Emilio Garroni, Estetica Del Cinema
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7/28/2019 Emilio Garroni, Estetica Del Cinema
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ESTETICA DEL CINEMA
Enciclopedia del Cinema (2003)
di Emilio Garroni
Estetica del cinema
L'espressione estetica del cinema (come ogni altra espressione che leghi la parola estetica a un'arte
particolare: estetica della pittura, della musica, e cos via) usata dagli addetti ai lavori (per es., gi
negli anni Venti, da Ricciotto Canudo nella sua Esthtique du septime art, trad. it. in "Bianco e ne-
ro", 1939, 2, come, pi tardi, da M. Pezzella, Estetica del cinema, 1996, e da E. Bruno, Del gusto,
2001) come se individuasse un campo sufficientemente omogeneo di oggetti e problemi. In realt
pu essere usata, e di fatto talvolta usata, senza le necessarie cautele, cos da generare interni con-
trasti, tensioni e vaghezze che possono dar luogo a equivoci e a veri e propri errori.
La ragione non consiste direttamente nella latitudine semantica della parola estetica, quanto invece
nella pretesa di usare un termine solo presuntivamente univoco entro un campo ritenuto altrettanto
presuntivamente omogeneo, si tratti di cinema, di pittura, di musica, e cos via, anzi dell'arte stessa,
senza specificazioni. Tale latitudine infatti propria di ogni parola, in quanto non fissata come ter-
mine tecnico all'interno di un linguaggio speciale e provvista quindi di un'area semantica costituita
non da una 'classe' di significati, i cui membri abbiano tutti, a titolo di rilevante criterio di apparte-
nenza, almeno un tratto pertinente in comune, ma da una 'famiglia' di significati (nel senso di L.J.
Wittgenstein), i cui membri sono privi anche di un solo tratto pertinente comune a tutti, ma tali che
sia sempre possibile collegare due elementi qualsiasi mediante un numero finito di elementi ordinati
in modo che abbiano, ciascuno, almeno un tratto pertinente comune con il precedente. Secondo
l'immagine di Wittgenstein: qualcosa come un filo le cui fibre si sovrappongono via via l'una sull'al-
tra (Philosophische Untersuchungen, 1953; trad. it. 1967).
In altre parole: accade non infrequentemente che si creda di avere a che fare con un termine che de-
signi una classe di significati, sia pure articolati in varie accezioni, mentre si ha a che fare piuttosto
con una parola che designa solo una famiglia di significati. Il che comporta il rischio di passare nelcorso dell'esposizione da un significato all'altro e di trasformare un risultato della ricerca, legittimo
rispetto al primo significato di estetica, in un risultato illegittimo rispetto al secondo.
La questione non infatti di mere parole. Anzi, da questo punto di vista, l'espressione estetica del
cinema e altre sono del tutto corrette, se usate nel senso che via via compete loro. Ma appunto biso-
gna esserne consapevoli e non cedere all'illusione di disporre gi di uno scenario pacifico entro cui
sarebbero possibili estetiche per un verso assai diverse, ma per altro verso pur sempre legate l'una
all'altra da un'omogeneit di fondo. Per es., necessario tenere ben distinte, nonostante tutti i loro
mediati rimandi reciproci, l'estetica della tradizione filosofica dalle estetiche delle singole arti.
Un'estetica filosofica in quanto riflessione sulla condizione estetica dell'esperienza, cio di qualsiasi
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esperienza (condizione che I. Kant chiamava sentimento o senso comune), non si occupa esclusi-
vamente di una singola arte e neppure dell'arte in genere, in senso estetico moderno, la cui nozione
parimenti una famiglia e non una classe, ma appunto di qualsiasi esperienza; e di opere d'arte si
occupa solo in quanto queste sono esempi caratterizzati dalla dominanza di quella condizione (che,
per Kant, era il loro 'principio di determinazione'). Un'estetica delle singole arti invece dovrebbe
occuparsi proprio di questa o quell'arte, non necessariamente in senso estetico moderno, e il suo
modo di trattarla deve tener conto empiricamente e pragmaticamente dei suoi procedimenti operati-
vi. La prima rientra in una riflessione sui principi dell'esperienza (intellettuali, pratici, estetici), la
seconda invece un'analisi empirico-pragmatica e un organamento teorico dei procedimenti della
singola arte considerata. Scambiare l'una con l'altra significa per un verso perdere di vista il proble-
ma paradossale, ma ineludibile, dello statuto dell'esperienza in genere e per altro verso trasformare
una teoria particolare, forse valida nella sua particolarit, in una eterogenea teoria filosofico-empiri-
ca, generalizzante e in definitiva normativa, inaccettabile gi solo per l'incompatibilit dei suoi
componenti. E giustamente F. Casetti (1993) e, ancora prima, G. Aristarco (1951, 1960) hanno usa-to rispettivamente le parole teoria e teorica (forse intenzionalmente pi debole di 'teoria'; v. anche
teorie del cinema per questo aspetto e per tutti i successivi argomenti trattati).
Per il cinema l''intenibilit' di quello scambio particolarmente appariscente. Della pittura, che al-
meno tecnicamente sembra essere sempre esistita, si pu pi facilmente immaginare che sia una
forma espressiva in qualche modo originaria della natura culturale dell'uomo. Sotto questa presup-
posizione le ricerche sulla pittura, in quanto modo espressivo, che possono essere dette solo in sen-
so lato estetiche, condotte per esempio da un punto di vista purovisibilistico (H. Wlfflin e altri),iconologico (A. Warburg e warburghiani), percettivo-gestaltico (R. Arnheim), percettivo-transazio-
nale (E.H.J. Gombrich), si muovono entro un campo sufficientemente ben delineato, siano poi in
tutto o in parte accettabili o no, mentre nel caso della pittura come arte in senso estetico moderno
una teoria filosofico-empirica e normativa sarebbe del tutto inadeguata: una tale estetica della pittu-
ra, nella misura in cui lecita, suppone una certa arte pittorica o un certo modo di considerarla. Il
cinema invece nato tardi e in occasione dell'affermarsi di uno strumento tecnico prima impensato:
quindi tanto pi evidente che un'e. del c. non materialmente possibile se non come analisi empi-
rico-pragmatica e teorizzazione sempre rinnovabile degli adattamenti dello strumento alle variabili
esigenze espressive del cinema in genere e in particolare del cinema come arte cinematografica, dal-
la formazione lenta e faticosa. Anzi, nel caso del cinema, sul carattere empirico di un'estetica s'im-
pone come prevalente il suo carattere pragmatico, vale a dire: ci che si fa e si vuole fare dello
strumento tecnico come mezzo per realizzare un'arte cinematografica o, quanto meno, un 'linguag-
gio', capace di organizzare un qualche 'discorso' (espressioni da intendere qui in senso debole). Non
a caso l'estetico-teorico del cinema forse pi importante e finora insuperato, Sergej M. Ejzentejn,
fu anche un grande autore di cinema: esempio altamente significativo della indisgiungibilit non
solo ideale, ma nel suo caso anche effettiva, del comprendere il cinema, del saperlo fare e del farlo
