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il parione 1 www.santospiritoperugia.it Direttore Resp. Bruno Brunori - Redazione:Via del Parione, 17 - 06121 Perugia - Tel. 0755720731 - Reg. Tribunale di PG n. 15/96 del 17-05-96 Stampa: Tipografia Artigiana - Via A. Fratti, 5/13 - Perugia - Spedizione abb. post. art. 2 comma 20/c - legge 662/96 - Filiale di Perugia Anno XXI n. 1 - Marzo 2016 - PASQUA-PENTECOSTE Periodico della Parrocchia di S. Spirito PASQUA: la fede che sfida la paura Pasqua dell’Anno della Misericordia Questo numero de Il Parione esce in oc- casione della Pasqua di Resurrezione dell’Anno della Misericordia Leggendo, troverete diverse nuove firme, soprattutto di giovani, che si affiancano agli “anziani” per raffor- zare e – naturalmente – ringiovanire questa redazione. e per sottolineare i messaggi e i valori che il Giubileo del- la Misericordia ci suggerisce. Questo anno Giubilare si celebra in un mo- mento drammatico caratterizzato da guerre, rivoluzioni, stermini, perse- cuzioni e che fa registrare colpevoli egoismi, che spingono governanti di paesi ricchi e fortunati ad alzare muri alle frontiere per bloccare le folle di disperati che fuggono dai territori mi- nacciati dalle orde demoniache e san- guinarie del cosiddetto Stato Islamico. A fronte di queste miserie umane, noi che facciamo parte di questa comu- nità parrocchiale dobbiamo renderci conto che Signore sta dimostrandoci un’attenzione particolare perché, attra- verso le scelte di Papa Francesco, sta premiando le nostre Guide Spirituali affidando loro grandi responsabilità: il Cardinale Gualtiero Bassetti e il no- stro don Saulo sono stati chiamati a far parte del Sinodo; il Cardinale Bassetti è stato anche incaricato di redigere il testo che verrà recitato nel corso della via Crucis, guidata da Papa Francesco, che si terrà a Roma il prossimo vener- dì Santo. Questa attenzione ci chiama a rispondere con devozione e gene- rosità agli appelli che ogni giorno il Pontefice rivolge al mondo per com- battere gli egoismi e far trionfare la giustizia e la pace. Che sia una Pasqua di Pace. Auguri! Bruno Brunori Si può pregare leggendo un articolo di giornale? O, anche, è opportuno che un giornale (anche se parrocchiale) riporti una Veglia di preghiera? Forse pensiamo che le parole della preghiera hanno il loro posto giusto solo nella Bibbia... O anche che un giornale, che ovvia- mente parla di cose e fatti “di quag- giù”, non sia adatto a contenere paro- le “di lassù”... Ecco invece la provocazione: mette- re accanto alla storia “di quaggiù” Grazie alle nostre suore che hanno messo nelle parole di questa Veglia di preghiera anche la nostra vita, con le sue paure e le sue speranze. D. Saulo * * * “Costituiscono uno stesso segno un seno vergine trovato pieno, e una tom- ba piena trovata vuota. L’ingresso come l’uscita del Figlio di Dio dalla vita e dal mondo restano av- volte nel mistero” (K. Barth) Perugino, La-Resurrezione, polittico di San Pietro, 1496-1500 (le nostre paure), le parole “di lassù” (la speranza): questo è il miracolo del- la preghiera. La paura: tutti la sperimentiamo. La speranza: tutti la desideriamo. La preghiera ci annuncia che questo desiderio non rimane deluso, perché c’è la Pasqua: un uomo crocifisso, messo a morte in mezzo alla paura, è uscito dalla tomba, e ha donato “la speranza che non delude” a tutti quelli che hanno un cuore che desidera. LA PAURA... “se sei il Figlio di Dio…” La paura sul lago (Mc 6,45-52) “Dopo questi fatti [la moltiplicazione dei pani] Gesù ordinò ai discepoli di salire sulla barca e precederlo sull’al- tra riva, verso Betsàida, mentre egli avrebbe licenziato la folla. Appena li ebbe congedati, salì sul monte a pregare. Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli solo a ter-

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Direttore Resp. Bruno Brunori - Redazione:Via del Parione, 17 - 06121 Perugia - Tel. 0755720731 - Reg. Tribunale di PG n. 15/96 del 17-05-96Stampa: Tipografia Artigiana - Via A. Fratti, 5/13 - Perugia - Spedizione abb. post. art. 2 comma 20/c - legge 662/96 - Filiale di Perugia Anno XXI n. 1 - Marzo 2016 - PASQUA-PENTECOSTE

Periodico della Parrocchia di S. Spirito

PASQUA: la fede che sfida la pauraPasqua dell’Annodella Misericordia

Questo numero de Il Parione esce in oc-casione della Pasqua di Resurrezione dell’Anno della MisericordiaLeggendo, troverete diverse nuove firme, soprattutto di giovani, che si affiancano agli “anziani” per raffor-zare e – naturalmente – ringiovanire questa redazione. e per sottolineare i messaggi e i valori che il Giubileo del-la Misericordia ci suggerisce. Questo anno Giubilare si celebra in un mo-mento drammatico caratterizzato da guerre, rivoluzioni, stermini, perse-cuzioni e che fa registrare colpevoli egoismi, che spingono governanti di paesi ricchi e fortunati ad alzare muri alle frontiere per bloccare le folle di disperati che fuggono dai territori mi-nacciati dalle orde demoniache e san-guinarie del cosiddetto Stato Islamico. A fronte di queste miserie umane, noi che facciamo parte di questa comu-nità parrocchiale dobbiamo renderci conto che Signore sta dimostrandoci un’attenzione particolare perché, attra-verso le scelte di Papa Francesco, sta premiando le nostre Guide Spirituali affidando loro grandi responsabilità: il Cardinale Gualtiero Bassetti e il no-stro don Saulo sono stati chiamati a far parte del Sinodo; il Cardinale Bassetti è stato anche incaricato di redigere il testo che verrà recitato nel corso della via Crucis, guidata da Papa Francesco, che si terrà a Roma il prossimo vener-dì Santo. Questa attenzione ci chiama a rispondere con devozione e gene-rosità agli appelli che ogni giorno il Pontefice rivolge al mondo per com-battere gli egoismi e far trionfare la giustizia e la pace.Che sia una Pasqua di Pace. Auguri!

Bruno Brunori

Si può pregare leggendo un articolo di giornale? O, anche, è opportuno che un giornale (anche se parrocchiale) riporti una Veglia di preghiera?Forse pensiamo che le parole della preghiera hanno il loro posto giusto solo nella Bibbia...O anche che un giornale, che ovvia-mente parla di cose e fatti “di quag-giù”, non sia adatto a contenere paro-le “di lassù”...Ecco invece la provocazione: mette-re accanto alla storia “di quaggiù”

Grazie alle nostre suore che hanno messo nelle parole di questa Veglia di preghiera anche la nostra vita, con le sue paure e le sue speranze.

D. Saulo * * *

“Costituiscono uno stesso segno un seno vergine trovato pieno, e una tom-ba piena trovata vuota.L’ingresso come l’uscita del Figlio di Dio dalla vita e dal mondo restano av-volte nel mistero” (K. Barth)

Perugino, La-Resurrezione, polittico di San Pietro, 1496-1500

(le nostre paure), le parole “di lassù” (la speranza): questo è il miracolo del-la preghiera.La paura: tutti la sperimentiamo.La speranza: tutti la desideriamo.La preghiera ci annuncia che questo desiderio non rimane deluso, perché c’è la Pasqua: un uomo crocifisso, messo a morte in mezzo alla paura, è uscito dalla tomba, e ha donato “la speranza che non delude” a tutti quelli che hanno un cuore che desidera.

LA PAURA... “se sei il Figlio di Dio…”

La paura sul lago (Mc 6,45-52)“Dopo questi fatti [la moltiplicazione dei pani] Gesù ordinò ai discepoli di salire sulla barca e precederlo sull’al-tra riva, verso Betsàida, mentre egli avrebbe licenziato la folla. Appena li ebbe congedati, salì sul monte a pregare. Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli solo a ter-

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2 il parionewww.santospiritoperugia. i t

ra. Vedendoli però tutti affaticati nel remare, poiché avevano il vento con-trario, già verso l’ultima parte della notte andò verso di loro camminando sul mare, e voleva oltrepassarli. Essi, vedendolo camminare sul mare, pen-sarono: «È un fantasma», e comincia-rono a gridare, perché tutti lo avevano visto ed erano rimasti turbati. Ma egli subito rivolse loro la parola e disse: «Coraggio, sono io, non temete!». Quindi salì con loro sulla barca e il vento cessò. Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non aveva-no capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito.”

Sembra che l’esito della predicazione di Gesù, con parabole, spiegazioni e segni, sia scarso e un po’ fallimenta-re. La parola seminata con abbondan-za subisce un destino imprevedibile e pieno di contraddizioni; il seme della Parola sembra piccola cosa, destinata a scomparire nei momenti di prova! Perché questa paura dei discepoli sul lago? Di cosa hanno paura loro? di cosa abbiamo paura noi?

Tu Signore non hai che la forza della Parola per aprire il nostro cuore alla fede… ma sembra che a volte sia così chiuso nella paura e le tue parole così deboli…Liberaci Signore … dalla paura del fal-limento… la paura di non farcela per-ché guardiamo alle nostre risorse: cosa possiamo nei confronti degli immensi bisogni che premono da tutte le parti

come un mare agitato?... non c’è tre-gua, non c’è riposo… Liberaci anche dalla paura di aver visto un fantasma… “e se ci fossimo ingan-nati?.... inventati tutto… confondendo le nostre aspirazioni con la realtà?… Possiamo davvero fidarci dei nostri occhi?”

La traversata della nostra vita non è un viaggio tranquillo dove ogni cosa viene incontro benevola ai nostri buo-ni desideri, ma una lotta, un abisso da attraversare, sorretti da una fragile speranza, mossi da una fiducia che non sappiamo se reggerà…Allora, “maranatha… vieni presto in nostro aiuto”… Tu, sulla nostra barca… una promes-sa che appare così disarmata e silente! non impedisce certo che il mare e il vento soffino e portino alla deriva la nostra fragile imbarcazione! Eppure non c’è altro modo di imparare ad es-sere uomini e donne credenti…

La paura per via (Mc 8,27-33)“Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Fi-lippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?»... E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato da-gli anziani, dai sommi sacerdoti e da-gli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimpro-verarlo. Ma egli, voltatosi e guardan-do i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: «Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».”

Ogni volta che i discepoli sono sulla barca hanno paura. Ma anche sulla via che porta Gesù e i suoi a Gerusalem-me: a far paura e a non essere capito è proprio Gesù. I discepoli sono per stra-da, per via, invitati a seguire ma non riescono a “star dietro” a quello che Gesù dice! non capiscono, non voglio-no capire…

Liberaci Signore dalla paura lungo la strada della nostra vita. E’ difficile ac-

cogliere il destino di un Messia scon-fitto, di un Servo che mentre si è fatto ultimo di tutti per portare su di sé il male che su tutti grava, verrà abban-donato da tutti. … I discepoli non rie-scono a capirlo… e nemmeno noi: sen-tiamo come loro la resistenza a questo annuncio… perché non rientra nei no-stri progetti e nelle nostre aspettative, che sono piuttosto di salvare la nostra vita e di attendere un regno che viene con potenza e gloria dove occupare i primi posti!

