Sorrisi In punta di coltello

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Transcript of Sorrisi In punta di coltello

Racconti di vita, storie di donne

Sorrisi in punta di coltello

Carola Goglio

Racconti di vita, storie di donne

Tutti i diritti riservatiLa riproduzione parziale o totale del presenti libro è soggetta all’autorizzazione scritta da parte dell’editore. La presente pubblicazione contiene le opinioni dell’autore e ha lo scopo di fornire informazioni che, benché curate con scrupolosa attenzione, non possono comportare specifiche responsabilità in capo all’autore e all’editore per eventuali inesattezze.

GiveMeAChance s.r.l. – Editoria OnlineViale Regina Margherita, 41 – Milano

1° edizione Giugno 2013Progettazione grafica a cura di Claudia PedrettiFotografie di Frank Corto Maltese

A mia mamma Etta, a mia nonna Celestina,alla mia bisnonna Carolina e alle mie antenate che si perdono nella notte dei tempi

MiaoMiao pag.1

Illicenziabile pag. 9

Il Piatto pag.17

La Signora Pasotti pag.25

Senza Tavor pag.31

Fuori Controllo pag.39

Change pag.47

Sacro e Profano pag.55

Distanze pag.63

Il Tossico pag.71

Nuovi Eroi pag.79

Nero pag.87

Tilde Dixit

Indi

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Non sono bella. Piccola, grassottella, viso ba-nale, capelli ricci, di quel riccio crespo e ruvido che li rende praticamente ingestibili, passi per il pettine, ma neppure le taumaturgiche dita di Rolando riescono a districare la foresta amaz-zonica che mi ritrovo sulla zucca. Un dramma tricologico. Le chiome sono il mio cruccio, più ci penso più capisco che l’unica soluzione sareb-be quella di raparmi a zero. Con la testa liscia come un uovo, potrei intraprendere la carriera monastica ma, il mio carattere indulgente (nei confronti di me stessa), rifugge come la peste, le scelte che impongono sacrifici e drastiche ri-nunce.

Non ci sono dubbi, sono quella che qualsiasi so-ciologo attento, e sottolineo attento, inserirebbe nella categoria “Scialbe senza speranza”. Il mio guardaroba, un guazzabuglio demodé di gon-ne e camicette in stile collegiale, tweed vecchia Inghilterra per intenderci, certo non mi aiuta a risplendere, ma sono pigra, detesto trascinarmi da un negozio all’altro alla ricerca di vestitini, cloni mal riusciti di quelli sfoggiati da indossa-trici dal muso lungo sulle passerelle di Milano moda. Ho qualche specialità, no, mi sbaglio, una sola: sono una vera, unica, autentica gattamorta. Una di quelle femmine doc che hanno il potere di mandare fuori di testa gli uomini, di farli im-pazzire e strisciare ai propri piedi, con grande invidia del restante universo femminile. Come la gatta si finge addormentata per lasciare av-vicinare il topolino e, quando il misero meno se lo aspetta, gli sferra la zampata che lo impri-

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giona, così mi fingo placidamente immobile, assente e accalappio il maschio senza che abbia modo di fiutare in tempo il pericolo. Facile, in apparenza. Chi crede che la gattamorta sia una specie ormai estinta, come il bisonte ungherese, spazzata dall’implacabile teoria evoluzionistica, sostituita da bellone scollacciate madre natura ama mantenere un certo equilibrio si sbaglia di molto. Lo tsunami del femminismo negli anni settanta, ci ha, effettivamente, travolto e deci-mato, ma siamo sopravvissute, pochi esemplari, come la foca monaca, e ognuna con un suo ter-ritorio di caccia. Essere una gattamorta non è semplice, non ci si improvvisa. In parte è un dono di natura, una piccola variazione casuale del DNA, in parte è studio, applicazione, duro lavoro e rigorosa di-sciplina. Nulla deve essere lasciato al caso, se si vuole praticare quest’Arte raffinata, volta all’ esaltazione della più stucchevole femminilità: sguardo mansueto, voce mielosa, frasi ammic-canti, toni allusivi, nulla di esplicito insomma nella comunicazione, anche quando il linguag-gio è solo quello dei gesti. Da qui, l’imperativo categorico di spostarsi nel mondo con passo fel-pato, una grande fatica.

