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Capitolo 1 - Nella morte Il Diavolo raggiunse l’infinito. Lo chiamava così, perché lo associava alla spinta creatrice primordiale, cui assistette quando il suo giovane cuore aveva ancora la massa del sole, e quel cuore pulsava ogni due secondi emettendo la luce più inten- sa che si avesse l’umiltà di mirare. Il Diavolo fissò l’infinito. Al suo cospetto, breve appariva il tempo da cui vagava tra i meandri oscuri dell’inferno, trascurabi- li i sensi di colpa e le perplessità che lo avevano attanagliato per tutta la vita, limi- tato il sapere che lo colmava. Il Diavolo divenne l’infinito. Non era il cosmo a d e- linearsi, bensì un uomo, o qualcosa più di un uomo, ma meno di un dio. Troppo tardi realizzò che si stava illudendo. L’aroma dell’infinito, un miscu- glio piacevole, ma letale, di tutti gli odori del creato, l’aveva disorientato. Era finito in trappola. Bruciava nel centro esatto di un’immensa palla di fuo- co. Il corpo raggrinzì tutto e si curvò in posizione fetale. L’anidride carbonica ab- bandonò i polmoni. Esalarono le ultime forze. Il Diavolo precipitò dall’alto dei cieli. Dapprima parve galleggiare nel vento; poi, subitaneo come un risveglio, capitolò sulla riva di un fiume. Finiva sempre allo stesso modo. Una tortura ripetuta ancora e ancora e anco- ra: cercare l’infinito, trovare l’infinito, perdere l’infinito. Eppure, l’elaborata pu- nizione divina prevedeva una chiazza di pietà, l’i stante di ignoranza che precede- va l’inizio del viaggio. È quando non sai chi sei, ma neanche te lo chiedi. Emise un ultimo lamento: «È già ora della mia fine? Prima di morire, vorrei dirti una cosa. Però forse è meglio risparmiare il fiato, tanto non ascolteresti.» Infine, il Diavolo chiuse gli occhi, assaporando la pace.

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Capitolo 1 - Nella morte

Il Diavolo raggiunse l’infinito. Lo chiamava così, perché lo associava alla spinta

creatrice primordiale, cui assistette quando il suo giovane cuore aveva ancora la

massa del sole, e quel cuore pulsava ogni due secondi emettendo la luce più inten-

sa che si avesse l’umiltà di mirare. Il Diavolo fissò l’infinito. Al suo cospetto,

breve appariva il tempo da cui vagava tra i meandri oscuri dell’inferno, trascurabi-

li i sensi di colpa e le perplessità che lo avevano attanagliato per tutta la vita, limi-

tato il sapere che lo colmava. Il Diavolo divenne l’infinito. Non era il cosmo a de-

linearsi, bensì un uomo, o qualcosa più di un uomo, ma meno di un dio.

Troppo tardi realizzò che si stava illudendo. L’aroma dell’infinito, un miscu-

glio piacevole, ma letale, di tutti gli odori del creato, l’aveva disorientato.

Era finito in trappola. Bruciava nel centro esatto di un’immensa palla di fuo-

co. Il corpo raggrinzì tutto e si curvò in posizione fetale. L’anidride carbonica ab-

bandonò i polmoni. Esalarono le ultime forze.

Il Diavolo precipitò dall’alto dei cieli. Dapprima parve galleggiare nel vento;

poi, subitaneo come un risveglio, capitolò sulla riva di un fiume.

Finiva sempre allo stesso modo. Una tortura ripetuta ancora e ancora e anco-

ra: cercare l’infinito, trovare l’infinito, perdere l’infinito. Eppure, l’elaborata pu-

nizione divina prevedeva una chiazza di pietà, l’istante di ignoranza che precede-

va l’inizio del viaggio. È quando non sai chi sei, ma neanche te lo chiedi.

Emise un ultimo lamento: «È già ora della mia fine? Prima di morire, vorrei

dirti una cosa. Però forse è meglio risparmiare il fiato, tanto non ascolteresti.»

Infine, il Diavolo chiuse gli occhi, assaporando la pace.

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La storia comincia così: c’era una volta un re che aveva perduto la memoria.

Sapeva di essere il Diavolo, o per lo meno sapeva di chiamarsi Diavolo; sapeva

anche cos’era un diavolo. Ma perché era il Diavolo?

Destandosi, balbettò qualcosa, dopodiché, a voce alta, in modo da constatare

l’esistenza del suono, domandò: «Come sono arrivato qua?»

Giaceva su un argine con le caviglie immerse nell’acqua, come un cadavere

andato alla deriva. La testa poggiava su un cuscino di erba bagnata.

Sopra i tetti al di là del fiume svettava una cupola inconfondibile, capace di

ostentare la magnificenza della propria architettura persino nel buio. Come rifles-

so condizionato, nonostante i muscoli indolenziti lo strattonassero giù per impe-

dirgli di commettere l’atto blasfemo, il Diavolo si rigirò sulla schiena e alzò il bu-

sto appena per sputare.

«C’è nessuno? Se non volete che anneghi, qualcuno, gentilmente, mi tirereb-

be fuori di qui?» Sottovoce, aggiunse: «Per favore.»

La città addormentata, forse morta, ne riecheggiò il respiro.

Poiché non riusciva ad alzarsi con le proprie forze, avvistato un pioppo in

lontananza, si puntellò sui gomiti e, una bracciata alla volta, vi trascinò le gambe

sotto. A tentoni e col fiatone trovò nel tronco dell’albero una protuberanza, che

usò come appiglio per ergersi in piedi. Ma una volta su, le ginocchia traballarono;

allora attese, abbandonato con la schiena sul tronco, di sentire il sangue caldo

scorrere nelle vene, di sentire il vigore della gioventù ritemprarlo, di sentire che

era il momento di agire.

«Ah!» rise di se stesso. «Cos’altro resta a un povero Diavolo se non

l’immaginazione? E va bene: se sono rimasto solo io…»

Lasciò la presa e, dopo un attimo di incertezza, portò tutto il peso in avanti.

Aveva mosso un passo, malfermo, ma comunque un passo. Anzi, era molto di più:

era coraggio, era ottimismo, era forza di volontà. Piano, pianissimo, concentrato

su ogni singolo movimento, si inerpicò sull’argine, fino a raggiungere il lastricato.

Non c’erano stelle con cui orientarsi, e una serie di ponti impedivano di godere

del panorama. Una scala di marmo, però, distante pochi metri, che si arrampicava

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sul muro di sponda, gli sembrava fosse stata messa lì apposta per lui. A quel pun-

to, tanto valeva rischiare: decise di risalire il muraglione.

Si affacciò su un incrocio spezzato da un cartello fitto di indicazioni, le cui

lettere erano avviluppate in un intrico illeggibile. La sola idea di scegliere una di-

rezione gli provocava il fiatone.

