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Speciale La danza nei dottorati di ricerca italiani: metodologie, saperi, storie Giornate di studio a cura di Stefania Onesti e Giulia Taddeo

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SpecialeLa danza nei dottorati di ricerca

italiani: metodologie, saperi, storie

Giornate di studioa cura di Stefania Onesti e Giulia Taddeo

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Danza e Ricerca Laboratorio di studi, scritture, visioni

http://danzaericerca.unibo.it

anno VII, numero 6, marzo 2015

Foto della pagina precedente: un momento da Tar and feathers di Jiří Kylián, foto realizzata nel 2007 da Ralf Heid, distribuita con licenza Creative Commons BY-NC 2.0.

ISSN 2036-1599Direttore responsabile: Giuseppe LiottaRegistrazione presso il Tribunale di Bologna n. 8001 del 23 settembre 2009Email: [email protected]

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IndicePremessaElena Cervellati...............................................................................................................1

Sessione IIntroduzioneElena Randi.....................................................................................................................7SconfinamentiLaura Aimo......................................................................................................................9“Romeo e Giulietta”Annamaria Corea.........................................................................................................19

Sessione IIIntroduzioneAlessandro Pontremoli................................................................................................33Afasie e strategie: appunti di metodo attorno a una (quasi) critica di danza in ItaliaGiulia Taddeo...............................................................................................................37La critica e la nuova danza in ItaliaDora Levano.................................................................................................................47

Sessione IIIIntroduzioneConcetta Lo Iacono.....................................................................................................61Essere danzatore e intellettuale nell'Ottocento: danza e scrittura di séRita Maria Fabris..........................................................................................................65Gesti convenzionali e arte mimica nell’Ottocento italianoNoemi Massari..............................................................................................................77Danza e pantomima: modelli interpretativi e chiavi di letturaStefania Onesti..............................................................................................................89

Sessione IVIntroduzioneVito Di Bernardi........................................................................................................101L’archiviazione e la diffusione di una tecnica coreicaEmanuele Giannasca.................................................................................................103L’artista vivente come fonte e archivio della danzaElisa Anzellotti...........................................................................................................111

Sessione VIntroduzioneSusanne Franco..........................................................................................................121Disseminare gesti pe(n)santi, archiviare danze di gravità

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Annalisa Piccirillo.......................................................................................................123Lo Score: un algoritmo per investigare la Body KnowledgeLetizia Gioia Monda..................................................................................................133

Sessione VIIntroduzioneEugenia Casini Ropa.................................................................................................149La danza nel futurismo: la sensibilità corporea di Filippo Tommaso MarinettiSayaka Yokota.............................................................................................................151I testi e la danzaGiuseppe Burighel.....................................................................................................161

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Premessa

Le prime tesi di dottorato sulladanza risalgono, in Italia, al 2000. Inuna quindicina di anni si è andato de-lineando un panorama degli studiestremamente variegato, in una ric-chezza sicuramente stimolante, chetuttavia può portare con sé pure unadifficoltà nell'arrivare a costruire unaconsapevole comunità di ricercatori,se non, addirittura, nel definire un“lessico disciplinare” non ancora, ineffetti, pienamente chiaro e condivi-so1. I temi diversi e le diverse meto-dologie messi a fuoco nel succedersidegli interventi delle giornate di stu-dio intitolate La danza nei dottorati diricerca italiani: metodologie, saperi, storie,svoltesi a Bologna nell'ottobre del2013, e quindi nell'esito a stampa chequi ne diamo, sono specchio della vi-vace e promettente realtà degli studi,risultato visibile di una ricchezza dipossibilità tutte degne di indagine,pur nella differenza.

Umberto Eco, nel discorso pro-nunciato nel settembre 2013 in occa-sione del XXV anniversario della fir-ma della Magna Charta Universita-tum, intitolato Perché le Università?, ri-cordava la “migrazione pacifica” chestudiosi e studenti misero in atto apartire dal 1088 per raggiungerel'Università di Bologna, e che andò difatto a costruire una “comunità cultu-rale” dalla “identità” sempre megliodefinita. Diceva Eco:

L’università è ancora il luogoin cui sono possibili confronti ediscussioni, idee migliori per unmondo migliore, il rafforzamento

1 Mi permetto di citare, in proposito, il miobrevissimo intervento Alcune parole per dire ladanza, pubblicato nella rubrica Gocce, curatadal periodico «Il Saggiatore musicale», 31 ot-tobre 2014, online:http://gocce.dar.unibo.it/2014/10/31/al-cune-parole-per-dire-la-danza/.

e la difesa di valori fondativi uni-versali, non ordinati negli scaffalidi una biblioteca, ma diffusi e pro-pagati con ogni mezzo possibile.[…] Creare un’Enciclopedia Co-mune non equivale a imporre unpensiero unico. È un terreno con-diviso su cui verificare e compara-re ogni differenza portatrice di ric-chezza. L’università è l’unico luo-go in cui si può applicare corretta-mente un approccio unificato alladiversità. […] Vorrei terminarecon l’ultima ragione per cui il ruo-lo delle università è ancora fonda-mentale [...]: le università sono frai pochi luoghi in cui le persone siincontrano ancora faccia a faccia,in cui giovani e studiosi possonocapire quanto il progresso del sa-pere abbia bisogno di identitàumane reali.2

Certo, quella dei ricercatori impe-gnati intorno agli studi sulla danza èuna micro-comunità culturale, ben di-versa, per dimensioni e portata, dallaprestigiosa ed estesa comunità delleuniversità che hanno sottoscritto laMagna Charta, 388 nel 1988 e quasi750 nel 2013. Eppure, anche se “mi-cro”, la nostra è una comunità cultu-rale importante, di cui vogliamo averecura. Facendo vivere un momento diincontro e di confronto, abbiamomesso in atto una piccola migrazione,sicuramente pacifica, che potrà, cre-do, contribuire alla definizionedell'identità della “nostra” comunitàculturale.

Il 24 e 25 ottobre 2013 si sonosvolte presso il Dipartimento delle

2 Il discorso pronunciato da Umberto Eco,"Perché le università?" Umberto Eco per i venticin-que anni della Magna Charta, è oggi leggibileonline in «Magazine Unibo», 30 settembre2013,http://www.magazine.unibo.it/archivio/2013/09/30/perche_le_universita.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Elena Cervellati

Arti (già Dipartimento di Musica espettacolo) dell'Università di Bolognale due giornate di studio intitolate Ladanza nei dottorati di ricerca italiani: meto-dologie, saperi, storie, curate da chi scrivee ospitate all'interno del programmadidattico approntato annualmente daMarco De Marinis per i dottorandi didiscipline teatrologiche del Dottoratoin cinema, teatro e musica. Le giorna-te nascevano dal desiderio di costrui-re un'occasione attorno alla quale fareconvogliare dottorandi e recenti dot-tori di ricerca che avessero impostatoil proprio percorso nell'ambito deglistudi teatrologici intorno agli studisulla danza3. La linea portante che haguidato progettualità e azioni neces-sarie è stata quella di organizzare unagiornata di incontro durante la qualeciascuno potesse presentare la pro-pria ricerca pubblicamente, sì, ma inuna situazione protetta, non di con-vegno vero e proprio, per attivare unconfronto che riteniamo sia partico-larmente utile per gli stessi dottoran-di, oltre che per chi ne segue il per-corso come tutor e per chi, più am-piamente, si occupa di questo ambito

3 Le giornate bolognesi nascevano su un pro-getto il cui interesse ci era stato confermatoda una tavola rotonda svoltasi il 14 dicembre2012 presso l’Université de Nice-Sophia-Antipolis, intorno alla ricerca sulla danza traFrancia e Italia, organizzata da aCD e Air-Danza nel quadro della giornata di studi“Création(s) et Transmission(s)”, condotta daPatrick Germain-Thomas. La tavola rotonda,intitolata Panorama de la recherche en danse enFrance et en Italie, aveva visto la partecipazionedi studiosi francesi e italiani (Elena Cervellati,Léna Massiani, Marina Nordera, Patrick Ger-main-Thomas, Joëlle Vellet, Patrizia Veroli) edottorandi (Karen Nioche, Bianca Maur-mayer), che si erano trovati per mettere aconfronto e condividere le rispettive pratichedi ricerca in ambito universitario, includendoquindi pure i percorsi connessi al dottoratodi ricerca. Per un resoconto della giornata distudio, cfr. il resoconto pubblicato nella rivi-sta dell'aCD, «Recherches en danse», numeromonografico Être chercheurs en danse, n. 1,2014, online: http://danse.revues.org/193.

di studio.Per tracciare il panorama degli stu-

di e delineare un programma di inter-venti il più possibile completo, abbia-mo cercato di contattare tutti i dotto-randi o i recenti dottori di ricerca chein quel momento stavano compiendodelle ricerche coreologiche, anche tra-mite le indicazioni dei colleghi el'associazione di categoria, la Consul-ta Universitaria del Teatro, per avereun panorama il più possibile comple-to. Proprio grazie al contributo attivodei colleghi, l'esito di questa ricogni-zione ha dato dei buoni frutti, e quat-tordici dottorandi e recenti dottori diricerca hanno chiesto di parteciparealle due giornate bolognesi. Ne è natauna articolata mappatura, di cui le pa-gine che seguono intendono dare te-stimonianza raccogliendo relazionivolutamente brevi, capaci di mettereefficacemente a fuoco temi e meto-dologie di ricerca. Durante le giornatedi studio si era scelto di introdurre einquadrare le varie sessioni di lavorocon una relazione di uno studioso diriferimento nell'ambito degli studi ita-liani. Eugenia Casini Ropa (Universitàdi Bologna), Vito Di Bernardi (La Sa-pienza Università di Roma), SusanneFranco (Università di Salerno), Con-cetta Lo Iacono (Università di RomaTre), Alessandro Pontremoli (Univer-sità di Torino) ed Elena Randi (Uni-versità di Padova) si sono così gene-rosamente prestati a preparare e acommentare gli interventi, suddivisiin sei sessioni e hanno poi messo periscritto commenti e riflessioni, arric-chendo il nostro dossier di contributipreziosi.

Voglio ringraziare prima di tuttoproprio questi colleghi, che hannocontribuito con la propria generositàe il proprio contributo scientifico allarealizzazione delle due giornate, do-nando il proprio tempo e il proprio

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

sapere sia in fase di organizzazionesia in quella di realizzazione, condu-cendo infatti i tavoli in cui i relatorierano organizzati, introducendo itemi messi in campo e commentandocostruttivamente gli interventi.

Ringrazio inoltre di cuore i dotto-randi e i dottori che hanno accettatodi esporre e condividere i primi passidi ricerche da poco abbozzate o i ri-sultati di percorsi già consolidati, inuna fertile situazione di ascolto e diattenzione reciproci, sottoponendosi,inevitabilmente, al giudizio dei colle-ghi e degli studiosi più affermati emostrando quindi la sicurezza e il giu-sto orgoglio di chi è coinvolto a fon-do nel proprio lavoro: Laura Aimo(Università Cattolica di Milano), ElisaAnzellotti (Università degli studi dellaTuscia / Université Paris8), GiuseppeBurighel (Université Paris8 / AlmaMater Studiorum-Università di Bolo-gna), Annamaria Corea (La SapienzaUniversità di Roma), Raffaele Cutolo(Università degli studi di Verona),Rita Fabris (Università degli studi diSiena), Emanuele Giannasca (Univer-sità degli studi di Torino), Dora Leva-no (Università degli studi di Napoli“L'Orientale”), Noemi Massari (LaSapienza Università di Roma), LetiziaGioia Monda (La Sapienza Universitàdi Roma), Stefania Onesti (Universitàdegli studi di Padova), Annalisa Picci-rillo (Università degli studi di Napoli“L'Orientale”), Giulia Taddeo (AlmaMater Studiorum-Università di Bolo-gna), Sayaka Yokota (Università diTokio / Alma Mater Studiorum-Uni-versità di Bologna)4. Spero che la plu-ralità di metodologie, saperi, storie di cui

4 In particolare, voglio ringraziare di cuore ledottoresse Stefania Onesti (Università di Pa-dova) e Giulia Taddeo (Università di Bolo-gna), che hanno efficacemente curato l'orga-nizzazione e lo svolgimento delle giornate ehanno poi seguito con competenza la raccol-ta e la revisione editoriale dei saggi qui rac-colti.

sono eredi, portatori attivi e rinnova-tori possa integrarsi in una fertile retepronta a serrare nodi importanti mapure ad aprirsi a nuove connessioni,per consolidare e fare ulteriormentefiorire la nostra disciplina.

Elena Cervellati

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Sessione I

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Introduzione

È nel Settecento che nasce il balletd’action, vale a dire una modalità dispettacolo in cui si vuole raccontareuna storia attraverso il movimentodel corpo accompagnato dalla musicae senza l’uso della parola, una sceltaperaltro non nuova, ma nel XVIII se-colo ripresa e sostenuta teoricamente.Dentro alla nozione “movimento delcorpo” vanno collocate quanto si èsoliti definire danza e pantomima, l’unaintesa come un linguaggio convenzio-nale costituito da una serie di passicodificati che, almeno in origine, nelloro atto di nascita attorno alla finedel Seicento, non significano altroche sé stessi (assai più recentementeHanya Holm, Alwin Nikolais o Simo-ne Forti avrebbero parlato forse dimotion), l’altra delimitabile come unidioma che aspira a rendere un signi-ficato “letterario”.

In realtà, se incrociamo varie fonti,scopriamo che le due modalitàespressive “smarginano” e si mesco-lano. Come ha dimostrato StefaniaOnesti nella sua tesi di dottorato di-scussa all’Università di Padova nel2014 («Dietro la traccia de’ gran maestri».Prassi e poetica del ballo pantomimo italia-no negli ultimi quarant’anni del Settecento),possiamo infatti constatare che incerti momenti del ballet d’action si al-ternano, nel senso che all’una seguel’altra; per esempio, prima due perso-naggi si dichiarano il reciproco amoreattraverso i gesti, poi si spostano ver-so una fiera dove trovano dei paesaniche festeggiano e la scena successivaoffre la visione delle loro danze. Stan-do alle critiche sollevate da alcuni,non dev’essere raro neanche che ladanza “meccanica” sia introdotta inmodo ingiustificato nella storia rap-presentata, funzionando come unasorta di intermezzo posto dentrol’evento scenico, in tale circostanza,

peraltro, ancor più evidentemente al-ternandosi alla pantomima. Può an-che capitare che un personaggio dan-zi mentre un altro contemporanea-mente mima. Infine si dà il caso diuno stesso personaggio che esprimecon la parte superiore del corpo ilsentimento o l’emozione da cui è pre-so, mentre con le gambe simultanea-mente esegue i passi codificati dellatecnica classica. È verosimile che certicoreografi prediligano uno dei treschemi, ma molto probabilmente sitratta di modalità strutturali che con-vivono nella maggioranza dei balletsd’action.

Il proposito di “parlare” attraversol’azione del corpo pone una serie diinterrogativi su quanto essa sa espri-mere e soprattutto non sa esprimere.Chi da coreografo o da osservatorenel Settecento prova a delimitare lezone interdette a tale linguaggio, ten-de a constatare che gli è preclusa lapossibilità di “dire” il passato e il fu-turo: deve concentrarsi sul presente,su un’azione che si svolga drammatica-mente nell’hic et nunc. Gli è sbarrata an-che la capacità di rendere un argo-mentare logico-concettuale. Gli per-tengono, invece, l’espressione dei fattipresenti oltre che dei sentimenti edelle emozioni, un campo – quellodella manifestazione della sfera affet-tiva attraverso il gesto – a cui il Sette-cento, oltretutto, dedica studi di rilie-vo, talvolta giungendo alla conclusio-ne che il gesto sa rendere le passioniin modo più immediato e convincen-te del linguaggio articolato.

Degli sconfinamenti dell’arte co-reutica nel campo “letterario” e in al-tri ambiti limitrofi si occupa nel suointervento Laura Aimo, ponendo taleaspetto in connessione al “contagio”con altre discipline riscontrabilenell’estetica, forse non casualmente

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Elena Randi

nata, almeno nella sua forma moder-na, nello stesso XVIII secolo in cui sisitua la genesi del ballet d’action. LaAimo osserva che l’eterogeneitàdell’oggetto di indagine dell’esteticacomporta un approccio metodologi-co difficilmente definibile, ma, anzi-ché percepirlo come un limite, lo ri-tiene un punto di forza. E altrettantopensa si possa ripetere in riferimentoallo studio dell’arte coreutica. Osser-va inoltre che i coreografi si interessa-no di estetica (la prospettiva di ungrande coreografo come Jean-Geor-ges Noverre, autore delle Lettres sur ladanse, sarebbe filosofica) e che gliestetologi si occupano anche del ge-nere coreutico, come nel caso di Jean-Baptiste Du Bos, Charles Batteux,Étienne Bonnot de Condillac, Got-thold Ephraim Lessing, ecc.

Sull’evoluzione del ballet d’actionnel Novecento focalizza la sua atten-zione Annamaria Corea in un saggioche ruota attorno a tre diverse versio-ni di Romeo e Giulietta, tutte sulla mu-sica di Sergej Prokofiev: quelle diLeonid Lavrovskij (1940, 1946), JohnCranko (1958, 1962) e Kenneth Mac-Millan (1965). Delle tre varianti – unacreata da un artista di matrice russa,

le altre da coreografi formatisi alme-no in parte al Royal Ballet – la studio-sa osserva soprattutto le scelte relati-ve al rapporto danza-pantomima, dicui enuclea alcuni aspetti di rilievo. LaCorea, che preferisce tralasciare l’ana-lisi delle redazioni di Serge Lifar e diFrederick Ashton benché anch’essesu musica di Prokofiev, prova anche adefinire il tipo di pantomima impie-gato dai tre coreografi prescelti. Ellarileva in particolare una differenza trauna pantomima tesa ad imitare reali-sticamente il quotidiano ed una co-struita sulla base di un codice con-venzionale al modo del linguaggio deisordomuti, e cerca di identificare qua-le tipologia rifluisca in ciascuna delletre versioni e quale rapporto essa in-stauri con la danza-danza.

I due interventi presentanoun’impostazione molto diversa: l’unoha un taglio teorico-filosofico, l’altrosi occupa della prassi scenica, ma af-frontano un soggetto non troppo di-stante, che, oltretutto, ha ricadute in-teressanti anche sull’arte coreuticanovecentesca più lontana dalla tecni-ca accademica.

Elena Randi

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Laura Aimo

Sconfinamenti.Per uno stile di pensiero tra estetica e coreologia

Ti seguo. Attendo. Soche quando non ti osservinogallerie né astri,quando il mondo crederà di sapere ormai chi seie dirà: «Sì, ora so»,tu scioglierai,con le braccia in alto,dietro ai capelli,il nodo, guardandomi.

P. Salinas

La danza sfugge a una definizione univoca ed esaustiva. Il suo minimo

comune denominatore, il gesto, lungi dal limitarne il campo di apparizione

specifico, la espone in modo obliquo rispetto a molteplici possibilità

fenomeniche nonché declinazioni teoriche. Chi studi una o più di queste

“epifanie coreiche” è inevitabilmente chiamato al costante riposizionamento e

ridefinizione del proprio luogo di indagine; è costretto – volente o nolente – a

continui faccia a faccia con territori limitrofi, ciascuno con le proprie radure e

zone d’ombra, linguaggi e saperi; ma è anche obbligato a confrontarsi con i

codici degli abitanti o nomadi che attraversano le altrui e proprie terre, fosse

solo per imparare a riconoscerne l’idioma e poter così scegliere

consapevolmente di non approfondirne il dialogo. Dalla storia del teatro

all’antropologia, dai cultural studies alla musicologia, dalla letteratura alle

neuroscienze, dalle arti visive all’estetica ogni studioso di danza fa così

esperienza di continue migrazioni e slittamenti di confine, smarrimenti ma

anche fecondi incontri.

Ed è proprio su un incontro, quello tra danza ed estetica, che ruota il

presente contributo al fine non soltanto di rendere ragione di un personale

progetto e metodologia di ricerca, ma anche di riflettere sul carattere sconfinato e

sconfinante della coreologia ovvero di ogni “discorso, studio di danza”5.

5 Non vi è lo spazio per un approfondimento del concetto di coreologia che, qui assunto a par -

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Laura Aimo

L’intreccio tra studi filosofici e coreologici qui proposto, infatti, non è solo

legato alla specifica formazione di chi scrive, ma affonda le sue radici – come

dimostra la contemporanea fondazione settecentesca qui presa in esame6 – in

una profonda affinità tra le due regioni del sapere. Un’affinità che permette agli

studi di danza non soltanto di confrontarsi con una scienza più consolidata ma

anche di lasciarsi guidare da essa proprio nell’interrogazione della comune

“extraterritorialità”: di quell’essere fuori e, al tempo stesso, dentro differenti

aree disciplinari. Un’affinità che, lungi dal sortire effetti di assorbimento o

riduzione, consente inoltre a entrambe le scienze di mettersi alla prova: l’una

imparando a riconoscere nella varietà e spesso incomunicabilità delle ricerche

che la compongono per lo meno un tratto comune, ovvero quella

costituzionale tensione a unire il diverso che qualsiasi parola sul corpo porta

inscritta in sé; l’altra avendo la possibilità di saggiare la propria capacità

investigativa e, soprattutto, la delicatezza del proprio sguardo di fronte a un

oggetto così materico ed effimero, povero e al tempo stesso evocativo, come la

danza.

Estetica

La disciplina estetica è considerata una scienza moderna non perché prima

non ci siano state indagini sul bello, il corpo o l’immaginazione, ma perché a

partire dal XVIII secolo un termine di uso comune come l’aggettivo “estetico”

viene risemantizzato per indicare e difendere un ampio territorio

tire dal più ampio spettro semantico concesso dalla sua etimologia, consente di includere al suointerno tanto riflessioni teoriche, di diverso taglio e approccio, quanto forme di trasmissioneorale e di notazione tecnica relative all’arte coreica. Si rimanda dunque per un primo approfon-dimento a Nocilli, Cecilia - Pontremoli, Alessandro (a cura di), La disciplina coreologica in Europa.Problemi e prospettive, Roma, Aracne, 2010 e al saggio ivi contenuto da parte di chi scrive (Danza-re l’imitazione, danzare l’espressione. Il gesto nella riflessione filosofica settecentesca e nella fenomenologia dellearti di Susanne Langer, pp. 79-103). Per ulteriori indagini sui saperi e i linguaggi attualmente im-piegati in ambito coreologico si rinvia inoltre a: Franco, Susanne - Nordera, Marina (a cura di),I discorsi della danza. Parole chiave per una metodologia della ricerca , Torino, UTET, 2005; Brandstetter,Gabriele - Klein, Gabriele (a cura di), Methoden der Tanzwissenschaft. Modellanalysen zu Pina Bausch“Le Sacre du Printemps”, Bielefeld, transcript, 2007; Brandstetter, Gabriele - Klein, Gabriele (acura di..), Dance [and] Theory, Bielefeld, transcript, 2012.6 Per ragioni di spazio si è preferito mettere a fuoco questo periodo storico non solo perchéoggetto della ricerca di dottorato e della conseguente pubblicazione da parte di chi scrive (cfr.Aimo, Laura, Mimesi della natura e ballet d’action. Per un’estetica della danza teatrale, Pisa-Roma, Fabri-zio Serra, 2012) ma anche perché luogo di emergenza privilegiato di questioni che verranno poivariamente dispiegate nei secoli successivi, fino all’attuale esplosione e centralità nella scena,tanto coreica quanto estetica, contemporanea (oggetto attualmente d’indagine da parte di chiscrive e a cui ci si riserva di dedicare a breve una riflessione specifica).

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dell’esperienza umana fino ad allora trascurato – o almeno sottovalutato – dalla

ragione. L’estetica nasce infatti da un’esigenza mediatrice volta a riconoscere

valore scientifico al mondo della contingenza e al tempo stesso a ripensare

valori assoluti come la bellezza secondo facoltà soggettive come il gusto. La

definizione che Baumgarten ne dà nel 1750 è in tal senso evidente:

§ 1. L’estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare

in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza

sensibile.

§ 2. Il grado naturale delle facoltà conoscitive inferiori, sviluppato con la

sola pratica senza alcuna conoscenza disciplinare, può essere detto estetica

naturale, ed essere distinto, come è d’uso anche per la logica, in estetica innata

(l’ingegno bello innato) e acquisita; questa a sua volta la si può distinguere in

dottrinale e applicata.

§ 3. Fra le applicazioni principali dell’estetica artificiale (cfr. § 1), che si

aggiunge a quella naturale, ci sarà: (1) preparare la materia adatta per le scienze

che devono essere conosciute in modo preminente con l’intelletto, (2) adattare

alla comprensione comune le conoscenze scientifiche, (3) estendere

l’affinamento della conoscenza anche al di là dei limiti di ciò che possiamo

conoscere in modo distinto, (4) fornire buoni principi a tutti gli studi più gentili

e alle arti liberali, (5) nella vita comune, a parità di condizioni, eccellere nella

condotta.

§ 4. Da ciò le applicazioni speciali: (1) filologica, (2) ermeneutica, (3)

esegetica, (4) retorica, (5) omiletica, (6) poetica, (7) musicale, eccetera7.

Senza addentrarsi in un’analisi dettagliata del complesso testo

baumgartiano8, ciò che emerge immediatamente è il carattere aperto della

definizione. Da una parte l’estetica viene descritta in modo sintetico quale

scienza della conoscenza sensibile, dall’altra questa stessa spiegazione viene

amplificata dall’affollarsi tra parentesi di ulteriori termini che, al pari di scientia,

7 Baumgarten, Alexander Gottlieb, Aesthetica (1750-58), ed. it. a cura di Salvatore Tedesco,L’Estetica, Palermo, Aesthetica, 2000, p. 27.8 Per approfondimenti si rimanda a: Piselli, Francesco, Alle origini dell’estetica moderna: il pensiero diBaumgarten, Milano, Vita e Pensiero, 1992; Tedesco, Salvatore, L’estetica di Baumgarten, Palermo,Centro internazionale studi di estetica, 2000.

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Laura Aimo

fanno riferimento al gradiente teorico della disciplina complicando così lo

sforzo di comprensione del lettore: se infatti l’estetica è insieme teoria,

gnoseologia, arte e scienza, sorge la domanda in merito all’accezione in cui

vadano intesi simili termini.

La questione è resa poi ancora più spinosa dalle successive distinzioni

operate da Baumgarten. Il filosofo afferma che l’estetica come disciplina di

studio è preceduta anzitutto da un vasto sapere implicito. Si tratta di tutta

quella serie di esperienze e osservazioni che articolano la vita quotidiana e che

rappresentano la condizione di possibilità della disciplina estetica, ma non la

esauriscono. I paragrafi 3 e 4 ampliano poi ulteriormente questo orizzonte

profilando una serie di possibili percorsi di applicazione della cosiddetta

disciplina artificiale. L’estetica pare configurarsi nei termini di un’educazione

alla sensazione che può assumere il carattere tanto di una propedeutica al

pensiero intellettuale e, in particolar modo, alla logica quanto di

un’investigazione ed espressione del sapere più propriamente poietico, ossia di

regioni – come quella dell’arte – simbolicamente capaci di produrre ed esibire

la portata significativa del sensibile.

L’indefinitezza metodologica della disciplina estetica non è che una diretta

conseguenza di questa eterogeneità e complessità del suo campo oggettuale,

ovvero dell’inesauribile potenza creatrice e conoscitiva del plesso mente-corpo.

Rispetto a un terreno così vasto come quello dell’esperienza artistica e più

ancora sensibile, oggetto di sezionamento e approfondimento da parte di

innumerevoli sguardi disciplinari, la possibilità di definire in modo preciso e

univoco i concetti e le metodologie propri ed esclusivi dell’estetica risulta

quantomai arduo. Il dubbio ricorrente – tanto da parte degli studiosi di altre

discipline come dell’estetica stessa – è se questa scienza non rischi di volta in

volta, a seconda dello specifico focus d’indagine o del punto d’osservazione, di

ridursi a uno dei saperi speciali che condividono lo stesso orizzonte

investigativo: si tratti della storia e critica d’arte piuttosto che della psicologia

della percezione o della filosofia della scienza.

Come ci tiene però a precisare Baumgarten subito dopo la definizione

proposta, una simile impasse, lungi dal rappresentare una penalizzazione o un

nodo da sciogliere, costituisce il vero punto di forza dell’estetica. Un po’ come

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

le rocce, la sabbia o l’acqua che ricoprono la terra – per riprendere da un’altra

prospettiva la metafora spaziale con cui si è aperto il presente contributo – non

sono un possesso esclusivo di una o più regioni, ma ne precedono la stessa

formazione e denominazione, costringendo inoltre a un loro costante

ripensamento a causa del processo trasformativo che le investe, così l’estetica

può e deve presupporre tutta una serie di questioni che si pongono in diversi

settori scientifici perché è intrecciata e insieme distinta da essi, se ne nutre e al

tempo stesso sembra integrarli.

Più che la definizione di una scienza coerente e in sé compiuta, dotata di un

oggetto o metodo univoco, ciò che bisogna cercare è allora l’interrogazione,

ovvero considerare l’estetica come un problema aperto di cui ci si domanda,

prima che i contorni, in che misura si possa parlare di un “insieme”9.

Coreologia

Un discorso analogo vale anche per gli studi di danza o per lo meno ne

rappresenta un possibile orizzonte esplorativo e una preziosa bussola

d’orientamento. Il movimento di individuazione e insieme di ineludibile “messa

in relazione” che caratterizza nel Settecento l’ingresso di Tersicore nel Parnaso

delle arti imitatrici lo esemplifica in maniera emblematica10.

Accanto al processo di professionalizzazione che porta alla separazione del

ballo sociale da quello teatrale si assiste a una serie di innovazioni tecnico-

coreografiche e dibattiti teorici che tendono a valorizzare la disciplina coreica

sia rispetto alle semplici forme di divertimento o esercizio fisico a cui era

spesso ricondotta sia alle altre espressioni artistiche quali poesia o pittura. In

linea con il gusto del secolo per la sistematizzazione del sapere, la danza tende

9 Cfr. in proposito Garroni, Emilio, Senso e paradosso, Roma-Bari, Laterza, 1995. Per un primoapprofondimento dello statuto della disciplina estetica in Italia oggi si rinvia infine a Russo,Luigi et al., Ripensare l’estetica: un progetto nazionale di ricerca, Palermo, Centro internazionale studidi estetica, 2000; Matteucci, Giovanni (a cura di), Riconcepire l’estetica, numero monografico di«Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico», n. 5, 2012.10 Utili studi per una prima messa a fuoco di tale dinamica: Foster, Susan Leigh, Choreographyand Narrative. Ballet’s Staging of Story and Desire (1996), tr. it. di Alessia Polli, rivista da Clelia Fal-letti, Coreografia e narrazione. Corpo, danza e società dalla pantomima a Giselle , Roma, Dino Audino,2003; Woitas, Monika, Im Zeichen des Tanzes. Zum ästhetischen Diskurs der darstellenden Künste zwis-chen 1760 und 1830, Herbolzheim, Centaurus, 2004; Pappacena, Flavia, La danza classica. Le ori-gini, Roma-Bari, Laterza, 2009; Nye, Edward, Mime, music and drama on the eighteenth-century stage:the Ballet d’action, Cambridge, Cambridge University Press, 2011. Per ulteriori approfondimentibibliografici e storico-teorici a riguardo si rinvia infine a Aimo, Laura, Mimesi della natura e balletd’action, cit.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Laura Aimo

dunque a specializzarsi e a definire il proprio dominio dal punto di vista tanto

artistico quanto riflessivo.

Al tempo stesso, però, questo cammino di identificazione e riconoscimento

è reso possibile solo attraverso continui esperimenti e contaminazioni fuori dai

canali ufficiali della danza accademica nonché del pensiero e della scrittura a

riguardo. L’utilizzo di metafore e similitudini come “poesia muta”, “scultura

animata”, “musica sensibile” o “pittura vivente” lo evidenzia efficacemente.

L’assenza di una tradizione consolidata e di un codice espressivo specifico

costringe ogni discorso sulla danza – si tratti di critica, trattatistica, letteratura o

quant’altro – ad avvicinare il proprio oggetto attraverso un continuo lavoro di

differenziazione e sconfinamento tra diverse arti, saperi, immagini. Un

processo di approssimazione, questo, che sembra inoltre destinato allo scacco.

Ogni definizione infatti non solo risulta insufficiente se presa singolarmente

ma si fonda su una relazione dialettica tra due termini opposti che pare

annullarne la portata semantica: alla staticità di un’arte visiva viene, ad esempio,

accostato un aggettivo indice di mobilità oppure all’impalpabilità delle note

musicali viene attribuito un carattere sensibile.

L’estraneità di Tersicore a qualsiasi dispositivo linguistico-concettuale che

pretenda di definirne con precisione e univocità i confini è dovuta alla natura

concreta, metaforica e attiva del suo mezzo espressivo, il corpo. Un corpo che

diviene però nel Settecento oggetto di intensa interrogazione proprio da parte

della ricerca estetologica prima richiamata. Pensatori della statura di Du Bos,

Batteux, Condillac, Diderot, Lessing ed Engel – solo per citare alcuni degli

autori a cui gli stessi coreografi e teorici di danza del periodo fanno esplicito

riferimento – cominciano a investigare il legame tra gesto e affettività

recuperando così una portata significativa all’espressione corporea, fino a quel

momento sottovalutata o ignorata in quanto non conforme ai criteri

rappresentativi modellati sulla falsariga del linguaggio verbale. Ciò determina

una riformulazione dello statuto stesso dell’arte e, più in generale, del modello

della conoscenza, ma permette anche alla danza – in quanto “messa in scena

del gesto” – di entrare a far parte, di diritto, di questo nuovo sistema del sapere

in costruzione11.11 Per ulteriori approfondimenti si rinvia a Aimo, Laura, Mimesi della natura e ballet d’action, cit. Ilvolume propone infatti due tesi tra loro intrinsecamente legate: dal punto di vista metodologi-

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

A fianco di questo riconoscimento teorico della danza da parte della

riflessione estetica settecentesca, bisogna poi ricordare il particolare taglio

speculativo che adottano gli stessi riformatori della disciplina coreica. Cahusac

tiene a precisare, ad esempio, come il suo trattato voglia distinguersi sia dai

lavori storici di Bonnet e Ménestrier sia da quelli più propriamente tecnici di

Arbeau e Feuillet: passi e figure di danza sono dati nel suo lavoro per scontati

come la grammatica, ciò che egli propone è «une espèce de poétique de cet

art»12. Oltre agli intenti programmatici dei riformatori della danza vi è poi il

riconoscimento del loro lavoro da parte degli stessi filosofi del periodo a

provare il nuovo taglio dato al discorso coreologico. Noverre rappresenta in

quest’ottica una figura chiave proprio per l’attenzione che gli viene riservata sin

dalla pubblicazione delle Lettres sur la danse: a partire da Lessing – che insieme a

Bode si occupa nel 1769 di tradurla in tedesco – fino ad arrivare all’inserimento

di alcune tra le pagine più significative delle lettere all’interno della sezione

Danse di un volume dell’Encyclopédie methodique.

Lo sguardo del maestro di ballo è considerato filosofico perché – riprendendo

un’espressione di Sulzer13 – è capace di “rischiarare” l’arte della danza: esso non

si limita infatti a descriverla ma a intrecciarla e confrontarla con le altre Muse

interrogandone fini e mezzi specifici. Mettendo in discussione la disciplina

coreica a partire dai suoi fondamenti teorici costitutivi, il coreografo francese è

inoltre capace di illuminare non soltanto specificità proprie della danza stessa,

ma anche regioni dell’esperienza tanto artistica quanto conoscitiva ancora

inesplorate. La struttura della sua opera maggiore lo chiarisce. Ogni lettera è

sviluppata intorno a un tema preciso – si tratti della scelta del soggetto o della

co si sostiene che la danza settecentesca possa essere avvicinata solo ex negativo, ovvero attraver-so tutte quelle tracce e intersezioni con altre discipline da essa lasciate: uniche orme capaci dirifletterne, seppur in modo indiretto e sempre parziale, un profilo. Dal punto di vista teorico-storiografico, invece, si mostra come la sperimentazione e riflessione coreica del XVIII secoloabbia svolto un ruolo determinante nello slittamento del più ampio paradigma classico dellamimesi della natura da un’accezione imitativo-riproduttiva a una espressivo-creativa.12 Cahusac, Louis de, La danse ancienne et moderne ou traité historique de la danse (1754), a cura di Na-thalie Lecomte, Laura Naudeix, Jean Noë Laurenti, Paris, Desjonquères/Centre National de laDanse, 2004, p. 41.13 Sulzer, Johann Georg, s.v. Ballet, in Id., Allgemeine Theorie der schönen Künste in einzelnen, nachalphabetischer Ordnung der Kunstwörter aufeinanderfolgenden, Artikeln abgehandelt (1792), ripr. anast.Hildesheim, Georg Olms, vol. I, 1970, pp. 289-296: p. 289 («Si è abituati a dare il nome di bal-letto a ogni danza figurata sul palcoscenico; ma a tal proposito Noverre – che analizza la suaarte con l’occhio di un filosofo – merita di essere ascoltato. Egli considera come un mero di -vertimento ogni danza che non rappresenti un’azione precisa con intrighi e soluzioni in modochiaro e senza confusione» traduzione di chi scrive).

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Laura Aimo

composizione di un balletto o ancora delle conoscenze necessarie per un buon

maestro di ballo – e segue un tipo di argomentazione che, muovendo da una

descrizione e critica della danza del tempo, ne mette in discussione i difetti ma

anche le potenzialità attraverso un confronto con i progressi delle altre arti ma

soprattutto con i loro principi teorici14. L’opera di Noverre, inevitabilmente

focalizzata sulla questione della rappresentazione gestuale, diviene così a sua

volta termine di confronto per le altre arti e riflessioni teoriche che si trovino a

intrecciare l’espressione corporea, come dimostra l’attenzione – seppure critica

– che gli riserva Engel nel suo trattato sull’arte della recitazione15.

Per uno stile di pensiero

Da questo rapido schizzo di alcune direttrici di intersezione settecentesche,

estetica e coreologia emergono quali cerchi concentrici di cui il primo

comprende l’altro ma al tempo stesso il secondo esibisce il primo.

Da una parte la riforma coreica – che vede trasformarsi la danza da puro

intrattenimento a spettacolo compiuto, anticipando così quello che sarà il

balletto romantico – non sarebbe stata possibile senza quell’opera di

valorizzazione dell’esperienza sensibile che caratterizza il sapere del XVIII

secolo. Solo in virtù della “grande catena dell’essere” – ovvero di quella che,

per parafrasare Joseph Addison, rappresenta il graduale processo e la

prodigiosa varietà di specie del mondo della vita – il pensiero settecentesco

recupera le regioni più oscure del soggetto ed elabora termini, concetti e

immagini per esprimerlo, sia in campo più strettamente coreologico sia in

quello estetologico.

Al tempo stesso queste riflessioni filosofiche avrebbero perso preziosi

motivi di stimolo ed esemplificazione senza le innovazioni in campo coreico

ovvero a prescindere da quell’arte che fa del corpo l’inaggirabile suo mezzo e14 Cfr. Noverre, Jean Georges, Lettres sur la danse et sur les ballets (1760), ed. it. parziale a cura diAlberto Testa, Lettere sulla danza, Roma, Di Giacomo, 1980. Per un primo approfondimentodell’opera si rinvia a: Randi, Elena, Pittura vivente. Jean Georges Noverre e il balletto d’action, Venezia,Corbo e Fiore, 1989; Dahms, Sybille, Der konservative Revolutionär. Jean Georges Noverre und die Bal-lettreform des 18. Jahrhunderts, München, epodium, 2010. Per un accompagnamento alla letturaitaliana della nuova edizione dell’opera che il maestro di ballo dà alle stampe a inizio Ottocentosi rinvia inoltre a Noverre, Jean Georges, Lettere sulla danza, sui balletti e sulle arti (1803), a cura diFlavia Pappacena, tr. it. di Alessandra Alberti, Lucca, LIM, 2011.15 Cfr. Engel, Johann Jakob, Ideen zu einer Mimik (1785-1785), tr. it. di Giovanni Rasori, Lettereintorno alla mimica, Milano, Giovanni Pirrotta, 1818-1819, 2 tt. (rist. anast. Roma, E&A, 1993), inparticolare le lettere XXIX-XXXII.

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fine espressivo. Basti pensare, ancora una volta, all’importanza ricoperta nelle

riflessioni di Du Bos dall’analisi della pantomima antica piuttosto che di alcune

sue rielaborazioni coreiche di inizio Settecento – come la messa in scena del

quarto atto dell’Horace di Corneille durante le Grandes Nuits al castello di Sceaux

(1714-1715) – oppure agli studi di Condillac sull’origine delle conoscenze

umane così influenzati dall’indagine del langage d’action o, ancora, al ruolo

essenziale ricoperto dalla danza, a fianco della musica, nello slittamento del

paradigma mimetico dell’arte in termini espressivi, a partire dalla riflessione di

Batteux fino ad arrivare alle soglie del Romanticismo.

Pur sempre in balia di quella dialettica tra inclusione ed esclusione che

caratterizza foucaultianamente qualsiasi discorso scientifico, sia l’oggetto

estetico sia quello più specificatamente coreico diventano a partire dal

Settecento ineludibili termini di studio, interrogazione e confronto. Non solo.

L’extraterritorialità tanto della disciplina estetologica quanto di quella

coreologica, lungi dal significare immunità o estraneità alla chiarezza e

distinzione del metodo, riporta all’attenzione della comunità scientifica – di ieri

e di oggi – il doppio movimento inscritto nella radice stessa di logos: ovvero il

gesto di selezione e scelta, ma anche di raccolta e unione che caratterizza

qualsiasi attività razionale del pensiero e funzione dichiarativa della parola e,

dunque, ogni ricerca autentica e feconda.

In conclusione – pur nella comprensiva e necessaria ricerca di confini e

statuti per la disciplina coreologica – occorre forse chiedersi se gli studiosi di

danza non condividano anzitutto uno statuto di “apolidia” che, impedendo

loro di rispondere esclusivamente alle leggi di uno o più regioni del sapere, li

chiama a fare del proprio oggetto di indagine anche uno stile di pensiero:

ovvero un preciso e chiaro, quanto mai inafferrabile o assoluto, passo di danza

tra sponde straniere e insieme inaspettatamente famigliari.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Annamaria Corea

“Romeo e Giulietta”.Un perfetto case-study per il balletto narrativo del Novecento

Le riflessioni che seguono hanno l’intento di mettere in luce alcune

problematiche relative al balletto narrativo novecentesco attraverso l’esempio di

Romeo e Giulietta, nelle versioni coreografiche di John Cranko (1958, 1962) e

Kenneth MacMillan (1965) a confronto con quella russa di Leonid Lavrovskij

che le precede (1940, 1946). Provenienti dalla stessa “scuola” inglese del Royal

Ballet e considerati fra i maggiori narratori del balletto moderno, entrambi si

sono avvicinati alla tragedia di Shakespeare più fortunata del repertorio

coreutico, favorita già durante gli anni di affermazione del ballet d’action, ma che

soprattutto nel Novecento ha vantato innumerevoli trasposizioni in danza con

partiture di diversi compositori16.

La musica celeberrima di Prokofiev composta nel ’35, dapprima giudicata

inadatta al balletto, si affermò solo l’11 gennaio 1940 al Teatro Kirov con il

debutto di Romeo e Giulietta di Lavrovskij, nei ruoli principali Galina Ulanova e

Constantin Sergeiev17. È Joan Lawson a recensire sul periodico inglese «The

Dancing Times» la nuova produzione sovietica giudicata «a daring innovation»,

avendo utilizzato il coreografo danze che «arose from the basic problems of

the characters, in relation to the play»18. Lawson, futura autrice di un libro

intitolato Mime (1957), si sofferma nel suo articolo sulla funzione della

pantomima nel balletto, lamentando l’uso che i coreografi moderni fanno di

16 Queste considerazioni nascono da una ricerca più ampia sul balletto narrativo inglese tra glianni trenta e settanta del Novecento, svolta durante il corso di Dottorato in Tecnologie digitalie metodologie per la ricerca sullo spettacolo dell’Università di Roma “La Sapienza” e conclusanel marzo 2012, tutor Silvia Carandini.17 La musica fu commissionata dal Kirov di Leningrado. Insieme al regista e direttore artisticodel Teatro dell’Opera, Sergej Radlov, Prokofiev scrisse il libretto, quindi compose la partitura. IlKirov si tirò indietro e successivamente anche il Bolshoi, a cui era stata sottoposta l’opera, poi-ché fu giudicata poco danzabile. Perciò la prima del balletto fu data a Brno (Cecoslovacchia)nel ’38 con la coreografia di Vania Psota nei panni di Romeo e come Giulietta Zora Sembero-va. Cfr. Semberova, Zora, Prokofiev’s First Juliet, in «Ballet Review», vol. 22, n. 2, estate 1994, pp.20-23. Solo nel '40 fu messa in scena la versione di Lavrovskij al Kirov e nel '46 al Bolshoi.18 Cfr. Lawson, Joan, A New Soviet Ballet. «Romeo and Juliet», in «The Dancing Times», settembre1940, pp. 700-701.

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Annamaria Corea

essa, per esaltare invece quella felice mescolanza di gesto e danza che si trovava

nel lavoro di Lavrovskij:

Dramatic Dance certainly contains Pantomime, but modernchoregraphers, not fully understanding it, often treat it off-handedly. They describe the gestures that accompany the words ofthe actor, «Pantomime», when they are transferred to Ballet. But inBallet, these imitative gestures immediately become trivial andcommonplace and are often converted into the language of adeaf-mute. True pantomime is a theatrical performance, in whichcharacter, emotion and passion are expressed by the movementsof the body, instead of the voice.19

Secondo l’autrice i coreografi suoi contemporanei non comprendono

pienamente la pantomima, poiché usano gesti descrittivi e imitativi che,

trasferiti nel balletto, risultano banali e scontati, oltre che vicini al linguaggio

dei sordomuti. Nel balletto è importante, invece, che la gestualità nasca dal solo

linguaggio corporeo e non da quello verbale. È la resa dei personaggi a

interessare maggiormente Lawson, la quale mette in evidenza di Ulanova il

sapersi immergere nella parte e di Gerbek, l’interprete di Tebaldo, la

straordinaria forza attoriale, difficile da analizzare ma riposta certamente negli

sguardi, nella camminata, nel gesto di girarsi arrogantemente con la testa.

Infine, l’accento si sposta su un altro aspetto fondamentale del balletto

narrativo, la presenza di un libretto ben strutturato, affermando che «only a

genuine, deep and exciting libretto can serve as a basis for modern Ballet»20.

In effetti, quando si parla di balletto narrativo la questione del libretto è

cruciale – così come quella della pantomima – e ritorna qualche anno più tardi

nella recensione di A. H. Franks alla prima tournée londinese della compagnia

del Bolshoi. Urge per lo storico la necessità di evidenziare le differenze fra il

balletto russo e quello dell’Europa occidentale, riscontrate in particolare

nell’uso dell’elemento scenografico e letterario. Un accentuato realismo sia

della messa in scena che dell’interpretazione attoriale è la caratteristica

principale dei sovietici, che impiegano grandi masse sul palcoscenico e mettono

da parte la pantomima convenzionale, rimpiazzandola con una gestualità più

naturale. D’altro canto, secondo Franks, i coreografi occidentali non

concepiscono un tipo di realismo come questo nella danza, privilegiando la

19 Ivi, p. 701.20 Ivi, p. 702.

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qualità dell’immaginazione. Inoltre, ciò che i russi consideravano di primaria

importanza, il libretto, per gli altri non era che «a springboard for a flight into

fancy»21. Difatti, nella maggior parte dei casi i balletti sovietici nascevano dalla

stesura preliminare di un libretto dettagliato e preciso, così come era stato per

Romeo e Giulietta, scritto dal regista Radlov in collaborazione con Prokofiev e

più volte modificato con l’apporto del coreografo, poiché solo con un libretto

ben costruito il messaggio poteva essere chiaro ed efficace e assolvere quindi

alla funzione didattica e di trasmissione dei valori che, grazie al cosiddetto

“realismo socialista”, il regime sovietico si proponeva di divulgare22.

