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Stefania Bellei

Gli insediamenti preromani del territorio correggese 1

Il territorio correggese ha restituito diverse tracce della sua storia antica, le quali dimostrano una

certa continuità di popolamento della zona dall'età del bronzo ai giorni nostri. E' possibile quindi

farsi un'idea di ogni fase di frequentazione soprattutto grazie ai resti materiali. Dove infatti non

arrivano le fonti scritte, spesso inesistenti in luoghi in cui le comunità non erano molto estese o

lontane dai centri urbani principali, gli oggetti archeologici sono una fonte preziosa di informazioni.

Per quanto riguarda l'età del ferro, che nel territorio correggese si estende in un arco cronologico

compreso tra l'VIII e il V secolo a.C., i materiali sono stati rinvenuti in tre aree diverse e in diversi

momenti: i reperti più antichi sono quelli provenienti da Canolo e datati tra l'VIII e il VII secolo

a.C., seguiti da un unico ritrovamento nella zona di Mandrio del VII-VI secolo a.C. e infine quel

che rimane del sepolcreto a rito crematorio di San Martino Piccolo del VI-pieno V secolo a.C. (tav.

1).

Lo studio dei materiali ha evidenziato la presenza, accanto ad una componente etrusco-padana, di

una componente “barbarica” fortemente poliedrica. La popolazione correggese intrattenne

sicuramente rapporti assai stretti con genti stanziate nei territori dell'attuale Liguria, della

Lombardia, del Veneto e delle Alpi Orientali, contribuendo alla formazione di una koinè

transculturale, un ponte tra situazioni economico-sociali urbane e rurali, tra mondo classico e

barbarico. Sono certamente importanti le influenze della cultura celtica di Golasecca (IX-IV secolo

a.C.), le cui testimonianze materiali si trovano sparse in un ampio territorio a sud delle Alpi,

compreso tra i fiumi Po, Serio e Sesia e delimitato a nord dai valichi alpini, con i due epicentri nelle

zone di Sesto Calende-Golasecca-Castelletto Ticino e nei dintorni di Como. Lo stesso discorso vale

per la cultura Hallstattiana, diffusa già dall'età del bronzo nell'Europa centrale, e per la cultura

d'Este, il principale insediamento degli antichi Veneti o Paleoveneti. Guardando a sud del territorio,

imprescindibili sono i confronti con la vicina cultura etrusca di Villanova e con alcune aree delle

Marche e dell'Umbria di dominio umbro-piceno.

La comparazione tra i reperti correggesi e quelli di queste culture si rende necessario per una

ricostruzione storica che sia il più vicino possibile alla realtà dei fatti, pur nella assenza di elementi

chiari e decisivi e ancor di più nella mancanza dei contesti di rinvenimento.

1 Questo saggio è una rielaborazione aggiornata della mia tesi di laurea triennale dal titolo “Il popolamento del

territorio correggese durante l’età del ferro alla luce dei più recenti ritrovamenti”, relatore Chiar.ma Prof.ssa

Alessia Morigi, correlatore Chiar.mo Prof. Roberto Macellari, A.A. 2010/2011.

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1 . I ritrovamenti di Canolo

Come si è detto il nucleo di reperti più antico è quello proveniente da Canolo, frazione di Correggio

distante circa 5 chilometri dalla città. Gli oggetti furono trovati tra gli anni Settanta e Novanta del

secolo scorso dal signor Fausto Marastoni, nell'area detta “le Motte” di fianco all'attuale Chiesa

della Conversione, una zona di notevole interesse archeologico. In origine le motte erano terrapieni

costruiti per il controllo e la difesa del territorio circostante, un'opera di architettura militare di

epoca medievale. La costruzione del dosso artificiale con il terreno di risulta dello scavo del fossato

comportò uno stravolgimento della stratigrafia, portando in superficie i resti materiali di epoca più

antica. Anche i lavori agricoli hanno contribuito a questo stravolgimento, pertanto i materiali

rinvenuti sono frutto di raccolte di superficie slegati dal loro contesto d'origine. E' evidente che

queste condizioni non consentono una piena comprensione delle evidenze archeologiche. Gli

oggetti furono poi depositati presso il Museo Civico “il Correggio” negli anni Novanta, dove sono

tuttora custoditi ed esposti nelle vetrine della sala archeologica.

Per comprendere che tipo di popolamento fosse stanziato nel territorio correggese in epoca

preromana è necessario definire, per quanto possibile, la datazione di ogni materiale e le eventuali

influenze culturali provenienti sia dalle grandi civiltà dell'Italia Settentrionale, sia dalle popolazioni

più o meno consistenti dei paesi limitrofi.

Uno dei reperti che ha consentito di datare, seppur approssimativamente, questo insieme di oggetti è

una fibula in bronzo (tav. 2), ossia una spilla utilizzata per fermare gli abiti, che rientra nel tipo a

sanguisuga a staffa corta e arco a tutto sesto, decorata con linee parallele incise e molla a doppio

giro. Questo genere di oggetti è molto frequente nei siti di età protostorica, in particolare nei

contesti funerari, dove venivano depositati come parte del corredo del defunto, sia nelle tombe a

inumazione che in quelle a incinerazione. Questo modello specifico lo troviamo inizialmente

diffuso nell'Italia centrale già dalla metà dell'VIII secolo a.C., ma raggiunse anche il Nord Italia tra

la fine dell'VIII e la metà del VII secolo a.C., con una diffusione maggiore nei contesti più

occidentali della regione2. Questa fibula trova anche riscontro negli esemplari atestini

3, mentre nel

Reggiano i confronti più evidenti si hanno con le fibule provenienti da Servirola di San Polo e da

Bismantova4 .

Sono state rinvenute anche altre due fibule, entrambe in bronzo: la prima (tav. 3) è di piccole

2 VON ELES 1986, pp.79-80, tav. 47, nn. 672-677.

3 In particolare gli esemplari delle tombe Ricovero 4, 138 e 167 databili al II periodo antico e tra il II antico e il II

medio, quando risulta ancora prevalente la staffa corta a discapito della più recente staffa lunga. CHIECO BIANCHI

e AA.VV. 19.., p.13 tipo Xc e note 53-54, tav. 6, nn. 1-3.

4 Hanno l'arco a tutto sesto e sono di dimensioni medie, ma a staffa lunga. Sembrano avvicinabili ai tipi diffusi ad

Este tra il periodo III C e III D1, risultano cioè molto più recenti rispetto alla fibula di Canolo. DAMIANI e AA.VV.

1992, pp.128-129, 134, 307.

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dimensioni ad arco semplice leggermente ingrossato, privo di decorazioni e a staffa corta. Purtroppo

non si sono conservati l'ago e la molla, ma possiamo dire che esemplari simili provengono dall'area

golasecchiana e sono datati al VII secolo a.C.5, mentre sono sporadiche nel Reggiano. La seconda

fibula (tav. 4) rientra nel tipo a sanguisuga con arco a tutto sesto diffuso nell'intero Nord Italia, ma

sono difficili ulteriori precisazioni cronologiche a causa della mancanza, oltre che dell'ago e della

molla, anche della staffa e della decorazione.

Si possono ascrivere agli oggetti da toletta una pinzetta completa e una frammentaria (tav. 5 e 6),

della quale resta una metà esatta, entrambe costituite da una verga in bronzo a sezione rettangolare.

Esemplari dello stesso tipo provengono da campo Servirola presso San Polo d'Enza, i quali

attestano l'uso di appenderle al collo tramite un anellino di sospensione come avveniva per altri

strumenti per la cura personale, ad esempio i nettaunghie e i nettaorecchie. Oggetti dello stesso tipo

si trovano anche a Bologna e a Verucchio6.

Interessante è anche uno spillone (tav. 7) per capelli con capocchia biconica detta “a mazzuolo”, del

quale rimane solo la testa e una piccola parte di ago. Questo esemplare è riferibile alla prima età del

ferro, ma la sua origine è collocabile nella media età del bronzo, quando si presentava con il collo

ingrossato e perforato: anche questi sono oggetti ampiamente diffusi in tutta la pianura padana, sia

in area lombarda che emiliana7; in particolare nel Reggiano si trovano a Servirola di San Polo e a

San Rigo presso Reggio Emilia, e in generale in tutto il territorio che si estende da Modena a

Bologna fino a Verucchio8.

Un oggetto importante, ma piuttosto desueto e di difficile decifrazione, è un cerchio in bronzo (tav.