Poggiò una mano sul costato per aiutarsi a respirare. Le dita rugose toccarono

un oggetto massiccio nel taschino della camicia: una bussola d’oro bianco, tutta

ammaccata. Le diede una lucidata con l’orlo della manica. I bozzi si livellarono

all’istante come in un video riprodotto al contrario, e il vetrino, prima opaco, ri-

splendette lucente. Una lancetta rossa e corta e un’altra lunga e bianca volteggia-

vano senza trovare i poli magnetici. Al posto dei punti cardinali, c’erano una S,

una A, una T e una P. «Stefania, Alma, Tommy, Placo» recitò il Diavolo.

Richiuse la bussola. A chi appartenevano quei nomi, perché li conosceva?

Mentre rifletteva, passeggiava con lo sguardo fisso sui palazzi illuminati dal

bagliore smunto dei lampioni, che nulla potevano per colorare le facciate grigie. Il

movimento gli schiariva le idee.

Si fermò e rivolse l’attenzione all’essere che abitava la cupola. «Mi stai pu-

nendo. Ho ragione?»

La terra rispose. Uno sconquasso aprì una voragine sull’asfalto e la voragine

inghiottì ciò che stava più a cuore agli umani, come un buco nero senziente.

E il Diavolo andò giù, vinto dalla forza di gravità. In qualche modo riuscì ad

aggrapparsi al bordo, le gambe penzoloni, le falangi anchilosate che perdevano la

presa.

Al che ebbe un mutamento d’animo e contemplò desideroso l’abisso. Infatti,

una stella immensa precipitava sul mondo. Frammenti di realtà sublimavano sotto

il suo insostenibile calore.

«È uno scherzo? Un sogno?»

Nella morte, tutto gli divenne chiaro: l’infinito si era stufato di aspettare.

Il Diavolo si rilassò, e come naturale conseguenza l’impeto distruttivo rallen-

tò. Paziente, il re che aveva ritrovato la memoria fissò la luce e attese.

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Capitolo 2 - Sogni che scappano

Un tonfo e un grido. Stefania si svegliò di soprassalto. Aveva ancora gli occhi ap-

pannati, quando protese con interesse il collo oltre il bordo del divano. Le bastò

uno sguardo nebuloso per riconoscere la fonte di quei rumori: un uomo steso sul

tappeto, la corporatura di un baule, vestito di bianco, i capelli sbiaditi, che gemeva

scosso dai brividi. Quando questo si contorse tutto e si alzò come un fiore che

sboccia, cosa fece lei? Si stese e si voltò dall’altra parte. Un vecchio dolorante era

una novità, ma un uomo semi-addormentato in salotto? Stefania, che aveva una

memoria spesso infallibile, ne contava quattro in sette mesi.

Quindi avrebbe continuato a ignorarlo, se non fosse stato per lo schianto della

finestra e per la folata pungente che ne seguì.

Il Diavolo aveva usato una sedia per issarsi sul davanzale del soggiorno.

Reggendosi all’infisso, sollevò una gamba alla volta, con evidente fatica, e le la-

sciò ricadere spenzolanti nel vuoto. Era sudato. Era spossato. Eppure, era felice.

Stefania saltò giù dal divano. «M-mamma?» disse con un filo di voce, troppo

flebile perché sua madre la sentisse.

Fu il Diavolo a rispondere. «Senti l’alito profumato del mondo penetrarti i

polmoni? Essere vivi, ecco che cos’è.» Puntò l’indice verso le colline di Spondai.

«Guarda, Stefania: la bellezza tramuta l’orrore in un sentimento infantile. Poi, pe-

rò, ricordi, e tutto svanisce.» In un primo momento si accigliò; dopodiché si ag-

giustò il cravattino rosso e, regalatole un sorriso, aggiunse: «Dove ho messo le

buone maniere? Grazie di tutto.»

Accadde proprio ciò che Stefania temeva: il Diavolo si gettò nel vuoto. Lei

scattò all’istante, ma quando si affacciò, il vecchio era sparito. Nessun corpo sui

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balconi, nessun corpo sui tetti delle macchine, nessun corpo sulla strada. D’istinto,

Stefania guardò in alto. Un gabbiano volava rasente la cappa grigia.

Mentre si sporgeva, ebbe un capogiro e, sebbene fosse pallida di suo, divenne

ancor più bianca. Una stretta efferata allo stomaco la costrinse a correre in bagno.

Spalancò la porta con una spallata, provando un dolore tale che, per fare prima,

dovette tuffarsi in scivolata sulla tazza del water. L’abbracciò e cercò di vomitare.

Un unico rivolo di saliva pendette dalle labbra e si tuffò nell’acqua. Ogni conato

la percuoteva dall’interno, incapace di emergere sotto forma di bile.

I capelli le caddero davanti, rendendola cieca al colpo finale.

Ci fu un’esplosione liberatoria, e il bruciore si assopì.

Stefania tirò lo scarico. Reduce da una battaglia senza vincitori né vinti, si ac-

casciò ansimante sulle piastrelle sbreccate. Le lacrime aspergevano le lentiggini,

unico sprazzo di colore sulle guance magre contro natura. Avrebbe continuato a

inspirare ed espirare tutto il giorno, una vita trascorsa a concentrarsi sul proprio

respiro come quella di un monaco, se non fosse stato per l’apparire di un fugace

riflesso sullo specchio: sua madre che attraversava il corridoio. Ciò la convinse ad

alzarsi.

«M-mamma» gracchiò una seconda volta Stefania, uscendo di corsa.

Mezzo busto di sua madre, lo sguardo spento, una tazza di caffè fumante in

mano, comparve oltre la soglia della cucina. E siccome Stefania non faceva altro

che additare la sala vuota, Marta chiese: «Be’, amore?»

«Si… si è buttato dalla finestra… un uomo… proprio lì…»

La giugulare di Marta pulsò. Uno sbuffo dal naso e sparì. Come al solito,

l’aveva presa sul personale.

Stefania se ne disinteressò: meglio lasciarla sbollire. Quindi si avvicinò circo-

spetta alla finestra. I polpastrelli assaggiarono il davanzale gelido, marchiarono la

maniglia delle uniche impronte distinguibili, e disegnarono i contorni del fanta-

sma inodore.

Le salì un rigurgito. La sera prima aveva cenato a Castel Gentile con Tommy.

Ricordava il suo deodorante al muschio, il tintinnio di una forchetta caduta mentre

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ordinavano, persino l’insistenza con cui il venditore di rose aveva tentato di raci-

molare qualche euro e come l’ometto elegante l’aveva spinto via con una grazia

che non si confaceva al suo abbigliamento. Stefania doveva essere svenuta su per

giù all’arrivo delle patatine. Sentiva l’odore di maionese ancora attaccato alla pel-

le.

Così le angosce e gli acciacchi si mescolarono gli uni negli altri in un vortice

di malessere… e Stefania scoppiò a ridere.

«Il Diavolo scappato da un sogno! Tommy mi prenderà in giro a vita.» Don-

dolava avanti e indietro, con l’aggiunta di altre fitte alla pancia, perché era come

fare gli addominali.

