SOMMARIO - gliavolesinelmondo.it · del testo del nostro socio e amico, da sempre vicino...

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Associazione Culturale

Fondata nel 1998 da Michele D’AmicoGli Avolesi nel Mondo

Avolesi nel mondoRivista di arte, storia, cultura, attualità

Anno XVII n. 1 (38) - Giugno 2016 Edizioni proprie

Presidente Grazia Maria SchirinàDirettore responsabile Eleonora Vinci

COMITATO DI REDAZIONESebastiano Burgaretta - Michele Favaccio - Maria Giallongo

Grazia Maria Schirinà - Nella Urso - Eleonora Vinci

IN COPERTINALe vele, olio su tela, cm 50x70, dipinto di Maria Magro,

foto di Maria Magro

FOTOGRAFIECinzia Bianca - Corrado Bono - Sebastiano Burgaretta

Lorenzo Caldarella - Franco Carasi - Salvo Carbè Marinella Caruso - Umberto Confalonieri

Mara Di Stefano - Michele Favaccio - Maria MagroSalvatore Monello - Sebastiano Munafò - Nella Urso

HANNO COLLABORATOCorrado Argentino - Renza Bertuzzi - Sebastiano Burgaretta

Turi Coffa - Umberto Confalonieri - Sebastiano ConsiglioGiuseppe Di Stefano - Nina Esposito - Michele Favaccio

Angelo Fortuna - Raffaele Guccione - Salvatore MartoranaSebastiano Melintenda - Sebastiano Munafò

Francesca Gringeri Pantano - Sebastiano Parisi Corrado Piccione - Marcello Rubbera - Salvatore Salemi

Grazia Maria Schirinà - Giovanni Stella - Michele TarantinoNella Urso - Corrado Vella - Antonino Vinci - Eleonora Vinci

HANNO CONTRIBUITOBanca Agricola Popolare di Ragusa - Baskin - Infinito

Laboratori Campisi Group - La Bottega dell’ArteOttica Rossitto - Pasticceria Tre Bontà - Registri Buffetti

REDAZIONEAvola, via Felice Orsini, 3 - Tel. 0931.832590 - Fax 0931.834522Registrazione al Tribunale di Siracusa n. 9/2000 del 26/05/2000

La redazione declina agli autori la responsabilità di quanto viene affermato negli articoli.

I testi per la prossima rivista corredati da eventuale materiale fotografico dovranno essere inoltrati all’indirizzo di posta elettronica

[email protected]

Impaginazione e stampa:Grafiche Santocono - Tel. 0931.856901

[email protected] in tipografia il 30 giugno 2016

Sedi associative: via Felice Orsini, 3 - 96012 Avola (SR)c/o studio Monello, via Chiana, 87 - 00198 Roma

Associazione:Il contributo annuo associativo, di euro 40,00 per i soci

ordinari residenti ad Avola è di euro 60,00 per i soci benemeriti o non residenti, può essere effettuato solo con Bonifico

Bancario: codice IBAN IT22U0503684630CC0341241705presso Banca Agricola Popolare di Ragusa.

I soci under 30 usufruiranno dello sconto del 50%. www.gliavolesinelmondo.it - e-mail: [email protected]

2 Non demordiamo, di Grazia Maria Schirinà

6 L’economia avolese nel tempo, di Michele Tarantino

9 Il diritto di voto alle donne ha 70 anni, di Eleonora Vinci

10 Il paladino della democrazia ..., di Antonino Vinci

12 Visita al Museo “Paolo Orsi”, di Sebastiano Melintenda

13 Santa Vennira, di Turi Coffa

14 Sindone e Vangeli: passioni a confronto, di Corrado Argentino

16 Elio Alia, persona libera, di Sebastiano Burgaretta In ricordo dell’amico, di Giuseppe Di Stefano

17 Il 1916 e la logorante guerra di trincea, di Michele Favaccio

21 La piaga dei preti che molestano i bambini..., di Marcello Rubbera

23 Il cugino ritrovato, di Corrado Piccione

24 Il Carnevale di Avola..., di Eleonora Vinci

25 Megghiu pessi ca depressi!, di Raffaele Guccione

26 Carrozzina, simbolo di libertà, di Nella Urso

28 Al nostro Burgaretta il Trofeo “Turiddu Bella”, ndr

29 Andrea Schiavo o della musica antica, di Sebastiano Burgaretta

32 Il mondo di Pan, di Grazia Maria Schirinà

35 Vita d’altri tempi, di Sebastiano Consiglio

38 Il gentiluomo si conosce a tavola..., di Corrado Vella

40 Una nuova arte che punta al sociale, di Umberto Confalonieri

41 Sulla spiaggia, di Salvatore Martorana

42 Alla “Signora dell’Esagono”..., di Eleonora Vinci

43 Il “Tribunale dei Diritti del Malato” ad Avola, di Sebastiano Munafò

44 Sul Pittore che dipinse il Telero..., di Francesca Gringeri Pantano

46 Il vecchio zio Liborio, di Sebastiano Parisi

47 Libri in vetrina

48 Meditando su “Al soffio dello Spirito”, di Angelo Fortuna

51 Il furfante abile non tramonta mai, di Renza Bertuzzi

52 Laxadaela Saga, non solo un libro, di Giovanni Stella

53 L’odore del tempo, di Salvatore Salemi

55 “Molto in parvo loco”, di Nina Esposito

56 L’angolo della posta

Non demordiamodi Grazia Maria Schirinà - Foto di Corrado BonoE

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Il 2015 si è chiuso con eventi signi-ficativi per la vita associativa e per la storia della nostra città; a interlo-

quire con noi e a offrire la loro collabo-razione e cultura, abbiamo avuto ospiti d’eccezione. Ci eravamo lasciati con l’appuntamento al Museo Paolo Orsi,

il 21 novembre, ma già era in cantiere un nuovo incontro con Antonio Conti-cello, poliedrico personaggio televisivo, scrittore, progettista e collaboratore di spettacoli di ampio respiro, il quale ci ha interpellati per la presentazione del suo ultimo lavoro, “Sotto l’ombrello-ne”, romanzo gradevolissimo e coin-volgente, omaggio alla terra madre, la Sicilia, e a tutta la costa ionica meri-dionale nella quale noi viviamo e che, molto spesso, non prendiamo nella do-vuta considerazione. Siamo stati felici di accogliere l’autore g. 28 novembre nella sala Frate-antonio. Intanto, in occasione del-la festa di Santa Lucia, patrona della nostra pro-vincia regionale di Sira-cusa, abbiamo ritenuto opportuno, presso la Li-breria Mondadori, sempre disponibile, proporre ai nostri soci la storia della Santa e le tradizioni locali che la riguardano. Il vo-lume era stato già donato

all’Associazione dall’auto-re, Giuseppe Di Mari, che l’aveva scritto a quattro mani col padre Carmelo, prima che costui morisse. A parlarne è stato un caro amico, avolese in Geraci Siculo, Vincenzo Piccione, istruttore direttivo respon-sabile del Polo Culturale dell’ex Convento dei Pa-dri Cappuccini di Gerace, antropologo, etnologo e demologo per vocazione, il quale ha fondato nella sua Casa geracese la Casa Mu-seo Vincenzo Piccione d’Avola con am-pia esposizione di presepi, una pinaco-teca, mobili d’epoca e cimeli della sua famiglia d’origine. L’anno si è concluso in bellezza non solo e non tanto per la presentazione della nostra Rivista, che è sempre un successo, ampiamente e ottimamente illustrata dalla nostra di-rettrice responsabile, sig.ra Eleonora Vinci, quanto piuttosto per aver accol-to, nella stessa serata, la presentazione del testo del nostro socio e amico, da sempre vicino all’Associazione, ing. At-tilio Mangiagli. Ogni testo ha una sua gestazione: è come un figlio dell’autore che lo scrive e lo produce per il piacere suo e della collettività. Perché per noi è importante questo testo e perché l’ab-biamo voluto assieme alla rivista. In-tanto c’è da dire che il nostro amico ci ha consegnato per la pubblicazione, nel tempo, testi che sono stati inglobati in questo libro, che parla dei reperti storici e archeologici della nostra città. Il titolo è tutto un programma: Tra il Cassibile e l’Asinaro nel tavoliere ibleo di Tucidide Avo-

la crogiuolo di cultura civiltà e culti religiosi. Relatore d’eccezione, un’altra persona che ha dedicato alla nostra terra le sue attenzioni in campo archeologico, l’avv. Spartaco D’Agata, esperto conoscitore come pochi del suolo ibleo. L’interesse per questo testo, che apre alla ricerca nuovi orizzonti, è rivolto anche ad al-tro, in quanto l’autore, per stimolare i giovani in tal senso, ha donato all’Asso-ciazione un congruo numero di copie, per potere approntare in futuro, con i proventi, una borsa di studio per chi volesse intraprendere attività nel settore e in questa nostra zona, in verità poco esplorata. Con questo omaggio ai giovani si con-clude il 2015, mentre ci si appresta a un incontro conviviale, per gli auguri di benvenuto al nuovo anno con la tradi-zionale tombolata, il 4 gennaio, nei lo-cali del ristorante-pizzeria “Portomat-to”, che ci ospita con grande apertura e competenza; anche quest’anno la se-rata è stata ricca e partecipata, ma non solo…

Antonio Conticello

Da sx Giuseppe Di Mari, Vincenzo Piccionee Grazia Maria Schirinà - foto di Sebastiano Munafò

18 dicembre, da sx Attilio Mangiagli, Spartaco D’Agata, il vicesindaco Massimo Grande, la Presidente ed Eleonora Vinci

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La nostra socia, Maria Magro, sempre presente e attenta a tutte le nostre atti-vità, ha voluto donare all’Associazione uno dei suoi quadri, proprio in occa-sione della conviviale augurale, spie-gando altresì le motivazioni che l’han-no indotta a tale gesto e il significato che lei stessa attribuisce al quadro in questione. Durante la “cerimonia” di consegna, la pittrice ha esordito dichia-rando apertamente la sua stima e il suo apprezzamento per tutto il lavoro svol-to dal direttivo e ha messo in rapporto “Le vele”, il titolo del quadro, con la nostra associazione. La vela, spinta dal vento, energia pulita perché naturale, porta la barca verso nuovi orizzonti, vasti lidi sconosciuti; la nostra asso-ciazione, tramite incontri, conferenze e la rivista, ci spinge al largo e quindi allarga i nostri orizzonti culturali. Co-noscere non solo il presente, ma parti-

colarmente il nostro passato, le nostre abitudini, le nostre tra-dizioni, ci arricchisce notevol-mente e, per tornare al termine orizzonte, lo amplia ulterior-mente. Anche questo momen-to è stato emozionante e signi-ficativo per tutto il direttivo e il comitato di redazione che con amore e dedizione svolge gra-tuitamente la sua opera.Da tempo sentivamo l’esigen-za di attivare degli incontri culturali ad ampio raggio, a scadenza mensile, con auto-ri che rivolgessero attenzione alla nostra storia etno-antro-pologica e sociale. L’occasione ce l’ha offerta il neo-Direttore della Biblioteca Comunale cit-tadina, dott. Paolo Oddo, il quale ci ha proposto di parteci-pare ad un progetto: “Bibliote-ca aperta”, che ben si conface-va alle nostre aspirazioni. Abbiamo pertanto richiesto

all’Amministrazione comunale, che ce l’ha concesso, l’utilizzo gratuito della “Sala lettura” per una serie di eventi, tutti di notevole importanza per la co-noscenza del territorio e dei suoi figli. Abbiamo iniziato - il 30 gennaio con la presentazione del volume di F. G. Lorca La casa di Bernar-da Alba, nella traduzione di Sebastiano Burgaretta, con la partecipazione del Laboratorio teatrale “Skené” di Dona-tella Liotta, che assieme ai suoi allievi ne sta curando la messa in scena, g. 7 luglio al Teatro “Garibaldi” - il 22 febbraio abbiamo esaminato la memoria nella poesia di Angelo Fortu-na, che ha donato ai presenti una copia del testo presentato, L’odore del tempo, commentato per l’occasione dal prof. Salvatore Salemi e letto da Gildo Mol-lica- il 4 aprile, il terzo appuntamento ha

avuto come ospiti i registi Alessandro Seidita e Joshua Walhen, che hanno realizzato e proposto all’assemblea un docufilm Viaggio a Sud, un percorso at-traverso l’anima del siciliano di grande impatto emotivo- il 6 maggio, in prossimità della fe-stività di San Sebastiano, è sembrato opportuno fare conoscere, in maniera circostanziata e storico-culturale, Le tradizioni sebastianine, attraverso lo stu-dio e l’analisi di Giuseppe Di Mari e Sebastiano Burgaretta. Tutti gli eventi sono stati introdotti da Paolo Oddo, direttore della Bibliote-ca e dal sindaco, dott. Giovanni Luca Cannata, o, in sua vece, dall’assessore Simona Loreto, che è stata sempre vici-na ai desiderata dell’Associazione.Da dire, tuttavia, che si sono interseca-te con queste appena citate anche altre manifestazioni, realizzate alcune in collaborazione con altre associazioni. È il caso della presentazione del libro di Giuseppina Ignaccolo Educare si può e si deve in una società complessa, tenutasi il 4 marzo nella Sala Frateantonio, in collaborazione con la Fidapa, l’Uni-versità della Terza età e con il patro-cinio gratuito della Città di Avola. Ha relazionato Angelo Fortuna, mentre la lettura è stata affidata a Sebastiano Cimino, Presidente dell’Associazione

Culturale Teatro Gio-vane di Pachino. Il 14 aprile abbiamo invece ospitato l’avv. Giovanni Giuca, il quale ci ha presenta-to il suo Trattato sulla non-violenza scritto da un assassino. Il com-mento è stato affidato alla prof.ssa Nerina Bono e al giornalista Pippo Cascio. All’in-contro, molto parteci-

Le vele, olio su tela - foto di Maria Magro

Maria Magro

14 aprile, da sx la Presidente, Giovanni Giuca, Pippo Cascio e Nerina Bono - foto di Cinzia Bianca

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Biblioteca aperta

30 gennaio, da sx Sebastiano Burgaretta, la Presidente, Paolo Oddo, Paolo Randazzo e l’assessore Simona Loreto

4 aprile, i registi Alessandro Seidita e Joshua Walhen - foto di Cinzia Bianca

4 marzo,presentazione del volume di Giuseppina Ignaccolo.Da sx Sebastiano Cimino, l’Autrice, Angelo Fortuna, Caterina Scifo e Michele Favaccio.Foto di Mara Di Stefano

Febbraio 2016, Michele Favaccio e Franco Monello con alcuni alunni dell’Istituto Majorana

22 febbraio, da sx Savatore Salemi, la Presidente, Paolo Oddo, l’assessore Loreto, Angelo Fortuna, Gildo Mollica

6 maggio, da sx Giuseppe Di Mari, Paolo Oddo, Michele Favaccio, Sebastiano Burgaretta e l’assessore Loreto - foto di Cinzia Bianca

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pato, ha fatto seguito un interessante dibattito. L’ultima presentazione in ordine di tempo, è avvenuta in collaborazione con la Mondadori di Avola e Palazzo Lutri, che ha ospitato l’incontro, gior-no 28 maggio. Si è parlato dell’ultimo romanzo di Simona Lo Iacono “Le streghe di Lenzavacche” entrato nella rosa dei finalisti al Premio Strega. Noi, che abbiamo avuto il piacere e l’onore di commentare tutti i libri della giudi-ce-scrittrice, siamo stati contenti di re-lazionare sul suo testo e di proporlo ai nostri soci. Sono intervenuti, per l’oc-casione, i ragazzi della III B del Liceo scientifico “E. Majorana”, curati dalla prof.ssa Angela Antonelli, e il maestro Corrada Milena Caruso, che, con la sua musica, ha commentato le letture affidate a Umberto Confalonieri e Mo-nia Orlando. Sarebbe già tanto il nostro lavoro, solo ad elencarlo, ma il nostro impegno si è profuso anche nel portare avanti il pro-

getto relativo al concorso “Quale futuro per i gio-vani avolesi”, che abbiamo fatto conoscere in ma-niera itinerante, entrando nelle scuole e pro-ponendolo agli alunni delle ulti-me classi, ai qua-li è stato anche somminis t ra to

un questionario, presentandolo in vari luoghi deputati e nelle varie occasioni, che si sono presen-tate, proponendolo anche alla stampa e alla tv locale e, in ultimo, in una tavola rotonda te-nutasi nella Sala Frateantonio il 13 maggio, sul tema: “Economia avolese – excursus storico e prospettive per il futuro”, organiz-zata dalla nostra associazione e dal-la Città di Avola. Coordinati dal gen. Michele Favaccio, hanno partecipato il sindaco, dott. Giovanni Luca Canna-ta, il giudice Michele Tarantino e l’im-prenditore avolese Paolo Munafò. L’in-contro ha voluto essere propedeutico al

suddetto concorso indetto in collabora-zione col Comune e gli eredi del cav. Antonino D’Agata, valente imprendi-tore e uomo politico italiano, alla me-moria del quale è stato dedicato. Que-sto mi offre il destro di comunicare che è stato realizzato, finalmente, nella sua prima parte, l’opuscolo “La Costituzio-ne e i Padri Costituenti”, contenente il sommario delle attività tenute, per fare conoscere ai giovani la nostra Costitu-zione, durante il primo corso espletato nel 2014. La seconda parte vedrà la fi-gura del D’Agata, Padre Costituente, e, almeno ci speriamo, sarà proposto in occasione della premiazione del con-

corso, il giorno 1 settembre. La cosa bella e fortuita, che ci è occorsa, è stata determinata dalla venuta ad Avola del presidente del Senato, Pietro Grasso,

in occasione dell’inaugura-zione e intitolazione della palestra di Baskin a “Rita Atria”, su richiesta delle associazioni Super Abili e Libera. Invitati, abbiamo preso parte alla manifesta-zione e abbiamo avuto il piacere e l’onore di conse-gnare al presidente Grasso, che già avevamo incontrato nella visita della nostra de-legazione al Senato, il no-stro opuscolo, poca cosa in verità, ma frutto di tanto la-voro. Non so se riusciremo a tenere questi ritmi, perché questo periodo è stato mol-to impegnativo e faticoso, ma non demordiamo.

13 maggio, da sx Paolo Munafò, Michele Tarantino, Michele Favaccio e il sindaco Giovanni Luca Cannata - foto di Cinzia Bianca

4 giugno, da sx il Sindaco, il dirigente scolastico Fabio Navanteri, il presidente del Senato Pietro Grasso, la Presidente - foto di Umberto Confalonieri

28 maggio, foto di gruppo con la scrittrice Simona Lo Iaconofoto di Cinzia Bianca

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L’economia avolese nel tempodi Michele Tarantino

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Volutamente tralascio di spinge-re l’analisi a tempi più remoti, quando la terra d’Abola era siste-

mata con i suoi abituali residenti (intor-no a cinquemila anime) sulle balze del lembo più meridionale dei Monti Iblei, nella ragionevole convinzione che, su-perati il primo sbandamento e il lavoro di impianto del nuovo sito, gli Avolesi potettero disporre dei medesimi fattori produttivi di cui già disponevano prima che l’imponente movimento tellurico del 9/10 gennaio 1693 li avesse indotti ad abbandonare il vecchio abitato semi-trogloditico. Fulcro dell’economia era e continuò ad essere per moltissimi anni, quanto si ricavava dalla coltivazione della terra. Una economia articolata quasi esclusi-vamente sull’iniziativa individuale e su modesti appezzamenti nell’area fertile della pianura, lungo la fascia costiera. Unica rilevabile eccezione: il trappeto delle cannamele per la produzione in-dustriale dello zucchero. A condurre

l’impresa i signori feudatari Aragona-Pignatelli. Localizzata anche essa a valle, sfruttava per la coltivazione delle canne la zona umida formata dalle de-fluenze dei corsi d’acqua, naturalmente scorrenti verso il mare dalle cave degli Iblei. Dava lavoro dipendente a molti avolesi, centinaia di persone impegna-te nell’impianto di estrazione del succo dolce e liquido ottenuto dalla bollitura e spremitura delle canne. Vale citare un do-cumento tratto dall’Archivio di Stato di

Napoli, Archivio Pignatelli (A.S.N.A.P. scafo IV, gruppo II, vol. 56): relazione di un sovrastante (il secreto) ai feudatari di Avola sull’opportunità di mantenere at-tivo l’arbitrio degli zuccheri, non datata ma riferibile agli anni immediatamente precedenti il terremoto del 1693, con-clusione cui è ragionevole pervenire dal momento che il documento menziona don Giovanni Peralta, in quegli anni go-vernatore dei feudi Aragona-Pignatelli. Si legge in quel documento: “Trava-gliano in detto arbitrio più volte due e trecento persone, e precise nella cottura che ve ne sono più centinaia, tutti questi mantengono la loro famiglia di moglie e figli e altro e con questo il vassallagio è numeroso, e non essendoci l’arbitrio di cannamele tutti sarebbero costretti tra-sportarsi con le famiglie e lascerebbero la Città un deserto”. Da altro documen-to (A.S.N.A.P., scafo IV-Avola, grup-po II, vol. 56) si ricava la quantità del prodotto, immagazzinato negli anni dal 1687 al 1692, con una media annua di

kg. 1.400 di zucchero grezzo in pani nigri, oltre al rottame. Ap-prendiamo dal docu-mento da ultimo cita-to, che la produzione media annua in quel periodo fu di tonnel-late 1,4 di zucchero grezzo. Ricaviamo, con conteggio appros-simativo, sufficiente a darci una idea di quale potesse essere l’apporto dell’unica produzione industria-le all’economia cit-tadina, che un pane pesava kg. 6,376 di prodotto grezzo; che i

pani venivano stipati in numero di dodi-ci per ogni cassa, che, dunque, una cassa poteva contenere kg 76,516 di prodot-to. Una volta raffinato il prodotto, dagli scali di Falaride e Mare Vecchio, pigliava il largo per Palermo.Or bene, l’opificio (arbitrio nei documen-ti dell’epoca) rimase attivo sino alla fine del secolo XVIII, allorquando la produ-zione non risultò più commercialmente conveniente, soppiantata dalla concor-renza del prodotto sud-americano.

Possiamo dunque sostenere che le fon-ti dell’economia avolese rimasero so-stanzialmente inalterate non solamente dopo la ricostituzione dell’abitato a valle ma anche nei lustri seguenti, dopo le due guerre mondiali del 1914/18 e 1940/45, che insanguinarono prevalentemente l’Europa. E ancora, almeno sino al de-cennio 1950/60.Dunque economia agricola che possia-mo definire di sopravvivenza, nel senso che, assorbendo, insieme al necessario terziario, la quasi totalità di produzio-ne del reddito avolese, il cosiddetto PIL (prodotto interno lordo) non generava alcuna consistente proiezione verso l’e-sterno a mezzo dei rapporti commercia-li.A che tanta modestia, tanta conseguen-te stasi dei consumi, fermi al minimo in-dispensabile: anchilosi del tenore di vita degli avolesi?Non faccio fatica a individuare nella assenza quasi totale della cooperazione la causa prima del mancato sviluppo socio-economico. La cooperazione sa-rebbe stata necessaria a generare minori costi di produzione, garantiti dalla coor-dinazione del fattore materiale. È chiaro che anche fondi di modesta estensione, se organizzati in una programmata col-tivazione del medesimo prodotto, pos-sono essere sfruttati con costi minori. Dal momento che alla proprietà solita-ria consegue necessariamente la solita-ria ricerca degli strumenti di produzio-ne. Una cosa è, per fare un esempio, se Tizio si adopera a far fruttare i suoi cinque ettari di coltivazione a gramina-cee (frumento e orzo sono state colture presenti nel territorio avolese nel perio-do preso in considerazione); altra se Ti-zio, Caio e Sempronio, vincolati da un unico disegno, si adoperano a far frut-tare quindici ettari di coltivazione dello stesso prodotto. Sarà meglio orientata la produzione in ragione delle prevedi-bili richieste dei consumatori; saranno più bassi i costi per la preparazione del terreno, la semina, il raccolto, se affidati alla medesima mano d’opera meglio at-trezzata; sarà meglio orientato il prezzo di vendita per la ridotta concorrenza. Ma l’assenza o deficienza di organizza-zione collettiva pesa ancora, e fortemen-te, nella valorizzazione commerciale del prodotto. Al riguardo mi avvalgo di fatti

Sala lavorazione dei confetti nella Fabbrica Marzipan,realizzata ad Avola nel 1912

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piuttosto che di ipotesi.Cominciamo dalla mandorla. Una drupacea coltivata in molte aree geo-grafiche ma che trova l’ambiente più propizio in zone climatiche adatte a sorreggere la fioritura precoce del man-dorlo e a proteggerlo da improvvise ge-late primaverili. Dunque la Sicilia sud-orientale e in particolare i terreni della pianura avolese.Non sono recenti gli studi condotti, fra gli altri, dal botanico avolese Giuseppe Bianca (n.1801, m.1883) che consen-tirono di individuare la mandorla pro-dotta prevalentemente nel territorio di Avola in base a tre cultivar: pizzuta, fascionello, romana (o corrente). Le pri-me due particolarmente adatte alla confetteria e, in genere, all’industria dolciaria. In particolare la “pizzuta”, più zucche-rina e meno legnosa, ha proprietà organolettiche ineguagliabili. Affrontò il mercato internazionale come mandorla “Avola”. Nei fatti, in difetto della disciplinare di produzio-ne e senza un marchio di distinzione. Partico-larmente attiva la “Mar-zipan” di G. D’Agata & Figli, negli anni dal 1912 al 1974. In seguito il pro-dotto di elezione, privo delle necessarie tutele, fu esposto alla adulterazione con mandorle prodotte a costi più bassi in zone climatiche ben diverse da quelle proprie della mandorla “Avola”.Bisognerà attendere il nuovo seco-lo XXI perché l’impegno cooperativo desse vita al “Consorzio di tutela della mandorla Avola” e miglioramento della filiera. Nato nel 2000 ma che solamente sei anni dopo nel 2006 ha provveduto a registrare un marchio collettivo ed ha richiesto l’Indicazione Geografica Pro-tetta (I.G.P.), in base a rigoroso discipli-

nare. Si dirà: meglio tardi che mai. Ma nel frattempo la distorsione commercia-le potrebbe essere diventata irreversibile.Come si può mantenere il prezzo senza poter contrastare la concorrenza van-tando la conosciuta qualità? Senza po-ter dire a chi vorrebbe spendere la stessa somma che può spendere per la man-dorla spagnola piuttosto che americana: amico, non puoi comprare una “Ferra-ri” allo stesso prezzo di una qualunque altra marca.Dolorosa quanto scontata conseguen-za, i “mandorleti”, una volta numerosi, sono stati convertiti ad “agrumeti”, se non del tutto abbandonati nell’attesa di essere inglobati nei piani regolatori o,

semplicemente, perché privi di aspiranti compratori.Il gioco si è ripetuto recentemente ed ha messo in luce, ancora una volta, la man-canza di imprenditorialità coordinata e la perdita di un’altra buona occasione. Protagonista il “Nero d’Avola”, vitigno rosso siciliano ben presente nei territori Eloro, Pachino, Bonivini. Originaria-mente l’uva dalla quale veniva tratto fu chiamata “calaulisi”, ossia racina, calea, avolese. Le viti sono di quelle cosid-

dette. “a piede franco”, o ad alberello. Bassissimo arbusto espresso in filari particolarmente adatti al clima isolano, capaci di affondare le radici fino a rag-giungere l’umidità e idonei ad esporre il frutto a forte insolazione. Il vino “Nero d’Avola” ha possibilità di combinazio-ne (blending) con vini prodotti in altre aree: Merlot, Cabernet, Sauvignon, Syrah. Abbastanza recentemente otten-ne autorevoli apprezzamenti in mostre nazionali ed internazionali. Ne risultò l’opportunità di metterlo sul mercato a buon prezzo. Non mancarono impren-ditori che, impiantati i vitigni, ottennero i decreti ministeriali di denominazione di origine controllata con un disciplina-

re che ne regola il colore (rosso scurissimo), l’o-dore, il sapore (morbido, gradevolmente acido, pieno). Recentemente l’Istituto Regionale della Vite e del Vino (IRVV) ha ufficializzato il disci-plinare al fine di ottenere la nuova denominazione Nero d’Avola, vini im-bottigliati nel territorio di Sicilia.Ci si poteva attendere anche nel territorio avo-lese, favorito dalla deno-minazione, la nascita di una importante cantina cooperativa; la promo-zione del disciplinare; la commercializzazione a

un prezzo adeguato alla fama e alla qua-lità del prodotto. Invece piccoli quanto isolati e impreparati viticoltori hanno invaso i mercati e i supermercati italia-ni dove le bottiglie sono offerte anche a due o tre euro per bottiglia, prezzo cer-tamente inidoneo a sostenere la qualità del prodotto. Ancora una volta, economia di “soprav-vivenza”, incapace a sostenere sviluppo.Difficile quanto ingrata la ricerca dei motivi di tanto scarsa imprenditorialità,

