Speciale letteratura Nuova Ecologia

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LUGLIO-AGOSTO 2012 / La nuova ecologia 49 a cura di Antonio Turi S arà l’evoluzione biologica del corpo, com’è avvenuto nella preistoria, a permettere che la nostra specie si adatti ai cambiamenti che lei stessa sta procurando all’ambiente? O la chiave per sopravvivere agli squilibri del pianeta è rappresentata dall’evoluzione delle nostre potenzialità cerebrali, dalla capacità intellettuale dell’uomo di sviluppare soluzioni tecnologiche adeguate al contesto? Il celebre paleontologo statunitense Ian Tattersall, autore di numerosi saggi in materia, propende per questa ipotesi: la salvezza dell’umanità dipende da quanto saprà sfruttare le caratteristiche del cervello, utilizzato in questa fase dell’evoluzione umana ancora in minima parte. In qualche maniera da quanto sapremo rispondere alle sollecitazioni imprevedibili della natura attraverso il nostro ingegno. Nel 2012 delle profezie apocalittiche, segnato ancora una volta dall’incombenza delle tensioni naturali, come dimostra il sisma che ha scosso l’Emilia, il suo ci è sembrato uno spunto interessante da sottoporre agli autori del nostro ormai tradizionale inserto estivo dedicato alla letteratura contemporanea. Per questa edizione abbiamo pensato di coinvolgere Franco Arminio, Gaetano Cappelli e Patrizia Rinaldi, chiedendo loro di comporre un racconto liberamente ispirato alla citazione del pensiero di Tattersall che trovate a pagina 59. Franco Arminio, intervenuto già in passato sulla Nuova Ecologia, nel suo Aria di terra utilizza il registro autobiografico, tipico del suo stile, per riflettere con leggerezza sul tema. Gaetano Cappelli, invece, rappresenta ormai una delle più apprezzate firme della nostra narrativa: attraverso un linguaggio originale, segnato dall’inflessione tipica della sua terra d’origine, la Basilicata, descrive un mondo nel quale nulla è cambiato sotto il profilo dei riti culturali a dispetto delle inquietanti trasformazioni fisiche, raccontando una storia nella quale la mente, in qualche modo, si appropria del corpo di un altro. Infine Patrizia Rinaldi, autrice emergente con un romanzo in uscita per E/O, con grande ricchezza d’immaginazione vede un mondo nel quale se a dettare le trasformazioni è stato il cervello, lo ha fatto attraverso invenzioni tecniche che s’innestano su un corpo che non è più quello che conosciamo. Resta intatta la potenza delle emozioni. corpo Emozioni racconti Sopravvivere all’apocalisse sviluppando le potenzialità della mente. Tre scrittori contemporanei s’interrogano sul destino della nostra specie al cospetto dei grandi cambiamenti epocali. E sul legame indissolubile fra esperienza fisica e sensorialità senza Racconti Franco Arminio, Gaetano Cappelli Patrizia Rinaldi Contrappunto visivo Giuliano Giuliani

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Antologia di racconti

Transcript of Speciale letteratura Nuova Ecologia

luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia 49

a cura di Antonio Turi

Sarà l’evoluzione biologica del corpo, com’è avvenuto nella preistoria, a permettere che la nostra specie si adatti ai cambiamenti che lei stessa sta

procurando all’ambiente? o la chiave per sopravvivere agli squilibri del pianeta è rappresentata dall’evoluzione delle nostre potenzialità cerebrali, dalla capacità intellettuale dell’uomo di sviluppare soluzioni tecnologiche adeguate al contesto? il celebre paleontologo statunitense ian tattersall, autore di numerosi saggi in materia, propende per questa ipotesi: la salvezza dell’umanità dipende da quanto saprà sfruttare le caratteristiche del cervello, utilizzato in questa fase dell’evoluzione umana ancora in minima parte. in qualche

maniera da quanto sapremo rispondere alle sollecitazioni imprevedibili della natura attraverso il nostro ingegno. Nel 2012 delle profezie apocalittiche, segnato ancora una volta dall’incombenza delle tensioni naturali, come dimostra il sisma che ha scosso l’Emilia, il suo ci è sembrato uno spunto interessante da sottoporre agli autori del nostro ormai tradizionale inserto estivo dedicato alla letteratura contemporanea. Per questa edizione abbiamo pensato di coinvolgere Franco arminio, gaetano Cappelli e Patrizia Rinaldi, chiedendo loro di comporre un racconto liberamente ispirato alla citazione del pensiero di tattersall che trovate a pagina 59. Franco arminio, intervenuto già in passato sulla Nuova Ecologia, nel suo Aria di terra utilizza il registro autobiografico, tipico del suo stile, per riflettere con

leggerezza sul tema. gaetano Cappelli, invece, rappresenta ormai una delle più apprezzate firme della nostra narrativa: attraverso un linguaggio originale, segnato dall’inflessione tipica della sua terra d’origine, la Basilicata, descrive un mondo nel quale nulla è cambiato sotto il profilo dei riti culturali a dispetto delle inquietanti trasformazioni fisiche, raccontando una storia nella quale la mente, in qualche modo, si appropria del corpo di un altro. infine Patrizia Rinaldi, autrice emergente con un romanzo in uscita per E/o, con grande ricchezza d’immaginazione vede un mondo nel quale se a dettare le trasformazioni è stato il cervello, lo ha fatto attraverso invenzioni tecniche che s’innestano su un corpo che non è più quello che conosciamo. Resta intatta la potenza delle emozioni.

corpoEmozioni

racconti

Sopravvivere all’apocalisse sviluppando le potenzialità della mente.

Tre scrittori contemporanei s’interrogano sul destino della

nostra specie al cospetto dei grandi cambiamenti epocali.

E sul legame indissolubile fra esperienza fisica e sensorialità

senza

Racconti Franco Arminio, Gaetano CappelliPatrizia Rinaldi

Contrappunto visivo Giuliano Giuliani

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racconti / Emozioni senza corpo

luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia

Avevo ricevuto da un’ associazione di un paese di cui non voglio nemmeno fare il nome, questo invito:

Gent.mo dott. Giulio Guasso,sono Rosella Puglisi, coordinatrice eventi culturali del

Centro di Lettura PageTurner di ***, diretto dalla prof. ssa Delia Dintuorno. Da più di sette anni la nostra associazione organizza una manifestazione di promozione della lettura, chiamata PageTurnerNow, pagine parole pensieri sparsi per le città!!! Il nostro duplice obiettivo è sia iniziare alla lettura coloro che ancora non leggono perché, secondo noi, non hanno cominciato dal libro giusto, sia deliziare chi, essendo già un buon lettore, vuole scoprire nuovi libri e generi diversi. Nel corso degli ultimi anni abbiamo ospitato autori per ragazzi e per adulti, gliene cito alcuni – seguiva elenco.