La sveglia suonava da parecchi minuti, quando Stefania la staccò. Fece una

rapida doccia. Tolse il beccuccio al phon, testa in giù e asciugò i soffici capelli

biondo cenere, tranne per le punte, che lasciò umidicce ancora per un po’; spazzo-

la con le setole di cinghiale, cento colpi, prima con la destra, poi, quando sentì ap-

pesantirsi la muscolatura del braccio, con la sinistra; la piastra concluse

l’elaborata opera di preparazione. I capelli erano l’unica parte di se stessa di cui

avesse cura, ma solo perché piacevano a Tommy. L’unica. Infatti, per il resto,

sprazzi di smalto nero persistevano sulle unghie rovinate; l’acne abbondava sulla

fronte; le occhiaie cerchiavano le iridi d’argento. Del resto, diceva Stefania, se la

scuola massacra tutti, se anche le compagne vivevano un’adolescenza simile, per-

ché indossare una maschera di trucco come Rosa Fortunato e le sue amiche? Infilò

la prima maglietta nera trovata in cima a una pila di altri indumenti neri accatastati

dentro l’armadio, una felpa nera e i jeans neri della sera prima. Le piacevano altre

tinte; però quelle rare volte che si addentrava in un negozio di abbigliamento, tra

lo scegliere qualcosa di bello e qualcosa di comodo, tra qualcosa di comodo e

qualcosa di economico, trovava puntualmente il compromesso in qualcosa di nero.

Una casualità, spiegava lei.

Sistemando le tasche dei pantaloni, si ritrovò fra le mani una banconota da

cinquanta euro. La studiò per qualche istante, e la ricacciò dentro.

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«In ogni caso, ormai è fatta.» Gesti rabbiosi piegavano le coperte, che poi

Stefania appoggiò sul bracciolo del divano. «È così e basta. È così e basta. È così

e basta.»

No, Stefania non era talmente povera da dormire sul divano, ma sì, dormiva

sul divano, e risparmiava quanto possibile per comprarsi un letto, un letto vero!

Tommy e i suoi genitori provavano a sostenerla nelle spese giornaliere, cosicché

lei potesse raggiungere in fretta il proprio obiettivo. Ma Stefania rifiutava per or-

goglio, costringendosi ad affrontare la più dolorosa delle conseguenze. E cioè, o-

gni volta che si stendeva, che si sedeva o solo si avvicinava a quel divano, delle

immagini tanto nitide da sembrare dipanarsi nel presente la conturbavano: lei che

rideva e piangeva insieme, lei che rovesciava il materasso, lei che saltava sulle

doghe del letto, lei che sanguinava dalle caviglie. Anche l’alito che puzzava

d’alcol riesumava guastandole l’umore. Dapprincipio aveva proposto di ricom-

prarglielo; tuttavia, riprendendo l’argomento, lei disse: «Ancora non l’hai ordina-

to? Sei svogliata! Hai bisogno di un prestito? Si dorme bene sul divano, vero, a-

more?»

Finito di prepararsi, Stefania si sporse in cucina, scontrandosi contro lo stesso

aroma di vino frammisto a muffa che impregnava mezzo corridoio. Era l’odore di

sua madre, ed era ripugnante. «Allora io vado.»

Marta sorseggiava il caffè guardinga come un cerbiatto nel ruscello. La pelle

ruvida e i capelli crespi lasciavano intendere che lo stress l’avesse devastata. Per

rimediare, si faceva le lampade: ma non l’abbronzavano, la strinavano. Alla gente

bastava sapere che fosse disponibile.

Udito il saluto di sua figlia, Marta raddrizzò la schiena. Sollevò le sopracci-

glia con un gesto teatrale, e Stefania, che a ciò era abituata, cominciò a spiegare:

«Non era niente, prima… solo un incubo.»

Le pupille oltre il bordo della tazza traboccavano di rancore. L’aveva distur-

bata il trillo incessante della sveglia? Stefania l’avrebbe preferito alla verità. Una

busta da lettere strappata stava appoggiata di fianco al lavello. Il destinatario: Ste-

fania Vitali. Il mittente: il padre che non aveva mai conosciuto. Ogni mese le spe-

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diva 250 euro. Marta li intascava e Stefania taceva, perché erano come un affitto.

Stefania pagava una tassa per vivere.

«Sei molto… elegante.»

Marta indossava, infatti, un provocante abito rosso.

«Non sai perché? Sicura che non te lo ricordi?»

Che sua madre avesse trascorso la notte fuori era la norma. Cosa dimentica-

va?

«Oddio, scusa m-mamma. Tanti auguri.»

«Mi offende che non te lo sei ricordata, amore» ringhiò Marta, tentando di

non esplodere.

«No, no, aspetta un secondo, m-mamma, è che ho dormito male…»

Stefania stava per tornare in camera a prendere il regalo, quando sua madre

ne perdette il privilegio, colpendo il punto debole della figlia. «Lascia stare. Piut-

tosto, sarà il caso di vedere uno specialista per quel difetto di pronuncia, o è la

scuola che non ti insegna a parlare?»

Stefania si studiò la punta degli scarponi incrostati di fango. «Perdo la corrie-

ra. Posso andare?»

«Me lo devi anche chiedere? Tanto fai sempre quello che ti pare!»

Schizzò sulle scale, saltò un cane che le abbaiava contro e corse fin dentro

l’autobus, con lo zaino che cercava di rallentarla, come se il suo vero scopo fosse

di farle perdere le lezioni, di farle smettere di studiare e imprigionarla in uno

squallido appartamento che avrebbe ereditato il giorno in cui avesse trovato sua

madre affogata nella propria bile.

A completare la giornata no, i posti erano tutti occupati. Stefania sedette sugli

scalini. Aveva un’emicrania da offuscare i sensi.

«Dove sei? Dove cavolo ti ho messo?» Frugò tra i libri e i quaderni, dentro

l’astuccio e nelle tasche. Trovò ciò che bramava nell’ultima zip in basso: una bu-

stina trasparente, dentro cui sbatacchiavano delle pasticche giallognole, grandi

quanto pinoli. Stefania ne ingoiò una senz’acqua.

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L’autobus tagliò le campagne ghiacciate. Lasciato il mare alle spalle, salì sul-

le colline di Spondai, puntando a ovest verso le montagne dalle cime invisibili. La

nebbia era fitta come un batuffolo di cotone. Gli alberi nodosi apparivano

all’ultimo momento come appiccicati sullo sfondo. Le curve cieche, la scarsa ve-

getazione che costeggiava le linee dell’asfalto e il grigiore da cui era avvolto da-

vano a quel luogo un ritratto spettrale. Stefania detestava Spondai e detestava i

suoi abitanti, come la ragazzina accanto che la guardava sgomenta.

Dopo meno di cinque minuti, i muscoli si sciolsero e, col calore che scendeva

dall’attaccatura dei capelli, si rilassò. Nulla aveva importanza: sua madre, suo pa-

dre, quei volti sconosciuti. Tutto era passato.