Mentre camminiamo per via è la cro-ce che ci fa paura… perdere la vita fa paura, rinnegare se stessi fa paura, un maestro-messia sconfitto e miscono-sciuto fa paura… apparire insignifican-ti per molti, fa paura… L’amore rifiu-tato fa paura: perché davanti al rifiuto dell’amore, chi ama è disarmato, senza possibilità di forzare in alcun modo la fiducia che gli viene negata.Non dovrebbe stupirci che questo sia il destino di noi discepoli; ma oggi come allora, noi abbiamo paura. Paura di non contare più, paura di non essere com-presi, paura di stare nel mondo come un piccolo gregge, paura di venire de-risi per la nostra debolezza… Allora “maranatha… Signore vieni presto in nostro aiuto”… Tu, sulla nostra via… per affrontare la sfida di non essere compresi, di stare nel mondo come un piccolo gregge, di venire derisi per la nostra debolezza e piccolezza… e di-ventare così, passo dopo passo, uomini e donne credenti…

La paura della fine (Mc 14, 32-41)“Giunsero intanto a un podere chia-mato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ in-nanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’o-ra. E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a ve-

Rembrandt, Cristo nella tempesta sul mare di Galilea, 1633.

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gliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Allon-tanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli.Venne la terza volta e disse loro: «Dor-mite ormai e riposatevi! Basta, è venu-ta l’ora...»”

La paura finale, quella che tutte le rias-sume, è la paura che proviamo di fron-te alla fine, alla morte, alla conclusione ingloriosa e imprevedibile della pro-pria vita. Qui i discepoli semplicemen-te soccombono, scappano o sono presi dalla paralisi e dal sonno…Qui l’unica possibilità è che sia Gesù ad attraversare la paura per loro, ad aprire un varco attraversando la prova della morte…

Liberaci Signore dalla paura della fine… … è la paura dell’ ORA… in cui si compie il destino del figlio dell’uo-mo, del servo sofferente… La nostra paura Gesù tu la prendi sulle tue spalle: la tentazione di sottrarci a quell’ora e al mistero che in essa si palesa; sappia-mo che tutto si compirà ma non sap-piamo il “come” e il “quando” e questo ci spaventa… sentiamo il morso della paura…come una tensione interiore tra il desiderio di andare avanti e quello di tornare indietro… Come sarà possibile Signore che anche noi potremmo ab-

bandonarci fiduciosi nelle braccia del Padre?

la paura finale… Donaci Signore di af-frontarla insieme a te che sei rimasto sempre in contatto e in comunione con il Padre, nella coscienza di essere il Fi-glio amato…

LA FEDE … “com’è possibile?”Gv 20. 1-8

“Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era sta-ta ribaltata dal se-polcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signo-re dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Uscì allora Simon

Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano in-sieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giun-se intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a par-te. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.”

La resurrezione, pur non avendo testi-moni e non potendo essere dimostrata, irrompe nella storia lasciando un segno indelebile. Gli apostoli, passato il pri-mo momento di stordimento e di ab-bandono per la passione e la morte del loro Gesù, cominciano ad azzardare discorsi che implicano la resurrezione. Si sentono testimoni di molti momenti

che dicevano la grandezza di Gesù: pa-role mai udite, gesti mai visti. Possono dire anche di aver visto la sua morte ingiusta. Non possono, però, parlare della resurrezione. Non l’hanno vista! E le prime timide parole su questo even-to sono di Pietro che dice: è Dio che lo ha risuscitato dai morti. Come se volesse dire: vi possiamo raccontare tutto quel-lo che c’era prima, possiamo dirvi della sua morte, possiamo anche raccontare le prodigiose apparizioni di lui, di Gesù nei giorni seguenti… ma della resurrezione non abbiamo che deboli tracce, alcuni indizi, delle bende, un sudario… Pos-siamo solo immaginare che sia stato un intervento diretto, forte di Dio.

Signore, la resurrezione sconcerta an-che noi… intuiamo qualcosa: una luce immensa, il gusto di vita piena, un amore che è per sempre… ne vediamo gli effetti, ne desideriamo le conse-guenze. Ma è una prova per la nostra fede. E allora tu Signore… aiutaci nel-la nostra incredulità!

“...Santa Maria, donna del terzo gior-no, destaci dal sonno della roccia. E l’annuncio che è Pasqua pure per noi, vieni a portarcelo tu, nel cuore della notte. Non aspettare i chiarori dell’ alba. Non attendere che le don-ne vengano con gli unguenti. Vieni prima tu, coi riflessi del Risorto negli occhi e con i profumi della tua testi-monianza diretta.Santa Maria, donna del terzo giorno, strappaci dal volto il sudario della di-sperazione e arrotola per sempre, in un angolo, le bende del nostro peccato.Donaci un po’ di pace. Impediscici di intingere il boccone traditore nel piatto delle erbe amare. Liberaci dal bacio della vigliaccheria. Preservaci dall’egoismo. E regalaci la speranza che, quando verrà il momento della sfida decisiva, anche per noi come per Gesù, tu possa essere l’arbitra che, il terzo giorno, omologherà fi-nalmente la nostra vittoria...” (don Tonino Bello)(da una Veglia di preghiera preparata da suor S., delle suore di S. Antonio)

BUONA PASQUA DI RESURRE-ZIONE, don Saulo

Mantegna, Preghiera nell’orto degli olivi, 1455.

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di Giancarlo Farina

Almeno fin dall’editto di Costantino (313), che ha permesso il culto cristia-no in tutto l’impero romano (religio licita), la Chiesa ha celebrato i propri riti e la liturgia in latino: la messa, i sacramenti, le cerimonie, le preghie-re e persino i canti sono stati per se-coli pronunciati in quella lingua. Però dopo la caduta dell’impero il latino si è sempre più affievolito nell’uso cor-rente del popolo; all’inizio del secondo millennio era praticamente scomparso dal quotidiano, rimanendo appannag-gio solo delle classi colte, dei nobili e dei vescovi. Persino i parroci ave-vano difficoltà nel padroneggiarlo. Il “popolo di Dio”, del tutto analfabeta, è rimasto quindi completamente esclu-so dalla comprensione di cosa in realtà accadesse durante i riti e dal signifi-cato di quelle parole misteriose che i celebranti pronunciavano. Ancora nel 1563 il Concilio di Trento stabiliva che i misteri dovevano rimanere celati al volgo, essere appannaggio quindi dei pochi eletti che potevano conoscer-li, secondo il principio della “teoria dell’arcano” e della conservazione del-le formule della fede.

D’altronde anche il canto sacro è sta-to di origine autenticamente popola-re forse solo nella chiesa primitiva, di formazione spontanea nelle varie comunità, che lo esprimevano nella propria lingua; ma già agli inizi del VI secolo il papa Gregorio Magno lo aveva sottratto ai fedeli con la pubbli-cazione dell’Antiphonarium , che rac-coglieva i canti ammessi, ovviamente in latino e ne sanciva l’uso esclusivo. Così i canti e le stesse preghiere, solo

La diosillaPer non dimenticare le nostre radici

oralmente appresi in una lingua ormai incomprensibile, per lo più deformati e corrotti, sono diventati semplici as-sonanze, formule misteriose anche se devotamente recitate: il rapporto con il divino è divenuto un qualcosa di pura-mente meccanico e ripetitivo. E pensare che tale stato di cose si è protratto fin quasi ai giorni nostri! Solo con il Concilio Vaticano II è stato de-ciso di abbandonare il latino e celebra-re la messa e gli altri riti nelle lingue del posto; dal 7 marzo 1965 abbiamo potuto finalmente comprendere quei loro profondi significati che prima po-tevamo soltanto intuire. Infatti anche coloro che avevano una qual dimesti-chezza con il latino (ed erano in pochi) riuscivano a decifrare solo qualche frase qua e là ed alcune invocazioni: assolutamente incomprensibili resta-vano quindi quei lunghi brani, come il Prologo del vangelo di Giovanni, così denso di significati, collocato in una “Cartagloria” posta sull’altare e recitato in tutta fretta, in latino e per di più con le spalle voltate ai fedeli, che capivano solo quegli “oremus” e quei “Dominus vobiscum” che venivano di tanto in tanto loro rivolti. Proprio da quest’ultima locuzione e dal gesto che l’accompagnava (il celebrante si gira-va infatti verso il popolo e per raffor-zare l’invocazione allargava le braccia, a volte anche platealmente) deriva l’e-spressione toscana “avere il petto a do-minusvobiscum”, cioè un petto largo e robusto; in veneto il “vobisco” diventa così un uomo forte, di cui avere rispet-to e non del tutto raccomandabile.Da quel famoso giorno del ’65 sono passate due generazioni. Chi oggi ha meno di cinquanta - sessanta anni, pro-babilmente non ha mai assistito ad una messa in latino, o a un rito battesimale o un funerale che non fossero nella pro-pria lingua ed è quindi assolutamente normale che si possa comprendere e partecipare, ma per le generazioni pre-cedenti non è stato così.I canti e le preghiere in latino ormai se le ricordano soltanto i preti e gli anzia-

ni, che peraltro condividono lo stesso etimo (presbyteros, cioè più vecchio)!Tuttavia tanti anni di giaculatorie in-comprese, di tradizioni imperfette e sempre più alterate, hanno lasciato molte impronte nel linguaggio popola-re, che alcuni studiosi cercano di ritro-vare e documentare, per non perdere quella memoria storica e collettiva cui non dobbiamo abdicare, analizzando e studiando i detti, le storie, i signifi-cati che il latino ecclesiastico e la sua corruzione hanno lasciato nel linguag-gio corrente, nei dialetti in particolare, confusi nei tanti modi di dire e nei pro-verbi.

Molte sono parole sopravvissute inte-gralmente e che appartengono ad un passato che è ancora presente, remini-scenze acquisite che hanno attraversa-to i secoli dell’era cristiana ed hanno attecchito nella lingua e nel dialetto, così da essere tuttora presenti, trasferi-te nell’italiano familiare e colloquiale attraverso la mediazione liturgica.L’elencazione sarebbe lunghissima; si pensi ad esempio alle espressioni “in camera caritatis, refugium pecca-torum, deo gratias, in un fiat, in arti-culo mortis, ecce homo, crucifige, via crucis, nemo propheta in patria, redde rationem, in mente Dèi, sancta sancto-rum, imprimatur, habemus papam, sic transit gloria mundi, in pectore, urbi et orbi, vade retro”..., nelle quali il latino è perfettamente conservato, trasferito nella lingua corrente senza alterazioni del significato; come tale è di imme-diata comprensione e non necessita di spiegazioni. Altre volte si tratta di traduzioni fedeli o di precisi riferi-

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menti alle sacre scritture, a immagini, preghiere e gesti della liturgia in cui il significato si fa mediato: su queste espressioni è necessario quindi soffer-marsi con più attenzione. ”Madonnina infilzata” è riferito ad una donna che finge compunzione, una santarellina, in un falso atteggiamento compunto, con l’aria dolorosa e gli oc-chi rivolti al cielo, come appunto qui santini che rappresentano Maria trafitta da sette spade (da Luca 2,35).“Scoprire gli altarini” è usato in senso figurato di scoprire le marachelle, sve-lare un segreto e deriva dai riti della settimana santa, quando altare, taber-nacolo e immagini vengono coperti con paramenti viola, che saranno tolti il giorno di Pasqua, quando si annun-cia la Resurrezione, si rivela cioè la Verità: il Crocefisso si scopre invece il Venerdì Santo. Questo rituale è oggi solo facoltativo.“Capire l’antifona” significa compren-dere l’allusione nascosta, così come i si-gnificati venivano commentati e spiega-ti in brevi tratti, appunto nell’antifona.Persino proverbi comunemente usati senza pensare da dove derivino han-no il loro remoto fondamento nelle Letture: si pensi a “ rosso di sera bel tempo si spera”, che proviene diretta-mente dal Vangelo di Matteo (16,3) “ Quando si fa sera voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia”.

