hegeliana all’orientamento filosofico à la Fichte si riassume in questo modo: indagare qualunque esserci, per come esso è nell’assoluto, consiste –per questa tradizione- in null’altro che nel fatto che se ne è parlato e che se ne è parlato come di un qualcosa. Ma nell’assoluto, nell’A = A, tuttavia, non vi è affatto qualcosa di simile, poiché in esso tutto è uno; Contrapporre alla conoscenza, che distingue ed è compiuta o cerca e richiede tale compimento, quest’unico sapere, che nell’assoluto tutto è uguale, o che vuole dare il suo assoluto per la notte, in cui –come si suol dire- tutte le vacche sono nere, quest’unico sapere, dunque, è l’ingenuità del vuoto nella conoscenza.- Il formalismo, che la filosofia contemporanea ha chiamato in giudizio e disprezzato, tuttavia essa stessa lo riproduce; anche se la sua inadeguatezza è nota e viene avvertita, non scompare dalla scienza, fino a che la conoscenza della verità assoluta sulla propria natura non sia divenuta completamente 16 - Anche questa critica hegeliana contro l’idealismo soggettivo di Fichte giunge a colpire posizioni filosofiche ben più recenti: si pensi all’ uso del <possibile>, che troviamo, nella tradizione empiristica e neopositivistica di lingua inglese, fino a giungere al contemporaneo Putnam.

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chiara.17 3 – C’è un nesso chiaro fra il modo, in cui Hegel concepisce il farsi della scienza da un lato, e la sua rappresentazione della sostanza vivente dall’altro: nel senso che, in entrambi i casi, l’enfasi hegeliana è sul movimento, sul farsi. La sostanza vivente –scrive Hegel- è l’essere: il quale in realtà è soggetto o, il che è lo stesso, è ciò che in verità è reale solo nella misura, in cui è movimento del porre se stesso o la mediazione con se stesso, del divenire altro da sé: il vero è solo questa ricostruentesi uguaglianza o la riflessione in se stesso nell’altro da sé. Non già un’unità originaria o immediata; piuttosto, il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone come suo scopo e che ha come cominciamento la propria fine e. solo mediante la realizzazione progressiva e la sua fine, è reale (p.22). D’altronde, è questa stessa concezione, che -sappiamo- sta al fondo, anche, del modo hegeliano di concepire la Vorrede di un’opera filosofica: in tutti e tre i casi (dello sviluppo della scienza, della sostanza vivente e del senso e significato di una filosofia), la questione è ricostruire il processo, che conduce ciascuna delle tre alla propria conclusione, ma sempre procedendo dal futuro della cosa, ovvero, dal suo punto di arrivo o di maggiore sviluppo e maturità.18 A questo punto possiamo considerare una pagina, che anticipa –e rende nulla- molta della critica a cui –fino ai nostri giorni- Hegel sarà sottoposto. Vediamo. La vita di dio –scrive Hegel- e il conoscere divino possono,dunque, essere bene espressi come un gioco dell’amore con se stesso; questa idea può degradarsi fin all’edificazione ed anche fino all’insipidezza, quando vengono a mancare la serietà, il dolore, la pazienza e il lavoro del negativo. In sé quella vita è l’intatta uguaglianza e unità con se stessa, a cui manca ogni serietà [di impegno] con l’esser-altro e con l’estraneazione, così come con il superamento di questa estraneazione. L’importanza della pagina sta nel sottolineare come non esista totalità hegeliana, senza quel suo interno travaglio, dato dalla presenza reale della contraddizione e, dunque, dell’altrettanto reale e costante sforzo,fatica di superarla. La serietà del vivere è appunto questo: riconoscersi all’interno di una contraddizione reale, ma anche della razionale possibilità, mediante faticoso impegno, di superarla. Se considero l‘In sé, senza le contraddizioni, che lo travagliano, ciò che ho in mano è solo “l’astratta universalità, in cui si è fatta astrazione 17 - Hegel, PH: 22. 18 - Ovvero, come direbbe Althusser, dalla piena giovinezza della cosa, che si ha solo al termine del processoo di sviluppo.

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dalla sua natura …, in generale dall’automovimento della forma. Quando l’essenza [Wesen] è detta uguale alla forma, diviene, per questo, un fraintendimento pensare che il conoscere si contenti dell’in sé e dell’essenza e che, invece, possa risparmiarsi la forma, poiché l’assoluto principio fondamentale o l’assoluta intuizione rendono superflui la realizzazione della prima [= das Wesen] o lo sviluppo dell’altra [= la forma]. Proprio perché la forma è tanto essenziale all’essenza, quanto l’essenza a se stessa, quest’ultima non va colta ed espressa solo come sostanza immediata, come autointuizione del divino, ma sì altrettanto come forma e in tutta la ricchezza della forma sviluppata; solo allora si può cogliere ed esprimere l’essenza come il reale.” Come si vede, torna il tema centrale: il vivente non è già appieno realizzato, nel suo semplice esser dato – ché, in questo senso, il tutto o l’essenza sono solo potenzialità di esistenze, che vanno mostrandosi nel corso dello sviluppo o svolgimento di ciò che, nel tutto e nell’essenza, esiste ancora implicite. E’ mediante il movimento che l’essenza va ponendo –o mostrando- le proprie forme e, dunque, va costruendosi nel Dasein come un tutto. Ed allora è chiaro che non è affatto fondata (né d’altronde sarebbe sufficiente) la pretesa dell’intuizione, del credere e del sentimento, di assicurare l’immediata apprensione del tutto e dell’essenza, prescindendo dalle loro forme e, dunque, dal processo storico della loro esplicazione; al contrario, l’effettiva conoscenza dell’essenza si ha solo, quando si abbia anche una chiara visione del suo disvelamento, del suo mostrarsi o esplicarsi. Esattamente in questo senso, non esiste conoscenza, se non in quanto mediata:: esplicitar le proprie forme significa, per l’essenza, darsi nell’altro da sé; ma questo darsi è anche un recuperarsi, nella misura in cui l’essenza si riconosce nella propria estrinsecazione.19 Così Hegel conlude: il vero è il tutto. Ma il tutto è solo l’essenza, che va compiendosi mediante lo sviluppo. Dell’assoluto va detto che è essenzialmente risultato, che alla fine è ciò che è in verità; ed in questo consiste, appunto, la sua natura , di essere, cioè, reale, soggetto e divenir se stesso. (sott. mie, SG). Di particolare efficacia esplicativa sembrano le osservazioni, che seguono immediatamente. Il cominciamento, il principio o l’assoluto come è immediatamente espresso, è solo l’universale: se dico tutti gli animali, questa parola può valere tanto poco per una zoologia, quanto capita alle parole divino, assoluto, eterno, ecc. di non esprimere quanto è contenuto in esse –ed effettivamente, tali parole non esprimono altro se non 19 - In Hegel è centrale, appunto, questo tema del riconoscimento.

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l’immediatezza della intuizione. (p.24). Ma non appena da tale immediatezza si voglia procedere oltre, ad es. ad una semplice proposizione, si fanno chiari i limiti insuperabili dell’immediatezza: ciò che è più di tali parole contiene,comunque, il passaggio a un divenir-altro, che deve esser ripreso attraverso una mediazione: ma proprio questa necessità di ricorrere alla mediazione, osserva Hegel, sembra (al pregiudizio moderno) comportare la rinuncia alla conoscenza dello stesso assoluto. E’ dunque un misconoscimento della ragione, quando la riflessione è esclusa dal vero e non concepita come momento positivo dell’assoluto [sott.mia, S.G.]. Quanto detto, prosegue Hegel, può essere espresso anche in questo modo, cioè che la ragione è un fare finalizzato; l’elevamento di una natura che si presume superiore a un pensare misconosciuto e, in primo luogo, l’aver messo al bando l’esterna finalizzazione, ha gettato nel discredito la forma del fine in quanto tale. Solo, come anche Aristotele determina la natura come fare determinato, lo scopo è l’immediato, il quieto, il non-mosso, che è esso stesso il movente. Così esso è soggetto. La necessità di rappresentare l’Assoluto come Soggetto, si è servita delle proposizioni: dio è l’eterno o l’ordine morale del mondo o l’amore, ecc. In queste proposizioni il vero è posto solo direttamente come soggetto, ma non come il movimento, che si rappresenta in se stesso. In una tale proposizione si comincia con la parola <dio>. Di per sé questo è un suono senza senso, semplicemente un nome; soltanto il predicato dice cosa egli è; soltanto il predicato ne è il suo riempimento e significato; il vuoto cominciamento è un sapere reale solo in questa sua fine.

II.Soggetto e movimento nella Vorrede hegeliana. 1 - Già per Aristotele –lo ha già ricordato Hegel- la natura è un fare determinato e finalizzato. Rispetto a questo fare, lo scopo è l’immediato, il non mosso, il quieto, che però è esso stesso il movente: per questo il fine o scopo del movimento è soggetto. Il risultato è solo lo stesso che il cominciamento, perché il cominciamento è scopo o fine. Lo scopo realizzato o l’effettualità esistente è movimento e divenire, che si svolge, e proprio questa irrequietezza è il Sé.20 La necessità di rappresentare l’Assoluto come Soggetto si è servita delle proposizioni: <dio è l’eterno o l‘ordine morale del mondo o l’amore, ecc.>; tuttavia, in queste proposizioni il vero è posto come 20 - Hegel, PH : 26.

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soggetto solo direttamente, ma non mediatamente, cioè non come movimento, che si rappresenta in se stesso.21 In una proposizione, come quella prima citata, si comincia con la parola <dio> : ma, di per sé, si tratta di un suono senza senso, semplicemente un nome; soltanto il predicato dice cosa egli è, ovvero ne è il riempimento e significato – il vuoto cominciamento è un sapere reale solo in questo fine o riempimento o predicato. Inoltre, mediante la parola <dio>, si mostra anche che è posto non un essere, un’essenza o un universale in quanto tale, ma un soggetto che si riflette in sé. Ancora una volta, però, ciò è solo anticipato: il soggetto è preso come un punto fermo, al quale i predicati sono agganciati come al loro sostegno, e non ne son ricavati come momenti del suo svolgersi. Solo mediante il movimento, tuttavia, il contenuto può rappresentarsi come soggetto. Nel modo in cui questo movimento è fatto, dunque, non può appartenere al soggetto; poiché col presupposto di quel punto fermo, il movimento può solo essere esteriore. Dunque l’ anticipazione, secondo cui l’assoluto è soggetto, non solo non è la realtà di questo concetto, ma la rende addirittura impossibile, perché lo pone come un punto placido, mentre il soggetto è automovimento. Di grande importanza –rimarca Hegel- è ciò che deriva da quanto detto e che, ancora una volta, richiama la critica scettica classica ai principi o dogmata. Il sapere, ribadisce Hegel, è realmente scienza o sistema, perché, di per sé, un enunciato fondamentale o principio della filosofia, se pur è vero, già per questo è anche falso, nella stessa misura in cui è solo enunciato fondamentale o principio22: è perciò facile confutarlo, consistendo tale confutazione nel porre in luce che quel principio, poiché mera proposizione fondamentale o principio, è incapace di sviluppare da sé stesso –se non appellandosi ad asserzioni gratuite e casuali, messe in opera dall’esterno- un processo di dispiegamento, lo svolgersi di una serie di predicati. Insomma, ancora una volta, la difficoltà deriva dal fatto che esso è solo principio e non movimento, processo. Che il vero sia realmente solo come sistema o che la sostanza essenzialmente sia soggetto, è espresso nella rappresentazione, che pone l’assoluto come spirito, - il concetto più alto, quest’ultimo, che appartiene al nostro tempo e alla sua religione. 21 - Si ricordi lo Hegel, che sosteneva l’impossibilità, nel definire l’essenza di una filosofia, di separarne il risultato dal movimento percorso, per giungervi. 22 - Al quale può sempre contrapporsi un altro enunciato fondamentale o principio, dalla pari dignità logica.

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Solo lo spirituale è il reale; esso è l’essenza o ciò-che-è-per-sé: il rapportantesi e il determinantesi, l’esser-altro e l’esser-per-sé – e ciò che resta in se stesso in questa determinatezza e in questo esser-altro; ovvero, esso è in- e per-sé. Ma questo esser-in-e-per-sé è per noi o in sé, esso è la sostanza spirituale. E deve esser ciò anche per se stesso, deve essere il sapere dello spirituale e il sapere di sé come dello spirito, cioè deve essere a sé come oggetto, ma appunto come oggetto immediatamente superato, riflettentesi in sé. Esso è per sé solo per noi, in quanto il suo contenuto spirituale è prodotto da se stesso, così è questa autoproduzione, il puro concetto, è a lui parimenti l’elemento oggettivo, in cui esso ha il suo esserci, ed in questo modo esso è, nel suo esserci per sè, oggetto riflettentesi in sé. Lo spirito, che così si è svolto e che si sa come spirito, è la scienza. [Sott. mia, S.G.]. Se la scienza è il regno o realtà effettiva dello spirito, l’individuo ha, da parte sua, il diritto di pretendere che la scienza gli procuri almeno la guida verso questo punto di vista, indicandoglielo in lui stesso. Il diritto dell’individuo si basa sulla sua assoluta autonomia, che l‘individuo sa di possedere in ogni forma (Gestalt) della sua essenza: perché in ognuna –sia o no riconosciuta dalla scienza e quale che ne sia il contenuto- l’individuo è l’assoluta forma, cioè è l’immediata certezza di se stesso, è perciò l’essere incondizionato. 2 - Già nel 1802, leggiamo in Hyppolite,23 Hegel diceva che, in rapporto alla coscienza comune, <il mondo della filosofia in sé e per sé è un mondo rovesciato>, ma proprio la Fenomenologia è esattamente il passaggio da questa coscienza comune alla filosofia. Senza l’immediata coscienza di sé, la scienza risulta priva della realtà effettiva; la scienza dunque s’eleva alla coscienza di sé, nello stesso momento in cui quest’ultima s’eleva alla scienza.> Insomma, se per la scienza il punto di vista della coscienza è quello del sapere cose oggettive, che sono in contraddizione con la coscienza stessa; come anche quello del sapere sé in contraddizione con quelle stesse cose obiettive, - per la coscienza (immediata) invece l’elemento della scienza è un lontano al di là, in cui la coscienza non più si possiede. Ognuno di questi due lati appare essere per l’altro il rovescio della verità. Che la coscienza naturale24 si fidi immediatamente della scienza è un tentativo, che essa fa, pur non sapendo cosa la trascini a ciò, di 23 - Hégèl, Phénoménologie de l’Esprit, traduction de J, Hyppolite, vol. I : 24 nota 44. 24 - Ovvero, la coscienza immediata.

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camminare sulla testa.25 Il divenire della scienza in quanto tale o del sapere–ribadisce Hegel- è quanto la Fenomenologia dello spirito espone: il sapere come esso è dapprima, cioè lo spirito immediato, è il privo di spirito, ovvero la coscienza sensibile. 26 Per divenire propriamente sapere o per produrre l’elemento della scienza, che è il suo puro concetto, lo spirito deve affaticarsi per un lungo cammino. Questo divenire, per il suo contenuto e per le forme, che si mostrano in lui, si costruirà, ma non come ci si immagina la guida alla scienza, per una coscienza non scientifica. E sarà diverso anche dalla fondazione della scienza, - come sarà ben altro dall’entusiasmo, che, come un colpo di pistola, inizia immediatamente dall’assoluto sapere, liberandosi subito di altri punti di vista, dichiarando di non volerne saper nulla. 27

Il compito di condurre l’individuo dal suo punto di vista incolto fino al sapere, va inteso nel suo significato generale e l’individuo universale, lo spirito autocosciente va studiato nella sua formazione. – Per ciò che riguarda il rapporto di entrambi28, nell’individuo universale si mostra ogni momento, come esso conquisti la propria forma concreta e la propria configurazione. L’individuo particolare è lo spirito incompleto, una figura concreta, nel cui intero esserci domina una determinatezza e in cui le altre son presenti solo in modo sfumato. Nello spirito che sta più in alto di un altro, il concreto esserci di minor rilievo è abbassato ad un momento, che non appare; ciò che prima era una cosa, ora è solo ancora una traccia; la sua figura (Gestalt) è velata ed è divenuta una semplice ombra. L’individuo, la cui sostanza è lo spirito che sta al livello più elevato, percorre questo passato nel modo stesso, in cui chi si applica ad un’alta scienza, percorre le conoscenze preparatorie, che egli possiede da molto tempo, per rendersene presente il contenuto; egli ne richiama il ricordo, senza avere da trattenersi in questo, né fermarvi il suo interesse. Il singolo deve anche percorrere, nel loro contenuto, i gradini della formazione dello spirito universale, ma come figure di cui lo spirito si è spogliato (ablegen), come tappe di una strada che è stata portata a termine e ben livellata;29 così noi vediamo ciò, che nei tempi più antichi ha impegnato lo spirito maturo degli uomini, abbassato a conoscenze, esercitazioni e addirittura giochi per 25 - Hegel, Ph.: 30. 26 - Su questo motivo è interessate tener presente il §. 418 e il Zusatz della Enciclopedia hegeliana. 27 - Hegel, Ph: 31. 28 - gli individui. 29 - Ricorda il marxiano serpente, che abbandona lungo la strada le pelli, che ha indossato.

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i giovani e nel progresso pedagogico riconosciamo, quasi in forma schematica, la storia della cultura del mondo. Questa esistenza passata è già divenuta proprietà dello spirito universale, che costituisce la sostanza dell’individuo, mentre a lui appare esternamente come natura inorganica. 30 Se analizzata dal lato dell’individuo, la cultura consiste nel fatto che l’individuo eredita questo presente, lo vive come sua natura inorganica e se ne impossessa. Invece, dal lato dello spirito universale, in quanto sostanza, la cultura consiste nel dare a se stessa la propria autocoscienza, nel produrre in sé la propria riflessione e il proprio divenire. La scienza come rappresenta, nella sua configurazione, questo movimento formativo dettagliatamente e nella sua necessità, così rappresenta ciò che era già abbassato a momento e proprietà dello spirito. Lo scopo è la visione dello spirito riguardo a ciò che è il sapere. L’impazienza domanda l’impossibile, propriamente il raggiungimento dello scopo senza il mezzo. Da un lato, la lunghezza di questa strada va sopportata, poiché ogni momento è necessario; dall’altro, bisogna soffermarsi in ognuno di tali momenti, poiché ognuno è un’intera figura individuale e ha da essere analizzato assolutamente, nella misura in cui la sua determinatezza viene analizzata come tutto o il concreto o come il tutto nella originalità di questa determinazione [sott. mia, S.G.]. Poiché la sostanza dell’individuo, poiché lo spirito del mondo ha avuto la pazienza di percorrere queste forme nel lungo snodarsi del tempo e l’immane lavoro della storia del mondo, in cui lo spirito del mondo in ognuna delle forme ha configurato l’intero contenuto, di cui quella forma è capace e poiché non poteva raggiungere la coscienza intorno a sé con minor lavoro, così l’individuo non può, secondo la cosa, afferrare la propria sostanza con minor impegno; tuttavia, per l’individuo la pena è minore, poiché in sé lo scopo è compiuto – il contenuto è già la realtà ridotta alla possibilità, l’immediatezza forzata, la figurazione è già ridotta alla sua abbreviatura, ad una semplice determinazione del pensiero. In quanto pensato, il contenuto è proprietà del soggetto; non è più l’esserci nella forma dell’essere-in-sé, non più puramente originale né calato nell’esserci, ma l’in-sé ricordato, da convertire nella forma dell’esser-per-sé. Dobbiamo analizzare più da vicino il modo di questo fare. Dal punto di vista da cui noi assumiamo qui questo movimento, ciò che ci è risparmiato è il superamento dell’esserci, ma ciò che è restante e che ha bisogno di una più alta trasformazione, è la rappresentazione e la famigliarità con le forme. 30 - Hegel, Ph. : 32s.

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L’esserci, tornato nella sostanza, mediante questa prima negazione, è ora posto solo nell’elemento del sé; questa proprietà da lui acquisita ha dunque ancora lo stesso carattere dell’immediatezza non concettualizzata, dell’indifferenza immobile come lo stesso esserci; questo è solamente passato nella rappresentazione. – Ugualmente, esso è con ciò un che di ben noto (ein Bekanntes), un qualcosa, con cui lo spirito essente ha chiuso la partita (fertig werden mit) e, dunque, qualcosa, su cui non si sofferma più né la sua attività, né il suo interesse. Se l’attività, che ha chiuso con l’esserci (fertig wird), è solo il movimento del particolare, non è lo spirito che si comprende. Il sapere è invece indirizzato contro la rappresentazione che così si è realizzata, contro il noto; il sapere è il fare del sé universale e l’interesse del pensiero.31 Il noto in quanto tale, proprio perché è noto, non è conosciuto32 E’ la più comune autoillusione e illusione, nel caso del conoscere, quando si presuppone come ben noto qualcosa e di ciò ci si accontenta; con il gran discorrere disordinato che se ne fa, non si capisce come mai non si vada né avanti né indietro appunto rispetto a quel noto. Il soggetto e l’oggetto e così via, dio, natura, l’intelletto, la sensibilità ecc. son posti, senza accorgersene (unbesehen), come noti e come qualcosa di valido che stia al fondo e costituiscono punti fermi sia per l’andata che per il ritorno. Il movimento si svolge su e giù tra di essi che, da parte loro, restano fermi e quindi solo in superficie. Anche la comprensione e la prova consistono in questo, cioè nel vedere se qualcuno trova anche nella sua rappresentazione ciò che egli stesso ha detto e se gli appaia addirittura ben conosciuto, oppure no. Come di solito avveniva, l’analizzare una rappresentazione non era altro che il superamento della forma del suo esser nota. Sciogliere una rappresentazione nei suoi elementi originali è il ritorno ai suoi elementi, che almeno non hanno la forma della rappresentazione già trovata (già data. SG), ma sì costituiscono l’immediata proprietà del sé. Questa analisi perviene a pensieri, che sono rappresentazioni ben note, stabili e calme. L’attività del dividere è la forza e il lavoro dell’intelletto, del potere più stupefacente e più grande o, piuttosto, del potere assoluto. L’ambito, - che chiuso in sé riposa e come sostanza mantiene i suoi momenti -, è il rapporto immediato, che per questo non ha nulla di stupefacente. Che l’accidentale, però, in quanto tale, diviso dal suo ambiente; che il legato, e solo nella sua connessione con un altro effettuale, guadagnino un proprio esserci e una libertà separata, è [il risultato 31 - Hegel, Ph. : 35. 32 - Das Bekannte überhaupt ist darum, weil es bekannt ist, nicht erkannt. (p.35).

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della] immensa forza del negativo; è l’energia del pensare, del puro io. (p. 36).

Già più di una volta abbiamo avuto modo di vedere come una chiave di lettura dell’opera di Hegel sia la critica a <ciò che è morto>, nel senso di separato, ovvero, il cui Dasein -a quanto sembra- prescinde da una complessa rete di relazioni, da cui invece deriva, di fatto, la sua effettiva, storica presenza e il suo puntuale significato. <Il morto>, insomma, si presenta come l’insuperabile soluzione di continuità di un circolo: quasi una ferita, che impedisca all’insieme di essere un tutto. In questo senso, il <morto> è l’intelletto, per la sua essenziale relazione con la differenza. Ma è anche qualunque forma di conoscenza, che pretenda sottrarsi alla mediazione –la quale, al contrario, è l’unico mezzo per togliere quella ’ferita’, che costringe l’insieme alla frantumazione. L’Io, il Soggetto, lo Spirito, la Vita son tutte figure, la cui caratteristica essenziale è di non sottrarsi alla capacità dilacerante del ‘morto’, del ‘rigido’, del ‘negativo’ (in questo senso). Sì piuttosto quelle figure sanno affrontarlo a viso aperto, inglobarlo in sé e con ciò stesso superarlo: “… la Vita … non ha paura della morte … si conserva dalla devastazione e, dunque, la sopporta e in essa si conserva.” (p. 36) Da parte sua, “lo Spirito conquista la propria verità, perché sa ritrovar se stesso nell’assoluta dilacerazione. Lo Spirito è questa potenza non in quanto positivo, che si guarda bene dal negativo [sott.mia, SG], come quando noi di qualcosa diciamo ‘questo è nulla, oppure è falso’ e, dunque, prontamente passiamo ad altro: sì piuttosto lo Spirito è questo potere, perché guarda in faccia il negativo, si sofferma presso di esso [sott.mia, SG]” (p. 36), e così lo recupera all’interno del suo ciclo vitale, creativo. E’ questo il potere magico dello Spirito (Zauberkraft), la capacità sua di trascinare il negativo nell’essere, trasformandolo in un suo momento interno. Codesta Zauberkraft è una caratteristica essenziale dell’attuale fase di sviluppo dello spirito: infatti, se il modo di studiare del tempo antico coincideva col processo di formazione della coscienza naturale e se quest’ultima si mostrava come universalità attiva –perché andava cercandosi in ogni esserci e in ogni avvenimento; oggi lo Spirito non si cerca più nell’altro da sé (che in questo modo viene confermato, appunto, come altro), ma cade in un diverso vicolo cieco. Oggi –ed è questa la novità- “trova già elaborata la forma astratta; la sollecitazione ad afferrarla e farla propria è più l’immediato venir fuori

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dell’interno e la produzione monca dell’universale, che un emergere di quest’ultimo dal concreto e dalla molteplicità dell’esserci.” (p.37) Oggi, il problema, “la fatica non consiste tanto nel fatto che l’individuo si purifica dal mondo immediatamente sensibile per farsi pura sostanza pensata e pensante, quanto piuttosto nell’opposto, ovvero, nel superamento dei pensieri rigidi e determinati, e così nello spiritualizzare e realizzare l’universale (p.37).

La disuguaglianza che si trova nella coscienza tra l‘io e la sostanza, che è suo oggetto, è la loro differenza, il negativo in quanto tale. Il negativo può esser visto come la mancanza di entrambi. Ma è anche la loro anima e ciò che fa muovere entrambi, per questo alcuni antichi pensavano il vuoto come ciò, che muove, poiché essi concepivano già il movente come il negativo, ma non ancora coglievano questo come il sé. – Quando ora il negativo appare in primo luogo come l’ineguaglianza dell’io rispetto all’oggetto, il negativo è altrettanto l‘ineguaglianza della sostanza con se stessa. Ciò che sembra giungere al di fuori della sostanza, e che sembra anche essere un’attività contro di essa, è il suo proprio fare, ed essa si mostra essere essenzialmente soggetto. Mentre la sostanza mostra ciò pienamente, lo spirito parifica il suo esserci alla sua essenza; lo spirito è per se stesso oggetto, così come esso è e l’astratto elemento dell’immediatezza e della divisione del sapere e della verità vien superato. L’essere è assolutamente mediato; - esso è contenuto sostanziale, appunto la proprietà immediata dell’io, ha il carattere dell’immediatezza. Con ciò si chiude la pagina hegeliana.

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Dal casuale all’ente sociale Uomo e socialità: da Locke a Hegel.

“A dissipare questa confusione delle sinistre, originata dal perdurare di vecchi interessi, anche intellettuali, possono giovare, almeno parzialmente, degli sforzi di esposizione e chiarificazione e rielaborazione rigorosa del marxismo (così poco conosciuto veramente!) …” (Galvano Della Volpe, 1945).

Parte Prima: uomo e società §. 1: John Locke. 1 - Nel primo capitolo del suo Montesquieu. La politica e la storia, L. Althusser osserva che “la storia di Bossuet33 pretende di essere affatto universale: tutta la sua universalità consiste però nel dire che la Bibbia ha già detto tutto, tutta la storia essendovi compresa al modo in cui una quercia è compresa nella ghianda.”34 L’osservazione di Althusser va accolta, nel senso che si può affermare –sia pure schematizzando e, dunque, semplificando- che, fino all’Illuminismo (dunque, grosso modo, fino alla seconda metà del Seicento35), i concetti di storia, tradizione, credenza ereditaria, Bibbia, tendono a risolversi l’un nell’altro. 33 - J-B. Bossuet (1627-1704), Discours sur l’histoire universelle, pubblicato nel 1681. Vedilo, oggi, in Paris Garnier-Flammarion 1966. 34 - L. Althusser, Montesquieu. La politica e la storia, Roma 1969: 14. 35 - In questa prospettiva, un ruolo importante è giocato da Spinoza, il cui Tractatus theologico-politicus (1670) “aprì una via nuova allo studio storico della Bibbia, e specialmente all’analisi critica del Vecchio testamento. Spinoza ebbe l’audacia di abbandonare, anzi di attaccare, il principio dell’ispirazione lettarale. Egli lesse la Bibbia non più come un libro sacro dettato dallo spirito santo, ma come un libro umano, e vi trovò ogni specie di umane incoerenze, errori ed incongruenze. Con ciò pose le premesse di una nuova concezione storica del Vecchio e del Nuovo testamento, preparando la via a quella critica

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In altre parole, possiamo dire che –in epoca moderna36- assistiamo alla contrapposizione fra sostenitori dell’esperienza e della storia (dunque, della tradizione, della credenza ereditaria, della Bibbia) da un lato37, e sostenitori della critica intellettuale dall’altro, i quali ultimi non considerano convalidate un’asserzione o un’istituzione perché storiche, ma sì, unicamente, in quanto giudicabili coerenti con la critica intellettuale e, dunque, da questa accettabili, riconoscibili.38 Ma tale pura contrapposizione tra intelletto e storia, tra esperienza e critica39, caratterizza solo un primo momento: perché proprio da tale contrapposizione nasce, poi, una nuova concezione del fatto storico, non più accolto per come ci vien trasmesso dalla tradizione, ma sì per come risulta, dopo un vaglio critico da parte dell’intelletto.40 biblica che nel corso del Sette e Ottocento avrebbe assunto così grande importanza negli studi storico-religiosi.” (E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, Bari 1985: 106). 36 - A.M. Iacono indica quello compreso fra XVII e XVIII secolo come il periodo, in cui –con Hobbes e Spinoza particolarmente- si è cercato di eliminare “le recours aux êtres surnaturels (Dieu, le démons …) dans la description des faits historiques …” (A.M. Iacono, Le fétichisme. Histoire d’un concept, 1992: 7). Tuttavia, la contrapposizione fra razionalismo e storia non nasce in epoca moderna, dato che la si trova già in Platone (v. A. Koyré, Introduction à la lecture de Platon suivi de Entretiens sur Descartes, Paris 1962: 109). 37 - Così il giovane Marx a proposiuto della Scuola storica del diritto: “una scuola che giustifica l’infamia di oggi con l’infamia di ieri; una scuola che dichiara ribelle ogni grido dei servi della gleba contro lo staffile, perché lo staffile è uno staffile storico; una scuola alla quale la storia, come il dio d’Israele al suo servo Mosè, mostra soltanto il suo a posteriori …” (Annali franco-tedeschi, Milano Del Gallo 1965: 127s). 38 - Si tenga presente anche quest’ osservazione: “Nel periodo di Tubinga e di Berna Hegel riteneva ancora che la polis greca, in quanto repubblica, potesse essere restaurata dalla Rivoluzione francese; ma che l’essenza del repubblicanesimo antico potesse essere colto in base al concetto kantiano di libertà e della sua radicalizzazione. Così i concetti fondamentali per Hegel sono quelli di moralità e positività: la moralità è l’autodeterminazione in base alla ragione (l’autodeterminazione a partire dalla libertà), la positività, al contrario, è l’essere determinato dall’esterno mediante la tradizione e l’autorità esterna.” (O. Pöggeler, Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito, Napoli 1986: 75). 39 - La rigida contrapposizione tra storia e ragionamento la si trova chiaramente espressa, ad es., nella “Préface” al Traité du vide (1651), contenuto in B. Pascal, De l’esprit géométrique. Entretien avec M. De Sacy. Ecrits sur la grâce et autres textes, Paris 1985: 57. 40 - Non è improbabile che questo passaggio da una ad un’altra concezione del fatto storico –dunque, la liberazione della storia dalla dipendenza diretta dalla tradizione religiosa- sia stato sollecitato, o almeno favorito, anche dalla

