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G G e e n n t t e e s s L L m m s s - - P P o o s s t t e e I I t t a a l l i i a a n n e e S S p p a a - - S S p p e e d d i i z z i i o o n n e e i i n n a a b b b b o o n n a a m m e e n n t t o o p p o o s s t t a a l l e e - - d d . . l l . . 3 3 5 5 3 3 / / 2 2 0 0 0 0 3 3 ( ( c c o o n n v v . . i i n n l l . . 2 2 7 7 / / 0 0 2 2 / / 2 2 0 0 0 0 4 4 n n . . 4 4 6 6 ) ) a a r r t t . . 1 1 , , c c o o m m m m a a 2 2 - - D D C C B B R R o o m m a a - - D D i i r r . . R R e e s s p p . . M M a a s s s s i i m m o o N N e e v v o o l l a a s s j j Settembre-Ottobre 2008 Nº 9-10 IL DONO della MISSIONE mensile della lega missionaria studenti e del M.A.G.I.S.

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Settembre-Ottobre 2008Nº 9-10

IL DONO della MISSIONE

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SOMMARIO225 EDITORIALE– Il fiore nel deserto

di Massimo Nevola S.I.

227 VITA LEGABOSNIA

– Novo Selo, uno specchio in cui guardare il (nostro)mondo negli occhidi Raffaele Magrone

– Pensieri di un uomo disorientatodi Cristiano Basso

– E ritorno in Bosnia…di Mimmo Ariemma

PERÙ

– Guardare al Perù con occhi diversidi Francesca Calliari

– Taquila: il collegio si rinnovadi Gabriele Agliardi

– Un puntino fra campagna e oceanodi Guido Neidhofer

ROMANIA

– 10 anni di Sighetu Marmatiei, la nostra seconda casa…di Luca Capurro

– Pensare, e ripensare, alle case-famigliadi Francesco Salustri

– In missione a Sighet: non si cambia il mondo, ma si dona il cuoredi Rita Schembri

– Lasciateci sognareElena

– Il sogno della bimba rom: “Mi porto il mare a casa”

253 MISSIONE E SOCIETÀ– Il campo dei miracoli

di Leonardo Becchetti

mensile della lega missionaria studenti e del M.A.G.I.S.

N. 9-10 Settembre-Ottobre 2008

Direzione e Redazione: 00144 Roma –Via M. Massimo, 7 – Tel. 06.591.08.03– 54.396.228 – Fax 06.591.08.03 –Spedizione in Abbonamento postaleart. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filialedi Roma – Registrazione del Tribunaledi Roma n. 647/88 del 19 dicembre1988 – Conto Corrente Postale34150003 intestato: LMS Roma.e-mail: [email protected]

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COMITATO DI REDAZIONE

Massimo Nevola S.I. (direttore),Michele Camaioni (redattore capo),Dario Amodeo, Laura Coltrinari,Francesca Romana Lenzi, GiulioCesare Massa S.I., Francesco Salonia,Francesco Salustri, Luigi Salvio,Pasquale Salvio.

Per abbonamenti versareun’offerta libera sulcc postale 34150003

intestato: LMS Romacausale: abbonamento Gentes

Associato alla Federazione StampaMissionaria Italiana

Fotocomposizione e Stampa:

Finito di stampare Settembre 2008

Associato all’USPI

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L’esperienza del campo a Cuba dello scorso agosto è stata davvero unica nella storiadei campi della Lega Missionaria Studenti degli ultimi anni.

Le difficoltà organizzative e l’assortimento di un gruppo quanto mai eterogeneo per età,provenienza, stili di vita e di educazione potevano lasciar sperare ben poco frutto e inve-ce… il miracolo l’hanno compiuto come sempre loro, le persone che ci hanno accolto, ilmeraviglioso popolo cubano. È bastato veramente poco per far nascere una vera e propria comunità giovanile, che hacontagiato col suo entusiasmo tutti quei volontari i quali, a loro volta, hanno saputo ac-cogliere il dono di un’amicizia gratuita, di una collaborazione nel lavoro che ci ha apertole strade anche nei settori più impervi, rendendoci compagni di cammino di chi, per di-vertirsi, non ha bisogno di ricercatezze di alcun genere: una radio-stereo, una birra ouna tu-cola (versione cubana della coca-cola) e la festa è compiuta.Possiamo dire che, dopo il campo di questa estate, è nata la Lega Missionaria Studentitra i ragazzi di Cuba. È la prima volta che accade da quando, negli ultimi 14 anni, laLms organizza campi all’estero. È la prima volta che un gruppo locale chiede di chia-marsi come noi, condividendo spirito e lettera del nostro Manifesto.Una comunità giovanile costituita e organizzata non si vedeva nella parrocchia di Carde-nas da circa quarant’anni. Non per cattiva volontà dei ragazzi, né per mancanza di assi-stenza da parte del clero. Le tensioni nei rapporti tra Stato e Chiesa, il mutuo guardarsicon sospetto, avevano impedito la creazione della benché minima organizzazione laicalecattolica. I primi segni concreti di distensione si sono registrati all’indomani della stori-ca visita del papa Giovanni Paolo II, compiuta dieci anni fa, ma solo in questi ultimi an-ni le diffidenze hanno iniziato a lasciare spazio alla fiducia e alla collaborazione.Le due edizioni di campi estivi promossi dalla Lms hanno certamente svolto un ruolomolto importante nell’avvicinare queste realtà, nell’aprire alla chiesa locale spazi d’inter-vento fino a poco fa ritenuti impossibili. In questo deserto di relazioni tra Stato e Chiesaè spuntato questo fiore di speranza che è la comunità giovanile di Cardenas. Dal prossi-mo anno, hanno espresso il desiderio di chiamarsi come noi: Lega Missionaria Studenti– Cardenas!Vera protagonista dunque del campo Lms, seme di futuro per una comunità che, a di-spetto di tutte le ristrettezze e diffidenze a lungo nutrite, dà segni di vivace fertilità. È ilregalo più bello che ci potessero fare, un dono che supera immensamente il nostro impe-gno nei loro confronti. Un dono di Dio, che forse benedice in questo modo un campoche, fin dalla sua prima edizione, ha voluto porre come prioritaria l’evangelizzazione an-che sulla stessa promozione umana.

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EDITORIALE

Il fiore nel deserto

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Le attività svolte dicono cosa è stato fatto: aiuti nell’ospedale, nel centro diurno di fisio-terapia infantile, negli asili per anziani; sostegno alle molteplici opere di carità svoltedalle suore di Madre Teresa; missione nei villaggi rurali nel tentativo di rivitalizzare eimpiantare nuove comunità.Il cosa è documentato anche dalle centinaia di foto che i nostri volontari hanno scattato. Il come però difficilmente si lascia catturare dagli scatti della fotocamera…E in questo, il contributo della nascente comunità è stato decisivo. Come in tante altrecircostanze, noi abbiamo appreso più che dato e, men che meno, insegnato. Abbiamo imparato che missione è innanzi tutto condividere ciò che si è. Chi, svolgendo un servizio, rimanesse distaccato, rinchiuso nel suo mondo, nelle sue si-curezze e nei propri schemi di divertimento, potrebbe anche dare prestazioni pregevoli,ma alla fine non lascerebbe molto, perché non s’incide nelle coscienze, non si generanoprocessi realmente creativi, perché con la gente del posto non si è realmente condiviso.Gli errori del colonialismo si possono ripetere: spetta a noi stare ben attenti, per quantopossibile, a evitarli.Abbiamo ancora imparato che, nella logica del Regno, vale molto più perdere tempo coni piccoli e i poveri piuttosto che con le persone che contano, che hanno accesso a inter-net e al mercato libero.Abbiamo imparato che, lì dove lo sforzo umano di organizzare, coordinare, animare coz-za con limiti di ogni tipo, inizia il lavoro nascosto ed efficace dello Spirito, che anchedalle pietre sa suscitare figli di Dio.Abbiamo imparato che l’esperienza non può finire con l’ultimo giorno del campo edesaurirsi con qualche intenzione di preghiera a Messa o con qualche sporadica telefona-ta o cartolina postale. La missione, quando è vissuta con autenticità, cambia il cuore ed esige una riposta checoinvolge tutta la vita. Coinvolgersi quindi a Cuba così come ci siamo coinvolti animo ecorpo in Bosnia, Romania e Perù. E Cuba, la sua società e la sua Chiesa reclamano il no-stro costante impegno.Mentre scriviamo, infatti, ci giungono notizie raccapriccianti circa gli effetti devastantidel passaggio degli uragani di fine agosto. Il gruppo della Lms aveva fatto appena a tem-po a partire, che s’è scatenato un vero un inferno di venti, piogge, trombe d’aria. Si cal-cola che siano oltre 300mila le case gravemente danneggiate, con oltre un milione di per-sone senza una dimora propria. Una realtà che interpella la comunità internazionale,che enfatizza l’assurdità degli embarghi, che spinge anche noi a moltiplicare le iniziativedi solidarietà, specie nel settore sanitario.Anche in questa condizione di emergenza e di sofferenza, tuttavia, noi guardiamo al po-polo cubano con ammirazione e speranza. La cultura della solidarietà è così radicata inesso, che anche nella prova più dura il popolo cubano sa insegnare un po’ a tutti, certa-mente ai paesi più industrializzati e più ricchi di comfort, come venire a capo di situa-zioni estreme. Una lezione che in genere i poveri danno ai più ricchi e che per noi, attoridi un gemellaggio che vuole definirsi missionario, non smetterà nel futuro prossimo e re-moto di dare il suo frutto.

Massimo Nevola S.I.

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1998: tra marzo e aprile vengo invitatoquasi per scherzo, nei corridoi dellaCappella Universitaria della Sapienza,da padre Francesco Cambiaso S.I. aprendere in considerazione, nella miaagenda degli impegni estivi di quell’an-no, il campo a Sarajevo, che sarebbestato il proseguimento del primo campo(con oltre 100 partecipanti!) avviato inBosnia nel 1997 dalla Lega MissionariaStudenti in collaborazione con i Gesuitidel JRS (Servizio per i Rifugiati). Perme fu semplicemente l’inizio di un nuo-vo percorso di vita. Forse servirebbe unlibro intero per racchiudere persone,storie, amicizie, legami,coincidenze e scoperte chepresero il via da quel “Sì”,detto quasi immediatamentee del tutto inconsapevolmen-te. Non ero affatto pratico diBosnia e Balcani, la guerradal 1992 al 1995 l’avevo vis-suta più che altro come unfastidioso ingombro nei varigiornali e telegiornali, neitanti spot radiofonici di cuiricordo ancora (e solo) loslogan “Fermiamo la guerrain Bosnia” tradotto in tantelingue...