Spesso i riferimenti biblici e liturgici sono talmente palesi da non necessi-tare di commento: “manna dal cielo, scagliare la prima pietra, stracciarsi le vesti, l’ira di dio, uccidere il vitel-lo grasso, essere come Cristo in croce, gettare la croce addosso, essere un cal-vario, gettare le perle ai porci, sepolcri imbiancati...”, di chiara derivazione da famose pagine dei Vangeli.

Molte altre parole invece sono spro-fondate nell’oblìo, perdute o in via di estinzione a causa dell’uso sempre minore dei dialetti, rimaste ormai in poche nicchie della civiltà contadina e popolare. Si tratta di quelle espres-sioni di uso comune derivate dal “la-tinorum”, cioè da quel latino liturgico corrotto dall’ignoranza, spesso con risultati involontariamente comici, ma che al tempo stesso poggiano su mate-riale autentico e che si ritrovano spesso nei dialetti e nei modi di dire, che attra-versano tutta l’Italia con poche varia-zioni, o che sono specifiche e comuni di ampie zone geografiche: per quello che ci riguarda l’Umbria, il Lazio e la Toscana. Alcune provengono dalla Bibbia, come il personaggio romano Nocchilìa, il castiga matti, popolaresca fusione dei due profeti Enoc ed Elia; come pure in Toscana il Magogo è un tipo, goffo, mal fatto e ignorante, mentre andare da oga a magoga ha assunto il signi-ficato di andare a casa del diavolo; Gogamagoga è invece un paese favo-loso e strano. In questo caso“la leggen-da (della Bibbia) è fluita nella cultura popolare, che ha totalmente deseman-tizzato Gog e Magog, allargandone il significato verso l’esorbitanza e il fuori norma” (prof. Gian Luigi Beccaria).

Fra le preghiere più saccheggiate fi-gurano ovviamente le più recitate: il Padre nostro e l’Ave Maria. Nelle campagne umbre e toscane è noto uno strano personaggio, Tenenosse, un ric-co signore sinonimo al tempo stesso di grandezza, lusso, ricchezza e strava-ganza: era infatti così ricco che quando morì, per stare più comodo (o perché non ci entrava in una sola) si era fatto seppellire in due casse! È palese la de-rivazione dal Pater noster che nel pe-nultimo versetto recita: et (te) ne nos (se) inducas(se).

L’esempio forse più celebre e docu-mentato di queste personificazioni pro-viene ancora dal Pater noster e a diffe-renza del precedente, più recente, può farsi risalire addirittura al XIV secolo, in quanto ne troviamo la citazione nel-la novella XI delle “Trecentonovelle “di Franco Sacchetti (1392). Si trat-

ta di Donna Bisodia (o Bissodia) dal significato di bacchettona, o estrema-mente pia (ricordate le “parrocchiose” di padre Alceo?), citata poi anche in numerosi testi del cinquecento e pre-sente in quasi tutta l’Italia, persino in Sardegna, dove ha attraversato i secoli. Nei primi anni del nostro secolo infatti lo scrittore sardo Giammario Demartis ha addirittura scritto il “Vangelo di Donna Bisodia”, ritratto graffiante di una donna-matriarca. Nel Veneto inve-ce è divenuta sinonimo di donna poco seria e sguaiata, mentre in Lombardia è nuovamente una persona generosa,Da Donna Bisodia derivano poi modi di dire quali bisodià, che è il bronto-lare, prendere in giro, mentre la biso-dia è un discorso senza capo né coda e il bisodiòn è il brontolone. Ancora nel 1947 Antonio Gramsci nelle sue “Lettere dal carcere” (la n. 224) ricor-da che sua zia Grazia credeva nella reale esistenza di questa donna, che era molto pia tanto che veniva citata nel Pater Noster: “Ah, tu non sei certo come donna Bisodia!”Anche in questo caso la derivazio-ne e la corruzione del latino popolare di quella preghiera è evidente: dona (donna) no-bis hodie (Bisodia).

Nelle nostre campagne è ancora in uso, fra le persone più anziane, l’u-so del termine catinora; “è arrivato a catinora” è una espressione dolorosa, accompagnata da un “purtroppo” e da sospiri, che sta ad indicare una persona che è giunta al punto di morte, “non c’è speranza, non c’è più niente da fare”. La parola era di gergo corrente nel-la nostra comunità contadina almeno fino agli anni ’60 del novecento ed ha mantenuto questa sua specifica acce-zione ben precisa, riferita ad un malato terminale, che oggi va scomparendo nelle nuove generazioni. Da dove de-

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riva? Dobbiamo questa volta rifarci all’ultimo versetto dell’Ave Maria in latino, al nun-c et in hora (catinora), parole che precedono le parole mortis nostrae: siamo giunti ai confini della morte! Questa relazione si è persa, ma in tal modo “catinora” ha cominciato a vivere di un suo specifico e pregnante significato.

Il popolo dunque recitava i canti e le preghiere compensando le lacune del-la (in)comprensione con parole pro-prie, storpiate ma assonanti che segui-vano ritmi e melodie; in tal modo il latino della tradizione sacra si è lenta-mente trasformato in neologismi che hanno assunto un proprio e diverso significato.Fino a qualche decennio fa in Sicilia le vecchiette cantavano “è anticu stu cummentu, novecentotrentatrì” con-vinte di cantare dal Tantum ergo “et antiqum documentum / novo cedat ri-tui”; così l’invocazione del Sanctus diventava “Susanna in excelsis”, mentre a Roma il Requiem aeternam diventa “rechia materna” e le “rechie” identificano ancora genericamente le preghiere per i morti.“Venire a doremus” (dal canto natali-zio Adeste fideles) viene ad assumere in Umbria il significato di “capitare a tiro, venire vicino” pronunciato con tono di minaccia e di rappresaglia: ”Verré a doremus!”, rivolto solita-mente dalle mamme ai figli disubbi-dienti.In Veneto la donna che frequenta-va molto la chiesa aveva un nome proprio: era la perpetua Lucia Tei, ovvia corruzione del Requiem (lux perpetua luceat eis). A Foligno un “àmmene” è una persona che arriva sempre in ritardo, è sempre l’ultimo,

come è appunto l’amen che conclude ogni preghiera.Nel perugino, come del resto in molte altre regioni italiane, una parola an-cora abbastanza usata è diosilla, che sta a significare una lagna noiosa, petulante e interminabile: “avò che diosilla..., éte misso su ‘na diosilla!, cioè non se ne può più di sentirvi la-mentare; era anche usata con l’acce-zione di un fastidio insopportabile, spesso rivolta ai bambini che faceva-no troppo chiasso. L’espressione de-riva dal Dies irae, lunga composizio-ne medievale per i defunti, divenuta preghiera e adattata musicalmente da tanti celebri compositori, primi fra tutti Mozart e Verdi, le cui prime pa-role sono appunto Dies irae dies illa (diosilla), quel giorno il giorno dell’i-ra di Dio.

Nel 1518 il teologo tedesco Wolfang Capito criticava quei predicatori che nel giorno di Pasqua eccitavano la gente con parole sconce e facevano i buffoni; ci testimonia l’uso del tem-po, da parte di chi pronunciava l’o-melia, del modo molto singolare di esprimere l’invito alla letizia della liturgia della Resurrezione: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore, esultiamo e rallegriamoci in esso”! Era il cosiddetto Risus pascalis. Tale consuetudine però, come abbiamo letto nella testimonianza di Capito, era talmente lontana dalla letizia ori-ginaria e profondamente degradata a causa delle battute volgari che i pre-dicatori usavano per suscitare l’ilari-tà degli ascoltatori, da non poter es-sere essere più tollerata dalla Chiesa della Riforma cattolica, che l’ha abolita. Con quest’articolo ho voluto in qualche modo ricordarla, magari con un (sor)risus pascalis; d’altron-de, come ci insegna Orazio nelle sue Satire “ridentem dicere verum, quid vetat?” (cosa ci vieta di dire il vero ridendo?).

La sera a piè del letto ‘nginocchioni,su mà gli facea dire l’orazioni:“Pater noster”, gli dicèa,“Pater noster”, rispondea.“quiesi ‘n cieli”, continuava,“quiesi ‘n cieli”...e sbadigliava.Ma una sera, chissà se ‘l bimbo ci pensasse:“O mà!”, disse, “Perchè Tenenosse lo mìssino ‘n dù casse?”“Oimmea! Sta zitto e dormi...”Ma mentre andava via: “si vede che ‘n d’una...un ci capìa”.

‘NA LITTIGATA DE DON PAVANA‘N CO’ LO STORNELLO(15 Maggio 1899)

Sente, fiolo, abada a caminae che è passato ’l tempo d’ i min-chioni!de bon, de bon, che me vorreste dae, come se don’ ta i forca, i papa-gnoni?

Si fusse ’n forca te potria cantae che vole ’l lardo?... ‘l vende Cal-derone! ma i’ ’n ciò tempo de stà a chiac-chierae sinnò te le diria le mi’ ragioni!

Che dice?! che le pulce ciòn la tosse?...so bono de scocciatte le ganasse e fatte du’ lenterne accusì gros-se!...

So’ na mulica so’?! ... Fior d’a-nanassee chi sarete vo’ Ettenenosseche quando morse l’ misero ‘n du’ casse!?

* * *

Poesia in dialetto della Versilia.

Le immagini rappresentano alcuni ex voto in maiolica di Deruta della imponente collezio-ne di oltre seicento pezzi che vanno dal XVII secolo fino ai giorni nostri, esposte nel santua-rio della Madonna del Bagno (o dei Bagni), Casalina - Deruta.

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Lettera (semi)seria della redazione a don Saulo per le sue “nozze d’oro”

Perugia, 19 marzo 2016

Carissimo don Saulo,la data del 19 marzo è una coincidenza più unica che rara tra l’uscita del giornale e i tuoi cinquanta anni di sacerdozio. Quale decano dei redattori de Il Parione mi è stato affidato il compito di scrivere qualcosa in occasione di questo tuo importante traguardo; incarico gradito, ma al tempo stesso difficile. Nei venti anni del nostro giornale ho scritto più di ottanta articoli su svariati argomenti, ma le celebrazioni non rientrano assolutamente nelle mie corde e sono certo, conoscendoti bene, neanche nelle tue.Mi è venuto in aiuto un mio vecchio scritto sulla parrocchia e il suo parroco, destinato ad essere pubblicato, ma che , schermendoti, hai preferito tenere per te. Da allora sono passati più di dieci anni (era il 16/10/2004), ma quei sentimenti sono ancora attuali. In quella occasione ci avevi consegnato un foglietto/sondaggio su cosa è la parrocchia, che cosa le chiedo e come mi rapporto (a proposito, quali sono stati i risultati dell’inchiesta?)