effettivamente.Questa non affatto una svalutazione delle teorie empirico-pragmatiche. Al contra-
rio, senza teorie del genere, che si presentano implicitamente anche attraverso le stesse opere cine-
http://www.treccani.it/enciclopedia/teorie-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/teorie-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/teorie-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/ -
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matografiche, non s'intenderebbe affatto n il senso del cinema n la sua storia. Lo stesso spettatore
medio tiene pi o meno conto ogni volta che assiste alla proiezione di un film qualsiasi del formarsi
del cinema mediante un certo modo di fare, che va dai primi esperimenti, l'attualit ricostruita, le
minimali ricostruzioni storiche, le riprese di scene reali o umoristiche, L'arrive du train o L'arro-
seur arros dei Lumire, al documentarismo alla Flaherty e ai film comici di Buster Keaton o Char-
lie Chaplin, dal film fantastico alla Mlis, fondato sui cosiddetti trucchi, ai primi ambiziosi kolos-
sal, dal cosiddetto teatro cinematografato al cinema di montaggio, dal film scientifico specialistico
alla cinematografia d'avanguardia, dai 'film d'autore' alla produzione cinematografica industriale e di
larghissima diffusione. E quindi non pu non tener conto implicitamente e inconsapevolmente della
stessa teoria sottesa, trapelante dal lavoro produttivo-creativo e dal continuo e parallelo proliferare,
almeno fin dagli anni Venti, di teorie del cinema, che accompagnano, seguono e talvolta addirittura
anticipano progettualmente la produzione stessa. In realt il cinema, senza questo lavoro teorico,
che gli specialisti conoscono direttamente e il pubblico di solito conosce quasi solo indirettamente
attraverso il suo riflesso nei film, non sarebbe stato e non sarebbe cos come variamente stato ed.Tuttavia i due campi, quello dell'estetica filosofica e quello dell'estetica di un'arte singola, non
vanno divisi nettamente da un punto di vista materiale, dal momento che qualcosa di filosofico non
pu non trovarsi implicitamente dappertutto, e in particolare in una teoria empirico-pragmatica del
cinema, cos come nella stessa filosofia non pu non trovarsi qualcosa di empirico-pragmatico, al-
meno quale occasione di partenza realizzata poi in riflessione. Cos, le e. del c. si muovono tra due
estremi significativi, entrambi legittimi e utili: tra una teorizzazione pi propriamente operativa, in
sostanza pi vicina a una poetica, e una teorizzazione pi disinteressata volta a comprendere il ci-
nema come mezzo d'espressione, di significazione, di comunicazione, e proprio tale teorizzazione,oggetto specifico di questa voce, non pu non riferirsi mediatamente anche 'a', e 'trarre vantaggio
da', una riflessione estetica generale e generarne a sua volta una, e non solo, come si vedr, in
frammenti e intuizioni sparse. E in ogni autore e in ogni testo si troveranno istanze dell'un tipo e
dell'altro, pur restando ferma, in linea di principio, la distinzione formale gi detta. Anzi, nel corso
degli anni Ottanta, ma con significative e ben note anticipazioni in Walter Benjamin (Das Kun-
stwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936), si sviluppata un'estetica teorico-
filosofica, interessata ad analizzare il nesso tra mezzo tecnico, nella sua evoluzione operativa, e il
modo di percepire e fruire del prodotto (opera d'arte o no) che ne risulta. Si vedr qualcosa del ge-nere negli ultimi autori da esaminare.
Un'ultima osservazione sulle ragioni, per cos dire, 'sociopsicologiche' della nascita di un'estetica
del cinema. Bisogna considerare che il mezzo cinematografico, essendo nato alla fine del 19 sec.
per interessi tecnici (la riproduzione del movimento) e come inedito strumento osservativo (l'osser-
vazione di fenomeni dinamici non facilmente analizzabili con lo sguardo, quale per es. il galoppo
del cavallo), e avendo alle proprie spalle, nelle invenzioni strumentali che lo precedettero e lo pre-
pararono, quasi esclusivamente usi ludici, dedicati in particolare ai bambini, non disponeva agli ini-
zi dei caratteri minimi del mezzo comunicativo. Era naturale che si manifestasse dapprima come
puro stimolo di curiosit, di sorpresa, di divertimento. Per sollecitare l'interesse del pubblico, dovet-
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te affidarsi inizialmente e senza troppe finezze o all'imitazione esterna di mezzi comunicativi gi
costituiti (pittura, teatro, letteratura) o alla piatta ripresa di eventi quotidiani. Non a caso ebbe i suoi
luoghi originari di presentazione al pubblico addirittura nei baracconi e solo pi tardi in vere e pro-
prie sale dedicate alla proiezione di film. quindi altrettanto naturale che la sua promozione, insie-
me operativa e teorica, fosse perseguita innanzi tutto a partire dall'esigenza di superare una duplice
tara presunta, motivata dalla sua novit e dalla sua marginalit culturale: la non-specificit comuni-
cativa e il carattere di mera riproduzione della realt quotidiana tale e quale. In realt, n il cinema
pu essere in tutti i sensi specifico (v. oltre), n pu riprodurre tale e quale la realt quotidiana, ma
sempre la riprende, per ragioni anche solo strettamente tecniche, prima ancora che creative, da un
certo punto di vista, con un certo obiettivo, con una certa profondit di campo, privilegiando questo
o quel carattere della scena da riprendere. E tuttavia proprio questi due problemi (specificit del lin-
guaggio cinematografico e suo carattere non meramente riproduttivo) stanno di fatto all'origine del-
la stragrande maggioranza delle estetiche o teorie del cinema (almeno fino alla fine degli anni Tren-
ta e agli inizi degli anni Quaranta del 20 sec.), con effetti per un verso utili alla sua crescita e peraltro verso tali da dar luogo anche a inevitabili unilateralit. Un'estetica o teoria del cinema, quando
non sia una semplice poetica di un autore o di un gruppo di autori, nasce anche sull'occasione di
un'insicurezza, cio dalle domande, per le quali si richiede una risposta rassicurativa: 'che cos'
(cio che cosa deve essere) il cinema?', 'qual il suo linguaggio?', 'a quali condizioni pu produrre
un'opera d'arte?'
Le teorie del montaggio
Negli anni Venti l'istanza teorica, sempre pi esplicita rispetto alla produzione e alla ricerca concre-
ta che era gi universale (da questo punto di vista gli Stati Uniti furono in primissimo piano e la
Germania ebbe un posto di tutto rispetto), cominci ad assumere qua e l un ruolo decisivo. Per es.
in Francia, ricorda G. Aristarco (1951, p. 132), usc nel 1925 un numero di "Cahier du mois" dedi-
cato al cinema, con articoli fin troppo entusiastici, ma in qualche misura anche innovativi di Jean
Tdesco, Marcel L'Herbier, Germaine Dulac, Jacques de Baroncelli, Andr Beucler e altri. Quindi:
non solo nacque, in concreto, gi negli anni Dieci il montaggio; nacque nello stesso tempo una teo-
ria del montaggio, per es. con Jean Epstein tra il 1920 e il 1922. Ma la delineazione di una vera e
propria estetica o teoria del cinema circostanziata e di ampio respiro si ebbe negli anni Venti inUnione Sovietica.
