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Poste Italiane S.p.A. - Sped. in abb. post. D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) art. 1 comma 2 DCB - Filiale di Roma cristiani nel mondo Misericordia e umanesimo Misericordia e umanesimo In questo numero Il convegno ecclesiale di Firenze Aggiornamento sul Progetto Migranti I campi della Lega Missionaria Studenti Rivista della CVX Comunità di Vita Cristiana Anno XXX · Settembre/Dicembre 2015 · Nº 3 In questo numero Il convegno ecclesiale di Firenze Aggiornamento sul Progetto Migranti I campi della Lega Missionaria Studenti

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Rivista della CVX Comunità di Vita CristianaAnno XXX · Settembre/Dicembre 2015 · Nº 3

In questo numero � Il convegno ecclesiale di Firenze� Aggiornamento sul Progetto Migranti � I campidella Lega Missionaria Studenti

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I N Q U E S TO N U M E RO

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Comitato di direzioneAntonio Salvio (direttore)Luisa Bonetti Luca GalanteIrene Campi Anna Maria La MonicaTiziana Casti Laura ScagliaCarlo Cellamare Paola SchipaniUmberto Di Giorgio Claudia Weber

Comitato di redazioneMassimo Gnezda (caporedattore)Raffaele MagroneElena MaietichAnna MuroloMassimo Nevola S.I.Antonietta PalermoFrancesco Riccardi

Direzione e amministrazioneSede legale: Via di San Saba, 17 - 00153 RomaSede operativa: Via del Caravita, 8A - 00186 Romatel. 0601900140 - cell. 3464719681e-mail: [email protected]

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Registr. Tribunale di Roma nº 34 del 22.1.1986

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Non è stato sempre possibile reperire gli aventi diritto per lariproduzione delle immagini. L’Associazione è comunque adisposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loroconfronti.

cristiani nel mondoRivista della CVXComunità di Vita Cristiana d’Italia

3 EditorialeArrivederci… on-linedi Antonio Salvio e Massimo Nevola S.I.

5 Giubileo strordinarioMisericordia e umanesimodi Giangiacomo Rotelli S.I.

8 Convegno ecclesiale nazionale di FirenzeRevisione e rinnovamentodi Antonio Salvio

11 Progetto MigrantiAlle frontiere con i richiedenti asiloa cura di Laura Scagliatesti di Rocio Jimenez, Francesco Belussi, Karl Jurik

25 ScenariQuale Occidente nell’era del relativismo?di Francesco Riccardi

28 I campi della Lega MissionariaPerché il Perù?di Jacopo Zocchi

30 I campi della Lega MissionariaRitorno alla vitadi Benedetta di Saint Pierre

32 I campi della Lega MissionariaReimparare a camminaredi Riccardo Ligresti

La foto di copertina è stata gentilmente concessa dalla Diocesi di Roma

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Carissimi amici e lettori, con questo nu-mero termina la pubblicazione, in for-mato cartaceo, delle nostre due Riviste

nazionali, Cristiani nel Mondo e Gentes, che sa-ranno pubblicate, da gennaio 2016, on-line sulnostro sito nazionale www.cvxlms.it.Il mondo dell’editoria è molto cambiato da ven-ti anni a questa parte. L’utilizzo di Internet, allaportata davvero di tutti, ha modificato l’accessoalle fonti d’informazione. Se la carta stampatafino a qualche anno fa era ancora il veicolo piùusato per comunicare notizie ed idee, oggi tuttociò avviene tramite la rete ed in tempo pratica-mente reale.Come nel quindicesimo secolo la scoperta dellastampa comportò una vera e propria rivoluzio-ne nell’universo della scrittura (dalla produzio-ne di cultura scritta a manifesti e bandi popola-ri), così la rete Internet ha imposto la creazionedi banche dati che, di fatto, già stanno sosti-tuendo intere biblioteche cartacee. Il libro, cosìcome lo abbiamo usato fino a poco tempo fa,sfogliando pagine, annotando pensieri, accarez-zandone la ruvidezza dei fogli e gustando talvol-ta perfino l’odore del cuoio delle copertine piùpregiate, sta cedendo sempre più il passo allalettura via tablet. Perfino i libri liturgici, spesso,sono sostituiti per praticità da mini monitor chefavoriscono la preghiera e le celebrazioni.Questa rivoluzione non poteva non coinvolgeregiornali e riviste. I costi di stampa e di spedizio-ne e i tempi di distribuzione hanno decimatotestate storiche, che son passate dal cartaceo allapubblicazione on-line.Si risparmiano tempo e soldi, utilizzati così peremergenze più urgenti alle quali è necessario farfronte.È arrivato il momento nel quale anche le rivistestoriche della Comunità di Vita Cristiana e del-

la Lega Missionaria Studenti son chiamate apassare dal cartaceo alla pubblicazione nei sitiassociativi. Cristiani nel Mondo e Gentes conl’anno nuovo saranno prodotte, quindi, solo inversione digitale. Sarà d’ora in poi spedita in formato cartaceo,invece, a tutti gli abbonati, Aggiornamenti So-ciali, redatta a Milano e a Palermo, rivista di no-tevole spessore culturale a servizio della Chiesae della Società civile del nostro paese.La comunicazione interna alla Cvx-Lms, relati-va alle informazioni e agli scambi di condivisio-ne, come anche la produzione di strumenti spe-cifici, utili alla formazione e alla riunione deigruppi, sarà garantita da forum on-line. La sceltaculturale di spessore più ampio, che vuoleproiettare la base associativa in prospettiva diuscita missionaria dai recinti dei propri gruppi,sarà affidata ad Aggiornamenti Sociali, rivistamolto affermata ed apprezzata anche all’estero efuori del mondo strettamente ecclesiale.Infatti, la Cvx e la Lms contribuiranno al servi-zio culturale di questa prestigiosa rivista, chemantiene la pubblicazione cartacea, mediante lapresenza di tre suoi associati all’interno del co-mitato di redazione. Un contributo importante,non marginale, che avrà la finalità di riportare ilvissuto e la riflessione sul mondo, elaborata dalaici, che si sforzano di incarnare nel quotidianola spiritualità ignaziana, quel carisma cioè chelo Spirito ha donato alla Chiesa e che aiuta a farsintesi di tutte le dimensioni della vita e a trova-re Dio in tutte le cose.Inoltre, la collaborazione ad Aggiornamenti So-ciali consentirà anche la pubblicazione di tresupplementi annui allegati alla rivista, curatidalla Cvx-Lms, che saranno inviati esclusiva-mente ai membri della nostra comunità nazio-nale.

CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015 · 3

E D I TO R I A L E

Arrivederci… on-line

DI ANTONIO SALVIO E MASSIMO NEVOLA S.I.

visita il nuovo sito http://cvxlms.itComunità di vita cristiana / Lega missionaria studenti

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EDITORIALE

4 · CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015

In sintesi, sono dunque tre le dimensioni che cihanno condotti alla scelta di sospendere la pub-blicazione cartacea di Gentes e di Cristiani nelMondo e di pubblicare entrambe le riviste on-li-ne. Il risparmio di soldi e di tempi di distribu-zione, che consentono all’associazione di con-centrarsi su interventi di solidarietà, che recla-mano la nostra urgente attenzione. Nello stessotempo di poter offrire, mediante le pubblicazio-ni on-line, strumenti formativi e informazionisulla vita associativa facilmente e rapidamenteconsultabili da tutti.La necessità di uscire dal solo giro dei propri as-sociati e di offrire il nostro contributo al poten-ziamento di una rivista storica, quale è Aggior-namenti Sociali.Qualificare ancor meglio il nostro contributo diriflessione, illuminato dalla spiritualità ignazia-na, facendo pervenire materiali, frutto di scam-bi di base, ai membri della nostra associazioneche entreranno nella redazione di Aggiornamen-ti Sociali.La nostra comunità nazionale, accogliendo congioia l’invito di Papa Francesco ad essere unaComunità «in uscita» verso le periferie geografi-che ed esistenziali del mondo di oggi, sente for-temente l’impegno alla solidarietà. Non per pu-ro filantropismo, ma per incarnare realmentel’invito evangelico «…ho avuto fame e mi avetedato da mangiare, ho avuto sete e mi avete datoda bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudoe mi avete vestito, malato e mi avete visitato, car-cerato e siete venuti a trovarmi» (Mt25, 35-37).Per questo La Cvx-Lms Italia si è fatta promo-trice ed ha aderito attivamente al «Progetto mi-granti richiedenti asilo», che la Cvx Europea staportando avanti da luglio 2015 a Ragusa, incollaborazione con l’Associazione San GiovanniBattista, per l’accoglienza ed il sostegno dei fra-telli migranti provenienti dal Nord Africa e dalMedio-Oriente. È per la stessa ragione che la Cvx-Lms è da sem-pre impegnata in progetti finalizzati all’inseri-mento degli immigrati, dei senza fissa dimora,

degli emarginati. Ricordiamo, ad esempio – trai tanti – La Fabbrica dei Sogni a Bergamo, LaCasa del Sorriso a Napoli, la collaborazione coni Centri Astalli in Italia, con ReggioNonTace aReggio Calabria e il Progetto Jonathan, per l’ac-compagnamento e il sostegno scolastico dei mi-nori a rischio a Napoli. Non solo in Italia, maanche in Romania, a Sighet, con il ProgettoQuadrifoglio per la gestione di tre case famigliaper minori abbandonati; in Perù, a Truijo, conla Compagnia del Perù, per i bambini vittime diviolenza fisica, psicologica e sessuale; in Kenya,a Nairobi, con il sostegno di due scuole realizza-te negli slums di Ongata Rongai e Kariobangidalla Cvx Capitolo XV di Roma; a Cuba, conuna missione in campo pastorale e sociale all’A-vana, che si appoggia su strutture del governolocale, collaborando, quindi, simultaneamentecon Stato e Chiesa. Ma l’impegno per la giustizia e la scelta preferen-ziale per i poveri spingono anche i membri dellenostre Comunità a lottare per la legalità in terri-tori particolarmente difficili per la presenza diorganizzazioni criminali (Campania, Calabria,Sicilia e non solo), nonché ad una intensa atti-vità di Advocacy, tesa a proporre nuovi modellisostenibili in campo economico e finanziario.Tutto ciò guidati, nella nostra azione quotidia-na, dal Magis ignaziano e sforzandoci di esseredonne e uomini di oggi «contemplativi nell’a-zione».Da gennaio 2016, quindi, la nostra Comunitànazionale avrà ben tre riviste con cui comunica-re: due on-line, Cristiani nel Mondo e Gentes, eduna cartacea, Aggiornamenti Sociali. A tutti voi chiediamo di sostenere, sia dal puntodi vista culturale, con il contributo prezioso del-le vostre idee e dei vostri suggerimenti, che dalpunto di vista organizzativo ed economico, que-sto nostro nuovo impegno. Affidiamo al Dio della storia, «che fa nuove tut-te le cose», questo nostro nuovo cammino, cherappresenta una svolta importante e significati-va per la nostra Comunità nazionale.

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«Possiamo parlare di umanesimo sola-mente a partire dalla centralità di Ge-sù, scoprendo in lui i tratti del volto

autentico dell’uomo. È la contemplazione delvolto di Gesù morto e risorto che ricompone lanostra umanità, anche di quella frammentataper le fatiche della vita, o segnata dal peccato.Non dobbiamo addomesticare la potenza delvolto di Cristo. Il volto è l’immagine della suatrascendenza. È il misericordiae vultus. Lascia-moci guardare da lui. Gesù è il nostro umanesi-mo». Con queste parole subito successive aquelle iniziali, il Papa ha incominciato il suo di-scorso al V Convegno Nazionale della Chiesaitaliana (del quale molti echi ci sono giunti perinternet da quanti di noi vi hanno preso parte).Gesù, volto autentico dell’uomo e volto dellamisericordia. Umanesimo e misericordia, dun-que. L’uno e l’altra espressi sul volto di Gesù,«da contemplare» e «da cui lasciarci guardare».Parole non nuove evidentemente. Ma nuova neè la centralità nell’annuncio e nello stile della

Chiesa. «Forse per tanto tempo abbiamo di-menticato di indicare e di vivere le vie della mi-sericordia» (Bolla di indizione del Giubileostraordinario della misericordia, MisericordiaeVultus, 10). Sì, come per troppo tempo abbia-mo dimenticato l’umano. Preoccupati di altro.Anche perché abbiamo lasciato piuttosto daparte il Concilio, misconoscendone la novità se-condo quelle «ermeneutiche della continuità»che tendono a dire che il Concilio in fondo nonha detto niente di nuovo. Lasciando così in om-bra ciò che aveva detto di nuovo. Papa France-sco dice: «Ho scelto la data dell’8 dicembre perdare avvio all’anno giubilare perché è carica disignificato per la storia recente della Chiesa.Aprirò infatti la Porta Santa nel cinquantesimoanniversario della conclusione del Concilio Va-ticano II. La Chiesa sente il bisogno — egli af-ferma — di mantenere vivo quell’evento. Per leiiniziava un nuovo percorso della sua storia». Unnuovo percorso della sua storia, dunque. Il Papaillustra il suo pensiero citando Paolo VI nell’Al-

GIUBILEO STRAORDINARIO

CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015 · 5

Misericordia e umanesimo

DI GIANGIACOMO ROTELLI S.I.