Cosa è la parrocchia? L’allora arcivescovo Chiaretti, durante la visita pastorale, ce ne aveva parlato: “deriva da paroikìa, che significa tenda nel deserto, dove si poteva avere ospitalità e rifugio”. Ecco quindi una prima facile risposta: la parrocchia è accoglienza. Non pago di questa apparentemente troppo semplice soluzione ho consultato il vocabolario di greco e quello etimologico dove però non ho trovato alcun accenno alla traduzione propostaci. Ho trovato invece che paroikìa è una parola composta, formata da parà (nei pressi) e oikèo (abitare): quindi abitare nei pressi, risiedere, vivere in prossimità. La parrocchia è quindi vicinanza?

Ma poi altre accezioni: “soggiorno in un paese straniero” e, sempre peggio, persino “vicino senza diritti”! Non è certo questa la strada per arrivare ad una risposta soddisfacente in quanto, in fondo, tendiamo a confondere la parrocchia con le sue strutture, con il centro parrocchiale. La parrocchia invece non è un luogo, ma uno status un modo di essere e di interagire; la parrocchia quindi siamo noi, quando riusciamo (e soprattutto se riusciamo) a relazionarci con gli altri vicini, nell’amore di Dio; quando riusciamo a farci “prossimi”. Questa è forse la risposta giusta: la parrocchia è prossimità; non è una comunità di persone più o meno vicine, ma che si fanno vicine, vicine ad un parroco che ne costituisce il collante, il fulcro e lo stimolo. In questo senso la nostra parrocchia sei sempre stato tu, don Saulo: anche se i parrocchiani dovessero diminuire o addirittura sparire, se il centro Shalom, costruito con tanta fatica e (malcelato?) orgoglio dovesse crollare, la parrocchia sopravviverebbe nella tua persona.

Cosa chiedo? Che il Signore ci conservi un parroco come te. Finché avremo il tuo amore, il tuo esempio, la tua coerenza di vita che testimonia la vera fede, non avremo bisogno d’altro perché esista una parrocchia.Qualcuno ha scritto che il parroco è colui che deve rendere presente Dio sulla terra: “ Imitatore di Cristo, il sacerdote lo rappresenta in questo mondo in maniera visibile, sensibile. E se oggi non si possono mettere, come San Tommaso, le dita nelle ferite del suo costato, si può però incontrare Cristo attraverso i suoi sacerdoti”. In questi tempi difficili per i cristiani, in questa chiesa troppo spesso lacerata dagli scandali, vituperata, ferita dai suoi stessi rappresentanti più elevati e continuamente messa in discussione, noi di Santo Spirito possiamo realmente testimoniare che attraverso il contatto con te abbiamo incontrato

Cristo che ci chiama per nome; il tuo amore verso tutti, sempre e ovunque, ce Lo fa sentire presente, vicino, nelle celebrazioni partecipate, nel Padre Nostro dei bambini, nelle tue sapienti e toccanti omelie, nei tuoi sguardi affettuosi, nel catechismo, negli scout, nei numerosi e convinti gruppi che hai saputo formare..., in ogni nostra realtà.

Grazie, don Saulo, per questi primi cinquant’anni, tutti dedicati alla nostra Parrocchia: e resta con noi!

G. F.

Cinquanta, ma non li dimostra

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È il titolo del nuovo film di Checco Zalone, campione d’ incassi (ca. 65 mi-lioni di euro!) e di spettatori (ca. 10 mi-lioni!). Personaggio amato o contestato, che fa scoppiare dalle risate o che lascia interdetti per questo straordinario quanto impensabile successo. Comunque un caso che fa discutere tutti, ma che ora sembra trovare consensi anche presso la critica in passato meno tenera. Banalità o genialità? Non so, lascio a voi, ho la mia idea ma me la tengo! Sicuramente però bisogna riconoscergli una non comune capacità di lettura del nostro tempo, dei vizi e delle cattive abi-tudini italiane; il modo poi di trasporle in un film autoironico con una forte compo-nente di comicità, accentuata ad arte, è lasciato al giudizio degli spettatori. Mi sono servito di questo titolo come spunto per il mio articolo.Quo vado, allora?Diciamo che vado in giro per la parrocchia, che è poi il mio territorio: incontro, cono-sco, mi intrattengo, osservo, fotografo, ten-tando di carpirne gli umori e i malumori, le aspettative, le idee e le speranze. E le tra-duco, a mio modo, riportandole in questo giornale, mettendoci dentro un po’ del mio.Se volete, l’operazione, nel suo piccolo, somiglia un po’ a quella di Zalone, solo che non ho la sua capacità di tradurre così bene un contesto, ne quella di far ridere (ma non sempre poi ho questa intenzio-ne); e soprattutto non ho 10 milioni di let-tori e tantomeno i suoi incassi...!Quo vado? Vado ad incominciare...

Il ParioneChi lo legge, chi lo conserva numero dopo numero, chi lo sfoglia, chi non è interes-sato. Chi sostiene che sia solo un costo, chi una risorsa. Chi lo vuol distribuire nelle case, chi lasciarlo solo nelle chiese. Chi vorrebbe farlo pagare, chi ritiene che debba essere gratuito. Chi vorrebbe che si facessero almeno gli storici quattro nu-meri all’anno, chi ritiene che i due attuali bastino, o forse sono anche troppi. Certo, oggi, la situazione economica non favorevole depone contro il giornale, eppure qualche sottolineatura a un certo punto si deve fare.Il Parione è comunque una “voce”, una voce che informa, che racconta, che valu-ta, che fotografa. E prima di spegnere una voce bisogna sempre pensarci bene e va-

lutare con particolare attenzione, perché non è mai una buona cosa.Il Parione registra la storia della nostra parrocchia e della nostra comunità, il suo crescere ed il suo modificarsi; è qualcosa di cui rimane traccia nel tempo, consentendo di ripercorrerne la vita nel corso degli anni, di far memoria di eventi e di persone.Il Parione è forse l’unica traccia materiale e concreta che resta della vita della nostra comunità: tutto il resto è lasciato alla me-moria dei singoli.O sono solo le impressioni di qualcuno che in qualche modo è parte in causa?Se avete valutazioni o suggerimenti siete invitati ad esporli, a farli presenti in qual-che modo, sia per una normale forma di partecipazione alla vita comunitaria, sia anche per testare il livello di gradimento del nostro giornale.

Largo ai giovani!E ora procediamo con il numero di Pasqua, che è uno dei due (!) numeri ri-masti. Come potete constatare il giornale esce con una buona componente giovani-le. Molti articoli, infatti, sono a firma un-der 20 o giù di lì.Ringraziamo questi ragazzi per l’entusia-smo con cui hanno accolto l’invito a ci-mentarsi nella stesura di un articolo ed an-che per la ventata di novità e di freschezza che danno al giornale.È bello, e giusto, dare loro spazio, leggere i loro pensieri, le opinioni e i racconti; è bello e giusto coinvolgerli nella vita della parrocchia, anche attraverso la costruzio-ne di un giornale. E chissà che qualcuno di loro non possa anche assicurare un se-guito al nostro Parione?Bravi ragazzi.

Una lunga storia che continua…Una storia lunga 43 anni che non meri-tava di finire. Non nascondiamo di aver nutrito qualche timore dopo la morte di Crispolto e di Claudio (a proposito, in oc-casione del suo compleanno gli amici gli hanno dedicato il 2° Memorial con partita alla Griphus e pizza allo Shalom). Lunghi mesi di attesa, di estenuanti contatti con i vari servizi del Comune, con dirigenti e assessori, affinché si ricreassero i presup-posti perché la casa famiglia, costituita nel 1973 da Aldo, Bruno, Carlo, Crispolto, e poi Claudio, non si perdesse, ma trovasse invece la forza di ricominciare.

E per questo la disponibilità della parroc-chia, per la sua parte, c’è sempre stata e continuerà ad esserci.

Quo vado? di Paolo Tiecco

Gianfranco e Carletto.

E così il 12 gennaio è entrato a far parte della casa di Via del Parione n.1, ed a far compagnia a Carletto, un nuovo amico di tutti. Si chiama Gianfranco Pannacci, ha 60 anni, persona sola, mite, disponibile, ingegnoso, praticamente un tuttofare, for-se un po’ timida. Farà parte della casa e della comunità, e siamo certi che sapremo accoglierlo come abbiamo sempre fatto.

CarismiLe belle notizie si danno sempre con gio-ia! E allora con gioia e gratitudine salu-tiamo un nuovo Ministro per l’Eucarestia. La conoscete tutti: è Antonella De Nunzio Fantini, che ha “debuttato”, con il sorriso che ha sempre e che potete vedere nella foto, domenica 7 febbraio.Va ad aggiungersi a Francesco, Massimo, Enrica, Patrizia, Paola, Rosalba, Anna-grazia. È già una bella squadra ma ha an-cora buoni margini di crescita... avanti un altro... anzi altri!Anche perché il servizio è tra i più belli: entrare nelle case nel tempo della solitu-dine, del disagio o della malattia, per por-tare l’Eucarestia, ma anche una presenza, una parola, un sorriso.Benvenuta Antonella, e buon cammino!Salutiamo anche le nuove probande: Elisa, Giorgia, Ornella, che abbiamo avu-to modo di conoscere meglio ed apprez-zare nel dopo il pranzo allo Shalom nella prima di Quaresima. Ci hanno raccontato, con la bellezza dei loro anni, la propria storia e la nascita della vocazione, facen-doci intuire le loro speranze.

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Auguri ragazze, vi accompagneremo. Anche il seminarista Vittorio ci ha rac-contato un po’ della sua vita, quella di tanti ragazzi ma con uno sviluppo imprevedibile....e imprevedibilmente bel-lo! Auguri anche per te, Vittorio.

In quest’ultimo Capodanno, tra la Terra Santa ed altri impegni, a Shalom non c’era neppure un religioso. Ma ce la siamo ca-vata.... si può pregare anche così; qualche buona lettura, una riflessione personale e alcune preghiere, per una piccola comu-nità di laici nell’ultimo giorno dell’anno.

