Sposati e Sii Sottomessa

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costanza miriano Sposati e sii sottomessa Pratica estrema per donne senza paura Nuova edizione aggiornata e arricchita

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«A distanza di tre anni, cos’è successo? Per alcuni è cambiato tutto - chi si è sposato, chi si è lasciato, chi ha fatto un altro figlio, anche altri due, a dire il vero, e solo perché in tre anni era un po’ difficile farne tre - per altri solo il senso, il modo di fare le vecchie cose, che poi è cambiare tutto anche quello»

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costanza miriano

Sposatie sii

sottomessaPratica estrema

per donne senza paura

Nuova edizione aggiornata e arricchita

Dopo parecchie ristampe e bagni di folla in tutto il Paese, Costanza Miriano rincara la dose e da arguta giornalista qual è va a verificare gli effetti dei suoi consigli alle amiche che le hanno ispirato questo libro. Affermare che l’uomo deve incarnare la guida, la regola, l’autorevolezza, mentre la donna deve uscire dalla logica dell’emancipazione e riabbracciare con gioia il ruolo dell’accoglienza e del servizio, era una provocazione. Lo è ancora di più constatare che il “metodo Miriano” funziona davvero.

Costanza Miriano è nata a Perugia e vive a Roma. È sposata, sottomessa - almeno così le piace dire - e ha quattro bambini. È cattolica, e dunque (quasi) sempre di buonumore, e giornalista al TG3. Con Sonzogno ha pubblicato anche Sposala e muori per lei. Uomini veri per donne senza paura (2012, sei edizioni).

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«A distanza di tre anni, cos’è successo? Per alcuni è cambiato tutto - chi si è sposato, chi si è lasciato, chi ha fatto un altro figlio, anche altri due, a dire il vero, e solo perché in tre anni era un po’ difficile farne tre - per altri solo il senso, il modo di fare le vecchie cose, che poi è cambiare tutto anche quello»

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costanza miriano

Sposatie sii

sottomessaPratica estrema

per donne senza paura

Nuova edizione aggiornata e arricchita

Dopo parecchie ristampe e bagni di folla in tutto il Paese, Costanza Miriano rincara la dose e da arguta giornalista qual è va a verificare gli effetti dei suoi consigli alle amiche che le hanno ispirato questo libro. Affermare che l’uomo deve incarnare la guida, la regola, l’autorevolezza, mentre la donna deve uscire dalla logica dell’emancipazione e riabbracciare con gioia il ruolo dell’accoglienza e del servizio, era una provocazione. Lo è ancora di più constatare che il “metodo Miriano” funziona davvero.

Costanza Miriano è nata a Perugia e vive a Roma. È sposata, sottomessa - almeno così le piace dire - e ha quattro bambini. È cattolica, e dunque (quasi) sempre di buonumore, e giornalista al TG3. Con Sonzogno ha pubblicato anche Sposala e muori per lei. Uomini veri per donne senza paura (2012, sei edizioni).

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Costanza Miriano

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Pratica estrema per donne senza paura

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© 2013 by Sonzogno di Marsilio Editori s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2013 ISBN 978-88-454-9864-0 www.sonzognoeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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Sposati e sii sottomessa reloaded

Quando ho scritto questo libro, tre anni fa, calcolavo che se la mia mamma ne avesse comprate da sola una ventina di copie (attingendo alle riserve del ben noto Fondo Iniziative Strambe dei Figli), invitando a fare al-trettanto zie, professoresse delle medie e vecchi istruttori di atletica – e io avessi fatto lo stesso con le mie amiche –, avremmo potuto dare un’impennata alle vendite, e sfio-rare le due, trecento copie come se niente fosse.

Mai avrei pensato che decine di migliaia di persone lo avrebbero letto: indipendentemente da me, e per me anche un po’ inspiegabilmente, è infatti cominciato un passaparola sommesso, che è continuato costante, anzi si è ingrossato fino a formare un piccolo fiume. Donne (e uomini, credo) hanno comprato Sposati e sii sotto-messa e lo hanno regalato alle amiche, alle conoscenti, e forse persino alle passanti: ho ricevuto foto di lettrici con dodici copie tra le mani, da comminare a incolpevo-li conoscenti in odore di matrimonio, o anche no («Lo regalo alla vicina, magari sposa quello del piano di so-pra che poi così la smette di tenere la musica alta la sera: mi fa una dedica?» «Ma si conoscono?» «No.»). Mi han-no detto che avvocati matrimonialisti lo danno ai loro clienti sull’orlo del divorzio, qualche gastroenterologo lo prescrive ai pazienti dal colon irritabile, come terapia,

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e poi, va be’, sacerdoti lo propongono come testo ai cor-si prematrimoniali. Quello è già un po’ più normale, an-che se, come dicevo, non me lo spiego del tutto.

Diverse persone mi hanno addirittura scritto – è un peccato, erano quasi tutte email: ho letto, risposto e cesti-nato, e quando lo racconterò alla mia vicina di sedia all’ospizio non ci crederà, sicuro – per dirmi che la loro vita è cambiata decisamente dopo avere letto Sposati e sii sottomessa.

Devo ricordarmi di mettere da parte almeno la lette-ra della signora a cui un mio amico ha imposto il libro che avete per le mani, appena fuori dallo studio dell’av-vocato a cui lei aveva portato le carte per iniziare la sepa-razione. Le ha chiesto di leggere, e di provare, almeno, a vivere per un po’ quella pratica estrema per donne senza paura. Posso immaginare l’entusiasmo che le abbia su-scitato la parola “sottomissione” in un simile frangente, ma lei, non so perché, ha detto sì; solo, ha dato al mio amico un mese di tempo, non più di trenta giorni per vedere se la ricetta di questa pazza qui (che sarei io) avrebbe funzionato. Poi avrebbe tirato dritto per la sua strada, obiettivo divorzio. Non c’era molto da perdere.

Un mese dopo la signora mi ha scritto, dicendomi che il suo matrimonio era incredibilmente rifiorito, non si sa come, visto quanto erano rinsecchiti i suoi rami. Dall’avvocato è tornata solo per riprendersi tutti i docu-menti, poi a casa è cominciato un nuovo matrimonio. La cosa bella è che era con lo stesso marito.

Di lettere, telefonate, incontri come questi potrei rac-contare davvero a lungo, ma non temete, voi che avete illuminato per me gli angoli più intimi della vostra vita: non svelerò niente a nessuno. Non tanto perché io sia riservata, quanto perché dimentico. Non le vicende per-sonali, ma dimentico nomi e dati, li rimuovo nel giro di secondi: ho la memoria ingombra di personaggi di fu-

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metti, medicine per il naso, confidenze di figli dalla pri-ma elementare alla terza media (io, per dire, so chi ha fatto vedere le mutande a Giorgio dall’altalena), e non potrei mai immagazzinare ulteriori informazioni, a me-no che non mi siano indispensabili alla sopravvivenza, come per esempio dove è parcheggiata la macchina (quando alla fine la ritrovo ho sempre un attimo di esi-tazione: è lei o un cassonetto? È lei, perché i rifiuti sono chiusi a chiave dentro. E ha i tergicristalli).

È per questo – perché ho dimenticato tutti i dati sen-sibili – che non vi tradirò. Però, a distanza di tre anni, vorrei almeno raccontare come sono andate a finire le storie dei destinatari delle lettere che compongono il li-bro: per alcuni è cambiato tutto – chi si è sposato, chi si è lasciato, chi ha fatto un altro figlio, anche altri due, a dire il vero, e solo perché in tre anni era un po’ difficile farne tre –, per altri solo il senso, il modo di fare le vec-chie cose, che poi è cambiare tutto anche quello. In que-sta nuova edizione troverete dunque gli ultimi svilup-pi, e qualche piccola predichella in omaggio (quella non si nega mai a nessuno), alla fine dei capitoli. Spero che i miei amici, amiche soprattutto, mi perdonino se li tiro ancora in ballo, anche se non sempre sanno di essere loro quelli finiti nel mio libro (ma io comunque ho deciso di negare sempre, negare contro ogni evi-denza; in questo caso mi approprio della tattica ma-schile per eccellenza). Che poi anch’io scrivendo mi sono chiesta: non è che per caso, eventualmente, acci-dentalmente qualcuno dei consigli che ho dato ha fun-zionato davvero?

A dire la verità, parrebbe che qualche volta sì, che ab-biano funzionato, ma non certo per una mia presunta capacità di discernimento, né per una alchimia magica da azzeccare: è che se una donna decide di essere acco-gliente, di stare lealmente dalla parte di suo marito, di

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avere un pregiudizio positivo nei suoi confronti, guar-dandolo con gli occhi di chi vuole vedere il buono, l’uo-mo non le resiste, si trasforma. D’altra parte amare è proprio svelare all’altro la sua bellezza vera, che a volte lui non sa vedere da solo.

Se la donna rinuncia alla sua tentazione – il control-lo – l’uomo abbandona la sua, di tentazione, l’egoismo. Lei smette di volerlo cambiare e lui, miracolo, si decide ad abbandonare la caverna – schermo del computer, moto, pesca a traino, visita a una mostra di sturalavandi-ni, ogni via di fuga è buona – nella quale si rifugiava per sfuggire al temibile tentativo di miglioramento da parte della consorte. Per un uomo non c’è niente di più minac-cioso, opprimente, soffocante di una donna che “lo dice per il suo bene”. Noi siamo convinte di avere ricevuto la missione di apportare alcune semplici migliorie all’e-semplare maschile che abbiamo ricevuto in dotazione, loro sentono il fastidio al collo per questo guinzaglio col quale vengono portati dove non avevano deciso, e han-no così una bella scusa per continuare a essere egoisti.

Sento nelle orecchie, distintamente, l’obiezione. Per-ché prima la donna? Perché tocca sempre prima a noi questa fatica di lavorare su noi stesse, di fare spazio, di mordere la lingua quando la critica sale spontanea?

Non lo so. Chiedetelo a Dio, se avete contatti. È lui che «ha affidato l’umanità alla donna», come scriveva Gio-vanni Paolo II. Alla donna è chiesto di fare il primo pez-zetto di strada, di dire il primo sì. Così è nella maternità biologica, come ogni volta che qualcosa nasce: un ma-trimonio, una famiglia, un amore. Così è quando un bambino viene al mondo: non è che la madre sia più del padre. A lei però sta il compito di accudire la vita quando è debole. A lei tocca questo esercizio – che non è forma-le ma profondissimo – di tacitare le sue pretese, o attese anche legittime, permettendo che l’altro sia come è.

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All’uomo spetta un’altra parte del lavoro, non mino-re, solo diversa. Per esempio, quando il piccolo dovrà diventare uomo, o donna, non gli sarà possibile farlo senza il padre che, custodendo la casa, lo spinga a la-sciarla (io di certo tenterò di oppormi, inseguirò la prole col golfino e la Tachipirina e il gettone per chiamarmi: lo so, le cabine non ci sono più, ma che ne sai tu in caso di disastro nucleare). Allora all’uomo tocca il lavoro gros-so, quello che poi ha sempre fatto (lo ha fatto?) mante-nendo salda la barra della vita familiare. Gli uomini so-no chiamati a plasmare il mondo, ma sono le donne a dargli il timbro interiore, il profumo, il colore. Da loro dipende il livello spirituale di una casa, di un gruppo, di un’epoca.

E se un uomo non fa la sua parte? Se è egoista, di-stratto, assente? Be’, la donna ha l’istinto di tenere acce-sa la luce, di non perdere lo sguardo di speranza su di lui. Perché sottomissione è solo un altro modo di dire “mi fido di te”. Non c’entra niente con la sopportazione né con la rassegnazione. Non significa rinunciare a dire le cose, a esprimere desideri e bisogni, a correggere quan-do serve. C’entra, invece, con il permettere che l’altro sia. Non è schiavitù, ma la massima forma di libertà. Una donna che non vuole cambiare l’uomo, ha sì biso-gno di lui, ma non ne dipende come chi sta per affogare e si aggrappa alla ciambella.

Questo fare a meno di rivendicazioni e rancori è pos-sibile solo ricordando che uomo e donna sono due po-vertà che si donano l’una all’altro, e che i diritti, giusti, legittimi, non si rivendicano gridando né scendendo in piazza: le piazze non cambiano in profondità i cuori.

Eppure, non vorrei osare troppo, ma, dopo avere ascoltato tantissime donne, ogni tanto mi viene il so-spetto che si possa parlare della nascita di un nuovo fem-minismo, opposto a quello che ha fregato le donne di

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intere generazioni. Certo, dovremmo trovare un’altra parola, però, perché femminismo ormai per me è irre-cuperabile a un valore positivo: qualcosa come ma-schioefemminismo, che rimandi al mistero della diffe-renza tra i sessi come possibilità di attingere al mistero di Dio. Perché in modo simile a Lui, che è una dinami-ca di amore fra tre persone, noi ci definiamo solo in relazione.

Comunque, qualsiasi sia il nome che gli si voglia da-re, c’è qualcosa di nuovo in giro. C’è una schiera di don-ne che ha ricevuto la libertà in eredità sin dalla nascita, donne risolte e pacificate, che non deve rivendicare nul-la, che non grida in piazza (e a volte non sa neanche molto delle battaglie grazie alle quali può studiare, vo-tare, lavorare: sono cose che dà per acquisite), e che an-zi desidera fare spazio nella propria vita, che sa mettersi in relazione e metterci gli altri, mediando, smussando, accogliendo. Una schiera di donne che non si preoccupa tanto, direi per niente, delle quote rosa, di strappare un posto in un consiglio di amministrazione. Sono tantissi-me, sono quelle che incontro tutti i giorni davanti alle scuole dei miei figli, sono quelle che mi scrivono, che non trovano cittadinanza sui giornali. Sono quelle che non hanno bisogno di gridare, proprio perché sanno di non essere uguali all’uomo, né vogliono esserlo. Sono quelle che a volte amano anche il proprio lavoro, ma a un certo punto, alle cinque del pomeriggio di un giorno di sole, guardano fuori dalla finestra dell’ufficio e capi-scono che preferirebbero essere a casa a preparare la merenda ai loro bambini. E magari per alcune è persino difficile ammetterlo, perché loro invece sono cresciute con l’imperativo di realizzarsi, trovare se stesse, dedi-carsi del tempo, e i bambini non li hanno neanche fatti.

Anche se ogni tanto vorrei sentirmi una scrittrice, so bene che non è per la mia prosa che tante persone hanno

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sentito l’urgenza di invitare gli amici a comprare questo libro (io veramente la musa della letteratura l’avrei an-che cercata, ma si vede che era in ferie; d’altra parte non ho «una stanza tutta per me», come raccomanda Virgi-na Woolf a ogni donna che voglia scrivere, ma solo un tavolino a cui mi siedo di notte, di giorno ingombro di fumetti di Calvin e Hobbes, cani di plastica e diari se-greti di peluche rosa con lucchetti). Insomma, niente stanza, niente musa, ma evidentemente per una fortuita serie di eventi mi sono trovata a dare voce a tutte queste donne che non hanno paura di perdere terreno se fanno spazio a un uomo, che lo scelgono per sempre, così com’è, senza volerlo rendere più simile a sé, anzi, lo vo-gliono proprio perché irreparabilmente diverso (capace, per esempio, di leggere la storia dipanando fili misterio-si di complotti sovranazionali, ma disabile alla memo-rizzazione di vicende esistenzial-sentimentali che non riguardino fondi monetari o mercati energetici, ma solo cugine di secondo grado della moglie. «Caro, sai quello che ti ho detto ieri di Elisabetta?» «Elisabetta chi?»).

Ci sono donne che si sono lette tra queste pagine, fi-nalmente rappresentate; che vogliono essere accoglienti e prendersi cura, e non perché plagiate da secoli e millen-ni di cultura maschilista, ma perché è scritto dentro di noi, e perché quando riusciamo a farlo siamo felici.

Quanto a me, dopo tre anni, il cambiamento più evi-dente nella mia, di vita, è che se di notte (spesso sono alzata a scrivere) incrocio un figlio per il corridoio il di-sgraziato mi abbraccia esclamando «No, non ci posso credere, Costanza Miriano!!!» e mi chiede un autografo. Più sono conciata male – è tutta colpa della mia vesta-glia stile socialismo reale, eppure si sa che non posso digitare neppure una parola senza indossarla, credo che non mi si accenda neanche il computer – e più i miei

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figli si divertono a fingere di essere miei ammiratori. Hanno visto varie persone chiedermi una firma, e trova-no inspiegabile che qualcuno possa davvero trovare de-siderabile conoscere quella vecchia signora che prepara loro i pasti, balla piuttosto male, ride e bacia senza mo-tivo e per il resto non ha nessuna qualità al di sopra della media, se non quella, straordinaria, di impedire il funzionamento di tutti gli oggetti tecnologici al solo av-vicinarvisi (mica come il babbo, quello sì che aggiusta le cose). Io comunque rispondo «Mi dispiace, parli con il mio agente» e lo rispedisco a letto.

A parte dunque il fatto che in casa tutto è rimasto uguale, e casomai il mio già precario prestigio ha subito i colpi dell’ironia filiale, fuori di casa un piccolo ciclone mi ha travolta. Ho ricevuto centinaia di richieste di in-terviste, di presenze in trasmissioni (da ogni truccatrice ho imparato qualcosa, prima o poi dovrò scrivere un libro sulla colla per le sopracciglia e i correttori color arancio, magari quando avrò capito perché per gli smokey eyes serva un pennello così ciccione), di inviti ad andare a parlare in giro: in teatri riempiti da ottocento persone piene di entusiasmo esagerato, in parrocchie, audito-rium, piazze (ma anche in qualche sala con una trentina di ascoltatori, contando la pianta di ficus, qualcuno ap-pisolato). Non potendo collocare, se non altro per moti-vi di immagine, i miei figli in orfanotrofio, ho dovuto dire moltissimi no, rispetto ai sì, e a dire la verità a volte ho scelto anche un po’ a caso, magari solo per liberarmi dell’insistenza di chi mi invitava (d’altra parte lo stile vedova importuna è raccomandato dal Vangelo). Sono partita a orari impervi per mancare da casa il minimo indispensabile, con il mio kit da viaggiatrice in borsa – panino con la bresaola, Pocket Coffee, banana spiac-cicata – e sono tornata dopo tre ore di sonno, ripartendo all’alba per fiondarmi in redazione la mattina seguente,

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carica di affetto, allegria, a volte di regali, a volte di nuo-vi amici in carne e ossa, che stanno diventando parte della mia vita vera (quelli virtuali e basta non contano).

Anzi, forse l’unico neo in tutta questa storia è che ci sono in giro, ho scoperto, troppe persone che vorrei co-me amici per la pelle. Purtroppo le amicizie richiedono tempo ed energie, beni di lusso estremo per una quadri-mamma bilavoratrice, e quindi punto a individuare una casa di riposo nella quale ritrovare qualcuno di questi nuovi amici fra una trentina d’anni, per giocare a tom-bola e discutere di mele cotte e orari di visita.

Insomma, conoscere troppe persone eccezionali con cui si desidera essere amici, scoprire che il mondo è così bello che non si avrà mai tempo di goderselo tutto, be’, non mi sembra un grosso problema, e se togliamo il fa-stidio di rispondere a false richieste di autografo da figli prematuramente sarcastici, direi che il bilancio per me è completamente positivo. Se oltre a questo ho dato una mano a qualche donna a (ri)scoprire la sua profonda bellezza, non posso sognare di più (a parte eliminare la ritenzione idrica con cioccolata e salame... con le bacche di ginepro ci riescono tutte).

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«Costanza, dimmi ancora una volta perché mi do-vrei sposare. E fra soli quindici giorni.» Serve l’aurico-lare. Sistemare la lattina nel suo cassettino, benedette le macchine americane. Sputare i semi del mandarino (marito, prometto che un giorno porto una busta e pu-lisco tutto, anche le carte di Pocket Coffee). Trasformare questo letamaio, la mia macchina, il ricovero di una dis-soluta che pranza ai semafori del lungotevere, renderla un salottino appropriato in pochi secondi. La Oprah Winfrey dei poveri.

Perché il bello dell’amicizia non è tanto avere accan-to qualcuna che abbia il coraggio di dirti in faccia che i colpi di sole di quella sfumatura nespola putrefatta non valorizzano il tuo nuovo caschetto; qualcuna che si sforzerà, sinceramente, di trovare una buona ragione per cui tu debba comprarti la nona collana di jais, per-ché con quel nodo proprio ti risolve il guardaroba, co-me no; qualcuna che ti dica che meravigliosa scelta or-ganizzativa hai fatto e gestito benissimo, e come era imprevedibile che i quattordici amichetti dei figli che avevi a casa ti sfuggissero un po’ di mano e sventrasse-ro a pallonate le uniche due piante di rose che erano riuscite a fiorire.

No, dal mio punto di vista, avere amici è necessario

Da che pulpito

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principalmente perché mi permette di distribuire consi-gli, attività massimamente gratificante.

Il fatto è che gli amici, le amiche più precisamente, mi hanno tra i piedi per un periodo di tempo limitato, e quindi sono in grado di tollerare un più alto tasso di molestie da parte mia.

Invece i figli, ai quali sto incollata come una cozza, alle mie predichelle inseriscono la modalità audio “off”, e mi guardano fissando credo un mio orecchino su un lobo a scelta, mentre pensano alla stupefacente avven-tura degli X-Men che potranno finalmente finire di leg-gere quando io avrò terminato di illustrare loro i benefi-ci di uno studio metodico e accurato.

Quanto a mio marito, lui è un uomo intelligente, e ha imparato da subito a rispondermi «Aha» oppure «Ma davvero?», o anche «Ma sì lo penso anch’io» e «Certo» quasi sempre a tono, ciò che gli permette di simulare conversazioni con me con il minimo sforzo. Se ho il dubbio che non mi stia ascoltando e per fare una prova gli dico «Caro, sono di nuovo incinta», però, lui emette un suono strozzato, e questo significa che, non so come, l’estremità superficiale di quello che dico gli arriva.

Invece le amiche sembrano ascoltare i miei pareri, e addirittura talora prenderli in considerazione. Più per affetto che perché io, con la mia finezza psicologica da centravanti di sfondamento, abbia grandi probabilità di dire la cosa giusta. Per quanto, per un mero fatto stati-stico –  siamo onesti – capiti anche a me, a volte, di prenderci.

Di solito comunque la mia risposta a qualsiasi pro-blema è una a scelta tra le seguenti: ha ragione lui; spo-salo; fate un figlio; obbediscigli; fate un altro figlio; tra-sferisciti nella sua città; perdonalo; cerca di capirlo e, infine, fate un figlio. Per questo le amiche che non vo-gliono sentirsi dire queste cose, perché io so essere de-

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licata come una betoniera se mi impegno, scompaiono dagli schermi radar: io però sono acuta e di solito, dopo avere inviato tredici mail a vuoto e ricevuto quattro sms freddissimi, capisco.

Quelle che la pensano come me, invece, o che nono-stante tutto mi vogliono bene, continuano a telefonare. E quelle sì che danno soddisfazione.

Il motivo della necessità di tanti “Scusa un attimo, saluto la mia amica e arrivo”, marito mio, è che, come ho detto, dare consigli è meraviglioso. Inoltre non c’è altro modo per fingere di avere qualcosa da fare quando due figli si stanno percuotendo, con l’apposita borraccia da bicicletta, per la testa di un omino Lego grande mez-zo centimetro, che però ha dei baffi di cui nessuno dei due può fare a meno, mentre due figlie hanno rovescia-to una scatola da duecentocinquanta grammi di pastina “puntine 5 mm” per terra.

Ma, più di ogni altra cosa, le amiche servono perché noi donne non abbiamo, come invece è stato per tante generazioni precedenti, una strada segnata davanti a noi.

A volte ci serve ragionare insieme a voce alta, chiarir-ci le idee sulla nostra vita, sulle identità, sulle scelte pos-sibili, che sono tante, come mai prima di questi anni. È per questo che ci dobbiamo telefonare. In questo mo-mento, come mai prima d’ora, è necessario, indispensa-bile, devolvere cifre stratosferiche alle compagnie tele-foniche (la locuzione “Passo un attimo da te”, almeno a Roma, è un ossimoro).

Le nostre vite sono fatte di equilibri personali, così personali che a volte ci si sente sole. Bisogna trovare uno stile di coppia, quando non ce n’è più, da tempo, uno comune e condiviso (ho assistito a estenuanti discussioni di coppia sul menu settimanale, e ho rimpianto in modo lancinante i tempi in cui i mariti si materializzavano solo

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a ore pasti chiedendo «Che si mangia?»: meno condivi-sione, forse, ma molte meno complicazioni); bisogna trovare un posto per il lavoro e per la famiglia, per la coppia e magari, eventualmente, ipoteticamente, se avanza qualcosa, anche per noi stesse.

Invece, per dire la verità, nessuna donna in carne e ossa che conosco ha mai avuto problemi simili a quelli di cui con tanto zelo si occupano certe femministe e molti giornali. Tutti i proclami sul corpo delle donne, usate solo per la loro bellezza, sulle crudeli regole del successo e della società dell’immagine che ci vuole sem-pre giovani e ci costringe, poverette, alla chirurgia este-tica, sul bisogno di riconquistare la nostra autonomia, a noi – quando siamo in fila al supermercato e piove e stanno per finire contemporaneamente il calcio e la le-zione di catechismo e una figlia dorme e l’altra deve an-dare in bagno – ci turbano pochissimo.

Forse ho fatto un’accurata selezione di donne fuori dalla media, da ammettere nella mia cerchia.

Non ce n’è nessuna che senta la sua autonomia se-riamente messa in discussione da qualcuno.

Nessuna che quando comincia una relazione si senta davvero concretamente oppressa o almeno interpellata dalla posizione del Santo Padre sul tema, nessuna che si ponga nemmeno il problema, nessuna la cui libertà nel gestire la fertilità sia mai stata concretamente soffocata da qualche pronunciamento della “Chiesa dei no”, che ogni volta invece tutti i giornali apriti cielo. Perché par-lare male della Chiesa è come il nero: va bene su tutto e non passa mai di moda.

Nessuna delle mie amiche è turbata perché le han-no impedito di abortire nel conforto di casa, moltissime perché invece un bambino non arriva: per l’età, per un compagno fifone, per una vita troppo complicata per prevederlo. Ne conosco molte turbate dai contratti a

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termine a ripetizione, dall’instabilità che rende più diffi-cile fare progetti definitivi.

Siamo turbate, e molto, dall’ostilità che il mondo del lavoro ha nei confronti dei figli, che solo se li metti in orfanotrofio puoi aspirare a essere quasi sullo stesso piano delle colleghe che ne sono sprovviste, ma non li devi nominare troppo in ufficio. Magari una foto in fon-do al secondo cassetto, sotto una copia di «Vanity Fair», che quello è ammesso. Noi donne normali ci turbiamo quando qualche figlio ha la febbre a trentanove nella settimana in cui i nonni sono in vacanza – è un’eviden-za scientifica, succede ogni volta – e la tata non viene (ha lo stesso virus del figlio), e gli impegni del padre non si possono spostare. Allora una madre che sta a ca-sa col bambino e non si dà malata, per non dire una bugia (cosa che non si fa, ne sono certa almeno dal pri-mo anno di catechismo), si vede: a) decurtato lo stipen-dio, e qui ci possiamo anche stare; b) tolti i contributi e i giorni di anzianità; c) richiesta una dichiarazione di no-torietà – ma che è? – da fare davanti a un funzionario comunale, per andare dal quale sarà necessario un gior-no di ferie. Sempre perché i figli sono un bene di tutta la società. Questo ci turba.

Ci turbano i film per bambini che traboccano di doppi sensi e strizzano l’occhio ai grandi, e purtroppo ci impe-discono di dire tutte le volte che vorremmo «Tesoro, vat-ti a vedere un po’ di televisione». Perché va bene adope-rare bassi mezzucci per riposarsi un po’, ma la Madre Decente che è dentro di noi purtroppo vigila sempre.

È lei, la Madre Decente, che ci costringe, per esem-pio, a modulare una voce flautata nel dire «Tesoro mio, forse è meglio che non ti tuffi di testa dal letto a castello, indossando il mio unico vestito da sera presentabile a mo’ di mantello di Batman». Perché noi siamo calme e padrone della situazione, e questa volta non urleremo.

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Ed è sempre lei, la Madre Decente che dovrei essere, che mi costringe a sfoggiare un sorriso sciropposo quando mi alzo dopo avere fatto la notte al lavoro e, con quattro ore di sonno alle spalle, devo dirimere un litigio rimasto in sospeso la sera prima, mentre vorrei dedicare tutte le mie energie a ricordarmi quale delle due lenti a contatto vada a destra, che se non sbaglio sarebbe dalla parte della mano con cui scrivo (di prima mattina certe competenze non andrebbero richieste, in un paese civile).

Questi sono i nostri problemi quotidiani, non il sof-fitto di cristallo, quella barriera – secondo le femmini-ste  – trasparente ma invalicabile, che ci impedisce di sederci su quella altissima poltrona.

Ora ci sono nuovi stili di coppia da definire, adesso che i ruoli, prima assegnati dall’inizio, si ridiscutono in continuazione, che neanche il contratto nazionale dei metalmeccanici, quello almeno due anni resiste.

Ora le famiglie sono instabili. Ora la fertilità è diventata dominabile, e questo ha

avuto effetti enormi e forti e ancora inesplorati sulle vite delle donne, che se vogliono possono decidere anche questo: quando e quante volte dare la vita. Salvo impre-visti, perché la natura non si fa manipolare gratis.

Ora le donne hanno molte più scelte davanti a sé, quasi sempre lavorano e quindi la divisione dei compiti e delle identità è liquida, per usare una parola di gran moda.

Così, finiamo per ragionare su questi temi, cercando un terreno comune.

Si fa con le amiche, si fa anche con le conoscenti, vi-sto che a noi basta un incontro di un’ora a una festina per bambini per mettere in comune l’intimità, tra piz-zette spiaccicate e fiumi di succo di pera.

In comune, anche quando ne parliamo tra aperitivi,

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formaggi e marmellata piccante, senza Zecchino d’Oro in sottofondo, ci sono le stesse domande.

E secondo me in comune ci sarebbero anche le rispo-ste, solo che, non so perché, abbiamo fretta di dimenti-carcene.

E quando ci snaturiamo diventiamo infelici, inquiete. Vinciamo tutti i giorni al Superenalotto: viviamo nel

tempo e nella parte giusta del mondo, quella privilegia-ta dove possiamo leggere quello che ci pare, libri e In-ternet sono a disposizione; andare a fare una corsa sen-za paura che ci sparino; entrare in una chiesa e accende-re una candela davanti a un Pinturicchio perché non viviamo in luoghi dove l’opera più antica è del 1902, né in altri dove ci tagliano la gola perché abbiamo in casa una Bibbia; mangiare più o meno quello che ci va, e ba-sta un genitore, neanche tanto in là con gli anni, a ricor-darci i tempi in cui si bramava un cucchiaino di zucche-ro, quando il salame si strusciava un po’ sul pane e poi si conservava per un’altra volta, lasciava solo un po’ di profumo.

Per questi e molti altri motivi dovremmo saltare di gioia da quando mettiamo i piedi in terra la mattina. Se non lo facciamo è perché c’è un profondo, misterioso desiderio in noi mai saziato. E perché abbiamo dimen-ticato che ci stiamo a fare qui.

La chiamata delle donne è a collaborare a dare la vita in tutti i modi possibili. Generare, sostenere, ascoltare, incoraggiare figli di carne e non.

Il nostro genio è nel tessere relazioni, prima di ogni altra cosa. Mi sembra evidente che sta a noi, e la prova è che se la vita sociale della famiglia fosse delegata agli uomini camminereste per le strade del quartiere senza salutare anima viva, visto che ogni volta che scambiate due parole con il vicino, la pediatra o la catechista, quel-l’orso che vi è accanto vi chiede «Ma chi era?», e soprat-

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tutto come siate riuscite a ricordarvi il nome dei suoi fi-gli. Solo noi sappiamo trovare linguaggi, tradurre, che a volte con chi ci è vicino ci vuole l’interprete (quando mio marito dice «Volentieri, mia cara», per esempio, si-gnifica «Lo faccio ma è chiaro che preferirei essere alla festa di comunione del figlio dei vicini», credo una delle più orrende eventualità per lui, un tipo così conviviale che, se non intervengono cause esterne di una certa gravità, come per esempio il mancato reperimento delle chiavi, preferisce non sprecare parole, tanto meno di circostanza).

Noi per prime abbiamo il talento di accogliere, accet-tare, educare, e non solo i figli. Noi siamo capaci di ve-dere il bene in noi stesse e negli altri. Con speranza, anche quando questo bene è solo un lumino lontano. Vedere il bene nelle situazioni, anche quando bisogna spremersi proprio gli occhi per trovarlo. Anche quando “era una notte buia e tempestosa”, e ci sono momenti in cui per trovare il lato positivo della cosa ci vuole una fantasia da bracchetto della prima guerra mondiale. E ci vuole pazienza, una pazienza infinita, a ripetere sempre le stesse raccomandazioni base, che poi una si accon-tenterebbe che i figli non mettessero le scarpe sul diva-no, le dita nel naso, le mani nel piatto, e in casi di vera emergenza adoperassero addirittura del sapone (il mio grande è tornato dal campeggio col flacone del bagno-schiuma ancora sigillato, si vede che non c’è stata nes-suna emergenza quella settimana). Se neghiamo questa nostra vocazione c’è qualcosa che non torna nel bilan-cio. Noi dobbiamo dare, difendere, sostenere, appog-giare la vita. Mi sembra invece che le donne della mia generazione che, per la prima volta nella storia, possono chiedersi se accettare o no questo ruolo, gli dicano di no con troppa fretta e leggerezza. Magari semplicemente perché è possibile dire di no. Salvo poi accorgersi, quan-

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do è troppo tardi, che forse non era quella la risposta che volevano dare. Salvo poi accorgersi che la donna si ritrova dandosi. Salvo poi accorgersi che, quando c’è qualcuno da proteggere, una trova le forze per rimetter-si in piedi da qualsiasi situazione personale, anche disa-strosa. È una forza potente l’istinto materno, quello che certo femminismo si è sforzato di negare; e a chi dice che non esista un istinto naturale, che si tratta solo di condizionamento culturale, basterebbe andare in un asilo a osservare schiere di piccoli guerrieri, autisti di ca-mion e costruttori, e file di spose, nutrici, crocerossine e cuoche in erba: tutti figli di genitori che li hanno vessati e plagiati? Si può essere materne con chiunque abbia bisogno di aiuto; anche le nostre preghiere, come dice Origene, «sono madri di ciò che accade nel mondo». Le donne, quando arrivano alla maternità, magari anche non fisica, si trasfigurano di felicità. Mettono da parte i propri problemi e si rimboccano le maniche. Diventano spesso madri affettuosissime, donne generose, anche quando prima erano delle squinternate (perché guarda-te me? Chi ve l’ha detto?). Rinunciare a ogni attesa per la felicità dell’altro guarisce da ogni ferita, sebbene nel momento possa pesare, come quando state tentando di uscire di soppiatto per una fuga d’amore – c’è Philip Roth che vi aspetta in libreria – e la tata, solerte, vi an-nuncia che un figlio ha la febbre a trentotto, cosa che voi sospettavate, sì, ma non poteva aspettare che foste sul pianerottolo per misurare? Molte altre donne, che con-tinuano a rimandare, magari per bazzecole pratiche e organizzative, questo momento del tuffo coraggioso nella vita – diventare madri – soffrono, spesso inconsa-pevolmente. Così a tutte loro, a noi, quando ci dimenti-chiamo che ci stiamo a fare qui, sento l’urgenza di dire due o tre cose. D’altra parte la chiamata ha bussato alla mia porta in terza elementare, quando nei pensierini ri-

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lasciavo alla maestra – e a chiunque lo desiderasse, ci tengo a precisarlo – perle di saggezza del calibro di “Dobbiamo tutti sforzarci di essere più buoni”. Capii ra-pidamente che era molto più comodo con le parole che con l’esempio silenzioso. Il riserbo, il contegno, la riser-vatezza, il lavorio muto non fanno per me, sono troppo faticosi e troppo poco gratificanti. E se poi nessuno si accorge di me? Abbracciai sin da allora la mia vocazione di predicatrice con grande zelo. Ne sono certa perché ricordo chiaramente le cuscinate sugli occhiali che pren-devo dai miei fratelli quando li invitavo a spegnere i car-toni e a dedicarsi piuttosto alla lettura, che avrebbe con-tribuito alla loro crescita personale più di Mazinga Zeta. Avevo nove anni. Ecco perché, quando mi arriva la telefonata della mia amica in crisi prematrimoniale, in macchina mi metto in assetto in pochi centesimi di se-condo. Una consigliera degna di questo nome è sem-pre pronta per andare in edizione straordinaria, anche quando indossa una gonna di Gap con ditate di Nutella ormai incorporate e una maglietta che un tempo fu bianca e ora è della nuance “Costanza – marchio regi-strato” (un punto di grigio cenere spento che si può conquistare solo sbagliando con estrema precisione set-te lavatrici consecutive). Devo essere convincente. Pun-tare sulla forza del sacramento che farà nuove tutte le cose. Aggiungere che Domenico è un gran bel pezzo di figliolo. Sottolineare che la paura è inevitabile quando si sta per fare qualcosa che durerà tutta la vita, fosse anche accettare in regalo una fornitura vitalizia e gratuita dai magazzini Macy’s.

Insistere sul fatto che se non la smette di vivere solo per se stessa non porterà frutto.

Soprassedere sul fatto che le capiterà di avere voglia di dormire quando lui vorrà fare non dico una cosa av-vincente come illustrarle una funzione del suo nuovo

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computer, che brividi, ma anche indurla a decidere una buona volta, con gli occhi che le si chiudono, per le mat-tonelle del bagno. Che poi chissà perché una deve deci-dere: che è questa crudeltà? Io ogni volta che ho cam-biato casa ho chiesto al commesso (e guardi che l’ho vista la smorfia di dolore sul suo volto ogni volta che mi presentavo al negozio) se si poteva fare un misto delle mattonelle in testa alla mia sofferta classifica. Che è questa convenzione di ordinare a metri quadri?

Comunque, troverò degli argomenti per sedare que-sto attacco di panico della futura sposa. Se non tutti i semafori sono verdi – impossibile – mi rimangono al-meno ventiquattro minuti di telefonata per sventare la tragedia, anche se, per come la vedo io, bastano pochi secondi: Domenico sa preparare la panzanella, sa suo-nare I can see clearly now con la chitarra, ha il Cammino di perfezione sul comodino, ed è persino in grado di sce-gliere una borsa. Che altro si può volere?

Non lo so che altro vogliamo noi, un po’ troppo spes-so lamentose e scontente. Forse ci manca il coraggio di vedere la nostra grandezza, quella vera. Di capire che abbiamo un’enorme capacità di dare, di spenderci, ri-solvendo così tante inquietudini inutili, contagiando anche i nostri uomini senza ammorbarli di richieste.

Queste sante parole potrebbero proiettare di me un’immagine un po’ troppo benevola, una luminosa e saggia donna laboriosa che mai per nessun motivo sta-rebbe in questo momento a mangiucchiare frutta secca davanti al computer cercando di trovare le forze per an-dare di là a eliminare qualche metro cubo di panni da stirare. Una moglie devota e padrona di sé che dal pri-mo giorno di matrimonio avrebbe saputo mettere da parte il proprio egoismo e accettare con generosità di fare spazio al consorte (ma un cassetto gliel’ho lasciato, però). Una madre paziente e premurosa ma forte e au-

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torevole, che in nessun caso avrebbe una crisi isterica solo perché la sua collana di perle si è rotta durante una colluttazione tra due principesse, e che saprebbe sem-pre con certezza come indirizzare dolcemente i suoi pargoli. Un angelo del focolare che non preferirebbe, piuttosto che cucinare, mettersi a leggere qualunque cosa le capiti sottomano in cucina, testi avvincenti come le istruzioni del purè liofilizzato o il bugiardino della crema per le scottature, perché qualsiasi parola scritta cattura la sua attenzione più della fettina.

Mentre vieto con fermezza di consultare in merito mio marito – non è corretto, sarebbe un colpo basso –, posso però spontaneamente e senza costrizione ammet-tere che la saggia donna laboriosa che vorrei essere, i consigli oltre a darli li chiede abbondantemente. Il tra-gitto dei consigli prevede andata e ritorno. E le compa-gnie telefoniche ringraziano. Per i dubbi di carattere sa-nitario c’è mia sorella, un medico informatissimo che giace sotto le spoglie di un ingegnere civile. Mia sorella si rivela particolarmente adatta nei casi in cui mi diagno-stico malattie fulminanti, che non mi posso proprio per-mettere almeno finché i miei figli non imparino tutti la mistagogica arte di introdurre un calzino sporco nel ce-sto della biancheria da lavare. Sarebbe terribile immagi-narli smarriti per casa, mentre si dicono l’uno con l’altro «Leggiamo i suoi diari, magari lì ha scritto come si fa».

Allora chiamo mia sorella, le descrivo i sintomi, lei mi chiede «Ma proprio lì sopra al pancreas?» e io ri-spondo «Dov’è il pancreas? Non mi fare domande diffi-cili, dimmi solo che non è niente». Di solito mi accon-tento di risposte generiche come «Se fa male non è un tumore», e quando lei comincia a parlare di tiroide e altre ghiandole che non sono sicura di possedere (l’avrò inghiottita la tiroide?), devio agevolmente il discorso sulla borsa verde di Miu Miu.

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Per i dubbi di salute pediatrica invece c’è la sorella di mio marito, dentro la quale giace sopito un altro medico efficientissimo. Anche con un figlio prossimo alla laurea si ricorda il dosaggio della Tachipirina in base ai chili di peso, perché lei, a differenza di me, sa quanto pesano i miei figli, e distingue i sintomi di tutte le malattie esan-tematiche. Per me purtroppo ogni notizia di carattere medico è nuova e avvincente come un giallo mai letto, perché rimuovo tutto quello che riguarda il settore con rapidità fulminante. Invece, a distanza di anni, mi ricor-derò nei dettagli l’agente Peterson, personaggio magni-fico che avevo creato dopo che mio figlio aveva infilato un piede nei raggi della bici del nonno. Voi avreste mes-so del ghiaccio, immagino. A me la prima cosa che è venuta in mente è stata inventare urgentemente una storia per consolare le sue lacrime (mi è servito poi per anni a somministrare minestroni, perché, come voi sa-pete, l’agente Peterson conquistava un posto tra gli agenti scelti della Polizia di New York mangiando mol-te verdure).

Poi c’è Emanuela, che però vi sconsiglio di chiamare ore pasti, perché se il discorso scivolerà inavvertita-mente sul “Che stai preparando?”, lei vi dirà che aveva visto dei broccoli proprio belli al mercato, e qualche so-gliola fresca fresca. Voi invece, che non sapete proprio che sguardo abbia una sogliola fresca, né come si di-stinguano dei broccoli belli da quelli brutti, sarete co-strette a rispondere che adesso, visto che sono le otto, aprirete il frigo e vedrete di rimediare una specie di frit-tata, se magari c’è un uovo non scaduto. A volte ci si trova anche un cannellone dimenticato con elegante noncuranza da mia suocera che riportava una bambina dalla lezione di danza.

Piccola precisazione per mia madre: ti richiedo ogni volta la ricetta dello sformato di fagiolini perché la scri-

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vo su uno Scottex, che poi diligentemente utilizzo per pulire il piano di marmo. L’unica ricetta che sono riusci-ta a memorizzare con estrema precisione è la più im-proponibile al mio ospite medio – molto sotto gli undici anni, sdentato e a volte con il ciuccio –, una versione superpiccante del gulasch.

Con Costanza, mia omonima nonché compagna di banco del liceo, ci confrontiamo sulle amenità dell’uo-mo contemporaneo, quali le feste di compleanno al centro commerciale, la piaga degli animatori per bam-bini, l’analfabetismo di ritorno, io tra i miei colleghi giornalisti, lei tra i suoi studenti universitari. Se devo organizzare qualcosa, la regina del senso pratico è Chia-ra, una capace di invitare a cena otto persone a tre gior-ni dal parto, e di preparare sei portate con i punti del cesareo e la bambina al seno. Quando la vedo penso che alla mia vita servirebbe un allenatore. Se posso sce-gliere, vorrei Pep Guardiola, che al primo anno in pan-china ha vinto tutto il vincibile (e non è che lo vorrei perché è bellissimo, no, figurati) ma non credo che il suo cachet sia abbordabile.

Con quasi tutte le mie amiche – quella del cuore, Ma-rina, e con tutte le altre – si può passare con estrema agilità dal livello più alto della conversazione (spirituali-tà, arte, letteratura) a quello più basso (pettegolezzi, so-pracciglia, acquisti compulsivi).

Con tutte c’è una disponibilità continua a fare inter-minabili bilanci e tirare le somme delle rispettive esi-stenze: si può andare avanti, e senza il contributo di al-cuna sostanza psicotropa, fino a notte (anche perché, fino a che i bambini non sono tutti a letto, ci si può solo limitare a stringate comunicazioni di servizio: domani ore sedici campetto Testaccio, porto io, riporti tu, me-renda in borsa).

Perché tu, caro ingenuo uomo che ci sei accanto,

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pensi che molte di queste telefonate siano superflue, che il bilancio di una settimana fa sia lo stesso di oggi, visto che non sono intervenuti fatti epocali come la na-scita di un nuovo figlio, un cambio di lavoro o di fondo-tinta. Ma non è così. Il bilancio va aggiornato. Si può sempre migliorare nell’arte della lamentela, nella quale io personalmente raggiungo vette di creatività e convin-zione. «Sono stanca, voglio fare l’inviata di golf della Cnn. No, mi ritiro in un eremo sopra il Passo del Furlo a scrivere un libro, guardatemi i figli. No, anzi, lascio il lavoro, mi metto a ricamare e sto sempre a casa con i bambini: secondo voi posso contribuire significativa-mente al bilancio familiare, visto che la mia idea di rica-mo è attaccare un bottone? Ci sarà un mercato per le attaccatrici professionali di bottoni?»

Una si lamenta e ascolta le lamentele, non serve molto altro. Che poi è la versione femminile dell’amico “che se lo svegli di notte, è capitato già, esce in pigiama e prende anche le botte, e poi te le ridà”.

Adesso, prima di tutte, tocca alla sposa.

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Cara Monica, mi chiedi perché ti dovresti sposare. Io, come dice la

mia amica Giulia, coraggiosa neomoglie venticinquen-ne, ti farei la domanda opposta. Come puoi pensare di non sposarti?

Come pensi di affrontare una vita – che poi sarebbe l’unica che hai – tutta con un solo uomo, tenendo la porta di casa socchiusa, che casomai se c’è qualcosa che non funziona te ne vai?

È ovvio che ci sarà qualcosa che non va. Via, siamo ragionevoli: un solo uomo che ti gira per casa, sempre lo stesso, il pacchetto completo compreso di estraneità periodica, signoria sul telecomando, silenzi inconsulti. Qualcuno che ti chiede come va, e poi esce dalla stanza quando cominci a rispondere, che per anni non riuscirà a ricordarsi il nome delle tue amiche (ma quello della Solarino sì però), e che non saprà mai apprezzare in pieno il tuo acume di critica cinematografica in grado di recensire un film, direttamente dalla sala, bisbigliando a lui per primo in esclusiva mondiale.

Va bene, ma questi sono dettagli. Io ti ho sentito con le mie orecchie dire parole roboanti su Domenico, e non ho visto l’ombra di nessun dubbio attraversare i tuoi oc-chi felici come mai erano stati da quando ti conosco.

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Monica ovvero

Verso l’infinito, e oltre!

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Basta essere perspicaci come un piccione per vedere che voi due siete fatti a incastro come le anatrelle di legno dei miei figli, che io peraltro non riesco mai a ri-comporre. Metto sempre la coda al posto del becco, e i figli cominciano a essere più abili di me più o meno da quando compiono ventitré mesi, con le loro manine grassocce (con il computer superano la mia goffa ma-nualità verso i tre anni). Tu sei il suo entusiasmo, lui il tuo equilibrio. Lui è il tuo guizzo geniale, tu il suo brac-cio. Adesso non vorrei mettermi a fare il paroliere per qualche concorso canoro di paese, ma insomma, ci sia-mo capite.