Vecchia macina

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della pressoché inesistente propensione alla cooperazione. Perché il fenomeno, diffuso marcata-mente in quasi tutto il Meridione d’I-talia, è così pesantemente presente in particolare nella società avolese? Quando si pensa, come vien fatto di fare, alla tendenza a ricercare negli aiu-ti esterni, prevalentemente pubblici, i fondi necessari a sostenere le iniziative imprenditoriali di marca, a mio modo di vedere, piuttosto il risultato che non la causa della tendenza a mettere, nel-la migliore delle ipotesi, in seconda fila l’affidamento alle capacità personali, alle iniziative private. Alla base cre-do ci sia il mancato sviluppo del senso dell’appartenenza, dello spirito della collettività, della capacità a limitare le aspirazioni proprie in vista di quelle me-glio raggiungibili con la cooperazione. Tutto ciò è compatibile con una popo-lazione rimasta per secoli estranea al governo della società. Per secoli affidato a invasori: arabi, spagnoli o francesi che fossero, poi al lontano governo naziona-le centrale, o ai signori feudatari. Corpi estranei percepiti come entità del tutto indifferenti alle esigenze dei governati. I quali, conseguentemente, versano in condizioni che spingono alla cura spie-tata dell’interesse proprio ed alla diffi-denza verso la cooperazione. Il socio in una cooperativa e lo stesso lavoratore dipendente sono considerati in preva-lenza come portatori di interessi in po-tenziale conflitto con il proprio.Può esserci stata, e credo ci sia stata anche in Sicilia, l’embrionale coscienza dell’appartenenza, quanto meno, alla collettività nazionale durante il regime fascista. Ma furono pochi anni del ven-tennio: una decina, collocabili negli anni trenta/quaranta del secolo XX. Insuffi-cienti e comunque proiettati verso i de-stini della “Patria”, anteposti al benesse-re della collettività nazionale. Vien fatto di pensare alla forte tensione del regime, verso l’imperialismo coloniale. La pro-spettiva fatta balenare ed accettata spe-cie dalle popolazioni del Sud d’Italia fu quella che vedeva nello sbocco coloniale la facilità di trovarvi lavoro e guadagno. Quanto fossero errate quelle aspettative lo dimostrarono ben presto la incapaci-tà/impossibilità di mantenere sotto con-trollo territori come quello etiopico; la non minore incapacità di fronteggiare la prevedibile reazione delle concorrenti nazioni colonialiste: Inghilterra e Fran-cia in prima fila.Intorno agli anni Cinquanta del secolo

XX si producono eventi che muovono le acque. Si assisterà a una apprezzabile conversione dell’economia agricola, che assorbiva all’epoca il 60% della forza lavoro, contro una media nazionale del 42,4 %. La Sicilia viene interessata da una nuo-va fonte di reddito, fino a quel momento ignorata perché nascosta nelle profon-dità del sottosuolo. A dare l’abbrivio la scoperta di giacimenti petroliferi nel ragusano. Si tratta di petrolio alquanto impuro e presente in quantità modeste. Ma tali comunque d’aver indotto una derivata americana ad operare da quelle parti: nel 1954 estrae la Gulf Italia S.p.a. Inizia la diatriba intorno alla opportuni-tà di collocare in Sicilia le industrie con-nesse: la raffinazione e la produzione dei derivati chimici. L’attenzione è rivolta al mare anche in considerazione del fatto che la costa sud-orientale si trova sulla rotta delle petroliere che trasporta-no il petrolio dell’oriente. La spuntano i fautori della localizzazione domestica. In un paio di lustri circa trenta km di costa e 2.700 ettari di entroterra fra Siracusa e Augusta andranno a formare il polo pe-trolchimico siracusano. Fra le imprese operanti possiamo ricordare la Rasiom di Moratti: primo complesso di raffina-zione operante a partire dal 1949: 650 lavoratori dipendenti; a seguire la Sincat S.p.a (società industriale catanese); la Celene S.p.a.; in seguito acquisite dalla Montedison; l’Isab che produceva com-bustibili a basso tenore di zolfo con una raffineria fra le più grandi d’Europa. Si affiancarono centrali termoelettriche: importante quella di Marina di Melilli, capace di assorbire buona parte del fab-bisogno dell’intera isola.A favorire la localizzazione la speciale sezione di credito istituita dal Banco di Sicilia e il basso costo della mano d’o-pera locale: sino a tre volte inferiore a quello milanese.Ovviamente il lavoro non stagionale e interamente coperto dal punto di vista assistenziale e previdenziale attrasse moltissimi avolesi, in precedenza oc-cupati come giornalieri (jurnatari), per qualche settimana, prevalentemente nei periodi di più pressante impegno nei campi.Reddito e tenore di vita aumentarono in maniera esponenziale. Ne parlo al passato dal momento che a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo le attività industriali si sono ri-dotte notevolmente. Fra le cause della crisi il disfavore dell’opinione pubblica

allarmata per i temuti – e in parte con-statati – danni dell’inevitabile inquina-mento: anidride solforosa e ossido di mercurio sparsi per km con pesanti nubi di aria umida concentrata e sparata da centinaia di ciminiere. La lotta accani-ta della magistratura competente rese necessario affrontare le forti spese delle misure di sicurezza.Non ritengo azzardare, anche in que-sto caso, fra le ragioni della sopravve-nuta crisi la necessità di fronteggiare la concorrenza insita nella presenza di un mercato con frontiere sempre più dila-tate.Ai giorni nostri assistiamo alla continua forte riduzione del prezzo del petrolio, non più l’oro nero osannato poco prima.Arriviamo alla conclusione della breve disamina sul tema.Da qualche anno si aprono nuove op-portunità per l’economia avolese offerte dal discreto incremento della presenza di vacanzieri, specie nei mesi estivi. È un ulteriore territorio di esplorazione conseguente alle buone potenzialità che Avola può vantare al riguardo. Vicinis-sime spiagge di mare finalmente resti-tuito agli originari pregi di sapidità da un impianto di depurazione da decenni invocato, di recente realizzato e al qua-le auguriamo solida e duratura buona gestione. Aree di ameno relax: il pensie-ro corre ai numerosi Caffè della Piazza centrale, dove granite e aperitivi posso-no essere gustati a prezzi competitivi in comodi tavolini, dalle prime ore del giorno fino a notte avanzata. Una scelta ricchissima di agili gite per posti grande-mente suggestivi. Dai vicinissimi Avola Antica, Dolmen, Falaride, Villa romana, alla vicina superba Noto e non lontana regina Siracusa. A Scicli, Palazzolo, Mo-dica e molto altro ancora.A servizio di questa recente buona clien-tela sono sorti nuovi alberghi e centinaia buone occasioni di ospitalità familiare: B & B. Occasioni di lavoro e reddito che occor-re saper mantenere e sviluppare.Essenziali le scelte della classe dirigente: organizzazione di almeno un evento di richiamo nazionale, per esempio, una mostra-mercato di prodotti artigianali per la lavorazione della tenera e duttile pietra calcarea. Le spese per un evento del genere, anche se non indifferenti, sa-ranno certamente remunerate nel tem-po. Essenziale anche il comportamento dei pubblici esercenti: garbo, signorilità, cortesia, prezzi competitivi.Molto è da fare, ma ne vale la pena.

Non è retorica ricordare un av-venimento importante per la vita degli esseri umani, che sia

una guerra, un’epidemia, lo sbarco sulla luna, tanto meno quando l’anniversario è quello dell’acquisizione di un diritto irrinunciabile: il voto alle donne. Le ita-

liane, settanta anni fa, si recarono per la prima volta al seggio elettorale, per dire la loro anche in politica e lo fece-ro in occasione delle amministrative del 10 marzo 1946. Prima di quella data le donne non avevano diritto a partecipare alla vita politica del nostro Paese e quel voto fu un momento epocale che aprì la strada a tantissime altre conquiste. Segnò sicuramente l’inizio del tortuoso percorso di emancipazione femminile. Giovani e anziane, casalinghe e lavora-trici, analfabete e istruite si recarono a votare e non solo. Tantissime si decisero ad avere un ruolo attivo nell’ambito po-litico candidandosi per essere decisive e cambiare lo stato delle cose che vedeva l’uomo unico deputato a quel linguag-gio politichese che non poteva interessa-re le donne. Ma quando queste presero a fare sul serio, a fare uso del più alto diritto civile, si resero conto che era sì un diritto acquisito con tanta fatica, ma anche un dovere, che affermava, final-mente, l’appartenenza al corpo sociale. Quel 10 marzo del 1946 alle elezioni amministrative, che avviarono ad Avo-la la prima legislatura dopo la caduta

del fascismo, tre donne furono elette al Consiglio comunale: Evelina Augello, Eloisa Cagliola e Lucia Alfieri. È questo che vogliamo sottolineare in occasione dell’importante anniversario, che in un paese della provincia più a sud dell’I-talia, con una popolazione di 24.568

residenti di cui 13.071 elettori, c’erano donne che si recarono in massa a votare per la prima volta in assoluto nella loro vita, ma c’erano, soprattutto, donne che si candidarono in un mo-mento particolare in cui la lotta politica qui era molto accesa. Vigeva il sistema maggioritario, uno schieramento di sinistra contro uno di centro-destra: finì 24 a 6 per i militanti socialisti, comunisti, PRI e Partito d’A-zione. Ma la vittoria fu proprio per quei tre seggi rosa conqui-stati all’Assemblea cittadina, quando ad Avola si viveva una condizione assai difficile per la carenza di occupazione e il di-

vario fra i ceti sociali era considerevole. Chi aveva dato quei voti alle rappresen-tanti del mondo femminile se non altre donne? Sembrava avviata una nuova era… poi però il vuoto. Per diciotto lun-ghi anni nessuna donna è entrata in Consiglio comunale, solo alla quinta legislatura nel novembre del 1964 Ida Peyrot D’Agata scrive il suo nome nella storia politica avolese. Altra pausa e solo all’ottava legislatura alle am-ministrative del 15 giugno 1975 vengono rielette due donne, fra le quali Pasqua Manganaro, uni-ca sindaca di questa città dal 15 luglio 1980 al 9 febbraio 1981. Il futuro riserverà al sesso femmini-le più spazio rispetto al passato e alcune decine rivestiranno anche la carica di assessore. Oggi, nono-stante le elettrici siano in numero maggiore degli elettori, in quattro siedono al Consiglio comunale e due sono assegnatarie di rubri-che assessoriali, sempre troppo poche rispetto al corposo gruppo maschile. Non si è mai alzato di

tanto il numero delle candidate: poco disposte a spendersi in politica o fidu-ciose nel relegare questo compito agli uomini? Questi settanta anni che ci separano dalla prima conquista possono essere anche una occasione per riflettere sui di-ritti delle donne oggi e se ci sia parità di genere. Se si pensa che le lavoratrici nel privato sono discriminate perchè perce-piscono un salario inferiore del 30%, lo sono in gravidanza e non hanno aiuti per i figli in età prescolare perché nei luoghi di lavoro mancano i servizi e un asilo nido richiede un esborso di circa 300 euro mensili, è difficile lavorare e mettere su famiglia, vedi il basso tasso di natalità, ed altrettanto complicato dedicarsi alla vita politica. Che dire poi delle donne aggredite in massa, deruba-te e stuprate a Colonia la notte di Ca-podanno all’alba del 2016? Una notizia che ha fatto il giro del mondo e ha la-sciato l’amaro in bocca. Ecco, abbiamo ricordato l’anniversario del primo voto alle donne con programmi televisivi, ar-ticoli sui giornali e ora sulla nostra rivi-sta, ma dopo tante lotte pochi risultati. È forse il caso di rimboccarci le maniche e ripensare a ciò che non abbiamo fatto, a ciò che non facciamo.

Bibliografia: Cronaca (senza pretese) di vita politica e amministrativa avolese dal 1943 al 1984 di P. Nané e A. Mazzonello, Arti Grafiche Motta, 1989 Avola.

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Il diritto di voto alle donne ha 70 annidi Eleonora Vinci

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Da tempo ho riposto la ventiquat-trore e riconsegnato il passapor-to di servizio, ma mi succede di

ritornare spesso, anche se ormai solo con la memoria, in Europa, “quest’Eu-ropa che entra dappertutto…”, come spesso sentiamo dire da qualcuno che purtroppo è solito imputare il “tutto” all’Unione Europea, che è sì la più nota organizzazione internazionale europea, ma non è l’unica. Certamente non ci aiutano più di tanto i “maratoneti” del-la televisione e della carta stampata che, nei notiziari e sui giornali, spesso non si soffermano sull’esatta definizione delle istituzioni e dei loro organi interni di cui si occupano. A ciò, talvolta, può sopperire la nostra diretta conoscen-za: così se, ad esempio, sentiamo cita-re il Parlamento di Strasburgo, intuiamo trattarsi del Parlamento Europeo, organo dell’Unione Europea, anche aiutati da un servizio televisivo che si sofferma sulla presenza del suo Presidente Martin Schulz; una precisazione però sarebbe opportuna, perché nella stessa sala del Palais de l’Europe di Strasburgo, il gran-de cubo sulle rive del fiume Ill, oltre al Parlamento europeo, da più tempo si ri-unisce anche l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Non parliamo dell’u-so delle sigle. Se, ad esempio, si parla dell’O.S.C.E. non sarebbe bene esplicita-re che si tratta dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, cioè dell’Organizzazione istituita ai sensi della Carta delle Nazioni Unite per “il preallarme, la prevenzione dei conflitti, la gestione delle crisi e la ricostruzione successiva ai conflitti in Europa”? Que-sto, anche per evitare una facile confu-sione con l’O.C.S.E., l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che si occupa “della crescita dell’eco-nomia, dell’occupazione e del tenore di vita” nei suoi 34 Stati membri sparsi nei cinque continenti, Organizzazione la cui sede parigina della Muette ho avuto modo peraltro di frequentare per aver fatto parte del suo Comitato PU.MA. – Public Management – nei miei ultimi dieci anni di servizio. Però non abbiamo sicuramente problemi se sentiamo parla-re della Corte di Strasburgo, della Corte

di Lussemburgo e della Corte dell’Aia, sapendo che a Strasburgo ha sede la Corte europea dei diritti dell’uomo, organo del Consiglio d’Europa, a Lussemburgo la Corte di giustizia dell’Unione Europea e all’Aia la Corte internazionale di giustizia, organo giudiziario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.). Poi se vedia-mo che il nostro Parlamento nazionale è in questi giorni impegnato nella discus-sione di un disegno di legge sulle unioni civili, ci si dice genericamente che così vuole l’Europa e solo da qualche dibatti-to televisivo sappiamo che ci si sta muo-vendo per ottemperare a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte di Strasburgo, organo del Consi-glio d’Europa.Ora mi sembra quindi opportuno dedicare qualche riflessione proprio al Consiglio d’Europa, cioè alla più vecchia organizzazione internazionale europea, unitamente ad alcuni suoi organi che possono interferire nelle relazioni con l’Italia e che per motivi di lavoro ho avuto modo di conoscere. Dunque, già prima che finisse il secondo conflitto mondiale si erano levate più voci a esprimere una volontà politica tesa all’instaurazione di meccanismi atti ad assicurare una pace duratura fra gli Stati europei afflitti dalle devastazioni di due guerre nel corso di mezzo secolo, unitamente all’esigenza di una maggiore coesione fra gli Stati, della protezione delle persone dall’oppressione e della

salvaguardia dal sorgere di nuove disastrose dittature. Una delle voci in tal senso, sicuramente la voce più autorevole in quel momento, era stata quella del primo ministro britannico Sir Winston Churchill. In questo quadro e anche in seguito all’approvazione da parte dell’Assemblea Generale dell’O.N.U. della storica Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, secondo la quale tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti “senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o d’altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”, il 5 maggio 1949 Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia firmarono a Londra il Trattato istitutivo del Consiglio d’Europa, con l’obiettivo di creare uno spazio democratico e giuridico comune e di garantire il rispetto dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto in Europa. Lo stesso Trattato ne istituì i suoi primi organi: 1) il Comitato dei Ministri, l’organo decisionale e programmatico composto dai Ministri degli Affari Esteri degli Stati membri o, per delega, dai loro Rappresentanti permanenti; 2) l’Assemblea Parlamentare, l’organo deliberante composto da 318 Rappresentanti titolari e altrettanti supplenti designati dai Parlamenti nazionali degli Stati membri. Con lo

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Il paladino della democrazia e della libertà in Europadi Antonino Vinci - foto Archivio Vinci

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stesso atto fu fissata, a ragion veduta, la sua sede a Strasburgo nella regione francese dell’Alsazia confinante con il Reno, con l’auspicio che esso da annoso “fiume della guerra” potesse diventare finalmente il “fiume della pace”. Il Trattato fu ratificato dall’Italia con legge 23 luglio 1949, n. 433. Il Consiglio d’Europa è ancora oggi un’istituzione internazionale autonoma totalmente distinta dall’Unione Europea e non va confuso poi con due organi di quest’ultima: 1) il Consiglio europeo, che riunisce i Capi di Stato o di governo dei 28 Stati membri dell’Unione e il Presidente della Commissione e che ha il compito di definire gli orientamenti politici generali dell’Unione stessa; 2) il Consiglio dell’Unione Europea, che riunisce i ministri degli Stati membri competenti a seconda della materia da trattare (ambiente, industria, ecc.) e che detiene il potere legislativo unitamente al Parlamento europeo.Oggi sono 47 gli Stati liberi e democratici che fanno parte del Consiglio d’Europa, ivi compresi i 28 attuali membri dell’U.E. e 5 Stati geograficamente extra-europei: Armenia, Azerbajdzan, Cipro, Georgia e Turchia. Rimangono fuori il Vaticano, che tuttavia vi partecipa in qualità di osservatore, e la Bielorussia, estromessa nel 1997 per la perdita del requisito della democrazia al cui rispetto ogni Stato membro è impegnato. L’azione prioritaria del Consiglio d’Europa è consacrata nella Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e dei diritti fondamentali, più nota come Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 849. Gli atti del Consiglio d’Europa, infatti, impegnano gli Stati membri soltanto dopo la loro ratifica. Certamente ispirata alla Dichiarazione dell’O.N.U., la Convenzione europea intende proteggere il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale, a un’equa amministrazione della giustizia, al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, alla libertà d’espressione e di opinione, alla libertà di riunione e di associazione (compreso il diritto di creare sindacati e di aderirvi), alla libertà di sposarsi e di creare una famiglia. Protocolli aggiuntivi garantiscono il diritto al rispetto dei propri beni, all’istruzione, alla libertà di circolazione e di scelta della propria residenza,

di lasciare qualsiasi Paese compreso il proprio. La Convenzione e i suoi protocolli aggiuntivi, inoltre, vietano i trattamenti inumani, la schiavitù, la servitù e il lavoro forzato, la retroattività delle leggi penali, la discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione, l’espulsione da parte di uno Stato dei propri cittadini, l’espulsione collettiva di stranieri. Diversamente dalla Dichiarazione dell’O.N.U., la Convenzione europea appresta un meccanismo per assicurarne l’applicazione e il rispetto mediante: 1) la Commissione europea dei diritti dell’uomo, composta da un numero di giuristi pari a quello degli Stati che hanno ratificato la Convenzione; 2) la Corte europea dei diritti dell’uomo, composta da un numero di giudici pari a quello degli Stati membri del Consiglio, indipendentemente dal fatto che essi abbiano ratificato la Convenzione; 3) il dianzi citato Comitato dei Ministri. Si tratta di un vero e proprio procedimento giudiziario che si apre con la presentazione di un ricorso alla Corte da parte di un cittadino che ritiene che lo Stato abbia violato uno degli obblighi assunti con la sottoscrizione della Convenzione. Sul ricorso la Commissione compie un esame di ricevibilità; se l’esame è positivo tenta un componimento amichevole e riferisce in ogni caso al Comitato dei ministri, al quale, in questa prima fase, è demandato di decidere se ci sia stata o no violazione della Convenzione. La seconda fase vede, a iniziativa del Comitato o dello Stato interessato, l’intervento della Corte che, dopo un dibattito in udienza pubblica, emette una sentenza definitiva e inappellabile che impegna lo Stato interessato ad adeguarvisi; l’esecuzione della sentenza è posta sotto la sorveglianza del Comitato dei ministri. Questo si traduce per noi italiani, in caso di lesione di diritti enunciati in Convenzione, nella possibilità di avere, dopo i tre gradi del nostro iter processuale, due ulteriori gradi di giudizio. Così, di recente, la Corte ha accolto il ricorso di una cittadina italiana che lamentava la violazione dell’art. 8 della Convenzione sul diritto al rispetto della propria vita privata e familiare per avere i giudici italiani, Corte di Cassazione compresa, dichiarato l’adottabilità dei suoi tre figli da parte di tre famiglie diverse, in un momento di temporanee difficoltà familiari che, secondo la Corte europea, si sarebbero potute superare con il

sostegno dei servizi sociali; la stessa sentenza ha previsto un risarcimento di 32.000 euro da parte dello Stato italiano per il danno morale arrecato alla ricorrente. Ancora per la violazione dell’art.8 della Convenzione la Corte europea ha accolto il ricorso di tre coppie omosessuali avverso il diniego della pubblicazione di matrimonio e ha condannato l’Italia per il vuoto normativo del suo ordinamento circa il riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso, vuoto normativo che il Parlamento è ora impegnato a colmare. Ricordo ancora un’altra sentenza della Corte europea che ha condannato l’Italia al pagamento di più di dieci milioni di euro per risarcire 371 cittadini che hanno contratto l’AIDS ricevendo trasfusioni di sangue e di emoderivati infetti. Alla Convenzione dei diritti dell’uomo e a completamento della stessa ha fatto seguito l’istituzione, con il Trattato di Torino del 18 ottobre 1961, della Carta sociale europea a garanzia del godimento dei diritti economici e sociali, quali il diritto al lavoro, a eque condizioni di lavoro, alla sicurezza e all’igiene sul lavoro, a un’equa retribuzione, il diritto sindacale, il diritto di contrattazione collettiva, il diritto di sciopero, il diritto all’orientamento e alla formazione professionale, il diritto del lavoratore e della sua famiglia alla sicurezza sociale, alla protezione della salute e ai benefici dei servizi sociali, il diritto delle persone fisicamente o mentalmente menomate alla formazione e al reinserimento professionale e sociale, il diritto della madre e del figlio alla protezione sociale ed economica, il diritto dei lavoratori migranti e delle loro famiglie all’assistenza. La Carta sociale prevede anche un sistema di controllo internazionale della sua applicazione basato su rapporti biennali da parte dei Governi degli Stati contraenti al Comitato europeo dei diritti sociali, che ne accerta la conformità ai principi della Carta. Per effetto di un Protocollo addizionale possono presentare reclami al Comitato le organizzazioni sindacali di lavoratori e di datori di lavoro e organizzazioni internazionali non governative. Grazie alla Carta e al suo meccanismo di controllo, tanti Stati hanno modificato la loro legislazione e la loro prassi per conformarsi alle regole poste dalla Carta stessa. In questo clima maturò da noi la decisione del Ministro del lavoro Giacomo Brodolini di far predisporre

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due disegni di legge riguardanti lo “statuto dei lavoratori” e la “revisione degli ordinamenti pensionistici”. Nei confronti dell’Italia voglio ricordare soltanto che il Comitato ha riscontrato di recente la violazione delle disposizioni della Carta sociale in relazione: 1) al diritto alla tutela previdenziale e assistenziale dei giudici di pace; 2) al diritto alla protezione della salute della donna e all’obiezione di coscienza del personale medico nei casi di interruzione volontaria della gravidanza; 3) ai diritti sociali degli appartenenti alle comunità rom e sinti. In particolare, a questo riguardo, il Comitato ha accolto un reclamo di un’organizzazione internazionale non governativa che denunciava “il mancato rispetto del diritto ad abitazioni adeguate per rom e sinti, lo stato di segregazione razziale, i frequenti sgomberi ed espulsioni forzate e l’abituale distruzione di beni personali da parte delle forze dell’ordine”; peraltro, per seguire l’attuazione di politiche nazionali di inclusione di queste comunità, nel quadro di una Convenzione per la protezione delle minoranze nazionali, opera un Comitato di esperti ad hoc, denominato CAHROM.L’azione del Consiglio d’Europa è rivolta anche ad altri obiettivi quali, ad esempio, l’educazione, la cultura e lo sport, la gioventù, la sanità pubblica, l’assetto territoriale e il patrimonio, i poteri locali e regionali, la prevenzione della tortura, la biomedicina, la tratta di esseri umani. Per il raggiungimento di tali obiettivi, oltre ad aver varato carte e convenzioni ex istituito conferenze, comitati e commissioni, il Consiglio d’Europa si avvale di forme di cooperazione con l’Unione Europea, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (O.S.C.E.), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) e altre Organizzazioni internazionali. Chiudo accennando che l’Unione Europea in una sua Carta dei diritti fondamentali, adottata a Nizza nel 2000 e riveduta a Strasburgo nel 2007, ha enunciato principi e diritti che debbono essere rispettati nell’Unione stessa quali, ad esempio, la dignità della persona, la libertà, la sicurezza, l’uguaglianza davanti alla legge, la solidarietà, la sicurezza sociale, la cittadinanza, la libertà di circolazione e di soggiorno, la tutela dell’ambiente e la giustizia. La Carta – meglio conosciuta come Carta di Nizza – è stata successivamente incorporata, sotto forma di allegato e con il medesimo valore giuridico di un trattato, nel Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, trattato che ha fatto anche obbligo all’Unione Europea di aderire alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata dal Consiglio d’Europa e ha sancito che i diritti dalla Convenzione stessa garantiti “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

Visitare uno dei musei più importanti della Sicilia, intitolato a uno dei grandi precursori dell’archeologia in Sicilia, regala sempre

un’emozione speciale. Un’emozione che aumenta, mista a quel giusto pizzico di orgoglio che regala il vedere esposto un pezzo della storia della mia città. Parlo chiaramente della mostra dedicata agli ori del “British Museum”, eccezionalmente rientrati in Sicilia dal 23 ottobre al 23 novembre 2015. I gioielli, Tesoro di Avola compreso, uniti alla coppa aurea decorata con tori e agli anelli-sigilli provenienti da Sant’Angelo Muxaro, hanno costituito il pezzo forte del medagliere del museo, che però ospita anche una ricchissima e variegata collezione numismatica, con esemplari provenienti da tutta la Magna Grecia, oltre che alcuni eccezionali esemplari fenici, provenienti dalle antiche colonie puniche sul territorio siciliano. Gioielli e monete ma non solo. Il museo ospita una ricchissima collezione di fossili, tra cui i celeberrimi scheletri di due elefanti nani, ma anche resti di antiche officine preistoriche e delle popolazioni che ospitarono alcuni dei siti più antichi del territorio siciliano (Thapsos, Pantalica, Grammichele solo per citarne alcuni) e alcune steli con rappresentazioni legate alla sessualità che probabilmente chiudevano le tombe. Il panorama si amplia con la maestosa collezione vascolare, che presenta esemplari molto variegati, da coppette e vasi attingitori usati durante riti religiosi ancora avvolti nel mistero, fino ai mastodontici esemplari usati per la sepoltura detta enchytrismos, ovvero inumazione di corpi dei bambini all’interno del vaso stesso. Il panorama ceramico si arricchisce con gli esemplari attici, sia a figure nere che a figure rosse, con forme che variano dalla lekythos (piccolo contenitore di unguenti a scopo funerario) allo skyphos (piccolo vaso per bere), dalla coppa al cratere (vaso usato per mescere il vino e l’acqua). La proverbiale “ciliegina sulla torta”, degna conclusione di una giornata estremamente interessante e piacevole, è stata la statua di Venere, esemplare meraviglioso dell’arte statuaria a scopo religioso. L’ennesima prova della maestosità dell’arte antica, che è sempre in grado di emozionare e colpire il pubblico, con un fascino destinato a sopravvivere al tempo che corrode, e che mai nulla potrà intaccare.