Lev V. Kuleov, Vsevolod I. Pudovkin, Dziga Vertov, S.M. Ejzentejn e altri operarono nell'ambito
di un movimento teorico e operativo colto e assai ampio, in un ambiente ricco di fermenti non solo
nei riguardi del cinema, ma, oltre che del teatro (dominato gi da tempo dalle grandi e quasi antite-
tiche personalit di Konstantin S. Stanislavskij e di Vsevolod E. Mejerchold), anche dell'arte in ge-
nerale e della letteratura in particolare (v. avanguardia sovietica). Da ricordare soprattutto i molti
autori gravitanti intorno al movimento dei cosiddetti formalisti russi (v. formalismo) e, in particola-re, per il discorso qui affrontato, Jurij N. Tynjanov e Boris M. Ejchenbaum.
http://www.treccani.it/enciclopedia/formalismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/avanguardia-sovietica_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/formalismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/formalismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/avanguardia-sovietica_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/avanguardia-sovietica_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/ -
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due epoche, alla cosiddetta lingua della realt del Pasolini degli anni Sessanta, non mancante tutta-
via, questa come quello, di elementi soggettivi e patetici, nonch di forti inclinazioni liriche. In ogni
caso il "fatto" e una poetica "fattografica", come in quell'ambiente si diceva, s'impongono in Vertov
non come riduttivo realismo, ma come un antidoto attivo e creativo contro la lebbra dei "vecchi
film, romanzati, teatralizzati e simili" (il suo bersaglio era il film "recitato") e forse, sotto la spinta
di un entusiasmo rivoluzionario, macchinistico e antiburocratico (Entuziazm, Entusiasmo, il titolo
di un suo film del 1930), che non fu mai condiviso dai funzionari sovietici (proprio quel film fu
l'occasione del suo licenziamento), contro lo stesso teatro e la stessa letteratura. Il suo scopo era di
far parlare la realt, come essa per s stessa non fa mai immediatamente.
In entrambi i casi, in Kuleov e in Vertov, anche se in sensi diversi, hanno un forte rilievo sia il ri-
fiuto della riproduzione pura e semplice della realt quotidiana gi data, sia la specificit del cine-
ma, con un'indubbia tendenza allo specifico filmico, sia la sua linguisticit. Qualcosa di soltanto
analogo si pu dire per Ejzentejn. Senza dubbio la metafora linguistica presente nei suoi moltisaggi, e sono presenti anche il rifiuto di un realismo riproduttivo (che per altro non , e non pu es-
sere, semplicisticamente, proprio del cinema, come vide bene Ejchenbaum) e lo sforzo di manife-
stare con le opere e di teorizzare con gli scritti la specificit del cinema. Ma la metafora linguistica
non si spinge al di l del plausibile, e la specificit non giunge a segregare (come forse in Kuleov e
in Vertov) il linguaggio filmico dal linguaggio delle altre arti e dalle tante forme comunicative che
appartengono alla cultura umana, e soprattutto a ritenerlo omogeneo. Al contrario, preoccupazione
di Ejzentejn di collegare costantemente i mezzi specifici del cinema, quali si erano gi andati de-
lineando e via via erano stati messi a punto con sempre maggiore forza strutturante dalla scuola so-vietica, a mezzi propri di altri linguaggi (la pittura, la musica, la letteratura), senza con ci togliere
al cinema la specificit che tecnicamente e comunicativamente gli compete. Si trattava non pi di
favorire imitazioni esterne o miscugli materiali, ma di comprendere la comunanza che i mezzi del
cinema e i mezzi di altre arti hanno in forza di modelli formali comuni e variamente specificabili.
Un solo esempio: proprio sul tema del montaggio, che nel caso del film ha caratteri specifici non
esportabili in altri campi, Ejzentejn conduce analisi precise e acutissime del parallelo montaggio
letterario, che con diversa specificit realizza qualcosa di formalmente comune. L'esempio predilet-
to quello di A.S. Pukin (cfr. Teoria generale del montaggio, 1985, che raccoglie in trad. it. molti
importanti saggi del regista sull'argomento) che in Monta 1938 (trad. it. Montaggio 1938, in Il
montaggio, 1986) ha un'esemplificazione fulminante e stringente in quindici versi di Poltava, a cia-
scuno dei quali Ejzentejn fa corrispondere una possibile inquadratura o piano, riformulando cos
l'intero brano come una vera e propria sequenza filmica. Il montaggio non , inoltre, la creazione di
una realt altra rispetto a quella quotidiana, al modo di Kuleov, e neppure l'"occhio della rivoluzio-
ne" o, si pu dire, il "linguaggio della realt", al modo di Vertov. interpretazione della realt, di
cui tende a mostrare il senso profondo oggettivo, storico, nonch il senso che l'autore gli conferisce,
e con lui gli spettatori, in quanto egli in interrelazione (patetica, intellettuale, pratica) con la realt
che rappresenta. In altre parole: la realt, per Ejzentejn, essenzialmente tale interrelazione. E in
questo senso il cinema anche pensiero. Il montaggio infatti non la somma delle inquadrature di
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cui la sequenza si compone, ma il loro prodotto, cio la loro unit sintetica, da cui scaturisce un
senso nuovo e pi complesso rispetto al senso di ognuna di esse: "due qualsiasi pezzi, disposti l'uno
accanto all'altro, si fondono sempre in una nuova idea che emerge da questa comparazione come
qualcosa di qualitativamente diverso", scrive in Monta 1938 (trad. it. 1986, p. 90), mirando sempre
all'"insieme", alla "totalit dell'opera". Esattamente come accade nella vita stessa, ma non quella
che ci sta dattorno piatta e confusa, bens la vita interpretata o, appunto, pensata.La grande libert
creativa e teorica di Ejzentejn, che non si chiude mai in formule ne varietur, dimostrata anche
dalla sua reazione all'introduzione del sonoro e, poi, del colore: eventi che produssero in altri, anche
insigni, come per es. l'Arnheim degli anni Trenta, sconcerto e ripulsa, in difesa appunto di una spe-
cificit filmica rigida, intesa come omogeneit figurativa esclusiva.
Senza dubbio una qualche preoccupazione (perdita del montaggio, e quindi della specificit del lin-
guaggio filmico, e resa del cinema al teatro, alla letteratura e alla riproduzione della realt tale e
quale) fu di tutti i cineasti consapevoli dei pericoli insiti nell'uso che dell'innovazione tecnica si sa-rebbe potuto fare. Eppure, gi nel 1928, Ejzentejn, Pudovkin e Grigorij V. Aleksandrov firmavano
un testo in cui, insieme alle preoccupazioni, si esprimeva anche l'idea che il suono, possedendo
un'"alta significazione", potesse essere usato proprio in vista della "creazione di un nuovo contrap-
punto orchestrale" (Buduee zvukovoj filmy. Zajavka, in "izn iskusstva", 1928, 32; trad. it. Il
futuro del sonoro. Dichiarazione, in S.M. Ejzentejn, Forma e tecnica del film e lezioni di regia,
1964, pp. 523-24). E del resto gi Ejchenbaum aveva preso le distanze da eccessive preoccupazioni,
sostenendo che il cinema muto non era affatto muto, ma solo sfornito di "parola udibile", largamen-
te compensata dal linguaggio interiore sollecitato nello spettatore (Problemy kinostilistiki, in Poeti-ka kino, 1927; trad. it. I problemi dello stile cinematografico, in I formalisti russi nel cinema, 1971,
pp. 11-52). Non solo Ejzentejn non rifiuter successivamente il sonoro, ma lo incorporer in una
ben specificata e pi ricca teoria del montaggio, in assonanza appunto con la musica. Cos al "mon-
taggio orizzontale", secondo la linearit, che proprio secondo sue proprie specificazioni anche del
linguaggio verbale ( il caso dell'esempio gi citato di Pukin), viene integrato il cosiddetto "mon-
taggio verticale", che proprio della musica, con la sua organizzazione armonica e contrappuntisti-
ca (ma ancora una volta anche in Pukin dato ritrovare un'armonia e un contrappunto, e quindi un
montaggio verticale, tra struttura ritmica e montaggio orizzontale, come detto in Teoria generale
del montaggio). Ejzentejn costruisce, per cos dire, veri e propri spartiti visivo-musicali, anche in
vista della produzione dell'Aleksandr Nevskij (1938) e della straordinaria collaborazione con Sergej
S. Prokofev, e svolge analisi molto fini e calzanti del nuovo procedimento, conscio del suo carattere
e teorico e creativo, essendo sensibile inoltre ai complessi rapporti di integrazione e anche di domi-
nanza che di volta in volta si rendono necessari: ora, per es., il montaggio orizzontale a determina-
re il montaggio verticale e talvolta accade il contrario, secondo le esigenze espressive e significative
dell'opera che si va compiendo.