Il programma di balletti “a serata intera” del Bolshoi, dato al Royal Opera

House nell’ottobre 1956, esibiva le caratteristiche di un rinnovato balletto

d’azione, per molti aspetti distante dagli esempi del secolo precedente,

nonostante affrontasse due classici come Giselle e Il lago dei cigni23, e che portava

alto il nome della scuola accademica russa con una tecnica che poteva essere

spettacolare – i ballerini che tenevano con una sola mano le ballerine al di

sopra della loro testa – oppure celata da quella perfetta fusione delle parti

mimate e danzate, attraverso cui si raggiungeva una qualità dell’azione fluida e

continua24. Il dance drama russo manteneva alcune caratteristiche del balletto

tradizionale, l’intento narrativo, la centralità del libretto e la divisione in più atti,

ma sostanzialmente se ne distaccava sia nei contenuti che nelle modalità. Le

sequenze pantomimiche intervallate dai numeri danzati, struttura consueta dei

balletti di Petipa, vennero sostituite da un tipo di gestualità che ricordava molto

21 Cfr. Franks, Arthur Henry, The Bolshoi Ballet. Some Generalisations, in «The Dancing Times»,novembre 1956, pp. 67-69: p. 68.22 Basterà qui menzionare qualche titolo: Le fiamme di Parigi aveva come tema la Rivoluzionefrancese, Spartacus la rivolta degli schiavi romani, Laurentia la classe contadina spagnola, Il sentie-ro del tuono l’apartheid.23 Il programma della stagione inglese prevedeva Giselle, Il lago dei cigni, Romeo e Giulietta e La fon-tana di Bachisarai. Ricordiamo inoltre che nel 1955 la versione filmica di Romeo e Giulietta era sta-ta premiata al Festival di Cannes.24 È lo stesso coreografo a dire di aver usato «a form of film technique to achieve a continuousflow of action», citazione in Cole Howard, Camille, The Staging of Shakespeare’s Romeo and Ju-liet as a Ballet, San Francisco, Mellen Research University Press, 1992, p. 54, precedentementeriportata in Lawson, Joan, A History of Ballet and Its Makers, London, Dir Isaac Pitman andSons Ltd., 1964, p. 188. La stessa studiosa sottolinea come la scenografia di Pyotr Williams ab-bia contribuito a rendere questo effetto di fluidità; il palcoscenico era fatto di porzioni di spa -zio che come in una sequenza potevano essere svelate o nascoste attraverso un sistema di siparie trasparenze che si aprivano e chiudevano all’occorrenza (ibidem).

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Annamaria Corea

quella del cinema muto25 e che non era affatto secondaria nell’economia del

balletto:

[…] it was Lavrovskij’s gesture-laden mime – sottolineanoMillicent Hodson e Kenneth Archer – which stunned spectatorshere [in Romeo e Giulietta]. In the context of the intricateneoclassical choreography then current in the West, audiencesfound it strange to see so few steps in a ballet. Lavrovskij used lotsof walking and running. He punctuated such ordinary movementswith jetés and arabesques, but even these steps were shaped bydramatic gesture.26

Fu comunque un evento di grande impatto per gli inglesi, privi di un’antica

tradizione ballettistica e con una compagnia stabile nazionale ancora giovane,

stimolati quindi a elevare lo standard delle loro produzioni27. Il Royal Ballet

aveva prodotto un solo balletto lungo, Cinderella di Prokofiev/Ashton (1948), e

nel 1957 sarebbe arrivato The Prince of the Pagodas di John Cranko e le musiche

appositamente create da Benjamin Britten, ma per il resto il repertorio era

costituito di balletti brevi o in un solo atto. Prima Cranko, poi MacMillan non

poterono che guardare al modello russo per i loro primi esperimenti nel genere

d’azione a serata intera28.

Il balletto di Prokofiev venne commissionato a Cranko dalla Scala di Milano

in collaborazione con La Fenice di Venezia e andò in scena il 26 luglio 1958

sull’isola di San Giorgio Maggiore, grazie all’intermediazione della Fondazione

Giorgio Cini che ospitava le due istituzioni in quello spazio magico che è il

Teatro Verde. La scenografia tutta d’oro che si imponeva maestosa sul grande

palco en pleine air circondato da alberi e laguna, era di Nicola Benois, e nei ruoli

25 Cfr. Barnes, Clive, Barnes on … What Is Ballet Acting, in «Ballet News», giugno 1982, vol. 3, n.12, p. 46.26 Cfr. Hodson, Millicent e Archer, Kenneth, Three Romeos…, in «Dance Now», vol. 1, n. 3, au-tunno 1992, pp. 11-21: p. 13. 27 Cfr. Percival, John, Modern Ballet, London, The Herbert Press, 1980 (1970), p. 14. Risalgonoall’epoca del dance drama russo le innovazioni tecniche del coreografo Feodor Lopuchov e delladanzatrice e insegnante Agrippina Vaganova, che nel 1934 aveva pubblicato il trattato Le basidella danza classica.28 Le prime versioni occidentali del balletto shakespeariano con la musica di Prokofiev furonoquelle di Serge Lifar e Frederick Ashton, entrambe del '55. Il primo compose il balletto perl’Opéra di Parigi, sottoponendo la partitura a notevoli modifiche e aggiunte. Il secondo creòRomeo e Giulietta per il Balletto Reale Danese nel 1955, in un solo atto, concentrando la storiasui due amanti. Alle scene corali, per lo più convenzionali, faceva da contraltare il lirismo deipassi a due. La coreografia si distinse inoltre per l’uso di molte scene pantomimiche interpreta -te dai notevoli mimi della scuola di Bournonville.

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principali vi comparivano Carla Fracci e Mario Pistoni, alternati da Vera

Colombo e Giulio Perugini. L’anno successivo lo spettacolo veniva replicato

alla Scala e rimase in repertorio per diversi anni29. Sarà, tuttavia, la versione

definitiva del 1962, ripresa dal coreografo per la compagnia del Balletto di

Stoccarda, con una nuova scenografia di Jürgen Rose, a girare il mondo insieme

agli altri straordinari balletti d’azione di Cranko, Onegin (1965) e La bisbetica

domata (1969)30.

Pur nella loro diversità, le due produzioni di Romeo e Giulietta dovevano di

certo essere accomunate dallo stile di un coreografo che, se ancora giovane,

aveva già sviluppato una personale cifra, riconoscibile ad esempio nella

complessità delle scene corali e nella spiccata teatralità dell’insieme. La critica

italiana fu entusiasta dell’evento «maiuscolo e memorabile» e dall’esito

«trionfale», che aveva avuto fra gli ospiti di spicco Jean Cocteau:

John Cranko è un coreografo di slancio moderno, benchécresciuto alla tradizionalista scuola inglese. Pur non essendo uscitonella realizzazione del balletto ammirato iersera dai canoni di unevoluto classicismo, ha dato libero corso alla ben provvedutafantasia massimamente nelle scene d’assieme. Veramentesuggestivi i momenti del duello Tebaldo-Mercuzio e Tebaldo-Romeo. Di toccante risalto il “notturno” d’amore, il commiato deidue giovani amanti e il tragico finale.31

Per Elizabeth West, che stilò invece il resoconto della versione scaligera

dell’anno dopo, rimaneva superbo il trattamento dei gruppi in scena, ma non

altrettanto incisivi erano stati i passi a due, privi alcuni di romanticismo e con

un Romeo dall’atteggiamento altezzoso e impulsivo, diverso dalla versione

precedente32.

29 Per questa prima rappresentazione la Scala forniva il corpo di ballo, lo scenografo Nicola Be-nois, il coreografo (che aveva l’anno prima messo in scena a Milano The Prince of the Pagodas) e ildirettore d’orchestra Luciano Rosada, la Fenice metteva a disposizione l’orchestra e le compar-se; cfr. Romeo e Giulietta. Balletto in tre atti ed epilogo (dalla tragedia di W. Shakespeare) , 26-27-28 luglio1958 (programma di sala), Venezia, Teatro La Fenice, 1958. Per la cronologia completa del bal -letto alla Scala, si veda Vitalini, Andrea (a cura di), Romeo e Giulietta alla Scala dal 1959 al 2003, inRomeo e Giulietta, Stagione 2007-2008 (programma di sala), Milano, Edizioni del Teatro alla Sca-la, pp. 64-79. Per ulteriori informazioni sulle rappresentazioni italiane e non, si veda Testa, Al-berto (a cura di), Romeo e Giulietta, Roma, Di Giacomo Editore, 1981.30 Cranko aveva lasciato il Royal Ballet ed era divenuto direttore della Compagnia del Balletto diStoccarda nel 1961, ruolo che ricoprì fino alla sua prematura morte nel 1973; cfr. Percival,John, Theatre in My Blood. A Biography of John Cranko, New York, Franklin Watts, 1983.31 Cfr. Bert., «Romeo e Giulietta» al Teatro di S. Giorgio, Lo spettacolo, in «Il Gazzettino», 27 luglio1958, p. 3.32 Cfr. West, Elizabeth, Cranko’s Romeo and Juliet. A Success in Milan, in «The Dancing Times»,aprile 1959, pp. 335-336.

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Annamaria Corea

Il balletto di Cranko si distanzia dal suo antecedente russo sotto diversi

aspetti, pur risultando questo un punto di partenza indiscutibile e una base su

cui innestare la propria visione del dramma shakespeariano:

La mia maggiore preoccupazione – spiega Cranko – è stataquella di reagire all’impostazione puramente mimica che al ballettodi Prokofiev hanno dato e danno gli interpreti russi. Ho vistorecentemente a Londra il celeberrimo Bolshoi ed ho riportatol’impressione che l’accentuata preoccupazione mimica deicoreografi russi tolga slancio e poesia all’intelligenza del ballo […].[…] ho dato assoluta preminenza alla danza, ottenendo, mi pare,un maggior lirismo. Ho accentuato, viceversa, i momenti tragicidella vicenda così da renderla più vibrante ed insieme aderente allospirito shakespeariano.33

Eppure Eugenio Montale scrisse del balletto come di un «dramma mimico»

in cui il coreografo aveva introdotto dei ballabili e dei passi a due che – anche

secondo la sua opinione – non erano di certo la parte più interessante del

balletto; «attraentissimi» per lo scrittore erano, d’altra parte, «gli squarci musicali

descrittivi della lunga serie di combattimenti e di duelli»34 del secondo atto e

dell’epilogo. Sulla stessa linea di Cranko, lo scenografo Benois prendeva le33 Cfr. G., Maggiore lirismo e minore mimica, in «Gazzetta di Venezia. Gazzettino-Sera», 26-27 luglio1958, p. 3.34 Montale, Eugenio, Splendida notte d’estate sulla laguna di San Giorgio, in Romeo e Giulietta (pro-gramma di sala), Venezia, Edizioni del Teatro La Fenice, 2006, pp. 25-28: p. 27, precedente -mente pubblicato in «Corriere d’Informazione» (1958).

Foto 1: Carla Fracci (Giulietta) e Mario Pistoni (Romeo), Teatro Verde - 26 luglio 1958.

(Foto conservata presso il Centro Studi Teatro della Fondazione Giorgio Cini, Venezia)

Foto 2: Mario Pistoni (Romeo) e Walter Venditti (Paride), Teatro Verde - 26 luglio 1958.

(Foto conservata presso il Centro Studi Teatro della Fondazione Giorgio Cini, Venezia)

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

distanze dalla concezione realistica dei russi, avendo creato una scena unica con

arche che nascondevano micro-scene svelate di volta in volta e vibranti

«un’atmosfera vagamente irreale» – questo l’intento dell’autore – visto che

quando si tratta di danza non si può «cadere nel verismo della ricostruzione

storica»35.

Nondimeno la versione di Cranko doveva lasciare la sensazione di una

spiccata vitalità scenica se Richard Cragun, in seguito nel ruolo di Romeo,

affermava che «you can smell the olive oil»36, in riferimento all’atmosfera della

scena iniziale al mercato di Verona; una piccola città popolata di acquaioli,

contadini, mercanti, zingare, e direttamente coinvolta negli scontri delle

famiglie Capuleti e Montecchi. Tra scene di vita quotidiana e straordinaria,

come la festa del Carnevale nel secondo atto con giocolieri e maschere, sono

inseriti i duelli cruenti e fatali dei personaggi principali. Cranko non modificò la

struttura del libretto originale, che già comprendeva la scena del mercato e

quella del Carnevale, solo il finale che lasciava spazio all’ottimismo con la

riconciliazione delle famiglie fu sostituito da una conclusione tutta tragica

dominata dai corpi inermi dei due protagonisti e di Paride. La stessa desolante

immagine chiude la versione di MacMillan per il Royal Ballet, andata in scena il

9 febbraio 1965, anch’essa più o meno fedele alla struttura narrativa del libretto

russo, con un ordine lineare degli eventi scandito in tre atti, ma con l’aggiunta

di sezioni musicali dedicate al giovane protagonista.

Rimanendo più o meno invariata la struttura drammaturgica, sono quindi i

diversi elementi della messa in scena a fare il gioco delle differenze fra una

versione e l’altra; ecco allora che il realismo della versione russa assume un

carattere più accentuato per la notevole dimensione dello spazio scenico e

l’impiego di una grande quantità di ballerini e comparse; mentre ciò che emerge

dal balletto di Cranko è più specificamente l’atmosfera di vitalità e dinamismo

dovuta alla sapienza del coreografo di orchestrare i singoli gruppi, rendendoli

attivi sia nello spazio inferiore che superiore del palcoscenico; pensiamo anche

35 Citazione di Nicola Benois, in G., Maggiore lirismo e minore mimica, cit., p. 3.36 Syse, Glenna, Stuttgart “Romeo, Juliet” is movement, not moving, in «Sunday Times», 14 luglio 1977.Si veda anche l’articolo di Kisselgoff, Anna, Ballet: Exciting ‘Romeo’, in «New York Times», 31maggio 1975: «One of Mr. Cranko’s most inspired and original touches here was his sense ofplace. Quite rightly, he created a small-town Verona whose people were still close to the earth.The countryside is nearby».

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Annamaria Corea

alla vivacità dei duelli, all’introduzione di passi jazz nel pas de trois di Romeo,

Benvolio e Mercuzio del primo atto, elemento jazz peraltro già presente nella

musica, o ancora all’interazione fra i personaggi principali e il corpo di ballo

nelle varie scene d’insieme37.

Diversamente da quest’ultimo, il balletto di MacMillan – primo full-length

ballet della sua carriera – assume un aspetto volutamente monumentale,

ottenuto più grazie alla scenografia di Nicholas Georgiadis che alla costruzione

coreografica degli ensemble alquanto convenzionali. Il cuore del balletto,

infatti, è costituito dagli straordinari passi a due, creati sulle doti di Lynn

Seymour e Christopher Gable, da cui egli era partito per la realizzazione del

lavoro38. Se delle scene d’insieme il coreografo è il principale ideatore, per i

duetti così come per gli assoli l’apporto del singolo danzatore diviene

fondamentale. È significativo che le Giuliette di Cranko e MacMillan siano

considerate fra le migliori danzatrici-attrici del balletto moderno, Marcia

Haydée (ma anche la prima Fracci) e Lynn Seymour, diplomate entrambe alla

scuola del Royal Ballet. Quanto allora la formazione di un danzatore, insieme

alle sue speciali doti, determina lo stile di una coreografia? È chiaro che il

livello espressivo del movimento non dipende solo dal talento ma anche dalle

specifiche tecniche apprese39.

Il programma di studio della Royal Ballet School, supervisionato dalla sua

fondatrice Ninette de Valois, prevedeva oltre alle lezioni di recitazione teatrale

per il biennio di specializzazione quelle di mimo tenute da Ursula Moreton,

considerate fondamentali per il controllo del corpo e lo sviluppo delle capacità

espressive degli allievi40. Il corso era incentrato sulla naturalezza del port de bras,

37 Cfr. Hodson, Millicent e Archer, Kenneth, Three Romeos…, cit., p. 16. 38 MacMillan aveva già coreografato il passo a due della scena del balcone per la tv canadese.Ashton, allora direttore della compagnia, era rimasto soddisfatto del risultato, gli affidò quindil’intera coreografia, imponendogli poco prima del debutto la presenza di Margot Fonteyn e Ru-dolf Nureyev per la prima a seguito di una scelta puramente commerciale presa insieme al con-siglio di amministrazione del teatro. Cfr. Perry, Jann, Different Drummer, the Life of Kenneth Mac-Millan, London, faber and faber, 2009.39 Stimolante a questo proposito, anche se relativo all’attività di Ashton, è il saggio di Morris,Geraldine, Dance Partnerships: Ashton and His Dancers, in «Dance Research», vol. 19, n. 1, estate2001, pp. 11-59. L’autrice sottolinea di Lynn Seymour le doti fisiche ed espressive (piedi arcua-ti, corpo flessibile, fluidità) e il fatto che avesse studiato, oltre che con Ursula Moreton, con uncollaboratore di Vaganova, Nicolaj Svetlanov, da cui apprese come esprimere le emozioni con ilgesto di una mano, con un piede sollevato o con un mezzo giro della testa e degli occhi.40 Cfr. De Valois, Ninette, Invitation to the Ballet, London, John Lane the Bodley Head, 1953(1937), pp. 243-244. Su Ursula Morton si veda Newman, Barbara, Moreton, Ursula, in Internatio-nal Encyclopedia of Dance, New York-Oxford, Oxford University Press, 1998, vol. IV, p. 463.

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sull’uso delle mani, del polso e della testa e sul vocabolario di gesti che

l’insegnante aveva imparato dall’italiana Francesca Zanfretta. In un recente

saggio Giannandrea Poesio ha riflettuto sulle motivazioni che spinsero de

Valois a scegliere il metodo di Zanfretta piuttosto che quello del più noto

Enrico Cecchetti, con cui ella stessa aveva studiato per cinque anni. Riteneva

forse che il sistema di gesti di Cecchetti fosse difficile da tramandare, lasciando

troppo spazio alla soggettività e all’improvvisazione ed essendo radicato in

tradizioni teatrali ormai desuete. L’approccio oggettivo e meno elaborato di

Zanfretta era probabilmente più vicino al modo di essere degli inglesi che non

hanno una naturale propensione a un’accentuata gestualità41.

È interessante notare, sfogliando i numeri della rivista «The Dancing

Times», come già a partire dagli anni venti del Novecento in ambito inglese si

riservi attenzione alla pantomima con la pubblicazione di articoli firmati da

autorevoli voci. L’idea condivisa era che l’acting without words fosse efficace più a

livello didattico che coreografico, funzionando come una sorta di maieutica in

grado di far emergere la personalità dei danzatori e migliorare così le loro

qualità attoriali, indipendentemente dal metodo di studio adottato42.

L’insegnamento della pantomima convenzionale, così come praticata nel secolo

passato, era comunque necessario per la messinscena del repertorio classico,

che gli inglesi iniziarono a rappresentare sin dagli anni trenta grazie all’iniziativa

di de Valois e alla vantaggiosa presenza in Inghilterra di artisti russi provenienti

dai Teatri Imperiali di San Pietroburgo che contribuirono non poco alla

ricreazione dei balli ottocenteschi e delle parti mimiche. C’è stato quindi in

quegli anni un recupero e un’attenzione particolare alla pantomima classica,

confermati anche dal libro di Joan Lawson sopra citato, pubblicato nel 195743,

41 Cfr. Poesio, Giannandrea, The Irish and the Italians: de Valois, the Cecchettis and the “other” balletmime, in Cave, Richard e Worth, Libby (a cura di), Ninette de Valois. Adventurous Traditionalist, Al-ton, Dance Books, 2012, pp. 97-104. L’autore mette in luce la formazione di Zanfretta alla Sca-la negli anni '70 dell’Ottocento e la lega, in assenza dei Cecchetti in quel periodo, alle pose sce -niche di Serafino Torelli, attore e autore di un trattato per cantanti d’opera e danzatori che, sep -pur basato sulla tradizione della Commedia dell’Arte, non lasciava spazio all’improvvisazione.42 Fra queste voci, quella dello storico Mark Perugini, i cui articoli sul mimo, apparsi sul perio -dico a puntate, in seguito alla richiesta dei lettori, vennero ripubblicati nel volume Mime, Lon-don, The Dancing Times, Limited, s.d. [probabilmente fra 1924 e il 1925]. Ricordiamo anche lastessa Moreton, Tamara Karsavina, Serafina Astafieva, Edouard Espinosa, Audrey Williamson,etc. 43 Cfr. Lawson, Joan, Mime. The theory and practice of expressive gesture with a Description of its Histori-cal Development, with Drawings by Peter Revitt, New York, Pitman Publishing Corporation, 1957.Sono vari i settori (teatro, balletto, pantomima) e le forme di mimo contemplate dall’autrice

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che si proponeva di fornire allo studente lettore non solo una base teorica e

storica della materia ma anche un compendio di disegni esemplificativi dei gesti

utilizzati nel balletto dell’Ottocento.

Tuttavia, piccoli elementi della pantomima tradizionale rivivono anche nel

balletto moderno, come in Romeo e Giulietta, dove – sia nel caso di Cranko che

di MacMillan – molti ruoli sono esclusivamente mimici. Lord e lady Capuleti si

muovono solennemente e si esprimono per lo più con una gestualità enfatica

delle braccia e una marcata mimica facciale con cui si vuole sottolineare

l’autorità del ruolo e dell’età; ciò vale anche per il principe di Verona, frate

Lorenzo e la nutrice, anche se in una chiave comica.

In contrasto alla rigidità corporea dei genitori, le due Giuliette oppongono

espressioni del viso molto naturali, corse di gioia e di tormento, atteggiamenti

scherzosi e di gioco, ma anche momenti di totale immobilità del corpo, che nel

caso di MacMillan possono durare anche interi minuti, e che lasciano

immaginare al pubblico lo stato d’animo inquieto del personaggio prima di

prendere una decisione. Gesti e movimenti – ovvero la danza – sono indice del

carattere dei personaggi, non sono più finalizzati a tradurre un discorso verbale

in discorso corporeo attraverso un codice stabilito una volta per tutte. I gesti si

fanno simbolici, evocativi, realistici, a seconda della necessità drammaturgica,

dell’impronta stilistica del coreografo e dell’interpretazione dei ballerini. Nei

balletti narrativi i ruoli richiedono un lavoro interiore e uno studio del

personaggio che è generalmente preliminare alla coreografia; in questa fase si

esamina il testo minuziosamente, non solo in privato ma anche con discussioni

collettive, così da definire una linea psicologica dei personaggi prima ancora di

definire movimenti e pose. Sia Cranko che MacMillan erano soliti trovare per

ogni danzatore un gesto, un atteggiamento caratterizzante e ricorrente, un

motivo coreografico che funzionasse esattamente come quello musicale,

mentre i passi a due furono creati con l’intento di tracciare la linea evolutiva

della storia d’amore dei giovani amanti attraverso l’utilizzo di toni via via

sempre più angosciosi e cupi.

(natural emotional expression, occupational gesture, conventional gesture). Ursula Moreton fu molto d’aiu-to a Lawson per la revisione dei capitoli V e VII attinenti alla pantomima nel balletto classico. Ricordiamo anche la più recente pubblicazione del video Mime Matters, realizzato dalla RoyalAcademy of Dance di Londra nel 2002.

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Nei balletti precedenti MacMillan aveva sperimentato la contaminazione

con gli stili moderni in linea con la sua poetica che concepiva la presenza di

brutture e oscenità nel balletto, inserendo così nelle sue opere atteggiamenti del

corpo naturali e movimenti che possono rimandare alla danza espressionista,

come le spalle incurvate o le braccia goffe. In Romeo e Giulietta, utilizzò per la

prima volta l’entrechat, considerato fino a quel momento un mero esercizio da

lezione. Nel passo a due della cripta, quando Romeo crede che Giulietta sia

morta, la sua danza esprime la disperazione e l’incredulità del fatto, egli cerca

affannosamente di ridare vita al corpo della ragazza tenendola nelle sue braccia,

inerte e penzoloni. La danza qui doveva riflettere l’orrore della morte più che la

bellezza della linea classica e MacMillan disse ai due danzatori che non si

sarebbero dovuti preoccupare di assumere posizioni brutte e goffe, perché ciò

sarebbe stato perfettamente in linea con lo spirito della scena. Questa culmina

con Romeo che trascina il corpo di Giulietta attraverso il pavimento tenendola

per un braccio. D’altra parte, Cranko fu sempre affascinato dalla spettacolarità

della tecnica, amava introdurre prese e avvitamenti particolarmente arditi, e per

Richard Cragun c’erano sempre tours en l’air che mettevano in risalto il fisico

impeccabile44.

Tuttavia, il balletto narrativo ha allargato le sue possibilità espressive non

solo attraverso il suo codice dominante, la danza, di cui ha conservato

comunque il vocabolario accademico, ma anche con l’utilizzo funzionale degli

altri elementi che lo costituiscono in quanto forma composita di teatro

“totale”, musica, scene, costumi, luci. Siamo partiti da due questioni

fondamentali, il libretto e la pantomima, considerando l’“emblema” del nuovo

balletto d’azione, Romeo e Giulietta, ben consapevoli che il discorso potrebbe

continuare ampliandosi ai diversi “livelli” del sistema “balletto”, ma anche a un

intero repertorio del genere d’azione che ancora oggi spicca sui palcoscenici di

tutto il mondo, perché sono tanti i coreografi nostri contemporanei che

credono ancora oggi, a ragione, di poter raccontare una storia danzando.

44 Sulla poetica e sullo stile coreografico di John Cranko in rapporto al balletto narrativo, e inparticolare sulla Bisbetica domata, si veda Corea, Annamaria, Nuove prospettive del balletto d'azione nelNovecento. La bisbetica domata di John Cranko, in AA. VV., Danza e teatro. Storie, poetiche, pratiche eprospettive di ricerca, Acireale-Roma, Bonanno, 2011, pp. 149-160.

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Introduzione45

Come molte altre storie, anchequella della critica di danza in Italianon è stata ancora raccontata. Fra i ri-tardi dello sviluppo di una radicatacultura della danza, possiamo anno-verare, nel nostro paese, anche talecarenza storiografica.

I lavori di questa sezione degli Attidelle giornate di studio su La danzanei dottorati di ricerca italiani: metodologie,saperi, storie rappresenta certamenteun primo passo verso una più siste-matica ricognizione del ruolo storicodella critica nella costruzione discor-siva dei modi e dei tempi della rela-zione fra danza e società, come benmettono in evidenza gli interventi diDora Levano (La critica e la nuova dan-za in Italia. Alcune riflessioni sugli anniOttanta e un’ipotesi di ricerca attuale) e diGiulia Taddeo (Afasie e strategie: appun-ti di metodo attorno a una (quasi) critica didanza in Italia).

La critica di danza in Italia, alme-no a partire da Secondo Dopoguerra,ha svolto certamente un’azione im-portante nel determinare i percorsiartistici e le relazioni socio-culturalidell’arte di Tersicore. Fra la fine deglianni Settanta e almeno fino alla metàdei Novanta, durante il così dettoboom mediatico e teatrale della danzaoccidentale in tutte le sue forme (daquelle più tradizionali all’esplosionedella jazz dance di massa) una criticache potremmo definire classica, più le-gata alla recensione dello spettacolo eal ricercato e raffinato elzeviro su car-ta stampata, ebbe modo progressiva-mente di invadere tutti gli spazi cultu-rali tradizionali e nuovi (come peresempio le nascenti pay tv nazionali)ricoprendo ruoli spesso anche in con-

flitto tra loro: scrittura giornalistica,direzione televisiva di programmi sul-la danza, direzione di festival e di cir-cuiti, consulenza alla produzione dicompagnie, insegnamento universita-rio, editoria specializzata ecc.). È in-negabile che questa generazione dicritici militanti abbia dato un contri-buto positivo alla cultura di danza inItalia.

Resta tuttavia da verificare se que-sto modello sia ancora attuale,all’interno delle mutate condizioni so-ciali ed economiche dell’occidente,con la messa in crisi da un lato dellacomunicazione tradizionale (conl’avvento di Internet, soprattutto, edei suoi canali potenti – blog, socialnetwork, riviste on-line ecc.),dall’altro con un drastico crollo delvalore culturale e del peso socialedell’opera d’arte e delle sue pratiche.

Lo sguardo olimpico del criticomoderno, spesso filtrato da una ideo-logia palingenetica tipicamente nove-centesca, che da un lato predicavaun’etica sovversiva ma dall’altro dele-gava unicamente al potere dell’esteti-ca il ruolo educativo e trasformativodelle masse, è oggi fortemente messain discussione da quella che mi piacedefinire una nuova critica.

Nell’era della liquidità sociale è ne-cessario un nuovo sguardo, come esi-to di un dialogo tra l’oggetto studiato(la cultura e le sue manifestazioni) el’osservatore, al termine del quale en-trambi gli interlocutori hanno subìtoevidenti modificazioni: “critica” dellacultura e cultura stessa sono dentro lamedesima trasformazione processua-le continua, in cui punto di vista edessenza dell’oggetto dipendono dal

45 Riprendo, in questa sede, alcuni concetti già espressi nel mio saggio Il possibile e il cambiamento.Trent’anni di danza contemporanea in Italia, in Fabio Acca – Jacopo Lanteri (a cura di), Cantieri Ex-tralarge. Quindici anni di danza d’autore in Italia 1995-2010, Roma, Editoria & Spettacolo, 2011, pp.115-136.

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Alessandro Pontremoli

medesimo metodo, che mimetica-mente trae origine dal proprio ogget-to.

La porosità del nuovo sguardodella critica e dello studio culturalemette al riparo dalla rigida concezio-ne della Kulturkritik moderna, che im-magina «le culture e i relativi sistemisociali come meccanismi perfetti ecoercitivi, come “semantiche” totaliz-zanti»46. La cultura non è un tessutorigido impenetrabile, ma una trama eun ordito larghi entro cui è semprepossibile individuare tattiche di resi-stenza47.

Gli sguardi oggettivanti e reificantidella critica italiana tradizionale, conla loro sprezzante cassetta degli at-trezzi fatta di confronti paradossali odi accostamenti antifrastici, risulta al-quanto inefficace e arcaica, perché siè rifiutata di crescere dentro il dialogoaccennato sopra, che non è dialettica,ma esperienza partecipante, camminocompiuto insieme, riconoscimento diun comune destino. Il modello tentadi perpetuarsi, almeno attraverso leasfittiche riviste di settore o i semprepiù rari interventi sui giornali, e sipropone costantemente come la co-stituzione progressiva di un canone diopere d’arte esemplari, si traduce intesti più o meno divulgativi in cui ilmodello del centone ottocentesco sioffre come catalogo eccellente.

Questa forma della critica è inevi-tabilmente legata agli oggetti con cuiè nata e fatica ad adattarsi alla feno-menologia attuale: già rivoluzionarianegli anni del postmodern, è omologaagli artisti di quella generazione e nerispecchia le tendenze attuali. I giova-ni ribelli americani degli anni Sessanta

46 Cometa, Michele, Introduzione. Iniziare nelmezzo, in Id., Dizionario degli studi culturali, acura di Roberta Coglitore e Federica Mazza-ra, Roma, Meltemi, 2004, p. 14.47 Cfr. de Certeau, Michel, L’invenzione del quo-tidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2010.

sono infatti oggi arzilli vecchietti, de-siderosi di autorepertorizzarsi e di au-toconsacrarsi: gli apocalittici si sonointegrati e i loro mentori, i cantoridella critica di settore, li hanno seguitie imitati.

A che è servito mettere in discus-sione il frame del teatro occidentalecon i suoi meccanismi produttivi e di-stributivi se poi si viene di nuovo ri-succhiati nel vortice dei medesimiprocessi? Evidentemente le rivoluzio-ni sessantottesche erano solo l’imbel-lettatura palingenetica del potere, chesempre tende a ricondurre tutto den-tro l’alveo rassicurante della tradizio-ne. Quest’ultima, per quanto nuova efrutto dell’invenzione del presente, ri-porta costantemente tutto alla ricom-posizione sintetica della dialettica fraapollineo e dionisiaco.

La critica (ma esiste ancora unacritica di danza?) non ha saputo ade-guare i propri strumenti di lettura e ilproprio sguardo alla trasformazioneepocale del nuovo millennio: legata alteatro della delega e a parametri valu-tativi platonico-aristotelici, che coniu-gano il bello al buono e il brutto alcattivo, è rimasta aggrappata all’idea eal mito di una qualità strettamenteconseguente alla tecnica e alla prepa-razione fisica del danzatore, gradata-mente richiudendo la danza in unosteccato quasi a salvaguardarla (e ache scopo poi?) dalla selvaggia conta-minazione non solo di linguaggi, masoprattutto di altri universi discorsivi,come quello ad esempio della cosìdetta industria culturale.

Le nuove generazioni di danzatorinon sono comprensibili se non ven-gono invece contestualizzate in unpiù ampio scambio di processi ricetti-vi e di intertestualità. I nuovi danza-tori hanno assistito al passaggio daldisconoscimento/occultamento allalegittimazione del virtuale, perché,come è noto, l’esplosione dei media

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

digitali ha rivelato (non certamenteintrodotto ex novo) il processo di me-diazione, che attraversa l’esperienzapersonale e i meccanismi della cono-scenza48.

È necessario oggi operare la sceltacoraggiosa di porre di nuovo al cen-tro della propria e altrui esistenza unadomanda fondamentale di senso.L’ideologizzazione dello sguardo è ilrischio più grosso nella sottovaluta-zione di ciò che è presente e che lanegazione non aiuta a comprendere oeventualmente a riformulare in termi-ni meno invasivi e pervasivi.

La danza di oggi è un cantiere infi-nito, sempre aperto, mai definitiva-mente rimosso per mostrare la co-struzione dalle rifiniture di pregio. Inquesto cantiere si fatica a comprende-re il dentro e il fuori, il bello e il brut-to, il buono e il cattivo. Sebbene tal-volta non si riesca ancora a fare siste-ma e a oltrepassare narcisismi perso-nali e collettivi, la pratica del progettoha contribuito al superamento dellelogiche dell’esclusione, facendo speri-mentare ai giovani artisti le possibilitàdi crescita e sviluppo entro le pro-spettive di comunità e di rete.

48 Cfr. Lévy, Pierre, Cybercultura. Gli usi socialidelle nuove tecnologie, Milano, Feltrinelli, 1999.

Comunità e rete sono oggi le pa-role d’ordine della creazione,dell’organizzazione e della distribu-zione della danza, che per fortuna stagradatamente superando la praticaautolesionista della lamentela perma-nente per stringere alleanze sulla con-cretezza progettuale, non solonell’ambito degli artisti, ma fra questie i direttori di festival e circuiti, fraquesti e la nascente nuova critica, cheha generato virtuosi processi di scrit-tura come portato artistico secondo,non subordinato né subordinante, mapartecipante e dialogante e altrettantocreativo rispetto agli oggetti dellosguardo.

Alessandro Pontremoli

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Giulia Taddeo

Afasie e strategie: appunti di metodo attorno a una (quasi)critica di danza in Italia

La riflessione proposta nel presente contributo49 si snoda attraverso tre

tappe fondamentali, ognuna delle quali, seppur da angolazioni diverse, volta a

gettare una luce sul percorso di ricerca di chi scrive. Mettendo

progressivamente in campo le questioni relative alla perimetrazione

dell’oggetto di interesse, alla selezione e organizzazione delle fonti e, infine, alla

costruzione di opportuni rudimenti metodologici, ci interrogheremo su alcune

delle problematiche fondamentali connesse allo studio delle relazioni fra danza

e stampa in un momento specifico della storia italiana quale il ventennio

fascista.

Definizioni preliminari dell’oggetto di ricerca

Se, muovendo dalla volontà di fornire una seppur approssimativa

definizione del nostro oggetto di indagine, affermassimo che la nostra ricerca

nasce con l’intento di condurre uno studio sistematico attorno alla “critica di

danza italiana” del periodo fascista, compiremmo almeno due importanti

imprecisioni: la prima di ordine storico, dacché, notoriamente, a quell’altezza

cronologica non è dato di rintracciare, in Italia, la presenza di una vera e

propria critica di danza; la seconda, invece, più specificamente connessa

all’ampiezza e all’ambiguità semantica del termine “critica”, il quale,

raccogliendo attorno a sé una costellazione ampia e articolata di declinazioni

possibili e abbracciando numerosi campi del sapere, si rivela estremamente

scivoloso e non agevolmente abbordabile da parte dello studioso.

Per orientarci in una simile densità contenutistica e disciplinare, ci pare

opportuno individuare, come binari per la nostra riflessione, almeno due

fondamentali accezioni del termine “critica”, le quali, seppur diverse l’una

49 Questo contributo prende le mosse dalla ricerca dottorale attualmente condotta da chi scrivepresso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna e intitolata All’opera ha fatto seguito ilballo: danza e stampa nell’Italia fascista, tutor Elena Cervellati.

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Giulia Taddeo

dall’altra, finiscono tuttavia per integrarsi felicemente: da un lato l’idea, testé

appena accennata, della critica come mestiere connesso alla dimensione della

carta stampata e, dall’altro, quella di critica come punto di vista, modalità di

approccio, tipo di sguardo che si apre sul mondo.

Ecco allora che, riformulando la scarna definizione di partenza, potremmo

dire che il nostro studio tenta sì di investigare le relazioni tra danza e stampa in

Italia durante il Fascismo ma, per raggiungere un simile obiettivo, si interroga

contestualmente sul meccanismo e sulle modalità di esercizio dello sguardo critico

medesimo.

L’intento qui sottinteso, evidentemente, è quello di operare mantenendo una

prospettiva costantemente duplice, forse strabica, sicuramente tesa, da una

parte, a ricostruire sul piano storico i discorsi sulla danza comparsi nella stampa

italiana del Ventennio e, dall’altra, a interrogare la natura stessa di un fare critica

concepito, come vedremo, essenzialmente come atto interpretativo.

Costruzione di un corpus

La prima questione che viene a manifestarsi dinanzi a una simile ipotesi

operativa consiste nell’urgenza di costruire un corpus di fonti capace di mappare

ragionevolmente quel terreno ampio, eterogeneo e stratificato costituito da ciò

che in precedenza abbiamo superficialmente definito come “stampa”: per

scongiurare infatti il rischio di un attraversamento cieco all’interno di questo

ambito per noi ampiamente sconosciuto, è quantomai necessario operare

selezioni e individuare linee di coerenza interna, al fine di giungere

all’edificazione di un corpus di testi giornalistici che sia significativo (anche se

non completo), delimitato e, ovviamente, adeguato all’ipotesi di partenza, la

quale, come si sarà ormai compreso, consiste nel postulare l’esistenza, anche

nella stampa del periodo fascista, di una produzione discorsiva sulla danza

dotata di coerenza e caratteristiche proprie50.

50 Per ulteriori ragguagli circa il problema della costruzione di un corpus di fonti come strumen-to per lo studio di un determinato oggetto culturale si rimanda a Lorusso, Anna Maria, Semioti-ca della cultura, Roma-Bari, Laterza, 2010. Ben più ampio sarebbe poi il panorama dei riferimentiteorici che hanno guidato il nostro lavoro di selezione e organizzazione delle fonti; ci pare tut -tavia irrinunciabile almeno il rimando alle pagine introduttive di Archeologia del sapere di MichelFoucault, in particolar modo per ciò che riguarda il concetto di «storia generale» (contrappostonotoriamente all’idea di una «storia globale») e quello di «serie». Su quest’ultimo punto, si leggain particolare: «Il problema è quello di costruire delle serie: di definire per ciascuna i suoi ele-menti, di fissarne i limiti, di evidenziare il tipo di relazione che le è specifico, di formularne la

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A partire quindi da quanto appena menzionato, è venuto creandosi un

insieme di materiali fondamentalmente bipartito e costituito, da un lato, da

cronache di spettacolo, e, dall’altro, da articoli sulla danza di argomento

genericamente “culturale”, come pezzi di colore (si pensi a quelli, numerosi,

dedicati al ballo da sala o a figure mitiche della danza teatrale come Nijinskj),

interviste, digressioni estetiche (penso almeno a quelle, quasi al limite della

poesia, di Bruno Barilli51 o, su un altro versante, alle argomentate e, entro certi

termini, “tecniche” riflessioni di Paolo Fabbri52).

Un simile apparato documentario presenta tuttavia alcuni fattori di

problematicità che, essenzialmente connessi al problema della dicibilità della

danza e, in special modo, dei corpi che la incarnano, non potevano che porsi

come un ostacolo rispetto alla nostra analisi, dacché, com’è ampiamente noto,

la maggior parte dei contributi giornalistici di argomento coreico rintracciabili

sulla stampa italiana del Ventennio – soprattutto per quanto riguarda le

cronache di spettacolo – non compiono il tentativo di dire la danza, ma si

limitano ad accennarvi per lo più obliquamente e spesso ricorrendo a

un’aggettivazione scarna e sommaria.

La complessiva configurazione del nostro corpus di fonti viene poi

ulteriormente complicandosi se si considera che, sullo sfondo del panorama

che abbiamo appena evocato e che si potrebbe forse definire afasico, si stagliano

alcuni percorsi eterodossi (come quelli di Anton Giulio Bragaglia o di Marco

legge, e, inoltre, di descrivere i rapporti tra serie diverse, per costruire in tal modo delle serie diserie, o dei ‘quadri’». Cfr. Foucault, Michel, Archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, p. 11 [ed.or.Foucault, Michel L’archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969].51 Scrittore, compositore, critico musicale e cinematografico, Bruno Barilli (Fano 1880-Roma1952) ha dedicato alla danza alcune pagine visionarie, ispirate e profondamente permeate dalsuo estro letterario. Fra queste, vanno certamente ricordati i contributi dedicati alle tournée ro-mane dei Ballets Russes e ad alcune esperienze di danza libera come quella delle dalcroziane so-relle Braunn. Su Barilli si rimanda almeno alla prefazione di Mario Lavagetto contenuta in Ba-rilli, Bruno, Il sorcio nel violino, Torino, Einaudi, 1983.52 Critico di danza del quotidiano milanese «Il Secolo. La sera» sicuramente attivo all’inizio deglianni Trenta, il nome di Paolo Fabbri, sposato alla danzatrice Attilia Radice e paladino del bal-letto classico di tradizione italiana, si lega alla stesura di numerosi articoli (seppur tutti concen -trati indicativamente tra il 1930 e il 1935) in cui la difesa del ballo di matrice ottocentesca sifonde con una considerevole consapevolezza storiografica e con una singolare capacità di ana-lisi della tecnica accademica. Secondo quanto emerge dai documenti conservati presso la NewYork Public Library for the Performing Arts (Sezione «Cia Fornaroli and Walter Toscanini Pa-pers», serie 1, box 4) il matrimonio tra Fabbri e Radice, contratto nel 1933, sarebbe già entratoin crisi attorno al 1937. Nel 1939 Fabbri si trovava ormai a Parigi, da dove tentava di ottenerel’annullamento delle nozze. Su Paolo Fabbri si veda a anche Veroli, Patrizia, Baccanti e divedell’aria: donne, danza e società 1900-1945, Perugia, Edimond, 2001.

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Ramperti53) i quali, aprendosi un varco attraverso le potenzialità della parola, si

trasformano in preziosi luoghi di riflessione e discorsivizzazione attorno al

fenomeno coreico.

Densi e poderosi gli interrogativi che un simile stato di cose finisce col

mettere in campo: fino a che punto è opportuno (e necessario) interrogarsi

sulle potenzialità della parola in relazione alla danza? Come sistematizzare la

varietà degli approcci che le nostre fonti custodiscono? Come riuscire a

cogliere la dinamica e, diremmo, la logica culturale sottesa a tale eterogeneità?

È a questo punto che l’apertura verso la semiotica si rivela necessaria e, per

certi versi, salvifica.

Apporti della semiotica

Lo scarto teorico fondamentale rispetto alle questioni appena sollevate è

consistito nel ripensamento di quell’afasia che, come si diceva, sembra

connotare, sebbene a diversi livelli, molti dei discorsi sulla danza oggetto della

nostra analisi.

Discorsi connotati dalla loro incapacità di dire. Discorsi paradossali, forse,

che, pur riferendosi alla danza, vanno incontro a non pochi impedimenti e

reticenze nel parlare di quello che potremmo chiamare corpo che danza.

Letteralmente, non lo dicono.

Di fronte quindi a un’assenza che, come quella del corpo danzante, ci

appare così macroscopica da non poter non risultare sospetta (o quantomeno

parlante) agli occhi dello studioso, vale forse la pena di dirigere lo sguardo verso

due obiettivi diversi ma complementari, interrogandoci sia su quanto, nei testi

che indaghiamo, rimane inespresso e in qualche misura sotterraneo, sia sulle

ragioni alla base della scelta dei riferimenti al corpo che danza effettivamente

rintracciabili nelle nostre fonti.

A questo punto l’ipotesi che intendiamo avanzare è che sia possibile

investigare simili questioni avvantaggiandoci dell’apporto della semiotica della

53 Figura assai poco studiata e per lo più dimenticata di scrittore, giornalista, critico teatrale eromanziere, Marco Ramperti (Novara 1887 – Roma 1964), sicuramente noto come l’autore del-la prefazione al volume La danza come un modo di essere di Jia Ruskaja (Milano, I.R.A.G, 1927; ri-stampa Milano, Alpes, 1928), ha inoltre scritto di danza dalle colonne di diverse testate, specietra gli anni Venti e gli anni Trenta, come «La Stampa», «L’Ambrosiano», «Comoedia». Alcunicontributi giornalistici sono poi apparsi in un volume dal titolo Luoghi di danza (Torino, Buratti,1930).

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cultura e muovendo innanzitutto dal riferimento a uno dei cardini della teoresi

di Jurji Lotman, vero e proprio fondatore della disciplina, vale a dire il concetto

di “autodescrizione”.

Scrive Lotman:

[…] in una determinata tappa del suo sviluppo arriva, per lacultura, il momento dell’autocoscienza: essa si crea il propriomodello, che ne definisce la fisionomia, artificialmenteschematizzata, innalzata al livello di unità strutturale. Sovrappostaalla realtà di questa o quella cultura, tale fisionomia esercita su diessa una potente azione ordinatrice organizzandone integralmentela costruzione, portandovi armonia ed eliminandocontraddizioni.54

Ogni cultura, cioè, si esprime attraverso i propri testi (oltre che mediante

l’universo articolato e complesso delle pratiche) e tende a creare un’immagine

di sé unitaria, stemperando eventuali contraddizioni in un’autodescrizione

complessivamente coesa.

Alla luce di queste considerazioni, nuove questioni circa la natura delle

nostre fonti, i periodici55, finiscono immancabilmente col sorgere: cos’è un

periodico – possiamo infatti domandarci – se non un dispositivo mediante il

quale una cultura propone una visione selettiva e organizzata dei fatti del

mondo e, nel far questo, rappresenta se stessa, i propri valori, le proprie

priorità?

Inoltre, stando alle parole di Lotman che abbiamo appena visto, un tratto

che connota fortemente l’autorappresentazione è la spinta alla coerenza e

all’organicità.

Ma allora, se è vero che ogni cultura è attraversata dalla propensione a

rappresentarsi come un tutto ben strutturato e armonicamente funzionante e,

soprattutto, se i periodici contribuiscono alla costruzione di siffatta

rappresentazione, anche i testi che, al loro interno, risultano a vario titolo

connessi alla danza necessitano di essere messi in relazione al quadro discorsivo

e contenutistico complessivo.

54 Lotman, Jurij – Uspenskij, Boris, Tipologie della cultura, Milano, Bompiani, 1975, p. 65.55 Intendiamo evidentemente riferirci, con questa espressione, sia ai quotidiani che ai periodici,genericamente richiamando con il termine “periodico” la tipologia di fonte che utilizziamo (po-tremmo forse parlare indistintamente anche di “giornale”) sospendendo ogni classificazione ul-teriore.

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Se infatti si tenta di indagare quale sia il posto della danza all’interno di quella

sorta di affresco che, attraverso i discorsi giornalistici, la cultura italiana del

Ventennio ha teso a realizzare in parte rispecchiandosi al suo interno, ci si

accorge senza fatica di come essa occupi una posizione evidentemente

marginale, quasi che parlare di corpi che danzano non risultasse funzionale

rispetto all’edificazione di un’immagine culturale totalizzante e strutturata.

Quasi che, cioè, il corpo, persino quello che si muove in conformità ai

codici condivisi della tecnica accademica, portasse in sé una sorta di

incoercibilità inestirpabile, di fattore di scandalo, di complessità (e torneremo su

questo concetto) irriducibile che ne impedisce una autentica

funzionalizzazione.

Del resto, lo stesso Lotman ricordava che «Ogni cultura crea il proprio

sistema di “marginali”, reietti, coloro che non si inscrivono al suo interno e che

una descrizione rigorosa e sistematica esclude»56.