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Naturalmente, qui va fatta una precisazione, in realtà ovvia; ovvero, se effettivamente a partire dal secondo Seicento si svolge il processo di cui stiamo parlando, tuttavia, sarebbe erroneo ed ingenuo affermare che si tratti di un’autentica novità, di un mutamento di scenario culturale del tutto inedito. Le cose non stanno così, perché non stanno (quasi mai) così: si può dire, in generale, che l’originalità di un periodo storico non consiste tanto in ciò che in esso avviene, quanto forse nel modo in cui avviene. Nel nostro caso, ad es., E. Garin così può affermare a proposito del Rinascimento: “il mito del ritorno alle origini e alla natura, che nel suo momento polemico si presenta come antistorico e rivoluzionario [comprendiamo perfettamente l’accostamento di questi due aggettivi, se teniamo presente quanto detto finora. Nota di S.G.], si capovolge e, giunto al momento costruttivo, si trasforma in una scoperta del processo dinamico della realtà e dell’uomo attraverso la spinta e la guida delle ragioni insite nelle cose.” 41 Dunque, Garin ci descrive, in un’epoca ben precedente rispetto a quella che a noi interessa, lo svolgersi di un fenomeno strettamente analogo, a quello di cui noi diciamo. Nulla di inedito, dunque; ma certo è vero che le condizioni sociali e culturali del Sei – Settecento essendo diverse rispetto alle rinascimentali, il processo che in tale periodo si svolge presenta caratteristiche proprie, anche se non tali da smentirne la forte analogia con il precedente. Insomma, punto da fissare è questo: un segno dell’epoca moderna è offerto dal cambiamento del concetto di esperienza, che consiste nel passaggio dalla sua identificazione con un tradizionale sentire, rappresentare e pensare, al suo concepirsi, invece, come vaglio critico della percezione e della tradizione, in questo senso, dell’evidenza42. necessità di garantire la pace religiosa da parte dello Stato. In proposito, cf. G. Solari, La filosofia politica. I. Da Campanella a Rousseau, Bari 1974: 92s. 41 - E. Garin, in Propilei.6.Il Rinasimento e le grandi civiltà extra-europee. Milano 1980: 509. 42 - Utile lettura in proposito è quella di “I genitori di Mignon”, in W. Goethe, Racconti, Milano 1995. Ma soffermiamoci su una pagina di Locke: “L’immaginazione non s’arresta mai nel suo movimento ed è capace di suggerire una varietà di pensieri; la volontà, poi, lasciata da parte la ragione, si dispone a qualunque stravagante progetto. Colui il quale procede in questa condizione d’esser diretto dall’immaginazione, può esser sicuro d’avere molti seguaci. E quando la moda avrà sancito ciò che la follia avrà cominciato, allora il costume lo renderà sacro e sarà divenuto segno di imprudenza e di pazzia volerlo contraddire o anche, solo, porlo in questione.” (J. Locke, Two Teatise of Government, Book I, chapt. VI, London 1884: 116). In questo testo si noti non solo la contrapposizione fra immaginazione e intelletto critico, ma anche il

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Si tratta di un mutamento, che ha due radici fondamentali: nel nuovo standard di pensiero che si va imponendo sulla base di cambiamenti profondi della forma di vita; ma anche nel complicarsi della nozione di esperienza, per motivi, che sono interni alla ricerca scientifica ed alla riflessione filosofica. A questo punto, torniamo ad Althusser, citandone un’altra pagina che, oltre a problemi che qui non possiamo affrontare, contiene pure alcune osservazioni, coerenti con quanto abbiamo visto finora. “ In effetti –e per essenza sua-, il pragmatismo fa decadere il nostro interrogativo al livello dell’ideologia: è ideologica, infatti, la risposta che gli dà. Il pragmatismo –in piena similitudine con l’ideologia idealistica della <teoria della conoscenza>-, non va in cerca d’altro, se non di una garanzia. La sola differenza è che, mentre l’idealismo classico non si contenta di una garanzia de facto ma ne pretende una de jure (che, però, noi sappiamo essere né più né meno che il travestimento giuridico di uno stato di fatto), il pragmatismo da parte sua va in cerca proprio di una garanzia de facto. E questa è la riuscita pratica che, spesso, è il solo contenuto riconoscibile anche del cosiddetto <criterio della pratica> … Il bell’argomento, secondo il quale la prova del pudding sta nel mangiarlo ! Ma ciò che veramente ci interessa è, invece, il meccanismo, capace di assicurarci che ciò, che stiamo mangiando a colazione è effettivamente pudding e non piuttosto un cucciolo d’elefante a bagno-maria! … Per centinaia o, addirittura, per migliaia d’anni la ripetizione (della prova pratica) ha prodotto, ad esempio, ‘verità’ come la resurrezione di Cristo, la verginità della Madonna, insomma, tutte le ‘verità’ della religione, tutti i pregiudizi della spontaneità umana, dunque, tutte le ‘evidenze’ acquisite dall’ideologia, quale che sia il loro grado di rispettabilità!”43 Si vede bene come la pagina d’Althusser sia consonante col moderno orientamento enti-empiristico, ovvero con la consapevolezza che se la forza dell’immediato è elevata a criterio dell’evidenza, allora ci si dispone ad accogliere contenuti, credenze, in nessun modo vincolate a regole e condizioni razionali d’accettabilità. E così si finisce col credere perfino all’immacolata concezione. Tornando al Seicento, entro certi limiti è vero che la contrapposizione tra le due concezioni della storia, a cui accennavamo, sta alla base anche della differenza tra autori, che affermavano l’origine dello Stato in un atto arbitrario e consapevole (il contratto sociale), e quelli, invece, che la collocavano su un terreno ‘naturale’ (in quanto né legame, che Locke stabilisce tra immaginazione, messa a tacere della ragione, costume, tradizione. 43 - L. Althusser, “Du ‘Capital’ à la philosophie de Marx”, in Lire le Capitale. Tome I, Paris 1965: 72.

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consapevole né arbitrario né giuridico-politico), che era poi la famiglia.44 Va da sé che un senso di tale contrapposizione sta nell’accettazione o meno di una prospettiva ‘intellettualistica’ - voglio dire quella prospettiva, che pone all’origine dello Stato (ma in realtà del comportamento morale in generale) non già l’evolversi in un certo modo delle condizioni di vita ‘naturale’ degli uomini, ma sì l’arbitrio di singole volontà, che tra loro contrattano sulla base di un calcolo45. Anche qui va osservato che difficilmente nella storia effettiva si presentano contrapposizioni nette e rigide, le quali piuttosto servono, nei manuali scolastici, a disegnare schematicamente dinamiche e tensioni, che nei fatti si implicano, invece, si richiamano reciprocamente e passano l’una nell’altra. Ad es., leggiamo che: “Locke ha mischiato tra loro due punti di vista incompatibili: secondo il primo punto di vista, tanto gli individui quanto le istituzioni compiono un’opera socialmente utile, regolata dal governo per il bene di tutti e nel quadro della legge che fa del gruppo una comunità: questo punto di vista, che Locke aveva ricevuto dalla tradizione medievale giuntagli attraverso Hooker, presuppone evidentemente … la realtà corporativa o sociale della comunità; il secondo punto di vista, elaborato da Hobbes, concepisce invece la società come un insieme di persone che agiscono per moventi egoistici, che guardano alla legge ed al governo per la loro sicurezza di fronte a compagni egualmente egoistici, e che mirano alla maggiore quantità di bene privato compatibile col mantenimento della pace.”46 Altre due citazioni, per caratterizzare meglio l’ambiguità di Locke. 44 - E’ ben nota l’origine aristotelica di questo tema: per una semplice ma precisa informazione intorno a ciò, cf. L. Robin, Storia del pensiero greco, Torino 1951: 326ss. Sembra del tutto chiaro che la prospettiva dialettica –di Hegel e di Marx- si collega proprio a questa secondo linea (per così dire della ‘naturalità’ dello Stato), nel duplice senso che tematizza la fondazione dello Stato extrapoliticamente e nel senso che non intende il processo fondativo come un che di necessariamente o completamente cosciente e volontario. Tenendo presente ciò, desta qualche meraviglia questo giudizio: “Lo Stato è concepito da Hegel in una maniera completamente diversa da tutta la tradizione precedente: tutta la tradizione precedente a partire da Hobbes ... sostiene una concezione contrattualistica: per il contrattualismo che è proprio di Hobbes, di Spinoza, di Locke, di Rousseau, di tutti quelli che precedono Hegel, viene prima l’individuo e poi lo Stato.” (Gargano, L’idealismo tedesco. Fichte, Schelling, Hegel, Napoli 1995: 96). 45 - Per come razionalismo ed empirismo possano testimoniare di situazioni e collocazioni politico-sociali diversi, cf. L. Goldmann, Introduction à la philosophie di Kant, Paris 1967: 42ss. 46 - Così scrive G. Bedeschi introducendo i Saggi sulla legge naturale di J. Locke, per le edizioni Laterza 1973: XXV-XXVI.

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“La religion de Locke47 est d’abord la foi dans un ordre morale et physique immanent au monde. C’est pourqoi sa pensée se situe si aisèment en continuitè avec la pensée antique, avec le cosmos d’Aristote, ou avec le cosmos des Stoiciens. C’est l’ordre qui est supreme, et dans les oeuvres des hommes, c’est aussi l’ordre qui doit l’être, et par la loi.” “Locke … rappresenta per Tawney il punto culminante del processo di dissoluzione dell’immagine medievale della società e la sua diretta antitesi, che maturerà definitivamente nel diciottesimo secolo.”48 Abbiamo visto che l’ambiguità lockiana può esser connotata, anche, come compresenza nel pensiero del filosofo inglese di elementi d’origine stoica, ma pure epicurea. Compresenza, alla cui base c’è il fatto che Locke “concepì i rapporti di famiglia e di proprietà sul fondamento non della legge civile, ma della legge di natura49. Mentre il Grozio50 e l’Hobbes51 … invocarono la natura per negare la possibilità di costruire su di essa un qualsiasi ordinamento giuridico e, mediante il patto, crearono l’ordine civile come ordine superiore di ragione contrapposto o sovrapposto all’ordine originario di natura, dominato dagli istinti e dagli appetiti, il Locke nega, almeno teoricamente, il dualismo tra ragione e senso, tra stato di natura e stato civile: la natura è essa stessa ragione, o meglio va intesa e interpretata razionalmente, per cui lo stato civile non sarebbe che lo stato naturale alla luce di una sana e illuminata ragione.”52 47 – R. Polin, La politique morale de John Locke, Paris 1960: 3. 48 – G. Bedeschi, op. cit.: LXXXIV-V. 49 – Forma italianizzata di H. van Groot (1583-1645). 50– Thomas Hobbes (1588-1679). 51- C’è una legge naturale, che governa lo stato di natura –afferma Locke. Questa legge obbliga ognuno e la ragione –che è questa stessa legge- ammaestra ognuno, basta che questi desideri consultarla. La legge –naturale e razionale, ad un tempo- apprende che tutti essendo uguali e indipendenti, nessuno deve essere minacciato o offeso nella sua persona, nella sua libertà o nei suoi beni (J. Locke, London 1884: 193s). Si noti come Locke dia per ovvia l’esistenza della proprietà privata, già nello stato di natura. Comunque, che esista una socialità, precedente l’esistenza dello Stato, è tema che troviamo sia in Platone che in Aristotele (Koyré, Paris 1962: 110). 52 - G. Solari, op.cit.: 252s.

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Ecco l’elemento stoico: questa concezione della ragione, come qualcosa che non si contrappone alla natura, ma che è in essa, che è la ragione della stessa natura. Di qui, la possibilità di svolgere ulteriormente la razionalità, ma non in contrapposizione alla natura, sì piuttosto in continuità con essa. In altre parole, questo significa che l’ordinamento propriamente statuale (ovvero, politico-giuridico) non ha nella vita ‘naturale’ (sessuale ed economica) il suo contraltare, il suo nemico –una dimensione, voglio dire, che sia necessario negare, perché possa elevarsi la costruzione civile-; sì al contrario, lo Stato, l’ordinamento giuridico-politico, non sono altro che esplicitazione e potenziamento della razionalità, che è già nella vita naturale, ovvero, economica e sessuale. "Nei seguaci dell'empirismo filosofico, nel Locke, nello stesso Hobbes si può rilevare la tendenza a identificare lo stato naturale prepolitico dell'umanità con lo stato di libera esplicazione dell'attività economica. Questo stato naturale costituito di interessi privati, per l'egoismo che lo informa, per i contrasti che genera, fu dagli uni negato e risolto nella vita dello Stato sovrano; ma da altri fu proclamato lo stato vero, originario, in cui tutti gli uomini ragionevoli convengono anche senza un esplicito patto d'unione53. Tale stato ha leggi, organizzazione, vita sua propria e sta all'ordine politico come ciò che è naturale e spontaneo sta a ciò che è volontario e artificioso. "54 Per comprendere meglio come Locke tenda non già a contrapporre ma sì a coniugare natura e ragione; e per intendere più a fondo quali importanti conseguenze da ciò derivino, facciamo attenzione a questa pagina di Yolton. “I Pensieri sull'educazione55 ci dicono come l'istitutore, o i genitori, devono lavorare (sulle) caratteristiche (spontanee) della natura umana, guidandola e formandola, imbrigliando le passioni e le emozioni e usandole per plasmare il bambino fino a farlo diventare un essere morale. L'uomo morale è in primo luogo un essere abituato alla virtù, ma che in questo abituarsi lotta contemporaneamente per l'intelletto. Il processo educativo prende le mosse dalla natura umana di base, e cerca di rivestire questa natura di razionalità, una razionalità che è intrinseca alla natura umana, ma che rischia di essere offuscata dalla parte affettiva della stessa natura umana. Il processo dell'educazione, del crescere in una famiglia, consiste nel passaggio progressivo dall'uomo all'uomo morale. La meta è porre in essere una persona responsabile e consapevole di sé. Il termine «persona» per 53 - In forza, sappiamo, della razionalità, che è già nella natura. 54 - G. Solari, op. cit.: 227s. 55 - J. Locke, Some Thoughts Concerning Education, (1693).

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noi è alquanto comune, mentre per Locke diviene un termine specialistico e quasi tecnico.”56 Come si vede, la prospettiva di Locke (che non è dubbio si collega ad una precisa tradizione classica –si possono citare addirittura Socrate e Platone) non ha nulla di misantropico. Nel senso che il risultato dell’opera di incivilimento –vale a dire la persona-, certamente non si identifica con l’uomo naturale; certamente deriva da un processo di manipolazione, di trasformazione di quest’ultimo; ma, tuttavia, non si contrappone a quest’ultimo –come invece capita, ad es., con Hobbes. Se il mondo civile è il mondo della legge e dell’ordinamento razionale, questo stesso mondo non sta a significare, però, una soluzione di continuità, una cesura con il dominio della natura. E ciò capita, esattamente perché il mondo naturale ha già in sé –sia pure al solo livello economico e sessuale- una razionalità oggettiva, è già diretto da una legge, che s’impone senza bisogno d’autorità esterne. O, meglio, una razionalità, che fino ad un certo punto trova in sé stessa la forza di tenere a bada quell’immediata sensualità, quell’incurante cupidigia che, se lasciate a se stesse, impedirebbero la socialità naturale, la quale invece esiste. L’equilibrio che così si stabilisce, tuttavia, è instabile: di qui la necessità di elaborare strumenti nuovi, che lo consolidino. E questi strumenti sono –va da sé- quelli della vita politica e civile: l’educazione, appunto, e l’ordinamento giuridico-politico dello Stato. Che per Locke lo stato di natura non sia un luogo di puro disordine, ma ben al contrario il momento in cui si esprime una naturale razionalità, è ben sottolineato da Yolton quando nota che, secondo Locke, “ogni individuo ha il potere e il diritto di legiferare nei termini della legge di natura, e il potere e il diritto di far rispettare questa legge”57; “le azioni degli uomini saranno giudicate dalla comunità, sia nello stato di natura che nella società di Locke; da una comunità di cittadini nel secondo caso, dalla comunità del genere umano nel primo.”58. Come si vede, è talmente vero che lo stato naturale è un momento della razionalità, che Locke prevede, già in esso, la possibilità che le azioni umane vengano valutate secondo uno standard, offerto dalla legge naturale.59 56 - J. W. Yolton, John Locke, Bologna 1990: 36. Per l’importanza, in Hegel, del nesso persona/libertà moderna, v. E. Cafagna, La libertà nel mondo, Bologna 1998: 39. 57 - Yolton, op. cit.: 77. 58 - Yolton, op. cit.: 81. 59 - E’ chiaro che, se vale il punto di vista di Locke, se dunque l’individuo è naturalmente immerso in una situazione di razionalità e socialità, la sua successiva evoluzione in persona (la quale non può darsi, in mancanza di un

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2 - Il contrasto fra concezione della storia come esperienza tramandata, da un lato, ed intelletto critico, dall’altro, com’è evidente, mette in questione due concetti in primo luogo: quello di fatto e quello di testimonianza accettabile a riprova del fatto stesso.60 Di qui risulta immediatamente chiaro che codesto contrasto interessa ambiti diversi: quello religioso –se si tien conto del ruolo che tradizione e miracolo giocano nel contesto delle grandi religioni monoteistiche; quello storico, ovviamente, ma, anche, quello giuridico (che cosa legittimamente è un fatto e una testimonianza, per un tribunale?), nonché quello epistemologico (è evidente, infatti, che cambia il concetto di scienza e di procedura scientifica, se muta la nozione di fatto e di testimonianza o prova). Dunque, il dibattito sui miracoli è un esempio di come nella storia dell’esperienza umana si presentino nodi, in cui si intrecciano –influenzandosi l’un con l’altro, a differenza di quanto avviene nella percezione hegeliana61- fili diversi e da cui scaturiscono derivazioni diverse. Nodi, che è importante districare, per potersi orientare in prospettive o terreni differenti. Ma torniamo ad esaminare da vicino la riflessione sui miracoli, proprio allo scopo di metterne in evidenza l’importanza implicita per la concezione dello Stato, della politica, come anche per gli altri ambiti, a cui accennavamo. Così scriveva Locke, nell’aprile del 1681: “"La religione, essendo quel tributo di omaggio e di obbedienza che l'uomo rende direttamente a Dio, presuppone che l'uomo sia capace di conoscere che c'è un Dio, e che cosa egli richiede o gli è gradito, al fine di evitare la sua collera ed ottenere il suo favore. Che un Dio esista e che cosa sia quel Dio, nulla, se non la ragione naturale è in grado di farci scoprire o di farci giudicare. Infatti, qualunque scoperta noi riceviamo diversamente, deve venire originariamente dall'ispirazione, la quale è un'opinione o una persuasione dello spirito, di cui un uomo non conosce l'origine o il motivo, ma vi è accolta come una verità che proviene da una causa consapevole ordinamento razionale comune), non fa che approfondire, consolidare la socialità umana. Questo significa, in altre parole, che Locke non può tematizzare la libertà in contrapposizione né alla natura né alla società.; Locke non può ammettere una libertà assoluta, ma sempre socialmente equilibrata. Su questo, cf. in particolare Yolton, 1990: 52ss. 60 - Se è vero, naturalmnte, che Max Horkheimer era consapevole di questa distinzione, tuttavia, va sottolineato come la sua analisi del pensiero di Locke –e di Hume- fosse, proprio rispetto ad essa, largamente ingenerosa: cf. in particolare M. Horkheimer, Teoria critica (II), Einaudi 1974: 91. 61 - Mi riferisco, ovviamente, a come Hegel svolge il tema della Wahnehmung, nella Fenomenologia.

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sconosciuta e pertanto soprannaturale, e non fondata su quei principi o su quelle osservazioni o su quel modo di ragionare che fa sì che l'intelletto accolga altre cose come verità. Ma tale ispirazione circa Dio e il suo culto non può essere ritenuta vera da colui che si reputa ispirato, né tanto meno da chiunque costui voglia persuadere, se essa non è conforme con i dati della sua e della loro ragione. E questo non solo perché dove la ragione non riesce a giudicare è impossibile per un uomo distinguere tra ispirazione e fantasia, tra verità ed errore, ma anche perché è impossibile ritenere che Dio abbia creato una creatura per la quale sia indispensabile la sua conoscenza e che tuttavia egli non possa essere conosciuto per quella via che ci permette di conoscere ogni altra cosa che ci riguarda, ma che debba entrare nelle menti degli uomini soltanto per quella via, tramite la quale vi entrano tutti i generi di errori e che è la più idonea a lasciare entrare tanto il falso che il vero, poiché nessuno può dubitare, considerando la contraddizione e la stravaganza delle opinioni riguardanti Dio e la religione che ci sono nel mondo, che è probabile che gli uomini abbiano più fantasie che ispirazioni"62 E’ interessante come in questa pagina Locke usi un argomento della religiosità più tradizionale (le credenze e le pratiche di culto, volte a non disgustare dio e ad ottenerne, invece, i favori –dunque, una sorta di donnant -donnant tra uomo e dio, il primo impegnandosi ad accettar come vere certe asserzioni e a praticare determinati riti; il secondo, concedendo in cambio favori e sostegni pratici). Ma prenda le mosse da tale concezione, per colpire alla radice la religiosità stessa. Infatti, se dio è la fonte della razionalità naturale, sarebbe contraddittorio immaginare –prosegue Locke- che lo stesso dio possa pretendere, ad un tempo, che per riconoscerlo ed onorarlo, gli uomini debbano contrastare quella ragione, che proprio lui ha donato. Come si vede, la concezione ‘mercantilistica’ della religione (cioè, la più comune e ‘popolare’), nelle mani di Locke, si rovescia nell’affermazione che il ruolo centrale e dirimente va riconosciuto alla ragione naturale. Due altri argomenti, qui usati da Locke, vanno sottolineati, anche per la loro importanza e ‘fortuna’ storica (ben al di là, ovviamente, della problematica religiosa). Intendo non la negazione del ruolo della tradizione e della testimonianza, ma sì il suo riconoscimento a patto che non contrasti con le esigenze della razionalità. Con tutta evidenza si tratta di una posizione non riduzionistica (ovvero, che non valuta accettabili solo enunciati razionali); di una posizione che, al contrario, lascia spazio a componenti diverse dalla razionalità in quanto tale (qui, la testimonianza e la tradizione), vincolandole però 62 - v. J. Locke, Scritti etico-religiosi, a cura di M. Sina, Torino Utet 2000: 191.

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alla necessità di non violare le regole della stessa razionalità. A questa non chiusura in un riduzionismo razionalistico si accompagna, tuttavia, in Locke la consapevolezza che le facoltà della psiche umana diventano attendibili strumenti conoscitivi, se e solo se vengono sottoposte a vincoli precisi, che sono dati dalla ragione, appunto, non solo per la sua legalità formale (le regole della logica), ma sì anche perché è solo la ragione che può decidere cosa possa autenticamente essere un fatto, un asserto, una testimonianza. Per chiudere su questo punto, consideriamo altre due pagine di Locke, che non sembrano richiedere, ormai, particolari chiarimenti. "La ragione deve giudicare che cosa sia miracolo e che cosa non lo sia, cosa che è molto difficile da determinare, non conoscendo quanto si estenda il potere delle cause naturali e quali strani effetti esse possano produrre. Sarà sempre un grande miracolo il fatto che Dio alteri il corso delle cose naturali per capovolgere nell'uomo i principi della conoscenza e dell'intelletto, stabilendo che sia accettato come una verità qualcosa, cui la sua ragione non può dare il consenso, come il miracolo stesso. Così, nella migliore delle ipotesi, vi sarà un miracolo contro un altro miracolo, ed il più grande sarà ancora dalla parte della ragione, poiche è più difficile credere che Dio alteri e faccia uscire per una volta dal suo normale corso qualche fenomeno del grande mondo, e faccia considerare le cose in contrasto con il loro corso naturale, di proposito al fine che lo spirito dell'uomo possa fare così sempre in seguito, di modo che egli non consideri mai così strano ciò che è un inganno o un effetto naturale di cui egli non conosce la causa ...E se l'ispirazione ha un così grande svantaggio nei confronti della ragione nell'uomo stesso che è ispirato, quanto di più ne avrà in colui che riceve questa rivelazione soltanto da un altro e per di più molto distante nel tempo e nello spazio." 63 "Domenica 19 febbraio 1682. Una persuasione forte e ferma circa una qualche proposizione riguardante la religione, della quale un uomo non ha nessuna prova o nessuna prova sufficiente dalla ragione, ma che egli accoglie come verità introdotta nello spirito in modo straordinario da Dio stesso e come influsso proveniente immediatamente da lui, mi sembra essere fanatismo; essa non può essere per nulla prova o fondamento di certezza e non può in nessun modo essere considerata conoscenza. ... è certo ... che contraddizioni ed errori non possono venire da Dio, e nessuno che è seguace della vera religione può essere rassicurato di qualcosa in un modo in cui coloro che sono seguaci di una religione falsa possono essere o sono ugualmente confermati nella loro."64 63 - Locke, op. cit.: 192 64 - Locke, op. cit.: 193.

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3. – Che la legge di natura, proprio in quanto legge, -osserva Locke- non sia conosciuta da noi attraverso la tradizione, mi sembra provato dagli argomenti seguenti. Primo, perché di fronte a una così grande varietà di tradizioni in conflitto fra loro sarebbe impossibile stabilire che cosa sia la legge di natura, difficile giudicare esattamente che cosa è vero, che cosa è falso, che cosa è la legge, che cosa l'opinione, che cosa impone la natura, che cosa l'interesse, che cosa consiglia la ragione, che cosa fa parte degli insegnamenti impartiti dal potere politico. Dal momento che infatti sono dovunque così diverse le tradizioni, così chiaramente opposti e in conflitto fra loro i giudizi degli uomini, non solo se viventi in nazioni diverse, ma anche nello stesso Stato (ogni opinione che abbiamo appreso dagli altri costituisce infatti una tradizione); dal momento che infine ognuno si batte con tanto impegno in favore della propria opinione e pretende di essere creduto, sarebbe evidentemente impossibile, se fosse soltanto la tradizione a stabilire il fondamento del nostro dovere, riconoscere quale sia mai tale tradizione, oppure scegliere la verità in tanta diversità. Non si può infatti fissare una ragione del perché quest'uomo piuttosto che un altro, le cui asserzioni sono esattamente contrarie, debba essere investito dell'autorità della tradizione dei padri, o perché ad esso si debba prestar fede più facilmente, a meno che la ragione non trovi una qualche differenza nelle cose stesse che vengono tramandate e aderisca perciò a un'opinione rifiutando l'altra, in quanto quest'ultima è dotata, rispetto alla prima, di una minore evidenza riconoscibile con il lume di natura. Questo modo di procedere non significa certo credere alla tradizione, ma bensì giudicare direttamente delle cose stesse, il che distrugge ogni autorità della tradizione. Per concludere, o nel conoscere la legge di natura resa nota dalla tradizione si deve usare la ragione e il discernimento, e allora è inutile parlare di tradizione, oppure, secondo un'altra ipotesi, la legge di natura non può rendersi nota attraverso la tradizione, o infine la legge di natura non esiste affatto. Poiché la legge di natura è una sola e identica in tutti i luoghi, mentre le tradizioni sono diverse, è necessario di conseguenza o che la legge di natura non esista affatto, o che non sia conoscibile in questo modo. In secondo luogo, se la legge di natura si dovesse apprendere dalla tradizione, si tratterebbe in questo caso di fede piuttosto che di conoscenza, in quanto dipenderebbe dall'autorità di chi parla più che dall'evidenza della cosa in sé, e quindi sarebbe in definitiva una legge ricevuta dall'esterno più che una legge innata.65 In terzo luogo, quanti 65 - Si faccia attenzione a questa costruzione, da cui risulta che una legge è detta innata, in quanto non espressiva di una imposizione, che venga dall’esterno, da una volontà (e da una ragione), in cui il soggetto non si

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sostengono che la legge di natura si conosce per tradizione sembrano contraddire se stessi: chi voglia infatti guardarsi indietro e perseguire la tradizione proprio fino all'origine, dovrà pur necessariamente fermarsi a un certo punto e riconoscere infine un qualche autore da cui questa tradizione prende inizio, il quale abbia trovato questa legge scritta dentro il suo cuore oppure sia pervenuto alla conoscenza di essa per forza di argomentazioni a partire dalle cose percepite dai sensi. Questi modi di conoscenza spettano tuttavia nella stessa misura a tutti gli altri uomini, e non c'è allora alcun bisogno di tradizione, in quanto ognuno reca in sé i medesimi fondamenti del conoscere … Concludiamo pertanto che se esiste una legge di natura (il che nessuno ha negato), in quanto è legge, non può essere conosciuta attraverso la tradizione.” 66 Un supino atteggiamento verso la tradizione (o, in altre parole, la sua accettazione positiva) incorre, secondo Locke, in due difficoltà, che vale la pena sottolineare perché giocano, entrambe, un ruolo importante nello scenario del pensiero moderno.67 In primo luogo, Locke, riflettendo sull’intelletto umano, insiste nel richiamare l’attenzione sull’ambiguità delle facoltà mentali, dunque, sulla loro inattendibilità sine prova. Il che, ovviamente, significa che quanto l’esperienza, le sensazioni, ci comunicano, -quale che sia il grado di vivacità del messaggio, come che sia forte la sua icasticità pitturale68-, va sottoposto, comunque, ad una prova, al rispetto di leggi e regole, che non giacciono sul piano della sensibilità, ma sì su quello dell’intelletto riflettente.69 In secondo luogo –e questo è un tema, che già nella citazione precedente era possibile cogliere-, il costume, l’abitudine, la tradizione possono finire col sancire qualche bizzarria (purché frequente) riconosca e che, piuttosto, consideri straniera a sé. Dunque, una legge è innata, in quanto non positiva (secondo il significato che, anche in Hegel, ha l’espressione positività, ad es. nel contesto <positività della religione cristiana>). Anche per Hegel, l’alternativa all’esteriore positività e data dal riconoscimento da parte del soggetto della razionalità della legge. La portata anti-positiva della riflessione di Locke appare bene, ad es., in Locke, 1973: 3ss. 66- Locke, 1973: 18s. 67 - Il che ovviamente non significa che solo in epoca moderna siano state tematizzate. 68 - Mi riferisco alla concezione dell’immagine mentale come picture. 69 - Questo senso dell’ambiguità delle facoltà mentali è, ovviamente, centralissimo nella riflessione psicoanalitica: per fare un solo –ma stimolante- esempio, si pensi all’attenzione che F. Bacon, John Locke e S. Freud volgono a fenomeni come l’ironia e il gioco di parole –se così possiamo rendere l’intricato ed ampio significato del termine inglese wit e del tedesco Witz.

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dell’immaginazione, se non sono sottoposti al controllo ed al giudizio della ragione o intelletto (Locke non distingue tra i due termini). Il che implica, come sappiamo, che la stessa tradizione, lo stesso costume possono effettivamente pretendere a validità, se e solo se possono conquistarsi l’assenso della ragione. Da quanto detto finora, il modo in cui Locke affronta la questione del rapporto tra (stato di) natura e dimensione civile (o Stato politico) appare tutt’altro che semplice. Nel senso che, come abbiamo visto, affermando una razionalità naturale, Locke concepisce la condizione pre-politica già essa stessa come luogo di una socialità, guidata da semplici principi razionali, alla portata dell’uomo comune. In questo senso, abbiamo accennato al fatto che Locke valorizza–quali momenti di socialità- le relazioni famigliari, intese come vita sessuale, come cura per la prosecuzione della specie e, dunque, come attività economica e produttiva.70 Sarebbe errato, tuttavia, ricavare da ciò che, secondo Locke, lo Stato politico nasca per semplice prolungamento, a dir così, della vita famigliare: non per caso, infatti, Locke polemizza contro il secentesco Patriarcha; or, the Natural Power of Kings, in cui Robert Filmer intendeva mostrare come il potere politico dei sovrani fosse diretta prosecuzione dell’autorità paterna nella famiglia. La mediazione tra le due posizioni (l’affermazione di una socialità naturale ma, anche, di una soluzione di continuità tra natura e politica), per Locke, sta nel fatto che la condizione naturale è inevitabilmente soggetta ad una continua incertezza, in cui la prepotenza e il misconoscimento degli altrui diritti non incontrano sufficienti ostacoli. Di qui la necessità del passaggio ad una nuova condizione, quella, appunto, dello Stato politico, che non potrà essere valutato in diretta continuità con relazioni, più semplicemente naturali.71 70 - “Adamo fu creato come uomo completo (perfect), il suo corpo e la sua mente erano nel pieno possesso della loro forza e ragione; fin dal primo momento, dunque, fu capace di provvedere ai propri bisogni immediati e di prospettiva, sottoponendo le proprie azioni ai dettati di quella legge di ragione (law of reason), che dio gli aveva direttamente inculcato … La legge, che doveva governare Adamo, era la stessa destinata a governare la sua intera posterità, ovvero, la legge di ragione. Ma poiché i suoi discendenti (offspring) fecero il loro ingresso nel mondo in modo diverso dal suo, cioè attraverso una nascita naturale, per cui nacquero ignoranti e senza l’uso della ragione, essi non si trovano al presente sotto il dominio di quella legge (della ragione).” (Locke, 1884: 218). 71 - Ovviamente, in ciò si sostanzia la critica di Locke al ‘paternalismo’ di R. Filmer. Va notato che già Platone, nel dialogo Politico, rifiutava la prospettiva paternalistica (cf. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, Firenze 1968: 617).