chiaro infine che la specificit ricercata da Ejzen-tejn non in alcuna maniera omogeneit esclu-siva, ma in accordo con la concezione che vari modelli eterogenei, sia pure secondo opportune
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specificazioni, concorrono alla formazione e del cinema e di altri modi comunicativi, cos che l'ope-
ra d'arte filmica si configura, come ogni opera d'arte, quale luogo di conflitti, di integrazioni, di mu-
tamenti, proprio come un organismo vivente. Nell'ultima, importante opera teorica, Neravnodunaja
priroda (trad. it. La natura non indifferente, 1981, 1992), rimasta incompiuta, la cui stesura fu effet-
tuata negli anni 1945-1947, ricchissima di letture critiche non filmiche (per es., di G.B. Piranesi o di
El Greco), l'opera d'arte viene detta appunto "organica", tale da prevedere il passaggio continuo (la
cosiddetta estasi) a registri sempre diversi e il conseguente "rimandare a qualcosa d'altro", all'"ir-
rappresentabile". Ci legato a un forte pathos. Ma di nuovo secondo un'idea sempre presente in
Ejzentejn, sia pure in forme diverse, fin dall'avanguardistico Monta attrakcionov (in "Lef", 1923,
3; trad. it. Il montaggio delle attrazioni, in Il montaggio, 1986, pp. 219-23) dedicato al teatro tale
pathos contiene e sollecita anche un vero e proprio pensiero, non senz'altro pensiero esplicito e tan-
to meno logico, ma tale da fare tutt'uno con il fare e il sentire.
Cinema, arte figurativa?
Negli anni Trenta e Quaranta l'effettivo sviluppo della cinematografia internazionale, soprattutto
statunitense, tese nella stragrande maggioranza dei casi a usare il montaggio come una tecnica che
doveva passare, per cos dire, 'inosservata': l'uso del 'piano americano', nonch le regole di alternan-
za tra piani diversi, di campo e controcampo, e cos via, dovevano assicurare un corretto legame che
complessivamente desse per l'impressione di una continuit narrativa e visiva, come se le cose si
svolgessero, pur secondo convenzioni e regole costruttive, ma senza salti apparenti, sotto gli occhi
dello spettatore. L'avvento del sonoro contribu a rafforzare questa tendenza e a perfezionarne l'ef-
fetto. Parallelamente il lavoro pi propriamente teorico pot tendere invece a radicalizzare il tema
dello specifico filmico. In parte, ma solo in parte, il caso di B. Balzs, che scrive: "Nei recenti film
americani i personaggi parlano troppo e spesso dicono cose superflue. Fatto sintomatico: dimostra
che il film americano ripiombato al livello del teatro fotografato" (1949; trad. it. 1952, 1987 , p.
263). E ancora: "Il film sonoro [] cos ricco di rappresentazioni visive da concedere ben poco
spazio alla parola. Anche il film sonoro composto da una serie di immagini, e la parola appare
'dentro' l'immagine, ne costituisce uno degli elementi, come una linea o un'ombra. Il suono comple-
ta e sottolinea l'impressione suscitata dalle immagini. Ecco perch esso non deve imporsi in modo
troppo sensibile allo spettatore" (p. 266). Il sonoro dunque come un elemento aggiunto a ci che
innanzi tutto , anzi deve essere, immagine. Ma il caso esemplare, come si gi detto, quello di
Rudolf Arnheim.
Secondo Arnheim, autore di numerosi saggi sul cinema (il pi importante dei quali il famoso Film
als Kunst, 1932), questo mezzo espressivo pu e deve essere arte e non soltanto "un gioco nuovo,
fantastico, curioso, aggressivo e sentimentale del muovere le ombre" (trad. it. 1960, p. 40) o una
tecnica impressionistica e labile per restituire un quasi-doppione della vita di tutti i giorni. A parte il
fatto che il mezzo cinematografico, per i suoi propri limiti, non riuscirebbe a dare un vero doppione,spetta al cinema come linguaggio artistico scoprire ci che nella realt quotidiana, non specifica e
non semplice (quindi non omogenea), vi invece di specifico e semplice. Non a caso egli fu soste-
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nitore, da un punto di vista strettamente teorico, del film muto, di contro al quale il film sonoro sa-
rebbe solo un espediente per completare la "resa della realt quotidiana" (come ancora si ripete nel-
la Nota personale del 1957). E parole ancora pi severe vengono dette sul film a colori. In conclu-
sione, se il cinema arte, esso , deve essere, specifico-semplice. Ecco un caso esemplare di teoria
tra scientifica ed empirico-pragmatica che, trasformandosi in filosofica, diviene normativa. Infatti,
l'unione di elementi eterogenei, quali l'immagine e il suono, scrive, "non basta a renderli omogenei,
fondibili o scambiabili. Lo impedisce la loro diversit a livello elementare; e ci che avviene a livel-
lo elementare decisivo per tutta l'opera". Va riconosciuto che le idee manifestate in Film als Kunst
vennero almeno in parte corrette dallo stesso Arnheim in Il nuovo Laocoonte (in "Bianco e nero",
1938, 8, pp. 3-33) poi aggiunto a quel libro: in questo testo infatti sembra che sia riservata una con-
siderazione un po' meno negativa al carattere eterogeneo e composto di certi sistemi espressivi, con
implicito indebolimento della cogenza dei presunti livelli elementari, anche se la "gerarchia dei
mezzi espressivi" continua a stare, per il cinema, sotto il principio della funzione-guida dell'imma-
gine. Di qui la sopravvalutazione del cinema astratto (cio di un aspetto marginale, anche tecnica-mente, del fenomeno che si vuole comprendere e che continuer poi, in modo tecnicamente pi coe-
rente, con la futura computer art), indicato come "l'inizio di quella che sar un giorno o l'altro la
grande pittura in movimento". Resta quindi un qualche conflitto tra convinzioni scientifiche ed este-
tica, tra teoria e predilezioni artistiche, in qualche misura inevitabilmente pragmatiche.