Le chiedo quindi se ha il piacere di presentare il suo romanzo anche qui da noi alle seguenti condizioni: 1. La casa editrice spedirà, a suo carico, 60 copie del libro almeno un mese prima dalla data concordata per la presentazione – uè, tassativi!; 2. Il Centro di Lettura PageTurner s’impe-gna a vendere 50 copie del libro – visto lo zelo da contabili: e che fine fanno le dieci rimanenti?; 3. Il Centro di Lettura PageTurner si occuperà della promozione tramite materiale pubblicitario (manifesti, brochure, ecc.) e della divulgazione dell’evento a mezzo stampa e tv - e già m’immagino La Gazzetta della Valle Sperduta e Telezap-pa 2; 4. Sono a carico della casa editrice o dell’autore le spese di viaggio, vitto e alloggio – come a dire: io ti invito ma tu pagati il biglietto, l’alloggio e, addirit-tura, da mangia’!

Capito, che razza di cafoni! Come se invece d’esser ono-rati di ospitarmi in quel paesaccio di merda fossero loro a fare un piacere all’autore di fama qual io comunque sono, ma considerando che l’editore si accolla le spese, nonostante già mi veda a mangiarmi una pizza da solo – ah, com’è triste sta pizza, diceva il titolo di una delle canzoni che avevo in repertorio ai tempi in cui suonavo il pianobar a Ravello – lo stesso risposi che accettavo: cinquanta copie vendute sono pur sempre qualcosa; questo solo per chiarire come m’ero ormai ridotto.

E fu proprio lì che Nunzio Corso mi avvicinò assai umilmente a fine serata invitandomi a cena e, piuttosto che

mangiare in solitaria – ah, com’è triste sta pizza! – accettai ben consapevole dei rischi che correvo ad accompagnarmi a un aspirante scrittore, residente inoltre in uno sperduto paese lucano. Se infatti frustrazione e mania di persecu-zione sono dappertutto il bagaglio abituale della categoria, nel basilisco anelante alla pubblicazione, è assai facile che quegli stati d’animo sconfinino nella patologia pura vivendo il suddetto in luoghi desertici e lontani chilometri e chilo-metri di strade pericolosamente dissestate, mettiamo dalla prima discoteca o il primo wine bar dove sottrarsi ai pro-pri fantasmi letterari sbevazzando allegramente con amici spensierati e nell’abbraccio, anche più adeguato, di qualche volenterosa gnocca.

In realtà, va detto che se Corso col suo sorriso aperto e la parlata apparentemente schietta, mi fu subito simpatico, riuscì poi a conquistarmi del tutto nel corso della cena, non solo riferendosi a me come all’unico vero grande scrittore italiano contro la pletora dei pennivendoli, primo tra tutti l’allora acclamato Terna, ma esaltando appassionatamente i miei libri che padroneggiava tutti dalla prima all’ultima pagina, e di cui fornì un’interpretazione talmente brillante che, a un certo punto, mi rividi in lui sognatore com’ero e ugualmente isolato in un malinconico paese lucano e, preso da un sincero sentimento di comunanza, fui io stesso a chie-

dergli de Il ragno nel buco, come si chiamava il suo romanzo. Anzi dovetti pregarlo prima che lui si decidesse a parlarme-ne – segno evidente del celebrato riserbo lucano – cosicché, quando alla fine della cena, devo dire assai sostanziosa che pagò come gli venisse concesso chissà quale privilegio, fece comparire con l’abilità d’un prestigiatore l’ugualmente so-stanzioso manoscritto tirandolo fuori non so da dove – mossa questa, bisogna ammetterlo, non proprio così in linea col ca-rattere schivo che contraddistingue noi lucani – una volta in camera non solo non lo dimenticai, secondo l’uso in un ango-lo, ma iniziai subito a leggerlo e dopo un po’ feci addirittura una di quelle telefonate che ogni aspirante scrittore sogna di ricevere nel cuore della notte, come ormai si era.

‘Nunzio Corso mi avvicinò assai umilmente a fine serata invitandomi a cena

e, piuttosto che mangiare in solitaria – ah, com’è triste sta pizza! – accettai

ben consapevole dei rischi che correvo’

Fallimenti e vendette con perdono finale

di Gaetano Cappelli

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Nunzio Corso rimase senza parole mentre gli dicevo quanto giudicassi il suo romanzo originale e, previo un piccolo lavoro d’editing, assolutamente pubblicabile ma appena finii, con un senso pratico che data l’esaltazione del momento non m’aspettavo, lo sentii dirmi: “E se ci pensassi tu, subito... Po-tresti restare qualche giorno qui, da noi. Abbiamo una depen-dance per gli ospiti e questa è la stagione migliore per il mare. La mattina te ne vai tranquillo in spiaggia e la sera avresti tutto il tempo per lavorare al Ragno: oh, è sottinteso che ogni lavoro si paga. Devi solo dirmi qual è il tuo compenso”.

Roma ormai era un forno, io non avevo proprio niente da farci e l’idea di starmene un po’ al mare, guadagnando pure qualche soldo, non mi dispiaceva affatto; così risposi subito sì al mio nuovo amico. Per l’ onorario ci avrei invece pensato, gli dissi – una volta a casa, da lui, avrei capito che somma spillargli e quando l’indomani, dopo aver percorso una ventina di chilometri sulla sua superaccessoriata Ran-ge Rover, entrammo in questa specie di fattoria svizzera, mi dissi con soddisfazione che sarebbe stata proprio una bella somma.

Ma mi aspettavano due delusioni. La prima era che Nunzio non era il proprietario dell’azienda ma un semplice dipendente e avrei quindi dovuto limitare la mia richiesta.

La seconda è che Il ragno nel buco, quando lo ripresi in mano non più sotto l’effetto delle lodi del suo autore, l’esaltazione per il nostra comune patria e sì, i litri d’ottimo Don Anselmo che m’ero scolato, mi apparve bisognoso di ben più d’una mano di editing. Comunque avevo preso un impegno e anda-va, in qualche modo, rispettato soprattutto perché, diciamola tutta, la vita alla fattoria Il Risveglio, come si chiamava, era talmente piacevole che non avevo nessuna voglia di lasciar la mia confortevole dependance, rinunciare alle mattinate sulla spiaggia dove me ne andavo a godermi il primo sole d’estate, per non dire della bontà del cibo – erano anni che non mangiavo così bene: ah, la bontà della cucina lucana! – e se non volevo tornarmene nell’afa di Roma e allo squal-lore delle tavole calde, le sole che potevo ormai permettermi, quello era il prezzo da pagare.