Esistono quindi fenomeni, aspetti, elementi della realtà che, in un certo

senso, la cultura relega deliberatamente in una posizione periferica, sia

compiendo su di essi un particolare processo di elaborazione discorsiva sia,

talvolta, passandoli sotto silenzio.

Si tratta di un lavorio culturale determinato di volta in volta da ragioni

specifiche che sta allo studioso, ci pare, cercare di cogliere e approfondire

dovutamente.

Tornando quindi a riflettere sulla sostanziale assenza e marginalità del corpo

che danza nei testi giornalistici cui abbiamo accennato fin qui, non tenderemo

soltanto a individuarne le cause nel banale disinteresse o nella mera

sottovalutazione tout court del fenomeno coreico, ma, allargando la prospettiva,

cercheremo di pensare il corpo danzante non tanto come un elemento del quale

le nostre fonti tendono a parlare più o meno casualmente, quanto come un

fascio di possibili percorsi interpretativi instaurabili a partire dall’individuazione

di un piano, quello della corporeità, che tuttavia, nel periodo oggetto dei nostri

studi, viene praticato con fatica, rimanendo incerto e traballante.

Ricorrere all’idea di piano significa chiamare in causa l’altro aspetto su cui

intendiamo concentrarci in questa sede e che, in linea più generale, può essere

56 Lotman, Jurij, Cercare la strada. Modelli della cultura, Venezia, Marsilio, 1994, p. 31.

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considerato come uno dei principali grimaldelli concettuali di tutta la nostra

ricerca, elaborato, ancora una volta, a partire da un approccio semiotico.

Il concetto di piano, infatti, rimanda non solo a quella natura interpretativa

del fare critica a cui accennavamo in apertura (e che, vale la pena di aggiungere

ora, deve essere intesa alla lettera, vale a dire come uno stare tra le parti

mettendo in relazione domini ed elementi diversi), ma, al contempo, ci

consente di tornare a riflettere su quei fattori di problematicità delle fonti che

abbiamo già incontrato precedentemente.

Iniziamo dunque col chiederci che tipo di attività intellettuale si posizioni

alla base dell’esercizio del mestiere del critico: qual è il suo funzionamento

interno? Quali sono le reti di relazioni che mettono in connessione questo tipo

di attività con la prassi operativa del critico di professione e pertanto con

l’urgenza di produrre un discorso saldamente radicato in un contesto

(discorsivo e, più genericamente, storico) ben preciso?

Se, da un lato, si potrebbe asserire che la produzione di un discorso legato a

un qualsiasi fenomeno del mondo rappresenta l’esito del tentativo di dire

qualcosa su un determinato oggetto dell’esperienza illuminandolo da un certo

punto di vista, dall’altro, dinanzi a oggetti complessi, come le arti, il processo

appare certamente più stratificato, dacché implica sovente la difficoltà – anche,

chiaramente, per ragioni di ordine storico e sociale – di individuare una

prospettiva attraverso cui rendere visibile e letteralmente dicibile il fenomeno a

cui ci si sta rivolgendo.

Viene a porsi cioè la necessità di instaurare dei possibili regimi di

commensurabilità all’interno di domini, come nel nostro caso la parola e il corpo

danzante, spesso per molti versi non commensurabili.

Questo significa stabilire dei piani, delle zone praticabili, cioè, sopra le quali i

discorsi possano installarsi e acquisire senso, fermo restando che, comunque,

essi rimarranno sempre costitutivamente parziali, capaci di portare alla luce

solo alcuni aspetti dell’oggetto con cui interagiscono, vale a dire quegli aspetti

in un certo senso coerenti rispetto ai piani di volta in volta selezionati.

Cosa sono però questi piani? In cosa consistono? E, soprattutto, sono

interamente determinabili dal soggetto che li seleziona?

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È a questo punto che ci viene in soccorso il modello teorico

dell’Enciclopedia di Umberto Eco, quella sorta di “libreria delle librerie” in cui

tutto il sapere, tutti i possibili percorsi interpretativi, passati e a venire, trovano

posto.

Riflettiamo a questo punto sulla struttura dell’Enciclopedia che, come

ribadito più volte dallo stesso Eco, è quella del rizoma. In Semiotica e filosofia del

linguaggio, ad esempio, essa è descritta in questi termini:

Il modello dell’enciclopedia semiotica non è dunque l’alberoma il rizoma: ogni punto del rizoma può essere connesso e deveesserlo con qualsiasi altro punto, e in effetti nel rizoma non visono punti o posizioni ma solo linee di connessione; un rizomapuò essere spezzato in un punto qualsiasi e riprendere seguendo lapropria linea; è smontabile, rovesciabile; une rete di alberi che siaprano in ogni direzione può fare rizoma, il che equivale a dire chein ogni rizoma può essere ritagliata una serie di alberi parziali; unaserie non ha centro.57

È proprio sullo sfondo del rizoma enciclopedico che è dunque possibile

selezionare i piani capaci di conferire profondità e precisione semantica ai

discorsi di volta in volta formulati, dacché si tratta, prima di tutto, di operare

alcuni tagli all’interno del “già detto” che diano senso al nostro dire mediante

una specifica lettura dell’esperienza.

Ma attenzione. È vero che tendenzialmente, com’è già stato

opportunamente chiarito, «un piano si ritaglia in base a regole di genere,

norme, stereotipi culturali, situazioni condivise, abiti interpretativi»58, ma ciò

non significa che, poi, alla base di qualunque produzione discorsiva, soprattutto

di quella connessa all’arte, si ponga un atto di mera ripetizione del già noto, di

arida ricombinazione dell’esistente.

Al contrario, il tipo di interpretazione che ci pare all’origine di qualsiasi

discorso critico sulle arti (e pertanto anche di quello sulla danza) consiste

piuttosto in quello che Charles Sanders Peirce, padre della semiotica

interpretativa, definiva in termini di «pure play» (libero gioco) fra la tendenza,

da una parte, a leggere i fenomeni del mondo portandoli sotto regole (quindi

connettendoli a categorie già note) e l’intento, dall’altro, di far avanzare la

57 Eco, Umberto, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, 1984, p. 112.58 Paolucci, Claudio, Strutturalismo e interpretazione, Milano, Bompiani, 2010, p. 382. Questo po-deroso volume, inoltre, va considerato come il riferimento teorico principe per gran parte delleconsiderazioni di ordine teorico che seguiranno, specie quelle relative a Charles Sanders Peirce.

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conoscenza stabilendo dei percorsi nuovi, creando delle connessioni inedite

che sortiscono l’esito di complicare ulteriormente la struttura del rizoma59.

Si tratta dunque di rimodulare quello che è già dato (ciò che in un certo

senso appartiene alla dimensione del “si dice, si pensa”) attraverso il proprio

punto di vista personale, in una sorta di variazione su tema che, se da un lato

non può prescindere dal prendere preliminarmente posizione all’interno

dell’Enciclopedia, dall’altro può muoversi in essa creando dei itinerari inusitati.

C’è sempre insomma, nella critica, questo doppio movimento che contiene

in sé un’istanza creativa, capace – ed è questo l’aspetto che più ci interessa – di

tracciare piani enciclopedici per poi fuggirne, facendo germogliare su di essi

percorsi discorsivi tali da avvicinare ciò che in precedenza non era mai stato

messo insieme.

In conclusione, per provare a riprendere le fila di un’argomentazione che ha

finora proceduto forse troppo per sobbalzi, ci sembra che l’ormai più volte

menzionata assenza del corpo che danza nella stampa italiana del Ventennio e,

parallelamente, la sua presenza in quei percorsi eterodossi che, richiamando i

nomi di Bragaglia e Ramperti, evocavamo in apertura possano essere viste

come due possibilità antipodiche di rapportarsi a un medesimo piano, l’una

senza accedervi, l’altra installandovisi apertamente e conducendovi dei percorsi

discorsivi inusitati.

Facciamo qui riferimento, ovviamente, del piano del corpo inteso come

spazio di complessità, luogo di corto circuito fra “natura” e “cultura”, terreno

di una relazione in cui, attraverso la danza, dimensione biologica e irradiazioni

culturali interagiscono mantenendo ognuna le proprie specificità.

Sebbene indagare la natura di questo piano e illustrare i percorsi compiuti,

dentro e fuori di esso, dai contributi critici sulla danza del periodo fascista ci

porterebbe davvero fuori dai limiti di questo contributo (per quanto gli sviluppi

di simili aspetti si collocano chiaramente al centro della nostra ricerca), risulta

tuttavia evidente come il discorso condotto sin qui non si ponga in

59 L’espressione per definire quest’ultimo aspetto è quella di play of musement che, com’è statodetto, «corrisponde a quel processo in cui si connettono tra di loro cose separate anche moltolontane, attraverso un libero gioco non riconducibile a regole, processo su cui Kant fondava ilgiudizio estetico». Cfr. Paolucci, Claudio, Strutturalismo e interpretazione, cit., p. 158.

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contraddizione con un più ampio intento di storicizzazione delle relazioni fra

danza e stampa durante il Ventennio.

Al contrario, esso ci spinge ad uscire dall’ambito dell’indagine storiografica

in senso stretto per farvi poi rientro, il tutto seguendo un cammino nella sua

essenza spurio e teso alla risoluzione dei problemi di partenza mettendo in

campo un costante processo di ibridazione metodologica.

Ed è proprio con il rimando (che non può che avere il sapore dell’apertura)

a una delle nostre fonti che ci pare opportuno sospendere queste

considerazioni, e cioè riportando un esempio illustre di quell’attitudine,

ripetutamente evocata fin qui, ad ampliare la conoscenza attraverso la

produzione di discorsi capaci di stabilire nuove relazioni fra dimensioni

apparentemente irrelate.

Ci riferiamo a un passo di Alberto Savinio che, seppure molto noto, ci pare

comunque opportuno menzionare qui per rimarcarne la rappresentatività

rispetto all’esistenza un’ipotetica critica di danza italiana prima della critica.

In un articolo intitolato Danza anima del corpo e pubblicato sulla rivista «Film»

del 20 marzo 1943, infatti, Savinio, unendo alle proprie doti di scrittore anche

uno sguardo quantomai sensibile nei riguardi della danza come fenomeno

storico e culturale, scrive:

Taluni misurano la civiltà al consumo del sapone. Noi lamisuriamo al consumo delle parole e consideriamo incivile chi neconsuma molte. Civiltà per noi è avvicinamento progressivo alsilenzio. Ma si tratta di un silenzio “popolato”. Silenzio nel quale“tutto” è sottinteso, anche le cose che nessuno ancora ha detto, esottinteso in maniera così suadente che nessuna cosa sente più ilbisogno di testimoniarsi in suono. Pochi sanno ascoltare questosilenzio. Per gli altri questo silenzio è vuoto. Come persuaderli delcontrario? Resta a sapere se persuaderli è necessario.

E, più avanti, specificamente riferendosi alla danza:

Il movimento è l’anima “fisica” dell’uomo. Quando ilmovimento si educa e obbedisce a canoni di ritmo e armoniadiventa “poesia del corpo”. Il danzatore che “scrive poesie delcorpo” non mente né si vanta. Rimane a sapere però se ènecessario, se è importante, se non è ridicolo scrivere poesie colproprio corpo. Ma qui si parla del mondo fisico: del mondo cuitutti credono. E se non si crede nel mondo fisico, in quale mondocredere?

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Dora Levano

La critica e la nuova danza in Italia.Alcune riflessioni sugli anni Ottanta e un’ipotesi di ricerca attuale60

L’emergere della nuova danza in Italia tra gli anni Settanta-Ottanta portò con

sé tutta una serie di questioni: artistiche, culturali, burocratiche. Definire

nell’immediato una panoramica, organizzare una visione delle cose, fu

complesso per l’entità stessa del fenomeno. Appariva, con frequenza,

insufficiente a chi osservava l’applicazione di misure come: la corrispondenza

regolare delle danze a un codice tecnico e linguistico tra quelli noti, che fosse in

tal senso definitorio, per quanto variabile; il principio di lineare ereditarietà

scolastica; la collocazione degli eventi spettacolari in un sistema per generi.

Operanti in singolo, o in collettivo, e indipendentemente dalla maturità dei

risultati scenici, gli artisti della nuova danza si proponevano di indagare

personalmente genesi e svolgimenti della propria produzione segnica, di

ricercare/inventare le dinamiche costruttive del proprio linguaggio e universo

coreografico, in un rapporto d’autonomia rispetto alla presenza (o meno) di

retoriche e modelli con cui dialogare, e indipendentemente da scale di valori

fissate una volta per tutte. La “messa in coreografia” andava, via via,

definendosi come esposizione d’ogni corpo danzante al rischio della creazione

autoriale. Tale genesi segnica, sensoriale, immaginifica, non era necessariamente60 Il presente contributo nasce sulla scia del lavoro svolto durante la mia tesi di dottorato sullanuova danza in Italia negli anni Ottanta (discussa nel 2013 presso l’Università degli Studi di Na-poli “L’Orientale”). Partendo dagli studi effettuati, dalle riflessioni, dai dibattiti con artisti e col-leghi avvenuti durante il percorso, intendo esporre alcune delle considerazioni emerse e, solo inparte, organizzate nell’elaborazione finale della tesi. Mantengo volontariamente tali considera-zioni nel loro attuale stato di bozza informale che corrisponde a un lavoro possibile, a ipotesidi ricerca, a piste suscettibili di ripensamenti, di revisioni, di necessarie verifiche. L’interventoruota intorno a una questione: come porsi nelle vesti di critico rispetto alla “nuova danza” e“come osservare”. In un primo momento mi soffermo intorno agli anni Ottanta come fasestorica dove rispetto a tale fenomeno artistico si avvertì in modo particolare l’urgenza d’una ri-considerazione dei parametri dell’osservare, conoscere, interpretare, valutare. In un secondomomento, posti come tutt’altro che stabilizzati taluni interrogativi e le questioni metodologi-che, espongo alcune prospettive che si sono presentate con l’ipotesi di costituzione di un’ “Os-servatorio critico permanente sulla danza contemporanea”. Si tratta di un “progetto possibile”(come lo abbiamo definito) intorno al quale sto lavorando (siamo appena alla soglia…) con un“ricercatore indipendente” attivo nel campo delle scienze neurofenomenologiche ed esperto inscienze cognitive, e con un piccolo gruppo di studenti ed ex studenti de L'Orientale coinvoltianche specificamente nell’ambito della danza.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Dora Levano

il passaggio per un azzeramento, ma, in ogni caso, era uno stato d’invenzione

del linguaggio che si situava nell’attraversamento dichiarato di una rete di

stratificazioni connesse all’esistenza d’ogni autore (storica, sociale, creativa,

contingente, biologica). Attraversamento che tali artisti non ritenevano

concluso con l’elaborazione di una coreografia da interpretare, ma prolungato

nell’evento pubblico, sia che questo fosse fissato nella scrittura dei corpi agenti

e del “corpo scenico”, sia che fosse predisposto a esplicite quote di

improvvisazione, a mutazioni segniche estemporanee, etc. Su tali basi, definire

il lavoro di un danzatore/autore ricercandone i modelli artistici e culturali di

riferimento, misurando la sua abilità nell’applicarne grammatica, tecniche,

segni, e valutando il suo grado d’originalità nella rielaborazione, per quanto

utile e necessario, poteva risultare insufficiente ad un atto di lettura complesso

delle sue danze (e che considerasse fondamentale la “percezione” del danzare).

Nel rivolgersi, poi, alla panoramica ci si trovava di fronte a una pluralità di

esperienze che non mancavano tra loro di affinità, ma sollecitavano sempre più

la necessità di uno “sguardo comparato” e mobile per la diversità dei percorsi

d’artista che si stavano focalizzando. Una “diversità” non generica, ma

specifica, in quanto legata a quella volontà d’autonomia autoriale a cui ho

accennato e che mette in discussione anche il confine tra coreografo e

danzatore. Infatti, anche laddove una distinzione di ruoli sussiste, nella nuova

danza il danzatore non è mai inteso come l’esecutore o l’interprete (per quanto

espressivo e originale) della coreografia costruita dal coreografo, ma è partecipe

d’un sistema autoriale fondato in processi laboratoriali che richiedono per

principio una risposta poietica e interattiva agli stessi danzatori o, comunque, (a

dirla giocando con le scienze della vita) una sorta di funzione proteica rispetto

al lavoro proposto. Al di là del grado di nitidezza coreografica dei primi risultati

spettacolari, tali tensioni degli artisti della nuova danza, arrivavano al pubblico (di

esperti e meno esperti); e si registrò effettivamente un primo impatto alquanto

destabilizzante i metri d’osservazione. Non mancavano casi di disorientamento

della ricezione di fronte alle sperimentazioni tecniche, linguistiche, corporee,

dei “nuovi autori”. A tali livelli, in questo rapporto decisamente da rivalutare e

indagare tra chi danza e chi percepisce, la nuova danza si interrelava strettamente

con tutta una serie di problematiche proprie dell’arte contemporanea, quanto

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

della “contemporaneità” come questione antropologica. Non mancò, tuttavia,

l’immediata tendenza a orientare il fenomeno della nuova danza italiana

circoscrivendolo attraverso il confronto con esperienze forti, già estesamente

note, quali teatrodanza e danza postmoderna. Usate anche propriamente come

“definizioni” le parole “teatrodanza” e danza “postmoderna”, se potevano

servire a indicare un aspetto formativo dei giovani autori, che passavano (più o

meno direttamente) per le relative esperienze e ne mostravano le tracce di

influenze e rapporti nei propri lavori, non mancavano di problematicità

rispetto alla possibilità di riorganizzare un rassicurante sistema per generi (che,

tra l’altro, aveva ricevuto pure primi scossoni con le danze della modernità). Fu

ben chiaro che già nella loro specifica contestualizzazione storico-culturale, e

nella loro natura artistica, non si poteva parlare per teatrodanza e danza

postmoderna propriamente di categorie. L’applicazione di tali definizioni

teneva di certo conto della circolarità internazionale di una nuova danza che si

manifestava come tensione alla sperimentazione diffusa, non esclusiva di una

zona geoculturale e geopolitica (sebbene varia e variabile in relazione a tali

parametri). Ma, al contempo, usare tali definizioni come indicatori di “linee di

tendenza” coreografiche, per quanto efficace strumentalmente, lasciò emergere

delle problematiche ancor meno adatte a cogliere la consistenza degli eventi, a

organizzare la visione delle cose. Si affondava in interessanti dilemmi sulle

origini e sui confini delle manifestazioni coreutiche: su cosa fosse danza, cosa

teatro, su espressività e astrattismo, su narrativo e non narrativo, su soggettivo

e impersonale, su danze “col codice”/“senza codice”, etc. Uno dei pericoli più

latenti era quello di perdere di vista in una deriva di “non soluzioni” (talvolta

anche di “falsi problemi”) quella che era, invece, la specificità dei lavori

proposti, l’artigianato del lavoro, le pratiche d’artista, la complessità dell’atto del

danzare, del danzatore (e autore) in situazione creativa, le modalità

d’interazione col pubblico. L’altro pericolo era quello di confondere

superficialmente cose diverse sotto gli stessi termini, ovvero di non riuscire a

sfruttare proprio quella che si rivelava l’“ambiguità” delle definizioni come

strumento scientifico rispetto alla complessità delle cose. Tra la tentazione di

“etichettare”, tra l’evidenza di uno scardinamento delle sistemazioni

categoriche, tra le indagini sui confini della “rappresentazione” attraverso il

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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movimento, tra le considerazioni linguistiche, restava aperta anche un’altra

questione: se fosse possibile parlare (e come) di una specificità della nuova danza

italiana. Per quel che concerne i “termini” applicati ai fenomeni artistici,

allorquando entrano nel circuito della comunicazione pubblica succede di

frequente che tendano a funzionare come “etichette” con tutte le tentazioni

della moda; ma proprio tali “etichette” non mancano dal rivelarsi precarie di

fronte al campo, per principio mobile, del lavoro artistico “di ricerca” e di

fronte alla molteplice specificità e interrelazione dei percorsi artistici. Sull’onda,

dunque, delle perplessità rispetto alla propensione a indirizzare e stabilizzare gli

eventi in cristallizzazioni spazio/temporali, si animano da più fronti interessanti

riflessioni. Nell’82 Silvana Natoli, ad esempio, scrive: «le definizioni

contribuiscono a perpetuare i fenomeni, dotandoli di una sorta di forza

inerziale. Ma se le categorie interpretative si applicano a identificare una

tendenza, la ricerca ne apre altre e altrettanto possibili, deviando dai confini

tracciati e liberandosi dal terrorismo del tempo [...]. Pare tenersi pronta al

tradimento, sapendo che l’imbroglio è stabilizzare»61.

Ma in quegli anni chi si interessa particolarmente alla nuova danza in Italia?

Chi sono i cosiddetti critici che in modalità diverse si avvicinano al fenomeno?

Quali sono i canali e i mezzi più diffusi attraverso i quali la critica comunica le

proprie riflessioni? Possiamo parlare di una critica italiana della danza, nel

senso di una critica specialistica, “di professione”? Ed esiste uno specifico

linguaggio (e un sistema definito di nozioni) con cui ci si rivolge alla danza

contemporanea, della quale la nuova danza vorrebbe porsi come una delle più

radicali manifestazioni? Al suo emergere tra gli anni Settanta e Ottanta, la nuova

danza mobilita curiosità da più fronti. I mezzi attraverso i quali i critici

generalmente espongono le loro osservazioni sono i giornali, i contributi in

programmi o opuscoli distribuiti in occasione degli spettacoli, i cataloghi di

rassegne, di festival, dei quali si propongono spesso anche come ideatori e/o

direttori artistici. Vi sono, poi, momenti di dibattito aperti più o meno al

pubblico (spesso inseriti nelle programmazioni dei festival e delle rassegne), in

cui si confrontano critici, artisti, organizzatori (ce ne restano alcune

testimonianze scritte; qualche più rara registrazione audio o video; e restano61 Natoli, Silvana, Introduzione, in Bentivoglio, Leonetta (a cura di), Tanztheater. Dalla danza espres-sionista a Pina Bausch, Roma, Di Giacomo, 1982, p. 14.

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quali possibili testimoni viventi alcune delle personalità presenti allora e

operanti tutt’oggi). Tra gli anni Settanta e Ottanta, con particolare interesse

rivolgono attenzione alla cosiddetta nuova danza italiana personalità già

provenienti dall’ambiente del teatro di ricerca e dell’arte contemporanea o ad

essi vicine: organizzatori, critici militanti, promotori, galleristi, direttori dei

cosiddetti luoghi off, gli stessi artisti. A partire da un’angolazione più

specificamente coreutica se ne occupa sia la “vecchia guardia” di critici che

provengono dall’ambiente accademico o che, comunque, sono cresciuti in

prossimità di tale ambiente, e hanno solitamente un’ampia formazione

umanistica; sia una sorta di più “giovane” (in linea di massima anche per età)

aspirante critica. Gli esponenti di quest’ultima proseguono nell’impegno della

vecchia guardia per una più estesa e consapevole diffusione culturale della

danza, per il raggiungimento di un pubblico vario, ma insistendo

particolarmente sull’apertura a esperienze moderne e contemporanee, e a

quanto si muove fuori dai circuiti più ufficializzati. Nella maggior parte dei casi

provengono anche loro da una formazione umanistica (letteraria, storico-

artistica, filosofica); attraversano gli anni Sessanta-Settanta dei movimenti di

contestazione tra messa in discussione e peso di ideologie e partiti; seguono gli

svolgimenti della società consumistica e della comunicazione di massa;

risentono particolarmente degli echi e delle questioni emerse tra strutturalismo,

ermeneutica, decostruzionismo, postmodernità, postavanguardia, che si

avvicendano nella rimessa in gioco di prospettive sociali, culturali, nelle ricerche

delle scienze umane e antropologiche; si interessano alle diverse manifestazioni

della sperimentazione artistica e teatrale a livello internazionale, alle differenti

prospettive sul danzare che portano a una riconsiderazione della “corporeità”

come luogo d’indagine (sia essa individuale e collettiva, quotidiana ed

extraquotidiana). Questi critici partecipano, cioè, generazionalmente, degli

scenari, degli ambienti, delle problematiche, in cui si formano e fanno le prime

esperienze i danzatori stessi della nuova danza italiana. Hanno l’intuizione che

avvicinarsi e, in un certo senso, anche affiancare questi danzatori nei loro

percorsi di ricerca (traendo vantaggio dal fatto che tali artisti operano in

situazioni non vincolate a un contesto accademico o a una teatralità ‘ufficiale’,

che i loro modi di lavoro e le loro proposte sono un territorio per molti versi

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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ancora vergine da indagare) sia un’opportunità per loro stessi per ritagliarsi uno

spazio d’azione, per precisarlo, per assumere e rilanciare il ruolo di critico come

possibile situazione professionale. Un’auspicabile situazione di “libero

professionismo” della critica, se vogliamo, con individualità che si

autopropongono e costruiscono come figure esperte, muovendosi tra l’attività

pubblicistica, l’organizzazione di eventi, la promozione artistica, l’attività

storicistica, fino, via via, ad approdare anche ad esperienze didattiche attraverso

situazioni seminariali attivatesi in varie occasioni (ad esempio in festival e

rassegne, nelle accademie, nelle università). Tali aspiranti critici di danza si

fanno forti, per certi versi, pure delle esperienze dei “critici militanti” che

avevano già affiancato gli svolgimenti del nuovo teatro (mostrandosi, tra l’altro,

particolarmente attenti agli esperimenti sulla corporeità e sul movimento che

interessavano le diverse manifestazioni artistiche). Ma rispetto a certa critica

teatrale si mostrano di solito meno rampanti nelle proprie posizioni, anche

quando assumono una dimensione di vicinanza propositiva rispetto ai nuovi

artisti. È pur vero che i tempi sono cambiati, che gli artisti della nuova danza

emergono in un contesto che ha già vissuto la spinta sperimentale come messa

in discussione delle modalità di comunicazione, di ideologie, linguaggi e

modelli; anche se in un ambito più strettamente coreutico la spinta innovatrice

(oscillante in vario modo tra decostruzione, propositività, mutazione) sembra

solo adesso manifestare anche in Italia una più estesa possibilità pratica

d’incidere, di scardinare la resistenza di abitudini e repertori, di trovare e farsi

spazio. I suddetti critici di danza (ma non solo loro) alimentano

particolarmente la propria esperienza nella vicinanza alla fucina degli

autori/danzatori. È un passaggio, questo, avvertito come fondamentale nella

ricerca di strade, modi e strumenti per la propria indagine, per mettersi in

situazione d’organizzare una visione delle cose e una relativa propositività

comunicativa, anche al di fuori del territorio nazionale. L’avvicinamento, il

dialogare stretto e con fasi di continuità intorno al lavoro artistico, appare, in

diversi casi, vantaggioso sia per la critica che per quei danzatori che accettano il

rapporto, l’accesso al proprio laboratorio, o che, talvolta, propriamente lo

ricercano. Non tardano, certo, a presentarsi problematiche ed equivoci intorno

all’affermazione di libero professionismo, alla gestione dei rapporti con gli

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artisti e coi circuiti “di potere”, ma tenendo tali questioni a parte dal presente

contributo (in quanto apparirebbero, forse, troppo soggettive interpretazioni),

mi fermerei a come tale critica legge negli anni Ottanta la nuova danza italiana,

sulle soluzioni che propone, privilegiando la considerazione di alcune linee

comuni. Ho accennato al tentativo di orientarsi attraverso comparazioni con

fenomeni già più noti; ho accennato al resistere delle “definizioni” quali

“appoggi”, ma anche al come queste non tardino a rivelare una loro ambiguità

rispetto allo scenario di lavori ed eventi proposti; cosa che pone la questione di

una necessità di modalità nuove nel concepire ed usare le definizioni stesse. Se

gli artisti si muovono in percorsi di dichiarata e continua ricerca che rimettono

in gioco la visione della danza, della sua pratica, della sua scrittura, della sua

manifestazione, la critica sembra alquanto concorde sul fatto che approcciare

alla nuova danza attraverso un unico ordine disciplinare o linguistico, tanto

quanto applicare una prospettiva riduzionista, risulti inadeguato, insufficiente.

Anche dal punto di vista del linguaggio della danza ci si ritrova sforniti rispetto

a una molteplicità di esperienze e modi di lavorare, di coreografare, che non

rispondono, come nel caso del balletto, ad un unico codice (se pure per il

balletto classico esistano varianti di metodo, stilistiche, tecniche, segniche,

dinamiche). Ci sono, certo, degli elementi riconoscibili, che accomunano anche

lavori di artisti diversi, ci sono percorsi di formazione e fondamenti tecnici

affini, ma spesso questi stessi elementi si rigenerano in sistemi di linguaggio

autonomi, e in un’invenzione segnica che non trova sempre riscontro in una

nominazione prefissata (e in un corrispettivo sistema di nozioni) comunemente

riconosciuta, come quando si dice “questa è un’arabesque”, questo è un “pas de

deux” e si è immediatamente concordi (almeno a un livello di superficie, per

convenzione). Mi sembra interessante sottolineare come di frequente troviamo

gli stessi autori/danzatori impegnati in una metariflessione sul proprio

linguaggio, sulle nozioni e notazioni della danza quanto sullo specifico del

proprio lavoro, che in taluni casi li porta alla ricerca e all’invenzione di

neologismi. Nel tentare, comunque, una definizione complessiva che aderisca

alla realtà della nuova danza italiana, che funzioni anche comunicativamente

come veicolo e chiave di lettura aperta sulla distinta specificità dei lavori, la

critica comincia gradualmente ad assumere e usare termini quali: “autorialità”,

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“diversità”, “mediterraneità”. I riferimenti che tali terminologie sottendono e i

discorsi che la critica dirama intorno a tali parole sono molteplici e mutuati da

approcci e metodologie varie, dal pensiero filosofico intorno alla post-

modernità, dalla storiografia, dalla sociologia, dai cultural studies. La critica

sostanzialmente afferma la necessità di approcciare alle cose incrociando più

prospettive, attingendo a campi metodologici (e linguistici) differenti,

rifunzionalizzandoli rispetto all’osservazione specifica della danza. Per quel che

concerne la questione dei linguaggi della nuova danza si sottolinea una

distinzione nell’approcciare al lavoro d’artista come “coreografia” o come

“messa in coreografia” sottolineando con “messa in coreografia” lo

spostamento del punto d’osservazione critico verso l’artigianato della danza,

verso il riconoscimento dell’autonomia linguistica del danzatore/autore, e verso

l’operazione di scrittura scenica. A trarre oggi un bilancio sugli anni Ottanta

non credo si giunga già allora al configurarsi di chiare metodologie critiche, nel

senso di proposte che siano scientificamente solide ed esplicitate in quanto tali.

Si pone indubbiamente l’urgenza di interrogare e autointerrogarsi. Cosa deve

fare un osservatore critico? Deve descrivere, valutare, analizzare, interpretare,

giudicare? Quali sfide pone la nuova danza? Come si configura il rapporto

critica/artista/pubblico? Di fronte a tale campo aperto d’indagine si fanno i

conti, in quegli anni, più o meno dichiaratamente, con l’ipotesi che una sorta di

epistemologia della complessità possa essere una buona pista. L’individuazione

(emersa tra critici e artisti) di parametri, variabili, come “autorialità”,

“diversità”, “mediterraneità”, ne è, per molti versi, una spia. Ci si può, ancora,

chiedere se oggi, a distanza di un trentennio circa dal riconoscimento e

dall’intensificarsi del dibattito sulla nuova danza, si siano, poi, consolidate delle

metodologie critiche (parlo sempre dell’Italia), se si siano intraprese delle strade

efficaci rispetto all’insidiosa quanto necessaria questione delle definizioni, e

come ci si è organizzati rispetto ai linguaggi autoriali, alla loro persistenza e

mutazione. A un primo sguardo molte cose non sembrano cambiate: alcune

delle definizioni e dei termini più diffusi già negli anni Ottanta (“teatrodanza”,

ad esempio) resistono, e va bene; li ritroviamo in uso per festival, rassegne,

nella pubblicistica, nel web, etc. Resta sempre in agguato il rischio di cadere in

etichette facili, abusate, alquanto svuotate da una vera forza conoscitiva,

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seppure utili ad attrarre il pubblico con immediatezza agendo su un bagaglio di

consapevolezze consuete (in altri casi, si propongono definizioni e termini

rinnovati nella veste, ma talvolta esorbitanti rispetto alle cose). Potremmo,

forse, accettare bonariamente la convenzionalità comunicativa e ritenere certi

termini ricorrenti come una sorta di connettori formali che facilitino una

collettività di osservatori nell’affacciarsi e circolare intorno alle cose.

Rispetto, poi, alla questione della “diversità” linguistica degli autori sarebbe

facile assumere un atteggiamento di predisposizione come a una ricorrenza

caratteristica, consuetudinaria, col pericolo latente, tuttavia, di un assorbimento

tanto della forza della “diversità” quanto della forza scientifica che c’è

nell’attività del distinguere e del comparare. Mi sembra molto interessante la

prospettiva ipotizzata da Vicentini di procedere con un approccio “ecologico”

rispetto ai fenomeni e all’osservazione stessa dei fenomeni del mondo del

teatro, laddove a proposito delle “nozioni” di cui gli studiosi si avvalgono per le

proprie indagini e i propri resoconti, dice:

[...] una volta riconosciuta la scarsa utilità di precisarle indefinizioni rigorose e inequivocabili, si prospetta un’altra manieradi esaminarle, più adeguata alla loro natura e al modo in cui leutilizziamo. Una sorta di considerazione ‘ecologica’ delle nozioni,come realtà complesse che vivono e respirano nell’intreccio deiloro ambiti di significato in continua trasformazione nello sforzodi rendere mediante termini più o meno determinati la nostraeffettiva percezione dei fenomeni del mondo del teatro. Chiarire,approfondire e sviluppare questa percezione – la forma in cuiconcretamente avvertiamo, vediamo, cogliamo, i fenomeni che ciinteressano – è infatti l’unico obiettivo dei nostri studi. E soloun’ecologia delle nozioni d’uso può renderle più efficaci comestrumenti di lavoro.62

Tale approccio “ecologico” credo sia interessante anche per l’“osservatore

critico”63. E quando dico “osservatore” non intendo, certo, richiamare solo

l’aspetto visivo, dello sguardo, ma un’esplorazione scientifica che impegna la

sensorialità, l’intelligenza, la “situazione” dell’individuo quale entità

vissuta/vivente tra sé e altro da sé. Nella ricerca di possibili “come” del fare

62 Vicentini, Claudio, Per un’ecologia delle nozioni di lavoro, in «Acting Archives Review», anno IV, n.7, maggio 2014, p. 363 Ovviamente sarebbe falso indicare un limite (e soprattutto netto) tra critico e studioso, macon “osservatore critico” intendo, in questo caso specifico, anche chi è chiamato professional-mente a fare un “rapporto” ravvicinato nel tempo, più immediato, sugli eventi scenici rispettoai quali passa per una relazione di contiguità.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Dora Levano

critica, parlerei non tanto di metodi adottati, ma di “atti critici” e di “approcci

metodologici”, mirando l’attenzione al processo d’osservazione, d’indagine e

d’elaborazione d’ogni discorso critico, in quanto costantemente attivo, mobile

(nella percezione, nella memoria, nella costruzione di senso). Ritengo che ogni

“atto critico”, come osservazione del lavoro d’artista ed elaborazione di un

discorso intorno ad esso, si configuri attraverso il passaggio per fasi di co-

operatività (ma ciò indipendentemente dalla valutazione del raggiungimento

d’un mutuo beneficio, nel senso che tale cooperatività non esclude la possibilità

di una produzione critica che appaia divergente rispetto all’intenzione

dell’artista nella risultante dalla costruzione di senso). Due universi di

esperienze, di competenze, di valori, ma soprattutto due corporeità, con la loro

autonomia e distinzione, con la loro capacità di autoproduzione e poiesi,

s’incontrano e confrontano; quest’incontro, se lo concepiamo come

un’interazione, non è solo una trasmissione di informazioni tra due

soggettività, né si consuma in una dicotomia tra il critico come “soggetto” e

l’artista con il suo lavoro come “oggetto” d’indagine; tra i due sistemi

critico/artista si stabilisce una sorta di relazione in circolarità. Che intendo

dire? Che la coscienza critica e ogni sua produzione di senso potremmo

considerarle un’emergenza che si genera attraverso un’interazione ciclica tra

interno-esterno, per empatia e decentramento nel collegamento tra

l’osservatore critico e il sistema autoriale della danza a cui si rivolge. In tal

senso è tanto più appropriato parlare per l’indagine e la produzione critica di

“atti critici”. E considerare che l’“atto critico” si muove a più livelli senza

soluzione di continuità, in una situazione fluida, laddove il collegamento non è

solo stabilito tra due entità “critico/artista”, ma è nel loro coinvolgimento in

un interrelarsi simultaneo di più cicli d’attività e mobilità: tra l’individuo con la

propria stessa corporeità (memore/attuale), con l’ambiente, con gli altri.

Considerato in tale prospettiva, va da sé, pure il fatto che uno stesso lavoro

d’artista può essere percepito e letto da più osservatori in modi diversi, non è

mera questione di “soggettività” differenti che approcciano alle cose. Certo, il

presente contributo non è luogo atto a un’articolata riflessione intorno alle

problematiche appena poste; vado, dunque, a concludere lasciando aperte

alcune prospettive, a mio avviso, interessanti. Senza nulla togliere al ruolo del

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critico come singolo professionista, e come figura, personalità esperta a cui

affidarsi anche per la promozione dei lavori artistici, mi chiedo quanto sia

interessante scientificamente e metodologicamente (anche metacriticamente)

considerare l’azione di “osservatòri critici” costituiti da più persone, che in una

quota siano stazionarie e professionalmente formate (o in formazione) e in

altra quota siano “critici” occasionali (e non necessariamente già “esperti”).

L’altra cosa che non si può ignorare è come il fatto che le nostre “azioni” e

comunicazioni possano situarsi e viaggiare attraverso la rete sia andato a

mutare, muti, l’organizzarsi e la fenomenologia della relazione “osservatore

critico/lavoro artistico” nelle idee stesse di “pubblico” e “proprietà” dell’arte,

della cultura, dell’informazione.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Sessione III

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Introduzione

È davvero la storia del ballo italia-no tra Settecento e Ottocento un’ere-sia risolta tra i due estremi di virtuosi-smo e pantomima, come si affermanel discusso bestseller di Jennifer Ho-mans? In che modo l’Italia ha disper-so il proprio patrimonio e, di conse-guenza, il primato e i diritti maturatinell’era classica e rinascimentale?

A queste domande di fondo – reseancora più amare nell’attuale contestosocio-politico – rispondono indiretta-mente, e nei rispettivi settori, le tre ri-cerche dottorali che, pur fondate sullesolide basi della musicologia e dellateatrologia italiane, si aprono a nuovemetodologie e strategie di lettura, tracui i cultural e dance studies. Dallo stu-dio di prima mano dei trattati e deimanuali didattici, dei libretti e delleautobiografie, scaturiscono nuovequestioni, più chiare e circostanziate,a proposito di una pantomima chetuttora sentiamo come tota nostra:cosa s’intende con il termine sfug-gente e onnicomprensivo di pantomi-ma? quali sono state – al di là dei ge-sti convenzionali e condivisi con le al-tre arti sceniche – le reali praticheesecutive e didattiche dell’arte mimicaottocentesca?

Nella sua ricerca, Noemi Massariripercorre le origini del ballo panto-mimo e la riscoperta della pantomimaclassica per poi tratteggiare il panora-ma artistico delle due città prese inesame: Milano e Napoli; d’altronde,se la Homans afferma la superioritàdella danse d’école e del balletto impe-riale di Francia e Russia in un percor-so che va da Parigi a New York pas-sando per Mosca e Pietroburgo, al-meno per la danza pantomimica sidovrà partire necessariamente da Na-poli, Milano (e Venezia, come vedre-mo in seguito). Grazie alla consulta-zione di note d’archivio, gazzette e in-

ventari dei teatri, questo studio illu-stra le modalità dell’insegnamentodella pantomima nelle maggiori acca-demie del tempo, ossia quelle esisten-ti presso il Teatro alla Scala e il TeatroSan Carlo, per giungere alla conclu-sione che il vocabolario gestuale inuso all’epoca traeva i modelli dagli at-tori e dalla trattatistica di teatro. Aquesto scopo, sono stati catalogati iriferimenti alle parti mimiche presentisia nei libretti sia nei manuali di reci-tazione, canto e danza: oltre ai testi diBlasis (che dedica le sue osservazionianche ai cantanti), vi sono gli impor-tanti scritti di Morrocchesi e Morelli,e quelli di Manuel Garcia (Trattatocompleto dell’arte del canto) e Enrico Del-le Sedie (Arte e filosofia del canto, 1876;L’Estetica del canto e dell’arte melodram-matica, 1896). In particolare, vorreinotare il rimando alla Guida teorico-pratica ad uso dell’artista cantante di Leo-ne Giraldoni, recentemente messa inluce anche da Gerardo Guccini, dovescopriamo le categorie rese celebridalla semiologia del gesto delsartianatradotte in un italiano d’antan «norma-le, concentrato, espansivo». Uno stu-dio che ai miei occhi apre un nuovoparagrafo nella storia della ricezionedi Delsarte tra Italia e Russia, visti glistretti rapporti del celebre baritonocon il conservatorio musicale di Mo-sca.

All’interno del progetto di ricercadi Stefania Onesti – Dietro la traccia de’gran maestri. Prassi e poetica del ballo pan-tomimo italiano negli ultimi quarant’annidel Settecento – si indaga lo specialeamalgama di danza e pantomima nel-le coreografie settecentesche concen-trandosi su cinque fonti eterogeneema indicative di un «nuovo modo dimettere in scena il ballo pantomimo»(Weaver, 1717; «Mercure de France»,1734; Gallini, 1762; Magri, 1779; e il

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Concetta Lo Iacono

manoscritto Ferrère redatto nel 1782)e i libretti, alcuni dei quali provenientidal fondo Gozzi della Biblioteca Mar-ciana di Venezia, di quattro coreogra-fi.

Alle difficoltà ermeneutiche pro-prie dei testi settecenteschi, si ricolle-gano anche le oscillazioni terminolo-giche nell’uso di termini quali danza,espressione, pantomima spesso usaticome sinonimi. Magri e Gallini, infat-ti, non sembrano fare distinzione fra idue linguaggi: «entrambi si riferisco-no ad una danza che è espressioneovvero pantomima. Non si trattereb-be allora di una fusione di due generi,ma di un tipo di movimento chesfrutta l’espressività della parte supe-riore del corpo per colorare il passodi una particolare intenzione». La ri-cerca si conclude, infine, con il giustoriconoscimento dei debiti contratticon la musica, vista la reale incidenzadelle teorie e delle pratiche musicali(vedi le posizioni di Weaver, Magri,Ferrère e Bournonville): le melodieaccompagnano e motivano l’interpre-te, e talora suppliscono al gesto pan-tomimico, «è il caso proprio della Se-miramide di Onorato Viganò e CarloGozzi, dove la musica si sostituisceall’interpretazione della ballerina in-terpretandone le grida». Dovremoquindi attendere il Novecento per ilriconoscimento dello statuto autono-mo della danza dalla musica, di un ge-sto libero di espandersi come (e in as-senza di) melodia.

A questo proposito, mi sembrautile aprire una breve parentesi. Ladanza pantomima autentica (quellaantica) era per Angiolini «l’arte dimuovere i piedi, le braccia, i corpi incadenza al suono degli strumenti», dacui deriva la vexata quaestio pantomimacamminata vs pantomima “misurata”(ovvero a tempo di musica) al centrodella querelle Noverre-Angiolini, risol-ta poi in molte capitali europee con il

primato del coreografo italiano. Valela pena ricordare le premesse, nonfoss’altro per dare rilievo a un mo-mento storico che vide l’Italia al cen-tro di una polemica che ha assuntonella storia del teatro di danza occi-dentale la stessa importanza che eb-bero le dispute musicali sulle diffe-renze tra i generi operistici e sullameccanica successione di recitativi earie. Querelles oggi non più circoscrittedagli storici musicali a poche perso-nalità di genio bensì viste come am-pio processo culturale nei domini difilosofia, letteratura, fisiologia, tecni-che e metodologie del canto; un pro-cesso sedimentato nel tempo e teoriz-zato, in primis dai compositori, inmodo sempre più chiaro e sistemati-co.

Nella ricerca di Rita Maria Fabrissi individua, all’interno del panoramadel primo Ottocento, un corpus discritti e fonti autobiografiche di Bla-sis e Bournonville, i principali coreo-grafi del tempo in Italia e Danimarca,allo scopo di ricostruire la dinamicadelle relazioni personali e sociali ri-flesse nella scrittura di sé. Le fonti in-dicate, gli egodocumenti secondo le re-centi definizioni, sono indispensabiliper la storia delle identità individuali ecollettive, estendendo la sfera deglistudi dalla letteratura ad ogni ambitostorico; il progetto di verifica e deco-struzione delle singole narrazioni as-sume, di conseguenza, notevoli di-mensioni poiché dovrebbe includereanche gli egodocumenti non pubbli-cati: lettere, appunti di viaggio, diari econtratti.

Rispetto ai testi di Blasis, così par-chi nel rivelare fatti personali e cosìricchi di citazioni letterarie e artisti-che, quelli di Bournonville “altamenteinformativi e poco comunicativi”,raccontano molto – viaggi, persone,luoghi – attuando però un’autocensu-ra sulla vita privata: situazioni e parti-

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colari distrutti o omessi in ossequio apressioni e convenzioni culturali e so-ciali. In entrambi i casi è evidente ilprocesso di idealizzazione del loropensiero ed operato, selezionando pa-role alte e modelli di comportamento«che non hanno la funzione di descri-vere una situazione, piuttosto quelladi provocarla» (Burke).

Per concludere, mi ritaglio lo spa-zio per una nota sulle arti visive italia-ne che appaiono spesso appesantitedai molteplici riferimenti classici.Penso sia più che legittimo nel pano-rama della danza classica rifarsi alpassato; in fondo Blasis, e in mododiverso lo stesso Bournonville, hannoideato le loro “strategie della distin-zione” accreditandosi presso i Classi-ci; ma anche i nuovi alfieri della clas-sicità del balletto americano sono sta-ti (in questo caso giustamente) defini-ti dalla Homans Apollo’s Angels. Eppu-re, secondo lei, gli straordinari disegnidei danzatori e dello stesso Blasis nelsuo Traité élémentaire, Théorique et Prati-que de l’Art de la Danse rivelano «la suaossessione per l’antichità, propria de-gli italiani». A me pare invece chescritti e disegni presi in esame, men-tre cristallizzano il lessico e le narra-zioni mitologiche dei secoli preceden-ti, fissino in modo esemplare i canonidella bellezza classica in danza, intro-ducendo rilevanti elementi di novità.D’altra parte, agli occhi degli anglo-sassoni tutto il teatro italiano è «ano-malo» (Farrell) a causa della contrad-dittorietà della nostra cultura e dellamancanza di un centro e di istituzioniglobalmente riconosciute dagli italianistessi.

Nello studio delle diverse appari-zioni del Classico è consigliabile,quindi, entrare in punta di piedi, conuno sguardo profondo, attento aiprocessi sociali e culturali in corso,usando una certa cautela nell’aderirealle nuove parole d’ordine – definite,

come accade da sempre, nei centri delpotere – e per poter equilibrare i giu-dizi altrui, sovente troppo parziali earbitrari. Giudizi ingiusti che nonhanno risparmiato anche un giovanefavoloso nato pochi mesi dopo Bla-sis: il Leopardi rivoluzionario e aman-te del mondo antico; il quale, comeBlasis, si fece portavoce di un grandeprogetto etico, morale, politico e cul-turale: attingere al passato per fortifi-care le migliori tradizioni, e per muta-re gli usi, lo sguardo e la mentalità de-gli italiani.

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Rita Maria Fabris

Essere danzatore e intellettuale nell'Ottocento: danza escrittura di sé64

A partire dalla relazione culturale che lega le esperienze pedagogiche e

rappresentative del teatro di danza ottocentesco di Carlo Blasis (1795-1878) a

Milano e August Bournonville (1805-1879) a Copenaghen, formatisi entrambi

alla danse d’école con tanto di approvazione del “dittatore” del Théâtre de

l’Opéra di Parigi, Pierre Gardel (1758-1840), ed operanti all’interno di un

sistema teatrale europeo con caratteristiche peculiari nei rispettivi contesti di

produzione, è stato individuato un corpus di fonti autobiografiche che consenta

di ricostruire come i due danzatori e intellettuali si percepissero, non tanto per

recuperare voci più autentiche, ma per raccontare come costruirono le loro

strade fra norme e relazioni, domande e paure e come diedero senso a tutto

questo65, diventando due monumenti fondamentali degli studi di danza.

