ss a l o v e NN o m i s - cvxlms.it · Ma le forme del colonialismo sono molteplici e le denunce...

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Gentes Lms - Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 - DCB Roma - Dir. Resp. Massimo Nevola sj G G e e n n n n a a i i o o F F e e b b b b r r a a i i o o 2 2 0 0 1 1 0 0 N N º º 1 1 HAITI m m e e n n s s i i l l e e d d e e l l l l a a l l e e g g a a m m i i s s s s i i o o n n a a r r i i a a s s t t u u d d e e n n t t i i e e d d e e l l M M . . A A . . G G . . I I . . S S . .

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HAITI

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SOMMARIO

1 EDITORIALE– Haiti

di Massimo Nevola S.I.

3 STUDIOHAITI. Prima e dopo il terremoto

– Da Colombo a Baby Doc, una storia di sfruttamentodi Corinne Vosa

– Il dolore e la speranza. Quale futuro per Haiti?di Michele Camaioni

– I Gesuiti ad Haiti: «Vicini agli ultimi per una società piùgiusta e solidaledi François Kawas S.I.

18 MISSIONE E SOCIETÀ– Rosarno: accoglienza o rifiuto?

di Gianluca Denora

– Lavoro, successo e felicitàdi Matteo Di Nicola

25 VITA LEGA– Risonanze su Cuba

di Bartolomeo Puca

ROMANIA

– Diario dall’impresa della curadi Leonardo Becchetti

– L’amore in un cucchiaio, la gioia di un semplicemultumescdi Michele Viganò

III DI COPERTINA– Sangue e vita, la fedeltà fino alla fine di Ignacio Ellacuria

e dei gesuiti martiri del Salvadordi Elena Fratini

mensile della lega missionaria studenti e del M.A.G.I.S.

N. 1 Gennaio-Febbraio 2010

Direzione e Redazione: 00144 Roma –Via M. Massimo, 7 – Tel. 06.591.08.03– 54.396.228 – Fax 06.591.08.03 –Spedizione in Abbonamento postaleart. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filialedi Roma – Registrazione del Tribunaledi Roma n. 647/88 del 19 dicembre1988 – Conto Corrente Postale34150003 intestato: LMS Roma.e-mail: [email protected]

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COMITATO DI REDAZIONE

Massimo Nevola S.I. (direttore),Michele Camaioni (redattore capo),Dario Amodeo, Leonardo Becchetti,

Chiara Ceretti, Laura Coltrinari,Maurizio Debanne, Gianluca Denora,

Alessio Farina, Francesco Salustri,Luigi Salvio, Pasquale Salvio,

Gabriele Semino.

Per abbonamenti versareun’offerta libera sulcc postale 34150003

intestato: LMS Romacausale: abbonamento Gentes

Associato alla Federazione StampaMissionaria Italiana

Fotocomposizione e Stampa:

Finito di stampare Febbraio 2010

Associato all’USPI

TIPOFFSET R O M A s r l

Gennaio-Febbraio n. 1-2010 1111

M entre con la redazione stavamochiudendo il palinsesto del primobimestre dell’annata, dedicato alla

memoria del P. Matteo Ricci, missionario ita-liano di straordinario valore, di cui in maggioricorre il quarto centenario della morte, ilmondo intero è stato sconvolto dalle notizieche sono giunte da Haiti. Abbiamo allora, dicomune accordo con la redazione e i respon-sabili dei movimenti Lms e Cvx, deciso di farslittare la monografia a maggio, nella ricor-renza appropriata, per concentrare l’attenzio-ne dei lettori su un dramma che non ha equi-valenti negli ultimi 80 anni.Uno studio su Haiti ci dimostra tuttavia la re-sponsabilità che il mondo occidentale, svi-luppato e civile, ha nei confronti di questatragedia. Se le conseguenze del colonialismosono state nefaste per intere popolazioni del-l’Africa e dell’Asia, nelle Americhe il discorso appariva diverso, avendo ricevu-to tutte le nazioni l’indipendenza politica da oltre un secolo. Haiti addiritturada quasi due secoli. Ma le forme del colonialismo sono molteplici e le denuncepresentate in sede Onu da oltre quarantanni a questa parte, dimostrano comelo sfruttamento di latifondi da parte di note industrie alimentari che un po’dappertutto hanno imposto monoculture, abbia di fatto svilito l’autodetermi-nazione di interi popoli. Dalla fine degli anni ’60 tantissimi missionari religiosie laici hanno pagato con la vita l’impegno dell’evangelizzazione nelle terre d’A-merica per la fedeltà alla promozione integrale dell’uomo e quindi la difesa au-tentica di dignità e libertà. Rutilio Grande, Oscar Romero, Ignacio Ellacurriasono solo alcuni dei nomi più noti di una schiera che conta oltre un migliaiodi nuovi martiri.Nell’isola di Ispaniola, nel territorio hitiano, già nei primi anni sessanta la chie-sa – per la fedeltà all’uomo e alla sua dignità – ha subìto persecuzioni. In parti-colare la Compagnia di Gesù che vide l’espulsione dei suoi missionari canadesinel 1964. Una decina d’anni prima la S. Sede aveva chiesto ai gesuiti del Cana-

EDITORIALE

Haiti

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da la direzione del gran Seminario interdiocesano di Port-au-Prince; dopo po-chi anni i gesuiti aprirono una casa di Esercizi e inaugurarono una emittenteradiofonica di carattere religioso ed educativo, per far fronte al gravissimo pro-blema dell’alfabetizzazione e della coscientizzazione delle masse contadine. Mail 12 febbraio 1964 i 18 gesuiti canadesi furono espulsi dal dittatore FrançoisDuvalier, il famigerato Papadoc, con l’accusa di attentato alla sicurezza delloStato. Sono tuttavia tragicamente noti i legami di amicizia, di fedeltà incondi-zionata che il regime di Duvalier (padre e figlio) ha avuto fino al 1986 con gliUsa, per l’importanza strategica delle sue frastagliatissime coste ad appena 50miglia da Cuba. Riabilitati nel marzo 1986, i gesuiti operanti in Haiti hanno ri-preso con piena legalità il proprio ministero pastorale e si sono segnalati finoai nostri giorni per fervore e concretezza di opere a favore dei più poveri, cioèl’80% della popolazione. Significativo al riguardo sarà leggere l’appello che essirecentemente hanno lanciato alle istituzioni locali e internazionali affinché sistabiliscano iniziative serie per il vero sviluppo del popolo. Haiti non ha biso-gno di qualche elemosina e di operazioni di facciata che lasciano il tempo chetrovano.La tragedia sismica smaschera infatti la tragedia più profonda di un popolo te-nuto in schiavitù fino all’altro ieri. Occorrono istruzione, infrastrutture, un mi-nimo di industrie, rilancio dell’agricoltura, e non solo turismo. La Chiesa conti-nuerà a fare la sua parte nell’ambito dell’istruzione e della coscientizzazionepopolare. Non si può chiedere alla Chiesa in quanto istituzione che si faccia ca-rico di altro. I governi che dichiarano d’ispirarsi al cristianesimo, a iniziare dalnostro, se non giocano con le parole per evidenti tornaconti elettorali, debbonodimostrare buona volontà e con essi gli imprenditori, sapendo bene che in unPaese dove la democrazia non è mai stata di casa ci sono alti fattori di rischio.Ma chi rischia su un popolo di schiavi? La domanda, lungi dal voler ricacciarela riflessione in un circolo vizioso (non ci saranno investimento né svilupposenza sicurezza sociale, ma non ci sarà sicurezza sociale senza investimenti elavoro decentemente retribuito) ci porta ad allargare il discorso, valorizzandoanche l’impegno di ong e di Banca Etica e di Commercio Solidale, piccole manon deboli alternative al commercio dell’alto capitale. E ci porta a riflettere an-che sui problemi di casa nostra, drammaticamente emersi con la crisi esplosanei primi dell’anno a Rosarno. Tutti sapevano tutto, e da anni. Ancora una vol-ta quella della Chiesa missionaria nel territorio è stata la voce più esposta e il-luminata. Possiamo vantarcene però solo in parte, perché tanta altra parte dicristianesimo benpensante è pronta a relegare i nuovi schiavi in ghetti e a ri-cacciarli in Paesi dove non c’è futuro (e non certo solo per responsabilità dellepopolazioni locali). Ma intanto voci autorevoli si levano, voci che dicono quan-to la dottrina sociale cristiana possa ispirare il futuro economico e sociale delterzo millennio. Diventiamone sempre più consapevoli e allora davvero Haiti,Rosarno, Agrigento diventeranno luoghi vivibili.

Massimo Nevola S.I.

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STUDIO

HAITI.Prima e dopo il terremoto

Sono centinaia di migliaia le vite brutalmente spezzate dal sisma che il 12 gennaio haraso al suolo interi quartieri della capitale haitiana di Port-au-Prince.Mentre i governi e la società civile di mezzo mondo si mobilitano per i soccorsi, sull’iso-la prosegue quella quotidiana lotta per la sopravvivenza, cui la maggioranza della popo-lazione era purtroppo già abituata da prima dello scatenarsi degli elementi. Complici ladominazione coloniale spagnola e poi francese, ma anche lo scellerato modello di svi-luppo promosso dai governi dittatoriali che si sono succeduti nel secolo scorso con l’a-vallo degli Stati Uniti, Haiti è infatti da anni uno dei Paesi più sofferenti e problematicidel pianeta.Insieme alla dolorosa constatazione che spesso sono proprio i più poveri a subire l’in-sondabile violenza della natura, il dramma del terremoto e l’inattesa convergenza suHaiti di ingenti risorse destinate a fronteggiare la catastrofe, sollevano anche la questio-ne delicata della ricostruzione. Che non deve costituire l’ennesimo capitolo di una sto-ria di miseria e sfruttamento, ma può rappresentare il volano per una rinascita che so-spinga finalmente il popolo haitiano verso un futuro di libertà e autodeterminazione.

POLITICA E TERRITORIO

CAPITALE: Port-au-Prince (2 mln ab. ca.)ORDINAMENTO: Repubblica presidenzialePOPOLAZIONE: 9.035.536 (stima 2009)SUPERFICIE: 27.750 km2

CLIMA: tropicale equatoriale/oceanico.CONFINI: N-O-S Oceano atlantico (S Mar deiCaraibi), E Repubblica Dominicana.

SOCIETÀ

ALFABETIZZAZIONE: 53%.LINGUE: francese, creolo haitiano (ufficiali), in-glese.MORTALITÀ INFANTILE: 74 x 1000.RELIGIONE: 80% cattolici, 16% protestanti,1% atei, 3% altre. Pratiche vudù 50%.SPERANZA DI VITA: 51M, 53F.

HAITI

ECONOMIA

DISOCCUPAZIONE: 60%.INDICE DI POVERTÀ (persone che vivono conmeno di un dollaro al giorno). 54%.SETTORI TRAINANTI: agricoltura, turismo.RISORSE AGRICOLE: banane, caffè, canna dazucchero, cocco, mango, olio.PIL: 14.917 mln $ (2005, 124°).PIL PRO CAPITE: 1.791$ (2005, 150°).SPESE MILITARI: 1% Pil.VALUTA: goude haitiano.

NB: le cifre riportate in tabella si riferiscono aprima del terremoto del 12 gennaio 2010.

L o stato di Haiti ricopre la parteoccidentale dell’isola caraibica diHispaniola, il cui territorio divide

con la Repubblica Dominicana. Un tem-po colonia francese, nonostante sia statanel 1804 una delle prime nazioni delleAmeriche dopo gli Stati Uniti a dichiara-re la propria indipendenza, tra tutti glistati americani Haiti attualmente è il piùpovero. Per comprendere i motivi di talecondizione, resa ancor più drammaticadal tremendo terremoto che ha colpito lacapitale Port-au-Prince il 12 gennaioscorso, è necessario guardare alle com-plesse vicende storiche che hanno inte-ressato Haiti nei secoli dell’età modernae contemporanea. L’isola di Hispaniolafu inizialmente dimora degli indigeni tai-no e arauachi, finchè il 5 dicembre 1492approdò sulle sue coste, nel punto in cuioggi sorge Mole Saint-Nicolas, la SantaMaria comandata da Cristoforo Colom-bo. L’intera isola fu rivendicata in favoredella Spagna e Hispaniola assunse cosìlo status di colonia della corona castiglia-na. Nel quarto di secolo successivo, la ri-duzione in schiavitù degli autoctoni e ilconseguente peggioramento delle condi-zioni di vita condussero a una drammati-ca diminuzione della popolazione indige-na. Al fine di sopperire alla carenza dimanodopera, gli spagnoli cominciaronoallora a deportare su Hispaniola schiavi

africani, impiegati soprattutto nella ri-cerca dell’oro. L’interesse della Spagnaverso l’isola diminuì tuttavia irreversibil-mente agli inizi del XVII secolo, quandosi verificò il ritrovamento di immenseminiere d’oro e d’argento in Messico e inPerù. Nel 1606 tutti i coloni, per ordinedel sovrano spagnolo, dovettero spostarsinei pressi della capitale dell’isola, chia-mata Santo Domingo: ciò da una partepermise di proteggere la popolazione da-gli attacchi dei pirati, ma al contempo fa-vorì l’insediamento di questi ultimi, inparticolare dei pirati inglesi, olandesi efrancesi, lungo le abbandonate coste set-tentrionali e occidentali. Divenne parti-colarmente famosa la Fratellanza dellaCosta, composta da bucanieri e schiavifuggiti, soprannominati maroons. Anchese i francesi iniziarono a colonizzare Hi-spaniola nel 1625, ne rivendicarono ildominio sulla parte occidentale solo nel1664. Nel 1697, con il trattato di Rij-swijk, la Spagna cedette ufficialmente lafrazione di territorio più occidentale del-l’isola alla Francia: la nuova colonia fu ri-battezzata Cote francaise de Saint-Do-mingue. A differenza della parte spagno-la dell’isola (corrispondente alla porzionecentrale ed orientale), che era scarsa-mente considerata dalla corona spagno-la, quella francese conobbe un periodo incui la sua economia divenne talmente