8) a sezione circolare irregolare al quale sono sospesi quattro anellini più piccoli. Il confronto più

diretto viene da Porto S. Elpidio, in provincia di Fermo nelle Marche, dove è documentato da un

ritrovamento casuale, e quindi privo di contesto come nel nostro caso, un cerchio analogo a quello

di Canolo, ma di dimensioni maggiori (7,7 cm di diametro, contro i 3,7 cm dell'esemplare

correggese) con cinque anellini sospesi. Questo oggetto, che in origine era a capi accostati e saldati

solo in epoca moderna, è stato identificato come “moneta-utensile”, ossia un dispositivo che

permetteva l'aggiunta e la sottrazione di anelli tra loro uguali nella forma e nel peso, ma si tratta di

un'ipotesi che ad oggi non è ancora stata verificata. L'area di diffusione di questo particolare oggetto

si trova tra il medio corso del fiume Potenza e la Valle del Tenna, da dove provengono diversi

esemplari che differiscono tra loro per dimensione, sia dell'anello maggiore che di quelli piccoli, sia

per il numero dei cerchietti sospesi. Per quanto riguarda la datazione l'unico esemplare rinvenuto in

5 VON ELES 1986, p.33 nn. 251-252.

6 BALDONI 1987, p. 269, fig.175 n. 15; LA NECROPOLI VILLANOVIANA DI CA' DELL'ORBO 1979, p. 51, fig.

2929 n. 7.

7 CARANCINI 1975, pp. 169-171, TAF. 36-37.

8 BALDONI 1987, pp. 267-268, n. 2; LA NECROPOLI VILLANOVIANA DI CA' DELL'ORBO 1979, pp. 28-

29 fig. 8 n. 3 e fig. 9 n. 3, p.31 fig. 11 n. 3 e p. 67 fig. 42 n. 7.

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un contesto preciso, cioè all'interno di un corredo funerario femminile a Rotacupa, è databile

all'VIII secolo a.C.9. Il tipo correggese non sembra presentare, ad un preliminare esame autoptico,

alcuna saldatura moderna, mentre sono i cerchietti minori ad avere i capi accostati: il fatto che

rientri in questa categoria di oggetti e che possa essere stato utilizzato come peso da bilancia è solo

un'ipotesi che si spera possa essere verificata al più presto. Del resto oggetti di simile fattura non

sono stati trovati né nel territorio reggiano, né in quello modenese o bolognese.

Rientra tra gli oggetti d'ornamento personale un bracciale (tav. 9) di piccole dimensioni e sezione

biconvessa, che presenta la decorazione a costolature longitudinali, si può notare che tale

decorazione è attestata in bracciali spiraliformi a Servirola di San Polo e a Bismantova10

, mentre

sembrano assenti in quest'area i bracciali a cerchio chiuso. La datazione è particolarmente difficile

in assenza di contesto. La stessa cosa vale per un anello a finto torciglione (tav. 10) e capi accostati,

dove si intravede forse una protome leonina ad un'estremità.

Infine tra i materiali conolesi sono presenti un anellino in bronzo (tav. 11) a sezione circolare, che in

origine doveva essere chiuso, ma pervenuto a capi aperti, e due lamine di bronzo (tav. 12) in forte

stato frammentario, non ricomponibili, che probabilmente costituiscono frammenti di vasellame,

come ad esempio parti di una situla o di un incensiere.

9 Precisamente alla fase Piceno II. PICENI 1999-2003, p.275, nn. 600-601.

10 DAMIANI e AA.VV. 1992, pp.154-155, nn. 1186-1189.

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2. Il pendaglio a rotella di Mandrio

Nel 2010 fu portato da visionare al Dott. Gabriele Fabbrici, direttore del Museo di Correggio, un

oggetto di notevole interesse archeologico trovato negli anni Novanta nella zona tra Mandrio e

Mandriolo, a pochi chilometri da Correggio. Una volta accertato il valore della scoperta, l'oggetto,

che già ad una prima occhiata si rivelava una testimonianza eccezionale nel panorama delle scoperte

del territorio, fu prontamente donato al Museo dove è tuttora conservato in una teca della sala

archeologica.

Si tratta di un disco circolare in bronzo (tav. 13) lavorato a giorno composto da tre anelli concentrici

uniti da quattro barre radiali, a sezione piano-convessa e spazi irregolari tra gli anelli. Attorno alla

metà inferiore dell'anello più esterno è attorcigliata una verghetta di bronzo appiattita spezzata in

alcuni punti, la quale forma dei pendenti di lunghezza irregolare.

Questo tipo di disco definito genericamente di produzione picena è diffuso principalmente nella

fascia adriatica e tirrenica, dove se ne conoscono diverse varianti, in particolare sono variabili il

numero di anelli concentrici da cui sono composti e le dimensioni.

Secondo un recente studio sui pendagli della media e tarda età del bronzo11

diffusi nell'Italia centro-

settentrionale (tav. 14), il pendaglio di tipo a rotella rientra nel “gruppo 5” di questa classificazione:

ha origine nell'Europa centro-settentrionale già dalla fine della media età del bronzo, raggiungendo

la massima diffusione nel periodo del bronzo tardo, con la cultura dei campi di urne. Ai pendagli a

rotella sono strettamente legati quelli a ruota raggiata che, come si vedrà nel capitolo successivo,

trovano le prime attestazioni nell'Europa centrale, all'interno della grande cultura di Hallstatt, e gli

spilloni con capocchia a ruota, particolarmente diffusi nella cultura celtica. Queste manifestazioni

rimandano alla simbologia solare e al motivo della ruota, strettamente connesso a questo culto, tanto

che talvolta finiscono col sovrapporsi e confondersi.

Sono soprattutto i contesti funerari a restituire questo tipo di oggetto, sicuramente rientrante nella

sfera dell'ornamento come pendagli da portare appesi al collo, alle vesti o alle fibule, ma possono

anche essere utilizzati come phalera, dischi decorativi in metallo, utilizzati per ornare sia le corazze

degli uomini sia la bardatura dei cavalli.

In Italia questo pendaglio è noto già nel periodo protovillanoviano, ma il tipo senza anello di

sospensione è diffuso solo durante l'età del ferro; anche la tecnica sembra dare una qualche

indicazione cronologica, seppur vaga: gli esemplari a sezione lenticolare sono stati creati grazie ad

una matrice bivalve e sarebbero più antichi rispetto a quelli a matrice singola con una faccia piatta,

tecnica più recente.

11 DE ANGELIS e AA.VV. 2007, pp. 118-119.

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Nelle Marche ne sono conosciuti alcuni a Ripatransone e uno a Cupra Marittima, in località S.

Andrea, nella variante a sette anelli e con un diametro di ben 18 cm., ritrovato in coppia con un altro

elemento a cerchi concentrici, che si data alla prima metà del VI secolo a.C.12

.

Sono però soprattutto i contesti dell'Italia meridionale a fornire il maggior numero di esemplari, in

particolare le necropoli della Campania e della Calabria: a Pontecagnano ne sono stati individuati

ben sei tipi, divisi in varietà A1 e A2 in base al numero di cerchi, due per il primo, tre per il

secondo, attestati entrambi anche a Sala Consilina. Secondo Kilian questo tipo di pendaglio si data

in una fase avanzata della prima età del ferro, in particolare a Pontecagnano compaiono nella fase

IB e continuano nella II fase. Anche Pithecusa ha restituito un esemplare a tre anelli di dimensioni

ridotte, soli 5 cm. di diametro, da una tomba femminile a cremazione, dove anche in questo caso la

sezione è lenticolare.

Altri esemplari vengono dal Salernitano: tre da San Marzano sul Sarno, di cui due a due anelli e uno

a tre, molto simile a quello correggese, trovati indistintamente in tombe maschili e femminili, e da

Suessola, nella variante a quattro anelli13

. Dalla Calabria proviene un esemplare da Torre Mordillo

con 5 anelli concentrici, descritto dal Pasqui come la più grande falera a cerchi concentrici

rinvenuta nella zona; altri esemplari provengono dalla necropoli di Francavilla Marittima e da

Torano14

. Da Cuma provengono due pendagli a tre e quattro cerchi15

e dalla Sicilia ne vengono altri

da Siracusa, Molino della Badia e da S. Castaldo. Sembra che alcune varianti di questo tipo siano

presenti anche a Veio, con esemplari a due cerchi concentrici e a quattro, a sei e a otto raggi, mentre

a Tarquinia si trova la variante a tre cerchi e otto raggi, che dimostra la fusione tra i più canonici

pendagli a rotella e quelli a ruota raggiata16

.

L'esemplare correggese è finora l'unico attestato nella zona, sia nel territorio reggiano e modenese

che bolognese, oltre ad essere finora l'unico a presentare la decorazione finale a pendaglietti formati

da un unica verghetta di bronzo, per cui riveste un'importanza fondamentale per far luce sui rapporti

realmente intercorsi tra l'Emilia e l'Adriatico.

A questo riguardo è utile riprendere gli studi di Giovanni Colonna17

sul rapporto tra Umbri ed

Etruschi e sugli Umbri in Val Padana, partendo dall'analisi dei passi di Strabone che trattano della

popolazione cispadana pregallica. Strabone nella sua Geografia ci informa del fatto che al popolo

12 PICENI 1999-2001, pp. 264-265, n.536.

13 Per Sala Consilina vd. KILIAN 1970, p.181 e inserto 16, tipo N4b. Per Pontecagnano vd. PONTECAGNANO 1988,

p.66, p.21 tipo 40A. San Marzano: D'AGOSTINO 1970, pp. 585-587, fig.18.7. Suessula: JOHANNOWSKY 1983,

p. 286 n.109, p. 59d. Per Pithecusa vd. tomba n. 133 in BUCHNER - RIDGWAY, p. 162 e 47,4.