È vero, qualche difettuccio ce lo ha anche lui: si veste come un daltonico; ha una passione insana per la vita all’aria aperta e si applica con entusiasmo per insegnar-ti a riconoscere il verso dell’upupa, quando l’unico suo-no che vorresti ascoltare è lo sciacquettio della lavasto-viglie mentre stai sul divano a leggere; è un maniaco del complotto, e cerca di spiegarti le trame segrete che tira-no le fila del mondo, quando tu hai difficoltà a ricordar-ti che cosa è successo ieri, e nella versione più piatta e omologata.

Sui fondamenti della vita però siete perfettamente in sintonia, e per quello che conta, lealtà, solidità, bontà, lui è proprio come volevi che fosse. Ne abbiamo parlato tante volte, da prima che vi metteste insieme, in quegli interminabili anni in cui sei stata sola, e ci sforzavamo di immaginare come si sarebbero presentati i nostri mister Persona Giusta.

«Lo incontrerò facendo la spesa in tutone respingen-te?» ti chiedevi angosciata. «O sarà il collega nuovo che arriva domani?» Per l’evento hai fatto una serie di ac-quisti, culminati nel tubino Givenchy, buttati al vento. Oddio, proprio al vento no, che alla fine li hai messi quando ti sei decisa a uscire con lo pseudoamico che ti

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amava da sempre, Domenico, per accorgerti che anche tu eri innamorata di lui.

Lui che ti aspettava ben cotto, perché come è noto, niente attrae un uomo più di un no, di un telefono che dà occupato, di una porta chiusa (io non ci sono mai riuscita ma le donne di stile sanno come si fa).

Tra i motivi per indurti alle nozze non metterei quel-lo dei preparativi già in stato avanzato. Di quelli chi se ne importa, se decidi di non sposarti più. Per fortuna anche voi avete deciso di mantenere la calma e di spo-sarvi molto più per il sacramento che per gli altri, certo non per ingrassare il parrucchiere che alla modica cifra di ottocento euro si era offerto di montarti una specie di frittella bianca in testa e renderti ridicola almeno quan-to la truccatrice che ti aveva fatto quella prova “faccia da zoccola”.

Basso profilo, pranzo in casa, eleganza molto som-messa, che le feste di matrimonio sono sopravvalutate quanto il cibo biologico (consumato tra fiumi di smog) e quasi sempre burine quanto una vacanza nel Mar Rosso. Quindi, a quello non pensare, sei in tempo per tornare indietro con pochissimo danno materiale, a parte una crisi isterica di tua madre che sperava di aver-ti sbolognata.

Ma proprio il vostro matrimonio sobrio, invece, se-condo me è tra i presagi di una vita felice, che adesso tutti celebrano “il giorno più bello” (ma chi l’ha detto?) con toni sempre più trionfali. Serve a cercare di lasciare un minimo di senso a una cerimonia che per molti sen-so non ne ha più.

Di certo non ha quello della “consumazione” della pri-ma notte, che è un ricordo remoto, se non quanto il primo appuntamento poco ci manca; magari i due convivono, magari decidono di sposarsi per cercare “una scossa”; Dio, chiamato a ratificare, è una specie di ombra vaga

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sullo sfondo. E forse non ci sarebbe neanche, quest’om-bra sullo sfondo, se non fosse che la chiesa fornisce una scenografia più romantica, più solenne, con il suo appa-rato di candele e affreschi, il più delle volte privi di si-gnificato per gli astanti.

Che scossa ti può dare allora l’album in pelle con le foto di lei sul palmo di lui, la cena con trecento invitati e la macchinona in affitto? Mi viene da pensare che il più delle volte tra gli eccessi sguaiati del matrimonio e la sua solidità ci sia un rapporto inversamente proporzionale.

La tua cerimonia, misurata, elegante, congruente, prelude alla nascita di una famiglia vera, ne sono certa.

Ma con il “giorno G” che incombe, un dubbio che balena secondo me è ammesso, anzi è obbligatorio. È successo anche a me, nonostante la convinzione, nono-stante anche lo scenario perfetto, che neppure se Nora Ephron avesse scritto la sceneggiatura avrebbe potuto essere migliore: io con tredici anni e quattro figli di me-no, e un punto vita in più – elementi che sul direttore del casting avrebbero avuto il loro peso –, un ristoranti-no italiano a New York, i migliori spaghetti al pomodo-ro e basilico (nella variante senza meat balls) che abbia mai mangiato, ma non lo dire alla mia mamma.

Però le parole “Mi vuoi sposare?” fanno sempre un certo effetto, pur se attese, e sollecitate con sottili pres-sioni psicologiche («Non è che per caso mi devi dire qualcosa? Visto che me lo vuoi dire, perché non me lo dici adesso che la scenografia è all’altezza?»).

Poi succede, e ti prende un colpo. Ma che, lo sta di-cendo davvero? E se poi mi sono sbagliata? E se quan-do andiamo a vivere insieme scopro che la domenica si mette la tuta in acetato? E se si abbrutisce, emette ru-mori molesti, magari vuole anche un suo spazio sulla mensola del bagno che, da che mondo è mondo, è tut-ta mia?

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Io liquiderei piuttosto la tua crisi come la normale reazione di chi sceglie qualcosa una volta per tutte. Un’attività ormai obsoleta in un mondo che esalta dub-bio e provvisorietà come caratteri distintivi di menti li-bere e illuminate.

Invece è evidente che scegliere è sempre dire un no insieme al sì. Da questo non si scappa. Anche chi crede di non scegliere in realtà sta prendendo una strada so-la. Non prende tutte le altre. Chi decide di preferire relazioni occasionali sta dicendo di no alla complessità, alla profondità, a dare tutto senza tenersi niente. Chi decide per l’impegno definitivo dice di no a molto al-tro: forse alla leggerezza, sicuramente all’indipenden-za. Tu stai per dire di sì a Domenico (perché lo dirai, è chiaro, visto che non vorrai essere perseguitata dalle mie rampogne per i prossimi quindici anni) e stai per dire di no intanto al collega tenebroso, poi a tutte le al-tre persone del tuo passato e del tuo futuro, e anche al lavoro free lance a Bruxelles, al contratto a Pisa (da spo-sati sarebbe opportuno vivere insieme, se possibile), e a tutte le altre Moniche possibili che ancora ogni tanto ti gingilli a prendere in considerazione. Lo sgomento fa parte della procedura. Tutti i giorni della tua vita finché morte non vi separi, effettivamente, potrebbero essere un sacco di giorni.

Ma a che serve vivere se non costruisci qualcosa che ti superi?

Se la possibilità è aperta, a uno la tentazione di an-darsene almeno una volta ogni quarant’anni viene, è chiaro (a qualcuna anche più spesso, generalmente do-po la nona ora di moviole e commenti sulla prestazione di Totti).

Ma è un peccato. Un grosso, stupidissimo, irreparabi-le peccato, perché nel pacchetto completo del matrimo-nio c’è quella dedizione totale che ogni cuore pretende.

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C’è qualcuno a cui puoi far vedere tutto di te, e lo stesso sentirti amata. C’è qualcuno da imparare ad amare sem-pre più profondamente e completamente, come chi non ha scelto una sola persona per tutta la vita, full optional, non si sogna neanche.

E c’è anche «molto altro che non posso dire qui», di-rebbe Gino Paoli. Non posso, non sono capace e troppo pudica, ma, fidati, un rapporto stabile può riservarti del-le sorprese da tutti i punti di vista.

Sarai felice di avere aspettato che lui diventasse tuo marito, e forse ti dispiacerà di esserti buttata via in altre storie precedenti, in ossequio al consumismo sessuale che respiriamo con l’aria dall’età della ragione.

Il problema non è tanto che quelli fossero rapporti prematrimoniali, è che erano extramatrimoniali. Non parlavano di unione, non erano la prosecuzione natura-le di un regalo quotidiano, continuo e definitivo di te. Non erano il tuo progetto di vita.

Qualcosa di molto piacevole, certo, chi lo nega, ma niente a che vedere con quanto può esserlo l’amore fi-sico quando ci si ama con tutta la dedizione, condivi-dendo pesi e spazi e tempi. Quando si va oltre la fase di stanchezza, e, come in un videogioco, si passa al livello superiore, scoprendo territori nuovi. È vero, raccogliere vomiti di neonati può non essere il massimo quanto a eccitazione, questo sì, ma poi si torna alla vita. Dal tun-nel si esce.

Che poi il vecchio trucchetto (dalla mela in poi) è sempre quello: di farci credere che autodeterminandoci, seguendo prontamente ogni emozione, siamo liberi e felici, non come quei poveri repressi che aspettano l’al-dilà per il premio di consolazione.

Non è vero niente. Io vedo un sacco di infelici esecu-tori dei propri pruriti. Invece, come scriveva Chesterton, «Non c’è niente di più trasgressivo ed eccitante dell’or-

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todossia». Il matrimonio è divertente, è naturale, ri-sponde ai nostri bisogni e ai desideri di felicità.

Mio marito non lo ammetterà mai di fronte a testimo-ni oculari, ma è contento persino lui di essersi accollato questa buffa creatura che si dimentica le patate sul for-nello e se ne ricorda a trenta chilometri da casa, e si acca-nisce comunque a cercare un lato positivo nella vicenda (non l’ho trovato ancora, ma ci deve essere, ne sono cer-ta); che talora si accorge di portare le figlie in giro senza mutande; che dopo molti anni continua a conoscere solo tre tragitti di Roma e li percorre sempre, anche quando la meta è da tutt’altra parte, con cieca fiducia nella Provvi-denza che in qualche modo la porterà a destinazione.

Il matrimonio è un esoscheletro che difende prima di tutto noi, uomini e donne che lo scegliamo. Ci protegge dalla nostra incostanza, ci fa bene. Ci incoraggia a trova-re strade nuove quando le vecchie sembrano senza usci-ta (mi devo comprare un navigatore), ci dice chi siamo, in un confronto continuo con un’altra persona che sa tutto di noi e del nostro egoismo. Ed è divertente, forse l’ho già detto, ma che pretendi da una che dimentica le patate sul fornello? Ah, ecco, l’ho trovato: forse il lato positivo è che la casa non è andata a fuoco. Si può avere una vita matrimoniale soddisfacente anche se, quando sarete a letto, in silenzio, e a te sembrerà di essere in piena crisi di coppia, e ti starai segretamente macerando chiedendoti a che punto è arrivata la vostra relazione, lui fisserà muto il soffitto. Se ti dice che non pensa nien-te, fidati: non pensa niente. Non credere che stia medi-tando di lasciarti. Se fissa il soffitto, sappi che sta produ-cendo pensieri totalmente privi di doppio fondo, tipo: a) guarda che buco, devo dare una mano di stucco; b) spe-riamo che domenica ci capiti un buon arbitro; c) vorrei una birra ma non ho voglia di alzarmi. E la vostra rela-zione non sarà in crisi: è solo che siete diversi.

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Gli angoli da smussare all’inizio sono davvero molti, come il suo uso stolto e dissennato delle presine in cu-cina e la tua tendenza a far marcire ex cetrioli ed ex po-modori nel cassetto del frigo. E il modo in cui tuo mari-to abbandonerà capi di abbigliamento in luoghi incoe-renti potrà un giorno sembrarti inconcepibile. Incom-prensibile la sua arte nel cambiare canale quando sta per arrivare il bacio, inarrestabile la sua caparbietà nel depennare dalla lista della spesa sempre la cosa più im-portante, quella senza la quale non puoi preparare la cena. Impenetrabile il muro del suo sonno di notte quando i figli piangono. Imponderabile il presentarsi delle malattie dei bambini esclusivamente quando lui è in trasferta per lavoro, e più è lontano, più sale la fre-quenza degli attacchi di tosse. Imprevedibile la sua scel-ta di tempo per decretare che l’aria nelle camere deve necessariamente essere cambiata, incurante del fatto che fuori è sotto zero e tu stai infilando il pigiamone ai figli. Inspiegabile la sua incapacità di fare più di una co-sa per volta, e non si dice vergare un trattato di filosofia e insieme suonare il violino, ma neppure parlare e scal-dare un biberon. Per smussare gli angoli c’è un solo mo-do. Dovrai imparare a essere sottomessa, come dice san Paolo. Cioè messa sotto, perché tu sarai la base della vostra famiglia. Tu sarai le fondamenta. Tu sosterrai tut-ti, tuo marito e i figli, adattandoti, accettando, abboz-zando, indirizzando dolcemente. È chi sta sotto che reg-ge il mondo, non chi si mette sopra gli altri.

Solo tu potrai farlo, perché solo tu, tra Domenico e i vostri bambini, sarai una donna adulta, e quindi elasti-ca, morbida, solida, resistente, paziente, lungimirante.

Basta con le femmine alfa e i maschi omega. Dovrai imparare a mollare le redini, a rinunciare alla tentazione dell’ipercontrollo. Non potrai dirigere tutto, dovrai fare questo atto estremo di umiltà e fiducia, e lasciar fare a

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tuo marito. Anche quando scommetteresti dieci a uno che hai ragione tu. Prova. E non dire «Non mi viene». Morditi la lingua e abbi il coraggio di stare a vedere che cosa succede se il mondo deve privarsi di un tuo parere. Le cose non saranno eseguite a modo tuo, ma, incredi-bilmente, il mondo se ne farà una ragione. E lui comin-cerà a chiedere il tuo parere, visto che non glielo vuoi imporre. Rinunciare al controllo vuol dire anche che è lui il ministro delle Finanze, e, dal momento che ti fidi di lui, devi resistere alla tentazione di controllare i conti. Niente finanziaria discussa in parlamento, fa’ finta che il governo abbia chiesto la fiducia, e dagliela.

Quando lo devi criticare fallo con rispetto, e senza umiliarlo, se proprio sei sicura che la critica sia indi-spensabile. Se puoi aspettare domattina è meglio.

Quando avrà trascorso le ultime venti ore a dipinge-re tutto il salone di quel punto di grigio perla pallido di cui sentivi l’urgente e improrogabile bisogno, evita di sottolineare che ha sgocciolato sul parquet.

Quando sarà stato tutta la mattina a fare la revisione della macchina perché tu sei totalmente inetta e se ti finisce il liquido del tergicristallo ti sembra più pratico metterla in vendita piuttosto che imparare come si riem pie il serbatoio, evita almeno di protestare perché è in ritardo.

Ti chiami Monica, come la prima grande moglie san-ta, la mamma di uno dei più grandi cervelli che l’uma-nità abbia mai avuto, sant’Agostino (scusa, santa Moni-ca, da mamma a mamma: me lo dici che giochi educati-vi gli hai fatto fare a tuo figlio?). Lei è stata una moglie che ha aspettato con pazienza, per anni, che marito e figli capissero.

Con una protettrice così, non ci deluderai. Un bacio, la tua amica di emergenza.

C.

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A volte quando chiedo a mio marito Guido una prova d’amore particolarmente ardua – tipo una giornata in tour de force di chiese da visitare, amichetti dei figli da invitare e mensole da montare – ricevendo, sia chiaro, un regolare rifiuto, io gli rammento che mi ha promesso fedeltà eterna davanti a Dio. L’ho sentito, me lo ricordo.

Lui risponde che sì, probabilmente c’era al mio ma-trimonio, e sottolineo mio, ma non gli sovviene di avere sentito o detto niente di simile a “finché morte non ci separi”.

E quando la cassiera l’altro giorno ci ha chiesto «I signori sono insieme?», ha risposto «Per il momento parrebbe di sì». Ha fatto sua la linea di Harry, quello di Sally, che non accompagnava mai le fidanzate all’aero-porto, neanche dopo il primo rovente appuntamento, per evitare che si abituassero all’alto mantenimento. Anche Guido preferisce non sbilanciarsi. «Ma almeno mi vuoi bene?» «A volte.» D’altra parte io tenderei a considerare un indizio abbastanza significativo della sua, non esageriamo, diciamo stima e simpatia nei miei confronti il fatto che abbiamo avuto insieme quattro fi-gli in sette anni.

Certo non corro il rischio di adagiarmi, e dire che mi piacerebbe tanto.

Contrariamente all’immagine della vulgata – il matri-monio tomba dell’amore, “in mancanza d’altro con la moglie si va a letto” e simili cliché –, sposarsi fa entrare in un rapporto dinamico ed esigente, e sempre nuovo. Dicono che, andando avanti con gli anni, ci sia il rischio dell’abitudine. Io non lo so: non vedo l’ora di annoiarmi.

Ma se dovesse succedere, ho una lista lunga tre pagi-ne di cose da fare (me la porterò senz’altro nella tomba. Chi riordinerà, dopo, per me lo scatolone di foto dei bambini? Chi leggerà tutti quei libri? Chi rispolvererà il greco? Chi farà tutte le maratone che volevo correre?

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Chi chiamerà tutte le persone che vorrei ancora rivedere o almeno riascoltare?).

Se non si chiude la porta al mondo, è difficile rischia-re di abituarsi.

Il matrimonio ha un senso. Ne ha moltissimo se è cristiano, perché per chi lo chiede c’è un aiuto dall’alto, tipo quando nei videogiochi colpisci la base nemica e i tuoi punti si triplicano, come mi insegnano i miei figli.

L’aiuto che fa mettere il cuore nel posto giusto, e rende la vita non sterile. L’aiuto che fa guardare oltre la fatica e la difficoltà, non per dovere, ma per la certezza di avere puntato tutto sulla cosa giusta.

Visto che la fatica, la sofferenza, cadere e sbucciarsi le ginocchia sono previsti nel menu base dell’esistenza, in tutte senza eccezione, conviene sceglierla, la parte di fatica.

E conviene scegliere qualcuno con cui spartirne qual-che pezzo. Se possibile evitando di appoggiarcisi a cor-po morto (Monica, quando sei di cattivissimo umore vai a farti un giro, chiama qualcuno, magari non me, o prenditela con il vasetto di Nutella ma, se puoi, non con Domenico).

Così la strada può essere piacevole anche nella fati-ca, ma non vorrei parlare anche per mio marito. Nel-l’istan te in cui mi sbilancio – e penso “Anche lui è feli-ce” – parte sul mio maxischermo interiore l’immagine di me stessa devota mogliettina che prepara la cena con amorevole cura, circondata dai marmocchi. In quel momento io credo che mio marito sia al lavoro, quando lui sta ballando con una fila di brasiliane in tanga, suo-nando una lingua di Menelicche sulle note di Brigitte Bardò Bardò.

Certo, uscire dalla logica delle rivendicazioni aiuta a creare un clima positivo, come sa bene il mio amico spo-sato con una moglie così poco lungimirante da protesta-

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re per la sua passione per la montagna (passione che ha il vantaggio di non poter essere praticata sulla salitella sotto casa e di richiedere quindi l’allontanamento dall’a-rea urbana contenente la querula moglie stessa).

Eppure la logica che sembra prevalere in tante coppie sembra quella del contratto: «Io ti ho tenuto i figli per mandarti a giocare a calcetto, tu me li devi tenere per la palestra». Più che una coppia, un’azienda. E le aziende aprono e chiudono a seconda delle esigenze del mercato.

Si capisce così l’aumento vertiginoso dei divorzi, con le donne che hanno messo in crisi i vecchi equilibri – a volte a ragione  – ma senza aver saputo proporne di nuovi.

Prima ci si sposava anche per motivi economici, di sicurezza e, quando non ci si amava, probabilmente al-meno ci si rispettava. Adesso, nell’epoca della dittatura di sentimenti ed emozioni, sul matrimonio ci sono aspettative altissime. Per durare adesso l’unione deve essere felice, non ci si accontenta. Se sia più o meno giusto non lo so, certo è più difficile soddisfare tante esigenze e tanto mutevoli. Soprattutto se non si è di-sposti a tollerare, aspettare, sforzarsi di trovare soluzio-ni creative, visto che si è detto “in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non ci separi”. E si è detto non solo “amare”, ma anche “onorare”.

La donna, ridiscutendo il suo ruolo, ha messo in di-scussione anche quel suo «talento innato» – come dice Cesare Pavese – quella «disposizione originaria, un as-soluto virtuosismo nel conferire al finito un senso. La donna concilia l’uomo e se stessa col mondo, è in armo-nia con l’esistenza in una misura che l’uomo non cono-sce poiché la donna spiega la finitezza, essa è la vita profonda dell’uomo: una vita tranquilla e nascosta co-me è sempre la vita alle radici».

Come si fa a “essere la vita” di qualcuno? Innanzitut-

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to portandone pesi e debolezze, stando vicine senza sentirci superiori. Il rischio “faccio io che tanto sono brava”, sottinteso “e tu no”, è abbastanza presente. Io, per esempio, ogni tanto mi trovo a sparare sul prossimo giudizi taglienti come la spada laser di Obi-Wan, e quando mi vesto da crociata è bene starmi alla larga (co-sa che mio marito sa fare benissimo. A un certo punto si smaterializza, e il suo cellulare, quando si ricorda di ac-cenderlo, è misteriosamente sempre in un cono d’om-bra privo di campo).

Sempre meglio di quando noi femmine ci mettiamo a fare le vittime, rassegnate martiri a cui uno si aspetta di veder sanguinare le stimmate da un momento all’al-tro. E quella è un’altra mia specialità: faccio la passiva, sto in silenzio, sospiro commossa dalla mia nobiltà d’a-nimo, dalla mia magnanima sopportazione, dal mio eroismo. Accogliere i limiti dell’altro – che ne ha esatta-mente come noi – deve essere fatto in una logica co-struttiva, non ottusamente passiva.

E poi, per “essere la vita” bisogna mettere attenzio-ne, fare gesti di tenerezza, delicatezza, ricordare che l’altro viene prima di me: tutte cose che si tende a di-menticare mano a mano che aumentano gli anni passa-ti insieme, i sederini da lavare e i compiti da riguardare, che quando ci si incontra nel corridoio certe volte si è talmente stremati che non ci si degna di uno sguardo.

Io una volta di notte ho preso una bambina dal verso sbagliato, i piedi vicino al mio viso e la testa in giù, e non mi spiegavo perché non si calmasse neanche in braccio. Eppure le davo energici colpetti per aiutarla a digerire il latte, solo che erano ai polpacci invece che alla schiena. Probabilmente non dormivo da svariati giorni e di mio marito non mi sovveniva neanche il no-me (c’era un signore nel mio letto, è vero, me lo ricordo, ma non chiaramente perché ero svenuta). A volte fer-

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marsi per dedicare qualche attenzione a quel signore sconosciuto può essere pericolosissimo; se perdi il rit-mo, qualcosa sfuggirà al tuo controllo, un figlio andrà a scuola in pigiama o verrà fermato a un millimetro dalla tragedia mentre sta introducendo un cacciavite nella presa. Però bisogna trovare il modo di farlo.

“Essere la vita” è anche curare il nido, cioè la casa, il cibo, e possiamo dire che io lo faccio, se passiamo sopra certi particolari, tipo che mi ricordo sempre tardi che devo preparare dei pasti (avete mai provato a scongela-re le fettine alitandoci su, o tenendole sotto le ascelle?) e che ogni tanto la sera molto tardi, semicosciente per il sonno, tento di dare un ordine al caos da seduta, con il solo potere della mente, fissando gli oggetti con la mas-sima concentrazione (non funziona).

“Essere la vita” è amare senza misurare, cioè senza tenere i conti ma su misura, cioè proprio nel modo in cui lui desidera essere amato. Per dire: se lui è stanco e vuole solo un po’ di tempo per sé, non è un gesto d’a-more organizzare una serata con gli amici, anche se quella è esattamente la cosa che tirerebbe su noi.

È anche essere discrete, non invadenti, delicate. Con-tinuare a bussare, a dire grazie, a rispettare. L’amore è un sentimento violento, ma l’altro non è tuo.

È anche fare uno sforzo di verità continuo, benché essere veri non comporti il bisogno di dirsi proprio tut-to; ci sono problemi che caricano solo l’altro di pesi inu-tili. Però è anche non avere paura di mostrarsi (Guido, approfitto e te lo dico ora davanti a tutti: non ho capito il fuorigioco passivo).

È accompagnarsi l’uno con l’altro verso il mistero, perché alla fine la nostra essenza più intima, profonda, ultima non è neanche nell’essere maschio o femmina, ma in un’impronta di eternità, in un desiderio di felicità, di assoluto che c’è in entrambi.

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Tre anni dopo...

Voi pensereste che una volta sposata, Monica (sì, sì, cer-to che si è sposata, non lo avete ancora capito che una donna che si sfoga al telefono vuole solo un po’ lamen-tarsi o ricevere complimenti anche finti e incoraggia-menti anche un po’ eccessivi, tutto tranne essere presa sul serio?) abbia finito di allietare i miei padiglioni auri-colari con i suoi dubbi. E invece no. Monica è un’olim-pionica dell’incertezza, un’artista del tormento amicale, un’asceta della telefonata estenuante. Per un anno, un anno e mezzo, ha continuato a chiedermi con cadenza periodica «Avrò fatto la scelta giusta?», a conferma del-la teoria che quello del matrimonio non è il giorno ma-gico che risolve tutto, ma l’inizio di un’altra storia. Anzi, a dire il vero durante il primo anno di convivenza i dub-bi sono anche aumentati (prenderò un’indennità alla voce “amica di Monica”, se mai raggiungerò la pensio-ne?), ché miss Punti perfetti ha trovato da ridire su un bel po’ di cose che fa il marito. Credo che abbia organiz-zato le rimostranze in faldoni: da AVVITAMENTO-CAFFET-

TIERA a ZANZARE-SPIACCICATE-SUL-MURO-DELL’INGRESSO, passando per la B di BAGNO-ALLAGATO-DOPO-LA-DOCCIA e la M di MA-CARO-TU-NON-MI-ASCOLTI-QUANDO-PARLO.

Poi, a un certo punto, è cambiato qualcosa. Non so bene come, e sono anche un po’ gelosa, perché dopo anni di consigli la cosa decisiva l’ha capita da sola. Ha fatto un’inversione a U. Monica ha deciso di smettere di guardare quello che Domenico faceva per lei e si è messa a cercare di capire se c’era un modo di fare le cose per lui, dimenticando per un po’ se stessa. Ha de-ciso di fidarsi di lui, del suo modo di fare le cose. Ha deciso di imparare a mettere su suo marito lo sguardo pieno di speranza che solo permette all’altro di essere, liberamente.

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Domenico adesso stravede per lei, e se prima la amava adesso la adora, ne è davvero pazzo, ed è un problema, perché da otto mesi se la deve contendere con un altro uomo. Ha solo due denti, pesa nove chili, e sbava mangiando i biscotti, ma è un rivale pericolo-sissimo in amore.

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Care Livia e Lavinia, passiamo per un momento sopra al fatto che siete

mie figlie, e anche, a voler sottilizzare, bambine dell’asi-lo. Non vi farò dunque le raccomandazioni con le quali allieto normalmente le vostre giornate. Diamo per scon-tato che vi ho già detto per oggi, nell’ordine: Livia, basta con quel ciuccio, perché ormai sei “un macchio”, come dici tu, cioè grande come i tuoi giganteschi fratelli ma-schi (uno addirittura in quinta elementare). No, il caval-lo in giardino non mi pare un progetto percorribile. Sì, lo so che una vera principessa la salva sempre un eroe, ma se imparassi a scendere da sola dal lettino senza da-re una zuccata, per me sarebbe un bel sollievo.

Lavinia: non dare i calci agli oggetti quando passi con aria indifferente, e sappi che la mamma ti vede sempre, anche quando stai nell’altra stanza. E anche quando sa-rai all’estero, in viaggio, se è per questo: butta quella sigaretta. Comprendo il fascino della penna stilografica d’oro che mi ha regalato il nonno e che tu mi prendi sempre per vergare preziosi appunti (AAEEBOO) sul tuo disegno, ma se usassi una modesta bic te ne sarei gra-ta. Capisco che quando una è rosa dentro è rosa dentro, ma secondo me almeno sulla biancheria intima potre-sti chiudere un occhio, e anche se le mutande saranno

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Livia e Lavinia ovvero

Quando una è rosa dentro è rosa dentro

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bianche nel giorno in cui incontrerai il tuo principe non sarà una catastrofe. Diamo per scontato anche che amiamo voi e i fratelli più della nostra stessa vita, io e quell’occhio languido di vostro padre, che quando vi guarda, voi femmine in particolare, si scioglie, anche se vi ha già prudentemente comprato le magliette con scritto UN GIORNO IL MIO PRINCIPE ARRIVERÀ E MIO PADRE LO

FRACASSERÀ. Di sicuro voi lo avete indotto a imprese per lui im-

pensabili, come infilarvi un paio di collant in meno di quindici minuti, distinguere un ombretto – l’elegantissi-ma nuance rosa anni Ottanta che vi contraddistingue – da un rossetto, e imparare a dondolarsi su un’amaca a cinque piazze (ovunque si stenda, voi tutti vi spalmate su di lui).

Diamo per scontate tutte le cose meravigliose che si possono dire su di voi, l’umorismo di Lavinia, la sensi-bilità di Livia, l’intelligenza di tutte e due e tutte le altre risorse che ci diciamo in privato, che adesso non è il momento.

Diamo per scontate anche tutte le raccomandazioni che saranno la colonna sonora delle vostre elementari: questa pagina la devi riscrivere daccapo; hai rifatto lo zaino?; no, lo sai che le Winx non ci piacciono, io e il babbo bambole che dicono «Ho la frenesia da shop-ping» non ve le compriamo.

Passiamo oltre anche tutta l’adolescenza, perché mi odierete, e tutto quello che dirò potrà essere usato con-tro di me. E comunque, se proprio vi dovete truccare, che l’eyeliner almeno sia dello stesso colore del mascara. Sul tema trucco, poi, quando sarete grandi, tenete a mente i due principi base: primo, mai senza fondotinta (un mi-nuto di silenzio per il suo benemerito inventore, che me-rita un Nobel); secondo, mai prestare una trousse di Chanel a qualcuno che avete smesso di allattare da poco.

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Facciamo finta per adesso che siate già giovani don-ne. Mi metto avanti con il lavoro, nel caso si verifichi il mio secondo peggiore incubo, quello di morire prima che voi diventiate grandi e forti abbastanza. L’incubo primo in graduatoria è che succeda qualcosa a voi, un pensiero che di per sé renderebbe la vita intollerabile, se non ci si ricordasse che quella stessa vita non è nostra, ma sta ben salda nelle mani di Qualcuno che ci vuole molto bene.

Non so come sarà lo spirito del tempo quando voi vi interrogherete sulla vostra identità. Non so quanto sa-ranno cambiati i tempi rispetto a quelli che ho vissuto io; per ora mi sembra molto.

L’adolescenza, innanzitutto. Attualmente per lo più le (pre)adolescenti mi fanno sentire una specie di ritar-data, capaci di abbigliamento, trucco e atteggiamenti carichi di allusioni a una realtà misteriosissima – il ses-so – di cui io alla stessa età non avevo neanche sentito parlare. Il tanga che spunta dai jeans in seconda media, ragazze, scordatevelo: il babbo vi comprerà mutande ascellari a fiorelloni: in qualche merceria di paese sa-ranno certo rimasti due o tre esemplari che facciano al caso vostro.

Non si possono usare espressioni – sentite con le mie orecchie – come “Sono nervosa, devo fare un po’ di shopping” nell’età in cui io andavo in giro con l’ap-parecchio, le scarpe ortopediche e i vestiti ereditati da qualche cugina più in carne (io ero uno stecco) o più bassa. Diciamo la verità, ero un vero cesso, ma ero trop-po piccola per farci caso. Adesso, invece, gli stessi carto-ni che vi vogliono proteggere da qualsiasi trauma – via la morte, via la paura, via il dolore – traboccano di allu-sioni all’emotività a buon mercato e al sesso, allusioni con le quali siete bombardate letteralmente fin dalla culla. Storie d’amore, intrecci di coppia, principi azzurri

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come se piovesse. E non basta non guardare la tv, in qualche modo misterioso qualcosa vi arriva comunque.

L’adolescenza che comincia anzitempo proseguirà poi a oltranza, fino alla vecchiaia, che poi vorrei sapere quando una si rassegna a definirsi vecchia, se i settanta sono i nuovi sessanta, i sessanta i nuovi cinquanta e via dicendo, da quando Gloria Steinem si è inventata que-sta balla: quarantenni con la Smart di Hello Kitty, si-gnore con le magliette decorate dai nanetti, donne ma-ture ornate di collane con pupazzetti rosa (va bene, ne ho una anch’io, ma me l’hanno regalata, e poi da tempo me l’avete requisita).

L’analisi economica non è il mio forte, anche se ho velleità da editorialista, come sa bene Luca, il mio ex caporedattore che cassava sempre le mie divagazioni nei pezzi per il tg: profonde, magistrali letture di costu-me dei fenomeni economici. Modifica, seleziona, tasto CANC. «Ma Luca, mi hai tolto la parte più ispirata! Tu mi tarpi le ali.» «Te le tarpo sennò fai la fine di Icaro. Mi devi dare i dati Istat. Non voglio nessuna omelia in ag-giunta» rispondeva ogni mattina senza alterare l’imper-turbabile espressione facciale (ma secondo me sotto i baffi rideva).

Insomma, forse l’analisi non è il mio forte, ma adesso Luca non mi legge, e così posso dare libero sfogo all’e-conomista che è sopita in me, e chiedermi se tutta que-sta adolescenza dilatata non sia incoraggiata in qualche modo – comunicazione, pubblicità – dalle leggi del mercato. Se non serva ad aumentare in maniera paros-sistica falsi bisogni e consumi, rendendo imprescindibi-li merci di cui una a cinquant’anni dovrebbe avere persa memoria.

Comunque, durante l’adolescenza, ammesso che vostro padre vi farà uscire sole prima dei trent’anni, il gioco della seduzione sarà al massimo. È il momento in

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cui devi essere sempre “in tiro”, per accaparrarti lui, esattamente l’unico ragazzo nel tuo campo visivo che non ti guarda. Un giochetto di conquista che c’entra ben poco con l’amore («Mi piace lui perché non mi vuole» e tutti gli altri più elementari meccanismi di funziona-mento della mente umana nella sua versione base) e che costringe a proporsi in modo vistoso, curato, acces-soriato, sempre nuovo.

Ecco allora consumatrici compulsive piene di bisogni indotti: è la donna single con reddito la felicità di ogni direttore di marketing. Bene accetti anche i dink, double income no kids, le coppie che dividono le spese ma senza figli, e quindi con un sacco di soldi da buttare.

Il mio non è pauperismo: la ricchezza è una benedi-zione ma va usata con giudizio, con criterio, per il bene, nostro e degli altri.

Quindi, bambine, è per questo che vi prendete molti no (mai abbastanza, secondo le nonne) alle vostre con-tinue richieste, per imparare prima possibile che i biso-gni non si saziano con gli oggetti, anche se in alcuni momenti mi sembra di essere certissima che la borsa di Dior in Mongolia mi apporterebbe grandi benefici psi-cologici. Già, perché educando voi educo me stessa, che a dire la verità troverei qualcosa meritevole di acquisto pressoché ovunque. Una volta ho scovato un imperdi-bile cappello (mi avete mai visto con un cappello?), cre-do risalente agli anni Sessanta, in un minuscolo nego-zietto di un minuscolo paese delle Marche, che teneva un po’ di tutto insieme ad avanzi di una bottega chiusa una vita prima. Mi sono immediatamente chiesta come avessi potuto farne a meno fino a quel giorno. Avranno brindato, dopo che me ne sono andata, al fondo di ma-gazzino di cui si erano liberati. In compenso io ho arric-chito di un nuovo prestigioso articolo il padiglione “mai più senza” della nostra casa, ricco di sciarpe, quadernet-

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ti, cartoline d’epoca, penne, borse, oggetti mai utilizzati che al momento mi sembravano essenziali al mio benes-sere psicofisico. Dopo l’adolescenza arriva la fase dello studio, anche questa molto dilatata nel tempo: adesso ci sono la laurea breve e poi lunga, master, dottorati, borse di ricerca, stage. Con l’ingresso nella vita adulta – qual-cosa di stravagante e audace tipo una casa per conto tuo, una famiglia tua – sempre più posticipato. Così i figli, se arrivano, si presentano quando i genitori hanno energie fisiche da persone mature (e il cervello da ado-lescenti?). Quanto al sesso, non sono una mamma ami-ca, quindi non mi venite a raccontare niente. Non ci scambieremo i sandali stiletto (tanto io non ce li ho) né la biancheria intima migliore. Non vi racconterò niente di personale, perché come Cam nella Genesi dovete sta-re fuori dalla mia stanza da letto.

Parleremo, quando sarà il momento. Vi dirò princi-palmente che non buttarvi via sarà buono soprattutto per voi. Non vi pentirete mai di avere aspettato, di avere preso tempo, di avere lasciato tempo alle emozioni di decantare. Con il sesso si può dare inizio a una nuova vita, che è eterna, e con la vita non si scherza. Avere rotto questo legame tra fare l’amore e dare la vita, ha reso il sesso tanto più triste e vigliacco, poco avventuro-so e coraggioso. Dare il giusto peso – enorme – al fare l’amore lo renderà incredibilmente più prezioso e dav-vero emozionante per voi. E infatti le ricerche, i sondag-gi, i giornali parlano di un calo generalizzato del deside-rio, anzi della morte del desiderio per eccesso di soddi-sfazione. Non è difficile capirne il motivo vedendo per esempio la caparbietà con cui chiedete e aspettate rega-li che, una volta ottenuti, perdono gran parte della loro attrattiva (vogliamo parlare di quelle Barbie abbando-nate? della povera scimmietta Ringon che giace in fon-do al cesto?).

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Sempre più in là con gli anni noi donne cominciamo a chiederci chi vogliamo essere. Perché la risposta non è scontata, come lo era invece, per esempio, per la vostra bisnonna, la nonna Irma, che in tutti i suoi novantasei anni non credo sia mai stata sfiorata da una simile do-manda, essendo principalmente impegnata nel sosten-tamento suo e dei suoi figli.

Potersi chiedere chi si vuole essere, avere davanti una gamma di possibili risposte e non una strada se-gnata sin dalla culla, è sicuramente un grande privile-gio, come lo è la libertà. Però anche di questa, come della ricchezza, bisogna fare buon uso. Cioè, a un certo punto bisogna rispondere, scegliere, ribellarsi al giova-nilismo e alla retorica delle sliding doors – l’altra vita possibile che avremmo vissuto se avessimo preso l’altro vagone della metro – che ha fatto la fortuna di un’intera generazione di scrittori contemporanei.

Insomma, ragazze, a un certo punto bisogna sce-gliere e prendersi responsabilità. No, non adesso che siete piccole: scegliamo noi, e non si discute (mancano solo una ventina d’anni, e poi potrete liberamente fare a meno degli spinaci). Mi dispiace ma questa non è una casa democratica. Essere allenate a obbedire però non vi farà che bene, quando sarà il momento di prendere decisioni. Avrete incamerato, speriamo, qualche punto fermo, qualcosa di obsoleto, come bene e male, giusto e sbagliato.

«Vuoi dirmi che pensi davvero che quello in cui credi tu è giusto, e quello in cui credo io è sbagliato?» mi ha chiesto una volta un collega al colmo dell’indignazione, e del sincero dolore. Nei suoi occhi c’era uno stupore genuino: eppure mi sembrava una ragazza così simpati-ca! Neanche gli avessi detto che andavo fuori dagli asili a distribuire alcol e droga. Sì, Renato, ribadisco: per quanto incredibile possa sembrarti, penso che ci sia un

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giusto e uno sbagliato. Non intercambiabili, non dipen-denti, pensa che pretesa la mia, dal punto di vista.

Per tornare alla domanda sulla propria identità, noi liceali della fine degli anni Ottanta siamo cresciute con l’idea che avremmo avuto tutto. Eravamo convinte di essere uguali agli uomini. Tra noi e i nostri fratelli ma-schi non c’era differenza in casa, così in classe. Abbiamo studiato senza sentirla come una conquista; diventare medici, avvocati, docenti universitarie (sto pensando al-le mie compagne di classe) è stato scontato, e scontato, nelle nostre previsioni, sarebbe stato avere tutto, lavoro e vita personale. Non sospettavamo che avremmo pa-gato un prezzo, perché nessuna di noi può essere tutto, realizzarsi su tutti i fronti.

Per questo, quando a quindici anni la mia nonna Gi-na – la bisnonna che voi purtroppo non avete cono-sciuto – mi rimproverò perché mi ero servita la pasta prima di mio fratello, cioè lo zio Giovanni, mi feci una grassa risata. Nella quotidiana lotta per la conquista del comodo proprio, a casa, sgomitando tra fratelli non c’e-ra certo una lotta tra i sessi ma tra spazi vitali.

L’idea della nonna era che a tavola le donne si sedes-sero dopo avere sfamato gli uomini, persino quando anche loro erano state a lavorare nei campi. Aveva un debole per me – io indosso quasi sempre i suoi orecchi-ni e la sua Madonnina è al centro della mia casa – ma mi trovava proprio “marampta”, che in perugino significa sgraziata. Non ero abbastanza una donnina di casa. Nonna, non ci crederai ma ho imparato a stirare e a mi-surare la febbre con il tocco delle dita, due decimi di margine di errore.

Adesso ti ascolterei con un altro orecchio. Adesso noi donne non siamo più obbligate a fare da serve, ma pos-siamo scegliere di servire per amore, e per rispondere libere alla nostra chiamata. Noi e i maschi siamo diver-

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sissimi, altro che pari opportunità. Non siamo pari per niente, e non riconoscerlo è fonte di sicura sofferenza, come ogni volta che si nega la verità.

Tra la nonna Gina e noi, ancor più voi, bambine, c’è stata l’emancipazione delle donne, le battaglie femmi-niste che ne sono state il motore, e l’inserimento ormai praticamente obbligato nel mondo del lavoro. E ci sia-mo dimenticate che non si può avere tutto: lavorare co-me un uomo ed essere a casa come una donna.

Non rinneghiamo tutto di quei cambiamenti, per ca-rità. Le mie nonne, quando sono nate, non potevano votare, e in televisione negli anni Sessanta un opinio-nista poteva dire indisturbato «Le donne sono come le polpette, più le batti più sono buone». Lo so perché il vostro babbo mi fa vedere solo Rai Storia, che pizza, niente che sia stato girato dopo gli anni Settanta, tu aspetti una commediola romantica e ti becchi uno spe-ciale sui sobborghi romani del dopoguerra. Così, co-munque, ho appreso che per scegliere una buona mo-glie bisognava essere certi che fosse una donna “che piasa, che tasa e che la staga in casa”.

Di tutto questo non parliamo neanche, tanto, grazie a Dio, è lontano da voi, non minaccia la vostra vita di donne adulte.

Però la reazione a quelle ingiustizie è andata troppo oltre.

Il femminismo è stato, a suo modo, una fioritura. È stato un’esplosione dell’esigenza di sentirsi amate, ca-pite, valorizzate. Solo che ha preso la strada sbagliata, quella dell’affermazione di sé. Siamo entrate anche noi nella logica del dominio; invece dovevamo scardinarla, quella logica che contestavamo: con noi intendo le no-stre mamme o sorelle maggiori.

Alla fine è stato peggio anche per noi. L’emancipazio-ne – che è partita da un’esigenza di giustizia – ha portato

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a un’idea distorta della parità. La parità non è uguaglian-za. È dare pari dignità a due identità che non potrebbero essere più diverse. Voi lo vedete con i vostri fratelli, no? In cosa vi assomigliate, a parte il disordine, la predile-zione per grassi idrogenati e coloranti, e un certo talen-to nel costellare di macchie indelebili qualsiasi indu-mento o altro tessuto con cui veniate in contatto, come tendaggi, tovaglie, cuscini, meglio se non sfoderabili?

La Genesi – l’inizio del “liblone di Gesù” come dite voi –, quando racconta la creazione dell’uomo a imma-gine di Dio, dice solo «Maschio e femmina li creò». Non dice una creatura intelligente, libera, dotata di anima. Nessuna di quelle qualità fondamentali è la prima da elencare descrivendo le origini. Maschio e femmina.

È lì prima di tutto la nostra identità. Quella della donna, il suo genio, è accogliere. Il fem-

minismo lo ha negato, e ci ha fregate. Perché quando si tradisce la propria natura si va fuori di testa, e io ne co-nosco molte di donne così (e alcune le conoscete anche voi, anche se siete troppo piccine per accorgervene). So-no tristi, arrabbiate, deluse, risentite, gelose. Sono divi-se da se stesse.

Vogliono affermarsi e si deformano, perché noi sia-mo fatte per accogliere. Lo dice anche la nostra confor-mazione fisica, e il fatto che siamo in grado di fare spa-zio per un’altra persona tra le nostre viscere.

Troppe donne sono in lotta con i mariti, i compagni, e diventano insopportabili. Solo perché non hanno ca-pito il segreto dell’accoglienza, e poi della sottomissio-ne, dell’obbedienza come atto di generosità.

«Bernardo, secondo te che cosa abbiamo in comune noi femmine con voi maschi?» chiedo a vostro fratello che, come voi sapete, dall’alto dei suoi otto anni c’illu-mina con la sua sapienza filosofica. «Che siamo tutti es-seri viventi» risponde lui, dopo avere riflettuto e masti-

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cato coscienziosamente svariate crocchette di pollo. «Ma, Berni, anche un albero è un essere vivente. Avre-mo pure qualcosa di più in comune!» «Non mi viene in mente niente» tronca secco, probabilmente non benis-simo disposto verso l’altro sesso da un eccesso di rap-presentanza e rumorosità in casa e a scuola, accerchiato come è da mamma, sorelle, maestre e compagne fasti-diosamente espansive per lui, giovane orso in erba di pochissime parole.

Ecco, noi siamo diverse dagli uomini, e credo che quan-do vi chiederete chi volete essere dovrete tenere conto di questo. La vostra vocazione all’accoglienza andrà in qualche modo realizzata, integrata nella vita che sce-glierete di fare, e non rinnegata o soffocata. Per vostra curiosità sappiate che adesso le vostre risposte standard sono «ballelina» e «dottore dei cavalli». «Però» dici tu, Livia, «voglio essere anche quella che cerca i pidocchi», cioè una mamma. Meno male, io per voi dovrei essere un modello, e pazienza se l’arte di eliminare i parassiti vi sembra il mio tratto distintivo.

Che posso dirvi, infine? Spero che la vostra genera-zione di donne possa finalmente essere quella pacificata, che possiate realizzare la vostra più profonda identità scegliendola consapevolmente. Perciò, ma che auspicio fuori moda, che siate prima di tutto forti, e quindi acco-glienti, aperte agli altri, capaci di unire. In una parola, buone. Se potete.

Con amore, la mamma

Ecco, lo sapevo, l’ho fatto di nuovo. Mi è venuto fuori il tono da telepredicatore. Ogni tanto succede, e non è il massimo per chi capita a tiro, soprattutto se ha superato i nove anni. Ma non ci posso fare niente.

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Il fatto è che mi vedo intorno donne che soffrono, o almeno che sono inquiete, alla ricerca, inappagate. An-che quando apparentemente hanno tutto.

Anzi, più abbiamo, più fatichiamo – e qui devo pas-sare alla prima persona plurale – a tenere insieme tutto, a rinunciare all’ipercontrollo, al perfezionismo.

Nei miei primi anni da moglie e madre, e per coinci-denza anche lavoratrice, il mio cellulare quando si ac-cendeva mi diceva dal display: sei in ritardo. Così, tanto per ricordarmelo, appena sveglia.

Io penso che per cominciare dobbiamo fare qualche passo indietro nella vita personale. Ci è richiesto molto, troppo: l’emancipazione ci ha lasciate sfinite, oberate. Lavoro, marito, figli, casa, rapporti sociali, e tutto il resto che tutte sappiamo. Semplicemente non è possibile fare tutto, e farlo anche essendo sorridenti e in forma, curate ed eleganti.

Oddio, sulla mia cura chiudiamo un occhio. Dal mio parrucchiere, per dire, io sono una paria, mi presento due volte all’anno con delle mise improponibili, quello che è rimasto stirato dopo una settimana di lavoro, devo sempre scappare con i capelli bagnati e sto lì china e silenziosa per approfittare di quel tempo prezioso – se-duta? senza fare altro? in quale altro momento mi capi-ta? – e leggere uno di quei sessanta-ottanta libri arretra-ti impilati sulla mensola che mi lancia occhiate di disap-provazione ogni volta che le passo accanto. Non parlia-mo della disapprovazione del parrucchiere verso i miei capelli giunti allo stremo.