Certo ogni volta, prima di cena, c’era da sorbirsi un lungo soporifero rituale di canti e preghiere al Signore, dal momento che ero capitato in una famiglia di non so quale varietà di evangelisti, ma il menù a base di ogni genere di burrosi latticini, pasta fresca, pane appena sfornato e grandi succulente bistecche alla brace, ben valeva una messa. E poi c’era ancora dell’altro.

Anagramma P-O, 2007

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luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia

Se è facile notare una corrispondenza fisiognomica tra gli uomini e il loro campo d’interesse – per cui spesso capita che una lady appassionata di cavalli abbia un viso equino e un volontario dell’Avis sfoggi inquietanti canini da vampiro – qui l’intera famiglia Belvedere, questo il cognome, aveva le sembianze dei bovini dell’allevamento di proprietà da cui provenivano la gran parte delle prelibatezze di cui ci nutri-vamo, a iniziare dal padre Eustachio, un mastodontico bue dallo sguardo mite, ai sei ben pasciuti vitelli, alla mamma che era una vacca autentica e non solo per le fattezze; cosa di cui mi resi conto qualche mattina dopo il mio arrivo quan-do, con le relative brune mammelle ben in mostra, venne a servirmi la colazione e, in pratica, se stessa.

“Beviti il caffè che è bello caldo” mi intimò con la cor-tesia brusca propria delle nostre parti rimanendo in piedi a guardarmi. “Prima ti vedevo sempre alla televisione... mò com’è che non ci vai più?”.

“Sai – feci io con una punta di snobismo – mi sono ac-corto che mi distraeva dalla scrittura”.

“Be’, anche di libri non è che ne fai tanti”. Effettiva-mente. La verità era che era-no gli editori ormai a snob-bare me e stavo pensando a qualcosa di meno umiliante da risponderle quando fu lei stessa a venirmi incontro. “O sarà che da quando abbiàm abbracciato la fede co’ Eustacchio, oltre a tutt il rest, ho smeess pur di legge” disse, e mentre stavo pensando a cosa potesse essere “tutt il rest” lei, fissandomi in uno strano modo, aggiunse: “Cert che scriveev delle coos... su noi donn, dico”.

“Be’ sai, tocca sempre inventarsene una”. “Pure mò te la vuoi inventà... perché mi fissi accosì?”. Buttai il mento in avanti come per dire chi io? “Sì tu...

tu mi stai inducento in tentazione” affermò decisa. Vera-mente non ci pensavo proprio. “Non dobbiaam” piagnucolò. Perché dovremmo? Fece ancora un passo, dubbiosa come stesse indietreggiando. Invece avanzava. Insomma me la trovai addosso ed era così morbida con quelle sue sise che... per non apparire scortese.

Ce ne stavamo sul letto una mezz’ora dopo, nel classico relax postcoitale, e Isa, adesso con le brasciole pudicamente avvoltolate nelle lenzuola dopo che, riempendomi le orecchie di muggiti appassionati, ne aveva fatte di ogni mi confessò tra le lacrime d’aver tradito il marito per un’indomabile richiamo corporale – come resistere a quel suo fisico possente? – dal momento che il pio bove, in ossequio al suo credo settario, se la chiavava solo a fini procreativi e avendogli lei già spadellato sei nerboruti vitelli, mediante altrettanti dolorosissimi cesa-rei, s’era decisa da sei anni a chiudergli la stalla. Ma io non dovevo essere il primo a cui, invece, l’aveva aperta; mi parve chiaro non solo per la velocità con cui diede inizio alla faccen-da ma, soprattutto, per le cose che mi disse in seguito.

In realtà, se avevo già avuto qualche dubbio trovandomi

davanti il suo gran corpo color cuoio, le areole di un incredibile scurissimo marrone, la cicatrice arabescata dei cesarei, appe-na avevo sentito sussurrarmi la domanda tipica di una donna vergognosa della sua mole – “Mi trovi grassa eh?” – alla qua-le, volendo confortarla, stavo per rispondere mannò mannò, sei solo giunonica, lei senza darmene il tempo, affondandomi la faccia in mezzo alle sue mirabolanti sise, m’incalzò come un’ossessa: “E dimmelo, dimmelo che sono grassa. Dimmi che sono una cicciona... dai... una vacca svizzera, dimmelo!” – avrei pensato, a causa del mantello castano, più a una bruno alpina ma per accontentarla... Dicevo, una volta sentito questo, il dubbio che avevo divenne una certezza: c’era un’altra cosa, oltre all’amore per letteratura, che Nunzio Corso e io ci divi-devamo: Arcangela, la donna sposata a un ricco proprietario terriero di cui s’invaghisce Romualdo, il seminarista in crisi del suo romanzo, oltre a essere come Isa ugualmente immensa e scuro areolata, nonché fornita d’identica cerniera inguinale, a un certo punto gli rivolge la stessa invocazione – “Dimmi

che sono una vacca!”. Romualdo, ne resta all’inizio traumatiz-zato per poi capire quanto la cosa invece lo attizzi e decidere, insieme alla lardosa femme fatale, di far fuori il marito nelle susseguenti trecento pagine che più si andava avanti più si infittivano di ogni possibile dubbio ed elucubrazione filosofi-ca oltre che, diciamolo, di altrettante contorsioni sintattiche, giacché, come più leggevo più mi appariva evidente, a Nunzio Corso mancavano proprio i fondamentali.

E comunque a quel punto, oltre a dover metter mano a un simile pastrocchio teologale, mi si prospettavano i sus-seguenti problemi: a) toccava non farsi beccare dal bove che essendo pio e assai preso dal suo lavoro non m’impensieriva quanto invece Corso il quale, a dar retta al suo libro, si con-sumava di passione per la padrona di casa la quale, dopo quella prima volta, continuava imperterrita a venire – a venirsene! – nella mia stanza; b) potevo essere così sicuro che la faccenda dell’omicidio del bove fosse solo un espediente narrativo? Certo Isa col suo carattere aperto – pure troppo – non doveva nemmeno pensarci a farlo fuori, il marito, ma Corso? adesso era lui che iniziava ad apparirmi sotto una luce diversa.