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§. 2: J. J. Rousseau. 1 - La più utile e meno progredita fra tutte le conoscenze umane mi sembra sia quella dell' uomo; ed oserei dire che la inscrizione del tempio di Delfo72 da sola contenesse un precetto più importante e difficile che tutti i grossi libri dei moralisti. Perciò io considero l' argomento di questo discorso come una delle questioni più interessanti che la filosofia possa proporre, e, disgraziatamente per noi, come una delle più spinose a risolversi per i filosofi: poiché, come conoscere la fonte della disuguaglianza fra gli uomini, se non si cominci dal conoscer se stessi? e come l'uomo verrà mai a capo di vedersi tal quale natura l'ha formato, attraverso tutti i cangiamenti che la successione dei tempi e delle cose ha dovuto produrre nella sua costituzione originaria e di svincolare ciò che deve alla sua essenza intima da ciò che le circostanze ed i suoi progressi hanno aggiunto o mutato nel suo stato primitivo?"73 Per dar maggiore forza alla sua convinzione, Rousseau cita una pagina della Storia naturale di Buffon74, dunque, di uno scienziato che rappresentava, a quei tempi, un’autentica autorità. “Qualsiasi interesse abbiamo a conoscere noi stessi, scriveva Buffon, non so tuttavia se non conosciamo meglio tutto ciò che non sia noi. Provvisti dalla natura di organi unicamente destinati alla nostra conservazione, non li adoperiamo che a ricevere le impressioni esterne; non cerchiamo che di espanderci all'esterno e di esistere fuori di noi; troppo occupati a moltiplicare le funzioni dei nostri sensi e ad aumentare l.' estensione esteriore del nostro essere, di rado facciamo uso di quel senso interiore, che ci riduce alle nostre vere dimensioni, e che separa da noi tutto ciò che non ne fa parte. Tuttavia di questo senso dobbiamo servirci se vogliamo conoscerci; solo per suo mezzo possiamo giudicarci. Ma come dare a questo senso la sua attività e tutta la sua estensione? come svincolare la nostra anima, nella quale esso risiede, da tutte le illusioni del nostro spirito? Abbiamo perduta l' Analogo rifiuto del paternalismo lo troviamo in Kant, come mostra K. Vorländer, “Kant und Marx”, in AAVV, Marxismus und Ethik, Frankfurt/Main 1974: 289s. 72 - Il famoso gnoti se autón (conosci te stesso), a cui si improntava la filosofia di Socrate. 73 - J. J. Rousseau, "Discorso sulla disuguaglianza". Prefazione, in J. J. Rousseau, Discorsi e Contratto sociale, Bologna 1971: 43s. 74 - G. L. Leclerc, conte di Buffon (1707-1788). Grande naturalista, la sua opera principale –uscita tra il 1749 e il 1789- e la Histoire naturelle.

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abitudine di adoperarla; essa è rimasta senza esercizio in mezzo al tumulto delle nostre sensazioni corporee, s'è disseccata dal fuoco delle nostre passioni; il cuore, lo spirito, i sensi, tutto ha lavorato contro di essa.”75 Dunque, è chiaro che, per Rousseau, in tanto è possibile conoscere le deformazioni, che una certa (come vedremo) esperienza sociale ha prodotto nella natura umana76 e, di conseguenza, in tanto è possibile rendersi conto di quali debbano essere, invece, le caratteristiche fondamentali di una vita sociale, che non avvilisca ma sì potenzi la natura umana, in quanto –paradossalmente77- l’uomo studi se stesso, traendosi fuori da ogni influenza sociale e si ritrovi, invece, solo con la propria intimità.78 Si tratta di un indubbio paradosso, per la comprensione del quale dobbiamo cercare di precisare quale rapporto Rousseau stabilisca tra naturale e razionale. L’ordine, l’equilibrio di qualunque cosa –leggiamo nel Discorso sull’origine della disuguaglianza- derivano direttamente dalla natura del qualcosa e, dunque, da dio, che ne è il creatore. Ma in quanto l’ordine 75 - Rousseau, op. cit.:120. 76 - “La teologia cristiana, durante il periodo in cui fu maggiore il suo ascendente, oppose qualche ostacolo, sebbene incompleto, agli indirizzi di pensiero che erigevano la Natura a criterio morale, in quanto che, secondo il credo di diverse sette cristiane (non certamente secondo il credo di Cristo), l'uomo è per natura malvagio. Proprio questa dottrina, tuttavia, per le reazioni provocate, ha reso i moralisti seguaci del deismo pressoché unanimi nel proclamare la divinità della Natura, e nell'innalzare i suoi dettami immaginari a regola autoritaria di azione. Un costante riferimento a tale ipotetico modello è lo strumento principale di cui si è valsa la corrente di pensiero e di sentimenti iniziata da Rousseau, corrente che si è ampiamente infiltrata nel pensiero moderno, non eccettuata quella porzione di esso che si definisce cristiana. Le dottrine del Cristianesimo si sono in tutte le epoche adattate largamente alla filosofia in quel momento predominante, e il cristianesimo dei nostri giorni ha preso una parte considerevole del proprio colore e sapore dal deismo sentimentale.” (J. S. Mill, Saggi sulla religione, a cura di L. Geymonat, Milano 1972: 17). 77 - In fin dei conti è di questo paradosso, che parla G. Della Volpe, nel suo Discorso sull’ineguaglianza, in Opere 3, Roma 1973: 275, quando parla di apriorismo platonico di Rousseau. 78 - Vedremo che deformazione, secondo Rousseau, si ha sempre quando legge fondamentale della società non sia la volonté générale –dunque, ciò che corrisponde all’interesse comune tra gli uomini-, ma sì l’interesse di un gruppo, di una parte, quando insomma un settore sociale determinato domini tutta la comunità. In questo contesto, il naturale amour de soi, che gli uomini avvertono e che li rende simpatetici con la gioia/dolore altrui, si trasforma nell’egoistico amour propre.

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e l’equilibrio sono il modo più adeguato di far vivere il qualcosa, allora sono anche il suo bene ed, in questo senso, ordine ed equilibrio sono razionali. Si tratta, però, di una razionalità assai particolare, in quanto non risulta da una mediazione, da un calcolo, ma sì dall’immediato e spontaneo operare delle pulsioni naturali; si tratta, dunque, di una razionalità, che ha la paradossale caratteristica d’esser priva d’autocoscienza –di esser natura, appunto! “Eccettuata la sola necessità fisica –osserva Rousseau79-, che natura stessa esige, tutti gli altri bisogni nostri non sono tali che per l’abitudine, prima della quale non erano punto bisogni, o per i nostri desideri, e non si desidera ciò che non s’è in grado di conoscere. Dal che segue che siccome l’uomo selvaggio non desidera se non le cose che conosce, e non conosce se non quello il cui possesso è in suo potere o di facile acquisto, nulla dev’essere così tranquillo come il suo animo e così limitato come il suo spirito.” Come si vede, si tratta esattamente di questo: nella stessa pulsione naturale –che non subisca deformazioni- è inscritta una sorta di inconsapevole, ma provvidenziale saggezza; nella misura in cui l’uomo è, ingenuamente, soggetto all’operare di questa (paradossale) immediata razionalità, la direzione del suo comportamento, delle sue ‘scelte’, coincide con il suo bene naturale, con la più equilibrata soddisfazione di sé. “Ciò che è bene e conforme all’ordine è tale per la natura stessa delle cose e del tutto indipendentemente da convenzioni umane. Ogni giustizia viene da dio: lui solo ne è la fonte.” 80. Da questo testo cominciamo a comprendere implicitamente qual è il pericolo, che s’accompagna alla vita umana: il fatto, cioè, che essa possa esser tale –esistendo o non esistendo lo Stato civile-, da non garantire equilibrio e misura, ma sì invece il loro contrario. E se teniamo presente che, nella prospettiva di Rousseau, la condizione naturale non indica una situazione di fatto, ma sì un paradigma, il cui scopo è render pensabile lo Stato giusto, comprendiamo assai bene che stato di natura sta per quell’ottimale situazione, in cui l’uomo è mosso solo da forze e sollecitazione, che derivano dalla sua natura (che non sono artificiali, in questo senso) e che, proprio perciò, sono provvidenziali, equilibrate, razionali, orientate al suo bene. Ma, si ricordi, lo stato di natura è, solo, un modello, un paradigma, la 79 - ivi: 147. 80 - ivi: 74. Così Rousseau in una lettera a Voltaire del 18 agosto 1756: “la plus grande idée que je me puis me faire de la Providence est que chaque être matérial soit disposé le mieux qu’il est possible par rapport au tout, et chaque être intelligent et sensible le mieux qu’il est possible par rapport à lui-même.”

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cui funzione pratica effettiva è di orientarci circa il modo di organizzare lo Stato civile. In altre parole, uno stato o condizione naturale non è mai esistita, ma funge da premessa logica necessaria per ritrovare, nell’effettiva dimensione storica, i modi di raggiungere quell’equilibrio, quell’ordine, insomma, quella razionalità, che icasticamente è espressa nell’immagine, appunto, della condizione naturale. Dunque, lo stato di natura non è mai esistito e, in definitiva, anche se fosse esistito, per noi la cosa non avrebbe molta importanza, dato che –sottolinea Rousseau- gli uomini non son tali da poter semplicemente seguire la “voce naturale”: se fossimo capaci di tanto, non avremmo bisogno –come invece abbiamo- né di leggi, né di governo. Senza dubbio vi è una giustizia universale emanata dalla sola ragione, ma questa giustizia, per valere tra gli uomini, dovrebbe essere da tutti osservata e per considerar le cose realisticamente, in mancanza di una sanzione naturale, le leggi di giustizia sarebbero vane. Infatti, se gli uomini fossero lasciati a se stessi, accadrebbe che il giusto seguirebbe la buona regola in ogni suo rapporto con gli altri; l’ingiusto, invece, seguirebbe solo il proprio interesse, dunque, proprio il giusto risulterebbe, alla fine, esposto senza difesa all’ingiuria ed alla sopraffazione. Il problema dello Stato –politico o civile- proprio da questo nasce necessariamente: posto il ‘naturale’ modello d’equilibrio e, dunque, di razionalità e di bene, come si può costruire effettivamente, nella storia, una situazione, che realizzi quell’equilibrio stesso? Lo Stato roussoiano, dunque, da un lato è pensabile solo a partire dal presupposto della condizione naturale, dall’altro è nella sua essenza un’istituto giuridico-politico, esattamente perché è un equilibrio tra spinte e sollecitazioni diverse, che deve realizzare. Da questo punto di vista, non può meravigliare che, per quanto nella riflessione politica di Rousseau siano presenti temi economici (la proprietà privata, la polarizzazione di ricchezza e povertà, ecc.), il livello dello Stato risulti sempre esteriore rispetto a quello delle condizioni economico-sociali. Potremmo dire, insomma, che la riflessione politica di Rousseau è mossa dalla convinzione che son necessarie, al vivere dell’uomo ed al raggiungimento effettivo del suo bene, convenzioni e leggi, per unire diritti e doveri e, così, realizzare la giustizia. E’ rispetto a questo punto che si è voluto riconosce la novità roussoiana: “secondo Rousseau, -è stato scritto-,81 l’autentica personalità umana si afferma proprio con l’accennata sottomissione alla volontà generale. Sorge così un nuovo concetto positivo di libertà, 81 - L. Geymonat – R. Tisato, “Rousseau”, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico. III. Il Settecento, Milano 1981: 306.

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la quale non coincide più nel libero svolgersi degli impulsi individuali, ma nel dominio di esso in nome di quella più vera e profonda libertà che si afferma solo con il potere della ragione.”. E’ questa la tesi sostenuta anche da E. Cassirer82 e che conduce a vedere forti elementi kantiani nella riflessione di Rousseau. Stiano o no così le cose; siano o no accostabili i concetti di ragione (e del rapporto natura/ragione) in Rousseau e in Kant,83 sta di fatto che appartiene coerentemente al pensiero di Rousseau una pagina, che forse Kant non mai avrebbe scritto. “Lasciamo dunque tutti i libri scientifici, che non ci apprendono che a vedere gli uomini quali si son fatti, e meditando sulle prime e più semplici operazioni dell’anima umana, credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: uno dei quali ci interessa ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l’altro ci ispira una repugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile e, principalmente, i nostri simili.”84 Posti questi due principi ed immaginando un numero relativamente piccolo di viventi sulla terra, possiamo prospettarci quella naturale come una situazione, in cui la spontanea abbondanza di valori d’uso sia tale, per cui ad ogni singolo individuo basti, per così dire, allungar la mano per prendere ciò di cui abbisogna. In questo contesto è chiaro che non trova posto (se non del tutto casualmente) lo scontro egoistico di interessi, ma semplicemente quell’egotismo, per cui è unicamente delle mie necessità che mi preoccupo, senza tuttavia che ciò faccia di me il nemico dell’altro: appunto, la spontanea, naturale offerta di valori d’uso è tale, per cui nella mia soddisfazione non è in alcun modo implicita la mancata soddisfazione di altri. Inoltre, abbiamo visto che secondo Rousseau c’è una naturale simpatia, che mi impedisce di godere del male altrui: addirittura, che mi sollecita ad aiutare l’altro, che soffre o che, comunque, è in difficoltà. Potremmo dire che con queste carte in mano è facile costruire una situazione di equilibrio tra bisogni e possibilità, tra soddisfazione di sé e felicità altrui: di nuovo, la condizione naturale ci anticipa, sul piano della rappresentazione immaginativa, quale dovrà essere lo scopo dello 82 - E. Cassirer, Il problema Gian Giacomo Rousseau, Firenze 1968. Si consideri, anche, Solari, il quale ritrova in tutta la tradizione razionalistica del Seicento inglese un’analoga avversione ad un’idea di libertà come contrapposizione alla regola della ragione. (Solari, op. cit.: 371). 83 - Per cogliere le differenze fra il taglio della riflessione di Rousseau e quella di Kant serve bene G. Della Volpe, Discorso sull’ineguaglianza, op. cit:: 272s. 84 - Rousseau, op. cit.: 47.

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Stato giusto. Garantire, appunto –ma nei modi storici effettivi e non nel vagheggiamento immaginario- quell’equilibrio tra desideri, possibilità ed averi, che faccia dello Stato il luogo, in cui domina il comune interesse e che escluda, in ogni modo, la prepotente sopraffazione di un interesse parziale sul bene comune. E’ questo il significato del fatto che lo Stato roussoiano abbia come legge fondamentale e limite insuperabile la volontà generale.85 2. - In Rousseau non trovi “una salda e compiuta dottrina; (sì) piuttosto un movimento sempre rinnovantesi del pensiero –un movimento di tale forza e passione che sembra impossibile di fronte ad esso rifugiarsi nella quiete della contemplazione storica ‘obiettiva’.” 86

Così scrive Ernest Cassirer e la sua annotazione va tenuta ben presente, perché non solo sarebbe inevitabile la delusione di chi puntasse a leggere Rousseau, pensando di trovarsi di fronte ad un filosofo nel significato più rigoroso (sistematico) del termine; ma andrebbe deluso, anche, chi pensasse di poter definire in modo sostanzialmente univoco le parole-chiave del vocabolario roussoiano. Per mettere bene a fuoco quest’ultimo aspetto, vale riandare a Galvano Della Volpe, il quale usa l’espressione platonismo o innatismo cristiano anche allo scopo di sottolineare l’equivoco rinvio, che trovi nel filosofo ginevrino, alla ragione naturale – la quale, in effetti, nell’economia della riflessione roussoiana, tende a sfumare in uno spiritualistico concetto di interiorità, dunque, in un apriori, che non tanto è “<raison>, quanto piuttosto <coeur> = <sentiment> = <conscience>”. E’ di qui –prosegue Della Volpe- che deriva “l’individualismo etico, l’umanesimo protoromantico peculiare a Rousseau” e, quindi, il significato specifico, che in lui acquista il concetto di persona.”87 Come si vede, Cassirer e Della Volpe convergono nel motivare la non-sistematicità roussoiana non tanto con una particolare attenzione del filosofo ginevrino per i significati determinati –e, quindi, differenzianti e 85 - Si potrebbe asserire che il grande merito di Rousseau sta nell’aver sottolineato che la volonté générale non si identifica affatto, per sua essenza, con la volontà della maggioranza. Quest’ultima, infatti, può risolversi semplicemente nella somma di interessi, che restano particolari per la loro natura. Questa sembra un’acutissima critica al parlamentarismo liberale, che tende a spacciarsi, invece, per democrazia (ovvero, primato dell’interesse comune e non particolare). 86 - Cassirer, 1968: 8. 87 - G. Della Volpe, La teoria marxista dell’emancipazione umana, in Opere 3, Roma 1973: 318.

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non unificanti-, che i problemi su cui egli riflette possono assumere in contesti o sotto profili diversi. Quanto piuttosto Cassirer e Della Volpe motivano quella non-sistematicità con la propensione di Rousseau a dare una tonalità patologica (sentimentale, emozionale, ‘naturale’) ad espressioni, che sembrerebbero, invece, richiamare tutt’altra prospettiva (legge, ragione, ecc.). Con la conseguenza, evidentemente, che anche i nessi logici, che legano i diversi momenti della riflessione roussoiana, non possono esibire il rigore e l’univocità, a cui un pensatore sistematico sarebbe, almeno in linea di principio, vincolato. “L'incomparabile forza –leggiamo ancora in Cassirer88- con la quale Rousseau ha agito sulla sua epoca come pensatore e come scrittore, è fondata in ultima analisi, nell'aver egli posto davanti agli occhi di un secolo, che aveva portato ad un'altezza mai raggiunta la cultura della forma e le aveva dato perfezione e interiore compiutezza, tutta l'intima problematica del concetto stesso di forma. Il XVIII secolo, nella sua poesia come nella filosofia e nella scienza, s'adagia in un mondo formale, fisso e finito e in questo mondo sente fondata la realtà delle cose, racchiuso e assicurato il valore di esse. Esso ama la determinatezza evidente, il contorno chiaro e netto delle cose, le limitazioni sicure, e considera nello stesso tempo la capacità di dare tale determinatezza e delimitazione come la suprema forza soggettiva dell'uomo, come la potenza fondamentale della «ragione» stessa. Rousseau è il primo pensatore che, non solo pone in dubbio questa sicurezza, ma la scuote dalle fondamenta. Egli nega e abbatte, nell' etica e nella politica, nella religione, nella letteratura e nella filosofia tutte le forme fatte, che incontra -a rischio di veder ripiombare il mondo nel suo stato originario e informe, nello stato di <natura> e di abbandonarlo in certo qual modo al caos. Ma nel caos che egli stesso provoca, si dimostra e s’afferma la sua peculiare potenza creativa; perché da esso s’inizia un moto animato da nuovi impulsi e determinato da forze nuove.” E’ questo spostamento d’enfasi (dalla ragione al sentimento) –continua Cassirer89- che opera Rousseau, a spiegarci la vivacità, il nervosismo e la carica non esaurita delle sue pagine, di contro al calmo e preciso procedere dell’argomentazione tipicamente illuministica. Senonché, Rousseau è veramente un pensatore sfuggente. Quanto abbiamo sottolineato spiega la nascita di tutta una tradizione letteraria, che ci presenta Rousseau come il vero e proprio precursore del moderno individualismo, sorto a difesa dell’illimitata libertà del sentimento, del <diritto del cuore>, che egli concepisce con tanta 88 - Cassirer, op. cit.: 8. 89 - Cassirer, op. cit.: 9.

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ampiezza da smarrire per esso interamente il senso di ogni obbligazione etica e di ogni dovere obiettivo.90 Tuttavia, così come il suo pensiero religioso è stato volta a volta interpretato in modi radicalmente divergenti (deistico, calvinistico e perfino di marca cattolica), analogamente Rousseau è stato esaltato (o denigrato, a seconda dei casi), perché considerato “il fondatore e il precursore di un socialismo di Stato che sacrifica senz’altro l’individuo alla comunità, che costringe l’individuo contro una rigida forma statale, nella quale non esiste per esso né libertà d’azione, né perfino libertà di sentimento.”91 A questo punto possiamo tornare a Della Volpe, che ci consente di approfondire il discorso appena accennato. Nel 1943, G. Della Volpe pubblica il Discorso sull’ineguaglianza 92, nel quale pone una questione di grandissimo rilievo: egli individua in Rousseau, e nella tradizione giusnaturalistica ed illuminista, la tendenza ad una fondazione dell’uguaglianza umana basata sulla mitologia umanistica; al contrario, dice Della Volpe una fondazione moderna ed effettiva dell’uguaglianza può aversi, solo, facendola sorgere dal lavoro, dalle sue tecniche, dalla sua organizzazione. La fondazione umanistica dell’uguaglianza –precisa ancora Della Volpe- impedisce il reciproco funzionalizzarsi di libertà e uguaglianza e di uguaglianza e libertà, col risultato che la moderna libertà finisce col capovolgersi in privilegio dell’uomo proprietario. Ma vediamo meglio. Rousseau, a detta di Della Volpe, rientra nella tendenza moderna (platonica, umanistica, sentimentalistica) a tradurre in termini laici il concetto cristiano di charitas93. Nel caso specifico di Rousseau, tale traduzione assume l’aspetto del concetto di amour de soi: infatti è questo tipo di amore che, da un lato, mi confina nella cura per la soddisfazione delle mie necessità e, per l’altro, mi fa patire il dolore altrui come se fosse il mio stesso dolore. Si tratta di una situazione, che già conosciamo, ovvero, di quella condizione pre-sociale, in cui l’ambiente naturale è come una sorta di enorme deposito di valori d’uso, che sono a disposizione di un’umanità sufficientemente scarsa, da poter –ogni individuo- essere ragionevolmente sicuro di soddisfare le proprie necessità, senza entrare in contraddizione con gli altri (o, comunque, riducendosi tale possibilità a termini minimi). In questo contesto, è proprio l’amore, che ho per me stesso, che mi fa riconoscere nell’altro un’immagine di me 90 - Cassirer, op. cit.: 11. 91 - Cassirer, ivi. 92 - v.lo in G. Della Volpe, Opere. 3, Roma 1973: 269ss. 93 - Rousseau assume dalla linea Pufendorf-Malebranche il tema dell’uguaglianza degli uomini, in quanto figli di dio: così leggiamo in Della Volpe, La teoria marxista dell’emancipazione umana, in Opere. 3: 317.

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e, dunque, mi sollecita in senso simpatetico verso le sofferenze altrui. Come si vede, questa dell’amour de soi è una situazione classicamente roussoiana, perché realizza –senza imposizioni, ‘spontaneamente’, ‘naturalmente’- un equilibrio, fra dedizione a sé e apertura all’altro, che a sua volta rinvia ad un ottimale rapporto fra disponibilità spontanea di valori d’uso e richieste umane. Abbiamo già visto che, per Rousseau, scopo della società civile o dello Stato è restaurare un equilibrio, fra dedizione a sé ed apertura all’altro, ovviamente non più nei termini della paradigmatica –e non storica, ricordiamolo- condizione naturale, ma sì della vita sociale. Perché restaurare? Perché, quando nella società un interesse di parte prende il sopravvento ed acquista la capacità di imporre la propria particolarità come legge generale, allora la vita sociale subisce un processo di deformazione e lo stesso amour de soi si stravolge in amour propre, ovvero nella ricerca dell’affermazione di sé, a scapito degli altri. Di qui, la necessità di ricostruire il tessuto sociale, ma questa volta su un patto che garantisca effettivamente la dominanza della volontà generale, ovvero, di ciò che accomuna tutti gli uomini. Il contratto sociale, che fonda lo Stato sul primato della volonté générale –ovvero, di ciò che è comune a tutti gli uomini- assicura, nei termini non più mitologici della condizione naturale ma sì in quelli di un’organizzazione storica effettiva, la giusta proporzione tra interessi diversi e la giusta relazione tra autorità sovrana (che, ricordiamolo, non è di alcuni, anche se costituissero i più, ma sì della volontà generale) e individuo. Di nuovo –come già sappiamo- si dimostra con tutta chiarezza che la problematica di Rousseau è quella dello Stato giusto, che –secondo lui- così e così dev’essere costituito. Non è chiaro se Della Volpe si renda esattamente conto che proprio questo è il limite di Rousseau, ovvero, di porsi il problema dello Stato giusto. A volte si ha l’impressione, invece, che la critica di Della Volpe, per un verso, acquisti i tratti generici della critica al platonismo (ed, invero, non è chiarissimo che cosa per Della Volpe non sia platonismo); per l’altro, che egli in effetti recepisca un punto sostanziale della tematica tipicamente roussoiana, indicando addirittura Marx come colui che ha saputo dar la risposta adeguata alla domanda del filosofo ginevrino. Ma torniamo alla questione che ci interessa. Dunque, secondo Della Volpe, lo Stato roussoiano non riesce a garantire il reciproco rinvio di libertà e uguaglianza e finisce col fare della libertà una nuova forma di privilegio. Una pagina di Cassirer94 ci aiuta a capire. 94 - Cassirer, op. cit.: 37.

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“Il Discours sur l'économie politique compilato da Rousseau per l'Enciclopedia … esprime con piena evidenza (il concetto secondo cui è) la legge soltanto, quella cui l'uomo deve la giustizia e la libertà; è quest'organo della volontà di tutti che ristabilisce nell'ordine del diritto l'eguaglianza naturale fra gli uomini … D'altra parte è questa comune dipendenza dalla legge l'unico fondamento di diritto di ogni dipendenza sociale in generale. Ogni organismo politico è interiormente malato, non appena pretende un altro genere d'obbedienza. La libertà è distrutta allorchè si esige la sottomissione alla volontà di un singolo o di un gruppo dominante, che non può mai essere più di un'unione di singoli. L 'unico potere «legittimo» è il potere che esercita sopra le volontà individuali il principio della legittimità come tale, l'idea della legge stessa. Quest'idea prende in considerazione l' individuo soltanto come membro della società, come organo attivo della volontà collettiva, mai nella sua esistenza particolare, nel suo «essere così». Nessun privilegio speciale può essere concesso a un singolo come tale o ad una classe speciale …In questo senso la legge non deve conoscere alcun «riguardo alla persona».” Sembra un’esposizione di Rousseau teorico del ‘socialismo di Stato’. Senonchè, lo stesso Cassirer permette di centrare meglio l’argomento roussoiano e, così, di riguadagnare quanto abbiamo letto in Della Volpe. Il “compito fondamentale” dello Stato roussoiano –leggiamo ancora in Cassirer95- è di erigere al posto dell'ineguaglianza fisica che non si può eliminare, l'eguaglianza giuridica e morale. L'ineguaglianza fisica non si può evitare, e non si può perciò deplorare. In essa Rousseau comprende l'ineguaglianza della proprietà, che, come tale, come la diversa ripartizione dei beni, assume un'importanza secondaria. Il Contratto sociale non ha svolto in nessun punto idee propriamente comunistiche. L 'ineguaglianza degli averi è considerata da lui come … un dato di fatto che l'uomo può accettare, come deve accettare la diversa ripartizione delle forze e delle capacità fisiche e delle doti spirituali [sott. mia, SG]. Qui il regno della libertà trova i suoi limiti e qui comincia il regno del destino.” A questo punto tutto si chiarisce: per Rousseau, l’uguaglianza caratterizza il rapporto d’ogni cittadino verso l’altro e verso la volonté générale, ma nel senso che –quali che siano le differenze naturali tra i cittadini- lo Stato appunto deve garantirne l’uguaglianza. Il fatto che tra le differenze naturali vi sia anche il possesso o meno di una proprietà privata, fa dell’uguaglianza politica un evidente strumento di cristallizzazione di quella particolare forma di differenza ‘naturale’, che 95 - Cassirer, op. cit.: 38.

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è la proprietà privata, la quale –a questo punto- diviene un privilegio, garantito dallo Stato stesso. Ecco cosa intendeva Della Volpe quando diceva che in Rousseau libertà ed uguaglianza non si funzionalizzano l’un l’altra, dacché l’uguaglianza si riduce a sanzione del privilegio proprietario. Senonché, nell’ultima edizione (1964) del suo Rousseau e Marx96. Della Volpe parla di una “reale svolta storica che rappresenta l’umanesimo democratico di (Rousseau) nei confronti dell’umanesimo liberale di Montesquieu e dell’umanesimo borghese- conservatore e relativo scetticismo sociale di Voltaire.”97; e prosegue, asserendo che:” la sostanza feconda del messaggio russoiano sulla libertà (egualitaria) debba vedersi nell’istanza universale (democratica) del <merito> personale ossia nell’esigenza del riconoscimento (sociale) di ogni individuo umano, coi suoi particolari meriti e necessità: per cui la ripartizione proporzionale a ogni individuo (<differente>) dei prodotti del lavoro nella società comunista, teorizzata da Marx nella Critica del programma di Gotha e da Lenin in Stato e rivoluzione, è destinata essa soltanto a rappresentare il compimento storico dell’istanza roussoiana del merito personale (nella fattispecie, sotto l’aspetto fondamentale della vita economica dell’individuo).”98 Le obiezioni sono evidentemente due: - abbiamo già visto che, per Rousseau, l’uomo entra in società con le sue disuguaglianze fisiche e che tra queste va collocata anche la proprietà (o non proprietà) privata; - sappiamo, inoltre, che per Rousseau il problema è l’edificazione dello Stato giusto, capace di garantire l’equilibrio e l’armonia tra i cittadini. Non è chiaro in quale dei due punti Marx potrebbe riconoscersi e, dunque, come la riflessione dialettica marxiana sullo Stato possa addirittura risolvere un problema, che nasce all’interno di un contesto teorico, che le è sostanzialmente estraneo. §. 3: John Stuart Mill. 1. E’ noto come uno degli obiettivi fondamentali, che J.S. Mill assegna al suo lavoro teorico, sia dimostrare la possibilità di una trattazione scientifica delle Morals, così dette. Ed è anche noto come, per J.S. Mill, questo comporti liberare il dominio morale dal peso del pensiero speculativo, per aprirlo invece alle vaste possibilità offerte dal moderno metodo scientifico. A questo punto è d’obbligo precisare. 96 - vlo in G. Della Volpe, Opere. 5, Roma 1973. 97 - Della Volpe, op. cit.: 193. 98 - Della Volpe, op. cit.: 199.