Scese dall’autobus per prima. Fuori dalla nuvola, il cielo era sereno, ma il

freddo entrava nelle ossa. Stefania fece uno squillo a Tommy. Lui non rispose. Al-

lora gli scrisse un messaggio:

CG, arrivo. Ho fatto un sogno da brividi. Poi mi dici che ne pensi?

P.S. Spero che non ti sia impensierito troppo… lascia pensare gli esperti!

Se non fosse stato perché c’era stata mille volte, l’arco di mattoni, che Stefa-

nia attraversò, sarebbe passato inosservato, protetto da una striscia di caseggiati.

All’interno della breve galleria, deturpata dai graffiti, campeggiava un’insegna ar-

gentata: CASTEL GENTILE. Alla luce, l’asfalto si interrompeva su una piazzetta

di ghiaia, delimitata da palazzine dal sapore antico. Nessuno ridipingeva le faccia-

te da un decennio, per cui le case sembravano inviolate da secoli. Schiere di panni

congelati pendevano simili a stendardi sulle teste dei clienti, i quali salutavano le

vecchine appostate sui balconi come avvoltoi. Nonostante la temperatura, giub-

botti imbottiti, sciarpe multicolori e cuffie lanose riempivano i tavolini. Il ciangot-

tio assomigliava a quello dei pettirossi in primavera. Per raggiungere l’ingresso,

Stefania dovette fare lo slalom.

Niente era più medievale di Castel Gentile, dicevano le guide turistiche: due

palazzi in pietra, la fortezza e la sua torre. L’alone soffuso delle candele vibrava in

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tutte le stanze. Il corridoio dava su una vecchia cucina, adesso un bar, dov’era in

corso una sommossa popolare per fare lo scontrino. Dai forni saliva il profumo di

pasta sfoglia, che sovrastava quello dei caffè. Un oblò mostrava la vita nel salone,

più lungo che largo: alcuni pregavano davanti al televisore; un signore appendeva

i quotidiani su un’asta, ma in tre secondi furono conquistati; il fuoco scoppiettava

nel camino, scaldando le natiche di alcuni ragazzini che benedivano i fedeli di sa-

liva. Una bacheca istoriata con quadretti, fotografie e annunci narrava la storia e le

prospettive future del locale. I prezzi erano a buon mercato, peccato che fossero

comunque troppo alti per Stefania.

Quel giorno non aveva altra scelta che andarci. Lo doveva a Tommy. Ma non

le interessava cosa le avesse fatto male la sera prima. Era successo e basta.

La cassa funzionava a singhiozzo e molti se ne lamentavano, come se le im-

precazioni fossero formule magiche per riparare il guasto. Alzandosi sulle punte

delle gambe corte e arcuate, ma muscolose, Stefania intravide la cassiera con una

scorza d’arancia per capelli gesticolare. Ripeteva senza sosta: «Per favore, un at-

timo di pazienza.» Dopo alcuni minuti, la fila ricominciò a muoversi.

«Cos’è successo?» sussurrò Stefania.

«Che la cassa si è rotta» rispose Celia con un sorriso tirato. «Cornetto e cap-

puccino? È venuto il tecnico prestissimo. Però, cioè lo sapevo perché è già suc-

cesso, va a singhiozzo. Uno e venti, Stefi. Bisogna segnare tante cose a mano.»

«Sarai stanchissima» disse, notando i solchi bluastri sotto le orbite.

Abbassandosi come per rivelare un segreto, Celia, allo stesso volume di Ste-

fania, disse: «Una voleva pagare il caffè con la carta di credito, solo che la carta di

credito era scaduta. Ci ha fatto credere che era colpa nostra, ti rendi conto? Biso-

gna portare pazienza.»

«Aggiungi un caffè. Se non ti pesa.» La voce sarcastica, ma familiare, appar-

teneva a Tommy, il migliore amico di Stefania. Il cappuccio tirato su, l’aria seve-

ra. Strappò lo scontrino dalle dita di Celia e sbatté cinque euro sul banco.

«Se mi paghi qualcos’altro, diventerai povero come me. Poi saremo costretti

a fare i clown al circo» disse Stefania.

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C’era un’idea che Monolith sosteneva, e cioè che la droga elimina ogni onore,

cosa che ripeteva ogni volta che doveva vendere un sacchetto di cocaina al politi-

co di turno. Stefania se lo ricordò, non senza un moto di disgusto per se stessa,

benché attenuato dall’ansiolitico in corpo, nell’istante in cui infilò la mano in ta-

sca e agguantò i cinquanta euro. Si giustificò tutto d’un fiato: «È un momento un

po’ così.»

«Paghi colazioni e…?» E siccome Celia non usciva mai da Castel Gentile, e

l’unica occasione per parlare con Stefania era quel breve incontro di mattina, e de-

siderava evitare che si spargesse la voce su come arrotondava lo stipendio (o che

qualcuno ricordasse la brutta storia in cui si era cacciata anni prima), aveva un so-

lo modo per rammentarle di dover ancora pagare l’ultimo rifornimento di Placo.

«Sì. Scusa, Tommy, davvero.»

Il ragazzo non rispose e si spostò di lato per ricevere la tazzina. La vista della

banconota gli aveva dato da pensare, tanto che aveva ignorato ben tre pacche sulla

schiena, cinque «Buongiorno Tommasetti» e un «Fate largo, è arrivato Batman.»

«Come va?» chiese brusco, dopo che l’amica ebbe riposto il portafoglio nello

zaino.

«Bene, credo.»

«Ti ha riaccompagnata il professore.»

«Mi prendi in giro?» Tommy era fin troppo serio. «Mi ha riaccompagnata il

professor Gentile? Sono un caso così disperato? Strano che m-mamma non abbia

fatto storie. È lui il mio bancomat magico, allora?»

«A quanto pare.»

La freddezza di Tommy non la spaventava: al contrario, rafforzò l’affetto che

provava per lui, una tendenza a prendersene cura simile a quello che gli altri

chiamavano istinto materno, ma da cui differiva a causa dell’immaturità che ac-

compagnava quei sentimenti. Gli scostò il cappuccio e gli sistemò il ciuffo spetti-

nato. «Quindi tu hai dormito qui?»

«È stato inutile. Non l’ho preso.»

«Chi, stavolta?» C’era sempre qualcuno da combattere.

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«Il ladro di via Leopardi» disse Tommy con la voce rotta dalla stanchezza.

«Dove c’è la biblioteca? E cos’ha rubato? Libri, elementare» scherzò Stefa-

nia, imitando due voci mascoline.

«Non me l’hanno detto e non chiedermi perché.»

«Perché?»

«Sei una deficiente.»

«E tu hai la faccia da scemo.»

«Dico sul serio.»

«Anch’io!»

Tommy immerse il naso nella tazza. Nascose il cipiglio a malapena.

Stefania provò varie battute dentro di sé per rompere il ghiaccio, ma più il si-

lenzio si ampliava, più l’impresa le diventava ardua. Alla fine prese coraggio.