Dunque: il cinema come arte figurativa e, dal punto di vista di Arnheim, addirittura astratta. Analo-
gamente, ma al di qua dell'astrattismo, una nota opera di Carlo Ludovico Ragghianti s'intitola pro-
prio Cinema arte figurativa (1952, 1957), dove ci si spinge tanto oltre nell'assimilazione da dichia-rare sorprendentemente: "Infatti, quale differenza si pu indicare fra un quadro, ad esempio, e un
film? Per quanto si guardi, per quanto si indaghi e si sottilizzi, non possibile riscontrare, fra queste
due espressioni, altra differenza tutt'al pi di 'tecnica': il processo il medesimo, e della stessa natu-
ra sono i modi (figurativi o visivi), generalmente intesi, attraverso i quali si coagula in 'forma' uno
stato d'animo, un particolare modo di sentire" (1957, p. 44). Eppure gi all'inizio degli anni Qua-
ranta, sulla base della medesima idea della visivit riproduttiva del cinema, era accaduto a qualcuno
di negare recisamente che il cinema fosse arte e potesse accedere a una "formulazione d'immagine",
cio, pi o meno, alla 'forma' di cui parla Ragghianti (cfr. C. Brandi, Carmine o della pittura, 1945).
Evidentemente quell'assimilazione, oltre che inadeguata, e alla pittura e al cinema, non garantiva in
nessun modo le potenzialit artistiche del cinema. Se il cinema le possiede, come in realt le pos-
siede, deve essere per tutt'altre ragioni. Sta il fatto che un filosofo come Galvano Della Volpe potr
poi schierarsi decisamente contro quella riduzione del filmico al figurativo sia nella sua Critica del
gusto (1960, 1964), sia in una Postilla sul cinema e le arti figurative (in Il verosimile filmico e altri
scritti di estetica, 1962) con queste precise argomentazioni: "1) che la bidimensionalit della pelli-
cola o film carattere meramente fisico ed esterno dell'opera cinematografica e per estraneo al se-
gno e al valore artistico cinematografico; 2) che la bidimensionalit, invece, della tela pittorica
carattere quanto mai intrinseco del segno e dei valori pittorici; 3) che, difatti, un effetto spaziale ar-
tistico del tipo ad es. della linea retta che, nel giottesco 'Cristo davanti a Caifa', congiunge le due
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pareti laterali di una stanza, non pu darsi n avrebbe senso in un'espressione filmica dell'interno di
una stanza, espressione che, avendo come suo segno-base il fotogramma, caratterizzato dall'essere
riproduzione cinematografica appunto della tridimensionalit delle cose reali del mondo, non
pu rendere mai altro che angoli reali prodotti dalle pareti di una stanza e cos via: e quindi nessun
effetto di stilizzazione spaziale di superficie come quello giottesco o pittorico in genere". E tuttavia,
sottolinea, sia il film sia la poesia potranno essere arte in forza non di una loro specificit e sempli-
cit esclusive, ma della loro "organicit semantica", cio nell'essere i loro sensi determinati vicen-
devolmente nell'opera. Tale organicit verr realizzata, naturalmente, con i procedimenti specifici
della poesia o del cinema, che non escludono affatto, e anzi richiedono, modelli comuni. Il che vie-
ne esemplificato limpidamente nel caso della metafora, che si affida a un medesimo modello sia nel
"dantesco leone "con la testa alta e con rabbiosa fame, s che parea che l'aere ne temesse"", sia nei
tre leoni, che in sequenza danno l'impressione di essere un solo leone che si sveglia e si erge, di
Bronenosec Potmkin (1925; La corazzata Potmkin), sebbene il primo non possa essere 'tradotto'
in film e i secondi in poesia, senza perdere la loro appropriata specificit.
La svolta del dopoguerra
La Seconda guerra mondiale rappresenta un vero e proprio discrimine tra taluni eccessi delle teoriz-
zazioni classiche e un modo molto pi duttile, e anche pi adeguato, di affrontare la questione della
specificit del mezzo cinematografico. Da una parte le iniziali intenzioni di promozione erano venu-
te in gran parte meno, il cinema essendosi conquistato ormai un posto tra le attivit espressive; dal-
l'altra, guerra e resistenza, le loro motivazioni, le loro conseguenze avevano spazzato via sia gli en-
tusiasmi sospetti sia le remore residue, ancora legate all'idea di arte coltivata dall'estetica sette-otto-
centesca, che avevano reso fino ad allora pi arduo il riconoscimento senza complessi della funzio-
ne sociale del cinema, volta alla comprensione del mondo. In realt, alla fine degli anni Trenta e poi
nel decennio successivo, l'idea che il cinema fosse un'arte figurativa era in un certo senso gi invec-
chiata, prima ancora di affermarsi in forma troppo drastica e, nello stesso tempo, di finire nel nulla.
Molti, senza dubbio, continuarono per alquanto tempo a perseguire l'idea di una specificit del lin-
guaggio cinematografico, ma essa si andava ormai spogliando dei radicalismi improduttivi ed era
quindi disponibile a commerci proficui con altri modelli espressivi concomitanti. N il carattere ri-
produttivo del mezzo cinematografico angustiava pi i suoi cultori, liberatisi via via del peso, ap-
punto, di un paragone preoccupante con le belle arti tradizionali, praticate in modo tradizionale. Si
trattava semmai di vedere come un'opera cinematografica, in quanto fondata sulla ripresa del reale,
potesse essere un'opera significativa e anche una vera e propria opera d'arte.
In Italia, e non solo in Italia, i nomi di studiosi di cinema, quali Luigi Chiarini, direttore del Centro
sperimentale di cinematografia, Umberto Barbaro, tra l'altro padre spirituale della rivista "Filmcriti-
ca", Cesare Zavattini, scrittore e uomo di cinema di primissimo piano, soprattutto nell'ambito del-
l'esperienza del Neorealismo, sono importanti a questo riguardo. Restava, s, anche in loro, la nonteatralit e non letterariet del cinema, ma solo nel senso di non essere il cinema stretto teatro cine-
matografato o esterno scimmiottamento letterario; e restavano anche l'eredit del montaggio, ma
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non pi cos rigoristico come in Ejzentejn, e la capacit di far parlare le cose stesse, ma non nella
forma estrema e un po' utopistica di Vertov (molte, troppe cose erano intervenute dai tempi di
Ejzentejn e di Vertov). Nello stesso tempo si affermava sempre di pi, in questi autori e in altri, la
convinzione che il cinema potesse e dovesse essere opera d'arte non solo in quanto 'forma', nel sen-
so in cui lo la pittura, ma anche, e per ci stesso, in quanto presa di contatto con la realt e la quo-
tidianit, ideologia, contenuto, discussione, e anche 'forma', s, ma appunto sulla loro base e non su
quella di una mera figurativit (v. anche realismo). Esempi significativi sono forniti anche da Guido
Aristarco, prossimo a posizioni lukacsiane, e da Sigfried Kracauer, interessato a una critica politico-
ideologica non propagandistica. Erano acquisizioni che si sarebbero di l a non molto dimostrate
irreversibili: denunciavano chiaramente che il cinema, nonostante il suo carattere industriale e il suo
ruolo sempre attivo di strumento d'intrattenimento di massa, oltre che di propaganda, naturalmente,
si era conquistato ormai un posto stabile nella 'cultura', in senso forte e non solo antropologico. Un
esempio indicativo in questo senso il fatto che Gilbert Cohen-Sat pot pubblicare gi nel 1946 il
suo notevole Essai sur les principes d'une philosophie du cinma, un titolo che difficilmente si sa-rebbe azzardato appena dieci anni prima, dove tra l'altro si sostiene la tesi della molteplicit dei
punti di vista critici e scientifici da cui il cinema pu essere studiato, molteplicit che un chiaro
segno della sua complessit culturale.