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Da Colombo a Baby Doc, una storia di sfruttamentoDalla prima conquista spagnola ai tempi di Cristoforo Colombo alla successiva domi-nazione coloniale francese, conclusasi solo nel 1804 con l’indipendenza, negli ultimi se-coli Haiti ha dovuto subire costantemente l’ingerenza delle grandi potenze. Nel Nove-cento, il faticoso percorso verso una reale emancipazione della società haitiana ha ri-sentito pesantemente dell’alternarsi al potere di presidenti autoritari sostenuti dagliStati Uniti, i cui interessi geopolitici hanno spesso prevalso sulle legittime rivendica-zioni di un popolo troppo a lungo schiavo di padroni irresponsabili.

florida da renderla la più ricca delle colo-nie dell’emisfero occidentale. Ciò fu pos-sibile grazie prevalentemente alle notevo-li esportazioni di zucchero e cacao. Lapopolazione della colonia era compostada tre differenti gruppi etnici: quello de-gli europei (circa 32mila nel 1790), i qua-li detenevano il controllo politico ed eco-nomico; quello della gens de couleur(28mila individui liberi e di sangue mi-sto, di cui la metà mulatta, definibili co-me classe sociale di status inferiore); infi-ne, quello degli schiavi africani (addirit-tura 500mila). Infatti la terra di nascitadella maggior parte degli schiavi non eraHaiti, ma proprio l’Africa: causa di ciòerano le brutali condizioni di vita, cheimpedivano la naturale crescita della po-polazione e richiedevano l’afflusso conti-nuo di schiavi dal Continente nero. Infi-ne, vi erano quelli noti con il termine in-glese maroons, che indicava ex schiavi iquali, sfuggiti ai loro padroni, dimorava-no nelle terre più elevate, completamenteestranei al resto della colonia.Tale situazione rimase inalterata fino allarivolta decisiva contro i francesi guidatada Toussaint L’Ouverture, tuttora consi-derato un padre della nazione. Sull’ondadella Rivoluzione Francese, le gens decouleur iniziarono a fare pressione sulgoverno coloniale al fine diottenere la concessione deidiritti fondamentali. Nell’ot-tobre 1790 si ribellarono algoverno francese ben 350 diessi e il 15 maggio 1791 l’As-semblea Nazionale franceseconcesse ad ogni mulatto onero nato libero i diritti poli-tici, non modificando peròlo status di coloro che eranoancora schiavi. Fu per que-sto che, il 22 agosto1791, glischiavi della zona di Cap-

Francais (l’attuale Cap-Haitien) si ribella-rono ai loro padroni. Toussaint L’Ouver-ture si schierò a favore delle gens de cou-leur e dei maroons, i cui diritti erano im-provvisamente stati revocati dal governofrancese, intimorito dalle rivolte. Nono-stante i ribelli di L’Ouverture trionfasse-ro, dovettero comunque scendere a patticon la Francia nel 1794, successivamenteall’emanazione di un decreto attraversocui il governo rivoluzionario abolì laschiavitù. Sempre sotto la guida di Tous-saint, il nuovo esercito di Saint-Domin-gue sconfisse poi le truppe nemiche bri-tanniche e spagnole. La cooperazione trai due schieramenti si concluse tuttavianel 1802, quando Napoleone Bonaparteinviò sull’isola un nuovo esercito: ciòprovocò panico tra gli abitanti, i quali te-mevano la reintroduzione della schia-vitù. Ebbero la meglio le forze francesi eToussaint dovette accettare una tregua.Tradito e catturato, esalò il suo ultimorespiro in una prigione francese. Il suotragico destino fu però la scintilla cheriaccese gli animi dei ribelli e soprattuttoquelli di Jean-Jacques Dessalines e HenriChristophe che, a capo di altri schiera-menti in lotta, decisero di porre fine allatregua e riprendere a combattere. Nelfrattempo, una grave epidemia di febbre

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gialla scoppiata sull’isola creò scompigliotra le truppe napoleoniche. Il 18 novem-bre 1803, così, l’esercito di Dessalinessconfisse definitivamente i francesi nellabattaglia di Vertières. L’ex colonia di-chiarò finalmente la propria indipenden-za il 1° gennaio 1804. Questa fu ricono-sciuta però dalla Francia solo nel 1825 edagli Stati Uniti addirittura nel 1863.Saint-Domingue venne ribattezzata Haitiin onore della popolazione degli araua-chi, che chiamavano l’isola Ayiti. Dessali-nes ne divenne governatore generale nel1804 e, nello stesso anno, se ne autopro-clamò imperatore.L’appena sorta repubblica supportò lacausa abolizionista nelle co-lonie americane ovunque lefosse possibile. Ne fu dimo-strazione la decisione del go-verno haitiano di aiutare Si-mon Bolivar, offrendogli ri-fugio e appoggiando la suacausa indipendentista a con-dizione che liberasse poi glischiavi dell’America Latina.Le potenze coloniali, preoc-cupate, isolarono Haiti conuna sorta di cordone sanita-rio, il cui intento era di evita-re il propagarsi delle rivolte degli schiavi.Ci sono storici che ritengono, infatti, chela «rivoluzione» haitiana abbia ispiratonumerose rivolte di schiavi nei Caraibi enegli Stati Uniti. Perfino la Chiesa catto-lica ritirò i propri sacerdoti da Haiti enon inviò altri religiosi fino al 1860. LaFrancia stessa negò l’indipendenza allasua colonia, finchè quest’ultima non eb-be pagato 150 milioni di franchi come ri-sarcimento ai proprietari terrieri francesiin seguito alla rivoluzione del 1833. Na-turalmente questo pagamento rappre-sentò un grave danno per l’economia del-l’isola.

In seguito all’assassinio nel 1806 di Des-salines, Haiti venne divisa in due stati: asud una repubblica fondata da AlexandrePètion, a nord un regno sotto il dominiodi Henri Christophe, il quale si fece co-struire otto palazzi, tra cui la sua roc-caforte di Sans Souci e l’imponente Cita-delle Laferrière, considerata la più vastafortezza dell’emisfero occidentale. Nell’a-gosto del 1820, Christophe soffrì di unaparziale paralisi a causa di alcuni attac-chi ischemici. La diffusione di tale noti-zia portò all’ammutinamento della guar-nigione militare presso Saint Marc il 2ottobre dello stesso anno. I generali diChristophe iniziarono a tramargli con-

tro, mentre i pochi uominirimastigli fedeli lo condusse-ro nella Cittadella, in cuimorì tragicamente suicidan-dosi dopo aver chiesto di es-sere lavato, vestito con la suauniforme militare e lasciatosolo sulla sua sedia preferita.Dopo la sua morte, la nazio-ne venne riunificata graziealla guida di Jean-PierreBoyer e assunse il nome diRepubblica di Haiti. Boyer,inoltre, invase la colonia spa-

gnola di Santo Domingo, riunificandocosì l’intera isola di Hispaniola. SantoDomingo rimase sotto il dominio haitia-no fino al 1844, quando ottenne l’indi-pendenza con il nome di Repubblica Do-minicana.Per tutta la seconda metà del ??? secolo,Haiti conobbe uno stato di costante in-stabilità politica, conoscendo l’alternarsidi una serie di presidenti in carica soloper brevi periodi. Intanto, l’economiahaitiana finì per essere sempre più con-trollata dalle potenze straniere, in parti-colare dalla Germania. L’influenza tede-sca e avvenimenti come l’impiccagione

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“L’ex colonia dichiaròfinalmente la propria

indipendenza il1° gennaio 1804.

Questa furiconosciuta

però dalla Franciasolo nel 1825

e dagli Stati Unitiaddirittura nel 1863”

del presidente Guillaume Sam per manodella folla inferocita, catturarono l’atten-zione degli Stati Uniti che, preoccupati,intervennero occupando Haiti nel 1915.Essi imposero una costituzione, che ven-ne redatta dal futuro presidente america-no Franklin Delano Roosevelt, e intro-dussero il sistema delle corvèe, applicatoa tutta la popolazione, e non solo allamaggioranza nera come avveniva prece-dentemente. L’occupazione produsse an-che dei miglioramenti: si costruironoospedali, scuole, strade e fu lanciata unacampagna che cancellò finalmente lafebbre gialla dall’isola. Vi furono però al-trettanti cambiamenti negativi, come laforte centralizzazione del potere politicoed economico sia nelle province che nel-la capitale: ne derivò la distruzione deltessuto socio-economico delle campagne,con un conseguente esodo verso la capi-tale. Dinanzi a ciò, alcuni ribelli, deno-minati Cacos, diedero vita a una lungaguerriglia, condotta in un primo momen-to da Charlemagne Pèralte e in un secon-do da Dominique Batraviolle. Controlla-to dagli Stati Uniti, il governo haitianoreagì istituendo una Guardia Nazionale,divenuta nei decenni consecutivi l’Armèed’Haiti, la quale finì però col macchiarsidi molteplici atrocità, compiute ai dannidella popolazione civile.L’occupazione statunitense ebbe terminenel 1934 e la gestione di Haiti fu lasciatanelle mani della minoranza mulatta. No-nostante gli sforzi di riforma di Dumar-sais Estimè, che nel 1946 divenne il pri-mo presidente di colore dal 1915, la si-tuazione non migliorò affatto, anzi au-mentò il caos in cui versava il paese. Sigiunse così nel 1950 a un colpo di stato,quando Estimè tentò di prolungare il suomandato oltre la durata legale. Nacqueinfatti un Consiglio Militare di Governo,guidato da Paul Magloire. Nel 1957 furo-

no tenute ad Haiti le prime elezioni asuffragio universale, il cui esito (che mol-ti ritengono fosse stato manipolato dal-l’esercito e favorito dagli Stati Uniti)mandò al potere il dottor Francois Duva-lier, detto Papa Doc. Quest’uomo, autodi-chiarandosi presidente a vita nel 1964,mantenne per diversi anni il controllosull’intera popolazione, istituendo unavera e propria polizia segreta, i Volontariper la Sicurezza Nazionale, tristementenoti anche come tonton macoutes («uo-mini spettro»), dal nome di una figuradella tradizione locale, l’uomo nero. Taleorganizzazione venne frequentementecriticata a livello internazionale a causadei trattamenti violenti che riservava aisuoi avversari politici, veri o presunti ta-li.Duvalier si spense nel 1971 e gli succe-dette il figlio diciannovenne Jean-Claude,soprannominato Baby Doc, in qualità dinuovo presidente a vita. Di questo nuovoregime furono caratteristici la corruzio-ne e la scelta scellerata, adottata su pres-sione del potente vicino statunitense, ditrasformare la struttura produttiva delpaese: da un’economia essenzialmenteagricola, Haiti passò a uno sviluppo in-centrato sulla creazione di un forte setto-re manifatturiero per l’esportazione. Ol-tre a diventare il mercato ideale per le ec-cedenze agricole americane, Haiti persecosì l’autosufficienza alimentare e mi-gliaia di contadini si videro costretti amigrare verso le città, in particolare lacapitale Port-au-Prince, dove iniziaronoa costituirsi quelle baraccopoli sovraffol-late venute giù con effetti devastanti sot-to le scosse del sisma del 12 gennaioscorso. Soltanto una sollevazione popo-lare avrebbe potuto porre fine allo stra-potere di Jean-Claude e fu proprio attra-verso questa strada che, nel 1986, il do-minio dei Duvalier su Haiti ebbe termi-

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ne. I primi segnali di inde-bolimento del regime diBaby Doc si ebbero nellaprima metà degli anni ’80con la diffusione di un vastomovimento popolare, che fupromosso dalla Chiesa loca-le e rafforzato nel 1983 dallavisita di papa Giovanni Pao-lo ?? il quale, prima di saliresul suo aereo, pronunciò undiscorso dai toni piuttostoaccesi, che si concluse conl’esclamazione: «Le cose de-vono cambiare qui!». Durante il 1984, lerivolte contro il governo si diffuseroovunque nella nazione e, al contempo, fupresentato dalla Conferenza episcopaledi Haiti un programma di alfabetizzazio-ne finalizzato a preparare i cittadini hai-tiani a una più consapevole partecipazio-ne al processo elettorale. Il regime fu de-finitivamente abbattuto nel 1986, maquell che seguì fu un periodo ricco diagitazioni. Nel 1991 il leader carismaticoJean-Bertrand Aristide fu eletto presi-dente, ma venne deposto dal suo incari-co pochissimo tempo dopo. I tre annisuccessivi furono segnati dal cruentocontrollo di una giunta militare, finchéAristide non tornò al potere nel 1994 gra-zie all’intervento statunitense: il suo pri-mo atto fu lo scioglimento dell’esercito,provvedimento che lo rese molto popola-re tra gli abitanti di Haiti. Nel 1996 adAristide succedette il suo alleato, nonchéex-primo ministro, René Préval. Non bi-sogna dimenticare che, se Aristide fu ilprimo presidente haitiano eletto demo-craticamente, Préval fu il primo sia aportare a compimento il suo mandatosenza alcuna interruzione, sia a lasciareil suo incarico di propria volontà unavolta giunto al termine dello stesso.Nel 2001 però Aristide si riappropriò

nuovamente del potere in seguito ad unavotazione che fu boicottata da diversisuoi avversari i quali insinuarono che ilsuo partito, il Fanmi Lavalas, avesse fal-sificato i voti di una precedente elezionedel senato. Aristide negò con convinzio-ne tali imputazioni, accusando i rivali diessersi sottomessi all’influenza america-na e di aver, inoltre, tramato alle suespalle. Nel febbraio del 2004 si scatena-rono nuovi disordini e violenze, dovutiprincipalmente alla rivolta popolare dif-fusa da un gruppo di ribelli armati, gui-dati da bande urbane precedentementeal servizio del partito presidenziale e dagruppi di ex soldati. Il 29 febbraio Aristi-de e diversi altri membri del suo partitolasciarono il paese, cercando rifugio all’e-stero. Ancora una volta, intervennero gliUsa, facendo sbarcare i marine nella ca-pitale Port-au-Prince e nominando presi-dente il giudice capo della Corte Supre-ma, Boniface Alexandre, con l’appoggiodel Canada e della Francia. Infine, con leelezioni presidenziali tenutesi il 7 feb-braio 2006, è stato rieletto presidenteproprio René Préval, nonostante i suoiavversari abbiano denunciato i brogli dicui si sarebbero resi protagonisti i suoisostenitori.