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Visita al Museo“Paolo Orsi”di Sebastiano Melintenda

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Nun c’è ‘mpegnu, né scusanti e mancu dubbiu ‘nta testa, avissi a carriri u munnu, a lugliu, a Raula, c’è festa.

Si fa festa a la Pattruna vinirata e virginedda, marturiata finu a morti, spusa a Ddiu nnicaredda.

Iappi Vennira pi nnomu, e macari Vinniranda, nasciu ‘nSicilia, a Acirrialie fu ra fedi capubanda.

Ri picciridda priricaia, ‘nmenzu a genti si muvia, pi purtari la parola ri lu nostru Ddiu Missia.

‘Ntornu circa l’annu centu, ri l’avventu ro Signuri, misi peri ‘nta lu munnu sta’ riggina ri l’Amuri.

A li genti ri la Gallia e ri l’Italia miridiunali, Magna Grecia e ri Sicilia, porta amuri senza uguali.

E pi chistu, com’è r’usu, fu re’ putenti marturiata cu risfizii, finu a morti, ma ri l’umili genti amata.

Antoniu, Calibru Prifettu, cu sivizii e cu turtura, Ddiu ci vulia fari niari, ma Vennira nun spirgiura.

Altrittantu fici Tèmiu,ri la Magna Grecia tirannu, però macari lu so’ fari nun purtau a Vennira dannu.

Ma u mali, c’appustaia, tantu fici ca’ culpiu, e, pocu dopu quarant’anni, decapitata, ivu a Ddiu.

C’è cu rici ni la Gallia, cu guarisci Vista e Pettu, o macari, cà, ‘nSicilia, trova a morti pi’ dispettu.

L’abbitanti re paisi, e ri Raula, ‘mparticulari, la pigghiaru pi’ vardiana senza sordi mai pajiari.

A tistarda divuzioni, versu li pirsuni affisi, si riscontra già re tempi ri Raula Veccia, pe’ difisi.

Ogni annu, o misi i lugliu, cu sunati ri la banda, si ricorda lu martiriu ri la nostra cara Santa.

L’ultima ruminica ro misi, tutti a Santuzza appressu: Sinnicu, assissuri, parrini,genti divota e “maluversu”.

E’ accussì ca u Simulacru ri la Vergini gira i strati,

c’abbunnanza ri campani, bummi e fochi artificiali.

Tutt’a genti è attenta ne’ prighieri ricitari, sannu stari puru i nnichi ca li carni fanu arrizzari.

Ni’ stu’ seguitu cumpostu, ni’ stu’ snodu ri pirsuni, c’è cu ‘nvoca la Santuzza e cu prejia a “mucciuni”.

Mentri e lati ro curteu, bancarelli e vinnituri, priparunu tanti cosi fini cu duvizia e cu primuri.

Macari emigranti e furisteri, tutta genti ca è luntanu, vonu essiri prisenti pi pigghiarisi pa’ manu.

E assemi, cu ‘na vuci, ‘ntornu a Statua, a so’ fiura: “Viva viva Santa Vennira” ricunu forti cu primura.

Fari chistu, e macari ciù, po’ splinduri ri la Santa, ogni annu è tradizioni r’Aulisi, e ci si vanta.

Hanu rrettu a Parrocchia, se u rivordu ‘n’è cunfusu, pattri Carpinu, Furtuna e ron Giuvanni Carusu.

Nun c’è ‘mpegnu, né scusanti e mancu dubbiu ‘nta testa, avissi a carriri u munnu, a lugliu, a Raula, c’è festa.

Santa Venniradi Turi Coffa

&RVWDQWLQR�&DUDVL��DWWULEXLWR���VHF��;9,,,��Predica di Santa Venera��ROLR�VX�WHOD�FP����;���

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Gesù di Nazareth e l’uomo della sindone. Vi è una somiglianza fra i due veramente eclatante, per tantissimi particolari. La Sindone presenta una vicenda che si è svolta come i vangeli narrano l’evento finale della vita di Gesù. [...] Non è possibile ignorare questa relazione di coincidenza: ciò porta il lettore che conosce entrambi i racconti a passare istintivamente dall’una all’altra narrazione. Da un lato la sindone viene illuminata dai vangeli, dall’altro è come se i vangeli avessero un’appendice del tutto unica e speciale [...].Ecco allora le caratteristiche comuni a Gesù e all’uomo della sindone. 1) Gesù, così come l’uomo della sin-done, è stato percosso al volto. I carnefici diedero libero sfogo alla loro crudeltà e questo è solo la prima di una serie di sevizie e torture molto violente. Il volto sindonico è tumefatto, gonfio, con degli ematomi sul lato destro e con il naso de-formato. Nel caso di Gesù tutto ciò avveniva in-sieme alla violenza psicologica su di un Giusto che viene deriso amaramente per ciò di cui era accusato. Ciò era per tut-ti un’assurdità inaudita, soprattutto per i soldati che avevano trovato il pretesto per schernire Gesù. In Marco (Mc 15,19): dai soldati romani dopo la sentenza di condanna a morte; Matteo (Mt 26,67): dalle autorità giudaiche nel contesto del processo/interrogatorio notturno; Luca (Lc 22,63): dagli uomini che avevano in custodia Gesù dopo l’arresto; Giovanni (Gv 19,3): dai soldati romani durante le fasi del processo romano dinnanzi a Pilato. 2) Sia Gesù che l’uomo della sindone hanno subito la flagellazione. I vangeli presentano una duplice versione del-la stessa notizia. In Giovanni (Gv 19,1) e parzialmente in Luca (Lc 23,16.22) Gesù viene flagellato come punizione in-dipendente; non era una tortura per forzare una confessione, né la pena collaterale che precludeva alla crocifissione. La condanna a morte sopravvenne solo più tardi. [Pilato] si decise per la flagellazione, nella speranza che gli Ebrei si sarebbero accontentati di questa pena. Invece Marco (Mc 15,15) e Matteo (Mt 27,26) riferiscono di una flagellazio-ne imposta come preludio all’esecuzione ca-

pitale, a pena di morte sentenziata. Dal racconto sindonico non si possono conoscere le dinamiche che portarono a questa tortura ma si possono vedere gli effetti sulla pelle di quest’uomo che furono indubbiamente gravosi. Fonda-mentalmente quasi tutto il nudo corpo è ricoperto di ecchimosi escoriate da cui fuoriuscì del sangue. La flagellazione fu pesante, ma l’uomo della sindone non morì a causa di questa tortura. 3) All’uomo della sindone e a Gesù è stato imposto un casco/corona di spine. È una notizia unica, nessun documento noto, a parte i vangeli e la sindone, ri-porta tale usanza presso i romani o altri popoli. Dal racconto sindonico traspare che fu posizionato sul capo un casco di spine che ricopriva le regioni frontale, parietale e occipitale. Dalle piccole fe-rite da punta colò del sangue che man mano si coagulò mentre l’uomo della sindone era in posizione eretta. Tutti gli evangelisti, eccetto Luca, riportano tale informazione. Il contesto è sempre quel-lo della derisione da parte dei soldati romani sul tema del falso re dei giudei. Questa tortura è abbinata alla vestizione con un tessuto di porpora e una canna nella mano destra (solo in Matteo: Mt 27,29 b). 4) L’uomo della sindone e Gesù hanno trasportato un oggetto pesante/patibu-lum per l’inchiodamento. Sulla sindone i segni lasciati nella zona scapolare si-nistra e sovrascapolare destra sono stati interpretati come la diretta conseguen-za del trasporto di un oggetto pesante che strofinò, attraverso una veste, sulla pelle già escoriata dalla flagellazione. Si percepisce come ecchimosi di forma quadrangolare. Conoscendo le modali-tà di crocifissione del mondo antico, è possibile affermare che non può essere altro che il segno lasciato dal trasporto del patibulum, il legno sul quale poi è sta-to inchiodato. Altri dettagli mettono in evidenza che l’uomo della sindone, tra-sportando questo oggetto verso il luogo della crocifissione, è caduto a terra. Lo rivelano le lievi contusioni alle ginocchia e il terriccio rinvenuto sul naso e sul gi-nocchio sinistro. Ciò che viene detto sotto forma di imma-gine sulla sindone viene detto in parole

nei racconti della pas-sione. Gli evangelisti riferiscono che Gesù fu costretto a portare la croce (Sinottici e Gv) e che ad un certo punto del cammino verso il Gòlgota fu aiutato da Simone il cireneo (Gv non menziona l’aiuto del cireneo). Secondo i Sinottici, la fatica, il dolore, le ferite sanguinanti di un Uomo flagellato e coronato di spine spinsero probabil-mente i carnefici a chiedere il supporto di un passante. In Giovanni invece Gesù appare con una forza fisica quasi sovru-mana che gli permette, nonostante i do-lori e la fatica, di portare la croce fino al luogo della crocifissione. I vangeli non riferiscono di cadute di Gesù durante la salita al Calvario. 5) Gesù e l’uomo della sindone sono stati inchiodati alla croce. Di questo dato gli evangelisti danno una rapida e scar-na informazione, solo una semplice af-fermazione senza alcuna descrizione della modalità di crocifissione. Tutti e quattro specificano che Gesù fu crocifis-so in mezzo a due malfattori nel luogo detto Gòlgota. “Marco” specifica l’o-ra della crocifissione: le nove del mattino (Mc 15,25). L’uso dei chiodi inoltre vie-ne specificato solo da “Giovanni” in un contesto diverso da quello della crocifis-sione, cioè nel contesto delle apparizioni del Risorto. Tommaso, assente alla pri-ma apparizione e incredulo al racconto dei discepoli, così si esprime: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo (Gv 20,25 b). Crocifiggere con chiodi non era un fatto scontato, era anche molto diffusa l’usanza di legare mani e piedi dei condannati con corde. Probabilmen-te l’uso dei chiodi era riservato a croci-fissioni ufficiali. La sindone, attraverso l’analisi delle relative ferite, documenta chiaramente un inchiodamento dei polsi e dei piedi con tre chiodi. La ferita da chiodo del polso sinistro è nettamente visibile; di quella del polso destro, coper-to dalla mano sinistra, è visibile solo il sangue fuoriuscito; il terzo chiodo è sta-

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Sindone e Vangeli:passioni a confrontodi Corrado Argentino

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to utilizzato per entrambi i piedi, facen-do sovrapporre il piede sinistro al destro. 6) Entrambi deceduti per morte di croce. L’uomo della sindone appare sul telo come un cadavere. Tutte le ferite presen-ti sul corpo non permettono di pensare a un perdurare della vita. Inoltre il de-funto è esplicitamente in rigidità cadave-rica, con il collo inclinato, le gambe di-versamente estese e i muscoli irrigiditi. Il sangue post-mortale sgorgato dalla ferita al costato documenta la situazione cada-verica di quest’uomo. La morte di Gesù viene descritta dagli evangelisti come un evento permeato fino all’ultimo istante dalla Sacra Scrittura. Gesù cita la Paro-la di Dio e la porta a compimento sulla sua pelle. I sinottici riportano l’ora della morte (le tre del pomeriggio) e descrivo-no gli istanti successivi ricchi di sconvol-gimenti miracolosi e straordinari. In Mc, Mt e Lc Gesù muore gridando con for-za una parola dei Salmi (Sal 22,2 in Mc 15,34 e Mt 27,46; Sal 31,6 in Lc 23,46). Giovanni non riporta questi particolari dei sinottici ma segnala il compimento di Sal 22,16 e di Sal 69,22: quando avevo sete mi hanno dato aceto. Tutto si svolge in poche ore. Sappiamo da notizie del tempo che gli Ebrei messi in croce dai Romani du-rante la guerra giudaica, restavano in vita talvolta per parecchi giorni e morivano fra gli spasimi, a poco a poco. Gesù probabilmen-te era così stremato dalla flagellazione e dai maltrattamenti che la sua morte avvenne in poche ore; lo stesso Pilato si meravigliò di una così rapida morte (cf Mc 15,44). 7) Sia Gesù che l’uomo della sindone non presentano fratture alle gambe, ma sono stati feriti al costato dopo la morte con una lama. La prassi stabilita per accele-rare la morte dei crocifissi era quella di spezzarne le gambe, qui invece ci si ritro-

va di fronte a un fatto unico. Entrambi, non solo non hanno le gambe spezzate ma hanno la stessa identica ferita inferta dopo la morte. L’evangelista Giovanni motiva bene questa singolare operazione. Egli infor-ma che la motivazione per cui doveva es-sere accelerata la morte dei crocifissi era l’imminenza del solenne sabato di Pa-squa. La frattura delle gambe viene rego-larmente effettuata per i due malfattori, lo stesso non avviene con Gesù perché già morto, a cui invece viene inflitto un colpo di lancia per accertare l’avvenuto decesso (Gv 19,31-37). Sulla sindone questa ferita è la più appa-riscente e quella da cui è fuoriuscito più sangue, diviso nella sua parte corpusco-lata e sierosa. Da questo dato scientifico rilevabile dall’analisi del sangue dell’uo-mo della sindone viene fuori il paralleli-smo più curioso con Gesù: dal costato del primo è uscito “sangue corpuscola-to” e “siero”, dal costato del secondo “sangue” e “acqua” (Gv 19,34). Ci si chiede se l’informazione riportata da Giovanni, interpretata da sempre come la più carica di intenzionalità simbolica, abbia invece una base storicamente at-tendibile. 8) L’uomo della sindone e Gesù furo-no avvolti in un lenzuolo funebre e sepolti frettolosamente. Gli evangelisti narrano la sepoltura di Gesù. Tutti e quattro sono attenti all’indicazione temporale: era ve-nuta ormai la sera e stava per iniziare il riposo del sabato (Mc 15,42; Mt 27,57; Lc 23,54; Gv 19,42). Tale ora giustifica il veloce seppellimento, tutto doveva es-sere svolto entro l’inizio del riposo pre-scritto. Così Egli viene rapidamente de-posto dalla croce, avvolto/legato con un lenzuolo/teli e seppellito in un sepolcro,

in vista di una sistemazione definitiva che doveva essere operata dalle donne dopo il riposo sabba-tico. A causa dell’ora Gesù non fu seppel-lito secondo i regolari usi poiché avreb-bero richiesto troppo tempo. La sepoltura fu fatta digni-tosamente e decorosamen-

te ma di fretta per rientrare nei tempi stabiliti. La sindone mostra un crocifisso avvolto in un lenzuolo, questo è già di per sé un fatto singolare. Solitamente i crocifissi erano destinati alla fossa co-mune o ancora peggio venivano lasciati sulla croce al destino degli animali sel-vatici. L’uomo della sindone ha avuto invece il privilegio di una degna sepol-tura con un pregiato lenzuolo di lino. Il corpo non fu lavato, ma avvolto insan-guinato. La lavatura non fu effettuata perché si trattava di una vittima di morte violenta, da cui era fuoriuscito molto sangue che doveva essere sepolto con il cadavere. Per l’uomo della sindone non si può dire se la sepoltura fu frettolosa. Guardando la sindone ci si interroga sull’identità di questo crocifisso sepolto così onorevolmente che avrebbe dovuto essere trattato, in quanto condannato a pena capitale, come un disonorato. 9) L’uomo della sindone, così come Gesù, è rimasto avvolto nel lenzuolo per poco tempo. Sulla sindone non sono pre-senti i naturali segni di decomposizione di un cadavere e il processo di ridiscio-glimento dei coaguli ematici si arrestò entro 40 ore. Da questi due dati non si può che evincere la breve durata di per-manenza del corpo nel lenzuolo. Se il corpo fosse stato avvolto nel lenzuolo per più di due o tre giorni, il processo di putrefazione avrebbe distrutto l’im-magine e avrebbe lasciato delle evidenti macchie che si vedrebbero sino ad oggi sul telo. Non sono presenti poi segni di trascinamento del corpo o di alterazio-ne dei decalchi: il contatto tra corpo e lenzuolo si è interrotto misteriosamente. Ad ogni modo risulta irragionevole sep-pellire un defunto con un lenzuolo per poi toglierlo da esso dopo così poco tem-po. Di Gesù di Nazareth ogni cristiano conosce le motivazioni della brevità di permanenza nel lenzuolo. Questo fatto concreto è il centro della fede cristiana. Il primo giorno della settimana, all’alba dopo il sabato, il sepolcro viene ritrovato vuoto. «È risorto, non è qui» (Mc 16,6). Nei vangeli la ragione, per cui il contatto tra corpo e lenzuolo non c’è più, è pro-prio la risurrezione. Le donne vedranno che la loro premura per il defunto e per la sua conservazione è stata una premura troppo umana. Vedranno che Gesù non deve essere conservato nella morte, ma che Egli è vivo nuovamente e soltanto ora vive ve-ramente. Vedranno che Dio, in un modo defi-nitivo e solo a Lui possibile, lo ha sottratto alla corruzione e con ciò al potere della morte.

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Il 29 febbraio scorso è venuto a man-care un caro amico e socio di “Gli Avolesi nel Mondo”, l’avv. Elio Alia,

del quale la nostra rivista nel precedente numero ha pubblicato un contributo sul celebre “Caso Gallo”. Più che il socio e l’uomo pubblico che egli è stato in tut-ta la sua vita come impiegato di banca, come politico, come dirigente nazionale del P.S.I., come amministratore comuna-le in qualità di consigliere e più volte di assessore, e infine come giudice di pace, io voglio, in questa sede, rendere omaggio all’amico e all’uomo. Io sono stato ono-rato della sua amicizia sincera, della sua grande stima e del suo affetto, ed è grazie a questo mio “privilegio” che, senza che esso faccia velo alla verità, desidero ricor-darlo per come credo di averlo conosciu-to e interiormente sentito. Amava la vita Elio, e voleva coglierne con gusto la bel-lezza e la bontà, nella loro radice di base che è la verità, appassionatamente e sen-za sconti, neanche per sé stesso. Ho visto Elio sempre come una persona nata libe-ra e in costante tensione alla difesa della sua libertà. Libertà di pensiero, libertà di parola, libertà di azione, libertà di movi-mento. La sua vita si può definire come un continuo, inquieto, talora contraddit-torio, viaggio nella e verso la libertà, un viaggio ideale e mentale con lo spirito, ma anche un viaggio fisico, come dimostrano le tante crociere e i tanti tour che ha fat-to in tutto il mondo, e come confermato sino alla fine dalle pressanti richieste ri-volte, dal letto dell’ospedale, alla moglie Ninuccia, perché prenotasse da qualche parte per Pasqua e a Montecatini Terme

per l’estate prossima. Già da quand’era piccolo la difficoltà di educarlo all’eserci-zio armonico della libertà, come egli stes-so qualche volta mi ha raccontato, dava da pensare alla sua adorata mamma. La maturità classica dovette andare a conse-guirla lontano da Avola, a San Demetrio Corone, dove se ne fece carico il fratello Vincenzo, da lui venerato, che colà inse-gnava nei primi anni Cinquanta, e dove ebbe compagno di classe il concittadino, poi grande ispanista, prof. Giuseppe Di Stefano, che egli affettuosamente chiamò sempre Pinuccio. E poi la libertà, eser-citata fino all’autolesionismo, nel suo impegno politico, una libertà che ovvia-mente non poteva permettergli di “fare carriera”, non avendo egli pratica con la parola diplomazia e con la prassi della “diplomazia”. Ne era agli antipodi, fino alla difficoltà talora nell’autocontrollo. Una sorta di inquietudine, causata in lui dalla febbre libertaria, era quella che non sempre gli ha reso facili e agevoli i rappor-ti personali con il prossimo. Eppure Elio aveva due qualità di fondo che avrebbero dovuto agevolarglieli: l’onestà interiore e la sincerità verso gli altri. Qualità che forse sono state anche paradossalmente la sua pietra d’inciampo. Esse, infatti, unite alla generosità, erano in lui come una po-tente carica di energia, una carica di luce costantemente e ciclicamente soggetta ad esplodere e divenire abbagliante, abbaci-nante. Una luce che per primo abbacina-va lui stesso, non sempre permettendogli di vedere dove e come poggiava i piedi, facendolo conseguentemente sbattere su-gli altri, sfiorando talora l’invadenza e/o

l’impertinenza (la morte però chiude tutti i conti), persino sui destinatari cui si rivol-geva con affetto e positività d’intenti. Una luce che non tollerava zone d’ombra e che diventava qualche volta oggettivamente scomoda, se non pesante da reggere, per chi la riceveva o la subiva. Un eccesso di luce è stata la sua qualità ed è stato proba-bilmente anche il suo limite. Un limite che quanti lo abbiamo conosciuto non sempre siamo stati capaci di affrontare e/o di ac-cettare, leggendone la positività d’origine. Insomma, caro Elio, a volte, per incapa-cità nostra, per insipienza, per comodità, per noia o per stanchezza, certamente per poco amore cristiano, non abbiamo retto alla potenza esplosiva della tua luce e ab-biamo preferito sottrarci ad essa. E questo è un altro limite, che onestamente dob-biamo stavolta ascrivere al nostro conto, magari chiedendotene scusa nella sordina del nostro cuore.Le tue figlie, al tuo funerale, hanno reso pubblicamente affettuoso omaggio al pa-dre e al marito, e in ciò hanno fatto bene. Ma tu sei stato anche uomo pubblico, come testimoniato quel giorno dal laba-ro della Città, dal picchetto d’onore dei vigili urbani e dagli amministratori poli-tici presenti, e sei stato amico di tanti. E come amico, che ti ha voluto bene, ti dedi-co pubblicamente questo mio tentativo di leggere in te, che per me è anche una di-chiarazione d’affetto e di amicizia. Vale.

Scivola come l’olio il suo nome: Elio Alia. Merito della –l– ripetuta, nell’uno e nell’altro membro, con la –i– che la segue entrambe le volte; e del fluire delle vocali, tutte presenti meno l’oscura u, ben sei delle otto lettere dell’insieme, tre da una parte e tre dall’altra in simmetrica disposizione. E come l’olio e il frutto da cui si spreme emanano solarità e sanno

di terragno e di nostrano, così quel nome trasmette i medesimi umori a chi ne ha conosciuto il titolare nella sua essenzialità, al di là di contingenze esterne. Dalla terra dove affondava radici profonde Elio traeva i succhi migliori: la cordialità sollecita e leale, la socievolezza fittamente ramificata, l’amicizia intensa e istintivamente fiduciosa. Nella supposta ultima meta, il con-solante altrove, possiamo esser certi che avrà scovato l’analogo della nostra piazza, con i suoi quattro quartini che a lui erano ugualmente familiari, quei quartini che ogni tardo pomeriggio di un tempo andato solevano affollarsi – ma semplifico – di agricoltori e artigiani l’uno, di commercianti e sensali l’altro, di studenti e universitari il terzo e di impiegati e professionisti il quarto, con una sua piccola appendice di prestigiosi mediatori; presenze tutte esclusivamente maschili. In quell’altrove e in quella piazza si è visto raggiungere, non molte settimane dopo il suo arrivo, da un altro gran personaggio figlio vigoroso dell’Avola dipartita, Nunzio Cancemi. Avranno ripreso a discettare e a scambiare battute su e giù per quelle eteree copie dei quartini e dei Corsi della loro giovinezza, freschi ancora del malinconico dialogare negli ultimi mesi della loro anziana età. Ci ritroveremo, cari amici, ma senza prescia, non diamoci fretta.