Dieci anni dopo, la Bosnia e tutto quel-lo che ha poi rappresentato questaesperienza per la mia vita, sono cosìparte di me che non ho avuto nessunadifficoltà, dopo essermi sposato solo il2 agosto, a lasciare sotto gli ombrellonidel bel mare di Puglia mia moglie Raf-faella e il nostro piccolo Emanuele (15mesi), per unirmi al folto gruppo (26persone, di cui circa 20 per la primavolta in Bosnia) che quest’anno ha deci-so di vivere dal 9 al 19 agosto l’espe-rienza del campo nella realtà di NovoSelo, che da appena un anno è diventa-ta la nuova destinazione del campo

VITA LEGA

BOSNIANovo Selo, uno specchio in cui guardare

il (nostro) mondo negli occhi

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estivo della Lms nei Balcani, dopo itanti anni di campi a Sarajevo e BanjaLuka.A parte il doveroso senso di riconoscen-za in occasione del mio decimo “anni-versario di matrimonio” con la Bosnia,le ragioni che mi hanno spinto a partiresono state anche altre, prima di tutto ildiscernimento stesso sul continuare ono a organizzare campi estivi Lms inquesti luoghi, con la relativa responsabi-lità nei confronti soprattutto dei nuovipartecipanti. A che serve andare a rico-struire case per i cattolici in un postoche sta a soli 7 km dalla cattolicissimaCroazia, ma è situato nella parte serba(ortodossa) del territorio bosniaco, ra-gion per cui negli anni della guerra lemilizie serbe hanno messo in condizio-ne la popolazione cattolica della zona diabbandonare tutte le case con la seriaprospettiva di non farci mai più ritorno?Di fatto, oggi a Novo Selo ci sono solouna nuova parrocchia (la stessa in cui ilnostro gruppo è stato ospitato) e qual-che casa ricostruita o quasi, in mezzo atante case sparse in un territorio vastoe molto verde a due passi da un rigo-glioso fiume, e quasi tutte queste case

sono in realtà fantasmi divecchie e spesso floride abi-tazioni, in cui la vita all’im-provviso si è fermata... For-se già prima delle vere eproprie operazioni di puli-zia etnica, ovvero da quandoa fine anni ’80 la gloriosaraffineria della zona, chedava lavoro a oltre 3.000 di-pendenti ad alta specializza-zione, fiore all’occhiello del-l’intera ex Jugoslavia, ha co-minciato a chiudere i bat-tenti a causa della grave cri-si economico-politica che

stava per mettere in ginocchio l’interaregione, dando il pretesto ai vari leadernazionalisti per rivendicare l’egemonianei confronti dei diversi in fatto di pro-venienza etnica e avviare, così, il san-guinoso conflitto balcanico. In realtàmolti a Novo Selo e dintorni avevanocominciato a lavorare all’estero già pri-ma della guerra.Non è facile spiegarsi la propria presen-za in un posto dove il trend più diffusodi modello urbanistico-architettonicoprevede case più o meno diroccate (senon proprio abbattute dai colpi di mor-taio) e abbandonate da oltre dieci anni,con arbusti di vario genere, se non pro-prio veri alberi cresciuti al proprio in-terno (!). Pare infatti che tra le “specia-lità della casa” (mio eufemismo che sta-rebbe a indicare il trattamento riserva-to dai serbi ai villaggi una volta abban-donati dalla popolazione originaria), cifosse il minuzioso smontaggio di tuttele suppellettili domestiche, nonché re-cupero di tutte le componenti ancorautilizzabili dell’impianto elettrico, conciliegina sulla torta rappresentata dallametodica rimozione del tetto con atten-to smontaggio delle varie parti ai fini di

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un vantaggioso recupero del tutto, perl’industria delle costruzioni in altra se-de. Questa sarebbe anche la ragione percui la natura e il sole oggi riescono aentrare più agevolmente nelle case di-roccate, dando origine a questo sor-prendente paesaggio...Pare che anche le querce di cui la zonaera particolarmente ricca siano state at-tentamente sradicate e trasferite dallemilizie serbe. Insomma: che ci faccia-mo noi qui, in mezzo alle ortiche e atante fondamenta avviate e non piùportate avanti (progetti di vita?), tranuove e perfettamente inutili costruzio-ni (tipo l’edificio che gli americani ave-vano pensato di costruire come ProntoSoccorso della zona, proprio di frontealla Chiesa, nell’assurda speranza chesarebbe diventato di lì a poco operativoper l’assistenza delle persone tornate acasa subito dopo la firma degli Accordidi Dayton), nonché a pochi chilometrida un mondo che sembra procederetranquillamente “verso il progresso el’integrazione europea”, senza far più ditanto caso a tali atrocità?Quest’anno il Signore ha voluto, fin dalprimo giorno di campo, darci delle ri-sposte chiare:

– Novo Selo è un posto chevive ed esiste realmente,se non altro nelle inten-zioni di svariate centinaiadi persone che, ad esem-pio, la domenica del 10agosto si sono date ap-puntamento, arrivando datutta la Croazia e non so-lo, sui due pseudo-campidi calcetto allestiti nellazona per un torneo alquale ci siamo iscritti an-che noi, dopo che molte

delle stesse avevano preso parte allamessa nella “nostra” chiesa;

– per un motivo o per l’altro, la genteche viveva in questi posti e che l’esi-genza di continuare a vivere, manda-re i figli a scuola e lavorare, ha con-dotto in Croazia, Austria, Germania,Szizzera, Italia, non ci pensa duevolte prima di mettersi in macchinae farsi centinaia di chilometri per ve-nire semplicemente a trascorrere po-che ore per la Festa dell’Assunta inun santuario ancora da ricostruire(in un’altra località a circa 4 km daNovo Selo), sotto un sole cocente econ un altare “prefabbricato”, da-vanti al quale campeggiano i blocchidi mattoni già pronti per avviare lanuova costruzione;

– a Sarajevo, nell’incontro a cena del 16agosto con il vescovo ausiliare PeroSudar, abbiamo ascoltato delle parolecariche di speranza e di vita, in tuttala sua complessità, che cercavano difarci capire come proprio nell’appa-rente assenza di senso, si nascondeforse il senso stesso della nostra vita edel nostro cammino di fede.

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Non è un caso se, a fine campo, siamostati accolti con due generose tavolateimbandite in modo assolutamente bo-sniaco (= artigianale, ma sincero e gene-roso) dalle famiglie (e dai loro amici)per le quali abbiamo lavorato alla rico-struzione di un tetto e a quella dei muriportanti della nuova casa. Nuove fami-glie che, oltre a quella aiutata lo scorsoanno, nutrono realmente il sogno di tor-nare a vivere qui, coscienti delle oggetti-ve difficoltà, ma altrettanto convinti cheormai la vita vada vissuta così come ilSignore ce la prospetta giorno per gior-no, anche perché non esistono posti do-ve si possa andare a vivere ex-novo, sen-za scendere comunque a compromessicon i propri sogni e la propria libertà.Ma queste sono solo alcune delle possi-bili “visioni” della realtà da me conosciu-ta questa estate. Certamente ognuno deipartecipanti potrebbe dare la sua letturadel campo in Bosnia 2008, anche alla lu-ce del proprio percorso di vita in genera-

le. Dal punto di vista del cammino spiri-tuale comune e della condivisione dell’e-sperienza vissuta, gli spunti propostiproprio dal numero estivo della nostrarivista Gentes, incentrato sull’annunciodel Vangelo, sono serviti a tracciare unapossibile prospettiva che resta tuttoraaperta al contributo di ognuno. A miopersonale parere, quanto più riusciamoa far entrare l’esperienza della Bosnianella nostra esperienza di vita quotidia-na, tanto più riusciremo a trovare unsenso. Non solo all’andare in Bosnia.Chiudo questo personale contributo al-le “risonanze” del dopo-campo, ringra-ziando in modo particolare gli altri or-ganizzatori/responsabili del gemellag-gio Lms con la Bosnia, ovvero CristianoBasso e Nicolò D’Alconzo, senza la cuidisponibilità e umile costanza durantel’intero arco dell’anno, forse non sarem-mo ancora qui a parlarne.

Raffaele Magrone

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I l campo in Bosnia della Lega Mis-sionaria Studenti è una delle cose

speciali entrate nella mia vita; me lotrovo davanti quasi tutti i giorni nellemail della posta elettronica, nelle fotoalle pareti di casa mia, negli sms chemi arrivano da Sarajevo e Banja Luka.Coinvolge una parte importante delmio cuore e ha riempito molte mieestati di ricordi e sensazioni irrinun-ciabili. Tutto è cominciato alcuni annifa a Sarajevo: era il 2003 e, con unalaurea fresca in tasca (adesso oramaifrollata...), il mondo era per me terradi conquista. Partii con grande curio-sità di conoscere e capire, senza mini-mamente sapere in quali mani mi stes-si mettendo. Scoprii un gruppo di per-sone speciali che si muovevano trapolvere e macerie, incontrando uominiche portavano con sè storie tristi e didolore; le loro azioni erano molto sem-plici, ma sembrava che ogni mattonerimesso a posto e ogni sorriso regala-

to, fossero un colpo micidiale per l’in-differenza e l’odio e un assist per la vi-ta e la speranza. Mi appassionai allastoria della Bosnia e della sua gente eun po’ alla volta divenne scontato eimportante dare il mio piccolo contri-buto e condividere la mia vita fortuna-ta con gli amici di laggiù.Questi sei anni di viaggi hanno avutodiversi momenti di sconforto e moltialtri invece di grande gioia: come dallavita, anche dalle vicende del campo avolte ti senti deluso e annoiato, o vedicon frustrazione i tuoi sforzi spazzativia dalla forza degli eventi; altre volteinvece senti di aver fatto moltissimo eporti dentro di te a lungo le belle sen-sazioni che hai vissuto. Così è statoanche quest’anno e, se da una partesento che abbiamo fatto un bellissimoregalo a Darko e alla sua famiglia (lasperanza e l’amicizia, non tanto il tet-to) e lui l’ha fatto a noi, dall’altra lemacerie mute del paese di Novo Selo e

le parole disincantate diSudar a Sarajevo, mi ten-gono incollato alla durarealtà: la guerra continuaad ardere sotto le ceneridell’imposta normalità.Anche quest’anno il campoè stato un momento pre-zioso nell’estate di ognunodei partecipanti, con ri-scontri molto concreti edemozionanti al nostro la-voro. Tutto è anche figliodelle fatiche sopportate edell’impegno del gruppo diragazzi che ha aperto nel2007 questa strada, cui va

Pensieri di un uomo disorientato

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il ringraziamento di tutti e ilmessaggio che la loro pre-senza è stata il primo impor-tante passo di un nuovocammino. A più di 10 annidalla nascita, il progetto Bo-snia è ancora vivo e il pattodi amicizia si rinnova ogniestate, affrontando e supe-rando gli ostacoli di unmondo che cambia (in peg-gio.....). Dopo Stup, Presna-ce, Ljubija, anche Novo Seloè diventata la nostra casa(come l’ho inconsciamentechiamato quest’estate) e spe-ro riusciremo a prenderci cura di essa ilpiù a lungo possibile.Ormai mi muovo per le strade della Bo-snia come su quelle di casa mia (e suentrambe riesco ancora a perdermi...scusate ragazzi!): se il gusto dell’avven-tura è ormai scomparso, continua inve-ce il mio percorso sulle tracce di un Dioche a volte, ahimè, sento davvero lonta-no. Mi chiedo quindi e cerco il sensoprofondo dell’andare ogni anno in queiposti e non mi accontento ormai più so-lo delle risate, delle ore passate in com-

pagnia, del lavoro fatto: sono sicuro cheil quid che sto cercando, sarebbe capacedi far durare le sensazioni del campoanche nelle mia vita di tutti i giorni. Misforzo di trovare in tutto quello che hovisto e vissuto, nelle storie delle personee nei loro volti sorridenti o malinconici,il mistero della vita e di Dio: so che luivuole parlarmi e che mi ha messo lui suquesta strada facendomi sonoramenteinciampare nelle vicende della Lega Mis-sionaria Studenti. Ogni giorno si siedevicino a me e mi parla, ma con dispiace-

re sento di essere un po’ sor-do e mi piacerebbe poterlosentire nitidamente.Grazie a tutti gli amici diquest’estate, molti dei qualinon rivedrò mai più, ma sa-perli in giro per il mondo, daqualche parte a fare del loromeglio, mi mette davvero dibuon umore. La mia ricercacontinuerà ancora a lungo esono felice di fare un pezzodi strada in compagnia dellaLega Missionaria. Buonafortuna a tutti.