Corinne Vosa

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«S olo la fede ci tiene in pie-di, oggi, di fronte al no-stro paese devastato. Te-niamo duro perché siamo

pienamente consapevoli della grandezzadella prova, di tutto quello che dovremofare per superarla. Dovremo costruire lapiù grande catena di solidarietà della no-stra storia. Questo terremoto dovrà servir-ci a qualcosa, è essenziale che i sopravvis-suti lo capiscano. Niente può rimanereuguale a prima. Altrimenti per noi sarà lafine». Cerca la speranza oltre il dolore, lascrittrice Ketty Mars, il sogno di un futuromigliore per Haiti oltre le macerie e unamiseria marcia di secoli, di cui il mondosi era quasi dimenticato fino al terrifican-te terremoto del 12 gennaio. A quasi unmese dal tragico evento, mentre l’impo-tente governo guidato dallo sfuggente pre-sidente Réne Préval non può che affidare isoccorsi alle forze Onu e al potente vicinoamericano, l’orizzonte delle migliaia dihaitiani scampati al sisma non vaperò oltre la sopravvivenza giornalie-ra. Dopo due settimane di caos e po-lemiche per la disorganizzazione nel-la distribuzione dei primi aiuti e perla pretesa statunitense di affrontarel’emergenza umanitaria con metodimilitari, la macchina dei soccorsi hafinalmente iniziato a girare a ritmisostenuti, anche se i resoconti digiornalisti e operatori presenti nell’i-sola descrivono ancora situazioni allimite della sostenibilità, come quelladegli accampati davanti al semi-di-

strutto palazzo presidenziale, che dispon-gono di una sola latrina per 10mila perso-ne. Nei primi giorni successivi al sisma, lecronache dei giornali e le immagini tra-smesse dalle televisioni si sono soffermatecon particolare enfasi sulla drammaticabagarre dei soccorsi, setacciando le mace-rie sterminate di Port-au-Prince alla ricer-ca di salvataggi eclatanti e di quelle storiequotidiane di speranza e disperazione,che inevitabilmente si intrecciano tra lapolvere e il sangue di una città spezzatacome Port-au-Prince.Colpivano, insieme al dramma delle mi-gliaia di orfani per i quali sono giunte ri-chieste di adozione da ogni parte del pia-neta, le folle immense e le risse di dispera-ti costretti a contendersi i primi, insuffi-cienti aiuti lanciati dagli elicotteri degliamericani o distribuiti, nel caos più asso-luto, dai principali enti e ong internazio-nali. Acqua, cibo, medicinali: per lungotempo ancora la gente di Haiti avrà biso-

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Il dolore e la speranza. Quale futuro per Haiti?Mentre la popolazione di Port-au-Prince piange i suoi morti e lotta per una sopravvi-venza legata totalmente agli aiuti internazionali, ad Haiti si inizia a pianificare la deli-cata fase della ricostruzione.

gno di aiuti dall’estero per sopravvivere edè per questo che, tra la fine di gennaio e iprimi di febbraio, quelli del World FoodProgramme sono riusciti ad allestire final-mente allestito un programma di distribu-zione più efficiente e razionale, che preve-de 16 centri fissi a cui hanno accesso sol-tanto le donne. «L’esperienza ci ha dimo-strato che il cibo arriva meglio se affidatoalle donne», ha spiegato Marcus Prior,portavoce del Wfp presso la base delle Na-zioni Unite situata di fianco al piccolo ae-roporto di Haiti, trasformatosi dal 12 gen-naio in un imbuto costantemente ingolfa-to da un flusso ininterrotto di aerei di tuttii tipi. Se acqua e cibo iniziano ad arrivare(quasi) a tutti, differente è la situazione ri-guardante la dotazione di tende alle fami-glie rimaste senza un tetto. A meno di duemesi dall’inizio della stagione delle piog-ge, che ad Haiti possono causare inonda-zioni dalle conseguenze spaventose comequelle apocalittiche del 2008, sono infattiancora circa 200mila i nuclei familiari co-stretti a ripararsi sotto teloni di fortuna inquelle che, per un paradosso tutt’altro chedivertente, sono di fatto delle «tendopolisenza tende».Legata a quella delle tende è poi la que-stione, come sempre delicata dinanzi aguerre e catastrofi capaci di mettere in gi-nocchio un’intera nazione, della ricostru-zione. Per molti haitiani, soprattutto peralcuni dei membri più in vista dell’intelli-ghentzia artistica e culturale dell’isola co-me la scrittrice e attivista Suzy Castor, «laricostruzione potrebbe essere un’occasio-ne di riscatto. Dovremmo sgonfiare que-sto mostro di capitale da Terzo Mondo eridare dignità alle province. Durante l’oc-cupazione americana di primo ’900 e ladittatura dei Duvalier, l’attività di Haitivenne concentrata qui, per spremere me-glio le tasse dai commerci. Se gli aiuti an-dassero anche alle province non toccate

dal sisma, se il governo riaprisse i porti eattirasse manifatture, la gente si muove-rebbe là. Bisognerebbe costruire nuovi in-sediamenti, ma costerebbe meno che suqueste rovine».Forte è però la paura che, a causa dellepressioni internazionali, Haiti perda l’en-nesimo treno verso uno sviluppo più equi-librato e sostenibile. «È una farsa già vista– ha dichiarato al Corriere della Sera GioriFerrazzi di Terre des Hommes –. Nel ’72 cifu un terremoto a Managua che distrusseil centro storico. Dopo l’emergenza il fiu-me di denaro diventò un rivolo e, tra cor-ruzione e indecisioni, la gente si arrangiòda sola. Se Haiti non decide ci aspettanosolo due possibilità. O i senzatetto lascia-no le macerie e colonizzano disordinata-mente nuove aree o aggiusteranno inqualche modo le strutture cadenti. In en-trambi i casi sarà un disastro. Fra sei mesisarà impossibile spostarli, dare loro servi-zi, acqua, piazze, scuole. Port-au-Princeresterà per altri 50 anni un conglomeratocondannato al sottosviluppo dove non sipotrà lavorare, studiare, migliorarsi. Pro-prio com’è accaduto a Managua». L’im-pressione, tuttavia, è che né le istituzioni,né tantomeno la popolazione di Haitiavranno voce in capitolo nel grande affaredella ricostruzione, che secondo diversianalisti potrebbe rappresentare per gliStati Uniti l’occasione ideale per consoli-dare la propria influenza economica egeopolitica sulla piccola isola caraibica,che negli ultimi tempi non si era mostratacerto immune alle carezze del venezuela-no Hugo Chavez e del cubano Fidel Ca-stro, rispettivamente pronti a inviare pe-trolio e medici ad Haiti nel tentativo diconquistare Préval alla causa socialista.Nel significativo passaggio di un’intervistaripresa su Peacereporter.net, la docenteuniversitaria Camille Chalmers, membrodi Jubileo Sur e segretario della Plateforme

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Haïtienne de Plaidoyer pour un Développe-ment Alternatif (Papda), riassume in ma-niera efficace la posizione di coloro i qualivedono nell’ingerenza statunitense sullavita economica e politica di Haiti la causaprincipale dell’arretratezza e della povertàdella piccola ex-colonia francese: «L’eco-nomia haitiana ha conosciuto negli ultimianni un costante deterioramento, benrappresentato dalla svalutazione del gour-de, la moneta nazionale, nei confronti diquella statunitense: nel 1994 ne servivano7 per acquistare un dollaro, oggi 35. La di-soccupazione supera il 70% della popola-zione economicamente attiva e l’aperturacommerciale e finanziaria ha reso fioren-te il settore bancario, ma haportato al collasso interi set-tori produttivi. Il paese è dive-nuto ancor più dipendentedall’estero – ha aggiunto laChalmers – tanto che oggiimporta l’80% del propriofabbisogno di riso, mentrenel 1972 era autosufficiente, esono stati persi altri 800milaposti di lavoro. Questa crisi èlegata alla transizione politicainiziata nel 1986 con la cac-ciata del dittatore Jean-Claude Duvalier emai giunta a compimento a causa delconflitto tra le spinte democratiche delmovimento popolare e la volontà degliStati Uniti e dell’oligarchia locale di man-tenere il controllo sul paese. A questo sco-po, Washington cerca di presentare quellohaitiano come uno stato in “bancarotta”,al fine di giustificare un proprio interven-to per la difesa della democrazia e la rico-struzione del paese, naturalmente garan-tendo contratti miliardari alle impresetransnazionali. In questo senso la Missio-ne delle Nazioni Unite per la stabilizzazio-ne di Haiti (Minustah) è di fatto una nuo-va formula di occupazione militare, che si

inserisce in una lunga storia di scontro trala volontà indipendentista del popolo hai-tiano, che con la rivoluzione nera del 1804mostrò la possibilità di una rottura radi-cale col sistema mondiale di dominazio-ne, e quella delle grandi potenze di tenereil paese sotto tutela».Non può sorprendere dunque il malcelatoscetticismo con cui numerosi esponentidel mondo economico e del volontariatointernazionale guardano alle prime misu-re annunciate dalle Nazioni Unite e inparticolare dal Fondo monetario interna-zionale (Fmi) per far fronte alla grave si-tuazione haitiana: «Nel tentativo di aiuta-re Haiti, il Fondo monetario internaziona-

le sta usando le stesse politi-che che in passato hanno re-so il paese più povero e piùfragile – ha scritto RichardKim su The Nation –. L’Fmiha annunciato un altro pre-stito di cento milioni di dolla-ri all’isola. Ma il prestito èconcesso dalla sezione credi-to differito del Fondo, a cuiHaiti deve già 165 milioni didollari. Questi prestiti vengo-no concessi a certe condizio-

ni, tra cui l’aumento del prezzo dell’elettri-cità, il contenimento dei salari dei dipen-denti pubblici e dell’inflazione. Secondo isostenitori della cancellazione del debito,l’Fmi usa la crisi e il debito come leva perimporre riforme neoliberiste».Non ripetere gli errori del passato è ancheil mantra ripetuto in maniera quasi osses-siva negli ultimi tempi da analisti ed eco-nomisti che stanno cercando di indirizza-re la politica degli Stati Uniti nei confron-ti di Haiti in una direzione che possa ve-ramente portare a un futuro migliore perla popolazione dell’isola. Particolare riso-nanza hanno ottenuto presso l’opionionepubblica occidentale le proposte di Jeffrey

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“Nel tentativodi aiutare Haiti,

il Fondo monetariointernazionale stausando le stesse

politiche chein passato hanno

reso il paesepiù povero

e più fragile”

Sachs, direttore dell’Earth Institute dellaColumbia University, il quale in un artico-lato intervento sul Washington Post hapromosso la costituzione di un Haity Re-covery Fund, un fondo speciale gestito dalpresidente René Préval, dal segretario del-l’Onu e dai grandi paesi donatori, che do-vrebbe avere durata quinquen-nale e convogliare sull’isola ol-tre 2 miliardi di dollari all’annoda destinare alla ricostruzione.Un approccio multilaterale, cuigli Stati Uniti dovrebbero assi-curare il loro supporto in quan-to, secondo Sachs, non solo èormai chiaro che negli ultimivent’anni gli interventi america-ni «hanno più danneggiato cheaiutato l’economia haitiana»,ma è anche altrettanto evidenteche «il governo degli Stati Uniti,da solo, non ha né i mezzi né lacostanza né il reale interesseper gestire la fase post-emer-genza». Obiettivo prioritario delfondo, nell’idea di Sachs, deveessere innanzitutto il «ripristinodei servizi essenziali per la so-pravvivenza. Nei prossimi mesisarà necessario stoccare i medi-cinali provenienti dall’estero perpoi distribuirli nella capitale enel resto del paese. Le unità chirurgiche ele strutture ospedaliere mobili sarannofondamentali. Bisognerà allestire dellecentrali a bordo dei barconi per fornireelettricità in attesa che siano costruitenuove centrali. […] Il soccorso di emer-genza dovrà trasformarsi rapidamente inricostruzione e sviluppo. Se ci fermiamoal soccorso umanitario, Haiti entrerà incrisi di nuovo dopo la prossima catastro-fe. Il primo passo di questa transizione èla sicurezza alimentare: gli agricoltori hai-tiani avranno bisogno di sementi e ferti-

lizzanti entro poche settimane per pro-durre cibo necessario a sfamare un paesein ginocchio. La popolazione urbana sfol-lata dovrà essere sostenuta in termini direddito o di cibo per mantenersi. I pro-grammi food for work (cibo in cambio dilavoro) del World Food Programme posso-

no essere d’aiuto agli operai incaricati diricostruire strade e palazzi». Dove trovarei miliardi di dollari necessari per finanzia-re il fondo pro Haiti? Anche su questo Sa-chs ha un’idea: basterebbe introdurreun’imposta speciale sui bonus di WallStreet. Per il vituperato mondo dell’alta fi-nanza che ha gettato gli Stati Uniti e mez-zo globo con essi in una delle crisi econo-miche più dure degli ultimi secoli, potreb-be essere una degna occasione di riscatto.

A cura di Michele Camaioni

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LLaa sscchheeddaaII NNUUMMEERRII DDEELLLLAA TTRRAAGGEEDDIIAA

Il sisma che ha distrutto Haiti, di magnitudo 7.0 sulla scala Rich-ter, è la conseguenza dello scontro tra due placche: quella carai-bica e quella nordamericana, le quali scivolando l’una sull’altrahanno rilasciato una travolgente quantità di energia. L’ipocentrodella prima scossa (ovvero il luogo nel sottosuolo da cui ha origi-ne e si dirama la forza del terremoto) si trovava a 10 km di profon-dità: la particolare vicinanza alla superficie terrestre e l’intensaenergia sprigionatasi hanno condotto a quella devastazione che,per molti giorni, i media di tutto il mondo hanno mostrato con vi-deo e immagini agghiaccianti. L’epicentro (il luogo in cui il terre-moto causa i danni maggiori) è stato invece riscontrato a 25 km indirezione sud-ovest dalla città di Port-au-Prince. La prima scossasi è prolungata per un lungo e interminabile minuto; ne sono poiseguite, nelle ore seguenti, almeno altre trenta, di cui quattordicidi magnitudo compresa tra i 5.0 e i 5.9 gradi Richter. Incalcolabileil numero di morti, che probabilmente supera i 180mila. I feriti, se-condo stime Onu, sono almeno 250mila, di cui la metà bambini eadolescenti al di sotto dei 18 anni. I senzatetto sono circa un mi-lione, distribuiti caoticamente in circa 500 campi improvvisati esprovvisti di tende. Le case rase al suolo dal sisma sono invece225mila: nella capitale Port-au-Prince, una abitazione su cinque èstata distrutta. Tra gli edifici crollati, oltre a 25mila strutture com-merciali, anche i principali uffici governativi e lo stesso palazzopresidenziale, alla cui ricostruzione si è impegnato, con proclamidi forte impatto mediatico, il governo francese.