«Devo aver bevuto qualcosa…»

«Ma ti pare il caso di fare certi scherzi?» strillò Tommy.

Un bambino appiccicato al bancone scappò con la coda fra le gambe, creden-

do di essere la vittima del rimprovero.

«Non ci ho fatto apposta!» disse Stefania.

«Questo è ovvio!»

«E allora perché cavolo urli?»

«Perché ero preoccupato!»

«Quanto sei carino…»

«Sei proprio una deficiente.»

«Hai proprio la faccia da scemo.»

Tommy incrociò le braccia e ruotò gli occhi su un bicchiere il cui fondo ave-

va appena sbattuto sul bancone. Non aveva mai confidato a Stefania perché cer-

casse il proprio riflesso su ogni superficie. E lei, dopo i primi fallimentari tentati-

vi, aveva rinunciato a indagare. Lui era un massiccio contenitore di verità incon-

fessabili. («Fidati, Stef, certe cose non le vorresti sapere.») Con estrema cautela,

spostò lo sguardo sulla finestra, come se una voce che non sentiva da secoli lo a-

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vesse chiamato. Tommy invecchiò di sessant’anni in un colpo. Era un anziano che

a ripercorrere gli eventi della sua esistenza provava pena per se stesso.

Stefania lo baciò sulla guancia. Tommy corrucciò le labbra, raddolcito. «A-

scolta bene le mie parole, perché non le ripeterò una seconda volta: sono uno

stronzo.»

Un istante di silenzio, un istante di tensione; l’eternità dell’amicizia. Scoppia-

rono in una fragorosa risata, come complici di uno scherzo ben riuscito. Risero di

quanto fossero buffi… risero delle proprie risate…

«Non ricordo perché stiamo ridendo» ammise Stefania dopo un po’.

A poco a poco la risata di Tommy si affievolì. Stefania lo imitò, dapprima

preoccupata. «Spostati laggiù nell’angolo» le disse Tommy.

Stefania guardò oltre la spalla. Un uomo coperto da un lungo pastrano e un

ampio cappello pagava la colazione. Nulla di interessante spiccava in lui, tranne

una sporgenza nello zaino dietro la schiena.

«Guarda quanta gente» ribatté lei. «Non puoi aspettarlo fuori?»

Non poteva aspettarlo fuori. Tommy fece segno agli avventori di spostarsi, i

quali, Stefania compresa, indietreggiarono e sparpagliarono la fila. «Chi te lo fa

fare?», «Ricominciamo con le risse», «Faccio tardi a lavoro» erano alcune delle

proteste che si levarono dalla folla.

Dopodiché il silenzio calò su Castel Gentile.

L’uomo col pastrano restò inerte con lo scontrino in mano.

«‘Perché stiamo ridendo.’ È un bel quesito, Stef» cominciò Tommy. «Un cri-

stiano ruba chissà cosa da una delle casseforti più sorvegliate della regione. Ma

non scappa col bottino, no. Prende una stanza. Fa una notte di riposo. E la mattina

dopo scende pure al bar a bersi un caffè. Divertente, no?»

L’uomo col pastrano piegò lo scontrino sulla metà e lo appoggiò a lato della

cassa. Poi, voltatosi verso Tommy, sistemò le falde del cappello, un gesto che

sfruttò per studiare l’avversario.

Seccato dalla calma del ladro, Tommy estrasse una torcia arancione dalla ta-

sca dei pantaloni. Con un colpo impercettibile del pollice, l’accese e gliela puntò

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addosso. Eppure, in quel momento, il volto più luminoso del locale apparteneva

proprio a Tommy. Spense la lampadina e la ripose nei jeans.

«Ti hanno mangiato la lingua?» lo provocò Tommy.

«Sei quel ragazzo famoso per essere uno stupido, quello che si crede

l’invulnerabile giustiziere.» Si sforzava di parlare con un tono cupo e

all’apparenza senza accento. Malgrado ciò in esso convergevano una miriade di

amicizie e culture e civiltà.

«Sculaccio chi se lo merita e Spondai chiude un occhio. Molto piacere, Ma-

nuel Tommasetti. Tu saresti…?»

«Sono certo che la tua forza sia superiore alla mia…»

«Arrossisco.»

«… quindi arrivo al punto. Devo parlare col professor Gentile.»

«Il classico ‘Portatemi dal vostro leader’ di chi sa di non avere chance. Ho

un’altra proposta. Che ne dici di giocartela in una corsa all’ultimo sangue verso la

libertà? E se invece inciampassi e il mio pugno finisse accidentalmente sul tuo na-

so? E se invece ti legassi e chiamassi la polizia? E se invece… chi ha un’idea?»

Stefania aveva combattuto per soffocare le risatine, ma arrivata a questo pun-

to non riuscì a contenersi.

«Insisto» disse il ladro, senza distogliere lo sguardo da Tommy. «O tu o la

cassiera carina. Se il professore è indisposto, andrò io stesso da lui. Ma ignoro la

strada. Accompagnami. Dopo, fai di me ciò che preferisci.»

«Perché gli vuoi parlare? È per vendergli una ricetta rubata? Sono in difficol-

tà, devi darmi un indizio. Uno piccino piccino?»

«Chiama Pietro Gentile, perdio!» sbottò il ladro.

Si levò un coro di protesta da parte delle donne più religiose. Altre si lascia-

rono sfuggire un: «Era ora!» Tommy parve compiaciuto di quello scatto.

«Gli ho mandato un messaggio» disse Celia, che boccheggiava da quando si

era sentita chiamare ‘carina.’

Il professor Gentile non si mostrava mai in pubblico. Tommy e Celia lo cono-

scevano di persona. Stefania, invece, come molti altri, non lo aveva mai incontra-

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to, né lo aveva visto in foto. Talvolta si scherzava sulla sua stessa esistenza. Il pro-

fessore conosceva Stefania, l’aveva riaccompagnata a casa e le aveva elargito cin-

quanta euro. E se fosse stato un prestito, il suo? Quando il tacchettare delle scarpe

che risalivano la scala delle cucine echeggiò nel salone, Stefania trattenne il respi-

ro.

«Non viene?» gli chiese Celia.

Nonostante l’uomo portasse un paio di occhiali scuri, la pelle intorno raggrin-

zì, muta comunicazione di disprezzo verso Celia e verso la sua stupida domanda.

Il professor Gentile, che era l’unico a dargli fiducia, delegava la maggior parte

delle responsabilità a Ettore Croce. Pur avendo un fisico giovane e atletico, l’aria

di una persona accanita contro l’universo ne celava la bellezza. Tommy asseriva

che durante un allenamento gli si era incastrato un pallone nel didietro, e dava

proprio quell’impressione. Non c’era da stupirsi se aveva cambiato tanti lavori:

volontario di Amnesty International, supplente di italiano, assistente cuoco, vice-

allenatore di rugby, e tanti altri.

Croce prese a srotolare una corda. «Misure di sicurezza.»