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GIUBILEO STRAORDINARIO

6 · CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015

locuzione all’ultima sessione pubblica del 7 di-cembre 1965: «Vogliamo piuttosto notare comela religione del nostro Concilio sia stata princi-palmente la carità […] L’antica storia del Sama-ritano è stata il paradigma della spiritualità delConcilio […] Una corrente di affetto e di am-mirazione si è riversata dal Concilio sul mondoumano moderno. Riprovati gli errori, sì: perchéciò esige la carità, non meno che la verità; maper le persone solo richiamo, rispetto e amore.Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti ri-medi. Invece di funesti presagi, messaggi di fi-ducia sono partiti dal Concilio verso il mondocontemporaneo. I suoi valori sono stati non so-lo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti,le sue aspirazioni purificate e benedette…Un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ric-chezza dottrinale è rivolta in un’unica direzio-ne: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ognisua condizione, in ogni sua infermità, in ognisua necessità» (Mv 4). Una corrente di affetto edi ammirazione versata dal Concilio sul mondocontemporaneo… Messaggi di fiducia… I suoivalori onorati… un’unica direzione: servirel’uomo!Indissolubilmente intrecciate, umanità e mise-ricordia per le infermità, le necessità. Non si dàcuore di uomo o di donna nella sua pienezza senon lo abita la misericordia.«Misericordia: è la legge fondamentale che abitanel cuore di ogni persona quando guarda conocchi sinceri il fratello che incontra nel cammi-no della vita» (Mv 2).«Ogni persona» dice il Papa, cioè appunto ogniuomo o donna che siano veramente tali.«Vedo la Chiesa come un ospedale da campo»ama ripetere il Papa, dicendo così nello stessotempo che il mondo è permanentemente, inuna modalità o nell’altra, in guerra e tutti, maproprio tutti siamo dei feriti che hanno bisognoquotidianamente almeno di quella cura che èl’affetto di altri per il nostro cuore appunto feri-to, solo, oppresso, sfiduciato per il male che locirconda e quindi direttamente o indirettamen-

te lo colpisce. Chi più, chi meno, ma siamo tut-ti mezzi morti lungo la strada della vita, biso-gnosi di un buon samaritano che abbia cura dinoi, delle nostre ferite, quelle che si vedono equelle che si vedono meno, che usi verso di noicompassione (Lc 10, 37), cioè misericordia,«con l’olio della consolazione e il vino della spe-ranza» secondo quanto dice il Prefazio che fa ri-ferimento al Buon Samaritano. La Chiesa è chiamata a offrire i tratti dell’uma-nesimo cristiano che sgorgano dai «sentimentidi Gesù Cristo». Sentimenti che non sono«astratte sensazioni provvisorie dell’animo, marappresentano la calda forza interiore che ci ren-de capaci di vivere e di prendere decisioni» (dalDiscorso del Papa a Firenze). Una calda forzainteriore, dunque. Senza di essa non siamo ca-paci di vivere e di prendere decisioni. Di vivere,ossia di prendere decisioni buone nella libertà,là dove si costituisce il nostro diventare uomini.E il Papa insiste su quel sentimento che dà for-ma all’umanesimo cristiano che è il disinteresse.Anzi, più che il disinteresse «dobbiamo cercarela felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cri-stiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, au-toreferenziale. Quando il nostro cuore è riccoed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non hapiù posto per Dio. Evitiamo, per favore, di rin-chiuderci nelle strutture che ci danno una falsaprotezione, nelle norme che ci trasformano ingiudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sen-tiamo tranquilli» (Evangelii Gaudium, 49). «Ilnostro dovere è lavorare per rendere questomondo un posto migliore e lottare. La nostra fe-de è rivoluzionaria per un impulso che vienedallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questoimpulso per uscire da noi stessi, per essere uo-mini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vitasi decide sulla capacità di donarsi». Qualsiasi vi-ta, dice sempre il Papa a Firenze. Non è solo unproblema dei cristiani.Così la misericordia «diventa il criterio per ca-pire chi sono i suoi veri figli» (Mv 9). Con que-sto criterio ultimo, il criterio, ci dobbiamo con-

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frontare. «Il perdono per noi cristiani è un im-perativo». Ma, aggiunge subito dopo il Papa, sitratta di qualcosa che ci è chiesto anche perchéè la via attraverso cui possiamo lasciare cadererancore, rabbia, violenza e vendetta e raggiun-gere la serenità del cuore (cfr Mv 9). A comin-ciare dal nostro.«Dovunque vi sono dei cristiani, chiunque devepoter trovare un’oasi di misericordia» (Mv 12),in quanto essi sono chiamati ad «assumerla co-me proprio stile di vita» (Mv 13).Concludo con due citazioni piuttosto lunghetratte dallo splendido libro di Giuliano Zanchi,L’arte di accendere la luce, ed. Vita e Pensiero,2015: «La sostanza della via evangelica. Essa sipresenta anzitutto come un “umanesimo”, unamaniera di essere uomini che realizzi la giusti-zia dell’umano, della quale la vita umana diGesù si presenta come esemplare primizia. Lagiustizia nella quale si realizza l’umano è perGesù quella che tiene legati alla volontà di Dio.

Il quale appunto, non si sente onorato nellasottrazione ai compiti ordinari della vita, nelsacrificio delle relazioni che essa procura, nel-l’evasione verso disincarnati eremi dell’anima,ma precisamente preservando l’integrità di tut-to quello che è umano, nella giustizia con cuiciascuno modella la sua vita personale, comeanche nella cura dovuta alle ferite della vita al-trui. Perché proprio nell’integrità dell’umanosta quello che esiste di più sacro e inviolabileper il Dio dell’alleanza» (p. 105).«La comunità dei convocati compie la sua natu-ra quando lascia affiorare nel proprio contesto la“differenza” introdotta dalla via evangelica nellaquotidiana cura del patto umano […] Si trattadi far vedere come si fac […] Mostrando che lerelazioni che la costituiscono fanno veramente ladifferenza. Non perché non si siano mai viste…Ma perché prendono sul serio l’umanesimoscritto fin dal principio nel fango della creazione[…] Cosa ci sarebbe di più dirompente di unacomunità di uomini e donne che realmente vi-vono volendosi bene, prendendo sul serio anchei conflitti, mostrando come ci si prende cura deilegami, di accogliere i bambini, accudire i vec-chi, sostenere i giovani, onorare in modo esem-plare la legge, creando reti di protezione per i piùfragili, mettendo intelligenza nelle questioni del-la vita civile, mostrando disinteresse per vantag-gi esclusivamente personali, adottando uno stiledi vita sobrio, prendendo sul serio il potenteslancio della povertà attraverso l’attento discer-nimento delle risorse economiche, lavorandosenza mire corporativistiche al bene comune, al-la costruzione della città di tutti, e via di seguito,ritenendo che tutto questo sia realmente essereuomini e donne come Dio comanda?... Non pergiudicare il mondo, ma per servirlo, per offrirgliuna prefigurazione in cui potersi riconoscere»(pp. 82-83).Alla fine dunque la misericordia verso il mondoè essere uomini e donne fino in fondo, e a qua-lunque prezzo, a imitazione di Gesù, verità del-l’uomo.

CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015 · 7

«Ho scelto la data dell’8 dicembre per dare avvio all’anno giubilare perché è carica di significato per la storia recente della Chiesa.

Aprirò infatti la Porta Santa nel 50º anniversario della conclusionedel Concilio Vaticano II. La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo

quell’evento. Per lei iniziava un nuovo percorso della sua storia».

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Si è tenuto a Firenze, dal 9 al 13 Novembre2015, il 5º Convegno ecclesiale nazionaledella Chiesa italiana dal titolo: «In Gesù

Cristo il nuovo umanesimo», a cui ho parteci-pato, come delegato, in rappresentanza dellaComunità di Vita Cristiana e della Lega Missio-naria Studenti. Con me è stato presente anchel’Assistente nazionale, p. Massimo Nevola S.I.Le mie prime impressioni, a conclusione delConvegno, sono quelle di chi sa di aver vissutoun momento di grazia, a poche settimana dall’i-nizio dell’anno giubilare della Misericordia, in-detto da Papa Francesco, e pochi giorni dopo lafine del Sinodo sulla Famiglia. Questo Convegno è stato come un dono prezio-so del Concilio, ha detto qualcuno a Firenze, acinquant’anni dalla sua conclusione: e credo siaproprio vero!È stato emozionante vedere riunite a Firenze tut-te le Chiese che sono in Italia con i loro vescovi,laici, presbiteri, religiosi e religiose: un popolo incammino, non solo metaforicamente. Papa Francesco ha fatto a tutti noi, delegati enon, un dono meraviglioso con la sua presenza,ma soprattutto con il suo discorso in cattedrale.Discorso che non esito a definire bellissimo ericco di stimoli ed indicazioni per tutti.Infatti, il Santo Padre in cattedrale ha detto:«Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tretratti che voglio oggi presentare alla vostra me-ditazione sull’umanesimo cristiano, che nascedall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti di-cono qualcosa anche alla Chiesa italiana che og-gi si riunisce per camminare insieme in unesempio di sinodalità. Questi tratti ci diconoche non dobbiamo essere ossessionati dal “pote-re”, anche quando questo prende il volto di unpotere utile e funzionale all’immagine socialedella Chiesa. Se la Chiesa non assume i senti-menti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se liassume, invece, sa essere all’altezza della suamissione. I sentimenti di Gesù ci dicono cheuna Chiesa che pensa a se stessa e ai propri inte-ressi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono

lo specchio in cui guardarci, quello che ci per-mette di sapere se stiamo camminando sul sen-tiero giusto: è uno specchio che non mente».Ripetendo ancora una volta «…preferisco unaChiesa accidentata, ferita e sporca per essereuscita per le strade, piuttosto che una Chiesamalata per la chiusura e la comodità di aggrap-parsi alle proprie sicurezze. Non voglio unaChiesa preoccupata di essere il centro e che fini-sce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e pro-cedimenti)».Papa Francesco ha invitato la Chiesa Italiana arileggere la sua esortazione apostolica EvangeliiGaudium, per discernere come attualizzarla ogginelle nostre Chiese locali. Nel contempo ha in-vitato anche ad evitare due tentazioni, in parti-colare: quella del pelagianesimo, cioè un «ecces-siva fiducia nell’organizzazione e nelle norme,che portano a conservatorismi ed a fondamen-talismi», e quella dello gnosticismo, «una federinchiusa nel soggettivismo… dove il soggettoin definitiva rimane chiuso nell’immanenza del-la sua propria ragione o dei suoi sentimenti». Haconcluso, poi, dicendo: «Spetta a voi decidere:popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemen-te vi invito ad alzare il capo e a contemplare an-cora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sullenostre teste». «Che Dio protegga la Chiesa ita-liana da ogni surrogato di potere, d’immagine,di denaro. La povertà evangelica è creativa, ac-coglie, sostiene ed è ricca di speranza».1

Si è subito respirato un clima nuovo ed un en-tusiasmo generale tra i delegati, che hanno tra-sformato l’assemblea ed i lavori di gruppo in unvero momento di gioia e di sinodalità. Nellasemplicità e nel confronto dialettico tutti han-no potuto esprimere con libertà il proprio pen-siero. La metodologia dei lavori di gruppo, poi,contrariamente a quanto avvenuto nei Conve-gni precedenti, ha favorito lo scambio sereno esincero tra tutti coloro che rappresentavano leChiese locali. Si è, infatti, lavorato in gruppi didieci in aule da 100, aiutati da sollecitatori ecoordinatori efficienti e preparati. E le cinque

CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE DI FIRENZE

8 · CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015

Revisione e rinnovamento

DI ANTONIO SALVIO

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CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015 · 9

relazioni finali rispecchiano realmente il lavorofatto!Sarebbe troppo lungo sintetizzare il grande la-voro svolto in quei giorni. Vale la pena, però, ri-visitare le relazioni finali sulle cinque vie esplo-rate (disponibili on-line), sulle quali i delegatihanno fatto discernimento: Uscire, Annunciare,Abitare, Educare, Trasfigurare, perché ricchissi-me di spunti e di nuove tracce. Rimettere Cristo al centro della nostra vita, nonnel senso di uno sterile devozionismo, ma perdare pienezza umana alla propria esistenza, èstato da tutti sottolineato come elemento essen-ziale per dare senso ad un nuovo Umanesimocristiano. Dare «senso», quindi, alla nostra vitacome uomini di questa nostra epoca lacerata edisperata, in Cristo divenuti realmente «Figli diDio». A tal proposito, nell’inno del Convegnoecclesiale Cristo, Maestro di Umanità (compostodal Maestro Frisina) mi ha colpito particolar-mente una frase: «Noi, Pellegrini assetati di sen-so. Noi, Pellegrini di Amore e Bellezza».Sono stati cinque giorni intensi, belli, dove loSpirito ha riunito la Chiesa che è in Italia, spin-gendola con forza sulla via del rinnovamento e,come ripetutamente sta chiedendo Papa Fran-cesco, la Chiesa Italiana non poteva esimersi dalfare un profondo esame di coscienza ed una re-visione della propria autenticità evangelica.E noi eravamo là, piccola porzione di Ecclesia, atestimoniare, con la nostra presenza, la nostraappartenenza all’unico Popolo di Dio, con lanostra specificità, ma camminando con i nostripastori verso l’unico Sommo Pastore.Mi ha colpito molto il silenzio attento e parte-cipe della sala plenaria, con più di 2200 delega-ti, durante tutte le sessioni di lavoro ed il climadi gioia e convivialità nei momenti di pausa.Alcune parole-chiave possono dare un’idea diciò che si è vissuto in questo Convegno: la piùsignificativa mi sembra possa essere sinodalità,come metodo non solo dei vertici della chiesama di tutte le realtà ecclesiali. Uscire. Unire preghiera e azione: il Papa ci ha in-vitato a gesti concreti non ad intellettualismi.Ascolto del territorio e risposte in relazione aibisogni espressi: migranti, carcerati, famiglia,giovani, etc. Evitare un’eccessiva burocratizza-zione e clericalizzazione delle diocesi auspican-do un ruolo più attivo dei laici.2

Annunciare. Mettere al centro il Vangelo, agire,decentrarsi, aprirsi a tutti significa guarire e rin-novarsi per leggere la realtà e la nostra vocazione.3

Abitare. Un verbo che, come viene mostrato an-che nella EG, non indica semplicemente qual-cosa che si realizza in uno spazio. Non si abita-

no solo luoghi: si abitano anzitutto relazioni.Esse possono venir sintetizzate da alcuni verbi:ascoltare, lasciare spazio, accogliere, accompa-gnare e fare alleanza. In tutto questo, però, nonsi parte da zero, ma è invece necessario conti-nuare nel lavoro già iniziato.4

Educare. La sfida educativa è avvertita comecentrale da molti uomini e donne del nostrotempo e costituisce un luogo privilegiato di in-contro con tante persone a diversi livelli ed am-biti della società. Sono stati Individuati tre nu-clei orientativi: a) Comunitá che educa: che vivecoerentemente la propria fede come dono rice-vuto e come consegna per le nuove generazioni.«Fare rete» con le diverse istituzioni educativepresenti nel territorio e con quanti si interessa-no di educazione, anche se di formazione diver-sa. b) Formazione dell’adulto: si è chiesta unanuova attenzione per la scuola e l’università eper la difficile situazione delle scuole paritariecattoliche. c) Nuovi linguaggi nell’educazione: gliambienti digitali (web, media); cultura e bellez-za: nuove espressioni di incontro fecondo fra learti, il vangelo, l’educazione.5

Trasfigurare. È il Signore che trasfigura, non sia-mo noi! Bisogna allora lasciarsi trasfigurare enon ostacolare l’opera di Dio in noi e intorno anoi, ma saperla piuttosto riconoscere e aderirvi.Per questo occorre rilanciare la lectio divina, ri-tenuto un esercizio molto valido per una letturasapienziale ed esistenziale delle Sacre Scritture.È, poi, emersa la liturgia come evento di trasfi-gurazione, sia in quanto culmine che in quantofonte di tutta la vita cristiana. Il rinnovamentoliturgico del Concilio è una realtà in atto, chechiede a noi fedeltà e responsabilità. La Chiesache celebra e che prega è anche la Chiesa inuscita. Far vivere l’umanità della liturgia è ilcompito che ci attende.6

Il card. Bagnasco nella sua relazione conclusivaha sintetizzato tutto il lavoro svolto, sia in as-semblea plenaria che nelle commissioni di lavo-ro, ed ha indicato le prospettive per il prossimodecennio della Chiesa italiana. Tra l’altro, ciòche riguarda più da vicino noi della Cvx/Lms, ilPresidente della Cei ha riconosciuto il ruolo im-portante nella comunità ecclesiale italiana delleassociazioni e dei movimenti: «Mantenere unsano contatto con la realtà, con ciò che la gentevive, con le sue lacrime e le sue gioie – ci ha det-to il Santo Padre – è l’unico modo per poterlaaiutare, è l’unico modo per parlare ai cuori toc-cando la loro esperienza quotidiana. Qui, ungrazie convinto va speso per le diverse forme diassociazionismo e di partecipazione: sì, non par-tiamo da zero!».7

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CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE DI FIRENZE

Infine, i giovani delegati alla fine del Convegnohanno scritto una lettera in cui, tra l’altro, affer-mano: «Occorre fare un falò dei nostri divani.Raccapricciarci della cristallizzazione delle no-stre abitudini, che trasformano le comunità insalotti esclusivi ed eleganti, accarezzando le no-stre pigrizie e solleticando i nostri giudizi sfer-zanti».8

Credo, in conclusione, che sia assolutamente ne-cessario riprendere (o prendere!) in mano laEvangelii Gaudium nelle nostre Comunità, co-me in cattedrale il Santo Padre ci ha fortementeraccomandato di fare: «…permettetemi solo dilasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: inogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione,in ogni diocesi e circoscrizione, in ogni regione,cercate di avviare, in modo sinodale, un ap-profondimento della Evangelii gaudium, pertrarre da essa criteri pratici e per attuare le sue di-sposizioni, specialmente sulle tre o quattro prio-rità che avrete individuato in questo convegno».9

L’organizzazione del Convegno ha rasentato laperfezione (eravamo più di 2200 delegati!) e la

città di Firenze è stata generosamente accoglien-te, per cui mi sento di esprimere a nome dellaCvx Italia un grande grazie.