L a Repubblica di Haiti, antica colo-nia della Francia (1697-1804) cono-sciuta come Santo Domingo, è si-

tuata nel Mar dei Carabi. Prima coloniad’America a liberarsi del giogo della schia-vitù divenendo uno stato indipendente il 1°gennaio 1804, Haiti ha oggi una popolazio-ne di circa 9 milioni di abitanti, per il 95%neri. La sua superfi-cie è di 27.750 chi-lometri quadrati econdivide l’isola diHaiti con la Repub-blica Dominicana.Questo paese è con-siderato ancora unodei più poveri dell’e-misfero occidenta-le, con oltre il 60%della sua popolazio-ne che vive al di sot-to della soglia della povertà assoluta. Da piùdi venticinque anni Haiti deve far fronte auna profonda crisi sociale e politica che mi-naccia la vita e l’integrità di una grossa par-te della sua popolazione. Una lettera del re Luigi XIV, datata 29 no-vembre 1704, autorizza i gesuiti francesi aprendere il posto dei cappuccini nella partesettentrionale della colonia di Santo Do-mingo, quella che è oggi la Repubblica di

Haiti. Come precisa il documento, essi sistabilirono «nella parte Nord dell’isola diSanto Domingo, chiamata Cap-Français, aPort-de-Paix e altri quartieri che da questidipendono». Il P. Girard arrivò a Cap il 18luglio 1704, proveniente da Saint-Chri-stophe: fu il primo gesuita francese ad avermesso piede sul suolo di Santo Domingo, e

ciò dopo circa 64anni dall’arrivo deiprimi gesuiti fran-cesi nelle Antille,più precisamentenella Martinica.Le Lettere Edificantie Curiose, scritte instile chiaro e sem-plice, descrivono lavita apostolica deigesuiti nell’isola: lafondazione di par-

rocchie, il restauro e la costruzione di nu-merose chiese, l’apostolato fra gli schiavi esoprattutto la creazione dell’istituzionechiamata Cure des Nègres, l’assistenza aimalati e la costruzione dell’ospedale di Cap,il ricorso a congregazioni femminili euro-pee, la costruzione di scuole, la gestione dizuccherifici a Terrier-Rouge e a Saint-Louis,i lavoro nel campo della botanica e dellastoria a Santo Domingo, le numerose con-

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I Gesuiti ad Haiti: «Vicini agli ultimiper una società più giusta e solidale»

La presenza della Compagnia di Gesù nell’ex colonia francese ha conosciuto alterne vi-cende nel corso dei secoli. L’ultimo ritorno nell’isola risale al 1986: in questi ultimi de-cenni, i padri della Provincia franco-canadese hanno saputo declinare la loro attivitàmissionaria in numerosi settori, stringendo legami profondi con la popolazione localee sviluppando una struttura di apostolato che si sta rivelando preziosa dinanzi all’e-mergenza del terremoto.

troversie con le autorità coloniali soprattut-to alla fine della prima metà del XVIII seco-lo. Un lavoro apostolico realizzato in condi-zioni climatiche e sanitarie difficili, nellasolitudine e nell’austerità, ma sempre conzelo e impegno fuori del comune; ciò è rico-nosciuto da tutti gli storici che hanno stu-diato questo periodo.Il decreto reale del 21 luglio 1763, seguitodall’ordinanza definitiva del Consiglio Su-periore di Cap del 24 novembre 1763, or-dinò l’espulsione dei gesuiti da Santo Do-mingo, che avvenne quindi dieci anni pri-ma della soppressione generale della Com-pagnia di Gesù con il Breve Dominus ac Re-demptor di Papa Clemente XIV del 16 ago-sto 1773. Lo storico francese Charles Fro-stin spiega così le cause dell’espulsione deigesuiti dalla colonia di Santo Domingo: «Sirimprovera loro di predicare e di fare riu-nioni con i negri obbligando così i padronidelle piantagioni a rallentare il ritmo dei la-vori; di spingere i negri e le negre che vive-vano in concubinato, a sposarsi legittima-mente, cosa che toglieva ai padroni la fa-coltà di dividere gli schiavi, recando dannoal diritto di proprietà su di loro e compro-mettendo la sottomissione necessaria; di te-nere lezioni di catechismo ai negri senza lapresenza dei bianchi e istruendoli in parti-colare sulla dignità della loro persona, sullagrandezza dell’uomo e le sue speranze, conil rischio di risvegliare in loro idee sovversi-ve di uguaglianza. Si arriva perfino ad incri-minare alcuni gesuiti di favorire l’esercizioabusivo di una professione e di proteggeregli schiavi accusati di avvelenamenti; ma inparticolar modo questi Padri orgogliosi so-no accusati di voler rovinare l’autorità deipadroni sugli schiavi per sostituirla con laloro autorità personale, organizzando i ne-gri in un corpo di fedeli distinto, con propricori, corpi di vigilanza, artigiani, e anchecon propri catechisti, uomini fidati incari-cati di sostituire i missionari. Di fatto, attac-

care l’autorità dei padroni significa attacca-re un principio sacro dei proprietari deglischiavi che è garanzia dell’ordine socialedello schiavismo, ed è questa l’accusa tantospesso fatta contro la missione dei gesuitifin dall’inizio della sua fondazione nel Norddella colonia nel 1704. Accusa alla quale imagistrati coloniali del Consiglio di Cap da-ranno molto peso; a partire dal 1758, pri-ma, con una serie di misure colpiscono in-direttamente l’azione dei gesuiti medianterestrizioni all’attività religiosa degli schiavi;poi, se la prendono direttamente con laCompagnia di Gesù, di cui condannanoespressamente la morale e la dottrina, arri-vando anche a un arresto il 13 dicembre1762».Su richiesta della Santa Sede, sotto il ponti-ficato di Pio XII, P. Jean-Baptiste Janssens,allora superiore generale della Compagniadi Gesù, autorizzò i gesuiti della Provinciadel Canada francese a riaprire la Missionedi Haiti. Essi arrivarono nell’arcidiocesi diPort-au-Prince nel settembre 1953. Nel cor-so del loro breve soggiorno ad Haiti si dedi-carono a diverse forme di apostolato: for-mazione dei sacerdoti locali presso il Semi-nario Maggiore Notre Dame di Port-au-Prince; alfabetizzazione e formazione poli-tica attraverso la radio; esercizi spirituali,ministeri parrocchiali. Con decreto del 12febbraio 1964, il governo di François Duva-lier espulse i 18 gesuiti canadesi che lavora-vano nel paese. Il dittatore rimproverava lo-ro di non rispettare le istituzioni haitiane ele autorità costituite; di fomentare, con il lo-ro comportamento, disordini e confusione;di discreditare il paese all’estero; di attenta-re all’onorabilità del governo e del popolo diHaiti; di portare avanti una vasta operazio-ne di sovversione contro il governo in tutti isettori della nazione: università, sindacati,organizzazioni, militari, ecc. Dopo la cadu-ta della dittatura dei Duvalier con la parten-za per l’esilio del Jean-Claude Duvalier, il 7

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febbraio 1986, il P. Fritz Wolff, superioredei gesuiti di Haiti, su richiesta del P. Ber-nard Carrière, allora Provinciale dei gesuitidel Canada francese, iniziò le procedurecon il nuovo governo per il riconoscimentoufficiale della Compagnia di Gesù da partedel governo di Haiti. Di fatto ottenne dalConsiglio Nazionale, diretto allora dal gene-rale Henri Namphy, un’ordinanza che an-nullava l’antico decreto di espulsione dellaCompagnia di Gesù del 12 febbraio 1964.La nuova ordinanza, pubblicata il 31 marzo1986, ristabiliva la Convenzione del 28 no-vembre 1958 e permetteva ai gesuiti di ri-

prendere le loro attività nell’isola.Il territorio dei gesuiti di Haiti fa parte dellaProvincia del Canada francese (Québec),anche se si mantengono buone relazionicon la Conferenza dei Provinciali dell’Ame-rica Latina (Cpal) e con le sue numerose at-tività apostoliche. Il numero dei gesuiti nelterritorio è in continuo aumento: attual-mente sono circa 40 (16 padri, 2 fratelli, 14scolastici in formazione e 8 novizi), e sonoripartiti in quattro comunità. La MaisonBienheureux Jacques-Jules Bonnaud, dove sitrova il noviziato, è stata aperta nel 2002: èil primo noviziato aperto nel paese in tutta

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EEMMEERRGGEENNZZAA HHAAIITTII –– LLee iinniizziiaattiivvee ddeell MMaaggiiss ee ddeellllaa CCoommppaaggnniiaa ddii GGeessùù

A seguito del violento terremoto che ha devastato Haiti, la FFoonnddaazziioonnee MMaaggiiss d’intesa con la Provincia d’Italiadella Compagnia di Gesù e con la Cvx-Lms, la rivista Popoli e gli altri aderenti, si è mobilitata nell’aiuto e nel soc-corso della popolazione a fianco dei gesuiti presenti in loco. Già dalle prime ore successive al sisma sono statiindividuati i referenti locali e sono stati attivati contatti che stanno permettendo di indirizzare gli aiuti in modo effi-cace in questa prima fase di emergenza e che saranno mantenuti anche in seguito nel lungo periodo della rico-struzione. La CCoommppaaggnniiaa ddii GGeessùù è presente in Haiti con quattro case e diverse opere, realizzate principalmenteproprio nella capitale Port au Prince. Il delegato per Haiti, P. François Kawas S.I., ha informato che nessun padreè rimasto vittima del terremoto e che le strutture sono state colpite meno di altre, ma avranno bisogno di ripara-zioni. Dal primo momento esse sono state messe a disposizione della popolazione locale. Scrive P. Francois:«Abbiamo grosse difficoltà ad aiutare i nostri vicini, che abbiamo ospitato per la notte. Quello che abbiamo vistoè indescrivibile: morti ovunque e case distrutte in tutte le zone della capitale».A fianco dei Gesuiti di Haiti si sono mobilitati i padri e collaboratori della Repubblica Domenicana, unitamente alSSeerrvviizziioo ddeeii GGeessuuiittii ppeerr ii RRiiffuuggiiaattii ee MMiiggrraannttii presente in tale paese, che ha formato due commissioni e si è reca-to sul luogo della tragedia per organizzare i soccorsi e predisporre aiuti efficaci e di lunga durata. Tutte le operedella Compagnia di Gesù, particolarmente in America Latina e Caraibi, stanno coordinando piani di intervento esoccorso alla popolazione di Haiti. Le iniziative di aiuto della Fondazione Magis sono effettuate in coordinamen-to con la RReettee XXaavviieerr, network europeo dei gesuiti, e in particolare con la spagnola Entreculturas, che da annicollabora con l’associazione Fe y Alegria Haiti. Il suo vicedirettore, P. Ramiro Pampols S.I., ha scritto nelle primeore successive al terremoto: «La città è distrutta; la gente vaga per le strade in mezzo a moltitudini di cadaveri.Non sappiamo dove sono i nostri amici e non c’è nessuna possibilità di comunicazione. Abbiamo paura di usci-re ma anche di entrare in casa». Per dare concretezza alla consapevole partecipazione alle necessità primariedelle popolazioni colpite, si può fare una ddoonnaazziioonnee*, specificando la causale “Emergenza Haiti”, sui conti inte-stati al MAGIS: conto corrente postale: 909010 – conto corrente bancario: IBAN: IT07 Y030 6903 2001 00000509 259 presso Intesa-SanPaolo, Via della Stamperia 64, Roma.È inoltre raccomandata la raccolta di mmeeddiicciinnaallii (di qualsiasi genere) con scadenza superiore a 6 mesi. Il centroraccolta è presso l’Istituto Massimiliano Massimo a Roma, aperto dalle 7 alle 20 dei giorni feriali (referente lasig.ra Gloria Marelli: [email protected], cell. 3381360163).Disponibilità di mmeeddiiccii,, iinnffeerrmmiieerrii ee ooppeerraaii ssppeecciiaalliizzzzaattii a partire per un aiuto concreto sul posto, utili da fine feb-braio in poi, vanno concordate con padre Massimo Nevola ([email protected]; cell. 329.9460717), che è incontatto col Ministero degli Esteri.