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Elio Alia, persona libera

In ricordo dell’amico

di Sebastiano Burgaretta - foto di Nella Urso

di Giuseppe Di Stefano

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L’anno 1916 si apre con le truppe italiane attestate sulle rive del fiume Isonzo in attesa che il mi-

glioramento delle condizioni climatiche favorisca la ripresa delle operazioni. Ai primi di marzo, il generale Cadorna ema-nava gli ordini per la ripresa delle ostilità. Si trattava di un’offensiva lanciata non a seguito di accurati studi tattico-strategici, bensì aveva fini diversivi, per evitare che gli austroungarici sottraessero truppe dal fronte italiano e le trasferissero sul fronte francese di Verdun. Questa operazione fu chiesta dai francesi, nel rispetto degli Accordi della Conferenza Inte-ralleata di Chantilly del dicembre 1915 che, prevedeva anche di pro-seguire l’attività di logoramento delle truppe nemiche. L’11 marzo si iniziava la 5^ battaglia dell’Isonzo. Gli obiettivi sul fronte della II^ e III^ Armata erano rappresenta-ti dal monte Mrzli, dal S. Maria, dal Podgora e dal San Michele. Le truppe della II^ Armata, schierate nel settore del monte Rambon, si trovarono nella impossibilità di manovrare per le abbondanti nevi-cate e furono così un facile bersa-glio per le mitragliatrici nemiche. La III^ Armata, venendo a man-care il sostegno della II^ Armata che, bloccata dal fango, aveva mes-so fuori uso parecchio materiale bellico e i carriaggi con i riforni-menti, si limitò a effettuare azioni di bombardamento sulle postazio-ni nemiche con scarsi risultati. Il 15 marzo terminava l’inutile offen-siva che procurò parecchi morti e nessun risultato significativo. Il generale Cadorna, assecondato anche dallo Stato Maggiore, aveva con-centrato la maggior parte delle truppe sulla fascia meridionale fino al mare e lasciato sguarnito il fronte trentino. Egli era convinto che, in quel settore, non po-teva accadere nulla a causa del terreno impervio, e che le voci che circolavano circa un probabile intervento austriaco, erano state diffuse ad arte dal nemico, per indurre gli italiani ad allentare l’of-fensiva sul fiume Isonzo. Il 15 giugno, quando l’Italia si apprestava a ricordare il primo anno dell’intervento armato, pro-prio in quel settore, su un fronte di 50 chi-lometri, l’artiglieria nemica bombardò a

tappeto le zone presidiate dagli italiani. Mentre le ali dello schieramento rallenta-rono l’avanzata degli austriaci, al centro si aprì una profonda breccia e il nemico dilagò, superando i contrafforti alpini, fino ad affacciarsi sulla pianura veneta. Vicenza era a meno di trenta chilometri e le forze schierate sull’Isonzo rischia-vano di essere prese alle spalle. Questo piano, chiamato Strafexpedition (spedizione punitiva), era stato progettato dal generale Conrad sin dal 1906, quando l’Italia era ancora alleata dell’Austria, per preveni-re un eventuale tradimento. A causa del

suo odio verso il nostro Paese, l’impera-tore d’Austria era stato costretto ad al-lontanarlo dall’incarico di Comandante dell’esercito austroungarico, carica che gli venne subito restituita non appena l’I-talia entrò in guerra a fianco della Tripli-ce Intesa. Riottenuto il comando, aveva tentato più volte di convincere i tedeschi a sferrare un attacco sul fronte italiano, convinto come era che esso si sarebbe frantumato al primo urto. Per nostra for-tuna, i tedeschi non lo avevano ascoltato per due motivi: da un lato l’Italia ancora non aveva dichiarato guerra alla Germa-nia, dall’altro lato perché fortemente im-

pegnati sul fronte francese.La notizia dello sfondamento del fron-te trentino, giunta a Roma, provocò un sollevamento generale contro il Cadorna. Salandra, atterrito dalle ripercussioni ne-gative che avrebbero potuto interessare il Paese, convocò un Consiglio dei Ministri urgente in cui, il problema della sostitu-zione del Generalissimo tornò prepoten-temente sul tavolo. Tuttavia, sebbene la tentazione di fare di lui un capro espia-torio fosse grande, tutti convennero che non era il momento di aprire una crisi di Comando e ci si accontentò di una solu-

zione di compromesso: la convo-cazione di un Consiglio di Guerra, cui, oltre al Cadorna, dovevano partecipare il Sottocapo di Stato Maggiore, generale Porro, i Co-mandanti di Armata, il Presidente del Consiglio e cinque ministri. Il Generalissimo rifiutò la proposta. Di fronte a tanta tracotanza la Ca-mera insorse. Non solo i giolittia-ni, che osteggiavano apertamente l’operato di Cadorna, ma anche gli interventisti furono d’accordo che il suo potere doveva essere ridimensionato. Infatti, sia i gio-littiani, provocando la crisi di co-mando, sia gli interventisti che, essendosi arruolati come volonta-ri, nutrivano uno spirito di rivalsa, perché il Cadorna li aveva esclusi dalle prime linee in quanto ritenu-ti elementi disgregatori e pessimi soldati, lavoravano per la caduta di Salandra. Così ai primi di giugno, la Camera chiese chiarimenti al Presidente del Consiglio sul crol-lo del fronte trentino. Il Salandra

riversò le colpe sui comandi milita-ri, suscitando la reazione dei nazionalisti che lo definirono il Presidente dell’interven-to, ma che nello stesso tempo aveva imboscato i tre figli maschi, anziché mandarli alla guer-ra. Ferito nell’orgoglio, Salandra si difese male e il Parlamento lo sfiduciò con 197 no e 158 si.La scelta del successore fu, come al soli-to, il frutto di un compromesso. L’emer-genza richiedeva la formazione di un go-verno di concordia nazionale che, come tutte le concordie, era destinato a covare, al suo interno, tutte le discordie. Paolo Boselli che fu chiamato a presiedere il Consiglio dei Ministri, possedeva tutti i

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Il 1916 e la logorante guerra di trinceadi Michele Favaccio

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requisiti, meno quelli di guidare un pa-ese in guerra. Era un bravo economista, ma politicamente scolorito e aveva qua-si ottant’anni. Ma, proprio perché privo di precisi connotati, lo si ritenne il più adatto a barcamenarsi in una coalizione dalle più svariate tendenze. La nomina di Boselli non dispiacque al Generalissimo perché lo riteneva più debole di Salandra, come in effetti era. Mentre a Roma si discuteva sulla formazione del nuo-vo Governo, il Cadorna aveva dato il meglio di sé come coraggio e ca-pacità organizzativa e anziché retro-cedere le truppe, aveva buttato nella mischia tutte le riserve, rischiando il tutto per tutto. L’avanzata nemi-ca fu arrestata, il terreno perduto fu recuperato, ma il 29 giugno, alle ore 05:15, gli austriaci, dopo il fallimen-to della strafexpedition, scatenarono un violento contrattacco sul monte San Michele, San Martino del Carso e Bosco Cappuccio, per alleggerire la pressione italiana. Per la prima volta i gas asfissianti, un miscuglio di cloro e fosgene, fecero la loro comparsa sul nostro campo di batta-glia e trovarono i soldati totalmente impreparati. Il gas, sospinto dal ven-to favorevole, coprì le trincee italia-ne e sorprese molti soldati nel son-no. Gli austroungarici invasero le postazioni italiane ormai sguarnite, finendo impietosamente con le maz-ze ferrate i fanti storditi e agonizzan-ti. Dopo attimi di smarrimento, le seconde linee, sfruttando i corridoi creati dalla distribuzione non uniforme dei gas nell’aria, rabbiosamente ricon-quistarono le posizioni perdute, creando i presupposti per la 6^ battaglia dell’Isonzo, che avrà luogo dal 6 al 14 agosto, avente come obiettivo la conquista di Gorizia. Conrad, convinto di aver messo in crisi il dispositivo italiano, fu colto di sorpresa quando il 6 agosto dovette affrontare la III^ Armata del Duca di Aosta. Il fiume Isonzo fu attraversato con irruenza dalle nostre truppe. Gli austriaci incalzati dalle fanterie del generale Capello, a cui va at-tribuito il merito della brillante operazio-ne, dopo aver resistito per tre giorni, do-vettero abbandonare il monte Sabotino e il monte San Michele e Gorizia cadde.Questo successo sollevò il morale delle truppe, fece salire le quotazioni dell’Italia in campo alleato e rinsaldò il Governo. Il Generalissimo, imbaldanzito a causa di questi eventi favorevoli, si mostrava sempre più autoritario. Quando venne a conoscenza che il generale Capello,

portato in auge dalla stampa nazionale, doveva ricevere il ministro Bissolati, lo destituì, senza complimenti, relegandolo al comando di una grande unità secon-daria, che operava in una zona morta. Il generale Capello veniva visto dalla stampa come il probabile successore, ca-pace di imprimere un nuovo dinamismo offensivo alla guerra e stabilire rapporti

più intensi e proficui tra Paese ed Eserci-to. Il provvedimento punitivo si inseriva in una più ampia offensiva del Cadorna contro le ingerenze del Governo nella condotta delle operazioni; negli stessi giorni, infatti, il Cadorna vietò l’acces-so alla zona di operazioni ai ministri del Consiglio di Guerra e in particolare a Leonida Bissolati che era il ministro incaricato dei rapporti con il Comando Supremo. Questo dissidio, fra un uomo solitario e monacale e un uomo brillante, estroverso e moderno, peserà tanto nella disfatta di Caporetto nel 1917. Forse fu l’ebbrezza di questi successi che portò il Comandante supremo a sopravvalutare le proprie forze e non diede la dovuta importanza a episodi inquietanti che ave-vano visto il dissolversi, di fronte al nemi-co, di alcuni reparti. La 35^ divisione si era sfaldata al primo urto, i soldati erano fuggiti abbandonando le armi, e per fer-marli c’era voluto il fuoco dei carabinieri che aveva causato fra loro diverse vitti-

me. Appena informato, Cadorna ordinò che l’abbandono di posto venisse punito con la fucilazione senza processo. Pochi giorni dopo un sottotenente, tre sergenti e otto soldati del 141° reggimento subiro-no quella sorte e il Cadorna se ne felicitò con il colonnello che aveva ordinato l’e-secuzione, premiandolo con un encomio solenne. Dopo la presa di Gorizia, il Ge-

neralissimo ebbe l’illusione di avere ormai il nemico alla sua mercé. In effetti gli italiani erano, come nume-ro, superiori agli austriaci. Mentre il nemico non poteva distrarre forze dal fronte balcanico e galiziano, il Cadorna disponeva di quasi due milioni e mezzo di combattenti e di un’arma micidiale: la bombarda. Ne aveva ricevuto 600 con cui pensava di disarticolare facilmente i retico-lati nemici e aprire profonde brecce nelle fortificazioni avversarie, osta-colo insormontabile per le truppe appiedate. Forte di questa fiducia e nel timore che un altro inverno in trincea avrebbe avuto effetti deleteri sul morale delle truppe, senza alcu-na preparazione, scatenò il 14 set-tembre, la 7^ battaglia dell’Isonzo con l’obiettivo di raggiungere Trie-ste. Malgrado le pietraie del Carso fossero state sconquassate dalle granate, le fanterie italiane, lancia-te all’assalto, furono arrestate dai reticolati che avevano resistito alle esplosioni. Il Cadorna, cui riusciva sempre difficile riconoscere i propri errori, dal 10 al 12 ottobre e dal 31

ottobre al 4 novembre, a breve intervalli di tempo, lanciò altre due offensive, l’8^ e la 9^ battaglia dell’Isonzo, sempre con il me-desimo risultato negativo, mentre monta-va la ribellione fra i soldati. Il 2 novembre il Generalissimo, visti vani i tentativi di scompaginare il dispositivo nemico, die-de l’ordine di arrestare le operazioni in attesa della primavera. Mentre nel 1915 il morale dei soldati era abbastanza elevato, sostenuto da quello spirito che aveva ani-mato le guerre di Indipendenza, nel se-condo anno di guerra il loro atteggiamen-to era radicalmente cambiato. Il freddo delle trincee, le privazioni nel vestiario, la pesante disciplina imposta dal Cador-na minavano la compattezza dei reparti. Malgrado questo, i fanti si adattarono alle difficoltà materiali e, per protegger-si dal freddo, dal ghiaccio e dalle piogge, scavarono ripari nelle rocce e chilometri di camminamenti. Il malcontento fra la truppa cresceva e nel mese di dicembre un reggimento di calabresi si ammutinò

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ed ebbe un conflitto a fuoco con i cara-binieri. Due soldati rimasero uccisi e due fucilati dopo un processo sommario. Di fronte a questo clima di guerra fratri-cida anche i Tribunali militari presero le distanze dalle alte gerarchie militari, decretando condanne a morte solo nei casi più eclatanti, quali il tradimento. Il Cadorna, nella sua azione di comando, si mostrò con tutti i suoi subordinati di una tale crudezza che, molto probabilmente, non trovava rispondenza in nessun altro esercito dell’epoca. Questo suo atteggia-mento potrebbe essere stato dettato dal fatto che l’Italia, a differenza degli altri Stati europei, non aveva una tradizione militare. Questa sensazione era presente nell’atteggiamento del Cadorna, il quale prima dello scoppio della guerra si era reso conto che il soldato non poteva es-sere considerato una macchina e nello stesso tempo appellarsi continuamente al senso del dovere e dell’onore che presup-ponevano un cuore, un’anima, un cer-vello, per cui il 12 aprile del 1915 aveva ripristinato l’assistenza religiosa. Avendo fra i coscritti circa 25 mila preti, decise di reclutare fra loro un corpo di 2400 cap-pellani militari, che svolgeranno un’ope-ra preziosa e meritoria. A forza di stare con i soldati, i cappellani avevano finito

per diventarlo anch’essi. Sul Sabotino la bandiera del 33° reggimento fu salvata da uno di loro, mentre un altro si guadagnò la Medaglia d’Argento sul Piave, lancian-dosi per primo all’assalto. Si chiamava Don Giovanni Minzoni che alcuni anni dopo verrà trucidato dai fascisti. Questo atteggiamento aumentò la stima verso i cappellani da parte dei soldati, che per la loro mentalità contadina, erano già per conto loro devoti e nello stesso tempo questa vicinanza convertì i cappellani al culto di quei valori patriottici e nazionali cui essi erano rimasti fino ad allora refrat-tari. Secondo il Cadorna il soldato dove-

va solamente obbedire. Una sua circolare così recitava: Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta a tutti, la via dell’onore, quella che porta alla vittoria o alla morte sulle linee avversarie. Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto, prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri, incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato fred-dato prima da quello di un ufficiale1.È una circolare la cui lettura, fa rabbrivi-dire, eppure in molti casi essa fu applicata alla lettera. Fra gli episodi più atroci, si ri-corda un fatto accaduto ai primi di luglio. Alcuni fanti dell’89° reggimento, logorati da dieci interminabili mesi di prima linea e rimasti per due giorni e due notti nel-la terra di nessuno, tratto di terreno che separa le due trincee nemiche, privi di viveri, si arresero al nemico. Il Cadorna in persona ordinò di concentrare sulla trincea nemica il fuoco dei cannoni fino al totale annientamento dei combattenti, amici e nemici, e fece sottoporre a deci-mazione il reparto cui i transfughi appar-tenevano. Le misure erano assolutamen-te sproporzionate alla crisi che l’esercito stava attraversando. Una crisi c’era ma più di adattamento che di smarrimento,

come risulta an-che dagli scritti di Alfonso Omodeo, storico palermita-no e volontario nel 19152: quello che mo-riva nell’animo dei fanti, non era la guer-ra, ma la guerra gari-baldina, cioè l’imma-gine stereotipata che essi se ne erano fatta nel maggio radioso. E a ucciderla non fu il tributo di sangue che essi le stavano pa-

gando, ma la vita di trincea con i suoi disagi, le sue privazioni, e soprattutto la sua inazio-ne. Con questi sistemi repressivi i soldati cominciarono a sentirsi più solidali con i nemici che avevano di fronte che con i comandi che avevano alle spalle. Infatti fra le trincee dirimpettaie si stabilirono dei dialoghi a base di grammofono: gli austriaci suonavano Il Danubio blu e gli italiani rispondevano con O sole mio. Poi dal grammofono si passò al megafono per scambi di saluti e anche a incontri a mezza strada per qualche piccolo baratto tra pane e vino contro tabacco e acqua-vite. Si racconta che sul fronte della Car-

nia, in un momento di pausa, un solda-to siciliano imbracciata la sua chitarra e salito sul ciglio della trincea, al chiaro di luna, intonò la bellissima canzone sicilia-na E vui durmite ancora. Al termine dell’e-secuzione si sentirono improvvisamente le grida di apprezzamento degli austriaci, avversari sul campo, ma accomunati dal-la musica: sicuramente non compresero le parole e il senso, ma rimasero incantati dalla bellissima melodia. Il 1916 lascia-va sul campo di battaglia oltre 400 mila morti, di cui 92 avolesi, i cui nomi vengo-no riportati qui di seguito.

In ordine cronologico:

FICARA Orazio: morto il 16.01 a Castrovil-lari, per ferite riportate in combattimento;

CANCEMI Paolo: morto in combattimento il 19.02 sul monte Pizzo di Timau;

SCALA Giuseppe: morto in combattimento il 19.02 sul Tolmino;

BUSA’ Salvatore: morto il 3.03 a Brindisi per malattia;

LA MARCA Bartolomeo: morto in combatti-mento il 13.03 sul Podgora;

AGRICOLA Francesco: morto il 18.03 sul Tolmino;

IACONO Sebastiano: morto in combatti-mento il 19.03 nella conca di Plezzo;

DI PIETRO Salvatore: morto in combatti-mento il 21.03 nella conca di Plezzo;

PASSANISI Paolo: morto in combattimento il 21.03 nella conca di Plezzo;

ALLOCCHI Angelo: morto in combattimen-to il 27.03 sul Podgora;

TROVATO Salvatore morto in combattimen-to il 29.03 sul fiume Isonzo;

ARTALE Sebastiano: morto il 20.04 nell’o-spedale da campo n.127 per ferite riportate in combattimento;

SCIRPA Corrado: morto in combattimento l’1.05 nella conca di Plezzo;

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Michele Favaccio

IRWR�GL�Salvatore Monello

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note�,QGUR�0RQWDQHOOL��Storia d’Italia��YRO�����5L]]ROL��0LODQR������$GROIR�2PRGHR��Momenti della vita di guerra dai diari e dalle lettere dei Caduti, /DWHU]D��%DUL������0HGDJOLD�G¶$UJHQWR�DO�9DORU�0LOLWDUH�5LSRUWDWR�HUURQHDPHQWH�IUD�L�FDGXWL�GHO������'D�LQVHULUH�IUD�L�FDGXWL�GHO������$QQR�;9,�JLXJQR������³$YROHVL�QHO�PRQGR´�1XPHUR��������

MANGANARO Salvatore: morto il 15.05 a Cormons per ferite riportate in combatti-mento;

MAZZONE Corrado: morto in combatti-mento il 22.05 sul Carso;

PICCIONE Salvatore: morto in combatti-mento il 26.05 sul monte Cimone;

ATTARDO Giuseppe: morto in combatti-mento il 2.06 sull’altopiano di Asiago;

CONSIGLIO Antonio: morto in combatti-mento il 2.06 sull’altopiano di Asiago;

AMATO Antonio: morto in combattimento il 3.06 sull’altopiano di Asiago;

DI STEFANO Giovanni: morto in combat-timento il 3.06 sull’altopiano di Asiago;

TIRALONGO Corrado: morto in combatti-mento il 4.06 sul monte Cengio;

TROMBATORE Ignazio: morto in combat-timento il 4.06 sul monte Cengio;

BASILE Gaetano: disperso l’8.06 per affon-damento nave;

BELLOMIA Carmelo: morto l’8.06 a Vi-cenza per ferite riportate in combattimento;

AMATO Salvatore: morto il 9.06 nell’ospe-dale da campo n.28 di Roverbella;

FUGALE Salvatore: morto in combatti-mento il 12.06 sul monte Novegno;

ESTE Eduardo: morto in combattimento il 16.06 sull’altopiano di Asiago;

DI MARIA Felice: morto in combattimento il 13.06 sul Carso;

MIGLIORE Sebastiano: morto il 14.06 a Reggio Emilia per ferite riportate in combat-timento;

DI ROSA Sebastiano: morto in combatti-mento il 15.06 sul Carso;

CARUSO Giuseppe: morto in combatti-mento il 15.06 a Monfalcone;

GARANTE Angelo: morto in combatti-mento il 16.06 sull’altopiano di Asiago;

GRANDE Salvatore: morto in combatti-mento il 26.06 sul monte Colombara

BELLINO Salvatore: morto il 22.06 nell’o-spedale di Brescia;

PARENTIGNOTI Giovanni: morto in com-battimento il 24.06 sull’altopiano di Asiago;

ZOCCO Paolo: morto in combattimento il 29.06 sul monte San Michele;

SCARSO Corrado: morto in combattimento il 30.06 ad Aiello;

D’AGATA Angelo: morto in combattimen-to il 30.06 sul Carso;

MURE’ Mariano: morto nella 27^ Sezione di Sanità il 2.07 per ferite riportate in com-battimento;

DELL’ALBANI Venerando: morto in com-battimento il 3.07 nella Valle dei Signori, oggi Valle del Pasubio;

ROSSITTO Paolo: morto in combattimento il 5.07 nella conca di Plezzo;

BENVENUTO Benedetto: morto in com-battimento il 6.07. sull’altopiano di Asiago;

CASTELLO Giovanni: morto in combatti-mento il 14.07 sul monte Pal Piccolo;

TERRANOVA Corrado: morto in combatti-mento il 16.07 sull’altopiano di Asiago;

GIAMPICCOLO Emanuele: morto il 20.07 nell’ospedale da campo n.27;

PALMERI Salvatore: morto in combatti-mento il 24.07 sul monte Zebio;

DI MARIA Corrado: disperso l’1.08 sul fiu-me Isonzo;

DOLFINI Diego: morto in combattimento il 6.08 sul Carso;

MIGLIORE Salvatore: morto in combatti-mento il 6.08 a Oslavia;

GRANDE Paolo: morto in combattimento il 7.08 sul fiume Isonzo;

INTURRI Vincenzo: morto in combatti-mento il 7.08 sul fiume Isonzo;

MESSINA Francesco: morto in combatti-mento il 7.08 sul monte Podgora;

CARASI Corrado: morto in combattimento il 7.08 sul monte Podgora;

CARUSO Corrado: morto in combattimen-to il 7.08 sul monte San Michele;

DUGO Salvatore: morto a Mossa il 7.08 per ferite riportate in combattimento;

ROCCARO Giuseppe: morto in combatti-mento l’8.08 sul fiume Isonzo;

MACCA Rosario: morto in combattimento il 10.08 sul monte San Marco;

TIRALONGO Salvatore: morto in combat-timento il 10.08 sul fiume Isonzo;

SESSA Giuseppe: morto nell’ospedale mili-tare di Verona il 10.08 per ferite riportate in combattimento;

VACCARISI Giovanni: morto a Novi Ligu-re l’11.08 per malattia;

BELLOMO Paolo: morto il 14.08 a San Ro-mano di Nova;

ACQUAVIVA Agesilao: morto in combatti-mento il 14.08 a Gorizia;

SANTOSTEFANO Giuseppe: morto in combattimento il 14.08 sul fiume Isonzo;

SUMA Concetto: morto nella 40^ Sezione di Sanità il 15.08 per ferite riportate in com-battimento;

RIZZA Corrado: morto in combattimento il 15.08 sul monte Vodice;

ARTALE Paolo: morto in combattimento il 17.08 a Cividale;

CIANCHINO Bartolomeo: morto in com-battimento l’1.09 sul monte Pal Piccolo;

D’AMATO Giuseppe: morto in combatti-mento il 9.09 sul monte Pal Piccolo;

DENARO Salvatore: morto il 12.09 in pri-gionia in Macedonia;

MILINTENDA Paolo: morto in combatti-mento il 16.09 sul Carso;

CARUSO Santo: morto a Torino il 16.09 per malattia;

INTURRI Giovanni: morto a Cormons il 17.09 per ferite riportate in combattimento;

MUCCIO Giuseppe: morto nell’ospedale mobile Città di Milano il 28.09;

MARZIANO Salvatore: morto in combatti-mento il 2.10 sul fiume Isonzo;

CONSIGLIO Corrado: morto in combatti-mento il 4.10 sul monte Maio;

DI STEFANO Nicola: morto in combatti-mento il 4.10 sul Carso;

PAGANICA Gaetano: morto in combatti-mento il 10.10 sul Carso;

VACCARELLA Giuseppe: morto in com-battimento il 10.10 sul Carso;

CARUSO Giuseppe: morto il 13.10 sull’am-bulanza chirurgica d’Armata n.3;

VINCI Antonino: morto il 24.10 a Noto per malattia;

BARONE Corrado: morto in combattimen-to il 18.10 nella conca di Plezzo;

ALFIERI Giuseppe: morto in combattimen-to l’1.11 sul fiume Isonzo3;

DELL’ALBANI Giovanni: morto in com-battimento l’1.11 sul fiume Isonzo;

FANFULLA Francesco: morto in combatti-mento l’1.11 sul fiume Isonzo;

FAZZINO Francesco: morto in combatti-mento l’1.11 sul monte San Marco;

FORTE Sebastiano: morto in combattimen-to l’1.11 sul fiume Isonzo;

VINCI Francesco: morto a Cormons il 13.11 per ferite riportate in combattimento3;

GOZZO Giuseppe: morto a Cormons il 16.11 per ferite riportate in combattimento3;

CALDARELLA Giuseppe: morto ad Adria il 16.11 per ferite riportate in combattimen-to4;

PRESTI Salvatore: morto a Caserta il 18.11 per malattia;

BUSA’ Sebastiano: morto a Padova il 2.12 per malattia;

ARANA Giuseppe: morto in combattimen-to il 13.12 sul monte Tonale;

PICCIONE Gaetano: morto il 9.09.1915 a Dolegna Visco per ferite riportate in combat-timento5.