14 Torre Mordillo vd. tombe 12-13 in PASQUI 1888, pp. 252 e sgg. 15,13; Francavilla Marittima: ZANCANI

MONTUORO 1983, p. 15 fig. 3.6, p.105 fig. 37.12; Torano: DE LA GENIERE 1968, pp. 82-83, n. 64,2; PERONI

1987, p.128, fig. 104.

15 NIZZO 2007, pp. 493-494; NIZZO 2008, pp. 177-180 e 182-183, con particolare riguardo alle note 59-60 di p. 183.

16 D'AGOSTINO 1970, pp.586-587 e per i siti della Sicilia si veda pp. 585-586.

17 COLONNA 2008.

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dei romani si mescolarono Umbri e in un qualche luogo Etruschi18

e che anche quando il dominio

romano si era esteso a tutta la penisola alcuni continuavano a dirsi Umbri e altri Etruschi.

Giustamente Colonna evidenzia come in entrambi i casi l'autore nomini prima gli Umbri e poi gli

Etruschi, cosa che oggi stupisce data l'importanza che siamo soliti attribuire ai secondi parlando

della Val Padana. Prosegue poi il racconto di Strabone parlando della colonizzazione a Nord degli

Appennini contro i “barbari” che abitavano i territori intorno al Po, identificati con i Celti della

cultura golasecchiana, in un epoca che possiamo pensare contemporanea al Villanoviano bolognese.

Ma già agli inizi del VI secolo a.C. gli Etruschi sarebbero stati scacciati dai Celti al seguito di

Belloveso ed è a questo punto che fanno la loro comparsa gli Umbri, che respinti gli invasori si

insediarono nel territorio emiliano-romagnolo, dove fondarono diverse colonie in conflitto con

quelle etrusche, che Strabone sottolinea essere una minoranza. Questo vale soprattutto per la

Romagna, regione geograficamente più vicina all'Umbria, e per quanto la fonte a cui si rifà

Strabone possa essere stata ostile agli etruschi19

, non si può non immaginare che almeno in parte

questo quadro storico da lui delineato non trovi riscontro col reale popolamento della regione. É

sicuro che agli inizi del VI secolo gli Umbri fossero stanziati stabilmente lungo tutto il litorale che

va da Butrium ad Ancona, con i suoi centri principali in Ravenna e Rimini. Dunque si

confermerebbero le fonti antiche, da Erodoto a Ecateo e Stefano di Bisanzio, che volevano gli

Umbri stanziati non solo sull'Appennino, ma anche sulla fascia costiera adriatica, nei territori tra Po

e Piceno.

Proprio a questo si riferiscono le indagini svolte negli anni Settanta dal Colonna e da Mario Zuffa in

alcuni siti della Romagna20

, le quali hanno restituito tracce definite genericamente “picene” per

quanto riguarda la prima metà del VI secolo, e umbre tra il VI e V secolo a.C., tracce che però

scarseggiano in pianura, se si esclude il caso di Imola, forse a causa delle sfavorevoli condizioni

ambientali. Non è dello stesso parere Giuseppe Sassatelli, che esprime i propri dubbi su un'effettiva

presenza umbra in questo territorio che da sempre è considerato di dominio etrusco da Bologna a

Verucchio, portando come prova a sostegno della sua ipotesi alcune iscrizioni vascolari in caratteri

etruschi e la questione dei toponimi e degli idronimi formati dai suffissi -ēno-/-ēna/-enna di origine

incerta21

. Le prove di una presenza Umbra si trovano anche a Mantova, città multietnica, che dal

sito del Forcello ha restituito alcuni ex voto in lamina di bronzo che De Marinis ha attribuito

proprio agli Umbri. Infine ancora dalle fonti antiche sappiamo che la fondazione della “terza”

Mantova avvenne ad opera dei Sarsinati, cioè da uno dei principali stanziamenti umbri

dell'Appennino romagnolo, che si estese su un ampio territorio che andava oltre la Romagna,

18 V, 1, 10, C 216.

19 Si ritiene che la fonte sia Filisto, storico siracusano esperto di questioni adriatiche all'epoca dei Dionigi.

20 Per un approfondimento su queste ricerche vd. COLONNA 2008, pp. 47-48.

21 Rimando ancora a COLONNA 2008, pp. 48-52, per il dibattito sulla pertinenza etrusca o umbra di questi suffissi e

delle iscrizioni vascolari.

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raggiungendo le zone del Ferrarese e della Bassa Modenese, in coerenza con quanto scrisse Livio

negli Ab Urbe condita libri (V, 35, 2). Qui probabilmente non lasciarono tracce cospicue per la

mancanza di un'organizzazione in città vere e proprie, essendo infatti più verisimile una struttura

per aggregazione di villaggi nei campi e nelle paludi. D'altra parte la connessione tra Val Padana e

cultura di matrice umbro-picena si chiarisce se pensiamo che già nel tardo VII - prima metà del VI

secolo a.C. se ne hanno tracce a nord del Po22

, per cui è probabile che il successivo arrivo degli

Umbri quasi un secolo dopo abbia seguito una direttrice precedente.

Il ritrovamento a Correggio di un pendaglio di tipo diffuso nella fascia adriatica, e quindi come si è

visto in area picena ma probabilmente anche umbra, datato esattamente ai secoli in cui si trova

traccia di questa cultura anche in altre aree dell'Italia settentrionale, non può che essere una prova a

sostegno della diffusione umbra in questa regione, sostenuta dalle fonti antiche e dalle ricerche del

Colonna.

22 Elementi piceni si trovano fra Mincio e Adige, verso Este e i Reti: COLONNA 2008, pp. 54-55.

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3. I reperti di San Martino Piccolo

L'ultimo insieme di materiali proviene da San Martino Piccolo e ci è noto principalmente grazie alla

documentazione scritta lasciata dall'allora Ispettore dei Monumenti e Scavi per la Provincia di

Modena Arsenio Crespellani, dal momento che molti degli oggetti sono andati perduti. La

descrizione dei corredi fu eseguita a distanza di anni dalle scoperte, quando presumibilmente erano

stati smembrati e ricomposti, si suppone, anche in modo arbitrario. Un approccio di questo tipo ha

necessariamente diversi limiti, primo fra tutti quello di non poter verificare in modo autoptico le

informazioni che si riportano, oltre alla totale mancanza di documentazione grafica per qualcuno dei

materiali descritti. In secondo luogo, la mancanza di una precisa documentazione del contesto di

scavo, di cui resta solo uno schizzo ricostruttivo dello stesso Crespellani, eseguito secondo una

metodologia non scientifica, ha portato alla perdita di importanti elementi per la comprensione dei

corredi e del sepolcreto più in generale.

3.1 La storia dello scavo

Il 22 ottobre del 1883, l'allora Ispettore dei Monumenti e Scavi per la Provincia di Reggio Emilia,

Don Gaetano Chierici, fondatore e direttore del Museo di Storia Patria di Reggio Emilia, si recò su

invito dell'Ing. Andrea Vaccari a Villa San Martino in località “Madonna delle Quattro Vie”, presso

Correggio, per esaminare i materiali rinvenuti nello scavo effettuato da una Società fabbricante

laterizi a fuoco continuo.

Secondo la prima testimonianza dello stesso Chierici sul Bullettino di Paletnologia Italiana23

, lo

scavo della cava di argilla, a 15 chilometri dalla via Emilia, aveva posto in luce due strati

archeologici, coperti da una spessa coltre alluvionale: il primo a 2,65 metri e il secondo a 3,60 metri

dal livello di campagna. Quest'ultimo piano conservava le tracce di una strada inghiaiata orientata

Sud-Nord. A 50 metri ad Est della stessa si trovava un suolo di sabbia, interpretato da Chierici come

una seconda strada. Presso ambedue i tracciati si rinvenne un'urna, ciascuna col fondo a 1,30 metri

da quel piano e attribuite, grazie al riscontro con gli ossuari di Marzabotto, al terzo periodo della

prima età del ferro24

, confermato poi dalla fibula di bronzo di tipo caratteristico delle tombe della

Certosa di Bologna.

Purtroppo Chierici non riuscì ad ottenere quei materiali per il Museo di Reggio e nemmeno a

scrivere la monografia sui reperti che aveva promesso, venendo a mancare nel gennaio del 1886.

Gli scavi proseguirono a più riprese fino all'anno 1888 sempre a quasi sette metri di profondità dal

23 CHIERICI 1883, pp. 174-175.

24 Per la provincia di Reggio Emilia Chierici suddivise l'Età del Ferro in tre periodi, quello di Bismantova, quello di

Villanova e infine quello di Marzabotto. Vd. CHIERICI 1877.

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suolo, ma a causa delle sfavorevoli condizioni agrarie e per problemi amministrativi, si dovettero

sospendere più volte e per diversi anni fino a portare all'interro totale dell'area, senza che se ne fosse

fatto un disegno topografico ricostruttivo. Anche i reperti, conservati ed esposti al pubblico in

condizioni precarie in un piccolo locale messo a disposizione dalla Società che eseguiva gli sterri,

“deperivano, ruinavano, si sperperavano” secondo la testimonianza di Vincenzo Magnanini,

Ispettore dei Monumenti e Scavi per il Mandamento di Correggio.