Lo ShalomDiciamo la verità, siamo tutti fieri del no-stro Centro Parrocchiale. Bello, spazioso, funzionale, un complesso dove c’è tutto: dalla chiesa alle salette per il catechismo e gli incontri, dal salone per le feste ai piccoli locali di accoglienza, dal garage alla sede scout. E credo di poter dire che siamo anche fieri di averlo reso, in questi oltre 15 anni di vita, un “centro aperto”, fruibile, uno spazio d’incontro dove tutti si sentono a casa, frequentato da tanti e per le più svariate occasioni. La sala grande, poi, è diventata oggi una delle sale più richieste della città, per i suoi spazi, per i suoi colori (grazie anche all’asilo che lo aveva dipinto con fanta-sia per i bambini), per la sua ubicazione, per le aree esterne, forse anche per la pre-senza di una cucina. Si moltiplicano le richieste per poterne fruire, anche se la sala viene riservata ai soli parrocchiani, a gruppi conosciuti, o ad occasioni varie di spiritualità e solidarietà.Ma la sua gestione non sempre risulta fa-cile e a volte crea qualche problema. Non tutti infatti usano questo spazio con il dovuto riguardo, non tutti sono sempre puntuali nel rispetto della prenotazione, non tutti lasciano un’offerta (visto che non si chiede un affitto), che consenta di recuperare almeno in parte i costi che la parrocchia deve sostenere, non tutti usano la cucina come se fosse quella di casa propria. E non tutti parcheggiano le auto rispettando delle normali regole di sosta, ostruendo l’accesso ai garage del-la via e a quello del centro parrocchiale, rendendo spesso Via Quieta intransitabi-le e pericolosa, con auto parcheggiate sui marciapiedi, spesso in entrambi i lati, cre-ando disagi e rischi agli abitanti della zona

(che sentiamo di dover ringraziare per la tolleranza). L’intasamento avviene quasi puntualmente in occasione di pranzi/cene o catechesi particolarmente affollate. Nelle giornate di punta, forse qualcuno, quelli più vicini, potrebbe evitare l’auto? Altri potrebbero provare a trovare un par-cheggio in zone adiacenti, allontanandosi un po’?Si può chiedere ai sempre graditi frequen-tatori di Shalom una maggiore attenzione sia all’interno e che all’esterno della strut-tura?

Antonella De Nunzio Fantini

Suor Anna Maria e le probande

Natale con i tuoi Capodanno con chi vuoi!Il Natale in famiglia non si tocca, ma il fine anno... rompete le righe!In parrocchia poi da quando è partita l’o-perazione “Terra Santa”, in pratica un pel-legrinaggio ogni due anni, l’ormai tradi-zionale fine anno allo Shalom diventa una serata per pochi intimi. Eppure il fine anno dello Shalom, quan-tunque per pochi, ha un suo valore e una sua bellezza. È abbastanza lontano dai fuochi d’artificio e dal divertimento sfre-nato (sarà poi vero?), ma possiede altre connotazioni. Se volete è anche un modo per consen-tire a persone sole, anziane, o in qualche disagio, di trascorrere una serata in com-pagnia, di fare una cena diversa dal soli-to. Non c’è il grande menù, tipico di ogni veglione che si rispetti, ma si può mangiar bene senza sfarzi e soprattutto non sentirsi tristi in una serata particolare che tende sempre ad accrescere le solitudini.E poi il momento della preghiera; mentre tutti impazzano, il nostro ringraziamento a Dio per un altro anno di vita. L’immancabile brindisi augurale conclu-de la serata... certo, non si fanno le ore piccole!

Un grande pellegrinaggio...!Preparatevi, allenatevi, concentratevi, perché sarà dura affrontare il lungo e tor-mentato percorso che da Santo Spirito arriverà fino al... indovinate un po’... al Duomo!!! A piedi, naturalmente! Per cominciare segnate questa data: do-menica 22 Maggio.L’abbiamo buttata sullo scherzo, ma l’i-dea è seria e coinvolgente ed è un modo, piccolo ma bello, di rendere omaggio all’Anno Santo in corso.La processione si svolgerà nel pomeriggio (vi faremo sapere...) e arriverà in catte-drale per fare ingresso attraverso la porta Santa. Una preghiera, una benedizione e si riparte per il lungo viaggio di ritorno..!Forse non saremo soli... anzi, lo speria-mo! Contiamo infatti di condividere l’e-vento con le parrocchie della nostra Unità Pastorale; tutti insieme verso la porta “Santa” della città, ciascuno partendo dal-la porta “Santa” della propria parrocchia. Vedremo, ma intanto... allenatevi!

Un grande team con la “mitica” Ghedy.

1966 - 2016: cinquant’anni di attività nel territorio parrocchiale. Auguri Giuliano!

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Sotto una piccola foto, nel numero di Pasqua 2014, si leggeva la didascalia “Una nuova chiesa per la Parrocchia…?”.Nel numero del marzo 2013 un articolo dal titolo “Ci mancherete” salutava la partenza di padre Bartolomeo Coladonato e dei suoi due confratelli dell’Ordine ospedaliero di S. Giovanni di Dio da Perugia per riunirsi a Roma con la loro Casa Madre.Dal 1996 (vedi articolo sul numero di Pasqua 1996) gli anziani ospiti dell’Ospe-dale Fatebenefratelli erano stati trasferiti al “Grocco”, dove i frati continuavano ad occuparsi di loro, coadiuvati da un gruppo di volontari provenienti non solo della nostra Parrocchia (vedi numeri di Natale 1996 e aprile 2001).Nel numero di marzo 2002, poi, Aldo Tiralti, memoria storica del quartiere, ci raccontava da par suo l’origine di questa realtà presente nel Borgo da più di quattro secoli:“I Fatebenefratelli sono un ordine religioso laico, solo alcuni sono sacerdoti, fondato dal portoghese S. Giovanni di Dio (1495-1550) il quale aveva raccolto intorno a sé dei discepoli che vivevano di preghiera, carità e apostolato tra i malati più derelitti ed incurabili; anche oggi questi frati oltre ai voti di povertà ubbidienza e castità hanno anche quello di “perenne ospitalità” che li caratterizza come dediti al servizio, alla cura e all’aiuto corporale e spirituale degli infermi indigenti. Attualmente hanno ospe-dali in ogni parte del mondo ed in silenzio svolgono la loro missione; si ricordano in Italia il grande ospedale dell’isola Tiberina a Roma e la gestione della farmacia vatica-na. Presero tale nome per il loro intercalare quando giravano per le città questuando; a

La chiesa di San Giovanni di Dio in Porta Eburnea di Giorgio Panduri

Perugia erano detti “frati della sportola”, che portavano per mettere le offerte. Erano giunti a Perugia da Roma il 23 febbraio 1584 per prendere possesso di un’eredità, videro che anche qui c’era un gran bisogno di aiuto per i malati soli e poveri rifiutati dai numerosi ospedali della città, (alcune corpo-razioni e confraternite avevano un ospedale) e anche dal grande ospedale di S. Maria della Misericordia in via della Pesceria, nel quale si veniva accolti solo per 10-12 giorni nei quali si doveva guarire o morire.I frati presero contatto col Vescovo Vincen-zo Ercolani e, tornati a Roma, ebbero dai superiori il placet per aprire un ricovero per cronici e piagati: era il periodo in cui imperversava la sifilide.L’8 marzo tornarono a Perugia e ottenne-ro dal Vescovo una casa alla Conca per aprirvi un ospizio con 8 letti inaugurato il 25 marzo.Le richieste di ricovero erano numerose per cui il Vescovo acquistò alcuni edifici in Porta Eburnea che, riadattati per i bi-sogni del convento e dell’ospedale, furono inaugurati il 1 gennaio 1585, quando pro-cessionalmente vi furono trasferiti i degenti e i frati. In pochi mesi si era concretizzato questo ospedale che sostenuto da questue, elemosine e lasciti è arrivato fino a noi col nome originario di S. Nicolò degli Incu-rabili. L’Ospedale di Perugia è il primo nato da quello di Roma, da qui nel 1588 partì fra Bonaventura a fondare quello di Milano. Tutto questo fervore di opere fu dovuto all’impulso dato dal primo superiore generale dell’ordine il quale si era fatto notare per l’organizzazione dell’assistenza infermieristica nella battaglia di Lepanto del 1571 e per la fondazione dell’Ospedale di Roma: il padre Pietro Soriano, che a Perugia morì il 18 agosto 1588 ed è sepolto nella chiesetta di S. Giovanni di Dio.Fu tanta la popolarità e la stima che cir-condava questi frati a Perugia che quando nel 1754 si decise di costruire un nuovo ospedale (S. Maria della Misericordia), si pensò di affidarne la gestione ad essi, che in effetti lo gestirono dal 1788 al 1797.Nel 1798 l’Umbria entrò a far parte della Repubblica Romana e il 18 giugno furono soppressi conventi e monasteri, confrater-nite, università, oratori e congregazioni e i loro beni incamerati; l’ospedale di S. Nicolò degli Incurabili fu esentato dalla soppressione, ma perse tutte le proprietà.Il 31 agosto 1799 i francesi furono caccia-ti ma ritornarono nel 1808 per rimanervi fino al 1814: i Fatebenefratelli manten-

nero sempre il loro posto seguitando la loro opera anche senza l’abito religioso che era stato vietato. Nel 1817 gli am-ministratori perugini vollero creare un cronicario nell’ex monastero francescano delle Bartolelle (soppresso nel 1810) rintitolato a S. Giorgio in Parione (dalla vicina chiesetta all’interno del complesso dell’ex carcere femminile); quest’ospeda-le fu affidato ai Fatebenefratelli che lo gestirono fino al 1826, quando fu chiuso definitivamente.

I novant’anni di Aldo.Auguri da tutta la Redazione!

Il 19 novembre 1860 il commissario di governo Gioacchino Napoleone Pepoli emanò il decreto di soppressione di tutte le congregazioni religiose: ancora una volta veniva riconosciuto il grande merito sociale dei Fatebenefratelli: potevano continuare a lavorare ma tutti i loro beni e l’ospedale passarono alla “Congregazione di carità” come opera pia unita con l’Ospedale di S. Maria della Misericordia. L’Ospedale di S. Nicolò degli Incurabili divenne un cronica-rio: potevano essere ricoverati solo malati incurabili, vecchi, maschi, nati a Perugia o qui residenti da oltre 10 anni poveri e gratu-itamente; ai frati era demandata la direzione e la gestione infermieristica sulla base di una convenzione stipulata con la Congregazione di Carità il 1-1-1873. Nel 1938 nacquero gli “Istituiti Riuniti di Ricovero” comprendenti gli ospedali di S. Maria della Misericordia (Monteluce), S. Nicolò degli Incurabili e l’ex sanatorio Pietro Grocco (alla Pallot-ta), i quali nel 1978, con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, confluirono tutti nell’Ulss, per poi ritornare nel 1980 nel nuovo ente Ospedaliero.L’ultimo grande servizio offerto al borgo dai frati fu al momento del passaggio del

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“Follia” parola di sei lettere, sinonimo di: pazzia, mancanza di prudenza e accorgi-mento, stoltezza.Sono questi i significati che le attribuiamo quando ne parliamo nel quotidiano; forse per paura di perdere il controllo, di farci guidare dalle emozioni, di essere sempli-cemente noi stessi, perché probabilmente quello che sentiamo veramente, i nostri sogni, i desideri, non si conciliano con la vita che facciamo, col mondo in cui vivia-mo. E quindi scegliamo le convenzioni, l’omologazione, le sicurezze; ci costru-iamo un nido caldo e accogliente che ci protegga, ma non spicchiamo mai il volo, perché la paura di fallire, di restare soli, ci tarpa le ali.In psicoanalisi la Follia potrebbe essere definita come una sovrapposizione della parte istintuale a quella razionale. Secon-do Sigmund Freud il comportamento or-dinario non è altro che il risultato di un continuo processo dialettico tra la parte più selvaggia e disorganizzata del cervel-lo, l’Es, e quella più pesata e razionale, il Super-io.In realtà, Follia, per certi versi, vuol dire genialità, intuito, intelligenza e sponta-neità che sperimenti e possiedi in quanto la tua mente non ha rigidi schemi, limi-ti invalicabili. Folli sono stati scienziati, che hanno creduto nelle loro intuizioni e

Siate folli di Marta Pacifico

sono stati artefici delle più grandi scoper-te, come Galileo Galilei che ha lottato con le parole, le azioni per far sentire al mon-do la sua voce; o come alcuni esploratori, per esempio Cristoforo Colombo, che ha vagato per mare perdendosi, affrontando tempeste eppure alla fine è giunto in luo-ghi inesplorati.Il perché è semplice, non si sono arresi, hanno creduto in se stessi, sono stati au-daci, impulsivi, folli.