La nuova storia culturale ha attirato l’attenzione sui progetti di costruzione

dell’identità, in un momento storico in cui sono così urgenti le politiche

dell’identità in tanti paesi66. Le fonti individuate, definite egodocumenti dagli

olandesi, allargano il campo degli studi linguistici francesi sulle autobiografie

letterarie prese in considerazione da Le pacte autobiographique di Philippe

Lejeune67. Mentre quest’ultimo si interroga sull’autobiografia come testo

letterario, uno degli aspetti più affascinanti del mito dell’io della civiltà

occidentale, analizzando il patto che si crea fra autore e lettore, tutto giocato

sull’intenzione di dire la verità, la gran massa di egodocumenti non pubblicati,

64 Questo saggio proviene dalla tesi di dottorato su “Corpo e mito. Immagini e racconti del tea-tro di danza dell'Ottocento: Milano e Copenaghen”, Università degli Studi di Siena, Diparti-mento di Scienze storiche e dei beni culturali, Scuola di Dottorato “Logos e rappresentazione.Studi interdisciplinari di letteratura, estetica, arti e spettacolo”, Ciclo XXII, tutor: prof. Gioa -chino Chiarini.65 Fulbrook, Mary – Rublack, Ulinka, In Relation: The ‘Social Self’ and Ego-Documents, in «GermanHistory», vol. 28, n. 3, 2010, pp. 263-272: p. 271.66 Franco, Susanne – Nordera, Marina, (a cura di), Ricordanze. Memoria in movimento e coreografiedella storia, Torino, UTET Università, 2008, pp. XXXIII-XXXIV.67 Lejeune, Philippe, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986 (ed. or. Le pacte autobi-ographique, Paris, Seuil, 1975).

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Rita Maria Fabris

come diari, lettere, resoconti di viaggio, contratti, testamenti scritti in prima

persona, potrebbero non solo recuperare dati veridici, secondo una prospettiva

positivista sempre attuale, ma rivelare soprattutto gli spazi di manovra

dell’individuo all’interno delle pressioni normative, delle convenzioni sociali

non scritte, delle relazioni familiari e sociali68, fino a ricostruire la retorica

dell’identità messa in campo anche nel contesto disciplinare degli studi di

danza, ossia l’aspetto fictional delle narrazioni o la percezione della vita

modellata secondo una drammaturgia performativa (di conversione, di ascesa

sociale ecc.) attraverso la selezione di azioni e di documenti «che non hanno la

funzione di descrivere una situazione, ma piuttosto quella di provocarla»69.

In tale direzione questo contributo intende riflettere sul passaggio della

danse d’école dal suo statuto di koiné, di linguaggio condiviso e riconoscibile a

livello europeo, al concetto di canone normativo a quest’altezza cronologica,

fra gli anni Dieci e Trenta dell’Ottocento, rivelandone il processo di

appropriazione e di rielaborazione esperienziale da parte di Blasis nella cultura

italiana e di Bournonville nella cultura danese, a partire da una ricostruzione

dell’identità relazionale dei danzatori intellettuali.

Tale progetto identitario si attualizza attraverso la scrittura di sé durante gli

anni del percorso formativo, come emerge non solo dagli egodocumenti, ma

anche dai documenti d’archivio e dalle biografie che li riguardano. Tale

dimensione documentaria acquisisce rilievo attraverso la ricostruzione dalla

tradizione storica, avviata consapevolmente sia da Blasis sia da Bournonville

durante il corso della loro vita e trasmessa dalle ri-scritture successive, dai

processi di filtraggio, di conservazione e di montaggio di altre narrazioni.

Archivi immaginari: Carlo Blasis

L’eredità coreica che viviamo è prodotta oggi in Italia da una prevalente

memoria immateriale legata agli storici centri di produzione del teatro di danza

e della formazione, in primis il Teatro alla Scala di Milano, la sua Scuola di Ballo,

68 Ulbrich, Claudia, Person and Gender: The Memoirs of the Countess of Schwerin, in «German His-tory», vol. 28, n. 3, 2010, pp. 296-309: p. 308.69 Burke, Peter, La storia culturale, Bologna, il Mulino, 2006, p. 118 (ed. or. What is Cultural His-tory?, Cambridge, Polity, 2004).

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l’Accademia Nazionale di Danza di Roma e le relative istanze di formazione di

corpi danzanti.

Lungo questa linea di recupero della storia dopo la memoria, fra Settecento

ed Ottocento, nel momento capitale di passaggio da una cultura teatrale

artigianale, che formava famiglie di danzatori e compositori di balli fra le assi

del palcoscenico, ad una formazione scolastica sul modello normativo francese

importato con la Rivoluzione, la scrittura di sé da parte dei danzatori italiani si

limita alle note autobiografiche del grottesco milanese Paolo Rainoldi e al

diario di Filippo Taglioni, come ricorda Marian Hannah Winter nel volume

storico The Pre-Romantic Ballet del 1974, basato su fonti documentali centro-

europee70.

Se si cercano tracce materiali, Carlo Blasis disperde negli archivi milanesi,

italiani ed europei i documenti dei suoi passaggi, lasciando alle sue

pubblicazioni il compito di presentarlo come canone ideale della danse d’école,

attraverso i disegni di Casartelli del Traité élémentaire théorique et pratique de l’art de

la danse del 1820 e la raccolta meticolosa di «quaranta anni di lavoro» nel

volume del 1854 intitolato Delle composizioni coreografiche e delle opere letterarie di

Carlo Blasis71. Quest’ultima pubblicazione, composta dopo il termine della

direzione della Scuola di Ballo scaligera, è accompagnata dall’incisione del suo

ritratto a mezzo busto e da una Prefazione dell’Editore, che ne rileva l’intento

didattico destinato agli allievi, mentre l’Indice si presenta come un catalogo

biografico e bibliografico in cui su 18 punti, 16 iniziano, con i caratteri in

grassetto «C. Blasis»72, secondo le convenzioni grafiche editoriali che

caratterizzano i dizionari biografici dell'epoca73.

Fra gli archivi della Scuola di ballo scaligera, mai catalogati, la Biblioteca

teatrale Livia Simoni, l’Archivio storico civico della Biblioteca Trivulziana di

70 Winter, Marian Hannah, The Pre-Romantic Ballet, London, Pitman, pp. 237-243.71 Blasis, Charles, Traité elémentaire, théorique et pratique de l’art de la danse contenant les développements,et les démonstrations des principes généraux et particuliers, qui doivent guider le danseur. Par Ch. Blasis pre -mier danseur, Milan, Chez Joseph Beati et Antoine Tenenti, 1820, rist. anast. Bologna, Forni,1969; Blasis, Carlo, Delle composizioni coreografiche e delle opere letterarie di Carlo Blasis coll’aggiunta delletestimonianze di varii scrittori e di una sua Dissertazione inedita sovra le Passioni ed il Genio , Milano, Cen-tenari, 1854.72 Ivi, pp. V-VI.73 A titolo esemplificativo cfr. Regli, Francesco, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti me-lodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresariecc. ecc . che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860.

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Rita Maria Fabris

Milano, la Cia Fornaroli Collection della New York Public Library for the

Performing Arts e altre miriadi di luoghi non ancora identificati74, si potrà forse

ricostruire il mosaico della personalità complessa di danzatore e intellettuale,

per approfondire le brevi note autobiografiche alle quali Blasis accenna per

costruire il suo Bildungsroman. Molto sinteticamente per affermazione

professionale, si rappresenta culturalmente francese, perfettamente assimilato

fin dal nome posto in calce all’opera prima, Charles Blasis. Fin dall’età di nove

anni vive infatti a Marsiglia, territorio dall'identità ambigua a seconda degli

interessi politici, seguendo le sorti del padre Francesco Antonio De Blasis, di

nobili natali e compositore musicale di professione.

Singolarmente costruita è la pagina sulla formazione ricevuta da Charles

nell’ultimo capitolo del Traité dedicato a Le Maître per promuovere la sua

proposta di insegnamento alle istituzioni e al pubblico milanese, che già l’aveva

visto danzare come ‘primo ballerino serio o francese’ e comporre un piccolo

ballo di gusto francese, Il finto feudatario, negli anni precedenti alla

pubblicazione. Cito dalla prima traduzione italiana di Piero Campilli: «Bisogna

che un ballerino instruito nella scuola migliore, arrivi al primo rango per la sua

esecuzione. Colui che dell’arte del ballo non possiede che la teorica, non sarà

un perfetto dimostratore»75. Al corpo di questa prima frase lapidaria segue una

nota che traccia in tredici righe un resoconto di tredici anni di apprendistato,

dal 1804 al 1817, quando debutta all’Opéra di Parigi:

Dopo aver ricevuti i primi principj di ballo, ed aver faticato perqualche tempo alla scuola di un corifeo andai a prendere dellelezioni dal Sig. Dutarque maestro di ballo. I miei parenti [genitori]vedendo in me delle disposizioni, e volendo accelerare i mieiprogressi, mi misero alle cure di questo artista allevato alla scuoladei grandi maestri, e che si era già distinto come primo ballerino.Appena incominciai a studiare sotto la di lui direzione, fuiobbligato d’incominciare ad imparare tutto di nuovo, e didimenticarmi quel poco ch’io sapeva. Ritrovai in lui un’altramaniera di dimostrare nelle sue lezioni, e l’arte del ballo mi parvecambiata. Vi scoprii una bellezza seducente, ma con delle nuovedifficoltà; e la maniera di sormontarle m’incoraggiò nella fatica,facendomi parere che i miei sforzi non sarebbono inutili. Alcuniviaggi nelle principali città di Bordò, di Marsiglia, ec. Mi feceroacquistare delle nuove cognizioni della mia arte, (il ballerino deve

74 Cfr. almeno Souritz, Elisabeth, Carlo Blasis in Russia (1861-1864), in «Studies in Dance His-tory», vol. 4, n. 2, autunno 1993.75 Pappacena, Flavia, Il Trattato di Danza di Carlo Blasis 1820-1830, Lucca, LIM, 2005, p. 157.

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guardare molto, e bene esaminare) e fu all’opera di Parigi il più beltempio che si sia innalzato a Tersicore, ove io ho veduto sino aqual alto grado era portata l’arte del ballo. Il Sig. Gardel, il primodei coreografi moderni, mi fece vedere colle sue produzioni, tuttele ricchezze del suo bell’ingegno; ed incoraggiato, ed ajutato dasuoi consigli io ballai all’Accademia Reale di Musica.

Alla città di «Bordò» è aggiunta una ulteriore nota di approfondimento,

come se il sistema di citazioni in uso non bastasse per l’analisi degli elementi

importanti, in un flusso di informazioni e di pensieri che procedono per

accumulazione schematica, più che attraverso una narrazione. La presenza

inoltre delle tavole con i disegni del corpo seminudo di Blasis, consente di

visualizzare e sintetizzare i concetti che assumono spesso un carattere didattico

formulaico, come ben osserva Flavia Pappacena76. Con intento celebrativo e in

riferimento ai maestri della danza francese (Jean Dauberval in primis), Blasis

afferma che Bordeaux è la prima città francese dopo Parigi dove si producono

balli grandi, usa aggettivi al grado superlativo e riporta indirettamente i giudizi

positivi dei giornalisti che l’hanno visto ballare, dando così notizia della pratica

di raccogliere articoli di giornale per costruire una personale, diremmo oggi,

‘rassegna stampa’.

In questa breve autobiografia emerge l’idea di voler fare tabula rasa di ogni

apprendimento precedente per far emergere la traiettoria in ascesa degli

insegnanti avuti non solo trasferendosi dalla provincia al centro, da Marsiglia a

Parigi, ma anche ricordandone i ruoli gerarchici, dal più basso «corifeo» al

«primo ballerino», fino al «primo dei coreografi moderni», Pierre Gardel in

persona.

L’effetto di superficie creato dalla scrittura di Blasis è poco approfondito nei

suoi risvolti esistenziali da documenti privati: l’immagine pubblica che circola è

supportata dalle ipotesi di Pappacena che, a partire dalla scuola metodologica

positivista, costruisce una “Nota biografica” di Blasis attenta ai dati ufficiali.

L’attenzione al corpo vivente di Blasis è confinata ai problemi di sovrappeso,

seguiti all’infortunio che lo costringe ad abbandonare le scene, mentre si

imprimono nella memoria culturale i suoi contorni disegnati, come già rilevava

Angiolo Lambertini, estensore del Corriere delle Dame: «Ci sono cinquantadue

76 Ivi, p. 3.

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figure che il nostro autore fece disegnare d’après lui-même, e a dir vero sono

cinquantadue ritratti del Sig. Blasis. – Io scommetto che alcuni scrittori di prose

e di verso ne bramano altrettanti»77. Null’altro traspare dell’autobiografia dai

numerosi trattati di filosofia della danza che il teorico Blasis scrive durante

l’intero arco della vita, ad eccezione di una biografia del padre, costruita invece

sulle memorie dello stesso Francesco Antonio78.

Archivi materiali: August Bournonville

Sul versante danese Bournonville fin dall’adolescenza percepisce il valore

della scrittura come strumento quotidiano di rielaborazione dell’esperienza, a

quanto rivelano i suoi appunti inerenti la formazione umana e artistica. Lungo

il corso della vita ne assicura la conservazione per la famiglia ed i posteri, forse

proprio per resistere alla natura intangibile della sua arte. Nei minuziosi dagbøger

(diari), August segnala la revisione del suo archivio personale per conservare

ciò che ritiene di valore. Dopo la sua morte, la figlia Charlotte scarta quei

documenti che considera non leggibili da parte dei «non iniziati»79. Gli scritti di

Bournonville comprendenti i dagbøger e le lettere sono stati storicamente divisi

in due sezioni: una viene ereditata dal figlio Edmond ed è stata acquisita dal

Musikmuseet di Stoccolma attraverso lo storico della musica e collezionista

svedese Daniel Fryklund, l’altra è stata lasciata da August Peter Tuxen, nipote

di Bournonville, figlio della primogenita Augusta, alla Kongelige Bibliotek. Da

collezioni private e antiquari o attraverso doni dei discendenti di Bournonville

sono giunti alla Kongelige Bibliotek anche altri scritti che consentono di studiare

l’uomo e la mentalità dietro la persona di teatro. Bisogna considerare che più di

seimila lettere sono conservate fra Copenaghen, Svezia, Norvegia e Francia,

scritte prevalentemente in danese e in francese, ma anche in svedese, tedesco,

inglese e italiano80.

77 Lambertini, Angiolo, Traité élémentaire, théorique et pratique de l’art de la danse, par Charles Blasispremier danseur, in «Corriere delle Dame», 1 luglio 1820, n. 27, pp. 219-220: p. 219.78 Pappacena, Flavia, Il Trattato di Danza di Carlo Blasis, cit., p. 107.79 Jürgensen, Knud Arne, The Bournonville Tradition. The first fifty years, 1829-1879, vol. I, A Docu-mentary Study, London, Dance Books, 1997, p. 151. Le traduzioni dall’inglese e dal danese sonodi chi scrive.80 Ibidem.

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Le tracce autobiografiche sono state oggetto di specifiche edizioni

novecentesche, come le Lettres à la maison de son enfance/ Breve til barndomshjemmet

(Lettere alla casa d’infanzia)81, che non commprendono solo le lettere in

francese al padre, durante il soggiorno parigino di August fra il 1824 e il 1830,

ma anche le lettere in danese alla madre e soprattutto il primo diario del viaggio

parigino, compiuto con il padre nel 1820. La scelta editoriale di Svend Kragh-

Jacobsen ha dato al primo volume del 1969 il disegno del Bildungsroman

parigino coronato dal successo del ritorno a casa, secondo la retorica narrativa

borghese dell’ascesa sociale, oggetto degli studi culturali più recenti, come

segnala Burke, ma già evidente nella narrazione bournonvilliana di Mit

Theaterliv che nel terzo tomo dedica la seconda parte a Erindringer og Tidsbilleder

(ricordi e immagini d’epoca), una rievocazione da parte dell’anziano scrittore

degli anni giovanili rivissuti alla luce dei materiali conservati e della più raffinata

costruzione drammaturgica della propria identità in formazione fra relazioni

familiari e professionali, luoghi, dibattiti culturali e rimemorazioni del proprio

corpo vivente e danzante, con la speranza, scrive, che «se il mio libro non è

considerato come una novelle con un intreccio continuo, ma solo come una

descrizione veritiera dell’evoluzione e conclusione di una carriera artistica, non

mancherà dal punto di vista psicologico, ma, forse, possiederà anche un certo

interesse storico»82.

Nel 1979 Kragh-Jacobsen pubblica un secondo volume con il dagbog in

danese di Bournonville, che, da giovane contabile piccolo-borghese non manca

di registrare la scansione del tempo e delle attività della giornata. In questo

modo ottempera in prima persona ad una pratica rituale dettata sia dalle

abitudini paterne – è stato infatti pubblicato anche il diario danese di Antoine

Bournonville del 179283 – sia dalla sensibilità religiosa luterana, eredita dalla

madre, per impiegare al meglio la borsa di studio «ad usus publicos» concessa

dal re Frederik VI ai Bournonville, padre e figlio, per un aggiornamento

81 Bournonville, August, Lettres à la maison, de son enfance/Breve til barndomshjemmet, a cura diSvend Kragh-Jacobsen e Nils Schiørring, København, Munksgaard, 1969-1979, 3 voll.82 Bournonville, August, My Theatre Life, traduzione di Patricia N. McAndrew, Connecticut,Wesleyan University Press, 1979, pp. 411-503.83 Clausen, Julius (a cura di), Antoine Bournonvilles Dagbøger fra 1792, Kjøbenhavn-Kristiania-London-Berlin, Gyldedanlske Boghandel-Nordisk Forlag, 1924.

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Rita Maria Fabris

professionale nella capitale della danza. A proposito del diario del giovane

Bournonville, il biografo Allan Fridericia scrive:

Il valore di questo journal non sta in speculazioni sorprendentiné in considerazioni mature. Anzi, notiamo che il ragazzo di 14-15anni ‘pensa come papà’ in tante cose o assiste a conversazioni chevanno oltre la sua comprensione. Notevole è che il diario esista esia tenuto con accuratezza dal primo all’ultimo giorno. Nonabbiamo nessuna equivalente testimonianza di un giovanepromettente allievo di danza di provincia – e a questo riguardoCopenaghen è provincia – e del suo primo incontro conl’indiscussa Acropoli dell’arte di allora: Parigi.84

Le attività quotidiane annotate nei sei mesi di permanenza sono: fare i conti,

scrivere alla mamma, visitare il posto, frequentare gli amici, andare a teatro e

soprattutto fare i battements. Il padre già noto nella cerchia dei maîtres de ballet

August Vestris e Pierre Gardel, presenta loro il figlio che appunta

dettagliatamente gli indirizzi dei biglietti da visita, i complimenti cerimoniali che

il padre porge in occasione di nuovi balli, ma soprattutto i progressi tecnici che

acquisisce con il continuo allenamento sotto la guida paterna e di Georges

Maze, che descrive orgogliosamente così lunedì 6 giugno:

Poi andammo a teatro, dove abbiamo danzato dalle ore 7 alleore 11. Il Signor Maze è venuto e mi ha guardato. Quandoabbiamo finito siamo andati prima a casa e poi alla classe di Mazeche ci ha molto soddisfatto. Sono contento di trovare la stessamodalità d’insegnamento di papà. I suoi allievi hanno eseguitomolte cose difficili che né i nostri danzatori né le nostre danzatriciper il momento sono in grado di eseguire.85

August studia anche disegno così da realizzare da solo le ali di Zefiro per il

suo debutto a Copenaghen; non manca poi di visitare il Louvre, la Camera dei

Deputati, i bagni pubblici lungo la Senna, mentre copia con avidità la musica

dei balletti di successo e impara anche le parti femminili dei pas di repertorio.

Partecipa alle feste popolari e istituzionali, compra scarpe da danza e le Lettres à

Emile di Jean-Jacques Rousseau. Naturalmente frequenta tutte le proposte

teatrali della metropoli parigina, seguendo anche le repliche, ma con una

attenzione analitica solo per alcuni atti, una volta vista la prima

84 Fridericia, Allan, August Bournonville: balletmesteren som genspejlede et århundredes idealer og konflikter ,København, Rhodos, 1979, p. 81.85 Bournonville, August, Lettres à la maison, de son enfance/Breve til barndomshjemmet, cit., vol. II, p.33.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

rappresentazione per intero. Cerca anche quei cataloghi d’uso nei teatri di

provincia, quali Critique authentique & officielle, che possano fornire indicazioni

per organizzare le programmazioni con i prodotti più appetibili. La guida

paterna lo instrada lungo una vocazione consapevole di tutte le dinamiche

relazionali, commerciali e politiche da affrontare per costruirsi una professione

internazionale.

Negli anni successivi, dal 1824 al 1830, August affronta in solitudine il

viaggio di perfezionamento, finanziato nuovamente dal re, ma anche sostenuto

moralmente ed economicamente dai genitori, ai quali non manca di scrivere

lunghe lettere di rendiconto dei suoi progressi, della sua vita quotidiana e della

malattia che lo coglie poco prima di debuttare all’Opéra. I dagbøger di questi

anni sono stati distrutti, sostituiti nella memoria personale dall’autobiografia di

Mit Teaterliv e poi dalla costruzione culturale delle Lettres à la maison de son

enfance. Se per la loro funzione pratica i diari hanno uno stile secco, sono

altamente informativi e poco comunicativi, a metà strada tra il libro contabile e

la guida turistica, le lettere ai genitori hanno invece una funzione fatica,

servono a mantenere il contatto attraverso la descrizione dei progressi e dei

giudizi di valore sulle relazioni vissute all’interno del mondo della danza

parigino. La forma epistolare mette in primo piano la cornice affettiva e di

riconoscenza, che serve quasi più ad August per ricordare i propositi e darsi

coraggio.

Come in un archivio, la lettura della corrispondenza permette di recuperare

la sincronia degli eventi, a volte estratti violentemente per la costruzione di

storie disciplinarmente sistematiche, non lasciando emergere la percezione

della vita con le sue infinite sfumature esistenziali: la componente religiosa, ad

esempio, permea l’attenzione al dettaglio e al controllo di sé, la ritualizzazione

delle pratiche di vita quotidiana, la cura di una memoria genealogica famigliare,

tutti elementi che la studiosa Béatrix Le Wita ha riconosciuto essere propri

della nascente cultura borghese86.

86 Le Wita, Béatrix, Ni vue ni connue. Approche ethnographique de la culture bourgeoise , Paris, Éditionsde la Maison des sciences de l'homme, 1988; Cuche, Denys, La nozione di cultura nelle scienze socia-li, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 100 (ed. or. La notion de culture dans les sciences sociales, Paris, Édi-tions La Découverte, 2001).

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Rita Maria Fabris

In questa prospettiva tutte le descrizioni dell’albero genealogico, che

compaiono trasversalmente nella letteratura intima di August, si collegano ai

biglietti di auguri per i numerosi famigliari o alle lettere d’intenti che anche per

il proprio compleanno vengono scritte al padre come promessa per il futuro e

conferma del cammino intrapreso lungo una traiettoria di ascesa sociale che

non ammette errori.

Risulta così più comprensibile la distruzione dei diari di questo periodo di

formazione che si chiude pubblicamente con il ritorno a Copenaghen

dell’ormai adulto August, rinvigorito dal successo dei debutti parigini, dalla

tournée inglese, della negoziazione con il re e con il condirettore del Kongelige

Teatret Frederik Conrad von Holstein sul compenso che desidera ricevere in

patria87. Inoltre, il Bildungsroman è coronato dal fidanzamento ufficiale con la

svedese Helena Frederika, che la madre di August aveva pianificato

meticolosamente, senza sapere che il figlio nel frattempo aveva avuto una

relazione amorosa a Parigi, conclusa con la nascita di una bambina 88. L’auto-

censura si manifesta pesantemente negli scritti autobiografici e solo l’ultimo

biografo di Bournonville, Jürgensen, racconta il senso di colpa che attraversa la

vita di August, il quale, per la sua funzione pubblica di Balletmesteren, non

rivelerà mai il segreto in patria, ma continuerà a prendersi cura

economicamente della figlia illegittima89.

Quasi un risarcimento immaginario sembra costituire la recente traduzione

in inglese delle lettere My dearly beloved Wife!, edite da Jürgensen, che raccoglie la

corrispondenza dalla Francia e dall’Italia di August, esiliato nel 1841 per aver

osato rivolgere la parola al re al fine di placare le contestazioni durante un

balletto90.

87 Krogh, Karen, Tidens teater. Fri forfatning og ”enevælde” på Kongens Nytorv , in Aschengreen, Erik -Hallar, Marianne - Heiner, Jørgen, (a cura di), Perspektiv på Bournonville, København, NordiskForlag Arnold Busck, 1980, pp. 39-92: pp. 63-65.88 Non mancano monografie sulle relazioni conflittuali fra il balletmesteren e le sue ballerine: An-drea Krætzmer, Lucile Grahn, Augusta Nielsen e Caroline Fjeldsted. Jürgensen sottolinea che ilteatro dell'epoca era un'istituzione monarchica, non una impresa privata, e che il 'potere assolu-to' di Bournonville sulle ballerine andrebbe quindi compreso in una prospettiva di 'unità artisti -ca', più che chiamare in causa relazioni sessuali, dovute a quel droit de seigneur ampiamente diffu-so nella società patriarcale del tempo. Cfr. Jürgensen, Knud Arne, The Bournonville Tradition, cit.,pp. 38-40.89 Ivi, pp. 20-21.90 Bournonville, August, My dearly beloved Wife! Letters from France and Italy 1841, a cura di KnudArne Jürgensen, traduzione di Patricia N. McAndrew, London, Dance Books, 2005.

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Se gli studiosi danesi hanno operato nella direzione di valorizzazione della

personalità sfaccetta e complessa di questo danzatore intellettuale, anche una

straniera come Patricia McAndrew, traduttrice appassionata della autobiografia

bournonvilliana e delle lettere, ha rispettato il linguaggio intimo della

confessione, preferendo non rendere «accademico»91 un lavoro di traduzione e

di interpretazione che rischia di perdere l’intensità di una scrittura di sé nata

dalla circolazione virtuosa di pensiero e corpo danzante.

91 Mc Andrew, Patricia N., Translator’s Note, in Bournonville, August, My Theatre life, cit., p.XVIII.

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Noemi Massari

Gesti convenzionali e arte mimica nell’Ottocento italiano92

All’inizio della mia ricerca di dottorato mi sono posta la domanda se sia mai

esistito un manuale di pantomima per ballerini analogo ai trattati e manuali

redatti da maestri di ballo sulla tecnica della danza. Al termine di una prima

fase di studio mi sono resa conto dell’inesistenza di un manuale di arte mimica

specifico per ballerini. Teorici e maestri di ballo non sviluppano in modo

ampio e sistematico l’aspetto teorico della gestualità, anche se,

paradossalmente, i ballerini sono gli interpreti che maggiormente la sfruttano

per fini espressivi, narrativi e mimetici non avendo altro mezzo oltre il corpo e

il movimento per raccontare una storia.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la danza tende a

conquistare una autonomia artistica, espressiva e narrativa e a far prevalere

l’aspetto mimico espressivo su quello tecnico-virtuosistico, soprattutto in Italia

dove la danza pantomimica assume caratteri specifici. La nascita e lo sviluppo

di questo genere sollecitò un importante dibattito in diversi settori della

produzione culturale e artistica che ben si inserisce e si intreccia con i problemi

che nello stesso periodo interessavano la pittura, la scultura, l’arte della

recitazione dell’attore e del cantante d’opera. I problemi principali su cui si

dibatteva erano: i limiti e le potenzialità delle arti imitative, la costruzione del

racconto e la rappresentazione degli affetti. L’insoddisfazione di letterati e

critici della danza, di fronte a spettacoli privi di azione drammatica, e il

crescente favore del pubblico verso questo nuovo genere accesero

maggiormente le discussioni e determinarono la ricerca di una nuova estetica

nella danza, un’autonomia del linguaggio coreografico da quello verbale, un

linguaggio autosufficiente basato su gesti espressivi in grado di “dipingere le

92 Il presente saggio è un’elaborazione della tesi di dottorato in “Tecnologie digitali e metodolo-gie per la ricerca sullo spettacolo” presso il Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo del-la Sapienza Università di Roma, dal titolo Gesti convenzionale e arte mimica nella danza italianadell’Ottocento. Milano e Napoli: due realtà a confronto, discussa nel giugno 2013, tutor Silvia Carandi-ni.

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Noemi Massari

passioni”. Modello e giustificazione di queste ricerche è la pantomima classica.

Il pantomimo romano, era un interprete che senza l’uso della voce era in grado

di rappresentare con i gesti ogni cosa e ogni storia agendo ritmicamente su un

accompagnamento musicale. Quindi, la scelta di imporre la pantomima classica

come modello consente di ricondurre la coreutica tra le arti imitatrici e

legittimare la fondazione del balletto come genere teatrale autonomo.

Il tentativo di definire i tratti espressivi dei sentimenti e degli stati passionali

era diffuso fin dal Seicento secondo una tradizione che affonda le radici nei

principi della retorica di Quintiliano, e nei trattati di eloquenza del corpo e del

gesto propri di tutte le arti figurative, attoriche, musicali e coreutiche93.

Il ballo teatrale in Italia, e in particolar modo il ballo pantomimo, è un

fenomeno artistico di alto valore culturale impegnato nella ricerca del vero e

della traduzione in forma gestuale e coreografica degli affetti, è una realtà a se

stante rispetto al resto dell’Europa con caratteristiche proprie e specifiche. In

questo contesto prendo in esame due città, Napoli e Milano, due esempi di

diversa produzione.

Napoli, tra il XVII e XIX secolo, è una città che dimostra una notevole

vivacità culturale e teatrale, grande l’interesse della corte e del pubblico

popolare nei confronti del teatro, dell’opera in musica e del ballo. Il Teatro di

San Carlo, inaugurato nel 1737, simbolo del potere reale nelle intenzioni del

fondatore, oltre ad essere “Il Teatro del Re” doveva essere il “Teatro del

popolo”, anche i sudditi potevano ammirarlo, godere della sua bellezza e dei

suoi spettacoli. Le intenzioni di Carlo di Borbone erano essenzialmente

politiche, il teatro è da una parte strumento politico e simbolico al servizio

della legittimazione dell’autorità reale e dall’altra espressione del favore e del

potere monarchico sulle attività culturali e mondane. È lo spazio privilegiato

della rappresentazione del re e del suo potere sulla corte; il calendario

personale del sovrano detta la programmazione teatrale, arricchita da brani

93 Per un maggior approfondimento sull’arte della retorica si rimanda Barthes, Roland, La retori-ca antica, Milano, Bompiani, 2000; Mortara Garavelli, Bice, Manuale di retorica, Milano, Bompiani,2000. Per un confronto sull’arte dell’attore e dell’oratore si rimanda a Vicentini, Claudio, La teo-ria della recitazione. Dall’antichità al Settecento, Venezia, Marsilio, 2012. Per un approfondimento sulrapporto tra retorica, drammaturgia e teorie della recitazione rinascimentale si rimanda a Fanel-li, Carlo, Con la bocca di un’altra persona. Retorica e drammaturgia nel teatro del Rinascimento , Bulzoni,Roma, 2011; Vicentini, Claudio, L’orizzonte dell’oratoria. Teoria della recitazione e dottrina dell’eloquen-za nella cultura del Seicento, in «Annali dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, SezioneRomanza», vol. XLVI, fascicolo n. 2, 2004, pp. 303-335.

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allegorici che celebrano simbolicamente le sue qualità94. Per quanto riguarda lo

spettacolo coreografico, Napoli può essere considerata la roccaforte dello stile

noverriano. Molti i coreografi di stile francese che si alternano sulle scene

partenopee, fino all’inizio dell’Ottocento, Charles Le Picq, Dominique Lefevre,

Sebastien Gallet, Louis Henry e Salvatore Taglioni95.

Milano, invece, si pone consapevolmente come una fucina di

sperimentazioni, un luogo d’intensa vita intellettuale, animata da figure di

spicco che avevano come scopo la valorizzazione, la promozione e lo

svecchiamento delle idee. È una città attenta, ricca, operosa, interessata alle

novità, ma che non rinuncia alla propria identità96. Sul fronte prettamente

teatrale, spicca la fondazione del Teatro alla Scala, inaugurato nel 1778, che

vede il trionfo del teatro musicale e operistico, la progressiva trasformazione

del ballo in espressione teatrale autonoma. Proprio la danza acquista sempre

maggior spazio e autonomia, soprattutto il ballo pantomimo, in accordo con il

gusto del pubblico e dei letterati dell’epoca che cercavano un “Teatro degli

affetti” in grado di corrispondere agli ideali dell’illuminismo lombardo97.

Le accademie delle due città fondate negli stessi anni, 1812 quella di Napoli

e 1813 quella di Milano, entrambe da governi franco-napoleonici, hanno

impostazioni e caratteristiche organizzative differenti, ma per entrambe

modello è l’accademia francese dell’Opéra.

L’Accademia di ballo del Teatro di San Carlo viene istituita su iniziativa

privata del maestro Louis Henry, come risulta dal progetto e dall’acclusa

richiesta di rimborso presentati dallo stesso Henry all’Amministrazione del

Teatro: la scuola di perfezione è attiva dal primo giugno 1811 presso la sua

abitazione. Il progetto prevede l’istituzione di due scuole, una “école générale”,

sotto la direzione di Pietro Hus e una “école de perfection”, sotto la direzione

dello stesso Henry. Le lezioni si svolgevano tre volte alla settimana per la scuola94 Traversier, Mélanie, Gouverner l’opéra. Une histoire politique de la musique à Naples, 1767-1815 ,Roma, École Française, 2009, pp. 47-48.95 Per una contestualizzazione dell’attività coreutica nella città di Napoli si rimanda a Albano,Roberta, Il Teatro di San Carlo, in Albano, Roberta – Scafidi, Nadia – Zambon, Rita, La danza inItalia. La Scala, La Fenice, Il San Carlo dal XVIII secolo ai giorni nostri, Roma, Gremese, 1998.96 Cascetta, Annamaria – Zanlonghi, Giovanna, Presentazione, in Cascetta, Annamaria – Zanlon-ghi, Giovanna (a cura di), Il teatro a Milano nel Settecento, vol. I: I contesti, Milano, Vita e Pensiero,2008, pp. 7-24: pp 9-15.97 Cfr. Scafidi, Nadia, Il Teatro alla Scala, in Albano, Roberta – Scafidi, Nadia – Zambon, Rita,La danza in Italia, cit., pp. 13-18; Tozzi, Lorenzo, Il ballo pantomimo nel Settecento. Gasparo Angiolini,L’Aquila, Japadre, 1972, pp. 129-144.

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Noemi Massari

generale e sei a settimana per la scuola di perfezione ed erano comprensive

dell’insegnamento di danza e di pantomima98.

L’accademia partenopea rimane maggiormente fedele al modello francese,

Louis Henry, formatosi all’Opéra di Parigi, cerca di ricostruire a Napoli una

scuola di ballo il più possibile conforme a quel modello. L’insegnamento della

pantomima, come a Parigi, non viene istituito immediatamente. Nell’accademia

francese la pantomima veniva insegnata in una parte della lezione di ballo, solo

nel 1817 verrà introdotto un vero e proprio corso di gestualità mimica affidato

a Louis Milon99. Nel progetto partenopeo del 1811, quindi, viene specificato

che l’insegnante della classe di perfezionamento, in questo caso lo stesso

Henry, doveva inserire all’interno delle lezioni di tecnica della danza anche

l’insegnamento della pantomima, ma dai regolamenti e dai documenti di

archivio non si desume quante ore alla settimana vi fossero dedicate. Dal

regolamento del 1817, si evince che gli esami di pantomima si svolgevano solo

una volta l’anno, durante gli esami di dicembre, e che gli allievi si esibivano su

un brano preparato appositamente per ognuno di loro dal maestro a seconda

delle proprie capacità. La prova sembra, quindi, valutare una dote

supplementare del ballerino più che stimare l’effettivo apprendimento e

progresso dell’allievo in una materia di studio100.

Nel 1825 viene introdotta, nell’ordinamento didattico dell’accademia, una

scuola di mimica. Questo coincide con il periodo in cui l’allora impresario dei

teatri, Domenico Barbaja, tenta di introdurre al Teatro di San Carlo il nuovo

stile del coreodramma che ha conquistato le scene scaligere portando a Napoli

coreografi come Francesco Clerico, Gaetano Gioja e Salvatore Viganò. Proprio

Gaetano Gioja, il 29 giugno 1825, presenta alla Soprintendenza dei Teatri un

progetto per l’introduzione di una scuola di mimica da affiancare a quella di

ballo. L’idea di questi è quella di introdurre l’insegnamento della mimica senza

costi per lo stato e «con queì metodi d’istruzione che trovansi proficuamente

adottati nei più rinomati stabilimenti di simil natura»101. Il progetto viene

approvato e la scuola di mimica viene istituita con regio decreto e affidata allo

98 Archivio di Stato Napoli, Fondo Ministero dell’Interno, II Inventario, 4662.99 Cfr. Guest, Ivor, Le ballet de l’Opéra de Paris, Parigi, Théâtre National de l’Opéra, 1976; Chap-man, John V., The Paris Opéra ballet school, in «Dance Chronicle», vol. 12, n. 2, 1989, pp. 196-220.100 Archivio di Stato Napoli, Fondo Ministero dell’Interno, II inventario, 4663.101 Archivio di Stato Napoli, Fondo Deputazione teatri e Spettacoli, fascicolo 55.

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stesso Gioja102. Non sappiamo come venissero svolte realmente le lezioni o gli

esami. Forse il maestro non fece nemmeno in tempo a tenere la prima sessione,

la scuola venne istituita nell’ottobre 1825, il maestro morì il 30 marzo 1826103.

Dopo la sua morte, il ruolo sembra restare vacante e la scuola di mimica viene

cancellata. Né nella successiva riorganizzazione della scuola del 1833, né nei

vari documenti risulta essere presente il maestro di mimica, ruolo che

ricompare solo nel 1860, anno in cui viene riaperta la scuola di ballo. Viene

emanato un bando di concorso per ricoprire questo ruolo, ma dai documenti di

archivio da me consultati non risultano notizie precise in merito all’effettiva

assegnazione.

L’Imperial Regia Accademia di ballo del Teatro alla Scala di Milano viene

fondata nel 1813 come istituto di carattere tecnico-professionale, con lo scopo

di fornire al teatro ballerini professionisti, con il doppio vantaggio di formare

un corpo di ballo proprio con un’alta preparazione tecnica e un risparmio

economico per la gestione del teatro, soprattutto per l’allestimento dei balli di

Viganò, che richiedevano la presenza in scena di un gran numero di ballerini.

Francesco Benedetto Ricci, impresario del Teatro alla Scala e della Canobbiana,

incaricato di organizzare e mantenere la scuola di ballo, si avvalse dell’ausilio di

due maestri francesi, Jean Coralli e Pierre Gerard, e dell’italiano Urbano

Garzia104. La scelta di due maestri d’oltralpe era dettata dall’esigenza di

garantire il rispetto del modello tecnico-didattico francese, quella del maestro

italiano dalla necessità di dividere l’insegnamento in due rami, ballo e mimica.

L’insegnamento della mimica è una peculiarità della scuola di ballo milanese,

aggiunto per adeguare la preparazione dei ballerini alle esigenze dei coreografi

del tempo che davano sempre più spazio alle parti mimiche del ballo.

Le lezioni di pantomima si svolgevano tutti i giorni dopo quella di danza.

Inizialmente la lezione era unica, sia per il corso base, che per quello avanzato.

Il primo maestro che tenne il corso di pantomima, Urbano Garzia, venne

102 Collezione delle leggi e decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Napoli, Regia Tipografia della Cancel-leria Generale, 1816-1859, decreto n. 290 del 11 settembre 1825, Decreto col quale si prescriveche alle reali scuole di ballo si aggiunga una istruzione mimica, pp. 136-137.103 La data esatta della morte di Gaetano Gioja è riportata da Claudia Celi nella voce GaetanoGioja, in International Encyclopedia of Dance, New York, Oxford University Press, 1998, vol. III,pp. 175-177.104 Scafidi, Nadia, La Scuola di ballo del Teatro alla Scala: l’ordinamento legislativo e didattico nel XIX se-colo. 1a parte, L’ordinamento legislativo, in «Chorégraphie», n. 7, 1996, pp. 51-82.

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Noemi Massari

sostituito nel 1821 dalla maestra Teresa Monticini. Nel 1830, alla morte di

quest’ultima il ruolo, come quello del maestro di ballo, venne affidato ad una

coppia di coniugi, i ballerini e mimi Giuseppe e Maria Bocci, per consentire di

predisporre anche per la mimica un secondo livello di studio più avanzato:

come per le lezioni di ballo, il maestro di mimica avrebbe insegnato nel corso

superiore, la maestra in quello inferiore105.

All’arrivo dei coniugi Blasis, nel 1837, verrà applicato anche

all’insegnamento della pantomima un metodo più razionale, come quello in uso

nelle lezioni di ballo. Annunziata Ramaccini, moglie di Blasis, assunse

l’insegnamento della classe di mimica di perfezionamento, equiparandosi in

questo modo al marito, maestro di perfezionamento di ballo. La classe mimica

di base venne tenuta ancora dal maestro Giuseppe Bocci che, dopo il

licenziamento dei coniugi Blasis, nel 1850, rimarrà come unico maestro fino al

1863.

Non si hanno notizie precise su come venisse strutturata la lezione di

pantomima nelle due accademie. Gioja, nella lettera di presentazione del

progetto della scuola di mimica di Napoli, parla di un modello di insegnamento

già consolidato e ampiamente usato nelle più rinomate accademie, ma non

spiega quale. Riguardo l’Accademia della Scala un passo tratto dalla «Strenna

Teatrale Europea» del 1840 afferma che

Nella scuola […] del sig. Bocci [si apprendono] i principj, glielementi della mimica; in quella de’ signori conjugi Blasis, ciò chesi chiama la grande leçon, la difficoltà dell’arte, ed ilperfezionamento. […] La signora Blasis, incaricata pure delperfezionamento della mimica, fa eseguire in unione al sig. Bocci,soliloqui, dialoghi, scene ed atti intieri di balli, onde gli allievi sianoammaestrati in tutto che è più difficile nell’arte pantomimica106.

Dalla lettura di questo brano, possiamo immaginare che l’insegnamento

della gestualità pantomimica fosse strutturato con l’apprendimento nel corso

base di un vocabolario di gesti, articolati all’interno di un “discorso” e di una

scena di ballo nel corso di perfezionamento. Quindi si potrebbe supporre che

lo studio della pantomima fosse basato sull’applicazione del metodo “normale”

105 Archivio Storico Civico Milano, Fondo Spettacoli Pubblici, cartella 59.106 «Strenna Teatrale Europea», 1840, pp. 189-190.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

d’insegnamento che Blasis introduce nell’accademia scaligera e sulla ripetizione

di noti passaggi pantomimici107.

L’esame dei documenti, da me consultati, lascia aperta una domanda: perché

non sia stato redatto o conservato un vocabolario di gesti per ballerini,

compilato da un maestro di ballo o da un coreografo. Questo fa supporre che

la tradizione gestuale mimica italiana fosse una tradizione prettamente orale,

almeno fino a Blasis, che tenta una razionalizzazione dell’insegnamento. Si

potrebbe, altresì, ipotizzare che venissero utilizzati i trattati di recitazione per

attori, primo fra tutti Ideen zu einer Mimik di Johann Jakob Engel, considerato

anche dallo stesso Carlo Blasis un maestro.

Blasis, infatti, è il teorico della danza che più di tutti si occupa della

pantomima a cui dedica molto spazio nei suoi testi e che definisce «l’âme et le

soutien du ballet»108. Affronta l’argomento da un punto di vista sia pratico che

teorico-estetico presentando anche una catalogazione di gesti109.

Nel 1841, Blasis pubblica il volume Saggi e prospetto del trattato generale di

pantomima naturale e di pantomima teatrale fondata sui principj della fisica e della

geometria e dedotto dagli elementi del disegno e del bello ideale110, in cui illustra il progetto

di un trattato generale di pantomima che non fu mai completato. L’intenzione

era quella di creare un testo che trattasse ogni aspetto della mimica corredato

da un ampio apparato di esempi iconografici. Il trattato doveva essere

composto da diciassette parti, ognuna avrebbe dovuto analizzare un diverso

argomento: pantomima naturale, pantomima teatrale, il viso, le passioni, l’età, i

personaggi, i gesti naturali e convenzionali, la chironomia ed un dizionario di

termini di ballo e di mimica. Il volume si conclude con cinque saggi

interamente dedicati alla pantomima e alla gestualità del danzatore, dell’attore e

107 Il metodo normale che Blasis introduce nell’Accademia era già stato inserito nelle scuolepubbliche e fondato su una ripartizione degli allievi in classi progressive di età e con un livelloequo per permettere una progressività dell’apprendimento. Scafidi, Nadia, La scuola di ballo delTeatro alla Scala: l’ordinamento legislativo e didattico nel XIX secolo. 3 a parte, Il maestro, in «Chorégra-phie» n. 12, 1998, Roma, Di Giacomo, pp. 95-121.108 Blasis, Carlo, Manuel Complet de la Danse, traduzione dall’inglese del Traitè élémentaire théorique etpratique de l’Art de la danse, di Paul Vergnaud, Parigi, Librairie Encyclopédique de Roret, 1830,traduzione personale, p. 122.109 Blasis divide i gesti in naturali, innati nell’uomo, e artificiali e convenzionali, creati dall’arte,questi ultimi classificati ulteriormente in imitativi, indicativi, figurativi, simbolici e d’arte. Ivi, pp.124-149.110 Blasis, Carlo, Saggi e prospetto del trattato generale di pantomima naturale e di pantomima teatrale fonda-to sui principj della fisica e della geometria e dedotto dagli elementi del disegno e della bello ideale , Milano, Ti-pografia Guglielmini e Redaelli, 1841.

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del cantante d’opera. La divisione delle diverse categorie viene completamente

annullata a favore del termine “attore mimico”. L’accostamento delle varie

professioni dello spettacolo, sembra portare all’eliminazione di una gerarchia

tra le arti, collocando tutti gli interpreti artistici su uno stesso piano a

sottolineare la base comune dell’arte pantomimica. Questi saggi vengono editi

di nuovo nel 1844 con il titolo Studio sulle arti imitatrici111. Parte degli

argomenti del Saggi e prospetto del trattato generale di pantomima naturale e

di pantomima teatrale confluirono in un terzo volume di Blasis, L’uomo fisico

intellettuale e morale112, edito nel 1847, un compendio filosofico estetico per

ballerini, rigoroso ma nello stesso tempo accessibile e di facile comprensione.

Particolarmente interessanti i capitoli dedicati al genio delle arti imitative in cui

Blasis torna a sottolineare, come già in altri suoi testi, il valore della danza come

arte mimetica, al pari delle altre arti, e il concetto dell’arte come imitazione

della natura. Molto importante è notare il sistema di illustrazioni poste in

appendice al testo. Sono le uniche tavole presenti nei trattati di Blasis dedicate

alla mimica. Sembrano un tentativo di creare una sorta di alfabeto, di repertorio

iconografico delle espressioni e delle passioni: ogni figura è formata da vari tipi

di linee e di forme della geometria piana e ognuna rappresenta un diverso

carattere, la cui forma suggerisce simbolicamente il significato. Per ogni figura

viene indicata la direzione in cui è rivolto lo sguardo. Oltre a queste troviamo

delle immagini di uomini e donne che raffigurano varie passioni e

atteggiamenti. Per ognuna Blasis indica le inclinazioni del corpo e la linea di

equilibrio o del movimento. Inoltre correda le tavole con delle brevi

descrizioni, abbinando ad ogni figura un diverso moto dell’anima, senza però

dare maggiori indicazioni e spiegazioni sull’utilizzo di questi modelli.

Tra i pochi testi che riguardano la pantomima nella danza nell’Ottocento in

Italia, da ricordare l’esistenza di un piccolo libello scritto da Vincenzo

Buonsignori dedicato alla mimica, Precetti sull’arte mimica applicabili alla coreografia

e alla drammatica del 1854.