Cristiano Basso

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D opo cinque anni (più o meno) dicampi in Bosnia, quest’anno, per

varie ragioni, pensavo che potesse esse-re la volta buona per interrompere que-sta “catena di Sant’Antonio”. Mi sonomesso d’impegno per riuscire a control-lore quel senso di bisogno che ogni an-no, dal 2003, mi spinge a ritornare inBosnia, anche per pochi giorni. Nellamia testa si era insidiato il tarlo che lasola forza che mi costringeva a ritorna-re era la sterile abitudine. Fatto sta cheagli inizi di agosto ho iniziato a provarei primi segni di cedimento e, poco me-no di una settimana prima che il grup-po partisse per Novo Selo, ho iniziato atediare Cristiano con una serie di e-mail per sapere se c’era la possibilità diraggiungerli a metà campo. AppenaCristiano mi ha dato l’ok (e per questolo ringrazio davvero tanto, perché soquanto è stato difficile organizzare ilcampo con un numero di partecipanticosì ballerino fino a pochi giorni primadella partenza), sono subito corso instazione a comprare il bi-glietto per una cuccetta dasei posti sul treno diretto aBelgrado.Sono arrivato a SlavonskiBrod che erano le 9.30 delmattino, ma era dalle 7.00che ero impalato di fronte alfinestrino nel corridoio deltreno a guardare fuori e acercare di riconoscere qual-cosa che già avevo visto l’an-no prima quando, viaggian-do sullo stesso treno direttoa Belgrado, mi recavo per laprima volta a Novo Selo.

Stranamente, quando pensavo alle per-sone che avrei incontrato e conosciutoal campo, avevano, nella mia testa, tuttile stesse facce dei ragazzi dell’anno pri-ma… Gli scherzi di una mente che hadormito poco più di due ore in una cuc-cetta da sei posti con quattro francesi edue serbi (ebbene sì, eravamo in ot-to…), con i quali ha bevuto grappa finoalle quattro del mattino…Sono arrivato finalmente a SlavonskiBrod già pronto per continuare il viag-gio fino a Sarajevo ma, fortunatamente,alla stazione c’era Cristiano che mi at-tendeva (già da un’ora, causa ritardotreno) e mi diceva che saremmo partitiper Sarajevo l’indomani. A dire il verofremevo dalla voglia di rivedere Saraje-vo (mancavo da due anni…) e soprat-tutto di rincontrare i vari amici che hoavuto la fortuna di farmi in questi anni.Però la sosta a Novo Selo è stata impor-tante per iniziare a conoscere i nuovicomponenti del campo (e rivedere i ve-terani). Erano davvero tanti! Sono stato

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E ritorno in Bosnia…

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subito contagiato dal loro entusiasmoper l’ esperienza che stavano vivendo e,per un attimo, ho avuto la piena e pia-cevole certezza (e spero di non sbagliar-mi) che fra loro c’era più di qualcunoche aveva una, come dire, progettualitàper un futuro campi in Bosnia. Era unasensazione che mi riempiva il cuore,perché il loro entusiasmo mi dava lasensazione che ci sarebbe stata unacontinuità per la Bosnia.All’indomani mattina siamo partiti perSarajevo per arrivarvi nel primo pome-riggio. La città era tutta in festa: inizia-va proprio quel giorno il Sarajevo FilmFestival: vederla così viva è stato un al-tro motivo di gioia per me. Il tempo disistemare le nostre cose presso la Fa-coltà di Teologia, dove avremo alloggia-to, che è arrivato don Luka nella suamastodontica mole da puccettone persalutarci e invitarci a cena (rigorosa-mente a base di pivo e cevapi) in Vesco-vado. Avevamo due-tre ore libere e conRaffaele e Cristiano, dopo uno spuntinonel quartiere turco di Sarajevo, abbia-

mo preso un taxi (lunga storia... caso-mai la racconto un’altra volta), ci siamoarrampicati sulle colline che circonda-no Sarajevo e ci siamo fatti trasportarea casa del nostro amico Airo e della suafamigliuola. Lui non c’era, era in Croa-zia a lavorare e la moglie era ancora alnegozio di fiori, c’era solo la figlia piùgrande con la quale siamo rimasti d’ac-cordo che saremo ripassati l’indomaniper salutare la madre e il resto della fa-miglia. Siamo rimontati sul taxi e cisiamo rincontrati col resto del gruppoper recarci da don Luka.Abbiamo trovato Don Luka nel cortiledel Vescovado tutto preso a cucinare ce-vapi per noi. Il tempo di accomodarciche ci sono venuti a salutare, nell’ordi-ne, l’arcivescovo di Sarajevo, il cardina-le Vinko Puljic1 e il vescovo ausiliarePero Sudar2, il quale si è intrattenutocon noi per due chiacchiere. La vivacitàe l’onestà intellettuale di quest’uomosono sempre stati, per certi aspetti, di-sarmanti. Ha subito esordito con unariflessione riguardo all’importanza del-

la nostra presen-za in Bosnia: sein quel momentoc’era qualcuno dinoi che aveva deidubbi a riguar-do, credo chequesti siano statidissipati all ’i-stante.Ecco (all’incirca)le parole: «In unPaese da cui igiovani scappa-no, i giovani chevengono per ri-costruire rappre-sentano la veraSperanza».

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In quel preciso istante ho pensato alledifficoltà del primo campo a Novo Selo,mi sono sentito addosso ancora losconforto che mi ha accompagnato du-rante il viaggio di ritorno dalla Bosniadell’anno prima, ho percepito per un at-timo lo stesso fastidio che mi procuròl’accorato appello di don Luka affinchési ritornasse in Bosnia, fatto durante ilconvegno di Padova per il decennaledei campi in Bosnia, e mi sono sentitodavvero piccolissimo davanti a quelleparole.Ancora una volta mi sono sentito in do-vere di ringraziare quella terra e quellepersone per il tanto che sono riusciti adarmi, e che continuavano ancora adarmi, e chiedere scusa per quel pocoche ho saputo donare.Ecco cosa ha significato per me ritor-nare in Bosnia.Siamo tornanti in Italia portando connoi un nuovo progetto per la Bosnia, eNovo Selo in particolare, e mi augurodi cuore che tutti noi (me, in primis) la-voreremo per la sua realizzazione. Nes-suno di noi si può arrogare il diritto ditogliere la Speranza al suo prossimo.

Mimmo Ariemma

Note

1 È arcivescovo di Sarajevo dal 19 novem-bre 1990. Dopo un anno dalla sua nomina,in Bosnia iniziarono i combattimenti. Du-rante l’assedio di Sarajevo, si distinse pergli accorati appelli di pace e di difesa deidiritti inalienabili della persona umana, ri-schiando anche la vita. Fu imprigionatoper 12 ore dai militari serbi. Papa GiovanniPaolo II lo ha innalzato alla dignità cardi-nalizia nel concistoro del 26 novembre1994, a 49 anni.2 Ordinato sacerdote il 29 giugno 1977.Quale primo incarico, svolse per due annila funzione di cappellano a Komisa, in Bo-

snia. Ha studiato successivamente a Romapresso la Pontificia Università Urbaniana,dove ha conseguito il dottorato in DirittoCanonico. Dal 1986 è professore di DirittoCanonico alla facoltà teologica dell’univer-sità di Sarajevo, inoltre dal 1989 è rettoredel seminario arcivescovile. Il 28 maggio1993, Papa Giovanni Paolo II lo ha nomina-to vescovo ausiliare di Vrhbosna-Sarajevo,mentre la città era assediata dall’esercitoserbo, e vescovo titolare di Selje. Fu consa-crato vescovo dal cardinale Vinko Puljic il 6gennaio 1994. Incaricato per i cattolicicroati all’estero, per i rapporti con lo Stato,è presidente della Commissione “Giustizia epace”. Promotore delle scuole interetniche,le scuole per l’europa, è considerato una del-le personalità più importanti nella lenta mainesorabile ricostruzione civile e morale neldopoguerra della ex Jugoslavia.

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S embra ieri quando, nel febbraio del2006, decisi di dedicare le mie va-

canze ad agosto al Perù. Sono passatiormai tre anni e devo dire che mi fastrano pensare a un’estate senza il Caef!Di ritorno da un campo difficile, mi ri-trovo a pensare a un’esperienza che èappena passata, diversa dalle due fattenegli anni precedenti. A causa di lavoridi miglioria e di ampliamento del cen-tro, il campo è stato differente; infatti ibambini ospitati quest’anno erano dav-vero pochini, cinque più una in tutto(se contiamo anche la piccola Maria Jo-sé, nata durante la nostra permanenza),quindi il nostro lavoro si è basato sullasistemazione del centro, sulla velociz-zazione dei lavori già iniziati e sul so-stegno di due comunità vicine a Cam-piña de Moche (Torres de San Borjas eTaquila), che fanno parte del program-

ma di prevenzione del Caef, consapevo-le che per un’assistenza integrale aibambini non bisogna fermarsi al pro-blema immediato, ma anche sensibiliz-zare il popolo ed entrare in contattocon esso per prevenire. L’impegno mag-giore per coloro che prestavano servizionel centro è stato un lavoro di cataloga-zione e inventario dei due magazzini;in poche parole, un mese in mezzo apolvere e qualsiasi oggetto di cartoleriapossibile e immaginabile.Grazie al cielo, avevamo quasi sempredelle visite da parte di bambini, la mag-gior parte dei quali stavano aspettandodi potersi ritrasferire lì a lavori finiti: cihanno aiutato con quello che sapevanofare, contando penne e gomme ma so-prattutto con tutti quei sorrisi e quellerisate; questo ci ha spronato parecchioe dato una carica in più per affrontare

il migliaio di scatoloni cheavevamo ancora da fare.È stato bello vedere come ilcentro, nonostante fosse sottolavori, fosse sempre aperto aqualsiasi richiesta e bisognodei bambini che fino a qual-che mese prima vivevano lì: ilCaef, per tutti loro, è sempreun punto di riferimento e unposto dove chiedere aiuto incaso di necessità e non solo,perchè i bambini sanno che lìpotranno sempre ricevere unsorriso e un abbraccio.