Ma allora la Follia, non è forse il sale del-la vita?Io credo di si. Credo sia quella piccola voce interiore che ti spinga ad agire fuo-ri dagli schemi, a rischiare, a metterti in gioco perché nel profondo sai che ne vale la pena.Per cui buttati, decidi per una volta di non studiare per quell’interrogazione se sai che in quel momento c’è qualcosa di più importante o qualcuno che ha bisogno di te. Lascia quel lavoro che non ti fa sentire vivo, entusiasta di te stesso, utile, gratifica-to; lascia quella persona anche se sai che soffrirai, ma sai non essere quella giusta per te. Decidi di vivere e non di soprav-vivere, sii te stesso, coltiva i tuoi talenti, non farti trascinare dall’inerzia del mondo, scendi in campo e gioca la partita, perché l’esito della tua partita dipende da te.Steve Jobs nel suo celebre discorso a Stan-ford ha detto: “ Siate affamati, siate folli, perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di cambiare il mondo, lo cambiano davvero”. Ed è ciò che ha fatto. Ha investito su se stesso, ha creduto nella sua idea con costanza e determinazione e alla fine ha piegato il mondo al suo vole-re, perché ha alzato lo sguardo per vedere oltre le paure e i fallimenti, si è rialzato quando è caduto e ha fatto della sua mente la più grande risorsa.

fronte nel 1944 quando, per l’approvvi-gionamento dell’acqua potabile che non arrivava più nelle case fu utilizzato il pozzo interno del convento. Era un via vai di per-sone con fiaschi, bottiglie, damigiane che vi ricorrevano per gli usi domestici: una targa lo ricorda.Nel 1984 in occasione del IV centenario della venuta a Perugia dei Fatebenefra-telli fu chiesto che venisse rintitolata a P. Soriano l’attuale Via del Giardino (a fianco del convento), la richiesta fu parzialmente accolta, ma la via a lui dedicata si trova a S. Andrea delle Fratte.I locali del Fatebenefratelli furono tra-sformati: al posto del camerone si fecero le camerette, vi fu istituito un reparto di lungodegenza e di geriatria del policlinico, i cui degenti, furono poi trasferiti all’ex sana-torio Grocco dopo la sua ristrutturazione.” Come già detto, dal 1996 l’Ospedale di via Fatebenefratelli (già via dei Cronici) è stato chiuso e poi trasformato in residenza uni-versitaria affidata all’ADISU. I frati, che di giorno andavano ad assistere i loro pazienti al Grocco, hanno continuato a vivere nel loro convento fino al 2013.

Dopo la loro partenza da Perugia, il Comune ha ristrutturato il convento ricavandone sale espositive per mostre (ricordate la grande mostra del fotografo Mc Curry) e una fore-steria per accogliere gli ospiti provenienti soprattutto dalle città gemellate con Perugia.La chiesa, invece, è rimasta chiusa e inuti-lizzata. Essa conserva affreschi del XVI e XVII secolo. Sopra l’altare maggiore è una tela di Paolo Laudati, Madonna con i santi S. Giovanni di Dio e S. Giovanni Evangelista protettore dell’ordine. La Facciata molto semplice, ha il tetto a doppio spiovente con campaniletto a vela. Nella lunetta c’è una maiolica con l’iscrizione “San Joannes de Deo”, raffigurante il santo e un malato.

Ma perché tutti questi riferimenti al passato?

Prima di tutto per informarvi che se avete perso qualcuna di queste informazioni, se la vostra collezione de “Il Parione” non è completa, potrete recuperare tutte queste memorie acquistando il libro che uscirà per Pentecoste, dedicato ai primi venti anni del giornale.

E poi perché oggi abbiamo la risposta alla didascalia del 2014: dopo due anni di dialogo, il Comune ha concesso in comodato alla Parrocchia la chiesa di S. Giovanni di Dio.

Vi è stata già celebrata la messa di inizio delle benedizioni delle famiglie.Non è che la Parrocchia avesse bisogno di un altro luogo di culto, ma i locali dietro la chiesa serviranno come sede dei gruppi scout del Noviziato e del Clan: si tratta di un radicale cambiamento per questi locali, che una volta ospitavano anziani, cui poche speranze restavano ormai, e che oggi invece accoglieranno giovani pieni di speranza nella vita.Anche l’Associazione del Borgo di Porta Eburnea la renderà più viva con riunioni ed eventi stabilendovi la sua sede. D’altro can-to c’è sempre stata collaborazione tra Par-rocchia e Quartiere, fin dagli anni Settanta. Una chiesa chiusa fa tristezza e va in malora, una chiesa aperta accoglie e vive.E grazie all’Associazione del Borgo la chiesa sarà anche aperta con regolarità per permetterne la visita a chi non la conosce.

Hans Holbein il Giovane (1523) Ritratto di Erasmo da Rotterdam, autore dell’”Elogio della follia” (1509).

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Perché nella mia vita ho dei momenti in cui entro in una stanza che non mi è molto simpatica detto sinceramente.E’ una stanza in cui mi ritrovo bloccato per lunghi periodi, una stanza che diventa buia, piccolissima eppure immensa e im-possibile da percorrere. Nei periodi in cui sono lì ho dei momenti dove mi sembra che non ne uscirò mai.A volte si trova in un ospedale, altre volte a casa, ma diventa sempre la stessa stan-za. E’ una stanza talmente buia che anche gli affetti fanno fatica ad entrarci. Lo avver-to, me lo hanno detto.Ma anche lei mi ha regalato qualcosa, mi ha incuriosito, mi ha ricordato la mia for-tuna. Mi ha fatto giocare con lei. Mi ha fatto cercare il significato di stanza, mi ha fatto incontrare storie di stanze. E delle stanze dentro al lavoro degli uo-mini. Che ne condizionano le scelte o ispi-rano loro malgrado. Quasi tutte le creazioni dell’uomo avven-gono in una stanza. Che la vita quindi non è un tempo, ma uno spazio. Infinito. E mi ha fatto ridisegnare il concetto di stan-za. […] Lo sapevate che le canzoni prima si chiamavano stanze? Si, perché la stan-za è anche una poesia. […]

E dopo queste, a mio parere, “meraviglio-se” parole, vi starete forse chiedendo per-ché ho scelto di parlarvi del maestro Ezio Bosso, quando fino a pochi giorni fa non sapevo nemmeno io chi fosse.Perché collocare il nome di Ezio Bosso all’interno del Parione? Beh, penso che sia semplice capire il mio intento: prendere in prestito le parole di Ezio Bosso per comprendere il vero valo-re della vita! Quanto valore diamo alla vita? Quanto amore mettiamo nelle nostre azioni quo-tidiane e quanto amore proviamo quando ci relazioniamo con qualcuno che ci vuole bene? E quando qualcuno ci dimostra il proprio affetto, la propria gratitudine con piccoli gesti come una stretta mano, una

Non date mai nulla per scontato di Camilla Maria Marini

E’ originario di Torino e ha 44 anni.E’ un pianista, un compositore e un diret-tore d’orchestra.All’età di quattro anni già suonava e a se-dici anni il debutto come solista. Ha studiato a Vienna.Nel 2011 ha subito un intervento al cer-vello che lo ha costretto a vivere (come lui stesso dice) una “storia di buio”. Infatti, dopo l’intervento è stato colpito da una malattia neurologica degenerativa: la SLA. La malattia purtroppo gli ha procurato seri problemi fisici, ma non è riuscita a fermarlo nella cosa che lui ama di più: la musica. Recentemente è stato ospite al Festival di Sanremo!Avete capito di chi sto parlando? Forse qualcuno sì!Ecco, parlo del maestro Ezio Bosso. Una persona che fino a qualche giorno fa non sapevo nemmeno che esistesse, ma che ora definirei un genio della musica, un gigante della sofferenza e soprattutto una forza della natura. Il primo disco da solista di Ezio Bosso, intitolato “The 12th Room” (La dodicesi-ma stanza), è uscito soltanto qualche mese fa ed è proprio Lui a presentarlo così (vi riporto le sue testuali parole):

“Si dice che la vita sia composta da 12 stanze. 12 stanze in cui lasceremo qual-cosa di noi che ci ricorderanno. 12 le stanze che ricorderemo quando saremo arrivati all’ultima. Nessuno può ricorda-re la prima stanza dove è stato, ma pare che questo accada nell’ultima che rag-giungeremo. Stanza, significa fermarsi, ma significa anche affermarsi. “La libertà che riprende stanza” è un modo dire. Quando abbiamo trovato fi-nalmente un posto dove fermarci abbiamo inventato le stanze. E gli abbiamo dato nomi, numeri e significati. La stanza dei giochi. La stanza della musica. Le stanze della memoria. Sono infinite le stanze. Ma non ci pensiamo mai. Sono così comuni nella nostra vita che le releghiamo ad es-sere vane chiamandole vani. Poi ci sono le stanze con un carattere. Le stanze della gioia o del dolore. E stanze in cui rifugiarsi e quelle in cui recludersi. Per ogni stanza che percor-riamo apriremo una porta che ci porterà dentro e fuori da esse.Le stanze sono vuote o piene e siamo noi a deciderlo. Come se le nutrissimo.Ho dovuto percorre stanze immaginarie, per necessità.

carezza, uno sguardo, un abbraccio, un sorriso, un bacio, un “ciao come stai?”, un messaggio… succede, a volte, che noi rimaniamo un po’ freddi, distaccati o ri-spondiamo in maniera frettolosa, perché siamo presi dai nostri impegni quotidiani e a quei piccoli gesti non diamo molta im-portanza. E quando accade che ci ammaliamo o ab-biamo un qualche problema fisico, quante volte siamo così bravi da riuscire a pensa-re che c’è sempre qualcuno che sta peggio di noi? E che alla fine, pensandoci bene, noi non siamo messi così male! E tutte quelle volte che ci capita di sedersi a tavola e trovare pronto quel cibo che a noi non è che ci piace tanto; insomma, non è proprio il nostro piatto preferito e quindi limitarsi a guardarlo con riluttanza, con di-sprezzo e provare a chiedere: ma non c’è altro? Non si può mangiare qualcosa di diverso? Quando può essere, che a pochi metri da casa nostra, c’è un mendicante che stanco e infreddolito, gira per la strada a chiedere elemosina o semplicemente un pezzo di pane per sfamarsi e chissà quanto gli piacerebbe trovarsi al posto nostro, se-duto a tavola e con davanti quel piatto che noi rifiutiamo, perché vorremo altro. Semplici esempi per renderci conto che tante volte, forse troppe, noi diamo per scontate la maggior parte delle cose che la vita ci pone davanti. Diamo per scontato davvero tanto, perché pensiamo che tutto rimarrà esattamente com’è… diamo per scontato perché quel-lo che abbiamo non ci basta e vorremmo sempre di più… diamo per scontato le persone perché pensiamo che loro saran-no per sempre qui accanto a noi… diamo per scontato perché le cose vecchie non ci interessano più, ma siamo impegnati ad ottenere sempre cose nuove. Dare per scontato significa avere troppo e non riu-scire a capire il valore delle piccole cose e delle persone, il vero valore della vita!Ma poi per fortuna c’è chi è in grado di non dare nulla per scontato; chi si rende conto che aprire gli occhi e potersi sve-gliare il giorno dopo è una grazia di Dio; chi ha perso l’uso delle gambe, non riesce a parlare più bene ed è consapevole di es-sere lento e fragile; chi nonostante la ma-lattia va avanti nella vita e cerca di dare il proprio meglio in quello che ama di più: la musica. Sì, perché come avete capito, sto facendo riferimento ancora ad Ezio Bosso che l’altra sera, con le sue parole, ci ha emozionato e ci ha dato una vera e propria lezione di vita!