* Le offerte versate al MAGIS da persone fisiche e dagli enti soggetti all’Ires (imposta sul reddito delle società) sono deducibili dal redditoimponibile sino al 10% del reddito complessivo dichiarato e comunque nella misura massima di 70mila euro annui (art. 14 D.L. n. 35/05).

la storia della Compagnia di Gesù; questaresidenza è situata nel comune di Tabarre,la regione metropolitana di Port-au-Prince.La residenza Ignace de Loyola, nel quartieredi Canapè-Vert, sempre nel comune di Port-au-Prince. La residenza Karl Lévêque, nelcomune di Delmas, ancora nell’area metro-politana di Port-au-Prince. Una quarta resi-denza, la Maison Pedro Arrupe, è stata appe-na aperta a Ouana-minthe, città difrontiera nel Nord-Est del paese.A parte il noviziatoe il magistero (il pe-riodo tra la filosofiae la teologia che igiovani gesuiti informazione dedica-no all’apostolato,n.d.r.), il resto dellaformazione dei ge-suiti haitiani è fatta all’estero. La prima tap-pa (juniorato e filosofato) è al Centre Bonodi Santo Domingo, nella Repubblica Domi-nicana, e a Bogotà, in Colombia. La forma-zione teologica in questi ultimi anni si fa alBoston College, negli Stati Uniti e al RegisCollege di Toronto, in Canada. Da due anni igiovani gesuiti sono inviati all’universitàLaval di Québec. Per quanto riguarda glistudi speciali sono molti i Paesi che accol-gono i gesuiti haitiani: Stati Uniti, Canada,Francia, Belgio, ecc. Per quanto riguarda leopere di apostolato, il lavoro dei gesuiti adHaiti è molto vario. Sono presenti nel cam-po dell’insegnamento e della ricerca, tra icontadini e gli immigrati, nell’apostolatospirituale. Da cinque anni sono impegnatinel Service Jésuite aux Refugiés et Migrants(Sjrm) nella regione di frontiera del Nord diHaiti, più precisamente ad Ouanaminthe.L’opera che hanno fondato per questo lavo-ro, Solidarité Fwontalié (Sfw), ha lo scopodi lavorare per lo sviluppo umano integrale

delle comunità di frontiera del Nord e dipromuovere una cultura della promozione,del rispetto e della difesa dei diritti dell’uo-mo alla frontiere settentrionale haitiano-dominicana. Attualmente vi lavorano tregesuiti con più di trenta collaboratori nongesuiti. Sono molti i progetti in corso direalizzazione: la costruzione di un centroper i giovani, la costruzione di un centro di

accoglienza per co-loro che vengonorimpatriati, l’avviodi un’azienda agri-cola e di una stazio-ne radio comunita-ria, come pure l’ac-compagnamentospirituale alle orga-nizzazioni comuni-tarie di base.Da due anni i re-sponsabili della

Compagnia di Gesù del territorio di Haitihanno deciso di introdurre nell’isola il Mo-vimento Fe y Alegria (“Fede e Gioia”). È unmovimento di educazione popolare e dipromozione sociale al servizio dei settorisociali più poveri. Di fronte alle grandi sfidecui deve far fronte il sistema educativo hai-tiano, i gesuiti, attraverso Fe y Alegria, sipropongono di presentare un nuovo model-lo di educazione più adatto alla realtà delpaese, impegnato nello sviluppo socio-eco-nomico a fianco dei settori più marginaliz-zati della popolazione. Un Ufficio nazionaledi coordinamento è già in funzione a Del-mas (comune della zona metropolitana diPort-au-Prince), e due scuole-pilota sonostate avviate a Balan (comune di Ganthier,nel dipartimento dell’Ovest), e a Ouana-minthe, nel Nord-Est. Due gesuiti e sei col-laboratori non gesuiti vi lavorano a tempopieno. L’Ecole Saint Ignace, fondata dal P.Claude Souffrant a la Croix-des-Bouquets,un paese situato in prossimità della capitale

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Port-au-Prince, è un’altra testimonianzadella presenza della Compagnia di Gesù nelcampo dell’educazione. È costituita da unedificio che accoglie più di 300 studenti,con un sistema che assicura la formazionepermanente degli insegnanti e la formazio-ne professionale dei giovani nel campo del-l’informatica e delle scienze umane.I gesuiti di Haiti sono anche presenti nel-l’insegnamento superiore: insegnamento,ricerca, pubblicazioni. Alcuni insegnano so-ciologia all’università statale di Haiti, altrila teologia e la storia della Chiesa al Semi-nario Maggiore interdiocesano Notre-Damee alla facoltà di Teologia della ConferenzaHaitiana dei Religiosi a Port-au-Prince. Col-laborano molto anche al Dipartimento diRicerca dell’università cattolica (UniversitéNotre-Dame d’Haiti) a Port-au-Prince, dan-do una mano nell’elaborazione e nell’avviodi progetti di ricerca per una migliore com-prensione della situazione haitiana. Anchela questione ecologica, in particolare la lot-ta contro la deforestazione, è presente nellepreoccupazioni apostoliche della Compa-gnia di Haiti. Infatti, dopo molti anni, ilFratel Mathurin Charlot, tecnico agricolo,ha lanciato a Dulaguon, zona del comunedi Marchand Dessalines, il Progetto di Svi-luppo Rurale e Agricolo (Para, i cui obiettiviprincipali sono la lotta contro il dibosca-mento e l’inquadramento tecnico dei conta-dini. Il Gruppo di Appoggio allo SviluppoRurale (Gadru), fondato dal P. Jean-MarieLouis, lavora anch’esso all’inquadramentotecnico dei contadini, al rinforzamento del-le loro organizzazioni, alla trasformazionedei prodotti agricoli, alla sensibilizzazionealla questione ecologica, ecc. Vi lavoranoanche più di dodici collaboratori non gesui-ti. Il Centre de Spiritualité Pedro Arrupe, di-retto dal P. André Charbonneau, lavora nelcampo dell’accompagnamento spirituale edella formazione sulla linea degli EserciziSpirituali di Sant’Ignazio. Mette a disposi-

zione dei religiosi, delle religiose, dei sacer-doti, dei seminaristi e dei laici sessioni ecorsi, una biblioteca di spiritualità e di teo-logia con più di seimila volumi e un bollet-tino trimestrale. Vi collabora una piccolaéquipe di tre gesuiti. Altri compagni gesuiti,anche al di fuori delle attività del Centre Ar-rupe, sono molto impegnati nell’apostolatospirituale mediante ritiri, sessioni sulla ba-se degli Esercizi Spirituali, l’accompagna-mento delle congregazioni religiose e di al-tre istituzioni della Chiesa impegnate nellaformazione dei sacerdoti e dei religiosi.Il territorio dei gesuiti di Haiti è sotto la re-sponsabilità del Provinciale della Provinciadel Canada francese, il P. Daniel LeBlond,aiutato nel suo lavoro da una Consulta delTerritorio e da due delegati haitiani, nomi-nati dal p. Generale nel 2007: i padriFrançois Kawas, delegato per le opere apo-stoliche e per le questioni finanziarie, e il P.Miller Lamette, delegato per la vita comu-nitaria e la formazione. Dopo due perma-nenze molto brevi nei secoli XVIII e XX,terminati ambedue con l’espulsione, i ge-suiti stanno scrivendo una nuova paginadella loro storia in questo paese dei Carai-bi, a confronto con la miseria endemica econ le ricorrenti crisi sociali e politiche. Lesfide sono immense. La volontà per risol-verle è tenace; è alimentata dalla nostraspiritualità e dal nostro carisma, sostenutadalla solidarietà della Compagnia universa-le e da uomini e donne di buona volontà inHaiti e altrove. I gesuiti di Haiti voglionoinventare delle mediazioni apostolicheadatte ed efficaci per una collaborazioneattiva alla costruzione di una società piùgiusta e più solidale, e di una Chiesa haitia-na sempre maggiormente impegnata nelservizio dei più poveri.

François Kawas S.I.(Delegato per Haiti della Provincia

gesuita del Canada francese)

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I l periodo di tempo è il mese di gen-naio 2010, la location Rosarno, co-mune della Calabria, i fatti vedono

coinvolti cittadini italiani e extracomu-nitari, i primi quali attori, i secondi qua-li vittime di fatti di intolleranza razzialesubito assegnatari della massima riso-nanza mediatica; il seguito sono episodidi violenza e distruzione commessi daglistessi stranieri. Con ordine. Il 7 gennaiouna rivolta dei lavoratori extracomunita-ri è scatenata da un’aggressione, con fe-rimento, subita da due di loro. Segueuna vera e propria guerriglia urbana,con auto incendiate e distrutte, casso-netti rivoltati, ringhiere di abitazionidanneggiate. A tutto questo si accompa-gna un corteo di protesta da parte deglistessi extracomunitari. L’11 gennaio sisvolge un corteo dei cittadini di Rosarnoper prendere le distanze dalle discrimi-nazioni e dimostrare la perfetta integra-zione tra italiani e stranieri, in quellalanda del profondo sud. Il 21 gennaio in-terviene pubblicamente il capo delloStato, Giorgio Napolitano, per stigma-tizzare ancora una volta il razzismo e ri-chiamare i principi di tolleranza cheinformano la nostra società, così cometutte le società che si dicono civili, espingono all’accettazione di chi non ha

le nostre stesse origini, tradizioni, cultura.La problematica è nota, le coordinatesempre nuove, purtroppo. Il fenomenoha interessato circa 1.500 lavoratori ex-tracomunitari, impiegati nella raccoltadegli agrumi e degli ortaggi, tra Rosarnoe la piana di Gioia Tauro, accampati instrutture fatiscenti e in condizioni quasidisumane, sfruttati lavorativamente, eper questi motivi inevitabilmente sensi-bili allo scherno e alla derisione dellagente. Allora ci si chiede, da spettatoriattoniti da quanto accaduto nella nostrabella Italia, se il tema dell’accoglienzadell’altro, che questi fatti invocano, siaun tema sufficientemente avvertito comecaratterizzante la nostra cultura, oppureun cliché da salotto, utile a intrattenersisu tematiche antiche rileggendole inchiave moderna. O ancora, viceversa, l’e-satto contrario: l’accoglienza come temaestraneo alla cultura cosiddetta laica, econseguentemente ai margini delle di-scussioni da salotto, più sensibili a istan-ze di protezione e difesa dal diverso. L’al-ternativa è secca: accoglienza o rifiuto.Gli argomenti richiamati da questi epi-sodi di attualità e dalle prese di posizio-ne che ne sono seguite, anzitutto a livel-lo di istituzioni nazionali e locali, sonodavvero molteplici, e un approfondi-

MISSIONE E SOCIETÀ

Rosarno: accoglienza o rifiuto?L’espulsione di oltre mille di lavoratori stranieri dalla cittadina calabrese di Rosarnoe le violenze che l’hanno accompagnata hanno prodotto nell’opionione pubblica na-zionale reazioni e commenti contrastanti, oltre che spesso superficiali. A tutti i livel-li, appare oggi più che mai opportuna una riflessione più matura e responsabile suuna questione, quella dell’accoglienza del diverso, da cui dipende non solo il destinodei nostri immigrati, ma la stessa coesione sociale dell’Italia che stiamo costruendo.

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mento calibrato su una riflessione multi-direzionale potrebbe condurre davverolontano, al punto da generare nel lettoreun senso di smarrimento, in ragione del-la complessità che si verrebbe ad intro-durre. Piuttosto, non sembra infruttuosoaddentrarsi in una riflessione che muo-va da uno spunto, tra i tanti che la cro-naca ha disvelato, e procedere sul filorosso del principio di uguaglianza chetutti possiamo ragionevolmente arrivarea comprendere come un caposaldo dellanostra società.Quando nasce l’esigenza di equiparazio-ne tra situazioni che non presentino con-notati strutturalmentedifferenti? Indubbiamen-te sarebbe possibile scor-gerne i primi riscontrinel pensiero filosofico,probabilmente nel con-cetto stesso di giustizia,per come si è andato ela-borando (oggi, nelle auledi tribunale, si trova uncartello che reca scrittoche la legge è uguale pertutti). Tuttavia, affidan-doci ad un grande comu-nicatore della nostra sto-ria, potremmo ricordareche una volta Egli disse: «Chi è senzapeccato scagli la prima pietra». Orbene,solitamente si pongono in risalto tanti si-gnificati di quella frase, ma ce n’è unoche torna utile al caso nostro: siamo tuttiuguali, tutti noi uomini, perché tutticondividiamo la medesima natura, lemedesime difficoltà, la medesima condi-zione. Gesù parlava del non diritto di al-cuno di arrogarsi la facoltà di lapidare laprostituta, perché non c’era alcuno chefosse migliore di un altro. E sempre Ge-sù – lo si legge anche nella letteraturalaica – ha insegnato a chiamare fratello

l’altro uomo, a prescindere dalla nazio-nalità e dalla provenienza, ha insegnatoa fermarsi per assistere l’altro che neces-siti delle nostre cure, introducendo nellastoria dell’umanità una sensibilità primasconosciuta per l’accoglienza, di cui sidiceva pocanzi. Ma se di accoglienzadobbiamo parlare, in realtà, lo possiamofare proprio per dissodare quella alterna-tiva che si è tracciata innanzi: accoglien-za come costituente della nostra culturaoppure no? Ci sono segnali contrastanti.La recente legislazione in tema di immi-grazione – lo si constata facilmente –considera l’immigrato con evidente sfa-

vore, assegnandogli unostatus particolare, ai li-miti della discriminazio-ne razziale, se solo siconsidera che il provve-dimento di espulsione,ivi previsto, è altrimentiesperibile nei confrontidegli autori di reati,quindi a stretto rigoreparrebbe segnalare chela stessa immigrazione èfenomeno presuntiva-mente illegale, bisognosodi un apparato sanziona-torio analogo a quello dei

reati, che sono gli illeciti più gravi che ilnostro sistema giuridico conosca. Alcontempo, tuttavia, la vocazione solida-ristica della nostra collettività nazionale,riveniente dal dettato costituzionale, par-rebbe invogliare a ritenere che ci sia unobbligo quasi normativo di accoglierel’altro uomo, e non importa se diverso,anzi a maggior ragione se diverso. L’at-tenzione agli ammalati, ai bisognosi ingenerale, peraltro riscontrabile anche sulpiano normativo, altro non è che unaconcretizzazione di quella epieikeia(“giustizia del caso singolo”), di aristote-

“Gesù ha insegnato achiamare fratello l’altro

uomo, a prescindere dallanazionalità e dalla

provenienza, ha insegnatoa fermarsi per assisterel’altro che necessiti dellenostre cure, introducendonella storia dell’umanità

una sensibilità primasconosciuta per il valore

prezioso dell’accoglienza”