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PERÙ

Guardare al Perù con occhi diversi

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Per quanto riguarda gli altri di noi chenon stavano al centro, svolgevano lavo-ri che spaziavano dalla costruzione diun Uru (una sorta di centro sanitario) aTorres al diserbamento del cortile dellascuola di Taquila e a un lavoro di edu-cazione e animazione con i bambini siadi Taquila che di Torres.Il momento culmine di tutto il campo,però, lo abbiamo vissuto nei tre giorniche abbiamo trascorso in una casa inmontagna con i bambini della comunitàdi Torres e con una ventina di bambinidel Caef: il cosidetto periodo di campa-mento. Il lunedì mattina i bambini sonoarrivati molto presto, ancor prima chenoi ci svegliassimo, si sentiva la loro pre-senza nell’aria, e si vedeva che avevanodavvero tantissima voglia di partire e distare per un po’ di tempo solo con noi.Sono stati tre giorni intensi, passati 24ore su 24 insieme a loro, giocando, di-vertendoci e facendo anche noi nel no-stro piccolo le nostre “Olimpiadi 2008”.Di momenti di calma ce n’erano davveropochi, perché quando finalmente si riu-

sciva a mettere a letto ibambini, beh mancavadavvero poco prima chei nostri occhi si chiudes-sero! C’è da dire che unavolta tornati ognuno alproprio lavoro, la stan-chezza non si sentivapiù, c’erano una grandeforza e una carica nelportare a termine ciòche si era cominciato.È bene dirlo, ogni annoper noi è diverso; sonodiversi i lavori da fare,le persone che si incon-trano e le parole che sisentono, i sorrisi sonodiversi anche se non ne

esistono di più o meno belli, ogni annoci si riesce a stupire in modo diverso diun Paese che può offrire meno del no-stro ma che lascia molto più il segno.Inutile dire come si impari più dalla vitain un mese passato là a confrontarsicon le persone del luogo che non in un-dici mesi in università qui. Quando sitorna in Italia, la cosa più difficile restasempre il riuscire a trasmettere le emo-zioni e le avventure vissute, e a volteverrebbe la voglia di portarti dietro tuttele persone con cui parli per far loro ve-dere cos’è veramente un campo in Perù.Alla fine, anche quest’anno una piccolaparte di me è rimasta come sempre inquel piccolo paesino nel nord del Perù,e forse è inutile dire “vedremo l’annoprossimo come sarò messa con gli esa-mi” perché tanto si sa, quando qualcosati prende difficilmente si può smettere,soprattutto ora che inizio e riesco a ve-derla con occhi diversi, quelli della gen-te di chi in quei luoghi ci vive.

Francesca Calliari

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Il Caef, Centro de Atenciòn y Educaciòn a la Familia.

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T aquila è un villaggio sul mare subi-to fuori dalla città di Trujillo. Al-

l’ingresso del paese, fra i campi incoltie le prime case, si scorgono le mura dicinta del Collegio San Judas Tadeo. Ol-tre il portone di legno di ingresso, c’èun cortile con un pozzo al centro, duecampi da calcetto cementati e due edifi-ci di un piano, verdi e rossi, un po’scrostati, che formano le sette aule e labiblioteca.Quando per la prima volta abbiamovarcato quel portone, andavamo a co-noscere la comunità radunata intornoalla scuola: famiglie di studenti e fami-glie di ragazzi che nel pomeriggio van-no per la catechesi. Le signore presentisi erano riunite proprio per il nostro ar-

rivo, sapevano che avrebbero avutoqualche italiano a disposizione con cuirisistemare la scuola nei giorni succes-sivi. Dopo i consueti convenevoli (chein Perù richiedono molto tempo), cihanno esposto i loro desideri: mettere aposto il campo (ovvero, estirpare le er-bacce) e costruire una piccola cucinaper il pranzo degli alunni.Due giorni dopo eravamo lì per rim-boccarci le maniche. I ragazzini eranoin vacanza e la scuola era vuota. Ilprogetto della cucina era in stand-by,perché si era deciso, prima di fare que-sto investimento, di verificare che lacomunità si attivasse per i lavori. Ciera stato detto infatti che si trattava diun gruppo poco vivace, non molto coe-

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Taquila: il collegio si rinnova

Volontari al lavoro al collegio di Taquila per estirpare le erbacce.

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so. Perciò è stato grande lo stuporequando quella mattina, entrando ascuola con la mezz’ora di ritardo con-sueta in Perù, abbiamo trovato unaquindicina di persone già all’opera conla grama, l’erbaccia. Purtroppo, unadelusione ci attendeva: la direttrice delcollegio aveva promesso compensi achi si fosse presentato a lavorare, com-pensi che noi non potevamo dare, pro-prio perché il nostro obiettivo era ren-dere autosufficiente la comunità. Chia-rita la questione economica, gli uomi-ni a poco a poco se ne andarono: nonsi potevano permettere di sprecare unagiornata di lavoro. Alla fine della mat-tinata, erano rimaste con noi quattro ocinque donne.I giorni seguenti l’attività è proseguita,alternando alla fatica di un lavoro sem-pre uguale molte soddisfazioni: adesempio, abbiamo scoperto che le si-gnore si erano accordate per fare deiturni, mostrando una collaborazione eun’organizzazione molto al di sopradelle aspettative. Nel frattempo abbia-

mo conosciutoqueste persone edè cresciuta la fidu-cia reciproca. Èstato un processolentissimo, tantoche dopo la primasettimana sembra-va tutto al puntodi partenza. Dopoil week-end, ab-biamo portato al-cuni ragazzini invacanza. Siamotornati al lavorosolo giovedì, macon un entusia-smo nuovo: anchese non ce ne ren-

devamo conto, al collegio eravamo or-mai di casa. Le feste erano finite, e tuttii bambini erano rientrati a lezione, por-tando con sé la loro vivacità. Abbiamodifferenziato i nostri lavori: ci siamodedicati anche a disegnare i muri dicinta insieme agli alunni, a ridipingerele righe sul campo da calcetto, a faresupplenza nelle ore di lezione, a pianta-re qualche arbusto in giardino.Il lunedì seguente era l’ultimo giornoa Taquila: abbiamo organizzato unafesta per i ragazzini, che è riuscita no-nostante la musica all’inizio non fun-zionasse, perché «qualcuno aveva ru-bato la centralina elettrica in strada».Abbiamo lasciato ancora una parte dicampo da diserbare, le pianticelle dacurare, la cucina addirittura da inizia-re. Abbiamo lasciato molte persone,alcune appena incontrate, altre cono-sciute più profondamente. Abbiamolasciato molte cose incompiute, pro-messa di un futuro da costruire.

Gabriele Agliardi

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Taquila, il cortile interno della scuola.

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Riflessioni occidentali su Torres de SanBorja

Mi sono chiesto varie volte dove sonostato e cosa ho visto. Oggi, re-immersoin quello che per me si chiama la vita diogni giorno, guardo indietro e vedo ilPerù. Vedo i suoi paesaggi, i suoi colorie la sua gente, ma vedo anche la partedel Perù che è stata il motivo del viag-gio che abbiamo affrontato quest’annoe che ogni anno affrontano tante perso-ne che partono alla scoperta di mondidiversi. Vedo tutto, ma lo elaboro concalma e qualche difficoltà, cercando dirisolvere i quesiti che la mia razionalitàoccidentale instancabile si pone.Uno di questi quesiti è un puntino loca-lizzato fra la campagna e l’oceano chesi trova a qualche chilometro dalla peri-feria di Trujillo. Dalla gente viene chia-mato Torres de San Borja. Se su Googleinseriamo Torres de San Borja, non ot-teniamo alcun risultato utile. La stessa

cosa accade su Youtube o altri canalimediatici, oramai quotidiani, da noiben conosciuti. Di Torres de San Borjanon parlano i telegiornali e neanche lacarta stampata. É un luogo così lonta-no dal nostro mondo, dalla nostra men-talità, dal nostro orizzonte e da tuttociò che conosciamo nella vita di tutti igiorni, che il subconscio a volte sollevail dubbio: ma esiste Torres de SanBorja?Se, intenti a trovare una prova che cisoddisfi e colmi il dubbio, continuiamonella ricerca affidandoci a Google-Map,la strada per arrivarci probabilmentenon la troveremo mai. Anzi, di stradeche portano a Torres de San Borja, nonne esistono proprio. Esistono viuzzesterrate di campagna che noi – gringos– possiamo permetterci di fare in Moto-taxi a due soles.La nostra razionalità riceve troppe di-mostrazioni del fatto che Torres de SanBorja in verità non esiste: non ci sono

servizi igienici, nonc’è acqua corrente néuna fognatura, nonc’è elettricità generataa sufficienza, non cisono strade e non cisono case. O perlo-meno non c’è ciò chenoi chiamiamo case.Esiste – quello sì, perlegge – essendo Tor-res de San Borja unAsientamiento Huma-no a tutti gli effetti,un piano logistico incui ogni lotto di terraè assegnato o all’edifi-

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Un puntino fra campagna e oceano

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cazione o ad altro. Un lotto di dimen-sioni notevoli è anche stato già riserva-to dalla municipalità di Moche – comu-ne a cui il paesino fa riferimento – per ilparco comunale che un bel dì dovrà na-scere fra la sabbia di Torres. É in piani-ficazione da tempo, come i servizi igie-nici, il sistema idrico, la corrente elet-trica, le strade, le case... Sono temi cheriacquistano fondamentale importanzasopratutto in fase di campagna eletto-rale, quando gli abitanti di Torres deSan Borja escono dall’inesistenza e sitrasformano in possibili ed appetibilivoti per l’uno o l’altro candidato a sin-daco di Moche.Torres de San Borja è così lontano dal-l’immaginabile del nostro mondo più omeno occidentale, che si potrebbe vera-mente dire che non esiste. Si potreb-be... Se non fosse per il fatto che inveceesiste.Se non fosse per il fatto che ci abitanopersone con nomi e cognomi. Uominiche tornano esausti dal lavoro nei cam-pi e senza riposarsi iniziano a metteremattone su mattone per veder sorgerepiano piano il loro locale comunale,che quando sarà pronto fungerà da

centro sanitario. Don-ne che, con la pala inmano e il figlio inspalla, danno il loroprezioso contributo allavoro dei ragazzi vo-lontari venuti dall’Ita-lia. Ragazzi, giovaniche tornano dallaspiaggia e mostranofieri i pesci che hannopescato, per poi subitorimettersi al lavoroanche loro. E bambi-ni. Tanti bambini.Bambini che giocano

nel fango a piedi scalzi, bambini che ri-dono, bambini che si fanno il bagnonello stagno, bambini che non si preoc-cupano. Forse un domani lo faranno,ma adesso no, non si preoccupano.Bambini con occhi da bambino, chefanno giochi da bambino e cantanocanzoni da bambino.E capiamo che Torres de San Borja esi-ste! Anche quando non ci sono le ele-zioni, Torres de San Borja esiste. E an-che se il prezzo del pesce diminuisce eil lavoro nei campi scarseggia, Torresde San Borja esiste. Torres de San Borja esiste nella forzadella sua gente, negli occhi dei bambinia cui i padri vogliono far vedere un fu-turo migliore per il loro paese. Fatto distrade, acqua potabile, servizi sanitarie, chi lo sa, forse un giorno anche l’uto-pico parco potrà essere più di una fan-tasiosa idea. Torres de San Borja non èsoltanto un Asientamento Humano aqualche chilometro da Trujillo. Torresde San Borja è un percorso, una via,una possibilità. Torres de San Borja èun cuore che batte.