Nel 1889 Giovanni Bandieri, un pioniere dell'archeologia preistorica nonché collega di Chierici,

riportando l'attenzione sulla scoperta avvenuta due anni prima, accennava a quattro urne di età

preromana e ad altre due venute alla luce nell'anno seguente25

, ad un livello di 4,80 metri dal piano

di campagna. Ma il numero delle tombe non risulta chiaro, dal momento che Arsenio Crespellani ne

individua inizialmente solo due e, viceversa, nel secondo anno ben sei, senza che venga specificato

se in questo numero complessivo di otto urne si trovassero anche quelle individuate da Chierici. La

mancanza di un controllo scientifico dello scavo e la dispersione di un certo numero di materiali

lascia aperta la questione.

Il primo resoconto dettagliato di quella campagna di scavo si deve quindi ad Arsenio Crespellani,

Ispettore dei Monumenti e Scavi per la Provincia di Modena, chiamato nel giugno del 1890 da

Remigio Foglia, presidente della Società fabbricante laterizi, per visionare i materiali archeologici

usciti dagli sterri. La relazione, che fu pubblicata l'anno seguente, corredata da un buon apparato

fotografico realizzato da Gaetano Sorgato, era il frutto delle interviste condotte sul luogo agli operai

e ai membri della Società, testimoni dello scavo negli anni precedenti. L'Ispettore fece anche

riordinare i materiali dal prof. Luigi Picaglia, insegnante al Convitto di Correggio, le fotografie dei

quali, tuttora visionabili presso la Biblioteca Estense di Modena all'interno dell'archivio Crespellani,

furono per anni la quasi unica testimonianza di essi. In breve tempo infatti i corredi funerari

andarono quasi completamente dispersi, in particolare si credette che un pendaglio a ruota raggiata

in bronzo fosse giunto a Roma, come riporta Magnanini26

, mentre solo due fermagli di cintura

entrarono a far parte delle collezioni del Museo Civico di Modena.

Nell'anno 2001, il Prof. Giovanni Baraschi di Bologna, coniuge dell'erede del podere di Villa San

Martino, donò gran parte di quegli oggetti creduti dispersi al Museo Civico Archeologico di

Bologna, che la Dott.ssa Cristina Morigi Govi volle destinare ai Musei Civici di Reggio, in cui sono

tuttora esposti. Inoltre, grazie alla disponibilità del Dott. Andrea Cardarelli, direttore del Museo

Civico Archeologico Etnologico di Modena fino al 2002, a concedere in prestito i due fermagli di

cintura, deposito poi riconfermato dalla Dott.ssa Ilaria Pulini, si è potuto riunire il nucleo dei

materiali superstiti e tentare la suddivisione per corredi secondo la documentazione superstite.

25 BANDIERI 1889, p. 264.

26 MAGNANINI 1894, p. 37.

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3.2 Ricostruzione della topografia e della geomorfologia del sito

Il sito indagato era delimitato a Nord e ad Est dal Viazzolo basso, a Ovest dal Cavo Argine e a Sud

dalla Statale per Carpi. In questo territorio furono riconosciuti da Magnanini tre strati archeologici

ben distinti cronologicamente e ognuno presentava tracce di bonifica, fatte risalire in ordine di

tempo all'occupazione umbro-etrusca, gallo-romana e moderna.

Lo strato più profondo e antico si presentava, a circa 4 metri di profondità dal livello di campagna

con un particolare colore scuro e ricco di materie organiche e fertilizzanti, che indussero a pensare

ad un originario letto lagunare, tesi confermata anche dall'abbondanza di sali nitrosi e dalla cattiva

potabilità delle acque della zona27

. Questo strato di natura palustre deve aver subito la prima

bonifica durante l'età del ferro, periodo del dominio etrusco nella pianura padana, in cui è

documentata la riduzione di alcuni torrenti, come il Tresinaro, e la costruzione di una rete di canali

artificiali per l'irrigazione dei terreni e la regimazione delle acque, oltre che per un uso a scopi

commerciali e di transito. Anche a Correggio venne ritrovata una zona costituita da minute sabbie

fluviali che si estendeva da Sud a Nord ad ampiezza regolare di circa 2 metri e che fu inizialmente

interpretata da Chierici come un possibile tratto di strada. In realtà si tratta di un antico alveo del

Tresinaro o di un canale artificiale che lo congiungeva ad esso28

.

A 50 metri ad Ovest di questo paleoalveo e orientata secondo l'asse Sud-Nord si snodava una strada

sepolcrale di circa 3 metri di larghezza29

con il fondo pavimentato a ghiaiatura. Lungo questa strada,

di cui non resta altro che uno schizzo ricostruttivo di Crespellani30

(tav. 15), vennero alla luce un

numero complessivo di dieci tombe a cremazione in 100 metri di lunghezza per 50 metri di

larghezza. Otto urne erano segnalate da grossi ciottoli fluviali levigati di forma allungata, collocati a

circa 50 centimetri al di sopra di esse. Questi segnacoli furono rinvenuti in posizione orizzontale e

leggermente spostati a valle rispetto alle tombe sottostanti, probabilmente perché erano stati

sradicati dal terreno, in cui erano infissi verticalmente, dalla corrente alluvionale che ricoprì l'intera

area. Si tratta pertanto di cippi funerari, che avevano forme e dimensioni diverse. In particolare,

come riporta Magnanini, prevaleva la forma conica e il maggiore non superava i 60 centimetri di

altezza. Simili segnacoli provengono anche dai sepolcreti di Carpi31

, del Bettolino di Sant'Ilario32

e

della Baragalla presso Reggio Emilia33

.

27 MAGNANINI 1894, pp. 20-21.

28 Si tratta del paleoalveo dell'attuale torrente Tresinaro, che passando per il comune di Rubiera sfocia nel Secchia.

Come la maggior parte dei corsi d’acqua della pianura padana, per secoli subì diverse deviazioni che comportarono

interventi di regimazione delle acque da parte degli abitanti della zona.

29 Ma forse anche più larga stando alle parole di L. Picaglia, che scrisse in un rapporto diretto a Crespellani che la

suddetta strada misurava poco più di 4 metri. (vd. Fondo Crespellani, b.2, fasc.4 (A), c. 5, lettera del 18.3.1891).

30 Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani,b.2, fasc.4 (A), c.9, lettera del 18.3.1891.

31 Mi riferisco alla necropoli di S. Croce - via Zappiano presso Carpi, scavata nel 1974 ad opera di M. Marini Calvani

e del Gruppo Archeologico carpigiano.

32 Mi riferisco ai ciottoloni piatti rinvenuti in corrispondenza delle tombe 5 e 7. SANT'ILARIO 1989, p. 138.

33 VITALI 1983, p.162 n. 34.

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Strade glareate fiancheggiate da sepolture si trovano sia nel Reggiano, come a Sant'Ilario d'Enza34

,

che nel Parmense, nel comune di Sorbolo. Anche in questi casi, gruppi di sepolture si disponevano

lungo un asse stradale, forse in connessione con un centro abitato. A Villa San Martino non si sono

trovate tracce riferibili a strutture abitative, ma una serie di ceppi di alberi carbonizzati, ancora

radicati nel suolo a distanza regolare tra loro, fa presupporre una coltivazione stabile e una certa

pianificazione del territorio. Questi filari, identificati come alberi di noce, si estendevano ad

occidente della strada e allo stesso livello stratigrafico, inserendosi perfettamente nel quadro

complessivo della pianura tra Secchia ed Enza durante il VI secolo a.C., periodo di un'estesa

riorganizzazione territoriale. In quest'arco cronologico mutò infatti in modo sensibile l'assetto delle

campagne, con la nascita di nuovi insediamenti e uno sfruttamento agricolo intensivo, connesso con

la delimitazione dei confini delle colture e delle proprietà, secondo la rigorosa tecnica agrimensoria.

Il più delle volte questi limites erano formati da strade, vie, muretti, ma anche da fossati, canali e

filari di piante. É ciò che si osserva a Rubiera35

, dove lo scavo del 1985 pose in luce una rete di

fossati, che avevano la funzione di dividere le proprietà e di far defluire le acque superficiali. Non è

nemmeno da escludere che l'abitato di Rubiera, sito particolarmente importante per il ritrovamento

di due cippi funerari le cui iscrizioni menzionano la magistratura etrusca dello zilacato, fosse

collegato a quello di San Martino Quattro Vie dalla medesima strada, impostata sull'asse Sud-Nord.

Questa a sua volta poteva congiungere la Rubiera etrusca con la via fluviale del Po.