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Lo scorso 3 febbraio la cronaca giu-diziaria ci ha riferito dell’ennesi-mo episodio di pedofilia clericale

consumato nel palermitano: l’ex parroco della chiesa Maria Santissima Assunta, don Roberto Elice, è finito in carcere con l’accusa di violenza sessuale continuata su tre minori della sua parrocchia. Una testimone e amica del sacerdote accusa-to, pur essendo a conoscenza dei fatti, non aveva ritenuto opportuno sporgere alcuna denuncia alle autorità; convoca-ta dalla Squadra Mobile di Palermo, ha dichiarato agli investigatori che In effetti, già nell’aprile del 2014, uno dei due bambini mi aveva detto che voleva parlarmi. Eravamo a Medjugorje, per il pellegrinaggio. Don Ro-berto si era sistemato nella stessa stanza con loro. Poi, però, non ci fu l’occasione per parla-re. La testimone, nel prosieguo della sua deposizione, riferisce che nell’ottobre del 2014 fu lo stesso sacerdote a svelarle telefonicamente degli abusi: Mi disse che in occasione del viaggio a Medjugorje erano accadute delle cose pesanti. Si giustificò dicen-do che era stato un momento di debolezza. Di quanto riferitole dal sacerdote la donna trovò conferma parlandone con i bam-bini coinvolti, che raccontarono di par-ticolari terribili sugli abusi consumati sia in parrocchia sia durante il pellegrinag-gio (la Repubblica del 13 febbraio 2016, cronaca di Palermo, pag. VIII). Dopo aver letto di questa triste vicenda, mol-ti avranno commentato l’episodio quasi con rassegnazione, magari esordendo con frasi tipo: nulla di nuovo sotto il sole; cose già lette e già sentite; è la solita storia, ecc.. La solita storia che non può passare più inosservata nonostante il perdono im-plorato dall’arcivescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, che appresa la notizia ha chiesto scusa attraverso un comuni-cato ufficiale in cui …esprime profonda solidarietà alle vittime delle violenze subite e ai loro familiari e chiede loro perdono. Ma chiedere scusa non basta più, perché non siamo di fronte a un fatto episodi-co a opera della classica “mela marcia”. Quando le “mele marce” sono tante vuol dire che il fenomeno ha radici pro-fonde ed è diffuso. Allora è necessario prendere provvedimenti nei confronti di chi continua a prendersi gioco dei fedeli,

soprattutto attraverso la denun-cia alle autorità statuali ad ope-ra dei massimi rappresentanti delle diocesi dove l’abuso è sta-to svelato, cioè i vescovi. I fatti riguardanti don Roberto Elice risalgono al periodo (otto-bre 2014) in cui era arcivescovo di Palermo il cardinale Paolo Romeo che, intervistato dai giornalisti de la Repubblica Na-tale Bruno e Salvo Palazzolo, ha detto, tra l’altro, che …don Roberto Elice… è stato rimosso dall’ufficio che ricopriva e invitato a seguire un percorso particolare in una clinica di Roma specializzata in questo tipo di situazioni… a don Rober-to è stato anche vietato di celebrare messa in pubblico… e che comunque …alla Chiesa non tocca fare alcuna denuncia alla procura. Semmai informare le vittime del loro diritto/dovere di denunciare. Ci siamo offerti anche di sostenere economicamente la mamma dei bambini. Nessun obbligo di denuncia, dunque, da parte dei vescovi. Ed è vero, perché non sono pubblici ufficiali. Ma il vescovo di Monreale, Michele Pennisi, è su un’altra linea di pensiero; interpellato sempre da Salvo Palazzolo ha dichiara-to: La Curia non ha l’obbligo della denuncia, come invece hanno i pubblici ufficiali, ma il vescovo, sottolinea la CEI, ha l’obbligo mo-rale di segnalare il caso all’autorità giudizia-ria, aggiungendo ancora che Negli stati Uniti e in alcuni paesi europei la prospettiva è invece diversa, si parla esplicitamente di ob-bligo di denuncia per i vescovi, poiché secondo il diritto penale di quei paesi potrebbero anche essere chiamati a rispondere di omessa denun-cia. Peraltro questo punto di vista non è rimasto isolato. Anche il vescovo di Noto, monsignor Antonio Staglianò, è sulla stessa riga avendo dichiarato che… la circostanza che non ci sia l’obbligo della denuncia non vuol dire che una denuncia non possa essere presentata all’autorità giudi-ziaria (la Repubblica del 6 febbraio 2016, cronaca di Palermo, pag. VI). Recentemente la Pontificia Commissio-ne anti abusi istituita da Papa Francesco ha criticato aspramente le linee guida che si sono date le conferenze episcopa-li, italiane in primis, che non prevedono l’obbligo di denuncia in quanto il vescovo,

non rivestendo la qualifica di pubblico ufficia-le né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’au-torità statuale. Il cardinale di Boston, il cappuccino Sean Patrick O’Mallery, che presiede la citata Pontificia Commissio-ne, ha dichiarato che… abbiamo tutti la responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti alle autorità civili che han-no il compito di proteggere la società» (ilfat-toquotidiano.it del 16 febbraio 2016). Infine Papa Francesco, sull’aereo duran-te il viaggio di ritorno dal Messico, in-terpellato dai giornalisti su cosa succede se un vescovo cambia di parrocchia un prete pedofilo, ha risposto: È un incoscien-te. Deve presentare la rinuncia (cioè le di-missioni). È chiaro? (la Repubblica del 19 febbraio 2016, pag. 4). Finalmente parole chiare. Meglio tardi che mai, mi viene da dire. Staremo a ve-dere. La strada è lunga e non sembra che tutti i presuli vogliano camminare nella stessa direzione.Di fronte a una gerarchia cattolica che tace, copre, insabbia, che per paura degli scandali non punisce i preti colpevoli di abusi sessuali, che chiude gli occhi da-vanti a un fenomeno talmente radicato e devastante, viene da domandarsi se non vi siano uomini che scelgono la strada del sacerdozio proprio per poter avvici-nare le loro vittime. Il primo di aprile 2010 il Dr. Pietro For-no, Procuratore aggiunto presso la Pro-cura di Milano, secondo me la “massi-ma autorità” in materia di abusi sessuali contro i minori, rilasciò un’intervista al

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La piaga dei preti che molestano i bambini anche al tempo di Papa Francescodi Marcello Rubbera

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quotidiano Il Giornale in cui affermava, tra l’altro, a proposito della collaborazio-ne da parte delle gerarchie ecclesiastiche in occasione di casi di pedofilia clericale, che ...nei tanti anni in cui ho trattato l’argo-mento non mi è mai, e sottolineo mai, arriva-ta una sola denuncia né da parte di vescovi, né da parte di singoli preti, e questo è un po’ strano. La magistratura quando arriva a in-quisire un sacerdote per questi reati ci deve arrivare da sola, con le sue forze. E lo fa in genere sulla base di denunce di familiari della vittima, che si rivolgono all’autorità giudizia-ria dopo che si sono rivolti all’autorità religio-sa, e questa non ha fatto assolutamente nien-te. Sul perché sono così numerosi questi casi di pedofilia clericale, il magistrato rispose ponendosi anche delle doman-de: Io ormai ho un dubbio, e parlo solo di dubbio perché non posso avere riscontri diret-ti: che ci siano sacerdoti che scelgono di fare i sacerdoti per abusare, perché è oggettivo che nella scelta del sacerdozio c’è un’enorme fa-cilitazione nell’avvicinare le vittime. Eppure essi compiono tutto il percorso formativo fino a venire messi a contatto con i ragazzi. Que-sto pone un grosso interrogativo: ma nessuno se n’è accorto prima? Dov’è il discernimento spirituale che dovrebbero esercitare coloro che li scelgono? Non hanno osservato il loro comportamento, le loro tendenze, le moda-lità con le quali si rapportano ai giovani? E un’ultima domanda: cosa accade all’interno dei seminari?.Ora, ci si potrebbe domandare come mai la Chiesa non ha mai spiegato per-ché fare il prete cattolico non attenui, o perlomeno non ponga un freno morale, a queste disinvolte tendenze, che, non dimentichiamolo, producono veri e pro-pri crimini e non peccatucci veniali. Da coloro che si proclamano predicatori di verità divine nonché strenui difensori di inconsapevoli embrioni, sempre pronti a condannare tutto e tutti, ci si dovrebbe attendere quantomeno un minimo di coerenza e di comportamenti esemplari, ma evidentemente così non è.Peraltro, rispetto al più generale feno-meno della pedofilia, quella di origine clericale ha una sua specificità, che è caratterizzata, in primis, dalla dimensio-ne sacrale del soggetto attivo di questo crimine. Il sacerdote, infatti, è percepito come una sorta di intermediario della spiritualità del credente e della relazione con Dio. Nel cattolicesimo i preti con-trollano l’accesso dei fedeli ai sacramen-ti, e i sacramenti costituiscono per i cre-denti la sorgente del nutrimento e della sicurezza spirituale. I bambini abusati, condizionati dal loro

indottrinamento religioso, guardano al sacerdote abusante con un misto di paura e riverenza. L’atteggiamento di superiorità tenuto dai preti infonde nelle giovanissime vittime designate sicurezza emotiva e fiducia. Questi forti sentimen-ti di sicurezza e riverenza impediscono spesso alle vittime di riconoscere le for-me di seduzione cui gli abusanti ricorro-no per circuirle. Infatti l’abuso pedofilo raramente è compiuto con metodi coercitivi ma, piuttosto, quasi sempre si concretizza at-traverso metodi “seduttivi”, utilizzando la maschera della tenerezza, cosicché il bambino non sa dare un nome a quell’e-vento che gli procura tanto disagio e che non sa riconoscere come violenza perché gli proviene da una figura che, nel caso del prete, sfrutta il sentimento religioso, la sua autorevolezza sociale (proprio perché gode di privilegi e di una credibilità socialmente riconosciuta molto più alta di qualsiasi altro membro della società) e la sua paternità fittizia (il sacerdote viene chiamato “padre”) per abusare sessualmente della giovane vittima. L’abuso sessuale consumato dal prete è come una sorta di “incesto spirituale”. La pedofilia clericale, infat-ti, è assimilabile all’abuso commesso in ambito famigliare, perché chi lo compie, essendo un sacerdote, gode della fiducia dei bambini che si aspettano amore e protezione, piuttosto che brutalità. E poi questo tipo di violenze non sono mai oc-casionali ma ripetute nel tempo e spesso durano anni nella vita di un bambino e sono quelle che producono maggiori danni. Sono esperienze che li marchia-no in profondità per tutta la vita, e, se non c’è morte fisica, c’è una devastante distruzione interiore dagli effetti gigan-teschi, anche a causa delle figure da cui provengono. I bambini sono soggetti particolarmente vulnerabili nei confronti di un prete abu-sante, che non solo è un adulto (che fa leva sul suo potere di per-sona matura e quindi sulla sua superiorità fisica e psi-cologica), ma è anche una figura munita di un’estesa autorità spirituale sul bam-bino, sulla sua famiglia e sulla sua comunità di fede. Il prete non è uno qualsiasi: egli rappresenta la morale, rappresenta Dio in terra e gode dunque di una consi-derazione maggiore rispet-to a qualunque altro uomo

che svolge un’altra attività. Per la vittima è dunque uno shock totale: l’abuso vie-ne vissuto come il tradimento supremo, poiché commesso da qualcuno che non può, per definizione, fare del male.Quanto all’adescamento delle giovani vittime, i preti hanno un buon radar per determinare la vulnerabilità di una per-sona: sono abituati a sondare le anime delle persone e ad ascoltare le confessio-ni delle persone. Sanno chi è in forma psicologica e chi no, e di conseguenza chi riusciranno a piegare il più facilmen-te possibile con il minor numero possibi-le di danni.È estremamente significativo che in mol-ti episodi riportati dalle cronache, si nota che i preti pedofili generalmente non prendono particolari precauzioni per na-scondere i propri perversi comportamen-ti. Nel loro delirio di onnipotenza essi preferiscono contare sulla omertà delle proprie vittime, piuttosto che sul mettere in atto i comportamenti devianti in con-testi protetti, magari lontano dal proprio ambiente. Fateci caso. I preti pedofili, se scoperti, non lasciano mai il sacerdozio (Tu es sacerdos in aeternum), a differenza dei preti che hanno avuto delle “banali” relazioni con donne. Inoltre, difficilmen-te vengono sospesi dalle celebrazioni re-ligiose, tutt’al più vengono trasferiti “per non dare scandalo”, creando così nella nuova sede un altro focolaio di abusi ses-suali su minori e lasciandosi alle spalle una scia di vittime.I numerosissimi casi di pedofilia cle-ricale, venuti alla luce e consumati per decenni ai danni di migliaia di giovanis-simi spesso abusati in modo seriale, te-stimoniano il modo più vile possibile, al riparo della veste talare e del complice silenzio delle autorità ecclesiastiche, di non far trapelare nulla e l’assoluta man-canza di carità per le vittime, cioè l’esat-to contrario della Parola di Cristo, come recentissimamente ha sottolineato Papa Francesco.

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Nell’ottobre del 2014 ricevo una gradita telefonata. Mio cugino Gaetano Munafò con il quale,

per svariati motivi. avevo perso i contat-ti, mi informa del suo lavoro: un libro dal titolo “Tra pubblico e privato” nel quale è narrata la storia della sua vita. Una copia l’ho ricevuta e letta con la massima attenzione. Da quel giorno ho ripreso i contatti con mio cugino Gaeta-no il quale mi ha informato della rivista “Avolesi nel mondo” ed eccomi pron-to a … far conoscere … un Avolese nel mondo.Sono nato ad Avola il 28 febbraio 1936 in via Procida. All’atto della mia na-scita, mio padre, nato il 3 marzo 1869, aveva la non più giovane età di 67 anni e mia madre, Mirra Matilde, nata il 16 marzo 1894, aveva 42 anni. Sono figlio di secondo letto. La prima moglie di mio padre generò tre figli: Salvatore, mae-stro elementare; Giuseppe, maresciallo della M.M. e Rosina, maestra elemen-tare. Mia madre morì il 30 agosto 1938 lasciandomi orfano con un padre an-ziano. L’unica soluzione fu il ricovero in collegio. Nel lontano 1941, a cinque anni, fui accolto dai Padri Rogazionisti nella Casa Madre di via S. Cecilia in Messina. Nel 1943, in seguito all’occu-pazione di Messina da parte delle trup-pe alleate, i Padri Rogazionisti, senza indugio, decisero di portarci nel colle-gio di Oria in provincia di Brindisi e, dopo circa un anno, stabilizzatasi l’oc-cupazione alleata, ritornammo a Mes-sina. Nuovo trasferimento nel collegio presso il Santuario di Santa Maria della Neve a Santa Lucia del Mela dove com-pletammo le scuole elementari per rien-trare definitivamente a Messina presso l’Istituto “Cristo Re”. Il l3 gennaio del 1948 morì anche mio padre. Mia sorella

Rosina, residente a Rosolini, mi infor-mò con una cartolina postale della mor-te del vecchio genitore. Con la cartolina tra le mani, fermo in un cantuccio della grande terrazza dell’orfanotrofio, guar-davo il panorama del porto: la Madon-nina, le navi traghetto che andavano e venivano... Ormai il padre era andato a far compagnia alla mamma. Non re-stava che affrontare, ancora giovinetto, il mondo da solo. Completai 1’allora “Avviamento Industriale” e la specia-lizzazione di tipografo… Sono riuscito a inserirmi nella carriera della Marina Militare frequentando le Scuole presso l’attuale Istituto Nautico “Morosini” in Venezia. In servizio, sia a bordo che a terra, fino al 17 aprile 1963. Ultima destinazione presso il Ministero della Marina in Roma. Successivamente, in seguito a pubblico concorso, in servizio presso la sede centrale della Corte dei Conti, sempre a Roma. Mi sono sposa-to con Vera Teresa Coffa, anch’essa di Avola, il 3 ottobre 1962. La cerimonia si è svolta presso la Chiesa Madre di Avola con Messa celebrata dal parro-co Antonio Frasca. Il 23 agosto 1963 è nata la primogenita Lorella ed il 2 agosto 1969 la secondogenita Cristina. 53 anni di matrimonio volati con la “routine” della vita familiare: scuole per le figlie, lavoro in ufficio; vacanze, in modo particolare nei primi anni, ad Avola. La mia più grande aspirazione è sempre stata una sola: vendere la casa di Roma e comprarne una ad Avola dove trascorrere, lontano dalle grandi città, gli ultimi anni della mia vita. Pur-troppo ciò non è stato possibile. Chi in-colpare se questo desiderio è rimasto un sogno? Chiamiamolo “DESTINO”. E tale “destino” ha deciso anche il trasfe-rimento dalla mia città adottiva, all’età

di 74 anni, a Cinisello Balsamo, in pro-vincia di Milano. Le due figlie lavorano entrambe al Palazzo di Giustizia. In considerazione dell’inesorabile avan-zare degli anni, Lorella e Cristina mi convinsero a trasferirmi vicino Milano. Ed eccomi sbalzato dal calore del Sud, dalla giovialità e allegria mediterranea al clima freddo, umido e “triste” del nord. La rassegnazione è subentrata e i giorni trascorrono con la nostalgia del passato… Quanta esperienza e quanta saggezza accumulate! Esperienza e sag-gezza sono la materia prima per poter affrontare la vecchiaia e per sopportare i dolori fisici che inevitabilmente au-mentano sempre di più. Affronto la vec-chiaia con la coscienza tranquilla per-ché mi sono comportato secondo uno stile di vita basato sui principi della cor-rettezza, della morale e della giustizia; del rispetto delle leggi, della tolleranza e della dignità di tutti gli esseri umani rispettando i diritti degli altri e ottempe-rando ai propri doveri. Sulla tomba di I. Kant c’è scritto: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Un ringraziamento particolare al Presi-dente della rivista dott.ssa Grazia Ma-ria Schirinà, per l’accoglienza tra i soci e un caro e particolare abbraccio al mio “cugino ritrovato” Gaetano Munafò.

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Il cugino ritrovatodi Corrado Piccione

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Nel novembre scorso si è tenuta a Viareggio l’Assemblea per la costituzione dell’Associazione

Italiana Carnevale e Tradizioni Popolari (AIC), organismo che ha tra i suoi obiet-tivi la valorizzazione e lo sviluppo della manifestazione e il riconoscimento del ruolo del Carnevale quale motore di svi-luppo del turismo e delle economie locali. Nel corso della riunione è stato approvato lo Statuto e sono stati nominati gli organi, così come segue: Presidenza al Carnevale di Viareggio; Vice Presidenza al Carnevale di Venezia; Segretario il Carnevale di Pu-tignano; Tesoriere il Carnevale di Avola. Le funzioni del Tesoriere sono: la tenuta della contabilità, la firma degli ordini di pagamento, il coordinamento dei lavori del Consiglio per la stesura dei bilanci, la gestione dei rapporti bancari e postali con

delega espressa del Presidente pro tempo-re. Il ruolo, quindi, affidato al Carnevale di Avola, unico rappresentante siciliano all’interno del direttivo dell’Associazione nazionale, alla quale hanno aderito i più importanti Carnevali d’Italia, è di grande prestigio ed è stato sicuramente di sprone all’Amministrazione comunale per l’orga-nizzazione della 55esima edizione, che ha fatto registrare numeri da record per le presenze nei tre giorni dedicati alla festa. La presenza di Avola tra i grandi nomi del Carnevale, la cui candidatura avanzata dai nostri amministratori è stata favorevol-mente accolta e appoggiata da altri Comu-ni, rispecchia in pieno i principi dell’isti-tuzione dell’Assemblea: valorizzare anche le città con una lunga tradizione carneva-lesca grazie anche all’apporto dei carristi, artigiani locali esperti nella realizzazione

di manufatti allegorici, alle quali viene data l’opportunità di emergere a livello na-zionale. Far parte del Consiglio direttivo dell’Associazione, che ha come obiettivo quello di diffondere e favorire lo sviluppo della “cultura del carnevale”, presenziando al tavolo permanente di confronto con-sentirà di agevolare una rete di scambi tra gli organizzatori delle tante manife-stazioni carnevalesche e della tradizione popolare, nonché sviluppare progetti co-muni di promozione turistico-culturale e incoraggiare la partecipazione giovanile nelle attività del Carnevale. Non da ultimo l’AIC lavorerà per stimolare le Istituzioni Europee affinché semplifichino, per chi organizza queste manifestazioni, l’accesso ai finanziamenti previsti dalle diverse mi-sure comunitarie.

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Il Carnevale di Avola nel direttivo dell’Associazione “Carnevali d’Italia”col ruolo di tesoriere di Eleonora Vinci

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Sta puisia vi vogghiu ricitariCiccannu ri nun vi fari sigghiariPicchì ri na cosa mi vogghiu capacitari.

Iu nun sugnu proprio na frana Però a mia mi pari na cosa stranacomu se forra na invinzioni amiricana.

Iu sugnu ccu tutti, na pirsuna calurusaca po ssiri puru mistiriusa, Ma no stissu tempo è puru curiusa.

Iavi ca nun durmu cciù ssai ri na simanaCa Stagghiu facennu arricchiri a chiggha ca vinni a tisana Ca u cirivegghu mi si unturciuniau comu na cullana.

L’epuca ca stamu passannu,A quantu pari sta appena cuminciannu E nun pinzati ca ama trascurriri cantannu cantannu.

Oggi, picciotti mei, si rici: “la tecnologia regna sovrana”.A mia mi pari però ca accussì a socialità s’alluntanaE nun campamu, comu ni rici inveci a religioni cristiana.

Oggi pari ca tutti i cosi, si risolvono muncennu un tastu.Pinzati ca puru accussì fanno o catastu.A mumentu puru i muraturi u usunu ppi fari umpastu.

Tantè vero, ca i picciotti talianu sempri u schermuMa nun capisciunu, ca accussì, u cirivegghu cià resta fermuE nun arrivanu ciù luntanu ri Palermu.

Nun capisciunu ca ne manu ianu sempri na tastiera.Forra megghiu inveci ca avissinu na bella guantieraO, all’imite, putissinu ogni tantu ricitari na preghiera.

Oggi, si parra ri SMARTPHONE, TABLET, HI-PHONE, BLUTUT, FAIL, FILESu paroli ca sulu a sintilli mi fannu aumintari a bileE quasi quasi mi issi a ghittari ‘na porcile.

SMS, MMS, E-MAIL, VIRUS, WEB, WWWSunu parole ca riciunu sempri e u sicilianu nun parranu chiù.E iu, mischinegghu, a tutti ci ricu: ma chi fu?

GIGA, GSM, MODEM, SERVER, RAM, PROCESSOREPpi capiri u significatu ri sti paroli ci voli un professoreE guai a mia se commetto coccu errore.

Ma cchi vi pari ca taliannu u monitor assittatiSubitu, e a stampu, divintati laureati?Ma vui inveci siti tantu sbagliati e accicati.

E ci si convince inveci, ri diventari famusiFinu a quannu, pianu pianu, si cumminanu tantu nuiusi. No, nun è accussi… picchì s’addiventa puru lagnusi.

Si sentunu forti, picchì canusciunu i fatti re cristianiE no stissu tempu si scodduno chiddi sovi e fanu l’indiani.Ma nun lu sanu ca finiusciunucomu e cani.

Vi riurdati ca i piccirigghi, no passatu, iunu a scola co cestino, u fiocchettinu, u gilètOggi semu arrivati o puntu ca ci vanu co tablètE, a stentu, si pottunu na fettina ri pancarrèt.

Vi riurdati ancora comu era bellu quannu ceranu i quaderna e l’enciclopedia?Giraumu i pagini co itu vagnatu na lingua, con allegria!E oggi mancu sanu chi vo ddiri, a cancelleria!

Quantu era bellu sapiri a memoria i poesi e a tabillinaA mia mi pari ca a vita era ciù genuina.Oggi invece pari ca venunu tutta ra Cina.

E quannu si facìa, prima a brutta e poi a beggha copia ro tema?Era na cosa creativa, comu se s’avia fari un poema.Cettu, ama teniri cuntu, ca oggi è diversu u sistema.

Nun lu sacciu, se continua accussì unni s’arrivari.Picchì ogni ghiorno cè na cosa nova ri invintari,E subbutu sa na ghiri a cattari.

Stamu addivintannu sempri menu ommini pinsantiPicchi ni facemu cumannari re pulsanti.E avemu l’occi accicati comu l’abbaglianti.

Ma cchi vulemu paraunari, u caluri ca si runa cu n’abbracciuContru, mannari un messaggio ca sa ri ghiaccio?E’ chigghu ca viru iu ro balcuni quannu m’affaccio!

A mia mi riciunu, ca che tempi nun sugnu a passu E, quasi quasi, mi vulissunu ittari all’ammassu.Ma iu mi ni fregu, e cantannu cantannu,mi ni vagghiu a spassu.

E ora ca a pusia sta finennu, prima ca vi sigghiatiVogghiu ciuriri ccu na frasi, senza ca vi maravigghiatiSenò quantu prima, mammancanu i lignati.

Picciotti, ppi finiri vi ricu, ca secunnu mia nunn’ata aviri complessi, nunn’ata ciccari compromessi, ata fari i cosi senza interessi, senza eccessi, nunn’ata siri oppressi, continuati però a fari tanti progressi e, soprattutto, cunsidirato ca siti sempre connessi, vi rico, picciò, ca è megghio comu erumu na vota, PESSI, basta però ca nun s’addiventa, comu oggi, DEPRESSI!

* Poesia vincitrice all’annuale concorso di poesia dialettale legato al Carnevale avolese

Megghiu pessi ca depressi!*di Raffaele Guccione - foto di Cinzia Bianca

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Sull’onda dell’emozione suscitata in me da Ezio Bosso, musicista quasi sconosciuto, che, con la sua perfor-

mance, ha incantato Sanremo e il mon-do intero, il mio pensiero è andato a una nostra realtà locale molto bella e degna di attenzione. Avevo avuto l’opportuni-tà di seguire, visto che quest’anno il Car-nevale è andato quasi in contemporanea con il festival, l’esibizione di un gruppo mascherato unico nel suo genere. Que-sto gruppo in maschera dal titolo “Sorri-

si e solidarietà” è stato realizzato dall’Associazione SuperAbili di Avola ed è formato da circa sessanta elementi tra ragazzi diversamente abili e volontari. L’idea di un gruppo mascherato che po-tesse coinvolgere disabili e normodotati, nacque dieci anni addietro, grazie alla sensibilità di Gianna Morale, una mia carissima amica d’infanzia molto cono-sciuta ad Avola per il suo impegno nel sociale, che, andando in pensione, av-vertì l’esigenza di continuare a spendersi per i ragazzi, sia “per donare” ma so-prattutto “per ricevere” perché, quando si opera in “certi” ambiti, l’arricchimen-to è sicuramente reciproco. E così nac-que il primo gruppo, per realizzare il desiderio espresso da una ragazzina in sedia a rotelle, Corradina, che disse a Gianna Non ho le gambe per ballare, ma ho le braccia, e, grazie anche all’apporto pre-zioso del presidente dell’Associazione

Giuseppe Cataudella, iniziò l’avventu-ra. Sono nati così negli anni i vari gruppi mascherati, tutti con un messaggio so-ciale importante nella solidarietà. Mi piace qui ricordarne alcuni. Nel 2008 “Non siamo spaventapasseri” …Noi siamo ladri perché abbiamo rubato un pezzetto di cielo… Noi siamo rapitori perché, se guardi nei nostri cuori, resti prigioniero… Noi siamo angeli perché sappiamo volare alto… Noi siamo di-versi perché tutti lo siamo e questo esse-

re tutti diversi ci rende speciali. Nel 2009 “Abbasso la schiavitù”. L’uomo è nato libero, ma ancora oggi, ovunque, ci sono catene invisibili nell’indifferenza generale: sfruttamento sessuale di bam-bini, adolescenti, donne, lavoro minori-le, disoccupazione, povertà, esclusione dalla vita sociale. Con questo gruppo mascherato i ragazzi dell’Associazione Superabili di Avola lottano insieme, af-finché non prevalga la legge del più forte e così, delle catene che legarono mani e piedi degli schiavi, ne hanno fatto uno strumento di lavoro e di divertimento. Facciamo un salto al 2014 con un altro messaggio importante, non perché gli altri siano da meno, “Il vecchietto dove lo metto?” L’anziano visto come una ricchezza, una grande risorsa all’interno della famiglia e della società tutta. Con la forza che viene dagli anni, con l’espe-rienza e la loro saggezza, gli anziani,

impegnandosi attivamente, contribui-scono a migliorare la società con la ric-chezza di valori accumulata nel corso della vita. La modernità dei tempi e la frenesia della vita inducono spesso gli adulti a sballottare o, meglio, a deposita-re l’anziano presso un ospizio, dove, an-che se ben accudito, non ha intorno a se i volti familiari, gli affetti cari, i tanto amati nipotini. Quest’anno il messaggio del gruppo mascherato intitolato “Sorri-si e solidarietà”, ha voluto col suo mes-

saggio sottolineare l’importanza che il dono di un sorriso, sincero e disinteres-sato, possa assumere per colui che lo ha perso, o magari non lo ha mai conosciu-to. Il clown, leggiadro e spontaneo, come solo un fanciullo può essere, ci in-vita a gettare quella maschera di soffe-renza e rancore dietro cui, spesso, ci na-scondiamo per ritrovare la naturalezza e la genuinità di un sorriso che, magari, non risolverà quello che ci tormenta, ma, di certo, saprà dare un po’ di gioia a noi stessi e a coloro i quali, con Amore, dedicano tempo prezioso al volontaria-to e alla solidarietà. Il gruppo, quest’an-no, mi è sembrato più leggiadro e gioio-so del solito: i costumi dei clown, la musica del circo, là dove il clown è nato, e le mani grandi di tanti colori con cui vengono create le coreografie ballando, indicano la diversità e la solidarietà che tutti noi possiamo donare nelle varie