A un certo punto si tratta di fare un passo indietro, e di accettare con serenità di essere in ritardo, o più preci-samente di non essere perfette.

Non mi viene in mente nessuna donna che conosco che non si lamenti di non avere abbastanza tempo, di sentirsi in difetto. Intanto può essere utile imparare a

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fare le cose con leggerezza, poi chi ci riesce mi dice co-me si fa, che io tenderei a prendere ogni questione come decisiva e non negoziabile, ogni giornata come una fi-nale degli Europei, ogni contrasto come esiziale.

Apprendo ogni volta quasi con stupore che invece alla fine si sopravvive, quasi sempre.

Ho imparato con sincera sorpresa che nessuno dei fi-gli muore per qualche manciata di microbi, perché men-tre tu finisci l’ultima mano di straccio per terra loro ti ven-gono incontro gattonando con una scarpa infangata in bocca (e speriamo che sia fango); sopravvivono anche se qualche sera mangiano schifezze comprate, o se gli ac-cendi la televisione su qualcosa a cui non possano resi-stere per collassare sul divano con loro quando il sonno è davvero troppo; sopravvivono anche se, incredibilmente, per un anno tu non sei rappresentante di classe, e ti perdi una riunione collegiale sul piano per l’offerta formativa della scuola, tanto quando vado io leggo altro sotto al banco perché per lo “scuolese” a me ci vuole l’interprete.

Di sicuro bisogna imparare a ridurre le aspettative e, se si è sposate, a fidarsi della persona che si ha accanto, del suo stile nel fare le cose (anche se, sia chiaro, il mio stile nel bruciare gli sformati non ce lo ha nessuno in casa nostra), a delegare, a rinunciare al controllo totale, a scegliere facendo a meno di qualcosa.

La donna non funziona quando appoggia la sua si-curezza fuori di sé: nella riuscita di quello che fa, negli uomini, nel lavoro, nella bellezza, e non nell’Unico che quella sicurezza la può dare.

La donna si perde quando si dimentica chi è. La don-na è principalmente sposa e madre. Deve offrire spazio e protezione. Non solo negli stretti confini della fami-glia: noi siamo capaci di farci compagne e madri di tutte le persone che entrano nel nostro orizzonte (se qualcu-na delle mie sagge e accoglienti amiche mi vuole adot-

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tare, io ci sto: non sono orgogliosa, non mi offendo e va bene anche un’adozione a distanza, con la consegna di pasti pronti a casa. Siamo sei, ma i piatti di portata ve li ridò lavati).

Come dice Edith Stein, l’anima della donna deve es-sere ampia, cioè aperta a tutti; calda e luminosa per aiutare a crescere anche le piantine che stentano; piena di pace perché quando c’è il temporale i germogli pos-sono non farcela; riservata perché ci sono momenti in cui le intrusioni dall’esterno sono pericolose come una tromba d’aria; vuota di sé per fare spazio, perché ci vuo-le terreno fertile per far crescere qualcosa; padrona di sé  perché deve essere pronta a servire, e non schiava di se stessa e dei suoi umori come di una grandinata che in ogni momento incombe.

Ampia la nostra anima lo è di sicuro, interessate come siamo alle vicende di chi ci sta intorno. Non sempre con il più nobile degli intenti. Basta dire a un’amica che do-veva chiudere rapidamente una telefonata «Era solo per dirti una cosa che ho saputo, ma è una notizia riservata» ed è certo che l’amica non dovrà più chiudere. Non per parlar male, no; per il suo bene, ci mancherebbe.

Non è esattamente questa l’idea di grandezza d’ani-mo di Edith, che prima di diventare santa e patrona d’Eu-ropa col nome di Teresa Benedetta della Croce era una coltissima filosofa allieva di Husserl, e sulla donna ha scritto pagine capitali.

Un’anima silenziosa e riservata di solito non è nella nostra dotazione base, almeno non nella mia, diciamo la verità, per quanto sarebbe il sogno di mio marito, che non mi trova mai tanto irresistibile come quando ho la febbre a quaranta e finalmente mi decido a soccombere zitta a letto con del ghiaccio in testa. Però il silenzio lo dobbiamo imparare: senza quello le voci più deboli non le sentiamo.

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Solo così possiamo rendere, lavorandoci sopra, la nostra anima anche vuota di noi stesse e raccolta, per fare posto agli altri, per dar loro modo di farsi sentire.

Calde lo siamo, anche troppo a volte, di un calore non sempre equilibrato, io no di sicuro. In questo senso gli uomini sono più lucidi di noi, e dovremmo imparare da loro.

Ma se non siamo noi a tenere vivo il lavoro dell’ac-coglienza, nessuno lo può fare al posto nostro, per quelli che ci sono affidati. Come dice Billy Joel, «un fi-lo» meno profondo della Stein ma sicuramente più orecchiabile, la donna può tirare fuori dall’uomo il me-glio e il peggio che lui possa essere (Always a woman, chi di noi non si è inorgoglita almeno una volta ascol-tandola?). Il mondo è nelle nostre mani, ed è così mal-messo perché noi ci siamo perse. È fin troppo evidente che sul piano dei rapporti umani, della crescita perso-nale, dell’educazione siamo noi a tenere le fila, a fare il lavoro grosso.

Per questo, se noi tradiamo la nostra natura, i rap-porti finiscono.

Le donne che sono arrivate al tradimento estremo, spesso vittime di vicende in cui si sono perse, e hanno abortito, si caricano di un grande peso. Sono donne fe-rite e bisognose di tenerezza, perché ammettere di ave-re sbagliato tanto nella vita è troppo doloroso.

Insieme a loro tutte noi dobbiamo imparare il dono dell’accoglienza, con cui si trasformano gli altri, prima di tutto l’uomo che si ha accanto. La donna “compiuta” ama per prima. Ascolta, consola, incoraggia, perdona, riunisce, fa posto agli altri. Mette la tenerezza nella sua famiglia. Con la sua sottomissione costruisce il padre, perché lo mette sopra di sé, gli dà autorità. Si fida per-ché lei sa chi è, e non ha paura di perdersi lasciando vincere un altro, anzi l’altro.

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Tre anni dopo...

Direi che non esiste al mondo, in assoluto, un argomen-to sul quale una madre sia meno serena e oggettiva che i propri figli. Io, per dire, oscillo tra picchi di immotivato orgoglio (lo dicevo io che era un genio, l’ho capito da come guardava girare le apine sopra la culla) e baratri di ansia materna (ho sbagliato tutto, lo sapevo, per quella bustina di Gormiti negata soffrirà tutta la vita).

Ora che i primi due sono pericolosamente in zona adolescenza, poi, vorrei tanto iscrivermi a qualche grup-po tipo alcolisti anonimi, per alzarmi in piedi e dire «Salve, sono Costanza, e anche io ho un figlio adole-scente», nella speranza che qualcuno che non sia coin-volto come me possa dirmi (per una modica cifra, ma sono pronta a sborsare di più) che stiamo facendo un buon lavoro con i figli.

Quanto alle destinatarie di questa lettera, che peral-tro non l’hanno ancora letta, tloppo difficile, non sono in grado di dire che piccole donne stiano crescendo. Sul fronte autostima dovremmo esserci, a forza di baci, baci e poi baci, e complimenti, anche se si sa che in ogni donna c’è una voragine di bisogno di conferma pratica-mente incolmabile (se non da Dio stesso che peraltro l’ha progettata, la voragine, quindi se la vedrà lui con loro). Se il genio femminile è quello della relazione, di custodire gli altri, direi che anche su questo fronte ci do-vremmo essere, a giudicare dalla tendenza a invitare a casa chiunque capiti, allestire culle di emergenza per cinghiali di pezza neonati, organizzare tè con microtaz-zine a pallini per amiche, dinosauri, Barbie durante i quali dispensare consigli un po’ a caso.

Certo, a me sembra cambiato, nonostante siano pas-sati pochi anni, il contesto in cui stanno crescendo. C’è stata senza dubbio un’accelerata sui mezzi di comuni-

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cazione, un vero bombardamento mediatico a tappeto per affermare le teorie di genere, per dire che nessuno ha un’identità sessuale donata, che nulla è naturale, ma tutto è scelto. Non ci sarebbero caratteristiche maschili e femminili ma solo orientamenti. È una vera e propria guerra, quella che si sta combattendo, tra due antropo-logie, tra due visioni del mondo. Sono sicura che le mie bambine, Livia e Lavinia, combatteranno per dire che è bello essere maschio o femmina, saranno con tante altre persone sul campo di battaglia con una bella corazza, lucida, resistente, e possibilmente rosa.

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Caro Marco, tu sei la prova vivente che il teorema di Harry, ti pre-

sento Sally – uomini e donne non possono essere amici, perché prima o poi il sesso ci si mette in mezzo – è sba-gliato. Accade raramente, per la verità. Ma tu sei davve-ro un amico, di quella forma calda e confortevole di cui non si può fare a meno, tipo il compagno grasso delle medie a cui si confidavano terribili pene amorose (per quanto mi dichiaro ufficialmente offesa del fatto che tu non abbia mai – neanche una volta? – nutrito nei miei confronti pensieri lubrichi).

Tu, in cambio di affetto sincero e confidenza, re sti-tui sci la preziosa merce del punto di vista maschile sulle cose, un’eco di un altro pianeta, tracce di vita da una galassia lontana.

A te si possono chiedere pareri maschili sulle pro-prie cosce, sui capelli, sul taglio di una gonna, argomen-ti a cui i tuoi simili sono totalmente disinteressati, a me-no che non si trovino nel momento di usufruire diretta-mente delle parti in oggetto.

Addirittura, con eroica abnegazione, puoi sostenere conversazioni sul tono che un altro ha usato per rispon-dermi. Martire dell’amicizia, mi hai ascoltato per ore durante le crisi di gelosia. Svisceri con me problemi ine-

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Marco ovvero

Break on through to the other side

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sistenti, per i quali i tuoi simili si limiterebbero a scam-biarsi una virile pacca sulla spalla. Preferisci persino parlare con me, o con un’altra della tua affollata schiera di amiche, piuttosto che emettere suoni inarticolati in-sieme ai tuoi simili, davanti a una qualsiasi partita di qualsiasi sport nella quale un oggetto sferico si muova in qualsiasi direzione dello spazio.

E, argomento col quale perorerò la tua canonizza-zione, non ti offendi praticamente mai.

Per questo, e perché ti voglio davvero bene (è molto che non te lo dico?), ti chiedo per l’ennesima volta: per-ché tu e Chiara non vi sposate?

Probabilmente perché convivete da tempo imme-morabile, e non essendo credenti non c’è motivo per voi di chiedere la benedizione di Dio, che per voi non c’è, o di ufficializzare davanti allo Stato, che non vi in-teressa.

Fra l’altro, al di là di tutte le polemiche in malafede sulle coppie di fatto, sapete benissimo che i non sposa-ti sono di gran lunga favoriti in molti modi. Per esem-pio, per motivi davvero impenetrabili a una mente nor-male, in caso di figli due conviventi hanno molte più possibilità, non sommando i propri redditi, di ricevere assegni familiari – notare il bizzarro nome – rispetto a due coniugi. Sono argomenti a cui è difficile controbat-tere, per cui, come si fa ogni volta che si sta perdendo terreno, passo all’insulto. Sei un vigliacco, un bambino, uno smidollato.

È ora che tu sposi Chiara e smetta di tenerti aperte tutte le porte, di guardarti intorno con aria vaga, di pro-gettare di andare ad aprire una crêperie a Parigi o un sushi bar a Manhattan. Sai che ideona, e perché non un chiosco di würstel a Monaco, allora?

Sono tutte fantasie queste, non è la vita, ma quell’alo-ne di emozione che la circonda. Hai mai fatto qualcosa

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di concreto in quella direzione? Hai chiesto le autorizza-zioni, intanto? Hai avviato le pratiche? Continui a dire che non morirai dipendente della tua azienda, ma intan-to per cambiare le cose non muovi un dito, tranne quello che ti serve per aprire la busta paga alla fine del mese.

Per un’idea cinematografica dell’avventura e dell’im-presa, forse hai visto troppi film di Salvatores e compa-gni, ti sei in qualche modo convinto che andare in un paese lontano a fare una cosa per te nuova ti aprirebbe orizzonti di conquista. Io credo che un orizzonte più pionieristico di qualche nuova vita da tirare su come Dio comanda non c’è.

E poi, scusa se lo dico a te, un vecchio rockettaro che vive di musica, ma i tuoi cari Doors hanno fatto la loro epoca. Break on through to the other side poteva avere un senso nell’America degli anni Sessanta, ma adesso ba-sta. Adesso, mi corre l’obbligo di ricordartelo, la vera other side è impegnarsi, prendersi cura di qualcuno per sempre, dei tuoi bambini per esempio; il vero rischio è spendere seriamente la vita, non fare i propri comodi. Mi devi spiegare che cosa ci sia di eroico e spericolato nel fare solo quello che ti va. A far quello sono buoni tutti. È l’impegno, di certo non l’evasione, la vera tra-sgressione.

Inoltre, a ben vedere, un conto è gridare di rompere tutto fino ad arrivare dall’altra parte prima che il giorno distrugga la notte quando si è Jim Morrison sulla spiag-gia di Venice nel ’67. Già è un altro conto – ma il senso del ridicolo è dono di pochi – inneggiare alla vita speri-colata quando si è il signor Rossi da Zocca. Per non dire quando si è Marco che vuole fare un giro sul lato selvag-gio di Ostia Lido.

Se devi buttare tutto, non essere squallido. Fallo alla grande, con stile, con classe. Prendi tutti i tuoi averi, ven-di tutto e parti senza voltarti indietro, rischia qualcosa.

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Tu, invece, mentre ti culli con l’idea della fuga – que-sta sì una modalità di pensiero profondamente maschi-le – ti lamenti solo, e non guardi a quello che hai. Hai una donna intelligente (e smettila di annusare le altre, che se Chiara ti molla sei un uomo morto) e un lavoro interessante, anche se ti lagni sempre della routine da schifo. È vero, sei bravo, e potresti fare di meglio rispet-to a quello che in media fai, ma dimmi quale lavoro non preveda una parte poco creativa e gratificante – e rin-grazia che non sei, che so, magazziniere di un super-mercato, o un laureato al call center. Anche ai grandi artisti forse a volte capita di fare i mestieranti, non si può sempre scrivere la Nona di Beethoven.

Ammetto che per te e Chiara potrà anche essere dif-ficile da sposati, anche se convivete da anni (o forse pro-prio per questo), perché il clima cambia. La porta di casa si chiude, e anche se si può sempre scappare, si entra nell’ordine di idee del definitivo, dell’inappellabile. Ho una vita sola e la consegno nelle mani di questa persona. Mi arrendo. Una cosa da brivido, a pensarci bene.

Ti capisco, io sono riuscita a farmi assumere per ulti-ma del gruppo di coetanei (senza incontrare troppe re-sistenze da parte dei direttori, per la verità), e sono l’u-nica degli ex precari che non ha festeggiato l’assunzio-ne. Neanche un pasticcino in redazione. Il contratto a tempo indeterminato, che sgomento.

Ma nella vita personale è un’altra cosa. Niente può sostituire la fecondità di un impegno definitivo.

Affronterai senza rete le differenze tra te e Chiara. Perché le differenze ci sono, per quanto voi, coppia postfemminista apostola della non differenza, vi osti-niate a negarle.

Ma quale uguaglianza. Io, che ho due figli maschi e due femmine, ti posso dire che dal primo vagito c’è dif-ferenza.

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Ricordo bene quando la mia Livia, la bambina più ubbidiente che esista, si è fatta cogliere da una crisi iste-rica irrefrenabile, dopo l’incontro folgorante con l’og-getto dei suoi desideri. Eravamo a Loreto, dove dovevo saldare un conto con la Madonna. Lei aveva un anno, non parlava e non camminava bene. Dal suo passeggi-no ha cominciato a gridare dalla pazza gioia cercando di farsi avvicinare alla vetrina dei suoi sogni: era piena di bambole di pezza.

Dopo un anno di giochi di terza e quarta mano, dra-ghi e mostri pelosi, cubi di gomma e costruzioni che pensavo potessero funzionare come avevano fatto con i fratelli maschi, eccola finalmente scegliere qualcosa di veramente suo. Una bambola da accarezzare, accudire, allattare. Ovviamente è stato impossibile resistere, così Livia ha avuto la prima di una lunga serie di esserini da nutrire con tazze di sassi e foglie in giardino.

Vallo a dire alle femministe che negano l’esistenza dell’istinto materno.

La sorella predilige invece povere principesse sfor-tunate in cerca di marito, e attende i numerosi visitato-ri maschi della nostra casa, baldi giovanotti per lo più tra i sette e gli undici anni, perennemente vestita da sposa. Non si sa mai. Un abito lercio e consunto che posso lavare solo di nascosto, sperando che il suo prin-cipe azzurro non si presenti proprio nel momento del risciacquo.

Sono diversi in tutto: i maschi vengono in chiesa sbuffando, le sorelle mi seguono contente, anche se, da vere femmine, mi redarguiscono se non mi curo ab-bastanza: «Mamma, non si può andare struccate da Gesù!».

Non è che io sia una poveraccia, una “non liberata” che somministra stereotipi insieme al latte materno: io ho cominciato con tutti allo stesso modo, ho trascorso

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pomeriggi manovrando inutilmente lettere di cartone che introducessero quelle perle di figlioli nel meravi-glioso mondo della lettura. Solo che, prima che me ne accorgessi, la camera delle femmine è diventata un tri-pudio di raso rosa e sobri decori di strass e paillettes, quella dei maschi un arsenale.

Mentre io, da madre inesperta, leggevo manuali il cui unico scopo era convincermi che era colpa mia se mio figlio non solfeggiava Mozart o non scriveva qual-che capolavoro dal suo vasino, i figli hanno avuto mo-do di sviluppare indisturbati l’indole di cui li ha dotati il Crea tore.

Hai voglia a legger loro la Bibbia e i brevi racconti di Tolstoj: i grandi, si fa per dire, sono due buoni lettori, non mi lamento, ma nessuna pagina stampata può reg-gere il confronto con la Playstation, il cui fascino è ac-cresciuto dal fatto che è centellinata, ma soprattutto con il fucile a pallini. I più irresistibili, però, sono i fucili veri del nonno, il quale qualche tempo fa mi ha riportato, dopo la sua prima giornata di caccia, il Tommaso più felice che avessi mai visto.

E le differenze che cominciano a vedersi durante l’infanzia, per la mia esperienza non tendono ad atte-nuarsi più tardi. Un maschio adulto ha uno sguardo da cacciatore, cosa che potrebbe rivelarsi utilissima se si presentasse una beccaccia in corridoio, ma che gli im-pedirà nel modo più assoluto di trovare il burro in fri-go. Non parliamo poi di quanto si nasconda all’occhio del predatore il bigliettino “comprare yogurt” lasciato al centro del tavolo sgombro (probabilmente perché non da tutti in casa lo yogurt è ritenuto un bene di pri-ma necessità).

In compenso l’occhio della donna, disabile alla lettu-ra delle piantine topografiche, le permetterà di indivi-duare una fede al dito di un chitarrista a molti metri dal

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palco. Perché se un uomo sia impegnato o meno rientra per noi tra le informazioni di primissima necessità.

In caso di problemi tu vuoi chiuderti nella tua tana ed essere lasciato in pace, e se Chiara ti offre di parlarne un po’ ti viene un attacco di orticaria. Lei invece vuole con-dividere con te le sue preoccupazioni, sviscerare, analiz-zare, liberarsi di pesi dei quali probabilmente, chiusa la conversazione, si dimentica, mentre tu continui a rimu-ginare cercando per lei una soluzione, perché “io Tar-zan, tu Jane”, e così ti senti in dovere di risolvere pro-blemi e provvedere. Portare a casa la selvaggina e pro-teggere il nido.

Chiara vuole controllare e programmare, tu vorresti che le cose capitassero, anche se per la mia modesta esperienza non capita mai che i contributi della colf o i bollettini della scuola calcio vadano da soli, spontanea-mente, a pagarsi alle Poste. È ovvio che qui sto con Chiara, la mia simile: certe cose non si possono proprio non regolare con un’agenda efficiente.

Il tuo senso pratico è da subnormale, ogni volta che ti vedo riempire il tuo zainetto da tredicenne mi viene da chiedermi perché la maestra sia così crudele e non ti aiu-ti; perché nessuno ti metta mai la merenda nel cestino.

Il rassegnato coraggio con cui hai intrapreso quella che per te è stata l’avventura dell’anno – farti gli occhia-li nuovi – ti ha permesso di affrontare con maschia ab-negazione e spregio del pericolo l’impresa: ben una vi-sita dall’oculista –  con un appuntamento da rispetta-re! – e poi andare dall’ottico.

Sulle spalle di Chiara invece sta tutta la gestione pra-tica della vostra casa, e nonostante questo – o forse pro-prio perché hai la mente sgombra da preoccupazioni – tu ti senti in diritto di gigioneggiare con la collega cari-na, di offrirle generoso la tua spalla per sfoghi periodici, e se interrogato puoi rispondere con perfetta faccia di

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bronzo, alla Fred Buscaglione, «ed abbiamo poi parlato pensa un po’, sempre di te».

Perché voi maschi vi dovete sentire liberi, e Chiara, che è una donna saggia, lo sa e fa finta di non intuire le tue fantasie.

È la stessa radice di inquietudine a buon mercato, di incapacità di partire dalla realtà – che è poi il segno del-la maturità – che ti fa sognare, a ogni documentario che vedi, di andare di volta in volta a fare il pastore in Nuo-va Zelanda o il pescatore a Reykjavík.

Ma dove vai, senza professionalità, senza prepara-zione che non sia quella per il tuo lavoro? Un lavoro che faresti bene a imparare ad amare, a tenerti stretto. Que-sti sono i (non)problemi di una generazione, anzi di una parte privilegiata della nostra generazione, che non si è mai posta il problema della sussistenza. E va bene, è una fortuna avere di che vivere, non è che voglia esalta-re i tempi in cui si veniva spediti a pascolare le pecore a sei anni lasciando la scuola. Ma almeno apprezzalo. E apprezza la tua Chiara. Quale altra donna potrebbe sopportare le tue lamentele, tenere sulle sue spalle il tuo buon umore, la tua serenità? Che quando vi gira male vi gira male a voi uomini, mentre per noi (soprattutto se mamme) il cattivo umore è un lusso: non ce lo possiamo concedere. Per una mamma non è previsto un giorno svaccato, una vacanza, una pausa d’evasione.

L’elenco delle differenze potrebbe proseguire a lun-go, ma quello che voglio dirti è che forse proprio il vo-stro essere, almeno nelle dichiarazioni di intenti, per la coppia alla pari, una specie di “femministi reloaded”, vi ha portati a non maturare. A non prendere qualche de-cisione netta e definitiva. Se siete uguali, che ve ne fate l’uno dell’altra, a parte la soddisfazione reciproca di bi-sogni accessori che non vi rende però insostituibili l’u-no all’altra?

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Non generate voi stessi mettendo insieme le vostre parti mancanti, quel seme di salvezza che c’è in pari mi-sura ma in modi diversissimi nell’uomo e nella donna, e non avete neanche il desiderio di avere bambini. Tra le due cose c’è un legame profondo.

Guarda che io non te ne presto uno per cambiarti il pannolone da vecchio. È ora che ci pensiate da voi, fra poco sarà troppo tardi!

Sposatevi e fate bambini, che sennò non ha senso stare insieme tutta la vita. Sennò è meglio lasciarvi e godervela. Cambia una donna ogni sera. Nuove idiosin-crasie, nevrosi, nuovi stili nel litigare. Non si può stare insieme quindici anni e non produrre niente.

Come misuri un anno della tua vita? In albe, tramon-ti, risate, tazze di caffè, come cantavano i bohémien del-la Broad way anni Ottanta? Come sai, tu, che un anno è passato? Si misura in gesti d’amore, nelle volte che hai saputo mettere una croce sopra i tuoi desideri per darti a un’altra persona, nella vita che hai saputo trasmette-re a qualcuno – non necessariamente un figlio – più pic-colo, più debole, più povero.

Non basta essere l’amico del cuore di tante persone, e particolarmente di una meravigliosa e francamente fuoriclasse come me. Ti meriti di essere tutto per qual-cuno, perché sapresti esserlo in modo davvero speciale. Perché, diciamo la verità, hai molti doni, molti talenti, che però ho trovato irrilevante sottolineare. È che ogni tanto si risveglia in me la modalità “mamma vintage” e, come una madre d’altri tempi, ritengo parte fondamen-tale, principale della mia missione, elencare tutto quello che si può migliorare. Pensa ai miei figli, poverini, che non possono liberarsi di me. Tu, invece, prendilo come un segno di affetto: vuol dire che ti voglio molto bene. La tua amica dell’altra razza,

C.

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Ogni volta che vedo un padre tremebondo alle prese con un imperioso bambino di quattro anni che pretende categoricamente di fare quel gioco troppo pericoloso per la sua età, il piccoletto che dà in escandescenze e lui, il presunto capofamiglia, che contratta, e in ginocchio strappa al bambino il consenso a scendere dal gioco in cambio di altri sette giri sull’elefantino rosa, mi chiedo che fine abbiano fatto i padri.

Me lo chiedo quando vedo maschi adulti maltrattati da bambini, presi a calci qualche rara volta, molto spes-so a male parole, e senza neanche ricevere un ceffone in cambio. Quando vedo ragazzini che ignorano scien-temente i richiami dei genitori, i quali gridando «Mat-teooo!» per la ventesima volta cercano di far uscire dal-la piscina una specie di bestiolina ingovernabile, e quando finalmente l’adorabile Matteo si decide a obbe-dire non buttano neanche il videogioco della creatura nel più vicino corso d’acqua, così, giusto per ricordargli, con calma, chi comanda. Me lo chiedo quando leggo lo stupore nei volti dei miei vicini di ombrellone nel vede-re bambini normali che obbediscono, non volentieri e non sempre sorridendo, ma insomma rispondono agli stimoli esterni.

Mi chiedo chi mai, di certo non quel padre treme-bondo, parlerà ai figli di coraggio, di onore. Chi leggerà con lui Cuore o I ragazzi della via Pal, e gli parlerà di Nemec sek che muore per non tradire il suo dovere.

Io non so come verranno su i miei figli, probabilmen-te più o meno nella media, ho deciso da tempo che non pretendo di avere fenomeni in casa, ragazzi geniali o speciali, perché lo scopo della vita è la vita eterna e non il Nobel, o tanto meno il successo. Forse apriranno una ferramenta, e andrà benissimo (basta che non si chiami “Non solo viti”, triste, o “La boutique della rondella”, pretenzioso). Ma intanto, se io o, molto meglio, il padre

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diciamo «Si va via», si va via senza che il dibattito in merito si protragga per ore.

«Come fate?» mi è capitato di sentirmi chiedere. Non lo so, perché lui dice «Conto fino a tre», ma al tre non ci è mai arrivato, e non so ancora cosa succederebbe. Sem-plicemente, i figli sanno che noi abbiamo poche idee, ma chiare; non li consultiamo per ogni decisione, e ci siamo conquistati una credibilità anche con qualche simbolica punizione, e più con tanto, tanto tempo speso con loro.

Perché a farsi obbedire dal lettino sotto l’ombrellone, in posizione supina, non si riesce; non ci si fa ascoltare senza buona volontà e dedizione, a meno di non farlo con la violenza, ma quella non vale.

Uno dei principi fondamentali della vita – tu sei quel-lo che fai – con i figli può essere verificato abbastanza facilmente, perché loro mettono in pratica quello che vedono fare, non quello che sentono dire. Sentono con gli occhi. Io, per esempio, sono in grado di esporre ai bambini esaurienti teorie sull’importanza di mangiare rigorosamente a pasto, solo che purtroppo generalmen-te lo faccio con la bocca piena di formaggio; io spizzico mentre cucino, nello stesso istante in cui nego loro un antipasto. E, guarda caso, non mi spiego perché questa cosa del mangiare è oggetto di continua contrattazione.

Per lo stesso motivo è inutile rilasciare attestati uffi-ciali di stima ai figli quando poi li si critica a ogni passo che fanno, ed è difficile che funzioni quando gridi a un bambino «Non urlare!». Né si può insegnare a suon di scapaccioni a non picchiare gli altri bambini.

L’autorità viene dal riconoscimento dell’autorevo-lezza, e io in effetti ho un certo carisma. Ogni volta che lancio un proclama in casa, tipo «Fra tre minuti tutti alla porta con le scarpe e la giacca», allo scadere del minac-cioso ultimatum c’è gente stravaccata sul divano che mangiucchia, chi pettina la Barbie, chi ascolta la musica,

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chi è intento a terminare una perlustrazione manuale delle proprie narici. È lì che mi riprometto di candidarmi alle prossime presidenziali, io, la trascinatrice delle folle.

Per fortuna con il padre non funziona così. Se lui parla, lo ascoltano. Il fatto è che credo che siano soprat-tutto i padri a dover riprendere in mano, con impegno e voglia di fare, il proprio ruolo. E in questo caso la re-sponsabilità, per una volta, non è prima di tutto delle donne, ma dei loro compagni.

I padri di oggi devono rimboccarsi le maniche e tor-nare a incarnare la regola.

Un padre può essere un superbo cavallo di uno Zorro in erba, duellare con spade laser, farsi pettinare da aspi-ranti parrucchiere e poi anche uccidere ragni, cacciare fantasmi, preparare meravigliose merende a base di tri-gliceridi. Ma principalmente – invece che rammaricarsi di non poter allattare, ne ho sentito più di uno – deve guidare, indicare una strada, dare l’orientamento gene-rale, aiutare a tradurlo ogni giorno, mettere limiti, dare sicurezza.

Può cercare di condividere obiettivi e scelte, soprat-tutto quando i figli crescono, ma si sa anche imporre al-l’oc cor renza. Perché alla domanda «Che ne dici, An-dreuccio, facciamo i compiti?» non esiste bambino al mondo che risponderà «Sì, volentieri»; né lo farà alle domande «Che ne pensi, andiamo a casa?» quando si sta sgolando con gli amici in una partita di acchiappa-rella, o «Andreuccio, secondo te è ora che andiamo a dormire?» quando sta facendo qualsiasi attività, persino nettare gli interstizi tra le piastrelle del bagno, che all’o-ra della nanna tutto è meglio del letto, per un bambino.

Eppure sento sempre più spesso genitori chiedere ai figli pareri sulle indicazioni che sarebbero loro a do-ver dare.

Questo dipende dall’idea di base che, avanzata dal-

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l’il lu mi ni smo, ormai è prevalsa diventando quella di massa: la bontà sostanziale e totale dell’uomo. Se tu pensi che quell’esserino che hai di fronte, messo nelle giuste condizioni, saprà trovare dentro di sé le motiva-zioni e la forza per scegliere sempre il bene, l’autorità a che serve? L’umanità si autoregolerebbe.

Quanto all’autoregolamentazione, proviamo a offri-re a una festa di seienni un piatto di crudités di verdure e uno di caramelle gommosissime di puro colorante, proviamo a dire davanti a un cesto di giochi «Mettetevi in fila e prendetene uno per volta pensando anche a chi viene dopo di voi», proviamo a dire «Spegni tu la Play-station quando pensi che sia giusto dedicarti un po’ alla lettura di questa bella parafrasi dell’Eneide».

Chi ha elaborato questa teoria non ha mai visto un bambino cavare gli occhi all’amichetto per impossessar-si della sua macchinina, che in quanto più grossa e più lucida deve necessariamente essere conquistata. Non ha mai visto soavi bambine bionde strapparsi un gattino di peluche a morsi. Non ha mai visto ragazzi ricolmati di regali adombrarsi solo perché anche il fratello aveva ri-cevuto un regalo “fichissimo”.

E non ha mai guardato con onestà intellettuale ne-anche gli adulti, che dalla mattina alla sera, se va bene, combattono contro le proprie cattive inclinazioni per cercare di essere almeno per quel giorno una persona decente, a volte indossando maschere più o meno co-prenti sopra il proprio verminaio interiore.

Questo se va bene, perché in altri casi il suddetto adulto impiega tutte le proprie energie per ottenere, dalla mattina alla sera, il massimo vantaggio con il mi-nimo sforzo, a partire dal sorpasso a destra, per conti-nuare con un lavoro mal fatto o scaricato sul collega (così rimane più tempo per spettegolare di quello che oggi non c’è). E via con una trafila di cattive azioni ne-

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anche troppo fantasiose – il male è banale – ma esegui-te con tenacia e continuità, per saziare la sete che abbia-mo tutti di potere, di privilegio, di comodità (che alla fine, a ben vedere, è desiderio di approvazione e amo-re). Perché in ognuno di noi c’è quel seme di male che noi cattolici chiamiamo peccato originale, contro il qua-le per tutta la vita cerchiamo di imparare una disobbe-dienza creativa, e senza il quale la mentalità del mondo proprio non si spiega.

Questa lotta per la conquista della libertà e della vera felicità è il senso della nostra vita, e noi dobbiamo con-tinuare a impararla fino al nostro ultimo giorno, e pro-vare a insegnarla ai nostri figli dal loro primo. Non solo per il premio futuro, ma perché così si vive felici già da oggi. E noi credenti pensiamo che senza Dio, un Padre buono che tifa per noi, non si vinca.

Tutte queste certezze non le sappiamo insegnare perché non le abbiamo neanche noi. Adesso il dubbio si porta molto. Dire di non avere certezze fa molto in-telligente.

A dire il vero a me l’uomo che ha opinioni rocciose e mena fendenti coraggiosi piace moltissimo. Non so, forse non sono nella media perché ne vedo pochi in gi-ro, si vede che l’articolo non è richiesto. Ma per quanto riguarda i padri non mi sbaglio di sicuro. Non possono circolare con l’adesivo NON SEGUITEMI, MI SONO PERSO

ANCH’IO attaccato sulla schiena. Deve essere proibito per legge, e se non hanno certezze le devono trovare urgentemente dall’istante in cui il loro erede esce dalla sala parto.

Il problema è che l’uomo si è perso come padre ma anche come uomo.

Sarà frutto di altre trasformazioni, economico socio politico psico qualcosa, chiamate qualcuno che io non so rispondere, ma mi sembra che troppi siano in cerca

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di identità. «Lo sai qual è l’ultima tendenza uomo del-l’e sta te?» mi chiede mia sorella. Mi sta telefonando da un luogo di vacanza ben più modaiolo del mio, che in-vece è frequentato per lo più da famigliole dell’entro-terra. Arrivano (arriviamo, è inutile che faccia la snob) sulla spiaggia con sei vagoni di secchielli e borse frigo-rifere piene di cibo in grado di sfamare un’intera boc-ciofila in gita.

No che non lo so qual è la tendenza, alla cocomerata di Ferragosto non ce lo siamo chiesti. Qui va la secchiel-lata d’acqua, lo scherzo di quest’anno, come dei quindi-ci scorsi.

«È il ...scia... del costume maschile» mi rivela mia so-rella dalla garrula località.

«Cosa? Il risciacquo del costume maschile?» Non sento bene, ma il risciacquo non mi pare una grande novità in fatto di tendenza. Anche mio marito risciacqua i suoi pantaloncini, lunghi fino al ginocchio, quando l’acqua salata gli irrita la pelle; e il modello è lo stesso di mio suocero, invariato da quando lo conosco. «No, non il risciacquo. Il push-up! Un taglio, boh?, una cucitura sulla parte anteriore dello slip che dà all’armamentario una particolare forma, diciamo aerodinamica, e partico-larmente valorizzante le dimensioni.»

Mi dispiace, sarà l’età, ma trovo quel tipo di uomini eccitante come il cofano di un furgoncino. Lucido, bom-bato, ma totalmente inerte. Non so quale percentuale di uomini riguardi questo nuovo approccio al fisico, né se siano soprattutto i più giovani.

Sta di fatto che vedo con scoramento tantissimi ra-gazzi curati, vanitosi, un vago sentore di femmina, una frequentazione dell’estetista per la depilazione senz’al-tro più fitta della mia, ore e ore di palestra. A me il ma-schio così fa tanto l’effetto “lisciato come il cane di un signore”, come si dice a Perugia.

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Io sospetto che tra la perdita di identità, tutti i vari transgender, metrosexual e anche gli uomini effeminati, insomma tra il push-up del costume e la perdita di un’i-dea condivisa e solida di paternità ci sia un legame, ma, lo ammetto, non riesco a dire quale.

Tre anni dopo...

Marco ha lasciato Chiara, e ha chiesto a un’altra donna di sposarlo. Sono felicissima di dire che non ci avevo capito niente.

È vero, lo ammetto, come combinatrice di matrimoni sono una schiappa. Appena un maschio sotto i novanta anni e una femmina in età fertile non già abbinati (a es-ser precisi è sbinato il timbro che appongo sopra la sche-da personale nell’archivio invisibile sepolto nel mio cer-vello) mi capitano a tiro, cerco di mischiarli, e general-mente quando sono ancora nei primi quindici minuti di conversazione − stanno ancora parlando delle olive tag-giasche dell’aperitivo − li interrompo con una telefonata importuna, e chiedo se hanno fissato la data delle nozze. Ovviamente i miei abbinamenti non funzionano mai.

Di certo non ho mai visto Marco come ora. La donna che sta per sposare ha attraversato un momento molto difficile, e lui ha deciso di starle vicino prendendosi con lei tutte le difficoltà. Era un ragazzino, è diventato un uomo. Ha smesso di giocherellare con la vita, e ha co-minciato a fare sul serio. Forte, solido, protettivo, deci-so, generoso. Lo ammetto, non avrei mai pensato che questo potesse succedere. Uno che non si sapeva pre-parare lo zainetto da solo ha preso in mano sia la sua vita che quella di una donna, con coraggio, accettando di rischiare tutto.

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Che dire, avevo sbagliato tutto, ma non sono mai sta-ta così felice di ammetterlo. Credo che la novità per Mar-co sia stata incontrare una donna che ha avuto l’umil tà di dire “Ho bisogno di te”, e questo ha fatto scattare in lui il desiderio di comportarsi da uomo, di farsi carico, di assumere dei rischi, di prendere impegni.

Volevo comunque chiamarlo per fargli una predi-chella sulla bellezza della croce, il chicco di frumento, perdere la vita per ritrovarla, ma per una volta sono sta-ta zitta, e gli ho detto solo che sono felice per loro. Cre-do che Marco abbia apprezzato.

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Cara Agata, tu sei proprio “’nu femminone ’e femmina”, come

disse a me, una volta, un collega napoletano in vena di complimenti, probabilmente più interessato ad avere in prestito il mio beta di repertorio sull’economia islande-se che colpito dalla mia scollatura sulla schiena, ma per-ché chiederselo? Quello che mi chiedo invece, io, è in che modo un simile femminone, intendo te, possa non essere travolta da una schiera di uomini pronti a tutto pur di averti, sposarti, sottrarti alla vista del mondo chiudendoti in un castello.

Perché non sei fidanzata, sposata, (madre?), come in fondo vorresti?

È vero che notoriamente il giudizio delle donne su quello che piace agli uomini è inaffidabile, come intui-sco da certi sorrisi sotto i baffi che a volte mio marito a malapena nasconde, addestrato a non lasciarsi andare a incauti apprezzamenti ad alta voce. Il pacchetto adde-stramento, per inciso, include anche una serie di rispo-ste standard che è stato istruito a darmi, come quando replica automaticamente, e senza neanche voltarsi a guardarmi, «Cara, sei magrissima» alla domanda come sto (perché una donna, come diceva Coco, non è mai né troppo ricca né troppo magra), oppure «Ma sei bellissi-

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Agata ovvero

Il talento per Mister Wrong

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ma anche senza trucco» quando gli chiedo se ho tempo per un veloce restauro.

«Come è volgare quella» dico ai colleghi in redazio-ne, alla vista della bellona in onda. «Eh sì, è proprio vol-gare» concordano concilianti. «Molto meglio Charlotte Gainsbourg, poco seno, il naso un po’ irregolare, ma così elegante.» «Eh sì, proprio elegante senza seno» fanno a mezza bocca, mentre non staccano gli occhi da quella che ha uno sguardo vagamente suino (e un seno offen-sivo per noi donne normali).

Insomma, non capirò molto dei gusti dei maschi, ma io con te mi fidanzerei, se esiste qualcuno sopravvissuto a Donna Letizia che usi ancora questo termine.

Sei bella, intelligente, simpatica, piacevole, ironica. Proprio non mi spiego perché tu non stia distribuendo il numeretto per rispettare-la-priorità acquisita per una cena con te. Né tanto meno mi spiego la tua pervicacia nello scegliere sempre Mister Wrong: lo annusi a diver-si chilometri di distanza, lo punti con fermezza e infine con soddisfazione lo raggiungi, prendendo bene le mi-sure affinché la craniata sia più efficace.

Eppure a te devo alcuni capisaldi della mia formazio-ne di donna adulta e consapevole, quali l’arte di un trucco che ti dà quell’aria vagamente sfatta e allusiva, i bedroom eyes (capito, Guido? Non è che la matita mi è colata, l’ho fatto apposta), e regole auree come “Se le scarpe ti fanno male nel negozio, ti faranno male sem-pre”, o “Se ti passi lo smalto ma te ne vai vestita in giro così, è come mettere la cravatta al maiale”.

Sei la migliore consulente di stile che un’amica si possa augurare, anche perché tu uno stile ce l’hai, non come me che una volta ogni sei mesi inserisco un nego-zio nel mio tragitto lavoro-casa e porto via tutti i capi neri o grigi che riesco a provare in quarantadue minuti,

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con il proposito di abbinarli a qualcosa di colorato che non comprerò mai.

Sai portare con noncuranza e classe anche un fianco occasionalmente abbondante, che non ti impedisce di indossare elegantemente calze parigine e stivali. Tu sai quello che fai, hai sempre l’accessorio giusto e la scarpa perfetta – perché è da quella che si giudica lo stile, mi insegni – per risollevare il più piatto jeans con maglio-ne a collo alto. Sei capace di una conversazione sempre piacevole e brillante. Forse non profondissima, ma tu lo ammetti senza problemi: forse ti manca l’Elogio della co-scienza di Ratzinger, ma i romanzi dell’anno li hai letti sempre tutti, dei film non parliamo.

Si vede che sai stare al mondo: hai fatto le scuole giuste, hai viaggiato, esci e frequenti esseri umani al di sopra degli otto anni, sai gestire un brindisi di com-plean no con discorso davanti a trenta persone quasi tutte disomogenee senza perdere la padronanza della situazione (vi prego non chiedetelo a me, magari vi scri-vo trenta lettere autografe, sai che divertimento, ma i brindisi no!).

Se insieme incontriamo qualcuno “che conta”, tu dai il meglio di te, io il peggio. O più precisamente, di solito sto zitta, e non è detto che sia quello il peggio. Ma sa-pessi che battute brillanti mi vengono a casa, dopo due o tre giorni...

Sai uscire in scioltezza da qualsiasi impasse esisten-ziale e professionale; se fosse per me ti manderei in di-retta da qualsiasi luogo per qualsiasi evento, tanto qual-cosa da dire lo troveresti, mentre io, se qualcuno mi dice che mi ha vista in onda, temo sempre sia per segnalarmi che avevo degli spinaci tra i denti.

Sai dire la verità senza (quasi) mai essere offensiva, sai ridere di te stessa e degli altri con la stessa levità. Sai persino cadere con stile, come in montagna l’anno scor-

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so, mentre io non farei mai uno sport che richieda più coordinazione di quella necessaria a mettere un piede davanti all’altro. A parte la corsa mi sa che mi rimane solo lo sci di fondo: io sono per la fatica ottusa, e per meno di quaranta chilometri non comincio neanche.

Tu invece sei dotata del più rilassante approccio pos-sibile nei confronti dell’esistenza, sei giamaicana den-tro: «Take the best of it» sei solita dire con pragmatismo di stampo anglosassone, mica come me che parto lancia in resta per missioni quasi sempre impossibili, e di certo fallimento.

Non emani puzza di matrimonio da molti metri di distanza – il fattore che più allontana Medio-man, at-tualmente – perché solo chi ti conosce molto bene sa che forse appena adesso cominci a non escludere l’ipotesi.

Allora, mi chiedo, come hai fatto a infilare una serie di insuccessi amorosi così scientificamente esatta?

Avevi intenzione di presentare una tesi di dottorato sull’uomo italiano al Cnr, o qualcuno ti ha offerto del denaro per uno studio di mercato?

Ti sei aggiudicata, comodamente a casa tua e senza costi aggiuntivi, alcuni tra i peggiori esemplari in com-mercio.

Solo andando a memoria mi viene in mente prima il notaio con la Porsche, uno che sembrava un caratteri-sta, capello lungo d’ordinanza e giusto un filo unto, viso abbronzato, vestiti la cui massima aspirazione era esse-re fotografati per le pagine di cronaca romana del «Mes-saggero». Ogni volta che vi ho incontrati, inspiegabil-mente insieme, ti ho visto lampeggiare delle enormi corna al neon sopra la testa: un luminoso futuro di mo-glie tradita ti avrebbe attesa, ma di sicuro avresti pianto su un divano tredici posti Roche Bobois – una tonalità di rosso generone romano – e ti saresti preparata la camo-milla in una splendida Bulthaup.

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Poi, con un triplo carpiato, sei passata al genere in-tellettuale tormentato, un amore struggente che infatti ti ha lasciata distrutta, ma almeno sei sfuggita al rischio di piangere tutta la vita su divanetti squallidi mentre lui ti lasciava sola per amoreggiare con qualsiasi gadget ul-tratecnologico che iniziasse con “i”. Secondo me a quel punto è meglio essere tradita con una bionda, che alme-no la puoi aspettare sotto casa.

Non è mancato neanche il separato, tanto, tanto af-fascinante, ma con tre figli adolescenti che ti avrebbero volentieri infilzato degli spilli negli occhi. Brillante, di-vertente, ma assente a cadenze regolari: i fine settimana alternati, le feste comandate, agosto e tutti i mercoledì sacri alla famiglia, di cui tu non saresti stata mai parte. E l’ombra della prima moglie sempre incombente. Giusto tu potevi credere che lui con te volesse fare le cose con calma, non correre. In realtà voleva solo non infilarsi di nuovo in una situazione familiare dalla quale si era ap-pena sganciato.

E adesso che ci penso, c’è stato anche quello dram-maticamente attaccato alla mamma, contro il quale non vorrei infierire più di tanto, perché io sono una madre possessiva e gelosa, e temo di poter diventare una suo-cera insopportabile. Ma spero che l’Agata di turno in-terverrà a rimettermi al mio posto: a casa a sferruzzare golfini e spupazzare nipotini, solo un gettone per una telefonata settimanale. Il tuo problema è il problema che abbiamo in molti, di questa generazione privilegia-ta nata nella zona giusta del mondo, nella fetta giusta del tempo.

Guardiamo con raccapriccio all’idea di rinunciare a qualcosa. Questo è il problema.

Qui, a noi ormai sembrano diritti una serie di possi-bilità che finora sono state inimmaginabili (e che per una buona parte di mondo lo sono ancora).

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Dai beni materiali siamo sommersi, adesso magari eviterei di farti un trattatello su questo uso avido e per-verso della globalizzazione, grazie al quale chiunque si può permettere veramente tutto, ma di infima qualità. Un ologramma, un simulacro di vestitino che oggi c’è, la settimana prossima forse.

Invece il tuo abito a vestaglina in seta, mamma, pen-sa, sta sopravvivendo persino alla convivenza con me e la mia lavatrice. Certo, non ho grandi occasioni monda-ne in cui qualcuno possa apprezzarne il taglio ma, cre-dimi, mi fa fare un figurone alla messa del mattino, quando tra me e la più giovane delle dodici vecchine corrono circa trentacinque anni di età. Miss Messa.