111 Blasis, Carlo, Studio sulle arti imitatrici, Milano, Tipografia e libreria di Giuseppe Chiusi, 1844.Le pagine 17-78 corrispondenti ai capitoli Del mimo e dell’azione pantomimica, del bello ideale e dejvari suoi tipi, Dell’espressione poetica e filosofica presso gli antichi, Le grazie e la grazia, Sul bello ideale dellepositure, atteggiamenti e movenze negli esercizj, ne’ giuochi, nella danza e nella pantomima , sono una ristam-pa di parte del volume.112 Blasis, Carlo, L’Uomo fisico, intellettuale e morale (1847), a cura di Ornella Di Tondo e FlaviaPappacena, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2007.

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Vincenzo Buonsignori, coreografo e maestro di mimica, come lui stesso si

definisce, riprende nel suo libello, il discorso sulla mimica applicata alla danza e

all’arte della recitazione alternando e confondendo uno nell’altro i due diversi

interpreti. Il testo, diviso in quattro lezioni, fornisce un breve compendio

storico sull’arte mimica classica e sullo stato della danza contemporanea. Per

quanto riguarda l’apprendimento dell’arte mimica, Buonsignori dichiara che

l’istruzione per essere efficace deve essere progressiva. Divide il sistema di

insegnamento in tre diversi livelli, che permettono all’allievo di prendere

consapevolezza del personaggio gradualmente, prima da solo e poi in gruppo

per imparare a eseguire, in unione perfetta con gli altri, i movimenti e le singole

attitudini e le espressioni abbinate a un determinato atteggiamento113.

Blasis e Buonsignori includono nel loro studio sull’espressività il ballerino,

l’attore e il cantante d’opera. È necessario, pertanto, studiare parallelamente la

trattatistica di questi interpreti per avere una visione complessiva dell’aspetto

mimico gestuale, su come si sviluppa nel corso dell’Ottocento e come viene

diversamente approfondito a seconda dell’utilizzo o meno di altri mezzi

espressivi: la parola o il canto.

La concezione di fondo dei trattati per attori è quella di formalizzare e

stereotipare l’arte, la gestualità e l’espressività dell’interprete sottraendo spazio

alla soggettività: si insegna a conformarsi ad un’idea corrente di recitazione, il

gesto viene generalmente omologato, si tende a creare un ricco vocabolario

gestuale espressivo. Questo non determina, però, interpretazioni uniformi, lo

stile differenzia sempre ogni grande attore. Il presupposto fondamentale è

l’universalità delle espressioni con cui si manifestano le emozioni. Alla base di

tutti i trattati per attori, così come per i cantanti d’opera ci sono le Ideen di

Engel. I trattati di recitazione dell’Ottocento sono opere molto eterogenee sia

nelle dimensioni, sia nella struttura e composizione. Variano da trattazioni più

sistematiche, che utilizzano o meno esemplificazioni di pose mimiche,

all’esposizione di precetti base e vocabolari di pose da riproporre114. Tutti i

maggiori trattati di recitazione dedicano capitoli alla fisiognomica e all’arte delle

113 Buonsignori, Vincenzo, Precetti sull’arte mimica applicabili alla coreografia ed alla drammatica , Siena,Tipografia dell’Ancora di G. Landi e N. Alessandri, 1854, pp. 37-40.114 Petrini, Sandra, L’arte dell’attore. Dal Romanticismo a Brecht, Roma-Bari, Edizioni Laterza, 2009,pp. 69-72.

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gestualità dell’attore in scena, dando consigli o precetti da seguire per

interpretare verosimilmente un personaggio fino a estremizzare la precettistica

gestuale e creare un vero e proprio vocabolario di gesti convenzionali.

Giovanni Emanuele Bideri tenta di porre le basi di una scienza della

recitazione, non indica all’attore pose da imitare, ma posizioni di base che gli

permettano di imprimere la giusta direzione e la massima energia all’azione115.

Antonio Morrocchesi nelle sue Lezioni di declamazione, dedica sei lezioni allo

studio del movimento, alla fisiognomica e alla gestualità ed inserisce alla fine

una serie di tavole che non vogliono essere un modello da seguire

pedissequamente, ma un esempio di gestualità tragica applicata ad un testo

alfieriano. Per Morrocchesi l’attore tragico deve mantenere nobiltà e una

semplicità nella gestualità e nel portamento, i gesti devono essere «pochi ma

veri, grandiosi ma non caricati, forti ma non energumeni, modellati ma senza

affettazione»116. Angelo Canova non dà precetti e regole da seguire o modelli di

pose esemplificativi, rimanda allo studio del testo di Engel e raccomanda che il

gesto, tragico o comico, deve essere sempre spontaneo e naturale, semplice e

non studiato117. Alemanno Morelli è quello che, con il Prontuario di pose sceniche,

del 1854, maggiormente tenta di imprigionare la gestualità dell’attore in un

insieme di pose stabilite creando un vero e proprio vocabolario di gesti mimici

da utilizzare all’occorrenza. Morelli, inoltre, fa riferimenti alla gestualità del

ballerino, che non considera differente da quella dell’attore, ma ne sottolinea il

diverso utilizzo, per non far apparire il gesto debole e inespressivo118.

I trattati per cantanti d’opera, invece, tendono a semplificare il vocabolario

espressivo della recitazione riducendolo a una serie di passioni elementari, in

accordo con la mozione degli affetti caratteristica del melodramma. Come i

115 Bideri, Giovanni Emanuele, L’arte di declamare ridotta a principii per uso del foro, del pergamo e delteatro, Napoli, Tipografia Palma, 1828-29, 2 voll. L’opera fu di nuovo edita, riveduta e corretta,nel 1856 a Napoli, e ancora, ridotta a piccolo manuale (Compendio dell’arte di declamare) nel 1842 enel 1846. Mariti, Luciano, Energia e ritmo. Dalla scrittura di Vittorio Alfieri alla teoria della recitazionedi Giovanni Emanuele Bideri, in Le “peripezie” del teatro. Studi in onore di Giovanni Marchi , Roma, Bul-zoni, 1998.116 Morocchesi, Antonio, Lezioni di declamazione e d’arte drammatica (1832), Roma, Gremese, 1991p. 249.117 Canova, Angelo, Lettere sopra l’arte di imitazione. Diretta alla prima attrice italiana Anna FiorilliPellandi (1839), a cura di Francesco Tozza, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1991.118 Morelli, Alamanno, Note sull’arte drammatica rappresentativa. Manuale dell’artista drammatico. Pron-tuario delle pose sceniche, a cura di Sandra Petrini, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento,2007.

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testi per attori, i manuali per cantanti passano da uno studio introspettivo del

personaggio per arrivare alla costruzione di pose sceniche stabilite, questa volta

più semplificate. Manuel Garcia consiglia al cantante di costruire una création

fantastique, non un insieme di pose e gesti codificati universalmente validi, ma

un metodo che dalla figurazione mentale del personaggio porta alla creazione

di un modello da analizzare con distacco per poterlo far proprio e ricreare

durante lo spettacolo119. Fernando Pelzet nel Discorso sulla mimica applica al canto

subordina l’azione alle difficoltà del canto e descrive un metodo graduale di

insegnamento dell’arte mimica120. Leone Giraldoni, ispirato dalle lezione di

François Delsarte, frequentate a Parigi, individua tre aspetti degli stati d’animo

a cui corrispondono tre diversi tipi di gesto: normale, concentrato ed

espansivo. Dalla modificazione dei differenti gradi di sentimento che esistono

fra lo stato normale e quello espansivo esemplifica in una tavola sinottica nove

espressioni particolari degli occhi e delle sopracciglia121. Serafino Torelli122 e

Enrico Augusto delle Sedie123, infine, tentano, nei loro testi, la costruzione di

una nomenclatura e l’elencazione di immagini di pose da seguire come

modello, pose non complesse che permettano al cantante una facile

interpretazione vocale: la tecnica del canto vincola l’interprete.

Sia i trattati per attori che quelli per cantante d’opera arrivano a costruire nel

corso dell’Ottocento un vocabolario, un abbecedario di pose sceniche. Solo la

danza, alla luce delle mie ricerche, non ha alcun interesse per una trasposizione

119 Garcia, Manuel, Traité complet de l’art du chant, Paris, chez l'Auteur, 1847; traduzione italianaTrattato completo dell’arte del canto, Milano, Ricordi, 1852.120 Pelzet, Fernando, Discorso sulla mimica applicata al canto, Firenze, Tipografia Soliani, 1850. DiFernando Pelzet si segnalano, inoltre, due interventi nella «Gazzetta musicale di Firenze» dal ti-tolo Lezioni di mimica e di pronunzia italiana applicate al canto teatrale, pubblicati nei numeri 4 del 7luglio 1853 e 5 del 14 luglio 1853. Il primo è dedicato alla gestualità mimica del cantante e il se-condo alla pronuncia e alla dizione dei versi cantati.121 Giraldoni, Leone, Guida teorico-pratica ad uso dell’artista cantante (1864), Milano, Stabilimento diDomenico Vismara, 1884. Per il rapporto Giraldoni-Delsarte si rimanda a Guccini, Gerardo,Giraldoni, Delsarte, i baritoni. Alcuni retroterra teatrali della poetica verdiana , in «Studi Verdiani», n. 23anno 2012-2013, pp. 83-144.122 Torelli, Serafino, Analisi generale della mimica. Discorso preliminare al corso teorico-pratico di declama -zione, Milano, Per Gaspare Truffi, 1845; Torelli, Serafino, Trattato dell’arte scenica, Milano, Stabili-mento Tipografico di Albertari Francesco, 1866; Torelli, Serafino, Il trattato dell’arte scenica, ma-noscritto conservato presso la Biblioteca Livia Simoni, datato, con alcune riserve, 1869 dallastudiosa Giovanna Botti, che prende in considerazione le dichiarazioni che l’autore fa all’iniziodei due testi in merito agli anni di insegnamento, venti nel primo testo datato 1845 e quaranta -quattro nel secondo. Cfr. Botti, Giovanna, “Mente fredda e cuore caldo”. Il trattato dell’arte scenica diSerafino Torelli, in «Biblioteca teatrale», n. 25 gennaio-marzo 1992, pp. 37-69.123 Delle Sedie, Enrico Augusto, Arte e fisiologia del canto, Milano, R. Stabilimento Tito di G. Ri-cordi, 1876; Delle Sedie, Enrico Augusto, Estetica del canto, Milano, Ricordi, 1885, libro IV.

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scritta delle pose mimiche, in modo inversamente proporzionale al largo uso

che i ballerini ne facevano. Per quale motivo questo elemento così importante

nella formazione del ballerino italiano non è stato codificato in un manuale

come è stato fatto per le pose della danse d’école? Forse perché era una disciplina

conosciuta da tutti, danzatori e spettatori, che implicava solo un

approfondimento e un perfezionamento per il ballerino allo scopo di conciliare

le pose mimiche con una figura armoniosa ed elegante. Si potrebbe anche

ipotizzare che la codificazione sarebbe risultata estremamente complessa visto

il gran numero di gesti pantomimici conosciuti e utilizzati per raccontare una

storia. Inoltre, occorre tener presente la necessità di riadattare di volta in volta

il dialogo pantomimico alle doti mimiche dei diversi interpreti e al gusto di un

pubblico eterogeneo come quello italiano.

Questo breve lavoro non ha la pretesa di fornire una visione completa ed

esaustiva del ruolo della mimica e del balletto pantomimico in Italia

nell’Ottocento, vuole unicamente porre l’attenzione sull’interessante rapporto

che lega l’aspetto mimico e gestuale del ballerino, dell’attore e del cantante

d’opera. L’esigua disponibilità di scritti sulla pantomima nella danza finora

rinvenuti non può e non deve scoraggiare la ricerca e l’indagine di nuovi

documenti perduti negli archivi, di notizie frammentarie nascoste tra le righe di

vecchi giornali o di carteggi privati dell’epoca. Ritengo che uno studio puntuale

e costante consentirà di riportare alla luce una parte della storia della danza in

gran parte da riscoprire.

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Stefania Onesti

Danza e pantomima: modelli interpretativi e chiavi di lettura

Abbiamo scelto di affrontare il tema del rapporto fra danza e pantomima

nel secondo Settecento italiano sulla base, soprattutto, di cinque fonti che, più

di altre, sono indicative di un nuovo modo di mettere in scena il ballo

pantomimo: il libretto The Loves of Mars and Venus di John Weaver (1717)124, il

resoconto del Mercure de France sulla messinscena del Pygmalion di Marie Sallé

(1734)125, il Trattato teorico-prattico di Gennaro Magri (1779)126, A Treatise on the

Art of Dancing di Giovanni Andrea Gallini (1762)127 e il manoscritto Ferrère

(redatto nel 1782)128.

Fonti ugualmente preziose sono certi libretti di ballo di cui, nel corso

dell’intervento, proponiamo qualche passo significativo129.

Nonostante John Weaver e Marie Sallé siano cronologicamente arretrati

rispetto al periodo preso in considerazione all’interno della ricerca e siano

apparentemente “lontani” dall’ambiente artistico italiano, entrambi hanno un

124 Weaver, John, The Loves of Mars and Venus. A Dramatick Enterteinment of Dancing Attempted inImitation of the Pantomimes of the Ancient Greeks and Romans; as perfom’d at the Theatre in Drury Laneby Mr. Weaver, London, printed for W. Mears at the Lamb, and J. Browne at the Black-Swan,without Temple-Bar, 1717. Il libretto è riprodotto in facsimile in Ralph, Richards, The Life andWorks of John Weaver, London, Dance Books, 1985, d’ora in poi citato come Ralph.125 «Mercure de France», Londres, 15 mars 1734, pp. 770-773, in Laurenti, Jean-Noël (a cura di),Marie Sallé danseuse du XVIIIe siècle. Esquisses pour un nouveau portrait. Atelier-rencontre et recherche,Nantes 19 et 20 juin 2007. Annales de l’Association pour un Centre de Recherche sur les Arts du Spectacleaux XVII sur les Arts du Spectacle aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, Copy Fac, 2008, pp. 89-90.126 Magri, Gennaro, Trattato teorico-pratico di ballo, Napoli, 1779, ora in Lombardi, Carmela (a curadi), Trattati di danza in Italia nel Settecento, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2001,pp. 129-272.127 Gallini, Andrea, A Treatise on the Art of Dancing, London, 1772.128 Cfr., per l’analisi del manoscritto, Harris-Warrick, Rebecca – Marsh, Carol G., The FrenchConnection, in Harris-Warrick, Rebecca – Brown, Bruce Alan (a cura di), The Grotesque Dancer onthe Eighteenth-Century Stage. Gennaro Magri and his world, Madison, University of Wisconsin Press,2005, pp. 173-198. Ma vedi anche gli altri contributi sul manoscritto contenuti all’interno delvolume: Goff, Moira, Steps, Gestures, and Expressive dancing. Magri, Ferrère, and John Weaver, pp.199-230; Marsh, Carol G. – Harris-Warrick, Rebecca, Putting together a pantomime ballet, pp. 231-278.129 I limiti imposti per questo articolo non ci consentono di enumerare troppi esempi. Per ulte-riore approfondimenti e indicazioni rimandiamo al lavoro svolto per la tesi di dottorato che, chiscrive, ha discusso presso l’Università di Padova il 25 marzo 2014. Cfr. Stefania Onesti, «Dietrola traccia de’ gran maestri». Prassi e poetica del ballo pantomimo italiano negli ultimi quarant’anni del Sette -cento, tutor Elena Randi.

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Stefania Onesti

ruolo indubbiamente propulsore rispetto allo sviluppo del ballo pantomimo

della seconda metà del Settecento, anche nel nostro paese. Quanto al

manoscritto Ferrère, è stato già stabilito da Carol Marsh e Rebecca Harris

Warrick il contatto tra questo documento e la tecnica grottesca italiana130.

La carriera di John Weaver si snoda entro la prima metà del diciottesimo

secolo, e tuttavia già si interessa dell’elemento pantomimico nei suoi balli.

Inoltre, animato da un forte intento apologetico e didattico e conscio della

novità delle sue proposte, Weaver correda il libretto del più noto fra i suoi

lavori – The Loves of Mars and Venus – di attente “didascalie” esplicative dei gesti

utilizzati, ad uso dei suoi spettatori, ragione per cui esso costituisce un valido

campione attraverso cui guardare la pratica scenica del ballo pantomimo.

Altrettanto innovativa e destinata a inaugurare un nuovo corso espressivo

nell’arte coreica è la carriera di Marie Sallé. Ballerina dalla formazione eclettica,

unisce alla tecnica della danza seria francese un’espressività nuova derivante,

verosimilmente, dalle molteplici esperienze all’interno degli spettacoli delle

foires parigine, nonché degli intermezzi danzati e delle afterpieces londinesi131. Il

prezioso resoconto del suo Pygmalion risulta, per questo, paradigmatico ed

esemplificativo di una nuova pratica scenica.

Il trattato redatto da Gennaro Magri nel 1779 rappresenta una risorsa

preziosa per più di una ragione. In primo luogo è l’unico trattato scritto da un

ballerino e coreografo grottesco italiano132 e, per questo, rappresenta una fonte

unica e insostituibile per lo studio della danza teatrale settecentesca europea ma

soprattutto italiana. In secondo luogo la ricchezza e il dettaglio con cui Magri

affronta non solo l’esposizione dei principi generali che sottostanno all’arte

coreutica, ma anche la descrizione dei passi, delle loro possibili combinazioni e

delle loro componenti mimiche, testimoniano l’estrema varietà della tecnica

grottesca italiana e rendono questa fonte un punto di riferimento importante.

Sebbene il testo di Gallini non presenti la stessa ricchezza del trattato di

Magri e risulti chiaramente influenzato da Cahusac e Noverre, si costituisce

130 Cfr. Harris-Warrick, Rebecca – Marsh, Carol G., The French Connection, cit.131 Cfr. Mc Cleave, Sarah, Marie Sallé and the development of the ballet d’action, in Waeber, Jacqueline(a cura di), Musique et Geste en France de Lully à la Révolution. Études sur la musique, le théâtre et la dan-se, Bern, Peter Lang, 2009, p. 175, ma cfr. tutto il saggio, pp. 175-195.132 In Italia, nel Settecento, vengono stampati due trattati di danza, entrambi a Napoli: Il trattatodel ballo nobile di Giambattista Dufort e Il Trattato teorico-prattico di danza di Gennaro Magri. Cfr.Lombardi, Carmela (a cura di), Trattati di danza in Italia nel Settecento, cit.

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come una tappa importante della nostra riflessione: rappresenta, infatti, il

frutto delle riflessioni di un ballerino e coreografo di origini italiane, formatosi

in Francia e, successivamente, trapiantato a Londra133.

Infine l’analisi del manoscritto Ferrère, unico documento finora conosciuto

che trascriva balli pantomimi, permette di inquadrare meglio una pratica

scenica di difficile ricostruzione, mettendo a fuoco, pur con le dovute cautele

(il manoscritto non comprende balli tragici), alcune delle caratteristiche

fondanti del genere restituendogli un rinnovato spessore.

I cinque esempi proposti sembrano indicare che la ricerca dei coreografi va

nella direzione di una danza espressiva nella quale alla tecnica del ballo si

mescola la pantomima. Queste due componenti dello spettacolo

sembrerebbero, in alcuni casi, fondersi e darsi sul palcoscenico senza soluzione

di continuità.

A offrire maggiori coordinate in questo senso è il manoscritto Ferrère, che

dimostra, più chiaramente delle altre fonti, come vi siano diverse modalità di

integrazione fra i due linguaggi. Essi possono essere consecutivi, nel senso che

alla danza segue la pantomima o viceversa134; oppure un personaggio può

danzare mentre l’altro nello stesso momento mima, e in questo caso sono

contrapposti135; o ancora, lo stesso personaggio può esprimere con la parte

superiore del corpo la particolare emozione che lo caratterizza in quel

momento, mentre con le gambe simultaneamente esegue movimenti codificati

prescritti dalla coreografia136. Queste tre modalità si riscontrano, sia pure meno

chiaramente, anche in Weaver, che, in The Loves of Mars and Venus, le

sperimenta attraverso le varie scene in cui è strutturato il lavoro. Per esempio,

nella quarta, quella degli amori fra Venere e Marte, alla pantomima iniziale

segue una danza generale a cui i due protagonisti assistono. Nell’ultima scena

dell’assolo di Vulcano – definita nel libretto «an insulting performance»137 –

133 Cfr. Ralph, Richard, Giovanni Andrea Gallini, in International Encyclopedia of Dance, foundingeditor Selma Jeanne Cohen, New York-Oxford, Oxford University Press, 1998, vol. III, pp.111-112.134 Cfr. Goff, Moira, Steps, Gestures, and Expressive Dancing. Magri, Ferrère, and John Weaver , cit., p.225.135 Cfr. l’analisi del balletto Le peintre amoureux de son modèle in Marsh, Carol G. – Harris-Warrick,Rebecca, The French connection, cit., p. 191.136 Cfr. Goff, Moira, Steps, Gestures, and Expressive Dancing. Magri, Ferrère, and John Weaver , cit., p.225.137 Weaver, John, The Loves of Mars and Venus, cit., p. 27 (Ralph, p. 760).

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danza e pantomima sembrano simultanee, dato che le braccia mimano e le

gambe danzano. La tattica della contrapposizione, cioè dell’alternanza

successiva dei due coefficienti scenici, viene utilizzata, invece, nella seconda

scena, quando Venere e Vulcano si scontrano sui loro reciproci sentimenti.

In Weaver, inoltre, sembra essere rispettato il principio esposto da Ferrère

secondo il quale, se il sipario si alza a ouverture terminata, rivela una scena vuota

che si riempie rapidamente con la danza; l’azione inizia, invece, con una scena

pantomimica quando lo spettacolo non prevede un’introduzione solamente

musicale, sicché il sipario si alza durante il preludio138. Nella prima scena del

libretto di Weaver, il coreografo informa che «the entertainment opens with a

martial overture at the conclusion of which, four followers, or attendants of

Mars, arm’d with sword, and target, enter and dance a pyrric»139. Al contrario, la

quarta scena comincia con la pantomima amorosa tra i due amanti che si

svolge durante il preludio musicale.

Sia Magri che Gallini riservano, nei loro trattati, una particolare attenzione

alle braccia. Dalle parole di entrambi emerge come il loro uso fosse

determinante nell’espressività di un ballerino. Se le gambe, quanto meno nelle

parti danzate, sono deputate a eseguire con precisione e brio il passo richiesto,

alle braccia spetta il compito di arricchire il movimento rifinendolo e

conferendo al personaggio la giusta espressione.

«Il giuoco delle braccia – scrive Magri – fa più delle volte il maggior preggio

di un ballerino»140. L’abilità nel gestire bene tali movimenti aiuta tanto il

danzatore serio a raggiungere l’eleganza e l’armonia di portamento che ne

caratterizza lo stile, quanto i grotteschi ad esprimere al meglio i loro

personaggi.

Gallini, che nel 1762 pubblica A Treatise on the Art of Dancing, afferma che

«the motion of the arms is as essential, at least, as that of the legs, for an

expressive attitude»141 e inoltre aggiunge che l’espressività nella danza «should

be pantomimically diffused through the whole body, the face especially

138 Marsh, Carol G. – Harris Warrick, Rebecca, Putting together a Pantomime Ballet, cit., p. 243.139 Ivi, pp. 17-18 (Ralph, pp. 749-750).140 Magri, Gennaro, Trattato teorico-prattico di ballo, cit., p. 198, ma vedi tutto il capitolo intitolatoDel Gioco delle braccia, pp. 197-200.141 Gallini, Giovanni Andrea, A Treatise on the Art of Dancing, London, 1772, pp. 60-61.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

included»142. «A thorough master of dancing, – prosegue Gallini – should, in

every motion of every limb, convey some meaning; or rather be all expression

or pantomime, to his very fingers ends»143. I due termini espressione e pantomima

vengono qui usati come sinonimi e servono a connotare il termine danza.

Magri e Gallini, infatti, non sembrano fare distinzione fra questi due linguaggi:

entrambi si riferiscono ad una danza che è espressione ovvero pantomima.

Non si tratterebbe allora di una fusione di due generi, ma di un tipo di

movimento che sfrutta l’espressività della parte superiore del corpo per

colorare il passo di una particolare intenzione.

Anche l’interpretazione del Pygmalion da parte della Sallé sembra andare in

questa direzione. Dalle parole del corrispondente per il giornale parigino,

apprendiamo che la rappresentazione del mito di Pigmalione ha una forza

espressiva inedita e, soprattutto, sembra portare avanti la narrazione

mescolando alla tecnica l’espressività. Il ballo appare come una sorta di atto

unico incentrato sulle abilità tecniche ed espressive della Sallé, unica vera

protagonista del pezzo. Vengono sottolineati l’estrema espressività dei gesti e

degli atteggiamenti della ballerina e il recensore non sembra percepire

soluzione di continuità tra i momenti pantomimici e quelli danzati. Questi

ultimi infatti appaiono perfettamente integrati all’azione. L’animazione della

statua, che costituisce il soggetto del ballo, avviene gradualmente tanto

attraverso gesti e pose, quanto attraverso la danza.

Le fonti presentate, precedenti, coeve o immediatamente successive ai

coreografi italiani presi in considerazione, identificano una sorta di pratica

scenica comune che dunque, verosimilmente, riguarda anche i coreografi attivi

in Italia nella seconda metà del Settecento. Tanto più questo sembra credibile

in quanto alcune delle modalità compositive degli scenari del manoscritto

Ferrère sono riscontrabili anche nei programmi dei balli presi in considerazione

all’interno della ricerca. In Ferrère, per esempio, l’azione è inquadrata da scene

d’insieme in apertura e chiusura del ballo. Riscontriamo situazione analoghe nei

142 Ivi, p. 49. Riportiamo per maggior chiarezza tutto il passaggio. «In Dancing, the attitudes,gestures, and motions derive also their principle from nature, whether they caracterise joy, rage,or affection, in the bodily expression respectively appropriated to the different affections ofthe soul. A consideration this, which clearly proves the mistake of those, who imagine the artof dancing solely confined to the legs, or even arms; whereas the expression of it should bepantomimically diffused through the whole body, the face especially included».143 Ivi, p. 68.

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Stefania Onesti

balli italiani. È il caso della prima scena dell’Adelasia di Antonio Muzzarelli, che

si apre su una valle circondata da monti dove diversi contadini sono occupati in

lavori campestri. Seguono le peripezie dei due protagonisti, che si risolvono, nel

terzo e ultimo atto, in un lieto fine con un «allegro ballo» al quale prende parte

tutta la compagnia144.

In Il re pastore o sia Pulcinella re in sogno di Onorato Viganò, analogamente, la

prima scena è di gruppo e sembra interamente pantomimica, mentre il lieto

fine è sancito da «un’allegra danza» che coinvolge tutti i protagonisti145.

Le legazioni proposte dal manoscritto Ferrère presentano molti tratti in

comune con la tecnica ottocentesca146. La prossimità dello stile di Ferrère alla

tradizione coreutica successiva permette allo studioso di ampliare il panorama

di fonti a cui poter guardare per studiare il ballet d’action settecentesco, in

particolare nel rapporto danza-pantomima. Sembra di poter affermare che, pur

con tutte le precauzioni del caso, siano utilmente analizzabili a tal fine non più

solo i trattati e le danze trascritte secondo la notazione Feuillet della tecnica

barocca, ma anche quelli del balletto classico della prima metà dell’Ottocento.

Quanto scritto da August Bournonville, per esempio, a proposito del

rapporto tra danza e pantomima è, in questa prospettiva, oltremodo

interessante. Bournonville, erede di una certa tradizione italiana grazie

all’influenza di Vincenzo Galeotti (allievo di Angiolini e promotore del ballo

italiano in Danimarca), scrive che gli italiani

have, from olden times, certain conventional gestures, certainunchangeable forms; steps are measured exactly, gestures fallprecisely on the note, and, if the musical stanza is thrice repeated,the mimed word keeps pace with it […]147.

Noverre, the creator of pantomimic ballet in France, hadamalgamated dancing and pantomime in the same way as singingand declamation had been combined in opera. Agamemnonreturned from the war, Clytemnestra and Ægistus conspired

144 Cfr. Muzzarelli, Antonio, L’Adelasia e L’Ircana in Julfa. Balli d’invenzione di Antonio Muzzarelli ,in Pizzi, Gioacchino, Il Creso. Dramma per musica da rappresentarsi nel Regio-Ducal Teatro Vecchio diMantova il carnevale dell’anno 1778, in Mantova, per l’Erede di Alberto Pazzoni, [1777 o 1778], pp.41-47.145 [Viganò, Onorato], Il re pastore o sia Pulcinella re in sogno. Secondo ballo , in [Viganò, Onorato],Alcide negli orti esperidi. Ballo favoloso eroico pantomimo d’invenzione e direzione del Signor Onorato Viganòda rappresentarsi nel nobil Teatro di Torre Argentina il carnevale dell’anno 1786, in Roma, per il Casalet-ti nel Palazzo Massimi, [1785 o 1786], p. 16.146 Cfr. Marsh, Carol G. – Harris-Warrick, Rebecca, Putting together a pantomime ballet, cit., p. 250,ma vedi tutto il saggio, pp. 231-278.147 Bournonville, August, My Theatre Life, Middletown, Wesleyan University Press, 1979, p. 14.

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against him, Electra caressed her father, and Cassandra had aforeboding of the impending disaster – all this constituted adancing quintet, with proper steps, each member of which. In hischaracter, formed a harmonious whole. Galeotti’s genre was acombination of this method and the Italian.148

Bournonville definisce la pantomima come una «sequenza ritmica e

armoniosa», libera da gesti convenzionali e ispirata alle movenze naturali,

quotidiane, dell’uomo e raffinata attraverso lo studio dei modelli derivanti

dall’arte classica.

Thus I understand pantomime and as it has become anelement in my ballets, it is not a language of dialogue fashionedfrom deaf-mute signs and conventional gestures. It is aharmonious and rhythmic series of picturesque poses, gatheredfrom nature and the classical models, that must be in accord withcharacter and costume, with nationality and emotion, with personand time. This chain of poses and movements is in itself a dance,but one that not use turned-out feet; its attitudes strive only forthe plastic and characteristic elements and studiously avoidanything resembling virtuosity. This dance or bodily declamationis, even in its apparent ease, the most difficult because in its everydetail it must be accountable to beauty for what it represents.149

È lecito pensare che Bournonville abbia forgiato questo tipo di pantomima

sull’esempio dei suoi maestri, ispirandosi tanto alla poetica di Noverre quanto

alla pratica di Galeotti alla cui scuola si è formato.

La musica, infine, si presenta come un elemento fondamentale per la

costruzione del ballo. La relazione fra questa e le sequenze coreografico-

pantomimiche diviene basilare per la costruzione drammaturgica del ballet

d’action. Il medium musicale, se ben orchestrato, può suggerire emozioni, evocare

o chiarire situazioni e stati d’animo dei personaggi. La sua centralità viene

sottolineata da Weaver, da Magri e da Ferrère. Il libretto sui generis di The Loves

of Mars and Venus è corredato di continui riferimenti alle sonorità adatte per

ciascuna scena e per ciascun personaggio; Magri considera la musica come una

spinta basilare per la danza poiché la anima risvegliando l’espressione del

ballerino e, in tal modo, il diletto da parte dello spettatore; il manoscritto

Ferrère, così come l’analisi della partitura di Medée et Jason di Noverre condotta

148 Ibidem.149 Ivi, p. 16.

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Stefania Onesti

da Edward Nye150, dimostrano, ancora meglio, quanto fosse pregnante il

rapporto tra musica e danza.

In Ferrère vi è una perfetta corrispondenza tra il gesto musicale e quello

pantomimico. L’andamento melodico segue passo passo l’azione scenica

facendo così risaltare il gesto espressivo del danzatore151. La musica, scrivono

Carol Marsh e Rebecca Harris-Warrick, «provides the right kind of rhythmic

frame, both allowing the gestures to be synchronized with the music and

supplying the right phrase structure for changes in the action»152.

Anche i libretti italiani dei quattro coreografi presi in considerazione sono

ricchi di riferimenti di questo tipo. Nel ballo Arianna abbandonata da Teseo e

soccorsa da Bacco di Onorato Viganò, per esempio, una «musicale armonia»

annuncia l’arrivo di Bacco e del suo seguito153 o, ancora, in Le amarezze

negl’amori o sia I contrattempi di Venere (che in parte riprende lo stesso soggetto di

The Loves of Mars and Venus), una marcia annuncia l’ingresso di Marte154.

Il ballo più significativo, da questo punto di vista, sembra essere La figlia

dell’aria ossia L’innalzamento di Semiramide, composto da Onorato Viganò nel

1792, su libretto di Carlo Gozzi.

Siamo all’inizio del primo atto, la giovane è rinchiusa, per volere di Minerva,

in una grotta.

Lo strepito di questi Pastori accende Semiramide chiusanell’antro.

Ella si fa sentire con delle strida femminili espresse dallamusica. Tiresia esce a queste strida. Egli entra in curiosità divedere qual effetto facciano gli oggetti di questo mondo da lei nonpiù veduti, per [pronosticare]155 sull’indole sua. Apre il portonedell’Antro, e si ritira in osservazione. […].

Odesi una soave melodia dalla parte della città di Babilonia. Èla corte che viene a incontrare il Rè Nino [sic] vittorioso. A questa

150 Cfr. Nye, Edward, Mime, Music and Drama on the Eighteenth-Century Stage. The Ballet d’Action,Cambridge, Cambridge University Press, 2011, pp. 185-207 e pp. 272-304.151 Marsh, Carol G. – Harris- Warrick, Rebecca, Putting Together a Pantomime Ballet, cit., pp. 254-255.152 Ivi, p. 260.153 [Viganò, Onorato], Arianna abbandonata da Teseo e soccorsa da Bacco. Ballo eroico pantomimo , inL’idolo cinese. Dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel Teatro di San Samuele il carnovale dell’anno1774, in Venezia, presso Modesto Fenzo, 1774, p. 31.154 [Viganò, Onorato], Le amarezze negl’amori o sia I contrattempi di Venere. Ballo drammatico favolosod’invenzione ed espressione del sig. Onorato Viganò, in Goldoni, Carlo, La sposa persiana. Dramma gioco-so per musica da rappresentarsi nel nobile Teatro di San Samuele nell’autunno dell’anno 1775 , in Venezia,Stamperia Carcani, [1775], p. 32.155 La parola nel manoscritto non è molto leggibile, riportiamo dunque l’ipotesi fatta tra paren-tesi quadre.

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tenera melodia Semiramide penetrata l’animo suscettibile poco apoco da [sic] segni di affettuoso lascivo trasporto d’amore. […]

Dall’altra parte odesi un suono strepitoso di marciale sinfonia.È Nino coll’armata che giugne [sic] trionfante de’ suoi nimici.A tal suono armigero, Semiramide grado grado divien furiosa.

Ella dimostra co’ gesti un coraggio maschile e crudele a segno ditrucidare.156

La musica assume qui un ruolo fondamentale: interpreta le strida di

Semiramide che richiamano Tiresia, o meglio vi si sostituisce; la «soave

melodia» che annuncia la corte in festa per l’arrivo di Nino, risveglia in lei

sentimenti di «lascivo trasporto» e, infine, i suoni militari la eccitano alla

crudeltà e alla battaglia. Tre diverse situazioni espressive in cui questi due

linguaggi sono strettamente concatenati. La musica sostiene e rinforza il gesto

pantomimico danzato della ballerina, chiarendo il senso delle sue emozioni e

dei suoi gesti. Essa diventa così uno strumento indispensabile per la

comprensione del ballo pantomimo, assumendo, per lo spettatore che deve

interpretare ciò che vede, un ruolo fondamentale. Non solo chiarisce il senso di

particolari situazioni espressive, ma supplisce il gesto pantomimico laddove

esso non può arrivare: è il caso proprio della Semiramide di Onorato Viganò e

Carlo Gozzi, dove la musica si sostituisce all’interpretazione della ballerina

interpretandone le grida.

156 Biblioteca Nazionale Marciana, fondo Gozzi, 6.4/1, foglio 6v. Sui soggetti di balli scritti daGozzi cfr. Fabiano, Andrea, Le trame del corpo. I balletti pantomimi di Gozzi: prime osservazioni , in«Problemi di critica goldoniana», vol. XIII, numero speciale a cura di Andrea Fabiano, CarloGozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur: un carrefour artistique européen , 2007, pp.171-186. Per una disamina del fondo cfr. anche Soldini, Fabio (a cura di), Carlo Gozzi 1720-1806. Stravaganze sceniche e letterarie battaglie, Venezia, Marsilio, 2006.

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Sessione IV

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Introduzione

In una situazione come quella ita-liana in cui l’attenzione governativaper i beni architettonici e per il patri-monio artistico è quella che è, e in cuila crisi economica e la mala politicamettono a repentaglio perfino la con-servazione appena decente dei mille-nari tesori esistenti – vedi Pompei epoi muori – verrebbe da chiedersi chesenso ha interrogarsi e ragionare an-cora sulla possibilità di avviare nelnostro paese un progetto teso alla sal-vaguardia della memoria delle operecoreutiche e dell’arte della danzacome bene culturale immateriale.Neanche l’ormai ventennale accredi-tamento della storia della danza comedisciplina accademica, prima presso iDAMS di Cosenza e Bologna, poi inaltre importanti sedi universitarie, la-scia ben sperare, almeno nell’imme-diato. Nei palazzi del Miur e del Mi-bact il potere contrattuale di questomanipolo di studiosi è infatti vicinoallo zero. E allora, che fare? Tirare iremi in barca e aspettare tempi mi-gliori? Ma proprio no, perché queitempi migliori vanno preparati perfare in modo che le prossime genera-zioni di studiosi di danza si trovino alavorare in situazioni meno precariedi quelle che si trovano oggi nelleuniversità e nelle istituzioni culturalipubbliche e private.

I due interventi che qui presentosono attualissimi proprio per questo,perché totalmente fuori misura e con-testo. Sono interventi spaesati. Comespesso lo sono le ricerche dei dotto-randi italiani, in tutti i campi scientifi-ci. Ricerche spaesate perché questo èun Paese che non coltiva la ricerca.

L’intervento di Elisa Anzellottiguarda all’Europa dove qualcosa si fae quello di Emanuele Giannasca si in-centra sull’analisi del Fondo GianniSecondo custodito presso la bibliote-

ca dell’Università di Torino, una sedeaccademica che con costanza da annilavora sulle “tracce di Tersicore” eche insieme alle sedi di Bologna e diRoma costituisce un avamposto dellaricerca italiana sulla danza antica, mo-derna e contemporanea.

Entrambi gli scritti hanno per og-getto il tema vasto e controverso del-la Memoria della danza. Vasto, perchéla memoria della danza è la memoriapiù antica dell’attività umana, insiemealla caccia, alla costruzione di armi eutensili, ai riti di fertilità e a quelli fu-nerari. Controverso, perché, come ciricorda Anzellotti nel suo scritto, cisono stati artisti che hanno radical-mente negato il senso della memoria,come la danzatrice francese AnneGardon «che fece l’atto di damnatiomemoriae (distrusse il suo archivio)».Controverso anche perché costruireuna memoria significa fare scelte, ta-gli, montaggi e focalizzazioni che inmaniera non certo ingenua o scienti-ficamente obiettiva organizzano il di-scorso sul passato secondo punti divista parziali operando sempre quellaviolenza del filtraggio di cui ha scrittoDerrida. Senza memoria d’altra parte,come sosteneva Paul Ricoeur, è im-possibile immaginare un futuro con-sapevole, né può esistere una coscien-za storica157. Nella tradizione esiodeale Muse, e tra di esse la danza, eranofiglie di Mnemosyne. La memoria e ilsuo opposto, l’oblio, si compenetra-vano l’una nell’altro, scambiandosispesso il segno positivo e negativo.Non tutta la memoria era un bene,non tutto l’oblio un male. Come scri-ve Marcel Detienne, nella Grecia ar-caica esisteva una forma di oblio ne-gativo assimilato alla morte ma ancheuna forma positiva di oblio che dona-

157 Cfr. Ricoeur, Paul, La memoria, la storia,l’oblio, Milano, Cortina, 2003.

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Vito Di Bernardi

va ristoro e abbandono attraverso ildolce sonno. Una stessa ambivalenzasarebbe presente nella memoria. Essanon è un valore assoluto, a tutto ton-do, ma una potenza anche essa dop-pia, a due facce158.

Anzellotti e Giannasca affrontanoil tema della memoria della danza inmaniera problematica partendo da unassunto centrale e cioè che i danzatorie le danzatrici sono degli “archivi vi-venti”. Da Spinoza agli enciclopedistifrancesi, da Nietzsche a Husserl,Merleau-Ponty, fino alle teorie neo-cognitiviste dell’embodiment e alla neu-roscienza, la corporeità – concettomolto più ampio e dinamico di quelladi corpo, come notava già MichelBernard negli anni Settanta159 – haavuto in Occidente il suo riscatto in-tellettuale ed è diventata soggetto atti-vo, luogo di origine e memoria di unsapere profondo in cui – lo aveva in-tuito Delsarte – sono all’opera con-temporaneamente la sfera biologica,affettiva e intellettuale dell’essereumano160. Quello del danzatore è unsapere vivente, olistico, processuale.In questa chiave Anzellotti e Gianna-sca indagano la memoria del danzato-re; la prima intervistando (e ragionan-do con) due grandi protagonisti dellatradizione e della ricerca coreutica in-ternazionale come Cristina Hoyos eDominique Dupuy; il secondo, Gian-nasca, interrogando le pagine scrittedei preziosi volumi raccolti nel FondoGianni Secondo (storico, critico didanza, bibliofilo e collezionista, mor-to nel 2011). Questa raccolta, donataall’Università torinese, contiene nu-merosi testi sulla tecnica e la pedago-gia della danza, testimonianze scrittedi vissuti corporei di danzatori, co-

158 Cfr. Detienne, Marcel, I maestri di verità nel-la Grecia arcaica, Bari, Laterza, 1983.159 Bernard, Michel, Le corps, Paris, Editionsdu Seuil, 1995.160 Di Bernardi, Vito, Cosa può la danza, Roma,Bulzoni, 2012.

reografi, maestri di ballo. Il Fondocustodisce tra gli altri volumi, il Traitéde danse académique scritto nel 1949 daSerge Lifar, il The Jooss-Leeder method diJane Winearls, pubblicato nel 1958, iltesto del 1970 di Marcella Otinelli,Come nasce una danzatrice. Trattato peda-gogico della danza italiana da Carlo Blasisa Marcella Otinelli.

Se Anzellotti focalizza il suo di-scorso sull’importanza della trasmis-sione orale della danza (da maestroad allievo) e sulla necessità di “darvoce” ai danzatori attingendodall’“archivio a tempo” costituito dailoro corpi in vita, Giannasca in ma-niera complementare si pone il pro-blema del dar voce e organizzare si-stematicamente i corpus archivistici,costituiti dalle tracce e dalle vestigiascritte, con l’intento però di ritornaresempre dalla pagina all’esperienza delvissuto del corpo. E’ proprio attraver-so questa circolarità di saperi tra l’“ar-chivio vivente” dei danzatori e il cor-pus archivistico dei documenti che siarticola un possibile discorso sullamemoria della danza, così come èprospettato in questi due interventi.Tra corporeità e corpus forse è allorapossibile eliminare molti gradi di di-scontinuità se la ricerca guarda allatradizione e alla memoria della danzanelle sue forme orali e scritte comead un indispensabile nutrimento pervivere più intensamente l’oggi.

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L’archiviazione e la diffusione di una tecnica coreica.Tracce dal Fondo Gianni Secondo161

L’arte della danza, sintesi di pratiche e rappresentazioni, è il risultato, da un

lato della formalizzazione in strutture delle azioni fisiche, dall’altro, della

costruzione di simboli che inevitabilmente il corpo determina162. Le pratiche

nel corso del tempo si sono organizzate in sistemi – le tecniche – che

attraverso paradigmi fisici hanno dato luogo a corpi con caratteristiche

riconoscibili e, contemporaneamente, ad altrettanti linguaggi stilistici. La

corporeità ha, pertanto, un ruolo preminente sia nella costruzione della tecnica,

sia soprattutto nella sua archiviazione e diffusione. In virtù della relazione che i

paradigmi fisici instaurano con il corpo, su cui imprimono una traccia

indelebile, sarà possibile, infatti, individuare proprio nel corpo danzante il

supporto privilegiato per l’archiviazione del sapere pratico della danza.

La trasmissione delle tecniche coreiche è avvenuta nel tempo primariamente

per mezzo di insegnamenti tramandati da maestro ad allievo. Attraverso tali

processi di incorporazione sono venuti a costituirsi dei veri e propri archivi

corporei. Tuttavia, se da un lato il corpo inteso come corpo-archivio, ha

rappresentato lo strumento più immediato di trasmissione dei tratti

caratteristici di ciascuna tecnica, dall’altro, la cosiddetta “retorica

dell’effimero”163 – che assegna all’arte della danza il triste destino di esaurirsi

nel momento in cui termina l’atto performativo – ha imposto, nei processi di

trasmissione, un limite ai corpi-archivio, destinanti anch’essi per ragioni

161 Questo saggio rientra in un più ampio lavoro di ricerca di dottorato in corso presso l'Univer-sità di Torino sul ruolo degli archivi coreici torinesi (tutor Alessandro Pontremoli). L’obiettivoprimario della ricerca sarà quello di provare a ricostruire un’ideologia della danza torinese, par-tendo proprio dalle tracce d’archivio e comparandole con i prodotti della critica e della storio -grafia coeva. Nel caso specifico del Fondo Gianni Secondo il lavoro sarà incentrato sul con-fronto fra gli articoli del giornalista e critico su «Stampa Sera» e alcuni documenti presenti nelfondo.162 Cfr. Pontremoli, Alessandro, Danza e Rinascimento, Macerata, Ephemeria, 2011, p. 13.163 Per un quadro preciso della cosiddetta “retorica dell’effimero” cfr. Franco, Susanne – Nor-dera, Marina, Ricordanze. Memoria in movimento e coreografie della storia, Torino, UTET Università,2010, pp. XVII-XIX.

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Emanuele Giannasca

fisiologiche a non perdurare nel tempo. La ricognizione delle tracce lasciate dal

corpo danzante è resa possibile dai documenti d’archivio che permettono la

ricostruzione dell’oggetto proprio della danza alla luce di un’ontologia della

traccia164. Imprimere nella memoria attraverso la scrittura permette, dunque, di

accompagnare e completare la trasmissione orale. Quando la distanza nel

tempo, infatti, ci allontana dalla traccia manifesta – lasciata sul corpo da una

tecnica – la ricostruzione ed il recupero di un sapere pratico e, in secondo

luogo, una sua possibile trasmissione, possono essere attuati solamente da

quegli oggetti, come i documenti d’archivio, che ne perpetuano l’esistenza. I

fondi d’archivio coreici rappresentano così una fonte imprescindibile

nell'ambito della ricerca degli studi in danza165.

Questo saggio si propone di rintracciare nel Fondo Gianni Secondo166 della

Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino alcuni dei principali documenti

che hanno un valore rilevante nello studio delle tecniche e offrire così una

panoramica sui diversi sistemi di trasmissione. Partendo dal presupposto che lo

studioso dinnanzi all’archivio inevitabilmente mette in opera dei «criteri di

selezione e organizzazione»167, l’analisi è stata rivolta a quei documenti del

Fondo che affrontano nello specifico le tecniche coreiche, provando a

ricostruire ed “organizzare” quindi cronologicamente l’evoluzione storica‒ ‒

delle pratiche didattiche coreiche nel secondo dopoguerra. Tutti i testi presi in

esame qui di seguito appartengono al Fondo Gianni Secondo e trattano

prevalentemente l’insegnamento della danza classico-accademica. Per la loro

disseminazione geografica, tali documenti permettono un’ampia ricognizione

delle tecniche, ma soprattutto delle metodologie didattiche dei principali centri

di formazione coreutica.