Il ladro alzò le mani, intendendo che non aveva da controbattere. Ne approfit-

tò per accostarglisi all’orecchio. Un colpo di tosse intempestivo negò al pubblico

di carpirne le parole.

Una volta assicuratolo alla seggiola, Croce gli sollevò il borsalino nero. Il la-

dro era in realtà un biondino suppergiù dell’età di Stefania e Tommy. Croce spaz-

zò la polvere dal cappello e glielo ripose con gentilezza in testa. Poi aprì lo zaino.

Il suo corpo impediva agli altri di vedere cosa contenesse. Lo richiuse e diede al

ragazzo una pacca consolatoria sui polsi legati. «Celia, chiama i carabinieri.»

Un telefono squillò. Croce si spostò in mezzo alla stanza, in un punto da cui

potevano vederlo anche coloro oltre l’oblò, e lesse il messaggio che gli era arriva-

to. «Il professor Gentile vi pone i suoi ‘vivi complimenti per l’ineguagliabile fer-

mezza e coraggio che avete dimostrato negli ultimi minuti.’»

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Tutte le teste si alzarono verso le telecamere di sorveglianza. Delle studentes-

se salutarono; una ben nota cricca di anziani sdentati e rumorosi rovesciarono le

carte da gioco sul tavolo e intonarono: «Fatti ve-de-re!»

Croce continuò: «‘E altrettanti complimenti all’amico Manuel, che per una

volta ci ha risparmiati di un inutile pandemonio.’ Ora tornate alla vostra colazio-

ne.»

Uno scroscio di applausi riempì Castel Gentile.

Tommy aiutò Croce a trascinare il ladro in un angolo, permettendo alla fila di

ricomporsi. La vicenda era strana e nessuno dei nodi era stato sciolto. Ma avrebbe

rappresentato il fulcro di molte discussioni per i giorni a venire: tanto bastava agli

abitanti di Spondai.

«Si è arreso facilmente, caro e per nulla guerrafondaio amico Sir Charles, non

trovate?» disse Stefania con accento inglese.

«Già» sbuffò Tommy, riavvicinatosi a lei.

Stefania salutò Celia, dopodiché seguì Tommy all’aria aperta. Scesero le sca-

le illuminate da una scia di fiori odorosi. Tommy staccò un petalo da un gelsomi-

no giallo, lo confrontò con i capelli di Stefania e disse: «Sì, credo che lo regalerò a

papà.» E giù a ridere come matti.

«Un secondo, Manuel!» Croce procedeva a passo rapido. Raggiunti i due ra-

gazzi, tolse gli occhiali da sole, mostrando iridi come zaffiri. «È notevole quanto

le assomigli» disse con un moto di sorpresa.

«A chi?» domandò Stefania.

«A… a sua sorella, naturalmente.»

Stefania l’aveva vista in foto. Né Tommy né i suoi genitori le avevano mai

fatto notare la somiglianza. Allora le sovvenne: “Oggi non è solo il compleanno di

m-mamma, oggi Tommy non è solo spaventato per me.”

«Allenavo la squadra di Manuel» disse Croce, incapace di distogliere lo

sguardo da Stefania.

«Sì, mi ha accennato qualcosa…»

«Ad ogni modo» schioccò la lingua, «ben fatto.»

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«Eh sì, ogni tanto capita» rispose Tommy.

«È stato un piacere conoscerla, finalmente» disse Stefania per smorzare la

tensione. Si congedò da Croce con un sorriso cortese. Poi strinse la mano di

Tommy e lo trascinò via da quella scomoda discussione. Superarono l’arco. Di

fronte a loro si stagliavano la valle di Spondai e il mare grigio.

Alla luce, Tommy apparve più vigoroso, nonostante l’aria sinistra lo imbrut-

tisse. La mascella squadrata incuteva timore a chiunque… tranne che a lei. Le i-

spirava fiducia. Con lui intorno sarebbe stata sempre al sicuro.

Tommy l’abbracciò. No, si stava aggrappando. Stefania passò le braccia sotto

le sue, e appoggiò la testa al petto. Gli sentiva il cuore galoppare.

«È solo una giornata storta, non ti preoccupare» disse Tommy, come leggen-

dole nel pensiero. Dopo un lunghissimo silenzio, aggiunse: «Basta una parola, e

faccio portar via tua madre.»

«Cosa c’entra?»

«Hai riso tutto il tempo.»

«Perché mi fai ridere!»

«Quella schifezza che prendi ti fa ridere.»

Per quanto avrebbe voluto tirargli uno schiaffo, Stefania rispose: «Finirebbe

come l’ultima volta.»

Sarebbero rimasti abbracciati tutto il giorno, se non avessero udito levarsi un

gran tramestio dal cortile di Castel Gentile. Sedie e bicchieri scrosciarono sulla

ghiaia. Di corsa, il ladro della biblioteca sbucò da sotto l’arco, con la sedia ancora

attaccata al sedere. La mandò in frantumi contro un muretto e, libero, rallentò il

passo per mescolarsi fra la gente. Quando Croce e due camerieri apparvero lancia-

ti all’inseguimento, il ladro accelerò e si diede alla fuga.

«Mi oppongo! Ognuno è artefice della sua fortuna. No, che succede? I miei

piedi si muovono da soli…» Tommy lanciò un bacio a Stefania e si unì alla rin-

corsa del giovane criminale.

Mentre sparivano dietro una curva, a Stefania parve di scorgere un’ombra che

la spiava dal di là di un albero. Studiò il tiglio che se ne stava colpevole con le

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mani in alto. Però oltre l’arbusto non c’era nulla. «Suggestione, colpa di quello

stupido incubo» disse. Udire la propria voce la tranquillizzò. Andava tutto bene.

Filò a scuola. La prima ora aveva religione. Inutile, prima sperava in Dio, ora

neanche quello. Se non altro, poteva ripassare italiano. Stefania frequentava il li-

ceo linguistico, in una moderna struttura dove i laboratori non funzionavano, i

professori ripetevano quanto scritto sui libri e si studiavano più le materie umani-

stiche che quelle di indirizzo. Era una scuola che o ti levava ossigeno al cervello o

ti rubava i sogni. Stefania aspirava a imparare una lingua straniera, una qualsiasi,

così da poter scappare dall’Italia senza difficoltà. Invece le sembrava di non impa-

rare niente: ciò che conosceva d’inglese, lo aveva appreso guardando Artù di Lei-

cester in lingua originale con Tommy.

Lei era la classica studentessa che vive di rendita. All’ennesimo sei in mate-

matica, improvvisò un balletto. La professoressa di italiano la interrogò per la

quarta volta in due mesi; le chiedeva sempre dell’Ariosto: ormai lo sapeva a me-

moria. Quei giorni si respirava un’aria tesa. Il quadrimestre stava per finire: i

compagni di classe vivevano le ultime verifiche come un gioco a eliminazione.

Unico obiettivo, far colpo sui genitori. Marta non andava mai ai colloqui. Era tan-

to se ricordava quale anno frequentasse sua figlia. E i professori? Appresa la si-

tuazione familiare, commiserarono l’alunna a labbra strette.