L'ambiente culturale che meglio rappresenta questa tendenza quello che si raccolse, sia pure in
fasi distinte intorno alla rivista "Cahiers du cinma" (v.), che fu fondata nel 1951 da Andr Bazin,
insieme a Jacques Doniol-Valcroze e Jean-Marie Lo Duca, e sub nel 1963 e, poi, nel 1969 impor-
tanti mutamenti redazionali, dopo la morte del fondatore e la direzione di qualche anno di EricRohmer (pseudonimo di Maurice Schrer). A quell'ambiente si possono attribuire quasi tutti gli
aspetti gi menzionati del nuovo corso (cfr. De Vincenti 1980), e cio: un grande interesse per la
teoria, sempre unita per alle esigenze comunicative del cinema, una ripresa del tema del montag-
gio e nello stesso tempo una grande libert nell'intenderlo, un forte interesse politico-conoscitivo e
insieme l'ammirazione per il cosiddetto cinema classico hollywoodiano (che non veniva pi avverti-
to come opposto al cinema d'autore, almeno nei suoi rappresentanti migliori, in primo luogo, come
naturale, Orson Welles e Alfred Hitchcock), e soprattutto l'insistenza sull''impressione di realt' di
Bazin che propria del cinema e che la base della costruzione di un'opera filmica. Bazin era anche
convinto, fin dagli anni Quaranta, che alla vita del cinema necessario il "pubblico colto che pos-
siede abbastanza conoscenze tecniche e storiche da creare intorno all'opera un ambiente critico, af-
fermare delle gerarchie, giudicare dello sforzo del creatore", e fu nello stesso tempo sostenitore, sul-
l'esempio di Rossellini e De Sica, del "cinema della realt", cio di un realismo tecnico che si tra-
sformi in realismo estetico, non dunque un puro e semplice realismo oggettivo, ma piuttosto (come
ricorda De Vincenti nell'introdurre Cahiers du cinma. Indici ragionati 1951-1969, 1984, pp. XIII-
XV) quell'unit "della coscienza del mezzo", "della sua storia (il linguaggio)" e del "rispettoso inter-
rogativo posto alla realt, la sollecitazione a significare portata sull'ambiguit del reale", con, in pi,
l'intervento calcolato del "caso". Il che costituisce per Bazin il "paradosso estetico" del cinema. Sui
"Cahiers" scrivevano critici di prim'ordine e, inoltre, cineasti che furono anche gli autori di film del-
http://www.treccani.it/enciclopedia/cahiers-du-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/realismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/cahiers-du-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/cahiers-du-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/realismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/realismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/ -
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la cosiddetta Nouvelle vague (v.): per es., Claude Chabrol, Franois Truffaut e soprattutto Jean-Luc
Godard. La menzionata svolta del 1963 fu opera soprattutto di questi ultimi, e proprio in Godard
dato ritrovare il senso della nuova forma di montaggio praticato, diverso e dal montaggio che 'passa
inosservato' di Hollywood e dal montaggio ejzenteiniano, dato che ammette salti di piano apparen-
temente ingiustificati (come in Pierrot le fou, 1965, Il bandito delle undici), stasi apparentemente
insensate (come in Une femme marie, 1964, Una donna sposata), lunghezze assai variabili delle
scene che si succedono e anche lunghe inquadrature fisse, una volta inconcepibili (come in Week-
end, 1967, Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica), dialoghi che prima si sareb-
bero detti prolissi (come in La chinoise, 1967, La cinese). La lezione non pass inavvertita. Per por-
tare un solo esempio notevole, forse Ingmar Bergman autore di Scener ur ett ktenskap (1973; Sce-
ne da un matrimonio), che nessuno oserebbe pi tacciare di 'teatro cinematografato', e in generale di
tutti quei film memorabili pensati per la televisione, ma che funzionano perfettamente anche sul
grande schermo, non avrebbe potuto realizzare queste opere senza quei precedenti.
Nei dintorni dei "Cahiers du cinma" trov posto anche la versione migliore della semiologia del
cinema (v.). Negli anni Sessanta si diffuse infatti un interesse accentuato per la semiologia o semio-
tica, disciplina di tutto rispetto, che in genere per dette luogo nell'ambito delle arti a esiti alquanto
improbabili. Il modello lontano era fornito da C.S. Peirce e da F. de Saussure, assai meno da Ch.
Morris, ma l'occasione pi prossima furono probabilmente i Saggi di linguistica generale di Roman
Jakobson (scelti e tradotti in francese da N. Ruwet nel 1963, Essais de linguistique gnrale, e subi-
to dopo tradotti in italiano, a cura di L. Heilmann, 1966), dove si fa per es., nel saggio Due aspetti
del linguaggio e due tipi di afasia (pp. 22-45), la distinzione tra sistemi di segni linguistici e "siste-mi di segni non-linguistici", tra i quali si cita in particolare il cinema e i suoi procedimenti metoni-
mici (David W. Griffith) e metaforici (Charlie Chaplin). Proliferarono allora semiologie o semioti-
che della pittura, dell'architettura, della musica, e cos via, e il cinema, pur meno preso di mira in
questo senso, non rimase indenne dalla moda.
Per il linguaggio cinematografico si arriv addirittura a parlare di doppia, e perfino di triplice, arti-
colazione. Si citer qui il solo caso, gi ricordato, di Pier Paolo Pasolini, scrittore e autore cinema-
tografico di prim'ordine, che non seppe tuttavia resistere alla tentazione di parlare appunto di doppia
articolazione (La lingua scritta dell'azione, in "Nuovi argomenti", 1966, 2). Un'analisi del genere hasenso solo se operata a precise condizioni definitorie (tali per cui, nel caso del linguaggio verbale, si
avranno unit minime provviste di significato, i monemi, e unit minime sprovviste di significato, i
fonemi) e non invece se una linguisticamente insignificante segmentazione materiale. Secondo
Pasolini, invece, la doppia articolazione del cinema sarebbe costituita dai 'piani' individuati in rap-
porto a un movimento, l'equivalente del 'monema', e dagli oggetti tra i quali il movimento si stabili-
sce, da lui detti cinmi (cfr. a tale proposito quanto scritto da Emilio Garroni, 1968). Tale ipotesi
semiologica venne difesa contro le critiche di Umberto Eco da Gilles Deleuze, che forse ne coglie
l'aspetto 'pi filosofico' o, se si vuole, 'pi poetico', ma resta il fatto che il filosofo francese si muoveal di fuori di un'analisi tecnica del linguaggio e che quell'idea innegabilmente, presa per s stessa,
http://www.treccani.it/enciclopedia/semiologia-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/semiologia-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/semiologia-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/semiologia-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/semiologia-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/semiologia-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/ -
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arbitraria e bizzarra. Ebbene proprio un autore, Christian Metz, che aveva collaborato ai "Cahiers
du cinma" ed era legato al pensiero di Bazin (il suo primo saggio sulla rivista era intitolato alla
'impression de ralit' baziniana, 1965, 166-167), elabor negli anni Sessanta la semiologia del ci-
nema pi onesta e, entro certi limiti, pi accettabile. Pi tardi poi, forse anche perch deluso come
tanti altri dalla semiologia, si occupato sempre di cinema, ma da un punto di vista originalmente
psicoanalitico (cfr. Metz 1975). In Le cinma: langue ou langage? (in "Communication", 1964, 4,
poi in Essais sur la signification au cinma, 1968) il cinema viene considerato come "un linguaggio
senza lingua", analizzabile soltanto in grandi unit significanti, cio in sostanza in sequenze, per le
quali soltanto possibile, accanto a una sintagmatica, anche una paradigmatica. L'ipotesi presuppo-
ne l'affermazione di Roland Barthes (che sollev a suo tempo osservazioni assai critiche, per es. da
parte di G. Mounin, E. Buyssens, L. Prieto), secondo il quale, se "Saussure, seguito in ci dai prin-
cipali semiologi, pensava che la linguistica non fosse altro che una parte della scienza generale dei
segni", bisogna invece pensare oggi alla possibilit di rovesciare l'affermazione di Saussure e dire
invece che "la semiologia una parte della linguistica: e precisamente quella parte che ha per ogget-to le grandi unit significanti del discorso" (Prsentation, in "Communication", 1964, 4; trad. it. In-
troduzione, in Elementi di semiologia, 1966, 1992, pp. 13 e 15). In effetti, l'esistenza di un lin-
guaggio verbale molto probabile che possa essere una condizione di possibilit per l'esistenza e il
funzionamento di altre semiotiche umane (che si tratti di 'semiotiche umane' essenziale).