Il testo più antico tra quelli presi in esame è il Traité de danse academique

scritto nel 1949 da Serge Lifar168 in cui vengono descritti gli elementi164 L’ontologia della traccia recupera l’oggetto della danza che secondo un’ontologia della pre-senza era da considerarsi assente.165 Sebillotte, Laurent, La fioritura postuma delle opere ovvero l’orizzonte dell’archivista, tra produzione eanalisi dell’archivio, in Franco, Susanne – Nordera, Marina (a cura di), Ricordanze, cit., p. 16.166 Gianni Secondo (1925-2011) è stato un giornalista e critico di danza. Collezionista e bibliofi-lo, ha donato, poco prima di morire, la sua preziosa biblioteca alla Biblioteca Nazionale Univer-sitaria di Torino.167 Franco, Susanne – Nordera, Marina (a cura di), Ricordanze, cit., p. 5.168 Serge Lifar (1905-1986) è stato un danzatore, un coreografo e un teorico di danza. Allievo diBronislava Nijinska, ha danzato nella compagnia i Balletti Russi di Djaghilev. Nominato primoballerino e coreografo dell’Opéra di Parigi, ha pubblicato saggi e libri di carattere coreico. Per

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

fondamentali della tecnica classico-accademica. A partire dalle posizioni delle

braccia e dei piedi169 e dai primi basilari rudimenti tecnici il trattato offre una

panoramica sulla tecnica accademica seguendo la consueta successione dei

passi prima alla sbarra e poi al centro. Da un punto di vista della didattica della

danza l’apporto di Lifar alla principale istituzione francese di cui fu direttore‒

dal 1930 al 1944 e dal 1947 al 1958 fu determinante nell’ottica di un vero e‒

proprio processo di riforma. Il trattato è, infatti, una sintesi delle sue teorie e

delle sue iniziative, come prova l’appendice che correda il libro e che contiene il

testo della conferenza tenuta da Lifar il 18 dicembre 1947 in occasione della

inaugurazione de L’Académie chorégraphique au Théâtre National de l’Opéra, in cui

viene marcata l’importanza della relazione tra teoria e prassi nella

composizione coreografica.

L’unico manuale di tecnica moderna presente nel fondo e che fa riferimento

al periodo preso in esame è il testo The Jooss-Leeder method di Jane Winearls170.

Pubblicato nel 1958, questo manuale presenta un’analisi dettagliata del metodo

di insegnamento elaborato dagli allievi di Rudolf Laban, Kurt Jooss e Sigurd

Leeder. Dopo un’introduzione dei principi di movimento fondanti (tension,

relaxation, strength e weight), vengono illustrate nel testo le posizioni di base del

corpo e i principali movimenti. Si tratta di un metodo che parte dal

presupposto che la danza moderna abbia il compito di sviluppare «the

personality of each dancer through the training, by creative improvisation and

composition»171. Ciò che contraddistingue questo sistema è l’introduzione di

nuovi elementi stilistici come Dynamic, Design, Improvisation e Composition.

L’ultima parte del testo è dedicata, appunto, alla relazione che si instaura tra

improvvisazione e composizione: «Improvisation is the raw material from

quel che concerne l’attività di coreografo presso l’Opéra di Parigi cfr. Guest, Ivor, Le Ballet del’Opéra de Paris, Paris, Théâtre National de l’Opéra-Flammarion, 1976, pp. 171-212. Per una bre-ve panoramica, invece, sugli studi teorici di Lifar cfr. Laurent, Jean - Sazanova, Julie, Serge Lifar.Renovateur du Ballet Français, Paris, Buchet-Chastel,1960, pp. 213-216 e p. 249.169 Lifar aggiunse alle cinque canoniche posizioni dei piedi la “sesta” (i piedi uniti tra loro in po-sizione parallela) e la “settima”(un piede davanti all’altro nella posizione parallela con i tallonialzati e le ginocchia flesse). 170 Jane Winearls (1908-2001), danzatrice ed insegnate di danza, ha studiato con Rudolf Laban,Mary Wigman, Kurt Jooss e Sigurd Leeder. Studiosa di danza ha approfondito il metodo Jooss-Leeder e intrapreso la carriera accademica presso l'Università di Birmingham. Cfr Adamson,Andy, Jane Winearls. Britain’s first full-time university - lecturer in dance, in «The Guardian», 16 novem-bre 2001.171 Winearls, Jane, Modern dance: the Jooss-Leeder method, London, Black, 1968, p. 75.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Emanuele Giannasca

which Composition grows»172. In questo senso la tecnica diventa uno

strumento fondamentale per plasmare il corpo e renderlo pronto a molteplici

sollecitazioni creative.

L’esperienza della trattatistica coreica nel secondo dopoguerra in Italia è

testimoniata dal testo del 1970 di Marcella Otinelli173, Come nasce una danzatrice.

Trattato pedagogico della danza italiana da Carlo Blasis a Marcella Otinelli, che si

propone come sigillo di una tradizione didattica che affonda le sue radici

nell’opera di Carlo Blasis. Il manifesto programmatico di questo trattato è

chiaro sin dalle prime righe:

Dopo venti anni di esperienza didattica e sulla scorta di unapreziosa documentazione che risale al 1910, lasciatami dalla miaMaestra174 ritengo giunto il momento di scrivere un trattato didanza che mi auguro sia di buona guida per i giovani e per quantidesiderino conoscere a fondo le origini e gli sviluppi della danzaitaliana nella sua forma più pura.175

L’intento è quello di voler suggellare una tradizione didattica che attraverso

l’operato di Teresa Battaggi lega la Otinelli a Blasis, così come emerge dalla

conclusione delle note biografiche in appendice al testo dove è la stessa Otinelli

a promuovere Teresa Battaggi quale discendente diretta di Carlo Blasis e alla

cui memoria si propone di dedicare il trattato per «immortalarla nella storia

della danza italiana»176. Il trattato presenta il programma accademico strutturato

in tre corsi inferiori, dedicati alla corretta impostazione fisica del danzatore, tre

corsi intermedi, che hanno come obiettivo lo sviluppo del movimento e

dell’espressività coreografica, ed infine due corsi superiori, dedicati al

perfezionamento dei virtuosismi tecnici.

172 Ivi, p. 119.173 Marcella Otinelli, formatasi sotto la guida di Teresa Battaggi presso la scuola di ballo delTeatro dell’Opera di Roma, nel 1944 ha intrapreso contemporaneamente l’attività di danzatricee di insegnante di danza. Nel 1952 si è trasferita a Venezia dove ha fondato il Centro di DanzeClassiche. Cfr. Testa, Alberto, Storia della danza e del balletto, Roma, Gremese, 2005, pp. 188-189. 174 Teresa Battagi, danzatrice milanese formatasi sotto la guida di Raffaele Grassi, ha intrapresopresto una carriera internazionale raccogliendo apprezzamenti insieme alla sorella Placida. Nel1937 viene chiamata a Roma a dirigere la scuola di ballo presso il Teatro dell’Opera. Cfr. Alba -no, Roberta – Scafidi, Nadia – Zambon, Rita, La danza in Italia, Roma, Gremese, 1998, pp. 61-62.175 Otinelli, Marcella, Come nasce una danzatrice: trattato pedagogico della danza italiana da Carlo Blasisa Marcella Otinelli, Roma, Istituto grafico tiberino, 1970, p. 7.176 Ivi, p. 9. Si tratta di una discendenza diretta che poco più avanti nel testo viene illustrata nelprocesso di trasmissione che, partendo da Blasis e passando attraverso l'operato di GiovanniLepri e Raffaele Grassi, arriva sino alla Battagi.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Meno sistematica è l’impostazione che la danzatrice ed insegnante Anne

Woolliams177 dà al suo testo Ballettsaal del 1973, in cui, prendendo spunto dal

titolo, accompagna il lettore in un viaggio all'interno di una sala prove,

illustrando la vita del danzatore dalla formazione sino alla carriera

professionale. La formula del racconto non deve trarre in inganno. Il testo

rappresenta, infatti, una preziosa testimonianza della attività didattica della

scuola di ballo del Teatro di Stoccarda, nonché dell'attività della omonima

compagnia diretta da John Cranko.

Un altro testo che offre una panoramica sulla didattica della danza italiana è

Invito alla danza classica: secondo il metodo Basarova-Miei della scuola russa

contemporanea, in uso al teatro Bolshoi di Mosca che Egilda Cecchini178 scrive nel

1974. La ferma convinzione che muove il suo operare è che «la danza prima di

essere una un'esibizione ad alto livello, cioè arte, è "ars", tecnica, rigorosa, che

esige disciplina e controllo di sé e che quindi comporta un sicuro valore

educativo»179. Dopo aver riscontrato, durante il periodo di approfondimento in

Russia, l'efficienza dei risultati ottenuti dagli allievi della scuola del Teatro

Bolshoi, Egilda Cecchini decide di orientare le sue ricerche verso lo studio del

metodo Basarova Miei, che, come racconta lei stessa:

mi impressionò subito favorevolmente, poiché comprende siala teoria relativa ai primi tre corsi di danza classica, consistente inuna minuziosa analisi dei singoli movimenti di determinate partidel corpo umano, sia le norme per l’attuazione pratica della teoriastessa.180

177 Anne Wooliams (1926-1999) è stata una danzatrice ed insegnante inglese. Ha sviluppato lasua metodologia didattica negli anni Sessanta presso la Folkwang Hochschule di Essen sotto laguida di Kurt Jooss. Dal 1963 al 1976 è stata maître presso lo Staatstheater di Stoccarda ed hacontributo allo sviluppo della scuola diretta da John Cranko. Prima di ritirarsi ha assunto la di -rezione dell’Australian Ballet nel 1976 e della compagnia di danza del Teatro dell’Opera diVienna nel 1993. Cfr. Koegler, Horst, Dizionario Gremese della danza e del balletto, Roma, Greme-se, 2011, p. 548. Per un quadro generale sulla nascita di una scuola di formazione coreutica na-zionale in Germania Cfr. Liechtenhan, Rudolf. La Germania e la Svizzera, in Basso, Alberto (acura di), Musica in scena. Storia dello spettacolo musicale, vol. V: L’arte della danza e del balletto, Torino,UTET, 1995, p. 590.178 Egilda Cecchini, formatasi presso l’Accademia Nazionale di Danza, ha approfondito i suoistudi coreici in Russia Intrapresa l’attività di docente, ha insegnato per diversi anni in tre scuole(a Padova, Abano e Mestre) autorizzate dal ministero della pubblica istruzione, divenendo unpunto di riferimento nel panorama della danza veneta.179 Cecchini, Egilda, Invito alla danza classica: secondo il metodo Basarova-Miei della scuola russa contem-poranea, in uso al Teatro Bolscioi di Mosca, Milano, International edition, 1974, p.7.180 Ivi, p. 13.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Emanuele Giannasca

Il testo sicuramente più sistematico fra tutti è quello del maestro russo Asaf

Messerer181, Classes in classical ballet del 1975, che raccoglie gli esempi di una

lezione tipo per ciascuno degli otto anni di studio. La precisione e la

minuziosità con cui ciascun esercizio è trattato rendono il testo uno strumento

prezioso nell’ambito della didattica della tecnica accademica. Pur nella sua

sistematicità il testo lascia ampio spazio nell’introduzione al racconto

autobiografico di Messerer che, portando alla luce momenti della sua

esperienza di danzatore ed insegnante, definisce le linee guida della sua

didattica182. Questo metodo sistematico si fonda su un profondo rigore logico

che sta alla base della costruzione dei singoli esercizi, come nota lo stesso

Messerer: «In a ballet class, logic must prevail as it does in the lectures of

university professors [...]. From beginning to end, a ballet class must be

conducted in correct proportions, succession, and progression of the selected

exercise»183.

Un particolare interesse suscita il testo di Joan Lawson184, I principi della

danza classica, per il suo innovativo approccio metodologico. Prendendo spunto

da concetti base di anatomia e biomeccanica185, Lawson individua sette principi

fondamentali della tecnica accademica: l’impostazione del corpo, la rotazione, il

piazzamento, le leggi dell’equilibrio, le regole fondamentali della tecnica, il

trasferimento del peso e la coordinazione. L’esperienza di anni di insegnamento

presso la scuola del Royal Ballet a Londra ha permesso a Lawson di

sperimentare questa metodologia, il cui presupposto consta nello strutturare181 Asaf Messerer (1903-1992) è stato un danzatore, coreografo ed insegnante russo. Formatosipresso la scuola di ballo del Teatro Bolshoi di Mosca è stato solista nello stesso teatro ed in se -guito insegnate e coreografo.182 Una metodologia che trae origine dalle teorie esposte da Agrippina Vaganova nel suo testoprogrammatico del 1934, e che, attraverso la rielaborazione degli insegnamenti di AlexanderGorsky e Vasily Tikhomirov, si concretizza mettendo a frutto l’esperienza di insegnamento diMesserer all’interno della scuola del Teatro Bolshoi di Mosca. Cfr. Roslavleva, Natalia, Era ofthe Russian ballet, London, Gollancz, 1966, pp. 213-214.183 Messerer, Asaf, Classes in classical ballet, New York, Doubleday & Company, 1975, p. 23.184Joan Lawson (1907-2002) è stata una danzatrice ed insegnante inglese. Cfr. Stratyner, Cohen– Naomi, Barbara, Biographical dictionary of dance, New York, Schirmer books, 1982, p. 532. Hasvolto per lungo tempo l’attività di docente presso la scuola del Royal Ballet, pubblicando saggidi carattere coreico. Cfr. Lawson, Joan, Classical ballet: its style and technique, London, Black, 1960;Lawson, Joan, The teaching of classical ballet: common faults in young dancers and their training , London,Black, 1973; Lawson, Joan, Teaching Young Dancers: Muscular Co-ordination in Classical Ballet, Lon-don, Black, 1975.185 Joan Lawson conosceva molto bene l’opera del 1723, Anatomical and Mechanical Lectures onDancing, di John Weaver, uno dei primi studi teorici di anatomia applicata alla danza, così comesi può evincere anche da un altro testo della stessa Lawson. A tal proposito cfr. Lawson, Joan,Lezioni di danza classica, Milano, Il Castello, 1993, p. 8.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

l’insegnamento della tecnica in riferimento ad un solo dei principi.

L’innovazione di questa proposta didattica, che si discosta dalle altre, sta nel

cercare di adattare la tecnica alle caratteristiche degli allievi e alle necessità

contingenti di ciascun corso, partendo da uno dei principi fondamentali e non

da un programma stabilito.

Un altro testo che si avvale dell’esperienza autobiografica è quello che Suki

Schorer186 dedica nel 1999 alla tecnica elaborata da George Balanchine. Il testo

si propone di illustrare alcuni tratti stilistici come, ad esempio, la particolare

posizione della mano:

one of the most distinctive formal elements of Balanchine’srethinking of the hand is the thumb. [...] He wanted the thumb tocome out from the palm in the first joint, then curve in toward thetip of the middle finger in its second joint. Held this way, thethumb was visible most of the time.187

Accanto agli elementi tecnici caratteristici, sono i racconti della Schorer che

più colpiscono e che permettono di ricostruire l’estetica formalista di

Balanchine, anche attraverso aneddoti che inseriscono il pensiero del maestro

in un contesto socio-culturale ben riconoscibile.

Da questa breve mappatura si evince, in primo luogo, il fatto che la pratica

prende forma non solo da azioni corporee, ma anche da discorsi. Ciascuno

scritto, infatti, riporta in modo diverso e secondo procedure differenti la

trascrizione di quelli che Joëlle Vellet chiama i discorsi situati, ovvero quei

discorsi che «accompagnano o condizionano la trasmissione» e che diventano

«uno strumento per organizzare i saperi in memoria»188. Questa organizzazione

di sapere in memoria segue processi e strutture diversi che vanno dai trattati ‒

nei quali il discorso riporta le indicazioni procedurali di esecuzione dei singoli

movimenti a testi di carattere più divulgativo. Pur nella loro sistematicità il‒ ‒

caso del testo di Messerer è emblematico i trattati non mancano, però, di‒

note introduttive che attraverso la narrazione autobiografica “situano” il

discorso della tecnica nella esperienza pratica di insegnamento attraverso un

186 Suki Schorer (1939), danzatrice e insegnante americana che da anni promuove la metodolo-gia didattica elaborata da George Balanchine. Cfr. Stratyner, Cohen – Naomi, Barbara, Biograph-ical dictionary of dance, cit., p. 800.187 Schorer, Suki, Suki Schorer on Balanchine technique, New York, Alfred A. Knopf, 1999, p. 56.188 Vellet, Joëlle, I discorsi tessono con i gesti le trame della memoria, in Franco, Susanne – Nordera,Marina, Ricordanze cit., p. 332.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Emanuele Giannasca

processo di esemplificazione che in alcuni casi degenera, però,

nell’autoreferenzialità. Una metodologia didattica non può, tuttavia,

prescindere dall’esperienza pratica e da quei processi che hanno determinato il

suo costituirsi in tecnica ed è per questo motivo che tali note permettono di

risalire alle teorie estetiche fondanti, definendone contemporaneamente i

relativi principi pedagogici. I testi di carattere più divulgativo e narrativo non

offrono quelle indicazioni precise per una ricostruzione della tecnica, ma

rappresentano un prezioso spunto di analisi teorica ed estetica, dal momento

che mettono in luce il contesto socio-culturale che ha contribuito al divenire di

una pratica.

In secondo luogo, attraverso quella che Derrida definisce violenza di

filtraggio189, è stato possibile operare una selezione dei documenti ed una

organizzazione di essi secondo un criterio cronologico, tracciando in questo

modo l’evoluzione delle pratiche didattiche e delle diverse procedure di

trasmissione, in riferimento ad un corpus di oggetti definito. Quel che resta

ancora sconosciuto è il ruolo che tale corpus possa aver rivestito negli studi di

Secondo. Il fondo, purtroppo, non ricrea la collocazione originaria dei

documenti nella biblioteca del critico torinese. Non è pertanto dato sapere se

essi costituissero già un sottoinsieme o semplicemente fossero inseriti nella

collezione senza un preciso criterio. Dalle testimonianza della curatrice del

Fondo, la dottoressa Franca Porticelli, che ha preso in carico il trasferimento

del materiale dalla casa privata di Gianni Secondo alla Biblioteca Nazionale di

Torino, risulta che i testi fossero custoditi in due grandi scaffali e su di un

tavolo senza un particolare ordine. Non si evincerebbe, dunque, una volontà di

organizzare il materiale da parte del critico e quindi di attribuire ai documenti

relativi le tecniche un ruolo particolare.

189 Cfr. Derrida, Jacques, Le futur antérieur de l'archive. Questions d’archives, Paris, Imec, 2002, p. 47.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Elisa Anzellotti

L’artista vivente come fonte e archivio della danza.Le interviste a Cristina Hoyos, Dominique e Françoise Dupuy per le

ricerche sulla danza come patrimonio culturale immateriale

Il presente contributo vuole focalizzare l’attenzione sull’artista vivente

inteso come fonte e archivio per la memoria della danza.

Si portano tre esempi di danzatori e coreografi intervistati per la tesi di

dottorato in corso190: Cristina Hoyos, Françoise e Dominique Dupuy.

La finalità della ricerca è quella di porre le basi progettuali di una futura

proposta per un comprensivo centro coreografico/museo di danza in Italia.

Per questo motivo si è ritenuto importante partire dalla “fonte”, dall’“artista

opera”, interrogandolo direttamente sulle tematiche riguardanti la

conservazione della danza.

Si è inoltre svolta un'indagine conoscitiva intorno a una serie di musei o

centri coreutici/coreografici europei molto diversi fra loro, sia nella tipologia di

danza trattata (così da ricavarne anche una visione della complessità

dell’oggetto preso in esame, la danza appunto, che per ogni espressione pone

delle problematiche diverse), sia nelle soluzioni adottate di “conservazione”

della danza (per analizzare differenti metodologie).

Il filo conduttore che si è voluto mantenere il più possibile è stato cercare

quegli esempi di centri o musei che avessero alle spalle la volontà o l’idea di un

danzatore.

Ecco dunque perché l’intervista191 a Cristina Hoyos (ballerina e coreografa

di flamenco) realizzata durante la XVII Biennale di Flamenco, il 21 settembre

190 La tesi di dottorato che chi scrive sta ultimando presso l'Univeristà della Tuscia (tutor Elisa-betta Cristallini) ha come tema la danza come bene culturale immateriale e i suoi problemi diconservazione e musealizzazione.191 Dal momento che con la danza si crea quella “magia” consistente nella corrispondenza traesecutore e opera, si è ritenuto di estremo interesse poter porre delle domande all’artista/ope-ra. Ecco perché la decisione di corredare la tesi di interviste che verranno rese in modi diffe -renti: video con traduzione sottotitolata, scritte, montaggi video e immagini, nel caso non siastata effettuata la traduzione per espresso volere dell’artista al fine di evitare la corruzione deiconcetti.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Elisa Anzelotti

2012, presso il Museo del Flamenco di Siviglia, nato nel 2003 proprio per sua

iniziativa.

Alla domanda del perché realizzare un museo del flamenco e da cosa fosse

nato il progetto, Cristina Hoyos ha risposto che questa esigenza era scaturita

dalla sua volontà di dare al ballo flamenco - e specifica "al ballo più che al

flamenco in sé", che sappiamo essere una espressione culturale molto più

ampia, strettamente legata all’identità di un popolo, tant’è che il flamenco è

stato dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO nel 2010 -

quello che il ballo le aveva dato. Costruire un museo per il flamenco, significa

per lei valorizzare questa danza, offrendo a tutti coloro che sono interessati a

conoscere il baile flamenco, un luogo dove sia possibile trovare risposte al loro

desiderio di informazione e di comprensione.

Kurt Grötsch, direttore del museo, in un articolo192 spiega come ci sia molto

disorientamento tra i turisti consumatori del ‘prodotto flamenco’ che spesso,

nell’intento di capire questa arte, tornano a casa più confusi che contenti.

Dunque il museo cerca di accompagnare i fruitori nella corretta comprensione

di questa complessa espressione culturale.

Spesso molti equivoci derivano dalla commercializzazione o dalla

contaminazione di questo ballo con altri stili; a tal proposito sono state poste

due domande a Cristina Hoyos:

- Come la politica e la globalizzazione hanno influenzato il flamenco?

- Cosa pensa delle fusioni, della contaminazione di stili?

Alla prima domanda ha risposto che i mutamenti che riguardano il flamenco

dipendono, più che da una influenza politica o della globalizzazione, dall’andare

al passo con il tempo, perchè il flamenco è un’arte viva, passionale.

Nonostante Cristina Hoyos sia una “conservatrice” della tradizione, delle

radici del flamenco, ritiene che sia necessario seguire la sua evoluzione per

mantenerlo sempre molto vivo, perchè il flamenco «è un’arte che riflette la vita,

l’amore, la passione, la tragedia, la tristezza, l’allegria»193.

192 Grötsch, Kurt, Musealizar lo imposible – Intangibles. El caso de lo Museo del Baile Flamenco , in«ARETÉ», n. 21, dicembre 2005, pp. 65-89. 193 Tra virgolette sono riportate le parole esatte dell’intervistata, tradotte dalla scrivente, cosìcome negli altri casi che seguiranno.

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Strettamente legata a questa è la seconda risposta riguardante le fusioni.

Cristina Hoyos sostiene che il flamenco vada sempre alla ricerca di altro, per

non essere chiuso, per avere più possibilità di espressioni. Quindi occorre

cercare l’essenza, senza scordare mai la radice:

Cercare nuovi strumenti, nuove forme, nuovi stili, maindiscutibilmente sempre conservando il flamenco; si tratta diarricchirlo e dargli una nuova forma, senza scordarsi che si stafacendo comunque flamenco. Penso che non si debba confonderela fusione con la con-fusione. Se è una fusione fatta con qualità,talento, se è fatta bene, è un modo di arricchire la propria arte.

Alla base della conservazione della danza, secondo Cristina, deve esserci il

concetto di rispetto, un profondo amore e una conoscenza della propria arte;

afferma infatti a tal proposito: «Se qualcuno ama molto la sua arte e la rispetta

e non vede solo le finalità economiche, questa starà sempre nel luogo giusto e

potrà essere preservata.»

Proprio la parola preservazione mi permette di introdurre le interviste a

Françoise e Dominique Dupuy, realizzate a Parigi, presso la loro abitazione,

rispettivamente il 19 novembre 2012 ed il 17 maggio 2013.

Danzatori e coreografi, i Dupuy costituiscono un pezzo di storia della danza

moderna in Francia dagli anni ‘50 ad oggi e hanno raccolto moltissimo

materiale del loro vissuto artistico, in parte donato a varie istituzioni (nella

Biblioteca Nazionale di Francia vi è il materiale riguardante la loro attività

artistica, al Centro Nazionale della Danza è stato donato soprattutto materiale

pedagogico e presso la loro abitazione parigina, dove ha sede l’associazione

culturale Ode aprés l’Orage, vi è il materiale delle varie conferenze, scritti,

corrispondenze). Entrambi si sono molto spesi – e continuano tuttora,

nonostante siano ultraottantenni - per la questione della memoria della danza,

assumendosi innanzitutto il compito /responsabilità di scrivere ed essere

“militanti”.

Proprio Dominique nel testo Danzare oltre fa un’interessante osservazione

sul termine conservazione. Ribadisce infatti che non sia una bella parola in

quanto rimanda alla conserva, a qualcosa di inscatolato, sarebbe dunque meglio

parlare di preservazione, ma ancor di più di novazione, termine mutuato dal

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Elisa Anzelotti

linguaggio giuridico che fa riferimento ad un cambiamento costante194. Questo

aspetto del mutamento è fondamentale nella danza e non a caso è citato da

Dominique nel rispondere alla prima domanda postagli: “il corpo come

archivio”. Oltre ovviamente a dire che si può scrivere un libro su tale tematica,

per spiegare sinteticamente questo vasto argomento utilizza una metafora e

dice:

La danza lascia sul corpo delle tracce, come delle cicatrici. Ilparagone con la pelle è molto importante perché questa sitrasforma sempre, così come il corpo si trasforma tutti i giorni; c’èsempre qualcosa che resta e che si può ritrovare. La questione ècome ritrovare queste tracce corporali.

Le tracce della danza vengono chiamate da Dominique anche "vestigia", dal

latino vestigium, parola che indica l’impronta del passo sul suolo, quindi traccia

estremamente effimera. Nel 2005 ha organizzato un convegno intitolato

Véstiges/Vertiges, dove venivano trattati questi argomenti. Gli atti di questo

colloque non sono stati pubblicati, ma tutta la documentazione è custodita

presso l’archivio personale dei Dupuy, al quale ho potuto accedere in occasione

dell’intervista a Dominique.

La sensazione è stata quella di avere un grande privilegio nel poter entrare in

questo archivio e ho trovato risposta a questa sensazione proprio sfogliando i

documenti. Mi aveva colpito infatti, lasciandomi in un primo momento turbata,

l’affermazione di Oliver Corpet che sosteneva che un immaginario diritto

dell’archivio dovesse precedere quello del ricercatore. Egli afferma infatti che

l’archivio è un bene prezioso e complesso che richiede delle precauzioni d’uso

dovutamente autorizzate e documentate, per evitare che l’archivio diventi uno

strumento paurosamente efficace, ma anche di manipolazione del reale e della

verità195. Da ricercatrice, questa affermazione dapprima mi ha lasciato

perplessa, poi ho cercato di inquadrarla in un’altra ottica e di comprenderne

l’essenza. Sappiamo infatti che l’archivio è uno strumento di potere fortissimo

poiché, in base a ciò che decidiamo di archiviare, ma anche scegliendo come e

cosa estrapolare, possiamo stabilire cosa lasciare alla memoria futura. Jacques

Derrida afferma infatti che l’archivio è un’iniziativa autoritaria, di potere:

194 Dupuy, Dominique, Danzare oltre/scritti per la danza, Macerata, Ephemeria, 2011, p. 112.195 Artières, Philippe,Une archive son lieu: l’IMEC à l’ Abbaye d’Ardenne “Entretien avec Oliver Corpet,directeur de l’IMEC, in «S&R», n. 19, aprile 2005, p. 109.

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scegliere una memoria significa confiscarla, selezionarla, classificarla e

integrarla in una tassonomia di fonti materiali e documentarie a cui è affidata la

presunta “verità” della storia196. L’archivio non è soltanto un luogo che

custodisce la traccia documentaria, «esso è prima di tutto un luogo sociale, in

grado di ricercare l’equilibrio tra accumulazione museale e organizzazione

dell’oblio»197.

Il Novecento è stato il secolo in cui si è sentita maggiormente la necessità di

conservare in opposizione al grande scorrere degli eventi e quindi sono

proliferati archivi, spesso anche in quantità eccessiva, tant’è che si parla sempre

più spesso di patologia della memoria.

L’ansia, la frenesia − tipiche del nostro tempo e delle suepossibilità informatiche di stoccaggio dei dati − la volontàbulimica di conservare, preservare, archiviare, non è che l’altrafaccia di questa patologia della memoria sociale. Come se si originasseuna dimenticanza non per cancellazione, ma per eccesso diinformazione, non producendo assenze, ma moltiplicandopresenze. E talvolta il sospetto è che si continui ad archiviare econservare soltanto perché esistono archivisti e conservatori.198

In Francia più che altrove, per una serie di motivazioni, si è fatta forte

questa attenzione per gli archivi. Si ricordi l’esperienza degli AID (Archives

Internationales de la Danse)199 e numerosi altri esempi spesso sorti proprio alla

scomparsa di importanti danzatori come Dominique Bagouet, sul cui lascito è

stato fatto uno studio, pubblicato nel testo Carnets Bagouet, dove sono poste

domande su come sia possibile archiviare la danza200. 196 Derrida, Jacques, Mal d’archive. Une impression freudienne, Paris, Éditions Galilée, 1995 (tr. it. diGiovanni Scibilia, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Napoli, Filema, 1996). 197 Carboni, Massimo, Tutela, conservazione e restauro dell’arte contemporanea. L’orizzonte filosofico, inMundici, Maria Cristina – Rava, Antonio (a cura di), Cosa cambia. Teorie e pratiche del restauronell’arte contemporanea, Milano, Skira, 2013, p. 145. Interessante in questo saggio il pensiero diMassimo Carboni in riferimento alle arti contemporanee. Secondo lui infatti il luogo sociale diesse risiede proprio nella discussione pubblica che le riguarda e qui prende vita l’archivio che lememorizza attraverso il dibattito ad esse connesso, così che l’eredità e la testamentarietà delcontemporaneo vengono dinamicamente e criticamente assunte man mano che si vanno for-mando. Quasi a confermare la tesi di Bergson, che in Matière et mémoire sostiene che tutto il pas-sato, nella sua interezza, insiste e coesiste con ogni nostro vissuto presente che via via si svolge(cfr. Bergson, Henry, Materia e memoria: saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, a cura di Adria-no Pessina, Roma, Einaudi, 2001).198 Ibidem199 Baxmann, Inge – Rousier, Claire - Veroli, Patrizia (a cura di), Les Archives Internationales de laDanse (1931-1952), Paris, CND Pantin, 2006.200 Launay, Isabelle (a cura di), Les Carnets Bagouet, Paris, Les solitaires intempestifs, 2008, p. 22 ess.. In questo testo viene inoltre fatto un interessante excursus sugli avvenimenti in Francia circala materia della memoria della danza e su come sia nato il problema del repertorio Bagouet(scaturiscono infatti diversi interrogativi circa il rischio del meccanismo mercantile del reperto -

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Elisa Anzelotti

Altro caso esemplare in Francia, che ha profondamente stimolato il discorso

riguardante la memoria della danza, è stata l’azione limite della danzatrice Anne

Gardon, che fece un atto di damnatio memoriae (distrusse il suo archivio) per

l’oblio in cui era caduta. Proprio in questo gesto estremo Dominique Dupuy

vede la risposta radicale alla domanda: “Quale senso può avere, per un creatore,

il fatto di ‘lasciare i suoi archivi’?”. Anne Gardon sembra dunque essere

l’archetipo, per Dupuy, del problema della memoria di un artista della danza.

Quali tracce un danzatore lascia della sua danza, di quale natura possono essere

gli archivi e conseguentemente quale luogo li può accogliere e quale visibilità -

leggibilità può donargli? 201

Dominique Dupuy afferma che la questione dell’archivio di danza moderna

non si può ridurre al solo archivio di opere; occorre anche porre attenzione su

quelli che potremmo definire archivi dell’azione, ossia tutti quei movimenti e

luoghi dove si creano attenzioni, ascolti e parole collettive, portatrici di

memoria e generatrici di storie202. « Esplorare la perdita è prendere in

considerazione ciò che rimane appena, ma che è pienamente esistito, i detriti, i

frammenti…i resti.»203.

L’attenzione sull’azione ci permette di porre in luce il fatto che quando si

parla di artisti viventi certamente il più importante archivio sono loro stessi, il

loro corpo, il loro sapere. Non a caso in Giappone le persone possono essere

riconosciute come tesori viventi, beni culturali proprio per il bagaglio di

informazioni che portano in loro. A tal proposito calzante è la citazione di

Hampate Bà, che appariva sulla pagina di apertura del sito web del programma

UNESCO di salvaguardia del patrimonio immateriale: «L’Africa perde una

biblioteca ogni qualvolta muore un anziano»204.

rio). 201 Dupuy, Dominique, Le vent fait-il du bruit dans les arbres lorsqu’il n’y a personne dans la forêt pourl’entendre ?, articolo inedito, datato marzo 2011, proveniente dall’archivio personale dei Dupuy aParigi.202 Ibidem203 «Explorer la perte est prendre en considération ce qui subsiste à peine et pourtant a pleine-ment existé, les débris, les fragments…les restes», Schlanger, Judith, Présence des œuvres perdues,Paris, Hermann, 2010, p. 171.204 Frase pronunciata nel 1962 al consiglio esecutivo dell’UNESCO da colui che è stato definitoil secondo saggio di Bandiagara, Amadou Hampâté Bâ (cfr Touré, Amadou – Idriss M riko,Ntji (a cura di), Amadou Hampâté Bâ, homme de science et de sagesse. Mélanges pour le centième de sa nais -sance, Paris, Nouvelles éditions maliennes-Karthala, 2005, p. 286). Ormai questa frase è divenu-ta un proverbio e si ritrova in diversi testi in forme più o meno simili e, cosa ancora più impor-tante, era citata in apertura del sito UNESCO alla sezione Intangible Heritage: htlpdImirror-

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Il corpo del maestro è un libro dal quale apprendere. Insegnamenti dunque

che scaturiscono dal modo più ancestrale, quello dell’imitazione, come già

sostenuto da Aristotele nella Poetica. E ciò vale ancor di più per le danze che

non hanno una tecnica schematizzata, come le danze cosiddette popolari, dove

si parla spesso del “passo rubato” (appreso guardandolo, senza spiegazioni).

Bisogna dunque approcciare i corpi come fossero degli archivi, cosa, questa,

di cui è consapevole Françoise Dupuy, che continua ad insegnare, dare lezioni,

facendo leggere il suo corpo, donando la sua esperienza, riflettendo su diverse

tematiche (soprattutto quelle sulla pedagogia della danza e quelle legate al

ritmo, tema su cui si è incentrata parte dell’intervista), impugnando la penna.

Sia Dominique che Françoise pongono l’accento sul fatto che sempre meno

danzatori oggi scrivono e questo è un problema. Dominique fa una profonda

riflessione nel testo Danzare oltre sulla necessità della scrittura; la danza è una

poetica, è quello che la poesia è per la letteratura.

La storia della danza non basta a costruire un discorso sulla danza, può al

massimo costruire un repertorio di eventi205. «Voi, danzatori, mettetevi bene in

testa che siete condannati alla parola» (affermazione di Michel Bernard)206.

Occorre dunque che i danzatori parlino e scrivano. C’è una sorta di paura dei

danzatori a scrivere, e spesso l’escamotage si trova nell’utilizzo di immagini, ma

anche queste non possono dire tutto. La danza ha bisogno di teorici, di

intenzioni personali.

La danza inoltre, così come la musica, è un archivio di avvenimenti che

possono essere intuiti solo se si ha una profonda coscienza e conoscenza dello

sterminato mondo di essa e delle sue espressioni.

La danza costituisce un grande archivio di tensioni che hannoattraversato le sorti della storia dell’uomo con momenti di alternalibertà di espressione; proprio a questa parola, tensione, si farisalire una delle possibili radici etimologiche della parola danza,dal sanscrito tan, che significa tendere, allungare.207

us,unesco.orglculturelheritage/intangible/html_eng/index_en.shtml (ultimo aggiornamentoconsultato: 24 marzo 2003; non più in rete (u.v. 25/10/2012). 205 Dupuy, Dominique, Danzare oltre, cit., p. 106 e ss.206 Citato in ivi, pp. 107-108.207 Lisi, Simona, Il linguaggio della danza, la danza del linguaggio in Muscelli, Cristian (a cura di), Incerca di danza. Riflessioni sulla danza moderna, Genova, Costa & Nolan, 1999, p. 122.

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Elisa Anzelotti

Potremmo dunque parlare di archivio nell’archivio. Ossia la danza come

stratificazione di storie, in un corpo fatto di stratificazioni di saperi e di

esperienze.

Come sosteneva il noto etnomusicologo Diego Carpitella, parlando di

conservazione/valorizzazione dei beni musicali, fondamentale è la

documentazione continua: «Si potrà obiettare che tutto ciò è ricerca e non

conservazione – commenta – ma la conservazione, reale, scientifica del folklore

musicale è possibile solo attraverso la ricerca»208.

Il compito che spetta ai ricercatori è dunque complesso e delicato,

soprattutto volendo istituire luoghi di memoria per il futuro. Quindi diamo

voce ai danzatori, cerchiamo più tracce possibili nell’“archivio a tempo”

costituito dal corpo del danzatore, prendiamo coscienza e conoscenza del

“potere” che si ha accedendo a delle informazioni, e pensiamo che facendo

ricerca già stiamo realizzando qualcosa per la preservazione del bene in

questione.

208 Carpitella, Diego, La musica di tradizione orale (folklorica), in Ricerca e catalogazione della cultura po-polare, Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione - Museo Nazionale delleArti e Tradizioni Popolari, 1978, pp. 19-20.

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Sessione V

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Introduzione

I saggi di Annalisa Piccirillo e Le-tizia Gioia Monda sono frutto di ri-cerche accomunate dall’originalità deitemi affrontati e dagli ampi riferimen-ti bibliografici che testimonianoun’attenzione agli studi di danza a li-vello internazionale.

Annalisa Piccirillo ripercorre alcu-ne tappe della ricerca avviata in senoa un Dipartimento di studi culturali epost-coloniali, una collocazione ano-mala in Italia per chi costruisce il pro-prio oggetto di studio attorno alladanza, ma che tale non è soprattuttoin ambito anglosassone. La vocazioneinterdisciplinare è congenitanell’approccio di Piccirillo che tentaanche di allargare i confini degli studidi danza proprio apportandovi stru-menti metodologici mutuati da altrediscipline. Il punto fermo della suaindagine resta la scrittura corporeafemminile o meglio le esperienze di«coreo-grafia» in cui danza e scritturasi intrecciano. L’attrazione teorica perlo spaesamento, la disseminazione ela devianza, l’ha condotta nel corsodelle sue ricerche a intraprendere unviaggio in alcuni contesti in cui la cul-tura occidentale è stata esperita comepresenza coloniale, nella fattispeciebritannica, per approdare più di re-cente in paesi che si affacciano sulMediterraneo. Lungo questo itinera-rio che è insieme storico, geografico emetodologico, ha affinato i suoi stru-menti per leggere la danza e ripercor-rerne le tracce in forme di archiviomeno evidenti e per questo affasci-nanti come i corpi e, nello specifico, icorpi femminili. Nello studiare alcuniesempi di matri-archivio, ovvero diquei depositi della memoria coreogra-fica capaci, per il fatto stesso di esi-stere, di destabilizzare il sapere pa-triarcale, Piccirillo si è confrontatacon generi diversi che includono la

performance, la video danza e la video-istallazione. La danza affiora ritmica-mente nella sua scrittura talvoltacome oggetto della ricerca, talaltracome ingrediente teorico utile a farlievitare la materia. In questa oscilla-zione sta il contributo forse più inte-ressante dello sguardo di Piccirilloche si posa infine su un aspetto tantocentrale quanto trascurato dalla storiadella danza, la gravità e le sue impli-cazioni fisiche, psicologiche e antro-pologiche, apportando spunti di ri-flessione originali e stimolanti.

Letizia Gioia Monda è partita dallapropria esperienza personale vissutain seno al progetto Motion Bank pen-sato e animato da William Forsytheinsieme a un gruppo di coreografi edanzatori per tentare una prima siste-matizzazione di questo approccio allostudio della danza utilizzando, in par-te, anche gli strumenti acquisiti nelcorso del Dottorato di ricerca in Tec-nologie digitali e metodologie per laricerca sullo spettacolo. Nel suo ap-proccio la freschezza e la vivacità del-la ricerca nata dalla pratica coreutica ecoreografica di chi ha condiviso conlei l’esperienza di Motion Bank in-contra, arricchendola, una tradizionedi studio dello spettacolo vivente diimpostazione più tradizionale. La ri-cerca che ne è scaturita mantiene untessuto interdisciplinare, sebbene conuna più marcata propensione allescienze cognitive e alle neuroscienze,per indagare un particolare processodi comunicazione umana definita“sincronia cosciente” e analizzare il“pensare-in-movimento”, ovvero unlinguaggio che non è possibile codifi-care in quanto per poter essere com-preso e appreso va vissuto. L’analisidella nozione del tempo è l’asse por-tante attorno a cui Monda dà forma

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Susanne Franco

alle sue riflessioni sulle modalità deidanzatori di esperire psico-fisicamen-te la realtà e generare il movimento.La complessità dei temi trattati rischiain alcuni punti di essere schiacciatadalla ridondanza del lessico speciali-stico spesso intraducibile, linguistica-mente e concettualmente, e dall’equi-librio non sempre stabile tra nuovefrontiere della ricerca e retaggi storio-grafici talvolta fuorvianti. D’altrocanto è proprio negli interstizi di que-ste difficoltà che si può cogliere tutto

il potenziale di questa proposta distudio pratico/teorico della danza.

Nell’ascoltare il dialogo a distanzache le due ricercatrici conducono gra-zie a questi testi è bello immaginarelungo quali e quante direzioni gli stu-di di danza in Italia possono avviarsied è incoraggiante sapere che questipercorsi sono sempre meno solitari eisolati.

Susanne Franco

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Annalisa Piccirillo

Disseminare gesti pe(n)santi, archiviare danze di gravità.Spostamenti e passi nella ricerca

Sollecitati a coreografare i movimenti delle nostre indagini, in questo spazio

di confronto desidero brevemente condividere alcuni passi compiuti nel corso

del Dottorato in Studi Culturali e Postcoloniali del Mondo Anglofono, e gli

spostamenti che più di recente direzionano la mia ricerca209. La tesi dal titolo

Coreografie disseminate: corpi-archivio della danza femminile , è stata elaborata nel

desiderio di tradurre in gesti danzanti gli assunti teorici e metodologici del

post-strutturalismo, degli studi culturali e della critica postcoloniale. Nel

processo di studio e di scrittura, la passione per le culture e le letterature

straniere si è intrecciata con sfida alla danza: la forma di espressione e di analisi

che mi ha permesso di danzare con il pensiero tra i linguaggi dell’alterità, e di

attraversare con leggiadria la talvolta insidiosa interdisciplinarietà –

indisciplinata210 – della mia formazione accademica.

Nel leggere la core-grafia come un’esperienza in cui dimorano in un sol

tratto l’arte della danza e la tecnica della scrittura, la tesi ha accolto i movimenti

del differimento, della dislocazione, e della «disseminazione» – presi in prestito

dal lessico decostruzionista del filosofo franco-algerino Jacques Derrida211 –

per interpretare l’oggetto coreografico non come un corpus finito di significati

di pura presenza, bensì come «un insieme di tracce che rimandano ad altre

tracce»212; una grammatica di segni fatta di continui rinvii e rimandi, nello

spazio di produzione e nel tempo di fruizione. La disseminazione è un tropo

metodologico, tecnico e poetico, adottato per esporre «la devianza del voler

dire»213 e del danzare di uno specifico linguaggio o gesto, analizzato nel

differimento temporale (dalla forma tradizione pre/coloniale a quella

209 Dottorato di ricerca condotto presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, a.a.2008-2011; tutors Silvana Carotenuto, Frances J. Wilkinson (tesi discussa il 13 maggio 2012).210 Hall, Stuart, Cultural Studies and its Theoretical Legacies, in Simon During (a cura di), The Cul-tural Studies Reader, Second Edition, New York, Routledge, 1993.211 Derrida, Jacques, La disseminazione, Milano, Jaca Book, 1989.212 Derrida, Jacques, Della grammatologia, Milano, Jaca Book, 1969, p. 92.213 Derrida, Jacques, La disseminazione, cit., p. 38.

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Annalisa Piccirillo

contemporanea postcoloniale), e nella dislocazione tecnica (dalla fruizione live

alla riproducibilità sullo schermo o nel digitale).

Con il fine di coreografare sulla pagina le memorie performative che

affiorano dalle «storie che si intrecciano e dei territori che si

sovrappongono»214, ho studiato le ri-scritture di specifiche culture

coreografiche prodotte in risposta ai duri eventi coloniali, per osservare, negli

interstizi creativi delle ex colonie britanniche, la proliferazione di stili e

linguaggi ibridi, contaminati, caratterizzati da eccezionale innovazione di

forme, e in sovversivo movimento verso il «terzo spazio» postcoloniale 215. Per

negoziare la mia stessa distanza o legame con l’alterità – corporea, etnica,

razziale, identitaria etc. – delle molteplici scritture femminili studiate, mi sono

ancorata al monito dalla regista vietnamita, e teorica postcoloniale, Trinh-Minh-

Ha che incita a «non cercare di parlare di/per l’altra, ma essere vicini a»216.

Nell’andamento della ricerca, che oggi prosegue con un progetto sulle Nuove

pratiche di memoria: matri-archivi del mediterraneo217, resta centrale l’attenzione alla

scrittura corporale femminile218, e la pulsione-aspirazione al futuro dei nuovi

archivi digitali ed elettronici che offrono, alle soggettività migranti e

diasporiche della contemporaneità, spesso espulse e marginalizzate dalla

memoria nazionale e sovrana, una dimora di produzione creativa, di azione e di

trasmissione219. Laddove la coreografia si fa iscrizione del corpo femminile, e il

movimento si fa pensiero di apertura verso nuove metodologie, saperi e storie,

il Mediterraneo si fa esso stesso spazio di consultazione: un matri-archivio che

si dona alla ri-figurazione critica e teorica, un luogo di ospitalità liquida in cui si

registrano nuove pratiche di memoria femminile – per ricordare la danza e

danzare la memoria di nuove gestualità – un deposito di sopravvivenze che

sfida l’essenza di un’arte la cui archiviabilità si fa questione urgente e febbre

214 Said, Edward, W., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente ,Roma, Gamberetti, 1998.215 Bhabha, Homi K., I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001. 216 Minh-ha, Trinh. T., Reassamblage, documentario, 1982.217 Assegno di ricerca erogato dalla Regione Campania, Reti di eccellenza TPCC-ValCSiP,UNIOR, a.a. 2012/13.218 Cfr. Cixous, Hélène, Le rire de la Méduse, in «L’Arc», vol. 61, 1975, pp. 39-54.219 Cfr. Appadurai, Arjun, Archive and Aspiration, in Brouven, Joke et al. (a cura di), Information isAlive. Art and Theory on Archiving and Retriving Data, Rotterdam, NAi Publisher, 2003, pp. 14-25.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

performante nei dibattiti critici degli studi della danza e della performance

contemporanea220.