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“La nozione volgare –scrive J.S. Mill- che i metodi sicuri negli argomenti politici siano quelli dell’induzione baconiana –che la verità guida non sia il ragionamento generale, ma l’esperienza specifica- sarà un giorno citata tra i segni meno equivoci di una bassa condizione delle facoltà speculative, in qualsiasi epoca in cui abbia credito. (Coloro, i quali si occupano di discipline politiche o Morals) continuano a ripetere pappagallescamente … Bacone, interamente ignari che il concetto baconiano di indagine scientifica ha fatto il suo tempo e la scienza è ora progredita ad uno stadio più avanzato.”99 In altri termini, per quanto il System of Logic abbia costituito per lunghi decenni un riferimento d’obbligo per tutti i sostenitori del metodo empirico, è vero, tuttavia, che in quel testo J. S. Mill mostra, su almeno due punti, di non essere ignaro del fatto che le procedure delle moderne scienze (empiriche) non possono farsi rientrare nei canoni dell’empirismo baconiano; o, se si vuole, in quel testo J. S. Mill si dimostra consapevole del fatto che se esiste un empirismo ‘naturale’, di senso comune, questo ha ormai ben poco a che fare con le procedure accettate dalla scienza. I due punti fondamentali di tale consapevolezza sono, entrambi, significativi pure per le Morals: si tratta, infatti, e contro la concezione tradizionale dell’induzione per enumerazione, dell’enfatizzazione del ruolo della teoria per render possibile la stessa procedura induttiva; e di una concezione della causalità, che tende a sganciarsi dalla secchezza e unilateralità dell’ipotesi meccanicistica, per proporsi piuttosto come insieme di condizioni (come toile de fond, se piace), perché un certo evento sia possibile (Ma su tutto questo, vale il rinvio all’ottimo testo di G. Frongia, già indicato). L’obiezione comune –secondo cui i fenomeni culturali risultato dall’interazione di fattori talmente numerosi e variabili, da non poter consentire enunciazioni generali- Mill la respinge, pur riconoscendo ad essa un importante lato di verità. Ma ciò che a noi più interessa, ora, è il fatto che Mill quando afferma, comunque, la possibilità in sede Morals di enunciati generali, faccia anche quest’altra precisazione. Ovvero, che coloro i quali attribuiscono alle Morals solo generalizzazioni empiriche e dalla portata spazio-temporale assai circoscritta, ebbene proprio costoro sono, in realtà, interessati ad un rapporto immediatamente strumentale fra Morals e scienza e, dunque, sono orientati non alla produzione di teoria 99 - Cit. in G. Frongia, J.S. Mill e il metodo scientifico, Esi 1984: 86.

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rigorosa, ma sì di un sapere funzionale al potere politico –in questo senso, sono volti alla produzione non di scienza, ma sì di ideologia.100 E’ bene, dunque, comprendere che non solo le pagine dichiaratamente volte ad argomenti politici, ma sì l’insieme dell’opera milliana è una testimonianza, potremmo dire, di engagement, ovvero di una cultura, che rivendica la propria portata politica, esattamente perché vuol attestarsi sul piano del rigore delle scienze101. Questa radicalità scientifica –chiarisce Mill- ha una formidabile portata pratica, in quanto contraddice quel sapere ideologico, che si limita –lo abbiamo visto- a generalizzazioni empiriche dalla corta portata; ma anche perché si contrappone al pensiero “speculativo” (metafisico o tedesco, come anche Mill dice), che pretende legittimare cose, istituzioni e credenze, disprezzando i metodi di verifica e convalida, che propone invece la scienza moderna.102 100 - Frongia, op. cit.: 87s. 101 - Frongia, op. cit.: 6. Si tenga ben conto, però, di questa acuta osservazione: in Mill, “il logico e il metodologo lavorano per edificare una scienza generale della società, che a sua volta opera in funzione del cambiamento sociale. Ma la metodologia cauta e autocritica di Mill, condizionata dall’approccio esperienziale, agnostico, fenomenistico [insomma, quella che Camporesi chiama scepsi scientifica], gli impedisce di offrire delle soluzioni olistiche e totalizzanti.” (Camporesi, op. cit.: 102 - Da un punto di vista strettamente politico, l’orientamento di J.S. Mill è ben descritto da F. Restaino, J.S. Mill e la cultura filosofia britannica, La Nuova Italia 1968: 7-15, il quale sottolinea sia la consapevolezza, che il filosofo aveva della contraddizione di classe, caratterizzante la moderna società industriale, sia il suo orientamento a pensarne il superamento in un’attività di riforme e di contenimento delle richieste dei lavoratori, attraverso sia l’emigrazione che il controllo delle nascite. Centralissima in Mill –e strettamente intrecciata al tema precedente- la contrapposizione tra pensiero speculativo e pensiero razionale moderno, basato su dati verificabili. Come vedremo, le acute osservazioni milliane sul rapporto, ad es., fra morale dominante e classe dirigente non servono ad altro, se non a mostrare che se la morale fosse costruita, invece, sulle basi di un razionalismo utilitaristico, ben altre sarebbero le leggi morali e verrebbe rispettato l’interesse vero della società. Va notata, tuttavia, questa precisazione dello stesso Mill: “considero l’utilità come il criterio ultimo in tutte le questioni etiche; ma utilità va intesa nel senso più largo, ovvero, come il rimando agli interessi permanenti dell’uomo, in quanto essere progressivo.” (J.S. Mill, On Liberty: 74). Vale ricordare qui l’affermazione di L. Goldmann, secondo la quale, “un schéma de pensée commun à Descartes, Leibniz, Hume, Voltaire, Ricardo et Adam Smith affirmait que si chaque individu, chaque ego, chaque monade, se dirigeait seulement selon sa raison, son expérience, ou son intérêt, la concordance de l’ensamble finirait par être tout ou moins sufficisamment assurée.” (AAVV, Kierkegaard, Paris Gallimard 1966: 128s).

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Ovviamente, questo tono engagée della riflessione milliana lo si verifica, nella maniera più chiara, in opere come On Liberty (1859)103 -anche se, ripetiamolo, si tratta di una caratteristica, che riguarda l’intera produzione filosofica del nostro autore. Come chiarisce lo stesso J.S. Mill, On Liberty ha una finalità ben circoscritta, che però non ne oscura i saldi legami con la sua problematica propriamente teoretica. Ciò che in quest’opera Mill si propone è affrontare la questione della libertà civile o sociale, dunque, della natura e limiti del potere, che la società può esercitare sull’individuo; insomma, quello che a Mill interessa è difendere i diritti dell’individuo dalla società; nonché contraddire la pretesa della stessa società di esercitare la propria autorità sui dissenzienti104: questa –precisa Mill- sarà la questione vitale nel futuro.105 Il motivo, che più visibilmente ricollega l’argomentazione politica milliana alla sua polemica contro la “Scuola tedesca” è questo: un’opinione, riguardante questioni di comportamento, la quale non sia supportata da ragioni, non è altro che una preferenza personale.106 E’ facile mostrare la continuità fra questo giudizio e ciò, che lo stesso Mill scrive a proposito dell’antico pensiero greco. Le teorie pre-socratiche –egli sostiene- erano fisiche e metafisiche, però spesso le metafisiche facevano da supporto alle fisiche e addirittura erano elaborate proprio allo scopo di spiegare i fenomeni fisici107; è per questo che almeno alcune delle concezioni metafisiche pre-socratiche risultano basate non su processi fisici, ma invece su astrazioni come l’Uno, lo Stesso, il Diverso e “per noi” –puntualizza Mill- è difficile riuscire ad immaginare che cosa l’antico intendesse con quelle vaghe astrazioni. Cosa dobbiamo intendere con quel “noi”? “ con noi –chiarisce inequivocabilmente Mill- si deve intendere gli empirici, gli sperimentalisti, i baconiani, dato che i trascendentalisti tedeschi trovano molto più significato in queste astrazioni, che non nelle ipotesi empiriche;108 “perché, in effetti, la loro (dei trascendentalisti 103 - v.lo in J.S. Mill, Urtilitarianism, Liberty, Representative Governmaent, Selections from <Auguste Comte and Positivism>, edited by H.B. Acton, London 1972. 104 - J. S. Mill, On Liberty: 71. 105 - J. S. Mill, ivi: 65. 106 - J. S. Mill, ivi: 69. 107 - J. S. Mill, Essays on Philosophy and the Classics, editor of the text J. M. Robson, University of Toronto Press 1978: 380 108 - J. S. Mill, Essays : 180.

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tedeschi109) ontologia è essenzialmente a questo primo stadio della speculazione umana –una riproduzione degli stessi metodi, degli stessi problemi e in buona misura delle stesse risposte, qualche volta sotto una superficiale vernice di moderna filosofia induttiva. Hegel, in ambito metodologico, si muove tra le stesse vaghe astrazioni di questi novizi della filosofia; la sua dialettica ricorda il platonico Parmenide, mentre i contenuti della sua dottrina, in gran parte, sono una riproposizione del pensiero di Eraclito. Se torniamo indietro ad Anassimandro, il primo conosciuto tra i filosofi speculativi, successore del concittadino Talete, troviamo le nozioni fondamentali del trascendentalismo.”110 Come si vede, la polemica antideologica, che a tutta prima potrebbe sembrare esaurita nell’ottica propriamente politica, in realtà non è che un aspetto (se si vuole, non è che l’immediata traduzione politica) di una contrapposizione ben più di fondo, la quale gioca un ruolo assolutamente centrale nella riflessione di Mill.111 Intendo, la contrapposizione tra pensiero arbitrario -e che scambia il verbalismo con sottigliezza analitica- da un lato, e, dall’altro, il pensiero invece criticamente accertato, il quale –in termini moderni- è comunque iscritto nella tradizione empiristica. Ovviamente, nel pensiero arbitrario va inscritta la tradizione metafisica e speculativa; in particolare, -e qui forse l’osservazione milliana va rimarcata per la sua acutezza- di quel pensiero fa parte il dialogo platonico Parmenide, che il filosofo britannico mette subito in diretta relazione col pensiero di Hegel. 112 A questo punto siamo in condizione, forse, di cogliere una dimensione di On Liberty, che prima non vedevamo. Con questo testo certamente Mill affronta un importante problema politico (quello del limite, che il potere sociale ha sui singoli), ma più a fondo pone un problema morale, che rimanda ad una concezione dell’uomo, della sua socialità, del suo destino. Ed, allora, dovremo dire non tanto che On Liberty è un testo politico, quanto piuttosto che è un luogo, in cui dimensione politica e teoretica 109 - Utile questa precisazione di Restaino, op.cit.: 29 - “La dottrina germano-coleridgiana … esprime la rivolta della mente umana contro la filosofia del diciottesimo secolo. Essa è ontologica, perché quella era sperimentale; conservatrice, perché quella era innovatrice; religiosa, perché molto di quella era infedele; concreta e storica, perché quella era stratta e metafisica; poetica, perché quella era banale e prosaica.” 110 - J. S. Mill, Essays: 181. 111 - Quanto tutto ciò sia consonante con un costante (o quasi) atteggiamento della cultura britannica, lo mostra bene C. Camporesi, op. cit.: 6ss. 112 - Sull’importanza del dialogo platonico Parmenide per il pensiero di Hegel e dialettico in generale, cf. H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, 1996: 40ss.

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della riflessione di Mill s’incontrano per produrre un’etica ed una concezione generale dell’uomo. Ad es., quando Mill sottolinea come in una società data la morale imperante coincide, di fatto, con esigenze e interessi della classe dirigente e quando, ancora, sottolinea il conformismo di massa, che accetta sicuramente come valide le preferenze e le volontà dei capi, celesti o mondani che siano113, il terreno su cui si muove non è propriamente politico-sociale: infatti, né Mill si sofferma a descrivere le diverse classi, né spiega perché, in un contesto dato, questa e non quella sia la classe dominante. Il fatto è che Mill sta illustrando, veramente, tutte situazioni, in cui la società s’impone sulla libera decisione del singolo e riesce a costringerla entro schemi da essa voluti e da quella, invece, passivamente subiti; non è dunque tanto un definito problema sociale e politico, che Mill sta affrontando, quanto piuttosto una situazione moralmente deprecabile, che è legata –ancora una volta- al fatto che le leggi della società (politiche o morali, che siano) non son costruite sulla base di quell’oggettiva valutazione dei suoi effettivi interessi, che un’impostazione modernamente razionalistica e utilitaristica renderebbe possibile.114 In questo contesto acquista un particolare rilievo la polemica milliana contro il moral sense, dunque, contro l’ennesima incarnazione di una fondazione del valore, non razionale, non empiricamente accertabile e, così, disponibile a riempirsi dei contenuti più contraddittori.115 Insomma, scrive Mill, ““sono persuaso che la tesi secondo la quale le verità esterne alla mente possono essere conosciute mediante l'intuizione o la coscienza, indipendentemente dall'osservazione o dall'esperienza, costituisce nei nostri tempi il grande sostegno intellettuale delle false dottrine e delle cattive istituzioni. Con l'aiuto di questa teoria, qualsiasi credenza inveterata e qualsiasi sentimento intenso di cui non si ricordi l'origine vengono dispensati dall'obbligo di trovare una loro giustificazione razionale, ed eretti a loro propria e autosufficiente garanzia e giustificazione. Mai ci fu nel passato uno strumento del genere, escogitato per consacrare i pregiudizi profondamente radicati.” 116 Passando ad una rapida illustrazione storica del problema che gli interessa, Mill ricorda come nell’antichità, con il termine libertà si intendesse la protezione dalla tirannia dei legislatori politici (rulers), i 113 - Mill, On Liberty : 70 114 - Mill, ivi. 115 - Mill, op. cit.: 71 mette in luce come l’odium theologicum faccia effettivamente parte del senso morale di un bigotto! L’appello al senso morale può perfino giustificare i pogrom. 116 - Cit. in Frongia, op. cit.: 7s.

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quali erano pensati (con l’eccezione di qualche governo popolare in Grecia) in necessaria contrapposizione rispetto ai popoli, a cui davano le leggi. Nell’antichità, un modo per porre dei limiti al potere dominante fu di ottenere il riconoscimento di certe immunità, dette libertà o diritti politici, che il potere dominante non poteva infrangere117, senza render legittima la ribellione. Un altro modo fu l’istituzione di una camera, che si supponeva rappresentativa della comunità, senza il cui consenso la volontà del dominante non aveva valore.118 Venne però un momento, in cui si cominciò a pensare che non necessariamente il governo dovesse essere un potere contrapposto ai cittadini, sì piuttosto la loro espressione e che, dunque, potesse anche esser sottoposto a revoca.119 Come si vede, questo rapido schizzo non serve certo a capire, sia pure assai sommariamente, quali fossero le caratteristiche salienti delle diverse società a cui Mill fa riferimento; e ciò perché non tanto egli è guidato da un effettivo interesse storico, quanto piuttosto dalla volontà di disegnare alcuni atteggiamenti, presentatisi nella storia e che hanno favorito o impacciato le possibilità di libertà per l’individuo –come dicevamo, in realtà On Liberty non tanto va letto come testo politico, quanto come espressione di un orientamento morale, che strettamente si lega ad un certo modo di concepire la differenza tra conoscere criticamente garantito da una parte, e conoscenza speculativa e verbalistica dall’altro. E’ particolarmente interessante l’ultima parte del testo citato, perché è facilmente interpretabile come riferimento ad un radicalismo democratico à la Rousseau: seguire l’argomentazione di Mill ci consentirà, dunque, di collocare più precisamente il suo orientamento (morale e) politico. Da codesto orientamento (à la Rousseau) –prosegue Mill- deriva la tesi di coloro, i quali sostengono che il legislatore deve identificarsi col popolo stesso, in modo che la sua volontà e interesse si identifichino con quelle dello stesso popolo; a questo punto, i governanti risultano del tutto sottoposti al popolo, revocabili da esso ed incaricati di eseguire la sua volontà120: questo modo di pensare, o piuttosto di sentire (feeling) ha avuto larga diffusione nel continente.121 117 - Attraverso la lettura di Tocqueville, e soprattutto degli ultimi volumi del Cours de Philosophie Positive di Comte, Mill giunge … alla convinzione che sono le <idee> a determinare le istituzioni sociali, e non viceversa.” (Restaino, op. cit: 38).117 Ancora sulla necessità di modificare le idee, per poter modificare poi la società (Restaino, op. cit.: 97). 118 - Mill, op. cit.: 66. 119 - Mill, ivi. 120 - Qui Rousseau sembra decisamente riconoscibile. 121 - Mill, On Liberty: 67.

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Ma –badiamo bene a questa precisazione/correzione, che Mill apporta-, l’idea che il popolo non abbia alcuna necessità di limitare il proprio potere su se stesso, poteva sembrare qualcosa di assiomatico, quando il governo popolare era ancora semplicemente un sogno o qualcosa di cui si era soltanto letto il racconto come di una realtà esistita in un tempo e in un luogo lontani. L’espandersi, invece, dei regimi democratici ha permesso di comprendere che espressioni come auto-governo, potere del popolo su se stesso, in realtà, non rendono conto della situazione reale: il popolo, che esercita il potere, non è sempre lo stesso popolo, su cui il potere è esercitato e l’autogoverno, di cui si parla, non è il governo, che ognuno esercita su se stesso. Come si vede, precisazione/correzione di grandissima portata, il cui senso, infatti, sta nell’affermare sostanzialmente che il radicalismo democratico non tanto corrisponde ad uno specifico regime politico –accettabile o meno-, quanto piuttosto alla rappresentazione retorica e verbalistica (dunque, illusoria) di una realtà, che meriterebbe ben altra descrizione. Ciò che va sottoposto ad analisi attenta –ed empiricamente supportata- è il concetto chiave per il radicalismo democratico, ovvero, quello di volontà del popolo. Di fatto, afferma Mill, il significato reale di < volontà del popolo> è volontà della maggioranza solamente o, addirittura, della parte più attiva del popolo stesso. Se continuiamo a riferire l’osservazione di Mill ad un’elaborazione politica di tipo roussoiano, comprendiamo a fondo la portata demitizzante delle precisazioni milliane; insomma, è come se Mill invitasse a rendersi conto che un regime basato sulla volonté générale, in verità (e contro il sogno stesso di Rousseau), non è altro che il regime di una parte del popolo sull’altra parte. E questo addirittura nel senso che la stessa nozione di maggioranza del popolo, in realtà, indica semplicemente quella parte del popolo, che riesce a farsi considerare dall’altra come se fosse la maggioranza. Di qui l’effettivo pericolo che una parte del popolo opprima l’altra.122 E’ a questo punto che Mill introduce una minaccia caratteristica dei regimi democratici, ovvero quella della tirannia o dittatura della maggioranza123, di cui così egli dice. E’ necessario proteggersi contro la tirannia delle opinioni e dei sentimenti prevalenti; contro la tendenza della società ad imporre, come regole di condotta ed attraverso mezzi diversi dalle sanzioni civili, le sue proprie idee e pratiche a coloro i quali ne dissentono; è necessario difendersi dalla tendenza della società a costruire 122 - Mill, ivi: 67s. 123 - Mill, ivi: 68.

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personalità in armonia con se stessa e, così, a costringere tutti ad uniformarsi ai suoi modelli.124 Va considerato inoltre che gli istituti imposti dal costume hanno la caratteristica di apparire auto-evidenti, perché il costume viene continuamente scambiato per natura.: ciò che il costume ha imposto è qualcosa a cui la gente si è abituata a credere; ed è stata, inoltre, incoraggiata, da alcuni che aspirano al titolo di filosofi, a ritenere che quanto il sentimento e il costume impongono, quello non ha bisogno di giustificarsi mediante ragioni.125 Ancora una osservazione per concludere. Dunque, in particolare la società ‘democratica’ corre il serio rischio di patire la tirannia della maggioranza. Che la prospettiva, in cui si muove Mill sia piuttosto morale che politica è dimostrato, anche, dal fatto che denunciando quella tirannia o dittatura, lo stesso Mill si dimentica di quanto proprio egli ha scritto. Ovvero, che nella moderna società <potere della maggioranza> non è altro che espressione retorica per indicare il potere di chi è riuscito a farsi credere dagli altri maggioranza. Se questo è vero –e lo stesso Mill ce lo ha appreso-, l’autentico pericolo non è la dittatura della maggioranza, sì piuttosto l’esistenza di meccanismi sociali che consentono ad una parte di conquistarsi il ruolo di maggioranza e, dunque, di usare monopolisticamente i poteri sociali per adeguare gli altri (che forse sono –loro- autenticamente la maggioranza) ai propri valori ed interessi, convincendoli nello stesso tempo di operare, così, secondo morale. Ma di questo Mill non dice.126

Parte Seconda: L’uomo come ente sociale. Introduzione: Dal casuale all’ente sociale.

“A mio giudizio, conta concepire ed 124 - Mill, ivi. 125 - Mill, ivi: 69. 126 - Opportuno appare questo giudizio. “la razionalizzazione milliana dell’irrazionale appare più una sovrapposizione che non un disvelamento reale dei meccanismi psicologici e sociologici.” (Camporesi, op. cit.: 18).

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esprimere il vero non solo come sostanza, ma appunto altrettanto come soggetto.” (Hegel, Fenomenologia ). “ … il contenuto non deve in generale essere un astratto; anzi ogni contenuto veritiero non è affatto un astratto, anche se non sia contenuto dell'arte. Anche il pensato in quanto pensato deve essere in sé un concreto, un soggettivo, un individuale. il contenuto dunque, per essere veritiero, deve essere concreto. Per esempio: se diciamo di dio che egli è il semplice Uno, dio in questo caso è pensato come mero astratto ed è inadatto all'arte; gli Ebrei e i Turchi perciò non possono avere arte. Ma dio non è questo astratto della vuota essenzialità, non è l'astratto dell'intelletto privo di ragione. Dio nella sua verità è in se stesso il concreto, dio è persona, è soggetto e, concepito come persona, nella sua determinatezza, spirito, colui che è in sé trino, in sé determinato e l'unità di questa determinatezza. Ciò costituisce il concreto. Dunque dio è il concreto, vero. Nel pensiero, che abbraccia il vero, bisogna anche esser proceduti fino al concreto –il contenuto deve dunque essere in se stesso concreto, non soltanto per essere suscettibile dell’arte, ma in generale per essere contenuto veritiero. La terza cosa è che il sensibile è anch’esso essenzialmente un concreto, individuale, singolo in sé. Ciò che è in sé vero, è un concreto.” (Hegel, Lezioni di Estetica, Bari Laterza 200: 33s).

1 - E’ noto che Einfall è un termine assai importante nel vocabolario

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freudiano e più in generale della psicologia dinamica o del profondo127. Come leggiamo nell’Enciclopedia di Laplanche e Pontalis, “un’<idea che viene in mente> (Einfall) al soggetto, apparentemente in modo isolato, è sempre un elemento che rinvia in realtà, coscientemente o meno, ad altri elementi. Si scoprono così delle serie associative (, le quali) si intersecano formando delle vere reti con <punti nodali> per i quali passano varie linee.” 128 Per meglio determinare il significato del tedesco Einfall, ricordiamo l’espressione ein schöne Einfall, che vale l’italiano <una bella trovata> ed osserviamo, quindi, come semanticamente non sia difficile passare da Einfall a Witz, vale a dire, <trovata geniale>, <motto di spirito>, <gioco di parole> ecc, tutti argomenti, di nuovo, che costituiscono un importante argomento per l’indagine psicoanalitica e della psicologia dinamica, ma che anche furono motivo assai significativo della riflessione illuministica (basti citare gli esempi di Francis Bacon, di Locke e di Addison).129 Dal punto di vista semantico, il tedesco Einfall –che rimanda al verbo fallen- va accostato al greco tynchánoma (e, dunque, al verbo tynchánomai e al sostantivo Tyche). Queste espressioni greche, è noto, giocavano un ruolo particolarmente importante nella prospettiva filosofica dello stoicismo, che –dal punto di vista morale- considerava libero l’uomo, che fosse riuscito a sottrarsi alla dominazione della sorte (la Tyche), di ciò che semplicemente accade o si trova (tynchánoma) e che, proprio per ciò, è qualcosa di improvviso, di gratuito in questo senso, ma anche il risultato di un automatismo, sconosciuto e non domato dall’uomo. 127 - Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, §. 86: 182 usa Erinnerung, nel senso di ciò che può venir in mente quale obiezione a X; sembra, quindi, che -usato in questo modo- il termine suggerisca sia la nozione di ricordo, sia quella di idea improvvisa. A questo punto, è interessante notare che il trattamento analitico di Freud si serve dell’Einfall/idea improvvisa, per recuperar ricordi. 128 - J. Laplanche – J. B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 1, Bari Laterza 1973: 38. Nella Prefazione alla Phänomenologie, Hegel usa l’espressione willkürlich Einfall. Possiamo naturalmente osservare che il trattamento analitico serve per Freud a far sì che l’Einfall perda l’apparenza d’arbitrarietà (willkürlich), per rivelarsi, invece, componente regolarmente inserita nella normale vita psichica del paziente. 129 - Si ricordi anche che un senso di Einfall è quello di plötzlicher Gedanke (=pensiero improvviso) e che quest’ultimo termine appartiene all’antico linguaggio mistico tedesco. (cf. Etymologie. Herkunftswörterbuch der deutscher Sprache, Duden Band 7, Duden Verlag 1989). L’hegeliana Enzykloplopädie, §. 81 offre un esempio per così dire dell’accezione negativa di Witz, quando mette in diretta relazione Scharfsinn e Räsonnement, quali elementi di una dialettica ancora tutta dentro il dominio dell’intelletto.

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Non fa meraviglia, in conclusione, se in Hegel –che tanta attenzione volse per altro al pensiero stoico-, il termine Einfall si coniughi con casualità (Zufälligkeit), effettualità (Wiklichkeit) e stranezza (Sonderbarkeit). Se torniamo alla citazione di Laplanche e Pontalis, vediamo che, per Freud, l’Einfall è solo un punto di partenza, nel senso che lo scopo del trattamente analitico –ed in particolare del metodo delle associazioni- è riuscire a dimostrare come l’idea improvvisa, in realtà non sia tale, dacché risulta piuttosto da una serie di interconnessioni e passaggi, che consentono di comprendere come l’Einfall sia un evento tutt’altro che gratuito e tutt’altro che rispondente a meccanismi, estranei al soggetto in questione. Più in generale, si può perfino dire che la finalità del trattamento analitico, quale Freud lo pensa, richiama fortemente la tesi stoica, nel senso che soggetto psicologicamente normale è quello che riesce a superare l’improvviso, il gratuito, esattamente perché ne ricostruisce la trama connettiva, che ne fa un prodotto, connesso al suo agire consapevole. Per Freud, insomma, psicologicamente sano è quel soggetto, i cui atti psichici si dispongono coerentemente l’uno con l’altro e sono accompagnati da coscienza, volontà e giudizio. Se l’uomo psicologicamente malato è luogo di déchirements (scissioni, dilacerazioni e, quindi, Einfälle), l’uomo psicologicamente sano è, invece, il centro di se stesso, nel senso che i suoi atti sono momenti di un insieme coordinato e sistematico di decisioni, giudizi, volontà coscienti. In questo senso si può dire che l’uomo morale dello stoicismo serve bene a chiarire il concetto di <normalità psichica> nella prospettiva freudiana; serve bene a farci capire cosa significhi per la psicologia dinamica essere un Soggetto, un Sé. Una forte analogia lega la maniera, in cui la nozione di Soggetto è presente in Freud, e la maniera in cui è presente in Hegel. Questo si può dire, ovviamente, ad un patto: ovvero che si tenga ben presente che l’orizzonte di pensiero di Hegel non è la vicenda psichica, né in generale la vita del singolo uomo. Piuttosto, l’oggetto della sua riflessione è lo svolgersi dell’esperienza e, dunque, il processo storico di formazione dell’uomo, in quanto Gattungswesen o ente sociale, collettivo130. Insomma, l’oggetto della riflessione di Hegel è la storia 130 - L’espressione Gattungswesen la troviamo anche nel giovane Marx, utilizzata nel senso che abbiamo visto. Si consideri che il termine Gattung rimanda al tedesco antico Gatte (= compagno) e a gatten (= unirsi). Anche per Machiavelli era chiaro che in tanto la virtù umana poteva realizzarsi, in quanto esisteva una societa politica, fatta in modo tale da consentiro: uno

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dell’uomo e, in particolare, di quelle fasi critiche, che segnano il passaggio da una tappa all’altra del processo di costruzione dell’umanità. Ciò che Hegel studia, potremmo dire, è la scena della difficile costruzione dell’uomo in quanto Sé, in quanto Soggetto – laddove <Sé> e <Soggetto> hanno un significato strettamente analogo, a quello che abbiamo visto in Freud e nella psicologia dinamica.131 A ciò si aggiunga che quanto davamo come manifestazione della patologia psichica, secondo Freud, anche in Hegel compare, ma in quanto natura, ovvero come generale condizione dell’ essere-esterno-a-sé (Außersichsein).132 Stato è buono, possiede virtù –dice infatti Machiavelli-, quando in esso si trovano tutte le condizioni, perché ogni singolo possa dispiegare la propria virtù. (Horkheimer, Anfänge der bürgerlischen Geschichtphilosophie,, Fischer Bücherei 1971: 18). 131 - “Di fatto la scrivania che mi sta davanti, se tento di afferrarla non si converte ogni volta nella pluralità delle sue proprietà ... e non fa anche ritorno di nuovo nella sua unità? Ma siffatto rovesciamento non si dà nella forma più compiuta nel vivente, che organizza se stesso, e nell’autocoscienza, che si coglie in modo consapevole e libero come ciò che essa è?” (Pöggeler, op. cit.: 240). Per la nozione di soggetto in Hegel, utilissimo J. Hyppolite, Genesi e struttura della ‘Fenomenologia dello spirito’ di Hegel, Firenze 1972: 27s. “Il vero è soggetto o concetto, il che equivale a dire che il vero è esso stesso questo movimento del divenire ciò che esso è, o del porre sé medesimo. Il vero non è dunque l’immediato, ma die werdende Unmittelbarkeit.” (Hyppolite, op.cit: 100). .”In fine, la sostanza vivente è l’essere, che in realtà è soggetto, ovvero –ma è lo stesso- che in verità è reale, in quanto attivo (wirklich da wirken = agire). (Hegel, Phänomenologie …: 23 ). 132 - L’unità originaria o ragione (Marcuse, 1689: 43s): “come ragione viene inizialmente stabilito il principio originariamente sintetico in se stesso, appunto in base al suo carattere sintetico: come un determinato modo di comportarsi nella maniera dell’unificare, del sintetizzare la molteplicità nell’unità che si mantiene mediante questa molteplicità.Una siffatta unità unificante può però essere possibile soltanto come essere di un io, di una soggettività che possa avvertire (ver-nehmen) la molteplicità (come la sua propria negatività, in cui soltanto essa è positiva, è «posta»), distinguerla da sé (porla dinanzi a sé) e, in quanto così avvertita e distinta, riferirla a sé. Un siffatto distinguere è però appunto la funzione del pensiero, e, riferendosi a questo originario carattere fondamentale della sintesi distinguente, Hegel può dire «che ogni realtà consiste appunto in questo distinguere». Soltanto un esser-uno che distingua, che avverta e che immagini in se stesso ciò che è stato avvertito, può mantenersi come indipendente nel compiersi della sintesi, nell'«attività infinita»; solo cosi, nel diventar altro, nel cambiamento, che l'accogliere e l'immaginare la molteplicità avvertita portano necessariamente con sé, esso può rimanere uguale a se stesso. Solo l'essere nella maniera dell'io percipiente e conoscente è una tale mobile identità con se stesso.” (Marcuse, L’ontologia

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Diciamo, in conclusione, che il dramma, di cui Hegel dà conto, è quello della continua fatica dell’uomo per costruirsi come Soggetto, che esce da e supera l’ Außersichsein. 2 – Come ricordava Errico Berti in una recente antologia laterziana133, l'esplicita distinzione fra teoresi e politica, fatta in base alle finalità (rispettivamente, il vero e/o la vittoria, il potere, l'utilità), è d'origine aristotelica. Se per questo rispetto -della formalità-, secca è l'alternativa (o puo' esserlo) fra le due attività (la teoretica e la politica), non meraviglia certamente che, nell'ambito della prospettiva dialettica, l'atteggiamento sia, invece, quello di chi ricerca la mediazione fra i due opposti. In linea generale, infatti -come mostra bene lo stesso Leibniz-, l'atteggiamento dialettico consiste, appunto, nell'assumere l'opposizione (o la contraddizione, la contrapposizione, la dissonanza, lo scarto, ecc.) come una sorta di sfida alla ragione, come quell'occasione privilegiata, che consente alla ragione appunto di svolgersi, di arricchirsi di ulteriori modalità e forme, insomma, di mostrare la propria plastica capacità di tutto penetrare, mediare e sviluppare. La ragione dialettica, infatti, non sta essenzialmente nei contenuti, che storicamente essa riconosce e accoglie ma che, volta a volta, possono esser messi in questione (e lo sono di fatto) da nuove credenze ed atteggiamenti, decisioni. La ragione dialettica, piuttosto, è una certa forma, che si raffina, complica ed arricchisce nell'impegno a superare cio', che sembra contraddirla o, meglio, cio' che si presenta in opposizione, in dissonanza con i suoi contenuti storicamente definiti. Ed è esattamente di questo tipo l'atteggiamento, che la ragione dialettica assume di fronte all'opposizione fra teoresi e politica, tra filosofia e pratica. E' da questo contesto -come vedremo- che nasce il tema della realizzazione della filosofia, di cui tenteremo di mettere in chiaro sia alcuni aspetti, che riguardano la struttura formale, che le sue condizioni di possibilità e i suoi presupposti. Nell'Enciclopedia134, Hegel scrive che lo spirito è attività; ma poichè lo spirito è attivo, allora si esteriorizza; non bisogna, dunque, esaminare lo spirito come un ente senza processo, come avveniva nella metafisica antica, la quale divideva l'interiorità di dio aprocessuale dalla sua di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, Firenze La Nuova Italia 1969: 44s). 133 - AAVV, Aristotele, a cura di E.Barti, Bari laterza 1997: 212. 134 - G.W.F. Hegel, Enzyklopödie der philosophischen Wissenschaften, Frankfurt/Main 1970: 101a.