Ma la lingua anche strumento che ci permette di dar conto interamente di tali semiotiche, di deco-
dificare interamente i messaggi formati sulla loro base e di restituirli nel loro genuino significato?
Rispondere di s del tutto inadeguato, e nemmeno Metz avrebbe condiviso la risposta, ma rispon-dere di no equivarrebbe a riconoscere a esse un'au-tonomia almeno parziale dal linguaggio verbale e
quindi aspetti che non ricadono affatto nell'ambito della linguistica. In altre parole: o si abbandona
del tutto una prospettiva propriamente (tecnicamente) semiologica, e il percorso da compiere sar
allora un po' pi complicato, oppure la frase "linguaggio senza lingua" quasi un ossimoro. E que-
sto fu appunto un motivo della di-scussione amichevole che lo stesso Metz ebbe con cultori di se-
miotica italiani: amichevole e proficua per tutte e due le parti, anche nel senso della confutazione, e
dei limiti di questa, dello 'specifico filmico' (cfr., per es., Garroni 1968, 1972, 1973).
Almeno un altro nome, al di fuori dell'ambiente dei "Cahiers", ma non del tutto estraneo a una co-mune cultura, pu essere citato: quello di Edgar Morin (v. teorie del cinema), autore di Le cinma,
ou l'homme imaginaire (1956) in cui viene sviluppato un esame antropologico-psicologico, leggero,
elegante, ma non privo di acutezze, del rapporto tra lo psichico incorporato nel film (il film psichi-
co, aveva gi sostenuto J. Epstein a suo tempo) e lo psichico dello spettatore, che si riconoscono
nella comune mistione di menzogna e veracit, di lucidit e di mitomania, reale e immaginato: "In
effetti il cinema unisce indissolubilmente la realt oggettiva del mondo, tale quale la fotografia ce la
riflette, e la visione soggettiva di questo mondo []. Il cinema quindi s il mondo, ma a met as-
similato dallo spirito umano. Esso , s, lo spirito umano, ma proiettato attivamente nel mondo, nelsuo lavoro di elaborazione e di trasformazione, di scambio e di assimilazione" (trad. it. 1962, pp.
http://www.treccani.it/enciclopedia/teorie-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/teorie-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/teorie-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/http://www.treccani.it/enciclopedia/teorie-del-cinema_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/ -
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270-71). Ma infine si deve citare anche Jean Mitry, autore pi accademico e gi molto noto di libri
ponderosi, informatissimi, multidisciplinari, aperti a varie prospettive, forse troppo per essere sem-
pre sufficientemente rigorosi, tali da confermare in ogni caso il nuovo corso culturale dell'estetica e
della teoria del cinema.
La comprensione del cinema
Un risultato almeno apparentemente curioso, emerso da quanto si appena detto, che uno dei mo-
vimenti pi interessanti del secondo dopoguerra, legato per di pi a una cinematografia fortemente
innovativa, non sembra essere caratterizzato a sua volta da un'altrettanto significativa 'innovativit'
estetica o teorica. Ma in realt non affatto curioso. Il fenomeno conferma invece che un'estetica o
teoria del cinema stata in primo luogo occasionata dalla circostanza che il cinema come fatto tec-
nico non era nato per ci stesso come mezzo espressivo e comunicativo, che non si sapeva ancora
che cosa il cinema dovesse essere, qual fosse il suo linguaggio e a quali condizioni potesse produrre
cosiddette opere d'arte. Ma, una volta che il cinema divenuto un mezzo espressivo strutturato
(comunque strutturato) ed stato accolto, definitivamente e globalmente, nell'ambito della cultura,
non pi solo popolare, quegli interrogativi sono divenuti assai meno pressanti, lasciando il posto a
una riflessione pi pacata. Invece di costruire una teoria soprattutto o anche pragmatica, si cercato
di capire qualcosa di pi di ci che gi esiste. del tutto naturale quindi che l'estetica o la teoria del
cinema vada declinando nelle sue pretese ontologiche (se c' e che cos' il cinema), fondative (che
cosa gli permette di essere ci che ) e operative (come debba esprimersi il nuovo mezzo comunica-
tivo), e si risolva o in poetiche d'autore o di gruppo oppure in teorie della critica volte a mettere a
punto gli strumenti pi adatti al fine di analizzare, interpretare e giudicare il cinema che stato gi
fatto o che si va facendo, nonch a capirlo nel quadro dell'esperienza su cui si accampa, e quindi in
un quadro pi accentuatamente filosofico che costruttivo. E, poich tale compito forse meno visto-
so, ma forse pi arduo, altrettanto naturale che i contributi di questo tipo siano quantitativamente
meno numerosi. Se ne citano qui due particolarmente significativi e, in qualche misura, opposti tra
di loro.Il caso pi tipico della nuova e. del c. quello del filosofo francese Gilles Deleuze, autore di
un'opera in due volumi, notissima e citatissima: Cinma 1. L'image-mouvement (1983) e Cinma 2.