Ma a parte il rinunciare ai beni materiali, improvvi-samente diventati necessari in ogni modello e variante colore, quello che ci sembra faticoso in questa parte di mondo è rinunciare alle vite possibili. È la sensazione dell’adolescenza – epoca quasi imminente per i miei figli, ma che io ricordo ancora – in cui volevi vivere tutto, provare tutto, essere ovunque, ascoltare, legge-re, sapere, annusare le infinite vite che il mondo sem-brava potesse offrirti. E l’idea che un giorno ne avresti scelta una e ti saresti chiuse tutte le altre porte alle spalle, per sempre, senza voltarti indietro, era quanto di più vicino alla morte uno potesse immaginare a se-dici anni.

Eppure – ci dicemmo una volta io e il mio amico Francesco dopo avere parlato per ore in macchina – in ogni caso, qualunque cosa sceglierai, diventerai, farai, non potrai che occupare i centimetri che coprono i tuoi due piedi (io, comunque, ho un quarantuno abbon-dante).

Quel pensiero ci sollevò dall’angoscia esistenziale. Che diventeremo? Che faremo? Non importa, ci dice-vamo, anche il più “bulo” di tutti – una persona riuscita,

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in perugino – sta solo lì, sui suoi due piedi. Ecco, io e Francesco (dove sei finito?) avevamo fatto un passo avanti rispetto alla maggior parte degli ultraquarantenni che mi vedo intorno.

Tu, Agata, sei tutto, sei piena di doni, ma anche tu puoi coltivarne solo alcuni. Devi scegliere. Devi sceglie-re per quello che riguarda la tua vita, e devi deciderti anche per l’uomo che ti vorrai accanto.

È una fatica, lo so. Anzi, lo so benissimo, e infatti la frase più ricorrente di mio marito, dopo «C’ho sonno» (poveraccio, torna a casa dal lavoro nel cuore della not-te, ma la mattina seguente il dato viene ignorato dal re-sto della famiglia), è «Costanza, nella vita non si può far tutto».

La nostra vita, alla fine, sarà il prodotto delle nostre scelte fatte progressivamente. Cosa hai preso, cosa hai lasciato.

Tutti inneggiano alla possibilità di tenere tutte le strade sempre aperte, è la sindrome dell’uscita di emer-genza, ma è un’illusione. Anche quella di tenere aperto è una scelta che chiude qualcosa.

Ti chiude la possibilità di percorrere una sola stra-da con una profondità e una ricchezza che il mondo non conosce. Vivere tutti gli amori non ti insegnerà sul-l’amo re quanto viverne uno solo in profondità.

Ti insegnerà ad abbracciare il tuo quotidiano senza andare a caccia di emozioni e sensazioni. Ti insegnerà ad amare una vita che da fuori sembrerà solo “norma-le”. La strada della mediocrità e della gradualità porta in salita, ma alla fine ti apre una vallata nascosta e segreta che i sentierini delle emozioni non si sognano neanche. È per pochi.

Io predico bene ma per mia natura razzolerei peggio di te, io odio scegliere, non voglio scegliere neanche il tavolo a mensa, è per questo che mi metto sempre in

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fondo alla fila (ma per favore non prendetemi quell’ul-tima pera caramellata).

Per fortuna ho un marito dotato di buon senso in do-si industriali, e quattro figli che hanno ridotto a circa otto minuti al giorno il tempo in cui posso chiedermi «Ades-so che faccio?». Generalmente li passo a contemplare con sconforto la mia mensola delle creme, e a calcolare mentalmente quanti soldi ho buttato e quanti program-mi di manutenzione fisica ho disatteso; in compenso la Capture di Dior ha fatto un gran bene al coniglietto Te-tenno, neanche una ruga sulla sua faccia di pezza. Così, passati gli otto minuti, non mi rimane niente da sceglie-re, se non abbracciare la mia vita con convinzione.

Abbraccia anche tu una vita, una sola, e tienitela stretta. E deciditi anche per un uomo, uno solo. Gli uo-mini sono una razza un po’ particolare, ma se hai spa-zio – meglio un giardino, o anche un balcone – ne puoi tenere uno in casa, non ti troverai male. Io voto per Paolo, sposalo e mettete su famiglia, che è ora. Poi, se vuoi, mi chiami e mi elenchi tutti i suoi difetti – ti di-spiace se appoggio un momento la cornetta e nel frat-tempo preparo la lasagna? –, però intanto avrai scelto. E comincerai a vivere.

Un bacio dalla tua devota allieva di stile, che non ve-de l’ora di ammirare il tuo vestito da sposa.

C.

Sul tema vorrei evitare di dire banalità come “La perso-na giusta arriverà quando meno te lo aspetti”, e di fare battute scontate tipo “...ma tu non sarai in casa”. Quin-di dovrei chiudere qui il capitolo. Non ho niente di in-telligente da dire. Ci sarebbero da citare milioni di libri, canzoni, film; parole meravigliose sull’incontrarsi, e per fare bella figura a spese di un altro lo farei anche, pecca-

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to che al momento mi vengano in mente solo le rifles-sioni di Carrie Bradshaw.

Nonostante la povertà del mio patrimonio cultura-le, però, non posso proprio astenermi dallo scendere in questo campo minato: sono circondata di persone sole, che – per l’animo da vecchina di paese che alberga in me – vorrei vedere sistemate una volta per tutte. Per onestà devo dire che non ci prendo mai, non sono mai riuscita a comporre una coppia che sia una tra i miei conoscenti. Non credo che curerò mai la rubrica degli affari di cuore, quella che quasi tutte noi colleghe leg-giamo tra le prime cose la mattina, ben nascosta dentro una copia del «Sole».

«Lasciali stare, stanno benissimo così!» mi redargui-sce mio marito ogni volta che gli propongo di invitare a cena due ignari candidati. Non lo muove molto a com-passione la loro tragica situazione: liberi tutte le sere di andare al cinema con una persona diversa, neanche una riunione di interclasse, mai una notte in bianco per una zuccata più forte delle altre che ha dato il bambino («Lo svegli ogni due ore per vedere se reagisce, signora.» E a me chi mi sveglia per vedere se reagisco?).

Nel mio segreto archivietto di persone da accasare ce ne sono alcune per le quali persino io comincio a perde-re un po’ di speranza: sono grandi e con l’età se ne va l’incoscienza, forse aumentano le rigidità e certe abitu-dini inveterate. Una collega una volta mi ha raccontato il suo rituale di risveglio, una serie di piccole tappe sacre e intoccabili lunga circa due ore dal suono della sveglia all’uscita da casa. Per una mamma l’unica cosa certa del risveglio è che a un certo punto riuscirà a lavarsi i denti.

Io però continuo a credere che anche lei, la mia col-lega, troverà qualcuno di più affascinante della sua cuc-cia in centro, oppure qualcuno che abbia delle fisse per-fettamente speculari alle sue.

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Perché il rapporto di coppia obbedisce a una nostra profondissima esigenza. Si esiste in relazione a qualcu-no. La donna ha bisogno dell’uomo, non può fare a meno di lui se vuole trovare la sua identità. Quando capisce che non può esistere in pienezza da sola, rinun-cia alla tentazione dell’autonomia, gli offre se stessa e riceve tutto quello che lui ha da dare, perché un uomo invece non resiste alla donna che ascolta la sua voce. Che lo segue, che gli obbedisce, che gli è sottomessa. Bisogna fidarsi, correre il rischio di perdere, se si vuole avere.

Certo il rischio è grosso: mettere se stesse per sem-pre nelle mani di un’altra persona. E non c’è nessuno che ti dia un certificato di garanzia, un collaudo, nean-che una polizza assicurativa. Niente. Ti butti senza rete. È una via ardua e folle, è un rischio. Ti decidi a correrlo quando sei matura, hai imparato ad amare te stessa e allora, solo allora, sei capace di gesti gratuiti.

Tante mie coetanee non si buttano nel matrimonio perché, mentre prima era l’unica via “normale”, l’uni-ca possibile, adesso è una sola delle possibilità, e cre-diamo di averla davanti più o meno per sempre, in una eterna adolescenza cristallizzata. E poi perché da or-mai molti anni neanche le donne, come prima solo gli uomini, hanno più bisogno di essere sposate per avere una vita sessuale soddisfacente. Così l’essere molto belle, intelligenti, colte, dedite alla professione può persino complicare un po’ le cose. Fa cadere a volte nella trappola di dare troppo peso alla propria autono-mia. Rinunciarci, anche in parte, può diventare im-pensabile.

Quanto all’uomo, può piacerci o no, ma funziona co-sì: lui dà con gioia se si sente libero. Se si sente ingab-biato, pressato, rimproverato, cerca di svicolare dalla re-lazione. Lo posso dire bene io che sono una rompisca-

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tole da manuale, e nei momenti di mia massima presta-zione vedo chiaramente scorrere un rullo sulla fronte di mio marito. C’è un elenco alla Nick Hornby: i posti dove preferiresti essere adesso. “Con mia moglie” com-pare giusto un po’ sotto a “In gita pullman sulla costiera amalfitana con dimostrazione di pentole e set presine in omaggio”, alla posizione numero 24.726.

Questa realtà, che la donna ha scritta dentro l’obbe-dienza – l’uomo invece ha la vocazione della libertà e la guida –, non ci piace molto, ma bisogna capirne bene il senso.

Io credo che alla fine della nostra storia personale, e anche alla fine della Storia (perché la Storia un senso ce l’ha, ha un inizio e anche una fine), la logica dell’obbe-dienza e del comando saranno superate. Adesso però l’obbedienza è resa necessaria dalla nostra natura ferita, dal peccato originale. È con l’esercizio paziente e quoti-diano dell’obbedienza che si può andare incontro all’al-tro e limitare il nostro egoismo. A volte con il conforto di tutti i sensi e le emozioni. Altre volte anche contro le emozioni.

Perché l’amore è anche una scelta, è una decisione. Ha a che fare con l’emozione, ma l’emotività ne è solo una parte. L’idea corrente dell’amore, invece, capovolge completamente la gerarchia, e mette le sensazioni al primo posto. Libri e film ne traboccano. Mari increspati appena dall’emozione, un venticello leggero che non scuote nel profondo. Così, a volte, il nostro amore, che noi crediamo nobile e generoso, è vigliacchetto ed egoi-sta, affidabile come le sensazioni, cioè poco. «Per te at-traverserei deserti e foreste, la notte più nera e la tem-pesta. Allora ciao, ci vediamo in centro alle otto. Se non piove.» Quando ci si sposa, poi, il problema di non fun-zionare solo con l’emotività esplode in tutta la sua vio-lenza. L’altra persona, se ci si distrae, diventa emozio-

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nante come un pannolino sporco, una pila di bollette, un sentore di verdurine lesse.

Nel mio personale programma “Non distrarti, rima-ni una compagnia non repellente”, tra i primi punti c’è: imparare a parlare il linguaggio dell’amore dell’altro.

Gli americani, che come è noto sono dei tipetti pre-cisi, e quando entri nel loro paese ti chiedono cordial-mente «Mi scusi, intende svolgere attività criminali o immorali?», hanno fatto un manuale anche su questo; hanno cioè diviso quelli dell’amore in cinque linguaggi possibili, cosa che, a parte l’americanità della cosa, ha un suo fondamento. Per fare arrivare i nostri gesti all’al-tro bisogna che lui li capisca.

C’è chi se non riceve un oggetto concreto, tangibile, non sente di essere amato, come per esempio due dei miei figli. Tu puoi trascorrere con loro una meravigliosa giornata, colmandoli di attenzioni, parole, grattate die-tro le orecchie e baci, ma se non avranno ricevuto un regalo, scartato un pacchetto, sarà come se niente fosse stato.

C’è chi vuole dei momenti in esclusiva, speciali, de-dicati solo a lui, come un altro mio figlio, al quale puoi regalare, non so, la chitarra dei sogni, o la Psp, e lui do-po due secondi ci inciamperà, tutto proteso a venire da te, a parlarti, a chiedere attenzione e ascolto. Con lui si risparmiano un sacco di soldi, ma vanno tutti reinvestiti in caramelle per la gola. O tappi per le orecchie se sei proprio molto stanca.

Secondo questo autore americano (si chiama Gary Chapman) c’è anche chi capisce l’affetto solo attraverso il contatto fisico: baci, abbracci, carezze, che nella prima infanzia sono sempre necessari, poi per la maggior par-te delle persone diventano accessori. Effettivamente ne ho distribuiti in dosi da cavallo nei primi anni di vita dei bambini, da farsi venire i crampi alle labbra. Adesso, a

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parte le affettuosità di mantenimento, è rimasta una delle bambine ad avere bisogno di un contatto fisico molto frequente, con una preferenza per il mio collo.

Quanto a me e mio marito, parliamo sfortunatamen-te due linguaggi diversi, gli altri due rimasti. Lui quello dei gesti di servizio, io quello delle parole (se ancora qualcuno dei miei familiari, amici, conoscenti non lo avesse capito. Quindi per favore, mai la verità, non mi interessa: solo complimenti).

Così mio marito per esprimere affetto si trasforma in Mister Wolf, risolve i problemi (c’è un signor Wolf in ogni uomo). Fra l’altro lui è allenato da anni di lavoro in televisione, dove può anche capitare che a un minuto della messa in onda non ci sia niente che funzioni, tutto sembra perduto, la catastrofe – mandare barre e nota – incombe, poi alla fine ecco qualcuno che si ingegna, tira fuori delle risorse insospettabili, non so, si sfila un ela-stico dalla mutanda e aggiusta una macchina, tira fuori un filo di ferro dalla tasca e fa ripartire tutto. Vedere la coraggiosa professionalità e l’ingegno italico dei miei colleghi mi rassicura sempre molto, mi viene da pensare che non succederà mai niente di veramente brutto al nostro paese.

Comunque, io dal mio Mister Wolf personale vorrei sentire dichiarazioni mirabolanti, espressioni ammirate nei miei confronti, accenti di cui lui credo ignori l’esi-stenza, se proprio vogliamo esagerare anche accompa-gnati da un mazzo di rose (anche le peonie e i ranunco-li vanno bene, e adoro la lavanda). Mentre lui invece armeggia a mio beneficio con cavi e apparecchiature tecnologiche. «Vedi che bello» mi annuncia trionfante, neanche mi stesse regalando un diamante. «Adesso possiamo montare un video direttamente sul computer di casa, registrando l’audio da qui!» La possibilità po-trebbe rivelarsi utilissima qualora i figli – dai tre agli

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undici anni – decidessero improvvisamente di recarsi tutti e quattro in gita di piacere tra i castelli della Loira, senza di noi.

Quanto a me, i primi anni trovavo impagabile l’aver-gli scritto una magnifica lettera, tralasciando cosucce piccoloborghesi come la preparazione della cena, ma qualcosa mi dice che lui avrebbe preferito mangiare.

«Non mi dici mai che ci tieni a me!» mi lagno. «Co-me non ci tengo? Sono andato a comprarti la Coca light nel cuore della notte al drugstore aperto venti-quattr’ore!» La Coca light è un bene di prima necessità in casa nostra.

Apro una parentesi. Esiste il product placement anche per i libri? In tal caso segnalo ai rispettivi direttori mar-keting quali sono i generi di conforto di cui non posso fare a meno quotidianamente. In questo libro c’è spazio per le inserzioni pubblicitarie di: «Il Foglio quotidiano», Giorgio Beverly Hills (non è colpa mia se sono stata adolescente negli anni Ottanta), tutte le creme Sisley, Café Zero e la Coca light (meglio se cherry flavour, pur-troppo non in commercio in Italia). Beni a cui è legata la mia sopravvivenza, oltre, va be’, allo Spirito Santo, per il quale però ci si deve rivolgere direttamente al Direttore Generale, invece che ai direttori marketing.

Al secondo punto del suddetto programma “Rimani una compagnia non repellente”, dopo l’invito a parlare il linguaggio dell’altro, metterei la raccomandazione di trovare degli spazi per sé. Credo che sia importante far-lo dai primi tempi della coppia, quando si tende alla simbiosi; ma sono certa che diventi fondamentale quan-do si diventa famiglia. Da questi spazi allora si recupe-rano energie, si riempie il serbatoio per dare a oltranza in famiglia.

È ovvio che questi tempi e spazi non devono collide-re con la coppia (non vale passare tutte le sere con l’ami-

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co del cuore perché lui sì che ti capisce) e contro il buon senso (non vale allenarsi per il prossimo Ironman tre ore al giorno perché ti fa sentire bene e in quei quattro mi-nuti che ti rimangono per i figli sei così disponibile!).

Sembra un consiglio scontato, e sono contenta se lo è, ma io invece incontro moltissime persone – a essere onesta soprattutto donne – che fanno fatica a conce-dersi tempi per sé. Salvo poi essere stanche e lamen-tose. A volte tornare a casa mezz’ora più tardi può es-sere un gesto d’amore, se serve a ricaricarsi, a farsi un piccolo regalo. Una cosa raccomandabile soprattutto se, avendo la possibilità, non si grava su qualcuno del-la famiglia, ma su una brava tata, preziosa e impagabi-le come una domenica mattina in cui i bambini non si sveglino alle sette, evento che si presenta con cadenza biennale.

Io personalmente, anche nei periodi più frenetici – allattamento di pupi di pochi giorni, influenze a ca-tena –, ho sempre cercato di mantenere qualche picco-lo, a volte esilissimo filo di comunicazione con me stessa. Alla messa ogni giorno mi lamento direttamen-te con il Principale se c’è qualcosa che non va, e discu-tiamo amichevolmente delle possibili soluzioni (anche se più che altro ci sarebbe da ringraziare, ma lui non si offende mai).

E poi trovo la maniera di infilare – in modi davvero fantasiosi e a volte rocamboleschi – un po’ del mio sport, la corsa, che mi accompagna da quando avevo dodici anni, da quando cioè la parola fitness in Italia non esi-steva, le palestre erano stanzoni bui e puzzolenti al pia-no terra delle scuole e la locuzione “massa magra” era di un altro pianeta. Era, è pura passione e gioia di avere un corpo. Si può cominciare a correre morti di sonno o anche arrabbiati con tre o quattro figli insieme, poi fini-re e non ricordarne neanche il motivo.

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Tre anni dopo...

Agata si è sposata. Ovviamente – è necessario specifi-carlo? – non con Paolo, che è quello per cui tifavo. Va be’, non importa, si sa che io non ci prendo mai. L’impor-tante è che abbia scelto un uomo, e lo abbia scelto per sempre.

Inutile dire che la cerimonia, il vestito, la festa del giorno dopo per gli amici in uno dei giardini più ele-ganti di Roma (così elegante che infatti io non lo cono-scevo, sprovvisto com’è di altalene, badanti ucraine, chioschetti coi ghiaccioli gusto colorante) sono stati strepitosi, così come, immagino, il ricevimento per i parenti. Agata si conferma la mia icona di stile, elegan-te con noncuranza, giamaicana dentro ma capace di tirare fuori un’efficienza teutonica all’occorrenza. E qui occorreva. Occorreva festeggiare, eccome. Io, per dire, non ci speravo più. Perché prendere un impegno che non sia provvisorio è la cosa che più ripugna all’uomo contemporaneo, che con un occhio guarda avanti, con l’altro verso l’uscita di sicurezza, senza ca-pire che mettere la nostra vita in qualcosa di più gran-de ci rende più grandi.

La mia amica ha finalmente scelto di vivere una sola vita, e non è più dominata dall’ansia di cogliere oppor-tunità, prendere occasioni, guardarsi intorno, stare col-legata. Ha scelto, e aggiungo che a me al momento non risultano ripensamenti; una cosa bizzarra per una che prima soffriva sempre leggermente anche se prenotava la vacanza in Messico, perché poteva comunque arriva-re un invito più divertente, e un clic sul pulsante ACQUI-

STA BIGLIETTO avrebbe potuto rivelarsi impegnativo (for-se non è il momento, ma faccio outing: non so usare la carta di credito online, mi viene il panico. Probabilmen-te è perché sono subumana, e infatti non passo mai il

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test del CAPTCHA, che serve appunto a verificare che da-vanti al computer ci sia un umano).

Quello che ha fatto Agata, mettere tutta se stessa in un solo progetto privo di piano B, è invece una cosa che ci pacifica incredibilmente. Ricevo un sacco di lettere di persone che mi chiedono «Sarà lui – lei – la persona giusta?». Be’, io, ovviamente, che ne so? Ma penso che non sia questa la cosa fondamentale. Quello che conta è giocarsi tutto seriamente, mettere in gioco la nostra libertà, che è una libertà vera. Non è che Dio sia un sadico che sta alla finestra per vedere se azzecchiamo la busta vincente. «Mi dispiace, signora, la risposta esatta era la tre.» Decidere una strada e percorrerla fino in fondo. Se fosse quella esatta o no lo scopriremo alla fi-ne. O dopo.

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Cara Margherita, mi ero ripromessa di venire al tuo matrimonio con

una bella lettera per te, e che diamine, sono la testimo-ne, sono tra i primi nei titoli di coda, è il momento di fare la mia porca figura e di venire preparata. Almeno al tuo, visto che al mio, di matrimonio, preparatissima spi-ritualmente, ero (non) pettinata e truccata come tutti i giorni, – salvo un ombretto bianco che mia sorella mi aveva costretta a comprare –, in ritardo perché andata a correre due ore prima, e colta da un irrefrenabile acces-so di ilarità e buon umore che non mi ha fatto risultare al meglio nella decina di foto che lo zio Gianfranco si è ricordato di scattare. Almeno tu hai fatto mettere la cra-vatta a Guido, impresa davvero ragguardevole. «Perché ti sei messo la mantellina?» ha chiesto al padre Lavinia, interdetta per l’inedito capo. Il resto della famiglia, in-vece, è giunta stilisticamente impreparata all’evento principesco del tuo sposalizio; io non ho fatto in tempo a scriverti prima, né d’altra parte avevo provveduto a rendere impeccabili come avrei voluto me e i miei figli, che non si sa perché hanno sempre una macchia di cioccolato, una scarpa slacciata, un paio di pantaloni troppo corti o troppo lunghi, una calza bucata sul ginoc-chio da cui occhieggia una sbucciatura.

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Margherita ovvero

Chi sta sotto regge il mondo

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Comunque, sbrindellati al solito nostro, siamo ve-nuti tutti e sei, e persino puntuali, visto che dovevo sedermi vicino a te. È stata una celebrazione piena di grazia divina e di spunti preziosi, anche se le mie bam-bine la ricorderanno più che altro per il tuo strascico di pizzo che neanche Cenerentola, nostra insuperata icona di stile. Da quel giorno sempre più spesso le sento parlottare fra loro: «Questo mi serve per quando viene il mio principe e mi sposa» dicono dividendosi diademi e orecchini di plastica. I maschi per la verità ricordano il fatidico giorno più che altro perché è stato quello della rovina della Roma con la Sampdoria, che è costata lo scudetto “alla maggica”. Che vuoi fare, so-no maschi, il modello base. Eppure non sono dei buz-zurri, non ancora almeno. Bernardo è uno studente modello, non riesce mai a prendere meno di dieci a scuola, ed è un soldatino pronto a eseguire gli ordini. Tommaso, un po’ meno preciso (detto in casa l’Uomo fogna), l’anno scorso, cioè in quarta elementare, mi chiamava di notte per chiedermi in che anno si fosse tenuta la conferenza di Teheran, episodio storico a me del tutto sconosciuto, visto che l’ultima notizia perve-nutami è il crollo dell’Impero romano d’Occidente. E qualche sera fa: «Mamma, cos’è il materialismo dialet-tico?». «Se non dormi chiamo il babbo» provo a spa-ventarlo mentre compulso nervosamente la Garzanti-na di filosofia o il manuale di storia che ho imparato a tenere molto a portata di mano, insieme ai fondamen-tali – tipo i dvd di West Wing o la novena di madre Speranza – da quando ho la percezione della mia ignoranza senza lacune (è Flaiano). Se lo becco abusi-vamente al computer, attività razionata, lo trovo più spesso a leggere notizie sui Visigoti che a giocare a Texas Hold’em. Però, appartenendo al genere maschi-le, ha anche lui una tara che è quasi universale. Il cer-

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vello gli si ottunde quando vede una palla che rotola. Conosco uomini anche normali, persino speciali come quello che ho sposato, che al fischio d’inizio subisco-no una mutazione e passano istantaneamente e senza una piega da Sam Peckinpah a La signora in giallorosso – talk show di una tv locale romana – da una rilettura dell’Idiota alla radio di Marione, perdendo ogni freno inibitorio.

Lo dico così, tanto per prepararti, visto che te ne sei preso uno della stessa specie, e non per un fine settima-na di evasione ma per tutta la vita, finché morte non vi separi.

Proprio per questo ci tengo molto a darti il mio vero regalo di matrimonio, ben più prezioso dell’altro, che almeno è arrivato in tempo. È il segreto di un matrimo-nio santo, che poi è lo stesso che dire felice.

Il segreto è che le donne di fronte all’uomo che han-no scelto facciano un passo indietro. E tu che mi cono-sci sai bene come questo non sia assolutamente nella mia natura, io che ho fatto mio il motto di mio nonno, il colonnello: “Muro o non muro, tre passi avanti”. Cre-do, per esempio, di rappresentare uno dei sette-otto casi al mondo di persona che correndo ha investito un’auto: io un trauma cranico, lei una bella ammacca-tura. Purtroppo vorrei arricchire il racconto di toni epi-ci, ma no, non era una Aston Martin, era solo una Pun-to. Comunque non sono certo arrendevole; lo sono di-ventata, penso, spero, perché credo che questo signifi-chi essere una sposa: accogliere, prima di tutto. Eppure sai che neanche a me, come a nessuno per la verità, piace perdere. Sono stata un po’ più che competitiva a scuola, all’università. Ancora di più nello sport, che è stato l’unico “riposo” che mi concedevo dai tempi della seconda media fino all’ultima gravidanza. Così, una ventina di chilometri di corsa tra un Omero e un Eschi-

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lo, tanto per schiarirmi le idee. E poi, negli anni in cui ci siamo perse di vista, non sai che quando preparavo qualche maratona ero capace di andare a correre anche alle tre di notte, quando dovevo essere in redazione al-le cinque del mattino per il tg. Partivo in pantaloncini in una città non mia come Roma, nel buio, e mi sem-brava pure normale, anche quando incontravo un paz-zo tutto nudo davanti all’Altare della Patria, che ovvia-mente vedendomi si sarà chiesto a sua volta chi fosse quella pazza che correva.

E anche adesso che sono una signora sull’orlo dei quarant’anni (basta con gli ultraquarantenni “ragazzi”) e corro quando posso senza preparare gare, se qualcuno mi supera – fosse anche un piccione – scatta ancora qualcosa in me.

Eppure quando si tratta della vita di coppia bisogna competere al contrario: muro o non muro, tre passi in-dietro. E bisogna farlo anche quando non se ne capisce il motivo, quando si è intimamente convinte di avere ragione. In quel momento, fa’ un atto di fiducia nei con-fronti di tuo marito. Esci dalla logica del mondo, “Vo-glio avere ragione io”, ed entra in quella di Dio, che ti ha messo accanto tuo marito, quel santo che ti sopporta nonostante tutto e che, detto per inciso, è anche un bel ragazzo. E se qualcosa che lui fa non ti va bene è sempre con Dio che devi vedertela, tanto per cominciare: metti-ti in ginocchio, e il più delle volte risolvi tutto.

È Luigi la via che Dio ha scelto per amarti, ed è lui la tua via per il cielo. Quando ti dice qualcosa, quindi, lo devi ascoltare come se fosse Dio a parlarti. Con di-scernimento, è chiaro, con sapienza e intelligenza, è ov-vio, perché è una creatura, ma con rispetto, perché spesso vede ben più chiaro di te. La nostra vocazione, qualunque sia, è sempre per farci felici. Come dice Pavel Evdokimov, il teologo russo ortodosso, se il fine ogget-

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tivo del matrimonio è generare figli, quello soggettivo è generare se stessi.

Senza Luigi, Margherita non è pienamente se stessa! Ti rendi conto di che cosa grande, inestimabile hai fra le mani? In questa impresa che hai appena cominciato, con la grazia di Dio, ti genererai.

«Ma come si fa?» mi hai chiesto mille volte al telefo-no. «Devo dargli ragione anche quando non ce l’ha?» Io dico di sì. Innanzitutto perché a te sembra che non abbia ragione, e se, come dicevamo, è lui che ti porta alla tua pienezza, alla tua completezza, è proprio quan-do la pensate diversamente che devi aprirti a lui, e ac-coglierlo. È allora che quello che ti dice ha un significa-to prezioso per te, ti aggiunge qualcosa, ti completa, ti fa crescere, ti fa fare un passaggio. Se accogli solo quel-lo che è omologo a te, a quello che pensi tu, non sei sposata con un uomo, ma con te stessa. A lui invece devi sottometterti. Quando dovete scegliere fra quello che piace a te e quello che piace a lui, scegli a suo favo-re. E questo è facile. Quando c’è una decisione da prendere e, soppesati i pro e i contro, la risposta non è ancora evidente, fidati di lui, e lascia che sia lui a dire l’ultima parola. E questo è un po’ difficile, a volte. Quan-do tra le vostre due posizioni a te sembra evidente che la sua sia proprio sbagliata, per voi, anche per i bambi-ni magari, fidati lo stesso della sua lucidità. Questo può sembrare uno sforzo impossibile. Ti verrà paura, per-ché abbandonare le proprie convinzioni è spaventoso. Ma non ti stai buttando nel vuoto, ti stai buttando tra le sue braccia.

Belle parole, vero? A leggerle si direbbe che io sia una creatura angelica; in realtà ho solo ascoltato e letto parole buone. Se poi le viva davvero, non lo so. Di certo non sempre, non tutte. Però ho fatto dare un’occhiata a mio marito a quello che ti sto scrivendo e non lo ha

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accolto con vibrate e rumorose proteste. Neanche una pernacchia o uno di quei commentini romani («Sotto-messa? Ma dde che, ahò?») con cui mi incenerirebbe se non mi trovasse sincera. È già qualcosa. Anzi la sotto-missione elevata a teoria gli è piaciuta. «A’ devota, hai finito con il bagno?» mi ha chiesto ieri sera. Purtroppo è romano, e trova sempre il modo di togliere poesia ai miei slanci lirici.

Vedrai, te lo posso assicurare, che un uomo non resi-ste a una donna che lo rispetta, che riconosce la sua au-torità, che si sforza con lealtà di ascoltarlo, di mettere da parte il suo proprio modo di vedere le cose, che schiac-cia sotto i piedi la sua lingua, sempre pronta a punzec-chiare, a ridicolizzare, a mettere in luce le carenze del-l’al tro (siamo bravissime in questo noi, niente da dire), che accetta per amore di percorrere strade diversissime da quelle che sceglierebbe da sola.

Piano piano sarà lui a chiederti cosa ne pensi, cosa fare, da che parte la famiglia debba andare. E questo rispetto si conquista con il rispetto, questa dedizione con la sottomissione. È per questo che avendo alfine conquistato il rispetto del mio consorte, mi sento pronta a esporgli serenamente quali grandi benefici trarrebbe la nostra casa dalla creazione di una cabina armadio in camera nostra (il primo beneficio sarebbe che non avrei più un viluppo di magliette nere lì in fondo, e non ne comprerei altre sette la prossima stagione, credendo di averle perse).

E anche quando i frutti sembrano tardare (non avrò la cabina armadio), noi cristiani dobbiamo sapere che stanno maturando. Noi siamo lieti nella speranza, no? Sappiamo che quello che ci succede non si misura con il metro del mondo. Sappiamo che ogni sofferenza, anche piccola – non la pensi come lui, non avresti fatto quel programma, non avresti scelto quella vacanza o quella

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serata – accettata con amore produce frutti a volte mi-steriosi ma mai perduti. «Quello che ti fa soffrire sia per te più caro dell’Eremo» diceva san Francesco, che avreb-be trascorso ogni minuto alle Carceri, in una preghiera dolcissima e continua, e invece accettava di stare tra persone che non lo capivano, frati compresi, a volte.

E tu sai che noi non siamo per la mortificazione fine a se stessa, non siamo certo austere: ci piace parlare del Castello interiore e dell’ultima sfumatura dello smalto Chanel, l’introvabile Vernis Riva, leggere il Dialogo della divina Provvidenza e spettegolare – in conclamata mala-fede – del collo corto di Carla Bruni (la giustizia divina esiste).

La mortificazione ci piace solo perché è per un bene più grande, e questo bene è accogliere tuo marito, quin-di generare una nuova te stessa.

Ti posso confessare, poi, senza che tu ti offenda, che quando mi racconti che lui ti fa arrabbiare mi sembra sempre che sia per delle stupidaggini? Sono piccole punture al tuo orgoglio, piccoli attentati alla tua auto-stima troppo debole. Quando sai chi sei e quanto vali – moltissimo, fidati di chi ti conosce e ti vuole bene – non hai paura di qualche critica. È vero, non sei ancora una cuoca esperta, né una padrona di casa perfetta. Che problema c’è se te lo dice? Digli che ha ragione, che è vero, che imparerai. Vedendo la tua dolcezza e la tua umiltà, il tuo sforzo di convertirti, anche lui si converti-rà. Senza prediche, ma specchiandosi in te.

A te sembrerà di perdere mesi e anni, di pazientare per un tempo infinito con Luigi, di essere in una partita di giro in cui il risultato non è mai zero, ma non è così. Nessun gesto di amore andrà perduto, nessun tuo pas-so indietro mancherà di trasformarsi in un passo in avanti per voi due, nessuna parola inutile taciuta sarà rimpianta.

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È un cammino difficile e forse inesauribile. Ti sembra di essere quella che dà di più – il ruolo

della vittima ci viene benissimo, basta un istante e in-dossiamo la divisa da casalinghe anni Cinquanta, gonna a ruota, messa in piega – ma ne sei sicura? Anche a lui sembrerà probabilmente di essere quello che fa il tratto più lungo di strada per incontrarvi. Io credo che in que-sti casi non si misura chi dà di più, ma chi può dare di più. Se anche ora ti senti una martire, gli equilibri in una vita possono cambiare infinite volte.

E poi, tu credi di amarlo come lui vuole, e invece ma-gari lo stai amando come tu vuoi. Gli scrivi bigliettini, lui invece vuole che tu faccia qualcosa di concreto per lui: invitare a cena sua madre, per esempio. Tu vuoi il mazzo di fiori, e lui ti dice che ti ama andandoti a com-prare la pizza ripiena con polpo e pomodorini. Tu parla il suo linguaggio, quello dei gesti concreti, e poi lui im-parerà a parlare il tuo, quello delle dichiarazioni in gi-nocchio tra i violini.

Ti lamenti del fatto che parla poco, ma dove sei vis-suta fino adesso? Non sai che un uomo rilascia dichia-razioni solo se ha la necessità di darti un’informazione utile e pregnante? Io ci ho messo qualche annetto, ma alla fine ho rinunciato a trascinare mio marito in tutta una serie di conversazioni, come quelle che riguardino la vita sentimentale degli esseri umani. Se però ho proprio voglia di parlare con lui, basta che emetta un parere de-ciso, e con grande probabilità sbagliato, sul 4-2-3-1 della Roma o sulla guerra in Afghanistan per avere certezza di ottenere risposta.

È uno sforzo di elasticità continuo e potrà anche ca-pitare che a te sembri di avere dato tanto, quando sei rimasta nel tuo egoismo.

Io, per esempio, avrei sempre la casa piena di perso-ne; mio marito, altrimenti detto “Aggiungi un posto a

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tavola”, rivendica l’etimologia del suo nome (colui che vive nella foresta), e piuttosto che dividere il compana-tico e raddoppiare l’allegria preferirebbe emigrare in un bosco. Il punto di equilibrio è abbastanza difficile da raggiungere, e richiede tolleranza da tutte e due le parti. Misurare chi venga di più incontro all’altro è difficile, anche perché alla nostra tavola di posti intanto se ne sono aggiunti quattro, e quelli sono fissi, pranzo e cena tutti i giorni.

Nel dubbio, comunque, obbedisci. Sottomettiti con fiducia.

Per me, per fare un altro esempio, tutto va program-mato, in modo che nella giornata entrino più impegni possibile, tipo flipper: più obiettivi tocchi, più fai punti. Per mio marito invece le idee migliori vengono nella noia, nel vuoto, e devo riconoscere che a volte funziona: capita, solo perché ci sono tre ore senza niente da fare, di vede-re tutti insieme a sorpresa Luci della ribalta o i sotterranei di San Clemente, di fare una interminabile partita di pallone integrando anche noi tre femmine, che ogni tanto abbandoniamo la marcatura per raccogliere fiori, o di inventare un gioco nuovo, anche se il caro vecchio “Dimmi che sono ciccione, se ne hai il coraggio” è sem-pre il più gettonato. Diciamo anche che ogni tanto pro-grammare ha un suo perché, se si deve tenere conto di pediatri dentisti feste compiti amichetti catechismi par-tite gare, ma sto imparando a essere un po’ più elastica, qualità suprema di ogni moglie e madre.

L’elasticità infatti ti servirà presto ancora di più, quando a ruotare intorno alla tua capacità di accoglien-za saranno non solo tuo marito ma anche i figli. Il loro benessere, la loro serenità si reggerà almeno in parte, almeno fino alla loro auspicabile autonomia (aiuto, quanti anni mancano?), sulla tua capacità di assorbire i loro cattivi umori, capricci, stanchezze, scontentezze.

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Non so perché, ma questo è un privilegio tutto nostro. I figli con noi danno il peggio di sé, e questo è risaputo. D’altra parte anche tu con chi ti sfoghi, se non con chi sai che ti vuole bene nonostante tutto? Con chi lasci da parte ogni maschera, ogni freno, e sfoderi tutto il reper-torio delle peggiori abiezioni, se non con chi non potrà mai abbandonarti (tipo la tua mamma, o la tua amica del liceo, che poi sarei io)? «Guarda, adesso mi devo lamentare un po’.» Noi lo sappiamo, ormai, tutte e due: quando la telefonata esordisce così si deve solo ascolta-re, annuire rumorosamente, compatire convintamente, ammirare esageratamente e assolutamente non fornire consigli intelligenti. Perché in quel momento una non vuole una soluzione, ma solo energici e poco verbosi pat-pat sulla spalla.

Ecco, i figli questo lo imparano a circa tre minuti di vita: noi li accoglieremo sempre, e quindi il pannolino troppo pieno, la caramella non concessa o un compito che non riesce – a seconda dell’età – si traducono inva-riabilmente in una rappresaglia a noi, sotto forma di ca-pricci, musi, pianti, insulti vari (l’ultimo per me è “co-lonnello fascista”, me lo sono beccato poco fa). Io ogni tanto provo a dire «Ragazzi, adesso esco a comprare le sigarette» ma nessuno mi crede, probabilmente anche perché non fumo.

Se posso azzardare una previsione, anche Luigi ap-profitterà presto della tua morbida conformazione – an-che se pesi cinquanta chili sei morbida dentro – per esternare la sua contrarietà alle più svariate rotture di scatole che costellano l’esistenza umana, e che non si sa come finiranno tutte per essere riconducibili, in qualche modo misterioso ma a lui evidentissimo, a te.

Non ti preoccupare. Non è niente, poi passa. Cerca di accoglierlo anche in quei momenti. Anche lui non vuole una soluzione, ma che tu lo incoraggi, gli dica che

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apprezzi quello che fa, e, se posso permettermi per quello che conosco tuo marito e un discreto campiona-rio della specie, che tu gli consenta senza troppo rom-pere di ritirarsi come un uomo primitivo nella sua ca-verna, che spesso assume la forma un po’ più tecnologi-ca di uno schermo di computer, ma nella sostanza non cambia. Il riposo del cacciatore.

Tu invece non lamentarti con lui. Chiama me o un’al-tra amica, femmina, avvertici preventivamente di non darti troppo peso, e comincia a brontolare un po’. Non lo fare mai con lui, perché l’uomo – il perché non lo so, parla con uno psichiatra, o un filosofo, o un uomologo di qualsiasi genere – se tu ti lamenti cerca di trovare una soluzione pratica. Ti offrirà di allungare l’orario della ta-ta o di prendervi una vacanza, quando tu volevi solo che ti dicesse che va tutto bene così, che sei un’eroina am-mirabile, impareggiabile.

E non cominciare, io ti conosco, a chiederti se hai sbagliato, se era davvero lui la persona giusta... Il dia-volo – il cui nome viene da dià ballo, divido – fa questo di mestiere. Vuole dividere. Noi da noi stessi, noi da Dio, e noi dalla persona a cui abbiamo giurato fedeltà.

Non sei tu che hai sbagliato, e non è neanche lui che è sbagliato. È che accogliere è il nostro carisma, guidare e sostenere è il loro.

E non penso neanche che sia un fatto culturale, non so, senti sempre l’uomologo di cui sopra. Io però ho un’amica carissima che vive in Germania, un genio, una testa superlativa. Non la sentivo da un po’, e ogni tanto mi capitava di immaginare la sua vita, tutta diver-sa dalla nostra, una coppia con ruoli interscambiabili, lui che spinge il passeggino, lei che va al briefing o fa il planning. Per il suo compleanno l’ho chiamata, e ho scoperto che ha deciso di stare a casa a fare la mamma, archiviando la laurea in ingegneria elettronica. In più ci

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siamo trovate a condividere ogni singola parola sulle dinamiche della famiglia, la sua e quella di una percen-tuale bulgara delle sue amiche teutoniche con cui si confronta in invidiatissime (da me) mattinate a bere tè o pomeriggi in parchi che immagino più ordinati del mio salotto. E a parte che lì da lei le strade sono pulite e i parcheggi con le strisce rosa (per mamme) rispettati, non abbiamo rilevato tra noi due altre differenze degne di nota.

Cara Margherita, che altro dirti? Ti prometto che vi-gilerò su di te, sulla tua felicità che da adesso devi co-minciare a costruire, anche se ti invito a trovare angeli custodi più potenti di me. Io purtroppo ti precedo solo di pochi anni e continuo a sbagliare sempre le stesse cose, con il rischio della rottamazione a favore di una ventenne che incombe costantemente. In cambio poi magari anche tu mi aiuterai a spiegare alle mie figlie che la storia del principe che arriva e ti salva, ha bisogno di qualche piccola puntualizzazione...

La tua testimone ti bacia, e fa il tifo per voi. C.

Mai in vita mia avrei pensato di rivalutare le noiosissi-me prediche che ci rilasciava, a titolo totalmente gratui-to, la fruttivendola del paese delle vacanze, la signora Ciotola (il suo vero nome, non un soprannome dovuto alla conformazione fisica cilindrica). E neanche le perle di saggezza infilate dalle donnine che prendevano il fresco lungo la strada con mia nonna, la sera. A noi sgallettate, alle prese con i primi trucchi e le spalline tatticamente scivolanti – non ci vuole niente, basta fare un piccolo scatto con la spalla – lanciavano sguardi di riprovazione, sospiri che lasciavano presagire il peggio per il nostro destino. L’immagine della donna che evo-

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cavano nei loro discorsi, forte e silenziosa, capace di reggere tutta la famiglia come il mozzo di una ruota fa con i raggi, mi sembrava meno plausibile di Sigourney Weaver nei panni della Ripley di Alien (siamo negli an-ni Ottanta). Non mi reggevo da sola, figurarsi reggere qualcun altro.

Poi per fortuna si cresce, o ci si prova, e mi dispiace che nessuna delle due nonne abbia potuto conoscere tutti e quattro i miei figli, al momento cresciuti molto impataccati ma abbastanza incolumi, senza troppi pun-ti di sutura. La nonna Gina avrebbe trovato qualcosa da ridire lo stesso, visto che ho dimenticato come si fa l’un-cinetto e in quanto a economia domestica potrei miglio-rare: «Mia madre scalda benissimo i surgelati» ha detto una volta Bernardo a un amichetto, per convincerlo a restare a cena. Però avrebbero apprezzato le loro pagel-le, soprattutto la nonna professoressa di francese, e la loro pietas: «Io di lavoro da grande voglio fare la santa» mi ha detto Livia, «magari santa Teresa “Dalila”».

Penso spesso a loro, alle donne delle altre generazio-ni, quando vedo donne in cerca di identità, e per questo sofferenti. Loro non hanno dovuto cercare tanto, un ruolo ce lo avevano, glielo avevano assegnato. Una cosa che forse le ha protette, ha reso meno faticosa la ricerca personale. Non mi sembravano infelici, e se lo erano se lo tenevano per sé. Se avessi parlato di obbedienza ci saremmo capite.

Adesso invece sono poche le amiche cristiane con cui possiamo confrontarci liberamente sulla nostra idea del matrimonio. Perché se queste riflessioni le condivi-diamo con le amiche “del mondo” o ci insultano, o ci compatiscono, o ci invitano a chiedere una rapida con-sulenza psichiatrica. E questo una se lo aspetta anche. La cosa strana è che, anche tra le cristiane, se tu comin-ci a parlare di sottomissione pensano che scherzi. «No.

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Scusa. Ma che intendi? Stai dicendo in senso ironico, vero?» Già che noi cristiani siamo pochi – non che non ci avessero avvertito, con la storia del sale e del lievi-to –, in più qualche volta non ci sforziamo tanto di al-lontanarci dalla vulgata, e in questo caso non quella di san Girolamo, ma il sentire comune, che ritiene la li-bertà, l’autodeterminazione, il proprio arbitrio i valori massimi e gli unici intoccabili. Parlare di sottomissione suscita riprovazione, sgomento, ribellione, stizza, schi-fo. E non solo per il peccato originale che ci fa avere in odio l’idea di obbedire a qualcuno che non siamo noi stessi, ma anche per questa cultura autarchica nella quale siamo immersi tutti noi, anche i cristiani. Che poi saremmo quelli a cui avevano detto di servire gli altri, di metterci per ultimi.

San Paolo, nella lettera agli Efesini, ci spiega come si serve l’altro nella coppia. «Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della mo-glie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomes-sa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.» Questo neanche i preti osano dirlo più, temendo di essere lapidati da noi femmine.

Io però ho visto, di persona, nella vita di chi ci ha voluto provare, che questa è la via della salvezza. Non il paradiso, che speriamo ci aspetti dopo, ma la salvezza anche qui in questa vita, cioè la pace, una vita matrimo-niale piena e appagante.

Una via che forse anche chi non crede dovrebbe pro-vare a sperimentare. Perché, come spiega Paolo poche righe sotto, quello che succede dopo è questo: «E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei [...]. Così anche i ma-riti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso.

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[...] Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola».

Sarà anche vero che tutte le famiglie felici si somi-gliano – chi potrebbe mai contraddire Tolstoj – ma an-che tra quelle infelici non vedo poi una gran fantasia: tradimenti, bracci di ferro, sottili prove di forza, misura-zioni delle energie messe in campo, io ho fatto di più, no io, chiamiamo un giudice di gara.

Come al solito, l’unica parola veramente nuova sul-l’ar go men to viene da Dio. Quando parliamo – sottovo-ce per evitare il linciaggio – di sottomissione dobbiamo uscire dal linguaggio del mondo, che legge tutto nell’ot-tica del dominio, del potere. Il nostro Re sta in croce, però così ha vinto contro l’unico nemico invincibile, la morte. Anche noi quindi dobbiamo uscire dalla logica del potere, capovolgerla completamente. Innanzitutto perché la sottomissione non viene dal deprezzamento, non la si sceglie perché si pensa di non valere. E poi perché il frutto della scelta della donna è il fatto che l’uomo sarà pronto a morire per lei.

Quando san Paolo dice alle donne di accettare di sta-re sotto, non pensa affatto che siano inferiori. Anzi, è al cristianesimo che dobbiamo la prima vera grande riva-lutazione delle donne. La creatura più grande è una donna, tanto per cominciare. E Gesù le donne le onora-va, in un modo che scandalizzava anche. Da loro per prime si è fatto vedere quando è risorto; chissà, magari i maschi erano allo stadio, visto che era domenica. «Pra-ticamente san Pietro prima dello Spirito Santo era una vera schiappa» ha riassunto una volta mio figlio, con una visione un po’ colorita ma tutto sommato teologi-camente corretta.

La sottomissione di cui parla Paolo è un regalo, libe-ro come ogni regalo, che sennò sarebbe una tassa. È un

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regalo di sé spontaneo, fatto per amore. Rinuncio al mio egoismo per te. E se proprio vogliamo parlare in termini di grandezza o piccolezza, di forza o debolezza, di pote-re, è meglio ricordare che “chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore”. Da questo si misura la grandezza di una persona.