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processualità; al contrario, lo spirito va esaminato essenzialmente nella sua concreta realtà, nella sua energia, e le sue esteriorizzazioni vanno riconosciute come determinate dalla sua interiorità. Abbiamo qui un chiarissimo documento dell'immanentismo dialettico che, da un lato, riconosce la differenza fra spirito ed esistenza effettiva (dunque non appiattisce, non riduce l'una all'altro, non perde la differenza, ma la mantiene); dall'altro lato, pero', fa dell'uno la condizione, il completamento dell'altra, per cui il processo reale -che non è se non questo inverarsi dello spirito nell'esistenza (Dasein) e potenziarsi dell'esistenza nello spirito (Geist)- è l'effettiva realtà dello spirito stesso.135 Il processo non è, dunque, un contrapposto dello spirito, che vada forzatamente ricondotto alla stabilità della regola; non è un semplice contingente privo di senso, casuale, assurdo; piuttosto il processo è il farsi reale dell'intimità dello spirito, è il momento in cui effettivamente questa intimità esiste. Così come dall'altra parte, è solo perchè attraverso di essa è lo spirito che si mostra, è solo per questa ragione o condizione, che l'esistenza (il Dasein) acquista senso e peso effettivi. Come si vede, giusta la prospettiva dialettica, lo spirito da morta cosa, irrigidita e fissa, diviene energia, diviene la ragione, il logos del processo, del divenire. Come, per l'altro verso, quest'ultimo, a sua volta, da semplice, gratuito mutamento diviene, invece, svolgimento, esplicazione, esteriorizzazione della regola. E' in forza di tale mediazione, di tale compenetrarsi di contingenza e necessità, di mutamento e di permanenza, di deviazione e di regola, è in forza di cio' che il cambiamento -sottolinea Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia136- è qualcosa che resta identico a sè, perchè non è il rigido contrapposto dell'universale, con la sua necessità, ma piuttosto è momento dell'universale stesso, dunque, si colloca all'interno di esso.137 A questo scenario universale di compenetrazione degli opposti, a questo gioco di continuo rinvio di un opposto al proprio opposto, 135 - Si ricordi la fondamentale osservazione di J. Hyppolite, che –nei suoi Saggi su Marx ed Hegel (Milano 1965: 19)-, che evidenzia come, in continuità con lo scetticismo, Hegel ponga la relazione al posto della cosa. 136 - G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie. 2, Frankfurt/Main 1971: 153. 137 - Per Hegel l’universale non può esistere, se non in quanto si particolarizza. Dall’altra parte, l’esistenza effettiva del particolare c’è in quanto modo di presentarsi dell’universale. Potremmo dire che, da un lato, l’universale s’abbassa nel particolare ma che, dall’altro, il particolare s’eleva ad universale –si tratta di un duplice movimento, esplicitamente indicato da Marx, quando spiega il senso di realizzazione della filosofia.

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appartiene l'esperienza umana, che è sempre espressione della conflittuale relazione fra uomo/ altro uomo (società) e natura. Ora, se I'epistemologia, per es., è caratterizzata, anche, dal chiedersi <puo' l'uomo conoscere?> o dalla ricerca di determinate e costanti regole e procedure, senza le quali non si dà conoscenza, allora, giusta l'angolazione dialettica, proprio l'epistemologia sembra perdere molto del proprio interesse138. Nel senso che la conoscenza si rivela essere null'altro che un aspetto della complessa relazione, che lega l'uomo al proprio ambiente sociale e naturale; null'altro che una delle pratiche, attraverso cui si realizza la presenza dell'uomo nel mondo.139 Interrogarsi, dunque, sulle possibilità umane di conoscenza rischia d'avere lo stesso senso che chiedersi se l'uomo puo' vivere, puo' operare: c'è là, sotto i nostri occhi, tutta la storia a rivelare la futilità di tali domande, ma anche a mostrare quale sia, invece, il vero problema: rintracciare, cioè, anche nell'attività conoscitiva, i segni della storicità umana, le impronte di quella 'fatica del vivere', che è anche 'fatica della costruzione del concetto'.140 Con questo si comprende, anche, che non porta a nulla semplificar le cose, ad es. ricercando un metodo che garantisca il conoscere. In quanto parte delle 'torsioni e tensioni' (come diceva un certo linguaggio mistico della tradizione tedesca, certo non ignorato da Hegel), anche la conoscenza non ha tracciati lineari, disegnati una volta per tutte. Al contrario, il suo svolgersi è segnato, anche, da un gioco di decisioni, di postulazioni, di 'vie indirette' (Umwege), che costituisce lo snodarsi -sempre faticoso e vario, circostanziato- del conoscere appunto. 3 - Cosi Plechanov: "Nel settembre del 1843, accingendosi alla pubblicazione dei Deutsch-Franzosische Jahrbiicher, Marx scriveva a 138 - E’ questo –mi pare- anche il senso della citazione hegeliana, che troviamo in Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano 1996: 562. 139 - “Realtà = Realtà rivelata = Verità = Concetto = Logos. La realtà di cui noi parliamo include il nostro discorso (Logos), perché anch’esso è reale. Parlare di una realtà che non lo include (oggetto senza soggetto) è dunque parlare di un’astrazione, è parlare (filosofiare) astrattamente. (Ora, l’Oggetto che include il Soggetto è Spirito, Geist. L’Essere concreto è dunque Spirito).” (A. Kojève, Milano 1996: 57). 140 - “La totalità è la storicità dell’uomo, la sua esistenza nel mondo spazio-temporale in cui lotta e lavora. L’uomo diferisce dall’animale perché è un essere negatore; non è però un essere sintetico, non è totalità (cioè una realtà concreta) se non nella misura in cui si ricorda di ciò che ha negato (Erinnerung): il che implica la coscienza, nel suo senso più lato.” (A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano 1996 : 81).

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Ruge: <Fino ad ora i filosofi hanno avuto in tasca bell'e pronta la soluzione di tutti gli enigmi, e allo sciocco mondo dei profani non restava che spalancare la bocca perche vi volassero le colombe arrostite della scienza assoluta. Adesso la filosofia si è fatta mondana. .. Se la costruzione del futuro e il ritrovamento di una soluzione valida per tutti i tempi a venire non sono affar nostro, tanto più chiaro ci appare ciò che dobbiamo fare al presente: parlo di una critica spregiudicata di quanto esiste, spregiudicata in due sensi, in primo luogo perche non teme i propri risultati, in secondo luogo perche non indietreggia di fronte allo scontro con le autorità costituite.> .”141 L 'interesse di questa pagina sta nel fatto di rettificare (ante literam) un punto centrale della vulgata marxista (verso la quale d'altra parte Plechanov non è privo di responsabilità). Marx -ricaviamo dalla pagina citata- non ipotizza un 'superamento della filosofia' -nel senso che si faccia propugnatore dell'abbandono di una pretesa 'vecchia strada' filosofica (quella dell'interpretazione del mondo), in nome d'una altrettanto pretesa 'nuova strada' della politica (quella del cambiamento del mondo). Piuttosto, Marx individua uno spartiacque -quello della mondanizzazione142-, in forza del quale la filosofia abbandona la propria aristocratica ed illusoria isolatezza, per mondanizzarsi, appunto, dunque, per ritrovare nei caratteri e nella dinamica della comune vita mondana le sue stesse radici; in questo modo, la filosofia si fa momento -quali che ne siano le particolarità- della comune esperienza storica umana. Ma anche si responsabilizza rispetto ad essa, nel senso che la comune vita storica diviene l'orizzonte stesso del suo operare. "Le rivoluzioni hanno bisogno di un elemento passivo, di un fondamento materiale143. La filosofia può realizzarsi in un popolo, nella misura in cui significhi la risposta ai suoi bisogni. … diverranno i bisogni teorici immediatamente bisogni pratici? Non basta che il pensiero si volga verso la realizzazione: è necessario, anche, che la realtà si volga verso il pensiero."144 E' così che troviamo formulati in Marx i temi, di cui diceva Plechanov: 141 - Il Manifesto del Partito comunista e i suoi interpreti, Roma Editori riuniti 1973: 130. 142 - Di cui, ad es., è un modello Descartes che, per la sua elaborazione teorica, consapevolmente si volge anche al mondo delle botteghe ed all’attività degli artigiani. 143 - Per comprendere bene il senso di tale affermazione la si confronti con “l’idealistica odiosità dello spirito contro la natura”, che caratterizzava sia il pensiero di Fichte che quello di Schiller –per quest’ultimo, cf. Th. Mann, Saggi su Goethe, Milano Mondadori 1982: 64. 144 - K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in MEW. 1: 386.

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la mondanizzazione della filosofia significa, con tutta evidenza, che quest'ultima assume coscienza del proprio nascere dal generale movimento storico, il quale testimonia dei bisogni, delle esigenze, che segnano nel profondo un'epoca data. Non dunque nel cielo di una 'angelica' speculazione ha la filosofia le proprie radici, ma sì nel mondo storico comune, nelle sue contraddizioni e carenze. Ciò significa che anche attraverso la filosofia è la condizione umana, storicamente determinata (o, forse meglio, che nella determinazione storica trova il proprio finish, ma non la propria risoluzione ), ciò che si rende leggibile. E d'altra parte ciò significa, anche, che la condizione storica può legger se stessa nell'espressione filosofica. Dunque, per Marx, la mondanizzazione della filosofia non implica solamente che questa abbandoni il proprio orgoglio, la propria pretesa d'esser prodotto e segno di un mondo, altro rispetto a quello comune. Comporta, anche, un maturarsi della condizione storica reale, mondana, fino al punto che questa riconosca, nella filosofia e nelle sue esigenze, se stessa e i propri bisogni radicali. Concludendo, secondo una logica che abbiamo già sottolineato, la mondanizzazione o realizzazione della filosofia implica due movimenti: quello, secondo cui la filosofia si riconduce al movimento reale e l'altro, secondo cui il movimento reale si riconosce nella filosofia ed accoglie come proprie le sue esigenze.

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Due pagine sulla dialettica.

Il mio intento è disegnare un significato di dialettica che, da un lato, sia filologicamente sostenibile e, dall’altro, si mostri in sintonia con esigenze e orientamenti profondi della nostra epoca. Mia intenzione, insomma, è dimostrare che esiste un senso di dialettica, storicamente fondato e, ad un tempo, capace di raccogliere ed esprimere quanto c’è di vitale nella cultura contemporanea. Allo scopo mi servo di due pagine di altrettanti autori che, sia pure diversamente, hanno rappresentato momenti importanti della riflessione teorica novecentesca sulla dialettica: l’economista inglese Maurice Dobb e il filosofo francese J-P. Sartre. Non casualmente ho usato l’espressione <mi servo>: in effetti, utilizzo a volte (quasi sempre?) quanto scrivono i due autori, anche per ordinare riflessioni, che mi derivano da altre fonti. L’operazione è legittima, esattamente perché dichiarata: ciò che conta è sapere che non necessariamente il mio commento a Dobb o Sartre è rispettivamente ‘dobbiano’ o ‘sartriano’, dacché rinvia, invece, ad altre sollecitazioni, che per altro risultano dalla bibliografia citata.. Il disegno, che dovrebbe risultare da tutto ciò, non pretende certo di essere esaustivo, ma sì orientativo –nel senso di orientare il lettore verso la comprensione della fertilità, ancora oggi, della prospettiva dialettica.

1. In M. Dobb, 1974: 70s, troviamo un’esposizione dell’approccio dialettico, che ci conviene riportare quasi integralmente, per via della sua precisione ed essenzialità: riflettere sulle singole parti di tale esposizione ci consentirà subito di afferrare alcuni termini essenziali del problema <dialettica>. Iniziamo.

“Secondo la concezione marxista della storia (dunque, posta la marxista <filosofia della storia>: che d’ora in avanti indicherò con FDS), il progresso ha visto succedersi vari sistemi di classe, ciascuno generante le condizioni tecniche e i connessi modi di produzione del tempo, e a sua volta condizionato da essi. Gli antagonismi di classe, fondati sui rapporti che le diverse sezioni della società hanno con il sistema di produzione predominante,

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sono stati la fondamentale forza motrice del processo, del passaggio da una forma a quella successiva. Come risulta chiaramente da un esame delle sue origini, anche il capitalismo è un sistema di classe; diverso per aspetti di essenziale importanza dai sistemi precedenti, ma pur sempre fondato su una dicotomia fra i padroni proprietari e i soggetti espropriati. Era ben naturale che Marx guardasse alle peculiarità di questo rapporto di classe per trovare una chiave che gli consentisse d'interpretare il ritmo essenziale della società capitalistica, di ritrovare gli squilibri, le tendenze al movimento della società nei suoi fondamenti e non solo sui suoi fondamenti, dietro il velo delle armonie economiche, che un'analisi limitata semplicemente ai rapporti di scambio in un libero mercato sembrava rivelare.“ (sott. mie, S.G.).

Notiamo subito che M. Dobb, pur volendo illustrare la teoria marxiana circa il modo capitalistico di produzione (kapitalistische Produktionsweise, d’ora in avanti KPW) –dunque, un argomento singolare, determinato, specifico-avverte, tuttavia, la necessità (in piena coerenza con l’impostazione di Marx) di fare di una teoria generale (la FDS) il punto di partenza. Com’è chiaro, si tratta di un modo di procedere radicalmente anti-empiristico, in quanto presuppone che il <generale> non sia –come l’empirismo, invece, vorrebbe- il risultato di un processo di generalizzazione (appunto!) dal <particolare> o empirico145; ma sìa piuttosto la condizione per poter osservare il <particolare>. In altre parole, possedere una teoria (corretta) è il presupposto, che mi mette in condizione di avere una consapevole e determinata esperienza degli eventi, che si manifestano (in questo senso, di osservarli, non semplicemente di vederli). Si tratta, lo ripeto, di un classico argomento anti-empiristico, che Marx poteva ricavare –se non altro- da Hegel (1770-1831) e da Leibniz (1646-1716)146 e che ricomparirà, per es. in Lenin (1870-1924), quando questi affermerà la centralità della teoria sia per la costruzione del partito, sia per la stessa azione rivoluzionaria. E’ utile notare, ancora, che fa parte della teoria generale –ovvero della FDS marxiana o dialettica- concepire le condizioni tecniche e i modi di produzione come qualcosa che muta nella storia, che assume forme diverse; e che son proprio queste forme diverse ciò, che specifica e 145 - Va da sé che tutto ciò che è empirico (dunque, possibile oggetto d’esperienza sensibile) è particolare. 146 - Quest’ultimo, in particolare, è interessante, dacché in polemica con l’empirista inglese John Locke (1632-1704), sottolinea il dogmatismo, da cui è necessariamente affètta l’impostazione empiristica, che assume il dato empirico come l’indiscutibile e non si sforza di cogliere il complesso di condizioni, di cui invece è espressione.

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differenzia ogni singola tappa del processo storico: quest’ultimo, dunque, non potrà esser letto –linearmente- come lo svolgersi progressivo di uno stesso schema o essenza (la economia, la società o l’uomo)147. Ben al contrario, i sistemi di classe, che volta a volta si presentano nella storia, da un lato, impongono alle condizioni tecniche ed ai modi di produzione certe forme determinate e, dunque, irripetibili, dall’altro, questi stessi sistemi non sono né casuali né arbitrari, in quanto son quelli resi possibili da condizioni tecniche e modi di produzione empiricamente esistenti148. Dunque, fa certo parte dell’approccio dialettico l’affermazione del primato della teoria sull’empirico, ma anche la consapevolezza che una teoria è capace effettivamente di ‘leggere’ il movimento reale (in questo senso la storia), se è in grado di cogliere di quest’ultimo (e di giustificare) non solo i tratti costanti e generali, sì anche le differenze essenziali, che ne caratterizzano le varie tappe. Ma dal rapporto fra sistemi di classe, da un lato, e condizioni e modi di produzione, dall’altro, possiamo ricavare anche un’ulteriore riflessione, per altro di grande importanza sul piano scientifico. Abbiamo visto, infatti, che per un verso i sistemi di classe determinano condizioni e modi di produzione, ma per un altro sono, a loro volta, determinati da questi ultimi: è esattamente come se dicessi che <c è causa di e (cCe)>, ma a sua volta che <e è causa di c (eCc)>. Non è difficile comprendere che accogliere come vere entrambe le formule significa mettere radicalmente in discussione quello che comunemente si intende per rapporto di causa ed effetto149. Facciamo un esempio per chiarire. Posto che M sia una medicina, suo effetto sarà la guarigione –in questo senso è del tutto legittimo affermare che M è causa della guarigione. Ma cos’è che rende M una medicina? Il suo produrre guarigione –in questo senso è del tutto legittimo affermare che la 147 - E’ l’<errore>, che commette il pensiero economico borghese, dacché interpreta le epoche pre-capitalistiche come tappe per giungere alla società capitalistica, ovvero, all’unica in cui, finalmente, le eterne leggi dell’economia sono riconosciute e rispettate. E’ questo il senso anche della critica che F. Engels muoveva a Dühring 148 - A sostegno dell’uso di <possibile> in questo contesto, cf. M. Dobb, 1974: 19, il quale scrive: “… le alternative esistono, nonostante il determinismo di cui danno prova gli economisti appellandosi alle ‘leggi economiche’.”. Per questi temi, rimando al mio Dialettica e socialità, Roma 2000. 149 - Almeno se è vero che tale rapporto implica una chiara e netta distinzione fra ciò, che gioca il ruolo di causa, e ciò che gioca il ruolo di effetto. Accettare come vere sia cCe che eCc, implica invece ammettere che causa ed effetto, pur essendo opposti, si rovescino l’una nell’altro e vice versa.

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guarigione è causa della medicina, è ciò che rende la medicina appunto medicina.150 In definitiva, la critica dialettica del principio di causalità significa operare una duplice sostituzione: (i) al posto di categorie rigidamente separate e giustapposte (causa e/o effetto), introdurre, invece, categorie fluide; (ii) al posto di un movimento univocamente determinato (quello della causa in direzione dell’effetto), introdurre un sistema di interazione e, dunque, un movimento in qualche modo circolare (nel senso che se è vero che la causa determina l’effetto, è altrettanto vero che solo la presenza dell’effetto fa sì che la causa esista effettivamente)151. Riprendendo a leggere il testo di M. Dobb, osserviamo che esso sottolinea come oggetto della riflessione marxiana sia non già uno stato di fatto, ma sì un processo (quello del passaggio da una forma sociale ad un’altra) e, quindi, le forze motrici, che lo provocano. Si tratta di una precisazione di grande rilievo, perché, da un lato, ci fa capire cosa significhi il motivo dialettico (hegeliano, in effetti), secondo cui la coscienza è sempre in ritardo rispetto a ciò, di cui è coscienza; dall’altro, ci dota di uno strumento per valutare la serietà (o non serietà) di una filosofia, nonché ci permette di comprendere in che senso e limite sia possibile –filosoficamente- un sapere, che anticipi sul futuro. Vediamo con ordine. Iniziando, nei Grundrisse, l’analisi delle forme precapitalistiche di produzione, Marx indica tre processi o relazioni, che caratterizzano la KPW: 1) lo scambio lavoro libero contro denaro, 2) la ricerca del 150 - La ‘pericolosità’ di questo tipo di argomento è chiara: se affermo, poniamo, che dio è creatore del mondo, in realtà affermo anche che dio, per esser tale, dipende dal mondo, nel senso che è l’esistenza del mondo a renderlo dio, a porlo come dio. In tal modo ho rovesciato una fondamentale affermazione religiosa nel proprio contrario –ovvero, nell’affermazione della dipendenza di dio dal mondo. E’ questa, in definitiva, l’operazione, che compie Hegel, 1970; operazione che, con tutta evidenza, è il presupposto del discorso, che Feuerbach (1804-187) farà sulla religione. 151 - Le formule possono aiutare a capire: se il rapporto di causalità può essere rappresentato con: c e (la causa, che si muove verso l’effetto, che opera su di esso); la critica dialettica alla causalità può invece autorizzare una formula come la seguente: c e (ovvero, il muoversi degli estremi ognuno verso l’altro, dunque, il loro agire l’uno sull’altro). “Le spiegazioni causali –osserva V. Giacchè, 1990: 59- hanno per Hegel validità universale, ma loro proprium è la natura inorganica, in quanto solo eccezionalmente (per lo più in condizioni patologiche) i rapporti causali risultano <dominanti> nell’ambito della vita e dello spirito … per un verso causa ed effetto restano esterni e contingenti l’uno all’altro, cosicché la necessità che nel rapporto causale si vorrebbe esibire è soltanto presunta …; per l’altro, la cosiddetta <spiegazione> di un fenomeno è concepita come il mostrare l’identità di un effetto e delle sue condizioni causali, lo stesso <spiegare non è nient’altro che la produzione di una tautologia>.”

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denaro per ottenere nuovo denaro, 3) la netta separazione del lavoratore libero dalle condizioni materiali del lavoro. Sotto il profilo metodologico, il fatto che il testo di Marx (dedicato, lo si ricordi, alle forme pre-capitalistiche di produzione) inizi in questo modo, a ben vedere, ci dice che l’intento di Marx non è propriamente quello dello storico (almeno se ci atteniamo a ciò che comunemente si intende per <ricostruzione storica>). Insomma ci dice subito che dalle marxiane Formen non dovremo attenderci la ricostruzione attenta e precisa di ciò, che costituiva l’essenza specifica di ognuna delle forme precapitalistiche; sì piuttosto un’analisi di esse, che ci aiuti a comprendere attraverso quale processo si sia giunti alle relazioni, caratterizzanti la KPW. Essendo questo l’intento di Marx, è evidente che il suo studio storico selezionerà, tra i fatti, quelli pertinenti, rilevanti, significativi rispetto all’intento dichiarato; la sua sarà tutt’altro che una storia ‘totale’, sì piuttosto una storia orientata, funzionale rispetto allo scopo di comprendere meglio le caratteristiche della KPW. E ciò comporterà, anche, una particolare predilezione da parte di Marx (ma, lo si può dimostrare, anche da parte di Hegel) verso quei momenti storici, che possiamo dire critici, nel senso che consentono di vedere sufficientemente ben dispiegati i caratteri di un’epoca, insieme, però, al primo evidenziarsi di quegli altri caratteri, che accompagnano l’epoca alla propria dissoluzione ed al passaggio ad un’altra. Se chiamiamo <filosofia> la coscienza, che l’epoca storica assume di sé152, vediamo che –nel senso dialettico di Marx (e di Hegel)- essa nasce tardivamente rispetto all’epoca, in quanto ha bisogno non solo che questa epoca esista effettivamente, ma sì anche che sia sufficientemente sviluppata da mostrare quali siano i propri tratti specifici, - ovvero, quelli mancando i quali, si scuotono le basi d’esistenza dell’epoca in questione -; ed anche da cominciare a lasciar vedere i tratti di una nuova epoca. La filosofia, dunque, è sempre legata ad un ‘oggetto’, ad un mondo storico effettivamente esistente; e compito suo è render conto di questo mondo, non di abbandonarsi a quell’ebbrezza speculativa, che fa disprezzare l’esistente, sostituendolo con l’ideale. Ecco il criterio discriminativo: una filosofia, che si sia liberata di ogni romanticismo, che abbia raggiunto l’età matura e, dunque, sappia farsi carico delle proprie responsabilità, non si ritiene estranea a questo mondo; considera, al contrario, proprio questo mondo come la 152 - Dobbiamo necessariamente risolvere in questo modo pericolosamente rapido un problema centrale della prospettiva dialettica (l’affermazione, appunto, della filosofia come coscienza scientifica, che la storia assume di sé). Se non lo facessimo renderemmo questo scritto ancora più esteso e pesante.

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sua autentica patria153 e cerca di comprenderlo (non di fuggirlo, in nome di un nobile ma esangue ideale), nonché di comprendersi come parte di esso154 Tirando le somme, una filosofia, per esser seria155, ha da avere un <oggetto> -e, dunque, comparire dopo di quello-; deve coglierne la specifica razionalità, ovvero, quel dinamismo proprio, che ne spiega sia la sussistenza, sia il possibile ‘superamento in altro’; ma ciò significa che l’<oggetto> della filosofia non è una cosa, uno stato di fatto, sì invece un certo determinato groviglio di forze, di tendenze, di dinamismi, di contraddizioni, che ci consentono attraverso la comprensione dell’oggetto, la comprensione, anche, del suo possibile futuro. In questo senso, la filosofia –pur nascendo dopo il proprio <oggetto>- 153 - Il termine tedesco per patria è Heimat e unheimlich è, per Freud, quella condizione psichica, per cui proprio in ciò che riconosco come mia patria mi sento –nello stesso momento- estraneo. 154 - Siamo probabilmente in condizione, ora, di comprendere cosa intendesse Hegel con la sua identificazione di reale e razionale (il razionale sta qua, in questo mondo; non c’è altra razionalità, se non la razionalità di questo mondo) e Marx, quando parlava di <realizzazione della filosofia> (la filosofia deve assumere coscienza che questo mondo è la sua patria, così come il mondo deve riconoscere nella problematica filosofica l’espressione di sue effettive, profonde esigenze). Si consideri quest’altra pagina di M. Dobb: “I problemi reali sono determinati tanto dall’azione che l’uomo guidato dal pensiero esplica su una situazione determinata, quanto dalla stessa situazione oggettiva (ma in movimento); in tal senso si può dire che i problemi reali rappresentano sempre, pur se in vario grado, una contraddizione tra i due elementi indicati. Questi problemi diventano comunque il punto di partenza di un nuovo pensiero, il punto d’avvio della formazione di nuovi concetti e teorie, che in tal senso sono sempre in rapporto con un particolare contesto storico. I concetti e idee che cambiano di continuo sono in parte un commento o un’interpretazione –un <riflesso>, se si vuole usare un termine così passivo- della situazione oggettiva osservata secondo una prospettiva particolare.” (Dobb, 1974: 21). Nello spirito della dialettica di Hegel e di Marx sembra essere questa pagina: “Noi abbiamo a che fare col fondamento di ogni scienza e di ogni metodo, con quel fondamento tanto difficile da cogliere nella sua semplicità –il fatto che c’è ragione. C’è ragione –è il principio di ogni scienza teorica, di ogni scienza che vuol parlare in modo ragionevole di ciò che è… C’è ragione (ovvero) l’essere del mondo è aperto all’uomo, … il mondo è ragionevole come lo è il discorso dell’uomo, … la ragione del mondo e la ragione nell’uomo sono una e medesima ragione. C’è osservazione, c’è analisi, sintesi, perché il discorso è il mondo divenuto parola e questo mondo è il discorso realizzato.” (Weil, 1985: 202)154. 155 - Per Hegel e per Marx questo significa non utopistica, non idealistica, non irrazionalistica.

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, si apre alla comprensione del futuro156. Il testo di M. Dobb, che qui ci interessa, termina, proponendoci una considerazione di estremo interesse.

“Il valore –sottolineava Marx- non è un misterioso attributo intrinseco alle cose: è semplicemente un’espressione del rapporto sociale tra uomini … Spiegare per tanto il plusvalore in termini di qualche proprietà di un oggetto (capitale), significava ricadere in quello che Marx definiva il feticismo delle merci: una specie di animismo in cui l’economia volgare post- ricardiana si invischiava sempre più.”.

Posto che capitale, plusvalore, salario, profitto, merce etc. non sono che membri della classe categoria economica, appartiene alla teoria di Marx la tesi, secondo cui ogni categoria economica è il risultato di un certo insieme di relazioni sociali, costruitosi storicamente. In questo senso, la categoria economica non è un’esistenza autonoma, non solo perché ha senso unicamente in quanto si relaziona, in un certo modo, ad altre categorie economiche, ma anche perché non esisterebbe (o se esistesse, non avrebbe il senso che, di fatto, ha all’interno di un sistema produttivo dato), se non si dessero storicamente certe relazioni di classe. Assumere effettivamente coscienza, dunque, della categoria economica significa scioglierla dalla sua apparenza di cosa esistente e ricondurla alla sua realtà, al suo essere, ovvero, rappresentazione di un certo intreccio di relazioni sociali (naturalmente non gratuito e arbitrario, ma storicamente spiegabile, dati certi livelli di sviluppo tecnologico e certe condizioni naturali e culturali). Come si vede, torna la critica all’empirismo: posta la KPW, essa si rappresenta attraverso categorie economiche, che a tutta prima si presentano come costituenti un autonomo dominio reale (il mondo economico), dotato di proprie leggi e regole, che la coscienza umana dovrebbe limitarsi sostanzialmente a riconoscere157. Ma –dice la critica dialettica (anche qui non solo di Marx, ma pure di Hegel)-, in realtà, quelle categorie non sono altro che il presentarsi -come cose a sé stanti- delle relazioni sociali o di classe, che specificano la KPW; dunque, ‘le cose’ non vanno prese sul serio, non vanno assunte per come si presentano; ma piuttosto –a dir così- bisogna aggirarle, andar dietro o sotto di esse, per mettere in evidenza il non casuale intrigo di forze, tendenze, relazioni e contraddizioni, che costituiscono l’autentica sorgente storico-sociale di quelle categorie (o 156 - In quanto basata sulla conoscenza dell’oggetto proprio, tale apertura non ha nulla a che vedere con l’utopismo. 157 - Si osservi come questo attegiamento della coscienza sia simile a quello, che essa assume nei confronti della verità religiosa.

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cose).158 E’ facile vedere come la forma o logica di questo ragionamento riproduca la forma o logica della critica all’empirismo, che Leibniz, ad es., muoveva. La produttività scientifica della critica all’empirismo è sottolineata, in un esempio di rilievo, dallo stesso M. Dobb, quando scrive:

“indubbiamente, per Marx la più importante applicazione della sua teoria fu l'analisi del carattere delle crisi economiche. Ai suoi tempi, l'esame serio di questi fenomeni era ancora agli inizi. Si erano avute alcune feconde, ma non-sistematiche, osservazioni del Sismondi (1773-1842) circa gli effetti disintegratori della concorrenza e della produzione per un largo mercato; si era avuta la classica discussione fra Malthus (1766-1834) e Ricardo sul fatto se prosperità e depressione fossero dovute alla deficienza del consumo; in Germania, Rodbertus (1805-1875) aveva sviluppato la sua teoria delle crisi, basata sul sottoconsumo. Ma, per quanto riguardava la scuola ricardiana e la sua tradizione, si può dire che nel suo sistema le crisi non trovavano virtualmente posto; se si verificavano depressioni, esse dovevano essere considerate come dovute a interferenze esterne nel libero gioco delle forze economiche o nel progresso dell'accumulazione del capitale, piuttosto che come effetto di una cronica malattia interna della società capitalistica. Perfino i successori di questa scuola furono tanto ossessionati da questa presunzione che cercarono una spiegazione in cause naturali (come il diverso andamento dei raccolti) o nel «velo monetario». Ma a Marx appariva evidente che le crisi sono connesse con i caratteri essenziali della economia capitalistica presa in sé.“ (Dobb, 1974: 85).

In questa contrapposizione fra scuola ricardiana e prospettiva dialettica marxiana, ciò che, di fatto, emerge è il nesso, che lega dialettica e sistematicità del conoscere. Per comprendere, poniamoci dapprima questa domanda: che cosa significa, dal punto di vista epistemologico, la crisi economica? Una risposta –suggestiva, ma forse anche corretta- è che essa è quel no!, che interrompe il regolare, automatico svolgersi delle leggi di funzionamento del sistema economico dato; in tal senso, la crisi è un’interruzione di continuità, un punto di rottura del sistema, di discontinuità. La scuola ricardiana –sottolineava Dobb- ha coscienza di quel no !, ma 158 - E’ ovvio notare l’evidente relazione tra questa concezione delle categorie economiche da un lato, e l’hegeliana identificazione di reale e razionale, nonché la marxiana realizzazione della filosofia.