Basso, ossuto, dall’occhio spiritato, sempre pronto all’invettiva e non solo contro gli scrittori – cosa che, abbi-nata alle lodi tributatemi la prima sera, me lo aveva reso simpatico – detestava il lusso ma pure la povertà, la bellezza e il suo contrario, l’eleganza e la sciatteria. Dietro ogni suc-cesso vedeva oscuri maneggi quando, il più delle volte, non si tratta che di culo. Era insomma quello che si dice un odia-

‘L’intera famiglia Belvedere aveva le sembianze dei bovini dell’allevamento

di proprietà da cui provenivano la gran parte delle prelibatezze di cui ci nutrivamo,

a iniziare dal padre Eustachio, un mastodontico bue dallo sguardo mite’

racconti / Emozioni senza corpo

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tore del mondo e comunque negli uomini posso sopportare tutto ma non che siano noiosi e quei discorsi, dopo la novità dell’inizio, mi apparivano per la loro prevedibilità il massimo della noia così vedermelo presentarsi, ogni sera a fine lavoro, con il suo pesante carico di rancore stava diventando un vero supplizio, e più lo ascoltavo scagliarsi torvamente contro il genere umano più mi convincevo che sì, lui era proprio uno di quelli che, andandogli male le cose, poteva pure fare una strage. Così, ogni volta che mi prendeva la tentazione di sca-raventare il Ragno contro la parete e andarmene, pensando poi all’ignoto professore d’arte e al disastro che aveva com-binato trombando il giovane Hitler, mi rimettevo al lavoro anche se poi quelle pagine oscure finivano inevitabilmente per precipitarmi nel sonno da cui mi svegliavo con l’incubo dell’assassinio imminente del povero Eustachio; anche per-ché Nunzio Corso non era il solo a volerlo morto.

Dopo qualche tempo dal mio arrivo, avevo iniziato a ricevere le visite anche di Nicola, il più grande dei sei vitelli – e non solo per età, visto che stazzava ben oltre il quintale – il quale, a dispetto della mole, coltivava il nobile sogno di far l’attore ed essendo ai suoi occhi io comunque uno dell’am-biente, veniva a sottopormi il suo saggio di recitazione – in cui, va detto, interpretava assai comicamente sia Romeo che Giulietta – ma, più che altro, le sue rimostranze contro il povero Eustachio che era del tutto contrario a quella sua carriera volendo tenerselo in azienda. Giustamente. Nico-la – anzi Nicoula, come il rampollo si presentava – aveva infatti uno di quegli accenti lucani che nessuna scuola di recitazione avrebbe mai potuto neanche minimamente scal-fire. E, a tarda notte, dopo aver ascoltato contorcendomi per non schiattare dal ridere, le sue declamazioni: “O Romeio, Romeio! Pecché si tu Romeio? Rinneig a padrat; e rifiuta lu noom tuo: o, si non vuò, leigat sul in giuramend all’ammor mio, e io nun ge sarò chiù na Capuleeit”.

Dopo aver ascoltata sta roba, mi toccava inoltre rassi-curarlo sulle sue doti artistiche. Mannò gli dicevo, il fatto che sei grasso non significa niente. Pensa a Orson Welles, allora. E la dizione, tutti gli attori all’inizio hanno qualche difficoltà ma lui, Nicoula, invece di tranquillizzarsi diventava sempre più cupo. Finché una di quelle notti mi confessò che men-tre sterminava le mucche con la sua pistola elettrica aveva, sempre più spesso, l’impulso invece di sparare al padre. Per fortuna avevo ormai finito il mio lavoro e l’indomani, con un grosso sospiro, lasciai Villa Risveglio e i suoi membri al loro destino.

Quello di Corso stupì me stesso per primo. Nonostante il grosso lavoro che ci avevo fatto, il romanzo di Corso era ri-masto il grosso polmonaccio che era – essendo assai difficile infatti cavare un ragno dal buco. Perciò quando gli diedi il file con le mie modifiche non mi sentii d’intascarmi il paio di milioncini pattuiti, senza consegnargli inoltre una lette-ra in cui ne tessevo le lodi da spedire agli editori, ma così, giusto per lavarmi la coscienza, sicuro com’ero che nessuno mai gliel’avrebbe pubblicato e invece... Invece Corso non solo esordì di lì a un anno, e senza farmi neanche una telefonata, ma ebbe un successo immenso. Che c’è, a voi non è mai ca-pitato di leggere una schifezza ributtante e poi di vederla in vetta alle classifiche? Non penso. In più Corso, dopo avermi

citato all’inizio come suo scopritore iniziò, appena in classi-fica, prima a ignorarmi poi a pubblicamente disprezzarmi. Io, che gli avevo praticamente riscritto il romanzo!

Come spiegarselo? Se aveva scoperto della mia tresca con Isa non doveva averne sofferto più di tanto dal momento che, da quello che seppi, se ne era venuto a vivere a Roma appena qualche mese dopo la mia partenza da Villa Risve-glio. E d’altra parte l’esser così ripagati proprio da quelli cui abbiamo fatto del bene è una delle esperienze inspiega-bilmente più comuni. Né si tratta di sola ingratitudine. È un fenomeno più cupo e profondo. Ho letto di qualcuno che l’ha studiato e definito ressentiment che significa più o meno rancore espresso in segreto, soprattutto ai danni dei nostri benefattori che vengono ricompensati con corone e ghirlande di risentimento. Perché nessun adulto vuole essere aiutato. È insito nel concetto stesso di adulto. Accettare aiuto com-porta un senso di vergogna e si tende quindi a sminuire la consistenza stessa dell’aiuto o addirittura a negare che se ne è avuto, e come farlo meglio che dar contro a chi ce lo ge-nerosamente elargito? La faccenda poi si fa oltremodo triste quando ci tocca assistere al successo del nostro ex-protègè simultaneamente al nostro fallimento. Come appunto accad-de a me. Nessuno davvero voleva più i miei libri. Senonché qualche mese dopo il bove in persona, avendo riconosciuto la moglie nel Ragno nel buco un buco, con la sua pistola da macello, glielo fece lui, in fronte a Nunzio Corso. È incredibi-le, vista la mia naturale sensibilità di scrittore, come la cosa non mi dispiacque affatto anche se, quel giorno, parlando con un giornalista che mi chiedeva cosa provassi alla morte del mio geniale discepolo, fingevo, come da copione, il più incolmabile dolore. “Se poi una pensa a quello che avrebbe potuto regalarci quel giovane maestro!” aggiunse il tizio e fu a quel punto che dissi: “Per fortuna, non tutto è perduto. Il caro Nunzio mi aveva appena mandato la sua seconda opera e, mi creda, è ancora più pazzesca della prima”.