1 Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Conve-gno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana, 10 novem-bre 20152 Uscire. Sintesi e proposte. Don Duilio Albarello Docentedi teologia fondamentale presso la Facoltà Teologica dell’I-talia settentrionale3 Annunciare. Sintesi e proposte. Prof.ssa Flavia Marcacci.Docente di storia del pensiero scientifico presso la Pontifi-cia Università Lateranense4 Abitare. Sintesi e proposte. Prof. Adriano Fabris, Ordina-rio di filosofia morale presso l’Università di Pisa5 Educare. Sintesi e proposte. Suor Pina Del Core, Fma,Preside della Pontificia Facoltˆ di Scienze dell’EducazioneAuxilium.6 Trasfigurare. Sintesi e proposte. Fr. Goffredo Boselli, mo-naco di Bose e liturgista.7 Card. Bagnasco. Discorso conclusivo al 5º Convegno Ec-clesiale Nazionale. Firenze 13 Novembre 2015.8 Lettera dei giovani delegati al 5º Convegno ecclesiale na-zionale - Firenze 13 Novembre 2015.9 Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Conve-gno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre2015.

Papa Francesco ha invitato la Chiesa Italiana a rileggere la sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium, per discernere come attualizzarla oggi nelle nostre Chiese locali.Rimettere Cristo al centro della nostra vita, non nel senso di uno steriledevozionismo, ma per dare pienezza umana alla propria esistenza, è stato da tutti sottolineato come elemento essenziale per dare senso ad un nuovo Umanesimo cristiano.

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Siamo oggi, 29 novembre 2015, tra la finedel settimo e l’inizio dell’ottavo turno delcampo di volontariato della Cvx europea

con i richiedenti asilo a Ragusa. Molti volontarisi sono succeduti, uno è tornato qui per la terzavolta e altri torneranno a breve per una visita aicentri dove hanno passato tre settimane di ser-vizio durante l’estate.Abbiamo vissuto molte esperienze diverse, le ab-biamo vissute ognuno con emozioni, intensità etrasporto del tutto personali, ma soprattutto le

abbiamo condivise tutti insieme in quello spiritodi gratuità e servizio che caratterizza l’essere vo-lontario. Siamo stati capaci di convivere e condi-videre gioie e dolori legati alla vita dei richieden-ti asilo residenti nei tre centri dove i partecipantial campo prestano il proprio servizio o anche al-la nostra vita personale. Abbiamo imparato a co-noscerci, pur nella diversità delle provenienze, ea conoscere i migranti che arrivano via mare inItalia. Soprattutto abbiamo imparato a conosce-re le loro storie, a vederli come persone e poten-ziali amici e non solamente come una massa in-distinta di derelitti e sfortunati che a ondate «in-vadono» il nostro territorio.Uno dei momenti che personalmente mi hannopiù di tutti toccato e fatto capire che l’esperien-za era (ed è) positiva per i volontari, è stato l’in-contro avuto con un altro gruppo che per circaun mese ha condiviso con noi la casa dei gesuitiqui a Ragusa (Le 100 pinne). La grande curio-sità su quel che ci muove da un lato e l’inconte-nibile voglia di testimoniare dall’altro mi hannocommosso e hanno, se possibile, rafforzato inme il desiderio di continuare ad impegnarmi afianco di queste persone meno fortunate e chenella propria vita hanno dovuto sopportare giàtroppo.Per quanto mi riguarda, l’esperienza finora èmolto positiva, anche se indubbiamente qual-che fatica c’è, c’è stata e forse ci sarà ancora, maè innegabile che dal 1° luglio quando ho presol’aereo da Orio al Serio, in me qualcosa sia cam-biato e questo lo devo a tutti i volontari, i mi-granti e gli operatori della Fondazione «SanGiovanni Battista» con i quali ho collaborato inquesti cinque mesi.Vi propongo ora le riflessioni di tre volontari,senza commenti né spiegazioni, ma con una so-la annotazione: quando le ho lette io mi sonocommossa!L’unica conclusione possibile da parte mia è unringraziamento a tutti per l’enorme impegno ela convinzione in quello che abbiamo fatto, stia-mo facendo e faremo insieme qui a Ragusa.

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Alle frontiere con i richiedenti asilo

A CURA DI LAURA SCAGLIA

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Da terraDI ROCIO JIMENEZ

Quando leggo le notizie sul dramma dell’immi-grazione e le commento con altri, quando vedole immagini della televisione o quando mi in-contro con uno di loro che vende orologi obraccialetti per strada, nei bar, quando… ho lasensazione di vedere attraverso un cristallo, avolte trasparente, a volte traslucido, ma sempreda una certa distanza.Qui nel centro di assistenza per migranti richie-denti asilo a Ragusa, in Sicilia, li vedo da terra.Mentre ero in viaggio per quest’esperienza, inaereo, pensavo a ciò che avrei incontrato. Im-maginavo tutte queste persone che abbandona-no le loro case, il momento dell’addio o a volteuscendo di nascosto, preparando una borsa conqualcosa da mangiare per il viaggio, talvoltaqualche vestito, talvolta solo denaro. Li imma-ginavo percorrere terre che non conoscono, sen-za mappe, cercando di capire come superare lediverse tappe, fino ad arrivare alla costa e lì…scegliere le barca? Si potrà scegliere la barca?Me li immaginavo nella barca sperando di avvi-stare terra, e come nei film, il primo che la ve-desse griderebbe: terra!. E sono arrivata nellarealtà a Ragusa, nel sud della Sicilia. È la primacosta a cui arrivano, quando arrivano, le imbar-cazioni che partono dalla costa della Libia. Unviaggio del quale la prima cosa che dicono,quando iniziano a raccontartelo, è che «è un in-ferno dal quale esci solo se Allah o Dio ti aiuta».«Ho visto morire amici di sete nel deserto delNiger», «ho visto uccidere uomini che viaggiava-no sul mio camion perché non avevano più de-naro per pagare», «mi hanno rubato tutto quelloche avevo e mi hanno lasciato bastonato», «hodovuto saltare da un camion della polizia libicache mi portava in prigione», «sono partito da ca-sa che avevo 18 anni e ora che arrivo qui necompio 23»..., Storie di vita dalla terra…Tutte le storie hanno nomi e cognomi e una fa-

miglia, un numero di telefono da chiamare, tut-te le storie hanno uno sguardo perduto, il gestodi negare con la testa per evitare di ricordare, larabbia perché non mi piace il cibo o la dispera-zione del ritardo nell’ottenere i documenti.Questo è il giorno per giorno di questo proget-to a Ragusa. Di questo si tratta in questo pro-getto, di arrivare al mattino, salutare guardan-doli in faccia e trattarli con dignità.Ho avuto esperienza a redigere progetti per del-le Ong, è una parte importante in cui devi ana-lizzare cose come l’efficacia, l’efficienza, la soste-nibilità..., e certamente è importante perchétutto funzioni. Però mi sono sempre domanda-ta se sia questo tutto ciò di cui hanno bisognole persone a cui destiniamo il nostro denaro, lenostre risorse, il nostro tempo o volontariatoquando le guardiamo faccia a faccia.Per me quest’esperienza è nuova: per la primavolta mi occupo e preoccupo solo di trattarlicon dignità, con questa dignità che hanno per-so a volte nel cammino, per questa dignità feri-ta da altri di cui sono stati testimoni. Di questadignità che tutti sperimentiamo quando ci al-ziamo e abbiamo dove fare la doccia, fare unabuona colazione e andare a lavorare ogni gior-no. Quella che ci danno gli altri quando ci salu-tano con gentilezza e rispetto quando entriamoe usciamo da qualche parte. O con la quale citratta il nostro medico o l’infermiera quandoentriamo in un ambulatorio. Come quando tidanno la mano e ti guardano negli occhi.Può sembrare poco, può sembrare la cosa menoimportante, certamente non è l’unica di cuihanno bisogno, e per questo la Fondazione SanGiovanni Battista si occupa con molta umanitàe rispetto di fornire loro tutto il necessario permangiare, vivere, vestirsi e soprattutto perchéottengano un riconoscimento ufficiale di perso-ne libere per vivere qui, in Europa. Ma collabo-rare con loro perché il loro primo contatto congli europei sia amabile, cortese, rispettoso, guar-dandoli negli occhi e comprendendo senza usa-re parole, credo ora che sia una parte della cosa

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più importante nella loro porta di ingresso inquesta nostra Europa.È efficace o efficiente o sostenibile o pertinente?Da qui, da terra a me pare di sì.

Diario di un volontarioDI FRANCESCO BELUSSI

Questo è il mio diario sui giorni trascorsi nel Cen-tro di seconda accoglienza – Sistema di protezioneper richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) di TorreCanicarao (Ragusa). Futile e noioso potrebbe aver-lo scritto anche un passante che si fosse fermatoqualche istante fuori dalla recinzione. Non vuoleessere una riflessione sul tema dell’immigrazionevia mare, ma solamente una descrizione esterna discene che mi hanno colpito esteticamente e che mihanno visto più o meno protagonista. Anche se pri-ve di un significato profondo o esplicito. Si vorreb-be far rivivere, almeno in parte, quella che è laquotidianità nel suo svolgersi oggettivo in un cen-tro accoglienza.

Non parlando il francese ho potuto interagire atti-vamente solo con gli anglofoni o con i ragazzi piùsociali e inclusivi. Inoltre non è una cronaca della mia attività davolontario, non voglio tirare le somme su ciò cheho fatto o avrei potuto fare: sicuramente troppo po-co per via del temperamento e la scarsa conoscenzadelle lingue. Ma a questo proposito ho imparatoche fatti e sentimenti a volte si comunicano da sé,che si può scavalcare «l’ostacolo delle parole»

8 settembre 2015. I bianchi e i neri si mangia-no a vicenda. “Ho vinto io mon frère”. La damaè uno dei pochissimi svaghi per i richiedenti asi-lo di Canicarao. Per giocare è stato dipinto untavolo di scuola, gronda acqua e le pedine scivo-lano, prendono il largo... Ridono perché unodi loro posa la mano, sta barando e ora i qua-drati sono tutti neri. Anche la mia mano è nera:cerco di nascondere la penna nei pantaloni, nonvoglio farmi vedere mentre annoto nomi e sto-rie, ma mi sporco d’inchiostro. Guardo la scac-chiera e penso al 2 tone, alla pace interraziale.Anche M* conosce lo ska, in Gambia era un djdi r’n’b rocksteady e hip hop. È una delle primecose che mi dice e sorride quando confesso disaper scratchare un po’ e gli racconto del videodegli assalti fuori da un c.e. È sbarcato a Pozzal-lo l’altro ieri, è stanco ma mi riempie di doman-de sull’Italia, la distanza con Milano che vuoleraggiungere, il prezzo delle sigarette, la juve…Rispondo vagamente, è fiacco e disilluso e nonvoglio distruggere le poche speranze rimaste dalsuo viaggio. Suo fratello,(scoprirò in seguito es-sere solo un compagno di viaggio) ride che hopiù anni in più di lui e sono grosso la metà.Sono in sette i nuovi arrivati, la polizia li ha por-tati senza preavvisare gli operatori del centro,Biagio e Uccio che han dovuto fare gli straordi-nari. «noi siamo lo stato e voi non contate unnulla», le parole degli uomini in divisa.S* ha dovuto vedere un amico morire in mare.Mentre racconta sorride con una serenità distac-cata, disarmante. Nel limbo i morti devono ave-

Tutte le storie hanno nomi e cognomi e una famiglia, un numero di telefono da chiamare, tutte le storie hanno

uno sguardo perduto, il gesto di negare con la testa per evitare di ricordare, la rabbia perché non mi piace

il cibo o la disperazione del ritardo nell’ottenere i documenti.

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re questa espressione. Un limbo sì, perché neicentri accoglienza non c’è bisogno di ricordarlo,non c’è nulla da fare, per mesi e la noia è logo-rante. It’s boring mi dicono. «Fucking boring» ri-spondo e ridono perché ho capito al volo.S*. oltre a insegnare ginnastica amava dipinge-re. Tutto ciò che posso offrire è di disegnare conun paio di pennarelli, come i bambini dell’asilo,nella stanza che fa da scuola di italiano. Infattimi vergogno parecchio, con lui e con gli altri ri-chiedenti asilo. Cosa penseranno nel vedere en-trare un trentenne solo con me a pitturare. In-vece accetta e ci sediamo.Il sole taglia la pioggia e irradia la stanza. C’è unsilenzio magnifico, di pace. Senza dire una pa-rola, uno in fronte all’altro, faccio ciò che piùmi piace e che mi viene meglio: un graffito conil suo nome. «Lui disegna la casa che è stato co-stretto a lasciare, come quella che A*(?) ha co-struito nel giardino del centro. Una volta dove-va contenere mogli e madri con cui fare l’amoree celebrare le feste. Mi dice che gli piacerebbedisegnare il suo viaggio, «Surely tomorrow we’lldo it» rispondo.T. si distingue subito dagli altri per la pacatezzanel parlare e il modo di vestire distinto. Ha unacamicia, non la solita canotta bucata. Parla quasipiù di 3 lingue, trasuda la profondità di chi hastudiato e,come tutti gli altri, la dignità del do-lore, dell’aver visto ciò che non si può raccontarea parole. In Guinea Conakry insegnava scienze ematematica, gli si illuminano gli occhi quandoscopre che studio scienze politiche e mi raccontadella sua militanza nel partito e la lotta per ren-dere i suoi concittadini «more conscious»… noncome quelli che governano.Le mosche circondano ogni cosa, la pioggiasparge l’odore delle bacche che fermentano a ter-ra, si vorrebbe giocare a calcio ma per ora nientescarpe e chi le ha è meglio che le conservi per icolloqui con l’autorità territoriale. Ma anchegiocare a pallavolo è un problema, perché si sci-vola e si rischia di farsi male. Alcuni, anchilosati,si muovono a rallentatore, i segni irreversibili

delle prigioni il Libia. Finisco presto le sigaretteche tutti mi chiedono e fumano avidamente.«E* non sta bene» mi dice B e gli accarezza affet-tuosamente la testa, come farebbe la mamma.La pioggia crea un fiume che scende dal cortilesotto all’arco d’ingresso dell’antica struttura. Irifugiati siedono sui bordi della tettoia rannic-chiati. Uno addosso all’altro cercano di starefuori dall’acqua, molti con il telefonino in ma-no. Immobili fissano il flusso della vita scorrere.