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lica memoria, che infrange il rigore pere-quativo della norma generale ed astratta,per adattarsi alla persona, nella sua indi-vidualità, al singolo che soffre, che man-ca di qualcosa, anche a colui che sbaglia.Il problema però rischia di essere malimpostato; se parliamo di accoglienzatout court dovremo declinare: accoglien-za verso chi e verso cosa? Intanto si puòrichiamare un’attenzione particolare al-l’altro, in quanto diverso, una volta chesia riscontrata l’esistenza di un criteriodi diversificazione, criterio che eventual-mente si può riscontrare tra ammalato epersona sana, tra ricco e povero… maanche tra italiano e straniero? L’amma-lato è tutelato attraverso il diritto alla sa-lute, presidiato in vario modo nel nostrosistema giuridico, e in ogni caso al finedi assicurare un’attenzione particolarerispetto alla persona sana, che in qual-che modo deve farsi carico del propriovicino in stato di malattia. Non diversa-mente tra povero e ricco, perché eviden-temente un sistema finanziario giustopone a carico dei benestanti i bisogniprimari degli indigenti, e così via. Ma traitaliano e straniero è possibile riscontra-re analoghe argomentazioni? La que-stione si fa assiologica, coinvolgendo iltema dell’identità nazionale e/o culturalecome connotato idoneo a selezionare edifferenziare una persona dall’altra, erendere ragionevole, quindi giustificabi-le, una considerazione distinta. Stessariflessione potrebbe farsi per l’identitàrazziale, che pur si mette in discussionegià a livello scientifico.Sul piano dei principi, la giustificazionedel razzismo e della intolleranza nonpuò essere se non la protezione di unaidentità forte, per così dire interna, ri-spetto ad una esterna, ma questo prote-zionismo sembra davvero anacronistico,e del resto non v’è società civile che non

abbia abdicato a queste logiche in ragio-ne di logiche di integrazione e di dialogointernazionale ed interculturale. Il rifiu-to del diverso, in quest’ottica, rappresen-ta un epigono indesiderato ben primache esso si traduca in atti di discrimina-zione. La stessa esistenza della comunitàinternazionale, pur presentando istitu-zioni che non sempre riescono a garanti-re adeguatamente l’integrazione tra i po-poli, riposa sulla dialettica tra i diversisoggetti che della stessa fanno parte.Se poi guardiamo alle regole che si è da-ta la nostra collettività, il principio diuguaglianza è proclamato dalla Costitu-zione della Repubblica all’art. 3, e invo-glia tutti a riconoscere nell’altro cittadi-no un proprio pari, senza distinzioni disesso, di razza, di lingua, di religione, diopinioni politiche, di condizioni perso-nali e sociali. E per il non cittadino? Suquesto siamo chiamati a una lettura me-no circoscritta, al richiamo dei diritti in-violabili dell’uomo, garantiti dal nostroStato ex art. 2 della Costituzione. L’esse-re umano ha diritto a non essere discri-minato, a non essere penalizzato, o puni-to, per il suo essere, secondo un modellodi responsabilità che non è più sostenibi-le: si puniscono i comportamenti sba-gliati, e non le persone sbagliate, fonda-mentalmente perché non esistono perso-ne sbagliate, non potendosi nemmenopensare un modello di persona genera-lizzabile al quale richiedere che tutti siuniformino. Sulla base delle considera-zioni svolte, i fatti di Rosarno e di GioiaTauro ci chiamano ad avvertire il peso ela responsabilità, ma anche la gioia, del-l’accoglienza dell’altro, come proprio fra-tello se aderiamo all’insegnamento diCristo, come uomo al pari di noi, se diquell’insegnamento vogliamo fare a me-no. Tertium non datur.

Gianluca Denora

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IL RICORDOI padri Michele Catalano e Angelo Stefanizzi, missionari in Sri Lanka e amici della Lega Missionaria Studenti

Il 14 dicembre 2009 il Signore ha chiamato a Sé il padre Michele Catalano S.I., defunto a Terlizzi (BA) nel suo85° anno di età e 54° di Compagnia. Padre Michele Catalano, non più giuridicamente appartenente alla Pro-vincia d’Italia in quanto trascritto nella Provincia dello Sri Lanka, era nato a Terlizzi il 7 dicembre 1925. Il 28dicembre del 1945 è entrato in Compagnia presso il noviziato dell’allora Provincia Napoletana a Vico Equen-se. Partito per l’India, dal maggio 1949 al 1952 ha studiato filosofia a Shembaganur. Quindi, dal 1952 al1955 ha studiato la lingua sinhala presso la scuola di lingue di Galle. Dal 1955 al 1959 ha studiato teologia aPoona, dove è stato ordinato il 24 marzo 1958. Il terz’anno l’ha fatto a Kodaikanal nel 1961-62, pronuncian-do poi gli ultimi voti a Galle il 2 febbraio 1965. Il P.Catalano ha lavorato apostolicamente soprattutto a Lewella(casa di esercizi e ritiri) e nella pastorale sociale a Colombo, in Sri Lanka. Tra le sue iniziative la creazione delCentro Shanthi sulle rive del canale Wellawatte, dove l’educazione alla pace si è nutrita di tante piccole e gran-di opere di carità concreta. Faceva parte della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso (leopere da lui compiute sono state tantissime, tutte eseguite in collaborazione paritaria con operatori e volontaribuddisti) e ha molto lavorato nell’Apostolato Intellettuale. Il 3 agosto 2002 il presidente della Repubblica italia-na Ciampi gli aveva conferito un’alta onorificenza inserendolo nell’Ordine della Stella della Solidarietà Italianaper il bene promosso tra i più poveri Cingalesi e i rifugiati Tamil dall’Associazione “Shanti”. “Uomo di capacitàstraordinaria di accoglienza: con lui tutti, davvero tutti erano i benvenuti. E la forza carismatica della sua predi-cazione: “Dio è innamorato di noi alla follia”, ci urlava con le lacrime agli occhi in una messa a fine campo,quasi a volerci scuotere dalle nostre incredulità a fidarci pienamente dell’Amore di Dio”. Così lo ricorda padreMassimo Nevola S.I., assistente nazionale della Lms, i cui volontari padre Catalano accolse in Sri Lanka in oc-casione del campo di solidarietà organizzato in seguito allo tsunami del 2004.

Il 3 febbraio è giunta invece la notizia dell’ascensione al cielo di un altro grande missionario gesuita, il padreAngelo Stefanizzi, defunto a Kandy (Sri Lanka) nel suo 91° anno di età e 74° di Compagnia. Il padre Angelo,trascritto dalla Provincia Napoletana nella Provincia dello Sri Lanka, è nato il 2 ottobre 1919 a Matino (Lecce)ed è entrato in Compagnia il 10 agosto 1936. Durante il 1° anno di teologia i Superiori, accogliendo il deside-rio manifestato fin dal Noviziato, lo destinano alle Missioni dello Sri Lanka. Completata la formazione in India,ove è ordinato Sacerdote il 21 novembre 1949, raggiunge nel 1952 lo Sri Lanka ed è destinato prima alla par-rocchia di Yatiyantota, poi come parroco a Dehiowita nel 1967 e a Maliboda nel 1983. In queste località svol-ge per circa 60 anni la sua attività sacerdotale. Data la larga presenza di lavoratori tamil, indirizza principal-mente a essi le sue cure apostoliche e sociali. Li va a trovare, abitualmente a piedi, nelle piantagioni, dove di-morano in piccoli raggruppamenti: li istruisce e ne condivide il parco cibo e il misero alloggio. Nel giro di alcu-ni anni, per il crescente numero dei convertiti e con la loro collaborazione, costruisce fra le piantagioni una de-cina di chiesette, quali centri d’incontro e preghiera e affida la cura di ciascuna a un collaboratore laico. Sinte-tizzava in due massime l’opera promozionale dello sviluppo sociale da lui perseguita: “sviluppo di tutti nella so-lidarietà” e “sviluppo di ogni comunità utilizzando gli uomini migliori della stessa comunità”. Da qualche anno,affetto dal morbo di Parkinson, è stato costretto sulla sedia a rotelle presso l’infermeria della Casa di esercizi diKandy: ha offerto immobilità e sofferenze per la diffusione del Regno di Cristo particolarmente fra la popola-zione di Yatiyantota-Maliboda. Recentemente il suo provinciale scriveva: “È un grande missionario: ben note lesue capacità organizzative, la sua pronta disponibilità, la sua generosità, il suo spirito di sacrificio e le sue oredi preghiera dinnanzi al SS.mo fino a notte fonda o al primo mattino”. In occasione del Natale ha ringraziatocollaboratori e benefattori con le parole di Gesù: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questimiei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

J ovanotti e Antonio Monda hannoparlato di successo. Lo hanno fat-to a Roma il 21 gennaio scorso in

un incontro dal titolo Creatività e suc-cesso: una scommessa aperta, il primodi un ciclo di sei appuntamenti dedicatial tema Vivere il successo: generazioni aconfronto, curato da La Civiltà Cattoli-ca, dall’Università Gregoriana, dall’Isti-tuto Massimiliano Massimo di Roma,dalla Cappella dell’Università La Sa-pienza, dall’Associazione Ex-AlunniMassimo e dai movimenti Comunità diVita Cristiana e Lega Missionaria Stu-denti. Com’è possibile che un artista ri-tenuto dai media anticlericale sia statoinvitato a parlare proprio nella cappelladell’ateneo romano? E per di più a di-scorrere di successo, un argomento ter-ribile, sgradito a una certa parte dellacultura cattolica, quasipeccaminoso? Tuttaqui la sfida.Moderati da un padregesuita, Antonio Spa-daro, Jovanotti e Mon-da hanno intrattenutoil pubblico parlandodel successo, certo, malo hanno fatto raccon-tandosi, svelando ainumerosi ed eteroge-nei ascoltatori che co-sa per loro fosse il suc-cesso, che cosa l’insuc-cesso, esplorando leproprie ambizioni e ipropri limiti. Nel rac-

conto di sé, Jovanotti ha mostrato tuttala sua freschezza, esattamente la stessache viene fuori dalle sue canzoni e chepadre Spadaro non ha mancato sottoli-neare. Cos’è per Jovanotti il successo?Il famoso cantautore lo definisce una«sfida», un «participio passato», un«dettaglio». Una «conquista da mettersialle spalle e dimenticare» perché è co-me una droga. La assaggi, ti piace, mapuoi diventarne dipendente e questo èun pericolo. Sin da bambino, racconta,ha sentito forte «l’esigenza di vivere ilmondo come fosse un palcoscenico».Ma questo è strettamente legato allesue origini, al suo passato. «Essendo ilterzo di quattro figli – raccontato – hodovuto imparare da subito a conqui-starmi le cose perché i miei fratellimaggiori avevano la fetta più grossa, lo

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Antonio Monda e Jovanotti nella cappella universitaria della Sapienza.

Lavoro, successo e felicitàUn dibattito con Jovanotti ospitato nella cappella universitaria della Sapienza

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stereo più potente, il diritto nello spa-zio della cameretta. Quindi dovevo con-quistarmi le cose. Dal cibo fino aglispazi. E ho sviluppato delle tecnichepsicologiche, mentali, che poi mi sonoservite nel lavoro, nelle cose che poi hofatto. Quando sei il terzo figlio i genito-ri sono stanchi, e quindi devi conqui-starti l’attenzione della mamma, delbabbo. Ma questo ha sviluppato in meun piccolo cercatore di successo. Perme il successo era una benedizione.Era far sorridere la mia mamma, unacosa enorme che dà energia. Per mequesto era energia». Nell’ascoltare que-ste parole si rimane un po’ interdetti.Dov’è il vero senso del successo, ossia lanotorietà, la visibilità, la carriera, unabella donna o un uomo ricco al tuofianco, macchine da fighi? Dov’è tuttoquesto? Il grande equivoco contempo-raneo, secondo Lorenzo Cherubini inarte Jovanotti, è proprio qui. Il succes-so oggi è visto come riconoscibilità enon come «il premio di un talento. Lariconoscibilità può dare adrenalina ed èper questo un falso obiettivo, che nondà gioia. E tutto quello che non dàgioia è sterile».Ma Jovanotti non è solo su quel palco.Insieme a lui c’è un altro grande e umi-le artista, sebbene di altro rango: Anto-nio Monda, regista, giornalista di Re-pubblica e Vanity Fair (un «giornale disuccesso», come fa appunto notare pa-dre Spadaro), nonché Associate Profes-sor del Kanbar Institute of Film & Tele-vision della prestigiosa New York Uni-versity. Anche lui racconta di sé, del suoviaggio in America e delle difficoltà cheha dovuto affrontare, credendo all’ini-zio di vivere un eterno insuccesso, matrovandosi poi a fare delle cose che nonavrebbe mai immaginato di fare e nellequali si nascondeva proprio il successo

che stava cercando. Perché ciò che ap-parentemente può sembrare ai nostriocchi una sconfitta può essere, per cita-re ancora Jovanotti, «l’embrione di unmeraviglioso successo». Monda prendespunto dal personaggio Santiago de Ilvecchio e il mare di Hemingway e citafrasi di illustri capi di stato come Chur-chill, Roosevelt e Kennedy per rappre-sentare la sua idea di successo. Un’ideache stravolge ancor più i nostri schemiabituali e rimanda a un modo puro,profondo, di concepire il successo, col-legandolo niente di meno che alla falli-bilità dell’uomo e non alla sua sterileapparenza e ricerca di riconoscibilità.«Solo coloro che osano fallire alla gran-de possono ottenere dei risultati allagrande», diceva Kennedy. E ancoraRoosevelt sosteneva che «non è la criti-ca che conta, né ti indica come cadel’uomo forte o come egli avrebbe potutofar di meglio. Il merito appartiene a chiscende nell’arena, e ha la faccia sporcadi polvere, di sudore e sangue, checombatte con valore, che sbaglia e ce lamette tutta senza farcela. Perché nonc’è sforzo senza errore o imperfezione.L’uomo che dedica tutto se stesso aduna causa degna, anche se non dovesseconoscere il trionfo dei grandi risultati,fallirebbe osando molto e il suo postonon sarebbe mai quello dei timidi chenon conoscono né la vittoria, né lasconfitta». La sfida lanciata da Monda, Jovanotti edagli organizzatori di questo ciclo di in-contri vuole allora essere un invito ad«abitare nella possibilità», parafrasan-do una celebre frase di Dickinson, vi-vendo la ricerca del proprio successonon più come semplice e vuota ricono-scibilità e apparenza, ma valorizzando ipropri talenti, mettendoli in comunenelle relazioni interpersonali che arric-

chiscono il nostro vissuto e ci rendonocapaci di essere uomini di un’afferma-zione che dura nel tempo e dà gioia. Ècon tale chiave interpretativa che si èchiuso questo piacevole incontro dura-to due ore, ma trascorso fin troppo infretta. E alla fine Jovanotti, risponden-

do alla domanda iniziale: che cos’è perte il successo?, ci rivela: «Il successo perme è il lavoro. Il lavoro è l’evoluzionedel gioco quando hai sei anni. Il succes-so è lavorare, con gioia, ma lavorare».

Matteo Di Nicola

GLI APPUNTAMENTI

La proposta lanciata dai gesuiti con La sfida e l’esperienza: generazioni a confronto prevedealtri cinque incontri, che si svolgeranno a Roma tra il 20 febbraio e il 5 giugno 2010:

20 febbraio 2010 – ore 18 – La Civiltà CattolicaIl successo nelle grandi religioni monoteistiche: un dono ricevutoIntervengono: Rav Benedetto Carucci Viterbi, direttore delle Scuole ebraiche di Roma; Housh-mand Sharzad, docente di studi coranici presso la Pontificia Università Gregoriana; JeanLouis Ska S.I., biblista. Modera: Antonio Spadaro S.I.