«Chi ha più intelligenza l’adoperi» ci diceva mia ma-dre da piccoli, sperando con questo nobile richiamo di suscitare in noi tre fratelli buoni sentimenti, quando ci prendevamo a sprangate per motivi validissimi quali la scelta del canale o la conquista di una bicicletta. Per la cronaca, il richiamo non funzionava mai.

La donna non deve sentirsi sminuita da questo invito di san Paolo, anzi.

Il problema è che noi per molti secoli e in molte cul-ture siamo state “messe sotto” non in quest’ottica di dono libero e spontaneo, ma con la logica del potere e della forza, la logica del mondo. E quindi parlare di ob-bedienza tocca dei nervi ancora scoperti. Il femminismo, in questo senso, ha avuto il merito di portare avanti istanze di giustizia, quando di giustizia ce n’era poca (e in molte culture non cristiane continua a essercene po-chissima). Solo che ha dato le risposte sbagliate, e ha prodotto anche tanta infelicità. Nuova schiavitù in don-ne che credono di essere liberate e invece forse hanno sbagliato mira.

«Verso tuo marito sarà il tuo istinto ma egli ti domi-nerà» dice la Genesi. Qui è nascosta una scintilla, una via per la felicità. Già qui, su questa terra.

E quindi la donna obbedisce perché sa ascoltare, non perché si deprezza. L’umile è una persona che sa chi è, quali sono le sue ricchezze e le sue debolezze. Anche se un conto è sapere, un conto è sentirselo dire, quindi, ragazzi, colgo l’occasione per invitarvi a non parlare troppo in giro della desolante ripetitività dei miei menu,

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né trovo strettamente necessario chiamarmi ad alta vo-ce Dottoressa Panciaspessa davanti a tutti.

Comunque, quando una donna si mette al di sotto non per essere schiacciata ma per accogliere, indica la strada anche all’uomo, e a tutta la famiglia. La donna precede l’uomo, che ha bisogno di essere accolto.

Con una donna così, che è leale, che non fa la rivale, che non vuole prendere il controllo di tutto, dominare, che non fa neanche la femminuccia, l’uomo può essere fecondo. E tanto per cominciare anche l’idea di fare un figlio può non sembrargli più tanto spaventosa.

Amare per prime, ma amare anche per ultime. A noi sta anche il compito di continuare ad amare, di mante-nere il fuoco acceso in casa. Una fedeltà che può diven-tare indispensabile nei momenti in cui l’amore – che non è solo un sentimento ma prima di tutto un coman-damento – richiede anche una forte, sicura decisione.

Ci vuole una grande decisione, per esempio, per non tradire il matrimonio quando si viene tradite.

Nota bene: la lettura di quanto segue è assolutamen-te interdetta a mio marito, e le nobili parole che seguo-no si applicano a tutti i matrimoni tranne che al mio.

Eppure, dicevo, persino una donna che viene tradita ha una possibilità di difendere il suo amore che è in se-rio pericolo di vita: può rimanere fedele e continuare ad amare. È una tempesta terribile, ma non è un naufragio. È un vaso che si rompe, e che non tornerà mai più nuo-vo, ma anche con il segno dell’incollatura potrà reggere fino alla fine.

E magari chissà, potrà essere quello ferito e risanato il punto più resistente, il punto di “ripartenza”. Noi donne difendiamo anche così la vita, portandone alto il nome persino quando tutto sembra perduto.

Perdonare non vuol dire dimenticare quello che è suc-cesso. Non è non guardare in faccia il dolore. Non è non

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dargli importanza perché bene e male alla fine sono in-distinti. Non è indifferenza. È decidere di arginare il di-sordine, e di far vincere il bene.

Le donne che ci riescono sono le più forti, le più te-naci, le più capaci di amore; hanno le spalle larghe, sono capaci di fare il miracolo che ci vuole per superare un tradimento, curare la ferita e ricercare di nuovo l’unità.

Lo stesso non si può dire per l’uomo, perché l’uomo e la donna amano diversamente: la donna con amore spe-cifico, capace di comprendere l’originalità. L’uomo può essere fragile, e non sempre capace di cogliere le diffe-renze tra le donne.

Solo queste nelle situazioni più dolorose, inestrica-bili e disperate possono dare la speranza e restare salde, per ridare coraggio a tutti. Ma anche senza arrivare al tradimento vero, consumato, messo in atto, al pericolo di morte per il rapporto, ci sono tanti piccoli tradimenti possibili.

C’è inevitabilmente una fase in cui l’abitudine leva un po’ di smalto.

Anche la moglie di Robert Redford, non il rugoso di-rettore del Sundance ma il leggendario uomo che si è fatto da solo nel Grande Gatsby, probabilmente veden-doselo gironzolare per casa in mutande e calzini sba-gliati, abbarbicato al telecomando davanti a una partita dei Lakers, avrebbe la tentazione di mettersi a smessag-giare con il giovane e prestante fruttivendolo di West Hollywood. Anche in questi casi l’amore funziona se si decide per ciò che è esclusivo e definitivo e non si va dietro alle emozioni, ai propri bisogni, alla parte istinti-va, al desiderio di provare nuove emozioni e sensazioni più fresche. Come sono tristi una buona, buonissima parte dei film e dei libri contemporanei: una lamentela sul nulla, una noiosa tautologia, una dimostrazione che obbedendo al proprio egoismo si sta male, si è inquieti

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e mai sazi. Tutti chicchi di frumento che non vogliono cadere nella terra.

Celebrazioni del “non mi viene”, del “non lo sento”. Wojtyła diceva alle coppie con cui d’estate andava in

campeggio: «Non dite “Ti amo”, ma “Partecipo con te all’amore di Dio”». Tutta un’altra musica.

Tre anni dopo...

Tecnicamente non si potrebbe dire che tutto per Mar-gherita fili definitivamente alla perfezione con il marito, Luigi (e chi può dire così del proprio matrimonio?) ma, visto che mentre ci riflette continua a sfornare figli – adesso sta a quota tre, se non mi sono distratta –, io ormai l’ho derubricata ad amica meno urgente. Sempre carissima (risale al liceo), ma ormai collocabile nel re-parto telefonata-compatibile-con-attività-a-basso-di-spendio-neuronale. Quando attacca con la lamentela sulla stanchezza faccio con lei quello che faccio con me stessa: non la ascolto che con una parte superficiale di me, ciò che non impedisce ai miei figli, appena mi vedo-no al telefono, di approfittare per estorcermi le conces-sioni più subdole, così che alla fine della conversazione scopro improvvisamente di essere la fortunata proprie-taria del Puffo pompiere oppure di avere devoluto in pizzette rosse cifre indecorose, o ancora di avere invita-to tre amichetti a casa.

Le questioni di oggi sono piccole cose, comunque, piccoli aggiustamenti della vita quotidiana (a Margheri’, ormai lo sai, è inutile che ti lamenti perché lui non è preciso: metti un collare col microchip ai figli, oppure tatuagli il tuo numero nell’interno coscia, e contali sem-pre la sera, quando è ora di cena. Oppure smetti di chie-

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dere a lui di portarli al parco. Magari poi se eviti di orga-nizzargli le giornate con i figli, a lui viene anche voglia di offrirsi volontario), niente in confronto ai dubbi di un tempo. “Sarà quello giusto? E se magari ora mi gioco il jolly con lui, e poi ne trovo uno meglio? (Quando uno pensa cose cretine non è che stia tanto attento alla gram-matica.) Ma mi farà felice?”

Quelle della mia amica, la Margherita di un tempo, di quando non aveva imparato a fare spazio per un altro dentro di sé, sono le domande infantili e narcisistiche che sento fare più spesso da chi sta per sposarsi. Parlano di un amore che è possesso, possesso di qualcuno che mi serve per stare meglio.

L’amore che invece Margherita sta imparando, e mi sta anche insegnando, è quello che ti fa vivere il matri-monio come una via per la vita eterna, perché quello è il fine del matrimonio: generare figli – se vengono – ma, ancor prima, generare se stessi, penetrando nel mistero di “maschio e femmina a immagine di Dio”. Allora il senso diventa percorrere con l’altro, per l’altro e grazie all’altro una via che in certi momenti è faticosa, perché porta alla nascita di una nuova entità: non più due indi-vidui, ma una comunione. Se quello che nell’altro è di-verso da te, dunque, ti genera, ti compie, allora accogli come una fortuna quello che ti fa arrabbiare, ti fa venire i nervi, ti ferisce o ti dispiace, perché sai che ti sta facen-do fare un passo in avanti.

Margherita, per dire, avrebbe sempre gente a cena; Luigi si scaverebbe una celletta nella roccia in Cappado-cia. Lei è logorroica; lui, come altri mariti che conosco, ehm, ogni tanto gli devi chiedere se è vivo, quando parla con te. Lei piega i calzini col righello per averne tre file compatte nel secondo cassetto a destra; lui ha un’idea di ordine leggermente più elastica (la locuzione “casa è tut-ta a posto” significa che non ci sono cadaveri di bambini

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a terra). Eppure a un certo punto lei si è arresa a questa semplice notizia: sono diversi. Ha deciso di permettere a suo marito di essere come è. Ha capito che non era lei a dover decidere come dovessero essere tutti, in casa (un lavoro da fare anche con i figli). Ha cominciato que-sto lavoro – che potremmo chiamare scartavetramento, correzione, conversione, qualcosa comunque che l’ha trasformata da bambina lagnosa a meravigliosa donna accogliente – su di sé. Con un bonus mensile per telefo-nata di lamento, ma quello, vorrei ben sperare, ce l’ab-biamo tutti, no?

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Cara Agnese, meno male che anche tu sei dei nostri. Sei una per-

sona normale. Be’, sarà che sono all’inizio, ci dicevamo noi che

guardavamo voi due dal nostro posto in platea, seduti nel mezzo delle nostre vite ordinarie, intessute di mise-ri problemucci. L’idraulico che se ne riparte col suo Suv lasciandoti col bagno rotto («Torno domani, è rotto si-gno’.» No, scusi, questo me lo potevo dire da sola, e gratis), le varicelle dei bambini a effetto domino, il figlio che con precisione da tiratore scelto della Cia sa sempre trovare il momento opportuno per dire la cosa che ti fa venire più i nervi («Mamma, secondo me tu, siccome sei giornalista, parli di cose che non conosci»).

Noi globalmente felici, insomma, ma stanchi, a volte anche preoccupati, con gli abiti stazzonati. Voi no. Una coppia perfetta, eterea, mai sfiorata dagli accidenti che qui in basso, nella vita reale, fanno procedere a volte con poca eleganza, arrancando, due passi avanti uno indietro.

Nel vostro mondo di prima, invece, non si perdeva la signorile imperturbabilità per piccolezze quali acquisti di case con documenti a cui manca sempre un timbro il giorno del rogito, o imbottigliamenti nel traffico il gior-no in cui arriva il nuovo capo.

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Agnese ovvero

Il grande Lebowski che è in lui

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Capaci di trascorrere ore interminabili vicini in silen-zio a leggere, oppure a parlare di politica e teologia, di letteratura; a fare il tuo gioco preferito, il casting, che assegna alle persone che conosci i ruoli dei protagonisti dei romanzi.

Per inciso, ho deciso di prendere bene il fatto che du-rante le vacanze dopo la maturità, quando avevamo tut-te e due diciotto anni, tu, Agnese, mi assegnasti la parte dell’Idiota. Sei un’idiota, ma in senso alto, mi dicevi per prendermi in giro. Sono la musa di Dostoevskij. Co-munque da allora sono passati vent’anni, e qualche co-ordinata sul mondo l’ho presa, mi sono un po’ adattata, volevo puntualizzare.

Sembrava impossibile vedervi discutere, voi due; al massimo un po’ di fervore, sempre su questioni nobilis-sime, per carità, tipo la riforma liturgica post Concilio Vaticano II, mentre le coppie normali si scaldano sul mo-do di caricare la lavastoviglie (e comunque lo faccio me-glio io). Voi no, superiori al volgo e innamoratissimi.

È pur vero che in quei tempi il disagio più stringente che potesse affliggervi era la destinazione della serata, mangiare al ghetto o vedere una commedia, che tu ado-ri e Pietro detesta. Sono problemi, effettivamente.

Poi è arrivato il primo bambino, e avete retto benissi-mo. Un rimpasto di governo, ma non si è andati al voto.

Adesso il secondo in due anni – e insieme la tua as-sunzione, agognata ma arrivata nel momento meno op-portuno, con un neonato e un duenne a casa – ti hanno riportata sulla terra.

Adesso, mi dici, a te e Pietro capita di sedervi vicini solo se lui ti dà un passaggio per andare al lavoro, am-messo che sia arrivata in tempo la tata peruviana, bravis-sima ma con un’idea sudamericana dell’orologio, un ac-cessorio che le fornisce più suggerimenti di massima che non informazioni precise (avrà una meridiana al polso?).

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Adesso alle analisi degli scenari politici economici mondiali si sono sostituite scarne comunicazioni di ser-vizio: comprare tre etti di macinato; l’appuntamento per il vaccino è alle nove e mezzo; il bollettino dell’assicura-zione è nella nicchia.

Sei stanca, e diciamo che, se e quando in casa cala alfine il silenzio, il tuo primo pensiero non è più quello di vergare lettere d’amore per il tuo uomo su carta di Firenze. Al limite vorresti fare una doccia.

Tuo marito da parte sua, per dire solo l’ultima, ha dimenticato l’anniversario, ma secondo me lo puoi per-donare, da quando, dopo avere comprato il biglietto per l’agognato concerto di Tom Waits, ha sbagliato giorno e mentre quello, con la sua voce roca, faceva impazzire il pubblico, lui dormicchiava sul divano.

Adesso, l’ho visto da come ti tiravi indietro i capelli dalla fronte – il tuo gesto di nervosismo dai tempi delle interrogazioni di fisica, inequivocabile spia del fatto che non avevi studiato –, ti fa venire i nervi la scoordinazio-ne di Pietro, la sua capacità quasi soprannaturale di ur-tare tutto quello che si affaccia sul suo passaggio. La sua inattitudine a qualsiasi contatto sociale che implichi una qualsivoglia articolazione di parole. La sua ondivaga propensione all’aiuto casalingo, che lo fa passare da un livello base di latitanza sfacciata a picchi di entusiasmo creativo (riordinare i cd per genere musicale), quando però non fa mai quello di cui avresti davvero bisogno (preparare la minestra).

La spinta propulsiva che ha portato in orbita il vo-stro satellite si è esaurita, anche se ci ha messo un po’ più della media. Ha fatto il suo lavoro. La spinta doveva finire, sennò sareste andati fuori orbita. Adesso, però, the best is yet to come, come direbbe Frank Sinatra. Tu pensi di avere visto il sole, ma non lo hai visto ancora splendere.

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Adesso viene il bello, perché quelle che hai visto fi-nora sono le scintille dell’innamoramento. Il bello ades-so è trasformarle in un sole che brucia, stabile, forte co-me la morte.

È un lavoro duro, quotidiano, oscuro, silenzioso e per lo più incompreso, che come al solito all’inizio spetterà principalmente a te, che sei la parte più delicata e sofi-sticata della coppia, ma quella che in qualche maniera trova sempre la scintilla per rimettere in moto.

E il nome di questo lavoro è obbedienza. Obbedien-za alla promessa che hai fatto, all’uomo che hai scelto. Una sottomissione creativa: obbedire a lui ma con crea-tività, cercando di vedere con gli occhi della speranza dove il vostro amore possa andare, quali angoli si pos-sano smussare, quali difetti possiate correggere e quali tenervi, con ironia e rassegnazione.

Speranza perché c’è un momento in cui quello della seconda virtù teologale sembra l’unico modo rimasto per guardare, l’unico sguardo possibile.

Io, per esempio, spero con granitica fiducia che un giorno mio marito diventi socievole e ciarliero, mi per-metta di invitare a cena almeno un quarto delle persone che vorrei, e li accolga come Cary Grant con un cocktail in mano facendo battute brillanti ed eleganti. Un marito così è irreale, è chiaro, come quelli che aspettano pa-zientemente la moglie fuori dalla cabina prova e danno consigli preziosi come «I colori caldi non ti donano al viso, mia cara». È ovvio che quel tipo di marito poi ti riaccompagna a casa e va dalla moldava ventitreenne.

Allora, meglio tenerseli con i difetti, quando si comin-ciano a vedere. Non ho ancora incontrato una sola cop-pia per la quale questo momento non sia arrivato. Erava-te rimasti voi, e francamente mi scocciava pure un po’.

Sappi che non siete soli, anzi casomai eravate soli pri-ma. Questa fatica fa parte del pacchetto, anche se forse

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non si pubblicizza abbastanza al momento dell’acqui-sto. Forse è una clausola scritta in caratteri minuscoli, o nel linguaggio incomprensibile delle banche: l’indiciz-zazione del tasso di fascino del coniuge con cui lei oggi pone in essere il vincolo di cui sopra, si calcola al lordo della ritenuta fiscale, con la media Eur trimestrale 360 e si decrementa dell’1,020% annuo, con riferimento della durata dell’anno civile (divisore 365/366). Alla fine del-l’anno, se non stai attenta, non si sa come il totale è sempre un po’ in perdita.

È un segreto da non rivelare, per non perdere clienti. Sono tutti complici, anche gli autori delle favole.

Ti sei mai chiesta perché le storie finiscano tutte con “E vissero per sempre felici e contenti”? Dopo che il principe varca la soglia con lei in braccio che fa, si toglie la giacca bordata di ermellino, gli stivali e si accascia in poltrona?

Mi viene in mente solo una favola che osi andare ol-tre il giorno del matrimonio, quella di Shrek, e infatti non a caso lui e lei sono due orchi: così si possono rac-contare tutte le loro bassezze, le meschinità del caratte-re e le funzioni fisiologiche più ripugnanti. Una quoti-dianità principesca non sembra credibile.

E anche le commedie non è che si siano inventate un granché, da Aristofane in poi, quindi da qualche migliaio di anni. Situazione iniziale apparentemente tranquilla, irrompere della novità, poi impedimento o equivoco o smarrimento che sia, soluzione finale. Quando le cose cominciano a filare la commedia finisce. Non sembra plausibile una quotidianità appassionante.

Eppure è possibile. C’è un segreto, che il mondo non conosce, per rendere una via luminosa la nostra quoti-dianità fatta anche di noia, abitudine, incomprensioni, di rotture di scatole (però se divento molto ricca, pri-ma di dare ai poveri, per via della cruna dell’ago, per un

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po’ voglio l’autista, così mentre mi barcameno tra lavo-ro messa atletiche danze catechismi calci mi faccio le sopracciglia, che bastano tre giorni di distrazione e ten-do a somigliare pericolosamente a Breznev).

Il segreto si chiama sacrificio: la fatica non è più un intoppo, ma l’altro nome dell’amore; non è qualcosa che frustra l’amore, ma che lo fa crescere. L’amore non si consuma nella fatica, l’amore cresce.

E non mi dire che a cominciare dovete essere in due: questa da te non me l’aspettavo. Devi essere proprio stanca, “arivata”, come si dice a Roma. Perché tu lo sai che l’amore, «che a nullo amato amar perdona», si pro-voca proprio così, non c’è altro modo: dando a vuoto, senza voltarsi indietro. Sennò non è amore, è un con-tratto. Allora prenditi un collaboratore domestico.

Mi dici, pudica, che ogni tanto ti viene qualche dub-bio. Traduco io, che non ho paura. Ci sono giorni in cui ti chiedi se hai sbagliato tutto. Se hai scelto tuo marito in un momento di fragilità. Se non lo conoscevi abba-stanza. O se sei stata tu a cambiare.

Via questi pensieri diabolici. Io che vi vedo da fuori ti dico che è lui Mister Right. Senza dubbio. E ti dico an-che che questi dubbi fanno parte del pacchetto matri-monio. Ho estorto confessioni in questo senso anche a persone che hanno vite matrimoniali da manuale, cop-pie da monumento, quelle che nel tuo personale museo interiore stanno nella teca al centro della sala rossa, col damasco e il cordone rosso intorno.

Mia zia Lucia è stata fidanzata e sposata con lo zio per mezzo secolo (l’avresti detto? Dimostra cin quan t’an ni in tutto). Li vedevi sempre insieme, sempre allegri e af-fiatatissimi. Forse non sai che lui da poco è morto. «E qualche dubbio tu lo hai mai avuto?» le ho chiesto men-tre lo ricordavamo insieme. «Ti dico solo» mi ha rispo-sto, «che quando da fuori vedi una famigliola felice,

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con tutti i bambini seduti a tavola, perfetti e ubbidienti, mamma e papà che sorridono, sappi che hanno sicura-mente messo una tendina davanti alla finestra. Quelle sono sagome di cartone, c’è una musichina di sottofon-do e risate registrate. Dietro sicuramente qualcuno sta pensando “Adesso conto fino a dieci prima di risponde-re”. E qualcun altro non ci riesce. Ma anche dietro la ten-dina da happy family, ci si può volere bene sul serio.»

All’impatto con la quotidianità, con la fatica, con le rotture di scatole, con i pesi da portare non c’è un prin-cipe (né una principessa, è ovvio) che non si trasformi in un rospo. La favola al contrario. E tu che credevi di tra-sformarlo col tuo bacio, facendogli spuntare corona ed ermellino. Adesso, proprio adesso, è il momento di far cambiare marcia alla vostra storia. È l’unica cosa da fare.

A meno che tu non ti metta a coltivare ricordi, nei quali gli uomini del passato sembrano tutti avvolti da un alone di perfezione.

Non mi dire che adesso mi rivieni fuori con quel me-dico che hai conosciuto durante il dottorato a Boston, che secondo me tu ti sei completamente fabbricata nel-la tua zucca: avete preso sì e no tre caffè insieme, e an-che se quella sbobba di Starbucks – l’Iced Frappuccino giant size cinnamon flavour – tu ci metti un’ora a finirla, mi sembra un po’ poco per rimanergli attaccata come una cozza, per continuare a sognarlo a intervalli regola-ri per dieci anni.

Oppure puoi cominciare a dare spazio alle tue fanta-sie, ti inventi storie con persone che in realtà non cono-sci davvero, e che puoi aggiustarti a tuo piacimento, tanto che ti importa, non hai la seccatura del confronto con la realtà, che alla fine è un impiccio, una spiacevole rottura di scatole.

C’è anche, ma questo di solito è l’espediente adotta-to dagli uomini, chi comincia a buttarsi sul lavoro, fuori

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casa, per non dover invece lavorare su un rapporto che non funziona, come se esistesse un rapporto che fun-zioni senza manutenzione.

Noi donne invece rischiamo di scappare da nostro marito dedicandoci anima e corpo ai figli, e qui il rischio è più subdolo, perché chi mai potrebbe accusarti di es-sere una madre troppo dedita? Mentre vigilare sul cuo-re, che non batta per altri uomini è più facile, i figli pos-sono prendere il posto dell’uomo senza che una se ne accorga neanche.

E poi, ovviamente, ci sono i tradimenti. È una di quelle cose che non puoi chiedere agli incontri con le vecchie compagne di liceo, ma quante (o quanti) di loro in questi vent’anni sono riuscite a essere così lucide da capire che l’abitudine e il calzino a terra sarebbero in agguato con chiunque, anche con l’affascinante derma-tologo dei figli, spalle larghe, battuta pronta, compli-mento facile? Claudia non lo è stata, così lucida, e vedi come sta adesso.

E come ti spieghi che una possa accettare lo squallore di incontri clandestini, la tristezza infinita di tornare a ca-sa dai figli, carne della carne e sangue del sangue di due persone, e di non poterli guardare in faccia, per la paura di svelare che il motivo per cui sono nati non esiste più?

Forse ci si illude di poter controllare la situazione, e infatti fino a un certo punto si può ancora tornare indie-tro. Ma superare quel punto è un momento.

Guido, per esempio, dice sempre che lui avrebbe do-vuto tirarsi indietro dopo il nostro primo appuntamen-to, quando a cena abbiamo parlato della macchina che allora dovevo comprare. Per me solo un requisito era importante: lo spazio per una carrozzina nel portabaga-gli, e a mala pena ci conoscevamo. «Avrei dovuto capir-lo subito che mi sarei ritrovato accerchiato dai bambi-ni.» Lui per la verità sostiene di essere ancora in tempo

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a mollarmi, ma ti resta poco, caro mio, dopo i qua-rant’anni no, non è leale: chi mi raccatta, vicina alla de-composizione e con quattro figli?

Quindi, Agnese, non raccontarmi dei tuoi colleghi di studio, perché non ne voglio sapere niente. Non esisto-no. Non puoi confidarti con loro se litighi con Pietro, non mi fare la gattamorta. Niente dottorino americano su Facebook, neanche quando Pietro va a buttare la spazzatura che sembra il grande Lebowski, pantalone a mezzo sedere, pancia di fuori, scarpa infilata a ciabatta. Oppure, un’altra possibilità che hai è far fare un salto di qualità al vostro rapporto. Ricominciare a lavorarci, adesso che non è tutto scontato.

Anzi, io direi che dovresti cominciare innanzitutto a lavorare su di te. Ultimamente, scusa se te lo dico, sei simpatica come una lettera dell’Agenzia delle entrate. Sarà che ti nutri di sedano, e io direi che puoi anche aspettare qualche mese a tornare in forma dopo due gravidanze, ormai per le selezioni di miss Italia di que-st’anno sei fuori.

Sarà certo che sei stanca, ma il tuo perfezionismo ti impedisce di chiedere aiuto; io rivedrei gli orari della si-gnora che ti dà una mano in casa.

Saranno gli ormoni, che hanno affinato la tua arte, la tua creatività, la tua resistenza da triatleta nell’attività che da tempo coltivi con professionalità e competenza: lamentarti.

Quindi, intanto che rimuovi la trave, lascia perdere l’occhio di Pietro, che secondo me la sua pagliuzza ci può pure stare. Chiediti piuttosto chi altri potrebbe sop-portarti, che certe volte sei leggera come una che balla con i ramponi. Chiediti chi altri potrebbe contenerti, che sei equilibrata come una diva hollywoodiana sul viale del tramonto quando si scopre una nuova ruga. Chiedi-ti chi altri potrebbe tollerare certe tue gravissime psico-

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patologie, come quella che ti ha indotto a far girare tuo marito per una dozzina di tappezzerie per trovare il punto esatto di verde petrolio senza il quale la tua casa ti sarebbe sembrata irrimediabilmente volgare.

Diciamo la verità: essere tuo marito a volte è uno sport estremo.

Allora, alla faccia della saggezza di chi non ha avuto figli lavoro marito casa da gestire, e giorni – questo è il problema – di sole ventiquatt’ore, e ha scritto che amare non sarebbe guardarsi negli occhi, ma guardare insieme nella stessa direzione, io direi di ritrovare, e in fretta, il modo di guardarvi anche negli occhi, ogni tanto.

Organizza, spremi i nonni, prendi ferie, lascia stare la casa, porta fuori Pietro, mettilo seduto sotto una buona luce e guardalo un po’, tanto per ricordarti perché lo hai sposato.

Poi, come ti ho già detto, stai attenta a non esporti a quelle situazioni da allumeuse che ti vengono particolar-mente bene. Anche perché, come sai bene, sei bella, e anche se fra poco saremo entrambe articoli da amatori, una chicca per appassionati di modelli d’epoca, dici an-cora la tua, soprattutto quando hai tempo per aprire l’armadio e non ti infili la prima cosa che cade giù quan-do scosti l’anta.

E, giusto un attimo prima di assumere il tono da “Stasera portate una carezza ai vostri bambini”, un ulti-mo consiglio: evitate di fare due vite parallele. Rischio concretissimo quando si lavora in due e si vuole essere presenti con i figli. Mantenete spazi comuni, anche se a volte fare le cose in due è più faticoso che farle da soli. Con i tuoi modi e i tuoi tempi, certo, ti sbrighi prima.

Infatti non ti dico di fare una riunione del direttivo ogni volta che c’è da spostare una lampada, ma qualco-sa la dovrete pur condividere, qualche attività a due conservatela: non è scontato come sembra.

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Guarda che, come dice Roz, la lumacona di Mon-sters, io, ti tengo d’occhio (ma lo faccio sempre con af-fetto).

La tua amica, C.

C’è un sacerdote, a Perugia, a cui molte persone devono molto. Si chiama don Ignazio Zaganelli, per noi Doni. È vero, ha la capacità di cogliere le sfumature pari a quella di un neonato a due ore di vita, che distingue solo luci e ombre. Spara dall’ambone giudizi talmente netti che uno, ogni volta che si gira, controlla se per caso gli spun-ti una spada infuocata dalla casula. Io, che di mio sono di granito, in confronto sembro Mariano Rumor, sem-bro una pagina del «Corriere della Sera» degli anni Cin-quanta.

Per noi bambini che facevamo catechismo con lui, però, era molto rassicurante avere quelle certezze soli-de, prive di angolazioni, mai oblique. Bevevamo le sue parole con sollievo; con lui sapevi sempre da che parte stava la verità, che da piccoli era piacevole individuare velocemente e senza sforzi.

Poi è arrivata l’adolescenza, la presunzione di saper-la lunga, la voglia di opposizione, e i sospiri insofferenti alle sue omelie.

Infine noi, suoi parrocchiani, abbiamo deciso che non possiamo fare a meno di lui, e infatti a forza di pre-ghiere gli abbiamo impedito di morire in un attacco di cuore.

Al matrimonio di una mia cugina ha deciso di igno-rare completamente lo sposo, e di rivolgersi per i circa quaranta minuti dell’omelia esclusivamente a lei. Ades-so dipende tutto da te, cara sposa. È dalla donna per prima che dipende la vita o la morte del matrimonio. Sii

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buona, dolce, con il cuore aperto. Sottomessa non nella logica del dominio, quindi della violenza e della costri-zione, ma in quella del servizio, spontaneo, volontario. Pronta a prevenire i desideri, ad accogliere.

Mano a mano che Doni parlava, il sorriso della sposa si andava affievolendo – Non è che mi sto prendendo una fregatura? – e quello dello sposo progressivamente diventava un ghigno: Ci sono anch’io, mi ha visto? Quanto agli invitati, si faceva a gara a chi sbuffava con più insofferenza, a parte chi come me approfittava della ghiotta occasione di poter pisolare sulla panca di legno, per quanto progettata da un sadico designer (quando si ha un neonato sofferente di coliche si può dormire in qualsiasi posizione). «Ma quello è matto» è stato il com-mento più benevolo sentito poi sul sagrato.

Certo, Doni, come è noto, non ha il dono della me-diazione, considera le sfumature un’inutile seccatura, ma anche quella volta aveva ragione. Questo è il mo-mento storico di uscire dalla logica del dominio, che è una perversione del rapporto uomo-donna anche se-condo Ratzinger, e non solo secondo tutte le Lidie Rave-re e le Natalie Aspesi del giornalismo. Solo che il mecca-nismo del dominio non si scardina con la logica dell’e-mancipazione, che a ben vedere è la stessa del dominio, una specie di vendetta. Se ne esce invece con la logica della mansuetudine.

Amarsi per sempre è difficilissimo, quasi impossibile. Noi che siamo più generose, accoglienti, brave nel cuci-re, intessere, fare spazio, tenere insieme dobbiamo farlo per prime.

E lo stesso Paolo di Tarso che ci invita alla sottomis-sione, dice che un giorno non ci sarà più né uomo né donna. La mansuetudine è quindi la guarigione da un rapporto di dominio che ha segnato i due sessi per tutta la storia, e che alla fine della storia non ci sarà più. «Rea-

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zionaria, integralista, papolatra, voce dell’oppressione religiosa maschile e maschilista cancerogena e inqui-nante come le antenne a forma di croce di Radio vatica-na.» Mi metto avanti con le critiche che riceverei se qualcuno leggesse queste righe; sono tratte da un inter-vento al convegno “Il soggetto lesbica”, che mi sono trovata con grande profitto a leggere, e il cui scopo è invitare le donne a una “rabbia furente e peccaminosa”, giudicata l’unica possibile liberazione.

Sarò reazionaria, ma vedo una grande solitudine nelle donne che hanno deciso di smettere di fare posto, e anche tra gli uomini oppressi da certe relazioni che sembrano vertenze contrattuali.

Sono contro la parità volgarmente intesa, non voglio un marito colf, ognuno deve fare quello che sa fare. L’u-nico dovere è il sorriso. Come comincio ad accennare a questo modo di vedere le cose, se c’è un uomo coinvol-to nella conversazione mi chiede se per caso non ho un’amica da presentargli. Purtroppo il mio tasso di suc-cesso come Cupido si aggira intorno all’uno per cento.

E se incontrarsi è una specie di miracolo, un matri-monio indissolubile sembra frutto di complicatissime congiunzioni astrali, di quelle che si presentano ogni tre secoli.

Invece è molto questione di volontà. La spontaneità non può essere uno stile di vita o un

metro di giudizio. E l’emozione a un certo punto non c’entra più molto con l’amore, o almeno non può essere dominante.

Anche se sembra esserlo, dominante, quasi ovun-que. Nella comunicazione, in quasi tutti i giornali e tg che strillano invitando a non azionare il cervello, al ci-nema. L’attimo fuggente, che anni fa è stato un caso, alla fine, a ben vedere, non è che un’esaltazione dell’emo-zione fine a se stessa. Ma l’emozione è una modalità, un

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canale di comunicazione, non un contenuto. Come si può puntarci tutto su?

L’indissolubilità del matrimonio ti chiude tutte le altre strade, ma ti apre un’autostrada. Cominci a sforzarti di amare anche i difetti, non li rinfacci, ma li accogli. Non ti poni più il problema se la situazione ti vada o no, ma co-me farla funzionare, visto che deve andare, a tutti i costi.

Allora cominci a vivere l’ordinario (compresi rotture di scatole, atteggiamenti che ti fanno venire i nervi, con-trasti, noia) con amore, trasfigurandolo. E quando co-minci a donarti, ti viene da pensare che è così bello vive-re così, che quasi ti chiedi dove sia la fregatura. Non c’è.

Distinguere innamoramento e amore non significa rinunciare ai sentimenti: puoi ancora provare un tuffo al cuore dopo innumerevoli lavatrici e rate di mutuo con-divise. Perché a volte sentimento e volontà stanno in-sieme, come convivono la rinuncia al proprio comodo e il piacere, contrariamente a quanto la cultura dominan-te ci vuole far credere.

Le coppie che funzionano, che imparano a donarsi, non rinunciano al piacere. È solo che a volte devono avere la pazienza, il tempo e l’impegno di cercarlo, di trovare la polpa sbucciandola tra le complicazioni della vita. Una bellissima fatica a cui si sottrae chi vive di pri-mi incontri, chi vuole la propria storia d’amore slegata dalle bassezze del quotidiano. Che poi dovrebbe essere un modo dorato e felicissimo, libero e leggero, di vivere, ma io tutta questa felicità, in chi finalmente si è liberato, non la vedo proprio per niente. Piuttosto avere banaliz-zato il sesso non gli ha fatto un gran bene. Senza senso del limite, del proibito, senza la sacralità che veniva dal “rischio” di concepire, senza la difficoltà di conquistare qualcosa, da quando questa cosa è accessibile sin da giovanissimi con estrema facilità e senza alcun impe-gno, non è rimasto molto.

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Di questo siamo responsabili noi donne più degli uo-mini. Credendo di emanciparci ci siamo svendute per un piatto di lenticchie: abbiamo adottato il modo ma-schile di concepire la sessualità. Eravamo le custodi del-la vita, non lo siamo più. Ci siamo emancipate, è vero, non dipendiamo più da nessuno. In cambio però ri-schiamo di perdere la dedizione totale reciproca che vo-gliamo, che pretendiamo. È scritta nella nostra carne.

E il problema è che, in cambio della libertà ottenuta, le prime a soffrire siamo noi. Ne soffriamo noi e ne sof-fre tutto il mondo, perché se non lo facciamo noi, chi custodirà l’amore per la vita?

Tre anni dopo...

Il matrimonio per molti è quella cosa che sopravvive mentre loro sono impegnati a vivere altro. Agnese inve-ce è sposata, ma proprio contenta di esserlo, e se è così è solo perché ha capito che il matrimonio è un lavoro. Si lavora, non c’è altro modo, per imparare a mettere la felicità dell’altro al primo posto, anche quando comin-cia ad apparire chiaro come è veramente. Basta conser-vare uno sguardo favorevole. Agnese, per esempio, dice che il marito è una specie di cinghiale, ma che lei non pretende troppo da lui: le basterebbe che fosse solo leg-germente più civilizzato. Un maiale, ecco.

L’arrivo dei figli aveva praticamente trasformato Pie-tro e la moglie in colleghi, impegnati insieme a compie-re l’impresa – arrivare incolumi alla fine del mese –, una specie di fratello e sorella. Poi si era aggiunta la nemica numero uno, la routine. E così avevano smesso di se-dursi, conquistarsi, di riservare l’una all’altro il meglio di sé, se non vogliamo considerare come attività romanti-

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ca strisciare la sera col passo del giaguaro fino al divano, per poi mettersi a russare all’unisono davanti a una cosa qualsiasi a volume uno per non svegliare i bambini.

La modalità compagni di camerata è un enorme, fre-quentissimo pericolo per i matrimoni: basta un niente e ci si ritrova a essere quelle che si truccano per uscire, invece che per entrare a casa, che è il posto al quale ri-servare il meglio di sé.

Il concetto di tuta da casa è uno dei più eloquenti segnali di pericolo per la vita della coppia. Purtroppo io una volta l’ho detto incautamente a una giornalista che ci ha scritto su un pezzo per un settimanale, e da allora ogni volta che scendo sotto il livello di guardia mio ma-rito non manca di sottolinearlo. «Anvedi quella che in casa si veste al meglio» mi apostrofa quando scatta l’al-larme racchia. Nella stessa intervista mi sono lasciata prendere la mano dalla fantasia, e ho anche dichiarato che aspettavo la sera il consorte quando rientrava tardi dal lavoro con un piatto caldo e la tavola apparecchiata. Questa descrizione di me stessa ha provocato crisi di ilarità in famiglia. Io invece sono sicura di averlo fatto almeno una volta in quindici anni di matrimonio, ma questi pignoli qui non l’hanno omologato come cena pronta, quel toast. D’altra parte sarà difficile reperire le prove: deve essere stato più o meno nel 2002.

Comunque, visto che sui consigli invece vado forte, ad Agnese ho fatto tre regali: le ho fotocopiato il libro di ricette della mia mamma. Va be’, lo avrei dovuto copia-re a mano su carta di Fabriano, ma quello lo farò in un’altra vita, quando sarò una signora in pensione che sa di Amarige e mette i foulard. Ogni tanto lei dovrà cucinare al marito qualcosa che a lui piace anche se non ci sono ospiti, perché anche quello è un modo di dire all’uomo che è importante, e che il cibo non è qualcosa di utile da trangugiare nel minimo tempo per essere più

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efficienti. Secondo regalo: l’ho costretta a lasciare i suoi figli a dormire da me una sera che Pietro non lavorava e a Roma c’era la rassegna dei film di Cannes. Così, non per suggerire. Terzo: un completino di biancheria inti-ma che non lasciava spazio a dubbi (che poi gli uomini se ne accorgano, è tutto da vedere: serve più che altro a noi per ricordarci la nostra bellezza, e a chi è destinata).

Mi sembra che la mia amica abbia capito. Ci posso-no essere momenti di emergenza in cui ci si stringe l’u-no all’altra per fare lavoro di squadra, ma non possono durare troppo a lungo. Bisogna presto abbandonare l’emergenza, e ristabilire le priorità. E amare lo sposo sta in cima alla lista. Amare con il religioso impegno che un monaco mette nell’osservanza della regola, cu-rando i particolari, anche mettendo un fiore in tavola, un reggiseno di seta. A volte sembra che il cinghiale non ci faccia troppo caso, ma invece secondo me se ne accorge, eccome.

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Cara Elisabetta, in certi casi un test di gravidanza positivo è piacevole

e agognato come un calcio sui denti. Me ne rendo con-to. Hai ragione. Il tuo ragazzo che a volte dimostra do-dici anni, la casa, il lavoro e tutto il resto. È tutto vero.

Ma queste condizioni – diciamo non ottimali? – non sono niente di fronte a quell’“affarino” che già pulsa dentro di te. Tu puoi dare la vita. Anzi, puoi dare il con-senso perché la vita venga alla luce. Ma senza il tuo consenso non se ne fa nulla.

C’è una persona molto piccola che ha bisogno che tu diventi un po’ più grande, un po’ più forte, e che la di-fenda. Che vuoi fare?

Se hai paura di perdere la tua vita, è vero: la perderai. Da oggi e per parecchi anni dovrai custodire l’esistenza di un’altra persona in ogni singolo momento del giorno e della notte. Ma la riavrai in cambio, la tua vita, ancora più ricca, più piena, più felice.

Se invece le preoccupazioni sono solo pratiche, ti di-co innanzitutto «Ogni bambino viene col suo cestino», ed è verissimo. Lo posso testimoniare.

La Provvidenza esiste, Dio si cura di noi, soprattutto quando diciamo sì alla vita, e ci fidiamo di Lui, senza fare troppi calcoli, senza contare solo su di noi.

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Elisabetta ovvero

Siamo in missione per conto di Dio

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Anzi, più osi, più Lui ti dà. Non pretendo che tu fac-cia come Madre Teresa, che quando le serviva una casa per i poveri ci andava davanti, ci lanciava una meda-glietta della Madonna e pregava, e qualche giorno dopo gliela regalavano. Quella era una santa di serie A. Ma anche noi, ogni volta che arrivava un bambino, ci siamo stupiti di come alla fine le cose si siano sistemate.

Tirerai fuori delle risorse – economiche, fisiche, intel-lettuali, spirituali – che neanche pensavi di avere: ti ver-ranno coraggio, capacità di osare, fantasia, energie in certi casi sovrumane. È scritto dentro di noi, i figli sono il futuro. E anche se ora ti sembra di non avere istinto materno, ti verrà quando il bambino sarà tra le tue brac-cia. Lo so che fino a qualche giorno fa ogni marmocchio che vedevi fare i capricci ti ricordava lo spot inglese che interrompeva una scenata isterica di un pupo con la scritta USE CONDOM, ma sono sicura che anche tu rispon-derai a questa chiamata della vita, che evidentemente ha deciso di fidarsi di te. Non conosco nessuna madre che si sia pentita di avere tenuto un figlio, mentre ne conosco diverse che soffrono per non averlo fatto. E quindi non pensarci neanche. Da quando il test è posi-tivo, tu sei una madre.

Adesso basta con i tentennamenti. Devi difendere tuo figlio come una tigre, anche da

chi vuole farti vivere la gravidanza come una malattia, e come qualcosa che si può controllare in ogni dettaglio.

Non sei malata, avrai qualche nausea, questo sì. «Vuoi vomitare messicano o kosher?» mi chiedeva mio marito quando giravamo un documentario a New York, città dove puoi farlo tranquillamente pure sulla Fifth Avenue, nessuno si volta neppure, il tassista accosta e riparte senza fare una piega. «I’m pregnant» cercavo di spiegare. «I’m not drunk.» Una signora alla reputazione ci tiene, anche quando non è al meglio.

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Altri fastidi ci potranno essere, lo ammetto, anche se qualche pazza ha corso ultramaratone e scalato monta-gne col pancione. Io direi che non devi prendere parti-colari precauzioni, salvo quelle dettate dal buonsenso, tipo non fare bungee jumping dal Pirellone, non iscriverti al campionato di motocross, e magari non fare neanche come me, che una volta le acque mi si sono rotte duran-te una corsetta. La notizia (eppure non andavo forte, gliel’ho detto) ha fatto perdere l’aplomb (mi sono presa una gragnuola di insulti in perugino stretto) al medico che mi aveva inizialmente accolto con asettica profes-sionalità all’ospedale. Che non era quello programma-to, perché niente è andato come previsto, ma, come sai, tutto bene.

Il fatto è che non c’è niente di prevedibile nel mo-mento del parto: quando ci si confronta con una cosa così grandiosa come la vita che nasce non c’è molto da fare, se non abbandonarsi alla potenza di quello che sta succedendo, come nell’unico altro momento che secon-do me è paragonabile, quello della morte. Semplice-mente dovrai non opporti al dolore. Non è il massimo far passare un pollo arrosto da una narice, come si dice, ma si sopravvive, come hanno fatto miliardi e miliardi di donne. A meno che tu non voglia ascoltare i medici che ti invitano a programmare, a controllare. La via più semplice, per loro, è risolvere tutto con un bel cesareo (che qui in Italia va moltissimo di moda), o anche con un’epidurale. In certi casi è sicuramente benedetta, ma spesso serve solo a far girare un bel po’ di soldi (follow the money vale anche in questo caso), e a farti sentire, credo, come una che da sola non ce la può fare.

Quanto all’ipercontrollo della gravidanza, io sono scappata via da vari medici (uno era anche un luminare cattolico) che in scioltezza mi programmavano l’amnio-centesi, da eseguirsi a pagamento, è ovvio. Anche quan-

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do avevo ventisette anni, età in cui il rischio che un bambino abbia tare genetiche (perché solo quello si scopre) è molto più basso di quello di ucciderlo nell’ana-lisi. Un’altra dottoressa mi ha invitato a sbrigarmi con i controlli perché «poi c’è Natale, e se c’è qualche proble-ma con il bambino (leggi non è sano e quindi lo “devi” eliminare) poi come facciamo?».

La pratica è diffusa, convenzionalmente accettata e apparentemente non più in discussione: bisogna sapere da prima se il bambino ha qualcosa che non va, così il “problema” si può eliminare, uccidendo il bambino stesso! Una curiosa idea di terapia e di guarigione.

A occhio e croce i bambini down che si vedono in giro sono meno di prima, e non so se sia, come spero, perché ne nascono di meno, o perché vengono uccisi prima di nascere. Fatto sta che, quando ne ho vista una sulla spiaggia, bionda e con un costumino rosa con le principesse proprio come le mie, non ho potuto fare a meno di allargare un sorriso di sollievo, riconoscenza e sconfinata ammirazione alla sua coraggiosa, affettuosa, eroica mamma che, o pur potendo diagnosticare prima, ha scelto di non sapere, o pur conoscendo la verità ha scelto di non sopprimere quella figlia.

Povero bambino, che ogni volta lo fanno giocare alla roulette russa, e sta lì rannicchiato pensando “Speriamo che mi tengano, speriamo di passare il controllo!”. Perché ormai anche la scienza più becera dice che quello che viviamo prima di nascere lascia traccia in noi, tanto è vero che le mamme moderne, se il loro virgulto ha su-perato brillantemente tutti gli accertamenti, poi gli fan-no ascoltare Mozart da dentro la pancia. Sarebbe me-glio fargli ascoltare una voce che dice sicura «Non ti preoccupare, qualunque cosa succeda noi siamo i tuoi genitori, e la affronteremo insieme».

Sappi che, se dici sì alla vita, anche io ti sarò vicina

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meglio che posso, forniture di vestitini comprese. Tanto anche noi – sempre perché la Provvidenza esiste – sia-mo stati ampiamente riforniti. Siamo ormai un centro di smistamento, ogni tanto qualcuno mi chiama: «Hai mi-ca un costume da Spiderman taglia quattro anni? Scar-pini da calcio numero trentuno?».

E ieri Livia, preoccupata, mi ha chiesto «Ma quando sono grande, e questo pigiama non mi entra più, come faremo?». «Ne compreremo uno nuovo, tesoro, non ti preoccupare.» Ah! Non puoi capire che grande stupore l’ha colta alla notizia che i vestiti, che di solito arrivano in buste a casa, si possano anche, addirittura, eventual-mente comprare.

Insomma, noi ti saremo vicini, ma soprattutto il Dio della vita sarà dalla tua parte. E allora, di che hai paura?

Un abbraccio stretto stretto a te e alla tua creaturina. C.

La maternità è la prima vocazione della donna. Non l’uni ca, ma la prima. È scritta nella natura, è scritta nel nostro corpo. Durante la gravidanza la donna è una e due insieme: qualcosa di sconvolgente, che infatti forse spac-cherebbe il cervello a un uomo. La donna no, è fatta per essere due senza perdersi, come è in grado di essere qui e altrove, di fare una cosa e molte altre insieme, facoltà, notoriamente, del tutto sconosciuta a un uomo. Già dalla gravidanza, facendo spazio a un altro tra le viscere, la donna si prepara a fare spazio nella casa, nella vita.