9 settembre. S* ha la gamba gonfia, non riescea camminare. Mi sento in colpa, ma mi diconoche non è caduto ieri con me, ma durante lapartita di calcio.È mattina, tra poco inizierà il corso sulle basi diitaliano. O* mi ferma, non capisco cosa dice pervia del difficile accento africano, spero sia ine-rente alla lezione. No grazie ma non è del signi-ficato delle parole che ha bisogno, vuole saperecome farsi arrivare dei soldi.

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Impressioni di un volontarioEssere con altre persone in una situazione difficile:da un lato coloro che si sono lasciati dietro tuttoe dall’altra parte quelli che stanno lavorando conloro.All’inizio questo significa: Aspettare.Aspettare di iniziare a conoscersi.Aspettare di trovare una lingua comune (Urdu,Wolof, Pular, Bambarà, Mandinga, Francese africa-no e Inglese).Aspettare di trovare qualcosa da fare insieme.Tutto questo non perché noi vogliamo dare qual-cosa o aiutare (nel senso comune), ma volendo en-trare nella realtà.Forse in questo modo può diventare possibile cam-biare verso un mondo migliore.Cominceremo cambiando noi stessi?Il cambiamento proseguirà con il nostro cuore.

Karl Jurik - CVX Austria Gruppo MagisRagusa, 23 luglio 2015

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Molti dei richiedenti asilo sono privi di alfabe-tizzazione e c’è chi come Se* fatica anche a con-tare, ma i più imparano in fretta. In un ora san-no già quasi i numeri fino a cento e riescono aleggere distinguendo suoni duri e dolci senzadifficoltà.A mezzogiorno i sette nuovi arrivati, sei delGambia e un egiziano, devono firmare il con-tratto di permanenza. Si traduce simultanea-mente: Fe* in arabo e Y* dall’inglese al man-dinka. La notizia di un possibile rifiuto del per-messo di soggiorno lascia tutti impietriti. S* mifissa come per cercare giustizia, gli occhi neri so-no lucidi come quelli dei compagni.Viene offerto uno sportello di assistenza psico-logica. «We know the violence you have suffered»,traduce la mediatrice con la voce tremante.

Si va avanti un ora, poi il pranzo, «You’re a goodman» mi dice Se* sorridente. Alle sue spalle unascritta verde tracciata a pennarello : «Outlaws».Placata la fame è il momento di spendere subitola scheda telefonica da 15 euro, fornita una solavolta all’ingresso del centro. Il problema è co-me: qualcuno cerca di farsi prestare il cellularedai bangla. Ci si capisce anche senza capirsi. Iltelefono squilla, l’emozione è tangibile, ma è si-lenzio, non funziona.Piove, inesorabilmente, senza sosta. Col sole al-meno ci si potrebbe muovere, fare due passi, in-terrompere per un istante il circolo sempreuguale del dolore. Stretti sulla panchina dell’in-gresso, cerco di disegnare una cartina rudimen-tale dell’Italia. Le domande sono sempre quelle,quanto costa il biglietto del treno, quanto ci

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Piove, inesorabilmente, senza sosta. Col sole almeno ci si potrebbe muovere, fare due passi, interrompere

per un istante il circolo sempre uguale del dolore. Stretti sulla panchina dell’ingresso, cerco di disegnare

una cartina rudimentale dell’Italia.

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vuole, come posso fare. Rispondo sempre chenon lo so.Si è in balia di tutto, tanti non sanno neanchein che parte d’Italia siamo.O* ha un fratello, forse in Sicilia, non capisco,potrebbe mandargli dei soldi ma non sa dove siae non riesce a chiamarlo. È finalmente apparsoil sole e siamo io e lui soli. O* ha due anni inmeno me. È partito il mese scorso da Banjul, al-la fidanzata ha detto che andava per 2 o 3 giorniin Segal: «She’s going crazy» e si mette le maninei capelli mentre lo racconta. «Mi piacerebbeche mi seguisse ovunque io vada». Se avesse isoldi tornerebbe subito in Gambia, mi dice chenon ce la fa a reggere un giorno di più: «I’mgoing crazy,I’m crazy» continua a ripetermi e in-fine «God has life» mentre lascia cadere le brac-cia sul corpo, la fatale accettazione«Theese cards you gave us don’t work» a parlareora c’è anche Y*, anche lui si lamenta, ma riescea rimanere pacato anche se esausto. Prova a pla-care l’animo del compagno mentre annuiscequando rispondo che probabilmente devonoandare alle cabine telefoniche di Comiso. «Staitranquillo, domani mattina vedrai che ce la fa-remo» gli dice. A me invece: «Però ci andiamodomani a Comiso» e con gli occhi sembra dire«Ci conto eh». Ma so che ormai non ci contanoquasi più. Vedo la speranza nei loro volti e ho ilterrore di tradirla. Hanno già imparato a non fi-darsi delle mie parole vaghe. Ma in questo mo-mento è tutto ciò che hanno e non si può farealtrimenti. Resto in silenzio con M*, uno in fianco all’altro,non so per quanto, il tempo non passa mai. Sisforza di sorridere quando cerco di distrarlo, mapoi è inevitabile, inclina il capo e guarda in altocon gli occhi vuoti, come assorto. Dei suoi di-ciotto anni in questo momento resta solo, comevestigia, il tamburellare incontrollato del piede.Grazie a Dio è giunto Fy*, 17 anni, dal Bangl-desh. È il più giovane del centro ma è anchequello che sa meglio l’italiano sebbene sia a Ca-nicarao da solo poche settimane. Arriva di corsae mostra all’altro, di un solo anno più grande, ilvideo che ha fatto alla preghiera interreligiosafatta la settimana prima. Si vedono gli «automi»del centro ballare e addirittura delle donne.«Only 7 days ago?» M. non crede ai suoi occhi,non possono essere le stesse persone. Riconoscouna volontaria del turno precedente al mio, Fy*l’ha filmata senza farsi vedere. «Rita?» chiedo«Rita is good», mi risponde”. Poi ricordo che Ri-ta è un’altra: “Sofia?” «Yeeeah, yes Sofia» rispon-de urlando felice.Poi è ancora il nulla fino a che bisogna portare S

al pronto soccorso, la caviglia gli fa troppo male.Y* ne approfitta per entrare in ufficio, stanottenon è riuscito a dormire: «My head very hurted.It was dum dum dum», mi dice mentre si pic-chietta il capo a intervalli intermittenti,«Brufenno buono». Ha del cotone nell’orecchio. Appenalasciata Tripoli, in barca un aguzzino gli ha tira-to uno schiaffo troppo forte.

10 settembre. Oggi è una buona giornata, c’è ilsole e è stata distribuita una maglia pulita ai set-te nuovi arrivati .in mattinata riusciamo a orga-nizzararci per andare a Comiso per chiamare lefamiglie. La notizia li fa sorridere, «This it’sgud».Scrivo welcome refugees su una parete, a S* il la-voro piace e disegna casa sua, altri tre imbianca-no il refettorio.Dopo pranzo vedo Y* che è tornato dall’ospe-dale dove gli han tolto l’acqua che aveva nell’o-recchio, sta meglio mi dice. S. invece si è rottola caviglia e dovremo riportarlo al pronto soc-corso nel pomeriggioSara, l’altra volontaria spagnola, propone di an-dare a cogliere le more, non mi sembra unabuona idea e temo che non ce ne siano più. In-vece riesce a raggruppare un bel gruppo, unaventina di persone che non sopportano più distare relegati in camera o in cortile. È divertenteperché cerca di tradurre moras un po’ in tutte lelingue, arriva anche Biagio e spiega: «mora una,more tante…» e mi precede, «con la a invece èamore». «Andiamo a-more?» gli dico, «C’è dastare attenti perché potrebbero prenderla sul se-rio..» ribatte ridendo. Partiamo, un operatoremi chiede cosa stiamo andando a fare ,«Capora-lato» rispondo ironico. Anche i ragazzi pensanoalla stessa cosa perché mentre raccolgono si sfot-tono a vicenda:«Abouba cker! Omar!..you mustwork!». Le more ci sono e troviamo anche dellenoci che mangiamo sul posto. Fy* cammina ab-bracciato a B*, ha trovato un fratello maggiore.Torniamo presto, nessuno ha dimenticato che sideve andare a Comiso, bisogna fare sul serio.All’andata ci accompagna Claudio, ma salire sulcamioncino non è facile, le facce sono timorose,tutti si muovono titubanti. Con fatica raggiungiamo una cabina telefonica.Chiamare è difficile, si devono inserire decinedi cifre ed è un attimo sbagliare. Molti numerinon esistono più, bisogna andare a ritrovarequelli sgualciti ormai illeggibili e quelli dei fa-migliari più lontani sono difficili da ricordare.Aggiungasi la tensione di finire il credito, lemacchine che passano e la cabina vecchia chenon funziona. Sono decine i tentativi. È diffici-

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le, ma a volte suona, «Spiacente O*, i tuoi de-vono essere fuori casa».Se finalmente qualcuno risponde bisogna parla-re il più in fretta possibile per stare nei 7 minutidi credito: dire che si è vivi, in Italia, farsi man-dare i nuovi numeri dei famigliari: mi fannocenno di annotari in fretta su dei fogli che han-no attraversato il deserto.Y* è il più anziano perciò chiama per primo. Ha43 anni, ma come tutti sembra molto più vec-chio. Ha pagato circa 600 euro per il viaggio,ma il salvagente non gli è stato dato, è arrabbia-to e vuole chimare la nipote perché cerchi difarsi ridare i soldi. «Three days in the sea,where-ver you whatched there was sea».Forse per via de-gli occhiali ma è la copia di Guru dei Ganstarr,ci mancava appena che si mettesse a dire «Expe-rience is the best teacher» dopo essersi spinato,mangiando un fico d’India. Gliene ho offertouno, ma non ne aveva mai visti prima. Istruiscei giovani intorno a lui sulle cose del mondo, lageografia europea, il sole in Finlandia... Gli altriridono perché urla come se al di là della cornet-ta non ci fosse nessuno, «Così ti sentiranno finoin Gambia», gli dicono. O* si vergogna ed èpreoccupato di disturbare la gente silenziosadella piazzetta. Y* aiuta i compagni a telefonare,accorto delle difficoltà dei compagni più deboli.Sa che Se* scrive male e gli scandisce numeroper numero lentamente, mentre parla gli alzaamorevolmente la cuffia sopra l’orecchia, per-ché non intralci la cornetta. Dopo la chiamatami riempie di ringraziamenti, non sente la fa-miglia da quando era in Libia: «ora sanno chenon sono morto in mare» mi dice. Sorridequando sente ridere A*:«Speaking with your fa-mily is very nice, very very nice»,sospira.Siamo seduti sul marciapiede e nell’attesa qual-cuno ripassa le parole in italiano. L’unghia diI*(?)è in mille pezzi, «In Libia» affermano all’u-nisono. Passa la polizia, io ho lasciato il portafo-glio con la mia carta d’identità in ufficio, fortu-natamente ci lasciano in pace. A* mi fa cennodi avvicinarmi, perché parla solo arabo. È chi-nato su un tombino e già temo che gli sia cadu-ta la scheda telefonica. Invece indica una ban-conota da 500 euro, un secondo in cui mi siaprono scenari da film: «È un fac simile Alì!».Nei volti ostili delle persone che passano si leg-ge la paura e tornando non riusciamo a tratte-nere le risate:un bambino di 8 o 10 anni vedeY* e scappa in casa terrorizzato chiamando lamamma.Dopo la telefonata c’è ottimismo nell’aria, inmolti riescono a distrarsi.Ho sentito M. urlare nella cornetta del telefo-

no, ma cercare di non mostrare la disperazione,trattenere le lacrime. Qualcosa deve essere an-dato storto, forse qualche problema di ricezio-ne: non ha sentito chi avrebbe voluto o forse hasentito ciò non avrebbe voluto sapere. Non ciha aspettato per il ritorno, è sparito in fondo al-la strada finché non l’abbiamo più visto. Chissàse raggiungerà mai la madre in Inghilterra. Nes-suno teme che si possa perdere, in ogni caso si èportato via la mia cartina su cui ha segnato unnumero di telefono.

11 settembre. Mattina, solite domande sul tra-sferimento soldi e sulle chiamate. «This place islike a jail». Cerco di spiegar loro che sono for-tunati, che ci sono posti molto peggiori, quindiinizio la lezione di italianoDopo pranzo porto M. O. e S. a Comiso perchiamare. Il primo e il secondo non ce l’han fat-ta ieri, il secondo era all’ospedale. Partiamo: ioal volante, S* a destra con le stampelle, i diciot-tenni dietro. «Frasisco why u don’t take a betterroad?».«It’s the only one».Penso che in Africa lestrade devono essere meglio che in Sicilia.Le telefonate sono una tragedia perché i ragazzisentono le voci delle famiglie, ma non riesconoa farsi sentire. Mentre M urla nella cornetta,passa un signore con il cane al guinzaglio, i voltisono straniti dallo stupore. Andiamo alla ricercadi un’altra cabina, funziona.Nel frattempo incontriamo un ragazzo nero diComiso, lo fermiamo, anche lui di Banjul. De-cido di comprare del gelato per festeggiare,ignoro le norme sanitarie e ci passiamo il cuc-chiaino.Tornando si ride, M. fa addirittura delle battuteai compagni; probabilmente ieri non riusciva afarsi sentire.Rincasati sono felici e mi ringraziano. «Thankyou Fransisco, come faremo domani senza dite?». Iniziano a considerarmi perché sono riu-scito a fare qualcosa di utile. Noto con piacerel’arrivo di uno psicologo che riesce a interagirecon i ragazzi del Bangladesh.

14settembre. Smuovo i fogli di giornale stesi aterra, niente da fare, la fotocamera che ho di-menticato non c’è. Me l’aspettavo, ma ero cu-rioso di stare a vedere, salam alekum.Entro nella scuola, mi avvicino alla lavagnettametallica quando M. mi fa segno di avvicinar-mi, ho già capito quando estrae l’apparecchiodalle tasche dei pantaloncini. Lo ringrazio entu-siasta e durante il corso di italiano ridiamo d’in-tesa. Comprende che sento la frustrazione di es-sere costretti a dovere fare esercizi del genere: «È

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una mela, non è una banana» ma sbaglio perchéil disegno indica proprio una banana. Dopo lalezione raggruppiamo tutti per dare due infor-mazioni: l’imminente raccolta delle carrube e lafesta Tobask.I rifugiati potranno cucinare un piatto a loroscelta e ci devono fornire la lista della spesa. Par-lano tra loro, subito sorgono dei problemi: inuovi del Gambia non sanno se i «vecchi» delcentro saranno d’accordo su ciò che cucineran-no e sottolineano che i Bangladesh people man-giano altre cose. Non è un problema, potrannoessere cucinati fino a quattro piatti diversi. Siformano diversi gruppi: Bangladesh ,Gambia,francofoni. A* a rappresentare l’Egitto e Oria-na, la mediatrice ,deve fare la spola da una parteall’altra della classe per chiedere a T* le frasi tra-dotte.Nella redazione degli ingredienti c’è impegno,un patriottico volere fare bella figura. Y* mi rac-conta con meticolosa dedizione di cosa consisteil benachin che a Ramadan viene alternato conil domoda.Dopo pranzo sono solo in refettorio, T. mi chie-de di sedersi con lui. Conosce bene la storia eu-ropea e parliamo del più e del meno: Romolo eRemo, Berlusconi e Mussolini. Come tutti inquesti giorni racconta di come in Libia si posso-no fare mucchi di soldi, ma mancano sicurezzae libertà. Mi dice che anche i ragazzini giranoarmati e chiunque può travestirsi da poliziotto eportarti via tutto. Discorriamo sull’ipocrisia deigoverni europei, gli stessi che han destituitoGheddaffi.L è il più dolce e gentile del centro .Non si ar-rabbia mai e da una mano a tutti. Sempre sorri-dente è anche probabilmente il più triste. Nonsa ne leggere ne scrivere ma parla correttamenteinglese, madnika, arabo, pulaar, e un po’ di ita-liano e francese. Quando ne vengo a conoscen-za rileggo la sua espressione mentre annuiva ti-midamente nel momento in cui gli avevo portoun foglietto chiedendo la corretta scrittura diuna parola. Ne sono affranto.