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–in quanto momento di discontinuità- lo colloca fuori del sistema ed, infatti, ne ricerca le cause in “interferenze esterne”, rispetto al “libero gioco delle forze economiche”. Questo significa (anche) che nella scuola ricardiana funziona un certo modello di sapere, che è sistematico, ma in senso deduttivo-analitico; in altre parole, se è vero che la tradizione ricardiana non si accontenta di un sapere semplicemente empiristico (ed in questo senso Marx può citare, ad es., Ricardo contro Proudhon), è altresì vero che la sistematicità scientifica è pensata da essa, in modo da escludere la contraddizione, l’opposizione, il no!: si tratta, quindi, di una sistematicità costruita da enunciati, che pretendono d’essere linearmente deducibili l’uno dall’altro. In Marx –nella dialettica-, le cose stanno altrimenti. Il no!, la contraddizione, la crisi son concepiti come appartenenti al ritmo stesso dell’<oggetto>; non nascono, dunque, da una sospensione delle leggi regolanti il sistema, ma piuttosto sono un prodotto di quelle stesse leggi.159 Il sistema, a cui l’epistemologia dialettica rimanda, ha la discontinuità al proprio interno, ha il no! come parte di sé. Se è vero che la forma sistematica ci dice la razionalità dell’<oggetto>, ciò va inteso nel senso di una razionalità, che rende conto del regolare e dell’irregolare, del continuo e del discontinuo, del razionale e dell’irrazionale. Non abbiamo più a che fare, dunque, con una sistematicità deduttivo-analitica, ma sì con una sistematicità contraddittoria, dialettica appunto. 2. Non esiste la filosofia, afferma Sartre, ma le filosofie: se ne trova sempre solo una alla volta, "che sia vivente". Questa filosofia vivente

"si costituisce come espressione del movimento generale della società e, finché vive, è lei a servire da ambito culturale ai contemporanei. Quest'oggetto sconcertante si presenta ad un tempo sotto aspetti profondamente distinti di cui opera di continuo l'unificazione." (Sartre, 1963.: Il); la filosofia è "la totalizzazione del Sapere contemporaneo: il filosofo opera l'unificazione di tutte le conoscenze regolandosi su determinati

159 - Come si ricava anche da L. Kolakowski, 1978: 57, l’intento della dialettica di Hegel è ritematizzare il contingente, in modo che non costituisca più un impedimento al sistema e, contemporaneamente, riconoscerlo, in modo da ottenere un sistema, che esprima la varietà e diversità del reale. Utile anche J. Ch. Horn che -nella sua “Introduzione” a G.W. Leibniz, 1997: VI- scrive: “un principio universale (Weltprinzip) è tale, che si conserva ed opera non nonostante, ma mediante le sofferenze dell’umanità e, dunque, mediante i fatti. Certamente Vico ha fondato la filosofia della storia sul principio verum et factum converturtur; ma questo significa solo che i fatti storici –anche i più spaventosi- servono la verità …”.

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schemi direttivi che traducono gli atteggiamenti e le tecniche della classe in ascesa di fronte alla sua epoca e al mondo" (Sartre, 1963: 17). La filosofia "è innanzitutto una certa maniera per la classe <in ascesa> di prendere coscienza di sé; coscienza che può essere chiara o confusa, diretta o indiretta: ai tempi della nobiltà di toga e del capitalismo mercantile, una borghesia di giuristi, di commercianti e di banchieri ha colto qualcosa di se stessa attraverso il cartesianesimo; un secolo e mezzo più tardi, nella fase primitiva dell'industrializzazione, una borghesia di fabbricanti, d'ingegneri e di scienziati si è oscuramente scoperta nell'immagine dell'uomo universale che il kantismo le proponeva." (Sartre, 1963: 17). Una "filosofia, quando è in piena virulenza, non si presenta mai come una cosa inerte, come l'unità passiva e già compiuta del Sapere; nata dal movimento sociale, è anch'essa movimento e incide sull'avvenire: questa totalizzazione concreta è insieme il progetto astratto di proseguire l'unificazione sino agli estremi limiti; sotto questo aspetto, la filosofia si caratterizza come metodo di investigazione e di spiegazione; la fiducia che ripone in se stessa e nel proprio sviluppo futuro non fa che rispecchiare le certezze della classe che la sostiene. Ogni filosofia è pratica, anche quella che sembra a tutta prima la più contemplativa; il metodo è un'arma sociale e politica: il razionalismo analitico e critico dei grandi cartesiani è loro sopravvissuto: nato dalla lotta, s'è rivolto su di essa per illuminarla; nel momento in cui la borghesia cominciava ad abbattere le istituzioni dell' Ancien Regime, essa aggrediva i significati scaduti che tentavano di giustificarle. Più tardi ha servito il liberalismo e ha dato una dottrina alle operazioni che tentavano di realizzare <I'atomizzazione> del proletariato." (Sartre, 1963: 18a). "Così la filosofia resta efficace finché rìmane vivente la praxis che l'ha generata, che la sostiene e che essa illumina." (Sartre, 1963: 18b). La filosofia "dev'essere ìnsìeme totalìzzazione del sapere, metodo, Idea regolativa, arma offensiva e comunità di linguaggio ...questa <visione del mondo> è anche uno strumento che agisce sulle società tarlate ..." (Sartre, 1963: 19). "Con la sua presenza reale, una filosofia trasforma le strutture del Sapere, suscita delle idee e, anche quando definisce le prospettive pratiche d'una classe sfruttata, polarizza la cultura delle classi dirigenti e la cambia." (Sartre, 1963: 25).

Di fatto, la figura della filosofia vivente ci è parzialmente nota: già in Dobb, infatti, incontravamo la filosofia come autocoscienza di un’epoca –e questo è, senza dubbio, uno dei significati dell’espressione filosofia vivente (d’ora in avanti, FV); tuttavia, l’illustrazione, che Sartre offre di

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tale filosofia, ci consente di coglierne aspetti, finora non chiari e di svolgere considerazioni, che la pagina di Dobb non sollecitava. Ma procediamo nel commento. Dunque, la FV ( esprime il “movimento generale della società”, dà la propria impronta ai diversi ambiti culturali, unificandoli così all’interno di un certo ‘tono’ (se si può usare una tale espressione), che caratterizza un’epoca, ma anche –e contemporaneamente- quella filosofia si presenta “sotto aspetti profondamente distinti”. Potremmo dire che FV dà espressione ad un modo determinato di organizzare la relazione dell’uomo con se stesso e con il mondo, dà forma ad una certa attitude160 dell’uomo verso la propria condizione, contribuendo così a strutturare (e a dotare di senso) l’esperienza, che l’umanità storicamente fa. Naturalmente, organizzazione, attitude, dotazione di senso non hanno nulla di arbitrario e gratuito; al contrario, costituiscono forme di vita, rese possibili (non necessarie!) da oggettive condizioni d’esistenza ed, a loro volta, esse contribuiscono a definire il quadro, entro il quale si elaboreranno faticosamente la nuova attitude, la nuova organizzazione, insomma, il nuovo senso dell’esperienza, legato all’apparire ed imporsi di nuove condizioni di vita. Se vale quanto detto, allora è vero che FV non è una creazione primaria, in quanto presuppone l’esistenza di un’ attitude, di un’organizzazione, di un senso storici (insomma, di una forma di vita), che siano già operanti, che costituiscano già –nella pratica- l’esperienza, che l’uomo fa in un momento dato. Ancora una volta, la filosofia è in ritardo rispetto al proprio oggetto, in quanto di esso è la coscienza, tanto che possiamo dire con E. Weil, che le categorie, nelle quali si articola il pensiero, sostanziano la consapevolezza di sé, che storicamente un’attitude va costruendosi. Ma, appunto, la filosofia è quel pensiero, che struttura –dal punto di vista della coscienza- una certa attitude e, dunque, una determinata forma di vita. Questo significa che la filosofia non è un sapere determinato, ma invece, sempre, un sapere totalizzante, perché nasce dalle radici profonde di un’epoca storica, perché esprime. il “movimento generale della società” e, dunque, informa di sé le varie e diverse manifestazioni, in cui si articola una forma di vita. Insomma, la 160 - Uso questo termine (attitude=atteggiamento) esattamente allo scopo di richiamare l’interpretazione, che della dialettica fornisce E. Weil, del quale ricordo Logique de la philosophie –uscito a Parigi nel 1950 e, in edizione italiana, nel 1985 presso l’editrice Il Mulino-; e sul quale cito il recente e importante Soluzioni hegeliane di F. Valentini, pubblicato a Milano nel 2001, nonché La dialettica degli antichi e dei moderni. Studi su Eric Weil di L. Sichirollo, pubblicato a Bologna nel 1997.

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filosofia è, in questo senso, una <visione del mondo>, una Weltanschauung. Ma, come abbiamo visto, FV ha struttura dialettica; il che significa che il suo andamento totalizzante non esclude, ma comprende in sé l’opposto, ovvero, la differenziazione. Ed, infatti, la pagina sartriana ci dice che “quest’oggetto sconcertante (dunque, la dialettica FV) si presenta ad un tempo sotto aspetti profondamente distinti di cui opera di continuo l’unificazione”. Ogni filosofia –nel senso della dialettica FV- è qualcosa di attivo, di trasformatore: è, dunque, pratica. Ancora una volta, assistiamo al paradossale capovolgersi dell’opposto nel proprio opposto. Esattamente la filosofia –questa coscienza di un’epoca, che ne assicura la traduzione più raffinata sul piano formale (le sue categorie, infatti, sono l’attitude proiettata sul piano della coscienza) è, contemporaneamente, pratica, trasformatrice. Come si vede, Sartre ripropone quel motivo, che abbiamo già trovato in Marx (ma che si rintraccia anche in Hegel) della realizzazione della filosofia; così facendo Sartre ripropone, inevitabilmente, quel senso -tutto immanentistico- della razionalità del reale, di cui abbiamo già detto. 3. Per dare una conclusione al nostro schema o disegno sulla dialettica, son necessarie alcune puntualizzazioni. La prima delle quali è la seguente: se affermassimo la possibilità di cristallizzare la dialettica entro alcune forme ben precise e continuamente riproponentesi (le cosiddette sue leggi o forme universali), cadremmo nel paradosso –logico, non dialettico e, per questo, inaccettabile161- di patrocinare quella forma di pensiero, che ha accolto entro di sé la storia (dunque, il dinamismo, il cambiamento, la differenza); ma, contemporaneamente, di volerla irrigidire, fissandola in schemi, che pretendono mantenersi identici, quali che siano le diversità di primo acchito. Se cadessimo in questo errore, in realtà, riproporremmo un formalismo, che tenderebbe a ridurre le esperienze alla propria misura, piuttosto che esibire la duttilità necessaria ad esprimerne le diversità formali. Insomma, cadremmo nella contraddizione di pensare non dialetticamente la dialettica. Affermare che esistono leggi (o forme) universali della dialettica, ancora una volta, suggerisce l’immagine di una realtà, che sta lì di fronte a noi, bell’ e fatta, con le sue leggi proprie e rispetto alla quale 161 - Su questi temi è utile Lógica: en forma simple sobre lo complejo. Diccionario, scritto dai sovietici A. Guétmanova, M. Panov, V. Petrov e tradotto in spagnolo nel 1991. Si tratta di un documento particolarmente interessante dell’alto livello scientifico, che la cultura divulgativa sovietica seppe raggiungere.

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non abbiamo altro compito, se non di rispecchiare/tradurre nella nostra mente tale ordine e struttura obiettivi. A questo punto l’uomo, il soggetto, sarebbe ridotto a mera passività. Esattamente nella stessa misura, in cui il mondo sarebbe segno, invece, di una oggettualità162, comparabile all’incontrollata e irrevocabile verità religiosa oppure alla ‘positività’ del cosiddetto materialismo volgare163. In una parola, la dialettica sarebbe ridotta a scientismo. Che lo scientismo sia collegato al positivismo o neo-empirismo, lo si ricava molto bene dal già citato M. Dobb, quando descrive il pensiero economico oggi dominante, individuandone quali forme caratteristiche: () l’applicazione rigorosa del linguaggio matematico; () l’accettazione solo di enunciati o grammaticali o empirici164 e, infine, il rigetto di tutti gli enunciati, che non rientrino nelle due classi precedenti, in quanto metafisici. Collocata in tale prospettiva, l’economia165 acquisterà –o pretenderà di acquistare- l’aspetto e l’andamento di una qualunque scienza della natura166 e di negare, quindi, “il suo carattere essenzialmente sociale e storico”167; la conseguenza inevitabile è che dall’orizzonte dell’economia scompaia il mondo dell’esperienza, ovvero, il fitto e complesso intreccio, dato dal rapporto –storicamente mutevole- dell’uomo con il proprio mondo sociale e naturale. Ma scomparsa l’esperienza, in questo senso, non è dubbio che scompaia anche la dialettica. Non per caso –come ha sottolineato recentemente H. H. Holz-, l’imporsi dello scientismo comporta, anche, l’imporsi della cosiddetta Lebensphilosophie (filosofia della vita)168. Se riconsideriamo, infatti, le tre forme caratteristiche dell’attuale pensiero economico, poste in luce da Dobb, vediamo che questo pensiero non nega affatto la presenza 162 - Uso questo termine, distinguendolo da <oggettività>, per suggerire una dimensione reificata, dunque, inesplicabile, gratuita e indiscutibile; dimensione nettamente distinta dall’<oggettività>, i cui contorni (non irrevocabili) sono invece definiti storicamente della scienze. 163 - Si ricordi il grande rilievo, che Lukàcs dava alla polemica hegeliana contro la <positività>, nello stesso momento in cui il marxista ungherese sottolineava l’acuto e largo interesse di Hegel per il pensiero economico (G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Torino 1960). 164 - Ovviamente, con <enunciato grammaticale> intendo quell’enunciato, che parla delle regole caratterizzanti un certo ambito; con <enunciato empirico>, iinvece, intendo un asserto, di cui possa esser fornito l’equivalente empirico, appunto. 165 - E in generale ciò, che la lingua inglese indica con il termine Morals. 166 - Questo è un lato fondamentale dello scientismo. 167 - E. Roll, 1967: 8. 168 - Cf. Europäische Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften, 1994, vol.3: 393.

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nel ragionamento economico di enunciati, che non rientrino né in () né in (); più semplicemente, si limita a non considerarli scientifici, ma sì speculativi, metafisici. Nella prospettiva dello scientismo, esiste, dunque, uno spazio per la metafisica, per lo speculativo; si riconosce che nel corpo effettivo di una scienza non compaiono solo enunciati del tipo () o (); ma l’unica conseguenza che se ne trae è di non riconoscere al terzo tipo di enunciati carattere scientifico e, così, sottrarli ad ogni controllo e vincolo da parte della scienza. Insomma, il discorso economico –per restare al nostro esempio, ma il senso dell’osservazione va, naturalmente, al di là -, in quanto scientifico, si ridurrà agli elementi ed aspetti quantificabili, matematizzabili e, dunque, particolari, parziali ed interni al dominio dell’empirico; in quanto, però, orientato a prospettive generali e non parziali, dovrà nutrirsi di enunciati metafisici, speculativi, insomma, del tipo , per riandare alla caratterizzazione fornitaci da Dobb e, quindi, che si sottraggono ai vincoli imposti dalla scienza. La dialettica –in quanto critica dell’empirismo e, dunque, della convinzione che esistente significhi lo stesso che empiricamente constatabile-, si apre alla possibilità (e necessità) di formulare anche enunciati del tipo , ma vincolandoli contemporaneamente alle esigenze e regole dello scientifico169. In questo senso si potrebbe dire che solo un pensiero economico, non irretito nelle maglie dell’empirismo, può seriamente formulare una teoria del valore e, dunque, emanciparsi dall’immediata empiricità del prezzo. Bibliografia. - AAVV, Lógica: en forma simple sobre lo complejo. Diccionario,

Moscù 1991. - AAVV, Europäische Enzyklopädie zu Philosophie und

Wissenschaften. 4 Bände, herausgegeben von H.J.Sandkühler, .Meiner Verlag 1994.

- M. Dobb, Economia politica e capitalismo, Torino 1974. - F. Engels, Anti-Dühring, Roma 1971 - S. Garroni, Dialettica e socialità, Roma 2001. 169 - Nel senso in cui Hegel e Marx parlavano di Wissenschaft, in contrapposizione ad Einzelwissenschaft.

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- V. Giacché, Finalità e soggettività, Genova 1990 - G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove dell’esistenza di dio, Bari 1970 - J. Ch. Horn , in G.W. Leibniz, Lehrsätze der Philosophie.

Monadologie, Würzburg 1997: - L. Kolakowski, Main Currents of Marxism. 1, Oxford 1987 - G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica,

Torino 1960. - E. Roll, Storia del pensiero economico, Boringhieri 1967. - J-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, Milano 1963. - L. Sichirollo, La dialettica degli antichi e dei moderni. Studi su Eric

Weil, Bologna 1997. - F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Milano 2001. - E. Weil, Logica della filosofia, Bologna 1985.

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NOTE SULLA POLISEMIA DI <DIALETTICA>: DAL QUOTIDIANO ALLA RIFLESSIONE FORMALE. Una contraddizione, ben bizzarra, del nostro tempo è che l’impegno (l’apparente e sempre proclamato impegno) ad una cultura, che sappia finalmente liberarci da schemi e punti vista, nati e sviluppatisi in contesti storici ormai superati, di fatto si riduce a critica del marxismo e della dialettica, cioè di due momenti della riflessione moderna particolarmente ignorati o fraintesi. Quello che cerco di fare, con queste mie brevi note, è mostrare quanto sia ricca la problematicità della dialettica e come sia sicuramente vero che la sua critica -ovviamente sempre possibile- supponga però una conoscenza larga e profonda della dinamica del movimento storico, sotto tutti i suoi aspetti, notoriamente interconnessi e diversi in contesti diversi Un momento di particolare importanza, nella storia del pensiero scientifico, si ha con l’affermarsi del leibniziano <principio di continuità>170. Non è difficile comprendere che questo principio fa parte di una visione del mondo (Weltbild), che nega la possibilità di eventi isolati, i quali non trovino in serie di accadimenti passati, presenti e, perfino, futuri, la spiegazione e il senso del loro esserci attuale. In questa prospettiva non esistono eventi ineffabili, perché al contrario va riconosciuto al <nuovo> la proprietà di essere una combinazione particolare del già noto e, dunque, va altrettanto riconosciuta al linguaggio una plasticità combinatoria, che lo mette in condizione di comunicare novità, servendosi di segni già noti, o di inventare nuovi segni, ma a partire dalla struttura linguistica 170 - Nella Préface ai suoi “Nouveaux Essais sur l’Entendement humain (Paris 1966: 33ss), Leibniz anticipa con tutta chiarezza Freud nell’affermare la continuità della vita psichica. Ricorrendo proprio allo stesso principio leibniziano, Freud affermava che non c’è sonno senza il persistere di una qualche soglia di coscienza, né veglia senza la persistenza di livelli psichici subconsci (si ricordi che in Leibniz avviene qualcosa di strettamente analogo, quando il principio di continuità si lega alla tesi delle ‘piccole percezioni’). D’altronde, il principio di continuità è certamente presente nel tema della <serie matematica>, che tanto interessava Descartes e David Hume): Si ricordi, ancora, che sulla stesso principio si basava la fondazione dell’io da parte di Durkheim..

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tradizionale.171

Se questa concezione attribuisce al pensiero ed al linguaggio una capacità inventiva, capace di fare dell’immaginazione scientifica qualcosa di ben più ricco e ‘imprevedibile’ di qualunque coattiva costruzione del mero sentimento (inconscio compreso), dà luogo tuttavia ad, una difficoltà. Posto il principio di continuità, va forse affermato che in effetti nulla di nuovo sorge sotto il sole, ovvero, che non esistono fenomeni, anche sociali, in radicale rottura con quelli della tradizione? Se nella realtà non esiste il gratuito, il casuale, il zufällig, ciò comporta, forse, il pieno dominio del predeterminismo e, di conseguenza, far scienza non significherà che ritrovare nel nuovo, nel sorprendente, nell’inedito, il déjà vu ?172 Proseguendo nella nostra ricerca, le sorprese aumentano. E’ chiaro infatti che, se vale il principio di continuità e se quello della creatività del linguaggio si riduce semplicemente alla capacità di combinare in modo diverso segni già noti, è inevitabile conseguenza che il ‘nuovo’ sia solo apparenza, che il movimento, il mutamento si manifestino unicamente alla superficie del reale, e che ciò che merita veramente d’esser riconosciuto reale, in verità non è altro che il continuo, il costante. Ma esaminiamo la questione, anche, sotto un altro verso. E’ chiaro che, se vale il principio di continuità, quello della scienza è veramente un cosmo: nel senso di un universo ben costruito, che non presenta smagliature, che funziona con quella regolarità e uniformità, che forse neppure il miglior computer esistente (certamente non il 171 - Va notato come il principio di continuità abbia un rapporto di piena coerenza con le tesi neo-positivistiche sul linguaggio . E’ interessante come Jean Laporte descrive l’autentico dibattito filosofico, che non è tra Kant e Spencer, ma sì tra Kant e Hume (ovvero non già tra idealismo e materialismo ;ma sì piuttosto tra razionalismo e irrazionalismo –ed a questo punto il cosiddetto problema fondamentale della filosofia acquista contorni ben precisi e controllabili –cf su questo J,. Laporte, Le rationalisme de Descartes, Paris 1988 : 3. 172 - E’ ricorrendo all’impostazione del predeterminismo, che Freud sostiene la piena conoscibilità scientifica di fenomeni apparentemente del tutto scollegati rispetto all ‘agire quotidiano del soggetto. Su questo tema, cf. l’Intr. di S. Garroni a D. D’Ambra, Freud e la riflessione sull’errore, Firenze 1990.

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mio) può esibire. E’, insomma, un cosmo, secondo il significato, che l’antica Grecia dava al termine.173 Senonché, proprio qui si annida la sorpresa: tutti sappiamo quanto peso abbiano concetti come <totalità>, <ordine>, <legge>, nella prospettiva dialettica di Hegel: nessuna meraviglia, dunque, se anche in Hegel riconosciamo l’orientamento a collegare tra loro tutti gli eventi, ovvero a ‘superare l’apparente isolamento del singolo esserci (Dasein). Insomma, tutti riconosciamo, in Hegel, la prospettiva, secondo cui anche ciò che si presenta isolato presuppone un mondo, che ne renda possibile l’esistenza nell’isolatezza. Senonché, è proprio questo Hegel –teorico evidente del principio di continuità - ad affermare, invece, che l’ astratto è <continuo> .174,ma non il concreto o il vivente. La difficoltà, che abbiamo di fronte, è evidente. Se la conoscenza scientifica implicita il principio di continuità, allora il mondo della scienza sarà letteralmente un cosmo, ovvero, una totalità che non ammette mancanze interruzioni vuoti ed emergenze gratuite; se questo effettivamente significa conoscenza scientifica, allora è inevitabile concludere che l’errore è la libertà, dacché la razionalità delle cose sembra chiuderle entro tracciati e confini rigidi, immodificabili. Senonché, James Collins ci fa notare come le pure essenze, nella prospettiva leibniziana, appartengono sì all’ordine delle eterne verità, si esprimono sì nelle pure essenze, ma queste eterne verità e queste pure essenze non fissano le cose in ordini e rapporti irrevocabili, non ne costituiscono l’eterno, inviolabile destino, sì piuttosto segnano “ the measure of the possibiities of things” 175 - dunque, ordine e stabilità si mostrano essere non negazione del mutamento, sì piuttosto il limite entro cui esso è possibile. In altre parole, ordine e mutamento son mediabili. Abbiamo ormai compreso che ordine, regola, cioè, identità, da un lato, e, dall’altro, anomia, eccezionalità casualità, per quanto opposti siano tra loro, son tuttavia mediabili, perfino riconoscendo il principio 173 - Divino è ciò che sfugge al controllo umano ma ciò che sfugge al controllo umano è, in definitiva, il casuale –ciò che non può essere ridotto a ragione (= ragione finalizzata). Dunque l’esaltazione del divino si capovolge in esaltazione del caso e dell’arbitrio (Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie.III. Suhrkamp Verlag 1957: 488). 174 - M. Cingoli, in AAVV, La filosofia come sapere storico, Milano 1980: 550.. 175 - J. Collins, The Continental Rationalists, The Bruce Publishin Company 1967: 134).

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scientifico di continuità. Ciò non impedisce tuttavia che possa riproporsi la loro opposizione e addirittura che lo faccia entro l’ottica dialettica... Per approfondire questo punto capitale, dobbiamo porci il problema di come si formino le categorie, ovvero di quali siano di fatto e storicamente i rapporti fra le attitudini -o i modi di porsi di fronte al mondo-, che gli uomini vanno assumendo nel corso della storia, e le categorie, entro cui le prime acquisiscono, una forma e una consistenza determinate, ovvero, entro cui si cristallizzano, si fissano, divenendo precise regole (forme) di vita. Sappiamo bene che questo è uno dei temi capitali dell’ hegeliana Fenomenologia e sappiamo, anche, che pur tra alterne vicende, questo testo ebbe importanza grande per molti autori marxisti e per Marx in primo luogo. Insomma, le attitudini o i diversi modi di porsi dell’uomo nei confronti del mondo (naturale e sociale), formalizzandosi –ovvero determinandosi ed acquisendo una sorta di sussistenza propria176- divengono categorie, In questo senso le categorie non sono arbitrarie, ma sì oggettive. E’ vero, tuttavia, che la serie possa subire delle modifiche –evidentemente non totali, altrimenti né vi sarebbe la serie, né la possibilità di un discorso sulla logica dinamica177 dell’esperienza storica. Se è vero -come alcuni sostengono- che la logica aristotelica non rimanda alla matematica né all’epistemologia, sì invece al discorso comune e alla retorica, è vero allora che, con lo stesso Aristotele (ma ovviamente già col Parmenide di Platone) assistiamo al passaggio dalla inerte contraddizione del discorso comune, all’inquietante scoperta della contraddittorietà delle categorie in quanto tali.178 176 - O, se più piace, sussistendo –secondo il senso, che il termine ha in Meinong. 177 - E’ interessante questa espressione <logica dinamica> che, per assonanza (ma solo per questo?) richiama l’altra espressione, ovvero psicologia dinamica. 178 - Interessante l’osservazione che da ciò trae H.H. Holz – una filosofia che trovi l’essere nello spazio del gioco necessità/possibilità (Spielraum), che lasci dunque l’aperrtura, di cui invece mancherebbe se l’essere fosse risolto nel puro divenuto in quanto tale, non può certo appagarsi del concetto di materia proprio delle scienze naturali del XVII secolo, in particolare se non vuole ridursi a mera fantasticheria metafisica. In questa prospettiva di pensiero, che sappiamo legata al principio di continuità, l’equivoco predeterministico è talmente lontano,

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Un’osservazione, che vale la pena di fare subito –e che d’altronde si collega a quanto sopra- è questa: se le forme del conoscere son cristallizzazioni di atteggiamenti, allora, nel suo modo di concepire e praticare la conoscenza, l’uomo (storico) non rivela solo il suo modo di valorizzare il mondo, ma sì l’intierezza della sua personalità (storica), E’ in questo senso, come nota ancora Sandkühler, che, per Hegel, il modo in cui viene esercitata l’attività conoscitiva è, in qualche misura, rivelatrice non solo del soggetto conoscente, ma sì dell’uomo intero. Ed allora, seguendo sempre la riflessione di Sandkühler, l’attività conoscitiva si inscrive in un quadro di vita più ampio, si fa ricco di mediazioni e proprio per questo non riducibile a nessuna forma di soggettivismo, né di appiattente oggettivismo179 Insomma, fa parte del punto di vista dialettico di Hegel cogliere nel conoscere una forma della più generale lotta, che l’uomo conduce per realizzare il suo scambio organico con la natura, ovvero, per la naturalizzazione di se stesso e per l’umanizzazione della natura . 179 - H.J. Sandkühler,La razionalità della filosofia e delle scienze nella filosofia, Napoli 1994. che il concetto di reale implicita immediatamente quello di possibile. Cf Logica en forma simple sobre lo completo, MOSCÙ, 1991.

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Note sulla problematica dialettica di Gramsci. “Ciò che più interessa e appassiona Gramsci è il problema della creazione di un nuovo Stato, dello Stato operaio, il problema dell’egemonia della classe operaia nella società moderna e della funzione degli intellettuali e della cultura in questo nuovo Stato e in questa società.” (Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino 1952: XV; sott. mia, SG)180. Così l’editore descrive la problematica centrale di Gramsci. Ma se così stanno le cose, mi pare indubbio che si ponga un problema: - posto che cultura e ideologia siano, in Gramsci, termini sostituibili l’un con l’altro (e qualche volta, questa è l’impressione che si ricava dalla lettura), non è chiaro se lo stesso Gramsci distingua esattamente la cultura, come portatrice di un valore/verità, dalla cultura, in quanto funzione del potere politico. Insomma, non è chiaro –per dir la stessa cosa in modo diverso- se, in Gramsci, l’intellettuale valga in quanto momento necessario dell’organizzazione del potere, ovvero in quanto responsabile di un’attività, che in ultima istanza ha l’obbligo della verità.181 Solo apparentemente, mi sembra, Gramsci supera l’impasse, quando sottolinea che, non per caso, un’ideologia ha o non ha successo o efficacia: insomma, che un’ideologia riesca o non riesca ad impossessarsi delle masse (dunque, a svolgere, sembra, il suo ruolo, pragmaticamente utile) è qualcosa che vien deciso non dall’arbitrio, ma sì dall’adeguatezza (o –se si vuole- corrispondenza) o meno dell’ideologia in questione ad una certa condizione storicamente data. Ma così il dubbio iniziale non viene tolto, perché <adeguatezza ad una situazione storicamente data> è espressione ambigua, che può significare o che un’ideologia serve in un contesto storico dato (e, dunque, il termine <ideologia> avrebbe un senso pragmatico), oppure può significare che una certa ideologia o cultura sa descrivere adeguatamente una situazione storicamente data e ne sa cogliere il senso (in questo caso, è ovvio, l’ideologia o cultura sarebbe, al contrario del caso precedente, sottoposta al criterio valore/verità).182 Un pochino meglio vanno le cose, quando Gramsci scrive: “è certo che 180 - D’ora in avanti indicherò il testo col solo nome dell’A. e il numero della pagina. 181 - Un’analoga incertezza va registrata, mi pare, a proposito del termine religione che, a volte, Gramsci sembra usare per significare un sapere che implica commitment/engagement; altre volte, invece, come analogo del termine senso comune. Si ricordi che posto il nesso necessario tra religione e commitment, per molti (in particolare nell’ambiente culturale anglo-sassone), il marxismo è appunto una religione. “Il problema della religione –leggiamo in Gramsci: 5- inteso non nel senso confessionale ma in quello laico di unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme: ma perché chiamare questa unità di fede religione e non chiamarla ideologia o addirittura politica?” 182 - Gramsci: 18.