Guido Neidhofer

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Nel Luglio del 1998 cominciava il gemel-laggio nel Maramures, che ha portato laLega Missionaria Studenti alla costitu-zione di tre case famiglia

IntroduzioneDi questi tempi la Romania è “di moda”per i recenti episodi di cronaca chehanno destato scalpore e indignazionenel nostro Paese e nell’occidente evolu-to, spesso ignaro della storia, degli usi edei costumi di una nazione che ha vi-sto, in questi anni, il ripetersi di quantogià avvenuto nell’Italia di inizio secolo,quando i nostri nonni scappavano ver-so Paesi stranieri sulle navi o su mezzidi fortuna per sfamare le proprie fami-

glie. Personalmente ammetto il mio es-sere di parte, il mio parteggiare aperta-mente per il popolo romeno, ammettodi offendermi profondamente quandosento giudizi affrettati, nonché privi dicognizione di causa, per la gente che la-vora e vive dignitosamente, talvolta do-lorosamente, nel proprio Paese finchèha modo di farlo, ed emigra quandonon può fare diversamente, spesso nonesistendo per i Paesi “di adozione” esvolgendo mansioni che noi stessi ci ri-fiutiamo di svolgere, a condizioni e ora-ri che mai accetteremmo, col fine dimettere da parte il necessario per un’a-bitazione e per il mantenimento dellafamiglia lontana. Questa la Romania,

questi i romeni veri, non icriminali che, fuggendo dal-la Romania, commettonocrimini efferati sapendo dinon aver nulla da perdere inItalia, “Paese dei balocchi”,Paese degli indulti e dei bra-vi avvocati d’ufficio, dovequeste persone pongono inessere condotte che maiavrebbero commesso nel lo-ro paese. Questa introduzio-ne per ribadire come, perchi non conoscesse la Roma-nia, sia arduo esprimere giu-dizi, specie quando non siconosce la realtà che forma

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ROMANIA10 anni di Sighetu Marmatiei,

la nostra seconda casa…

Padre Massimo Nevola nella terza casa-famiglia del ProgettoQuadrifoglio.

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la materia del dibattere, si ignorano leproblematiche spesso analoghe a quellepresenti anche nelle nostre realtà, quel-le delle persone che abbiamo incontra-to a Sighet negli ultimi dieci anni, quel-le delle persone che vivono a Scampia,a Zena in Via del Campo, alla Kalzaecc.

PremesseCorreva l’anno 1997 quando padreMassimo Nevola decideva di abbando-nare i campi di lavoro in Albania difronte alle difficoltà evidenti di poteriniziare una collaborazione, un gemel-laggio che potesse essere fruttuoso eduraturo. Nel momento in cui Massimoandò dal padre provinciale per vagliaremete e soluzioni ove poter iniziare unnuovo gemellaggio che facesse seguitoall’Albania, la scelta di partenza cadde –per una serie di motivazioni pratiche

ma anche spirituali – sulla Romania,Paese distrutto dal regime assoluto diNiculae Cheausescu, in cui era possibi-le trovare un punto di appoggio in varierealtà tra cui Cluj Napoca, la stessa Bu-carest e Oradea. La scelta definitivacadde invece su Sighetu Marmatiei, pertutti noi “Sighet”, cittadina del Mara-mures, facente parte della Transilvania,vicina all’Ucraina e abitata da una po-polazione in prevalenza ungherese, es-sendo stata annessa alla Romania, co-me gran parte della Transilvania, soloal termine della seconda guerra mon-diale. Le ragioni di tale scelta, cometutti sanno, dipesero dalla figura di ElieWiesel, ebreo nato a Sighet, premio no-bel nel 1986 con il libro Die nacht (Lanotte), in cui descriveva da testimone ladeportazione degli ebrei nei campi diconcentramento. Il legame di padreMassimo Nevola con Wiesel, che mistoal suo intuito lo fecero optare per Si-ghet, si deve al conforto che lo stessoMassimo provò nel leggere proprio Lanotte, libro ricevuto in dono da un con-fratello in un momento particolarmen-te tragico della sua vita.

Primo Campo a Sighet, luglio 1998Il primo, mitico campo a Sighet era di-viso in due turni di due settimane cia-scuno: con più pulmini per lo più avutiin prestito dai vari collegi dei gesuitid’Italia, dopo il tradizionale appunta-mento a Villa Ara a Trieste1, ci si misein viaggio alla volta della Romania. Inun contesto stradale più infimo diquanto non sia oggi, pazientando ore atutte le frontiere, procedemmo lenticon profondo senso di curiosità. Il pri-mo turno raccoglieva, fra gli altri, pa-dre Massimo Nevola S.I., il neo-rettoredell’Istituto Sociale di Torino, padre Vi-tangelo Denora S.I., gli ex gesuiti Florin

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La scuola di inglese.

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Paulet e il maltese Simon, la miticaproff.ssa Adama, il prof. Lucio Pietran-toni e il gesuita Ugo Bianchi; il secondoun gruppo per lo più costituito da trie-stini, coordinati da Marco Toncelli. Ne-gli anni successivi, la massiccia presen-za di volontari è stata assicurata daigiovani studenti dei collegi dei gesuitisparsi per l’Italia. Giunti a Sighet, an-dammo nella casa delle suore benedet-tine guidate da suor Bianca ove, festan-te, ci attendeva la comunità greco-cat-tolica presieduta da padre Olisim.Ognuno di noi era avvicinato da un abi-tante locale, che ci chiedeva se avessi-mo voluto essere ospitati presso di lui.Le mansioni: i ragazzi prendevano par-te alla costruzione della chiesa greco-cattolica di Sighet, allora ancora soloun cumulo di mattoni, mentre le ragaz-ze svolgevano servizio di animazionepresso la citata struttura di suorBianca2. I primi giorni al cantiere pas-sarono tra lo sgomento dei locali, chepassando lungo la strada si fermavanoad osservare noi italiani giunti lontano

per spostare mattoni… Rimanevano alungo a guardarci, nessuno ci chiese didare una mano. Al sapere di italiani chelavoravano gratis, più comunità richie-sero a padre Nevola volontari per svol-gere i più svariati servizi: l’unica richie-sta accolta fu quella di alcune suore lo-cali, di stanza lungo la strada che con-duce all’attuale casa-famiglia Dragosvo-da. In quel luogo, invece che spostaremattoni spostammo piastrelle, offrendocomunque una testimonianza forte cul-minata con la messa tenuta sul pratodelle suore prima di ripartire.

CambiamentiDal punto di vista del servizio, dall’esta-te del ’99 le attività da noi svolte sonoandate via via incrementandosi, comin-ciando dal sorgere della scuola gratuitadi italiano e inglese3, continuando conl’ospizio degli anziani4, fino alla casadei bambini e alle varie case-famigliache sono sorte in breve tempo5. Perso-nalmente, devo dire che la Sighet del’98 è quella cui sono più legato e affe-

zionato: una città pri-va di illuminazionestradale, se non nellevie principali, constrade polverose chenon si sapeva doveconducessero, speciela sera rincasando,una realtà con i lei cheavevano ancora glizeri6, una realtà in cuila globalizzazione –che oggi anche e so-prattutto in Romaniatrova modo di espri-mersi con palese con-traddizione – ancoranon era arrivata. Certoil tornare in un deter-

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La piazza centrale di Sighet.

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minato posto più volte porta ad uncoinvolgimento sempre maggiore nellarealtà ospitante che, nel mio caso comein quello di tanti ragazzi che hannopreso parte ai campi, è oramai una se-conda casa, un centro di affetti, la resi-denza di una parte del cuore in cuitroppe volte, inconsapevolmente, ab-biamo riversato le nostre fragilità, de-bolezze e delusioni, figlie del nostro ba-gaglio di vita fino ad allora più arido emisero. Vero però è anche che, perso-nalmente, il fatto di essere tornato inquei luoghi più volte, fino al compren-dere la lingua nonché ad esprimermi inquella lingua porta, volta dopo volta,una sofferenza, una partecipazione alledisgrazie umane e un coinvolgimentosempre maggiore e più profondo. Hosempre notato come il fatto che chi, co-me me, ha cominciato a muoversi, svol-gendo in Romania attività di condivi-sione, di aiuto prima che di “volontaria-to” in senso stretto, ha sofferto meno ilcontraccolpo emotivo di chi invece si èaffacciato a tale esperienza in manierameno graduale e in età più matura.

CostantiI primi dieci anni della Lega Missiona-ria Studenti sono stati una fucina ine-sauribile di volontari che, dall’Italia tut-ta, si sono alternati nelle varie attività,amalgamandosi intorno a uno zoccoloduro7 di una trentina di persone chehanno dato continuità e certezza anchenelle annate più povere di risorse. Lecifre parlano di un migliaio di volontariche, sempre, hanno incarnato certi va-lori di sobrietà e condivisione, comin-ciando dal viaggio massacrante che liha condotti in Romania, continuandocon l’ospitalità nelle famiglie che, dan-do tutto quanto in loro possesso, rende-vano confortevole il soggiorno, fino alle

attività che, al di là delle competenzespecifiche, hanno visto mettere in cam-po una passione e una dedizione straor-dinarie, un amore verso i locali che tan-to vorrei urlare ai nostri connazionali, iquali tanto facilmente si lanciano ingiudizi e sentenze sui rumeni prive dicognizione di causa. Nel corso del tem-po si sono susseguite diverse location:dalle suore benedettina di suor Biancadove svolgevamo le messe e il serviziodi animazione nel ’98, si è passati allachiesa greco cattolica per poi “trasloca-re” presso la comunità latino unghere-se, che ancora ci ospita. Uno dei serviziche tutt’oggi riscuote maggiori consensiè certamente quello della menzionatascuola estiva di lingue che, d’estate, perla durata di un mese, vede l’insegna-mento gratuito della lingua inglese, diquella italiana e, in alcune annate, an-che di quella francese e spagnola. Nei

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Sighet, la chiesa cattolico-latina.

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primi tempi, padre Massimo Nevoladormiva con alcuni volontari in unastanza della scuola munita, per l’occa-sione, di alcune brande. I menzionatispostamenti presso le comunità religio-se di Sighet, vòlti a favorire e ribadireuna nostra integrazione e condivisionesempre più autentiche e crescenti, sonostati abbinati, fin dal nostro arrivo nelMaramures, a un rapporto di profondastima e amicizia con la comunità ebrai-ca nella persona dell’Ing. Markus, rab-bino della cominutà di Sighet, ridotta apochi eletti dopo la seconda guerramondiale e il dramma della Shoah.

ContinuitàSenza dubbio la nostraesperienza di servizio inRomania avrebbe rischiatodi esaurirsi prima del tem-po, come accade fisiologi-camente anche per questogenere di progetti ed espe-rienze, se la Provvidenzanon avesse tracciato pernoi quel sentiero che, se-guito con fiducia e traspor-to, ha condotto in pochianni alla costituzione ditre case-famiglia. Successeinfatti, come molti ricorde-ranno, che una sera di unlontano dicembre, padreVitangelo seguendo alcuniragazzi che erano in baliadel gelo e cercavano rifu-gio tra rifiuti e fognature,si rese conto che quei po-verini non avevano un po-sto dove dormire. Dopoaverli accolti e lavati, insie-me a padre Massimo deci-sero che, dopo aver vistoda vicino quella realtà, co-me Lega Missionaria Stu-

denti non potevamo restare a Sighetsenza lasciare un segno permanente,senza tentare di dare un tetto a quei ra-gazzini che infreddoliti cercavano perla strada e nei tombini un posto dovepassare la notte. Il desiderio si tradussenel desiderio di aprire una casa fami-glia, la prima delle tre attuali, la piùdifficile. Nel mentre, ad un paio d’annidi distanza dall’apertura della prima ca-sa famiglia, ecco giungerci la proposta,da parte dei Servizi Sociali Romeni, difarci carico di quattro fratellini di san-gue, drammaticamente rimasti senza igenitori. Stante l’impossibilità di annet-

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La sinagoga di Sighet.