Quando Sara gli chiede come sta,«Bad,notgood» risponde. Non vede la madre da un annoe mezzo e vorrebbe dirle che non sta bene. Ve-nerdì sarebbe andato dallo psicologo se non fos-se stato già impegnato con i ragazzi del Bangla-desh. Tra questi c’è Ma* che mi prende semprein giro per il mio cattivo inglese; se ne accorgequando per avere risconti con l’italiano mi chie-de la traduzione di parole di cui ha imparato amemoria la traduzione.Siamo nel centro del cortile e mi mostra casa suaa Dhaka, «My home,my market, my school».Qualche metro più in la Fy* si alza di scatto efinge di scappare da Claudio che è uscito dal-l’ufficio per parlargli. Dopo pochi secondi si sie-dono, non sento perché l’operatore cerca di par-lare a voce bassa, chiaro e lentamente. La caute-la pericolosa delle cattive notizie. Lo vedogirarsi dall’altra parte con gli occhi gonfi. Conla voce roca spiega l’esasperazione di essere sem-pre fuori regola, sull’orlo del pianto.Dopo una mezz’ora in cui tira calci al pallonecredo cerchi di nascondere anche a se stesso latristezza, perché ancora una volta ci salva nelmomento peggiore di depressione collettiva.D’un tratto, quando stiamo per andare nel giar-dino a organizzare qualche gioco, corre in uffi-cio: «Music box» urla alle ragazze dell’organizza-zione. Si va da Shakira al gangam style passandoper i più grandi classici bangla .Fy balla imitan-do le movenze femminili. Inarca flessuoso laschiena come un serpente, le mani giunte in al-to e l’aria comicamente accigliata.Nel campo di pallavolo gioca la nazionale delmondo. Si parla esperanto, ma i piccoli litigi so-no quelli di tutti gli oratori che si rispettano;sulla palla dentro o fuori la riga, il conteggio deipunti…I* si scusa con M. ,la giovane insegnate che par-la solo italiano e inglese, perché non parla tantobene. Lei gli fa fare il conto delle lingue che co-nosce, arriviamo a sei.AI centro il passaggio di una donna è qualcosadi eccezionale, gli ospiti sorridono, si emozio-

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nano, cercano di essere delicati e gentili.Il turno finisce quando i ragazzi vanno verso ilcampo da calcio e io sono seduto con S*, che èstato ingessato oggi.

15 settembre. Oggi tingiamo delle maglietteche ho comprato, con la tecnica batik. S* la co-nosce meglio di me e insegna agli altri come fa-re. Sulla sua bozza scrive «The smiling coast ofWest Africa».Per la prima volta vedo Bu* senza gli occhiali aspecchio, che è solito portate insieme alle cuffiefuturistiche, ricorda tanto Radio raheem.Y* non è risuscito a dormire neanche stanotte esi lamenta dei dottori.Quando il sole asciuga le t-shirt S* inizia a sle-gare i cordini necessari per la tintura; ha un telodavanti con decine di magliette variopinte: «It’sSunday market, ah ha ha, 20 euros» grida.Nel frattempo T* e Y*, i due vecchi, si sfidano adama. Il primo si distingue anche sta volta: perlui maglia rigorosamente monocromo blu.M* e O* non ci sono, arrivano solo a metà po-

meriggio con un cellulare nuovo fiammante. Misorgono parecchi interrogativi sulla fatica fattanei giorni scorsi per le chiamate. Il pomeriggioè rovente, io e i gambian guys ci sediamo all’om-bra ad ascoltare della musica che ora si può sca-ricare dallo smartphone. Un ragazzo che parla francese di cui non cono-sco il nome mi passa davanti,dal cellulare fuo-riesce «Wish you were here».

16 settembre. Non c’è modo di fare imparareai ragazzi il verbo essere, ogni volta che cerco difar loro completare l’esercizio coniugano esatta-mente il verbo avere.«Today we are going to be tourists»: la lezione èfinita e la maestra Oriana fa sapere che oggi se-guiremo Antonio, il vecchio giardiniere e custo-de della struttura, che terrà una lezione di bota-nica. Di solito lo chiamano papà ma oggi è«maestro Antonio».La lezione è davvero interessante .Ci si fermasotto l’albero di carrube che D*, A* e Z* stannoraccogliendo, da vendere a 30 cent al kg.

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Nel campo di pallavolo gioca la nazionale del mondo. Si parla esperanto, ma i piccoli litigi sono quelli

di tutti gli oratori che si rispettano; sulla palla dentro o fuori la riga, il conteggio dei punti…

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È un simbolo di paternità e A. parla della diffi-cile vita dei contadini, che sotto a quest’alberoprendevano il fresco e dopo mangiato potevanopensare al passato, ai parenti morti. Molti comeY. sono attentissimi e si ritrovano nei raccontidella seconda guerra mondiale, quando questifrutti venivano macinati per fare la farina.Per ogni pianta è illustrato il significato tradi-zionale e il simbolo pagano per greci e romani:le necropoli poste vicino ai porri e l’usanza diversare del latte alle mandragole per via dellaforma umana delle radici.Il vecchio siciliano dal perenne sigaro in bocca èsempre a contatto con i ragazzi del centro chepassano la giornata giocando a fargli i dispetti,lui sta al gioco. È anche il custode della cucina,colui che controlla che nessuno a pranzo facciail furbo: «No firmato, no mangiato Antonio».Di solito si mangia pasta rossa o riso con le ver-dure bollite e ci si accoda per prendere la pro-pria porzione. L’unico modo per descrivere dosie voracità è evocare quei famosi fotogrammi diTotò o Sordi di fronte agli spaghetti, e la ricottadi Pasolini. A l’una e mezza T* chiama per lapreghiera, oggi U. gli ha dato Sciascia da legge-re e lui lo ha ringraziato riconoscente.Nel pomeriggio Y*, I* e Se* siedono di frontealla tv italiana, mi sembra un poliziesco dellaRai e credo tifino per una ragazza nera. Y* cometutti i vecchi commenta le vicende. Ab* e altri tre o quattro giovani costruiscono,con una sedia rotta e delle canne di bambù, unacesta stretta e alta per infilarci i vestiti da lavare.Quando arriva Antonio B* inizia a scappare e ilprimo a rincorrerlo, come sempre, ma stavoltail secondo propone di inserire l’altissimo giova-ne nell’oggetto che ricorda tanto un sarcofago.Il vecchio mima una sorta di rito animista bat-tendosi il petto di fronte alla cesta e urlandoacuto «Bubakar!! Bubakar!!». In più ci dice di fa-re un buchino in cui inserire l’acqua da far bereal tumulato. Come le mandragole.S* e gli altri nuovi han compilato il C3, ora so-no ufficialmente dei richiedenti asilo.

17 settembre. «In this great future you can forgetyour past». È il graffito che S* ha fatto quandoera in prigione in Libia, quando la polizia gli hatagliato i rasta che amava. Oggi è una giornataall’insegna del reggae, sappiamo che la tempera-turà toccherà i 36° e ci mettiamo sotto al gran-de albero del cortile a fare dei braccialetti. Vor-rei mettere della musica ma non c’è connessio-ne, Sara ha solo Bob Marley sul portatile. Vabene così, fa commuovere tutti. È un pomerig-gio rilassato, divertente. Facciamo ironia sui

braccialetti, una cosa da «neri» che stiamo fa-cendo noi bianchi per loro. Al polso L* ne hagià uno fatto dai volontari prima di me, scherzosul fatto che a fine anno ne avrà il braccio pie-no, che si potrà capire con un occhiata da quan-to tempo si è nel «campo».In mattinata M* ha voluto farsi una foto conme da mettere su facebook, entrambi abbiamo lemaglie dipinte ieri. Quindi ho cercato di spie-gare la riforma del senato a Y*, intento a cercaredi capire cosa succedesse in tv. L* è curioso disapere come funziona il mondo delle sale di re-gistrazione in Italia e voglio spiegargli in cosaconsiste il furto legalizzato della Siae.S* mi consiglia una marea di gruppi che poi riu-sciamo a fatica a trovare in youtube, d’altrondesuo fratello era un dj.Nel tardo pomeriggio sono con U* per fare laspesa, andare in farmacia e per portare una lava-trice nelle viscere di Ragusa dove un ragazzo hatrovato casa e un tirocinio. Per cui arrivo a Ca-nicarao la sera, dove ci aspettano i volontari de-gli altri centri venuti per vedere la partita di cal-cio. La serata termina con T* che da vero genti-luomo ci accompagna alla porta ringraziandocicon il suo francese perfetto.18 settembre.«O* has gone».In cuor mio sapevogià da un pezzo che uno di questi giorni ciavrebbe lasciato. Era il più irrequieto e restio allavita del centro. Non ha uno straccio di docu-mento né foto segnalazioni in nessuno stato eu-ropeo, ha fatto il calcolo dei pro e dei contro edha fatto la sua scelta. Sicuramente ha qualche co-noscenza e riesco a venire a sapere che sta cercan-do il fratello giovane, che vuole arrivare in Sve-zia. Il piano è di raggiungere Milano e da lì pas-sare per l’Austria in bus, non penso sappia delledifficoltà che in quel paese potrà incontrare. Eraun po’ di giorni che si faceva vedere a Canicarao.S* e Se* bisticciano amichevolmente perché ilpiù giovane è il più disorganizzato e fa lo scroc-cone dall’inizio del viaggio, ma il primo lo trat-ta in modo fraterno e lo deride perché ieri è sta-to due ore sotto alla doccia. In serata scopro cheil litigio si intensifica e diventa una cosa seria, idue non vogliono più condividere la stanza.Ancora verbo essere: «noi siamo» devono com-pletare, Fy* continua «Bangladesh, Africa, Ita-lia» e con ampi movimenti delle braccia includeil mondo. S* a scuola è il più veloce, infatti ha il volto sof-ferente dalla noia. È anche il più bello e attrae asé i sorrisi dell’insegnate. Mi chiede se oggi nonc’è Anna e confeziona un braccialetto da farlerecapitare.Nel pomeriggio io e Sara giochiamo a carte con

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M*, gli facciamo domande sui suoi amici inGambia, sulla vita nei club e io lo prendo in gi-ro sulle ragazze. Della sua compagnia di ragazzidue non sono ancora usciti dal paese natale,uno è ancora fermo a Tripoli e lui è l’unico cheè riuscito ad attraversare il mare. In poco tem-po si mette a raccontarci il suo viaggio. È parti-to alle 11.00 di sera per arrivare alle 17.00 delgiorno dopo in acque internazionali, lì un im-barcazione pilotata da tre tedeschi li ha trovatie ha chiamato una nave irlandese che li ha cari-cati a bordo.Il viaggio è costato 600 euro e sono partiti contre barche, sulla sua erano stipati in 105, in pre-valenza donne. Nessuno parlava inglese e l’uni-ca persona con cui ha potuto interagire era unaragazza che sapeva un po’ di spagnolo. Raccontache tutte urlavano e piangevano, io pregavo cidice. Sara gli fa notare amichevolmente che nonlo vediamo spesso in moschea e lui risponde cheprega «by myself». Mi ricorda quando S* all’usci-ta dal centro mi ha guardato negli occhi escla-mando «There’s only one God». Lui infatti ha ilpadre cattolico e alle domande sul fondamenta-lismo risponde che se tocco lui tocco anche uncristiano. Il ragazzo parla con un filo di voce esiamo costretti a fargli ripete ciò che dice. Cosìchiediamo se abbiamo inteso bene, che spessoper non pagare alcuni migranti si spacciano percapitani e di saper pilotare «This is the pro-blem» ci risponde ancora teso.Mu* oggi non sta bene, non ha mangiato e nonha dormito, A* viene portato all’ospedale per unproblema all’occhio e Al* parla dei quattro ra-gazzi pagati 20 euro all’ora per 9 ore di lavoro.

21 settembre. La giornata inizia con S* che de-ride A* perché parla solo arabo, qui puoi parla-re solo italiano o francese, no arab. Fa il verso ailibici, un divertente contrappasso alle tante si-tuazioni a cui ha assistito nell’anno trascorsoprima della partenza. Ad esempio quando haconosciuto Se* i due si sono trovati a dover pu-lire per intero la connection house di Gergaresh.Sono strutture riempite ben oltre la misura, ilragazzo mi indica una stanza da tre persone e midice che ce ne stavano anche venti, venticinque.Se* non parla quasi l’arabo e all’epoca vennepicchiato ripetutamente. Lì la polizia conosceogni movimento dentro e fuori dal mare poichéha gli organizzatori sul proprio libro paga.Quella volta tuttavia il loro referente aveva ri-tardato il pagamento. Inoltre mi racconta deisuoi spostamenti nei diversi campi e la necessitàdi muoversi da soli o massimo in due dentro atutto lo stato per non rischiare di essere fermati.

O* è arrivato a Zurigo, nel pomeriggio riesco asentirlo al telefono. «Where are you, little ba-stard?» e vorrei fargli i miei migliori auguri manon so da che parte iniziare.Oggi a scuola noto la cartelletta verde di B*,quella in cui si riuniscono documenti e schededi italiano. Nel riquadro centrale c’è scritto inbella grafia « Babacar Kruus Ndione. Io vogliobene alla mia mamma».

22 settembre. Basta un mazzo di carte per por-tare l’allegria nel centro, si gioca prevalentemen-te a crazy eight, sto pian piano imparando le re-gole e vengo schernito amichevolmente.Stamattina pulizie, A* è quello che si da di piùda fare nonostante i problemi con la lingua.Cerchiamo di insegnarci parole a vicenda inarabo e in italiano. Fa parecchia fatica e mi fa ilgesto della testa che gira «frances, italiano, ara-bic..». A trent’anni passati bisogna ricominciaretutto dall’inizio.Per la prima volta si riesce a parlare con Bu*, stasempre in silenzio perché dice che lo aiuta a ri-flettere sul suo destino. Orfano di madre dal2004, nel 2014 gli è stato ucciso il padre, quin-di ha deciso di partire. Sette mesi in Algeria equattro in Libia, poi il mare.In molti mi chiedono una mano per creare ilproflio facebook. La cosa mi fa parecchio riflet-tere sulla diffidenza reciproca, la poca solida-rietà e la paura di chiedere, di sembrare deboli.Quasi tutti coloro che hanno da un po’ un te-lefono cellulare sono degli esperti, perché chie-dono a me che non ho mai avuto uno smartpho-ne e non parlo la loro lingua? Il momento discegliere la foto è emblematico, vengono sceltesempre inquadrature frontali ed espressioni daduro. In altre foto invece si ritraggono felici conl’autoscatto, a parte per qualche oggetto sullosfondo, sarebbe difficile distinguerle da quelledi un qualsiasi altro ragazzo occidentale. E maisicuramente penseresti siano state scattare in uncentro di seconda accoglienza.Nel pomeriggio Bisogna riorganizzare la distri-buzione delle stanze in vista dell’arrivo dei nuovi600 sbarcati a Pozzallo ieri. Sorgono parecchiproblemi tra i ragazzi del Bangladesh perchéquelli di Nohakhli, in minoranza non voglionostare con quelli proveniente da Rangpujr. È unaprova di forza tra i più vecchi e mi ricorda tantoi conflitti tra settentrionali e meridionali che minarrarono degli ex minatori a Marcinelle. Non sipuò fare altrimenti e gli si ordina di sgomberare.