Danzare è pensare nella gravità

Je peux dire que quand je pense, je danse. D’ailleurs, unphilosophe l’a dit: Nietzsche répète à plusieurs reprises qu’un bonpenseur doit être un bon danseur. Une pensée de la marche, c’estla danse justement. […] On pourrait aller jus-qu’à dire que lamarche est l’un de ces débuts inventés de la danse, comme uneUr-danse, comme les premiers pas d’un enfant qui commence àmarcher et qui apprend à maitriser sa propre gravité.221

Jean-Luc Nancy, il noto pensatore francese del «corpo-teatro» e coreografo

dei miei più recenti movimenti di scrittura, ha più volte avvicinato il lavoro del

pensiero a quello della danza, per l’aspirazione che entrambe le attività

condividono verso la composizione di uno spazio astratto, dal quale bisogna

creare, differenziare, rinviare di sé e da sé222. Esploro, allora, l’articolazione

concettuale tra la danza e il peso del pensiero e, più specificamente, indago gli

interstizi poetici e creativi, dove il pensiero della danza s’interseca alla danza del

pensiero femminile sulla/nella gravità. Nella tesi di dottorato ho argomentato

la tecnica-poetica della gravità come una legge che, nella storia della danza

occidentale e non, è stata conservata e distrutta fino ad affermare la

disseminazione di diverse modalità di pensare e di pesare la rappresentazione

220 Cfr. Nordera, Marina – Franco, Susanne, (a cura di), Ricordanze. Memoria in movimento e coreo-grafie della storia, Torino, UTET Università, 2010.221 Nancy, Jean-Luc, cit. in Isabelle, Décaire, Danser, Penser, in «Spirale», n. 204, 2005, pp. 26-27.Décaire cita un pensiero espresso da Nancy in occasione della tavola rotonda sul solo Seul(e) auMonde (2002). Il testo è consultabile on-line al seguente indirizzo: http://www.erudit.org/cultu-re/spirale1048177/spirale1057564/18421ac.pdf.222 Nancy, Jean-Luc, Corpo Teatro, Napoli, Cronopio, 2010.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

Foto 1: Maya Deren, The Very Eye of Night, 1958

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Annalisa Piccirillo

dell’agency femminile sulla scena performativa, politica e sociale223. Più

recentemente, il saggio di Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, ha innescato

nuovi spostamenti sui sensi della gravità, dislocando, in diversi pesi, l’attività del

mio pensiero sulla corporalità danzante contemporanea:

Il pensiero, […] ha il suo peso, la sua gravità, il suo spessore, lasua profondità, il suo spazio. Così come si pensa con cervello enervi, braccia e mani, ventre e gambe […] allo stesso modo […] ilcontenuto dei nostri pensieri è materiale, fisico, tangibile, sensibilein tutti i sensi.224

In Allitération. Conversations sur la danse, un esercizio coreografico in cui la

danza e la filosofia coabitano sulla pagina performativa e sul palcoscenico

teorico, Nancy danza e pensa con la coreografa francese Mathilde Monnier. In

conversazione, sul limite tra percezione e significazione, Nancy dichiara: «Il

corpo è il luogo dal quale il senso fugge»; a tale gesto pensante Monnier

risponde:

Je me sens parfois comme une organisatrice, ou unearchéologue du mouvement qui cherche à trouver, à fouiller legeste pour l’identifier, pour ouvrir une enquête (son origine, sonhistoire, sa transformation, sa mutation).225

La coreografa discute l’impermanenza di un gesto danzante che una volta

compiuto resta in-scritto e trattenuto nelle potenzialità del suo corpo pensante.

Nel sentirsi come un’archeologa, Monnier sembra sostenere la formula teorica

e creativa del corpo-archivio: una realtà vivente che custodisce i «resti» dei

linguaggi – appresi e persi – ne riattiva i gesti mutati nei sensi, e ne dissemina le

memorie, a ogni rinnovata consultazione226.

Sul peso di tali testimonianze e approdi metodologici, decido di interrogare

la storiografia della danza femminile per rintracciare i pesi tecnici e i pensieri

poetici della gravità: com’è stata conservata e trasmessa la legge della gravità

nelle diverse tecniche coreutiche, dal corpo classico al moderno fino a quello

contemporaneo? Come il peso del pensiero femminile e femminista può

223 Introduzione e IV capitolo della tesi: “Il Mal d’archivio della danza”; “La sospensione coreo-grafica: dal leggiadro al pe(n)sante”; cfr. Piccirillo, Annalisa, Ricordanze: l’archiviazione sospesa diIsabel Rocamora, in «Estetica. Studi e ricerche», vol. 3, n. 1, 2012.224 Nancy, Jean-Luc, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, Milano, Mimesis, 2009, p. 10.225 Nancy, Jean-Luc, Monnier, Mathilde, Allitérations. Conversations sur la danse, Paris, Galilée,2005, p. 19.226 Cfr. Schneider, Rebecca, Performance Remains, London&New York, Routledge, 2001.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

sostenere l’allitterazione – fonetica e materiale – tra corpo pensante e pesante?

Quali altre gravità la creatività femminile espone quando contro-firma la

propria traccia coreografica nell’anti-gravità o nel senza-peso? Quali strategie

coreografiche si attraggono o si oppongono quando un evento è catturato sullo

schermo o si dissemina nel digitale?

Un matri-archivio di altre gravità

Confidando nella non-neutralità di ogni atto archivistico227, seguo le tracce

decostruttive che conducono a rileggere i ruoli e i valori estetici tramandati sui

corpi femminili, e custoditi, ad esempio, nei patri-archivi del balletto classico,

dove si consultano le immagini fiabesche di donne-danzatrici che sfidano il

peso corporeo, per lasciare nella memoria dello spettatore il phantasmata di

un’entità fugace e leggiadra – senza peso e senza apparente pensiero 228. Scavo,

allora, nei matri-archivi: quei depositi della memoria coreografica, dove le

donne si fanno arconti; «comandano» la scrittura del proprio sé; «cominciano»

a destabilizzare il sapere patriarcale229; esplorano le fughe della danza con il

peso del proprio corpo pe(n)sante che cade sul video, fino ad archiviarsi nelle

architetture liquide del digitale.

Differite nel tempo e dislocate nello spazio, si manifestano le ricordanze

della gravità; prime tra tutte, si consultano le opere di Maya Deren: danzatrice,

etnografa, regista del cinema indipendente, nata in ucraina ed emigrata negli

USA, dove dagli anni Quaranta ridefinisce le coordinate della coreografia sullo

schermo, oltre gli scopi della documentazione. In The Very Eye of Night

(http://vimeo.com/41996535, 1958), Deren monta ciò che potrebbe definirsi

una proto-installazione digitale: i corpi fluttuano in un paesaggio stellato, s-

compongono costellazioni geometriche, e nella virtualità di un luogo instabile e

futuristico disperdono i loro gesti neoclassici230. Nel peso e nel pensiero della

danza che si ri-vede nel movimento del cinema, Deren libera il corpo dalla

227 Foucault, Michel, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971.228 Cfr. Adair, Christy, Women and Dance, Sylphs and Sirens, London, Palgrave Macmillian, 1992.229 Derrida, Jacques, Mal d’archivio, un’impressione freudiana, Napoli, Filema, 1996, p. 11. 230 The Very Eye of Night, Maya Deren & Metropolitan Opera Ballet School, bianco e nero,1952-58.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Annalisa Piccirillo

gravità e afferma: «by dancing ideas in a new way […] by using the film

technique of editing […] to free the dancer from gravity»231.

Entrando in questo vecchio gesto filmico, la danza spettrale di Maya Deren

ritorna dal passato per ri-vedersi nella promessa di una tecnica del futuro; ci

invita ad assumere un nuovo sguardo critico e storiografico, verso una

testimonianza femminile che ha ri-posizionato l’esistenza/la resistenza

sperimentale della coreografia sullo schermo. Il film in-corporeo di Deren si

approssima all’attivismo corporeo iniziato da Adrienne Rich, la poetessa

americana che ha pe(n)sato sul ri-posizionamento dell’identità femminile in una

prospettiva storica globale: «Re-visione – l’atto di guardarsi indietro, di vedere

con occhi nuovi, entrare in un vecchio testo da una nuova direzione critica: per

le donne è più di un capitolo della storia culturale. È un atto di

sopravvivenza»232.

La danza e il pensiero femminile della/nella gravità sopravvive, si rinnova

nell’evoluzione tecnica e cinetica, fa i conti con il peso dell’esistenza

contemporanea, con la sottrazione del peso, e al contempo con il bisogno di

radicarsi in nuovi spazi di trasmissione, di conoscenza e di memoria.

Viaggiando negli archivi elettronici del web, si incontra la video-istallazione

Weightless (http://www.youtube.com/watch?v=xXi1P4qXSxw, 2007) della

giovane artista, architetta e musicista svedese, Erika Janunger233. Qui due donne

scrivono gestualità fluide in un set disegnato per far apparire la densità di ciò

che è verticale, orizzontale; ognuna occupa due diverse stanze, due territori

continuamente «de-territoralizzati» dalle composizioni erranti delle figure

senza-peso234. Mi piace pensare che, nella disarticolazione corporea dal suolo, le

due donne realizzano una coreografia del sé – in Una stanza tutta per sé (1929);

come Virginia Woolf ci ricorda, è lì che le donne hanno tempo e spazio per

affermare la creatività del proprio corpo pe(n)sante.

Nell’attraversamento dinamico tra architettura e coreografia, l’opera di

Janunger attualizza una geografia di transizioni. La suggestione che cade, nello

sguardo del mobi-spettatore, è il divenire «nomadico» di un corpo-archivio

231 Deren, Maya, Adventures in Creative Film-Making (1960), in McPherson, Bruce R. (a cura di),Essential Deren: Collected Writings on Film, Kingston-New York, Documentext, 2005, pp.163-185.232 Rich, Adrienne, Segreti, silenzi, bugie, Milano, La Tartaruga, 1982, pp. 23-42.233 Weightless, regia, coreografia e musiche di Erika Janunger, 2007.234 Deleuze, Gilles – Guattari, Felix, Millepiani, Roma, Cooper&Castelvecchi, 2003.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

esposto alle attrazioni della gravità, ma che continuamente vi sfugge. In merito

alla qualità cinetica di una delle danzatrici, Janunger dice: «I suoi movimenti

sono oltre la danza, non è tanto una questione di ‘posizioni’ ma dare il senso

delle ‘transizioni’»235. Il movimento del transito sembra attraversare il peso del

pensiero critico femminista delle soggettività nomadiche di Rosi Braidotti, la

cui natura è transitoria e trasgressiva: «Il nomadismo non è la fluidità priva di

confini bensì la precisa consapevolezza della non fissità dei confini. È l’intenso

desiderio di continuare a sconfinare, a trasgredire»236.

La consapevole non fissità dei confini della danza, eccede quando Weightless

trasgredisce i limiti dell’archivio web, per disseminarsi e proiettarsi in differita

su sette schermi digitali strategicamente dislocati sugli edifici di Time Square a

New York (http://vimeo.com/49039498). Le figure, ora moltiplicate, danzano

ancora in un’altra-gravità dentro e fuori i confini della peculiare galleria

urbana237. Migliaia di passanti nomadici assistono alle incalcolabili coreografie

delle due e più donne, tracce di un’estetica che, radicata nella materialità fluida

della propria esistenza contemporanea, richiama al presente la (r-)esistenza

della scrittura liquida di Virginia Woolf in The Waves: «I’m rooted, but I

flow»238. Il gesto danzante si fa pensante nella metodologia, ed è così che vorrei

immaginare la mia attività di ricerca – restare ancorata al peso delle discipline

tra le quali mi sposto, e sulle quali il mio pensiero scorre.

235 Conversazione privata con l’artista, maggio 2013.236 Braidotti, Rosi, Soggetto nomade: femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1994, p. 57.237 Midnight Moment: a Digital Gallery, Time Square Arts; Weightless, 2012.238 Woolf, Virginia, The Waves, New York, Cambridge Press, 1987, p. 259.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

Foto 2: Erika Janunger, Wightless, 2006

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Annalisa Piccirillo

Nei depositi liquidi di questo matri-archivio nomadico, arrivo infine a

consultare il corpo-archivio reazionario e mediterraneo di Nisrine Boukhari,

l’artista siriana la cui alterità danzante si fa grave nella video-installazione

digitale The veil (http://vimeo.com/11463913)239. Il velo di Boukhari è una

trama performante su cui pesano le intersezioni di discorsi costruiti e incastrati

sulla corporalità femminile e non-occidentale. Tuttavia, quest’opera non

richiama parole, bensì gesti pe(n)santi che danzano e si disseminano, cercando

il senso fuori dal senso.

Dietro e dentro il velo rosso, si compie una coreografia di gesti gravi al

ritmo di una musica frattale e frammentata. Si distinguono prevalentemente i

tocchi delle mani che pesano, premono, scivolano, trattengono, palpano e

distendono la superficie su cui si muovono, ma s’intravedono anche altre

possibilità corporali che attualizzano, aprono e sfiorano forme coreografiche

che sprigionano un istinto proibito e forse rimosso. Qui è il peso del pensiero

della scrittrice algerina Assia Djebar che affiora quando, nel romanzo Donne

d’Algeri nei loro appartamenti (1979), narra la libertà di «corpi imprigionati ma

anime più che mai in movimento»240; al contempo i gesti gravi sono anche

quelli dei corpi migranti trattenuti nell’infame rete del mar Mediterraneo che,

nel tentativo di approdare sulle nostre coste, non riescono ad attraversare.

Nonostante il colore non sia affettato dalla legge della gravità, il rosso vivo

del velo di Boukhari assume spessore al punto da suscitare una visualità tattile

239 The veil, video-installazione di Nisrine Boukhari – 2006.240Djebar, Assia, Donne d’Algeri nei loro appartamenti, Firenze, Giunti, 1988.

Foto 3: Nisrine Boukhari, The veil, 2006

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all’occhio che lo tocca241. Toccando la pelle di queste immagini, il nostro occhio

tocca il velo senza toccarlo o afferrarlo – il nostro occhio può solo

accarezzarlo242. Non possiamo svelare la soggettività celata, forse incastrata,

oltre il velo, ma possiamo seguirne la sua pulsante e-scrizione, possiamo

approssimarci al senso della danza che la muove restando sul bordo: «sull’orlo

di un senso sempre sul punto di nascere, sempre in fuga, a fior di pelle, a fior

d’immagine»243.

Nella neutralità di questa scrittura corporale, dove anche la differenza

sessuale sembra sottrarsi, i calchi, gli abbozzi e i profili indefiniti di questi gesti

ci invitano a consultare un altro archivio. È qui che si gioca tutto il senso della

pesantezza del pensiero e della sua impenetrabilità. È esattamente questo non

avere accesso che ci permette di danzare sulle virtualità che maturano dentro e

fuori il corpus singolare-plurale di questo velo. In The veil, allora, Boukhari, fa

gravitare colei/colui che osserva nella sospensione del senso, nella promessa di

altre scritture e memorie a-venire, e nei rinvii che la danza poeticamente

dissemina oltre il femminile e oltre ogni genere.

241 Cfr., per la nozione di “haptic visualty”, Marks, Laura, Touch: Sensuous Theory and MultisensoryMedia, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2002.242 Cfr. Derrida, Jacques, Toccare. Jean-Luc Nancy, Genova, Marinetti, 2007.243 Nancy, Jean-Luc – Ferrari, Federico, La pelle delle immagini, Torino, Bollati, 2003, p. 9.

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Letizia Gioia Monda

Lo Score: un algoritmo per investigare la Body Knowledge

Adottando il punto di vista “panoramico” dell’evoluzionismo, assumendo

che il performer è la metafora per eccellenza dell’essere umano, il mio progetto di

ricerca - dal titolo La Comunità Motion Bank. La Body Knowledge nella Danza e

nella Coreografia244 - si è posto l’obiettivo di esaminare e spiegare la Body

Knowledge che il performer contemporaneo esperisce attraverso le forme d’arte

della danza e della coreografia. Un’indagine pragmatica, portata avanti sul

campo, grazie al supporto e all’attività della Comunità Motion Bank, in un dialogo

creativo con i performers, i coreografi, gli artisti e gli scienziati coinvolti in questo

progetto.

Attraverso un approccio metodologico interdisciplinare, e un lavoro di due

anni svolto sul campo, lo scopo di tale ricerca è stato quello di analizzare la

comunicazione che si realizza a teatro per mezzo della relazione performer-

performer durante la performance dal vivo.

La scelta di conseguire un’indagine pragmatica riflette il nodo cruciale che

interessa la questione metodologica inerente agli studi teatrali, ossia quello

costituito da teoria e pratica.

Ritenendo che la condizione necessaria, per far sì che vi sia un reale

avanzamento scientifico nei termini di indagine relativa all’arte performativa,

stia nel reale connubio tra teoria e pratica – ovvero, in una ricerca

interdisciplinare e pragmatica che metta in dialogo la conoscenza pratica e

quella teorica del lavoro del performer - ho voluto contestualizzare il mio lavoro

all’interno di una realtà performativa unica nel suo genere: Motion Bank,

l’ultimo progetto interdisciplinare di William Forsythe che dal 2010 al 2013 ha

provveduto a creare uno spazio d’indagine nella pratica coreutica. Grazie

all’utilizzo di nuove tecnologie, e soprattutto grazie all’interdisciplinarità della

sua realizzazione, Motion Bank sta fornendo preziosissimi dati che arricchiranno

244 La ricerca si è svolta presso La Sapienza Università di Roma nell'ambito del dottorato in“Tecnologie digitali e metodologie per la ricerca sullo spettacolo”, tutor Luciano Mariti (tesi di-scussa il 23 luglio 2014).

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Letizia Gioia Monda

in maniera determinate i termini del sapere teorico-pratico inerenti alle arti

performative dell’essere umano.

Il progetto di ricerca, dunque, si è basato sull’utilizzo di studi e metodologie

d’analisi, materiale documentaristico e interviste. Per quello che riguarda il

lavoro sul campo, mi sono trasferita a Frankfurt am Main nel febbraio 2012 per

seguire lo sviluppo dei digital scores e degli eventi teorico-pratici del progetto

Motion Bank presso il Frankfurt Lab. Questi eventi sono stati: i Motion Bank

Workshops; le Guest Performances; e i Dance Engaging Science Interdisciplinary Research

Workshops.

Il filo rosso che lega la spiegazione del complesso oggetto di studio - ossia

la Body Knowledge nella danza e nella coreografia - è il concetto di Score.

L’argomento centrale dell’indagine Motion Bank è lo Score. Come i crittografi

cercano di decifrare un codice ignoto, così gli artisti e gli scienziati coinvolti in

Motion Bank si sforzano di penetrare il codice usato dall’essere umano per

rappresentare metaforicamente attraverso l’arte il mondo esterno. Che cos’è lo

Score? Un concetto, un metodo di movimento, uno strumento digitale? Forse è

ognuna di queste cose. Lo Score è un algoritmo necessario per leggere la danza

dell’essere umano, acquisire informazioni e trasferire queste informazioni per

procedere e far evolvere la conoscenza contenuta nella pratica coreutica.

Gran parte delle riflessioni e delle terminologie presenti in questa ricerca

derivano dal dialogo diretto (per mezzo di interviste e meeting) e indiretto (per

mezzo degli eventi teorico-pratici) con coloro che formano la Comunità Motion

Bank. In particolare questo dialogo si è svolto con: William Forsythe; Scott

deLahunta (leader del progetto); i performers della The Forsythe Company,

Nicole Peisl, Fabrice Mazliah, Riley Watts; il Prof. Wolf Singer (Direttore del

Max Plank Institute for Brain Research a Frankfurt am Main) per ciò che

riguarda gli studi neuro-cognitivi; il filosofo Alva Noë (Professore presso l’UC

Berkeley); i coreografi ospiti del progetto Deborah Hay, Jonathan Burrows e

Matteo Fargion; il performer della The Forsythe Company e programmatore

informativo David Kern; il programmatore informatico Martin Streit; e gli

artisti digitali del progetto Florian Jenett e Amin Weber, per quel che riguarda

l’analisi e la decodifica dei processi di produzione e archiviazione dei Motion

Bank Digital Scores.

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In questo articolo presenterò un’indagine basata sull’interdisciplinarietà delle

fonti leggendo lo score come un cristallo: metafora del dinamismo formante

insito nel movimento espressivo. Esporrò come tale cristallo sia il canale

necessario per fa sì che si realizzi il contrappunto coreografico. Esplorerò cosa ciò

significa per i coreografi coinvolti in Motion Bank - William Forsythe, Deborah

Hay, Jonathan Burrows and Matteo Fargion – analizzando la connessione

somatica tra i processi di art-making and score-creation.

Il tempo è un’entità intangibile che è possibile comprendere solo attraverso

l’azione: o meglio il moto della persona nello spazio.

Sin dalle origini l’essere umano ha iniziato a danzare per riconoscersi come

identità all’interno di un ambiente245. La percezione (comprensione) dello

spazio precede quella del tempo, quindi l’essere umano intuendo, attraverso

l’azione e il movimento del corpo, lo spazio avvertiva il tempo e iniziava ad

essere: ad essere all’unisono con quel ritmo cosmico che governa i fenomeni

naturali246.

Luciano Mariti ha scritto:

Pensare il tempo è un’impresa teoretica complessa soprattuttoperché il tempo non è solo la forma in cui ci appaiono i fenomeni,ma è anche la modalità con la quale ciascuno conosce ecomprende se stesso, dato che ognuno di noi non solo hamemoria, ma è anche la memoria di se stesso.247

245 Come afferma Silvana Sinisi la danza è un linguaggio universale che nasce dal movimento, lamanifestazione primaria di vita dell’essere umano. Questo linguaggio trova il suo radicamentonel profondo delle strutture antropologiche e accompagna il cammino evolutivo dell’uomo sindalle origini con caratteri e funzioni diverse secondo gli stadi di civiltà e dello spirito del tempo.«Ancor prima di formulare un linguaggio organizzato e comunicare attraverso la scrittura,l’uomo ha imparato a danzare, ritrovando nel suo corpo e nella sua anima, la vibrazione di quelritmo che governa i fenomeni naturali, i cieli, le costellazioni. Non a caso molti miti cosmogo -nici fanno scaturire l’origine del mondo dalla danza» (Sinisi, Silvana, Storia della danza occidentale.Dai Greci a Pina Bausch, Roma, Carocci, 2005, p. 13).246 Siegfried Giedion nel suo libro sull’eterno-presente (Giedion, Siegfrid, L’eterno presente: le ori-gini dell’arte. Uno Studio sulla costanza e il movimento, Milano, Feltrinelli, 1965), ha esplorato il mon-do delle forme del Paleolitico ricercandovi le origini del pensiero umano e il nascere delle “ca -tegorie”. Secondo Giedion anche se lo spazio, così come il tempo, è intangibile pure può essereintuito attraverso l’azione e il movimento del corpo. Rispetto tali studi Ruggero Pierantonichiarisce che «L’attitudine verso il mondo determina la concezione spaziale di un periodo, con-cezione che non è altro che la proiezione grafica di questa attitudine» (Pierantoni, Ruggero, For-ma Fluens. Il movimento e la sua rappresentazione nella scienza, nell’arte e nella tecnica , Torino, Bollati Bo-ringhieri, 1986, pp. 13-14).247 Mariti, Luciano, Sullo spettatore teatrale oltre il dogma dell’immacolata percezione , in Meldolesi, Torgeire altri attori, numero monografico di «Teatro e Storia», vol. 31, nuova serie II, 2010, p. 19.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Molti scrittori hanno individuato l’inquietudine causata dal tempo nel cuore

del soggetto. Per esempio - commentando l’idea kantiana dell’auto-affezione del

tempo come la più originale forma di consapevolezza - Maurice Merleau-Ponty

concluse che «al tempo è essenziale essere non soltanto tempo effettivo o

fluente, ma anche tempo consapevole della propria esistenza»248.

Un importante contributo sul problema del tempo, in relazione alla

soggettività si deve, come è noto, a Henri Bergson, che osservò

opportunamente - nel suo Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) - che il

tempo fisico non coincide con quello della coscienza. Il tempo come unità di

misura dei fenomeni fisici, infatti, si risolve in una spazializzazione, in un

orologio materiale, in cui ogni istante è oggettivamente rappresentato e

qualitativamente identico a tutti gli altri. Il tempo originario, invece, si trova in

quel livello della coscienza animale, istintiva, che lo conosce mediante

intuizione. Un tempo organico in cui ogni istante risulta qualitativamente

diverso da tutti gli altri.

L’essere umano non possiede una nozione di tempo assoluto. La percezione

e la misurazione della realtà sono processi selettivi soggettivi. La questione

critica riguarda il fatto che oltre ad essere l’animale intelligente l’essere umano è

anche l’animale sociale. Ciò significa che abbiamo bisogno di comunicare la

nostra presenza nel mondo. E la comunicazione si realizza nel presente: per

comunicare abbiamo bisogno di essere presenti. Essere presente significa superare

lo scarto temporale della percezione, arrivare a quel punto in cui mente e corpo

sono in contatto all’unisono nello spazio circostante, in sincronia temporale

con gli altri soggetti coinvolti in questo spazio. Ma come afferma Proust: «la

vita è vera per tutti ma differente per ciascuno»249, perché ognuno di noi vive

soggettivamente lo spazio-tempo. La parola, il linguaggio ci orientano verso il

mondo esterno, perché strutturano il nostro tempo soggettivo attraverso un

sistema metrico organizzato che è quello del linguaggio. Ma questo non ci

permette di penetrare il processo della coscienza che primordialmente parte dal

movimento. Il pensare-in-parola non basta per esprimere il nostro sé, abbiamo

bisogno di agire per comunicare gli impulsi che scaturiscono dalle emozioni e

248 Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della Percezione, Milano, Bompiani, 2003, p. 544.249 Proust, Marcel, cit. in Mariti, Luciano, Sullo spettatore teatrale oltre il dogma dell’immacolata perce-zione, cit., p. 21.

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dalle sensazioni, abbiamo bisogno di pensare-in-movimento250 e di interagire in una

sincronia cosciente per superare la barriera che ci separa dalla soggettività altrui.

Questo è il motivo per il quale l’arte è così importante per l’essere umano,

consente il contatto a quel livello prelinguistico e precognitivo che ci accomuna

tutti.

Come si realizza dunque la sincronia cosciente? E come può essere indagato

tale processo di comunicazione umana se il tempo che fonda la coscienza

percettiva della persona è soggettivo?

L’unico modo per indagare l’essere presente è comprendere l’arte vivente del

performer. Per analizzare il pensare-in-movimento e comprendere come si realizza la

sincronia cosciente nella comunicazione, è necessario entrare nel luogo che non

contiene il tempo ma che è tempo: il teatro come luogo di incontro delle

esperienze soggettive che attraverso il training cercano di mettersi in dialogo per

trascendere tali soggettività e arrivare a quel punto di transito in cui si è in

nessun luogo e in ogni luogo sincronicamente allo stesso tempo, per arrivare a

quel momento in cui si è in contatto primordialmente all’unisono.

Il pensare-in-movimento è un linguaggio che non è possibile codificare: è un

linguaggio che chiede di essere vissuto per poter essere compreso e appreso.

Questo pensiero cosciente, che nella sua elaborazione e per il suo significato

coinvolge l’intero background della persona, è un’azione che emerge solo quando

la persona è presente e allo stesso tempo coinvolta, nella sua totalità,

dinamicamente nell’ambiente: è quella coscienza percettiva che supera - perché

integra - la pianificazione dell’azione con l’esecuzione della suddetta azione.

Assumendo che il tempo può essere diviso in forme diverse, e che la

percezione umana del tempo è caratterizzata storicamente e culturalmente,

risulta opportuno indagare il tempo della performance come dimensione della

soggettività umana, considerando che tale dimensione è direttamente

proporzionale al potere decisionale del performer che agisce in relazione ad altri

individui coinvolti nello spazio d’azione.

Si possono trovare molti esempi di come il tempo sia visibile nel corpo in

movimento coinvolto in un’azione performativa. Dall’educazione fino al

250 Laban, Rudolf, L'arte del movimento, a cura di Eugenia Casini Ropa e Silvia Salvagno, Macera-ta, Ephemeria, 1999.

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processo creativo il tempo è l’elemento fondante dell’arte coreutica dal quale si

parte per strutturare la bio-meccanica del corpo-mente.

Nella danza il tempo è una dimensione sempre presente che si esperisce

attraverso un evento all’unisono con la partitura psico-fisica dell’esecutore.

Nella coreografia il tempo è diviso, è in-inprovisation, ossia

nell’improvvisazione, intendendo con ciò che nell’attuazione coreografica è

necessario che i performers prendano decisioni costantemente, in uno stato

conscio e inconscio, in relazione ai diversi modi in cui viene intesa e percepita,

nel momento presente, la temporalità dell’azione. Un performer deve tenere

conto: di quanto tempo un movimento necessita per essere sviluppato (ossia,

della propria unità temporale psico-fisica); del modo in cui i tempi si

sviluppano a loro volta all’interno del movimento (ossia, della scansione

tempo-ritmica del movimento); questi due fattori vengono determinati a loro

volta tenendo in considerazione le unità temporali psico-fisiche e la scansione

tempo-ritmica del movimento degli altri esecutori che agiscono nell’hic et nunc

dell’evento teatrale.

Il performer è già scored (come dice William Forsythe251) - ossia articolato,

accordato temporalmente - e durante una performance deve confrontarsi con altri

e diversi livelli di dinamica temporale. Vi sono una molteplicità di informazioni

tempo-ritmiche che fluiscono nelle performances, la responsabilità del performer è

scegliere costantemente a quale livello della struttura coreografica complessa

deve rispondere.

Ciò ha condotto il danzatore contemporaneo a considerare il tempo-ritmo

interno al suo corpo: un orologio interno che funge da pacemaker

nell’esecuzione del movimento coreografato. L’attenzione, lo sguardo,

l’ampliamento delle facoltà sensoriali del corpo - già implicate nella pratica del

balletto per il mantenimento della diacronia nel movimento - diventano, così,

fattori determinanti coinvolti nel processo di creazione sincronico della

coreografia contemporanea.

251 Forsythe, William, in Burrows, Jonathan, Interview with William Forsythe and Dana Caspersen,Frankfurt, 6 marzo 1998, www.jonathanburrows.info/#/text/?id=61&t=content (u.v. 13 otto-bre 2014).

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La geometria dell’esperienza252 altro non è che la trasformazione in movimenti

dell’universo intuitivo ed emotivo del performer, e la struttura temporale che il

corpo performativo crea è un’esperienza in cui l’altro viene rivelato da

meccanismi che provocano e sostengono reazioni oggettive e coadiuvano chi le

crea.

Il linguaggio coreo-grafico si rivela come la somma di più elementi, ovvero: del

corpo o dell’azione del singolo, che articola ciò che sa e ciò che è, in quanto

individuo, attraverso il suo corpo scenicamente costruito; e del corpo

performativo, ossia del lavoro che una compagnia realizza, il quale può essere

visto allo stesso modo come un corpo che è composto dalla somma dei

pensieri collettivi, e dai diversi modi di pensare dei corpi individuali.

Questi “corpi” si rivelano durante la performance grazie all’organizzazione

metodica e organica del contrappunto coreografico253.

L’intenso training permette ai performers di sviluppare una abilità

propriocettiva molto acuta, grazie alla quale l’intero corpo assume una

consapevolezza di sé che permette ai performers di capire intuitivamente e

organicamente in che modo i many-timed body experiences si connettono con gli

altri, e come queste sincronizzazioni possono agganciarsi ancora ad altre

temporalità.

Il danzatore contemporaneo arriva a quel punto di transito in cui spezza i

legami tra spazio e tempo. Spazio e tempo si fondono all’unisono ed il corpo

del performer diviene il medium nel quale scorre il flusso di energia: l’intero corpo è

uno.

Dice Nicole Peisl, performer della The Forsythe Company:

When you are really in balance and other things areintegrating: your instinct can work in a certain way, becauseit is in connection with the cerebrum, in connection with

252 La nozione di “geometria dell’esperienza” compare per la prima volta durante Architecture In-termundium, un laboratorio didattico sperimentale fondato e diretto dall’architetto Daniel Libe-skind a Milano dal 1986 al 1989. Cfr. anche Baudoin, Patricia, – Gilpin, Heidi, Proliferazione ePerfetto Disordine: William Forsythe e L’Architettura della Dissolvenza, in Guatterini, Marinella (a curadi), William Forsythe. Reggio Emilia Festival Danza, Reggio Emilia, Fondazione I Teatri di ReggioEmilia, 1989, 4 voll., vol. II, Il disegno che non fa il ritratto. Danza, Architettura, Notazioni, p. 11.253 Storicamente, il contrappunto è una tecnica compositiva ed esecutiva che consiste nell’asso-ciazione, in un complesso armonico, di due o più parti melodiche, più o meno autonome chese sovrapposte formano assonanze. Il contrappunto può essere inteso come un modo di far in-teragire ogni tipo di tema, tono, motivo, ritmo: un modo per far interagire il tempo soggettiva-to per mezzo dell’azione cosciente dell’uomo.

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Letizia Gioia Monda

your ratio and your thinking. You pendulate between yourinstinct and your ratio.254

Cercando di spiegare il più chiaramente possibile la conoscenza pratica del

corpo attraverso una terminologia teorica è possibile assumere che il danzatore

per poter realizzare lo stato di flusso ha bisogno di integrare mente e corpo. In

questo stato di balance255 il danzatore si pone l’obiettivo di strutturare lo spazio-

tempo dell’azione. Il performer crea la sua soggettiva dimensione spazializzando

il tempo. Ponendo in dialogo corpo istintivo e mente razionale, la coscienza del

performer si apre alle infinite non-possibilità del tempo-spazio. La connessione tra

mente e corpo diviene estremamente chiara nell’azione: le decisioni divengono

istintive. Corpo e mente sono in dialogo armonico: sono in sincronia nella

middle line256. In questo stato l’articolazione del corpo diviene fluida, veloce, ed

estremamente chiara. La percezione di sé è fluid spectrum. Nel flusso il danzatore

non ha bisogno più di essere concentrato, non c’è controllo ma solo pratica.

I danzatori acquisiscono il visceral thinking257 (come lo chiama William

Forsythe), e incorporando il campo d’azione diventano il medium attraverso il

quale l’energia scambia in-form-azioni con l’ambiente e con i corpi coinvolti

nell’evento.

Il performer smette di essere una soggettività e ne diventa molteplici allo

stesso tempo.

In questo modo, il pensiero-in-movimento diviene un principio “selettivo”.

Questa legge selettiva del tempo è una volontà che si deve volere. Pierre

254 L’intervista inedita con Nicole Peisl, dal titolo Interview in two steps with Nicole Peisl, è materialedi ricerca da me curato per la redazione della tesi di dottorato. L’intervista è stata realizzata indue momenti, la prima volta a Frankfurt am Main il 20 gennaio 2013, la seconda volta tramiteuna conversazione via skype il 12 febbraio 2013.255 Nello stato di balance il performer amplifica “attivamente” il suo universo: organizza se stessoin modo da produrre un continuo movimento ascensionale delle azioni e delle reazioni tra lasfera fisica e quella psichica. L’improvvisazione diviene organica quando il performer è in gradodi armonizzare percezione e propriocezione, input e output, consentendo all’esperienza somaticadi informarlo sugli impulsi che scaturiscono da questo stato di connessione.256 Middle line: è uno stato di balance del corpo-mente. Line si riferisce al modo in cui il performervisualizza il processo dinamico ed energetico che sta compiendo. Middle si riferisce allo stato diconnessione che si realizza per mezzo di questo processo, ossia il rapporto armonico tra corpoe mente nel mezzo dei tempi e tra gli spazi. Questo stato di balance si rivela in un grande sche-ma fisico che articola la polarità tra mente e corpo. Attraverso tale processo il danzatore incor-pora lo spazio arrivando a quel punto di transito in cui esso gli appartiene.257 Forsythe, William – Kaiser, Paul, Dance Geometry (Forsythe), intervista online, 1998,http://openendedgroup.com/writings/danceGeometry.html (u.v. 13 luglio 2014).

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Klossowski, infatti, dice - e proprio per questo si dimostra il principale

promotore del circolo vizioso di cui parla Nietzsche - che:

Nel momento della rivelazione, io cesso di essere io hic et nunc esono suscettibile di diventare infiniti altri, sapendo che tra brevedimenticherò questa rivelazione, non appena avrò perduto lamemoria di me stesso… E la mia coscienza attuale non si saràstabilita che nell’oblio delle mie altre possibilità.258

Volendo spiegare questo evento in termini fisici potremmo dire che il

tempo di un osservatore è uguale a quello di un altro osservatore quando viene

moltiplicato rispetto un certo fattore che dipende dalla velocità relativa dei due

osservatori. Quindi soggetti diversi esperiscono la stessa temporalità per mezzo

della velocità che si instaura nel rapporto dinamico tra i due soggetti. Ciò

chiarisce che la comunicazione teatrale si realizza a partire dalla relazione

performer-performer, e avviene per volontà dall’accordo spaziale dei tempi

soggettivi.

Il tempo soggettivato nella performance attraverso l’architettura spaziale della

coreografia si traduce nell’azione del corpo performativo il quale agisce in un

luogo dove si svolge una rappresentazione a sua volta organizzata. Il risultato

di questo algoritmo259 che nel luogo teatrale fa confluire l’azione del corpo

performativo e la reazione del pubblico si manifesta nella magia dell’evento, in

cui l’arte precede, e sopravvive ciò che va al di là dell’arte stessa: la coscienza

umana.

Il tempo risulterebbe impossibile da indagare, a meno che questo non venga

organizzato in una nuova struttura. Occorre mettere il tempo in musica per

comprendere la melodia, come questa porti un messaggio e come questo

messaggio arrivi a coloro che ascoltano. E per mettere il tempo in musica

occorre uno score con leggi che regolano l’organizzazione del corpo-mente nel

tempo-spazio. Questo “score estetico” organizzando il tempo realizzerà lo

spazio d’azione. Allora l’inevitabile soggettività si risolverà in una relativa

258 Klossowski, Pierre, Nietzsche e il Circolo Vizioso, Milano, Adelphi, 2013, p. 97.259 Come chiarisce Yiannis N. Moschovakis in What is an algorithm?, in Engquist, Björn - Sch-mid, Wilfred (a cura di), Mathematics Unlimited — 2001 and beyond, Springer, 2001, pp. 919–936,una definizione del concetto di algoritmo che sia formale e non tecnica manca tutt’ora e si èpertanto costretti ad accontentarsi dell’idea intuitiva di algoritmo come: una sequenza ordinatae finita di passi (operazioni o istruzioni) elementari che conduce ad un ben determinato risulta -to ( in questo caso la performance dal vivo) in un tempo finito.

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Letizia Gioia Monda

estetica oggettiva, e questo ci permetterà di indagare e comprendere la Body

Knowledge.

Nelle performance di coreografia contemporanea – di coreografi quali William

Forsythe, Deborah Hay, Jonathan Burrows e Matteo Fargion - si può osservare

dividere il tempo e il ricordo che si svela attraverso strutture temporali. Il

contrappunto coreografico, che si realizza nell’hic et nunc della performance, si svela in

quel magico momento in cui i tempi di tutti i soggetti coinvolti nell’attuazione

sono armonicamente soggettivati dall’azione del corpo performativo che li

traduce attraverso un’unica forma sincronica, in clock, cioè tempi visibili. Quel

punto è dove si smette di pensare e si inizia a vivere: in nessun luogo e in ogni luogo

allo stesso tempo.

L’intento di William Forsythe nel guidare la sua compagnia è proprio far sì

che durante la performance questa forma temporale venga bloccata visivamente,

creare nuclei visivi di riferimento260, fare in modo che durante la performance dagli

allineamenti spazio-temporali scaturisca un’immagine-tempo, si visualizzi un oggetto

sincronico coreografico. Quella stessa “immagine-tempo” di cui parla Gilles

Deleuze, che concepisce la temporalità negli stessi termini di Henri Bergson261.

Nelle performances le immagini-tempo, che riescono a rendere evidente questa

struttura temporale facendo pressione sullo spettatore, sono i punti di

cristallizzazione: il tempo si vede nel cristallo: nel contrappunto coreografico che

permette di catturare nell’hic et nunc il funzionamento interno del tempo stesso.

Dice William Forsythe:

Visual counterpoint in dance is quite obvious when you see it,but describing it in concise language that adequately expresses itsfunction, lets say, like an algorithm, is another matter. Thedefinition evolved slowly from “kinds of alignment in time” to“coincidence of attributes” and finally to “a field of action inwhich the coincidence of attributes of an organizations propertiesproduces an ordered interplay”. […] If everyone is in the sameposition (form/shape) and are all changing at the same rate, you

260 Rebecca Groves, Motion Bank: Investing in Dance Knowledge, in Gehm, Sabine – Husemann,Pirkko - Wilcke, Katharina (a cura di), Knowledge in Motion. Perspectives of Artistic and Scientific Re-search in Dance, New Brunswick and London, Transaction Publishers, 2007, p. 91.261 Deleuze, Gilles, Cinema 2. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 2006, p. 97: «Le grandi tesi diBergson sul tempo si presentano così: il passato consiste col presente che è stato; il passato siconserva in sé, come passato in generale (non-cronologico); il tempo si sdoppia a ogni istantein presente e passato, presente che passa e passato che si conserva». Proprio questo è ciò cheavviene per mezzo del corpo scored del performer: il passato si conserva attualizzandosi in un flui-do presente inconclusivo.

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have good old unison. But alter just one of the parameters of thatstate [velocity, position, direction] and the phenomenon ofcounterpoint starts to emerge. So to make it fairly simple,counterpoint emerges when some properties of unison areshared, but not all and not always. What makes counterpoint moststriking are the moments when each different attributeintermittently reverts predominantly to unison. Unison functionsas a base state from which to compare all further change andseems to provide some kind of instinctive visual gratification.262

Il lavoro di Deborah Hay consiste nel dis-attach263 dagli impulsi di

movimento notando tutto il corpo in una volta come suo insegnante,

assumendo l’intelligenza cellulare del suo corpo.

La nostra coreografa da quarant’anni lavora riconfigurando il suo corpo

tridimensionale all’interno di un corpo cellulare.

Durante la realizzazione del digital score Using the Sky264 per il progetto

Motion Bank, Hay racconta:

For 40 years when I am dancing I am reconfiguring my 3dimensional body into a cellular body. […]

If I am listening to the feedback from 380 trillion cells at onceI can’t hear one thing. There is no one thing. There is amultiplicity of experiences and it goes […] I am served by thatnon-linear feedback. And that’s the core of this material. […]

Just what if where I am is what I need and I notice thefeedback from that. And it’s changing every second. What if everycell in my body could perceive time passing? Time is passing, sowhat if every cell could perceive time passing?265

262 Forsythe, William, Synchronous Objects, online: http://synchronousobjects.osu.edu/content.-html#/CounterpointTool (u.v. 13 luglio 2014).263 Des-attachement (non-attaccamento): la pratica performativa di Deborah Hay è un des-attachmentdalla continuità della discontinuità del suo corpo coreografato. Il lavoro di Deborah Hay consi-ste nel dis-attaching il suo sé dall’impulso del movimento considerando tutto il corpo in una voltacome suo maestro. Il suo metodo conduce a rimuovere il comportamento istintivo e le tenden-ze di movimento dalla struttura della danza. Per mezzo di questa rimozione, di questo dis-atta-ching, lo spazio e il tempo sono sempre visibili. Come chiarisce in una nota nello score cartaceodi No Time to Fly, Hay usa la parola dis-attach, invece che detach, perché a suo avviso nel corso deltempo detach è diventato un concetto generalizzato, che ora spesso conduce a perdere di vistal’esperienza personale nella pratica. Dis-attach richiede più attenzione dal punto di vista di coluiche pratica. In questo modo il performer è in grado di soddisfare la necessità di riconoscere doveè prima di poter dis-attach se stesso da quello stato.264 Motion Bank, Hay, Deborah, Using the Sky, online;http://scores.motionbank.org/dh/#/set/sets (u.v. 13 luglio 2014).265 Hay, Deborah, Talking to Motion Bank score creation team, Frankfurt am Main, febbraio 2011.Materiali inediti presentati e distribuiti alla fine di un workshop Motion Bank.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Letizia Gioia Monda

Per Deborah Hay il lavoro sul tempo sta nel chiedersi: «What if every cell of

my body at once has the potential to perceive time passing, here and gone, here

and gone, here and gone?»266.

Come le potenzialità del corpo consentono l’esperienza di essere nel

momento: «What if every cell of my body has the potential to perceive my

movement as music? […] In this way, time is in your hands, your perception of

time is personal while your perception of space is temporal»267.

Il corpo, il suo insegnante, gli mostra il poetico contrappunto di spazio e

tempo.

La necessità della percezione spaziale sta nell’allargare la “presenza” e

realizzare il balance tra spazio e tempo: la percezione del tempo originale e la

percezione dello spazio che si lega a questa percezione.

«The performance of the material I gather to make a dance is what informs

the choreography of that dance. My practice of performance is how I learn

without thinking. My practice involves the continuity of discontinuity of my

choreographed body»268.

Dice Deborah Hay nello score cartaceo di No Time to Fly:

If I can manage my perception of time and space to informmy body, then I do not have to think about what movement to donext. What I mean by my perception of time is that it is passing.And what I mean by my perception of space is that include it inmy dancing so that I am not seduced by the intelligence, postexperiences, patterns, limitations, and/or sensuality of my movingbody.269

Forse il lavoro del coreografo Jonathan Burrows e del compositore Matteo

Fargion è quello che chiarisce meglio il concetto di contrappunto coreografico, in

quanto le loro opere si presentano come il perfetto risultato dell’impollinazione

incrociata delle due arti gemelle: danza e musica.

Per Matteo Fargion: «Time is something really relative with which you can

produce a different sort of experiences»270.

266 Hay, Deborah, The Continuity of Discontinuity, intervento presentato in occasione del TanzKon-gress, Dusseldorf, 7 giugno 2013, (registrazione, sbobinatura e note a cura dell’autore).267 Ibidem.268 Ibidem.269 Hay, Deborah, No Time to fly. A solo dance score written by Deborah Hay, New York, 2010, p. 8.270 L’intervista inedita con Matteo Fargion, dal titolo Interview with Matteo Fargion, è materiale diricerca da me curato per la redazione della tesi di dottorato. L’intervista è stata realizzata aFrankfurt am Main il 17 aprile 2013.

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Per Burrows il lavoro con Fargion inizia per comprendere quali siano le

differenze nella composizione di musica e danza, infatti, scrive: «The desire of

contemporary dance to assert itself as an art form in its own right, separate

from the music, has led it to let go of pulse as an organizing principle of

time»271.

Il linguaggio coreografico di questi due artisti si sviluppa a partire dallo score

cartaceo, che continua ad essere presente con loro in scena. La loro abilità

artistica sta nel leggere la musica mentre eseguono la coreografia. Nei loro Sette

Duetti272 il tempo concepito in termini musicali viene strutturato spazialmente

nello score coreografico.

Come dice Jonathan Burrows lo score può essere inteso come timeline:

consente il dialogo tra queste due forme d’arte, consente il dialogo tra tempo e

spazio. Lo score dà libertà, questo permette al performer di comprendere in che

consiste la relazione: che la relazione è anche non-relazione. Lo score consente di

percepire come si rivela l’intuizione, come l’idea si esperisce attraverso l’azione-

nella-percezione273.

Dice Jonathan Burrows che nel campo della danza e della performance ciò che

è interessante è la comprensione che nasce mettendo in relazione gli opposti.

Oggi la vera domanda è: «what is scoreble and what is unscoreble? What can we

put in the score and what we cannot?»274.

Il lavoro comincia quando il performer inizia ad essere in vita: presente. La

relazione nel tempo e nello spazio del corpo del performer permette di realizzare

il contrappunto.

Il corpo del performer così esperisce un tempo multiplo, ed è la strutturazione

dello score che gli permette di agire sincronicamente in tempi multipli.

271 Burrows, Jonathan, A Choreographer’s Handbook, London & New York, Routledge, 2010, p.125.272 Motion Bank, Burrows, Jonathan e Fargion, Matteo, Seven Duets, http://scores.motion-bank.org/jbmf/#/set/sets (u.v. 13 Luglio 2014).273 Noë, Alva, Action in Perception, Cambridge, The MIT Press, 2004. In quest’opera il filosofoAlva Noë definisce e chiarisce l’approccio enattivo alla percezione. L’azione-nella-percezione nellamia ricerca viene intesa come pensiero-in-movimento quando percepire per il performer significaimplicitamente comprendere: il modo in cui la stimolazione sensoriale si manifesta nel corpo-mente; e l’effetto che tale stimolazione ha sul movimento.274 Burrows, Jonathan, in Writing Dance, V workshop Motion Bank, Frankfurt am Main, Frank-furt Lab, 16-18 aprile 2013 (note a cura dell’autore).

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Letizia Gioia Monda

Una necessità intrinseca nell’essere umano, perché come dice Burrows:

«human beings like to share a beat»275.

Dicono Burrows e Fargion: «Counterpoint can be a formal way to orientate

yourself in relation to time by means of shared rhythm. ‘Counterpoint assumes

a love between the parts’ […]»276.

Il contrappunto coreografico, esplorando forme complesse di parallelismo e

sincronicità d’azione, permette di visualizzare ciò che percettivamente avviene

a livello temporale durante una performance, perché integra il livello astratto

mentale e il livello concreto fisico della body knowledge del performer:

«Counterpoint provides a way of writing or recognizing a detailed connection

in time and space between events»277.

Lo “score estetico”, che il performer ha incorporato dall’educazione al training

al processo creativo, viene utilizzato come una finestra temporale che viene

ripetutamente aperta e chiusa. Lo score coreografico, poi, produce una foto

incorniciata di un insieme di individui che, sollecitati da un complesso

strutturato di segnali (uditivi e visivi che istigano gli eventi), si muovono

organicamente insieme nello spazio scenico. Tale score lega insieme i tempi-

ritmi dei vari soggetti coinvolti nell’azione, questi vengono rielaborati dalle

intuizioni-azioni del corpo performativo, che produce un’azione che a sua volta

scandisce una struttura temporale, la quale di volta in volta si ricrea nuova nella

performance. La simultaneità di diversi flussi di immagini in movimento

garantisce la possibilità, non solo di avere immagini complesse e stratificate a

livello temporale, ma anche intricate costellazioni e giustapposizioni a livello

spaziale.