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Carrozzina, simbolo di libertàdi Nella Urso - foto Archivio SuperAbili

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sfaccettature. Basta poco per ricevere molto: un semplice sorriso ti rinfranca, ti arricchisce, ti ricarica, ti rincuora. Questi gruppi mascherati probabilmen-te, per tanti motivi, avrebbero meritato di vincere qualche premio, ma Gianna, fermamente convinta del suo operato, li ha sempre presentati “fuori concorso”, per non esporre i ragazzi o dare adito a polemiche. Spesse volte capita di legge-re: “costretto in carrozzina” o ancora “confinato sulla sedia a rotelle”. Parole sbagliate per un pensiero sbagliato. La carrozzina non limita. Mai. Aiuta. Sen-za si sarebbe limitati, confinati, costretti alla immobilità. È quello che pensano questi ragazzi, per i quali la carrozzina, grazie alle ruote, è simbolo di libertà. E, a questo proposito, mi piace condivide-re un ricordo di una ragazza in carrozzi-na del gruppo di cui stiamo parlando, conosciuta tanti anni fa, quando, tro-vandomi ad Avola, andavo a Messa alla chiesa del Carmine, celebrata dall’ami-co Fortunato; mai avrei pensato che quella ragazzina in carrozzella, dai mo-vimenti scomposti, negli anni avrebbe avuto una evoluzione, in positivo, tal-mente importante, da mandare a Gian-na un messaggio corredato di un dise-gno, dove la ragazza si raffigura in carrozzina, con una sola ala perché, come lei stessa asserisce la vita in carroz-zina può essere bellissima e si può volare lo stesso anche con una sola ala. E non c’è solo il Carnevale con i gruppi maschera-ti a cui questi ragazzi danno vita ogni anno con la loro partecipazione, c’è di più. Un giorno sono andata ad assistere a una partita di Baskin, tenutasi nel sa-lone della chiesa del Carmine. Per esse-re sincera, si è trattato di una breve di-

mostrazione, perché i ragazzi, eccitati dalla mia presenza, si sono presentati e raccontati, come pure i volontari pre-senti, con un tale entusiasmo che il tem-po è volato senza accorgercene. Il Ba-skin è uno sport simile alla pallacanestro, che permette a persone normodotate e diversamente abili di giocare insieme con le medesime opportunità, per rag-giungere un unico obiettivo. Sono fiero di aver partecipato al torneo scolastico di Ba-skin e di averlo fatto come volontario nella squadra dell’Associazione “SuperAbili di Avola”, testimonia Giosuè, un ragazzo di 14 anni studente del Liceo Scientifi-co. Ritengo importante sostenere e contribui-re alla diffusione di un’attività sportiva che ha finalità così alte, perché basata su di una vera integrazione, che abbatte ogni barriera di pregiudizi sociali e culturali. È uno sport in cui nessuno viene escluso, dimenticato, so-pravvalutato, lasciato indietro o primeggia-to; la diversità non è solo una cosa di cui parlare ma è qualcosa da vivere. È solo do-nando che possiamo capire quanto sia più bello dare che ricevere. Questo l’ho imparato, giocando a Baskin nella mia scuola senza utilizza-re libri, quaderni, formule matematiche, ma solo una palla di minibasket ac-compagnata da tanto Amore. Per me i veri cam-pioni sono tutti i compa-gni di squadra: Annarita, Corradina, Benito, Nuc-cio, Tiziana, Sebastiano …sono campioni di corag-gio, di tenacia, di forza, di altruismo perché riescono ad arricchirmi dentro. Non dimenticherò mai il

momento in cui, per la prima volta, ho pro-vato questa sensazione di arricchimento che vi garantisco è difficile da spiegare a parole. I Superabili sono i miei campioni perché san-no apprezzare le piccole cose della vita, sorri-dere, trasmettere amore e gioia nel fare le cose quotidiane. E campioni, questi ragazzi, lo sono per davvero. Nel giugno del 2015, a Rho (Milano), hanno disputato le finali nazionali di Baskin, battendo la squadra dell’Aosta, classificatasi prima nel torneo del 2013. Sapevano tutti che era una squadra fortissima, ma nessuno di loro poteva immaginare che Annarita avrebbe segnato da sola 75 punti alla squadra avversaria, grazie al gioco bello e pulito fatto da tutti i componenti della squadra, disabili e volontari. Credevo di vivere un sogno, afferma Gianna. Ho pro-vato tante emozioni durante la mia carriera di insegnante di Educazione Fisica ma con loro è stato diverso. Annarita è stata premia-ta come miglior cannoniere in campo, perché ha segnato il numero più alto di canestri, to-talizzato da tutti gli atleti diversamente abili partecipanti. Quando, dopo aver ritirato la coppa sulla sedia a rotelle, Annarita, si è gi-rata verso di me con il suo dolce sorriso, mi ha detto che era felice anche per me, la mia commozione è stata grande. A me aveva ri-servato il suo trofeo più bello, la gioia di lavo-rare con tutti loro. E conclude Grazie, Su-perabili, perché avete reso importanti questi ultimi anni della mia vita. La sede dell’As-sociazione è presso i locali della chiesa “Madonna del Carmelo”. Essa attinge forza dalle famiglie, dai volontari e dai tanti benefattori che animano con il loro contributo i tanti momenti della vita as-sociativa. Nel giorno vissuto insieme, per festeggiare il decimo anniversario dei SuperAbili Onlus, il presidente Giu-seppe Cataudella così testimonia questa esperienza… in tutti questi anni di cammi-no associativo, come sempre, vogliamo essere profondamente grati alla parrocchia del Car-

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mine, ai singoli volontari, quelli del passato che, con passione evangelica, hanno costruito le fondamenta e l’impalcatura dell’Associazione; a quelli di oggi che continuano ad edificare e custodire il prezioso tesoro che ci è stato consegnato. L’orizzonte etico e umano di ognuno di loro, dai volontari più anziani a quelli più giovani, è sempre stato lo stesso: offrire una opportuni-tà e spazi di umanità autentica alle persone diversa-mente abili e alle loro famiglie, che vivono spesso il problema del futuro come un’incognita. Questi fe-steggiamenti hanno avuto il loro coronamento con un viaggio-pellegrinaggio a Roma, per in-contrare papa Francesco. È commovente il modo in cui il Papa si relaziona con i disabili di tutto il mondo. Sono così tante le parole rivolte a loro nelle varie occasioni che non avremmo né spazio né tempo per accoglierle tutte. Ne cito una per tutte: Ognuno di noi ha un tesoro dentro di sé, non nascondete il tesoro che ognuno di noi ha, a volte si trova subito, altre volte no proprio come nel gioco del tesoro. Ma, una volta trovato, bisogna condividerlo con gli altri. Grazie, perché aiutate tutti noi a capire che la vita è un tesoro, ma solo se lo doniamo agli altri. “Ma poi vai via e non ho più il mio paio d’ali”, è un verso di una poesia che simboleggia l’impor-tanza di sapere Amare. Noi auspichiamo insie-me a Corradina di non perdere le ali, ma soprat-tutto quella “unica ala” che permette lo stesso di volare. Il nostro più grande desiderio, guardando queste creature indifese, sarebbe quello che qual-che Ente o qualche persona di buona volontà o più persone, avendone la possibilità possano dare una speranza al grande interrogativo dei ge-nitori: che succederà “dopo di noi”?

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Al nostro Burgaretta il Trofeo “Turiddu Bella”ndr - foto di Sebastiano Munafò

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Al nostro socio e redattore, prof. Sebastiano Burgaretta è stato conferito il Trofeo “Turiddu Bella” dell’edizione 2016, che è stata quella del 25° anno di vita del Premio alla cultura

siciliana dedicato al famoso poeta e cantastorie catanese.Il premio, istituito dal Centro Studi di Tradizioni Popolari “Turiddu Bella”, sodalizio iscritto al Registro delle Eredità Immateriali, è di-stinto in due sezioni, una, dedicata alla letteratura, che quest’anno ha voluto ricordare lo scrittore Fortunato Pasqualino, e l’altra, de-dicata all’etnoantropologia, che ha voluto ricordare Antonino Uc-cello. Per la prima sezione il premio è stato dato al prof. Salvatore Camilleri, poeta e studioso profondo della lingua siciliana, per la seconda il XXV Trofeo Nazionale “Turiddu Bella”, Premio per la Cultura Siciliana, Memorial Antonino Uccello, è stato consegnato a Sebastiano Burgaretta, con la seguente motivazione: Per i suoi studi di etnoantropologia del territorio siciliano e in riconoscimento della sua feconda attività poetica. La cerimonia di premiazione è avvenuta il 30 maggio scorso, nella ex chiesa dei Cavalieri di Malta a Siracusa, nell’ambito di un Con-vegno dedicato, per l’occasione, all’attività artistica dei cantastorie siciliani Giuseppe Castello, Luigi Di Pino, Mauro Geraci e Fortuna-to Sindoni, i quali sono intervenuti sia con con-tributi teorici e critici sia con esibizioni dal vivo.A relazionare sulla storia dei 25 anni del trofeo è stato Alfio Patti, come sempre eclettico condut-tore e appassionato can-tore. Come Redazione ci associamo ai compli-menti al nostro amico e collega di lavoro, ricono-scendone i meriti e il va-lore indiscusso, contenti del lavoro che quotidia-namente offre alla nostra collettività.

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In questo numero della rivista ho il piacere di presentare agli amici lettori la figura di un valente musicista, siracusano di nascita ma oriundo avolese, essendo di Avola sua madre, Renata Lentini, sorella dello scrittore e auto-re di teatro Gioacchino Lentini, a sua volta padre dell’attrice Deborah Lentini.Andrea, che è nato il 10 novembre 1957, abi-ta ad Avola da alcuni anni e dal 1992 nella nostra città insegna nei corsi a indirizzo mu-sicale previsti nella scuola media, specifica-mente curando il corso di chitarra.La sua formazione musicale e la relativa competenza artistica poggiano su una so-lidissima preparazione d’impronta storico-filologica, che gli ha permesso di percorrere, nell’arco di qualche decennio, un cammino che è, da una parte, di ricerca accurata del-le testimonianze e dei documenti musicali e strumentali del passato tra Medioevo, Ri-nascimento ed Età barocca, e, dall’altra, di creatività e di diffusione, attraverso la for-mazione di validi sodalizi artistici, nonché attività, incontri culturali e composizione di opere, che hanno superato anche i confini nazionali. Nel 1995 ha fondato l’Istituto di Musica Antica, con l’intento di promuovere la conoscenza e la diffusione della musica ri-nascimentale e barocca nelle sue forme vocali e strumentali. Le sfere d’interesse del sodali-zio riguardavano la ricerca storica e musico-logica, l’approfondimento della prassi esecu-tiva, l’attività concertistica, la formazione e l’avviamento di giovani musicisti allo studio della musica antica.All’interno dell’Istituto nel 1998 ha costitui-to l’ensemble “Harmoniosi Concenti”, il cui nome è preso dall’omonima raccolta pubbli-cata nel 1562 a Venezia da Girolamo Scotto. Formato da cantanti e suonatori, l’ensemble, con il più alto rispetto della partitura, ha in-terpretato nella maniera antica, musiche di Frescobaldi, Riccio, Monteverdi, Caccini, Calertani e altri musicisti del tempo. Non usava inflessioni moderne nel suono, sia con gli strumenti sia con le voci. Niente, per esempio, vibrato nei flauti e nei violini, né modulazioni eccessive nelle timbriche canore. Le chitarre barocche e i liuti, poi, erano ri-gidamente consoni alla struttura meccanica dell’antica costruzione. Ogni particolare era curato, per ottenere un effetto stilistico di alto livello1.Tra il dicembre 2002 e l’aprile 2003 promos-

se a Siracusa il Primo Festival di Musica Ri-nascimentale e Barocca, che vide tra i suoi protagonisti il liutista statunitense Terrell Stone e l’ensemble di liuti, da costui diretto, “Cara Cossa”. Nell’estate del 2010 ha colla-borato, suonando tiorba e liuto barocco, con l’ensemble barocco “Corelli Collective”, già “Ensemble Duriusculus”, di New York. Andrea Schiavo, persona riservata e dotata di personale rigore etico e professionale, è un vero talento musicale che vive appartato e che fa onore alla nostra città, ai cui cittadini per-ciò va doverosamente segnalato. Per questo gli ho chiesto di rilasciarmi una lunga in-tervista, che egli, superando le sue resistenze personali, ha gentilmente concesso nell’arco di vari incontri e che io ho riprodotto per li-nee essenziali. In questa sede perciò lo ringra-zio per la cortesia che mi ha usato e gli lascio la parola.

B. Com’è nato in Lei l’interesse per la mu-sica?S. A Siracusa, dove sono nato da ma-dre avolese, avevo una prozia, sorella del mio nonno paterno, che si chiama-va Nannina (Marianna) ed era sposata a un compositore di operette, il quale si chiamava Giuseppe Di Giacomo e in arte si faceva chiamare Pippo d’Ortigia in omaggio alle sue origini siracusane. Lavorava a Roma come consulente all’I-stituto Luce, ma scriveva anche operette e canzonette, e compose anche un’ope-ra. La moglie mi tenne a battesimo e,

prendendo, come un tempo si usava, con rigore etico il ruolo di padrino ac-quisito, che, come secondo padre, si cu-rava del figlioccio, volle che io studias-si per diventare musicista. Frequentai perciò la scuola di musica comunale, ma con scarso impegno e poco costrut-to, limitandomi alla fase del solfeggio e tagliando ben presto con lo studio della musica.B. E dopo che cosa è sopravvenuta a determi-nare il cambio di rotta?S. La musica tornò a me in modo spon-taneo e determinato, perché la sentii dentro di me, quando assieme a degli amici cominciai a strimpellare con la chitarra e presi gusto a preparare gli ac-cordi per l’accompagnamento dei canti che venivano eseguiti dai boy scout, di cui facevo parte. Nello stesso periodo, siamo negli anni Settanta, mi appassio-nai alla musica di Fabrizio De Andrè e di altri cantautori di quel tempo. Presi a frequentare con interesse i concerti che allora si tenevano, con artisti e repertori di qualità, a Siracusa. Ebbi così modo di conoscere la musica colta, in particolare quella rinascimentale e quella barocca, che mi affascinarono per la loro qualità artistica e per la loro contestualizzazio-ne storica. Capii che la musica è parte essenziale della storia dell’uomo e che senza la musica la conoscenza della storia umana è fortemente mutila. Mi appassionai perciò alla musica e al suo posto nella storia dell’uomo, al punto che mi misi a contattare gruppi famosi, per farli venire a Siracusa. Volevo capi-re, toccare da vicino, saperne di più, pe-netrare nella dimensione dell’arte mu-sicale. Era come una febbre che m’era presa. Tra i gruppi che chiamai c’erano “Ars Antiqua” di Parigi e “Alia Musica” di Milano. Nel 1979 “Ars Antiqua” ten-ne a Siracusa un memorabile concerto. Da allora cominciai a interessarmi se-riamente a questo tipo di musica.B. Insomma, la scintilla era scoccata. Quali furono i passi successivi?S. Seguirono anni nei quali stentavo a trovare la mia strada. Frequentai l’Isti-tuto d’Arte ma poi, non potendo studia-re Architettura, come avrei desiderato, ripiegai sull’Accademia di Belle Arti di

1&IU��&��*HQRYHVH��Gli “Armoniosi Concenti” di Schiavo, la fedeltà assoluta alla musica barocca��LQ�³*LRUQDOH�GL�6LFLOLD´����JHQQDLR�������

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Andrea Schiavo o della musica anticadi Sebastiano Burgaretta - foto Archivio Schiavo

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Catania, dove per un anno studiai storia del teatro e scenografia. Frequentai solo un anno, perché decisi di scegliere de-finitivamente la musica come progetto di vita. Da autodidatta non avevo smes-so di praticare lo studio della chitarra classica. Decisi perciò di dare l’esame di solfeggio e iniziai nel 1980 gli studi accademici per la chitarra classica sotto la guida del maestro Nello Alessi. B. Quando conseguì il diploma di chitarra classica?S. Lo conseguii, con un certo ritardo, nel 1990 all’Istituto Musicale “Vincen-zo Bellini” di Caltanissetta. Due anni dopo cominciai a insegnare a Lentini e Augusta, passando ad Avola nel 1994. L’insegnamento è stato sempre accom-pagnato dallo studio e dall’approfondi-mento, oltre che dalla pratica artistica con concerti e spettacoli di varia natura.B. Che tipo di studio coltivava nello specifi-co?S. Studiavo la musica antica, a partire dai greci dell’età classica e passando per il Medioevo. Mi interessai alla musico-logia, nell’intento di conoscere bene la storia della musica, per poter affrontare la pratica musicale e successivamente anche la composizione con saldi riferi-menti storici. A tale scopo mi iscrissi a un corso di studi che si teneva a Cremo-na, anche se per poco tempo. Privata-mente però continuavo a studiare este-tica musicale antica, con particolare at-tenzione al Rinascimento e al Barocco.B. Può precisare i termini dell’approccio di tipo storico che Lei ha con la musica antica?S. Trattare la musica antica richiede un approccio basato sulla prassi esecutiva, allo scopo di conferire autenticità e fe-deltà ai documenti musicali. Pur nel rispetto filologico di pertinenza con cui gli strumenti devono essere ricostruiti, il lavoro di rilettura odierna dei testi anti-chi deve essere filtrato dalla mediazione

delle orecchie dell’uomo di oggi, il quale vive in un tempo nel quale i suo-ni e i rumori non sono più quelli che ascoltava-no i musicisti dei secoli scorsi. Perciò i grandi interpreti, nel ridare voce oggi a un foglio pieno di simboli da decodificare, sono chiamati a render-lo, sempre nella fedeltà e nell’autenticità del det-tato originario, vivo e at-tuale. Il che non significa ovviamente banalizzare e/o riproporre sterili ri-costruzioni. Infatti le musiche del Ri-nascimento, le musiche dell’età barocca non potranno mai essere quelle di allo-ra, proprio perché diversi sono i contesti storici all’interno dei quali gli interpreti sono chiamati a proporle agli ascoltato-ri di oggi. Tutto ciò con una necessaria attenzione, che cioè la chiave di lettura storica, per non scadere in un sorta di “filologismo”, per così dire obbligato e meccanicistico, e perciò sterile, deve operare all’interno di una tradizione viva e ininterrotta. Tutto il resto rischia di condurre alla mistificazione.B. Questi approfondimenti verso quali oriz-zonti lo spinsero?S. Insieme con lo studio della chitar-ra facevo anche letteratura liutistica, e negli anni Ottanta acquistai un liuto. Cominciai a frequentare appositi semi-nari di studio, tenuti da liutisti di fama internazionale, come quelli organizzati a Erice nel 1986 con la liutista Christine Frantzen e nel 1990 con Eugène Ferré, a Polizzi Generosa nel 1996 e nel 1997 col liutista Andrea Damiani, nel 1998 a Macerata e nel 1999 a Montedoro, en-trambi col liutista Terrell Stone. Questi seminari erano diretti dall’argentino

Gabriel Garrido.B. Furono, immagi-no, anni importanti per la sua formazio-ne professionale…S. Sì, molto utili sul piano profes-sionale. Mi si con-fermava sempre di più la positività della mia scelta di vita, e perciò continuai con gli studi e con l’ap-profondimento.B. Quali furono gli

sbocchi di questo lavoro?S. Al Conservatorio di “Santa Cecilia” sostenni l’esame del quinto anno di liu-to. Altri esami diedi a Vicenza e, quan-do a Trapani si istituì la cattedra di liuto, sia pure col vecchio ordinamento, io vi conseguii la laurea di secondo livello in Discipline Musicali Scuola di Liuto – fui il primo laureato a Trapani – sotto la guida di Gianluca Lastraioli, che fu relatore della mia tesi, intitolata Origini della letteratura, fonti, notazione e prassi ese-cutiva tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo.B. In quegli anni ebbe modo di portare al ser-vizio del pubblico gli esiti dei suoi studi con concerti ed esibizioni di altro tipo?S. Sì, negli anni Ottanta ho avuto una intensa attività concertistica. Per esem-pio, nel 1982 al Circolo del Giardino di Siracusa partecipai a un concerto del mio maestro Nello Alessi. Nello stesso anno un altro con lui lo tenni al Teatro “Ucciardino”. Negli anni successivi poi furono innumerevoli i concerti che tenni in varie città della Sicilia. Nel 1985, che fu l’Anno Europeo della Musica, con l’Ensemble “Ars Musica” esordii con un concerto di musiche rinascimentali. Fu un evento piuttosto impegnativo per via del repertorio difficile che scegliem-mo, con brani di Negri, Monteverdi, Dowland, Johnson, Attaingnant. Ne fui promotore e mi impegnai in un in-tenso lavoro di ricerca, con tutte le dif-ficoltà che questo poteva implicare, sia dal punto di vista interpretativo sia da quello del rigore filologico e di perfezio-namento, quest’ultimo peraltro legato alla reperibilità di strumenti originali o di copie di essi.B. Lavoro di un certo peso dunque…S. Il gruppo si proponeva, infatti, di af-frontare il vasto, e per certi aspetti mal conosciuto, repertorio strumentale e vo-

Andrea Schiavo suona l’arciliuto

Barbara Colombo e Andrea Schiavo in un concerto nella chiesa della SS. Annunziata ad Avola

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cale che va dalla fine del 1400 agli inizi del 1600. Con la nostra iniziativa vole-vamo contribuire alla divulgazione della musica antica e creare quindi un centro d’interesse anche nelle regioni del Sud. Tenemmo concerti, oltre che ripetu-tamente a Siracusa, ricordo, anche a Melilli, Floridia, Villasmundo, Catania, Milo etc… Nel 1985 presi a collaborare alla “Gazzetta del Sud” per degli eventi musicali e vi pubblicai vari articoli. In quegli anni stabilii contatti con ambien-ti musicali di Milano e di altre città del Nord.B. Immagino che da allora dovettero inten-sificarsi i concerti e le occasioni di esibizioni artistiche.S. Sì, effettivamente fu un crescendo di iniziative e di partecipazioni su cui sarebbe lungo soffermarsi. Nel 1986, per esempio, fondai la “Camerata Sira-cusana Pro Musica Antiqua”. Da solo tenni concerti col liuto un po’ dapper-tutto in Sicilia tra il Siracusano, il Ca-tanese e Messina. Nel 1991 a Palermo e a Catania collaborai come accompa-gnatore continuista per dei concerti con L’Ensemble “Mille Regretz”, diretto dal catanese Salvo Pappalardo. Iniziai allora anche una serie di collaborazio-ni teatrali con attori, primo fra i quali Francesco Alderuccio, per il cui lavoro Fragmenta utilizzai musiche popolari del periodo storico in cui il lavoro era con-testualizzato. Suonai il liuto e il salterio. Altre collaborazioni prestai successiva-mente, curando commenti musicali per Antonietta Carbonetti, nel 1999, nello spettacolo Sonetti di Shakespeare, per Galatea Ranzi, nel 2002, nelle Baccanti e la Bibbia, performance, questa, tenuta nella cattedrale di Siracusa alla presen-za dell’arcivecsovo, mons. Giuseppe Costanzo. Collaborai anche con Alli-son Bozorth Fowle, americana di Bo-ston, e con Jennifer Schittino. Nel 1998 chiamai a Siracusa il liutista americano Terrell Stone, docente di liuto al Conser-vatorio di “Santa Cecilia” e interprete autorevole, in America e in Europa, di musiche del Cinquecento e del Seicento. Ho composto musiche, già nel 1992, per La tragedia di Colapesce di Pippo Cascio e Liddo Schiavo, e per Prosopoi di Bruno Tirri nel 1994.B. Ne deduco che aveva ovviamente studiato anche composizione musicale.S. Certo. Fra il 1992 e il 1994 frequentai fino al quarto anno accademico il corso di composizione presso il Conservatorio “Vincenzo Bellini” di Palermo, studian-do con Marco Betta e Franco Orofino.

Le conoscenze che approfondii rinsal-darono e arricchi-rono quanto già da autodidatta avevo imparato nella mia ricerca e nel mio tentativo di capi-re la musica, nelle sue pieghe intime, costituite da armo-nia, contrappunto e tanto altro. Inte-grai e consolidai la mia preparazione musicale di tipo fi-lologico secondo un percorso storico, che è poi quello che seguono all’estero quando insegnano la composizione, partendo cioè dalle prime forme compositive e seguendone sviluppo ed evoluzione attraverso i se-coli.B. In questi anni di permanenza ad Avola ha organizzato degli eventi musicali?S. Sì. Recentemente, nel maggio del 2015 ho tenuto un concerto, dal titolo Baroccheggiando, insieme con l’artista giapponese Miki Nishiyama, che ha suo-nato il mandolino barocco, mentre io ho suonato l’arciliuto e la chitarra barocca. Il concerto si tenne nella chiesa di San Giovanni Battista per gentile concessio-ne del parroco, don Maurizio Novello. Il 13 giugno successivo con l’Ensemble “Harmoniosi Concenti” tenni un altro concerto, dal titolo Baroccheggiando, Mu-sica Ostinata nell’Europa del XVII secolo, sotto la direzione del maestro Sebastia-no Bell’Arte, nella chiesa, anch’essa ba-rocca, della Santissima Annunziata, che fu messa gentilmente a disposizione dal parroco, don Giuseppe Di Rosa. B. Può dire qualcosa delle composizioni che ha pubblicato a stampa?S. Nel 2005 ho pubblicato, con le Edi-zioni Musicali Novecento, Frammenti sonori per chitarra, nel 2013 il Kyrie elei-son di una Messa flamenca, per chitarra, coro e orchestra, che recentemente ho ripreso, per completarla in tutte le sue parti, secondo una richiesta pervenuta-mi dagli amici francesi dell’Ensemble madrigalistico “Metz’ A Voce”. Vi sto, infatti, lavorando. Nel 2005 ho pubbli-cato Aulodia, per clarinetto o flauto tra-verso. Quest’anno ho pubblicato, sem-pre, come per le altre composizioni, con le Edizioni Musicali Novecento, Petit (sic!) Suite, per chitarra.B. Ha registrato o inciso dei lavori? S. Ho registrato vari lavori, ma qui mi

limito a citarne solo tre, cui tengo parti-colarmente: lo Stabat Mater di Pasquale Cafaro, da una copia ritrovata fra i car-teggi di Giuseppe Capodieci che sono conservati nella Biblioteca Alagoniana di Siracusa; con Raffaele Schiavo e Ali-son Bozorth Fowle ho registrato alcune arie per voce, liuto e viola da gamba tratte da The First Book of Ayres di John Dowland; e ancora Sieben Worte Jesu Christi di H. Schutz, per coro e orchestra d’archi.B. Lavori e progetti in corso?S. Come ho detto, sto completando la Messa flamenca. C’è però un progetto che mi sta a cuore e mi preme realiz-zare. Vorrei concretizzare, attraverso il mio lavoro di docente, la concezione e la visione storica, oltre che estetica, che io ho della musica. Io so che attraverso la musica si possono coltivare i valori fondamentali della vita, come la liber-tà, l’etica, i grandi ideali positivi, che devono stare alla base dell’educazione della persona umana. Credo che con la musica bisogna far pensare la gente, e confido nel valore e nella funzione didattico-pedagogica, oltre che in quella artistico-creativa, della musica. Per que-sto vorrei coinvolgere, con la collabora-zione di altri artisti, i miei allievi in un progetto che recuperasse e mettesse in risalto l’evidenza di tali valori con un re-vival di testi e di brani significativi in re-lazione ai temi della pace, della guerra, della convivenza civile, della solidarie-tà umana. La musica, infatti, travalica ogni confine naturale e umano. Ciò, con un repertorio di brani bellissimi, che in gran parte ho già in mente, scelti tra quelli che generalmente sono poco ese-guiti. Vorrei organizzare un concerto, magari arricchito da linguaggi artistici diversi, da portare in giro in un impegno sinergico tra giovani e adulti.