23 settembre. La voce accattivante scandisce«Mediaworld, voglio il mondo» e nello spot gli

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elettrodomestici coprono la circonferenza delglobo. Siamo seduti sul divano a guardare la te-levisione e sullo schermo è la fiera luccicantedell’Ovest. Gli occhi dei ragazzi brillano per laformula uno, le moto, transformers. Tra le notizie dello sport c’è una bionda TaniaCagnotto da oggi testimonial della birra e i ra-gazzi pendono dalle sue labbra. Ne sono amma-liati per la bellezza fatale e aggressiva, come an-che di tutte le altre donne da concessionaria.Dietro alla tv, sul muro è disegnata una barca dinome Hope.Nel pomeriggio siamo costretti a proiettare «Fa-st and Furious 7» richiesto a maggioranza. I nuo-vi devono lasciare la proiezione per ricevere leinformazioni sulle modalità di accoglienza in vi-sta della convocazione in questura domani. Ametà del film con i pochi rimasti, annoiati dallescene grottesche, ci ritroviamo a fare altro. Mancando un traduttore, A* non riesce a se-guire l’incontro, che lascia tutti abbattuti. S* midice che dovrà inventarsi una bella storia da rac-contare in commissione.Mi taglio la barba con Ab*, B* e L* che per l’oc-casione fa il barbiere e a B* fa per gioco la crestacome Balotelli.Per capire l’assenza delle ragazze è significativoil caso di Ib*, a cui ho fatto il profilo facebookieri. In serata commenta la foto di una raver chenon conosco e che si era fatta una foto davantiad un mio graffito. Per capire la solitudine dei ragazzi mi basta apri-re il computer appena tornato a casa. Mi chie-dono come sto e cercano qualcuno con cui par-lare, anche per migliorare l’italiano. senza maiessere oppressivi o maleducati.

24 settembre. Al mio arrivo Canicarao è deser-to, sono tutti in moschea con T* che guida lapreghiera. Il cielo è nuovoloso ma il sole spuntaad intermittenza , è un clima domenicale e nel-l’aria c’è l’atmosfera della festa. Mi salutano ab-bracciandomi vestiti con l’abito buono, oggi oc-corre essere eleganti. Purtroppo non si potrà cu-

cinare né tantomeno ammazzare l’agnello, per dipiù c’è anche il controllo dell’Asl in mattinata.Dopo pranzo siamo in cortile a rilassarci, abbia-mo comprato della cola del discount. Bu*- Ra-dio Raheem fa il dj e sceglie le canzoni seduto,solo, accanto all’amplificatore. Suona Chepul-tin e gli mando un cenno di apprezzamento. Lacelebrazione del Tabaski mi fa sentire in modoprofondo la sensazione paradossale e alienanteche provoca la vita nel centro. Un pomeriggioassolato, nel solito cortile di sempre con la gen-te di sempre, ma che per questa volta sorride.Persone proveniente da tutte le parti del tuocontinente e della tua religione a festeggiare conla tua musica. Senza sapere cosa c’è fuori, cosariserverà l’Europa. Una malinconia assoluta.S* mi chiede se ho finito di scrivere al computeri movimenti in Gambia, dopo un po’ afferro cheha capito cosa stavo facendo ieri durante il film.È un momento gioioso e già alle 16.00 si ballacon Bu* e Ab*, ci alleniamo per la serata. Finitala preghiera pomeridiana ci avviamo verso ilcampo da calcio e L* mi mette la mano sullaspalla e una cuffia nell’orecchio, mi chiede seconosco i Libyan crew ; quindi me li fa ascolta-re. Camminiamo legatì così, nelle ultime ore di

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sole sulla strada sterrata, verso il campo, comedue amichetti del rione.La partita di calcio oggi vede schierati ammo-gliati contro celibi. È una partita sofferta quindiresto a fare il tifo coi secondi. Nella squadracontro di noi ci sono ragazzi più giovani di meche ne ho venti, ci metto un po’ ad abituarmi aquesta normalità. Poi una scena da film: dall’o-rizzonte arriva in corsa il solito ritardatario, en-tra nel prato e in coro gli si chiede: «Marié ou ce-live?». «Deux femmes» risponde trafelato e corre

nell’altra metà campo. Poi c’è chi come S* hadue figli pur non essendo sposato, ma questa èun’altra storia e sarà un’altra partita.Vuole giocare anche A* che è il più maldestro eimpacciato di tutti, ma sempre sorridente e ca-parbio, profondamente deciso a provare tuttosenza mollare mai. Era arrivato a Canicarao ungiorno dopo rispetto agli altri portati dalla squa-dra mobile perché si era perso per le vie di Co-miso. La notte tra il 6 e il 7 la passò sotto lapioggia. Ricordo ancora quando l’ho visto perla prima volta arrivare nella scuola solo e fradi-cio, con l’aria sparuta. Lungo e rigido, quandotira sembra un soldatino di legno ma il più dellevolte non centra neanche il pallone.Gli ultimi minuti di gioco sono furenti. Il codi-ce impone che la partita termini tassativamenteal calare del sole. Per cui bisogna tentare dispera-tamente il pareggio o difendere il vantaggio pri-ma che la luce cali. Fy* indica il tramonto all’ar-bitro e rilancia la palla dalla porta, con tutta laforza che ha nei brevi arti grondante di sudore.Finisce 6 a 4 per gli ammogliati, T* non ce la fapiù dalla felicità «Ah ah, domani devi cercareuna donna se vuoi vincere» e ancora «mariémeilleure».La cena è tesa. Gli ospiti del Bangladesh, cheusualmente si accaparrano razioni esagerate perpoi buttarne la metà incolpano gli africani dimangiare sempre più di loro. Tutto inizia peral-tro perché un loro connazionale ottiene un piat-to di agnello in più e sfortunatamente c’è un ne-ro a distribuirlo. La celebrazione della festa del-la condivisione si trasforma per qualche instantein odio razziale. T* cerca a fatica di reggere la si-tuazione per poi passare tra la gente a dividerein parti uguali gli avanzi. Quello che succede atavola per il cibo si può trascendere in politicanella scorretta redistribuzione di pacchetti di di-ritti. Bisogna stare attentissimi se si vuole dero-gare al principio di uguaglianza.Mentre prepariamo una sigaretta S* chiama Sa-ra affinché ci faccia delle foto, ride che ora si rie-sce, a differenza di oggi pomeriggio quando il

Si mette a raccontarci il suo viaggio. È partito alle 11 di sera per arrivare alle 17 del giorno dopo in acque internazionali,

lì un imbarcazione pilotata da tre tedeschi li ha trovati e ha chiamato una nave irlandese che li ha caricati a bordo.

Il viaggio è costato 600 euro e sono partiti con tre barche, sulla sua erano stipati in 105, in prevalenza donne.

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tentativo è fallito perché il volto si confondevacon la mia maglia nera.Lui si guarda nella foto: ha la barba sfatta e lacamicia aperta perché durante la cena i dottoriche passano al centro gli han fatto un’iniezione. Tanto un disastro negli sport quanto ecceziona-le nella danza A* è un arabo e come tutti gli ara-bi balla da arabo. Con le braccia aperte a metàbusto dimena il ventre, ha l’aria languida e gliocchi socchiusi. Batte il tempo con le infraditomentre va cercando una risposta da Bu* che fail partner maschile. La consuetudinaria goffag-gine ne catalizza la comicità e ben presto la salada pranzo si trasforma in pista da ballo. Arriva-no proprio tutti, anche S* che muove su e giù ilgesso mentre cerca di puntellarsi sulle stampel-le; perché bisogna cercare di essere felici ora, an-che con un nodo in gola, anche con la paura diaffogare nel pensiero del dopo.

25 settembre. Portiamo Y* al pronto soccorso,lo abbiamo trovato piegato sulla sedia fuori dal-l’ufficio per delle fitte al ventre. Sul camioncinosi scopre e mi mostra l’addome: «Look at mybody, it’s going down». Finisce in chirurgia e tra-duco mentre il dottore gli tasta gli addominalinerboruti. Viene diagnosticata una colicisti acu-ta ma a Comiso non c’è modo di ricoverarlo,devono portarlo a Vittoria. Prima del nostroturno è uscita dalla stanza una vecchia scheletri-ca, stesa su una barella, i due si sono guardati alungo negli occhi. Mentre attendiamo che B*gli porti i vestiti, Y* è seduto su una sedia a ro-telle e si guarda il sangue residuo nella flebo. Miprega di controllare che ci siano i 70 euro cheha nella tasca destra dei pantaloni e di portarglila banana che ha tra le sue cose. Ieri sera l’ho sa-lutato che era buio, avevamo parlato di cibo,della qualità della carne fresca. Un infermiere si-ciliano accogliente, come molti in questa terra,chiede a Y* come sta. «Thine,thanks you». Mari-lena che è con me sorride amaramente delle ri-sposte di circostanza, anche quando non è vero.Ma forse è una atarassica consapevolezza che si

potrebbe stare anche peggio. Lo sportello del-l’ambulanza si chiude mentre con voce flebilechiede a Biagio se gli ha portato la sua banana.Tornando ci accorgiamo che non ha con sé i nu-meri di telefono, bisognerà passare a portarglieliin serata.Mi dicono che T* è del ’91 e non posso creder-ci. Mando Sara a chiedergli quanti ani ha.Perché tornato al centro stiamo infatti chiac-chierando con lui sulla tristezza del doversi sa-lutare, ma ben presto il discorso si eleva e comesempre siamo intorno al saggio a imparare. Par-la in francese e comprendo solo qualche frase. Prima di partire S* e M* mi chiedono di portar-li a compare le sigarette, dimentico ancora unavolta i documenti e uscendo dal tabaccaio il piùgiovane confonde l’auto e si infila in una Unobianca lasciata aperta. Lo fermiamo subito tra lerisate e evitiamo il linciaggio dal vecchio padro-ne e dei suoi amici. Sulla strada del ritorno in-contriamo Z* che sta tornando dal lavoro, l’u-nico che non mi ha quasi mai rivolto parola. Locarichiamo in auto e all’arrivo è sinceramentericonoscente.Abbiamo comprato del gelato per la nostra par-tenza e ora siamo Bu*,Ab*,L* e Mu* intorno aSara che legge un discorso di ringraziamento.Applaude anche S* che con l’aspetto dimesso ri-corda tanto uno zio con la nipotina prediletta.È il momento dell’ultima sigaretta sotto al gran-de albero nel centro del cortile, sono le 18.00 eil cielo è cinereo. Per burlarsi di me S* mi chie-de se posso lasciargli l’accendino, io gli chiedose vuole anche i miei boxer. «Yes thanks, and theglasses too». Alla fine glielo lascio «Yeah you’refayah man, like capleton».Il momento dell’addio non può essere racconta-to a parole, ma mi piace ricordare due giovanidel bangladesh commuoversi. Fy* e Han* chenon sa l’inglese e che ci ha sempre e solo parlatocon gli occhi.

Il testo integrale del diario è disponibile sulnostro sito www.cvxlms.it

PROGETTO MIGRANTI

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CRISTIANI NEL MONDO · SETTEMBRE-DICEMBRE 2015 · 25

SCENARI

Sto riflettendo da qualche tempo, stimolatodalle vicende del Medio-Oriente, dalla mi-naccia dell’Isis, su quel dibattito che ha

avuto luogo alcuni anni fa circa il relativismoche minerebbe le fondamenta della cultura oc-cidentale e, addirittura, la possibilità che questacultura continui ad esistere. La lettura del sag-gio, noto, Senza radici, scritto in forma colletta-nea da due autori importanti come MarcelloPera e Joseph Ratzinger è molto istruttiva.Il professor Pera propone nel suo interventoun’analisi del relativismo o meglio di quell’at-teggiamento che è comunemente inteso comerelativismo. Il suo punto di vista è che nella co-mune comprensione l’atteggiamento secondocui la constatazione dell’esistenza di una plura-lità di valori spesso non compossibili tra loro ela conseguente rinuncia a porre a confronto traloro sistemi valoriali contenenti, appunto, valo-ri non compossibili è l’essenza del relativismo.Pera, nel seguito delle sue riflessioni, esamina,invece, la possibilità di porre questo confrontoe sembra affermare questa stessa possibilità. Egli propone osservazioni alcune delle quali misembra di poter condividere mentre su altre misentirei meno d’accordo.Io vorrei, in realtà, soffermarmi proprio sulpunto di partenza: è giusto chiamare relativi-smo l’atteggiamento di cui sopra?Che cosa significa in realtà questo termine? Ilconcetto di relativismo che cosa comprende?Un interessante e preciso quadro per osservarepiù da vicino questo concetto ci viene offerto dauna voce, appunto Relativism, presente sullaStanford Encyclopedia of Philosophy dal 2003 ecurata da Chris Swoyer. Occorre precisare chementre scrivo queste osservazioni mi accorgoche la stessa Sep pubblica, a cura di Maria Ba-ghramian ed Adam Carter , una new entry dedi-cata al tema che non ho ancora letto. Il testo inquadra il concetto molto chiaramente,nella più pura tradizione analitica, secondo ledomande che ne costituiscono i punti cardine,vale a dire «che cosa è relativo?», «questo qual-

cosa a che cosa è relativo?», «che cosa significaessere relativo?». Senza inoltrarmi nel riferiretutto il contenuto dell’articolo, piuttosto lungoe di lettura non sempre facilissima, mi sento diaccontentarmi, per chiarire a me stesso il signi-ficato di relativismo, delle suggestioni più signi-ficative che questo ci offre.La prima domanda, «che cosa è relativo?», hauna risposta abbastanza scombussolante. Nonsolo è relativo l’apprezzamento dei valori etici,vale a dire l’attribuzione del predicato valore, equindi la qualifica di bene etico, ad una realtàpiuttosto che ad un’altra. Ma, addirittura, sonorelative le cosiddette «credenze centrali» (centralbeliefs). Nel testo ci viene offerto l’esempio se-condo cui nella nostra tradizione occidentalesiamo abituati a vedere la realtà fuori di noi, co-stituita di enti dotati dell’attributo di stabilità,cioè oggetti, mentre altre culture sono inclini avedere la realtà esterna costituita di enti non do-tati di stabilità, cioè eventi. Ovviamente l’auto-re è avvertito, penso, della presenza, nella nostratradizione di pensiero, della cosiddetta «filosofiadi processo», originata dalle osservazioni di Al-fred North Whitehead, ma fa riferimento almodo di vedere comune.La seconda domanda, «questo qualcosa a checosa è relativo?», riceve una risposta più preve-dibile: è relativo a quegli elementi che, fin dal-l’infanzia, plasmano l’interiorità, vale a dire l’e-poca storica, il linguaggio, in modo più genera-le la cultura.Le modalità secondo cui questo «essere relativo»si manifesta possono essere, secondo la specula-zione corrente degli studiosi del tema, almenodue: vale a dire una modalità detta «descrittiva»più attenta al dato che non alla radici del datostesso, ed una detta «normativa» più concentra-ta sulle implicazioni del fenomeno in termini diattingimento del reale.Ora si può usare questo appellativo nei confron-ti di chi, di fronte alla pluralità di sistemi valo-riali, nutre seri dubbi sulla possibilità di stabili-re una gerarchia tra di essi?