La notizia uscì con tutto il risalto del caso e, quattro mesi dopo fu pubblicato pure il romanzo che ebbe un succes-so naturalmente superiore al primo: chi avrebbe mai negato il doveroso tributo a un così infelice giovane? Io certo no – come altrimenti considerare il tarocco che, nel frattempo, confezionai a suo nome? – e mai nella vita ne venni così ampiamente ripagato.

È proprio vero che il perdono arricchisce l’uomo.

L’AUTOREGaetano Cappelli è nato a Potenza nel 1954. Ha pubblicato fra gli altri: “Floppy disk” (Marsilio, 1988), “Mestieri sentimentali” (Frassinelli, 1991), “In due

fratelli” (De Agostini, 1994), “Errori” (Mondadori, 1996), “Parenti lontani” (Mondadori, 2000), giudicato da Bookcrossing uno dei migliori cinque romanzi dell’anno. È tra i curatori dell’antologia “Sporco al sole”, racconti del Sud estremo (Besa, 1998), e tra gli autori della raccolta “Disertori. Sud: racconti dalla frontiera” (Einaudi, 2000).

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luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia

Quanto sole. Esco lo stesso. Lo schermo piazzato nell’ingresso del palazzo lo sconsiglia. Giorno: 14 Mese: 03 Temperatura Prevista: 45°/50°. Tanto esco lo stesso. Mi piace stare nascosta, ma oggi ho una nausea sottile che mi spinge fuori. Mi avvio verso le vasche comunali a piedi. Devo attraversare un pezzo di deserto, i palazzi antichi del Novecento se ne stanno incartati in cupole d’aria fresca. Ci abitano i ricchi. Usano accessi privati e sotterranei. I loro palazzi non hanno ingressi evidenti. Loro indicano precetti, loro costruiscono cunicoli per sfruttare al meglio le deroghe. Niente di nuovo. Sotto il vestito di garza, la guaina termica mi stringe nelle curve e le modella in un artificio fiducioso. La nausea sottile, animata da un sotti-le affanno, comunque mi fa brutta. Dentro e fuori. Tocco la tasca: il rettangolo piccolo è al suo posto. Non l’ho dimenticato a casa, come mi capita ogni tanto. Le multe mi hanno fatto diventare quasi atten-ta. La definizione tecnica del ret-tangolo piccolo che devo portare con me è Organismo Di Epifania2. Cerebrale: ODE2.C. Beh, poi ci sono le varie marche. Marche diverse per un unico regolamento, la “Commissione di controllo dell’unico tempo” (Presente-Passato-Futuro) non consente interpretazioni: questo è e questo è. Come molte tirannie, quella della “Commissione di controllo dell’unico tempo” è nata sotto la stellina delle buone intenzioni. Più o meno.

Amo tutto ciò che è stato, tutto quello che non è più,il dolore che ormai non mi duole, l'antica e erronea fede, l'ieri che ha lasciato dolore,quello che ha lasciato allegriasolo perché è stato, è volatoe oggi è già un altro giorno.

F. Pessoa(Le parole di Fernando António Nogueira Pessoa co-

stituiscono il testo dell’Inno Ufficiale che apre i Dettati della “Commissione di controllo dell’unico tempo”)

La sconfitta di centinaia di danni patologici incura-bili, l’abilissima manipolazione nei feti di Dna difettosi, il

controllo definitivo delle nascite ha portato la conseguenza di allungare per la specie l’elastico della durata dei giorni. Tuttavia i gentili semi immortali hanno preso a uccidersi. Capita.

I ricordi pesano, non sono biodegradabili, talvolta contengono cellule cancerose invisibili, inattaccabili. Così i Costituenti del Manifesto hanno deciso di confondere i rimpianti e altri accessori, che ritengono causa mortale non manipolabile nel Dna, e insieme a altri e vari rimedi, hanno assunto persone come me. In qualsiasi momento, sotto qualsiasi sole, chi fa il mio lavoro deve offrire remi-niscenze sopportabili, mediate dall’uso giusto della lette-ratura, per dare una mano di vernice ai ricordi privati.

Noi siamo il prêt-à-porter dell’evoluzione di eBook primi-tivi. Facile: il collegamento agisce direttamente nel nostro pensiero e scava. Noi siamo un’anima di riserva collegata in mondovisione con il rettangolo piccolo che deve essere al suo posto, siamo la cingomma masticabile dell’altro da sé. Che meraviglia.

A quasi cinquant’anni, nell’emisfero occidentale del 3.3, sono una ragazza appena svezzata dall’infanzia. Un olivo respira in una serra stretta di vapore. Lo guardo sen-za commozione e intanto il rettangolo si illumina e trema. Una volta sola. Spero non sia lavoro. Non lo è, è la scuola di mia figlia. Sphrena ha infilato le mani in un secchio di vernice verde acido, destinata al progetto Strumenti Sto-ria Arcaica, e si è dipinta abiti, faccia e gambe. Non vuole usare lo schermo, non vuole detergere il danno, non vuole mangiare. Chiede di me. Penso ai suoi occhi e il contatto si impone. Il cursore parte, guidato dal desiderio dei capelli biondi macchiati di verde.

- Sphrena, cosa succede? - Mi scoccio di stare ferma e la tipa delle pulizie ha

ucciso Fulgezia, la formica. L’avevo nascosta bene, ma

L’archivio in vetrina

di Patrizia Rinaldi

‘Il microchip è un legame wireless che indaga e registra dati immaginati

e pensati e li comunica al cursore del rettangolo piccolo. Così i miei

sentimenti, tutti, sono vetrina’

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luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia 55

lei l’ha trovata. Portami a casa e pensami una storia.

- Sai che puoi tornare solo al tramonto..

- Lo so. Comunque non mi lavo e non mangio.