3.3 I corredi funerari

Osservando i materiali appare evidente la difficoltà di attribuirli in modo specifico ad una

delle principali culture dell'Italia settentrionale. Gli ossuari (tav. 16-20) rinvenuti rientrano tutti

nella categoria delle grandi olle, recipienti utilizzati generalmente per la cottura dei cibi e per la loro

conservazione, e dei dolia, anche questi contenitori sia di liquidi, come gli oli e il vino, che di

derrate alimentari, soprattutto grano e legumi. Data la loro funzione si presentano con un impasto

grossolano non depurato e per secoli furono utilizzati come ossuari nelle sepolture a cremazione da

diverse culture36

.

Gli ossuari correggesi sembrano rientrare pienamente nelle forme della ceramica etrusca dello

stesso periodo, trovando confronti con quelli di Bologna, Marzabotto e Spina, i tre grandi centri

etruschi dell'Emilia. Questo tipo di ceramica, caratterizzato dall'orlo estroflesso e talvolta dalla

decorazione a cordone plastico e piccole prese sulla spalla, trova ampia diffusione anche nei centri

34 A Sant'Ilario Chierici mise in luce una strada sepolcrale selciata, larga ben 7 metri e parallela al corso dell'Enza. A

fregio di questa strada erano disposte oltre 20 tombe divise per gruppi, forse famigliari.

35 Mi riferisco ai due fossati di Rubiera, località Cà del Cristo. Per la bibliografia vd. RUBIERA 1989, pp. 115-117.

36 Da quella atestina durante il periodo Este III, a quella bolognese, a partire dal Villanoviano IV.

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dell'Emilia occidentale, come in località San Claudio a sud di Reggio Emilia, a Rubiera e a Carpi37

,

ma di per sé resta difficilmente databile.

Invece sono ancora le fibule, anche in questo caso tutte in bronzo, ad indicare i limiti cronologici

dell'area; in particolare le fibule di tipo Certosa (tav. 21) della tomba 5, come quella “ad arco

tricostato” probabilmente simile a quella della Baragalla, datano la fase più tarda dell'insediamento

alla metà del V secolo. La fibula a coda di rondine (tav. 22) della tomba 3, diffusa nei sepolcreti

bolognesi di fine VI secolo a.C., rientra nel tipo Certosa arcaico e sostiene la datazione, essendo la

prima metà del V secolo il periodo in cui compare maggiormente. Questo tipo di fibula è

scarsamente attestato nel Reggiano, dove trova comunque riscontro a Sant'Ilario e a S. Rigo presso

Reggio, con caratteristiche avvicinabili ad esemplari atestini38

della seconda metà del VI secolo

a.C., e ad uno di Marzabotto39

. Altre fibule dello stesso tipo si trovano a Bismantova e forse a

Corticella di Villa Bagno40

. Si può dire più in generale che, accanto alle probabili varietà locali

difficilmente individuabili senza complessi definiti, quest'area sia stata fortemente permeabile e

influenzata dai prodotti delle aree vicine; in particolare, per il periodo delle testimonianze di

Correggio e Sant'Ilario, appare evidente il legame con la cultura atestina e golasecchiana.

Le fibule delle tombe 3, 5 e 6 (tav. 23-25), piuttosto simili tra loro, sono databili al pieno VI secolo

a.C., grazie ai confronti col tipo Este XII c41

e con la fibula rinvenuta a Remedello Sotto in una

tomba del pieno VI secolo, identica a quella senza bottoncino terminale della tomba 6 di Correggio.

Queste fibule, rientrano in quel gruppo caratterizzato dalle piccole dimensioni, dall'arco ingrossato

e ribassato e dalla staffa lunga. L'area di diffusione comprende diversi centri del Reggiano, come

Servirola, presso San Polo, Bismantova, Montecchio e S. Rigo, presso Reggio Emilia. Ma sono

soprattutto le testimonianze provenienti dalla sepoltura di Corticella, da quelle della Baragalla, del

Bettolino di Sant'Ilario, di Casaltone di Sorbolo nel parmense e di quelle di Carpi-S. Croce nel

modenese, che restituiscono i confronti più evidenti.

Altri oggetti piuttosto frequenti nei corredi funerari sono i bracciali e gli anelli, che fanno parte

degli ornamenti del defunto. L'armilla a capi sovrapposti (tav. 26) della tomba 8 di Correggio rientra

in un gruppo ben documentato nel Reggiano, con variazioni di dimensione e decorazione, in

particolare trova confronti a Servirola e a Sant'Ilario, ma resta comunque poco caratteristico42

.

37 Mi riferisco soprattutto alla ceramica di impasto di Carpi-S. Croce e di via Gusmea in località Budrione. MALNATI

1987, pp. 160-165 e RUBIERA 1989, pp. 78-79, 98.

38 In particolare al tipo Este XXI c, rinvenuto nelle tombe Ricovero 205 e Rebato I di Este databili al III periodo

antico. CHIECO BIANCHI e AA.VV. 1976, p.29, tav. 20, nn. 15-16.

39 DAMIANI e AA.VV. 1992, p. 146.; VON ELES 1986, n. 1863.

40 Per un approfondimento sulla sepoltura di Corticella vd. RUBIERA 1989, pp. 69-72.

41 Presente nelle tombe Rebato 13 e Benvenuti 99 di Este. Vd. CHIECO BIANCHI E AA.VV. 1976, p.18, tav. 12, nn.

9-10.

42 SANT'ILARIO D'ENZA 1989, pp. 108 e sgg.. Armille in bronzo a capi sovrapposti ma sezioni diverse vengono

dalle tombe 13 e 24 di Sant'Ilario località Fornaci, dove le armille della prima si presentano decorate da trattini,

quella della 24 è disadorna. Altre attestazioni provengono da Sant'Ilario in località Bettolino, tomba 5 e in località

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L'anello della tomba 5 (tav. 27), di piccole dimensioni con verghetta a sezione circolare, è attestato

soprattutto a Servirola, Bismantova e Sant'Ilario, ma la datazione risulta difficile data la sua forma

molto semplice.

Uno degli oggetti più interessanti è un pendaglio in bronzo a ruota raggiata (tav. 28) proveniente

dalla tomba 3 il quale, insieme alla sua variante a sette raggi, è stato riconosciuto come uno degli

elementi caratterizzanti quel gruppo culturale omogeneo definito facies di Sant'Ilario e Correggio o

di Sant'Ilario e Remedello. Il modello risale ad un tipo diffuso ad Hallstatt nel VII secolo a.C.43

, ma

trova confronti anche in area atestina a Ponso44

, in località la Ganza, dove è stato trovato un

pendaglio a ruota con soli cinque raggi e occhielli lungo la circonferenza, in stato frammentario, in

una tomba del III periodo.

Inizialmente l'area di diffusione si credeva estesa dal territorio bresciano e mantovano, con

attestazioni a Remedello di Sopra e a Fontanella di Casalromano, a quello reggiano, a Sant'Ilario,

Correggio, Corticella di Villa Bagno e Servirola, ma più recenti ritrovamenti indicano che l'area di

distribuzione di questi pendagli va allargata verso est, con tre attestazioni a Marzabotto e una a Pian

del Monte a Verucchio. Quest'ultimo, forse del tipo a sette raggi, fu trovato in condizioni

frammentarie nel riempimento di un pozzo assieme ad altri elementi estranei alla facies romagnola,

il ché può forse essere spiegato dalla destinazione probabilmente votiva del pozzo stesso, la cui

cronologia si estende dalla seconda metà dell'VIII secolo alla metà del IV. Ritrovamenti ancora più

recenti sono gli esemplari di Baganzola di Parma45

e di Bagnolo San Vito in località Forcello,

quest'ultimo databile alla fine del VI secolo a.C.46

. L'esemplare correggese va comunque ricondotto

ad una fase avanzata della facies di Sant'Ilario – Correggio.

Altri tipi di pendagli sono quelli con verghetta a noduli (tav. 29) della tomba 6, che Crespellani

ricorda genericamente come “parecchi”. Questi possono essere interpretati come elementi

decorativi, forse di una collana, o come parti rimanenti di pendagli nettaunghie, di cui si è

conservato un unico esemplare integro, proveniente dallo stesso corredo tombale delle verghette.

Questi utensili da toeletta (tav. 30), che venivano portati appesi al collo, essendo dotati di fori di

sospensione sommitali, sono abbastanza diffusi in area reggiana e trovano confronti sia in ambito

bolognese47

, che in ambito ligure a Chiavari e in area golasecchiana. In particolare nettaunghie

simili, ma con decorazioni diverse, provengono dal sepolcreto di Sant'Ilario sia in località Bettolino

Romei (tomba 3 e 11).

43 Durante la fase Ha C 1. PERONI 1973, pp. 26, 34, fig. 2, 20; KROMER 1959, taff. 11, 80, 90, 98, 107; LEICHT

1871, p.53, tav.I.

44 SORANZO 1885, pp. 45-47, 69, tav. VI.

45 MACELLARI 2009, pp. 133-135.

46 RAPI 2005, pp. 101-102, fig. 41, 4.2.

47 Dal periodo Villanoviano IV B 1. Vd. tomba Melenzani 7 in MORIGI GOVI – VITALI 1982, pp. 243-244 e

CARANCINI 1969, pp. 280-281, n.36.