Quale Occidentenell’era del relativismo?DI FRANCESCO RICCARDI

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Una posizione di questo tipo non coincide conquella di qualcuno che sposa uno oppure l’altrodi questi sistemi valoriali, accettando così il fattoineluttabile della costrizione a rinunciare ad alcu-ni valori proprio perché non «relativi» alla pro-pria interiorità plasmata. Tutt’altro direi. Una po-sizione di questo tipo ha per cifra essenziale la co-stitutiva impossibilità di rinunciare ad un sistemavaloriale, l’opposto esatto del relativismo.Per questo io ho sempre pensato, forse a torto,che la mia inclinazione alla mondialità, il mioconsiderare le culture assolutamente equivalentinasca proprio dal fatto che non sono un relati-vista.Se osservo le varie culture a cui ho accesso trovoin ciascuna di esse la sensibilità verso dei parti-colari valori, ognuna sembra essere attenta versoun bene specifico e quindi sensibile nei con-fronti del valore che caratterizza quel bene.Questi beni poi mi appaiono tutti irrinunciabi-li, tutti impegnativi per la vita. Proprio perchénon sono un relativista, mi trovo nell’impossi-bilità di porre questi beni in «relazione» tra lo-ro, di istituire tra loro qualcosa come una scaladi priorità. Un relativista, secondo me, è una persona che,appunto, pone in relazione, «riferisce» i valorigli uni agli altri sia per affermare che gli impor-ta poco di tutti, che tutti sono rinunciabili, siaper affermare che alcuni lo sono ed altri no. Al contrario io mi sento di considerare ogni va-lore come un sole assoluto, non rinunciabile enon riferibile a nessun altro.Un interessante esempio di questa presenza divalori assoluti in ogni cultura può essere fornitodalla riflessione di Padre Thomas Michel S.I.proprio a proposito dell’Islam. Michel analizza i cosiddetti «quattro pilastridell’Islam» e ne individua ed esplicita le valenzeassiologiche. Può essere interessante prendere in considera-zione queste pratiche religiose avendo chiaro ilbene che esse intendono porre il rilievo.Ora è legittimo chiedersi quale sia la ragione di

questa incomparabilità dei beni tra loro. Perchéciò che caratterizza un bene morale, cioè il valo-re morale, ne fa un qualcosa che non è suscetti-bile di alcun negoziato?Forse una pista di riflessione su questo puntopuò partire dall’osservazione secondo cui l’in-tuizione del valore di qualcosa, il riconoscimen-to di qualcosa come un bene è anzitutto una au-tomanifestazione. Un essere umano nel ricono-scere qualcosa come un bene, nell’intuire ilvalore di qualcosa svela se stesso.La maggior parte delle volte nel riflettere sul fe-nomeno dell’intuizione del valore di qualcosa cisoffermiamo sul significato di questo fenomenocon riferimento al bene riconosciuto, molto dif-ficilmente poniamo attenzione al significato delfenomeno in riferimento a colui che riconosceil bene in questione. Penso che osservare la cosa anche da questopunto di vista sia molto importante.Quante volte la necessità o magari il bisognoestremo di comunicare si nascondono dietro af-fermazioni granitiche in materia di etica.Qualcosa di simile penso avvenga anche con igruppi umani e con le loro culture.Queste potrebbero, probabilmente, essere vistein qualche modo come delle manifestazioni ditratti particolari dell’animo umano. Ecco per-ché non penso proprio che sia possibile consi-derare una di queste superiore ad un’altra.Anzi il multiculturalismo, che a mio parere è unqualcosa che fa parte integrante della storia del-l’essere umano, può essere accompagnato inmodo giusto, senza traumi, esattamente seguen-do questa strada vale a dire la strada della curio-sità nei confronti del modo molto vario con cuil’animo umano si manifesta. Apprezzare solo una cultura e non un’altra po-trebbe essere paradossale. Si può apprezzare so-lo gli occhi e non le mani di un essere umano?La libertà dell’Occidente e la solidarietà tribaledei Nuer, di cui ci parla Evans-Pritchard, sonoprobabilmente espressioni dell’affascinante ani-mo umano. Ci si potrebbe chiedere quale sia il

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Apprezzare solo una cultura e non un’altra potrebbe essere paradossale. Si può apprezzare solo gli occhi e non le mani di un essere umano?

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senso provvidenziale di tutto questo. Perché maiabbiamo davanti un panorama mondiale chemostra sensibilità così diverse. Credo che siauna domanda molto interessante.Ricordo quanto scrive Sergio Bastianel a propo-sito dell’esperienza morale. Secondo lui la fontedell’esperienza morale è il mutuo interpellarsidelle coscienze, il fatto che gli umani divengonodei guardanti-guardati. Sembrerebbe essereun’esperienza di chiarezza e di mistero al tempostesso.Ora, se questa osservazione di Sergio Bastianel èfondata, questa varietà quasi sconcertante di si-stemi di valori, cioè di automanifestazioni del-l’umano, è imprescindibile nel mondo odierno.Questa varietà costituisce una continua pedago-gia morale, un continuo far capolino dellosconcerto e del mistero che, interpellandoci,rendono possibile e, soprattutto, inderogabilel’esperienza morale. Di per sé , infatti, si potrebbe anche chiedersi,ancorché la domanda appaia oziosa, quale sia lanecessità dell’esperienza morale. Le risposte ditipo funzionalistico come quelle dell’empirismoclassico mi sembrano profondamente inficiateda una petitio principii. Quando David Hume,rifacendosi a Plauto, ci parla della necessità dievitare la condizione di homo homini lupus, co-me fondamento teoretico dell’esperienza eticaindividuale e della regolamentazione sociale, stain realtà cadendo nel circolo vizioso di una pro-posizione sub judice che corrobora se stessa. Sitratta della fallacia insidiosa che nella tradizione

analitica angloamericana contemporanea èchiamata begging question.Probabilmente, invece, la necessità, l’imprescin-dibilità dell’esperienza morale si fonda piutto-sto sul dato storico-antropologico di questa va-rietà di auto manifestazioni dell’umano.Se queste riflessioni hanno un qualche fonda-mento appare tutta la delicatezza del sostenereuna qualche forma di preferenza verso una cul-tura piuttosto che verso un’altra. Come faccio aritenere subalterna rispetto alla mia una realtà,intendo una diversa realtà culturale, in virtùdell’incontro con la quale ho accesso all’espe-rienza morale che mi costituisce come essereumano?Penso che sia molto lecito chiedersi quale sia loscopo di osservazioni come quelle che ho pro-posto. Nessuna di queste osservazioni contieneo indica possibili piste operative per avviare asoluzione i problemi che la differenza tra le cul-ture ci fa precipitare addosso. Si tratta di veri edrammatici problemi collegati con una vera eprofonda differenza. Il fatto è che la sfera della riflessione spirituale,non necessariamente spiritualità religiosa anchese questo è il mio caso, non può arrogarsi il di-ritto di studiare problemi che sono di compe-tenza altrui. Alcune volte è stato fatto, ma si ètrattato di abusi. Lo studio dei problemi con-nessi con la mediazione è di competenza deglipsicologi, dei giuristi, dei filosofi eticisti.La sfera della riflessione spirituale ha piuttostoil fine di contribuire a creare un’interiorità deli-cata e dubbiosa, ma anche speranzosa che puòcostituire il suolo fertile sul quale nascono ideee spunti di vita, anche idee molto operative.Se una persona assomiglia ad un blocco di gra-nito piuttosto che ad un vento leggero difficil-mente potrà adattarsi alla forma che i problemie la vita impongono.Lascio senz’altro ai tecnici della mediazione lostudio dei metodi migliori per istituire il con-fronto in modo costruttivo, mi limito a cercaredi contribuire a preparare il terreno.

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Senza radici (Europa, relativismo, cristianesimo, islam)è il saggio scritto nel 2004 dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede,Joseph Ratzinger, assieme al filosofo e Presidente del Senato Marcello Pera

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uando tutto è iniziato era il 2011 eavevo vent’anni. Uno parte un po’ percaso, per buttarsi, perché ispirato, per-ché vuole salvare il mondo; e poi si ar-

riva in Perù e ci si mischia con altre 20 personepartite dallo stesso punto da cui sei partito tu,ma con motivazioni e storie diverse. E si vive in-sieme la stranezza e la bellezza di quello che èquel posto. Ci si lascia rapire e conquistare dal-l’amore del Caef: si lavora, si gioca, ci si inna-mora, si mette in discussione se stessi fino alpunto di non sentirsi più quelli di prima. Lamaggior parte delle persone vive questa espe-

rienza come un momento della loro vita che ini-zia nel momento in cui il primo aereo decolla efinisce nel momento in cui l’ultimo atterra. Ov-viamente io non sono nessuno per giudicare leesperienze altrui; parlerò, infatti, dell’altro tipodi persone, quelle che una volta che toccanocon mano quel mondo rimangono fulminatidall’amore che si respira e decidono di dedicareparte della loro vita a tornare in quel posto e arivivere tutto, ogni volta in maniera diversa,partenza e ritorno. Il motivo per cui voglio par-lare di questo è perché forse, dopo cinque cam-pi in cinque anni sia necessario comprenderepienamente le vere motivazioni che mi portanoogni volta a tornare in Perù.

Desiderare quello che si haIl motivo centrale intorno a cui gira tutto il re-sto, è l’entrare in contatto con i veri desideri chesi hanno nel cuore. Quando viviamo nella no-stra quotidianità, spesso non siamo pienamentesoddisfatti di quello che facciamo. È un proble-ma molto comune per la mia generazione: tro-vare quello che si desidera nel profondo, all’in-terno di un mondo che ti mette davanti muri epaletti e il più delle volte ti costringe ad esserequello che non sei, a fare quello per cui non seistato creato e a vivere in maniera meno piena diquello che potresti. Il Perù ti mette di fronte aduna nuova quotidianità, fatta fondamentalmen-te di servizio e amore all’interno di uno stile divita che tende all’essenziale. È come se lenta-mente tutte le barriere imposte dalla società edal nostro ego cadessero, finché non ci si rendeconto di star vivendo, per la prima volta nellapropria esistenza, quello che il nostro cuorerealmente desidera. In questo modo si crea unvero e proprio contatto con il nostro vero ioscoprendo che molte cose che abbiamo dentro edesideriamo fortemente non eravamo mai statiin grado di conoscerle. Il passo successivo è riu-scire a mantenere il contatto con questi desiderianche una volta che la bolla del campo finisce ecercare di andare avanti nella nostra vita reale

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Perché il Perù?

DI JACOPO ZOCCHI

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con la consapevolezza di quello che l’esperienzain Perù ci ha permesso di conoscere. Personal-mente ogni volta che torno in Perù, mi sentoinebriato da questa sensazione e più passano glianni e più riesco a ritrovarla concretamente nel-la mia vita ordinaria.

La gratuitàIl servizio è gratuito. Partecipare a un campo,vuol dire mettersi a disposizione con tutto ilcorpo e tutto lo spirito per una realtà che non siconosce ma che sappiamo ha bisogno di noi. Ilservire gratuitamente è qualcosa di magnificoma il ricevere gratuitamente è qualcosa di scon-volgente. La gratuità che uno non si aspetta, in-fatti, è la gratuita con cui le persone che servi tiamano a prescindere da quello che hai fatto nel-la vita, da chi sei e da quali sono le tue qualità.L’amore ti sommerge, sempre e comunque. Al-l’interno di questa dinamica di scambio senzacontropartita, non si può non essere felici. Nel-la mia esperienza penso che la definizione che siavvicina di più al concetto di Felicità sia proprioquesto, il dare e il ricevere gratuitamente, senzaaver bisogno di altro.

Le relazioniUn’altra ragione fondamentale sono le relazioniche si creano con le persone che come me sonolegate a quella realtà da anni, e con le personeche in quella realtà vivono tutta la vita. Difficil-mente si riesce ad entrare così profondamentein relazione con le persone come ci si entra nelcontesto di un campo di volontariato. In Perùho conosciuto amici che sono diventati fratelli epersone che mi hanno visto cambiare di anno inanno e che ora mi conoscono più di quanto miconoscono persone con cui ho sempre vissuto.Il Caef per me è casa e le persone che lavoranolì e dedicano la loro vita a quel progetto sonoper me una famiglia. Sembrano parole scrittecasualmente, ma il loro senso è colmo di signifi-cato. La mia famiglia, quella vera, rappresentale mie radici, è il mio punto di partenza e ciò

che mi da nutrimento per andare avanti nellamia vita. Sentire il Caef come una famiglia vuoldire andare oltre i legami di parentela e metterele proprie radici in qualcosa di nuovo e scono-sciuto che però ti nutre e ti sostiene in ognigiorno della tua vita. Guardandomi indietropenso che una gran parte di quello che sono og-gi sia merito e causa di quello che ho vissuto inPerù, e di quelle radici che ho messo in quel ter-reno che per me è stato molto più che fertile.

La paternitàQuesta quarta ragione è forse la più personale.Sono sempre stata una persona interiormenteinquieta, e mi sono sempre chiesto quale fosse ilmio ruolo nel mondo e il progetto in serbo perme. Il Perù ha fatto tanto per il mio discerni-mento vocazionale regalandomi un desiderio dipaternità che mai avevo sentito prima d’allora.Non è stata una cosa immediata, ma si è svilup-pata negli anni e che continua a crescere dentrodi me. Ogni volta che torno è come se si riatti-vasse questa parte del mio cuore e il servizio mipermette di vivere la paternità che desidero co-me nulla mi permette di farlo nella mia vita or-dinaria. Questa motivazione è forse la principa-le per me che insieme alle precedenti mi hannoportato a ritornare ogni anno. Ad ogni annoognuna di queste motivazioni si è rafforzatapermettendomi di riportare e di vivere sempremeglio tutto ciò anche nella mia vita in Italia.Queste sono le mie ragioni, e non sono ugualiper tutti, ma parlando con le persone che comeme sono compromesse in questa esperienza ri-trovo molto di quello che ho scritto qui. Quan-do mami Tuty mi ha chiesto perché erano cin-que anni che tornavo nella sua casa ho rispostocon un timido «non lo so». Bene, ora credo disaperlo.

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Il servire gratuitamente è qualcosa di magnifico, ma il ricevere gratuitamente è qualcosa di sconvolgente.