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terli ai bimbi della prima casa-famiglia,eco manifestarsi ancora la Provvidenza,filo conduttore di questi anni: padreNevola fissa, con le poche rimanenzepresenti sul conto della Lms, una casain vendita nella stessa strada ove si tro-va la prima casa del “Progetto Qua-drifoglio”8. La casa-famiglia numerodue, un gioiello per tutti noi, un beneprezioso da custodire, come le altre delresto, ha rappresentato la passione de-gli ultimi anni del compianto padreBotta S.I., da poco scomparso, esempiodi fede nella sua lotta alla malattia chelo ha spinto, fino all’ultimo, a Sighet,dai suoi bambini.

Luca Capurro

Note

1 La figura di Gianni Spina, cui va il mioringraziamento per l’amicizia e la fraternitàin tutti questi anni, ha sin dall’inizio rap-presentato un sicuro punto di riferimentoper i volontari della Lega Missionaria Stu-denti che puntualmente si raccolgono aTrieste in attesa di partire per la Romania.2 La casa delle Suore Benedettine ha sempresvolto un’opera fondamentale nei confrontidella città di Sighet e dei suoi ragazzi. Inquegli anni operava anche suor Ausilia, co-lonna portante della casa, la quale contribuìa fondare con la stessa suor Bianca. 3 Uno dei ricordi che più mi pare significati-vo è quello di qualche estate fa: insegnavoinglese ai bambini romeni e nell’abitualepartita di calcio di fine campo fra italiani eromeni presso lo stadio comunale di Sighet(unico momento in cui si cerca di affrontar-si senza porgere l’altra guancia…), venneroa vedermi alcune bambine, che mi aspetta-rono all’uscita. Pensai fossero lì per salutarela mia partenza, il giorno successivo, vole-vano invece chiedermi il favore di prepararloro fotocopie di altre due settimane dicompiti di inglese… Proprio come in Italia!

4 Il Camin de batrani rappresenta per me,come per molti altri volontari, uno dei con-testi più drammatici e, al contempo, cui sia-mo maggiormente legati a Sighet. Ospizioin cui sono ospitati malati di vario genere(handicappati e malformati in seguito alleradiazioni di Chernobyl fra gli altri) mistiad anziani soli al mondo e a bambini. Negliultimi anni sono state apportate alcune lievimigliorie a una parte dell’edificio, in cui co-me Lms continuiamo ogni estate a prestareservizio.5 Infatti il primo diktat della Comunità Eu-ropea di fronte alla possibilità di annetterela Romania al suo interno, è stato quello dichiudere le case (lager) de copii sorte perraccogliere gli orfani figli del regime totali-tario di Ceausescu. Le case de copii, volgar-mente chiamate “orfanotrofi”, non erano al-tro che luoghi di raccolta di orfani, di etàcompresa tra 0 a 18 anni, e raccoglievano alloro interno, indistintamente, bambini sani,malati, epilettici, handicappati ecc. La solu-zione scelta per chiudere tali istituti è stataquella di aprire “case famiglia a tema”, cheraccogliessero bambini affetti da patologiesimili. Solo nella città di Sighet, fra gli altri,la Lms ha provveduto all’apertura di tre ca-se-famiglia per bambini “normali”, e unaOng inglese all’apertura di una casa perhandicappati6 Oggi i lei sono stati eliminati a causa dellacontinua svalutazione. All’epoca i negoziantiaccettavano ancora le monete e le bancono-te, oggi in disuso, come quella da 2.000 dicolor azzurro con raffigurata l’eclissi solare.7 Nel corso di questi anni con tante dellepersone con cui si sono condivise tanteesperienze, di gioia come di sofferenza, si èinstaurato un rapporto forte e sincero chenon manca di farci sentire vicini anchequando siamo lontani, che non manca di le-garci a prescindere da qualsiasi occupazioneo contesto faccia da cornice alle nostre vite.8 Il nome si deve all’ingente presenza diquadrifogli nel giardino antistante la primacasa famiglia, un segno ben augurante peril futuro.

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«V edi qual è il fatto, è che ioadesso ho 27 anni, e tu 20... e

Mugurel 2... e noi dobbiamo pensare alui almeno fino a che ne compirà 18,che se ti fai il calcolo sarà nel... 2026?Beh, io nel 2026 avrò 45 anni, e tu 38.E il mio problema, adesso e per iprossimi 18 anni, sarà la vita di Mu-gurel e dei suoi fratellini». Quando mel’ha detto, quel suo discorso così li-neare, non sapevo cosa rispondere.Tutto sembrava tornare, secondo cal-colo. Eppure non era strano, o scon-volgente, era solo che non ci avevomai pensato.L’estate era andata bene, e delle duesettimane di Sighet mi piace racconta-re solo un particolare. Ero al camin deBatrani, e la stanza delle vecchiette alpiano terra, nell’ala ancora non ri-strutturata, aveva come sempre il suoinconfondibile odore. Così mi avvici-no al letto di Ileana, che per giocochiamo Mami, e le chiedo: «Mami, co-me stai?» (in italiano). Mi guarda im-paurita, mi riconosce e mi sorride, epoi indica una fascetta che ho al brac-cio e mi fa cenno di spiegarle. “È losciopero, cioè gli infermieri sciopera-no, e io faccio finta di scioperare conloro». «Sciopero?», risponde lei, e co-mincia a ridere elegantemente. Poi, avoce bassa e con gesti d’intesa mi di-ce: «Hai mangiato?». «No, però quan-do torno a casa mangerò, e poi forsemi prendo un gelato prima di pranzo»rispondo io. «No! – replica Mami – vaiin cucina e apri il frigo, ci sono duebarattoli bianchi. Prendili!». Io, pen-sando di aver capito tutto, vado in«cucina» (quella stanza dove c’è scrit-

to «ufficio» e ci sono tante pentole) echiedo se Ileana avesse mangiato. Poiapro il frigo e vedo solo due barattolidi yogurt. Li porto a Mami e le dico:«Tieni Mami, buon appetito, vuoi ilcucchiaio?» Mi guarda desolata, mi facapire che io non capisco proprioniente di rumeno, e poi prova a rispie-garmi, più concentrata: «Sono per te eper Roberto, il micuto». Da quel gior-no Mami comprava da mangiare lamattina e il pomeriggio ci aspettavaper la merenda, perché altrimenti, so-steneva, avremmo mangiato poco. Noilo prendevamo come un momento di-vertente, lei è tutta una vita che aspet-ta figli e nipoti che ha, ma forse trop-po sazi per poter mangiare, ogni tan-to, con Mami.Non penso di essere capace di dise-gnare a parole le emozioni, le paure,le difficoltà e i piccoli particolari, lepersone e l’impronta che lasciano sul-la mia vita. Non penso di essere moltocapace a rielaborare i piccoli eventi, ecosì tutte le parole che avrei volutoscrivere il giorno dopo il campo, si so-no perse in questo mese. E forse basta solo un mese per farperdere quello che si è incontrati, oforse solo nasconderlo. Mi piace pensare però che il mio pro-blema, da qui fino a i prossimi 18 an-ni, sarà la vita di Mugurel e dei suoifratellini, sarà il mantenimento delletre case-famiglia, sarà capire come fa-re tutto questo, e intanto fare meren-da con Mami e il micuto.

Francesco Salustri

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Pensare, e ripensare, alle case-famiglia

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P alermo, settembre 2008. Per l’en-nesima volta riguardo emoziona-

ta le foto con gli infiniti sorrisi legatia incommensurabili momenti e uniti amille emozioni vissute in una terrasconosciuta, ben lontana e diversadalla nostra.2 agosto 2008: inizia il cammino versoSighet!Non sapevo cosa potermi aspettare dauna simile esperienza, non pensavo,ero vuota e sinceramente non mi sen-tivo del tutto pronta. Col passare deigiorni, però, ho ritrovato la voglia dipregare e stare in silenzio, affidando-mi a Dio,mettendomi a Sua disposi-zione e ascoltando la Sua voce nelprofondo del cuore. Sono stata asse-gnata al Camin dei Batrani, che è uncentro che accoglie anziani, autistici ehandicappati, piccole creature stranema al tempo stesso meravigliose, spe-ciali, uniche.All’inizio il panico più totale, poi lavoglia di servire, di incontrare la verasofferenza.Al Camin dei Batrani ho scrutato tantiocchi tristi, soli, occhi che viaggiava-no in un mondo inesistente, occhi cheriflettevano il nulla.Non dimenticherò mai quando in quelluogo si faceva l’una, l’ora del pranzo:gente a destra e a manca stava sedutae affamata mentre altri ancora stri-sciavano per terra in cerca di una se-dia per farsi imboccare.Era tutto grigio in quella stanza, nonc era il sole, non c’era speranza, c’era-

no solo ombre tristi accompagnatedalla cupezza della solitudine, straniodori e continui lamenti…Chi va in missione dona il cuore…questo fa!Non può cambiare il mondo, ma sonocerta che, come io non dimenticheròCornelio, Simona, Lola e la mia dolcenonnina, anche loro conserveranno infondo al cuore il mio sorriso.Non è stato necessario conoscere beneun’altra lingua per fare servizio: io hocomunicato maggiormente con carez-ze, abbracci, sguardi e sorrisi.Un giorno, una suora straordinariadisse: «Non cercate azioni spettacola-ri. Quel che conta è il dono di voi stes-si. Quel che conta è il grado di amoreche mettete in ogni gesto». Beh, è tut-to vero! C’è qualcuno in ogni parte delmondo che aspetta anche il tuo cuore.Ho conosciuto ragazzi provenienti datutta l’Italia, con i quali ho condivisola quotidianità fatta di preghiera, gio-chi, canti e risate. Da tutti loro ho im-parato qualcosa e li ringrazio tantissi-mo per questo. Ho pianto, ho riso, hoamato e ora dopo un mese mi ritrovoqui a scrivere con le lacrime agli oc-chi. Ringrazio per l’amore che ho rice-vuto, per la gioia che mi avete dato,per le emozioni che ho provato. Gra-zie Sighet!

Rita Schembri

In missione a Sighet: non si cambia il mondo,ma si dona il cuore

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LASCIATECI SOGNARERRiifflleessssiioonnii ssuull ppaarrttiirree ee ssuull rriittoorrnnaarree rraaccccoollttee iinn uunnaa lleetttteerraa ssccrriittttaa

aallllaa vviiggiilliiaa ddeell ccaammppoo iinn RRoommaanniiaa

Mi trovo a scrivere questa lettera poco prima di partire e avendo appena ricevuto lanotizia della difficile condizione climatica che la Romania sta attraversando in questo

momento, una notizia che non ha avuto rilevanza mediatica ed è passata inosservata ai più,ma che mi ha fatto riflettere ancora una volta sulle motivazioni che spingono un giovane a

partire per una vacanza controcorrente, all’insegna della solidarietà.Tutto cominciò un’estate della quarta liceo… una proposta… un cantiere della solidarietà in Bulgaria.

Sono partita con tante domande e incertezze, con la curiosità di conoscere una realtà diversa da quellache vivo tutti i giorni e, perché no, con un pizzico di incoscienza.Sono partita con il desiderio di fare tanto, per poi rendermi subito conto che quello che stavo facendoera davvero poco in confronto a quello che mi davano loro: i bambini con i loro sguardi e i loro sorrisi,gli anziani che nonostante tu non capisca nulla non vedono l’ora di parlarti.