11 marzo 2010 – ore 19 – Cappella dell’università di Roma La SapienzaLa torre di Babele: dal crollo le opportunitàIntervengono: Tobia Scarpa, architetto; Paolo Mieli, giornalista. Modera: Paolo Cuccia.

13 aprile 2010 – ore 18 – Istituto MassimoPerché la tecnologia ci rende umaniIntervengono: Joseph Turner, lettore; Luca Parmigiani, art director. Modera: Eraldo Cacchione S.I.

22 maggio 2010 – ore 10.30 – Istituto MassimoLe condizioni interiori del successo: genio e sudoreIntervengono: Roby Facchinetti, cantante; Luca Pancalli, vice-presidente Coni. Modera: PaoloGaudenzi.

5 giugno 2010 – ore 18 – La Civiltà CattolicaLe condizioni sociali per il successoIntervengono: Giuseppe Gallo, segretario generale Fiba Cisl; Andrea Costa, imprenditore.Modera: Leonardo Becchetti.

La Civiltà Cattolica – Via di Porta Pinciana, 1 – Roma. Tel. 06.697920.1Istituto M. Massimo – Via M. Massimo, 7 – Roma. Tel. 06.543961Cappella della Sapienza Università di Roma – Piazzale Aldo Moro, 5 – Roma. Tel. 06.4455350.

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La meraviglia di un popolo

Ricordo ancora la prima volta che homesso piede nella terra più bella delnostro emisfero da me visitata, Cuba.Era l’agosto 2004, al tramonto di unciclone passato per l’isola. Il 2004, unanno per me importante, l’ultimo delseminario, l’anno di una scelta di vitaradicale (il sacerdozio) messa in di-scussione dalla mia stessa esperienzadi giovane sbarazzino. Un incontro,quello con p. Massimo Nevola, che èdiventato per me padre, fratello e ami-co, attraverso il quale ho riscoperto ilgusto di essere prete. Fu lui a invitar-mi a Cuba per deporre un fiore sullatomba di un padre gesuita dell’isola,Federico Arvesù, che lo aveva aiutatoin un passaggio tragico della sua vitafamiliare. E fu così che ebbe inizio laconoscenza di una terra che avevosempre immaginato come poi l’ho sco-perta.Si è verificato per me quanto ErnestHemingway diceva nella prefazione aun libro fotografico su Cuba, cioè chedove un uomo si sente come a casasua, a parte il luogo dov’è nato, questoè il posto al quale è destinato. Ebbene,fin dal primo giorno del mio arrivo aCuba mi sono sentito a casa mia. Saràperché alcuni scenari caratteristici del-

l’isola come il mare, i vicoli, gli odori,mi ricordavano un po’ Napoli, la miacittà o, semplicemente, perché l’incon-tro con la realtà di Cuba, fatta di po-polo, storia, cultura e tradizione mi haridonato il gusto del vivere apprezzan-do le piccole cose.Non che Cuba sia il paradiso terrestre,assolutamente, è una terra che cometante altre, inclusa l’Italia, ha le suericchezze e contraddizioni. C’è tuttaviaun’aggravante che pesa come un maci-gno sulla vita e l’economia dell’isola:l’embargo decretato dagli Usa ai primianni ’60, che fa rabbrividire chiunquecreda veramente nella democrazia enell’autodeterminazione dei popoli.Ben 47 lunghi anni durante i quali si èimposto a Cuba un severo blocco eco-nomico, che è diventato un vero isola-mento dal mondo intero, che costringeil popolo a tirare avanti in un clima diprofonda austerità. Eppure, proprio inquesto deserto imposto si sono svilup-pate delle conquiste che Paesi indu-strialmente più all’avanguardia si so-gnano.So bene che a questo punto molti ben-pensanti diranno: «Sempre le stessecantilene…», ma per mettere una pie-truzza nelle convinzioni di chi è incapa-ce di vedere il bene che nasce tra milleproblemi e amplifica ciò che non fun-

VITA LEGA

Risonanze su CubaLa spontaneità e l’apertura del popolo cubano sono alla radice del successo dei pioneri-stici campi di solidarietà organizzati dalla Lega Missionaria Studenti nel famoso arci-pelago caraibico. Un gemellaggio che si farà ancora più solido con l’apertura di un nuo-vo fronte di intervento nella capitale L’Havana.

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ziona, ribadisco che le conquiste di Cu-ba a livello di umanità, solidarietà, pro-fessionalità e dedizione non le ho ri-scontrate né in Italia né in altri paesid’Europa e d’Asia da me visitati. In par-ticolare, il diritto per i ragazzi di stu-diare dalla materna all’università senzaspendere un soldo, imparando a vivereil lavoro come servizio; una tecnica me-dica veramente all’avanguardia nono-stante la scarsez-za di mezzi; laprofessionalità el’umanità con cuii medici vivono laloro missione, alpunto di non ba-dare all’orario dilavoro e di tratta-re il malato comeun amico, o unparente. Realtàqueste che since-ramente non siriscontrano facil-mente da nessu-na parte.Ebbene, da quelprimo giornoCuba mi è rima-sta nel cuore in-sieme al deside-rio di condivide-re con quel po-polo non solo l’allegria, ma anche lafede in Gesù. Desiderio che grazie allatenacia del p. Massimo, alla disponibi-lità del governo cubano e della Chiesalocale, si è realizzato nel 2007, quan-do come Lega Missionaria Studentiabbiamo avviato un campo estivo disolidarietà a Cardenas, una città a 120chilometri dalla capitale. Con lo stileproprio della Lms, abbiamo puntatoforte sulla condivisione con questa co-

munità. Il lavoro si è svolto seguendovarie piste: innanzitutto aiuto allemissioni nei villaggi rurali animatidalla comunità parrocchiale, poi so-stegno alle attività caritative delle suo-re di Madre Teresa, quindi volontaria-to nell’ospedale civile, nell’asilo deglianziani e nel centro di Neurodesarolloper bambini con handicap fisici ementali. Quello che è avvenuto in tre

anni di esperien-za è un segnopiccolo ma bello,che ha per prota-gonisti i giovanie gli adulti dellacomunità di Car-denas.Abbiamo contri-buito ad avvici-nare gli sguarditra le persone diChiesa e quelleimpiegate negliambienti civili,smorzando unaspesso univocadiffidenza cheimpediva di chie-dere per pauradel rifiuto. Cosìda qualche annosi celebra la Mes-sa della notte di

Natale in piazza, che permette dicoinvolgere molte persone. Inoltre ivolontari della parrocchia possonocontinuare l’animazione nei luoghipubblici, stando con gli anziani e ibambini come persone che condivido-no la fede. Accanto a tutto ciò il rega-lo più bello lo abbiamo ricevuto noi, ivolontari, poiché abbiamo sperimen-tato una vera accoglienza gratuita,fatta di piccole cose, ma di totale con-

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divisione, riassunta inuna frase che tutte lepersone ci hanno ripe-tuto: «Mi casa es tu ca-sa». Per me abituato,dal contesto in cui vi-vo, a diffidare di tutti,l’esperienza di condivi-sione di quelle personeha reso più spiccato ilsenso, o almeno, il de-siderio di accoglienza.Vedere la cultura delvolontariato che Cubaha assimilato in modoprofondo e radicale dadecenni, così radicatanel popolo, cristianopraticante e non, ci ha sorpreso eriempiti di gioia.Così anche stavolta siamo ritornati acasa più ricchi, gustando e compren-dendo, nonostante i ritmi implacabilidella giornata (lavoro dalle 6.30 alle23.30), che il Vangelo della gratuità ciè stato testimoniato da più parti, dacredenti e non credenti. Veramente laGrazia dell’Altissimo precede e accom-pagna chi con semplicità e generositàdesidera condividere la vita con ilprossimo. La differenza che come cre-denti siamo chiamati a testimoniare èquella dell’esplicitazione di quel Nomeche regge e fonda una speranza che vaoltre la morte, perché solo Gesù ha pa-role che già ora ci fanno entrare nell’e-ternità. È l’offerta di un’antropologiaaperta alla Trascendenza e non solosul senso e l’obiettivo ultimo della vi-ta, ma in quella vita di amore che osaabbracciare anche il nemico, spezzan-do in questo modo ogni spirale di vio-lenza.Cosa aggiungere? Che la grazia di Diocontinua a confermare l’opera inizia-

ta, infatti proprio per l’estate 2010,grazie all’invito fattoci dal cardinaleJaime Hortega, di iniziare un campodi condivisione all’Avana, sarà apertoun nuovo fronte di evangelizzazione edi condivisione in un quartiere dellacapitale di nome Casablanca. Il lavorosarà svolto in unione alle Suore di Ma-dre Teresa presenti in loco e alla par-rocchia del quartiere. Fiduciosi che ilSignore nella sua bontà continui adaprire strade e a far nascere meravi-glie laddove l’uomo spesso vede deser-to e morte, accettiamo questa nuovasfida, sapendo di poter contare sull’ac-coglienza e la collaborazione di un po-polo meraviglioso. Sì, vogliamo, conl’aiuto di Dio, metterci al servizio diquesto popolo meraviglioso e insiemecrescere in umanità e capacità didiffondere i valori dell’uguaglianza edella solidarietà ovunque la Provvi-denza vorrà ancora inviarci.

Don Bartolomeo Puca

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I l pullman viaggia nella notte daTrieste verso Budapest. Il buio fuoriaumenta l’intimità dentro, renden-

doci più prossimi gli uni agli altri. All’in-terno fervono attività, dalla lettura indi-viduale al passaggio di vivande e bevan-de varie (il pullman è pieno di risorse,soprattutto alimentari…), a dialoghi checi scaldano e non sono tormentati dallafretta di tutto ciò che abitualmente com-pete per il nostro tempo. Ci svegliamo lamattina immersi in una bufera di nevesulle colline e le montagne che ci avvici-nano a Sighet e che costringono gli auti-sti a non superare i 30 chilometri all’oranel tratto più difficile. È il momento incui, osservando dal finestrino un paesag-gio scarno, si può avvertire il brivido delsalto nel vuoto, da una realtà familiare auna ignota, dove perdiamo per qualchegiorno i nostri punti di riferimento abi-tuali, molte delle nostre comodità e dellepiccole e grandi abitudini che puntella-no la nostra autostima. Entriamo in unmondo capovolto, nel quale le gerarchiesi invertono e quelli che hanno donatopiù tempo ed energie segnano la stradaagli altri. Con tutti quelli che già hannofatto il passaggio più volte in questa e inaltre situazioni simili, condividiamo laconsapevolezza che il miracolo si ripe-terà e che quella potatura, quell’appa-

rente salto nel vuoto (che interrompeuna routine logorata dai molti giorni difrenesia che ci hanno portato dall’estateal Natale) darà nuova fertilità alla nostraesistenza. Forti della Parola che ben co-nosciamo e delle esperienze vissute incui abbiamo trovato conferma, sappia-mo nel profondo che il miracolo si ripe-te sempre e dall’abbandono delle como-dità e delle certezze, vissuto con genero-sità e senza risparmiare le nostre ener-gie, riceviamo sempre un centuplo.La nuova esperienza natalizia in Roma-nia mi fa rivisitare l’impresa della curasotto nuova luce e potenzialità. Comespieghiamo alla responsabile della pro-tezione dei minori romena che siamoriusciti a catturare alla nostra causa, ilnostro modello si basa su tre pilastri e sipropone due traguardi ulteriori.Il primo è che una famiglia genitorialestabile assicura un calore e una qualitàdi relazioni molto superiori al turnoverdi dipendenti pubblici spesso scarsa-mente motivati. Questo vuol dire che lecapacità dei ragazzi di recuperare daitraumi subiti sono molto maggiori. Pen-so all’esempio di uno dei “nostri” bambi-ni, che a 10 anni scriveva a malapena ilsuo nome e che adesso frequenta il pri-mo anno di università. È una differenzadi approccio che la responsabile della

ROMANIADiario dall’impresa della cura

Una riflessione sul gemellaggio della Lega Missionaria Studenti con il popolo rumenoscritta dal presidente Leonardo Becchetti durante il viaggio di fine anno a Sighet, dovecome da tradizione un gruppo di volontari ha passato parte delle feste insieme ai bam-bini delle case-famiglia del Progetto “Il Quadrifoglio”.

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protezione dei minori ha defi-nito incommensurabile e checi ha conquistato un piccoloaumento di sostegno econo-mico da parte del governo.Il secondo è l’enorme valoredell’esperienza di affiancarealle case-famiglia l’organizza-zione dei campi di lavoro e so-lidarietà estivi e invernali, conil viaggio e la permanenza aSighet di oltre 200 volontariogni anno. Tutto questo ha ungrande effetto sulla nostra po-vertà di senso e sulla nostraincapacità di vivere la dimen-sione della gratuità, con ricadute peròanche sulle case-famiglia, perché i ra-gazzi che vivono l’esperienza in generenon la scordano e ne diventano sosteni-tori una volta tornati a casa. Ma perchéparlo soltanto di ragazzi? Alcune tra letestimonianze più belle sono quelle deitanti adulti che si lanciano in questa av-ventura, contravvenendo all’immagineche certe cose si fanno da giovani e poiinevitabilmente ci si indurisce.Il terzo punto è che le relazioni createtra i due paesi (tra i nostri e i ragazzi ro-meni e le famiglie che li ospitano) crea-no un’onda di solidarietà che va oltrequanto richiesto per il mantenimentodelle case-famiglia e invade anche le al-tre realtà difficili della città, dall’ospizioper gli anziani all’ospedale psichiatrico,agli orfanatrofi e alle case famiglia co-munali. Nei nostri viaggi siamo sempreaccompagnati e seguiti da grandi quan-tità di viveri, vestiti, giocattoli (stavoltaanche lenzuola per le strutture ospeda-liere) che rimediamo attraverso appositeraccolte nelle nostre città di origine.Un obiettivo dell’impresa della cura èquello di diventare una migliore pratica,che possa guidare analoghe esperienze e

ispirare il governo locale per altre colla-borazioni tra stato e associazioni o coo-perative sociali, con l’opportunità di au-mentare la propria credibilità nelle gareper ottenere fondi comunitari. Il secondoobiettivo è quello di favorire la crescita elo sviluppo della società civile in loco, fa-vorendo progressivamente il trasferimen-to di responsabilità verso realtà locali.Intanto, il sogno a più breve termine èquello di aumentare le risorse disponibiliper le case-famiglia del progetto Il Qua-drifoglio. Mai come in questi giorni ab-biamo lavorato e stiamo lavorando a tan-te ipotesi interessanti, con speranze chevengono da legno e dal vento…Tuttavia, mentre sogno questi risultatiricordo sempre che una delle finalitàdell’impresa della cura è quella di ali-mentare sensibilità e passione socialerendendo, ove possibile, tangibile e spe-rimentabile il nostro essere “ad immagi-ne e somiglianza”, la gioia della relazio-ne con Dio e il percorso di fede. Gliobiettivi di “efficienza economica” e diautosufficienza nella raccolta fondi sem-brano quasi cozzare contro questa im-portante finalità, ma non è così perchéluoghi e situazioni di bisogno nelle quali

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operare non verranno purtroppo maimeno e (qualora facessimo tutti i pro-gressi che ci auspichiamo) resterebberocomunque amicizie liberate dal bisognoe ci sarebbero sempre nuove frontiereda raggiungere e missioni da portareavanti insieme.