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«Capirai quando tornerai». Questo miè stato detto nella mia ultima notteal Centro de Atencion y Educacion a

la Familia (Caef ), momento in cui non capivoesattamente cosa fosse successo in quel mese,non capivo esattamente che fosse già passato unmese, perché lì era tutto un susseguirsi di emo-zioni, lavori, sorrisi, azioni. Lì mi svegliavo conuna missione, con una giornata piena di concre-tezza, e mai un momento per pensare a ciò chesarebbe stato il dopo. Probabilmente di momen-ti ce ne sarebbero anche stati, ma io non li ho nécercati, né accolti. Non ho cercato casa, non hocercato un contatto con il mio reale e il mioquotidiano, mi sono limitata all’immediatezzadel tutto, senza riserve, senza tirarmi mai indie-tro. A volte mi pareva quasi impossibile che po-tesse sul serio esistere qualcos’altro e che nonfosse solo un sogno, una vita passata, ma pro-prio una vita messa in pausa dall’altro lato del-l’oceano. Non pensare ai miei resti di vita mi haaiutata, mi ha dato la libertà di essere autentica-mente nel posto in cui ero, senza fantasmi daportarmi dietro, però mi ha anche lasciata senzapunti di appoggi nel momento del ritorno.E credo proprio che la sfida più grande sia que-sta: il ritorno. Se si dovesse valutare la buonariuscita di un’esperienza dalla difficoltà con cuice ne si distacca al suo termine, ecco, questa sa-rebbe in cima ad ogni elenco. Il fatto è che nonci si può limitare a questo. Non è stata «una bel-la esperienza fatta quest’estate», non è stata «l’e-sperienza di una nuova realtà», è stata vita. So-no stata un mese felice, nell’uso più banale diun termine così difficile da incontrare sul serio.Ho avuto la possibilità di svegliarmi presto tut-te le mattine nell’indistinto vociare della casa,dopo aver dormito troppo poco per troppe not-ti di seguito, ma con un sorriso sulle labbra, sa-pendo che la giornata sarebbe stata ricca di cosein cui credevo. Il Caef è una Ong legata al governo peruvianoche lavora dal 1997 a Trujillo, cercando di dareaiuto e assistenza ai minori vittime di violenze

in ambito familiare e che è riuscita negli anni acostruire quattro progetti distinti: la Casa deTuty e altri tre progetti educativi nella Campiñade Moche, a Torres de San Borja e a Taquila.Io ho avuto la possibilità di lavorare in questidue ultimi progetti, facendoli diventare realtàche mi sono appartenute per un mese ma che ariguardare oggi attraverso le foto mi fanno veni-re la pelle d’oca.Il mio momento preferito della giornata era l’ar-rivo: si doveva andare a chiamare personalmen-te ogni bambino a casa sua! Si iniziava con qual-che colpo discreto alla porta e passando per dei«buenos dias» a voce sempre più alta si arrivavaalla timida apertura della porta, accompagnatada un grande sorriso del piccolo che abita unacasa spoglia ma piena di vita. Con il mio spa-gnolo maccheronico cercavo di interagire con irari genitori che incontravo, cercando di mo-strare tutta la cura che stavamo rivolgendo ver-so i loro figli in quei giorni. All’inizio ero dub-biosa, con la sensazione di trovarmi fuori luogo,esclusa da meccanismi a me estranei, invece èbastata la fiducia che tutti quei bimbi mi hannorivolto per farmi sciogliere e muovermi per queiluoghi come se fossero una casa in cui non tor-navo da tanto tempo. E poi via, raccolto un vi-vace gruppetto si tornava correndo verso il co-medor, pronti ad iniziare una giornata program-mata nel dettaglio nei giorni prima, ma nonstupendosi più che non filasse tutto come previ-sto. Terminato il tempo a nostra disposizione inquei luoghi tornavamo al Caef distrutti e tuttiinsabbiati, facendomi sentire tanto pulita den-tro quanto invece ero sporca fuori.A Torres abbiamo portato avanti un percorsosui cinque sensi, cercando di dare ai piccolimaggiore consapevolezza del loro corpo e delleloro possibilità. Sono indimenticabili le lororeazioni dopo aver assaggiato aceto e peperonci-no, o la confusione nel mangiare del cioccolatoamaro, così diverso dalle loro abitudini. Questolavoro ha reso anche me più cosciente, facendo-mi sentire come se a volte non avessi orecchie o

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Ritorno alla vita

DI BENEDETTA DI SAINT PIERRE

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occhi abbastanza grandi per assorbire tuttoquello che lì stavo vivendo. Ho avuto la possibilità di incontrare personeche mi hanno mostrato un amore disinteressatoe limpido, in cui ciascuno desidera imbattersidurante il proprio cammino, e per questo sonograta. Questo senso di gratitudine mi ha accom-pagnata immancabilmente tutto il mese, ren-dendomi consapevole dei doni di cui la mia vitaè piena. Mi sono ritrovata faccia a faccia con lemie limitazioni più ingombranti, alcune sonorimaste lì stagliate di fronte a me, altre sono riu-scita ad accettarle, cercando di rigirarle comemie alleate.Ho diciott’anni, proprio come il Caef, una so-miglianza che mi ha sempre fatto molto sentiretirata in causa. Per me quest’anno è stato il car-dine di una nuova porta che si apre: poter dire lamia sul serio, terminare il liceo, iniziare l’univer-sità e sentirmi parte attiva di ciò che mi circon-da. Il fatto che il Caef abbia la mia età indica lasua possibilità di iniziare a camminare sulle sue

gambe, prendendosi sempre più il suo spazio nelmondo e il riconoscimento che merita. Ho di-ciott’anni e credo che in ogni parte del mondoci si possa sentire a casa, basta crearsi il propriospazio, il proprio posto giusto, perché il momen-to giusto è costante. Sono entrata a contatto contutto questo al momento giusto e quindi ho cer-cato di costruirmi il mio spazio in quel postomagico che tanti di noi chiamano casa. Io nonso se ne abbia il diritto. So solo che mai sono sta-ta così bene in qualche luogo, so che nemmenoa casa mia sto così bene. Probabilmente non stoancora capendo quanto tutto questo stia signifi-cando per me, ma rimango qui ad aspettarne ifrutti e intanto continuo a lavorare per far cre-scere un progetto in cui credo totalmente.Ho sperimentato un mese di autentica vita eringrazio per questo, perché ogni notte vado adormire con lo stomaco chiuso ma il cuoreaperto, ricordandomi nel silenzio della mia ca-mera vuota i suoni che invece rendono il Caefcosì vivo.

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All’inizio ero dubbiosa, con la sensazione di trovarmi fuori luogo, esclusa da meccanismi a me estranei,

invece è bastata la fiducia che tutti quei bimbi mi hanno rivolto per farmi sciogliere e muovermi per quei luoghi

come se fossero una casa in cui non tornavo da tanto tempo.

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Raccontare in che cosa consista questo ti-po di esperienza per iscritto, e con un nu-mero di caratteri limitato, può fornire so-

lo una grossolana approssimazione delle emo-zioni e ricordi che oggi serbo. Oggi, a più di 20giorni dal rientro, ancora mi capita di sentirmispaesato; riabituarsi alle comodità della vita inItalia di tutti i giorni è facile, ma ora non riescoa non fare un confronto tra lì e qui. Per la mag-gior parte, la partenza è stata come il Natale perdei bambini: tutti eravamo assolutamente entu-siasti e pieni di aspettative; dal canto mio cerca-vo di entrare con la mente il più possibile inquesti aspetti, tralasciando quelli che invece mifacevano sentire, in tutta sincerità, molto preoc-cupato; nessuno, nonostante tutte le spiegazio-ni ricevute nel week end di formazione, nei col-loqui, e in tutte le comunicazioni estempora-nee, era stato in grado di prepararci a quello checi aspettava. Infatti, semplicemente non è possi-

bile. Il viaggio ci ha riuniti tutti al primo scalo,a Madrid, dalle varie città italiane, e da lì abbia-mo preso il volo più lungo, che dopo 12 ore ciha portati a Lima, la grigissima e caotica capita-le del Perù; ovviamente avevo scordato che lestagioni nell’emisfero Australe sono invertite, elì, anziché estate, era inverno. Per mia fortunala temperatura non si allontanava di molto daquella di una stagione intermedia Italiana.Abbiamo passato i primi giorni a Lima, in unostello; è stato lì che abbiamo iniziato a cono-scerci reciprocamente, con i primi passi fuori, leprime pietanze tipiche, le prime condivisioni. Iquattro giorni trascorsi a Lima ci hanno permes-so di vedere un rapido spaccato di cosa sia il Perùsul piano sociale: come molti stati sud america-ni, esso pone le fondamenta dell’ attuale delicato«equilibrio» sociale su una lunga e sanguinosaguerra civile, nel qual caso tra la potenza delloStato e il fronte ribelle del Sentiero Luminoso; ov-

I CAMPI DELLA LEGA MISSIONARIA

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Reimparare a camminare

DI RICCARDO LIGRESTI

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viamente a subire le maggiori perdite sono stati,come sempre, civili innocenti, i quali, per scap-pare dalla guerra e dalla paura, sono in larga par-te fuggiti dalle zone più rurali della Sierra (la zo-na montagnosa) verso le grandi città della costa,e in particolare verso Lima. Non c’ è da stupirsiche oggi le periferie di Lima siano occupate dachilometri di case tirate su alla meglio, senza al-cun servizio primario; sono queste le favelas nel-le quali siamo passati, e nel quali siamo statiospitati da diverse persone, che, ciascuna in mo-do diverso, davano un valore aggiunto e un aiu-to alla comunità, e in particolare ai giovani, pertenerli il più possibile lontani dalla strada. Que-sta realtà era contrapposta alla parte costiera, ric-ca e sfarzosa, con grattacieli e alberghi di lusso;era difficile non provare disagio.Dopo la parentesi di Lima ci siamo finalmenteavviati in pullman per Trujillo, nella cui perife-ria si trova il Centro de Atencion y Educacion ala Familia (Caef ), la casa di accoglienza dove ab-biamo passato la maggior parte del nostro sog-giorno.Vivere nel Caef è un’ esperienza unica: credo cheil punto chiave sia la condivisione: questo valeper le camere, gli spazi, il tempo, il cibo… Si èinseriti nel contesto di quella che si sforza consuccesso di essere una grande famiglia. In fondoil Caef è questo: una grande, caotica e rumorosafamiglia, concepita per coloro che una famigliavera non l’hanno mai avuta. Una delle mie prin-cipali preoccupazioni, una volta arrivato, era co-me avrei potuto pormi con questi bambini; qua-si ciascuno aveva alle spalle passati molto diffici-li, e mi aspettavo che questo non potesse checomplicare molto le cose; invece siamo stati ac-colti da bimbi sorridenti, solari, allegri… Soloin pochi casi è stato possibile intravedere le om-bre del loro passato, e anche in quel caso è statoquestione di pochi momenti; uno sguardo persoqualche istante, un’esitazione a perdersi in unabbraccio. Nulla di più; desideravano solo gio-care, distrarsi, vivere. Se non condizionava loro,non potevamo permettere che condizionasse

noi. La routine è iniziata dopo esserci presi ungiorno nel quale abbiamo diviso i volontari indue gruppi che avrebbero lavorato con i bambi-ni rispettivamente nella struttura del Caef, op-pure alternandosi nelle sedi esterne di Torres eTaquila; io venni assegnato al Caef, e scelsi di«lavorare» con il gruppo dei bambini più picco-li; una scelta che non ho rimpianto e che, permolti versi, si è addirittura rivelata terapeutica;una delle cose che speravo avrei trovato in que-sto posto era infatti la possibilità di lasciarmi an-dare, di poter tornare un po’ bambino, di risco-prire il gioco nella sua forma più semplice. Hoavuto la fortuna di lavorare anche insieme a per-sone con le quali ho sentito una bella intesa sindai primi giorni; probabilmente non ho lasciatoquesta sensazione da parte mia, perché ho sem-pre avuto un’indole molto introversa e rigida,ma nonostante questo mi sono sentito a mioagio persino nei momenti di peggior caos, even-to ricorrente, a volte frustrante, ma sempre di-vertente, delle attività svolte con i piccoli; unacosa che ho imparato stando con loro è che in-teri pomeriggi di progetti e preparazioni posso-no essere bruciati dalla loro voglia di giocare edalla loro estroversione anche nel giro di pochedecine di minuti, lasciandoci obbligati moltospesso a improvvisare giochi, laboratori e attivitàsul momento. Già dal week end di formazioneavevamo abbozzato un disegno comune cheavremmo seguito nelle attività, un lavoro im-prontato all’esplorazione dei cinque sensi e dellamusica attraverso il gioco, sul quale abbiamoimprontato la maggioranza dei giochi: costru-zione di strumenti musicali improvvisati, ma-schere, disegni, tempere, percorsi ritagliati e at-taccati ai pavimenti sono stati solo una piccolaparte di quello che abbiamo fatto insieme a lo-ro; è stato bello tornare bambino per un po’; te-mevo di non esserne più capace. Per i volontarila giornata, oltre che dai giochi con i bambini,era scandita anche dalle attività puramente pra-tiche; oltre ai servizi di gestione della cucina edella sala da pranzo, e alla pulizia dei bagni, cia-

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I momenti di tempo libero ci sono stati, e spesso erano necessari; molto spesso comunque finiva che tanti volontari

usavano il loro tempo libero per stare sempre con i bambini e magari fargli fare i compiti o guardare un film.

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scuno cercava di dare una mano dove e comepoteva: dalla costruzione di un muretto all’in-gresso, al livellamento di un cortile interno o al-l’inventario degli oggetti ricevuti con le dona-zioni; qualcuno si svegliava prima per andare adaccompagnare i bambini a scuola, qualcuno re-stava sveglio fino a tardi per finire un gioco peril giorno dopo, qualcuno stava via tutto il gior-no per tornare dal mercato solo la sera con enor-mi sacchetti di riso e cibarie varie. Ognuno davail suo contributo; chi a volte non riusciva, hatrovato sempre un sostegno negli altri volontari,persino nelle educatrici (che gestiscono i bambi-ni tutto l’anno; devo riconoscere che sono bra-vissime e alcune mi hanno impressionato con laloro energia), o più semplicemente nei bambini.I momenti di tempo libero ci sono stati, e spes-so erano necessari; molto spesso comunque fini-va che tanti volontari usavano il loro tempo li-bero per stare sempre con i bambini e magarifargli fare i compiti o guardare un film.Quando dicevo che trovavo impossibile renderel’idea di quello che ho vissuto per iscritto, nonmi sbagliavo: non potrò mai rendere i sorrisi, lenotti a progettare, la complicità, e in fondo an-che i momenti di difficoltà; tutti ne abbiamoavuti, tutti li abbiamo affrontati, ciascuno a mo-

do suo; inoltre ogni giorno ci si incontrava sem-pre all’inizio e alla fine della giornata, per rac-contarsi, scambiare qualche pensiero e, per chilo desiderava, ritrovarsi in preghiera, facendo inmodo di mantenere, anche nel «vivo» dell’ azio-ne, anche se alcuni volontari finivano di riveder-si solo in quei momenti, una connessione, unqualcosa che permettesse al gruppo di osservarsidall’interno e vedere cosa andava, cosa non an-dava, cosa eravamo e cosa stavamo diventando.Mi è servito parecchio, e sento di dover ringra-ziare padre Alessandro in questo per aver gestitoin modo discreto e intelligente questi momenti,e per aver sopportato il mio scetticismo, riuscen-do comunque a darmi un valore aggiunto. Orasono alla parte difficile: la chiusura. Non sonomai stato bravo con le conclusioni; ma per miafortuna a chiudersi è solo un documento diWord scritto la sera su un portatile; non sentoquesta esperienza come terminata. Se qualcunodecidesse di prendere la pazza decisione di mol-lare tutto un mese e partire con noi, ignori quel-la vocina che gli dice che è un’idea troppo avven-tata: penso che la vocina in questione sia inveceil segnale che potrebbe valerne davvero la pena;ignorarla questa volta, è stata una delle decisionimigliori che abbia mai preso.

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