A ricreazione, Stefania fece la ronda dei corridoi. Tommy non si vedeva da

nessuna parte. I compagni di classe le confermarono che non si era presentato.

Aveva persino staccato il telefono. Poiché il professore di filosofia borbottava an-

ziché spiegare, Stefania si isolò dal mondo e passò le ultime due ore a scaraboc-

chiare ali d’angelo sul banco. Ricordavano piuttosto la forma di un cuore squar-

ciato da una voragine. Pensava: “E se l’inseguimento fosse finito male? E se non

lo rivedrò mai più?”

Intanto, l’ombra non si dileguava. Insisteva a spiarla da dietro un pino, se a-

veva la capacità di vedere. Era una macchia di catrame, quel catrame che impre-

gnava l’umore, e che era zampillata lontano, perché nessuno riesce a contenerne

così tanto senza perderne un po’ per strada.

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Suonata la campanella, Stefania ingoiò una pasticca di Placo, saltò il pranzo

per mancanza di fondi e tornò a Spondai Bassa. Ai tempi di Monolith e dei primi

spinelli, quando erano amiche, Celia le avrebbe passato un tramezzino sotto ban-

co, ma non adesso che il suo cuore batteva solo per il lavoro.

Scesa dall’autobus, Stefania svoltò a piedi su una stradina di campagna, sul

cui lato stava il cartello SCUDERIA BELLI: un corridoio impregnato di tutti que-

gli odori che se per un estraneo erano puzza, per lei erano casa. Maurizio faceva

un pisolino in bilico sul bordo del divano. Stefania entrò in casa sulle punte per

evitare di svegliarlo. Appoggiò le sue cose, agguantò un pacchetto di cracker, mi-

se a tracolla una sacca di stoffa verde oliva con gli strumenti da lavoro e si diresse

verso la stalla, dove i cavalli nitrivano impazienti.

Spalancò tutte le porticine insieme. L’eco di uno scalpitio fragoroso viaggiò

in ogni direzione: era l’urlo di gioia dei prigionieri che assaggiavano l’effimera

libertà quotidiana. Da quando Franco Belli aveva lasciato il maneggio a suo figlio

Maurizio, la gestione era diventata rigida. Non c’era futuro: solo un porto lontano

dall’abisso. Stefania ne soffriva, così s’impuntò per poter almeno trattare i cavalli

secondo le regole di Madre Natura. Li lasciava correre liberi, giocare in gruppo,

mangiare e bere con la testa bassa per il resto del pomeriggio, invece di costrin-

gerli a rifocillarsi a orari stabiliti su una mangiatoia posta troppo in alto.

Nel frattempo, lei puliva i box. Meglio spalare il letame che stare con sua

madre. La paga non era granché, ma se risparmiava sulle pasticche, quel misero

stipendio le bastava. Lavorava in nero, e così sarebbe stato nei secoli e nei secoli.

Anche se si trattava di un lavoro sporco e puzzolente, a Stefania piaceva prendersi

cura di qualcuno che la rispettava.

Li chiamava uno alla volta per nome. Il cavallo di turno correva dalla sua par-

te e le scalpitava intorno, finché lei non prendeva un guanto soffice e con questo

lo accarezzava in quelli che aveva scoperto essere i suoi punti preferiti. Dopo a-

verlo aiutato a rilassarsi, Stefania pettinava la criniera con una grossa spazzola, li-

sciava il manto, infine la coda. C’erano voluti anni per impratichirsi. Persisteva il

rischio di fargli male; l’importante era dimostrarsi sicuri.

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Finito di curare il quinto cavallo, una tremenda stanchezza l’assalì. Ma rima-

neva una giumenta da pulire. Solitaria dentro al box con gli zoccoli infossati sulla

montagnetta di paglia, cosa che la faceva sembrare altissima, una lunga cicatrice a

forma di mezzo sorriso sul lato sinistro che tagliava il mantello grigio, teneva le

orecchie dritte e attente, esibendo una rigidezza regale. All’arrivo di Stefania, vol-

se il muso da una parte, offesa, e la lunga criniera intrecciata sferzò come una fru-

sta.

Stefania tentennò. Poi però, decise di seguire il cuore, un cuore colmo

d’amore. Le solleticò il muso, e una seconda volta l’accarezzò più decisa.

L’andalusa emise un nitrito acuto e terrificante. Ma le orecchie in tensione la tra-

dirono. E Stefania, accostatasi a una di queste, disse: «Lo sai perché ti ho lasciata

per ultima.» Finse di controllare che nessuno le spiasse. «Passeggiata?»

La cavalla saltò fuori dalla paglia, che si disperse come una tempesta di polli-

ni, e sgroppò dalla felicità per tutto il recinto.

Stefania l’aveva trovata ferita e abbandonata in un sentiero quando aveva un-

dici anni. Talvolta la rivedeva in sogno, adagiata sul terriccio, il sangue che sgor-

gava dal fianco, il gemito pieno di contegno che emise incontrando gli occhi della

bambina. L’andalusa ebbe la forza di alzare il muso e spingerla via. Stefania non

si arrese, rimase con lei fino al sopraggiungere dei soccorsi, durante la guarigione

e da allora per sempre. La chiamò Alma, da Alma mater, madre nutrice. Perché

era più che una semplice giumenta. Perché facevano più che semplici passeggiate.

Alma la cresceva e la nutriva d’amore. Nonna Helena era convinta che capisse il

linguaggio umano. Diceva che nella cicatrice era incastonato un cristallo magico,

e proprio per questo gli altri animali la tenevano a distanza. A Stefania infastidiva

quella fantasia: «Possiamo apprezzare un cavallo intelligente per la sua intelligen-

za anziché cercare una stupida spiegazione?»

Da giovane, nonna Helena era stata fidanzata con Franco Belli. In virtù della

lontana passione, bastarono poche buone parole per stringere il patto che salvò le

vite dell’andalusa e di Stefania. All’inizio, lo stipendio finiva nelle cure di Alma.

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Tuttavia, quando dopo trent’anni Helena gli confessò di averlo sempre amato, il

signor Belli aumentò la paga.

Il cielo si tinse di rosso e uno spicchio di sole lumeggiò la punta delle monta-

gne. Mentre Stefania finiva di pulire Alma, un’ombra minacciosa si allungò su di

loro. Qualcuno zoppicava con una furia tale che d’istinto Stefania alzò le braccia

per proteggersi.

Allo scalpiccio della bestia, che si acquietò, succedette l’ansare di un ragazzo.

Stefania sbirciò oltre il gomito. Appoggiato a una stampella, Tommy frizionava la

caviglia e tirava il fiato.

«Nessun commento» disse lui. «È così e basta, no?»

Stefania provò un tuffo al cuore. Non avrebbe commentato. Non si sarebbe

arrabbiata. Ma aveva provato una paura tremenda. Perciò si lanciò al suo collo e

lo abbracciò stretto.

«Che problemi hai?» urlò Tommy, soffocando.