Ora che sono tornato a casa, la mia grati-tudine va a tutti coloro che sostengonoquesta bellissima esperienza. In primoluogo ai padri gesuiti che hanno traccia-to per primi questo sentiero (MassimoNevola e Vitangelo De Nora) e a quelliche stanno continuando a portarla avan-ti, poi ai responsabili che si sono caricatisu di sè alcuni pesi e responsabilità perfar sì che tutto possa andare avanti e, in-fine, a tutti coloro che sostengono con laloro solidarietà questo cammino. Spe-rando che sempre più persone siano ca-paci di fare il salto. Ne vale veramente lapena. Il viaggio che facciamo, liberativerso un momento di pura gratuità, restail momento più bello e intenso del nostroesistere.

Leonardo Becchetti

A rrivare a Sighet, per me, è statocome essere catapultato inun’altra realtà. Una realtà che

si rivela da sola, piano piano, e che ini-zi a capire bene col trascorrere dei gior-ni. Ciò che colpisce di più, ciò che simanifesta davanti agli occhi ogni gior-no, ed ogni giorno di più, è il fatto chein questa realtà mancano anche le coseche normalmente noi siamo abituati adare per scontate: mancano le medicinenegli ospedali, manca il gas nei fornelli,mancano i lampioni nelle strade. Ognicosa ha un prezzo e molte cose hannoun prezzo troppo alto per essere garan-tite a tutti.La realtà dove ho svolto il mio servizioè una casa di riposo statale: il Camin deBatrani. Assieme agli anziani, in quella

struttura sono stati messi anche ragazzie ragazze maggiorenni con problemipsichici e motori. Qui la sensazione dimancanza si fa più forte e palpabile:mancano i soldi per assicurare uno sti-pendio dignitoso agli infermieri e agliassistenti, che finiscono così per esserei primi a rimanere indifferenti alle esi-genze dei loro assistiti, i quali sono la-sciati praticamente da soli a sopravvi-vere in un posto che praticamenteesclude qualsiasi possibilità di miglio-ramento, ovvero qualsiasi possibilità diuscire da lì. Questo è inaccettabile so-prattutto per quanto riguarda i giovani,costretti a rimanere lì senza la speranzadi poter migliorare la propria situazio-ne. All’interno di questa dura realtà ilnostro compito, come volontari, è quel-

L’amore in un cucchiaio, la gioia di un semplice multumesc

lo di portare qualcosa che non ha prez-zo: un sorriso, una mano pronta ad aiu-tare, un orecchio pronto ad ascoltare(parole in un’altra lingua, chiaramente,ma questo non importa).Basta poco per rompere la monotoniadel Camin de Batrani: fogli di carta,pennarelli, palloncini, bibite, dolci, po-che cose sufficienti ad allontanare latristezza, anche solo per una settimana.È così che si sperimenta un fenomenostrano e sorprendente, una specie di in-versione di valori che fa sì che propriole cose che non si possono comprareacquistino un valore immenso, perchésono quelle di cui più c’è bisogno. Quel-lo che manca di più agli ospiti del Ca-min de Batrani è l’attenzione da parte diun’altra persona, qualcuno che sia lìper loro, che si renda disponibile. Ciòche loro chiedono non è altro che que-sto; non si lamentano quasi mai dellesituazioni di mancanza materiale in cuivivono ma hanno, invece, un disperatobisogno di cose immateriali. È incredi-bile vedere come quel poco che si riescea fare in quel posto – come ho dettosemplicemente sorrisi, fogli e pennarel-li – alla fine conti così tanto, faccia dav-vero la differenza. Perme questa è stata lasorpresa più grande.Scoprire una cosa delgenere innesca unareazione che, giornoper giorno, rende piùsinceri i sorrisi e gliabbracci, rende più at-tento l’ascolto, confe-risce un senso chiaroalla tua presenza lì, inquel momento.Anche la sola presen-za, infatti, diventa im-portante. Una sensa-

zione a volte difficile da provare nellenostre vite quotidiane, in cui la nostrapresenza all’interno di determinati con-testi acquista importanza solo se è giu-stificata da qualcos’altro, per esempiol’essere più o meno adeguati al contestoin cui ci si trova. In un contesto in cuimanca tutto, invece, esserci è già unacondizione sufficiente per essere consi-derato adeguato. Questo l’ho sperimen-tato un giorno in cui ho aiutato un an-ziano a mangiare. Questo signore eraprivo di entrambe le mani, non potevamangiare da solo, andava imboccato. Ilsemplice fatto che io avessi le mani e lemettessi a sua disposizione giustificavala mia presenza accanto a lui. A partela sua invalidità fisica, questo signoreera perfettamente lucido. Con grandis-sima dignità si è fatto imboccare e allafine mi ha ringraziato con un semplicee sincero multumesc. Chiunque avrebbepotuto farlo al posto mio, lui aveva solobisogno che qualcuno lo aiutasse amangiare, ma essere quel qualcuno inquel momento ti fa sentire davveroQualcuno. La sensazione che ho prova-to è quella di venir trasformato in stru-mento: di pace, di affetto, di consola-

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zione. Un cucchiaio è uno strumento,serve per mangiare, se non si hanno lemani non si può usare un cucchiaio, al-lora un uomo può trasformarsi in unostrumento per te, per aiutarti, può farsicucchiaio per te e permetterti di man-giare. Una piccola esperienza di aiutodiretto e concreto che non dimenti-cherò mai.Accanto a questi momenti, ci sono an-che situazioni che richiedono di met-tersi in gioco di più. C’è da usare la fan-tasia per riempire le giornate al Caminde Batrani. Come sempre, però, bastadavvero poco per creare qualcosa chefunzioni come un diversivo. Sono i ra-gazzi stessi che ti spingono a mettertiin gioco, chiamandoti per nome doposolo un giorno che sei lì. La relazionepersonale diventa inevitabile, crescegiorno per giorno e alla fine in molti tichiedono se tornerai quest’estate. Que-sto aspetto è quello che più mi spaven-tava, perché ti coinvolge non più comeun qualcuno qualsiasi ma come perso-na, una persona che ha un nome chequalcuno in quel posto si ricorderà perun po’. Lo si vorrebbe evitare ma è ine-vitabile, e inevitabilmente si pensa aquanto poco, in realtà, si può fare inuna settimana per una situazione comequella del Camin de Batrani, che avreb-be bisogno di un cambiamento radica-

le, che forse avverrà tra qualche anno, oforse mai. Mi domando cosa facciano iragazzi e gli anziani del Camin per tut-to il resto dell’anno. Mi immagino la lo-ro situazione senza di noi, senza quelpoco che per loro sembra significarecosì tanto; cerco di mettermi nei loropanni ma la loro è una condizione tal-mente lontana da qualsiasi normalità,che posso solo immaginarla.Inevitabilmente ho lasciato qualcosa aSighet e solo pensando a questo ho sco-perto che ho anche portato via qualco-sa. Ho visto una realtà di cui sapevo po-co o niente, relativamente vicina all’Ita-lia ma così difficile da immaginare fin-chè non la vedi con i tuoi occhi. Ho vis-suto in quella realtà per una settimana,ospitato da una signora che ha condivi-so con me la sua casa. Ho anche fattoqualcosa per qualcun altro, e per quan-to possa essere poca cosa, so che èqualcosa e so che altri andranno a farelo stesso quest’estate e i prossimi anni.Non avrei mai potuto vivere un’espe-rienza del genere da solo: se non avessiavuto la consapevolezza che ciò chestavo facendo era quello che facevanoanche tutti gli altri, il mio piccolo impe-gno sarebbe stato di certo ancor piùpiccolo, quasi nullo. Era bello ritrovarsila sera e sapere che tutti, come te, ave-vano passato la giornata immersi inuna realtà così diversa dalla realtà dacui tutti eravamo partiti e a cui tutti sa-remo poi tornati: l’Italia, il benessere, illavoro, lo studio, gli svaghi. Cercare ditenere viva dentro di me quella realtàall’interno della quotidianità a cui sonotornato è difficile, ma a volte i ricordi sifanno vivi da soli e mi rendo conto chesembrano essere nascosti tra mille altripensieri solo perché, in realtà, hannoraggiunto la parte più profonda di me.

Michele Viganò

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IL LIBRO

Sangue e vita, la fedeltà fino alla fine di Ignacio Ellacuria e dei gesuiti martiri del Salvador

EMANUELE MASPOLI, Ignacio Ellacuria e i martiri di San Salvador, Milano, Paoline, 2009,pp. 176, E 13. Prefazione di Jon Sobrino, postfazione di Beatrice Alamanni de Carrillo,procuratrice dei diritti umani in El Salvador.

Il 16 novembre 1989, nella sede dell’Uca, l’Universidad Centro Americana Josè Canas, aSan Salvador, ebbe luogo l’uccisione di sei gesuiti che qui prestavano la loro opera in qua-lità di docenti. L’anima di questo gruppo era padre Ignacio Ellacuria, basco, rettore dell’università. L’eccidio è por-tato a compimento da uomini del governo militare di El Salvador, i quali si incaricano anche, per non lasciare testi-moni, di uccidere le due donne in servizio presso i gesuiti. Fin qui i fatti. Questo è un libro rigoroso, perché tratta diun pensiero rigoroso. Parlare di questo libro significa parlare di padre Ignacio Ellacuria. Per riflettere sulla figura diquesto grande gesuita, si può utilizzare il metodo dell’individuazione di parole-chiave, metodo un po’ inconsuetoma che aiuta a inoltrarsi in quel tipo di approccio all’opera fatto dalla mente accompagnata dal cuore, che leggeanche fra le righe. Ecco allora le parole che mi hanno fatto da guida in questo viaggio.Realtà – Padre Ignacio soleva dire che bisogna “farsi carico della realtà, caricarsi della realtà, patire nella realtà,incaricarsi della realtà”. Questa frase, che lui ha messo in pratica fino alla morte per martirio, certamente rimaneimpressa in maniera profonda in chi la ascoltava allora e in chi la legge oggi. È una frase che per lui viene da mol-to lontano, dai tempi della sua formazione.Formazione – Ignacio si forma su base filosofica, in larga parte alla scuola del filosofo basco Xavier Zubiri, di cui èstato poi anche stretto collaboratore. Nella lezione di questo filosofo, poco studiato in Europa, ricorre molto il con-cetto di realtà. E del resto il progetto teologico di padre Ellacuria non smetterà mai di caratterizzarsi con l’impegnopolitico e sociale, economico e culturale nel e per il paese in cui vive. È l’opera di fondazione di una teologia intesacome sangue e vita.Estremo – Abituato al pensiero e al ragionamento, Ignacio Ellacuria non è certo tuttavia un uomo moderato: appa-re da queste pagine come un uomo estremo, ma anche l’ambiente in cui vive insieme alla sua comunità è estremo,violento, esasperato in ogni aspetto, compreso quello della voglia di vivere dei suoi abitanti, non di rado disperata.Viene da chiedersi che cosa abbia provato quest’uomo che sogna, che spera e che studia, in fondo al suo cuore, eche cuore è quello di un uomo così. Certo la sede delle decisioni, profonde e responsabili, ma anche dei sentimenti.Ed ecco allora altre parole-guida, apparentemente di altro segno.Comunità – Ignacio viveva la sua comunità con dedizione, non risparmiandosi nel lavoro continuo anche se la salu-te cagionevole lo metteva a dura prova. Nei momenti peggiori, quando la debolezza era troppa e lo costringeva anon uscire per le sue normali attività giornaliere, arrivava a pulire le scarpe dei confratelli che si recavano al lavoro.Giardino – Tutto intorno all’edificio dell’Uca, un giardiniere coltivava con amore quello che per i gesuiti era un luo-go significativo e simbolico. Esso non era un lusso o un hortus conclusus, un luogo chiuso ed elitario, ma un posto dibellezza e di ritrovo per i professori, per gli studenti e per chiunque avesse voluto trovarvi una sosta di semplice ri-creazione.Amicizia – Si ha ragione di credere che padre Ignacio sia stato un uomo duro con se stesso, ma è stato un uomoche ha certamente conosciuto l’amicizia anche al di fuori della sua comunità: amicizia con gli studenti, con i lavora-tori dell’Uca, con gli abitanti del piccolo paese centroamericano che considerava la sua vera patria. Amicizia con icollaboratori: la postfazione a questo libro l’ha scritta Beatrice Alamanni De Carrillo, procuratrice per i diritti umanidi El Salvador dal 2001 al 2007. Sono pagine squisitamente femminili, e anch’esse ci parlano di padre Ignacio El-lacuria. Racconta che era andata da lui, “con una grande emozione nel cuore, perché incontrarlo, parlargli, era unvero lusso spirituale e io avevo bisogno del suo conforto. […] Mi fu dato, come sempre, da quella sua personalitàcosì vigorosa e lucida”. L’esortazione di Ellacuria a questa donna: No llores màs (“Non piangere più”) fu l’ultimache ella sentì. Leggere questo libro e scrivere questa recensione è stato per me non certo conoscere, ma avvicinarmialla figura di Ignacio Ellacuria. Il resto lo faranno, spero, la riflessione e la meditazione. (Elena Fratini)

Ignacio Ellacuria S.I.(1940-1989)