Andrea Schiavo, direttore del Coro dell’Istituto Siciliano di Musica antica di Siracusa

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Oggi, forse più di ieri, sentiamo spesso parlare di attacchi di pa-nico con un’accezione ben defi-

nita dal punto di vista psicologico, ma meno, senza dubbio, dal punto di vista etimologico. Il termine panico deriva da Pan, grazie a un suffisso, in greco, che lo rende ora aggettivo ora sostanti-vo neutro, panicòs e panicòn; in latino diventa panicus; in entrambi i casi il termine è riferibile alla paura suscitata dal dio Pan. In considerazione del fatto che stiamo per pubblicare un testo postumo del prof. Alessandro Patti, dal titolo “Chia-mami Pan”, mi è sembrato opportuno rinfrescare nella memoria qualcosa in merito a questo personaggio, Pan ap-punto, molte volte citato, ma in defini-tiva poco noto. Dice l’autore: «Sì, Pan è bello,» – egli disse affondando le mani nella sabbia asciutta. – «Pan è grande, Pan è tutto, Pan è Dio. Esiste un solo nome per Dio ed è Pan. Tutti gli altri nomi non sono che nomi di dei. Anche gli dei vivono, anche il dio della trinità, ma essi vivono solo perché Pan vive e finché Pan vive. Essi vivono come i frutti vivono perché pendono dall’albero. Pan! Pan è anche un allegro caprone che io spesse volte vidi salterellare sulle sporgenze erbose delle rosse rupi, allor-ché andavo dietro ai nudi calcagni di mia madre, mentre mio padre nella nera chiesa della grotta agitava ai monaci l’incensiere. Anch’io in quel tempo andavo come mia madre, vestito come un piccolo capro. Più tardi, levando gli occhi dai libri di perga-mena e guardando oltre il balcone giù nel-la valle, ho creduto alcune volte ancora di udirlo gridare dall’alto della rupe, ma ve-duto non l’ho più mai. E tu lo hai qualche volta visto, Maria?»Ma chi era Pan? Entriamo nel mondo del mito e, pur non avendo la pretesa di affrontar-ne esegesi e materia, ritengo opportuno chiarire che esso par-te quasi sempre dal tentativo di mettere ordine a fenomeni altrimenti inspie-gabili, divenendo spesso anche una struttura a sostegno

del potere costituito. Il mito altro non è che un racconto, una parola, un discor-so; sbaglieremmo tuttavia se conside-rassimo questa parola con l’accezione moderna, in quanto il potere di parola, nel mondo antico, è esso stesso un po-tere creativo. Per potere meglio capire il concetto, ci possiamo rifare alla Ge-nesi o all’Iliade, per rimanere in tema e in particolare alle discussioni in cam-po acheo, durante le quali ha potere di parola chi detiene lo scettro. Col tempo l’accezione originaria è scomparsa, per dare spazio in particolare all’elemento favolistico affabulatorio dell’argomento trattato. In quest’ottica ci avviciniamo a Pan.Dall’analisi etimologica sappiamo che alcuni fanno derivare il nome Pan dal greco paein, pascolare, e difatti Pan era il dio dei pastori, ma letteralmente Pan significa “tutto”, come conferma an-che Erodoto1, e, secondo la mitologia greca, era lo spirito di tutte le creature naturali. Questa accezione lo lega alla foresta, all’abisso, al profondo. Le sue origini sono assolutamente incerte; le fonti lo fanno discendere ora da Erme-te, ora da Cronos, o da Zeus, o, addirit-

tura dai preten-

denti di Penelope. Anche l’ascendenza materna è oscura. Il racconto che ci viene offerto nell’Inno omerico a Pan mostra la divinità abbandonata alla na-scita dalla madre, una ninfa dei boschi, che, alla sola vista del figlio, era rimasta terrorizzata al punto di abbandonarlo e scappare via2; il padre, in questa nar-razione Ermes, dopo aver avvolto la creatura in una pelle di lepre, la portò sull’Olimpo, dove fu accolto con gioia dagli dei e in particolare da Dioniso3. Pan era più simile a un animale che a un uomo: il corpo era coperto di pelo, la bocca si apriva su una serie di zanne ingiallite, il mento terminava con una barba ispida, dalla fronte si dipartivano due corna e, al posto dei piedi, aveva due zoccoli caprini. Un’altra versione sulla sua nascita, sostenuta da Igino, afferma che Zeus si unì a una capra di nome Beroe, dalla quale ebbe un figlio, il dio Egipan, ovvero la forma caprina di Pan. Pan era un allegro caprone sel-vaggio e sgraziato, ma scaltro che, al pari di un uomo, nutriva dei sentimen-ti. Il bisogno di solitudine lo spingeva a isolarsi nei boschi, dove restava anche per fare la posta alle ninfe e atterrire

i passanti. Era noto per il suo ardore virile, che lo portava a inseguire allo stesso modo ninfe e gio-

vinetti (i racconti di Pan venivano anche usati per mettere in guardia i fanciulli dalla pederastia), ma, quando la ricerca amorosa rimaneva

senza frutto, il suo incontenibi-le impulso lo spingeva a desiderare

gli animali dei greggi. Si racconta che un giorno egli vide Siringa, la figlia della divinità fluviale Ladone, e se ne innamorò, ma la fanciulla, appena lo vide, fuggì terrorizzata e pregò il padre di mutarle l’aspetto in modo da non farla riconoscere; Ladone, impietosito, la trasformò in una canna. Molti miti spiegano con la metamorfosi l’origine dei fiori

Lambert Godecharle (1750-1835): Pan che insegue Siringa (1804) de Gilles-. Musées royaux des beaux-Arts de Belgique, Bruxelles (Belgique)

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Il mondo di Pandi Grazia Maria Schirinà M

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o di alcune stelle o di alcuni oggetti e strumenti; basti pensare ad Alfeo e Are-tusa o ai compagni di Ulisse trasformati in porci da Circe. Questi racconti sono detti eziologici, in quanto spiegano le cause (áition = causa) ed hanno sicura-mente alla base una visione pitagorica, che considera la vita come forza che pervade ogni evento e ogni forma e in cui tutti gli elementi si confondono, tra-sformandosi l’uno nell’altro (metempsi-cosi)4. Pan cercò invano di distinguere la fanciulla fra i diversi giunchi; intanto il vento soffiandovi produsse un suono delicato, simile a un lamento. Colpito da questo fenomeno, Pan ne recise uno, lo tagliò in tanti pezzi di lunghezza di-versa, li legò assieme con dello spago e vi soffiò dentro per produrre lo stesso suono ascoltato. Fabbri-cò così lo strumento musicale che prese il nome di “siringa” dalla sventurata fanciulla e che viene ancora oggi chia-mato “flauto di pan”. Nota è anche la leggenda che nelle campagne di Efeso si trovava una grotta nella quale Pan ave-va deposto la sua prima sirin-ga, e in cui venivano rinchiuse, per essere messe alla prova, le ragazze che sostenevano di essere vergini. Se le giovani erano realmente pure, si udi-vano uscire dalla grotta i suoni melodiosi della siringa, poi la porta si spalancava da sola e la ragazza riappariva coronata di pino. In caso contrario, si udi-vano strida e lamenti funerei, e quando dopo giorni finalmen-te si riusciva a forzare il pesan-te masso che chiudeva la grot-ta, la ragazza risultava sparita.Da allora il dio tornò a vagare nei boschi correndo e danzan-do con le ninfe e spaventando

i viandanti che attraversavano le selve. A Pan infatti si attribuivano i ru-mori di origine inesplicabile che si sentivano la notte e, dalla paura che essi causavano, deriva il ter-mine: “timor panico”. È ricono-sciuto, infatti, che il dio si adirava con chi lo disturbava, ed emetteva urla terrificanti provocando nel disturbatore la paura. Alcuni rac-conti ci dicono che lo stesso Pan venne visto fuggire per la paura da lui stesso provocata. Legato in modo viscerale alla natura, alla sessualità5 e ai piaceri della car-

ne, Pan è l’unico dio con un mito sulla sua morte. La notizia, secondo Plutar-co fu diffusa da Tamo, un navigatore6, e portò angoscia e disperazione nel mondo. Una morte inevitabile, sospin-ta dall’avanzare del cristianesimo; di fronte al rifiuto della sessualità e degli istinti, quando l’umano perde la con-nessione personale con la natura e l’i-stinto personificati, l’immagine di Pan muore per lasciare spazio all’immagine del Diavolo. I Romani lo identificaro-no con il loro dio Fauno, una creatura che aveva caratteristiche fisiche simili a quelle di Pan. I Fauni ne condividevano l’esuberanza, il vigore e l’intelligenza superiore. Facevano risuonare oracoli

e profezie e abitavano sulle balze sco-scese dei monti, nelle caverne profonde e nelle foreste impenetrabili agli uomi-ni. La loro presenza era svelata dalla voce, anche se si divertivano a presen-tarsi improvvisamente. In epoca clas-sica “Faunos cernere” significò avere le allucinazioni. Il nome derivava dal verbo fari che significa dire, parlare; ma questo parlare era profetico perché tutto quanto apparteneva al fato si av-verava. Fari è infatti un parlare potente ed efficace. I Fauni appartenevano alle epoche più antiche e rappresentavano l’alterità; mezzo uomini e mezzo ani-mali, vivevano in un mondo inconta-minato in cui il suono era l’elemento fondamentale. Suono e movimento in un mondo delle origini: erano, infatti, ab-origini, anteriori all’ordine cosmico. I Fauni e Fauno in particolare vengono associati a Pan proprio per queste carat-teristiche. L’iconografia antica lo rap-presenta quasi sempre associato a uno strumento musicale: la siringa, il flauto o anche la cetra. La pittura vascolare invece propone particolari strumenti a fiato utilizzati solo durante le cerimo-nie a lui dedicate: sono gli élymoi, gli aulói, strumenti sacri che troviamo fre-quentemente nelle immagini antiche. Un altro strumento consacrato a Pan era la conchiglia sonora, con cui si di-

ceva che il dio capro avesse messo in fuga i Titani, get-tando il panico tra le loro fila, quando combatterono contro le forze di Zeus. La conchiglia era suonata dai sacerdoti in particola-ri momenti rituali. I fedeli di Pan onoravano il loro nume anche attraverso il suono degli strumenti più fragorosi, come i crotali e i timpani. Tutti i suoni inesplicabili che provengono dalla na-tura appartengono alla sfe-ra di Pan. Il figlio di Pan, Croto, è il boato del tuono o il battito delle mani dei baccanti in preda al deli-rio mistico. Tutto ciò che Pan insegue e abbraccia è suono, musica, rumore. La ninfa Piti è lo stormire del pino. Siringa è il suono del vento che attraversa i giunchi. Pan è la musica prima dell’uomo. Ma non bisogna dimenticare che,

Pan e la conchiglia, particolare della fontana di Igea nel cortile del Rathaus di Amburgo. Foto di Sebastiano Munafò.

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note1Erodoto, Storie, libro II, paragrafo 522Generò a Ermes un figlio diletto, già allora mostruoso a vedersi,dal piede caprino, bicorne, vociante, dal dolce sorriso.Diede un balzo e fuggì la nutrice, e abbandonò il fanciullo.si spaventò, infatti, come vide quel volto ferino e barbuto. (Inno omerico a Pan)3…si rallegrarono nell’animo tuttigl’immortali, ma più d’ogni altro il baccheggiante Dioniso;e lo chiamarono Pan, poiché a tutti l’animo aveva rallegrato. (Inno ome-rico a Pan) Da questi versi si deducono alcune caratteristiche: Pan è un bambino abbandonato, cosa molto frequente nel mito e nella realtà sociale dell’epoca; è figlio di Ermes e come tale portatore di caratteri ermetici, nel momento in cui vengono celati i messaggi proposti; per essere portato all’Olimpo viene avvolto dal padre in una pelle di lepre, che è animale sacro ad Afrodite e alla Luna, per cui è legato anche al mondo dell’eros e alla natura; è gradito agli dei e in particolare a Dioniso con il quale si instaura un rapporto di “simpatia”.4 Nella letteratura latina il tema delle metamorfosi è sviluppato nelle Metamorfosi di Ovidio (età augustea) e in Le metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio (età imperiale), ma il motivo è presente anche in Virgilio, e, nella letteratura italiana, anche in Dante nel XIII canto

dell’Inferno, nell’episodio di Pier della Vigna, funzionario di Federi-co II, suicidatosi in carcere perché accusato falsamente di tradimen-to (La divina commedia, Inferno, 13, 1ss.) o, per ricordare un esempio noto a tutti, l’asino di Lucignolo e il burattino Pinocchio di Carlo Lorenzini o Collodi.5 James Hillman, lo psicologo americano, nel suo libro “Saggio su Pan” sostiene che Pan è l’inventore della sessualità non procrea-tiva, ma è anche, per la nostra coscienza, ciò che è puramente naturale, il comportamento…al dilà degli scopi personali, quando è massimamente oggettivo.6 Raccontava [Epiterse] che una volta imbarcatosi per l’Italia sopra una nave carica di ricche merci, e piena di una turba di passeggeri, sulla sera trovandosi verso le isole Echinadi, il vento scemò, e la nave andando qua e là con direzione incerta, venne ad avvicinarsi a Paxos. […] All’improvviso fu sentita una voce uscire dall’isola di Paxos che a gran voce chiamava: “Tamo”: di che la meraviglia fu grande. Questo Tamo, egiziano di patria, era il timoniere, ma non conosciuto di nome dalla maggior parte di quelli che erano sulla nave. Chiamato una seconda volta, non rispose; finalmente alla terza prestò ascolto. Allora colui che chiamava, con voce tonante disse: “Quando sarai giunto alla Palude, annuncia che il gran dio Pan è morto”. Raccontava Epiterse che tutti, udito questo, si spaventarono – Plutarco, Il tramonto degli oracoli, cap. III

oltre la musica di Pan – o me-glio: prima e dopo il canto di Pan – c’è il grido di chi, inva-sato dal dio, apprende la prima parola della lingua divina. E non dice “madre” o “padre”. Emette un urlo che risuona ag-ghiacciante come uno sfogo di follia alle orecchie di chi non è posseduto. I Greci chiamava-no quell’urlo kraughé e lo rite-nevano simile ora al verso del cane, ora a quello del corvo, ora a quello della capra. Pan, in definitiva, il “Tutto” che segue la forza dell’amore, la personificazione della sensua-lità libera da freni, ha ispirato tutto il mondo dell’arte e la filosofia; per Pindaro Pan era sapientissimo danzatore; per So-focle artefice e maestro delle danze divine. Per l’uno e per l’altro, la danza corrispondeva ai gra-di iniziatici della conoscenza. Eschilo lo definiva amico delle danze e Socrate, nel Fedro pla-tonico, supplicò lui e le ninfe,

chiedendo che gli concedesse-ro la bellezza interiore dell’anima e, riguardo all’esterno, che esso si ponesse in armonia con l’intimo. Pan, per gli orfici, è colui che regna sull’armonia del cosmo, e risveglia “la cosmica armo-nia” con il suo canto sereno. Una divinità dunque nella qua-le coesistono due nature con-trastanti che le sono proprie anche in virtù del corpo che lo contraddistingue: una sel-vaggia, animale, istintiva e una intelligente, sensibile, armoni-ca. È forse più di ogni altro il simbolo della vita stessa che, se come istinto ed esuberante vi-talità rappresenta la conserva-zione della specie, come intel-ligenza e forza profetica guida il comportamento dell’uomo, che, pur volendo riscoprire i tempi della natura, riesce a far coesistere in equilibrio lo spiri-to e la materia.

Acquerello di Casimiro Piccolo di Calanovella

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Alcuni giorni fa, percorrendo la via Luigi Razza, vidi due ma-terassi seminuovi appoggiati sul

prospetto di una casa, che aspettavano il camioncino della nettezza urbana per essere portati alla discarica.In quel momento mi venne in mente una vecchia canzone degli anni ’50, Vec-chio scarpone, che diceva: vecchio scarpone quanto tempo è passato e quanti ricordi fai rivivere tu.Ma i miei ricordi non si riferiscono a un vecchio scarpone, bensì a due vecchi ma-terassi; quelli di mia zia Corradina. Pen-savo che se a quel tempo avesse avuto quei due materassi, che stavano buttan-do, avrebbe fatto salti di gioia.E così, mentre dal fondo della mia me-moria affioravano i ricordi della mia infanzia, chiudendo gli occhi, rivivevo frammenti di quel tempo passato.Siamo all’inizio degli anni’50: da poco tempo era finita la seconda guerra mon-diale, lasciando distruzione e miseria; nel nostro paese mancava tutto, anche dal punto di vista igienico, dal momento che non tutte le famiglie avevano l’acqua potabile in casa e la fognatura. Per l’acqua si doveva andare a rifornirsi alla fontanella (cillitta), che il Comune aveva fatto installare nei vari quartie-ri nel lontano 1912, oppure si doveva andare in via Fontana, fuori dal centro abitato, dove tuttora vive una sorgente d’acqua. Al posto della fognatura invece c’erano i pozzi neri.Le strade erano tutte in terra battuta e piene di buche, le uniche pavimentate erano quelle all’interno dell’esagono; il corso Vittorio Emanuele era pavimen-tato con mattonelle in asfalto della ditta

Ambrogio, che, anco-ra oggi, in qualche via del centro resistono, pur essendo rappezza-te con asfalto liquido.Ricordo quando mia madre dovette affidar-mi a zia Corradina, sorella di mio padre, poiché, essendo nato mio fratello Corrado, il secondogenito, non aveva la possibilità di badare a due bambi-ni. Mia madre aiutava mio padre nell’attività di famiglia, che era la macelleria all’interno del Vecchio Merca-to. Tornando ai due materassi seminuovi buttati, ricordo quelli che aveva zia Corra-dina, alti il triplo, che non erano né a molla né, tanto meno, di gommapiuma, ma due sacchi di stoffa riempiti di crine o paglia d’orzo. La sera, quando si andava a riposare, il mio posto nel letto era nella parte posteriore (e’ peri ro lettu) e, di not-te, quando mi scappava di fare il bisogni-no, chiamavo mia zia che accendeva una vecchia lampada, per poter prendere da sotto il letto il vaso da notte (u rinali); nel frattempo suo marito, zio Sebastiano, borbottava, visto che dopo poche ore si sarebbe dovuto alzare per affrontare una giornata di duro lavoro. Mio zio, che era bracciante agricolo, con la sua bicicletta percorreva decine di chilometri per rag-giungere il posto di lavoro e per ritornare

a casa. Così capitava che a volte, per non disturbare, mi alzavo al buio e sporcavo a terra, così che il gior-no seguente mia zia Corradina andava su tutte le furie, perché era costretta a pulire. In quelle occasioni mi diceva: A stasira ti vai a cucchi a to casa, ma in realtà essa mi voleva così tanto bene che tutto le pas-sava in fretta. Nel pe-

riodo invernale, quando mio zio non an-dava a lavoro, a causa del brutto tempo, di mattina passava il garzone del pastore che, suonando il campanaccio, vannia-va per avvisare la gente che la ricotta era pronta per la vendita. Mia zia Corradina diceva a suo marito: Vastianu, occatticcilla a ricotta o picciriddu; lui, essendo tirchio e sapendo che a quel tempo una cavagna costava 10 lire, le rispondeva con una strofetta: Scimunita ricordati “cu runa pani o cani stranu, peddi u pani e u cani”! Quella frase non l’ho mai dimenticata e fino a quando lui è rimasto in vita, l’ho guar-dato come una figura estranea.In quegli anni le case nei quartieri erano tutte a pian terreno, di piccola cubatura e con i tetti coperti da tegole (i ciaramiri): in genere composti da due vani. Un vano era l’ingresso con la cucina a legna, il ga-binetto per chi lo possedeva e il tavolo per il pranzo. L’altro vano era adibito a camera da letto per sei o sette persone, tale era la media di una famiglia.Davanti casa non mancava il pergolato di gelsomino o di vite (la cosiddetta preu-la, una pianta di uva bianca o nera). Chi stava meglio era il massarotto che aveva pure la carretteria (una sorta di garage) per gli animali da tiro (asini, muli o ca-valli) con il tavolaccio (u tavulatu) per il fieno e la paglia; c’era posto pure per la

Zia Corradina

Fine Ottocento: donne alla fontana con quartare in equilibrio sulla testa

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Vita d’altri tempidi Sebastiano Consiglio - foto Archivio Consiglio

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capretta e la gabbia delle galline, che di giorno veniva messa fuori casa così da aver sempre l’ovetto fresco. Nei quartieri la pulizia delle strade e la raccolta dei rifiuti non veniva fatta dai dipendenti comunali per mancanza di personale nella nettezza urbana; i pochi dipendenti erano i fratelli Motta (Corra-do, Salvatore e Sebastiano) soprannomi-nati Mllèmmllè. Sebastiano Catinello det-to Ianu c’a petra nte’ manu, Nicola Mallia e altri pochi personaggi. Queste persone erano addette alla pulizia dell’esagono, mentre nei quartieri più periferici la rac-colta dei rifiuti la facevano i munnizzari per conto dei proprietari terrieri. La rac-colta serviva per concimare i terreni e ve-niva eseguita tutti i giorni passando con i carretti trainati dagli asini, ma si racco-glieva poco perché non si buttava nulla. Non c’era molto da buttare; non c’erano elettrodomestici né televisori, poche ra-dio, qualche grammofono con la mano-vella, utilizzate per le serate di festa: ma-trimoni, fidanzamenti, battesimi o per la festa di carnevale; si ballava in casa, bastava una fisarmonica, un tamburo e un fischietto per divertirsi. Noi ragazzi giocavamo fuori, specialmente nel pe-riodo estivo, aspettando che qualcuno ci portasse della calia, della semenza e delle noccioline (nucidda americana).Di mattina, mentre ero ancora a letto sot-to le coperte, sentivo, fuori nella strada, il vociare delle persone che passavano; così mi alzavo e, incuriosito, mi mettevo dietro la finestra a osservare, mangiando la zuppa di latte che mia zia mi aveva preparato. Vedevo passare il venditore di ricci di mare, Salvatore Rossitto, che

girava il paese con la sua bicicletta e la cassetta legata dietro. Poi era la volta di Sebastiano Marino (u zu’ Ianu u baccala-raru), che, a piedi scalzi, girava tutto il paese, vendendo pesce salato, come il baccalà o il tonno (a tunnina) e il pesce azzurro (anciovi e sarda). Ricordo ancora di don Carmelo Giummo che, con il suo piccolo carrozzone, vendeva stoffa suo-nando un piccolo corno di bronzo. E per finire sul tardi era la volta di donna Se-bastiana Puglisi (a za Vastiana a Gnigna a sancunazzara) che, con il carretto e l’a-sinello, girava vendendo il sanguinaccio. Ero cosi affascinato da passare tutta la mattinata dietro la finestra a osservare e imparare i sacrifici della vita. Nel frat-tempo zia Corradina faceva il bucato minuto nella pila che aveva fuori casa

(l’acqua sporca andava a finire in stra-da), invece le lenzuola e le coperte, una volta al mese, insieme ai vicini di casa con due o tre carretti trainati dagli asini, le faceva trasportare alla foce del fiume Cassibile, per poterli lavare (a truscia re marazzi lurdi). Nel pomeriggio del perio-do estivo passava u zu Paolo Fugali, ven-ditore di ghiaccio grattato, e Pasqualino il gelataio che proponeva a squarciagola: fragole e turruncinu chistu è gilatu finu di pri-ma qualità. Nel periodo invernale invece vendeva cassatine e cannoli. La sera, al ritorno dei mariti dal lavoro, per la cena, si metteva un tavolino davanti la porta e, con una lampada col filo allungabile per far luce, si cenava. Nel frattempo si sen-tivano delle canzonette provenienti da qualche radio accesa e un venticello pri-maverile portava i profumi delle zagare, dei giardini di limoni, e delle piantagio-ni di gelsomino. Nel periodo invernale si poteva capire chi era passato dalla strada per i solchi lasciati sul fango dalle ruote dei carretti e dagli escrementi degli ani-mali; anche quelli lasciati dalle mucche e dalle capre, che tutti i giorni venivano condotte dai loro proprietari per la ven-dita del latte. C’erano pure quelli lasciati da noi bambini, che avevamo come veste il pagliaccetto, veste aperta di sotto, che ci permetteva di fare il bisognino sul po-sto, in mezzo alla strada. La strada era la vita di quel tempo; ci si conosceva e si sapeva tutto di tutti, nel bene e nel male. Non si possedeva nulla e si viveva alla giornata. Se c’era una famiglia in diffi-coltà tutte le famiglie della strada si ado-peravano per aiutarla. Ma accadevano anche litigi furibondi, per futili motivi, come, per esempio, alla fontanella, per

Marzo 1956: via Manin angolo via Dante. Dipendenti comunali della Nettezza Urbana (Nicola Mallia e i fratelli Salvatore, Corrado e Sebastiano Motta)

U munnizzaru - foto tratta da Pagine Sparse

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prendere l’acqua, o ancora per zuffe di bambini. Ricordo bene uno di questi li-tigi. Fu alla fine degli anni ’50 e, se non intervenivano delle persone, sarebbe fini-ta sicuramente male. Era un pomeriggio del mese di aprile (lo ricordo perché da poco avevo compiuto 11 anni), e noi gio-cavamo una partita di pallone (si trattava in effetti di una vescica di maiale, detta a ozza, che veniva gonfiata e legata per non fare uscire l’aria, avvolgendola con degli stracci, per renderla più pesante), che avevo portato io. Nel gioco vi fu uno scontro tra due miei compagni, i quali, appena si rialzarono, iniziarono a in-

sultarsi. Non facemmo in tempo a dividerli che uno ricevette un pugno sul naso dal quale uscì del sangue. Quello che aveva sferrato il pugno esclamò: Ora o cunticcillu a butt… ri to matri. La donna, che abitava li vicino, sentendo le urla arrivò di corsa; ve-dendo suo figlio, che sanguinava dal naso, chiese chi fosse stato, e lui pian-gendo gli indicò il compagno e riferì anche quello che aveva detto su di lei. La madre inviperita gli rifilò due ceffoni e gli disse che quelle calunnie doveva rivolgerle a sua madre, visto che quando suo padre andava a lavo-rare fuori, per quindici giorni, la sera, mentre tutti dormivano, faceva entra-re l’amante. Nel frattempo qualcuno aveva avvisato l’altra madre di quello che stava accadendo. Anche lei arrivò di corsa e, senza chiedere spiegazio-ni, si avventò sulla rivale; se le diede-ro di santa ragione. Diverse persone cercarono di dividerle, ma ci volle del tempo, dato che si erano afferrate per

i capelli. Continuarono ancora a dirsene di tutti i colori. Trascorsa qualche set-timana, il marito, al rientro con la sua bicicletta, stanco e con i vestiti sudici del lavoro di quindici giorni, venne fermato, prima di arrivare a casa, da alcune per-sone presenti ai fatti che, facendo da pa-cieri, gli raccontarono quanto accaduto a causa di un litigio tra i figli e quello che le donne si erano dette, in preda alla rabbia; tutto finì li. La vita era vissuta nella normalità e ti permetteva di vivere alla giornata, serenamente. Nel bene e nel male ci si accontentava di quel poco che si possedeva. E adesso? Ora non è

più possibile: la tv rimane accesa tutto il giorno e ti riempie la testa di spot pubbli-citari; il telefono squilla continuamente per promozioni; il volantinaggio porta a porta diventa sempre più insistente e, per finire, il sabato e la domenica non si va più a passeggiare in piazza o al viale Lido. Ormai si prediligono i centri com-merciali, perché il sistema ti impone di acquistare a buon prezzo solo in queste strutture, disegnando il tutto come uni-co modo tramite il quale il nostro paese possa crescere, anche se i soldi scarseg-giano. Ormai esistono le finanziarie, compri adesso e paghi dopo; se poi non puoi pagare, ti affidi alla banca e ti vin-coli la casa, che, se non paghi, viene venduta all’asta e tu rimani in mezzo alla strada. Arrivano le liti in famiglia: il male si fa strada, come la depressione e l’esaurimento; ma, diciamo la verità, ne vale la pena? In sessanta anni di progres-so abbiamo distrutto la nostra madre terra inquinandola, sporcandola di tutto ciò che di bello c’era (mari, laghi, fiumi e l’aria che respiriamo) e riempito le no-stre città di montagne di rifiuti. Questo perché abbiamo dimenticato il nostro passato; allora riportiamo indietro la no-stra memoria, cosi da apprezzare il no-stro presente e vivere il futuro, amando quello che ognuno di noi ha e non quello che non si potrà avere!Riacquistiamo i valori morali e civili che i nostri genitori e i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità, cercando di trasmetterli e insegnarli ai nostri figli e nipoti.