La performance di fatto diviene un ciclo iter-attivo. Un sistema organizzato, una

struttura di controllo, in cui l’algoritmo dello score è eseguito per mezzo del

corpo a loop. All’interno di questo loop si verifica l’eccezione, la danza si esprime

spontaneamente: la coreografia diviene geometria dell’esperienza.

275 Burrows, Jonathan, A Choreographer’s Handbook, cit., p. 127.276 Ivi, p. 139.277 Ivi, p. 140.

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Sessione VI

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Introduzione

Gli articoli, e gli studi correlati, diSayaka Yokota e di Giuseppe Buri-ghel presentano più disparità che so-miglianze: diverso il periodo storicoin cui si collocano, diversa la metodo-logia d’indagine, diversa la collocazio-ne artistica dei personaggi che pren-dono in esame. Di simile c’è sicura-mente, in entrambi, il desiderio dianalizzare e comprendere i processilinguistici, decostruttivi e ricostruttivi,messi in atto con riferimento alladanza da artisti che si connotano nel-le loro rispettive epoche come avan-guardie programmaticamente sovver-titrici.

Sayaka Yokota affronta l’indagine,in sé non nuova ma forse mai ade-guatamente approfondita, intorno alla“danza futurista”, danza esistita inrealtà assai più nel discorso che sullascena e che appunto nel discorsol’autrice sceglie di indagare. L’origina-lità dello studio risiede nella scelta diun punto di vista e di un concetto-chiave, attraverso i quali rivisitare leidee e la progettualità futurista. Lalettura si snoda attraverso i diversimanifesti del futurismo e altri testi diMarinetti e si concentra particolar-mente sui punti in cui viene messo ingioco il corpo e le sue facoltà perfor-mative. In particolare però, l’autriceanalizza i testi e il loro contenuto at-traverso la lente interpretativa dellasensibilità corporea personale cheMarinetti rivela in molti dei suoi scrit-ti e che potrebbe avere considerevol-mente contribuito alla sua ben notateorizzazione della necessità, perl’uomo nuovo del XX secolo, di uncorpo-macchina dinamico e possentee di una nuova danza muscolare e di-sarmonica, capace di “immensificarel’eroismo” e di sintetizzare “le divinemacchine di velocità e di guerra”.Partendo da questo punto di osserva-

zione, l’esaltazione dell’aeroplano edel volo, caratteristica di Marinetti macomune anche ad altri futuristi, per-mette poi a Yokota di usare proprio ilvolo come elemento chiave, che, vistoil rapimento del poeta nello speri-mentarlo in prima persona, può esse-re interpretato come ponte tra il pro-gettato corpo meccanizzato, quasi di-sumano, e quello idealmente alato,detentore di un’umanità evolutiva-mente rigenerata. E in questo passag-gio, individuato nel discontinuo di-scorso marinettiano, pare potersi col-locare la danza come strumento me-taforico e concreto insieme per la tra-duzione corporea dell’estetica futuri-sta.

Giuseppe Burighel, interrogandosiintorno ai testi della, sulla e per ladanza e alle relazioni linguistiche chepossono instaurarsi tra parola scrittae danza agita – a partire dall’anticatradizione del “libretto” oggi sostitui-to da altre forme di esplicazione e diracconto – sceglie di puntare la suaanalisi su di un artista contempora-neo d’avanguardia, Jérôme Bel, ana-lizzandone in particolare una perfor-mance esemplificativa. Il saggio, oltread evidenziare come le fonti letterariedei più attuali autori-sperimentatorisiano molteplici rispetto al passato eappartengano spesso più al campo fi-losofico che a quello narrativo, mira aportare in luce il processo semioticodi risignificazione di concetti attraver-so la loro reificazione scenica, proces-so che Bel mette in atto sperimental-mente, ispirandosi dichiaratamentealle teorie linguistiche di Roland Bar-thes e alle narrazioni di George Pe-rec. L’originale e non facile analisidella performance Nom donné parl’auteur (1994) si snoda piuttosto luci-damente, cercando di individuare erazionalizzare le diverse modalità del-

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Eugenia Casini Ropa

la costruzione di relazioni/sintagmisignificanti tra gli oggetti presenti eprotagonisti in scena – tra i quali, allapari, il corpo stesso del danzatore –che tentano di costruire un possibilenuovo discorso metalinguistico sulladanza stessa, sulla prossemica scenicae sulla relazione comunicativa e inter-pretativa performance/spettatore.Discorso complesso e controverso, dicui Burighel rileva giustamente, inchiusura, anche la forte valenza auto-referenziale, ovvero la sua portatastrategica per la costruzione dell’iden-tità autoriale di Bel, che si muove inun ambito artistico in cui i concetti diautore e di identità vengono conti-

nuamente e provocatoriamente ri-messi in discussione.

Se nel primo scritto, dunque, l’ana-lisi si sviluppa sul discorso teorico eprogettuale intorno alla danza e neporta in luce l’insita derivazione cor-porea, sensoriale, nel secondo, dallaconcretezza della performance sceni-ca, dove corpo e oggetti si incontranoin un dialogo materiale, si estrae la ri-flessione teorica, discorsiva. Nell’unae nell’altra modalità esplorativa, ladanza rivela la ricchezza delle suestratificazioni di senso e la molteplici-tà delle sue implicazioni linguistiche.

Eugenia Casini Ropa

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Sayaka Yokota

La danza nel futurismo: la sensibilità corporea di FilippoTommaso Marinetti

Nel presente lavoro, propongo una lettura dei manifesti futuristi di Filippo

Tommaso Marinetti allo scopo di evidenziare le osservazioni sul corpo

danzante e l’invenzione di una nuova arte coreica, da parte del futurismo

italiano. Si tratta di una proposta di fondo con cui revisionare la simbiosi tra

l’arte del corpo e la sensibilità futurista. La questione è stata esaminata come

punto chiave nell’introduzione della mia tesi di dottorato, La danza nel futurismo:

Giannina Censi e la danza moderna, discussa nel 2013278. A mio avviso, è necessaria

un’attenta rilettura degli scritti futuristi dal punto di vista degli studi sulla danza,

per esaminare i profondi mutamenti di percezione, rappresentazione e

incarnazione, tradotti in maniera molteplice nello svolgimento delle arti

futuriste.

Il movimento futurista, insofferente a staticità e passatismo, e caratterizzato

da un infaticabile slancio in avanti, verso il futuro, si abbandona a mutamenti

corporei e sensoriali radicali: questione non programmatica, ma di respiro,

nervi, sensi, vibrazioni e brividi di velocità. La realizzazione di questa

convinzione viene giustamente affidata al corpo umano ben allenato, al corpo

danzante. Molti critici, invece, hanno giudicato la danza come un’arte minore

per il futurismo, rispetto ad altri campi artistici. La nostra disciplina, infatti,

occultata fra le attività teatrali futuriste, è stata spesso trascurata dagli studi

sull’argomento fino ad anni recenti. Tuttavia, se si riesaminano in modo

capillare le azioni provocatorie dei futuristi e la loro fede nella nascita di un’arte

inedita, “nuova formula dell’Arte-azione”279, risulta evidente come l’arte del

corpo non sia rimasta episodio marginale all’interno del Movimento futurista. Anzi, per la

278 La mia tesi di dottorato, La danza nel futurismo: Giannina Censi e la danza moderna, è stata realiz-zata sotto la convenzione di co-tutela tra l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna e laTokyo University of Foreign Studies, con tutor Elena Cervellati e Tadahiko Wada. La discus-sione è avvenuta in Italia nel giugno del 2013, in Giappone nell’agosto del 2013.279 Dall’opera Guerra sola igiene del mondo, di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicata come mono-grafia dalle Edizioni Futuriste «Poesia», a Milano, nel 1915.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Sayaka Yokkota

genuina e intensa concentrazione fisica e psichica dei futuristi sulla figura in

azione, il corpo danzante, a partire già dal cosiddetto periodo “eroico”,

compare come tema preferito. Il danzatore, agile, è il solo che possa sentire

impulsi e ritmi frenetici, e che riesca a esprimerli in alto grado, attraverso la

reazione condizionata dei movimenti corporei. In effetti, con l’esplosione di

music hall e teatro di varietà, il corpo danzante calamita prepotentemente

sguardo, percezione, creatività degli artisti dell’epoca. A inizio Novecento, l’arte

della danza “innova”, nel cuore vivo delle avanguardie europee: periodo

febbrile nelle capitali, che ospitano stimolanti incontri tra danzatori,

intellettuali, poeti, teorici, attori, pittori. Il futurismo non fa eccezione: Filippo

Tommaso Marinetti, banditore di numerosi e scandalosi manifesti, benché

dilettante nell’arte del corpo, mostra una spiccata chiaroveggenza nel rinnovare

la danza in chiave futurista. Esaminiamo dunque i manifesti futuristi del

fondatore. È fondamentale far emergere l’ideologia di Marinetti, focalizzandosi,

in particolare, sul rapporto con il mondo della danza. In effetti, l’ideologia

marinettiana è frutto di una sensibilità più corporea e intuitiva che artistica, e di

una coscienza dell’influenza della rivoluzione sulla vita quotidiana e sul corpo

umano. Dunque, esaminando i suoi scritti, verranno evidenziate intuizioni e

invenzioni, lampanti e febbrili, derivate non solo da fantasie, ma da personali

sensazioni fisiche e psichiche, dai nervi e dal corpo dello stesso autore. Grazie a

questa particolare sensibilità, Marinetti, benché non fosse danzatore né

coreografo, comprese la necessità di osservare il corpo umano, e intuì,

soprattutto, la possibilità di stabilire una nuova arte del corpo.

Marinetti, pienamente consapevole del fenomeno evoluzionistico, sente

l’urgente esigenza di riformare il corpo umano. Se la tecnologia rende possibile

la massima velocità, attraverso comunicazione, informazione, infrastruttura e

trasporto terrestre, marittimo e aereo, il corpo, i suoi cinque sensi, il suo

movimento, e il suo essere nel mondo, devono necessariamente evolvere e

adeguarsi alla modernità del mondo circostante. Il fondatore del Movimento

concepisce una teoria dell’evoluzione, che vede l’uomo trasfigurato dalla

bellezza della velocità e della macchina. A questo proposito, il manifesto più

significativo è L’Uomo moltiplicato e il Regno della macchina, del 1910, in cui l’autore

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elabora il concetto di sviluppo biologico, fiducioso nell’imminente

miglioramento del corpo umano:

Bisogna dunque preparare l’imminente e inevitabileidentificazione dell’uomo col motore, facilitando e perfezionandouno scambio incessante d’intuizione, di ritmo, d’istinto e didisciplina metallica, assolutamente ignorato dalla maggioranza esoltanto indovinato dagli spiriti più lucidi.280

È necessario «uno scambio incessante», poiché movimenti fisici e gesti

quotidiani, nella vita della metropoli, non ammettono immobilità. L’uomo deve

riavvicinare le proprie facoltà alla massima velocità, e il mezzo che rende

possibile tale fusione uomo-macchina è l’evoluzione del corpo stesso:

Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile ditrasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nellacarne dell’uomo dormono delle ali.

Il giorno in cui sarà possibile all’uomo […] esteriorizzare la suavolontà in modo che essa si prolunghi fuori di lui come unimmenso braccio invisibile […] il Sogno e il Desiderio […]regneranno sovrani sullo Spazio e sul tempo domati.

Sarà dotato di organi inaspettati: organi adattati alle esigenze diun ambiente fatto di urti continui.

Possiamo prevedere fin d’ora uno sviluppo a guisa di prua dellasporgenza esterna dello sterno, che sarà tanto più considerevole,inquantoché l’uomo futuro diventerà un sempre migliore aviatore.

Uno sviluppo analogo si nota appunto, fra gli uccelli, neimigliori volatori.281

Marinetti, aderendo all’ipotesi ornitologica, sostiene la possibilità della

nascita di un uomo non-umano e aviatore: «nella carne dell’uomo dormono

ali». Trasformarsi in un uomo “eroe con l’ala” per volare in cielo, è un desiderio

sincero, finalmente realizzabile grazie alla tecnologia dell’aviazione. Avere le ali,

mezzo per volare in alto, sarebbe una formula razionale di un prototipo

dell’uomo sviluppato. Marinetti esalta, molto prima di altri, l’uomo-aviatore; è,

poi, di grande importanza sottolineare come le sue elaborazioni intellettuali

derivino da sensazioni corporee personalmente sperimentate. Quindi le opere

non saranno più quelle di pura fantasia, le creazioni marinettiane si baseranno,

invece, sull’esperienza personale di librarsi libero nell’aria. Marinetti, infatti,

realizza il sogno di volare in cielo, in occasione del Circuito aereo280 L’Uomo moltiplicato e il Regno della macchina. La prima pubblicazione, in forma di volantino, aMilano, risale al maggio 1910; il testo sarà nuovamente pubblicato su Guerra sola igiene del mondo,del 1915.281 Ibidem.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Sayaka Yokkota

internazionale di Milano, nel 1910. Scrive in Manifesto tecnico della letteratura

futurista, del 1912:

In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato ilventre dalla testa dell’aviatore, io sentii l’inanità ridicola dellavecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare leparole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo hanaturalmente, come ogni imbecille, una testa previdente, unventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali.282

Marinetti racconta di nuovo il suo primo volo, nel manifesto, La nuova

religione-morale della velocità, del 1916:

Quando volai per la prima volta coll’aviatore Bielovucic, iosentii il petto aprirsi come un gran buco ove tutto l’azzurro delcielo deliziosamente s’ingolfava liscio fresco e torrenziale. Allasensualità lenta stemperata delle passeggiate nel sole e nei fiori,dovete preferire il massaggio, feroce e colorante del ventoimpazzito. Leggerezza crescente. Infinito senso di voluttà.Scendete dalla macchina con uno scatto leggerissimo ed elastico.Vi siete levato un peso di dosso. Avete vinto il vischio della strada.Avete vinto la legge che impone all’uomo di strisciare.283

Volontà, sogno e desiderio umani cercano l’esteriorizzazione corporea, come uno slancio

che da invisibile voglia farsi visibile... come un immenso braccio invisibile... come il petto dove

s’ingolfa l’azzurro. Il poeta futurista, pienamente consapevole della dimensione

invisibile della coscienza umana, progetta dunque un “uomo moltiplicato”, e

per esprimere il sentimento non trascura la fisicità. Le sensazioni causate da

fenomeni esterni vengono interiorizzate dal corpo:

La velocità distrugge l’amore, vizio del cuore sedentario, tristecoagulamento, arterio-sclerosi dell’umanità-sangue. La velocitàagilizza, precipita la circolazione sanguigna ferroviariaautomobilistica aeroplanica del mondo284.

Ecco il concetto chiave del corpo futurista: il flusso del sangue è la velocità

interna al corpo dell’uomo moderno e, simultaneamente, il riflesso del flusso

incalzante del tram, del treno, della macchina e dell’aeroplano. In questo modo,

Marinetti descrive l’interazione tra velocità immanente al corpo, e trascendente

282 Manifesto tecnico della letteratura futurista. Il manifesto, datato 11 maggio 1912, è diffuso primain forma di volantino, in italiano e in francese, quindi pubblicato in italiano ne «La Gazzetta diBiella», il 12 ottobre 1912, e in tedesco in «Der Strum», n. 133, nell’ottobre 1912, a Berlino.283 La nuova religione-morale della velocità. La prima pubblicazione, in forma di volantino, è in data11 maggio 1916. Il manifesto sarà pubblicato a Firenze su «L’Italia futurista», anno primo, n. 1,1 giugno 1916; poi, pubblicato anche in francese, a Parigi, e in russo, a San Pietroburgo.284 Ibidem.

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il corpo. In questo processo di ricerca, il fondatore concretizza man mano

l’idea di un corpo ideale, corpo che possa mettere in scena un soggetto che

trascenda le possibilità umane.

Già nel primo manifesto di fondazione del 1909, Marinetti descrive l’atto

del danzare:

Verranno contro di noi, nostri successori; verranno di lontano,da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti,protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente,alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti inputrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche.285

Nel momento immaginario dell’alternanza di generazioni, i suoi giovani

successori giungeranno “danzando su la cadenza alata dei loro primi canti”. In

Uccidiamo il chiaro di luna!, inoltre, i futuristi, protagonisti del romanzo, escono

dalla città passatista, mondo dei «vigliacchi», «con un passo agile preciso, che

[sembra voler] danzare cercando ovunque ostacoli da superare»; gridando:

«Vogliamo delle ali! Facciamoci dunque degli aeroplani!» In fine, «[Il biplano] si

parte, nell’ebbrezza di un’agile evoluzione, con un volo vivace crepitante,

leggiero e cadenzato come un canto d’invito a bere e a ballare»286.

Così il danzare è espressione di speranza, gioia, e anelito al volo, desiderio di

staccarsi da terra. Marinetti fa riferimento più volte a ginnasti ed equilibristi,

come precursori del futurismo, osservando la loro capacità di esprimere

sensazioni attraverso il corpo, perché solo l’alta agilità fisica è in grado di

“performare” velocità, dinamismo e geometricità, che il fondatore vuole

catapultare nello spazio teatrale futurista. Ne Lo splendore geometrico e meccanico e la

sensibilità numerica, del 1914, egli scrive infatti:

Abbiamo come precursori i ginnasti e gli equilibristi, cherealizzano negli sviluppi, nei riposi e nelle cadenze delle loromuscolature quella perfezione scintillante d’ingranaggi precisi, e

285 Fondazione e manifesto del futurismo. Il manifesto è pubblicato in francese sulla prima pagina delquotidiano «Le Figaro» parigino, il 20 febbraio 1909, data d’inizio del movimento futurista. Inrealtà c’erano già state diverse prove in Italia, il 5 febbraio a Bologna, poi a Napoli, Mantova,Verona, Trieste e Roma.286 Uccidiamo il chiaro di luna. L’opera è pubblicata per la prima volta, in francese, nell’aprile 1909,in «Poesia», nn. 7-8-9; quindi diffusa in forma di volantino, nello stesso anno. Il romanzo saràripubblicato in diverse versioni. Corsivi miei.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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quello splendore geometrico che noi vogliamo raggiungere inpoesia colle parole in libertà.287

È interessante inoltre un riferimento ne Il Teatro di Varietà:

Il Teatro di Varietà offre il più igienico fra tutti gli spettacoli,[per il] suo dinamismo di forma e di colore (movimentosimultaneo di giocolieri, ballerine, ginnasti, cavallerizzi multicolori,cicloni spiralici di danzatori trottolanti sulle punte dei piedi). Colsuo ritmo di danza celere e trascinante, il Teatro di Varietà trae perforza le anime più lente dal loro torpore e impone loro di correree di saltare.288

Ginnasti, equilibristi, acrobati, giocolieri, ballerine e cavallerizzi sono corpi

esperti, in grado di moltiplicare e intensificare se stessi. I corpi allenati alla

rincorsa e al salto, azioni che preludono al volo, allo staccarsi dal suolo contro

la forza di gravità, ispirano a Marinetti l’ideale “uomo moltiplicato”, capace di

esibire sensibilità e mentalità nuove attraverso senso del ritmo e tecnica rodata,

artefice, quindi, di un’arte futurista del corpo. Sotto questo aspetto, è

importante ribadire l’interesse di Marinetti per le potenzialità dell’espressione

corporea. Nello stesso manifesto, egli sostiene l’utilità della danza anche a fini

propagandistici: la danza, infatti, «spiega in modo incisivo e rapido i problemi

più astrusi e gli avvenimenti politici più complicati»289.

Quest’emblematica esibizione della Varietà ispirò al drammaturgo futurista

uno spettacolo di danza, di tema sociale e bellico. Marinetti non cessa di

ammirare la nuova arte del corpo, e, l’8 luglio 1917, pubblica un nuovo

manifesto La danza futurista (Danza dello shrapnel – Danza della mitragliatrice –

Danza dell’aviatore); finalmente una danza con il “corpo moltiplicato dal

motore”.

Il 14 aprile 1917, provocando stupore, “meraviglioso futurista” sul

palcoscenico, Giacomo Balla realizza un balletto senza danzatori per solidi e

luci in movimento, al Teatro Costanzi a Roma in occasione della tournée dei

Balletti Russi. Per il leader futurista, si tratta di un debutto trionfale del

287 Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica. Il manifesto è pubblicato in forma divolantino, in data 11 e 18 maggio 1914, in versione italiana e francese, poi in «Lacerba», annoII, n. 6, il 15 marzo 1914 (Lo splendore geometrico e meccanico nelle parole in libertà), e n. 7, l’1 aprile1914 (Onomatopee astratte e sensibilità numerica).288 Teatro di Varietà. Il manifesto è diffuso in forma di volantino, in data 29 settembre 1913, siain italiano che in francese. È pubblicato in «Lacerba», n. 19, I, ottobre 1913, e in «The Mask»,n. 6, 1913, a Firenze; poi in inglese in «Daily-Mail»; e in russo, in «Teatr I Iskusstvo», n. 5, 1914.289 Ibidem.

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futurismo nel mondo della danza; il fondatore racconta la serata nel proprio

diario, dichiarando di aver anticipato la nascita della danza futurista:

Io scrivevo 8 anni fa, noi andremo alla guerra danzando. Eccoperché vegliando una notte di bianchi razzi lentissimi e di vampeveloci sulla riva d’un torrente imbottito di cadaveri io inventai ladanza futurista dello shrapnel e della mitragliatrice.290

Questi appunti di Marinetti, evidentemente minuta del manifesto de La

danza futurista, saranno portati a termine dopo tre mesi, con questo grido di

premessa:

Io scrissi otto anni fa: ‘Noi andremo alla guerra danzando ecantando!’ Ecco perché oggi sulle rive imbottite di cadaveri dellaVertoibizza, sotto una volta di traiettorie rombanti, fra millevampe veloci, a ventaglio, mentre molleggiano bianchissimi razzitroppo lenti spasimosi estenuati, […] ho avuto la visione nuovadella danza futurista.291

Proponendo un dramma coreico, Marinetti arriva perfino a elaborare il

“libretto” di tre danze futuriste: Danza dello shrapnel, Danza della mitragliatrice e

Danza dell’aviatore, con indicazioni su scenografia, costume e movimento della

danzatrice protagonista. Rileviamo che le tre danze futuriste sono danze del

corpo autonomo: non del corpo anonimo, ricambio sostituibile della massa; né del

corpo marionetta impersonale, nascosto da costumi immensi, come avverrà negli

anni Venti, anche all’interno del movimento futurista. Il fondatore del

futurismo, invece, intuisce la possibilità di moltiplicare e intensificare le capacità

umane proprio attraverso il corpo, per intenderci, attraverso l’organo e il suo

funzionamento fisiologico. Infatti, Marinetti, nel suo “libretto”, si affida a un

corpo danzante, come protagonista della scena, esclusivamente al corpo della

danzatrice.

È molto significativo per noi, il fatto che Danza dell’aviatore riproponga una

problematica affrontata anche dai maestri di balletto agli albori dell’Ottocento:

come si possa danzare in cielo come se si avessero le ali. In altre parole,

Marinetti continua a “rincorrere” il sogno umano di volar danzando. Il290 Marinetti, Filippo Tommaso, Taccuini 1915-1921, a cura di Alberto Bertoni, Bologna, il Muli-no, 1987, p. 70.291 La prima pubblicazione è ne «L’Italia futurista», anno II, n. 21, l’8 luglio 1917; il manifestosarà ripubblicato con modifiche, in «Roma futurista», il 7 maggio 1920. La versione francesesarà pubblicata a Parigi ne «L’esprit nouveau », n. 3, 1920.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Sayaka Yokkota

“libretto” marinettiano non viene messo in scena al momento della

pubblicazione del manifesto, ma teoria e concetti del poeta futurista non

devono, per questo, essere considerati insufficienti e irrealizzabili. Anzi,

Marinetti ci mostra tutta l’acuta perspicacia con cui coglie sia l’innovazione, che

in quegli anni attraversa il balletto accademico, sia lo sviluppo concettuale del

corpo che danza. Infatti, l’idea marinettiana del corpo danzante, che simula

l’aeroplano e volteggia in cielo, rappresenterebbe la versione sviluppata e

modernizzata del corpo volante ottocentesco della danza “semi-aerea”. Se il

balletto romantico realizza la danza “semi-aerea” con le ali all’epoca

dell’aerostato, anche il sogno futurista di volare danzando sarà concretizzato da

una danzatrice con le ali: le ali non sono più quelle femminili e leggere sulla

schiena, ma quelle dinamiche e energico-meccaniche dell’aeroplano. Giannina

Censi, formatasi alla scuola della Scala, completa la sua Aerodanza, nel 1931,

con l’aeropoesia recitata proprio da Marinetti. Se Maria Taglioni, nell’epoca

dell’aerostato interpretava un volo più leggero dell’aria, nell’epoca

dell’aeroplano la danzatrice futurista, nel desiderio di creare una nuova danza,

interpreta il volo acrobatico, impersonando la machina volante

dell’aeroplano292.

Tornando al manifesto La danza futurista, a conclusione del testo, Marinetti

esprime la propria intenzione per la nuova arte coreica:

Questo mio manifesto annulla tutte le danze passatiste che nonsi devono rievocare, né esumare, né rinnovare. Non esclude però altreconcezioni di danze futuriste che i nostri geni novatori darannosicuramente.293

Il Manifesto “si apre”, quindi, alla possibile nascita di migliaia di nuove

danze futuriste. L’autore, importante sottolinearlo, non “pronuncia” il

definitivo compimento dello stile di danza futurista. Convinto che possano

nascere “altre” nuove danze, alla futurista, proprio quelle che erano mancate

sino ad allora e ribadendo di aver sostenuto sin dall’esordio del Movimento le

azioni-danza, il fondatore futurista dà il via alla concreta realizzazione della

nuova arte coreica in un momento propizio all’azione.

292 Cfr. Yokota, Sayaka, Il corpo danzante del futurismo: storia dell’aviazione e tentativo di volare danzan-do, in «Danza e ricerca», n. 3, novembre 2012, pp. 61-83.293 La danza futurista, cit.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

Per concludere, se Marinetti è incantato dalla bellezza della macchina, egli

stesso cerca di esserne partecipe, con tutte le proprie forze, a ritmo di

contrazioni muscolari, pulsazioni e palpitazioni, senza mai mettere in secondo

piano il corpo rispetto alla coscienza: Marinetti è convinto che il corpo possa “agire”

la nuova arte futurista. Consciamente o inconsciamente, il fondatore intuisce la

possibilità di una nuova danza che realizzi la bellezza futurista: le potenzialità

del corpo danzante, sempre in movimento nel tempo e nello spazio. Tutte

queste sperimentazioni derivano, in realtà, come abbiamo già sottolineato, da

un’acuta e insolita sensibilità: la cognizione corporea di Marinetti è il sensore più attivo

del movimento futurista.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Giuseppe Burighel

I testi e la danza.Jérôme Bel autore di Nom donné par l'auteur

Le langage est derrière tous mes spectacles: undictionnaire actionne le processus de Nom donné; on tracedes mots sur un tableau et sur les corps de Jérôme Bel; les t-shirts imposent leurs inscriptions comme des motsd'ordre dans Shirtologie; le performatif motive Le Dernierspectacle; je presse la musique pop de The Show pour lui fairesortir son texte […]. Alors, oui, cette littératureperformative semble bien être à l'horizon de ma danse. 294

Premessa

In passato, ha narrato avventure, favole, miti, allorché fu posta al servizio di

letterati, scrittori e scenaristi; ancora oggi, la danza, arte dell'effimero per

eccellenza, si mostra capace di farsi racconto, attraversando così anche le

vicende personali dei suoi stessi interpreti. Da questo punto di vista, la danza

appare come l'estensione fisica del pensiero dell'autore, e lo scrivere la (o per

la) danza l'atto che ne interpella il corpo.

Se continuiamo a volgere lo sguardo al passato, ci accorgiamo che non ci fu

un professionista preposto a scrivere la danza - abbiamo riferito di letterati, a

vario titolo «amateurs» o «hommes du métier», ma anche gli stessi maîtres de ballet

hanno scritto storie per il balletto295 - i testi, invece, possono essere considerati

delle varianti della medesima forma letteraria, ossia il libretto. Se in ambito

musicale il libretto d'opera raccoglieva le parole dello spettacolo e conteneva le

spiegazioni delle differenti scene di un balletto, il libretto di ballo, invece, era

una sorta di scenario, la presentazione dell'argomento o del soggetto della

coreografia. Il suo piccolo formato, spesso nemmeno fatto oggetto di

pubblicazioni, si prestò a variazioni e adattamenti, ad esempio confluendo nel

programma di sala dello spettacolo, figurando come sinossi legata alla

partizione musicale, oppure comparendo in un resoconto giornalistico296. Se si

294 Jérôme Bel intervistato da Goumarre, Laurent, in Id., Jérôme Bel, la perte et la disparition, in«Art Press», n. 266, marzo 2001, pp.15-18: p. 18.295 Cfr. Laplace-Claverie, Hélène, Écrire pour la danse, Paris, Honoré Champion, 2001, p. 53.296 Ivi.

“Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”, anno VII, numero 6, 2015

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Giuseppe Burighel

considerano, allora, le forme del balletto, è indiscutibile il rapporto di

dipendenza che quest'ultimo ha intrattenuto con il libretto di scena. Il critico

Philippe Varrièle, all'interno di una ampia riflessione sulle difficoltà a scrivere

per la danza, ne ridefinisce, in ottima sintesi, il ruolo.

Écrire pour la danse, surtout dans la logique des dix-huitièmeet dix-neuvième siècles où le ballet se veut d'abord formedramatique, c'est, dans l'esprit de l'époque, concevoir une actionsous la forme d'un texte qui prend une place importante dansl'économie du spectacle: le livret.297.

Forma letteraria autonoma alla fine del diciannovesimo secolo e all'inizio del

ventesimo secolo, con l'avvento dei Ballets Russes, considera Varrièle, il libretto

cambia ruolo, in quanto con Serge Diaghilev avviene una rottura con una certa

tradizione narrativa della danza.

Serge Diaghilev n'envisage pas l'œuvre chorégraphique commeune action, mais comme la rencontre entre un chorégraphe, unmusicien et un peintre. Le librettiste n'y a plus de rôleprépondérant et on remarquera facilement que si la galaxie desBallets Russes agglomère des artistes de tous les domaines, leslittérateurs en sont les plus absents, à l'exception de Cocteau, maisl'exemple n'est pas le meilleur.298

I testi che oggi si scrivono per parlare di danza, come intelligentemente

osserva Varrièle, sembrano anch'essi curiose variazioni di quel modello. Di

fatto, pur in un superamento delle forme narrative proprie del libretto, i testi

che oggi ruotano attorno allo spettacolo di danza aprono, come si diceva, a

diversi piani di racconto, e ciò anche a partire dagli innovativi e originali

progetti autoriali dei coreografi.

Pourtant, il ne faudrait pas croire que la disparition dulibrettiste en tant que tel ait entrainé la disparition du livret. Celui-ci, dans l'esprit et même parfois dans la forme, est encore trèsprésent dans la création contemporaine. Il a simplement changé denom. On l'appelle maintenant «note d'intention», «argument»,«note du chorégraphe» et c'est ce texte qui ouvre en général ledossier de présentation d'une œuvre chorégraphique lorsque lefutur auteur de celle-ci sollicite une subvention auprès duministère de la culture ou d'une municipalité. L'argument que l'on

297 Varrièle, Philippe, Le maux pour le dire. La danse française contre sa critique in Gioffreddi, Paule (acura di ), A l'(a) (r)encontre de la danse contemporaine, porosités et résistances, Paris, L'Harmattan, 2009,pp. 175-184: p. 176.298 Varrièle osserva che Cocteau è presente nelle produzioni dei Ballets Russes anche in veste didisegnatore. Cfr. Ibidem.

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Dossier “La danza nei dottorati di ricerca italiani”

retrouve dans tous les dossiers administratifs (ou pour la vente duspectacle) fonctionne dans un mélange unique de poésiemaladroite et d'explications hasardeuses du propos sur les mêmeslogiques que celles du livret. Dans le fond, la seule différence tientà ce que l'auteur en est souvent le chorégraphe lui-même.299

Alla ricerca di forme nuove di linguaggio: Jérôme Bel autore

A metà degli anni Novanta del secolo appena trascorso, nelle creazioni di

buona parte dei giovani danzatori francesi300, con il ricorso a forme discorsive -

interrogando le radici della danza contemporanea, la natura del corpo

danzante, o cosa voglia dire fare teatro - anche le letture, in particolare di

filosofi contemporanei, degli stessi danzatori, sono diventate fonti d'ispirazione

coreografica. La danza sembra passare così dal piano che fu dell'azione - come

ci ricorda Varrièle - allo spazio mentale di elaborazione del progetto

coreografico, dove il testo, inteso allora come espressione del pensiero, o come

riferimento intellettuale, apre a nuove forme di racconto. Di fatto, in virtù di

un'idea della danza come spazio mentale, anche la relazione che essa intrattiene

con i testi assume oggi nuove originali connotazioni: probabilmente di minore

dipendenza dal testo, nel senso di un'arte che si limiterebbe a interpretarne le

parole attraverso il corpo, e, invece, di maggiore complementarietà, nell'idea

piuttosto che, prima ancora di essere gesto, la danza sia espressione del

pensiero. Questa mia riflessione è parte integrante di una ricerca di dottorato,

in corso attualmente301, dove si cerca di tenere conto degli aspetti discorsivi

caratterizzanti in particolar modo l'espressione performativa della danza

prodottasi in Francia nell'ultimo ventennio, col tentativo di specificarne,

attraverso un esercizio interpretativo, le finalità, più genericamente considerate

di rottura verso il sistema secolare della rappresentazione scenica. Nel caso di

Jérôme Bel, esponente di primo piano di un'idea allora di danza “discorsiva”,

299 Ivi, pp. 178-179.300 Ci si riferisce a una generazione di giovani danzatori, quali Alain Buffard, Boris Charmatz,Xavier Le Roy, Jérôme Bel, Myriam Gourfink, Claudia Trozzi, per citarne solo alcuni, che, difatto, ha innovato la scena francese e internazionale, con pratiche e proposte coreografiche in-tese a sovvertire la concezione stessa della danza e del danzatore. 301 La ricerca di dottorato Herméneutique des discours chorégraphiques émergents. Le débat en France(1993-2013) da me condotta, è stata avviata nel 2012 all'Edesta dell'Università Paris 8, sotto ladirezione della Prof.ssa Isabelle Moindrot, e, a partire dalla sua seconda annualità, sulla base diuna convenzione di cotutela, prosegue oggi anche al Dipartimento della Arti dell'Università diBologna con la co-direzione della Prof.ssa Elena Cervellati.

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considero i testi filosofici che il coreografo ha dichiarato essere stati una fonte

d'ispirazione per lui.

Dapprima danzatore per Angelin Preljocaj, Régis Obadia, Daniel Larrieu,

Caterina Sagna, Philippe Decouflé, nel 1992 Jérôme Bel cominciò a

sperimentarsi anche come coreografo, con il desiderio di innovare il linguaggio

teatrale, convinto che un autore, per potersi considerare tale, debba potere

imporre un suo linguaggio. Nel frattempo, egli aveva conosciuto le teorie di

Marcel Duchamp, letto gli scritti di molti filosofi, tra cui Michel Foucault,

Gilles Deleuze, Louis Althusseur e, soprattutti, Roland Barthes. Queste letture,

da un lato rappresentarono il cibo per la mente dell'uomo, dall'altro sancirono

l'atto di costruzione dell'identità dell'artista: da danzatore, quindi, a novello

scrittore della scena. Scrittore per sua stessa ammissione, quando affermò di

scrivere per la scatola nera della scena come lo scrittore scrive per la pagina

bianca del libro302.

All'epoca in cui, nel suo appartamento con l'amico danzatore Frédéric

Seguette, egli lavorava al suo primo spettacolo (Nom donné par l'auteur, 1994), la

lezione strutturalista, in particolare degli Éléments de sémiologie del filosofo

Roland Barthes, era ben presente a suggerirgli la via da percorrere per la

definizione di un linguaggio scenico. Barthes trattò la nozione di linguaggio

sotto forma di dicotomie, come, ad esempio, la dicotomia fra lingua e parola,

per mezzo della quale il linguaggio viene visto dal filosofo quale processo

dialettico fra un sistema di valori, la lingua, e l'atto individuale di selezione e di

attualizzazione realizzato dalla parola. Da qui, come passare da un sistema di

significazione ad un altro diverso sistema significante? Barthes stesso, del resto,

sottolinea che «la notion Langue/Parole est riche de développements extra- ou

méta-linguistiques. On postulera donc qu'il existe une catégorie générale

Langue/Parole extensive à tous les systèmes de signification »303. Il danzatore, lui,

si troverebbe in una dicotomia del tipo Passi di danza/Movimento. Per risolverla,

302 Siegmund, Gerald (a cura di), [intervista on line senza titolo], in «Jérôme Bel», www.jerome-bel.fr/textesEtEntretiens/detail/?textInter=divers%20%20tanz%20aktuell%20ballet%20,L’intervista si trova anche in versione cartacea sulla rivista «Tanz aktuell ballet international»,marzo 2002. 303 Barthes, Roland, Éléments de sémiologie, in Id., Œuvres complètes, Paris, du Seuil, 1994, vol. I, pp.1469-1516: p. 1478.

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Jérôme Bel decise di passare dal sistema dei corpi danzanti ad un sistema di

oggetti, sulla base del principio di reificazione, ovvero traducendo i concetti in

cose, oggetti materiali304.

Communément, nous définissons l'objet comme 'quelquechose qui sert à quelque chose'. L'objet est, par conséquent, àpremière vue, entièrement dans une finalité d'usage, dans ce qu'onappelle une fonction. Et, par là même, il y a, spontanément sentiepar nous, une sorte de transitivité de l'objet: l'objet sert à l'hommeà agir sur le monde, à modifier le monde, à être dans le monded'une fonction active; l'objet est une sorte de médiateur entrel'action et l'homme […] Le paradoxe que je voudrais signaler, c'estque ces objets qui ont toujours, en principe, une fonction, uneutilité, un usage, nous croyons les vivre comme des instrumentspurs, alors qu'en réalité ils véhiculent d'autres choses, ils sont aussiautre chose: ils véhiculent du sens; autrement dit, l'objet serteffectivement à quelque chose, mais il sert aussi à communiquerdes informations; ce que nous pourrions résumer d'une phrase, endisant qu'il y a toujours un sens qui déborde l'usage de l'objet.305

L'idea di un «teatro di cose», riprendendo la definizione del critico Gerald

Siegmund306, permise al danzatore Bel di ripensare la coreografia all'interno di

un sistema di segni, e quindi di significanti e di significati. In tal senso, quali

sono le circostanze che possono rinviare gli oggetti ad un processo di

semantizzazione? A ben considerare, un tale processo di significazione ha

inizio quando gli oggetti entrano in relazione gli uni con gli altri. Negli Éléments

de sémiologie, Roland Barthes individua i piani che, già fin da Saussure in realtà,

legano i segni linguistici: un primo piano dei rapporti è rappresentato dai

sintagmi, « une combinaison de signes qui a pour support l'étendue »307; un

secondo piano sono le associazioni, o piano paradigmatico. Il sistema coreografico

degli oggetti esplorato da Jérôme Bel in Nom donné si presenta piuttosto come

un sintagma, una forma concatenata di articolazioni, articolazioni che possono

suddividersi in unità paradigmatiche all'interno dello stesso sistema.

304 Un primissimo esempio di reificazione nello spettacolo è dato dalla scenografia, realizzatacon le lettere (N,S,E,O) dei quattro punti cardinali. Il concetto che qui viene reificato si leghe-rebbe ad un'altra concezione dello spazio teatrale, attraverso quindi punti di riferimento geo-grafici, e non più culturali, rispetto ai quali il pubblico puo' collocarsi e orientarsi, o meglio rio-rientarsi.305 Barthes, Roland, Sémantique de l'objet, in Id., Œuvres complètes, Paris, du Seuil, 1994, vol. II, pp.65-73: pp. 66-67.306 Siegmund, Gerald, (a cura di), «Tanz aktuell ballet international»,cit.307 Barthes, Roland, Éléments de sémiologie, cit., p. 1498.

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Nom donné par l'auteur, uno spettacolo di oggetti

Presentato in première a Lisbona nel 1994, lo spettacolo Nom donné par l'auteur

è annunciato sotto forma di definizioni. Il titolo è la definizione stessa di

«titolo» tratta dal dizionario Petit Robert, e allo stesso modo il genere è

dichiarato integrando la definizione di «spettacolo» alla note d’intention

(«spectacle: n.m. Ensemble de choses ou de faits qui s'offre au regard, capable

de provoquer des réactions»)308. Queste definizioni, così come quella di «aria» o

di «ombra» pronunciate nel corso dello spettacolo, rivelano la volontà di ridurre

in termini discorsivi l'oggetto coreografico. Siamo, infatti, in presenza di un

autore che interroga il linguaggio per mezzo di un dizionario, un elemento che

è presente sulla scena insieme ad altri nove oggetti: un tappeto, una scatola di

sale, un assegno bancario, un pallone, un paio di pattini da ghiaccio, una

lampada tascabile, un aspiratore, un'asciugacapelli, uno sgabello, oltre ai corpi

dei due danzatori, anch'essi ridotti a meri oggetti scenici309. La scrittura

coreografica, senza alcun margine di improvvisazione, avanzando attraverso

aggiunte e sottrazioni di elementi, sulla base di spostamenti dei corpi in

orizzontale e/o verticale, e secondo disposizioni di oggetti - agencements - si

presenta come la scrittura di un sintagma alla prova di commutazione. Ragione

per cui, introducendo un cambiamento nel piano dell'espressione (dei

significanti) si tenta di verificare se ciò porti ad una modificazione anche del

contenuto (dei significati)310. Che cosa cambia, dunque, nella costruzione del

senso di un movimento quando si combinano all'infinito nello spazio una serie

di elementi? Come prima azione, l'uno di fronte all'altro, i due danzatori

(Frédéric Seguette e lo stesso Jérôme Bel), si offrono degli oggetti. Il sintagma

che essi costruiscono si presenta come una articolata partitura scenica, partitura

che io traduco qui con una sorta di espressione algebrica :

dizionario + pallone; sale + assegno; pallone + lampada; pattino + pattino;

aspiratore in azione + lampada; sgabello + pattino; asciugacapelli in azione +

308 Dal comunicato stampa dello spettacolo.309 «[…] je voulais utiliser le corps comme un objet et, bien plus tard, j'ai compris que cette ob-jectivisation du corps correspondait à une vision de danseur. L'instrument du danseur étant lecorps, il n'en est pas moins objectif que le violon du violoniste ou le sécateur du jardinier[...]».Bel, Jérôme - Charmatz, Boris, Emails 2009-2010, Paris, Les presses du réel, 2013, p.76.310 Cfr. Barthes, Roland, Éléments de sémiologie, cit., p. 1502.

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dizionario aperto; (dizionario aperto + lampada)+(sale + asciugacapelli);

pallone + pattino ↔[inversione] pattino + pallone; pallone + sgabello;

aspiratore in azione + tappeto sollevato; sale + sgabello; aspiratore in azione +

asciugacapelli in azione; [BUIO; LUCE stessa scena] inversione del tappeto sul

quale gli oggetti erano stati posizionati = inversione dei posti occupati dai

danzatori = inversione dei punti cardinali sulla scena

Le combinazioni successive saranno costruite attraverso movimenti di

sovrapposizione; si esplorano così le possibilità che un oggetto ha di contenere

un altro oggetto, o, al contrario, di farsi contenere. Qualche esempio: l'assegno

dentro il dizionario sul quale Frédéric è salito; Jérôme seduto sul dizionario con

dentro l'assegno, e Frédéric in piedi sopra lo sgabello; il bordo del tappeto nel

dizionario sul quale Frédéric è salito, e l'assegno sotto lo sgabello sul quale

siede Jérôme; Jérôme seduto sullo sgabello con il dizionario a terra che prende

il bordo del tappeto, e Frédéric in piedi sopra l'assegno. Questi sintagmi di

oggetti intrecciati rivelano volumi e altezze diversi, imponenendosi nello spazio

con un movimento dei corpi e degli oggetti che dà luogo ad una danza

minimalista. Jérôme Bel scrive la scena esplorando anche le dinamiche di

causalità. Così, se uno dà un calcio al sedere dell'altro, o ancora, se uno tira il

pallone, gli effetti (spostamenti) differiranno a seconda della natura

dell'oggetto. Allo stesso modo, pensando di realizzare un sintagma circolare, il

coreografo predispone una situazione in cui un primo oggetto trascina un

secondo oggetto e così di seguito; ovvero, l'asciugacapelli respinge il corpo di

Jérôme che aziona l'aspiratore utilizzato da Frédéric per aspirare il sale, salvo

rovesciare lo sgabello con il dizionario sopra che viene raccolto dallo stesso

Frédéric il quale, per liberarsi dai pattini a loro volta trascinati dai piedi,

inavvertitamente dà un calcio alla scatola del sale che finisce così sul tappeto

che farà poi volare l'assegno che viene raccolto da Jérôme finendo nelle tasche

di quest'ultimo. I sintagmi diventano precari e fragili quando Frédéric cammina

con il dizionario sulla testa e Jérôme si trova in equilibrio sul pallone, o anche

quando Jérôme è in piedi sul pallone con il dizionario sulla testa. I sintagmi

diventano impossibili quando i due danzatori cercano di riprodurne la forma

spostando oltre le quinte i bordi della scena, ovvero spostando i quattro punti

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cardinali che la delimitano. I sintagmi inventati da Jérôme Bel reificano così i

codici scenici, mostrando lo spazio in termini di direzioni, di volumi, ma anche

di limiti spaziali, o di sfida alla forza di gravità. In altri termini, Jérôme Bel

disseziona i codici del linguaggio teatrale e coreografico - spazio, scena, passi di

danza, prospettive - mirando ad un linguaggio tutto nuovo che si discosta

propriamente sia dalla coreografia che dal teatro, pur restano un linguaggio

della scena, e probabilmente fin troppo autoreferenziale rispetto ad essa.

Per quel che riguarda la dimensione dell'autore, nel rapporto che questi

intrattiene con lo spettatore, anche in questo caso il filosofo Barthes sembra

suggerire a Jérôme Bel la strada da percorrere:

un texte est fait d'écritures multiples, issues de plusieurscultures et qui entrent les unes avec les autres en dialogue, enparodie, en contestation; mais il y a un lieu où cette multiplicité seressemble, et ce lieu, ce n'est pas l'auteur, comme on l'a dit jusqu'àprésent, c'est le lecteur […] la naissance du lecteur doit se payer dela mort de l'Auteur.311

La sparizione dell'autore, quale condizione necessaria per l'attivazione di un

libero spazio interpretativo del lettore/spettatore, è sperimentata in Nom donné

attraverso la dimensione spazio-temporale dei silenzi immobili, all'opera nei

danzatori tra un agencement e l'altro degli oggetti. Se di morte propriamente

dell'autore si puo' discutere riguardo la scrittura scenica di Jérôme Bel, al

contrario, mi pare che il danzatore, già dagli esordi, metta in atto una vera e

propria strategia per l'affermazione di un suo protagonismo autoriale. Ne

darebbero prova gli inizi con la scelta del titolo dello spettacolo, Nom donné par

l'auteur, l'annucio dell'«addio alle scene» con Le dernier Spectacle (1998), e ancora

il «ritorno in incognito» con lo spettacolo Xavier Le Roy (a firma di Jérôme Bel

ma realizzato in toto dal danzatore Xavier Le Roy su alcuni principi di Bel!),

come anche il «sacrificio» di un ritorno sulle scene con The show must go on

(2000): ci troviamo di fronte, allora, al racconto dell'ambizioso progetto

artistico di un regista coreografo che, attraverso titolature, secondo una

strategia degli annunci, e sulla base anche di logiche paradossali - l'autore non-

311 Barthes, Roland, La mort de l'auteur, in Id., Œuvres complètes, Paris, du Seuil, 1994, vol.II, pp.491-495: p. 495.

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autore - è riuscito a creare le condizioni di una sua identificazione all'interno

della «piccola comunità dell'arte contemporanea»312.

312 Si tratta di una espressione di Jérôme Bel nello spettacolo Pichet Klunchun and myself (2005).

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