«E tu che le provi tutte per farti ammazzare?»

«Spostati, mi faccio un giro con Alma. Dove hai buttato la sella?»

Il tono la sorprese e la deluse. «Anche se ti sei fatto male, non è giusto che mi

parli così.»

«Era ora che mostrassi un po’ di carattere! No, è solo che non ti piace sellarla.

Tutto quello che t’importa è lasciare libera una dannata cavalla e sballarti con

chissà che ti rifila quella drogata di Celia. Io ti tratto da schifo e tu te ne stai lì im-

palata con quello sguardo da pesce lesso.»

«Tommy!» lo riprese Stefania. «Lo so che giorno è oggi: me l’ha detto tua m-

madre.»

«Fidati, Stef, tu non sai un bel niente.»

«C’entra quello che ha detto Croce? Che le assomiglio?»

Tommy urlò a pieni polmoni e scaraventò le stampelle il più lontano possibi-

le. I cavalli, Alma compresa, nitrirono dallo spavento.

«Tommy» ripeté Stefania. «Va meglio ora?»

«Non è che… ascolta… Stef, potrei venire con voi due?»

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Anche se aveva già deciso, Stefania finse di pensarci su. Poi cavò uno zuc-

cherino di tasca e lo infilò tra i denti di Alma. «Sarà matto, ma è un bravo ragaz-

zo» le disse. «Tommy, scusati con lei, mentre la sello. Niente testiera, però.»

Maurizio Belli li raggiunse di corsa. Per le orecchie a punta, i denti sporgenti

e la carnagione livida assomigliava a una iena. Il viso glabro era l’unica parte pu-

lita del corpo, perché il resto era tutto sporco di terra. Parlava sputacchiando e non

riusciva a star fermo.

«Ehi, dove credete di andare? Ti ricordi quei lavoretti extra?»

«Cosa? Non mi avevi detto niente» rispose Stefania, agitando il laccio di cuo-

io che stava legando.

Maurizio balbettò qualcosa di incomprensibile.

«Rimango se ti va» disse Tommy a Stefania.

«Rimani? Ci saranno dei problemini. E poi, Stefi, sarai troppo impegnata.»

«Non mi dà fastidio, anzi. Avrò un aumento?» chiese Stefania.

«Aumento…» ripeté Maurizio, come soffocando. Lanciò un’occhiataccia ran-

corosa a Tommy. «Hai la sera libera» Ruotò i tacchi e si allontanò calciando la

polvere.

Tommy montò in sella per primo. Infilò le scarpe da tennis nelle staffe, ma ri-

trasse con un sibilo quella che gli stava più larga, e la lasciò penzoloni.

«Yee-haw!» gridò lui, dopo aver sentito la testa di Stefania premere tra le sue

clavicole. Poiché Alma non si muoveva, scosse la criniera come una redine. «Ce

l’hai con me per prima? Non farmi fare brutta figura con lei, lo sai che mi prende

in giro. È cattiva!»

Stefania sghignazzò. Colta da un eccesso di bontà, premette le cosce

sull’addome bianco sporco. Alma partì al comando.

«Hai visto? Ci sono riuscito senza redini! Ah ah, alla faccia vostra.»

«Complimenti, un campione dell’ippica» disse Stefania.

Insieme trottarono via dal maneggio, salirono sulle morbide increspature delle

colline e sfrecciarono tra le file di pannelli solari. Cavalcarono un po’ senza parla-

re. C’erano solo il clop clop di Alma e il ronzio soffocato dei lavoratori che torna-

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vano a casa. Le montagne al crepuscolo, le prime stelle, Venere. Il grigio che la-

sciava posto all’arancione, al rosa, al viola, al blu. E lassù, in cima alla collina, la

luce dell’uomo. Spondai. Il suo mondo era davvero ‘così e basta’?

«Tutto ciò mi fa pensare» disse Tommy.

«Bravissimo!»

«Guarda che ti disarciono! Pensavo, qual è il tuo sogno?»

«Che domanda scema, lo sai già.»

«Sarai tu scema. Intendo quello vero: se guardi in profondità, cosa vedi?»

«Prima il tuo.»

«Questo» rispose lui. «Tocca a te.»

«Questo cosa? La settimana scorsa era: ‘Voglio ricominciare a giocare a

rugby.’ E quella prima ancora: ‘Voglio essere un budino volante.’»

«Stai temporeggiando.»

«Ho avuto un buon maestro! D’accordo, è che non lo so, non è una cosa con-

creta. Credo… una possibilità. Non ho scelto questa vita.»

«Nessuno se la sceglie.»

«Il passato fa schifo, il futuro… che futuro potrei mai avere? Però, ecco… per

una volta vorrei essere te. Non proprio te. Sai, quando ero piccola, io e Alma gio-

cavamo a salvare i fiori. Un’avventura del genere. So che non può accadere: non

sono in grado. Però, insomma, mi piacerebbe.»

«Vieni a vivere da noi. I miei saranno entusiasti.»

«Non posso, lo sai.»

«Vedi?» disse Tommy. «Rifiuti tutte le occasioni.»

«Non è che posso abbandonarla» disse Stefania più a se stessa che all’amico.

«Già» disse lui. «E quindi sei gelosa di me.»

«A volte.»

Tommy rise e Stefania gli rifilò un ceffone amorevole.

«Stef?» Aveva un tono grave.

«Sono qui.»

Lo sentì muovere la bocca, cercare le parole, ma non le trovò. «Niente.»

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Figuriamoci se voleva confessare di amarla! No, riguardava quanto accaduto

quella mattina, Stefania ne era sicura. Lei annuì strofinandogli la testa sulla schie-

na.

Voltarono a est, verso il maneggio. Da questa parte il bagliore delle fabbriche

che chiudevano e grattacieli consumati scolorivano la notte. Stefania e Tommy

non avevano più nulla da contemplare, perciò a lei parve il momento opportuno

per raccontare l’incubo sul Diavolo.

«Stef… hai sognato Artù di Leicester…»

«No, che non l’ho fatto.»

«Ieri… puntata ambientata a Roma… ricordi?»

«Okay, forse.»

«A cena hai detto che l’acqua aveva un sapore strano, e dopo un’oretta sei

svenuta. Devo proprio…» e qui le parole gli si strozzarono in gola, «dirglielo al

professore.»

Tommy ricevette un’altra botta.

«Idiota.»

Stefania non era amata da sua madre, non era amata da suo padre. Aveva solo

un amico, Tommy, che ogni giorno rischiava la vita per difendere la città. L’aveva

cresciuta una cavalla e l’aveva salvata un ansiolitico. Aveva una spacciatrice, un

tempo amica, ma ora distante. Aveva intorno persone che non sopportava. Lo sta-

tus quo regnava sul creato, e lei ci si era rassegnata. Ma grazie a coloro che ama-

va, Stefania restava in piedi. Trovava sempre un’occasione per ridere. Aveva di-

ciassette anni e questa era la sua vita. Questa era la sua idea di felicità.