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che in località Fornaci, da Servirola presso San Polo d'Enza, da Bismantova e da Campegine48

, ma

sono difficilmente collocabili in una fascia cronologica precisa. Una verghetta a noduli simile a

quella correggese proviene da Rubiera-Cà del Pino49

, la quale, a differenza di quella di Correggio,

mostra un anello di sospensione da entrambe le estremità. Se così fosse anche il nostro frammento,

non sarebbe identificabile come parte di un nettaunghie, ma come un elemento decorativo a sé

stante.

Altro elemento fondamentale per la contestualizzazione del sepolcreto di San Martino Quattro Vie è

un fermaglio di cintura (tav. 31) della tomba 4, originariamente fissato ad un supporto in materiale

deperibile, che pertanto non si è conservato. Questo fermaglio era composto da due lamine di

bronzo, “il maschio” e “ la femmina”, entrambe lavorate a sbalzo con decorazione a puntini. Nel

Reggiano si individuano principalmente due tipi di fermagli derivati evidentemente da un modello

comune50

. Il primo, che in generale trova i maggiori confronti nell'Italia settentrionale nella cultura

golasecchiana e in quella atestina51

, comprende gli esemplari rinvenuti a Correggio, a Sant'Ilario in

località Fornaci, Romei e podere Baldi, a Servirola presso S. Polo e a Bismantova, ma si possono

annoverare in questo gruppo anche quelli provenienti da Casaltone di Sorbolo e da Baganzola52

. Un

fermaglio frammentario proveniente da Redù-podere Puglia53

, a Nonantola, e datato al pieno VI

secolo a.C., rientra forse in questo gruppo, assieme ad una coppia di fermagli provenienti dalla

tomba 415 della necropoli della Certosa di Bologna54

. La datazione generica proposta da De

Marinis per il gruppo di Remedello è del VI secolo, ma resta difficile precisarla ulteriormente.

Il secondo tipo, invece, costituisce un gruppo meno numeroso, attestato nel Reggiano solo a

Baragalla in località San Pellegrino e a Servirola di S. Polo. Questo gruppo fa riferimento all'area

nord-occidentale italiana, in particolare a quella golasecchiana occidentale, e al Canton Ticino55

. Le

affinità si estendono anche alla Liguria con precisi riscontri nella necropoli di Chiavari, dove però

le placche presentano una decorazione a borchie e una scanalatura semicircolare dalla parte opposta

al gancio che non si riscontrano negli altri esemplari. I fermagli liguri sono datati al VII secolo a.C.,

48 In località Case Cocconi è stato rinvenuto un corredo da toeletta composto da nettaunghie, nettaorecchie e pinzetta,

vd. CHIERICI 1875 p.190.

49 RUBIERA 1989, p. 53, tav. IX n.6.

50 DAMIANI e AA.VV. 1992, pp.174-175.

51 Nella necropoli di Remedello di Sotto-podere Cacciabella, nelle necropoli di Este, nelle tombe Benvenuti 124 e

Rebato 3, datate tra la fase Este III c ed Este III D 1 e nel Canton Ticino a Dalpe nella tomba 2. VANNACCI

LUNAZZI 1977, p.40.PERONI e AA.VV. 1975, p.56, fig. 9, 4, 6; PERONI 1975, p.56, fig. 9,4; PRIMAS 1970, tav.

33F.

52 MACELLARI 2009, pp.133-135.

53 CARDARELLI - MALNATI 2003, pp. 120-121.

54 ZANNONI 1876-84, tav. CXLIII.5.

55 Sono infatti attestati a Castelletto Ticino, a San Bernardino di Briona, a Dalpe, a Claro e a Castione Bergamo

durante tutto il periodo Golasecca II . Vd. tombe 54, 27, 48 in PAULI 1971, tav. 27.8, 19.2, 25.28; PAULI 1971, tav.

42, 10, 11; Vd. tomba 10 in PRIMAS 1970, tav. 33B; ULRICH 1914, tav. III.11 e tav. XII.10; PAULI 1971,

tav.18.E3.

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dunque sono più antichi56

(tav. 32).

Le perle in pasta vitrea (tav. 33) della tomba 3, facenti parte probabilmente di una collana, sono

ampiamente attestate nel Reggiano57

e connotano la tomba in senso femminile. Sono diffuse a

Sant'Ilario in loc. Bettolino e Fornaci, ma tutte monocrome, a Servirola S. Polo e a Campegine in

località Razza. Il motivo decorativo a zigzag bianco su fondo blu è attestato sia in area atestina58

,

che in quella etrusco padana a Marzabotto tra la fine del VI e la prima metà del V secolo a.C.,

mentre la decorazione a cerchietti concentrici si estende nello stesso territorio per tutto l'arco del V

secolo a.C..

I granelli d'ambra (tav. 34) sono un'attestazione poco diffusa nel Reggiano, dove il maggior numero

dei ritrovamenti proviene dalla sepoltura di Brescello, e sporadici da Sant'Ilario e Servirola di S.

Polo59

. La loro cronologia è piuttosto ampia e non sono di particolare aiuto nello studio del contesto

correggese, dove gli esemplari rinvenuti sono solamente due ed entrambi sono andati dispersi.

Stessa cosa si può dire per le fuseruole (tav. 35-38), oggetti molto frequenti nei siti dell'età del ferro,

che possono essere in materiali diversi e con molteplici forme, ma sempre perforati nel mezzo.

Questi oggetti venivano utilizzati nella tessitura come pesi da telaio o volanti di fuso, ma anche

come capocchie di spilloni e aghi o come semplici oggetti di ornamento. Le fuseruole in terracotta

sono diffuse in tutto il territorio reggiano e modenese, dove attestano la pratica della filatura e

connotano in senso femminile i corredi correggesi delle tombe 4, 7 e 8.

2.4 Le caratteristiche della facies di Sant'Ilario-Correggio

Per quanto riguarda i tentativi di individuare l'identità etnica e culturale del sepolcreto di San

Martino Quattro Vie, già a partire dai primi ritrovamenti le proposte furono diverse. In primo luogo

Chierici mise in evidenza le analogie tra gli ossuari di Correggio e quelli di Marzabotto, facendoli

risalire, come si è detto, al terzo periodo della prima età del ferro, secondo la sua suddivisione

dell'età del ferro nel Reggiano, tesi sostenuta anche dalla scoperta in quello stesso anno di una

fibula dalle caratteristiche tipiche di quelle della Certosa.

Questa datazione fu accettata da Arsenio Crespellani, il quale dichiarò che quei resti dovevano di

certo appartenere alla civiltà etrusca60

, considerate le analogie con la Certosa e Marzabotto, sia per

la fibula precedentemente nominata, sia per la disposizione delle tombe segnalate dai ciottoli di

fiume. D'altra parte però riconosceva che il pendaglio a ruota raggiata fosse simile a quelli diffusi in

56 LAMBOGLIA 1960, figg. 69, 76; PRIMAS 1970, p. 146, taf. 54.

57 DAMIANI e AA.VV. 1992, pp. 183-184.

58 HAEVERNICK 1983; GAMBACURTA 1987, pp. 210-212.

59 DAMIANI e AA.VV. 1992, pp. 185-189.

60 CRESPELLANI 1891, p. 13.

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area hallstattiana61

, tanto da ipotizzare che la popolazione correggese potesse provenire o comunque

avere un qualche legame, ad esempio di tipo commerciale, con le aree nordiche di quella cultura.

In seguito Luigi Pigorini62

sollevò delle riserve riguardo all'identificazione etruscoide. Innanzitutto,

pur ammettendo la somiglianza delle fibule di San Martino con quelle provenienti da Bologna e

Marzabotto, non si poteva escludere che tali fibule fossero in realtà piuttosto diffuse in tutta l'Italia

settentrionale e la stessa osservazione valeva per i segnacoli aniconici. Anche il rito funebre non era

una prova inconfutabile dell'etruscità del sito, tanto che nella stessa Felsina il rito crematorio

coesisteva con quello inumatorio, con una certa prevalenza di quest'ultimo, contro invece quella

prevalentemente a cremazione di Golasecca. Per quanto riguarda gli ossuari e gli altri oggetti, l'area

di distribuzione non era definita, e non poteva essere utilizzata a conferma di una certa ipotesi

piuttosto che di un'altra. Secondo Pigorini gli unici elementi che avrebbero potuto essere d'aiuto per

un'identificazione culturale erano il pendaglio a ruota raggiata della tomba 3 e il fermaglio di

cintura della tomba 4, ponendo così le basi su cui si sviluppò il dibattito sulla facies nei decenni

seguenti fino ad oggi. Egli notava infatti che il primo di questi oggetti trovava corrispondenze ad

Hallstatt, come aveva già notato Crespellani, ad Este, e soprattutto a Sant'Ilario, oltre che in

Svizzera, Savoia e Francia, mentre i fermagli di cintura erano diffusi in diverse parti dell'Italia

settentrionale, dal Reggiano al Parmense, ma anche in Lombardia, in Piemonte, nel Canton Ticino e

in Svizzera. Osservando infine che sono soprattutto i sepolcreti dei territori occidentali, più che

quelli orientali, a restituire questo tipo di testimonianze, giunse a tre importanti conclusioni, che si

possono ritenere ancora attuali, la prima è che il sepolcreto correggese fosse effettivamente

contemporaneo al dominio etrusco bolognese, la seconda che le tombe stesse non fossero

direttamente etrusche, e infine, che insieme ai sepolcreti di Sant'Ilario, Casaltone di Sorbolo,

Golasecca e dei Cantoni di Ticino e Zurigo, formasse un gruppo culturale omogeneo. In particolare

identificò questo popolo come celtico, partendo dal presupposto che tale fosse la popolazione

stanziata a Golasecca e nei cantoni elvetici e che da quelle originarie sedi si fosse esteso fino ai

territori reggiani e parmensi.