La nostra musa, il nostro nume tutelare, il no-stro archetipo? Lei, ovviamente: Penny, meglio conosciuta come Penelope, sposa di quell’Ulisse che, da grande Uomo qual era, un giorno decise di allontanarsi dal talamo nuziale per qualche tempo, venti anni per la precisione, non disde-gnando, durante l’assenza, di farsi distrarre dalle libertine dell’epoca, alcune della quali anche sci-

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volose dalla vita in giù.Penny si disperava, in apparenza, versava fiumi di lacrime, ma senza per nulla vagheggiare l’i-dea di rincorrere per l’Egeo lo sposo gaudente. Esorcizzava il dolore dell’abbandono, giocando alla gattamorta con 108 proci. Sicuramente, fa-vorita da una bellezza strepitosa, le era toccato sfoderare anche una determinazione e un’astu-zia non comuni: circa undici decine di rudi pre-tendenti, non sono uno scherzetto. Non è dato da sapere se la fedeltà sia stata una sua dote pe-culiare, come la tradizione racconta, le autenti-che gattemorte, sul tema, sono tombe.Grande Penny, ci manchi.

È grazie alla mia gattamortaggine che ho fatto carriera in redazione. Con il mio cervello, quel-lo di una capra, non ci sarei mai riuscita. Sono l’amante del Capo ed eccomi qui, Art Director della rivista femminile cult del momento, guru di migliaia di donne giovani e non.Le colleghe giornaliste mi detestano, sanno del-la tresca e non me la perdonano. Perché sono così acide con me? Sono donne intelligenti e colte, scrivono articoli intriganti, colgono il lato ironico della vita e lo fissano sulla carta con una sequenza armoniosa di parole. Le invidio. Il pensiero di digitare un sms mi provoca l’orti-caria e attacchi di panico controllabili solo con benzodiazepine sparate direttamente in vena ( ammesso che si possa ). Qualche volta, lo confesso, le faccio innervosire con commenti e richieste assolutamente inutili: la fotografia è sottoesposta o sovraesposta, l’im-magine è banale, voglio meno colore, più atmo-sfera. Sono in grado di proseguire quasi all’infi-

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nito con le mie pretese. Non sono cattiva è che, sul lavoro, mi annoio. In questi giorni in reda-zione c’è una atmosfera strana, si respirano an-goscia e nervosismo. Non potrebbe essere altri-menti, è successo solo una settimana fa. Il Capo era uscito dalla redazione molto compiaciuto dei dati che aveva letto sul foglio contenuto nella cartelletta azzurra. Me lo aveva raccontato al telefono, gongolava. Era salito in macchina, aveva fretta, lo aspettavano per il Consiglio di Amministrazione ma, indifferente al trionfante risultato dei test clinici, Atropo aveva deciso di tagliare il filo e il cuore, ubbidiente, si era ferma-to all’istante. Non aveva fatto in tempo neppure a infilare la chiave nel cruscotto.

È un dolore grande per la redazione. Il Capo era una persona deliziosa, conosceva il lavoro e, dono raro, ascoltava i collaboratori, sempre disponibile ad abbracciare nuove idee, mai ab-barbicato alle proprie vedute. Ora c’è il vuoto. Qualche lacrima scivola sulle guance delle giornaliste: lo adoravano. È arrivato Monsieur Jaques Berachà, il super boss francese, ha partecipato al funerale senza perdere neanche questa occasione per sottoli-neare come il giornale sia un’unica grande fa-miglia globalizzata e ora, dopo il rito dell’addio, darà l’annuncio. Il vuoto sarà colmato da Alessandro. Il nume-ro due, con l’aplomb dei vincenti, s’installerà al vertice della piramide gerarchica. Ho ascoltato il bisbiglio delle giornaliste, stanno già pregu-stando la mia fine, immaginano la imminente retrocessione ad addetta alle fotocopie, i paria di qualunque azienda. Senza la protezione del

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Capo, mi vedono trasferita nell’ultimo ufficio del corridoio a languire tra risme di fogli bian-chi e cumuli di carta stampata e impolverata. A volte, mi domando come si possa essere così al-locche. Non sanno che sono incinta. Di Alessandro, ovviamente.

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