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la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua forma più compiuta ed avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo storico, che nella teoria delle soprastrutture pone in linguaggio realistico e storicistico ciò che la filosofia tradizionale esprimeva in forma speculativa. La dimostrazione di questo assunto … avrebbe la più grande portata culturale, perché metterebbe fine ad una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo organico della filosofia della prassi, fino a farla diventare l’esponente egemonica dell’alta cultura. Fa anzi meraviglia che il nesso tra l’affermazione idealistica che la realtà del mondo è una creazione dello spirito umano e l’affermazione della storicità e caducità di tutte le ideologie da parte della filosofia della prassi, perché le ideologie sono espressioni della struttura e si modificano col modificarsi di essa, non sia stato mai affermato e svolto convenientemente.”183 E’ evidente che, qui, Gramsci si muove nel senso di togliere ogni equivoco circa il ‘pragmatismo’ della filosofia della prassi; perché, in effetti, egli tende piuttosto a ribadire che la riflessione di Marx ha le proprie radici in una prospettiva di pensiero toto coelo diversa, ovvero in quella della filosofia classica tedesca. Senonché, ancora una volta, la pagina gramsciana è equivoca. E lo è per due ragioni: (i) perché ribadisce –ma ciò è storicamente quasi inevitabile- il misterioso tema del ‘rovesciamento materialistico’, che Marx avrebbe operato della dialettica hegeliana; (ii) perché definendo le ideologie (che, qui, hanno chiaramente il significato di culture) “espressioni della struttura”, sembra di nuovo non vincolarle al valore/verità e, dunque, reintrodurre il pragmatismo. Un altro aspetto, assai significativo, dell’ambiguità che ci interessa, è costituito dal ruolo, che –per Gramsci- gioca la forma nel caratterizzare la filosofia, di contro al senso comune. Chiarito che il senso comune è il deposito, non coerente e non sistematico, di fasi culturali diverse, Gramsci sottolinea che, proprio perciò, l’uomo di senso comune (l’uomo la cui coscienza è al livello del senso comune) è, contemporaneamente e non coscientemente, diversi uomini.184 E’ per questo che il passaggio dalla ‘spontaneità’ alla coscienza, dall’inconsapevole senso comune all’assunzione cosciente di una cultura, per Gramsci, vale come un processo di unificazione o, meglio, di armonizzazione della personalità, per cui il soggetto passa dall’essere contemporaneamente tanti e diversi “uomini-massa”, 183 - Gramsci: 139. 184 - Può essere suggestivo richiamare il titolo del noto romanzo di Pirandello Uno, nessuno, centomila, stampato per la prima volta nel 1926, dunque, pochi anni prima della stesura di queste note gramsciane.

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all’essere, invece, un solo uomo-massa.185 Ciò sembra suggerire la possibilità di distinguere, più in generale, fra contenuti della coscienza, formalmente disgregati e contradditori –ma pragmaticamente utili (ideologia, religione, senso comune)-; ed altri contenuti di coscienza (filosofia, buon senso), ai quali corrisponde un oggetto determinato (dunque, si tratta di contenuti di coscienza, a cui è finalmente attribuibile un valore/verità), perché sono ordinati logicamente, perché son dotati di forma sistematica. In altre parole Gramsci sembra interpretabile in questo modo. La filosofia della prassi si colloca in continuità col soggettivismo moderno, in quanto ha acquisito una concezione dinamica del reale, il quale non può essere più concepito come un mondo già fatto, di cui la coscienza debba assicurare la riproduzione psichica. Al contrario, la filosofia della prassi riconosce come proprio oggetto il mondo dell’esperienza, ovvero, l’orizzonte della continua interazione fra soggetto, società e natura. Questo mondo dell’esperienza non è, fin dall’inizio, vero, ma lo diventa acquisendo determinazione e sistematicità di relazioni; il pensiero vero è, appunto, quello che partecipa, riproducendolo al proprio livello, a tale processo storico di continua costruzione della realtà. In questo senso, il pensiero vero si fa riconoscere proprio per le sue caratteristiche formali di determinazione e sistematicità.186 Ma guardiamo meglio il rapporto senso comune/buon senso/filosofia, perché potremo ricavarne un motivo dialettico, già in Hegel centrale187. Nel senso comune –osserva Gramsci- c’è un lato sano, che consiste nella sollecitazione a superare l’immediatezza passionale, in nome di una comprensione razionale sia dello stato di cose sia di ciò che va 185 - E’ in questo contesto problematico, che va letta l’affermazione di Gramsci, secondo cui “la filosofia è la critica e il superamento della religione e del senso comune ed in tal senso coincide col <buon senso>, che si contrappone al senso comune.” (Gramsci: 5). 186 - Per il rapporto filosofia/religione/senso comune, così ancora Gramsci: “La filosofia è un ordine intellettuale, ciò che non possono essere né la religione né il senso comune … nella realtà … (non) coincidono, ma la religione è un elemento del disgregato senso comune … La religione e il senso comune non possono costituire un ordine intellettuale perché non possono ridursi a unità e coerenza neanche nella coscienza individuale per non parlare della coscienza collettiva: non possono ridursi ad unità e coerenza liberamente, perché autoritariamente ciò potrebbe avvenire come infatti è avvenuto nel passato entro certi limiti.” (Gramsci: 5). 187 - All’interno della polemica contro il materialismo di Bucharin, così osserva Gramsci: 142 – “La formulazione di Engels che <l’unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata … dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali> contiene … il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre <umanamente oggettivo>, ciò che può corrispondere esattamente a <storicamente soggettivo>, cioè oggettivo significherebbe <universale soggettivo>. L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni che dilaniano la società umana …”

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fatto188; questo lato positivo, che potremmo chiamare buon senso, merita di esser sviluppato in modo sistematico189. Dunque, quella che sembrava essere una rigida opposizione (o filosofia o senso comune), in realtà, trova un momento di mediazione: il buon senso, infatti, è quella parte del senso comune, che è disponibile ad assumere una forma ordinata e sistematica, divenendo in questo modo compatibile con la filosofia, intesa, appunto, come cultura assunta consapevolmente e svolta sistematicamente; ma ciò implica, è evidente, che se nel passaggio dal senso comune alla filosofia c’è soluzione di continuità, rottura, mutamento radicale di piano, è anche vero tuttavia che quel passaggio in tanto è possibile, in quanto trova nello stesso senso comune una delle condizioni della sua possibilità. In altre parole, non è lecito contrapporre radicalmente ‘filosofia scientifica’ e ‘filosofia volgare’, coscienza sistematica e, invece, discontinua e ‘spontanea’, dacché esiste una mediazione fra i due livelli, offerta dal buon senso. A questo punto, filosofo ed uomo ordinario, quadro politico e comune lavoratore, pur con tutte le loro differenze dal punto di vista della consapevolezza, si scopre che giacciono, anche, a dir così su una stessa retta, risultano momenti diversi di una stessa evoluzione: il buon senso li media e così li rende l’uno parte dell’altro, l’uno condizione di possibilità dell’altro Dunque, la rigida opposizione di partenza (filosofia o senso comune) risulta, in Gramsci, dialetticamente tolta, perché mediata dal buon senso. Conseguentemente, il filosofo, l’avanguardia politica continuano, certo, a distinguersi, rispettivamente, dall’uomo comune e dal semplice lavoratore, ma –tutti- divengono impensabili senza l’altro; ognuno richiama il proprio ‘altro’, in quanto –tutti- momenti diversi, ma funzionali, di una stessa totalità, di uno stesso insieme.190 A questo punto, possiamo ben comprendere Gramsci quando scrive: “La funzione e il significato della dialettica possono essere concepiti in tutta la loro fondamentalità, solo se la filosofia della prassi è concepita come una filosofia integrale e originale, che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale del pensiero in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l’idealismo che il materialismo tradizionali, espressioni della vecchia società.”191 In altre parole, la dialettica non è una parte determinata della filosofia 188 - E’ questo, per Gramsci: 7, il senso dell’espressione comune <prender le cose con filosofia>. 189 - Si noti, ancora una volta, la centralità del tema forma. 190 - E’ interessante che questo motivo gioca un ruolo centrale nell’argomentazione, che Lenin svolge nel suo L’estremismo, malattia infantile del comunismo, in Opere, vol. XXXI (ed. it.). 191 - Gramsci: 132.

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della prassi, ma –a dir così- è la totalità della sua <intensione>192. Dire filosofia della prassi (ovvero, sappiamo, pensiero di Marx) significa dire una certa attitudine193 verso il mondo, che scioglie le <rigide cose> nella dinamicità delle relazioni (si ricordi la centralità in Marx della lotta contro l’estraneazione/Entfremdung, o la contrapposizione fra lavoro vivo e capitale o lavoro morto ed, infine, la sua concezione della categoria economica come cristallizzazione di rapporti sociali). Proprio in quanto mezzo per smascherare la reificazione –la quale dà a rapporti e relazioni la forma di cosa (l’hegeliana Verdinglichung)-, la dialettica si rivela strumento per mettere in luce (ma anche per creare) la trama di interrelazioni, che è sottesa dal reale, pur quando si presenti, immediatamente, fissato nella propria particolarità e, così, chiuso nel proprio isolamento. La filosofia della prassi esattamente perché dialettica, può essere integrale storicismo, ovvero quella teoria, che mi consente di ‘togliere’ dal reale quanto sembra necessariamente costitutivo, ma gratuito, - determinante, ma arbitrario, dandomi, invece, di esso quella visione sistematica e interrelazionata, che mette in luce il senso (storico, appunto) dell’esistente –quale che sia la sua apparente gratuità e non questionabile casualità194. Senonchè, in questo testo di Gramsci troviamo anche qualcosa che non si giustifica. Che la dialettica testimoni dell’attidudine, che abbiamo detto, è vero fin dai momenti più antichi della sua storia (ad es., si pensi all’analisi hegeliana dell’eleatismo greco o a Dialoghi platonici come Parmenide); ciò significa che non è qualcosa che specifichi il pensiero di Marx: dallo scetticismo antico alla moderna riflessione di Leibniz (per non parlare evidentemente di Kant e di Hegel), non c’è caratteristica dell’argomentare dialettico marxiano, che non trovi precisi antecedenti. Dobbiamo riconoscere, insomma, che Gramsci sembra partecipare a quella certa retorica che, da un lato, vuol vedere in Marx la chiusura della tradizionale storia filosofica e l’apertura di una vicenda del tutto 192 - Non possiamo qui approfondire il tema, ma quanto Gramsci sta dicendo a proposito di dialettica e filosofia della prassi vale anche per filosofia hegeliana e dialettica. Ed anche la conclusione è la stessa: così come per Marx, anche per Hegel la dialettica non è una parte separabile dal sistema. Il che toglie senso a ciò, che la tradizione indica con rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana. 193 - Per il concetto di attitude in relazione alla dialettica, rimando ovviamente a E. Weil, Logique de la philosophie, Paris 1985 ed a F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Napoli 2001. 194 - “… la mentalità di Gramsci, pervasa di senso storico, ossia tale da considerare il corso storico come una sorta di vivente razionalità e quindi come avente in sé la sua misura (in sé e non, per esempio, in uno schema di tipo evoluzionistico), mentalità fortemente politica, convinta che la politica è la tragedia moderna e che è fatua ogni pretesa di “mettere le brache al mondo”, neppure, come si è ora visto, brache marxiste. Gramsci infatti considerava il marxismo non tanto come materialismo storico o come teoria del valore, ma essenzialmente come una interpretazione della storia moderna che mostra l'attualità appunto “storica” della dittatura del proletariato.” (F. Valentini, Il pensiero politico contemporaneo, Laterza 1979: 397).

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nuova (che sarà, poi, un tema importante della cultura marxista dell’epoca di Zhdanov e di Stalin) e che, probabilmente per giustificare questa pretesa di radicale originalità, lo stesso Gramsci non può sottrarsi dal riproporre il mito (ovviamente non spiegato, perché non interpretato) del cosiddetto rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana. Ma ciò crea proprio a Gramsci una particolare difficoltà, in quanto egli è, invece, appieno consapevole che, se vale la prospettiva dialettica, non possono valere né l’unilateralità idealistica, né quella materialistica. In effetti, collocare gramscianamente Marx entro il <soggettivismo moderno> è operazione non solo legittima, ma anche di grande opportunità, perché significa comprendere bene che dimensione fondamentale della dialettica è porre al centro dell’attenzione non un astratto mondo, ma sì l’esperienza (nel senso, che abbiamo già chiarito), la storia, fino al punto di affermare la storicità appunto (la trasformabilità di principio ed il mutamento di fatto) delle stesse strutture logiche. E’ chiaro che in questa ottica sarebbe contraddittorio voler affermare una prospettiva dialettica idealistica oppure materialistica, perché significherebbe reintrodurre, nella continua dinamica di interrelazioni fra le dimensioni diverse dell'esperienza, l’unilaterale primato di una di esse ai danni delle altre. E Gramsci questo lo sa bene, come dimostra la sua attenzione al Manuale di Bucharin e la critica spietata –ma rigorosissima-, a cui lo sottopone;195 ma come dimostra, anche, questo programma di lavoro, che Gramsci delinea: “occorre dimostrare che la concezione <soggettivistica>, dopo aver servito a criticare la filosofia della trascendenza da una parte e la metafisica ingenua del senso comune e del materialismo filosofico, può trovare il suo inveramento e la sua interpretazione storicistica solo nella concezione delle superstrutture mentre nella sua forma speculativa non è altro che un mero romanzo filosofico.” 196 Bibliogafia. 195 - Cf. “Note critiche su un tentativo di Saggio popolare di sociologia”, in Gramsci: 117ss. Com’è noto, Gramsci considerava il ‘materialismo storico’ (di Bucharin, ma direi anche della precedente II Internazionale) eminentemente frutto dell’influenza sui marxisti della Storia del materialismo di F. Lange, apparsa nel 1873. 196 - Gramsci: 141.

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A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino 1952. V.I. Lenin, Opere XXXI, Roma 1967. F. Valentini, Il pensiero politico contemporaneo, Laterza 1979. F. Valentini. Soluzioni hegeliane, Napoli 2001. E. Weil, Logique de la philosophie, Paris 1985.

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7 - Il tema hegeliano del <riconoscimento>.

“Hegel è tutto fuorché un intellettualista: senza la creazione mediante l’azione negatrice non c’è contemplazione del dato. La sua antropologia è fondamentalmente differente dall’antropologia greca, per la quale l’uomo dapprima sa e si riconosce, quindi, agisce.” (Alexandr Kojève). “Chi accoglie l’idea della fenomenologia per trasformarla in modo creativo, fa proprio ciò che si deve fare di fronte all’opera hegeliana, perché un’opera vuole agire, influire in modo vivente.” (Otto Pöggeler).

1. - Negli anni Venti del nostro secolo, il neopositivista Moritz Schlick sottolineava come conoscere (erkennen) sia propriamente un ri-conoscere (wieder-erkennen). Com’è noto, questo tema del conoscere come riconoscere già lo abbiamo incontrato in Hegel; dunque, può destare qualche meraviglia ritrovarlo in un ambiente (quello neo-positivista), che di solito considera Hegel il campione del pensiero speculativo e metafisico, contro cui si indirizza l’analisi linguistica, proposta, a partire dal Wienerkreis (Circolo di Vienna, 1929), quale strumento terapeutico appunto contro gli abusi linguistici197 e di pensiero. La stessa puntualizzazione, che chiarisce come per Hegel non si tratti esattamente di erkennen/wiedererkennen (riconoscere), ma sì di erkennen /anerkennen (riconoscere, ma nel senso di legittimare), non ci toglie dall’imbarazzo, dato che M. Schlick usa wiedererkennen, intendendo dire che <conoscere X> equivale a ritrovare in X la possibilità di ricondurlo a una certa forma o regola, nella quale la ragione ritrova o riconosce se stessa; dunque, per Schlick, affermare che la ragione conoscendo, riconosce X, significa dire che la ragione legittima X, testimonia della sua razionalità, lo accetta nel dominio del razionale. A questo punto wiedererkennen vale esattamente anerkennen. Da quanto detto, si possono ricavare due conseguenza: (i) comune a due grandi momenti del razionalismo moderno (pensiero 197 - Versprechien –si noti che questo termine fa parte del vocabolario freudiano.

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di Hegel e Wienerkreis198) è la concezione del conoscere (che ha nella scienza la sua espressione più compiuta.199) come riconoscere/legittimare; (ii) ciò posto, possiamo esaminare il tema nel solo Hegel, pur avendo lo scopo di mettere in evidenza come conoscere/riconoscere implichi certe condizioni, che valgono probabilmente per qualunque razionalismo moderno. In Hegel, anerkennen (riconoscere/legittimare) gioca –non per caso- un ruolo importante sia in ambito epistemologico200, sia in ambito etico-politico. Perché? Rispondere ci obbliga ad un breve détour. Chiarisco che quando parlo di tradizione dialettica intendo la linea di pensiero Leibniz – Hegel – Marx. Ciò non significa, ovviamente, ignorare le profonde radici aristotelico-platoniche del pensiero di Hegel (e quindi le fondamenta nell’antichità classica dell’atteggiamento dialettico); né significa ignorare il contributo grande, che alla dialettica hanno dato personaggi come Descartes, Kant e lo stesso Fichte. Significa semplicemente proporre i tre autori, che ho citato (Leibniz, Hegel, Marx), come coloro, che più compiutamente hanno dato espressione all’atteggiamento dialettico. Ora, di cosa si occupa la dialettica? Qual è lo spazio, il dominio del suo svolgersi? La risposta sembra indubbia: la dialettica è qualcosa cha ha senso, entro il dominio dell’esperienza storico-naturale dell’umanità. In altre parole, la dialettica non ci parla del mondo, ma sì dell’esperienza dell’uomo nel mondo; la dialettica non ci parla della società, ma sì dell’esperienza dell’uomo nella società. Detta altrimenti, la dialettica non parla di cose (il mondo, la società, la natura), ma sì di sistemi dinamici di relazione: dunque, se il suo dominio è quello dell’esperienza, ciò significa che è quello del continuo, inarrestabile rapporto/scontro/conciliazione/ e così di seguito, tra uomo, società e natura. L’indagine dialettica mira fondamentalmente –al suo livello più alto, speculativo- a definire la grammatica (per così dire) dell’inarrestabile dinamica dell’esperienza, a coglierne le forme generali e il modo, la 198 - Sia pure per ragioni apposte, collocare il pensiero di Hegel e il Wienerkreis entro lo svolgimento del razionalismo moderno può destare qualche importante riserva. Evidenti motivi di opportunità, ci inducono –ora- a mettere tra parentesi tale questione. 199 - Naturalmente è importante sottolineare una differenza: in Hegel, la scienza (Wissenschaft) coincide con il punto di vista speculativo o della ragione; per il Wienerkreis, al contrario, il modello della scientificità è dato dal dominio delle scienze particolari (Einzel - wissenschaft), che Hegel differenziava, invece, dallo Scientifico in senso pieno, così come differenziava l’intelletto dalla ragione. 200 - Uso il termine semplicemente nel senso di pertinente il conoscere.

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ragione del loro succedersi l’una dall’altra. A questo livello, la dialettica può giungere ad una comprensione piena dei processi –ma, appunto, a questo livello, in cui ciò che si conosce non sono determinate situazioni, determinati contenuti, ma sì la forma del loro svolgersi. Come si vede, la piena, assoluta conoscenza, che la dialettica può raggiungere, ha un limite di un certo rilievo: è la piena, compiuta conoscenza di … nulla, di nulla di determinato. Ma esiste, anche, un altro livello: quello di un’analisi più puntuale, dello studio per così dire di <insiemi regionali>, di situazioni determinate, che tuttavia costituiscano un tutto, sufficientemente definito. Perché, in realtà, comprendere quale sia lo spazio della dialettica significa, certo, cogliere la centralità della dimensione dell’esperienza, ma appunto nei termini, che abbiamo già usato –intendo l’<esperienza> in quanto sistema dinamico di relazioni uomo / natura / società. Ma questo è, appunto, un tutto, il quale –essendo un inarrestabile rapporto/conflitto/conciliazione e così via-, non è qualcosa di lineare, di sempre identico a sé; piuttosto è qualcosa di travagliato, ricco di torsioni e tensioni, insomma, un <tutto>, che ospita dentro di sé la contraddizione, lo scompenso, la disarmonia, il <no>. E’ un tutto –in questo senso qualcosa di identico a sé-; ma un tutto travagliato, contraddittorio –e che, dunque, ha dentro di sé l’altro da sé, ciò che lo smentisce, lo tormenta, lo minaccia. E’ un tutto sì, ma dialettico, contraddittorio, ed esattamente per questo dinamico, inarrestabile. Come si vede, il paradosso essenziale di questo tutto è di comprendere entro di sé l’uguale e il diverso, l’identitario <sì> e il differenziante <no>: ciò significa che la realtà di questo tutto, paradossalmente, sta proprio nel dinamico richiamarsi dell’identico e del diverso, del positivo e del negativo, ognuno dei quali trova nell’altro la propria conferma. Abbiamo già detto che il tutto di cui parliamo è l’esperienza storico-naturale, di cui l’uomo è, ad un tempo, risultato a protagonista: ma qual è la condizione perché esista una tale esperienza? Evidentemente la vita sociale; solo in società, infatti, l’uomo può avere rapporto con gli altri uomini e con la stessa natura; solo in società, l’uomo può –mediante il rapporto sociale di lavoro- trasformare la natura e, nello stesso momento, suscitare in sé nuove capacità, plasmare sé stesso con nuove e più complesse abilità. Se comprendiamo questo, comprendiamo facilmente come il tema del riconoscere/anerkennen, in Hegel, passi con totale facilità dal piano propriamente epistemologico a quello etico-politico. Ad es., per Hegel è vero che la mia volontà diviene qualcosa di sicuro, stabile ed obiettivo, mediante la forma giuridica, cioè il riconoscimento sociale; dunque, in ambito etico-politico, è vero che la possibilità di

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affermare <X è obiettivo> rimanda all’esistenza di una collettività organizzata in modo pubblico, ovvero mediante regole da tutti conosciute. In altre parole, in quanto vivo nel contesto d’una esperienza sociale organizzata, è vero che <obiettivo> significa riconosciuto da una volontà collettiva, strutturata mediante istituzioni; in questo senso, la pubblicità del diritto non è solo una garanzia per il singolo contro l’arbitrio del Potere, ma sì anche un modo per dare effettiva consistenza all’individuo mediante la società ed alla società mediante l’individuo. 2. - Com’è noto, la Fenomenologia hegeliana analizza la categoria scientifica di forza, in quanto appartenente alla dimensione conoscitiva dell’intelletto (o –per dire la stessa cosa con altre parole-, in quanto appartiene a quell’atteggiamento –non solo conoscitivo-detto <intelletto>). Dunque, con la nozione di forza, abbiamo sì lasciato il livello della certezza immediata, ma ancora non siamo giunti al livello della ragione.201 In questa fase, precisa Hegel, la coscienza, nella percezione, giunge a pensieri, che essa raccoglie, in primo luogo, nell’universale incondizionato. Questo universale incondizionato è, ormai, l’oggetto della coscienza, la quale, però, non concepisce ancora il proprio concetto come concetto (ovvero come suo prodotto): è per questo che essa non si riconosce nell’oggetto riflettuto.202 In altre parole, la conoscenza intellettuale si basa sulla distinzione/separazione tra un soggetto conoscente ed un oggetto da conoscere che sta di fronte al soggetto, come qualcosa di esterno e di dotato di caratteristiche proprie. Al soggetto non resta che prender atto che così e così è 201 - Così A. Kojève descrive l’orizzonte del sapere scientifico-intellettuale, nella prospettiva della Fenomenologia di Hegel: ““Dapprima si presenta –dalla parte dell’oggetto- il vuoto Aldilà, senza contenuto, la pure negazione del <fenomeno sensibile>. Dalla parte del soggetto: il sillogismo. In seguito, grazie ad una interazione del sillogismo con l’Aldilà, si arriva al <calmo mondo delle leggi>: è la scienza (newtoniana). Viene poi la critica di questa scienza cara a Kant: questa scienza è mera tautologia (…).” (A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano 1996: 59). E’ interessante notare che una descrizione ‘hegeliana’ della scienza meccanicistica la troviamo anche in J-P. Sartre, L’imagination, Paris 1950: 22s. Naturalmente, così come la dimensione della conoscenza intellettuale può essere correttamente indicata come un certo atteggiamento, che l’uomo assume in una determinata fase della sua storia; parimenti è vero che certezza immediata e ragione, anch’esse, stanno ad indicare altrettanti atteggiamenti, storicamente assunti dell’uomo. 202 - Hegel, Phénoménologie de l’Esprit, I, traduction de J. Hyppolite, Paris 1941: 109s).

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quell’<universale incondizionato>; dunque, il soggetto non è ancora consapevole che l’universale o concetto è il risultato della sua fatica, del suo sforzo, storicamente circoscritto, di organizzazione del reale. Al contrario, il soggetto lo assume, questo reale, come un che di dato, di assoluto (infatti, Hegel usa l’espressione <universale incondizionato>). Dunque, per via di questo iato, tra soggetto e oggetto c’è mera contrapposizione e, nell’oggetto, il soggetto non è chez soi –ovvero, quel concetto o quell’universale, che è il contenuto della conoscenza, risulta estraneo al soggetto, quest’ultimo non sa riconoscersi in esso. La conoscenza –entro la dimensione dell’intelletto o, se si vuole, posto l’atteggiamento intellettuale- è caratterizzata -non per caso- dall’oggettivismo.203 Ma cosa significa esattamente per il soggetto <essere chez soi> nell’oggetto (al contrario di quanto avviene nei limiti dell’intelletto)? Significa che nella relazione conoscitiva la polarità soggetto/oggetto risulta ormai mediata, ovvero, che l’opposizione di soggetto e oggetto è ’tolta’ – in questo caso, la razionalità dell’oggetto (il concetto, l’universale) si media con la razionalità del soggetto e, dunque, la pur esistente contrapposizione fra i due risulta essere solo un lato della medaglia, l’altro essendo il superamento di quella contrapposizione stessa e, così, il riconoscersi (della razionalità) del soggetto nell’oggetto (ovvero, nella sua razionalità). Come esplica Kojève, “ogni verità –per Hegel- può e deve essere espressa da parole. La Verità è il reale rivelato dalla conoscenza, e questa conoscenza è razionale, concettuale. Essa è dunque esprimibile mediante un discorso razionale (Logos). … La Vita (Leben), e l’unità del soggetto e dell’oggetto in generale, si rivelano mediante la Ragione …” 204 Per esprimere il punto di vista di Hegel, così scrive Löwith: “la filosofia deve riconoscere come lo spirito sia per se stesso (dunque, nella sua autonomia e completezza), solo nel caso in cui contrapponga a sé la materialità, in parte come propria corporeità, in parte come mondo esterno in generale, e solo nel caso in cui riconduca questa distinzione all’unità con sé, mediata dall’antitesi e dal suo superamento (ecco, di nuovo, l’esser chez soi dello spirito). Tra lo spirito ed il suo proprio corpo ha luogo naturalmente un collegamento ancora più intimo che non quello tra il resto del mondo esterno e lo spirito. Proprio a causa di questa connessione necessaria del mio corpo con la mia anima, l'attività esercitata immediatamente da quest'ultima nei confronti del primo non è affatto... semplicemente negativa. Io debbo quindi mantenermi anzitutto in questa armonia immediata della mia anima e 203 - Hegel, Phénoménologie …, op. cit.: 110. 204 - Kojève, op. cit.: 57, 59.

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del mio corpo... Non devo trattare quest'ultimo con disprezzo e ostilità ... Se io mi comporto conformemente alle leggi del mio organismo corporeo, la mia anima è allora libera nel suo corpo... L'anima non può tuttavia arrestarsi a questa unità immediata con il suo corpo. La forma dell'immediatezza di quella armonia contraddice al concetto dell'anima, cioè alla sua determinazione di essere un'idealità riferentesi a se stessa. Per diventare conforme al suo concetto, l'anima deve trasformare la sua identità con il corpo in una identità mediata, ossia posta dallo spirito, deve cioè impadronirsi del corpo, plasmarlo come strumento docile e adatto alla propria attività, deve trasformarlo in modo da poter in esso riferire se a se stessa" .205 La pagina di Löwith serve bene a rimarcare un tratto fondamentale del pensiero di Hegel. Questi non intende affatto né negare le duplicità e opposizioni, che si offrono nel reale; né pretende sacrificare questo opposto in nome di quell’altro –ad es., la sensibilità, la passione, in nome della ragione, l’irrazionale in nome del suo opposto. Tutt’al contrario, prender atto dell’opposizione serve a Hegel per costruire una prospettiva di riconoscimento. Ovvero, una prospettiva, in cui l’opposizione tra mediato e immediato, tra sensibilità e riflessione, si ricomponga in una nuova dimensione, in cui la sensibilità, il corpo –pur nella loro realtà, nella loro differenza- siano, però, la sensibilità e il corpo dello spirito.206 In questo senso, non si trova in Hegel la negazione idealistica del corporeo, ma sì la volontà di umanizzazione di quest’ultimo, di sua trasformazione da mero opposto dello spirito, a componente dello stesso, dunque, in qualcosa, in cui lo spirito può riconoscersi. Ma, è chiaro, questa umanizzazione del corporeo o, in altri termini, questo riconoscersi dello spirito nell’altro da sé è, realmente, un processo, una storia che si sviluppa.207 Per questo, non va perduta la puntualizzazione di Lukàcs, quando scrive che è stato “Hegel ad avvertire per primo sia la struttura complessa dei fenomeni, sia la processualità della loro essenza, dei loro nessi, ed a metterle (questa struttura e questa processualità) al centro dell’edificio metodologico di qualsivoglia filosofia.”208 Non può certo meravigliare se questo suo 205 - K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Torino 1959: 137. 206 - E’ la stessa natura che supera, giungendo allo spirito, la propria esteriorità, particolarizzazione, materialità, come qualcosa di non vero, di non conforme al suo concetto (cf. l’aggiunta al §389 dell’hegeliana Enciclopedia).. 207 - “L’unità tra uomo e mondo –[per Hegel]- non si constata, non è un dato: essa deve essere realizzata mediante l’azione.” (Kojève, op. cit.: 64). 208 - G. Lukàcs, Prolegomeni all'ontologia dell'essere sociale, Milano Guerini 1990: 120.

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‘taglio’ la filosofia di Hegel lo esibisca pure in ambito politico. “Anche la filosofia politica di Hegel –rimarca Löwith- è un riconoscimento, una conciliazione con <ciò che è>. Il pensiero è ora tutto presso di sé e, al tempo stesso, come idea organizzata, abbraccia l’universo, cioè il mondo divenuto <intelligente> comprensivo e trasparente … <Sembra che allo Spirito del mondo sia ora riuscito di sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva e … di generare da sé ciò che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di tenerlo in suo potere.”209 Vediamo, dunque, che nel linguaggio di Hegel, <conciliazione con ciò che è> non ha, banalmente, un significato conformistico, conservatore, di chi insomma si contenta dello stato di cose esistente (senonché, questa è l’interpretazione che di solito vien data, quando si insiste sull’idealismo di Hegel). Significa, invece, che è possibile la mediazione tra lo spirito e “ciò che è”, nel senso che il primo può riconoscersi nel secondo, ovvero che “ciò che è” è conoscibile, è retto, è guidato nel suo movimento, nella sua storia –così come capita anche al soggetto, che lo conosce- dal dinamismo della ragione. Giusta questa impostazione, è facile comprendere l’ostilità hegeliana nei confronti di ogni forma di soggettivismo politico e morale ed, al contrario, il suo orientarsi verso una fondazione oggettiva (razionale) del movimento e dell’agire politici, nonché della scelta morale.210 Come osserva Cassirer, dall’hegeliana Filosofia del diritto ricaviamo questo: “cosa sia diritto e dovere, in quanto elemento in sé e per sé razionale delle determinazioni volitive, non è essenzialmente proprietà particolare di un individuo, né [è qualcosa, che si dà] nella forma del sentimento … ma [sì qualcosa, che si offre] essenzialmente [nella forma] delle determinazioni universali pensate, cioè nella forma delle 209 - K. Löwith, op. cit.: 79s. 210 - Dovrebbe essere inutile sottolineare come questo anti-soggettivismo venga pienamente ereditato da Marx. Senonché, farlo non è per nulla pleonastico, se si tien presente certo bizzarro coniugare Marx ed utopia, in cui frequentemente oggi ci si imbatte. Il nucleo razionale che, con molta liberalità, si può riconoscere a questa tematizzazione utopistica di Marx, consiste nell’indicare, in qualche modo, un problema reale: come mostra in modo particolarmente chiaro l’elaborazione di Lenin, esiste per il marxismo il problema di coniugare il marcato suo senso dell’obiettività del dinamismo storico con l’altra sua indubbia componente, ovvero, la consapevolezza della necessitò di un intervento -cosciente, volontario e organizzato- dell’uomo nella storia. Su questo, cf. “Lenin: la riflessione sul Partito. Un uso della dialettica”, in S. Garroni, Dialettica e socialità, Roma 2000: 117ss.