Sta arrivando la disperazio-ne, faccio gli esercizi suggeriti. Ar-riva lo stesso. Gli Editor dei pensie-ri ci insegnano il rimedio. Bisogna dare ordine, avvantaggiare la ge-rarchia cromatica del rosa. Biso-gna far finta di sorridere e convin-cersi da soli grazie alla pratica del sorriso. Pensare su commissione storie, senza sosta, non è semplice e non so perché mi riesca. Dicono che abbia il tarlo della suggestio-ne facile. Chi mi denigra aggiun-ge che tutto dipende dalla volontà spregiudicata che ho di ammicca-re, di muovere la coda. Puà, non ne conoscono il prezzo. Mi sposto veloce tra una pulsione e un’altra. Ho un buon archivio e il lavoro viene liscio. Basta fare un piccolo taglio e la memoria sanguina. Il concetto diventa parola scritta e si sposta, schizza, frena, torna. Ho un microchip nel cervello, piantato nella sella dell’ipotalamo. Cavalca i processori insieme all’ipofisi, nel-la fossa turcica dell’osso sfenoide. Mi hanno operata attraverso la strada delle narici. Il microchip è un legame wireless che indaga e registra dati immaginati e pensati e li comunica al cursore del rettan-golo piccolo. Così i miei sentimenti, tutti, sono vetrina. Ogni individuo può raggiungere ODE2.C con ac-cesso collettivo o privato. Quello privato è più caro. Costa. Che poi è pure sensato: non si può pagare la stessa cifra il desiderio di arrivare sulla luna in navicella monoposto invece che in cosmonave pubblica. Sono un satellite del sentire collo-cato in mezzo al vuoto. Una flebo di idee altrui. Resto così nella vita di altri. Nessuno potrà bloccare la traiettoria, nessuno potrà correggere, nessuno potrà cambiare il racconto di car-ne viva. Macabro questo per sempre. Non c’è consunzione di morte, non c’è smentita che tenga, non c’è perdono per la miseria di un momento, non c’è niente di niente. Anzi, sono proprio le miserie a andare via come il pane. Piaccio-no. Il fatto che io cambi, che diventi donne differenti e poi

ancora differenti nel corso dei troppi anni, non interessa a nessuno. Qualcuno in Olanda sta ricucendo la mia unghia rotta ieri e ride. Osserva l’errore, la rammenda e la usa per aggiungerci altri pensieri e quindi parole. Così via. L’unghia rotta non mi appartiene più e, se un giorno vorrò sconfessarla, non potrò; sarà lì, piazzata su indici non miei, a indicarmi la strada obbligata.

Anagramma E, 2006

La nuova ecologia / luglio-agosto 201256

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luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia

Sopravvive anche nei pensieri contemporanei del 3.3 la questione dei generi pensier-letterari, questione vecchia quanto il mondo. Non a tutti interessa quando e come e per-ché si sia spaccato il tubo della cucina della signora Smith, ma con me è diverso, perché aggiusto i dati; se riesco, li rendo addirittura ridicoli. Far ridere è complicato: quando

l’esito è dignitoso, le quotazioni mie salgono del tre per cen-to, che non è poco. Se mi occupo di sentir noir, i miei affe-zionati lettori mi osservano intestini e palpiti con un certo interesse. Là sono famosina, pare che riesca a produrre una certa paura beffarda, uccido in modo composto e questo fatto qua ha il suo seguito. Con il genere dell’amor carnal va decisamente peggio. I contatti fisici ormai sono spora-dici, chi se li ricorda? Non so se sia bene o male, sembrerà strano ma anche io a volte dimentico (oltre i nomi, dico, quelli li dimentico tutti senza pietà). Ogni tanto vagheggio il ricordo vago di una determinata bocca, di alcuni sguardi significativi. Poca roba, tuttavia. Sfocata. Il dubbio diventa un fiore di pus. Un residuo di ferita. Se penso all’infanzia, se parlo all’infanzia, ho un occhio di riguardo per la mia platea bambina. A costo di sezionare cellule vitali, produco speranza. Mi è capitato di perdere ciocche di capelli alla fine di una favola. Non permetto al processore, mai e per nessun motivo, di affondare le unghie in segni scabrosi. Invado le pupille di lacrime al miele.

C’è chi è più bravo di me, professionalmente, dico. Ma la velocità mia è apprezzata e persino invidiata. Non mi serve ispirazione, non mi serve profumo o suono per tornare dove voglio, per andare dove voglio. I signori del monopolio dell’intrattenimento letterario spesso si congratulano.

In cambio ho questa piccola disperazione, cosa vuoi che sia. Mi danno 3.500 Dineri, ci campo due mesi e nean-che tanto larga. A volte ho dovuto pensar-scrivere in pubbli-co, ovvero da sola in una stanza apposita, sdraiata, grazie a un precedente battage, su tutti gli schermi dell’emisfero. Tutti adesso, non esageriamo: molti. Mi è venuto l’acido nelle gambe e la paura. Scuoiarsi con largo audience non concede eleganza. Gabrihelen dice che il pensar-scrivere è l’antidoto, non il veleno, ma non sono tanto convinta. Lei è una donna d’azione e se ne frega delle incertezze. Quando mi guarda con i suoi occhi buoni dall’ologramma della sua figura scolpito nelle mie mani, quasi mi convince. Ho il permesso di incontrarla due volte al mese, sono riuscita ad averlo perché Gabrihelen ha il Brevetto di Controllo sulle parole. Come cavolo ha avuto ‘sto lavoro non lo so, consi-derato che lei non è un’infame. Fatti suoi, per lo meno in trenta giorni abbiamo due ore. E sono due ore così belle!

Ho un segreto: ho imparato a imbrogliare l’ODE2.C. Il sentimento di alcuni istanti nascosti può arginare la disperazione e questo non è previsto dai consigli dell’edi-tor. Non mi importa: lo faccio lo stesso, il rimedio illecito mi è caro. Posso pensare senza che lo schermo si illumini, perché ho capito come bloccare il cursore. Faccio un respiro

e corro, pensieri e immagini a mila all’ora. Corro: le mani di Moo, la bocca sfocata di Patrick, la chiave intelligente e al contempo illogica di Amanda, la corsa di Lol, la voce di Sphrena, i capelli di Gabrihelen e Marita, l’odore dell’abbraccio di Giusty. E poi Teren, il bianco di Maria Elena, il verde sirena di una Determinata Isola, che chiamavano Ne-sis, il verde blu del pezzo di mare così simili all’iride di un determinato vortice. Il rosso

impazzito di ogni risata. Grazie all’imbroglio, il cursore si incanta e va avanti e indietro senza trovare pace. Si imbizzarrisce fino a fermarsi in un beep lungo da elettro-cardiogramma piatto.

Raggiungo la piscina e mi spoglio. La piscina comuna-le è un cono di vasche solitarie. Mi immergo e piango. Lecco le lacrime. Lecco il disinfettante che sa di mare e piango. Quando il pianto finisce ritornano discorsi immaginati più lievi, la testa si calma. Sotto la doccia sono un’altra. Ordi-nata, paziente e quasi leggera.

Al ritorno, da brava, uso il sotterraneo protetto dal sole. Lo schermo mi chiama. Rispondo: d’accordo, va bene. D’accordo. Chiudo l’archivio che sanguina e torno a casa.