A poco a poco, ha preso forma in me la scelta consapevole di dedicare una parte dell’estate, del miotempo libero, ai più piccoli, ai dimenticati, di “staccare la spina” dalla vita frenetica di tutti i giorni,potersi fermare e prendere del tempo per scoprire l’altro, per l’altro.

Questa scelta mi ha portato prima in Bulgaria e poi in Romania. Ormai, questa è la terza volta chetorno. Spesso mi interrogo sul significato di ritornare e mi rendo conto che non potrò farlo per sempre,

che la mia vita è qua, in Italia, ma allo stesso capisco anche che la Bulgaria e la Romania sono ormai unpezzo di me, della mia storia.Ritorni quando capisci che, anche se quello che tu fai è davvero poco, una goccia nel mare come direb-be qualcuno, vale la pena farlo. Ritorni perché ti porti dietro lo sguardo di un bambino, il suo sorriso, ilsuo pianto. Quel volto non te lo puoi dimenticare, te lo porti dentro e soprattutto sai che ti aspetta.Aspetta una tua carezza perché magari è la sola che riceve. Aspetta di giocare con te, o semplicementeche tu lo coccoli.In queste esperienze ho imparato tanto e ho conosciuto persone fantastiche, persone che vivono lonta-ne da me e con le quali condivido tanto.Perché in fondo quello che ti spinge a partire è un ideale, un ideale di giustizia che ti porta a non rasse-gnarti al mondo che c’è ma a sognare di cambiarlo, a sperare in un mondo davvero a misura di uomo...Il campo, il vero campo, inizia in realtà quando torni a casa. Sta a te riuscire a portare l’esperienza vis-

suta nella vita di tutti i giorni. E questa è la parte più difficile, perché ti porta a metterti in gioco, arimettere in discussione la tua vita, le tue scelte, a chiederti cosa è davvero importante, a non re-

stare indifferenti.Penso che un’esperienza del genere valga davvero la pena di viverla, perchè ti arricchisce dal

punto di vista umano, relazionale e spirituale, ma soprattutto perchè ti cambia. Ti aiuta a ri-scoprire il senso delle piccole cose, dei piccoli gesti, di un sorriso, di uno sguardo; ti aiuta a

dare un nuovo senso e un nuovo colore alla vita di tutti i giorni, a capire che nulla diquello che abbiamo è scontato e che quelli che a te sembrano grandi problemi in con-

fronto ai problemi, quelli veri, non sono nulla. Ti aiuta a riscoprire l’amore per la vi-ta laddove questa è calpestata e umiliata.

EElleennaa

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S embrava non aspettassero altro.Ieri mattina si sono svegliati al-l’alba e hanno atteso paziente-

mente l’arrivo dell’autobus seduti sullapanchina del parco alle porte della Fa-vorita. Settanta bambini rom, dai cin-que ai tredici anni, quasi tutti prove-nienti dalla ex-Jugoslavia, hanno accol-to con entusiasmo le attività della colo-nia estiva organizzata dalla Lega mis-sionaria studenti. In poco più di cinquegiorni i volontari dell’associazione han-no realizzato un semplice sogno, quellodi una giornata estiva divertente e al ri-paro dalle elevate temperature del cam-po nomadi. «La sfida principale – diceAndrea Affronti, uno dei volontari – èfarli socializzare fra loro. Al di là diogni diversità religiosa e culturale. Ap-pianare i litigi che possono sorgere afavore di un momento di gioia e condi-visione dedicato al gioco e allo svago dicui questi bambini hanno bisogno».Una maratona senza sosta dalle novedel mattino fino a ora di pranzo per poiriprendere il pomeriggio con uno spet-tacolo di magia direttamente al campo.«Non c’è più la scuola – dice Mirsad dinove anni – E io voglio andare mare, c’ètroppo caldo. Non mi porto niente tan-to devo giocare e fare il bagno con imiei emici. Ci vorrei andare più spesso,perché poi tutto finisce e io devo rico-minciare a studiare».

Accanto a lui Bajiram in trepidazione:«Quando si parte? – chiede – Sono sve-glio dalle sei di stamattina e gli altriancora perdono tempo». La prima sfi-da è radunare il gruppo per partire allavolta della spiaggia di Vergine Maria.Dal campo nomadi ai due autobusAmat messi a disposizione dal Comu-ne, l’appello dei partecipanti alla gita almare si ripete più e più volte al me-gafono. I bambini non sono interessatialle faccende burocratiche e chiedonoripetutamente: «Posso venire anche ioa mare, vero? Scrivi il mio nome perfavore. Ti prego». C’è spazio per tuttidopo l’autorizzazione dei genitori cheraccomandano ai volontari di non per-derli di vista un attimo.Asciugamanoin spalla, sacchetti di plastica con l’oc-corrente essenziale per il bagno. Brac-cioli, maschera e boccaglio, materassi-ni e parei che sventolano in aria. Oppu-re il costume già indosso che poi siasciugherà al sole. Qualcuno si farà ilbagno vestito di tutto punto perchénon ha con sé il costume. Sull’autobusscatole di succhi di frutta e merendineal cioccolato da mangiucchiare in atte-sa del pranzo che prevede panini farci-ti con tonno o tacchino, perché i bam-bini musulmani non mangiamo carnedi maiale.Gli autobus riescono a partire intornoalle 10,30 e dentro si scatena la festa.

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Il sogno della bimba rom:“Mi porto il mare a casa”

L’iniziativa della Lega Missionaria Studenti di Palermo: regalare una giornatadi svago e divertimento ai bambini di un campo nomadi

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Lungo il tragitto che attraversa Pallavi-cino, la Favorita e Valdesi, i bambini sidivertono molto come se fossero in unagrande giostra. Li accompagna il moti-vo delle canzoni intonate dai volontari.E Semlania urla: «Voglio andare aMondello. Perché non andiamo a Mon-dello? È più bello, il mare è più pulito,ci potremmo divertire di più!». Non èl’unica a manifestare questo desiderio,ma sbarcare con un gruppo di settantabambini negli spazi angusti della batti-gia mondelliana non è proprio una si-tuazione ideale, anche per ragioni di si-curezza. «A Vergine Maria – dice il volontarioAlessio Falina – c’è più spazio. Possiamoorganizzare dei giochi, ma principal-mente possiamo assecondare le loro ine-sauribili energie». Gli autobus si ferma-no dall’altra parte della strada, i bambiniscendono e iniziano una corsa a perdi-fiato fino alla sabbia. Subito in acquasenza troppi convenevoli. In aria volanoscarpe e vestiti che si raccoglieranno sol-tanto dopo. Schizzi, spintoni, grandibracciate e due passi in riva al mare.

In acqua con loroquindici volontariche hanno delimi-tano con una cor-da un perimetroabbastanza ampioin cui possono te-nerli d’occhio. Inriva al mare qual-cuno sogna ad oc-chi aperti. In ac-qua molti bambi-ni si muovono conagilità: «Ho impa-rato a nuotare inpiscina quandoero piccola – dicecon orgoglio Sil-

via di tredici anni – Adesso sono un pe-sce. Adoro il mare. E così divertente, sipossono fare molte cose e io non mi an-noio mai». Qualcuno invece non è ca-pace, ma si diverte lo stesso in riva almare: «Vengo per giocare con la sabbia– dice Burrac di cinque anni –non mifaccio il bagno perché non so nuotare.Ma non ho paura dell’acqua».«Mi piace qui – dice Salvena di dodicianni – mi sento bene. Sono più alle-gra. E penso al mio futuro. Da grandechissà potrei fare la modella». Per Fa-tima, invece, la spiaggia è il luogo mi-gliore per raccogliere qualcosa di mol-to prezioso per lei: «Questi pezzi divetro colorati – dice la bambina – so-no bellissimi. Hanno tanti colori e ioli raccolgo per la mia mamma. Lei limette in un vaso con l’acqua e sembradi vedere il mare». Nel fagotto che tie-ne stretto fra le mani ce ne sono giàabbastanza. Adesso si può tornare alcampo.

Fonte: http://palermo.repubblica.it,notizia del primo agosto 2008.

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I terremoti che si stanno verifican-do in questi giorni sui mercati fi-nanziari con la caduta di alcuni

dei principali attori del mercato inter-nazionale erano ampiamente prevedibi-li ed annunciati. Dopo i salvataggi inextremis di Bear Stearns, Fannie Mae eMerryl Lynch, il Tesoro americano hadeciso di non intervenire per salvareLehman Brothers un colosso un colos-so della finanza interna-zionale da 639 miliardi didollari. Si tratta di granlunga del più grande fal-limento della storia ame-ricana (Enron valeva soloun decimo della bancad’affari americana). Più volte abbiamo sottoli-neato con decisione lecause della crisi e le po-tenziali vie d’uscita, met-tendo anche in evidenzapurtroppo la mancanza di volontà diporre in atto le misure adatte ad usciredall’emergenza. È bene comprendere fi-no in fondo i suoi aspetti micro e le tan-te miserie che essa nasconde. La causascatenante è rappresentata dal pesosempre più importante nei bilanciaziendali della vendita di prodotti com-plessi come gli strumenti di finanza de-rivata, di cui solo decine di giovani tra-der al lavoro nelle maggiori banche in-ternazionali sono in grado di calcolare ilprezzo corretto attraverso sofisticati al-

goritmi. Neppure i manager delle ban-che di cui fanno parte sono in grado dicapire fino in fondo il funzionamento diquesti strumenti, ma i sistemi di bonusfondati sulla performance e sui profitti abreve portati a casa da tutti i dipendentidella struttura creano incentivi perversispingendo i giovani leoni ad una serie dicomportamenti fraudolenti. I prodottivenduti a clienti privati, imprese, ammi-

nistrazioni locali sono ap-parentemente gratuiti(addirittura prevedono inmolti casi pagamenti indirezione opposta, gli up-front) ma in realtà (moltospesso, ovviamente nonsempre) contengono giàun costo nei meccanismidi pricing che sono alte-rati. È come se si vendes-se un’azione che vale 100al prezzo di 110. L’acqui-

rente parte già con una perdita del 10percento, ma non lo sa. I prodotti sonovenduti con la motivazione nobile di co-prire i sottoscrittori da vari tipi di ri-schio, ma in realtà lo amplificano. Inve-ce di realizzare un hedging completo(ovvero un’assicurazione completa dalrischio anche se costosa), mettono iclienti dal lato sbagliato dell’operazione,costringendoli ad assicurare (a vendererischio) e non ad assicurarsi dallo stes-so. Con rimodulazioni successive delprodotto le scommesse (e i guadagni di