Altra interessante teoria, già accennata nel capitolo precedente, fu esposta in quegli anni da

Vincenzo Magnanini63

, secondo il quale il territorio emiliano fu occupato per lungo tempo da una

popolazione di origine umbra, da sempre in conflitto con i Liguri confinanti. Secondo questa

ricostruzione, dopo l'arrivo degli Etruschi durante il periodo della fondazione delle dodici colonie

confederate, queste famiglie già stanziate sul territorio furono assoggettate e rimasero in quei luoghi

in qualità di alleate durante le guerre di conquista nell'Italia Meridionale. Cioè, gli Etruschi

avrebbero lasciato agli Umbri indigeni i luoghi più paludosi della zona e forse si servirono di essi

61 Vd. il riferimento bibliografico che riporta Crespellani, CRESPELLANI 1891, p. 13.

62 PIGORINI 1892.

63 MAGNANINI 1894.

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per i lavori di bonifica e regimazione delle acque, a cui sappiamo fu sottoposto tutto il territorio in

quell'epoca, portando ad un incremento demografico e ad un maggiore benessere. Magnanini

delinea un quadro storico forse azzardato, secondo cui da un lato una parte della popolazione di

origine umbra visse in una condizione di schiavitù sotto un potente dominio etrusco che doveva

essere ben organizzato e imperniato su forti centri di potere, mentre dall'altro lato la minaccia ligure

non veniva meno ed aumentavano le discordie tra le città etrusche confederate, fino all'arrivo dei

galli Boi, che si insediarono in quest'area a partire dagli inizi del IV secolo a.C.. Come si è detto

l'ipotesi di un sostrato umbro in Emilia è stata ripresa dal Colonna64

e appare tutt'altro che

infondata, ma posta in termini diversi rispetto a quelli di Magnanini e basata su un'accurata analisi

delle fonti antiche.

Dopo le grandi scoperte e gli studi tanto entusiasmati dell'Ottocento si ha, come un po' in tutta

Italia, una battuta d'arresto e si deve attendere fino agli anni Settanta del secolo scorso per una

ripresa delle pubblicazioni e delle ricerche nel Reggiano. Da allora, grazie al contributo della

Società Reggiana di Archeologia e di altri importanti studiosi, primo fra tutti Daniele Vitali, venne a

formarsi l'idea che questi corredi costituissero un gruppo culturale omogeneo, quello appunto

definito facies di Sant'Ilario-Correggio o di Sant'Ilario-Remedello, esteso dalla pianura bresciana e

mantovana al territorio reggiano, fino a raggiungere a est Verucchio e a ovest Cortemaggiore e

Ponte Nure. Questi insediamenti sono contraddisinti dalla presenza di piccoli sepolcreti, in alcuni

casi in relazione con strade selciate e orientate, caratterizzati da tombe a cremazione in dolia ed

olle, più raramente a inumazione. I corredi comprendono un particolare tipo di fibule, pendagli a

ruota raggiata e a secchiello, fermagli di cintura in lamina di bronzo lavorati a sbalzo, solo

raramente ceramica di corredo e mai ceramica attica di importazione65

.

Raffaele De Marinis propone una distinzione tra i materiali appartenenti a questa facies e quelli più

direttamente riconducibili ad una presenza etrusca, come quelli di Rubiera, Carpi e San Polo d'Enza

facenti parte della facies Marzabotto-Servirola66

, caratterizzata da strutture edilizie con muratura a

secco, impianti di produzione, come le fornaci e le fonderie, pozzi con camicia di ciottoli e strade

selciate. Per quanto riguarda i corredi, invece, distintiva è la presenza di ceramica greca di

importazione, vasellame di produzione etrusca e locale, talvolta recante segni alfabetici incisi e

iscrizioni in lingua etrusca, oltre che vari oggetti d'ornamento e di arredo.

Purtroppo i dati relativi a queste due facies provengono da contesti diversi: quella più strettamente

etrusca è documentata soprattutto da abitati e scarsamente da sepolcreti, e anche dove vi erano

tracce di sepolture collegate all'abitato i dati di scavo erano inutilizzabili perché insufficienti o poco

chiari; vale il contrario per la facies di Sant'Ilario-Correggio, le cui attestazioni provengono quasi

64 COLONNA 2008.

65 VITALI 1983, pp.133-134.

66 Così definita da Vitali in VITALI 1983, p.133.

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unicamente da aree sepolcrali. Questa situazione comporta naturalmente un grosso limite per la

comprensione delle affinità dei due gruppi, dove l'unica soluzione resta il confronto di entrambi con

siti di cui si conosce sia la parte insediativa che funeraria dello stesso periodo, primi fra tutti i siti di

Bologna e di Marzabotto.

De Marinis analizzando la distribuzione dei fermagli di cintura, di cui ha elaborato una carta di

diffusione67

, nota come la massima concentrazione si abbia proprio nella media Val Padana68

e

propone una datazione che va dal VI secolo a.C. fino agli inizi del V. Ma altri esemplari di fermagli

di questo tipo si trovano anche a Brembate e a Zanica, in provincia di Bergamo, cioè nella parte più

orientale del territorio golasecchiano, e altri sono stati rinvenuti ad Este, Hallstatt, Canton Ticino e

in Val Brevenna presso Genova69

.

Per quanto riguarda invece la distribuzione dei pendagli di tipo a ruota raggiata70

con occhielli e

anellini lungo la circonferenza esterna, la massima concentrazione si rileva nell'area di Correggio,

Sant'Ilario, Corticella di Villa Bagno, Remedello Sopra71

, Marzabotto e Verucchio. Simili, ma non

identici, provengono da Hallstatt72

, Belluno, Libna ed Este.

Nonostante sia ormai chiara la connessione tra questi due tipi di oggetti, non è altrettanto chiara la

sua definizione sul piano etnico e culturale, dal momento che non si possono considerare

pienamente golasecchiani, né atestini, ma nemmeno etruschi, ma sembrano piuttosto inserirsi come

una cerniera tra queste grandi culture dell'Italia settentrionale.

Più volte si è proposto il nome di Liguri sulla base sia delle fonti antiche, come Plinio il Vecchio,

sia dei dati toponomastici, in primo luogo l'antico nome ligure dell'alto corso del Po, Bodincus,

denominazione che forse si estendeva fino al delta, secondo Polibio. Forse imparentata con

Bodincus potrebbe essere la terminazione -enke, che secondo il Colonna caratterizzerebbe un

gentilizio indigeno padano, lo stesso dello zilath di Rubiera e di un'iscrizione mutila dal Forcello di

Bagnolo San Vito. Anche l'idronimo Gabellus per il Secchia, formato sulla radice Gaba/Gava come

“acqua sorgiva formante un rivo”, potrebbe essere alla base di nomi come Gavassa e Gavasseto nel

Reggiano; di dubbia origine ligure è anche l'idronimo del torrente Rodano73

. Per quanto riguarda le

evidenze materiali le armille a capi aperti e ingrossati, i corredi da toeletta e i fermagli di cintura,

rinvenuti in diverse località, prima fra tutte Sant'Ilario, sono caratteristici delle necropoli di Chiavari

67 DE MARINIS 1986-87, p. 66.

68 Come già detto le testimonianze si trovano a Sant'Ilario loc. Fornaci e Romei, a San Martino di Correggio, a

Remedello Sotto a Brescia, a Baragalla di Reggio Emilia e a Casaltone di Sorbolo in provincia di Parma.

69 Ad Hallstatt nel ripostiglio di Parre, in Canton Ticino a Dalpe Vidresco e per la Val Brevenna vd. DE NEGRI 1937,

pp. 81-105.

70 Vd. supra carta di distribuzione dei fermagli di cintura.

71 E' stato dimostrato attraverso un'accurata analisi che il pendaglio di Remedello è della stessa officina di quello di

Sant'Ilario.

72 Il pendaglio della tomba 507 è il più simile a quelli a padani, ma appartiene ad un contesto molto più antico, cioè il

Ha C 1, prima metà del VII sec. a.C..

73 Vd. MACELLARI 2008a, pp. 366-371 e note 12-16, 40.

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e del mondo ligure in generale. Dalle Fornaci di Sant'Ilario proviene un'olletta in bucchero dal

corpo globulare e fondo appiattito, dotata di coperchio, il cui modello di riferimento è ancora

Chiavari.