‘Se penso all’infanzia, se parlo all’infanzia, ho un occhio di riguardo per la mia platea bambina. A costo di sezionare cellule vitali, produco speranza’

L’AUTRICEPatrizia Rinaldi vive e lavora a Napoli. Alcune pubblicazioni: “Tre, numero imperfetto”, Edizioni e/o, collana Dal Mondo, giugno 2012; “Mare

Giallo”, Edizioni Sinnos, collana I Narratori, giugno 2012; “Rock Sentimentale”, Edizioni EL Einaudi, 2011; “Piano Forte” (premio “Elsa Morante Ragazzi”, premio “Mariele Ventre”), Sinnos Editore, 2009; “Ninetta Ridolfi e gli oggetti affettuosi” (premio “Profondo Giallo” 2007), Giallo Mondadori, 2008; “Napoli-Pozzuoli. Uscita 14”, Dario Flaccovio Editore, 2007; “Sono tornato a casa” (premio “Pippi” 2006 – inediti), Edizioni L’isola dei Ragazzi; “Il commissario Gargiulo” (finalista XXII premio “Mystfest” 1995 – esordienti), Stampa Alternativa 1995.www.patriziarinaldi.it

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luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia 57

Scrivo col computer sulle gambe. Ogni tanto penso che questa postura mi sta rovinando la schiena e potreb-be procurarmi un tumore. Difatti un tumore ce l’ha mia madre, lei che non lo ha mai usato il computer. Mio padre, morto di tumore, pure lui non aveva mai visto un computer. Credo che la gran parte delle persone pensino al tumo-re più che al rischio di estinzione di 20 milioni di specie. La collega insegnante di sostegno nella mia scuola ele-mentare ha letto un mio articolo sul terremoto in Emilia. Ha detto che concordava in tutto ma non sulla frase che suonava così: “siamo animali che possiamo farci delle gen-tilezze”. Mi ha detto che non siamo animali perché Dio ci ha fatto a sua immagine e somiglianza. Ora mi chiedo se Dio c’entri qualcosa con questa storia delle specie a rischio di distruzione. Di sicuro c’entrano i comportamenti della creatura fatta a sua immagine e somiglianza. Quando ero molto giovane, tipo sedici anni, avevo una fortissima indi-gnazione per il fatto che il mondo rischiava di finire. Mi pareva incredibile che gli uomini non dessero molto peso

alla faccenda. Poi ho cominciato a leggere e a scrivere, sono diventato sensibile alla lingua, sensibile ai dettagli più che alle astrazioni, alle percezioni più che alle opinioni. E allo-ra adesso non so come stendere il mio testo partendo dallo spunto che mi è stato dato. Lo trovo uno spunto per me poco comprensibile. Il futuro dipende dall’esplorazione del poten-ziale che già possediamo: nel nostro cervello. Non credo di aver compreso il senso di una frase di questo tipo. Come fa una persona a esplorare il suo cervello? Prende una mi-crocamera e la fa girare sotto le meningi? E senza mani, piedi, sesso, intestino a che servirebbe il nostro cervello?

Secondo me il problema del futuro ormai non se lo pone quasi nessuno. Pensiamo alle cose che ci accadono e a quelle che non ci accadono. Siamo troppo occupati con la nostra vita e questo c’impedisce di pensare veramente

al nostro pianeta. Forse dovrebbero fare una carta d’iden-tità mondiale: Franco Arminio, nato a Bisaccia, pianeta Terra il 19 febbraio 1960. Per salvare una parte delle 20 milioni di specie che stanno morendo ci vorrebbe l’idea che noi siamo della Terra, ci vorrebbe che a tavola, nei bar, sulle panchine delle piazze, sulle spiagge, si parlasse del nostro pianeta. La Terra deve essere fasciata, accudita di attenzioni. Immaginiamo che abbia un tumore: come si fa a lasciare da sola una persona che ha un tumore? Negli uffici pubblici non ci dovrebbe essere l’immagine del presidente della Repubblica, ma quella della Terra.

In realtà io adesso sto scrivendo queste cose perché oggi non sono particolarmente ispirato, pesco in superficie. L’immaginazione, da me la committenza questo si aspetta, è spuntata, è un gesso bagnato. Forse è la stanchezza di fine anno. Forse è il fatto che oggi avevo in mente di uscire e sono dovuto restare a casa ad accudire mia madre. Qua-li sono le follie di cui parla il nostro scienziato nella fra-

se che mi hanno dato? La follia della crescita infinita? Come la curiamo? Chi dobbiamo imputare per questo delirio, la mentalità capitalistica o il cristianesimo? Cristo ci ha parlato di povertà, ma ci ha messo in testa una vita che mette a frutto tutto, una vita che non spreca niente, orientata ad accrescere la propria spiritua-lità, orientata al fine di arrivare

in paradiso. È un capitalismo dal volto umano, ma sempre capitalismo è, sempre si è schiavi di questa ossessione di mettere a frutto la giornata. In Emilia dopo il terremoto si parla in continuazione dell’esigenza di ripartire, come se il terremoto avesse fermato una corsa automobilistica. Se pensiamo alla vita come una corsa continua è chiaro che prima o poi ci si sfianca. Il fatto è che l’umanità non può dir-selo che è stanca e non sta a sentire chi glielo dice. L’uma-nità deve dirsi che sì è vero che siamo troppi, ma la scienza inventerà un pillolina che sfama la gente. E se finisce il petrolio non ci mettiamo molto a trovare un’altra forma di energia, e se pure riempiamo tutta la Terra, possiamo sem-pre colonizzare un altro pianeta. Non so se hanno ragione i pessimisti o gli ottimisti. In genere io tendo a dare ragione ai pessimisti. Non per un ragionamento, per una confu-tazione intellettuale, è una ragione che decido in termini

Aria di terra

di Franco Arminio

‘In Emilia dopo il terremoto si parla dell’esigenza di ripartire, come se il sisma avesse fermato una corsa automobilistica. Se pensiamo alla vita come una corsa continua è chiaro che prima o poi ci si sfianca’

La nuova ecologia / luglio-agosto 201258

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luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia

emotivi. In fondo vivere in un pianeta che si può estinguere ce lo rende più vicino, in fondo ha la nostra stessa sorte.