È una qualità di tutte le donne, non solo delle madri. Figli naturali o no, la donna deve accogliere la vita. Si può essere materne anche se si sceglie un’altra strada: conosco molte donne materne che non hanno figli. Lo sono con gli amici, i colleghi, alcune anche con il lavoro. Lo sono quelle che si occupano dei figli degli altri. Co-

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nosco anche qualche madre pochissimo materna, se è per questo.

Quelle che rifiutano questa vocazione all’accoglienza di chi è più piccolo – ce ne possono essere anche tra le madri biologiche – sono tristi, arrabbiate, gelose, deluse, risentite. Sono divise da se stesse. Vogliono affermarsi e si deformano. Si sono perse, e non per colpa degli altri, dei maschi, del potere, e via con tutte le lamentele di prammatica sulla società della comunicazione: si sono perse da sole. La maternità, invece, offre la possibilità di imparare a spendersi. E le donne che la scoprono ingra-nano una marcia nuova. Fioriscono. Non voglio certo di-re che tutte le mamme siano sante, o perfette, o anche solo tutte buone. Se soltanto provo a pensarlo mi compa-re l’immagine di me vecchia e abbandonata, tutti i miei figli in analisi, anni per cercare di porre rimedio ai miei numerosi errori. Già mi vedo il grande – che ogni tanto scrive trame di film infarcite di spie sbudellate ed esplo-sioni cruente – che, ormai incanutito, presenta a Cannes una pellicola su una madre insopportabile, possessiva e ossessiva che giganteggia sullo sfondo, in assolvenza, ogni volta che lui prova a essere felice. Conosciamo tutti i danni che possiamo fare noi insopportabili tentacolari genitrici. Però, se una ci prova, con onestà, con umiltà, cercando di limitare i danni, accogliere la vita ti può con-vertire. Ti può aiutare a essere meno egoista.

Dire sì alla vita significa dire sì anche a una serie di altre cose non tutte terribilmente piacevoli come il pu-po che si addormenta ubriaco del tuo latte con la testa riversa all’indietro nell’incavo del tuo braccio, total-mente e irresistibilmente abbandonato a te (che nel frattempo dovrai grattarti un punto irraggiungibile del-la schiena). Significa dire sì anche alla macchina piena di fondi di succo di frutta, a colloqui con le maestre che ti faranno più paura di uno col direttore generale della

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Rai, a pomeriggi al cinema trascorsi carponi tra le file di poltrone a cercare di recuperare gomme rotonde colo-ratissime – non puoi immaginare come rotolano veloci verso la poltrona del vicino più irritabile della fila –, a sfibranti e dettagliate spiegazioni dell’inopportunità di percuotere un fratello sulla testa con il modellino dell’a-stronave in acciaio. Dire sì alla vita significherà anche essere emotivamente instabili e avere bisogno di con-ferme e conforto quando i tuoi figli saranno di cattivo umore e preferiranno darne la colpa a te, mentre avran-no voglia di stropicciarti un po’ quando tu starai uscen-do con mezz’ora di ritardo e una calza rotta (quante volte in ufficio può funzionare la scusa “Me ne sono accorta proprio adesso”?); significherà avere la remota speranza di custodire uno straccio di scrivania libero da invasioni barbariche solo a patto di assumere un servizio di vigilanza privato, comprensivo di cane poli-ziotto; significherà passare tutto il tempo che le altre passano ad arricchire il proprio bagaglio culturale o a migliorare esteticamente la propria persona, a schiera-re soldatini, colorare dentro i bordi o unire puntini, ma più di tutto a preoccuparsi. Delle adenoidi, delle tabel-line, delle amicizie, del plantare, delle insicurezze, del-le parolacce.

Eppure non c’è bisogno di essere perfette per deci-dere di aprirsi alla vita, né è possibile aspettare di essere perfette per tirar su figli decenti. Ci si prova, meglio che si può. Sapendo che nessuna di noi è perfettamente equilibrata, priva di piccole o grandi nevrosi. Sapendo anche che l’errore è quotidiano, imprescindibile, ma per fortuna rimediabile. Cucineremo troppa carne e troppo poche verdure, difenderemo la maestra – sem-pre, indefessamente – anche quando avrà torto e nostro figlio se la prenderà moltissimo, esporremo a troppi raggi ultravioletti, non smacchieremo mai abbastanza

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le magliette, non daremo la felpa abbastanza pesante né la merenda abbastanza nutriente per la gita, sgride-remo “con gli occhi allabbiosi di fuoco” il figlio sbaglia-to, faremo così tante volte la stessa predica che alla fine per loro assumerà lo stesso suono, privo di senso ma familiare, della scritta in tedesco sul finestrino del treno, NICHT HINAUS LEHNEN!.

E, se ci impegniamo con tutte le forze a limitare i danni (un ottimo programma di vita, a mio vedere), troveranno poi che ci realizziamo solo con i figli, e a volte a dirlo sarà chi ha scelto, più o meno liberamente, di non averne. Sarà inutile rispondere che ce la cavava-mo piuttosto bene anche prima, anche se eravamo co-strette a leggere, ad andare al cinema, a viaggiare, a fare sport. Ma ci saranno anche altre che invece am-metteranno, dopo avere scoperto tardivamente la me-raviglia di avere un bambino, il rammarico di non avere capito prima. Ne conosco molte: sono quelle che han-no ascoltato i consigli del mondo. Prima pensa a te. Rea lizzati, investi sul lavoro, trova te stessa. Come se ci si potesse trovare da soli, non in relazione a qualcuno. Poi, verso lo scadere del tempo, hanno avuto un bam-bino e non le riconosci più.

Non sono una sociologa, una filosofa, non sono nien-te, ma a me sembra, tanto per cominciare, che la con-traccezione ci abbia messo in mano un potere troppo più grande di noi, il potere di tradire la nostra natura, e di farlo con banalità. Nessun coraggio, nessun onore, basta un poco di zucchero e va giù... Credendo di pren-dere noi il comando del gioco, diamo invece a una casa farmaceutica il potere di controllarci: la capacità di dare la vita, ma anche l’umore, i capelli, ogni tipo di appetito. Tutto viene stravolto nell’illusione che la tecnologia, la medicina, la farmacia possano garantirci il benessere e proteggerci dagli imprevisti.

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Lasciamo anche stare Dio, per un momento. Un es-sere umano non può comunque controllare la natura, è una bomba che abbiamo tra le mani e che ci può esplo-dere in faccia. Crediamo di poter programmare tutto, ma come si può stabilire in anticipo qualcosa che non si conosce? Potrebbe avere un senso se noi non avessimo niente da imparare dalla vita. Se l’esistenza fosse un viaggio in cui noi, da turisti, guardassimo dal finestrino per scegliere quello che ci piace, prendessimo e lascias-simo a scelta. Invece noi siamo dei nani con i trampoli, ci arrampichiamo perché al finestrino neanche ci arri-viamo bene, cerchiamo di capirci qualcosa, in questo mistero che è la vita. Siamo dei poveracci che cercano una strada, siamo terra che cammina. Altro che pro-grammarci da soli, noi siamo impenetrabili anche a noi stessi, siamo complessi e mai completamente riducibili a schemi.

Siamo un mistero: io non mi spiego un sacco di pic-cole inconfessabili follie, lati oscuri, contraddizioni che vedo negli altri, e che non vedo in me, ma, proprio per-ché non le vedo, sicuramente ci sono.

Senza contare che non mi spiego molte altre cose, come la mia memoria selettiva, che non c’è verso di far-ci rimanere dentro una data di un armistizio per più di tre o quattro ore, mentre la trama del più ritrito roman-zetto d’amore lascia tracce indelebili. La struttura men-tale di un uomo, che invece ricorda i giorni cruciali della prima guerra mondiale, ma mai quello di un consiglio di interclasse.

C’è un sacco di mistero che non si può far altro che accogliere. Le regole della vita non le abbiamo scritte noi: le abbiamo trovate, e possiamo accettarle o no, ma ci sono. Alcune sono assurde, è vero, tipo il fatto che quello sia potuto diventare il vostro capo, nonostante abbia difficoltà a sillabare il proprio nome; o il fatto che

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a Roma ci siano due file di semafori agli incroci, una per dire rosso o verde, una venti metri più avanti per chi non si è fermato al semaforo nel punto giusto (come il Comune possa non assumere squadre di cecchini pron-ti a eliminare fisicamente chi va più avanti della linea bianca è per me parte del mistero della vita).

Accettare le regole vuole dire aderire alla realtà (devo accettare che non è opportuno, né a ben vedere auspica-to nel Vangelo, eliminare fisicamente chi non rispetta i semafori), alla verità delle cose, ti fa uscire da te stessa, dall’egoismo, dalle nevrosi, dalle idiosincrasie. Sono cir-condata da persone scontente, deluse, disilluse, stanche, annoiate, arrabbiate, risentite, gelose, invidiose, piene di falsi bisogni, capita a tutti di essere così. La gioia, invece, è la spia che hai cominciato a vivere non misurando tut-to su di te. Ti apre orizzonti inimmaginati. Cominci a vivere, e vivendo capisci. Perché ci sono certe cose che non si capiscono solo con la testa, ma anche con le ma-ni, le gambe, le orecchie.

Tradire la propria natura non accettando la maternità quando si viene baciate da quel dono, è tradire innanzi-tutto se stesse. Non parliamo neanche di quel bambino incolpevole, di cui evidentemente non si tiene conto. Ma della fregatura che si prende la donna? Ho discusso ore infinite con le mie amiche che considerano l’aborto un diritto – non ce l’ho con chi sbaglia, ma con chi chia-ma l’errore “conquista”, i nomi sono il veicolo della ve-rità. Purtroppo non sono mai riuscita a far passare il concetto fondamentale: l’aborto è prima di tutto il tradi-mento estremo verso se stesse e chi è contro vuole an-che proteggere le donne dal dolore oltre che difendere i bambini. La mia capacità dialettica evidentemente non è un granché, soffro dell’esprit de l’escalier, le risposte migliori mi vengono sempre quando ormai sono “sulla scala” e me ne sto andando. O forse m’infervoro trop-

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po. O forse è anche che, per chi ha vissuto questa trage-dia, ammettere di avere sbagliato così tanto è troppo doloroso, meglio rimuovere.

Di sbagliare può succedere, ma non di lottare perché questa sofferenza diventi un diritto. Perché battersi per permettere alle donne di fare ciò che lascia un fardello con il quale è dolorosissimo convivere?

Dopo, l’unica via che rimane per deporre il fardello è ammettere di avere sbagliato, rimettendo in discus-sione una parte della propria vita. Una gran fatica che però, se si ha il coraggio, può aprire orizzonti di auten-tica libertà.

Forse le nostre bisnonne non si ponevano neppure il problema di accettare o meno di dare la vita, niente pillo-la, molto più difficile l’aborto, quella della famiglia l’uni ca realizzazione possibile. In certi casi vissuta come una gabbia. Quindi non rimpiangiamo certo quei tempi in cui ci si facevano pochissime domande, testa bassa e pedalare. Noi però adesso possiamo abbracciare la no-stra strada per scelta, senza frustrazioni, non perché sia obbligata, o l’unica possibile, ma perché, anche se ab-biamo studiato e abbiamo il mondo davanti, abbiamo capito che vale la pena vivere per farsi carico.

Se accettiamo questo, usciamo dalla nostra logica asfittica. E allora, ogni volta che ci lasciamo disturbare dalle richieste della vita, facciamo un bel passo avanti. Quando impari a stare al tuo posto, non solo a soppor-tare, ma ad amare anche i pesi della vita, non perché ami soffrire – a chi piace? – ma perché sai che quella fatica fa bene a qualcun altro, a tuo marito, ai tuoi figli, a chi decidi di dare una mano, ecco, allora sei un pezzo avanti. I miei figli direbbero – nel linguaggio dei video-giochi – che diventi un nano pelato di quarantaduesi-mo livello...

Ho visto tante persone trasformarsi in questo modo

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e cominciare a dare la vita. Non solo mamme né solo babbi, per carità. Però i figli ti costringono, per forza, a questo passaggio. Non sono solo le madri a farlo, certo, però per loro il passaggio – da un giorno all’altro la vita non è più tua – è immediato e travolgente.

Non decidi più quando dormire, mangiare, fare la doccia. Non decidi più quando essere di cattivo umore e quando trascorrere una giornata svaccata e inconclu-dente. Non decidi quando leggere e quando telefona-re. Eppure ho visto tante donne inquiete che in questa perdita di sé hanno trovato la pace. Non povere fru-strate, con vite vuote e deprimenti che finalmente hanno trovato un perché, ma anche ingegneri, medici, avvocati, magistrati, docenti universitarie. Donne già realizzate e felici che a un certo punto, al bivio, passa-no dall’altra parte e cominciano a servire. Rinunciano a essere brave in tutto, rinunciano ad avere mani in ordine e scarpe intonate alla borsa, pelli lisce e conver-sazioni aggiornate, e cominciano a occuparsi di qual-cun altro. Non perché non amino più le scarpe abbina-te e la manicure, ma perché amano ancora di più la felicità di qualcun altro.

In cambio, come dire, senza provocare la carie, quel-lo che si riceve in cambio? Baci, ciucciamenti, stropic-ciamenti, carezze e mani addosso, sguardi adoranti, dichiarazioni d’amore, proposte di matrimonio – indif-ferenziate, da maschi e femmine –, prestigiosi lavoretti dell’asilo, ardite liriche alle elementari, ovunque bi-glietti con lettere tremolanti «Mama ti boglio bene», «Il babbbo e bello», ascolto incondizionato e non filtrato (se l’ha detto la mamma, o ancor più l’autorità supre-ma, il babbo...), e poi scoprire di avere baci e cerotti dal potere taumaturgico, braccia che consolano e allonta-nano mostri, occhi che vedono nel buio, parole che svelano la realtà.

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Tre anni dopo...

Elisabetta ha avuto un bambino che sembra mandato apposta come testimonial della campagna per la ripresa demografica. Occhioni neri, sorriso bavoso, risata con-tagiosa, tranquillo come un bignè (di cui ha la forma: è praticamente un bambino tondo, totalmente privo di linee rette). Credo che di notti insonni la mamma se ne sia fatte forse tre in tutto, beata lei, io ricordo mesi di coliche e rigurgiti e influenze e bagnoli freddi sulle fron-ti – moltiplicati per quattro –, tutti rigorosamente di notte, mesi in cui ogni tanto parlando cominciavo a dormire e a emettere frasi sconnesse, stavo sognando, e l’unica prospettiva allettante per la mia esistenza mi sembrava quella di essere investita da una macchina per poter dormire quei nove, forse undici minuti netti sulla barella almeno nel tragitto fino al Pronto Soccorso.

Il figlio di Elisabetta, Francesco, niente: poppata, rut-tino, nanna. Preciso come un ragioniere già dopo una settimana di vita. Devono avere fatto un casting, su in cielo, per scegliere chi mandare. Sapevano che la situa-zione era un po’ difficile, perché il padre è uno che trova leggermente soffocante anche l’idea di fare l’abbona-mento in curva, che «Se poi una domenica non ho vo-glia di andare allo stadio?» (non salta una partita della Roma da quando il padre lo portava a vedere Falcao). Non vuole sentirsi impegnato. Odia i programmi, e la sua risposta a qualsiasi proposta è “Vediamo”. So che un po’ a tutti gli uomini lo stile “Mo’ vedo” piace, ma il padre di Francesco esagera. Non si decide a fare il pa-dre, ma non si allontana. C’è ma non c’è. Si affaccia, ma senza impegno.

Nonostante questo Elisabetta non si è mai pentita per un nanosecondo di aver tenuto il bambino, e anzi il pen-siero di aver valutato la possibilità di abortire qualche

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volta la addolora. Non riesce a perdonarsi. Io credo che quello che conta siano le nostre azioni, perché invece sui pensieri non abbiamo controllo, e quindi una mam-ma che sia toccata dal pensiero dell’aborto ma non lo traduca in realtà è solo una mamma che ha avuto paura, o che è stata lasciata sola, in pasto a medici che al mini-mo dubbio cominciano ad avvisarla che quel bambino potrebbe non essere perfetto, in modo che se lei non vuole correre rischi “elimini subito il problema”. So di decine e decine di casi di diagnosi di malattie che poi, grazie a mamme coraggiose che hanno portato avanti la gravidanza, si sono rivelate sbagliate.

Conoscendola da un po’, pensavo che questa situa-zione avrebbe prostrato Elisabetta: non è semplice tirare su un bambino con un padre che un po’ c’è, un po’ no. Invece lei riesce a mantenere un equilibrio sul quale non avrei scommesso venti centesimi. Essere diventata ma-dre l’ha completamente trasfigurata: l’ha resa più dolce, matura, generosa e, soprattutto, incredibilmente con-tenta. Forse solo un po’ rammaricata di avere scoperto tardi la sua vocazione. D’altra parte, nessuno si premura di dire alle donne quanto essere madri le renda natural-mente felici. Io ci provo, e infatti, scusa Eli, lo dico solo una volta, non lo faccio più, odio questa espressione, ma una volta, una sola, piano piano, tu chiudi le orec-chie, ma io lo devo sussurrare: te l’avevo detto!

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Cara Stefania, rispondo al tuo sms veramente short: «Stremata». Ti capisco, lo so, avere bambini piccoli è una fatica

sovrumana, inenarrabile. Ma non ci dilungheremo su questo, vero? Chi non ci è passato si annoia a sentire le madri che si autoincensano per la loro eroicità, e pensa che i racconti delle fatiche diurne e notturne siano ro-manzati. Chi invece sa quanta è la fatica non ha bisogno di farsi sanguinare le orecchie ad ascoltare le lamentele altrui. Che possiamo dire, se non che una finisce per chiedersi cosa ha fatto fino a quel momento, in una vita da single divertente o comunque autodeterminata, in cui sciacquare due piatti sembrava faticoso (e infatti una volta i semi di un melone sono rimasti così tanto nel mio lavandino che sono germogliati), in cui le cellule cere-brali potevano aggredire, allineate e compatte come un sol uomo, il testo di storia della lingua greca. Adesso ti pare difficile ricordare il giorno in cui il grande deve an-dare a scuola in tuta per l’ora di ginnastica, e glielo ri-chiedi tutte le settimane. Perché quei due neuroni rima-sti, poverini, girano in tondo e devono occuparsi in po-che ore dei dati Istat sulla produzione industriale, dei contributi della colf, dei materiali per il lavoretto del-l’asi lo, del vestito da principessa, di varie gradazioni di

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Stefania ovvero

Che la forza sia con te

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compiti, del torneo di calcetto, e anche ogni tanto di preparare qualcosa da mangiare che non sia pasta in bianco. Sappi che il grido «Ho fattooo!» proromperà dal bagno dove è seduta una bambina nell’esatto momento in cui dovrai scolare la pasta, e avrai due centesimi di secondo per decidere tra pasta scotta e sederino sporco. Sappi che il neonato si sveglierà con precisione svizzera nell’istante in cui avrai finito di caricare la lavastoviglie, stendere i panni, preparare panini (secondo te il vasetto di marmellata di epoca prenapoleonica è ancora omolo-gabile per la merenda di scuola?), fornire materiale per lavoretti (dove lo trovo io un cartoncino bristol rosso a mezzanotte e un quarto?), e finalmente ti sarai prepara-ta una specie di pasto riparatore di tutti quelli saltati nel-la giornata, e starai aprendo la bocca per addentare la terza forchettata. E certe attività che prima ti sembrava-no rotture di scatole, tipo buttare la spazzatura, adesso sono la cosa più rilassante della giornata: vado io, caro! No, vado io, mia cara, non ti disturbare. Sempre meglio che pulire il bagno, che con tre uomini in casa rischia di somigliare pericolosamente a quello di una stazione.

Che consigli vuoi che ti dia, in questi primi giorni di vita del tuo pupo, se non di lasciarti travolgere? Poi gli aggiustamenti verranno, la famiglia troverà un nuovo stile di vita, in cui il bambino non dovrà essere il monar-ca assoluto. Certo, le priorità cambieranno: il modo di scegliere una vacanza (i treenni apprezzano poco l’ar-chitettura), gli amici (i quarantenni soli apprezzano po-co i treenni), la macchina (a un certo punto diventa prio ritario che vada in avanti, all’indietro, e che abbia molto spazio per sacchetti antivomito, merende e sal-viette inumidite: non hai idea di quante dita possa spor-care un solo biscotto al cioccolato).

Nel frattempo, finché siete in rodaggio, la sera cam-mina molto rasente ai muri, in modo che, se ti addor-

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menti di schianto, e cadi a terra come corpo morto cade, non batti troppo forte la testa. Perché la sera i figli dan-no il peggio di sé, a volte sono nervosi, sempre stanchi, ma bisogna abbatterli a colpi di arma da fuoco perché ammettano di avere sonno. Intanto tu dovrai avere cor-retto i compiti, nutrirli, preferibilmente non solo con ro-telle di liquirizia, rimuovere incrostazioni di fango o di rigurgito latteo o di ketchup, a seconda delle fasce di età, preparare zaini e vestiti per il giorno dopo, accom-pagnarli dolcemente tra le braccia di Morfeo con lettura di storia, baci, preghiera, e mantenere la calma dicendo dei no inflessibili alle più fantasiose richieste, quando invece vorresti comprarti un quarto d’ora di sonno a qualsiasi prezzo, per esempio consegnando un intero vaso di Nutella tra le lenzuola.

Ti sarà utile sapere che, se vai in bagno, e se conservi ancora il privilegio di poter chiudere la porta, se appog-gi un rotolo di carta igienica contro il muro, puoi usarlo come cuscino di fortuna e dormire qualche secondo. Anni di esperienza ti insegneranno poi ad assumere un’aria di grande concentrazione e trasporto mistico al-la messa, quando potrai dormire qualche bella manciata di minuti, a quella festiva anche una mezz’ora, magari astenendoti dal russare. Ti sconsiglio di farlo ai semafo-ri, anche se a me è capitato, e la proverbiale cordialità romana mi ha svegliato a suon di clacson e di “Anvedi questa, ahò, t’avemo disturbato?”.

Altro espediente decisivo, quando la crisi diventa in-gestibile, e tu ti riprometti che quando ne uscirai met-terai a frutto la tua esperienza in emergenze interna-zionali, è andare a fare la doccia. I neonati non smetto-no di piangere, ma tu, una volta che ti sia sincerata che si tratta solo di un capriccio, con il rumore dell’acqua non li senti più. Soprattutto se canti a squarciagola, con il dovuto trasporto, Il Perugia è uno squadrone, l’inno

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del ’78. Oppure Staying alive, che più che una canzone dei Bee Gees in quel momento è il tuo fermo proposito per la giornata. Ridurre le aspettative è sicuramente sa-no, e ci sono momenti in cui puntare alla sopravvivenza è segno di buonsenso. «Con il primo bambino era così precisa!» ha scosso la testa la maestra dell’asilo quando mi sono presentata sudata e trafelata con Livia deposta scalza sul marmo del corridoio, perché la campanella era già suonata e dovevo recuperare gli altri tre figli. Che colpa ne ho io se, mentre stavo uscendo, sempre sul filo della catastrofe dei bambini abbandonati per strada tra gli sguardi di riprovazione delle mamme do-tate di figli senza patacche e anche pettinati, mi hanno telefonato per ricordarmi i biglietti per il regalo di fine anno alle maestre? Li hai preparati? Ho una difficoltà ad articolare la parola “no”, soprattutto quando mi affib-biano qualcosa da fare. Scrivere il biglietto mancante e percorrere il tratto scuola-casa di corsa con bambina in braccio – specialità olimpica – in un minuto e trentacin-que netti è una delle imprese atletiche di cui vado più orgogliosa, pur vantando un dignitoso due e quattordici sugli ottocento metri.

Insomma, riduci le aspettative, non ti far prendere dall’ansia se da sotto il divano ogni tanto spunta un cal-zino, se le gambe non sono lisce come seta (ti do massi-mo quindici giorni per rimetterti in carreggiata, però, prima che tuo marito cominci a fare gli occhi languidi alla signora del banco salumi), se non sei aggiornatissi-ma con quello che succede nel mondo (visto che sei giornalista come me, ogni tanto magari dai un’occhiata ai titoli, giusto per sincerarti che l’Italia non sia scesa in guerra o uscita dall’euro mentre tu lavavi i body a mano con il Napisan: dal terzo figlio in poi tutto in lavatrice!).

È sano ridurre le aspettative quotidiane, essere un po’ tolleranti verso la parte più mollacciona e inaffida-

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bile di te. Tanto i figli sopravvivono lo stesso, anche se si sono lievemente contravvenute le regole dello svez-zamento: «Vorrai dirmi che questo alone marrone in-torno alla bocca sdentata di Lavinia (nove mesi) è pru-gna, vero?» mi ha chiesto impallidendo la regina del sanitariamente corretto, mia sorella. Tu che hai il co-raggio, dillo a mia sorella – ma non alla pediatra – che era un Oro Ciok al cioccolato fondente, visto che alla quarta figlia una darebbe anche mezzo litro di birra e un toscano, pur di preparare la cena in pace. Diglielo tu, a mia sorella, che a mezzogiorno, l’ora in cui le bra-ve madri risalgono dalla spiaggia per sottrarre i pupi ai raggi dannosi e rifocillarli con sani pasti a base di ver-dure e pesce fresco, io scendo con i bambini e svariati cesti pieni di panini e privi di vegetali, nei quali la cosa più vicina a una vitamina è la lattina di aranciata (un vago contatto con un’arancia in carne e ossa ce lo avrà pur avuto, un tempo).

Diventerai anche tu molto tollerante sulle regole di manutenzione della casa (fino a quanti segni di matita verde il muro può essere considerato pulito?), sulla puntualità, sull’ordine in camera dei ragazzi (diciamo che, fino a che si intravede il letto, la stanza si può cata-logare come “a posto”). Stai tranquilla che tutte le pre-diche che hai seminato un giorno porteranno frutto. Tu probabilmente nel frattempo sarai morta, ma i frutti ar-riveranno. Dal campo scuola dove era Tommaso la ca-techista al telefono mi ha fatto i complimenti per l’ordi-ne in cui erano la stanza e lo zaino di mio figlio. «Hai sbagliato numero, Letizia, io sono Costanza, non mi ri-conosci?» «Sì, lo so, hai un figlio ordinatissimo, compli-menti, come hai fatto?» Come ho fatto? Io non lo so di certo! Ho sgridato tutte le sere per gli ultimi dieci anni della mia vita, ho raccolto mutande, calzini, milioni di pezzi di Lego (siamo azionisti della casa danese), tem-

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perato ogni sera sempre le stesse matite mordicchiate, sostituito copertine perforate quotidianamente da spa-ratorie scolastiche, trecentosessantacinque giorni al-l’anno, cioè circa quattromila sere consecutive, sempre vanamente, sempre nella certezza di avere generato le creature più disordinate della specie (sarà una tara ge-netica, mi dicevo vedendo l’armadio di mio marito). E invece questo disgraziato di figlio che fa? Va al campo scuola e diventa un ragazzo modello.

Perché allora non lo è anche a casa, perché la visione della sua camera la sera mi ispira il desiderio di prende-re ritmicamente a testate la sua scrivania? E non posso neanche bere per dimenticare, sono astemia.

Se vi può servire a non andare dall’analista quando sarete grandi, ragazzi, ve lo diremo noi perché vi sgrida-vamo sempre: perché eravate dei disastri. Meravigliosi, geniali, simpatici, dolcissimi, ma dei disastri. Perdevate giacche, dimenticavate compiti, esasperavate maestre, litigavate per motivi inesistenti, e ci costringevate a esa-minare minuziosamente questioni che ci sfinivano di particolari. Eppure vi vogliamo bene. Anche quando il babbo si precipita in camera vostra, di ritorno da una faticosa trasferta in Arabia “Esaurita”, e voi alzate appe-na la testa per chiedere «Che mi hai portato?». Anche quando vi portiamo a vedere la mostra di Chagall, e la cosa che più colpisce la vostra attenzione è una Cipster per terra; o schifate il maestoso cambio della guardia dei corazzieri al Quirinale per dedicare tutto il vostro entu-siasmo al gelato variegato all’amarena da un chilo e mezzo. Vi vogliamo bene anche quando vi strappate ciocche di capelli per la conquista del “comelomando” della “tevedisione”.

Cara Stefania, non abbandonare neanche tu uno sguardo pieno di speranza su questi irresistibili grovigli di difetti che saranno i tuoi figli. Soprattutto non trala-

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sciare mai la preghiera, mai come in questi momenti roccia della vita, praticabilissima durante l’allattamento, e se ti assopisci meglio, come diceva mia nonna, la fini-scono gli angeli in cielo. Metti, abbandona tuo figlio nel-le mani di suo Padre e di sua Madre, e mettitici anche tu: se non con questo pensiero, in quale altro modo si può ragionevolmente affrontare questo mondo, e costringere anche una creatura debole e indifesa all’impresa?

Secondo e ultimo consiglio, prima di ammorbarti de-finitivamente: impara fin da questi primi giorni a mette-re priorità. Un esercizio che a me personalmente dilania il cuore, io che sono – come dice mio marito – la regina dell’incastro, del tanto che ci passi davanti, del nel frat-tempo che fai quello, del nel caso ti avanzasse un minu-to. Noi donne tendiamo all’ipercontrollo e, siccome spesso la lotta è su più fronti, è facile perdere la bussola. Bisogna imparare un po’ di umiltà, e ammettere di non potere tutto, anzi di non potere quasi nulla. Allora, pro-prio questi giorni in cui la tua vita è sconvolta possono diventare preziosi per imparare a scegliere, cosa che adesso devi fare necessariamente. Coglilo come un tempo opportuno per mettere delle priorità nella tua vi-ta, imparando una ginnastica che da oggi in poi ti inse-gnerà, con sempre maggior naturalezza, a scegliere non solo fra il bene e il male, che è di solito abbastanza faci-le, ma anche fra due beni. Quale bene è più importante? Quale è urgente (non sempre quello che è da fare presto è la cosa più importante)? Quale è necessario e quale accessorio? Quando capisci come si fa me lo spieghi.

Impara, tu che forse ne sei capace, a fare dei cerchi concentrici: la famiglia al centro, e con quella il Vange-lo va applicato alla lettera. Però attenzione. Adesso il bambino sembra il capo della casa, ma ricordati che è suo padre a esserlo. Dedicare a lui, al grande, del tem-po, facilmente ti sembrerà qualcosa che si può riman-

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dare, e infatti non sarà mai urgente come cambiare un pannolino strabordante. Però stai bene attenta a non dimenticarti di farlo, per lui, per te, e anche per il figlio, che si nutre di una coppia che funziona. Oddio, non ti dico i fuochi artificiali, ma almeno scambiarsi un cenno di saluto ogni tanto sì. Come vedi sulla teoria sono pre-parata...

Dubito che tu sia arrivata a leggere fin qui senza ap-pisolarti, ma, nel caso, grazie! Non c’è niente di più gra-tificante che distribuire consigli, anche non richiesti.

Un saluto affettuoso dalla tua amica sempre in vena di prediche.

C.

Noi mamme della nostra generazione in generale arri-viamo un po’ sprovvedute allo stravolgimento che com-porta la responsabilità di una vita totalmente dipenden-te da noi. Per la grande maggioranza di noi si tratta del-la prima volta in cui rinunciamo completamente alla nostra libertà, all’autodeterminazione, a volte ai comodi nostri. Siamo cresciuti con l’illusione, non solo noi don-ne, di avere il mondo ai nostri piedi. Tutte le possibilità, tutte le scelte, tutte le informazioni, anche. Poi all’im-provviso – quando nella giornata non si può più sceglie-re praticamente niente – la vita comincia a farsi una questione un po’ più seria. E qualcuno – qualcuna – non regge all’impatto. Io personalmente ne sono uscita de-vastata. Ho dimenticato lenti a contatto nell’occhio (se-condo me una c’è ancora), mi sono presentata al lavoro nel giorno sbagliato, mi sono addormentata ovunque mi sedessi, sono andata in giro con vestiti non stirati, ho progressivamente abbassato le mie aspettative sui miei rampolli (ormai mi accontento di suggerire che è più op-portuno usare la forchetta per mangiare che per perfora-

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re la pupilla del fratello, che è più produttivo portare la verdura alla bocca che farla scivolare elegantemente sotto la sedia, che non è sportivo legare camioncini alla coda del gatto della nonna), ho progressivamente ridot-to anche il tempo dedicato alla mia routine di bellezza, che attualmente consta di: lavaggio denti + doccia, tre minuti e dodici totali, e mi dispiace per i tutti i decaloghi delle sezioni beauty dei settimanali che ogni tanto mi ostino ancora a comprare.

La mia impressione è che per le donne, e gli uomini, di altre generazioni, che avevano bevuto il sacrificio dal seno della mamma, la fatica fosse un fatto assodato. In gioco non era la propria realizzazione, essere una don-na al passo con i tempi, “con la performance”. Non ci si chiedeva «Chi voglio essere oggi», perché la strada era più o meno segnata. L’obiettivo era trovarsi da vivere. La lista delle cose da fare non era lunga quanto la no-stra, e fare spazio alle esigenze di un altro era più sem-plice. E non guardate me che mi sono portata un elenco di cose da fare anche quando ho partorito, perché in alcuni ospedali i primi giorni c’è la nursery e possono anche miracolosamente crearsi delle mezz’ore di vuoto. C’era sempre la possibilità che, una volta rimosso l’osta-colo che prima mi impediva di vedermi i piedi, il bambi-no, io potessi mettermi lo smalto.

Sì, lo so, sono iperattiva come la maggior parte delle mie simili, ma mio marito dice che in realtà il momento in cui sono più pericolosa è quando mi metto a sedere apparentemente inerte, magari stroncata da un virus. Fisso il vuoto, e dopo qualche tempo proclamo contenta «Ho un’idea! Potremmo arare quei quattro metri di giardino, sradicare due alberi, piantarne uno. Fare una cena, un viaggio, un bambino». Niente è più pericoloso di un mio momento di calma.

Non voglio dire che quelle con meno aspettative fos-

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sero tutte madri migliori, ma erano madri più naturali. A un certo punto della vita quella era una cosa che do-veva succedere. Senza leggere manuali, senza studiare troppo, a un certo punto la vita andava così. L’obiettivo non era, come oggi, realizzarsi, disegno nel quale un figlio può essere previsto o meno. Risultato: tra il nostro egoismo e una società profondamente e scientemente ostile alla famiglia siamo il paese con il più basso tasso di natalità al mondo.

Tante mamme di oggi entrano in crisi. Il carico di la-voro è davvero mostruoso: lavorare, gestire i figli, la ca-sa, mantenendo un aspetto da pin-up, essendo aggior-nate e tutto il resto. Allora è tutto un lamento, come sa bene la mia amica Daniela, l’unica autorizzata a cazziar-mi regolarmente. Facoltà di cui usufruiva ampiamente quando, alle prime malattie dei bambini, la chiamavo con la vocetta querula. «Ma sono sola! Uno ha la febbre, una la diarrea, una vomita. Sono sola, nessuno mi aiu-ta...» Perché ovviamente tutto ciò succedeva sempre quando il babbo era fuori, preferibilmente molto fuori, tipo Australia o Giappone, e bisognava comprare la Ta-chipirina e diluviava, e magari i nonni erano già stati spremuti a mio piacimento. «Hai quattro figli!» mi urla-va nelle orecchie Daniela. «Possibile che non hai un va-gone di Tachipirina in casa? E che vuol dire sola? Chi ci deve pensare ai tuoi figli, se non tu?» Effettivamente dopo qualcuna di quelle sgridate, e dopo molte emer-genze, ho capito anch’io che mi dovevo rimboccare le maniche e smettere di mendicare aiuto. Certo, è capita-to ancora che suonassi alla vicina ammollandole una neonata urlante in braccio, perché dovevo provvedere ad altre tre contemporanee emergenze di carattere sca-tologico. Ed è capitato anche che suonassi al vicino, un altro, uomo questa volta, perché un geco si era impa-dronito della mia camera da letto.

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Con questi figli abbiamo perso il modo naturale di essere madri. Non sono in grado di spiegarne i motivi, forse la sapienza non si trasmette più di generazione in generazione, non ci sono in casa le nonne o le zie. Ades-so ci sono i manuali, gli esperti, i logopedisti, gli psicope-dagogisti, i medici consultati per ogni presunto proble-ma. Adesso ci sono le ludoteche (!), posti dove si gioca a pagamento e a tempo, come se per i bambini giocare non fosse semplicemente scoprire il mondo. Adesso c’è la piaga degli animatori alle feste, dove si preferisce in-fliggere ai bambini coretti demenziali piuttosto che la-sciarli finalmente liberi di correre, di fare rumore, di liti-gare anche, senza la mediazione degli adulti. Senza più piazze, strade o cortili, dove impareranno a cavarsela da soli? A risolvere anche con qualche botta, data e presa? A prepararsi a quello che li aspetta fuori?

Per non parlare della crudeltà dei villaggi vacanze con il baby parking, dove i bambini – dicono entusiasti i genitori egoisti – te li dimentichi. Parcheggio per bam-bini? Ma io i miei bambini non me li voglio dimenticare, tanto meno in vacanza, momento della famiglia per ec-cellenza, quando ai bambini va restituito tempo, ascol-to, gusto per la lentezza, anche il diritto alla noia, con-dizione feconda per conoscere se stessi, trovare risorse creative, acconsentire per disperazione a leggere i libri che la mamma cerca da un anno di propinare.

Oppure, all’altro estremo rispetto a quelli del baby parking, ci sono i genitori professional, quelli che inor-ridiscono se il virgulto ha assaggiato una goccia di Co-ca-Cola, se la zucchina nella sua pappa non è biologica, la medicina non è omeopatica, il cotone che profana la sua pelle non è organico. Solo così sono certi che a tre anni potrà cominciare a studiare musica e a sei il suo carnet di impegni sarà completato con inglese, scherma e rugby. Tanti sforzi dovranno essere premiati con un

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figlio perfetto, candidato come minimo a un oro olimpi-co, un Nobel e un Oscar, e pazienza se non sa perché sta al mondo, e dove va. Questo invece è essere genito-ri: amare, accogliere, dare a quel bambino il permesso di esistere così come è. E poi indicargli la strada, sempre ricordando che non siamo noi, ma è Dio che fa crescere e tifa per la sua vera riuscita. Questo ci solleva da ogni angoscia, ci impedisce di cedere alla paura, ci fa rico-minciare tutte le volte che è necessario, ci aiuta a non essere schiacciati quando tutto quello che abbiamo pro-vato a fare sembra buttato al vento.

Tre anni dopo...

Se un’altra persona al mondo mi dice «Figli piccoli pro-blemi piccoli, figli grandi problemi grandi» io comincio a bere come un’oca. Perché sì, è vero, io e Stefania dovrem mo essere entrambe fuori dal tempo dell’allatta-mento e dei pannolini, ma qui non si vede la luce fuori dal tunnel, e se i problemi sono anche destinati ad au-mentare mi do all’ubriachezza molesta.

Una multimamma lavoratrice viaggia con un ritardo costante di almeno sei giorni sul suo ruolino di marcia. Solo se il mondo si ibernasse per una settimana, e lei sola rimanesse in vita (insieme agli impiegati delle poste, degli uffici vaccinali, delle segreterie scolastiche, ai com-mercialisti, ai parrucchieri, ai cardiologi pediatrici e a tut-te le categorie presso cui ha accumulato ritardo), potreb-be sperare, lavorando giorno e notte, di rimettersi in pari, e magari di rendere anche presentabile la sua casa, grazie all’ibernazione della prole. È difficile invece sbri-gare qualsiasi altra faccenda se tutto il tempo libero dal lavoro viene destinato a raccogliere oggetti abbandonati

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a terra da quattro creature. Ho una figlia che si vuole laureare in Pigrosofia, e credo che la mia casa sarà presto rinomata come centro di livello mondiale per questa di-sciplina. Anzi, dire che i miei figli sono pigri non è nean-che esatto. Diciamo che hanno altro da fare, quando c’è da rendersi utili in casa, o fare i compiti, o qualsiasi cosa che non sia lanciarsi da alberi di limoni, leggere fumetti di Zerocalcare, stare stese sul letto vestite da principesse nel caso che qualche amico dei fratelli voglia baciare una fanciulla addormentata, oppure rifugiarsi in nascondigli segreti su soppalchi protetti da cartelli con su scritto IN-

GRESSO VIETATO A IRLANDESI, FILISTEI E AGENTI DELLA CIA.Sì, sì, li ho letti tutti i manuali su come richiamarli al-

l’or di ne, e ci provo ogni tanto, ma se una, come me, ha il carisma di un tostapane non c’è molto da fare. D’altra parte, non sono l’unica per cui non hanno tempo.

«Mamma, ma pelché la Flanca dice il losalio mentre ci insegna a licamale?»

«Be’, è stato Gesù a dire di pregare sempre, senza interruzione.»

«Mi dispiace, scusa tanto, digli che io non posso. Ho tloppe cose da fale.»

Nonostante la fatica costante e rigorosamente senza alcuna speranza di interruzione (non apparteniamo, né io né la mia amica, alla categoria di donne provviste di nonni che portano i figli al mare per intere mesate, ma neanche per due giorni, a dire il vero), nonostante la carenza desolante di risultati («Bernardo, alzati e racco-gli i Lego. Ma perché sei così pigro, di cosa ti sei stanca-to?» «Pupa, ho otto pallottole in corpo, il resto è bour-bon.» Va be’, allora certo che è stanco), nonostante le dosi da cavallo di speranza che sono necessarie a volte, una mamma è chiamata sempre a guardare i suoi figli per come potranno un giorno diventare. Guardarne le potenzialità. È una specie di miracolo, quando riuscia-

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mo ad avere questo sguardo, è come quando Pietro cammina sulle acque, e ci riesce fino a che non abbassa lo sguardo sui suoi piedi. Ecco, questo sguardo pieno di speranza e piantato sul futuro è lo sguardo che devono avere i genitori, in particolare le madri che a volte ri-schiano di soffocare con la loro ansia nel vedere quanto manca alla perfezione nei loro figli. Lo spiega bene Franco Nembrini, scrittore, professore ed educatore, che una volta fece fare ai suoi allievi l’analisi della frase: “la mia mamma mi vuole bene”. Un ragazzino scrisse: la, articolo determinativo; mia, aggettivo ossessivo, e lui gli diede dieci, trovò perfetta quell’analisi grammaticale.

Se si cerca di imparare uno sguardo diverso sui figli, amandoli con tenerezza e fermezza, ma senza ritenerli né un nostro possesso – l’amore è esattamente il contrario del possesso – né una nostra proiezione, né il prodotto dei nostri sforzi, i figli ci convertono. Oltre a stanare l’egoi-smo, ci insegnano uno sguardo nuovo su di noi, sulla no-stra vita. Lo sguardo di chi fa la propria parte, ma si con-segna con umiltà, riconoscendo ogni giorno, nella propria incapacità, la mano sicura del vero Padre.

«Tu non sei la mia vera mamma» mi ha detto un giorno una figlia, non perché fosse arrabbiata, anzi, in un momento di tenerezza. «Tu sei mia sorella, la mia mamma è la Madonna.» Ah, che pace, finalmente mi posso rilassare... Ma va lei a ritirare il libretto vaccinale?

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Caro Antonio, per come la vedo io la differenza più macroscopica

tra un padre e una madre consiste nell’incapacità asso-luta dell’uomo di riconoscere le lendini, le larve e i pi-docchi adulti.

Guido, pur essendo un ottimo padre degli stessi quat-tro figli di cui io per coincidenza sono madre, è total-mente ignaro della forma e della modalità in cui si pre-sentano i simpatici animaletti che invece hanno delizia-to i miei giorni e le mie notti nell’ultimo inverno.

Eppure i figli, frequentando più o meno in totale un centinaio di compagni, hanno posto la nostra famiglia di fronte a una drammatica emergenza parassiti, costa-taci un occhio della testa in trattamenti (nella mia far-macia c’è un mio ritratto, ALLA NOSTRA BENEFATTRICE) e ripresentatasi a più ondate. Così i pidocchi nell’ultimo anno sono stati protagonisti dei miei incubi con una cadenza ben più frequente di quella che hanno avuto per anni il professore di glottologia e l’allenatore di at-letica che mi annunciavano che il mio compito era sba-gliato, o che ero iscritta, ovviamente per errore, alla fi-nale olimpica dei diecimila.

Ho combattuto per mesi con gli invadenti ospiti che, devi sapere, resistono alle alte temperature, mentre

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Antonio ovvero

Yes, you can

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muoiono agevolmente se introdotti in un surgelatore; la quale informazione mi sarebbe stata utilissima se avessi avuto una cella frigorifera abbastanza ampia da conte-nere quattro set completi di abbigliamento per bambi-no, giacca e cappello inclusi, e quattro lenzuola e copri-piumoni, nonché un rivestimento per divano.

Ho combattuto, dicevo, sola e a mani nude. Incon-trando sul pianerottolo mio marito che usciva, gli ho chiesto speranzosa e ingenua, per mesi, «Hai fatto un controllo?». «Tutto a posto. Tranquilla, non c’è niente.» In un rigurgito di scrupolosità la sera, prima di mettere tutti a dormire, passo il pettine, e c’è una fila di pidocchi che balla la quadriglia.

Nelle successive due, tre ore viene applicato il proto-collo sanitario numero uno, che si protrae fino a notte fonda, mentre le piccole, stremate dalla stanchezza, piangono perché pare non possano proprio dormire senza quella principessa alta tre centimetri, ovviamente l’unica che in quel momento non si trova, e il grande si ricorda che deve assolutamente procurarsi un compasso per la verifica del giorno dopo (articolo non previsto nel menu di Pizza al volo che consegna a domicilio).

Nell’isteria generale Bernardo, anche lui stanco e as-sonnato, pianta una delle sue grane tipiche – lo chia-miamo il Signor Puntoli, noi –, magari perché si ricor-da che per il compleanno non ha ancora ricevuto come richiesto la maglia della Roma nera con scritto MÉNEZ, che a quanto ho capito dovrebbe essere un giocatore. No, perché tutti i bambini la vogliono rossa di Totti, lui no, lui – campione del mondo di pensiero laterale – vuole sempre quella introvabile.

Secondo me vedere quanto i figli mi abbiano scon-volto la vita non ti ha incoraggiato a produrne di tuoi, ma tu, Antonio, sarai un padre, e non una madre, e non devi pensare a me.

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Primo perché io – ormai mi conosci – sono esagerata in tutto quello che faccio: se leggo i Padri del deserto voglio fare l’asceta, se mi piace un autore devo consu-marmi le diottrie per tutte le notti finché non ho letto tutto quello che ha pubblicato. Così ho preso la mater-nità abbastanza sul serio; forse però prima o poi capirò che le medaglie le hanno finite, e soprattutto che non siamo noi, ma Qualcun altro, che fa crescere.

Secondo perché io sono una femmina e riconosco le larve, mentre tu sarai esentato da questa mansione. E non perché i pidocchi ti ignorano, visto che sulla tua testa non potrebbero che pattinare, ma perché sei un maschio.

Tu avrai molti altri compiti, ma te la caverai benis-simo.

Anche perché, oltre a non allattare, non avrai biso-gno di conoscere l’ubicazione in casa (nel mobiletto dei medicinali, per tua curiosità) né il dosaggio degli antipi-retici; non conoscerai i nomi delle maestre (a meno che non siano particolarmente gnocche) né i loro gusti in materia di fiori; non dovrai tenere a mente nomi di doz-zine di amichetti né compleanni, e non andrai alle loro feste, e di conseguenza non dovrai sostenere conversa-zioni sulla scorsa gita scolastica, della quale peraltro ti sarà giunta solo una debole eco; non conoscerai le sca-denze dei vaccini né dei controlli ortopedici, otorinola-ringoiatrici, oculistici di routine; non ripasserai il Pie-monte né le sottrazioni col riporto; non discetterai con competenza del colore che meglio si addice a ogni prin-cipessa; non racconterai fino a sgolarti la storia di Ada-mo e “Deva”; non canterai Niente ti turbi nel cuore della notte in seguito a un incubo.