Un dato sicuro è che i primi indizi di un sostrato ligure nell'Emilia si trovano a partire dal VII

secolo a.C., ma già dal V secolo si ha una concentrazione sulla fascia appenninica, dove le

evidenze della cultura ligure sono conosciute da tempo, mentre nella pianura diventa sempre più

stabile il dominio etrusco, che proprio in questo secolo raggiunge la massima fioritura. Il caso più

evidente della convivenza di queste due culture è Bismantova, in cui la componente ligure non

rinuncia alle proprie manifestazioni culturali, pertinenti soprattutto alla dimensione

dell'abbigliamento e dell'ornamento, pur sotto l'egemonia politica etrusca74

.

Al contrario Luigi Malnati, mette in evidenza le analogie di queste attestazioni con quelle coeve

etrusco-padane, focalizzando l'attenzione sul loro perfetto inserimento in un contesto che lascia

pochi dubbi: mi riferisco principalmente ai vicini siti di Carpi-Via Zappiano75

e di Rubiera, che

rivelano la presenza del villanoviano in quest'area già dalla fine del VII secolo a.C..

Dunque un'area che si presenta omogenea nei suoi aspetti più generali, fortemente influenzata da

culture diverse, ma non slegata dai contemporanei contesti di Bologna e Marzabotto. É da notare

che le divergenze più profonde si datano al periodo più antico, cioè alla metà del VII secolo, mentre

già dagli inizi del V si fa largo una certa omogeneità culturale, che tuttavia non è mai totale. Non

sembra un caso che la prima fase della colonizzazione etrusca a nord degli Appennini sia

contemporanea a questi contesti, tanto dar far pensare che ad una popolazione locale, che si

contraddistingue per i corredi non etruschi delle sue tombe76

, se ne sia sovrapposta un'altra di

origine e cultura etrusca, che dopo un periodo di assestamento ha convissuto e si è integrata con le

genti locali.

Una chiara manifestazione di questo sincretismo è la struttura stessa dei sepolcreti di facies non

etrusca, che con le strade perfettamente orientate e selciate richiamano da vicino la rigorosa tecnica

agrimensoria di Marzabotto77

.

74 Per un approfondimento sulle manifestazioni culturali liguri sull'Appennino reggiano e modenese e sul culto delle

vette, vd. MACELLARI 2008a, pp.380-382.

75 MALNATI 1984, pp. 25-39; CARDARELLI - MALNATI 2003, pp.148-150.

76 Cioè tutti quelli indicati per la facies Sant'Ilario-Correggio.

77 Riguardo la colonizzazione e i rapporti tra le due culture vd. il capitolo III di questo testo.

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Conclusioni

Si è detto nei capitoli precedenti che il periodo di riferimento è quello compreso tra l'VIII e gli inizi

del V secolo a.C., quando possiamo immaginare la pianura emiliana costellata da piccoli villaggi di

capanne, che si andavano via via intensificando nel corso di questi secoli. Parliamo cioè di fattorie e

villaggi formati da piccoli gruppi di persone, talvolta poco più che famigliari, basati soprattutto su

un'economia di autosufficienza, dove la raccolta e la caccia, insieme all'agricoltura, mantenevano

ancora un ruolo non del tutto marginale.

In questo momento Bologna-Felsina comincia a prendere le forme del capoluogo dalle

caratteristiche protourbane e ad espandersi nel territorio emiliano, con lo scopo di controllare

direttamente le direttrici viarie e acquisire terreni destinati all'agricoltura e all'allevamento.

Importanti elementi della cultura villanoviana si riscontrano nel sito di Rubiera, nella necropoli di

Carpi-via Zappiano e in quella di Redù (podere Golfiera) nel Nonantolano.

Come si è ampiamente evidenziato, quelle villanoviane non sono le uniche influenze culturali che si

impongono in quest'area, importanti sono anche quelle della cultura di Este e di Golasecca,

rintracciabili soprattutto nella tipologia delle fibule, e della cultura umbro-picena, come dimostra il

cerchio porta-anelli.

Eppure i materiali canolesi, come quelli di San Martino e di Mandrio, non sono direttamente

riconducibili a nessuna di queste grandi culture e la definizione sul piano etnico e culturale resta

molto difficile. Con ogni probabilità questo popolamento fu il frutto di sovrapposizioni e influenze

culturali, di movimenti migratori, che nel corso del tempo hanno lasciato tracce non univoche.

Questa situazione fu determinata anche dalla posizione geografica dell'area, che l'ha resa un tramite

perfetto tra l' Etruria tirrenica, Felsina e l'Italia settentrionale, a sua volta collegata con l'Europa

centrale, in modo da divenire una zona “cuscinetto” tra le grandi culture di quell'epoca: elementi

diversi devono essersi sovrapposti ad una cultura autoctona, che non ha rinunciato completamente

alle proprie manifestazioni culturali, ma che le ha affiancate ad altre straniere, talvolta fondendole,

dando origine ad un fenomeno di sincretismo.

Siamo quindi di fronte ad una realtà particolarmente composita, che solo le ricerche archeologiche

possono meglio definire: l'augurio è quello che altri materiali “rivelatori” possano venire alla luce,

in modo tale da consentire un approfondimento ed un arricchimento della conoscenza del passato

del territorio correggese.

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TAVOLE

Tav. 1. Carta dei ritrovamenti dell’età del ferro nel territorio di Correggio.

Tav. 2. Fibula a sanguisuga da Canolo “le Motte”.

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Tav. 3. Fibula di piccole dimensioni ad arco semplice leggermente ingrossato, privo di

decorazioni e a staffa corta da Canolo “le Motte”.

Tav. 4. Fibula a sanguisuga con arco a tutto sesto da Canolo “le Motte”.

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Tav. 5. Pinzetta completa costituita da una verga in bronzo a sezione rettangolare da Canolo

“le Motte”.

Tav. 6. Pinzetta frammentaria in bronzo da Canolo “le Motte”.

Tav. 7. Spillone per capelli con capocchia biconica detta “a mazzuolo” da Canolo “le Motte”.

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Tav. 8. Cerchio in bronzo a sezione circolare irregolare al quale sono sospesi quattro anellini

più piccoli da Canolo “le Motte”.

Tav. 9. Bracciale di piccole dimensioni e sezione biconvessa, con decorazione a costolature

longitudinali da Canolo “le Motte”.

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Tav. 10. Anello a finto torciglione e capi accostati da Canolo “le Motte”.

Tav. 11. Anellino in bronzo a sezione circolare da Canolo “le Motte”.

Tav. 12. Due lamine di bronzo in forte stato frammentario da Canolo “le Motte”.

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Tav. 13. Pendaglio a rotella in bronzo da Mandrio.

Tav. 14. Carta di distribuzione dei pendagli a rotella (DE ANGELIS e AA.VV. 2007, p. 119).

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Tav. 15. Schizzo ricostruttivo della necropoli di San Martino Quattro Vie eseguito da

Crespellani (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

Tav. 16. Dolium della tomba 1 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

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Tav. 17. Dolium della tomba 2 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

Tav. 18. Dolium della tomba 3 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

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Tav. 19. Dolium della tomba 4 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

Tav. 20. Dolium della tomba 5 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

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Tav. 21. Fibula di tipo Certosa della tomba 5 (Musei Civici di Reggio Emilia).

Tav. 22. Fibula a coda di rondine della tomba 3 (Musei Civici di Reggio Emilia).

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Tav. 23. Fibula della tomba 3 (Musei Civici di Reggio Emilia).

Tav. 24. Fibula della tomba 5 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

Tav. 25. Fibula della tomba 6 (Musei Civici di Reggio Emilia).

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Tav. 26. Bracciale spiraliforme in bronzo della tomba 8 (Musei Civici di Reggio Emilia).

Tav. 27. Anello in bronzo della tomba 5 (Musei Civici di Reggio Emilia).

Tav. 28. Pendaglio a ruota raggiata della tomba 3 (Musei Civici di Reggio Emilia).

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Tav. 29. Frammento di pendaglio da toletta della tomba 6 (Musei Civici di Reggio Emilia).

Tav. 30. Pendaglio da toletta in bronzo dalla tomba 6 (Musei Civici di Reggio Emilia).

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Tav. 31. Fermaglio di cintura in bronzo della tomba 4 (Museo Civico Archeologico Etnologico

di Modena).

Tav. 32. Carta di distribuzione dei fermagli di cintura (quadrati), dei pendagli a ruota

raggiata (cerchi pieni) e varianti (cerchi vuoti) e delle armille con terminazione a pomello

(triangoli) (DE MARINIS 1986, p. 66).

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Tav. 33. Perle in pasta vitrea della tomba 3 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

Tav. 34. Due grani d’ambra della tomba 7 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo Crespellani).

Tav. 35. Fuseruola in terracotta della tomba 7 (Biblioteca Estense di Modena, Fondo

Crespellani).

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Tav. 36 e 37. Fuseruole in terracotta della tomba 4 (Musei Civici di Reggio Emilia).

Tav. 38. Fuseruola in terracotta della tomba 8 (Musei Civici di Reggio Emilia).