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MISSIONE E SOCIETÀ

Il campo dei miracoli

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chi vende) aumentano e il rischio si am-plifica.I sottoscrittori al momento della transa-zione firmano moduli di molte pagineche non leggono e nei quali c’è scrittoche sono degli operatori professionali.Questo mette le banche al sicuro daeventuali azioni di rivalsa dei clienti unavolta scoperti gli elementi nascosti del-l’operazione. Tutto nasce dunque da unaprofonda asimmetria informativa sfrut-tata da chi vende i derivati. Nessunamassaia comprerebbe una pera a centoeuro. Ma nel caso della finanza derivataquasi nessuno è in grado di capire cosasta comprando e quindi tantomeno dicomprendere se il prezzo è congruo.La prova di questi comportamenti è neifatti di questi giorni. Alcuni operatoridi derivati “pentiti” hanno deciso diaiutare i clienti danneggiati e si sonotrasformati in “sminatori”. Vanno con iclienti dalle banche a ricontrattare ami-chevolmente la posizione del loro assi-stito. Ricostruiscono la storia dei mi-spricing e delle rimodulazioni e propon-gono alla banca una transazione: il

cliente paga quello che avrebbe dovutoin caso di effettiva copertura assicurati-va e la banca la differenza tra questa ci-fra e quello che il cliente ha effettiva-mente pagato. Quasi tutte le banche ac-cettano.In che modo la furbizia a livello mi-croeconomico si trasforma in stoltezzaa livello aggregato, mettendo in crisi igrandi istituti? Le responsabilità quivanno al problema della leva e della ca-renza di regolamentazione.Nel primo caso il punto chiave è il rap-porto tra risorse proprie e risorse inve-stite. Mentre nel settore dei prestiti tra-dizionali alla clientela i criteri di regola-mentazione prudenziale limitano cor-rettamente il rischio che le banche pos-sono correre con il famoso 8 percento(rapporto tra patrimonio di vigilanza,ovvero risorse proprie e portafoglio deiprestiti aggiustati per il rischio) le ope-razioni sui derivati si svolgono preva-lentemente su mercati non regolamen-tati senza alcun tipo di controllo. Al mo-mento in cui è stata salvata dal falli-mento, la Bear Sterns registrava un rap-

porto di leva tra capitale proprioe investimenti sui mercati finan-ziari pari a 35. Il hedge fundCarlyle Capital Group, anch’essorecentemente fallito, era a 32.Per capire meglio possiamo pen-sare ad una partita di poker nellaquale è possibile acquistare dellefiche pagandole un ventesimo ri-spetto al loro valore nominale(che determina poi il reale am-montare dei profitti e delle per-dite dei giocatori). È intuibileche, con un effetto leva del gene-re, è assolutamente probabileche, alla fine del gioco, alcunidei partecipanti accumulino del-le perdite superiori alla loro ca-

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Sighet, Romania, luglio 2008. Il presidente della Lms, LeonardoBecchetti, in compagnia di padre Massimo Nevola e del semi-narista Enrico Russo.

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pacità patrimoniale divenendo per-tanto non solvibili e mettendo incrisi anche la capacità di riscuoterele vincite dei giocatori più abili opiù fortunati.Il paradosso è che Basilea II (l’ac-cordo con il quale si intende tene-re sotto controllo il rischio dellebanche) considera i prestiti nel so-ciale (includendo quelli ad esem-pio alle parrocchie) ad alto rischioe assegna un coefficiente di ponde-razione molto elevato, che equiva-le ad attribuire un rating BB- alprestito assimilandolo quasi ad unbond spazzatura. Allo stesso tempo leoperazioni veramente pericolose postein atto dalle banche (in parte anche peri problemi di complessità di valutazio-ne ed asimmetria informativa) passanoquasi inosservate. Per usare un’altra metafora è come se ilcodice stradale stabilisse che le ambu-lanze devono fermarsi a tutti i semafo-ri, mentre giovanotti diciottenni allaguida di macchine da corsa possono su-perare i 200 orari in città.A questi problemi si aggiunge la grandediffusione di un nuovo tipo di derivati(i credit default swap) con caratteristi-che di aleatorietà maggiori (difficoltà divalutazione del sottostante rappresen-tato dal merito di credito dell’insiemedei singoli clienti i cui debiti hannocontribuito alla costruzione del prodot-to strutturato).Il detonatore di questi ingredientiesplosivi sono i volumi aggregati diquesto mercato ormai fuori controllo.Mentre il Pil mondiale è di circa 56 tri-lioni di dollari, il valore nozionale deicredit derivative ha superato i 58 trilionidi dollari e quello complessivo del mer-cato dei derivati 1288 trilioni di dollari,24 volte il Pil mondiale.

L’istituzione più consapevole di quelloche sta succedendo, la Banca per i Re-golamenti Internazionali, rileva preoc-cupata nella relazione annuale del2007: «Posto che le grandi banche sia-no riuscite a distribuire in modo piùdiffuso i rischi insiti nei prestiti da loroconcessi, chi sono i soggetti che attual-mente detengono tali rischi, e quali so-no le loro capacità di gestirli? La veritàè che non lo sappiamo».Le soluzioni per questa crisi ci sono,ma la volontà di attuarle ancora non sivede all’orizzonte. Le elenchiamo rapi-damente. Primo, è necessario proibire a“clienti sensibili” come le amministra-zioni pubbliche di acquistare strumentiderivati. La regola è già in vigore datempo nel Regno Unito ed è stata adot-tata temporaneamente per un anno an-che in Italia. Va adottata a tempo inde-finito anche da noi. Non è possibile cheenti preposti a finalità sociali mettano arischio le proprie risorse giocando d’az-zardo, consapevolmente o inconsape-volmente. Secondo, le banche centrali,che sono intervenute per salvare granparte degli intermediari coinvolti, devo-no pretendere d’ora in poi la massimatrasparenza ed entrare in possesso ditutti i dettagli di queste operazioni. Ter-

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zo, la leva deve essere fortemente depo-tenziata e una “Basilea III” per la finan-za derivata deve fissare una regola si-mile a quella dell’8 percento, ma più se-vera per chi si espone al rischio di que-ste operazioni. Chi vuole giocare d’az-zardo lo faccia pure ma in condizionidi assoluta trasparenza verso i regolato-ri e i clienti e solo se ha i requisiti patri-moniali necessari per coprire le even-tuali perdite. Quarto, la Mifid non ba-sta ad assicurare i clienti che pongonoin essere queste operazioni. I regolatoridevono creare un albo di esperti indi-pendenti, di “sminatori” (esperti in pri-cing dei derivati) che possano affianca-re i clienti al momento dell’acquisto delprodotto per valutare la congruità delpricing e l’effettiva natura dello stru-mento (se il cliente vuole coprirsi dal ri-schio non deve essere messo nella posi-zione di chi vende il rischio, ovvero sevuole essere assicurato non deve diven-tare assicuratore).Queste soluzioni possono darci delle

buone garanzie per il futuro, ma non ri-solvono i problemi del presente. Ancoradobbiamo capire quali e quante perditei giocatori al tavolo hanno accumulato ecome è possibile un’operazione di clea-ring multilaterale che consenta di ripuli-re gran parte di esse e di ripartire. Il Te-soro americano non può salvare tutti efar fallire molte di queste aziende puòessere l’unica soluzione possibile.Alcune note di commento più generale.La crisi sancisce il fallimento di un mo-dello di eccessi che per anni era statopropagandato come il sistema all’avan-guardia mondiale. Quello che sta acca-dendo oggi non è soltanto il crac finan-ziario più importante dell’ultimo secolo,ma anche il fallimento epocale di unmodello economico, aziendale ed antro-pologico. Non c’è affatto da meravigliar-si di quanto raccontato sinora: sono ifrutti degeneri di quella stessa culturache spinge la madre di Britney Spears acercare fortuna pubblicando un libro dimemorie nel quale racconta i lati piùscabrosi della figlia famosa popstar.Da tempo come economisti denuncia-mo il riduzionismo di coloro che riten-gono che non possano esistere che im-prese che massimizzano il profitto e in-dividui che massimizzano il loro inte-resse individuale, il reddito e il loro li-vello di consumi, mettendo in rilievo itanti esempi di imprese sane che dannoil giusto valore al profitto ma non loconsiderano un assoluto o sono mosseda importanti valori sociali ed ideali.Da tempo evidenziamo come il riduzio-nismo economicista, con il suo sguardoavvilente, abbia costruito un modelloartificiale di persona che per gli psico-logi è un caso patologico, un pazienteda curare che elimina due componentiinsopprimibili dell’agire umano quali lapassione per l’altro e l’impegno morale.

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È arrivato il momento di affermare cheil paradigma del riduzionismo econo-micista va assolutamente capovolto. Lastoria dell’economia moderna, nellaquale gli strumenti per fare e farsi malesono sempre più potenti, è l’impresache assolutizza la performance a brevecreando tensioni su tutta la struttura,ponendosi traguardi di crescita degliutili del 30 40 percento, ad essere inso-stenibile. Insostenibile perché l’assolu-tizzazione di questo principio in uncontesto di asimmetrie informativespinge a generare quei comportamentidistruttivi che mettono a rischio la so-pravvivenza dell’azienda.Che dire del nostro paese ? Antiquato,arretrato con un sistema bancario spes-so deriso ma che in realtà ha saputoprendere il buono della nuova cultura(crescita dimensionale e giusta atten-zione all’efficienza) non esasperandonegli elementi distruttivi. Qualche tempofa l’elogio del Financial Times al siste-ma bancario italiano faceva capire cheil vento era mutato. Qualcosa nel san-gue dei nostri banchieri, pure lusingaticome tutti dalla modernità scintillantedei nuovi strumenti finanziari e del lo-ro uso spregiudicato, deve averli tratte-nuti dal cadere nella trappola. Ci siamosalvati perché abbiamo gli anticorpigiusti, quelli di una cultura solidarista,cooperativa (sia a destra che a sinistra),figlia delle radici cristiane, che ci hafatto storcere il naso con sospetto difronte alle manifestazioni più parados-sali e ridicole delle magnifiche sortiprogressive. Dobbiamo avere la consa-pevolezza che in questo momento ilmodello culturale siamo noi ed essereall’altezza della situazione. L’economianella quale l’impresa è innanzitutto unacomunità di persone, la banca è al ser-vizio dell’economia reale, il mercato è

luogo nel quale elementi di dono e digratuità affiancano quelli necessari delcontratto l’abbiamo inventata noi.La responsabilità sociale d’impresa, lagrande scoperta della cultura anglosas-sone che cerca di emendarsi compren-dendo i propri eccessi, riconoscendoche la dittatura degli azionisti rischia didanneggiare tutti gli altri portatori d’in-teresse, si riallaccia a un pensiero edun’opera già feconda in Italia ed in Eu-ropa che ha visto nascere molto tempofa il movimento cooperativo e modellidi imprese profit illuminate e ha pro-dotto personaggi come Olivetti.Dobbiamo riscoprire e valorizzare conforza queste origini, riattingere ai gran-di patrimoni non solo di pensiero, maanche di iniziative realizzate ed operan-ti. Le banche popolari ed i crediti coo-perativi, presenti in maniera capillaresul nostro territorio, devono riscoprirele ricchissime radici della loro ispirazio-ne. Pionieri come Banca Etica devonocontinuare ad essere elemento di fer-mento e laboratorio di innovazione perla creazione di valore economico social-mente ed ambientalmente sostenibile.Ai nostri amministratori pubblici chehanno messo a rischio i loro bilanci e lerisorse da destinare al benessere dellacollettività, comprando strumenti di fi-nanza derivata sbagliati, diciamo chebastava rifarsi ai frutti di quella culturae di quella saggezza antica e rileggereCollodi. Pinocchio, con quei denari chedoveva riportare a papà Geppetto, in-contra il gatto e la volpe che lo prendo-no in giro per la sua dabbenaggine efingono di sorprendersi per la sua igno-ranza: esiste il campo dei miracoli dovei soldi che vengono seminati si moltipli-cano. È la storia dei nostri giorni

Leonardo Becchetti

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