L'image-temps (1985). Si tratta di un'opera importante e, insieme, discutibile. Importante: perch
Deleuze possiede non soltanto eccezionale competenza filmologica e capacit di analisi assai finidei film esaminati, compresa quella di riordinare e ridefinire i vari tipi di montaggio, ma anche ta-
lento di filosofo, interessato, per cos dire, alla 'concezione del mondo' implicita nel cinema e quindi
ai contenuti di pensiero che gli appartengono almeno in modo implicito. Di qui si diffusa e affer-
mata l'inclinazione a considerare il cinema come qualcosa di analogo alla filosofia o filosofia tout-
court: idea non in tutti i sensi pacifica, ma in ogni caso segnale indubbio del salto qualitativo fatto
dalla cultura cinematografica (v. in partic. Bruno 1998). Discutibile: perch lo stile di pensiero di
Deleuze svariante nella compattezza (dalla filosofia alla psicologia, alla fisica, alla semiologia, e
cos via), capriccioso nel rigore (basterebbe pensare alle scorciatoie improvvise delle sue escursioninel campo della linguistica), disinteressato alla precisione nell'ossessione della precisione (in che
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senso, per es., possibile fare una distinzione di segni in 'opsegni', 'sonsegni', 'tatsegni', 'cronose-
gni', 'lectosegni', 'noosegni', se poi il cinema per Deleuze non , forse, n lingua n linguaggio?), e
infine pi prossimo al pensiero dottrinario-metafisico del bergsonismo (H.-L. Bergson oggetto di
notevoli studi monografici da parte di Deleuze) che non alla tradizione del pensiero critico (Kant
guardato di solito con un certo sospetto, come se fosse pi arretrato di Bergson: a un certo punto si
dice, per es., e non a titolo di complimento, che Metz "ancora kantiano").
Per ripensare globalmente il cinema, Deleuze parte appunto, come pi corsivamente avevano gi
fatto molti altri teorici del cinema francesi, per es. il gi citato A. Beucler fin dagli anni Venti, da un
riesame della filosofia di Bergson, cui sono dedicati in particolare tre capitoli dell'opera citata.
Deleuze sa benissimo che Bergson, nella sua esplicita valutazione del cinema, non considerava il
movimento parcellizzato in fotogrammi del film come movimento continuo, tale da essere assimila-
to alla sua concezione del tempo come durata. Ma egli cerca di dimostrare che, se interpretato atten-
tamente, Bergson avrebbe anche detto, soprattutto in Matire et mmoire (1896), qualcosa che di-sdiceva in anticipo i suoi successivi giudizi limitativi. Deleuze insiste in particolare sulla nozione di
"coupes mobiles": non segmenti inerti, ma momenti appunto di una durata, in quanto essi stessi du-
rata. L'aspetto forse pi interessante del pensiero di Deleuze riguarda il particolare statuto dell'im-
magine-movimento del film, che non affatto rinserrata in s stessa, al modo di un lacerto di realt,
ma rimanda a ci che resta al di fuori di essa, realizzando con ci una totalit osservabile-inosser-
vabile, cio quel "tutto aperto", l'ouvert bergsoniano, che va distinto dall'"insieme", che invece un
tutto chiuso. Non si domanda tuttavia se tale statuto dell'immagine riguardi specificamente l'imma-
gine filmica o se per caso non sia invece proprio dell'immaginazione stessa, come sembra inevitabi-le e come aveva gi pensato Kant: segno appunto di un'estetica di tipo pi dottrinario-metafisico, di
un'estetica ad hoc, che non di tipo critico, anche se nello stesso tempo indizio del riconoscimento
della pari, se non addirittura superiore, dignit culturale del cinema rispetto alle tradizionali attivit
espressive. Ma il carattere metafisico di certi tratti del suo pensiero emerge ancora pi nettamente
dall'idea che l'immagine sia non una produzione del soggetto, in quanto immerso nel mondo del-
l'esperienza, ma esista gi, non riconosciuta da alcuno, nelle cose, anche prima che un occhio le
guardi. L'immagine filmica insomma, come per Pasolini, autore amato e citato a questo proposito,
non produrrebbe una 'impressione di realt' alla Bazin, ma sarebbe la realt stessa. Un idealismo o
vitalismo mascherato? Forse s. Infine: il pensiero di Deleuze ha movenze 'metafisiche' anche e so-
prattutto nel senso che interessato all'essere nella sua totalit, come se questa non fosse per defini-
zione indeterminata, e che dalla totalit indeterminata si pretende di inferire qualcosa che riguarde-
rebbe le cose determinate, comprese le immagini che produciamo. Ma l'opera di Deleuze, ricca di
contributi sollecitanti, spregiudicati e chiarificatori, rappresenta una svolta nelle vicende dell'esteti-
ca del cinema. E sotto tale profilo deve essere innanzi tutto riguardata.Va ricordato infine qui il no-
tevole libro del filosofo italiano Pietro Montani, L'immaginazione narrativa. Il racconto del cinema
oltre i confini dello spazio letterario (1999, non a caso premiato con il Premio Barbaro). La questio-
ne di partenza propriamente 'critica', maturata su un'attenta rilettura del problema dell'immagina-
zione e dello schematismo kantiano, cio la questione del rapporto, del reciproco condizionarsi, del
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transito incessante e originario di "rappresentazione" e "immagine" (per dirla nel linguaggio di
Ejzentejn), cio di 'dati sensibili' e loro organizzazione, che costituisce la loro 'sensatezza', o ap-
punto (nel linguaggio kantiano) tra il "sensibile" e l'"immaginazione", in quanto questa conferisce a
quello unit e senso, disponendolo a "schematizzare" o "esibire" concetti (il cosiddetto libero sche-
matismo della Kritik der Urteilskraft) o propriamente esibendo concetti determinati (il cosiddetto
schematismo oggettivo della Kritik der reinen Vernunft). Si tratta di un modo universale di struttu-
rarsi dell'esperienza, che non riguarda solo il cinema, come in un'estetica ad hoc, ma che il cinema,
proprio per la natura del suo mezzo, ha il privilegio, per cos dire, di mostrare a vista. Il cinema in-
fatti non tende a polarizzarsi su uno dei lati di quella duplicit unitaria, nella forma dell'immagine,
del senso conquistato o addirittura del concetto, come accade nelle arti tradizionali e nell'uso artisti-
co (e, tanto pi, scientifico) del linguaggio verbale, ma pu indugiare precisamente nello stesso in-
tervallo fluttuante della mobile unit della duplicit, tra dati sensibili e loro organizzazione. Entra
dunque nell'opera filmica qualcosa che in un certo senso non ancora opera e che la letteratura ten-
de a espungere, pur senza eliminarlo senz'altro: entra il contingente e il fattuale che si va formandoin necessaria sensatezza e in finzionalit creativa, e quindi la sua intrinseca e paradossale temporali-
t, insieme ai residui di datit e, in un certo senso, proprio al 'caso' di Bazin. Di qui la tesi centrale
del libro: che il cinema va oltre i confini dello spazio letterario. Ci che insomma sarebbe riuscito
solo in parte a J. Joyce, si manifesterebbe pienamente invece nel Pierrot le fou di Godard, citato nel-
l'esergo del primo capitolo: "Ho trovato l'idea di un romanzo. Non pi descrivere la vita della gente.
Ma soltanto la vita. La vita da sola. Quello che c' tra la gente: lo spazio, il suono, i colori. Bisogne-
rebbe arrivare a questo. Joyce ha tentato, ma si deve poter fare meglio". E meglio, appunto, si pu
fare solo con il mezzo cinematografico, sempre e inevitabilmente oscillante tra datit e finzionalit.La tesi viene esemplificata e approfondita via via attraverso discussioni di testi filosofici (Kant, P.
Ricoeur, M. Merleau-Ponty) eanalisi di film di Krzysztof Kielowski, Abbas Kiarostami, Alain
Resnais, David Lynch, e anche di autori classici come Vertov e Ejzentejn, qui considerati, in modo
solo a prima vista paradossale, come complementari: le "cose stesse" vertoviane e la loro "immagi-
ne" ejzenteiniana.
Bibliografia
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7/28/2019 Emilio Garroni, Estetica Del Cinema
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