In compenso per i tuoi figli sarai una specie di divini-tà, l’unico essere umano in grado di risolvere problemi, aggiustare, cambiare batterie, trovare soluzioni, dire pa-

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role definitive, uccidere mostri, annientare paure. Tu detterai la linea politica, e quando Chiara, mollacciona come me, starà per essere sopraffatta, sarai l’unico così lucido da applicare il sano principio educativo di Jean Kerr «Noi siamo più grossi di loro e questa è casa no-stra», che, se non incarna esattamente la linea del dot-tor Spock, nondimeno riporterà la pace in casa.

Tu sarai dotato, in quanto essere umano di sesso ma-schile, di un orecchio selettivo, che non ti costringerà a rispondere ogni volta che sarai interpellato.

Avrai un sensore raffinatissimo che ti renderà, a dif-ferenza di una madre, capace di distinguere quando è necessario alzarsi e andare a vedere che succede.

Saprai rispondere «Ah, sì?» con garbo inglese a qua-si ogni informazione che ti verrà conferita, soprattutto se starai guardando il Milan e la notizia riguarderà lo smarrimento di un coniglio di pezza; saprai emettere convincenti «Ah!» quando ti verrà descritta un’appas-sionante partita “a goccia” con la quale tuo figlio avrà vinto ventisette figurine.

Saprai guardare la tua prole con lo stesso interesse col quale visioni il rendiconto della riunione condomi-niale, e non farti scoprire, perché loro comunque ti ado-reranno, mentre invece tu starai pensando al pezzo che hai scritto due ore prima e ti è finalmente venuto l’ag-gettivo mancante.

In quanto maschio, e quindi a compartimenti stagni, saprai anche staccare, saprai dire al telefono: adesso ho l’intervista della vita, quindi ciao, mentre una mamma, che in quanto femmina gestisce la complessità, anche a un minuto dalla diretta risponderà al cellulare nella cer-tezza della tragedia che incombe: avrà ingerito candeg-gina, si sarà applicato il Super Attak negli occhi...

In quanto uomo saprai resistere agli accorati richiami serali, astute trappole del ragazzo che, piuttosto che dor-

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mire, acconsentirebbe a questo punto anche a venire a trovare la vecchia zia Sandrina. «Non mi sento bene» dice furbo. «Chi non dorme salta il suo giorno di Play.» «Ma io ho paura!» «Di che?» «Di quel mostro giallo ar-rampicato lì.» «È un riflesso del lampione sulla tenda» risponde lucido e pragmatico un padre, ammesso che sia venuto fino in camera.

Una madre no, piomba nell’ansia: ho un figlio pau-roso, quindi ho sbagliato tutto, è colpa mia, lo devo ras-sicurare, adesso come faccio: regola o eccezione? Mini-mizzare o consolare? Alzare la voce o accarezzare? Un intero psicodramma consumatosi in silenzio dentro di lei nel tempo in cui il padre è tornato di là, si è grattato, si è versato un bicchiere di succo d’arancia e si è steso sul divano.

Purtroppo per te sfortunatamente i bambini non si offendono e non ti tolgono il saluto, come faccio io quando la tua distrazione nei miei confronti supera i li-miti, o la tua propensione all’incastro a scatola cinese degli impegni ti induce a far saltare troppi caffè insieme, proprio nel momento in cui avrei bisogno di maltrattare gratuitamente qualcuno. Un bambino no, lui è di gom-ma. Potrai fargli la più sonora lavata di capo, o dirgli anche qualcosa di orribile e immeritato nel tentativo di strappare tredici minuti con gli occhi chiusi e la testa appoggiata da qualche parte: lui dopo qualche secondo tornerà da te invitandoti a fare un puzzle, perché lui ti ha perdonato, il magnanimo, oppure permettendoti di ascoltare la sua lista di amici preferiti, elencati in base a punteggi, o anche divisi – e questo sì che è appassio-nante – in base alla forma della testa.

Tu saprai freddamente applicare codici rosso, giallo e verde come al Pronto Soccorso per decidere a quale fi-glio dare ascolto prima, quando tornerai dal lavoro e sarai travolto.

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Saprai anche quando è il momento di dare una scu-lacciata, sicuro del fatto tuo, noncurante dei dubbi ma-terni: la sculacciata li può rendere insicuri? Conscio del fatto che, se se la meritano e non gliela dai, sarai tu a essere meno sicuro.

Ma siccome un padre sa selezionare, saprai anche quando è il momento di abbandonare il libro (general-mente quando senti «Mi sa che questo è un pezzo di lampadario...» è meglio che vai, e interrompi la partitel-la in corridoio).

Per questo ho deciso: tu e Chiara dovete figliare. La mia decisione è senza appello. Siete troppo bene assor-titi per non vedere che cosa venga fuori shakerandovi. E, se Chiara non la conosco ancora bene (ma mi fido della tua scelta), di te, che sei il mio migliore amico del-l’al tra razza, cioè maschio, dico che sei troppo in gamba, troppo intelligente, troppo sensibile e prezioso, per la-sciar perdere tutto questo patrimonio.

Sei inoltre dotato del più strepitoso senso dell’umo-rismo che abbia mai incontrato di persona (al momento, poi se conosco Walter Fontana forse rivedo la graduato-ria), mi fai ridere anche con dei bisillabi, come quello con cui concludesti un mio furibondo sfogo nel quale devo avere detto le peggiori cattiverie mai emesse da bocca di donna; allora, prudentemente, capisti che era meglio non contraddirmi, e con quattro lettere riuscisti ancora una volta a farmi ridere a mal di mascella: «Ec-co». Non una parola di più.

Anzi, credo che apprezzerai la fonte infinita di nuovo materiale umoristico che i figli ti forniranno, per esem-pio quando rivisiteranno le battute celebri dei film e dei libri che gli proporrai, come Berni che l’altro giorno si difendeva da un attacco del fratello brandendo una ma-leo dorante pallina di tessuto, gridando «Ho un calzino, e non ho paura di usarlo!». O quando usciranno nudi

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dal bagno, indosso solo occhiali da sole celestini, an-nunciando «La mia famiglia mi ha procurato gravi pro-blemi psichici, odio il mondo, odio tutti». Era sempre Berni, quel disgraziato.

Apprezzerai anche le dispute teologiche che si ter-ranno in vasca da bagno, quando dalla cucina li sentirai conversare: «Ma tu hai capito che ha detto la mamma? Insomma, quando si muore si va in cielo, o sotto terra? E i cavalli?».

Tutti i tuoi doni non possono andare dispersi. Sei troppo un genio per fare solo il giornalista.

Magari potreste cominciare con un figlio (per volta), al l’i ni zio sarete due contro uno, ve la caverete benissi-mo. Anzi, già ti vedo strisciare ai piedi del bambino, privo di qualsiasi brandello di contegno, vestito da in-diano o da pirata, o ancor peggio da principe. Perché se sarà una lei, credo che non risponderai più delle tue azioni. Ho un buon indirizzo dove potrai acquistare una calzamaglia bicolore da principe Filippo a prezzo da affare.

Se qualche dubbio lo nutro, è sull’appoggio pratico che potrai dare a Chiara.

Io personalmente non ti chiederei di fare neanche una fettina al vapore, non oso immaginarti nell’atto di cambiare un pannolino, e questa è roba da mamme; ma non ti vedo neanche caricare la macchina con un pas-seggino da chiudere – questa è roba da babbi – con una fila strombazzante dietro e il pupo che ha appena vomi-tato sul tuo completo per la diretta dal processo. Sarà quello l’istante in cui il direttore ti chiamerà per dirti che c’è una diretta anche per la prima edizione, due ore pri-ma del previsto.

Mi viene da ridere al solo immaginare te, che nor-malmente fatichi ad accudire te stesso (pulisci ancora le lenti con fette di lardo di Colonnata? Le hai ritrovate le

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chiavi?), diventare responsabile di un altro essere uma-no. Però queste non sono cose fondamentali: le macchi-ne lasciale strombazzare mentre tu per l’ennesima volta prendi a calci il passeggino oppure osservi con occhio vitreo la scritta PULL sul manubrio (sarà tirare o spinge-re? Non puoi saperlo, sei andato a dormire quattro ore prima). Quanto al vestito, chi l’ha detto che il rigurgito latteo sulla spalla non sia di tendenza? Inoltre imparerai anche tu, sebbene da questo punto di vista sottodotato, come abbiamo imparato tutti. Di’ la verità: mi avresti dato un soldo di fiducia, quando ci siamo conosciuti alla scuola di giornalismo?

E soprattutto quello che conta è che sei un enorme, solido, affidabile distributore ambulante di affetto, ascolto, intelligente comprensione, amore. Si tratterà solo di ridurre il numero dei destinatari, ma il tuo core business rimarrà lo stesso, giusto una nuova strategia aziendale.

Sapremo, noi della tua sterminata schiera di amici – ma come fai, ti ricordi tutti i nomi? –, ritirarci in buon ordine, quando il vostro bambino prenderà il posto d’onore.

Saprai essere un meraviglioso iniziatore alla vita, attento, presente e di buona volontà. Il vostro bambi-no sarà fortunato, dividerai con lui un patrimonio di cultura, di amore per la tua terra, uno sguardo sul mondo mai banale. Se sarà un maschio sarai per lui un modello, se sarà una femmina sarai un rifornitore uffi-ciale di amore, e lei a sua volta amerà come avrà impa-rato a fare da te.

Quanto a Chiara, non mi sento in diritto di darle consigli, lei ha le sue amiche e non ci conosciamo anco-ra bene, la prenoto per quando verrà a Roma. Do per scontato che è unica, speciale e preziosa come dici tu, e molto molto in gamba. Oltre che votata al martirio per

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accettare di stare con un uomo inabile alle aspre com-plessità della vita, quali indossare capi di abbigliamento coerenti, rispettare le scadenze dello scorato commer-cialista, riportare ogni giorno le chiavi di casa alla porta della casa a esse abbinata.

Sono certa che lei sarà così intelligente da non fare l’errore che fanno la maggior parte delle neomamme contemporanee, e che ovviamente ho fatto anch’io. Non ti rifilerà i figli in braccio quando tornerai dal la-voro, come se dovesse essere risarcita per essere stata a casa, e come se tu fino a quel momento non avessi fatto niente.

Se senti Guido, ti può fornire un’ampia antologia di episodi in merito, di volte in cui ho aspettato che tornasse per riposarmi un po’, invece che fargli trovare una sotto-specie di cena, un clima accogliente, qualcosa che gli faces-se desiderare di essere con noi piuttosto che a otturarsi un dente o a rivedere una dichiarazione dei redditi all’Agen-zia delle entrate, tutto pur di non sentire le mie lamentele. Qualsiasi cosa pur di non prendere ordini da una moglie petulante che finalmente ha sotto le sue grinfie qualcuno che abbia più di tre anni di età, e che la ascolti.

Ci ho messo un po’ a capire che un marito non è un baby-sitter, e che anche con i figli ha un suo stile, che la madre non può sempre controllare tutto, e mettere boc-ca su tutto. Tanto meno davanti ai bambini, che non devono mai vedere l’autorità paterna messa in discus-sione. Non va bene per loro. Se c’è qualcosa da dire, in separata sede.

E secondo me c’è un contegno da tenere anche quan-do si ha molta confidenza, un contegno persino formale che impedirà a una mamma anche prostrata di accoglie-re il marito in vestaglia e ciabatte alle sette di sera. Io personalmente per lo stesso motivo non ho voluto che mio marito assistesse ai parti, pratica che adesso va per

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la maggiore, perché ero certa che non sarei stata al me-glio, e che sarei stata poco credibile poi in atteggiamen-ti seducenti, anche se questa è una scelta sicuramente troppo personale per dare consigli.

Non condividere proprio tutto, nel senso dei lati più infimi della propria persona, però, secondo me è una buona linea guida. Non tutte le ansie vanno subito espresse nel momento in cui ci sfiorano (io personal-mente diagnostico ai miei familiari malattie mortali e fulminanti svariate volte al giorno), non tutti i malumo-ri vanno necessariamente dichiarati, non è che una deb-ba perdere tutti i freni inibitori perché messa alla prova dallo sconvolgimento di una nuova vita. Com’è che si dice? Se le crisi le ignori, ti ignoreranno.

E la nuova vita che arriva non sarà così sconvolgente. È già successo miliardi e miliardi e miliardi di volte. Ge-neralmente si sopravvive. E, nel caso, si cambia marcia.

Ti voglio bene e ti abbraccio stretto. C.

Un tempo i padri erano figure assenti. Non solo quelli che tornavano dalla guerra e conoscevano le creature concepite magari anni prima (nel diario di un amico dei miei, bambinetto del ’42, all’arrivo del fratellino: «Papà in Grecia, nasce Gino». L’effetto era involontariamente comico, ma era la verità).

E anche quando tornavano, era sempre un po’ come se fossero in guerra. Assenti per lavoro, lontani, stanchi, a volte distratti.

Se la moglie avesse chiesto a uno di loro di cambiare un pannolino, quello l’avrebbe guardata come se lo aves-se invitato ad andare in giardino a lavare la giraffa.

Quando c’era, il padre preferibilmente rompeva. Que-sto almeno dai racconti che ho origliato, negli anni, dal-

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le generazioni precedenti. Ma rompere significava anche incarnare la regola, l’autorità. La norma temuta dai figli e imposta dai padri anche con argomenti molto convin-centi, come per esempio le mani.

Una storia della paternità in qualche riga adesso mi verrebbe un po’ difficile, ma insomma a un certo punto dello scorso secolo si è deciso invece che “autorità” fos-se una parolaccia.

Ora, è vero che tirare su i figli in un regime di terrore, indurli a comportarsi bene sotto il tiro di una specie di plotone d’esecuzione non era il massimo come linea pedagogica, ma tra quella condizione (i cui risultati non erano sempre brillantissimi) e quella attuale, in cui il piccolo viene democraticamente consultato su qualsiasi decisione lo riguardi, io scelgo quella di prima. Se pro-prio devo scegliere.

In realtà, il problema di quella autorità era principal-mente quello di essere – a volte – ottusa, non quello di essere troppo forte. Il padre si imponeva senza guardare troppo chi avesse di fronte, per un suo diritto, che non sempre esercitava con intelligenza, generosità, dedizio-ne, ascolto.

Adesso i figli si ascoltano, si fa lo sforzo di capirli, ma poi non si ha il coraggio di imporre loro un’autorità fer-ma e sicura. Come per paura di ferirli, turbarli. Come se non fosse il più grande regalo che possano ricevere dai genitori: amore, sì, ma una strada certa e non sempre comoda da percorrere.

Infatti, alla fine credo che la mancanza di autorità, a volte di autorevolezza, venga da una mancanza di orien-tamento “alto” della vita. Il termine Auctoritas deriva da aumentare, accrescere. Ma accrescere di cosa? Verso dove? Dov’è l’alto e dov’è il basso? Ci manca così tanto di saperlo, che ci servirebbe la freccia come sullo scato-lone dei bicchieri (ne so qualcosa io che ne ho fatti fuori

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una dozzina ancora confezionata, tra i regali di nozze. Zia, non ti offendere. Anzi, se me li vuoi ricomprare, erano quelli di cristallo rosa).

Viviamo in città senza cattedrali, non alziamo mai la testa, lo sguardo. Come possiamo convincere i no-stri figli che Qualcuno li guarda se non ne siamo con-vinti noi?

E comunque prima non c’era bisogno di avere un senso religioso particolarmente forte. Bastava ave-re un patrimonio condiviso e comune di conoscenze, di orientamenti acquisiti, alla fine di senso comune. Non è che si comprasse un manuale per ogni cosa. Adesso ti spiego come: togliere il vasino senza traumi, dormire senza capricci, mangiare senza guardare la televisione. C’era sempre una zia che lo aveva fatto senza troppi tormenti interiori una mezza dozzina di volte, e nean-che le dovevi chiedere le linee guida ministeriali. Lo avevi visto fare tu stessa, vivendo in famiglie più grandi e più unite.

A chi è diventato genitore dopo il Sessantotto, inve-ce, hanno strappato il libretto delle istruzioni sotto il na-so. Panico. Si fa così? Sarà un trauma per il piccolo? Lo turberò? E così si naviga a vista, e i modi e i ruoli sono in una revisione continua e faticosissima. Niente sem-bra più naturale. Ci sono i genitori alla “tutto Tacito”, quelli di Caro diario che tengono il figlio dodicenne nel lettone e gli leggono Tacito, tutto. Ci sono quelli che gli mettono computer e televisione in camera, e lui li gesti-sce da solo. Soprattutto ci sono plotoni di genitori stre-mati da questa nuova, totalizzante esperienza. E forse anche per questo poco inclini a ripeterla troppo spesso. Soli, disorientati.

Il parco è un buon luogo per verificarlo. Si comincia a parlare – che barba! – sempre di figli, e si scoprono madri, soprattutto quelle più grandi d’età, sfiancate dal-

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l’im pre sa e aggrovigliate dai dubbi. Oppure, che è an-che peggio, esaltate dalla propria efficienza che viene snocciolata con la serie di impegni a cui il povero ragaz-zino ha preso parte più o meno dall’alba. Per la cronaca devo dire che c’è anche una minoranza di donne nor-mali con cui si può persino parlare di politica o di cine-ma, perché io di allattamento e reperimento di fettine biologiche non ne posso più.

Quanto ai padri al parco, vorrei fare un disegno di legge che impedisca loro l’accesso con pupi al di sotto dell’anno di vita. Proteggiamo gli uomini dalle insidie di un biberon troppo caldo o troppo freddo, da un panno-lino da cambiare sulla panchina, da un ciuccio caduto – deve essere una legge della fisica – sempre di punta, e allegramente cosparso di ghiaino che il papà dovrà amorevolmente succhiare.

Se uomini e donne sono diversi, e neanche lontana-mente parenti, e per un uomo l’accudimento di un cuc-ciolo da latte è un’impresa che richiede uno sforzo inna-turale – mentre a noi pesa sì, ma ci piace anche – perché costringerlo in nome di una parità che non c’è e non ci potrà mai essere?

Perché gli uomini non hanno il seno? E non vale ri-spondere perché starebbero sempre a toccarselo. Per-ché non partoriscono? E non vale rispondere perché l’umanità si estinguerebbe, fa troppo male.

La famiglia è una squadra in cui ognuno deve gioca-re il proprio ruolo, che è quello che gli viene meglio. Il segreto per vivere in armonia è capire i talenti, e mette-re tutti in condizione di spenderli. A volte anche con un po’ di astuzia. «Caro, non è che per favore cercheresti un po’ di materiale sui laghi italiani per la ricerca di scuola del grande?» può essere un buon modo per la-sciar stare un marito veramente stanco solo davanti al suo amato computer. Da parte sua mio marito, senza

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troppi stratagemmi, mi manda a correre quasi d’impe-rio quando sente che ripongo le pentole con un po’ troppo vigore. Quando torno non mi ricordo più per-ché ero arrabbiata.

Ecco, quando vedo padri alle prese con dei neonati, mi chiedo se siano davvero contenti di essere lì, o se una moglie abbia esercitato un malinteso senso di parità. La parità è avere la stessa dignità, non fare le stesse cose. Ognuno secondo i suoi talenti.

Nell’uomo è scritto il nomos, la legge, la regola. Que-sto principalmente dovrebbe essere il padre. È un com-pito importante e anche faticoso, perché quasi sempre è più facile dire sì che no alle richieste dei figli. Il padre indica la strada, consiglia, aiuta a scegliere, orienta.

Il padre propone valori e obiettivi. E deve farlo nella libertà del figlio, ed è questo che Giussani chiama «il rischio educativo». Un rischio che una madre spesso non ha il coraggio di correre, più ansiosa e spaventata.

Il padre, sicuro della sua proposta, ha anche il corag-gio, a un certo punto, di stare in panchina, da dove si può solo guardare, di lasciar andare il figlio, dopo aver-gli dato chiaramente le coordinate.

I valori vengono motivati, il ragazzo viene accompa-gnato con fiducia e stima, con il buon esempio, con l’ascol to, con un clima sereno in famiglia. E questa è una cosa che i genitori fanno in due. Ma quando il ra-gazzo deve andare, è il padre che gli dà il coraggio. Per-ché lui è stato la regola.

All’occorrenza il padre deve anche saper essere mi-sericordioso, come con il figliol prodigo, ma che miseri-cordia ci può essere se non c’è legge, cosa perdoni se non sai che cosa è stato trasgredito?

Della crisi educativa sono responsabili i padri che non fanno più i padri, e le madri che non li aiutano a fare il

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loro lavoro. Perché non si può chiedere a un babbo di essere baby-sitter e anche autoritario.

Ho chiesto ai miei figli che differenza c’è tra me e il padre: «La mamma rompe, ci rimugina, poi si scorda tutto. Il babbo no, se dice una cosa è quella». Direi che più o meno ci siamo. A parte che io, cari ragazzi, non rompo solo, adesso non mi ricordo quando, ma dovrò pur essere stata simpatica qualche volta! E non mi chia-mate più Scassarompifracassina. E non è vero che sono un giudice di gara della Germania Est (che ne sanno poi, che sono nati tutti quando ormai da anni il muro di Berlino si vendeva a pezzetti ai turisti della Germania riunificata?). Però una cosa è vera: alla fine della giorna-ta mi dimentico tutto. In fondo c’è del metodo, nella mia follia.

Perché noi donne con la norma fatichiamo più degli uomini: da Eva in poi, abbiamo, oltre al gene dell’acco-glienza, anche il germe della ribellione alla legge. Chie-deteci tutto, ma proprio tutto. Come ha detto una vol-ta mia figlia Livia: «Tommaso è uscito, adesso è avan-zata un po’ di mamma». Spolpateci tutte come un avanzo di pollo, ma non chiedeteci di fare i padri. Non ne siamo capaci.

Tre anni dopo...

Antonio non si è ancora deciso a diventare padre, e questo è un grande spreco per l’umanità, oltre che per me: sarebbe stata una fonte di ilarità impagabile vederlo alle prese con la vita pratica, che è poi quello che noi genitori facciamo tutti i giorni mentre lui legge (e dice, lo ammetto) cose intelligenti. Avevo già pronto un cam-pionario dei capi da neonato più insidiosi da regalargli,

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tipo la tuta intera compresa di pantaloni col piede (non mi dite che a voi non è mai successo di insalamare il bebè infilandogli due piedini in una sola gamba) o il te-mibile giustacuore, con giudice federale che cronometra il tempo di inserimento della fettuccia nell’apposita asola (sopra i sei minuti ti tolgono la patria potestà). È vero, Chiara non gli avrebbe mai chiesto uno sforzo simile, ma io glieli avrei regalati comunque, in attesa di vederlo poi, col passare degli anni, alle prese con sfide diverse: spiegare lo spread a un seienne troppo sveglio – ciò comporterebbe l’esigenza di averlo capito – op-pure sostenere una conversazione con una bambina che il giorno prima ha confidato un segreto importan-tissimo di cui si è persa ogni traccia (Antonio, ricordati sempre di salvare quando spegni il cervello).

E invece si sono lasciati, e questo insegna – almeno a me, non a voi che già lo sapete – che alla fine l’ultima parola spetta alla nostra libertà. Anzi, oserei dire che il problema di gestire la libertà sia il vero problema ma anche la grandezza dell’Occidente contemporaneo. Non è che prima tutti fossero pervasi da questa voglia sfrenata di sacrificio, non è che si desiderasse ardente-mente passare pomeriggi a cantare Il coccodrillo come fa invece che andare ai concerti dei Massive Attack, o smettere di leggere Cormac McCarthy per fare una full immersion di Hans Christian Andersen. A volte era una scelta obbligata dalle pressioni del contesto sociale, al-tre volte i figli capitavano. Per come la vedo io, noi non siamo così capaci di intendere sempre cosa sia bene e cosa male per noi. Il potere di scegliere quando e quan-ti figli, persone destinate alla vita eterna, è un potere che non può essere consegnato totalmente alla creatu-ra. Essere disponibili, responsabili ma disponibili a prendere quello che capita è una cosa che salva la vita, ma qui si finisce a parlare di natura umana e di peccato

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originale e sul tema Antonio la pensa diversamente, e io non voglio litigare con lui (trovare un altro amico che mi faccia ridere sollevando un sopracciglio a que-sto punto è troppo faticoso, ho un’età e mi tengo l’ami-co che ho).

Fatto sta che lui non è più fidanzato con Chiara, ma con un’altra donna, nella quale ripongo tutte le mie re-sidue speranze, a questo punto. Checché ne dica la pro-paganda che vuole omologare i due sessi – innanzitutto chiamandoli generi, parola che rifiuto –, sono le donne chiamate a custodire la vita, a farne vedere la bellezza agli uomini, a invitarli a fare questo triplo salto mortale che è generare dei figli, esseri sconosciuti nell’epoca dell’ipertrofia dell’io (i figli sono contro la proprietà pri-vata, in particolare di iPod, scrivanie e rossetti Elizabeth Arden) e dell’ipercontrollo tecnocratico (no, i geni dei figli non si possono programmare, sennò io avrei tolto ai miei il gene fogna, e non mi sarei ritrovata croste di formaggio e bicchieri incatramati di cacao sotto i letti).

Quanto al desiderio di vedere in giro più padri auto-revoli, diversi dalle madri, con altri compiti, attitudini e competenze, la vedo abbastanza male. La propaganda del pensiero unico spinge sempre di più nell’altra dire-zione: ai padri si chiede, nel sentire comune e anche con le leggi e i provvedimenti – che, si sa, fanno cultu-ra  –, di essere in tutto e per tutto sovrapponibili alle madri, e quindi senza la polarità maschio/femmina che costituisce il fondamento dell’umanità. A mia consola-zione devo dire che quando mi capita di dire queste cose in giro – conferenze, articoli – c’è sempre una ola che mi accoglie, madri che annuiscono e padri ricono-scenti, sollevati, padri meravigliosi e autorevoli che pe-rò tendono a dimenticare figli sull’altalena, o a portare dal pediatra quelli sbagliati (no, guarda, era il grande che aveva la febbre!), o a soprassedere con scioltezza su

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alcune trascurabili norme igieniche (l’hai fatta la doccia ieri? No, lo sai, mamma, tu eri al lavoro, c’era il babbo), e che non per questo sono meno padri e meno meravi-gliosi. Padri che hanno il coraggio di troncare, sceglie-re, decidere, buttare fuori quando è il tempo e custodi-re la casa in attesa del ritorno. Ce ne sono, in giro, no-nostante la propaganda.

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Cara Cristiana, quanto tempo hai? No, perché se mi tiri a parlare di

lavoro e figli devi avere almeno quattro ore di libertà e di ottima disposizione d’animo nei miei confronti. Avrò sicuramente una crisi isterica, diventerò noiosa, lamen-tosa, petulante. Potrei anche mettermi a piangere. In un’escalation che si autoalimenterà ti proporrò di cam-biare lavoro, poi di emigrare, infine, con la moderazione che da sempre mi contraddistingue, di radere al suolo l’intero paese con il Napalm.

Vogliamo parlare di scrivanie che spariscono al ritor-no dalla maternità, di colleghi che ti considerano una mentecatta, di lavoratrici di serie B? Oppure vogliamo parlare del fatto che la possibilità di avere tutto è una colossale bugia? Oppure ancora vogliamo parlare dei sussidi alla maternità in Francia, degli incentivi al part-time in Olanda, dove, se lo chiedi, l’azienda è obbligata a dartelo, e invece di donne che in Italia per averlo fa-rebbero qualsiasi cosa, mentre lasciano i figli al nido con il cuore strappato e le lacrime agli occhi?

Su tutti questi argomenti sono preparatissima, e mol-to, molto agguerrita.

Fra poco tornerai al lavoro e non sai come organizzar-ti. Innanzitutto scordati di una come Nancy Pelosi, che

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Cristiana ovvero

Ho visto cose che voi “uomini” non potete neanche immaginare

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al compimento del diciottesimo – e sottolineo diciotte-simo – anno di età del quinto – e sottolineo quinto – fi-glio si è rimessa in gioco e ha trovato un lavoretto, non come commessa nella merceria sotto casa ma come speaker della Camera dei rappresentanti, diventando la donna che ha raggiunto il più alto grado di carriera nel-le istituzioni americane. A lei non hanno detto che era troppo vecchia, né che aveva troppi figli. Ecco, a questo non pensare proprio.

Qui siamo nel paese che fa meno figli al mondo, qui il mondo del lavoro è contro le madri, cioè contro i figli.

Questo è un dato di fatto. Non è che il mondo del lavoro rifiuti le donne, è che le donne non possono cam-biare questo mondo del lavoro. O ne accetti i tempi e i ritmi o sei fuori, sei emarginata. Non importa se a casa hai un lattante che aspetta il seno a cui ha diritto. Non importa se devi correggere compiti, ascoltare, consola-re, addormentare, cambiare pannolini e magari puoi condensare lo stesso lavoro in meno tempo, evitando di fare come i tuoi colleghi dell’università, cioè di giocare al computer, di chattare, di telefonare, di fare pause alla macchinetta del caffè quando a casa c’è bisogno, molto bisogno di te. Non importa se, abituata dalla gestione dei figli a fare almeno tre cose contemporaneamente, al lavoro te la cavi bene, velocemente, e dopo avere fron-teggiato vomiti a spruzzo e punti sulla fronte e convul-sioni notturne non temi imprevisti di nessun genere.

Qui non siamo in Norvegia, dove perfino una pre-mier abortista come Gro Harlem Brundtland arrivava a capire che era il caso di mettere le riunioni alle otto del mattino, in modo che le donne potessero sbrigarsi, su-bito dopo avere depositato i bambini all’asilo. Alle quat-tro tutti a casa. E non parliamo di impiegati delle Poste, ma di uomini e donne di Stato.

Qui noi donne studiamo con l’idea che avremo tutto,

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carriera e figli, ma non è vero. Non è vero, salvo rari casi di professioni meravigliosamente libere, gestibili, incastrabili, adattabili alle stagioni della vita di una mamma e dei suoi bambini. Oppure salvo capi illumi-nati come la mia Ilda Bartoloni, con la quale si discuteva ferocemente di aborto e femminismo, anche a colpi di cassette lanciate, ma che sapeva capire le esigenze di una mamma pronta a partire per le trasferte con il panino nella borsa – una Fendi aroma bresaola – e nell’agenda biglietti aerei di andata e ritorno record: un’ora e tre quarti di permanenza a Palermo, sei ore a Stoccolma, quattro a Berlino. Qualsiasi cosa, niente giro della città, niente pranzo offerto dall’ufficio stampa nel ristorante più costoso di Vienna, pur di essere di nuovo a casa con l’intervista girata, in tempo per il saggio di karate o per la seconda dose di antibiotico. Ilda però è morta, e noi, le sue “ragazze”, la rimpiangiamo per tanti motivi, non ultimo il fatto che sapeva gestire il gruppo come solo una donna sa fare: ognuna porta a casa il risultato, uti-lizzando al meglio i propri talenti di ottimizzatrice, di incastratrice, le proprie capacità di fare a meno di man-giare e dormire, di scrivere un pezzo in aeroporto e le domande per l’intervista sul divanetto della pediatra, di leggere la rassegna stampa guardando Bambi.

Oggi Ilda non c’è più, e noi ragazze siamo diventate grandi, e abbiamo dovuto imparare a lasciare pezzi per strada: o i nostri figli non avranno la presenza che spetta loro, o nel lavoro ci vedremo sorpassare a destra e a manca da chiunque possa mostrarsi più dedito e inserito.

Non si pretende che una mamma che lavora possie-da anche poteri soprannaturali, che riesca a provvedere a tutto, a mandare i figli alla festicciola con il dolce fatto a mano (io sono sempre nella lista di chi deve fornire bevande o schifezze tipo patatine, la fama della mia di-

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sabilità culinaria mi precede) e con la maschera da ra-nocchia cucita di notte da mani abili, e che insieme rie-sca anche a promuovere la crescita culturale del gioiello di casa introducendolo all’arte e alla letteratura tra mo-stre e biblioteche.

Però anche una mamma che lavora deve poter esse-re presente ad ascoltare quando serve, non va bene che sia sempre costretta a rispondere «Un attimo, ora no!», perché tutto il tempo che le rimane libero dal lavoro deve investirlo nella sussistenza fisica della prole. La quale prole può poi anche andare alla festa con un dol-ce comprato a cui è stata tolta la confezione, così, giu-sto per camuffarlo vagamente da dolce casalingo, ma sa che, se ha bisogno, la mamma non è raggiungibile solo via cellulare. Le mani che hanno ancora i buchi al posto delle nocche devono poterla trovare, nel mo-mento del bisogno.

Alla fila per il colloquio con le maestre delle elemen-tari si chiacchiera, si confrontano i ménage, si propon-gono scambi anche interinali di mariti – il mio fa la spe-sa; il mio no, però ieri si è ricordato dell’anniversario; il mio il mese scorso si è anche accorto che ero stata dal parrucchiere; «Ma che, daverodavero?» – ma su una so-la cosa si concorda sempre tutte. Le mamme che lavo-rano sono tutte stremate dal doppio ruolo. Si affacciano a stendere i panni sul balcone a mezzanotte, e si saluta-no tra loro da una parte all’altra del cortile interno. Sempre a corto di tempo, soprattutto il tempo per sé, che è il primo a cui si rinuncia. Eppure del lavoro si con-tinua a parlare come di una conquista.

«Lavinia, che bel disegno, chi è questa?» ho chiesto qualche mese fa alla mia bambina, un’osservatrice im-placabile infiltrata in casa mia. «Sei tu, mamma.» «E per-ché mi hai disegnato una banana in testa?» «Non è una banana, sono i tuoi capelli che sono così: sotto marroni e

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sopra gialli.» La ricrescita. Forse era il momento di dare un ritocco ai miei colpi di sole, rassegnati a visite seme-strali dal parrucchiere. Ecco, sul tempo per noi stesse possiamo chiudere anche tutti e due gli occhi. Sul tempo che siamo costrette a togliere alle esigenze dei figli no.

E infatti tra le mamme – manager, ingegneri, com-mercialiste – in fila per il colloquio con le maestre l’ulti-ma volta non ne ho trovata una sola che non avrebbe volentieri rallentato i ritmi di lavoro, un lavoro che ab-biamo conquistato a fatica e che a volte diventa una pri-gione, anche quando è importante, nobile, persino gra-tificante e ben retribuito.

Ecco, cara Cristiana, non è un buon viatico per riac-compagnarti alla tua scrivania. Posso dirti, però, che sono sicura che ce la farai, che saprai anche tu trovare il tuo ritmo, il tuo modo di tenere insieme tutto e, anche se non ti ammannirò la balla del “meglio la qualità che la quantità con i figli”, è pur vero che la qualità conta qualcosa.

Quando ero precaria e alternavo tempi di lavoro a periodi da casalinga ho imparato che non è sufficiente essere presente per esserci davvero. Anche perché in-sieme a me la mia tata era un po’ precaria anche lei: quando stavo a casa facevo a meno di qualche ora del suo aiuto. In quei periodi mi è capitato di dedicare qua-si tutto il tempo a tenere in ordine: la casa può diventa-re un buco nero nel quale il tempo scompare, all’infini-to. E mi è capitato invece, nei periodi di lavoro, di finge-re di non vedere le chiazze di yogurt che ornavano il mio parquet e di dedicarmi con tutta la testa ai bambini; di abbandonare cumuli di panni non stirati per portare esperti di arte in erba ai Musei Vaticani, per apprendere poi che la mummia è molto meglio della Cappella Sisti-na, ma non importa, intanto vedono, e incamerano.

Anche tu riuscirai a lavorare trovando persino il tem-

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po di fare un megaingorgo con le macchinine, preparare da mangiare e ascoltare la cronaca di un litigio epocale con l’amico del cuore. Certo, sarai sempre troppo una geologa per essere una mamma, e troppo una mamma per essere una geologa. In ritardo con la consegna della relazione o in difetto con le pubbliche relazioni dei tuoi figli. Distratta nel battere al computer perché stai allat-tando, in difetto con lo svezzamento – brodo liofilizzato invece che zucchina biologica passata a mano – perché avevi una riunione. Sempre un po’ fuori posto ovunque, e qui devo citare il mio amico Paolo, come il massaggia-tore delle squadre di calcio, che nella foto per il poster sta lì imbarazzato chiedendosi se c’entra davvero qualcosa con il gruppo in posa, un sorriso teso, a mezza bocca.

Forza, rituffati, e se ti serve un salvagente sono qui. C.

È bene che le donne lavorino? Questa è una delle poche domande a cui non so ri-

spondere, io che di solito mi aggiro per il mondo con un coltellaccio tra i denti per menare fendenti senza spe-ranza di ricucitura tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato, tra il vero e il falso nella mia vita e, che Dio mi perdoni, a volte anche in quella degli altri. Per niente multiculturale, assolutamente non ecumenica, tetrago-namente non cultrice del dubbio.

Qui però la questione è un po’ più complessa, e allo-ra posso tentare, nella risposta, il massimo dell’articola-zione a me accessibile. Una donna non può lavorare quanto un uomo, se ha figli; né con i modi di un uomo, anche se i figli non li ha.

Il lavoro per una donna deve essere capace di adat-tarsi alle fasi della vita delle persone di cui una donna si fa carico, e deve sempre avere uno stile di accoglienza.

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Non è che non mi renda conto di essere quanto me-no “fuori linea”, ma mi conforta il pensiero delle donne in carne e ossa che conosco, che non scrivono e non fanno tendenza, però esistono e sono anche tante.

La domanda da farsi è: cosa è bene per i figli, per la mia famiglia, per le persone che hanno bisogno di me? La risposta a questa domanda va messa al primo posto, prima della mia realizzazione, che è sacrosanta ma viene dopo, dei tempi per me stessa, dell’indipendenza econo-mica, di mettere a frutto quello che ho studiato.

Con il suddetto coltellaccio tra i denti mi azzardo ad affermare che il bambino, nei suoi primi tre anni di vita, avrebbe bisogno di una presenza pressoché costante della mamma, o di assenze ridotte, che non devono cer-to diventare la parte preponderante della giornata. Al-meno il primo anno lo vedrebbe anche un cieco che il bambino vuole, e a buon diritto, la mamma. Una socie-tà che non tiene conto di questo è una società che mal-tratta i bambini. Si possono portare tutte le giustifica-zioni economiche e organizzative che si vogliono, ma deve essere chiaro che in nome di quelle si calpestano i diritti dei più deboli.

E non mi sto portando a esempio, visto che per i pri-mi due bambini non mi è stato proprio possibile lasciare così a lungo il lavoro, a prezzo di mal di pancia, cuore stretto, coppette assorbilatte grondanti. Non sono con-vinta che conquistare la possibilità di lasciare i propri figli al nido o a una baby-sitter o anche a dei nonni me-ravigliosi sia emancipazione. Non sono certa che sia un bene lasciare i figli per la maggior parte della loro gior-nata a scuola, a tempo pieno, quindi non seguendoli nei compiti, e affidandoli alle mani di insegnanti che, se si è fortunati, possono anche essere bravissimi, ma che pur-troppo non si possono scegliere. Non sono convinta che entrare a così caro prezzo nel ciclo di produzione e con-

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sumo sia emancipazione. Non sono certa che dividere a metà col padre i pesi del lavoro di casa, confondendo i ruoli e provocando malesseri da entrambe le parti, sia emancipazione. Non sono convinta che questi malesse-ri siano estranei a tante crisi nei rapporti.

Ci sono lavori e lavori, è vero. Spesso si tratta solo di una fonte di reddito, diventata indispensabile per una dignitosa sussistenza, e allora forse bisognerebbe rive-dere qualcosa. Se prima bastava uno stipendio, e adesso ne servono due, vuol dire che qualcuno si è preso due lavoratori al prezzo di uno. Allora qualche economista illuminato dovrebbe aiutarmi a capirci qualcosa: dobbia-mo abbassare il tenore di vita consumando di meno, eli-minando esigenze che oggi ci sembrano imprescindibili, ma solo ieri erano lussi? Oppure forse quello che serve per vivere, la casa innanzitutto, costa davvero troppo ri-spetto a un solo stipendio in casa, che prima bastava?

Poi ci sono lavori che servono principalmente a gra-tificare, e ad alzare il tenore di vita, e a lume di naso sono parecchi. In questo caso rallentare in presenza di figli piccoli è un dovere, e chi non lo osserva è un’egoi-sta; l’apostrofo non è un refuso.

È così difficile farlo perché per qualche motivo si pen-sa che il lavoro fuori nobiliti di più di quello in casa, do-ve la platea in grado di rilasciare ufficiali attestati di sti-ma è più ristretta, e tende a considerarti scontata. Dicia-mo che, è vero, a casa le gratificazioni non sempre fioc-cano, e quando arriva un apprezzamento bisogna poi farselo bastare per i tempi in cui, come è normale, si viene considerate un elemento domestico, che non è da omaggiare particolarmente, come non si ringrazia la la-vatrice alla fine di ogni centrifuga. «Bernardo, sei con-tento che la mamma va in una nuova redazione, che le piace di più?» «E a me che me ne importa, mica mi cam-bia niente. Non la sai la legge d’oro: ognuno è contento

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per sé?» «Non mi sembra affatto una buona legge» boc-cheggio apprendendo di avere insegnato così poco i fondamenti della carità cristiana, per non dire dell’as-senza di tracce di amore filiale. «E comunque vado a stare più vicina alla macchinetta delle merendine.» «Al-lora sono contento, così quando ti vengo a trovare non devo fare le scale per prendere il Kinder.»

Eppure – a parte i colpi che fanno vacillare l’autosti-ma di una mamma – io quasi sempre sento di usare la mia intelligenza cercando di educare (con scarsi risulta-ti, è chiaro) almeno quanto la uso al lavoro, dove peral-tro si fatica molto meno.

Conosco una geniale madre di sei figli laureata in fi-losofia che è stata felicemente a casa, e un’altra geniale madre di sei figli che ha fatto felicemente la psichiatra. Forse è il momento di rivedere la solita contrapposizio-ne tra gratificazione e rinuncia, adesso che ormai la li-bertà di lavorare ce l’abbiamo, e stare a casa non è più una scelta obbligata. Qualcuna, potendo, lo potrebbe anche scegliere con gioia, senza sentirsi sminuita.

C’è da dire che ci sono donne e donne. Ci sono quel-le costrette a lavorare struggendosi di nostalgia per il piccolo di pochi mesi che ha rapito loro il cuore e ci sono quelle che non rinuncerebbero mai alla propria indi-pendenza economica, di tempo, organizzativa, anche essendo ricche sfondate. Ci sono quelle che vanno al lavoro per riposarsi, e fingono di avere da fare anche oltre l’orario, pur di non combattere con i figli a casa. Ci sono quelle che mandano il figlio di quattro mesi al nido anche quando lavorano il pomeriggio, così la mattina in palestra risollevano il gluteo. Ci sono quelle che senza il lavoro non sanno chi sono, non sono riconosciute so-cialmente, non si sentono realizzate.

Infine ci sono lavori con i quali si può dare un contri-buto di bene anche al di fuori della propria cerchia fami-

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liare. Noi donne possiamo fare moltissimo per ospedali più misericordiosi, giornali meno vacui, tribunali più efficienti, scuole più stimolanti, uffici più funzionanti. Bisogna trovare il modo di farlo, è necessario. Sapendo però che il nostro primo dovere è verso nostro marito e i nostri figli.

Abbiamo faticato per ottenere questa possibilità: una lotta lunga, basti pensare che solo negli anni Sessanta il governo italiano, c’era Fanfani, tolse alle aziende il dirit-to di licenziare le donne quando si sposavano e rischia-vano di avere bambini.

Certo il problema di conciliare c’era e c’è. La sintesi è possibile? Lo ignoro.

Il lavoro, per come la vedo io, dovrebbe poter essere elastico e modulabile nel corso della vita. Deve essere possibile, solo per fare un esempio, qualcosa tipo met-tersi in aspettativa per anni, ma a due condizioni, che mi viene da ridere solo a scriverle, tanto sono lontane dalla realtà.

Innanzitutto servono dei cospicui assegni familiari, o il famoso quoziente, qualcosa che non sia un’elemosina e che non costringa i volenterosi genitori ad approntare un cartone e un po’ di cellophane a mo’ di abitazione sotto il più vicino porticato. Perché, per esempio, non devolvere a questo una parte dei fondi ripescati dalla voragine dell’evasione fiscale, visto che un figlio educa-to rispetterà le regole e farà il proprio dovere anche pa-gando le tasse?

La seconda condizione è che ci sia anche una remota possibilità che, tornando al proprio posto di lavoro – am-messo che lo si sia conquistato stabilmente prima dei quarant’anni, quando le ovaie stanno per andare in pensione –, non si venga collocate alla pulitura cessi o all’ufficio fotocopie.

Ne vuoi troppe, mi dicono le colleghe senza figli.

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Certo, è vero, se lavorare bene e cercare di tirare su i figli bene è troppo, sì, voglio troppo.

Una posizione legittima, da parte di chi ritiene che i tuoi figli siano fondamentalmente fatti tuoi, per non usare l’altra parola. E forse anche da chi pensa che una mamma presente debba essere una schiappa al lavoro.

Se, invece, pensiamo che i figli sono un bene di tutti, e non soltanto perché pagheranno le pensioni bla bla, ma perché saranno loro a dare l’impronta al mondo che verrà, allora chi vuole dedicarsi all’educazione va aiuta-to e favorito. Una mamma che sta a casa non è certo la garanzia di niente, ognuno potrebbe citare fior di esem-pi di madri molto presenti e molto inutili quando non dannose, è vero. Anzi, se qualcuno ha la formula magi-ca per la riuscita dei figli, me la dia, per favore.

Però certo non aiuta delegare, parcheggiare, non ave-re tempo, che è invece precisamente quello che ci vuole per manifestare amore, e per insegnare ai ragazzi a ra-gionare, incuriosirli, appassionarli, accompagnarli verso un orizzonte alto. Io non so come si fa, di certo non andandosene.

Il mio sogno sarebbe di andare in pensione per un decennio adesso, e restituire all’azienda e alla società dieci anni di lavoro quando avrò sessant’anni. La prima volta che mi ricapita a tiro il ministro del Lavoro glielo propongo. Già mi figuro l’entusiasmo con cui verrà ac-colta la mia idea.

Però, mentre ora sono cronicamente sfinita e mi ad-dormento su qualsiasi superficie riesca a posare le mie stanche membra, a sessant’anni, se ci arrivo, magari sarò costretta a inventarmi qualcosa per far finta di ave-re ancora impegni. Mio marito mi prevede insopporta-bilmente iperattiva. Pensa se impazzisco e compro un camper per girare il mondo e occupare il tempo (due attività che odio entrambe sommamente) come il Jack

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Nicholson neopensionato del film più disperato del de-cennio, About Schmidt. Non sarebbe meglio averne ora, di tempo, adesso che, solo se potessi convertire in lavo-ro le ore del sonno, sarei quasi in pari con tutto quello che devo fare? Tutte le sere, da una dozzina d’anni, an-dando a dormire a notte fonda e con un mucchio di arretrati di ogni genere, panni, zaini, bollette, letture, annuncio a mio marito che l’indomani mattina mi al-zerò alle sei – traguardo al quale di solito in quel mo-mento mancano quattro ore –, andrò all’austera messa dei monaci alle sei e venti, poi proseguirò lungo le mu-ra Aureliane per una tonificante corsetta di mezz’ora. Tornerò a casa, infornerò dei cornetti, farò una doccia corroborante e poi, dopo un’occhiata ai giornali, sve-glierò tutti canticchiando «Voglio vivere così, col sole in fronte...».

Ci fossi riuscita una volta, una in dodici anni. Nella realtà generalmente mio marito mi espelle a calci dal letto quando ormai sono in ritardo anche solo per por-tare i figli a scuola puntuali, e la mia giornata parte con un handicap fisso di un’ora e mezza sul mio ruolino di marcia.

In attesa di ottenere il diritto alla pensione anticipata di una venticinquina di anni, bisogna dunque cercare di conciliare, limitando i danni, accorciando i programmi e accettando i propri ritardi. Sarà necessario cercare di non accasciarsi sulla scrivania dopo una notte passata a tenere fazzoletti bagnati su fronti febbricitanti, e biso-gnerà approntare un’espressione intelligente quando il capo ti parlerà di qualcosa che è successo la sera prima, e tutti sanno cos’è, e tutti vi alludono perché è stata l’aper tura del tg delle venti e ha dominato i talk show serali, e tu ti stai sforzando di capire se è morto Obama o la Cina ha deciso di riscuotere tutti i suoi crediti e far fallire mezzo mondo, ma brancoli nel buio, perché tu

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alle venti stavi guardando Cip & Ciop, o raccogliendo semolino sputazzato.