Dobbiamo sfruttare questa idea che la Terra è vera-mente nostra madre. È lei che ci ha creato e non importa nulla chi ha creato lei. Il cristianesimo è il principale re-sponsabile della crisi ambientalista perché ci ha fatto in-tendere che Dio ha fatto la Terra per noi e quindi la Terra è nostra. Più che scavare nelle zone inesplorate del nostro cervello, si tratta di visitare il passato del nostro cervello, si tratta di capire come e quando si sono formate certe idee. Ecco, sono finito in un vicolo cieco, non ho scritto un rac-conto, non ho scritto un articolo scientifico, non ho scritto neppure un testo poetico. Ho semplicemente scritto. Scri-vendo non mi sono emozionato e non farò emozionare nes-suno. Stasera non credo di essere preoccupato per le sorti del pianeta e men che mai per le sorti dell’umanità. Perché dovremmo salvarci? A che serve stare qui all’infinito. E se sono spariti i dinosauri, perché non dovrebbero sparire an-che le farfalle? Che cosa cambia se spariscono fra un secolo o fra mille anni? In fondo quel che conta è sentire adesso aria di terra, sentirla dentro un abbraccio, dentro il sonno,

dentro la gioia e dentro il dolore. La Terra è adesso e non siamo solo noi, sono le farfalle, i bidoni dell’immondizia, i lampioni, l’asfalto, i gatti, i libri, i manifesti sui muri, le tegole sulle case, la Terra sono le parole che aggiungiamo senza prenderle dal nostro corpo ma da un gigantesco su-permercato della chiacchiera che sta letteralmente buttan-do i nostri corpi, una vera e propria estinzione dovuta alla verbosità: in principio era il verbo e il verbo sta diventando la nostra estrema unzione, parlare ci fa sbiadire, ci conse-gna all’irreperibilità.

Stamattina nel letto pensavo a Latouche, alle sue cri-tiche allo sviluppo sostenibile e poi pensavo alle mie criti-che a Latouche, mi pare ancora un uomo del nord, il mondo se vuole salvarsi deve essere governato da sud, il nord del mondo si deve dimettere, pensavo pensieri semplici: cos’è la crescita? Più macchine e telefonini? Pensavo che alla televi-sione ogni sera si parla della crisi e invece bisogna parlare del sacro: immettere il sacro nelle nostre giornate, pensavo al mio amico che investì una volpe mentre parlavamo di Berlusconi e non si fermò, non si ferma nessuno, nessu-no si risparmia di farmi notare il mio narcisismo, stanno

Anagramma N-K,2007

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luglio-agosto 2012 / La nuova ecologia 59

ni, lasciare i caselli delle mete obbligate, muoversi verso l’impensato, tenere il miracolo del mondo nel nostro fiato, raccontarci la leggenda di essere qui assieme ai cani, ai ver-mi, ai conigli, alle nuvole, alle foglie, ai pesci, agli uccelli, assieme alla pioggia, assieme al vento, stare qui a sentire l’aria che gira senza mai fermarsi, raccontarci storie belle, mutilare l’efficienza, l’indifferenza, sgangherare l’idea del profitto, disarmare il disincanto.

Con queste munizioni nello spirito possiamo guarire qualcosa, il nostro compito non è di allungare la permanen-za a niente e a nessuno, ma rendere più lieve e lieto quello che c’è e quello che siamo. Poi tutto giustamente avrà fine e buona notte.

acquattati proprio per scovarti, per indagarti, per vedere dove sei sbagliato. Poco fa ho scritto questa frase su Face-book: “in fondo se ci accade una cosa veramente grande, veramente speciale, non possiamo dirla, non si può deporre tra le braccia degli altri. abbiamo costruito un sistema di relazioni fatto per impacciarci, non per volare assieme”. Usare il mondo come una cava, scavarci dentro, non potre-mo mai fare altro se non ci arrendiamo. La mia scienza, la paesologia, è una scienza arresa, è una scienza radical-mente ecologica. Dobbiamo militare per il fallimento, per la poesia, per Dio e per la morte. Il pensiero della morte è il più ecologico che esista. Per salvare il mondo dobbiamo pensare che siamo mortali, dobbiamo usare i nostri corpi, camminare, abbracciarci, stenderci al sole e sgretolarci, an-nusarci, danzare, suonare, salutare il sole, scrivere poesie, non ci sono altre strade, dobbiamo congedarci da ogni idea di progresso, dobbiamo congedarci da ogni fissità, muoversi sciolti, muoversi nel provvisorio, scatenare immaginazio-

‘Per salvare le 20 milioni di specie che stanno morendo ci vorrebbe l’idea che noi siamo della Terra, ci vorrebbe che a tavola, nei bar, sulle panchine delle piazze, sulle spiagge, si parlasse del nostro pianeta’

L’AUTOREFranco Arminio (1960) è nato e vive a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente. Nel 2009 è apparsa, per le Edizioni D’If, la sua ultima raccolta “Poeta con

famiglia”. In prosa ha pubblicato fra gli altri: “Diario civile” (Sellino 1999), “Viaggio nel cratere” (Sironi 2003), “Vento forte tra Lacedonia e Candela” (Laterza 2008), “Oratorio Bizantino” (Ediesse, 2011). Collabora con il manifesto, Il Mattino, il Corriere del Mezzogiorno e altre testate nazionali e locali. Nel 2010 il regista Andrea D’Ambrosio ha realizzato un documentario sul suo lavoro dal titolo “Di mestiere faccio il paesologo”.

il contrappunto visivo dei racconti deriva dalle opere su carta di giuliano giuliani, artista ascolano (1954) da sempre legato alla lavorazione della pietra. la sua vocazione verso la scultura affonda le radici nell’immaginario degli anni giovanili, quando osservava il padre e lo zio al lavoro nella cava di famiglia a Colle san Marco. un luogo che gli appartiene profondamente, visto che lo ha ereditato dopo la dismissione delle attività di scavo negli anni ottanta. Ed è lì che ancora oggi giuliani vive e opera. Ha esposto in numerosi mostre personali e collettive, le sue opere sono conservate in diversi musei e raccolte private ottenendo molti riconoscimenti per l’autonomia del suo segno che rifugge da qualsiasi ispirazione figurativa, da qualsiasi riferimento ai corpi.www.giulianogiuliani.it

“Non esiste condizione umana. Per ogni parola che la descriva si può trovare l’opposto. E tutte le cose meravigliose della nostra specie sono bilanciate, dall’altro lato dell’equazione, da qualcos’altro. La storia dell’uomo è una storia di conseguenze non volute: compreso, oggi, il rischio di distruzione per 20 milioni di specie. Ecco perché dico che il futuro dipende dall’esplorazione del potenziale che già possediamo: nel nostro cervello. No, non credo che l’evoluzione ci verrà più in soccorso sul suo bel cavallo bianco, a salvarci dalle nostre follie: non credo proprio”.

Ian Tattersall, palentologo, intervista rilasciata al quotidiano “la Repubblica”, 8 maggio 2012

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