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[…] “Devo fare una cosa che mi fa sta-re bene. Quando inizio un concerto dico “Ciao” al pubblico. E’ una parola bellis-sima!”[…] La musica siamo noi, la musica è una fortuna che condividiamo che ci è arriva-ta. Noi mettiamo le mani, ma ci insegna la cosa più importante che esiste e cioè “ASCOLTARE”. La musica è una vera magia, sapete che non a caso i diretto-ri hanno la bacchetta come i maghi. La musica mi ha dato il dono dell’ubiquità perché quello che ho scritto è a Londra e la fa un bravo direttore con il balletto più importante del mondo. Io vado da un’al-tra parte. La musica è una fortuna, è so-prattutto, come diceva il grande maestro Claudio Abbado, è la nostra vera terapia.[…] Tendiamo a dare per scontato le cose belle.

A me piace curiosare ed esplorare quello che diamo per scontato.[…] “E mi sono messo a ragionare sull’importanza di perdersi per imparare a seguire. Noi ci diciamo perdere è brutto. Ma a volte perdere i pregiudizi, il dolore, le parole e le paure ci avvicina.” […] “Ricordatevi sempre: la musica come la vita si può fare solo in un modo: INSIEME!”

Ho voluto riportarvi alcune parole di Ezio Bosso come fossero piccoli aforismi, pic-cole note, come piccole pillole, per darvi modo di riflettere e di ricordarle. Provate a prendere il vostro taccuino, la vostra agenda, un semplice foglio di carta o anche il vostro cellulare e scrivete, scri-vete queste parole… Quando capiteranno quei momenti nei

quali non vi sentite soddisfatti, quei mo-menti nei quali vi manca qualcosa, quei momenti nei quali disprezzate ciò che avete e vorreste altro, quei momenti nei quali date per scontato le relazioni con le persone a voi care, quei momenti un po’ solitari, quei momenti nei quali vi sentite i più sfortunati di questo mondo, quei mo-menti nei quali avete poca fiducia di voi stessi, quei momenti nei quali davanti a qualche insuccesso, smettete di credere in voi stessi e pensate di non essere in gra-do di fare nulla nella vita…. ecco, ripren-dete in mano quel foglio, quel taccuino, quel cellulare e rileggete queste parole, pensando alle persone meno fortunate di voi, ma che nonostante tutto, con le loro mancanze e i loro limiti, sono in grado di vivere al pieno la propria vita con gioia e con tanta speranza!

Delusione viene dal latino de-ludere pren-dersi gioco, etimologia forse poco vicina a quello che pensiamo oggi parlando di de-lusione. Che ci si trovi davanti ad un caso di risemantizzazione, ovvero di assunzio-ne, nel tempo, di un nuovo significato? O che forse quest’antica matrice adombri in sé l’origine di ogni insoddisfazione? E’ lecito chiederselo, specie per i giovani, che di fronte a quelle di un presente ina-datto e di un domani ambiguo non sanno bene che fare. I colleghi della mia generazione sono stati cresciuti sentendosi dire “Non preoccu-parti troppo del domani, vivi l’oggi.” Vi state chiedendo cosa c’entri con la delu-sione? Ci arriviamo in qualche riga. In questo autentico culto per l’hic et nunc, il futuro ha spazio solo in termini di im-minenza. Le passioni sono subitanee, i desideri devono essere appagati in poco tempo o è meglio che muoiano. Così al futuro lontano ed al suo cugino prossimo, il sogno, non viene lasciato poi troppo po-sto. Non parlateci di sogno: non ha lo swing giusto. Un concetto tanto astratto, anti-economico, contro-fattuale che poco tempo ha e merita nel nostro quotidiano, se non come fuga effimera e dorata dal-le incombenze giornaliere. Se si vuole progettare sul lungo periodo qualcosa di così magmatico non è servibile. La realiz-zazione, ci viene detto, a parole o meno, non passa per il sogno. Anzi, non ci viene proprio detto per cosa diamine passi. E se lo si fa, suona in modo simile a “sta-bilità economica”. Come la si consegua poi non è troppo importante, purché sia per fas. E fin qui, teoricamente, tutto bene. Progettare, innovare, ottimizzare.

Ah, come ci suonano bene queste parole. Sanno di moderno, di nuovo che avanza, hanno quell’irresistibile patina di doma-ni all’avanguardia e soleggiato che tutti, specie noi giovani ci auguriamo. D’altra parte viviamo nel convincimento che la propulsione di cui un sogno è capace non abbia niente a che spartire con la metodi-cità di un programma.

ci deludiamo, tornando così al punto di partenza. In ultima analisi una delusione è, spesso, un prendersi gioco di noi stes-si, delle nostre pulsioni, delle nostre vere inclinazioni. Possiamo incolpare solo noi per questo, al limite chi ci ha cresciuto in questa convinzione, ma senza l’accidia di chi, sconfitto, si chiude d’allora in poi ad ogni altra sfida. Quando ci rendiamo con-to di esserci presi gioco di noi, guardiamo negli occhi il nemico, colui che ci ha de-luso, senza timore. Cerchiamo alleati che ci rinfranchino in attesa della prossima battaglia. Non per forza persone – che in ogni caso è bene ci siano un po’ distan-ti –, non per forza negli anni, affinché ci guardino con occhi scevri delle aspettati-ve consce o inconsce che un genitore, un fratello può avere; anche i grandi narrato-ri, i loro personaggi, che al tempo stesso sono loro e sono noi, possono venirci in aiuto. Dobbiamo cercare i nostri maestri, le nostre guide, persone che, dalla cima di un monte d’esperienza, ci indichino la via per la vetta. Quindi, rafforzati, guardare la triste verità: un sogno realizzato non ci piomberà in testa. È necessario costruir-celo, giorno dopo giorno, vederlo crescere ed accettare che possa crollare, che non corrisponda alle nostre attitudini. Ma an-che in quel momento: mai stasi, continua ricerca piuttosto. Guardiamo ogni crisi come quello che è: un momento di discer-nimento, come, anche in questo caso, l’e-timologia ci suggerisce. Giudicare e sce-gliere, per il nostro bene. Perché un vero talento non temerà spread, non temerà fallimenti, delusioni, se fatto fiorire. Scegliere di sognare (come si deve) non è un diritto: è un dovere verso la nostra breve vita.

Delusione: perché bisogna imparare a sognare (come si deve)di Giovanni Ciocca

L’esito? Nel momento in cui veniamo ai sogni, quando non abortiti perché incoe-renti con l’attuale mercato del lavoro, non sappiamo dove mettere le mani, perché non ci siamo presi la briga di progettarli, troppo presi dai nostri effimeri affetti, dal-le «All the things that stop you dreaming» cantate dal poeta Passenger e delle quali media e mode non smettono un secondo di soffocarci. Ubriachi d’oggi, quando il vagheggiato domani si fa presente non abbiamo ancora smaltito la sbronza. E

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Quante volte, fin da bambini, abbiamo sentito nominare Nazareth, Betlemme, il Lago di Galilea, Gerusalemme e anco-ra il Monte degli Ulivi, il Getsemani, il Golgota.Nomi che abbiamo imparato “a dottrina” (così si diceva una volta), nomi sui quali abbiamo fantasticato, leggendo da buoni cristiani il Vangelo o ascoltando a Messa i passi delle Scritture.Quante volte abbiamo pensato a quei Luoghi Santi, dove Gesù è vissuto ed è morto, desiderando di vederli, di toccarli con mano, di “viverli”.Ebbene, per noi ci voleva lo Spirito San-to, o meglio Santo Spirito, per farci rea-lizzare questo desiderio.

E allora via… la nostra prima volta, il nostro primo pellegrinaggio, con curio-sità e passione e, soprattutto, con Don Saulo e Padre Michelini, il massimo che possa offrire un pellegrinaggio in Terra Santa.Chi infatti meglio di loro per accompa-gnarci in un’esperienza che, al di là degli aspetti culturali e turistici, a detta di chi l’ha vissuta, “ti cambia la vita”?In verità, molti dei partecipanti erano alla loro “Terrasanta 2” e quindi già si cono-scevano, ma sinceramente l’amalgama tra vecchi e nuovi è sorto fin da subito così spontaneamente, che l’integrazione è stata tale da creare in noi la sensazione di conoscersi da sempre.Certamente otto giorni insieme dall’alba alla sera hanno facilitato la conoscenza,

ma non è stato solo lo stare insieme, è il “come” siamo stati insieme, è il “come” abbiamo vissuto questo pellegrinaggio!Se Padre Michelini (per i più intimi Padre Giulio) ci ha illustrato sapiente-mente, come fosse una giornata di Gesù a Cafarnao, risulta a noi più semplice spiegare le nostre, di giornate, connotate da un assiduo ascolto tramite auricolari, dalle meravigliose osservazioni dei siti e da un buono sforzo fisico, in verità ben sopportato da tutti (al riguardo un plauso ai tardo adulti... cioè quasi tutti!).Tra un luogo ed un altro, il nostro autista d’autobus, uomo taciturno e baffuto dal-la guida a tratti euforica, manteneva così alta la nostra tensione, che solo Padre