Eppure ogni volta che sui giornali o nei dibattiti pub-blici si parla di conciliazione si parla solo di aumentare gli asili nido, mai di politiche di vera flessibilità. Gli asili nido dove lasciare un bambino a tre mesi non sono il vero aiuto che serve a conciliare. Le vere pari opportu-nità si hanno quando a una madre è consentito di stare a casa con i bambini piccoli, non di ammazzarsi di lavo-ro dentro e fuori casa, lasciando il proprio lattante nelle mani di un’altra.

È chiaro, quindi, che la donna non può lavorare co-me l’uomo, ma deve trovare un suo modo, una sua mi-sura, un suo stile. Non è giusto che ci si costringa a sce-gliere: o accetti le regole, i tempi, i modi dei maschi, mettendo da parte tutto quello che hai a casa, o sei fuo-ri. In molti uffici, mi raccontano tante amiche, conta tantissimo la presenza. Ore e ore al computer, anche a girare completamente a caso su internet, giocare al so-litario, leggere oroscopi, telefonare a parenti lontani e amici improbabili, una trafila di pause alla macchinetta a degustare tristi bicchierini dai nomi inquietanti: be-vanda al gusto, al vago, lontano ricordo di tè. Qualsiasi cosa pur di non mollare la scrivania fino a tarda sera, di tenere i gomiti tenacemente puntati, per far vedere a tutti che si sta lì, che senza quella presenza l’azienda non può andare avanti, che si è indispensabili. Una donna che deve fare un’infinità di cose a casa tenderà, quando è possibile, a concentrare il lavoro in meno tempo, a tagliare i tempi morti, per correre a casa. Solo che, per un perverso meccanismo che la mia povera mente non riesce a penetrare, questa abilità – fare le cose in meno tempo – non viene considerata un valore, ma un limite. Se questo è il criterio di giudizio, una donna è tagliata fuori. Almeno fino a che l’organizza-

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zione del lavoro non preveda di integrare le esigenze familiari, con flessibilità, intelligenza, nell’interesse dei bambini, che tutti proclamano di voler difendere, e di cui tutti si disinteressano, costringendoci a sacrificare offerte altissime sull’altare della riuscita nel lavoro. O a rinunciare. Sarebbe un peccato perché siamo brave, abbiamo qualcosa da dare. Basta vedere la differenza tra maschi e femmine a scuola. Dal punto di vista stret-tamente scolastico non c’è partita. Le femmine sovra-stano i loro compagni, e di parecchio. Certo, il rendi-mento scolastico non significa tutto: le biografie dei geni sono piene di insegnanti ottusi che non compren-dono una qualità così sfuggevole come l’intelligenza.

Però è un fatto che dall’asilo all’università le femmi-ne sono più brave, diligenti e veloci a finire gli studi. Mi chiedo, quindi, dove avvenga il sorpasso. In quale esat-to punto tra la prima elementare e la presidenza del Fondo monetario internazionale le femmine perdano tutta la loro intelligenza, bravura, capacità di lavorare. Com’è che le maestre le trovano più brave, ma nei board degli organismi di potere non esistono? In quale punto della loro formazione l’intelligenza si offusca tanto da impedire loro di contare qualcosa nei centri di potere vero, cioè quello economico?

È ovvio che non è un problema di valore, ma di pote-re. Chi lo ottiene deve essere affidabile, deve decidere in base alle logiche interne del potere, che deve offrire ga-ranzie di automantenimento. Per questo una donna non ci arriva, perché una donna è accogliente e il co-mando ha altre logiche. Non è fatto per noi. Il potere come affermazione di sé alla maggior parte di noi non interessa.

Dare la colpa agli altri, anche se è una pratica piutto-sto diffusa, è segno di immaturità. Ed è anche noioso. Noi donne, dunque, dobbiamo uscire dalla logica della

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lamentela, e prendere atto del fatto che siamo diverse. Non è una congiura, non è l’oppressione, è che noi sia-mo fatte per un altro tipo di potere. Quando lo ottenia-mo, dovremmo usarlo come una responsabilità da ge-stire, come fa una madre: non il capo supremo che de-cide per tutti, ma una persona intelligente che capisce quello che i suoi sanno fare e dà a ognuno il suo posto.

Le donne sanno gestire le persone, le situazioni, le emergenze. I CAN MANAGE ANY CRISIS: I HAVE CHILDREN dico-no gli adesivi sulle macchinone americane a sette posti. Certo che una donna può gestire qualsiasi crisi: vede davanti, dietro, ai lati, con gli occhi, le orecchie, con le mani e il naso. Siamo capaci di stare su più fronti, di ri-solvere problemi molto velocemente al lavoro senza di-menticare quello che succede a casa. Figurati che paura ci può fare una troupe che non arriva, il pedinamento di un ministro, uno sciopero aereo. Un solo problema alla volta non è niente. Sopportiamo la fatica e il dolore me-glio degli uomini, come può testimoniare chiunque ab-bia avuto in casa un uomo con la febbre, che a trentaset-te e mezzo comincia a dettare le sue ultime volontà.

Eppure non siamo fatte per il potere. E le donne che arrivano a ottenerlo spesso sono arrabbiate, perché stan-no tradendo la propria natura, insicure e quindi violente. E se rinnegano da una parte la propria profonda femmi-nilità – la dolcezza, l’apertura – dall’altra la ritirano fuo-ri incarnandone i più deteriori stereotipi. Possono di-ventare isteriche, uterine, passionali, e capaci di cattive-rie che un uomo non si sognerebbe.

È questo il dubbio che ci attanaglia, senza che riu-sciamo ad arrivare a un documento condiviso – troppo brevi le pause caffè, o le telefonate durante la cottura del petto di pollo panato, cavallo di battaglia della madre lavoratrice –: diventano cattive quando arrivano al pote-re, o ci arrivano perché sono cattive da prima?

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Tre anni dopo...

Cristiana ha lasciato il posto di ricercatrice all’università quando si è accorta di guadagnare un po’ meno della sua colf, che stava da lei le cinque ore al giorno necessa-rie per tenere la bambina mentre lei era all’università. Il resto del lavoro Cristiana lo faceva di notte, quando la sua colf presumibilmente poteva concedersi il lusso di dormire. Alla settantaduesima persona che le ha detto «Ma è un investimento per il futuro» ha sferrato un de-stro sullo sterno, e ha deciso di mollare. Come investi-mento effettivamente prometteva malissimo. Dopo un po’ i rinnovi di contratto sarebbero finiti, e alla cattedra non sarebbe mai arrivata: le sue due concorrenti più di-rette erano entrambe senza figli. Per loro era un piacere prendere l’aperitivo col prof. alle sette di sera – l’ora sa-cra al bastoncino di pesce, divinità della madre lavora-trice –, o accompagnarlo al convegno: niente di losco, per carità, tutto legittimo, ma non c’era storia nella competizione con Cristiana, per la quale era impensabi-le mostrare entusiasmo per la ricerca del Mit a sera inol-trata, nell’ora in cui noi mamme lottiamo contro il son-no sedute su una seggiolina rosa alta venticinque centi-metri leggendo La sirenetta, tentate di dire che la stolta creatura pinnata nella storia di Andersen si suicida, e quindi basta, non si legge più, è morta, spegniamo la luce e rassegnati che la tua vita non è Disney e quindi dormi che domani devi ricominciare a lottare.

Adesso Cristiana collabora, ovviamente con un con-tratto a termine, con un’università telematica, e quindi fa una buona parte del lavoro da casa, va in sede solo per registrare le lezioni e per gli esami, per il resto si organizza da sola il suo tempo come può, cioè male. Per molte donne chiedere l’aiuto che serve, concedersi tem-po, anche se serve per lavorare, è difficilissimo, e il fatto

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che in questo momento, mentre sto scrivendo, siano le quattro di notte mi dice qualcosa in merito.

Se penso a dieci amiche significative, mi accorgo che ognuna di loro ha trovato una sua personalissima via per conciliare: chi ha chiesto un part-time verticale, chi ha lasciato il lavoro, chi continua a pieno ritmo dopo avere arruolato una tata e tre nonni abili al servizio sul campo, chi se la cava solo mandando i figli al tempo pieno, ma si sveglia alle cinque per finire di stirare, e se la incontri e tenti di salutarla guarda sempre un punto fisso dietro di te (è il suo prossimo punto nella lista e, se una volta la troverò stecchita all’uscita del catechismo, saprò che avrei dovuto fermarla), chi fa un altro lavoro, chi lo fa da casa. Tutte fanno una gran fatica a tenere insieme tutto, o, almeno, anche quando da un punto di vista pratico hanno trovato un equilibrio decente, impa-rano a convivere con quella sottile sensazione di ritardo perenne, a implorare la segretaria del liceo di aspettare un altro giorno per la consegna del diploma delle me-die, a supplicare la signora delle visite intramoenia di trovare un buco per il controllo dermatologico, a tolle-rare su di sé sguardi di riprovazione perché si è in ritar-do di sette mesi per il suddetto controllo, a fingere di sapere benissimo che c’è una supplente di matematica da venti giorni. E si tratta solo delle cose che si finge di sapere nella versione mamma, perché anche da lavora-trici bisognerà simulare complicità con i colleghi che nominano la notizia del mese, l’importante riunione, la stravolgente novità, la chiacchiera da corri doio, e noi non le abbiamo mai sentite neanche di striscio (ma ba-sterà alludervi con fare cospiratorio e consapevole).

Non è un complotto dei maschi, è così, non riuscia-mo a gestire tutto come vorremmo, e d’altra parte sem-pre di meno sono quelle che hanno il privilegio di sce-gliere: chi ha un lavoro il più delle volte se lo tiene stret-

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to. La risposta? Prova pure a dare la tua, ma sappi che è sbagliata, perché fondamentalmente non c’è. Non c’è una formula per far funzionare tutto alla perfezione (ec-co l’insidiosa parola nemica delle donne...).

Io propongo, però, di stringere patti di sangue con amiche in necessità, e formare una ferrea rete di sicurez-za alla quale appoggiarsi: sono in ritardo con la conse-gna, mi tieni tre figli per due pomeriggi, io tengo la tua la settimana del trasloco, all’uscita da scuola ci sono io, non c’è bisogno che tu tenga un fucile a canne mozze sotto il sedile di dietro per metterti a sparare come in Un giorno di ordinaria follia se la tangenziale è intasata, se tardi tuo figlio non rimarrà da solo sui gradini della scuola come Remy o Anna dai capelli rossi. Un plotone di mamme di riserva lo salverà, perché, se ognuna di noi si clona sette, otto volte, allora sì che ce la possiamo fare.

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Cara Marta, prima non sono riuscita a chiamarti, adesso è notte

fonda e non mi sembra il caso. Buon per te, visto che rientri nel mio parco amiche di emergenza, quelle da ammorbare al l’oc cor renza.

D’altra parte, sconti così il fatto di essere più grande, molto più saggia e infinitamente più equilibrata di me, e di possedere le doti della lungimiranza e del buonsenso, a me totalmente sconosciuto.

I tuoi figli sono più grandi dei miei, vedi i problemi dalla giusta distanza, e poi il dolore che hai affrontato, accettato nella vita, ti ha reso buona, e mite, e così ripo-sante. Perciò, come se non bastasse, ti becchi le mie ri-chieste di aiuto, mi autorizza anche Virgilio: non ignara mali, miseris succurrere discis.

Prima, se avessi potuto, ti avrei inflitto una telefonata. Una di quelle in cui si fa il tagliando, il bilancio periodico.

Mio marito dice che dovrei capire che “Come stai?” nel l’idio ma italiano è una formula convenzionale, di cortesia. Se qualcuno ti rivolge la domanda, che è un intercalare – puntualizza quell’orso del mio consorte –, non è detto che abbia veramente la profonda curiosità di sapere a che punto sia la tua parabola esistenziale. Non è che l’incauto conversatore voglia davvero che tu

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Marta ovvero

Siamo più grossi di voi e questa è casa nostra

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gli squaderni davanti gli ultimi volumi dei tuoi diari, conservati per l’uopo dalla terza media a oggi.

Io gli rispondo che non mi spiego, per opposto, come si possa convivere giorno e notte con dei colleghi di tra-sferta grugnendo solo sparute informazioni di base strettamente necessarie alla sopravvivenza, cioè le ulti-me sul calcio mercato e l’indirizzo del ristorante dove cenare. Gli uomini riescono a stare una settimana insie-me in Malesia, e poi al ritorno non avere informazioni basilari da riferire a casa. Come sta il tuo collega? È feli-ce? È innamorato? Si sposano? Che ne so, non gliel’ho chiesto. Una afasia sui fondamentali incomprensibile per me, per molte di noi, credo, che tendiamo a improv-visare sedute di condivisione anche in fila per l’altalena al parco. Si va dritte all’essenziale.

Se ti avessi chiamata, al tuo “Come stai?”, scattante coma una faina avrei cominciato a snocciolarti tutti i miei più recenti dubbi sull’educazione, io che sul tema sto maturando la convinzione di essere campionessa mondiale di sbaglio con l’asta. Prendo la mira, la rincor-sa, e vado. Sempre più in alto. Eppure ci penso, ci ragio-no. Mi preparo. Questa volta non lo devo fare, questa volta le so tutte. E via, un altro errore.

L’importante, mi consolo, è non essere campioni di sbaglio in lungo. Non perseverare, diabolicamente. Cor-reggersi, chiedere anche scusa in certi casi, e soprattutto confidare in Colui che quei figli ce li ha affidati, credendo in noi più di quanto noi crediamo in Lui, e spesso anche più di quanto noi crediamo in noi stessi.

Stasera, però, niente telefono. Urgeva un corso acce-lerato di recupero di (sub)cultura contemporanea: ab-biamo guardato un po’ di televisione insieme.

Ci siamo imbattuti in una fiction italiana, quelle con i personaggi finemente cesellati con l’accetta: il burbero dal cuore d’oro, il cattivaccio, la sciacquetta; girata e mon-

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tata più o meno con il guizzo e la personalità di un filmi-no della comunione. A onore dei dirigenti di rete che avranno investito fior di quattrini, devo dire che ai miei figli è piaciuta anche abbastanza: era perfetta per dei bambini delle elementari che, come è noto, amano capire velocemente qual è il buono e per chi si deve tifare.

Ho deciso di far vedere ai grandi un po’ di tv perché ieri avevo a casa due amichetti di mio figlio, il taciturno filosofo di otto anni. Stavano in giardino, o meglio in quello spazio che tu non hai ancora visto, ma che fati-cheresti, tu come me, a chiamare giardino, noi che sia-mo umbre e abbiamo nello sguardo le colline sullo sfondo delle Madonne del Perugino. Qui, invece, da dietro l’edera si intravedono macchine e motorini puz-zolenti e rumorosi. Uno spazio che però, nel cuore di Roma, quartiere San Giovanni, è davvero prezioso, e infatti è un’ambita meta per gli amici dei figli.

Qui, fra l’altro, godono di un po’ di immunità dagli adulti, visto che preferisco lasciarli da soli, seguendo la tua linea dall’elevato potere ansiolitico: affettuosa tra-scuratezza. Intervengo solo quando vedo zampilli di sangue o pezzi di arti divelti.

Ogni tanto c’è un uso improprio delle pistole ad ac-qua, e scambi di battute non esattamente da Accademia della Crusca con i bambini dei balconi circostanti, defi-niti elegantemente “gli scemi del secondo piano”, ma faccio finta di niente, memore dei nostri giochi di infan-zia in cui senza la mediazione dei genitori si imparava un po’ a vivere. Insomma, proprio in uno di questi mo-menti di autogestione la cricca degli amichetti ha ab-bordato una signora che passava fuori, dietro la siepe. «Come ti chiami?» «Barbara.» «Lo sai che io sono figlio di uno famoso? Sono figlio di Massimo Boldi» ha detto il nostro ospite, che voleva fare colpo sulla signora. «E io di Christian De Sica» ha incalzato l’altro. Il mio Bernar-

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do però non riusciva a farsi venire in mente nessun per-sonaggio “famoso” con cui stupire la passante. «Io sono figlio di Lillo» è stato l’unico che ha reperito nella sua memoria.

Ogni tanto, infatti, ascoltiamo alla radio Sei uno zero, il programma di Lillo e Greg. Il beniamino dei bambini è NormalMan, un uomo ignavo, maleducato e pauroso che talora acquista dei superpoteri e diventa normale. Così riesce a compiere imprese di ordinaria – e introva-bile – buona educazione, quali aiutare una vecchietta a portare la spesa.

Purtroppo quasi tutti i personaggi famosi in casa no-stra sono deceduti da tempo: Charlie Chaplin, i fratelli Marx; anche Huckleberry Finn non gode di ottima salute.

È colpa nostra, temo. Il grande vuole fondare i Thirty too late, un gruppo musicale per chi è nato con trent’an-ni di ritardo. È un ragazzetto diversamente sveglio, cre-sciuto a Peanuts, Bruno Bozzetto e Giornalino di Gian Burrasca. Per rendere l’idea, “Per favore mi dai l’acqua?” nel suo linguaggio si dice: «Ho bisogno di birra e infor-mazioni fresche». “Vado in bagno”: «Sono in riunione nella sala ovale», e quando si parte per un viaggio, dopo la preghiera, la formula di rito è: «Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio e portiamo tutti e sei gli occhiali da sole. Vai!».

Oggi per la prima volta mi sono sentita in colpa per avere tenuto i figli così fuori dai riferimenti comuni. E questo è uno dei dubbi educativi che mi ha colto da quando sono la madre di un preadolescente.

Quanto bisogna stare nel mondo per essere nel mondo ma non del mondo? E, molto più modestamen-te, c’è qualcosa di guardabile in televisione? È sufficien-te vedere buoni film per non essere disadattati? So che anche tu non sei della linea dei genitori bio che prendo-no a randellate qualsiasi schermo si interponga tra il lo-

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ro virgulto e la sua quotidiana dose di giochi in materia-li riciclati politicamente corretti.

D’altra parte, il cinema è pur sempre l’unica forma d’arte nata nel Novecento, e anche se con juicio (sull’ap-porto artistico del film di Hulk nutro qualche dubbio) direi: adelante.

Non è necessariamente sintomo di grande intelli-genza fare come me, che quando mi sono fidanzata avevo visto due film in tutto, Cenerentola e Harry, ti pre-sento Sally, a meno che non valga il fatto che uno l’avevo visionato – con religioso trasporto – venticinque volte.

Per nemesi ho sposato un montatore. Lui i primi tempi ha tentato di farmi dei corsi di recupero. Mi dava le videocassette, tempi lontani, e mi telefonava a casa. «Stai vedendo Bergman?» «Sì, certo.» «E cos’è questo rumore d’acqua?» «Sto lavando i piatti.» «Non si può!» mi urlava nelle orecchie. «Non puoi vedere Kubrick, Bergman, ma neanche Billy Wilder, neanche Cameron Crowe, lavando i piatti!» Confesso che continuo a tro-vare l’operazione fattibilissima, anche perché di solito se mi siedo dormo.

Nella giornata di un genitore, come sai molto meglio di me, c’è una serie infinita di decisioni da prendere, sul-le quali è bene avere una posizione ragionata e chiara da prima che l’emergenza si presenti, così quando vieni sommersa da un fuoco di fila di “Posso avere?” (cara-melle, gelati, patatine, mai bieta ripassata, è chiaro) e “Posso fare?” (giocare alla Play, tuffarmi dal tavolo, mai i compiti, è ovvio) sai bene cosa rispondere. E bisogna ostentare sicurezza – sì, si fa il bagno, perché sì – piutto-sto che spiegare (la descrizione delle meraviglie di una perfetta igiene impressiona pochissimo i minorenni).

Esattamente come non si può fare la lista della spesa quando si è già nel negozio, tanto meno nell’esecrabile centro commerciale. Bisogna essere saldi, fermi anche se

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flessibili, e presenti a se stessi, come sanno bene i miei figli che mi espongono le loro richieste sempre quando impugno il telefono, e quindi ho la guardia abbassata.

Certi bracci di ferro io e il padre li abbiamo stroncati sul nascere, mettendo dei giorni stabiliti per giocare alla Playstation. Si può fare due volte alla settimana, gli altri giorni è inutile chiedere, inutile provare ad approfittare di livelli di coscienza inferiori.

Ma le decisioni da prendere si annidano dietro ogni angolo, a qualsiasi età. Si comincia da subito: come ad-dormentare, quanto tenere in braccio, quando consen-tire l’approdo al lettone, come togliere pannolino, ciuc-cio, biberon...

Indovinare il punto di equilibrio tra fermezza e dol-cezza, tra regola generale e situazione particolare a vol-te sembra un’impresa.

I compiti, per esempio, nostra croce quotidiana: sei peggio della maestra, mi dicono i figli, che cercano co-stantemente il minimo risultato col minimo sforzo, non so se ispirandosi all’ascetico Ne quid nimis adottato da san Benedetto per la sua Regola, o, più probabilmente, all’inno dell’orso Baloo del Libro della giungla: lo stretto indispensabile. E allora, con tutto il rispetto per il mo-nachesimo occidentale, via a strappare fogli, far ripetere all’infinito guerre o tabelline.

Se l’educazione è un viaggio verso l’autonomia, è meglio lasciar fare o legarli alla sedia? Lo so che per Al-fieri ha funzionato perché lui era volontario, ma qualco-sa bisognerà pur fare per questi ragazzi sveglissimi, ma poco abituati a sudare sulle carte, bombardati dalle im-magini e di certo non aiutati da una scuola che pensa che insegnare a leggere, scrivere e far di conto sia trop-po poco. E invece di sommergere gli alunni superstimo-lati e incapaci di concentrarsi sotto ore e ore di analisi grammaticale, logica e del periodo, si sente in dovere, a

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dispetto di alcune maestre brave e piene di voglia di la-vorare, di proporre corsi di ballo, cricket e “sapori” (sic).

E ancora, nel paese dell’assenza delle regole, in que-sto clima da ultimi giorni in cui chiunque arraffa ciò che può, del comodo proprio e della corruzione come stile di vita, nella difesa endemica del proprio particulare, non ti viene mai la tentazione di raccontare un po’ ai figli come stanno le cose?

Così, giusto perché imparino sì a rispettare con stile cristallino le regole, ma anche un po’ a difendersi. Noi sappiamo a Chi risponderemo, e non dobbiamo avere paura di niente, mi dico. Però, va bene puri come le co-lombe ma anche prudenti come i serpenti. Come si fa a passare dalla lettura di Milo va all’asilo a quella dei quo-tidiani? In più noi viviamo nel luogo summa dello spiri-to nazionale, Roma, la capitale del disordine e della bel-lezza, dove nel giro di pochi metri il sublime e lo squal-lido si affiancano apparentemente ignorandosi, dove convivono gomito a gomito uomini generosi e maledu-cati inenarrabili, i signori del bar che scavalcano la rete per recuperare l’amato pallone di cuoio di tuo figlio e il primate che parcheggia sul passaggio per disabili e ti impedisce di uscire dal marciapiede col passeggino.

Tu che fai, insegni ai tuoi figli a essere ostinatamente ligi, a fare sei volte il giro dell’isolato per cercare parcheg-gio, o a lasciare la macchina con disinvoltura in doppia fila, adottando la spiegazione della romana media, “C’ho ’r pupo”? Anch’io tengo famiglia, ma non ce la faccio, neanche quando i figli sono tutti e quattro con me, ne-anche quando piove.

E poi, tra i molti altri con cui ti tedierò nelle telefona-te dei prossimi, a occhio e croce, quindici anni, il dubbio dei dubbi.

Come si fa a educare alla fede? Come si testimonia quella che noi sappiamo la verità unica, nel rispetto della

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libertà che i figli crescendo giustamente reclamano? Ho ascoltato, da amiche e conoscenti, una gamma di espe-rienze che copre tutto lo spettro, da chi costringe al rosa-rio quotidiano a chi lascia completamente liberi i figli, sul tema della fede: «Farà la comunione quando vorrà...».

Credo di avere sbagliato qualcosa, ti ho detto una volta tanti anni fa, quando il primo bambino era piccolo e la trafila degli errori era ancora di là da crescere in modo esponenziale con il passare degli anni e l’aumen-tare del numero dei figli. Meno male, mi hai risposto, pensa che sciagura una madre perfetta.

Molto bene. Da questo rischio i miei figli sono im-muni. E a quella tua risposta mi sono aggrappata molte volte, quando per stanchezza, distrazione, incapacità di valutare ho sgridato il figlio sbagliato, mi sono arrab-biata troppo – sulla calligrafia forse potrei anche so-prassedere ogni tanto, visto, per esempio, che il più geniale dei miei amici scrive in cuneiforme – o troppo poco – con me basta simulare un mal di testa e mi sciol-go come un budino: «Devo essere paziente, forse è l’ul-tima volta che lo abbraccio» mi sdilinquisco mentre il malato immaginario languisce sul divano con Asterix, accantonati i compiti.

Ma i figli sono molto più resistenti agli errori di quel-lo che noi crediamo. Quando sono sicuri di essere ama-ti, e quando i genitori sanno più o meno chi sono e quello che fanno, agli errori si può sempre rimediare.

La Buona Notizia, infatti, non parla certo della nostra perfezione, ma dell’onnipotenza di Qualcun altro, il To-do Poderoso, come ti piaceva chiamarlo quando sei tor-nata tutta entusiasta dal Cammino di Santiago. Forse è meglio che ne parli qualche volta in più con Lui, e chia-mi un po’ di meno te, che ne dici?

Ti abbraccio, con riconoscenza, C.

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L’uomo è una creatura prodigiosa. Metterne al mondo – o adottarne – nuovi esemplari e tirarli su è un’opera strepitosa, che godrà sempre dell’appoggio del Princi-pale. Questo ci dà l’audacia di tentare l’intrapresa, il co-raggio di andare avanti, e la certezza di riuscire.

L’uomo non può che essere una creatura speciale. La voce di Dave Matthews è una delle prove dell’esistenza di Dio, come lo è la scrittura di Philip Roth, chi altri po-trebbe averli inventati?

Ma persino le persone che conosco, incredibile dictu, mi fanno – va be’, a momenti, mica sempre – lo stesso effetto. E se sono d’accordo con Franco Basaglia, che visto da vicino nessuno è normale, penso anche che vi-sto da vicino ognuno ha qualcosa di prezioso. L’essere umano è cosa buona. Mi piacciono anche i passanti, fi-guriamoci come trovo belli, e buoni, e tutti gli altri ag-gettivi positivi messi in fila, i miei figli.

Chi lavora a favore della vita, quindi i genitori prima di tutto, lavora dalla parte giusta. Che la forza sia con te, ci direbbero Obi-Wan e Yoda.

Poi c’è il peccato originale. La tendenza verso il male che la cultura dominante pensa si possa imbrigliare con i buoni principi e i buoni sentimenti, ma che invece è potentissima e a volte violenta dentro di noi. Noi cre-diamo che ci è stato dato il potere di vincerlo, ma tutta la vita è una lotta.

Ecco, così. Semplice. Le cose non sono molto complicate. La verità è sem-

plice come la struttura del Dna, un’elica che costruisce la realtà in tutte le sue forme; come la fotosintesi clorofillia-na, un meccanismo così semplice che anche un bambino delle elementari capisce, ma che fa vivere il mondo.

È sufficiente che chi educa, oltre ad amare – amare con tutte le forze, ma questo lo diamo per scontato –, tenga a mente queste poche cose. E che si chieda, si ri-

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cordi da che parte è diretto quel piccolo che ha contri-buito a mettere al mondo.

È questa la domanda che precede tutte le altre. A partire dalla prima risposta discendono con ordine tutte le altre.

Per esempio, diventa chiaro che, se l’educazione è il percorso verso la maturità, diviene fondamentale inse-gnare a posticipare la gratificazione, e a farlo da soli, e a spostare il principio del piacere su un bene più grande. E con questo per me il capitolo si potrebbe chiudere. C’è da ragionarci per una settimana.

Io personalmente ci ragiono da più di una dozzina d’anni, e la trovo un’impresa faticosa. Faticoso farlo per prima, quando vorrei solo sprofondare in un piumone con un libro; faticoso insegnarlo; faticoso motivarlo a dei bambini che, come è evidente, sono totalmente do-minati dalla legge del piacere, del tutto e subito. Fatico-so comunicare l’amore strappaviscere e torcicuore che proviamo per i piccoli, senza togliere loro quello straccio di guida che si aspettano da noi.

Poi, crescendo (ma quando crescono tutti quei cin-quantenni a cui sto pensando?), si impara a mettere una croce sopra alcuni dei propri desideri, da vagliare con intelligenza, senso della realtà. O almeno si dovrebbe. Il condizionale è d’obbligo, da quando l’analisi ha sdoga-nato l’inconscio, conferendogli il diritto di essere asse-condato.

Un discorso a parte, questo, e impervio per me, che non ho nessuna competenza specifica, a meno che non esista una laurea specialistica in osservazione empirica dei propri simili.

Ma, quanto ai bambini, dubbi non ce ne sono. Da piccoli sono egoisti, adorabili ma egoisti, irresistibili ma tiranni, e il nostro compito è amarli a oltranza fino a che in loro si risvegli l’amore.

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«La mamma è come un albero grande, che tutti i suoi frutti ti dà, per quanti gliene domandi sempre uno ne troverà» recitava l’ardita lirica attaccata alla tavoletta af-frescata ricevuta per l’ultima festa della mamma. Chi di noi genitori non ha ricevuto almeno un prestigioso la-voretto dell’asilo – cravatte di carta, portapenne, manu-fatti per lo più ripugnanti che vanno rigorosamente conservati e, quel che è peggio, esposti – che inneggia alla nostra eroica abnegazione genitoriale?

Guardiamoci dritti negli occhi e ammettiamolo: è tutta farina del sacco delle maestre. I figli, in realtà, nean che si accorgono, come è giusto che sia, di quello che facciamo. Come, per esempio, quando noi siamo impegnati in qualcosa, loro non si sognano neanche di chiedere se ci possono interrompere, perché per loro noi esistiamo in funzione loro. Basta saperlo. Così non ci si chiede dove si sia sbagliato, per aver prodotto un simile mostro, quando una ha la febbre a trentanove e mezzo e prepara la cena cercando di non svenire sul pesce infarinato, e il pargolo le chiede di indossare la tenuta da Darth Vader perché bisogna inscenare il dramma finale con Skywalker e non si trova chi faccia il cattivo. I figli preferiscono non contemplare che la mamma possa avere la necessità di telefonare, di andare in bagno, non parliamo di mangiare; una madre è una protuberanza del loro corpo per la quale non si preve-dono esigenze autonome.

Eppure, anche quando sembra un’impresa disperata, bisogna avere il coraggio di pretendere dai bambini. Amare sono le radici dell’educazione ma dolce ne è il frutto (era Aristotele, non è mio questo tono sentenzio-so). Il coraggio di pretendere sembra diventato inconce-pibile. Non so per quale intreccio di motivi culturali la scontentezza dei bambini ci è diventata intollerabile, ed eliminarla dal loro orizzonte sembra una priorità. Qual-

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siasi tipo di “sofferenza”, anche quella sana, anche la frustrazione di ricevere dei no.

Invece i no, se detti con un certo disegno, una logica (sì, lo so, caro marito, che quando sono stanca i no e i sì li dico a caso, hai ragione), rassicurano i figli. Li fanno stare bene. Dopo il capriccio, se non hanno ottenuto quello che irragionevolmente volevano, in realtà si sen-tono in una botte di ferro. I miei genitori sanno il fatto loro – pensano –, sanno quello che dicono. Questo mon-do, sconosciuto e nuovo, ha una logica, ha un senso.

Non è il caos. I bambini all’inizio della loro esistenza cercano limiti e riferimenti certi come un cieco cerca un muro: vivendo nel buio totale – spiegava la psichiatra Giuliana Ukmar – per loro è molto più spaventoso tro-vare il nulla che trovare un muro. L’ignoto fa più paura.

E così, anche quando preferiremmo un milione di volte essere noi a pagare il prezzo, dobbiamo imparare ad accettare dolorosamente anche la sofferenza di no-stro figlio. Non la si può togliere dall’orizzonte dell’in-fanzia, questa è la realtà. La sofferenza non ce la cer-chiamo, è ovvio, però neanche la possiamo occultare. E qui può cominciare a scorrere il rullo dei sottotitoli: l’au-tore di tali affermazioni è molto preparato sulla teoria ma ha qualche difficoltà con l’aspetto pratico della cosa.

Devo nominare la mia amica Marta ministro per l’Attuazione del programma.

Di certo so persino io che i bambini non possono vi-vere in un mondo Disney, in un mondo parco dei diver-timenti, perché quella non è la realtà. La sofferenza a un certo punto arriverà e ci devi stare anche tu, figlio mio, sapendo che non finisce lì.

Adesso, invece, anche le favole sono epurate, edul-corate. Anche i classici. Per non turbare la serenità dei bambini alla fine il lupo e il cacciatore fanno la pace. Davvero, lo assicuro, mi sono trovata tra le mani un li-

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bro di favole recante la versione animalista e buonista: anche il lupo in fondo è buono. Ho anche assistito a una conversazione tra nonni al parco, inorriditi perché in tutte le storie destinate alle nipotine c’era sempre un cattivo, un drago, un pericolo che poteva turbarle.

A parte che mi chiedevo come potessero avere di-menticato tutte le streghe e i diavoli che popolavano i racconti tradizionali italiani, che nutrivano la fantasia dei bambini prima di Winnie the Pooh, mi sembrava chiaro che la paura nelle favole – il lupo che mangia, il drago che uccide – ha un valore apotropaico: i bambini si tranquillizzano a sentire tradotte in parole le loro paure segrete, prima di tutto la morte, la malattia che contraiamo alla nascita.

Sono piccoli ma non sono scemi, lo sanno, lo intui-scono, in qualche modo confuso, che il mondo non è tutto rosa, e il fatto di negare, quasi di nascondere, li spaventa ancora di più. Chissà cosa nasconde l’ignoto. Mille volte meglio dire: la sofferenza c’è, ma noi ci fidia-mo di vivere.

L’emergenza educativa viene dal fatto che non si sa perché si educa. A cosa si educa, se neanche i genitori sanno perché vivono e dove vanno? Se si toglie il timor di Dio, come si fa a educare? Se si toglie l’idea del pec-cato originale e del bisogno di salvarsi, che cosa vuol dire educare? Se togli inferno e paradiso – considerati ridicola roba da donnicciuole da tutti gli intellettuali, a parte Camillo Langone –, perché dovresti conquistarti l’eternità, per rimanere una particella che si libra con-tenta, secondo le nuove voghe teologiche?

Allora si coltiva una vaga idea di bontà, che ognuno deve cercare di realizzare nella libertà, che per carità non si tolga la libertà ai bambini, valore supremo, la ca-pacità di valutare.

Che dici, bimbo mio, che mangiamo stasera a cena?

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Che vuoi fare? Dove vuoi andare? Andiamo a casa, che è ora? E parte la contrattazione, il braccio di ferro, che fra l’altro rende i bambini insopportabili, estenuanti. Ci mettono alla prova per vedere fino a che punto possono arrivare, mentre in realtà ci stanno chiedendo segreta-mente di fermarli in qualche modo, di mettere il muro.

Le ho fatte anch’io, queste contrattazioni, ma quan-do mi ha beccato Marta me ne ha dette quattro (adesso sarebbe il momento di elencare i miei errori, ma perché esporsi al pubblico ludibrio?). Forse sbagliamo un po’ tutti allo stesso modo, noi genitori recenti, inesperti, e a volte travolti da un’impresa che la nostra generazione, per la prima volta, vive come una scelta e non come una tappa naturale, quasi ineluttabile. È tutto da reinventa-re, con fatica, e con pochi punti fermi sopra la testa, per puntare la bussola.

Eppure così i bambini soffrono, dover scegliere quan-do si è piccoli è una responsabilità troppo grande, pa-ralizza.

Rischiamo di essere genitori che producono una ge-nerazione senza futuro, senza senso, senza una meta. A scuola dalle poesie per Natale e Pasqua sono stati tolti riferimenti alla nostra fede per non offendere le sensibi-lità di nessuno. Ma Natale e Pasqua di chi, scusate? To-gliamoli, allora. Festeggiamo Halloween.

Una melassa ecologica biologica in cui dovresti im-parare a voler bene – come se questo fosse un senti-mento naturale – a tutti, uomini e animali sullo stesso piano, animali anche più in alto a volte.

Per chi non crede in nulla, poiché la sofferenza non ha più nessun senso, non è redenta, non porta frutto, bisogna evitarla ai bambini a tutti i costi. Nessuna fru-strazione, nessun dispiacere.

Diventa un totem anche la salute fisica cercata all’estre-mo, in un’ansia di controllo. Per cui scuola steineriana,

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omeopatia, cibo biologico, sguardi spregiativi per le mamme convenzionali che usano l’antibiotico, e poi co-tone organico, rimedi sani e naturali, pomeriggi in mac-china per andare a reperire bieta incontaminata.

Spezziamo alfine una lancia per questi poveri ragazzi che non è sempre facile capire fino in fondo. Non sono in grado le maestre, non siamo in grado noi. Una gene-razione sottoposta a un’infinità di stimoli – troppi sti-moli, per quanto si cerchi di filtrarli –, che non è in gra-do di gestire tutto, non ne ha neanche il tempo. Troppi gli impegni, le sollecitazioni. Troppo poco il tempo per consolidare. Siamo misericordiosi con loro, dunque, e anche con noi stessi, genitori pionieri.

Tre anni dopo...

A dire la verità la lettera per Marta era in realtà diretta a me stessa: lei è una di quelle a cui i consigli li chiedo, e mai mi sognerei di darglieli. Quindi il “come è andata a finire” dovrebbe riguardare la mia, di prole, ed è un peccato che io mi faccia questa domanda proprio oggi che ho dovuto chiamare una squadra di decontamina-zione che mi aprisse un varco tra i rifiuti organici in ca-mera dei maschi, e mentre partivo con la relativa predi-ca – le solite cose, qualche leggera esagerazione tipo “Ai miei tempi andavo a prendere l’acqua con le broc-che, e le portavo a casa mettendole sulla testa” – i due si sono guardati e si sono chiesti «Ma secondo te perché il babbo vive con questa signora, e non con una più gio-vane e carina?».

Comunque, per la cronaca, i tre figli di Marta stan-no benissimo, e sono l’incarnazione di come io vorrei i miei. Educati, silenziosi, obbedienti, gentili, bravi. Io spe-

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ro che tra le pareti di casa tirino fuori qualcosa di peg-gio, sennò il confronto – sì, lo so, non si fanno confron-ti, ma fare a gara di figli è lo sport preferito delle mam-me – per me sarebbe davvero demoralizzante.

Eppure, e devo sempre alla saggezza di Marta questa convinzione, a noi sembra sempre che i figli degli altri siano migliori dei nostri, che abbiano tutto quello che noi vorremmo per i nostri. Va be’, è normale. Uno inse-gna quello che è, e sa che quello che gli manca non lo ha potuto trasmettere. Nessuno può insegnare tutto ai pro-pri figli. Avrei mai potuto averne di posati ed equilibrati, io che sono matta come una giraffa (e ho anche sposato un orso, che strano incrocio)? Avremmo mai potuto ave-re figli che tengono un contegno, noi che neanche il tas-sista la sera del matrimonio credeva che fossimo sposati (sono andata al cinema col velo)? D’altra parte, ci saran-no delle cose, moltissime, che i miei figli impareranno in altri modi, per altre vie, da altre persone (chi ti dice che non ce ne sarà uno che capirà la chimica come la mia compagna di banco, per dire. Scherzi del destino...).

Io credo che il punto della nostra vita di genitori, del-la mia di madre adesso sia proprio questo. È quello di ognuna quando deve passare dalla fusione totale con la creaturina rosa e totalmente dipendente, sulla quale si possono proiettare tutte le aspettative – tanto chi potrà mai contraddirti se vuoi pensare che tuo figlio sarà un nuovo Tolstoj solo perché ha composto la parola P I N O con i cubi di gomma –, alla fase in cui i figli si prendono la giusta distanza, non sono più nostri satelliti, non gi-rano intorno a noi, diventano grandi, e non sempre so-no come li vorremmo. Il punto è che non siamo noi a dover scegliere come saranno. Bisogna correre il rischio che non siano come li avevamo progettati, che brutta parola, sapendo che magari saranno migliori. Avere pa-zienza, rispettare i tempi, accettare, permettere che sia-

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no anche brutti sporchi cattivi, all’occorrenza, perché comunque saranno nostri figli sempre.

Don Giussani diceva che l’adolescenza dei figli è la prova più grande per una coppia. Be’, se c’è da scendere in trincea ci scenderemo (promemoria: fare scorta di crema Eight Hour contro le intemperie, Coca light per le notti di veglia e molto deodorante: le camere degli ado-lescenti puzzano, le scarpe da ginnastica anche denu-clearizzate mantengono una muffa perenne): verremo considerati antichi come i Pooh e inutili come un gior-nale di carta – loro si aggiornano su qualche strana app, figurati – ma noi non ci abbatteremo. (Conversazione tra un figlio e un amico: «In che anno c’è stato l’incen-dio della Sindone?» «Non ne sono sicuro, chiediamo alla tua mamma.» «Ma figurati, quella è vecchia, avrà avuto quarant’anni già all’epoca.»)

Verremo criticati, ma non ci divideremo, perché il ri-spetto che cercheremo di custodire l’uno per l’altra sarà più potente ed eloquente di mille prediche. Sapremo sorridere della tempesta in cui ci troviamo, perché noi cristiani siamo come in un film americano, che deve fi-nire bene per forza: se abbiamo il cuore in pace con Dio, tutto il resto lo consegniamo a lui fiduciosi.

Ci ricorderemo, dunque, anche nel pieno della tem-pesta, di saltare alla corda, ridere, portare la torta alla vicina, cantare sotto la doccia, rivedere Il grande Le-bowski, mettere delle scarpe verde bottiglia col tacco e un po’ di profumo prima di andare a dormire, perché comunque la tempesta passerà.

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Siccome probabilmente non scriverò più niente che sia degno di pubblicazione, a meno che non ci sia un mercato per Post-it di servizio, appunti per la nuova maestra (per quanto, ci vuole un certo stile per scrivere un biglietto a qualcuno di cui non si ricorda il nome) e liste della spesa per mariti (anche questa è comunque un’arte: bisogna mettere l’ingrediente fondamentale in posizione strategica affinché sfugga alla scure del de-pennamento), ho pensato di raccogliere qui qualche ringraziamento. Anche per evitarmi un sacco di telefo-nate, alcune, come quella a santa Teresina, direi tecni-camente un po’ laboriose.

Grazie a Dio, per tutto quello di cui so di dover rin-graziare, e anche per quello che neppure capisco. Sicco-me in paradiso si entra solo per raccomandazione, non certo per meriti, Maria, mettici tu una parola buona.

Grazie ai due Papi della mia vita, che ci assicurano che quello in cui crediamo non è un parto della nostra fantasia. A Giovanni Paolo II, che sulla donna e la vita ha detto parole definitive. Al grande Benedetto XVI, che sopporta per noi un martirio mediatico senza prece-denti.

Grazie alla Chiesa, di cui sono orgogliosamente par-te, che nei secoli ha accolto i migliori cervelli in circola-

Ringraziamenti

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zione, Tommaso, Agostino, Bernardo, Teresa, Caterina, Teresina e migliaia di altri noti e sconosciuti.

Tornando sulla terra, grazie innanzitutto a mio mari-to Guido, per l’amore, il sostegno sempre e nonostante tutto, la dedizione, la generosità, la pazienza, l’arte di risolvere i problemi, l’umorismo.

Grazie ai nostri quattro figli, Tommaso, Bernardo, Livia, Lavinia, perché ci sono, perché sono così, per avermi sopportata un po’ più stanca e distratta del solito per qualche mese, e per non essersi rotti neanche un braccio nonostante la mia ridotta vigilanza.

Grazie ai miei genitori, Nicola e Rosella, per avere detto sì alla vita per me, e per avermi tirata su come una persona tutto sommato per bene, e anche per tutte le collanine (e il resto) che mi regalano. E grazie ai miei fratelli Giovanni e Chiara, che mi rispondono sempre al telefono, e non lo staccano mai.

Grazie ai miei genitori spirituali: padre Emidio, la cui sapienza ho saccheggiato senza ritegno, padre Bernar-do, suor Chiara Serena, madre Elvira, Antonella T., don Ignazio, che mi hanno generato nella fede.

Grazie ai genitori di mio marito, Livio e Marisa, che hanno detto sì alla vita per lui, e se lo sono tenuto finché non sono riusciti ad appiopparmelo. Grazie anche per tutte le filastrocche e le lasagne (a Raffaella per il repar-to dolci).

Grazie a tutte le mie amiche, fonte inesauribile di conforto e confronto. A Marina, che ha collaborato atti-vamente mettendomi a disposizione la sua intelligenza, la sua sensibilità, i suoi appunti. A Daniela, che è la mia teologa morale personale, consultabile via cavo venti-quattr’ore su ventiquattro. Ad Alessandra, Angela, An-tonella, Carmen, Chiara B. e M., Claudia, Costanza, Cri-stiana, Elisabetta, Emanuela, Francesca F. e M., Giorgia, Isa, Lucia, Maria Cristina, Maria Grazia, Maura, More-

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na, Noemi, Paola, Patrizia, Rita, Roberta, Silvia, Silvana, Stefania: amiche fondamentali, fonte di ispirazione con-tinua. Nel libro c’è un pezzo di ognuna di loro (ci sono anche Ilda e Paola, che non ci sono più).

Grazie a Paolo, mio carissimo amico indispensabile e maestro di umorismo; a Giancarlo, che fingeva di non vedere l’occhio vitreo con cui guardavo lo schermo in redazione dopo le nottate passate a scrivere; a Gabriele, sempre prezioso nei momenti cruciali della mia vita.

Grazie a quelli che stanno dalla parte della vita, in qualsiasi modo lo facciano, a Carlo Casini e a tutti gli altri. Grazie a Giuliano Ferrara, che ha reso glamour la causa della vita.

Grazie a Jean Kerr ed Erma Bombeck, i cui libri mi hanno fatto ridere fino alle lacrime durante le poppate notturne (di giorno, per farsi notare in pubblico, meglio qualche elegante copertina Adelphi o Fondazione Lo-renzo Valla). Grazie a Jo Croissant, che con Il mistero della donna, da cui ho attinto a piene mani, ha aiutato me e tante mie amiche a capire il senso misterioso e meraviglioso della nostra missione.

Grazie alla Sonzogno, che mi ha accolta tra le sue braccia. In particolare alla mia editor Patricia Chendi, che vorrei come motivatrice privata a casa, tutte le mat-tine, prima di affrontare una nuova giornata, a Luca e Cesare De Michelis, che si sono fidati di me, e a France-sca Prevedello, che sta lì ad ascoltarmi paziente come se fossi una persona lucida e razionale.

Un ringraziamento speciale a parte va a Camillo Lan-gone, che mi ha ispirata, e accompagnata: senza di lui nessuna riga di questo libro esisterebbe. Forse non una perdita per l’umanità, ma comunque grazie.

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7 Sposati e sii sottomessa reloaded

17 Da che pulpito

33 1. Monica ovvero Verso l’infinito, e oltre! 49 2. Livia e Lavinia ovvero Quando una è rosa

dentro è rosa dentro 66 3. Marco ovvero Break on through to the other side 83 4. Agata ovvero Il talento per Mister Wrong 100 5. Margherita ovvero Chi sta sotto regge il mondo 121 6. Agnese ovvero Il grande Lebowski che è in lui 138 7. Elisabetta ovvero Siamo in missione per conto

di Dio 152 8. Stefania ovvero Che la forza sia con te 166 9. Antonio ovvero Yes, you can 184 10. Cristiana ovvero Ho visto cose che voi

“uomini” non potete neanche immaginare 202 11. Marta ovvero Siamo più grossi di voi e questa

è casa nostra

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Indice

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