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leggi e dei precetti.”211 Prima di procedere nella citazione di Cassirer, è bene precisare che, per Hegel, il sentimento è una semplice forma soggettiva, è il modo nel quale qualcosa è in me, in quanto sono il soggetto di qualcosa. Questa forma rimane uguale in sé, in tutte le diversità del contenuto, ed è dunque in sé individualità propria.212 Essendo questa forma che “rimane uguale in sé, in tutte le diversità del contenuto”, il sentimento è un che di astratto e di separato, scisso dal suo contenuto proprio: in questo senso si può parlare di formalismo del sentimento, di una sua incompletezza; ed allora comprendiamo bene Hegel, quando scrive che “il contenuto del sapere costituisce la determinazione del sentimento”.213 Insomma, il sentimento è qualcosa che ha bisogno di altro per precisarsi, per determinarsi: ha bisogno, per riprendere un’espressione tipica di Marx, di un finish. E questo finish, questo completamento determinante è il contenuto del sapere, dunque, un elemento razionale. Dall’astrattezza, dal formalismo del sentimento, si esce mediante la ragione. A questo punto possiamo tornare a Cassirer: Lo “Stato non può riconoscere la coscienza morale nella sua forma caratteristica, cioè in quanto sapere soggettivo; tanto poco quanto, nella scienza, l’opinione soggettiva, l’assicurazione e il richiamo ad un’opinione soggettiva hanno un valore.” Una conseguenza è che ogni tentativo di costruire un cosiddetto stato ideale in conformità ai nostri canoni morali soggettivi è dunque da giudicarsi vano e futile. La filosofia può immergersi nella realtà e conoscerne il principio; ma non può creare la realtà dal nulla, né modificarne la sostanza. Questo pensiero è espresso in maniera assai notevole nelle celebri parole con 211 - E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, Bari 1965: 119. Si ricordi, d’altronde, il §. 377 dell’Enciclopedia hegeliana, in cui si legge che <conosci te stesso> non significa conosci l’individuo con le sue particolarità, il suo carattere, aspirazioni, ecc.; ma sì conosci ciò che è vero nell’uomo, la sua essenza. E nell’Aggiunta al §. Hegel chiarisce che la conoscenza filosofica è la conoscenza più concreta, ma dell’idea che realizza se stessa. “Soltanto in tempi in cui la realtà è un’esistenza vuota, priva di spirituale e di carattere, -scrive Hegel- può essere consentito all’individuo di ritrarsi indietro dalla vita reale, nell’interiorità. Socrate sorse nel tempo della corruzione della democrazia ateniese; egli volatilizzò ciò che esisteva e si ritrasse in sé, per cercarvi il diritto e il bene. Anche ai nostri tempi avviene, più o meno, che il rispetto per ciò che esiste non c’è più, e che l’uomo vuole avere ciò che vale in quanto sua volontà, in quanto cosa da lui riconosciuta.” (v. F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Milano 2001: 93). 212 - G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove dell'esistenza di dio, Bari 1970: 53. 213 - G.W.F. Hegel, op. cit.: 44.

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cui Hegel conclude la prefazione della Filosofia del diritto: “Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo è ciò, che il concetto insegna e la storia mostra necessario: che, cioè, prima l’ideale appare di contro al reale, poi, nella maturità della realtà, costruisce questo mondo medesimo … in forma di regno intellettuale.”214. A questo punto, andiamo a qualche conclusione significativa per la nostra ricerca. Ricostruito in questo modo il pensiero di Hegel, comprendiamo perfettamente come il filosofo tedesco tematizzi diversamente da Rousseau il momento dell’autocoscienza, ovvero della presa di coscienza di sé da parte del soggetto. Rousseau, abbiamo visto, per realizzare il <conosci te stesso> aveva bisogno di separare l’uomo dalle proprie circostanze di vita, dalle ‘deformazioni’ introdotte in lui dalla vita sociale. Al contrario, già con la Fenomenologia, Hegel non ha dubbi circa il fatto che la formazione dell’autocoscienza implichi l’esistenza di una pluralità di coscienze, tra le quali si realizza una complessa dialettica, che è la condicio sine qua non del sorgere, appunto, del Selbsbewußtsein (autocoscienza). Ciò significa, in altre parole, che la formazione dell’autocoscienza consegue ad un processo di riconoscimento, per il quale io son riconosciuto dall’altro, dunque, io implico l’altro. L’autocoscienza –scrive Hegel- comporta l’esser riconosciuto: quindi, l’autocoscienza è in e per sé, nella stessa misura in cui è per un altro; il concetto di autocoscienza non è possibile coglierlo, se non in questo incrocio, multilaterale e dai vari significati, i cui momenti (le singole autocoscienze) vanno, comunque, assunti come contrapposti.215 Non dunque contrapposizione tra coscienza di sé e vita sociale, ma ben al contrario quest’ultima intesa come condizione necessaria della coscienza di sé.216

8 - La morale in Marx. 214 - Cassirer, op. cit.: 119. 215 - G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, I. Frankfurt/Main 1998: 145s. 216 - “L’uomo, essendo libero e autonomo, riconosce che gli altri sono ugualmente liberi e autonomi. E, inversamente, non è libero e autonomo se non è liberamente riconosciuto tale dagli altri. Il movimento dialettico è … una interazione. E’ l’uomo sociale, storico.” (Kojève, op. cit.: 65).

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Morale vs pratica. - “ Alle due di notte del 16 agosto 1867, anche quest'ultimo foglio di stampa è corretto. E dunque -scrive Marx -questo volume è pronto. Ai primi di settembre esce presso l'editore Meissner di Amburgo, anch'esso in mille esemplari. «Perché dunque non vi ho risposto? Perché ero sull'orlo della tomba, continuamente. Per questo dovevo utilizzare ogni momento che potevo dedicare al lavoro, per terminare la mia opera cui ho sacrificato la salute, la felicità della vita e la famiglia. Spero che a questa spiegazione non occorra aggiungere altro. Mi fanno ridere i cosiddetti uomini "pratici" e la loro saggezza. Se uno sceglie di essere bue, allora può naturalmente voltare le spalle alle sofferenze dell'umanità e occuparsi solo dei fatti propri. Ma io mi considererei veramente ben poco pratico se fossi crepato senza avere completamente finito il mio libro, almeno in manoscritto.»” (Marx).

Questo breve testo ci serve a sottolineare quanto Marx sentisse l’impegno morale, nel senso della responsabilità di ognuno verso la comunità di cui è parte, e di quanto egli concepisse l’impresa scientifica legata intimamente a quell’impegno. In questo senso, anche se il nostro obiettivo è esaminare certi temi di Das Kapital.1, conviene richiamare subito uno scritto giovanile dal significativo titolo “Entfremdete Arbeit” (1844). Di questo lavoro giovanile traduco una gran parte, con lo scopo di mostrare, appunto, il nesso –qui già contenuto e non mai smentito da Marx-, fra analisi dialettica e costruirsi della critica marxiana dall’interno stesso della elaborazione economica classica. Ciò significa che se il punto di vista di Marx non è un’elaborazione solo individuale, per quanto geniale, lo si deve proprio al suo profondo legame con l’oggettiva storia della teoria economica. E’ partendo, infatti, dalla prospettiva, dal linguaggio e dalla grammatica della esistente riflessione economica, che Marx può mostrarne le difficoltà, le insufficienze ed il carattere ideologico (ovvero di coscienza, che sorge per santificare determinati interessi di classe, spacciandoli per espressione oggettiva di una condizione, sostanzialmente non modificabile). In altri termini, è l’impostazione dialettica della sua critica, che consente a

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Marx di prospettare il superamento della prospettiva (nazional-) economica –il che ribadisce il carattere ‘scandaloso’ della dialettica, in quanto rivoluzionaria per la sua stessa essenza.

Per il testo tedesco di Entfremdete Arbeit mi servo di K. Marx, Texte zu Methode und Praxis II. Pariser Manuskripte 1844, Rowohlt 1966. Siamo partiti –così inizia Marx il suo scritto-- dai presupposti della Nationalökonomie (wir haben ihre Sprache und ihre Gesetze akzeptiert); ciò significa che Marx ha accolto questi presupposti e questo vocabolario, cioè: la proprietà privata, la separazione (Trennung) di lavoro, capitale e terra, così come la divisione del lavoro, la concorrenza, il concetto di valore di scambio, ecc. Servendoci –prosegue Marx- delle stesse parole della Economia Nazionale (d’ora in avanti NE), abbiamo mostrato che il lavoratore si abbrutisce nella condizione di merce e, perfino, della merce più povera; abbiamo mostrato inoltre che la miseria dei lavoratori è in rapporto inverso con il potere e l’ammontare della loro produzione. Abbiamo mostrato che necessario risultato della concorrenza è l’accumulazione del capitale in poche mani, dunque, la più spaventosa restaurazione del monopolio. Altra necessaria conseguenza è che le diverse forme di proprietà e di lavoro dipendente si riducono alla polarità proprietari/lavoratori provi di proprietà217 (51) Die Nationalökonomie geht vom Faktum des Privateigentums aus. Sie erklärt dasselbe nicht. Sie faβt den materiellen Prozeβ des Privateigentums, den es in der Wirklichkeit duchmacht, in allgemeine, abstrakte Formeln, die ihr dann als Gesetze gelten. Sie begreift diese Gesetze nicht, d.h. sie weist nicht nach, wie sie aus dem Wesen des Privateigentrums hervorgehn.218 (51). 217 - Non necessariamente questo significa che scompaiono le differenti forme e tipi di proprietà e di lavoro dipendente, ma sì che, quali che siano quelle diversità, non fanno che sostanzialmente riproporre la polarità, di cui sopra: Insomma, tutto si riduce alla separazione capitale/lavoro. 218 - “L’Economia Nazionale procede dal fatto della proprietà privata, ma non lo spiega; l’Economia Nazionale coglie il processo materiale, che la proprietà privata in realtà percorre, sotto l’aspetto di formule generali, astratte, che per essa valgono come leggi. L’Economia Nazionale non concettualizza queste leggi, ovvero, essa non sa come derivino dall’essenza della proprietà privata”. Se confronti questo brano con la distinzione tra Gesetz (legge) e Wesen (essenza), che il recensore russo della seconda edizione di Das Kapital.I. giustamente sottolinea, hai il segno di un linguaggio di Marx, che nel 1844 non è ancora ben chiaro allo stesso Marx.

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La NE non ci dà alcun chiarimento (Aufschluβ) circa la separazione di lavoro e capitale e di capitale e terra; quando la NE definisce il rapporto tra lavoro salariato e profitto di capitale, per essa vale come fondamento ultimo l’interesse dei capitalisti – il che significa che essa presuppone ciò che dovrebbe sviluppare; la NE ripete l’errore anche rispetto alla concorrenza, la quale fa semplicemente la sua comparsa ad un certo punto, senza che ne venga mostrata la necessità, dato il contesto storico capitalistico –di nuovo, dunque, si dà un fatto, senza averne costruito il concetto, ovvero la necessità, posta una certa legge di sviluppo/svolgimento (Entwicklung): ciò che mette in movimento la NE è l’avidità e la concorrenza, ovvero la guerra tra gli avidi.219 Ecco la sostanza della recensione russa del primo libro di Das Kapital: il recensore russo giudica strettamene realistico il metodo di ricerca di Marx, mentre il suo metodo di esposizione è infelicemente tedesco-dialettico: di primo acchito, l’esposizione marxiana è quella del più grande filosofo idealista (Idealphilosoph) –e tale nel senso tedesco del termine; ciò non toglie che Marx sia ben più realistico dei suoi predecessori e non certamente un idealista (Idealist) (MEGA, Band 23: 25). Marx dichiara di aver esposto i tratti fondamentali del suo metodo nell’Introduzione alla sua “Critica dell’economia politica”. Così prosegue il recensore russo: per Marx conta solo trovare la legge (Gesetz), che domina i fenomeni fino a quando hanno una certa forma e sono in una certa connessione; ma non solo questo, dacchè a Marx interessa la legge del mutamento, dello sviluppo dei fenomeni, del loro passaggio da una forma ad un’altra, dall’ordinamento di un insieme ad un altro (MEGA, op. cit.: 25s). Non appena ha scoperto tale legge, Marx ne studia in dettaglio le conseguenze, che si manifestano nella vita sociale, scoprire la legge significa, anche, scoprire il processo, che conduce alla fine di un ordinamento dato ed al sorgere di un altro, lo vogliano gli uomini o no (MEGA, op.cit.: 26). Marx studia il movimento sociale come un processo di storia naturale: necessità dell’ordinamento esistente, ma anche del suo superamento in un altro, quale che sia la volontà e la coscienza umana. Il punto di partenza del movimento storico non è l’idea, ma sono piuttosto le manifestazioni esteriori. Va notato come Marx commenti lo scritto del recensore russo: questi non ha fatto altro che esporre il metodo dialettico. (MEGA, op.cit.: 27). 219 - Marx usa il verbo entwickeln, dunque, per lui <spiegare> significa <ricavare da uno svolgimento storico>. Pagina di Hegel, che mi pare utile per comprendere in che senso la storia sia la Entwicklung dello spirito, nel senso di svolgimento/costruzione : "lo sono attitudine, facoltà, dapprima solo naturale; questa attitudine non è dunque identica a me in quanto soggetto, in quanto pura soggettività, e così ciò che in me è dapprima solo in quanto natura, poiché non è identico con me, col mio sapere e col mio volere, non è in mio potere; io non ne sono in possesso, si tratta di qualcosa di esterno di cui devo ancora prendere possesso. E’qualcosa che debbo addomesticare, in

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Proprio perché non concettualizza la connessione, propria del movimento, per la NE, concorrenza, libertà di impresa, divisione proprietaria del suolo sono conseguenze casuali, arbitrarie e violente, non vengono dunque concettualizzare e svolte (sott. mia, SG)220 come necessarie, inevitabili, naturali conseguenze del monopolio, della corporazione e della proprietà feudale. Le varie forme di estraniazione (Entfremdung) vanno concettualizzare come conseguenze del sistema monetario (Geldsystem). (51s). A p. 52, Marx già usa la critica alla robinsonata la quale e, anche, una forma di entificazione –un problema, che non viene né posto né risolto, ma trasformato in una situazione originaria (Urzustand) – anche la robinsonata, dunque, rientra nella denuncia della Entfremdung. Il nazional economista sottende nella forma di cosa, di un evento, ciò che dovrebbe dedurre, precisamente il rapporto tra due cose, per es. il rapporto tra divisione del lavoro e scambio (unterstellt in der Form der Tatsache, des Ereignisses, was er deduzieren soll, nämlich das notwendige Verhältnis zwischen zwei Dingen, z. B. zwischen Teilung der Arbeit und Austausch): analogia con l’uso, che la teologia fa del peccato originario (una storia, un evento dato come spiegazione di un problema)221 Prendiamo le mosse da un attuale fatto nazionaleconomico. Il lavoratore diventa di tanto più povero, di quanto più ricchezza produce, di quanto la sua produzione acquista in potere ed in estensione. Tanto più il lavoratore diviene una merce a basso costo, quanta più merce egli produce. Stanno in rapporto diretto la valorizzazione (Verwertung) del mondo delle cose e la svalorizzazione (Entwertung) del mondo umano; la produzione di merci non produce solo queste ultime, ma anche la figura del lavoratore salariato. Il risultato di questo fatto non esprime altro modo da poterlo usare, da poterlo padroneggiare. Perché le mie dita, il mio braccio, mi obbediscano, devo prima addomesticare tali forze, in modo che l'obbedienza diventi la loro propria natura. Lo stesso vale per le capacità spirituali: la memoria, l'immaginazione, persino il pensiero deve essere educato, mi deve diventare famigliare, spedito, in modo che mi sia presente quando voglio che venga eseguita una determinata attività. Questa è una presa di possesso di determinazioni inizialmente estranee a me, alla mia volontà, alla mia libertà.” (Hegel, Le filosofie del diritto: 82-3). 220 - A conferma del nesso tra begreifen ed entwickeln. 221 - “So erklärt die theologie den Urspung des Bösen durch den Sündenfall, d. h. er unterstelt als ein Faktum,in der Form der Geschichte, was er erklären soll.” (Così la teologia spiega l’origine del male mediante il peccato originale, vale a dire che essa sottende come un fatto, nella forma di una storia, ciò che dovrebbe spiegare).

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che questo: l’oggetto, che il lavoro produce, il suo prodotto, gli appare come ein fremdes Wesen, come un potere indipendente, contrapposto ai lavoratori. Das Produkt der Arbeit ist die Arbeit, die sich in einem Gegenstand fixiert, sachtlich gemacht hat, es ist die Vergegenständlichung der Arbeit. Diese Verwirklichung der Arbeit erscheint in dem nationalökonomischen Zustand als Entwicklung des Arbeiters, die Vergegenständlichung als Verlust und Knechtschaft des Gegenstandes, die Aneignung als Entfremdung, als Entäβerung. (Il prodotto del lavoro è il lavoro, che si è fissato in un oggetto, che si è fatto ‘cosa’: esso è l’oggettivazione del lavoro. Questa realizzazione del lavoro appare nella condizione nazionaleconomica come sviluppo del lavoratore, l’oggettivazione come perdita e schiavitù dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione). La realizzazione del lavoro appare altrettanto derealizzazione dell’operaio, che si sviluppa fino alla morte per fame. L’oggettivazione appare di tanto perdita dell’oggetto, che il lavoratore è derubato degli oggetti necessari non solo per vivere, ma anche per il lavoro. (52) Nella destinazione, secondo cui il lavoratore si rapporta al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto, che gli è estraneo, sono implicite tutte queste conseguenze. Infatti da questo presupposto risulta con chiarezza che quanto più il lavoratore si perfeziona (sich arbeitern), d’altrettanto cresce la potenza del mondo reificato (gegenständliche),222 estraneo ed ostile (fremde), che egli stesso si pone di contro; d’altrettanto diviene più povero egli stesso e il suo mondo interno, che sempre meno gli appartiene. Lo stesso capita con la religione: tanto più l’uomo pone in dio, tanto meno conserva in se stesso. Il lavoratore pone la sua vita nell’oggetto; ma con ciò egli non appartiene più a se stesso, ma sì all’oggetto. Tanto più grande è, dunque, questa attività, tanto più il lavoratore è privo di oggetto. Ciò che è il suo prodotto, non lo è per lui stesso: tanto più è grande il suo prodotto, tanto meno lo è egli stesso. L’alienazione (Entäuβerung) del lavoratore nel suo prodotto ha il significato non solo che il suo lavoro diviene un oggetto, cioè un’esistenza esterna; ma che il lavoro esiste al di fuori di lui, indipendentemente e come qualcosa di estraneo/nemico da lui e l’autonomo potere del lavoro gli si contrappone, perché la vita, che egli ha dato all’oggetto, gli si oppone come un che di estraneo (fremd) e nemico (feindlich). (52s) Analizziamo più da vicino l’oggettivazione, il prodotto del lavoratore 222 - Traduco così il termine, perché da tutta la pagina si ricava la differenza tra il farsi oggetto (alienazione, Entäuβerung) e il divenire una potenza autonoma, estranea e feindlich (Entfremdung).

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e la sua estraniazione, la perdita dell’oggetto, del suo prodotto. (53) Il lavoratore non può far nulla senza la natura, senza l’esterno mondo sensibile. Questo mondo è la materia, in cui il lavoro si realizza, nella quale esso è attivo, da cui e attraverso cui il lavoro produce. Ma come la natura offre al lavoro il mezzo di vita, nel senso che il lavoro non può vivere senza oggetti, sui quali si eserciti, d’altro lato essa offre anche gli strumenti di vita in senso stretto, ovvero i mezzi per la sussistenza fisica del lavoratore stesso. Sotto questo duplice rispetto, dunque, il lavoratore diviene schiavo del suo oggetto: in primo luogo, perché egli è un oggetto del lavoro, cioè egli contiene lavoro, in secondo luogo, perché egli può esistere come oggetto fisico. Il culmine di questa schiavitù è che egli solo come lavoratore può conservarsi come soggetto fisico e che egli è lavoratore solo in quanto soggetto fisico. (53). L’estraniazione del lavoratore nel suo oggetto, secondo le leggi della NE, si esprime nel fatto che tanto più il lavoratore produce, tanto meno ha da consumare; maggior valore egli produce, tanto più si svuota di valore e perde in dignità; di tanto dà forma al suo prodotto, d’altrettanto il lavoratore si deforma; di tanto civilizza il proprio oggetto, d’altrettanto il lavoratore si imbarbarisce, di tanto si fa potente il lavoro, d’altrettanto si fa impotente il lavoratore; di tanto si arricchisce di cultura il lavoro, d’altrettanto si priva di cultura il lavoratore e lo si fa schiavo della natura. La NE nasconde l’estraniazione nell’essenza del lavoro (54) col non analizzare l’immediato rapporto del lavoratore (del lavoro) con la produzione. Tuttavia. Il lavoro produce cose meravigliose per i ricchi, ma spoglia (entblöβen) il lavoratore. Il lavoro produce palazzi, ma tane per i lavoratori. Il lavoro produce bellezza, ma per i lavoratori catapecchie (Verkrüppelung). La NE sostituisce il lavoro con le macchine, ma riconsegna una parte dei lavoratori ad un lavoro barbarico e riduce l’altra parte a macchina. La NE produce spirito (Geist), ma anche idiozia e cretinismo per i lavoratori. L’immediato rapporto del lavoratore con i suoi prodotti è il rapporto del lavoratore con gli oggetti della sua produzione.223 Il rapporto del ricco [letteralmente, des Vermögenden] con gli oggetti della produzione e con questa stessa è solo una conseguenza di quel primo rapporto – e così lo conferma. Quando ci chiediamo quale sia il rapporto essenziale del lavoro, ciò che ci chiediamo è quale sia il rapporto del lavoratore con la produzione. 223 - Il senso di questa affermazione è che sfugge al lavoratore il sistema di relazioni sociali, che rende possibile quel suo rapporto con l’oggetto,ovvero con la sua attività, ma sotto forma di oggetto, di cosa e non di <attività produttiva. Di nuovo l’Entfremdung.

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L’Entfremdung non si mostra solo nel rapporto fra l’operaio e il risultato della produzione, ma anche nell’atto della produzione … Il prodotto è solo il risultato dell’attività di produzione. Se dunque il prodotto del lavoro è l’Entäuβerung, allora la stessa produzione deve essere la pratica Entäuβerung dell’attività, l’attività dell’Entäuβerung … In cosa consiste la Entäuβerung del lavoro? In primo luogo, che il lavoro è esterno al lavoratore, cioè non appartiene alla sua essenza (Wesen), nel fatto cioè che nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto ma infelice, non sviluppa alcuna energia libera e culturale (geistig), ma piuttosto si abbrutisce fisicamente e rovina culturalmente. Il lavoratore si sente presso di sé al di fuori (auβer) del lavoro, mentre nel lavoro si sente estraneo a sé. (55) Zu Hause ist er, wenn er nicht arbeitet, und wenn er arbeitet ist er nicht zu Hause (Il lavoratore è presso di sé quando non lavora, mentre quando lavora è estraneo a sé). Non vi è dunque lavoro libero, ma lavoro coatto, obbligato. Così il lavoro non è la soddisfazione di un bisogno, ma solo un mezzo per soddisfare bisogni esterni al lavoro stesso. La sua (del lavoro) estraneità (Fremdheit) si mostra in questo, che non appena venga a mancare una qualche costrizione fisica o di altro tipo, il lavoro viene evitato come la peste… In fine, l’esteriorità del lavoro per il lavoratore si mostra in questo, che il lavoro non è suo proprio, ma di un altro, che non gli appartiene, ma appartiene ad un altro. Come nella religione l’attività propria della fantasia umana, del cervello e del cuore umani opera indipendentemente dall’individuo, dunque, come una attività estranea, divina o diabolica, analogamente l’attività del lavoratore non opera come la sua stessa attività. La sua attività appartiene ad un altro e, per il lavoratore è la perdita di se stesso. Il risultato di ciò è che l’uomo (il lavoratore) si sente fonte di libera attività solo nelle sue funzioni animali, nel mangiare, nel bere, nel procreare, nell’abitare, vestirsi, ecc.; nelle sue funzioni umane, invece, si sente nulla più che un animale. L’animalesco diviene l’umano e l’umano diviene l’animalesco. I due lati dell’Entfremdung: 1) dell’attività pratica umana, cioè il lavoro, dunque l’Entfremdung del lavoratore rispetto al risultato del suo lavoro, che gli diviene un’estranea e dominante (mächtig) oggettività: dieses Verhältnis ist zugleich das Verhältnis zur sinnlichen Auβenwelt, zu den Naturgegenstänstehenden als einer fremden, ihm feindlich gegenüberstehenden Welt (questo rapporto è parimentiil rapporto con l’esterno mondo sensibile, con gli oggetti naturali, come mondo contrapposto estraneo e nemico). 2) il rapporto del lavoro con l’atto della produzione, all’interno del

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lavoro: si tratta del rapporto del lavoratore con la sua stessa attività, che non gli appartiene, dunque l’attività come sofferenza, la forza come mancanza di forza, la generazione come svirilimento (Entmannung); l’autoestraneazione. Da questi due lati dell’estraniazione se ne ricava un terzo (56): l’uomo è un’essenza generica (Gattungswesen), non solo in quanto egli fa, praticamente e teoreticamente, del genere –sia proprio che delle altre cose- un suo oggetto, ma anche … perché egli si rapporta a se stesso come al genere vivente e attuale, dunque a se stesso come essenza universale e, per questo, libera.224 Abbiamo preso le mosse da un fatto nazionaleconomico, dall’estraniazione del lavoratore e della sua produzione; abbiamo esplicitato il concetto di questo fatto: il lavoro alienato, estraniato; abbiamo analizzato questo concetto, dunque, abbiamo analizzato un fatto nazionaleconomico.225 Andiamo più avanti ora nel vedere come il concetto di lavoro estraniato, alienato nella realtà debba esprimersi e rappresentarsi. Quando il prodotto del mio lavoro mi diviene una realtà estranea, nemica, a chi allora appartiene? (59) Il rapporto estraniato dell’uomo col suo prodotto, proviene dal rapporto che l’uomo ha con l’altro uomo. Il lavoro estraniato è il risultato del movimento, che porta alla proprietà privata. (60) Già nelle pagine che abbiamo visto, la critica alla NE, in quanto teoria del modo capitalistico di produzione (d’ora in avanti, KPW), non si arresta al terreno economico-sociale, perché è anche critica del modo di costruire un teoria scientifica (in particolare, il modo di costruire quello strumento fondamentale che è l’astrazione), nonché critica dell’implicito morale, che il modo di analisi sottende ed espone (Marx parla spesso del cinismo della NE. A riprova di questo intreccio di temi, presente in Marx, volgiamoci alle sue pagine, raccolte in Scritti inediti di economia politica, pubblicato a 224 - Sottolinea come solo uscendo dal limite della individualità, della particolarità escludente, dunque, solo ponendosi dal punto di vista della universalità, l’uomo è libero. 225 - La strada da Marx seguita è dichiaratamente hegeliana, nel senso che dapprima l’empirico è stato ricondotto al suo concetto; in secondo luogo, questo concetto è stato analizzato, secondo un senso di <analizzare> che non è puramente formale, ma si identifica piuttosto coll’ enucleare le proprietà del concetto, che sono proprietà logico-storiche o formali-oggettive. E’ solo tenendo presente questa precisazione, che si può comprendere come l’analisi di un fatto nazionaleconomico, sia l’analisi di una oggettiva realtà o situazione economica.

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Roma nel 1963- Ci interesseranno particolarmente certe osservazioni a proposito di J, Mill e di Ricardo: la critica di Marx si volge al modo di costruire astrazioni, dalla pretesa scientifica, che è proprio della NE. Questo modo incorre in due difficoltà fondamentali: la prima, tradizionalmente parte dell’approccio empiristico, consiste nell’ impegno a guadagnare l’essenza di un certo campo d’oggetti,scartando ciò che specifica ognuno di essi, con il risultato di non riuscire poi a mostrare come dall’essenza si possa ridiscendere a quel particolare specifico. La seconda difficoltà, che discende certamente dalla prima, è di giungere ad un' essenza o legge, che non tanto si sviluppa (si ricordi l’identità fra spiegare e svolgere, che troviamo nella tradizione dialettica di Hegel e di Marx)) a partire dai fenomeni, quanto piuttosto si solleva –nella sua irraggiungibilità- al di sopra di essi; tanto che l’economista è costretto a riconoscere che i caratteri da lui raccolti nella legge o essenza, in realtà sono arbitrari ed avrebbero potuto esser altri. L’essenza dell’errore degli economisti è ben espressa da J, Mill, quando indica il denaro come intermediario dello scambio. L’obiezione di Marx consiste nel puntualizzare che l’essenza del denaro è il fatto che in esso viene alienato il movimento e l’attività mediatrice, l’atto umano, sociale, in cui i prodotti dell’uomo si integrano scambievolmente, il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo diventa proprietà del denaro (…) Dovrebbe essere l’uomo stesso l’intermediario per l’uomo e invece, attraverso quell’intermediario esterno, l’uomo guarda alla sua volontà, alla sua attività, al suo rapporto con altri, come ad una potenza indipendente da lui e dagli altri (…) questo intermediario diventa un vero dio poiché l’intermediario è la vera potenza su ciò con cui egli mi media. Gli oggetti una volta separati da questo intermediario hanno perduto il loro valore. E, dunque, soltanto in quanto lo rappresentano, essi hanno valore, sebbene in origine sembrava il contrario:che esso avesse valore, soltanto in quanto li rappresentava, questo rovesciamento del rapporto originario è necessario. L’ intermediario è cioè l’essenza smarrita, estraniata dalla proprietà privata, la proprietà privata espropriata, fatta esterna a se stessa (…) dunque il denaro è il vero valore delle cose e perciò la cosa indesiderabile. L’opposizione dei moderni economisti al sistema monetario è solo in ciò, che essi hanno compreso il denaro nella sua astrazione e generalità e quindi sono illuminati intorno alla superstizione sensibile, che crede nell’esclusiva esistenza di questo nel metallo nobile. Essi pongono al posto di questa rozza superstizione una superstizione più raffinata. Ma poiché l’una e l’altra hanno una medesima radice, così la forma illuminata della superstizione non arriva alla soppressione

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totale della rozza forma sensibile di essa, in quanto non investe l’essenza del denaro, ossia il denaro si è personificato nell’uomo. La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro. Aggiunge e commenta Marx, ribadendo così il rilievo morale della sua critica alla KPW (kapitalistische Produktionsweise) , “ entro la produzione stessa –si legge nel manoscritto marxiano, a p. 13-, lo scambio tanto dell’attività umana, come anche dei prodotti umani l’un con l’altro è uguale all’attività del genere (Gattungstaetigkeit) e allo spirito del genere, la cui esistenza reale, cosciente e vera è l’attività sociale e il godimento sociale, poiché l’essenza umana è la vera comunità degli uomini, manifestando la loro essenza gli uomini creano, producono la comunità umana, l’essenza sociale, che non è una potenza universale astratta, contrapposta al singolo individuo, ma è l’essenza di ciascun individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza. Non dalla riflessione ha origine cioè quella vera comunità; anzi essa appare prodotta dal bisogno e dall’egoismo degli individui, dall’immediata manifestazione della loro stessa esistenza” Dopo aver rinviato a Destutt de Tracy e ad Adam Smith a riprova del fatto che la NE fissa l’uomo nella sua forma estraniata, in quanto vedono l’uomo solo sotto l’aspetto di un attore dello scambio mercantile e di conseguenza, l’intera società a commercio multilaterale. L‘implicito evidente è che l’uomo vien fissato nella forma estraniata delle relazioni umane. “Nel lavoro industriale [Erwerbsarbeit), insiste Marx, c'è: 1) l'estraneità e la casualità del lavoro rispetto al soggetto che lavora; 2) l'estraneità e la casualità del lavoro rispetto all'oggetto stesso del lavoro; 3) la determinazione del lavoratore da parte dei bisogni sociali, che sono un obbligo estraneo a lui, a cui egli si assoggetta per bisogno individuale, che significano quindi per lui solo una fonte di soddisfacimento delle sue necessità, sino al punto che egli diventa uno schiavo dei bisogni esistenti; 4) che al lavoratore la conservazione della sua individuale esistenza appare come scopo della sua attività e la sua reale attività gli appare come semplice mezzo; che egli insomma vive solo per guadagnarsi da vivere. Quanto più grande, quanto più perfetta appare dunque la potenza della società -entro il rapporto della proprietà privata- -tanto più l'uomo diventa egoista, asociale, estraneo al suo proprio essere.” (Marx, Manoscritti: 19).

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