Giulio poteva riuscire a mutare in atten-zione sui bellissimi scorci che indicava con un inconfondibile richiamo orario : a ore 12”, ”a ore 15”, ”a ore 21”!Costanti degli otto giorni sono stati la “conta” e il “controllo” della nostra po-lice privata, dalla sveglia al riposo not-turno: ogni nostro spostamento, a piedi come sui mezzi di trasporto, anche du-rante le rare ore d’aria che, per gentile concessione di Padre Giulio, ci venivano “elargite”. Solerte e attenta a qualsiasi movimento fuori della zona di rispetto (entrate e uscite dai vari luoghi visita-ti) questa specie di polizia interna, con sorriso pari alla fermezza, ha fatto sì che nessuno si perdesse, timore scongiura-to grazie alla disciplina e, onestamente, anche alla sentitissima paura di smarrirsi

dei partecipanti (chissà perché poi?).Luciana, Silvia, Daniela, Claudio e Li-dia (i nostri agenti) hanno dato il meglio di loro nelle varie conte sul pullman (40 persone contate più volte da uno, due e anche tre controllori), roba che neanche a Capanne nelle uscite e nei rientri dalle celle, vero Saulo?!?Bravi e grazie per averci evitato l’ultimo controllo all’aeroporto di S. Egidio!!!Di certo, Claudio ha fatto miglior figura come controllore che come controllato: del resto, pensare di passare inosservato in un aeroporto come il Ben Gurion di Tel Aviv spacciando per bagaglio a mano un trolley, una chitarra e uno zainetto da boy scout, dal quale spuntava un Corno Shofar di circa un metro, era proprio una missione impossibile.A parte gli scherzi, in un contesto tutt’al-tro che poliziesco, sono stati moltissimi i momenti di piacevole relax, magari di fronte ad un buon pasto caldo, tale da compensare il notevole dispendio di ener-gie. È per ciò che l’alimentazione non po-teva che essere mirata: ricca di proteine, carboidrati, vitamine, sali minerali, ma soprattutto pollo. Si, il bianco pennuto, onnipresente e cucinato in mille modi di-versi, ma rigorosamente simili. D’altron-de “cosa vuoi che sia un po’ di pollestero-lo alto» ha detto il medico curante dopo aver visto le recenti analisi; «in compenso è diminuito il colesterolo».Per parlare delle sensazioni provate, ci vorrebbero altre penne.Questi indegni pennini possono solo li-mitarsi ad usare una parola: ”indescrivi-bili”, dedicata a quei luoghi che, visti per la prima volta, trasmettono innumerevoli e difficilmente decifrabili emozioni che, pure nella loro più intima personalità, riuscivano a farci sentire profondamente uniti.Più volte è stato usato il condizionale: ”qui dovrebbe essere passato Gesù”; “qui potrebbe essersi verificato il tale evento; “è probabile che in questo luo-go…”.Tuttavia sempre, laddove veniva rappre-sentata l’incertezza, dentro di noi senti-vamo solo certezze... la FEDE?.Ecco, Terrasanta 2 si è rivelato un sor-prendente cammino di fede “sulle orme

Terra Santa 2“EMOZIONE INDESCRIVIBILE”

di Nadio Trubbianelli e Giacomo Calvieri

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di Gesù”, una splendida occasione per conoscere meglio gli aspetti più ordinari della vita di questo straordinario cittadi-no del mondo di duemila anni fa.E’ cosi che Gerusalemme, Betlemme, Nazareth, Cana, Magdala, Cafarnao, Ko-razim, Kursi, Tabgha e Mar di Galilea, luoghi già di per sé incantevoli, hanno offerto una nuova chiave di interpreta-zione delle Scritture a chi, come noi, non aveva mai intrapreso un viaggio nelle Terre d’Israele e della Palestina. Il visitatore, prima che il fedele, si tro-va immerso in un oceano di storia e di bellezze naturali che incuriosiscono, stu-piscono, ma soprattutto hanno come im-mediata conseguenza quella di suscitare il voler (ri)scoprire la parola di Dio e, in particolare, la vita del figlio Gesù, sotto una nuova ottica. Condotti dall’esperta e sapiente gui-da di Padre Giulio e dalla serenità che solo don Saulo sa trasmettere, abbiamo scoperto qualcosa in più su Cristo e ab-biamo provato ad “ avvicinarci” al suo vissuto. Egli, pur non rinnegando nulla del suo tempo e vivendo in equilibrata armonia con le istituzioni e le persone

dell’epoca, trasforma l’uomo e lo rende ancora più uomo, con la “U” maiuscola (prendendo a prestito le parole di Padre Michelini).Ciò che più colpisce, inaspettatamente, di Gesù è la sua forte umanità, fatta di gestualità, attenzione, ascolto.La sua eccezionalità non sta dunque solo e necessariamente nell’essere l’unigeni-to Figlio di Dio, ma sta anche nel suo es-sere straordinario nell’ordinarietà, nella quotidianità, appunto nella sua umanità, che gli altri percepivano. Il nostro pellegrinaggio è partito dalla Galilea, luogo della vita di Gesù, e si è concluso nella splendida Gerusalemme dopo esser passati per il deserto fiorito della Cisgiordania.Tra i ricordi più belli, che ci hanno se-gnato, la sublime traversata del lago di Tiberiade, luogo della predicazione di Gesù; Korazim che è il posto ideale, con la sua pietra nera, per farsi un’idea della cittadina giudaica del I sec.; Cafarnao, definita dall’insegna all’ingresso “City of Jesus” e testimone della Sua divini-tà ed azione; il palazzo di Hisham con i suoi mosaici e la “finestra rotonda”; la

testimonianza delle difficoltà di un en-tusiasta frate francescano a Gerico; la mistica atmosfera di Gerusalemme, del muro del pianto e dei luoghi del tempio che fanno pensare ad un costante mira-colo di pace tra religioni e culture diver-se, piuttosto che alla poco percepibile instabilità politica; la Via dolorosa, nel percorrere la quale la mente vaga ed i tanti pensieri sono destati dal richiamo, in perfetto italiano, dei gestori dei tan-ti piccoli negozi attaccati l’uno all’al-tro, che oggi e da secoli costituiscono il grande bazar, il suk della città vecchia; le splendide città romane di Scitopoli e Cesarea Marittima che conservano intat-ti tesori inestimabili; il Nazareth Village, dove abbiamo potuto fare un’ inspiran-te esperienza culinaria, trapiantati nella Galilea del I secolo.Abbiamo letto da qualche parte che “fare un pellegrinaggio in Terra Santa significa mettersi in cammino e fare un viaggio fisico, un cammino dell’anima. Camminare su questa terra con il cuore, l’anima e la mente in ascolto per fare un incontro”.Così è stato, almeno per noi, per tutti noi.

C’è un momento particolare nella vita di ogni scout; un momento in cui si met-te in pausa, per un attimo, il gruppone numeroso e chiassoso del reparto e la vita di squadriglia, e si inizia a riflette-re attentamente su quello che vuol dire essere (e non fare!!!) Scout: questo mo-mento si chiama Noviziato; ed io e i miei compagni, da qualche tempo, ci siamo buttati in quest’avventura! Era un rigido pomeriggio di Ottobre quando è iniziato il nostro percorso insieme; un percorso lungo e sconosciuto e (perché no) in sali-ta, ma un percorso che allo stesso tempo ci ha permesso di conoscere tante perso-ne nuove e, soprattutto, ci ha permesso di riempire il cuore a tante altre persone che ne avevano bisogno in un particolare momento della loro vita. Ad esempio: un allegro gruppo di suore; per la maggior parte ultra novantenni, che aveva biso-gno di passare delle domeniche mattine diverse dalle altre. Poco più sotto del nuovo quartiere Monteluce, sulla destra, c’è un grande cancello (fateci caso se ci

Del nostro meglio per essere pronti a SERVIRE di Costanza Castellani

passate) e dietro quel cancello c’è una grandissima struttura che ospita circa una trentina di suore anziane apparte-nenti all’ordine delle suore Francescane Missionarie di Gesù Bambino, che non aspettano altro che qualcuno arrivi per ascoltare le loro meravigliose storie, che si sono svolte ne luoghi più dispa-rati del mondo, come Perù o Ecuador. Oppure, un’allegra Casa Famiglia a Foligno, che anche solo per 2 giorni, ci ha fatto sentire parte di loro, facendoci

vedere concretamente cosa vuol dire es-sere una comunità con le porte sempre aperte agli altri. E senza dimenticare la Caritas di Ostia, che, anche se con molte difficoltà, riesce a dare un tetto e un pa-sto a chi tra le mani non ha più nulla; e noi, nel nostro piccolo, abbiamo provato a dare loro una mano nel servire i pasti e a rimettere in ordine il magazzino, ma sopratutto a riempire la loro mensa e le loro stanze di gioia. È difficile descrive-re in poche righe la gioia che si prova nel dare qualcosa a chi ne ha davvero bi-sogno; che sia una carezza, un pacco di viveri o che sia una mano nel rimettere a posto qualcosa! È arrivato il momento di essere i protagonisti del nostro tempo, il momento di guardarci intorno e rim-boccarsi le maniche: a chiunque incon-triamo vogliamo far capire che siamo sempre pronti a servire e a dare un aiuto concreto al prossimo, per lasciare questo mondo un migliore di come l’abbiamo trovato. “Essere buoni è qualche cosa, fare del bene è molto meglio”.

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Telefoni S. SPIRITO: tel. e fax 075.5720731

Centro parrocchiale Shalom: 075.5734838 e.mail: [email protected]

Cellulari don Saulo 347.1663830; don Maurizio Palomba 340.7757229; padre Dante Volpini 327.3264701; diacono don Giancarlo 349.7485110

Sitiwww.santospiritoperugia.itwww.coro-santospirito.it@

Direttore responsabileBruno BrunoriRedazione:Giancarlo Farina, Saulo Scarabattoli, Camilla Maria Marini, Paolo Tiecco

Hanno collaborato:Suore di Sant’Antonio, Giorgio Panduri, Costanza Castellani, Nadio Trubbianelli, Giacomo Calvieri, Giovanni Ciocca

Stampa e grafica: Tip. Artigiana - PG

Periodico della Parrocchia di Santo Spirito

IL PARIONEDOMENICA DELLE PALME

Messe festive (S. Spirito) Processione ore 10,30 da San Michele

…poi Messa alle 11,30

LUNEDI SANTO Ore 16,30 Shalom

VIA CRUCIS (animata dai ragazzi)

MERCOLEDÌ SANTO ore 17 MESSA DEGLI OLI

(in cattedrale) Nessuna messa nelle parrocchie

GIOVEDÌ SANTO

Santo Spirito ore 18.30 Messa “della Cena del Signore”

Adorazione fino alle ore 22

VENERDÌ SANTO Santo Spirito

ore 9 Lodi Adorazione e confessioni

18.30 celebrazione della Morte del Signore

SABATO SANTO ore 9 Lodi (e riti pre-battesimali) a S. Spirito

ore 16-17 Benedizione cibi a Shalom ore 17-19 Benedizione cibi a S. Spirito

PASQUA DI RESURREZIONE (notte del sabato)

Santo Spirito ore 21,30 Solennissima Veglia

(con il completamento della Iniziazione Cristiana dei ragazzi) (giorno)

Santo Spirito Messe solenni ore 9 e 11,30

Shalom - Ore 18,30 (Attenzione… non a S. Spirito)

50 ANNI - Don Saulo dalla prima messa (marzo 1966) alla “passeggiata” sul lago di Tiberiade (2016).

SETTIMANA SANTA E PASQUA

Sabato 2 aprile 2016 - ore 15Centro Parrocchiale Shalom

“L’AGRICOLTURA CONTADINA”Evento di sensibilizzazione verso i poveri

del mondo promosso dal Masci

Per sostenere la nostra parocchia:Codice Iban: IT78E0631503012100000000228 Casse di Risparmio dell’Umbria Via Baglioni 9 - Perugia