Sebastiano Marino, u baccalararu

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L’argomento non è usuale. La re-cente lettura di un articolo ripor-tato su una rivista ha risvegliato

in me antichi ricordi e fatto maturare la strana idea di scrivere alcune note e ammaestramenti acquisiti nel corso delle mie esperienze di vita. A tavola si va almeno tre volte al giorno e vicende da raccontare se ne possono annove-rare tante. A volte si consuma il pasto da soli, a volte in compagnia, e, con il buon senso e l’ammaestramento degli altri, sin da piccoli si acquisiscono com-portamenti che poi si fanno propri per tutta l’esistenza. Questo è il caso mio. Esperienze familiari prima, e presso ambienti di lavoro dopo. Matura una forma mentis o abitudini che si accet-tano inconsapevolmente, divenendo un bagaglio che ti porti dietro e non ti pesa. Ricordo la compostezza di mio padre Francesco a tavola, la calma di mio zio Giuseppe, dal quale non ho mai sentito un appunto a sua madre, la non-na Grazia, per una pietanza insipida o poco condita, la gestualità dello zio Alessan-dro quando consumava il pa-sto. La nipote Ada, mia cugi-na, alle 17 del pomeriggio, con estrema puntualità, gli portava in un vassoio il solito cappuccino di latte e caffè, con a fianco una “spon-sa” di gelsomino: una piccola compo-sizione fatta con i fiorellini di profu-mato gelsomino appena raccolto dalla pianta, infilzati sugli aculei di un fiore secco. Lui rimaneva seduto sulla sedia della sua scrivania, ringraziava e smet-teva di disegnare su una tavolozza con i pastelli colorati. Forbiva le labbra con il tovagliolino delicatamente, prima di sorseggiare la bevanda. Poi rimette-va la tazza sul vassoio e, dolcemente, portava il tovagliolo alla bocca. Con lo stesso movimento raccoglieva il gelso-mino che avvicinava al naso e il profu-mo intenso gli procurava un sorriso di compiacimento. Io ero un bambino e rimanevo coinvolto da tale gestualità. Vi dirò qualcosa di carattere generale e ricorderò qualche comportamento spe-cifico. È ovvio che si tratta di argomen-ti che possono o non possono intaccare

la suscettibilità di taluni. Questo non è il mio intendimento. Scrivo perché così trascorro il poco tempo libero tra una terapia e l’altra, e ciò mi appaga. Il mangiare sano, equilibrato o bilanciato come si dice oggi, la dieta ipocalorica, iposodica, il mono pasto, la salute e così via, sono tutt’altra cosa. Il gentiluomo si conosce a tavola. Il det-to è noto. A tavola si può giudicare la buona educazione della gente. Un com-portamento sbagliato può trovare giu-stificazione nella distrazione, nella fret-ta, nello stato d’animo o nello stress per il nostro lavoro, per la vita dinamica dei nostri tempi. Così, non cediamo il pas-

so, in qualche occasione, a una signora, o non salutiamo per primi l’anziano insegnante incontrato per la via o non cediamo il posto a sedere a una persona sofferente in tram. A tavola non è così. In condizioni normali in famiglia o al ristorante con gli amici, è difficile ac-campare scuse. Insisto nel dire che le norme di buon comportamento devo-no essere spontaneamente accettate e rispettate. Ne citerò alcune che ritengo facilmente attuabili, tralasciando quel-le più ovvie. Ciascuno si regoli come meglio crede. Durante i pasti non si mangia e non si beve rumorosamente, né si parla ad alta voce, né si tratta di ar-gomenti non graditi o che implicano la condotta dei presenti. Si sta seduti com-posti con la sedia accostata al tavolo e

i gomiti non appoggiati, tenuti vicino alla persona, anche quando si usano le posate. Si mastica a bocca chiusa, senza far rumore quando si sorbisce il brodo o altro. Non si parla con la bocca piena. Il tovagliolo si tenga piegato sulle ginoc-chia, mai infilato nel collo della cami-cia. Il cucchiaio non va riempito trop-po e così il piatto. Se si ha appetito si prenda un’altra portata. Fa piacere alla padrona di casa se l’ospite mangia di gusto. Con la forchetta adoperata con la mano destra, si può mangiare qua-si tutto, aiutandosi con un pezzetto di pane tenuto con la sinistra, per mangia-re il pesce. Con l’ausilio del coltello si mangiano le carni e gli affettati. Il pane non si taglia, si spezza con le mani in pezzi piccoli da portare in bocca, sen-

za fare briciole. Non si strappa con i denti. Se si interrompe di mangiare

per bere, discorrere o spezzare il pane, si depongano le posate sul piatto a destra e a sinistra con il manico sull’orlo e la punta al centro (tipo le ore 4 e 40) e si dispongano perpendicolar-mente, con il manico verso di voi, se si è terminato di man-

giare la pietanza. Al ristorante il cameriere porterà via il piatto.

Le posate mai vanno appoggiate con la punta sul bordo del piatto e il

manico sul tavolo. Se cade una posata per terra non si raccolga, si sostituisce. Non si deve bere a bocca piena e la boc-ca deve essere forbita prima e dopo con il tovagliolo, senza strofinarlo. Non si devono prendere due bocconi insieme con la forchetta o sorbire due sorsi dal-la medesima cucchiaiata. Il coltello si tenga come un porta penna. Il pane o i biscotti non si inzuppano nella mine-stra, nel tè, nel caffè, caffelatte o altro. A tavola non si fuma. Gli spaghetti non si tagliano col coltello. Si mangiano con la sola forchetta, senza usare altre posate. Si agganciano alcuni spaghetti in un’estremità del piatto, si arrotolano sulla posata per farne un giusto bocco-ne che si inumidisce con il condimento posto al centro della pietanza e si por-ta in bocca senza far cadere nel piatto eventuali avanzi e senza portare avanti il viso. La pasta nel piatto non si mesco-

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Il gentiluomo si conosce a tavola...ma è proprio vero?di Corrado Vella

GA

LA

TE

O

la per distribuire il condimento. Man-giando la carne, il coltello serve per tagliare la quantità da portare in bocca con la sola forchetta e aiutare a togliere la stessa dalle ossa che mai si portano in bocca. Se non si riesce del tutto si ab-bandoni la parte troppo difficile da di-staccare. Questo vale anche per il pollo. Non toccare mai la carne con le mani. Nel condimento si intinga il pezzetto di carne tenuto con la forchetta, mai i pez-zetti di pane. Le verdure cotte e le insa-late si consumano con la sola forchetta, non si tagliano con il coltello. Questo non si adopera per il pesce. Le spine o il nocciolo delle olive si pongono sulla forchetta avvicinata alla bocca e poi sul piatto. Con le posate si possono gustare i vari formaggi, i dolci, i gelati. Il burro salato si può spalmare su un pezzetto di pane con l’ausilio della punta del col-tello. Per servirsi di frutta dalla fruttiera si adoperino le posate della stessa. Non si sceglie la frutta desiderata palpando-la con le mani. Una mela, un’arancia o altro si tengano ferme con la forchetta e si taglino a metà con il coltello e poi a un quarto. Così diventa facile sbucciare i pezzi ed eliminare i semi, le bucce e i noccioli. Per l’uva e la frutta che non si può sbucciare, verrà portata a tavola una coppa con l’acqua per lavarla e inu-midire le dita, se necessario, asciugan-dole col tovagliolo. Generalmente con le mani non si tocca il cibo. Si devono usare le posate, dive-nute con l’uso utili utensili e non armi pericolose da odiare. Ricordo ancora di non usare a tavola gli stuzzicaden-ti. Se è proprio necessario, è preferibi-le chiedere il permesso di allontanarsi momentaneamente. In altra occasione vi parlerò di norme di buon compor-tamento in società, ad esempio, se si è invitati a pranzo o se siete voi a invitare gli amici, o come io desidererei organiz-zare una cerimonia per le nozze di un familiare o di un amico. Regole basilari che riguardano i padroni di casa, il ri-cevimento degli ospiti, l’approntamen-to della sala da pranzo, dei tavoli, dei posti a sedere, la creazione di ambien-ti omogenei con gli ospiti, ad esempio coppie sposate o conviventi, facendo in modo che si eviti di affrontare argo-menti spinosi come la politica o la reli-gione, con la dovuta sensibilità, se la si-tuazione lo consiglia, per non inquinare l’atmosfera che chi invita ha il dovere di creare e mantenere accogliente e pia-cevole. Vi parlerò dei compiti specifici della padrona di casa, della scelta del-

le pietanze da preparare e servire, ma anche del buon comportamento degli ospiti invitati. Adesso alcune vecchie esperienze che fanno meditare. Agli inizi degli anni Sessanta mi trovavo a Civitavecchia per un corso inerente alla mia professione. Una sera, a passeggio con degli amici, decidemmo di andare in pizzeria. Ne scegliemmo una. Locale semplice, modesto: ci parve accoglien-te. Ci sedemmo a un tavolo indicatoci da un cameriere. I tavoli erano di mar-mo con le gambe in ferro battuto. No-tammo il grembiule del cameriere non proprio netto. Ordinammo la pizza. Il cameriere portò al tavolo delle bottiglie di birra. Fu allora che ci accorgemmo che gli ospiti degli altri tavoli beveva-no la birra tracannandola direttamente dalla bottiglia. Questa fu la nostra pri-ma sorpresa. Arrivò poi un cameriere spingendo un carrello con un’ampia te-glia da forno e una fumante e odorosa “pizza a metro”. Afferrò con una mano la pizza, ne tagliò una porzione con un forbicione da sarto e l’appoggiò con decisione sul marmo del tavolo davanti uno di noi. Così fece per gli altri. Non osammo chiedere né posate, né bicchie-ri; solo qualche tovagliolo. Ritornò con un vecchio giornale quotidiano, che ta-gliò a quadrati con un coltellaccio e che poi lasciò sul tavolo. Eravamo zittiti dalla situazione. Notammo che, pres-so gli altri tavoli, gli ospiti mangiavano con le mani e arrotolavano il formaggio filante con le dita indice e medio, usate come una forchetta, che poi portavano alla bocca. Ci adeguammo malamen-te. La pizza era deliziosa! Ancora in-creduli lasciammo il locale. Nei giorni successivi parlammo a lungo di questa esperienza vissuta. Decidemmo infine di ritornare ancora una volta in quella pizzeria. In Friuli, presso le famiglie pa-triarcali, tutti i familiari si racco-glievano a tavola all’ora dei pasti. Il posto era asse-gnato. Il capo famiglia recitava le preghiere di ringraziamento. Dopo il doveroso rito, la mamma portava il paiolo di rame con la fumante polenta che rovesciava su un vassoio di le-gno posto al centro del tavolo. La stendeva con un cucchiaio di legno e sistemava al centro il sugo

con la carne o il baccalà. Dopo il via del capo famiglia, ciascuno attingeva alla polenta e al condimento con la posata, aiutandosi a volte con le mani. C’era allegria. Era una festa! Nell’aria svolazzavano le note di quel ritornello: se il mare fosse tocio,.. oilì… oilà,.. e i monti di poenta,.. o mamma che tociate! o mam-ma che tociate!.. poenta e baccalà!.. Perché non m’ami più. Mi trovavo tempo fa ad Abano Terme, ospite presso un albergo, per un ciclo di cure balneari, i così detti “fanghi”. Un giorno, a colazione, notai che un anziano ospite dell’albergo, sot-tovoce, ripeteva il verso che fa la galli-na dopo aver deposto l’uovo. Lo stesso ospite a pranzo ripeteva questa volta l’ululato del cane che abbaia: …bau,.. bau,.. bu,.. bu,.. Non capivo la stranezza del comportamento del signore. Chiesi lumi al cameriere. Era al corrente del fatto. Mi disse che il verso della gallina era rivolto a un altro ospite dell’albergo che a colazione, nella scodella del caf-felatte, spezzettava due o tre briosce per prepararsi un “pastone”, come faceva-no le mamme di una volta per i polli. A pranzo, l’ululato del cane si riferiva al fatto che lo stesso signore spezzava il pane strappandolo con i denti, come fanno i cani, non con le mani. È ovvio che a tavola è preferibile assumere com-portamenti corretti, normalmente ac-quisiti. Correttezza e naturalezza, cioè disinvoltura. La conoscenza di qualche nozione può tornare utile in partico-lari situazioni che possono verificarsi nel corso della vita, così da superare qualsia si imbarazzo, sia nei pranzi con vecchi amici in trattoria, o con ospiti di riguardo. È bene essere sempre in armonia con se stessi cosi che possiate apprezzare il cibo, se avrete la ventura che sia eccellente.

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Siculamente Bonsai Club Avola è una nuo-va e radicata realtà associativa che dal novembre 2014 riunisce soci e no con la passione artistica del bonsai; l’idea è nata dall’intento di tre amici: Marcello Dell’Albani, Piero Sampirisi e Corra-do Rossitto. Marcello Dell’Albani, che abbiamo già sentito qualche numero fa di Avolesi nel mondo al riguardo, è il presidente e, quando parla di questa esperienza associativa, è emotivamente coinvolto. Tanti i percorsi personali che grazie a questa realtà si sono ritrovati, per ini-ziare un nuovo cammino frutto di un confronto bello e accattivante d’idee, di considerazioni e di esperienze che ognuno sta portando, contribuendo, al contempo, alla crescita non solo del-le adesioni associative, ma anche delle relazioni umane e della conoscenza del territorio. Il logo associativo, proprio per questo, testimonia il radicamento con la Sicilia e, in particolare, con Avola, richiamata dall’esagono, dal mandorlo e dai colori rosso e blu. L’Associazione, che è registrata secon-do la disciplina del codice civile ed è iscritta presso l’UBI nazionale, ossia l’Unione Bonsaisti Italiani, vede l’ade-sione di circa quaranta soci che, come ribadisce il presidente, sono anche de-gli amici, basti pensare che le consorti hanno instaurato relazioni indipenden-temente dagli incontri associativi. Molti i giovani e gli anziani che si sono avvicinati perché, afferma Dell’Albani, dedicarsi all’arte del bonsai permette di scoprire i doni della pazienza, della per-severanza, della cura e del rispetto nei confronti della pianta, che, automati-camente, si ripercuotono positivamente nelle relazioni umane con un’ottica to-talmente nuova e differente.

Proprio per queste finalità, spiccatamen-te sociali, l’Amministrazione comunale, informa il Presidente, vuole affidare gratuitamente a Siculamente Bonsai Club Avola dei locali in una particolare zona della città, ancora da concordare, per contrastare il disagio sociale delle nuove generazioni. Le attività del 2015 hanno impegnato, sotto ogni aspetto, l’Associazione: le numerose mostre in Sicilia, nel resto d’Italia e nel Belgio, hanno contribuito ad accrescere la fama di questa nuova realtà associativa, permettendo agli amici di Siculamente Bonsai Club Avola di confrontarsi con percorsi diversi e nuo-vi; le attività ricreative in piazza Umber-to I e al centro commerciale Il Giardino

hanno consentito la conoscenza di que-sta nuova arte a chi prima ne fosse igna-ro. L’appuntamento organizzato con i Superabili, grazie anche alla proficua collaborazione del Corpo Forestale che ha messo a disposizione alcune pianti-ne, è l’esempio tangibile del cammino sociale e ambientale che l’Associazione ha voluto intraprendere in questi primi anni di vita. Ricordando questo evento, il Presidente, soddisfatto, condivide i sorrisi, la gioia della scoperta e l’entu-siasmo di tanti passanti, bambini e ra-gazzi incuriositi che, avvicinandosi, si sono confrontati con una realtà del tutto affascinante. Per gli amici de i Superabi-li è stata anche l’occasione per favorire l’integrazione sociale di tanti ragazzi e di tante ragazze che grazie al bonsai hanno acquistato sicurezza nelle rela-zioni. Dedicarsi alla piantina, ribadisce Dell’Albani, è occasione importante per imparare a conoscersi, ad affronta-re i propri limiti e, soprattutto, a usare i propri pregi per coltivare ogni relazione umana. Dell’Albani, in conclusione, tiene a pre-cisare che grazie al bonsai, i soci, e non solo, hanno fatto proprio un motto di vita: nati per creare e non per distruggere.

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Una nuova arte che punta al socialedi Umberto Confalonieri - foto Archivio associativo

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ZIO

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Sembra che ci sia aria sonnolenta, come ogni giorno a quest’ora, sul-la spiaggia. I bagnanti sono per la

maggior parte sdraiati sotto gli ombrel-loni e, in ogni gruppo, ci sono un paio di volenterosi che si sforzano di tenere desta l’attenzione degli altri con qualche argomento di attualità. Gli adolescenti fanno gruppo a parte, sparpagliati sotto vari ombrelloni. Ovviamente, sono i più vivaci, anzi costituiscono l’unica nota veramente viva in questo carnaio semi addormentato. Ogni tanto, a gruppi di tre o quattro, fuggono da sotto gli om-brelloni e nobilitano le verdi acque dello Ionio e poi ritornano, anche loro stanchi e desiderosi di sdraiarsi al riparo da un sole che intontisce. lo sto seduto sotto la tettoia, un po’ an-noiato, alla ricerca di un interesse, di un qualcosa che lo leghi alla realtà, anche se a questa realtà così torpida, così poco at-traente: non c’è niente di tanto nobile che meriti lo sforzo di stanche meningi. Al mare, con questo sole, è difficile pensare a cose serie o di una certa importanza! Ci sono, sì, coloro che, sdraiati supini, ad occhi chiusi, con la testa abbandonata su un cuscino di gomma, vogliono dare l’impressione di inseguire chissà qua-li abissi del pensiero. Ma chi crede che costoro “pensino”? Neanche io penso: guardo, mezzo distratto e mezzo attento, verso la spiaggia, sotto l’ombrellone che ripara il mio Nino, che è accovacciato vicino alla mammina e circondato dalle premure di Salvo e Marianna, che vo-gliono farlo distrarre e giocare con loro; e fanno a gara, loro due, Salvo e Marian-na, a chi riesce meglio con Nino. Egli li segue come e quanto può, prende in mano la paletta che gli offre Salvo, guar-da con inusitato interesse il secchielIo di Marianna, si alza, sorride, lascia cadere la paletta dalle mani, si volge e si avvici-na a Marianna, la quale, sorridente, gli porge il secchiello: Nino lo accarezza o, piuttosto, lo palpa, stende in avanti l’al-tra mano, ma... Marianna ha avuto un lampo negli occhietti ed è volata verso la battigia: il secchiello è presto pieno d’ac-qua e la bambina ritorna veloce verso l’ombrellone. Giocheranno un po’ con acqua invece che con sabbia, mi dico io, guardando tutto dalla mia sedia sotto la tettoia. Intanto, arriva Concettina con Giovanna in braccio; io,

che l’ho riconosciuta alla voce, per aver lei richiamato a sé Gepy, mi giro sulla sedia per salutarla, ma Concettina è già oltre, con Gepy alla gonna e Giovanna in braccio. Le viene dietro ad una certa distanza Rosetta, che tiene per mano il suo piccolo Ettore, e che, guardandomi seduto sotto la tettoia in solitudine, mi invita da lontano a raggiungerla sotto l’ombrellone. Che diamine! C’è qualcosa di meglio che fare quattro chiacchiere in buona compagnia? Da soli sulla spiaggia, al mare, ci si annoia mortalmente! Lei sicuramente eviterebbe la noia, perché Ettore ha bisogno di continua attenzio-ne. Si allontana, Rosetta, mentre io mi riprometto di raggiungerla più tardi, nel gruppo; intanto mi avvio al bar per disse-tarmi: anche lì c’è ressa, per cui io aspet-to educatamente che arrivi il mio turno. Accanto mi sta un giovanotto che ciarla amabilmente con una ninfa: improvvi-samente si alza sulla punta dei piedi per porsi al di sopra di quanti lo precedono e, mezzo sudato e mezzo seccato, grida al cameriere del bar, che si affanna a servire i clienti: Due coktail in bottiglia, ragazzo!; quindi, gira verso la sua sinistra e va all’e-stremità del banco, attende il cameriere, lo tira a sé per la manica rimboccata della giacca bianca, prende da lui le due bottigliette con le cannucce e sorride a Lei: la Ninfa è soddisfatta, novella dama del giovin signore del millenovecento... e ritornano verso la spiaggia – ambedue sorridenti e soddisfatti! – lei che ancheg-gia mollemente e il novello Anfitrione al suo fianco. C’est la vie! Tutto si è svolto rapidamente e a me adesso non resta che aspettare il mio turno per dissetarmi e tornare con l’occhio all’ombrellone sotto cui siede e gioca il mio angioletto. Nino ha ancora le ali, non conosce del mon-do altro che il cibo, il papà e la mamma; gli altri, tutti gli altri, sono il contorno; il suo mondo ha confini ben precisi ad onta delle numerose conoscenze che ha fatto negli ultimi tempi, da quando, cioè, la mamma lo ha portato nel giro del pa-rentado. Tutti sono molto affettuosi con Nino, perché Nino è un angioletto: coi grandi non tutti sono molto affettuosi. Ma Nino è tanto piccolo che Marianna – che non ha ancora l’età per andare a scuola – lo protegge da Salvo e Salvo, che è più piccolo di Marianna, si offende e tiene il broncio alla sorellina maggiore se

lei non gli consente di giocare con Nino. Ecco, anche guardandolo dalla sedia sot-to l’ombrellone, sorridente, sereno, il pic-colo Nino mi somiglia ad un Serafino. lo ho cercato sempre di dare un volto agli angeli, come hanno fatto sicuramente tutti gli uomini: ricordo quella canzone il cui personaggio, un bimbo negro, prega il pittore di dipingere attorno all’altare angeli negri. lo ho sempre visto dipinti nelle chiese angeli non negri e ciò mi in-duce a pensare che il mio Nino è un Sera-fino: perciò me lo guardo con la precisa consapevolezza di trovarmi davanti al mio capolavoro. Esagero? Se sì, merito la più ampia considerazione! Adesso Nino è sotto l’ombrellone, assieme a zie e cu-gini. Lo vedo muoversi, sorridere, girarsi verso chi lo chiama o lo interessa. Ha in mano qualcosa: ma che cosa? Da quel-la distanza, anche se non è tanta, non riesco a distinguere, un po’ per il viavai della gente fra la spiaggia e il mare e che si frappone fra me e gli ombrelloni; e un po’ per i vapori che si levano dalla sabbia e che somigliano al tremolare dell’aria in lontananza, sull’asfalto delle strade nelle ore più calde del giorno. Rosetta e Concettina hanno finito di sistemare il loro ombrellone accanto a quello di mia moglie, per cui l’ombra, adesso, è unica e grande amica; sembra volere protegge-re i piccoli, specialmente, da questo sole cocente e impietoso. Chi esce dal mare – e chi ci va – cammina in punta di pie-di sulla sabbia, quasi voglia sorvolare il mondo e non scottarsi. Nino è sempre là, con Marianna, Salvo, Ettore, Gepy, Gio-vanna, sua coetanea; le madri parlano; io sono sempre sotto la tettoia vicino al bar; venissero Gigi e Gioacchino, andrei sicuramente anche io sotto l’ombrellone per conversare con loro: ma, andarci per rimanere da solo a sentire dalle signo-re l’ultima pretesa della sarta o l’ultima novità della piega, che ormai si porta in non si sa quale parte della gonna, pro-prio non mi interessa! I piccoli..: Ettore piange; Salvo sembra imbronciato; Gepy e Marianna si sono poste l’una di fronte all’altra; Nino e Giovanna non si capisce se si sorridono o stanno zitti... Cette ci c’èst la vie! Ancora per poco voleranno tutti tra i Serafini: un’altra stagione dal sole co-cente, e le ali cadranno dalle loro ancora gracili spalle. E saranno uomini!

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Sulla spiaggiadi Salvatore Martorana

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Il Teatro Garibaldi, nei tre ordini cir-colari gremito da un pubblico che non ha lesinato applausi, sembrava

abbracciare Francesca Gringeri Panta-no nel giorno della cerimonia di confe-rimento della cittadinanza onoraria, lo scorso 30 aprile. Per lei, che negli anni Ottanta, in modo provocatorio, parteci-pò a una estemporanea di pittura pro-mossa dalla Pro Loco, realizzando un quadro d’interno del Teatro con vista sul soffitto crollato, che ha perorato dalla prima ora il recupero del “tem-pio dell’arte” e che ha contribuito alla sua inau-gurazione con l’installa-zione, nella Sala “Salva-tore Falbo”, della mostra permanente I Volti del Te-atro e alla pubblicazione di Avola, il Teatro Garibal-di, 20 aprile 1876-2011, era quasi scontato ricevere il prestigioso riconoscimen-to in quella sede. Che al volere dell’Amministra-zione comunale ci fosse un consenso corale lo si è potuto constatare dall’af-fetto dimostrato da quan-ti hanno combattuto le stesse battaglie al suo fianco quando presiedeva la Pro Loco, dai suoi alunni, oggi uomini e donne professionalmente impegnati, dai lettori delle tante pubblicazioni nate dallo studio del Barocco del Val di Noto e degli aspetti etnoantropologici del ter-ritorio, nonché dagli amici-estimatori. Per i pochi che non conoscessero la sto-rica dell’arte lentinese di nascita, adotta-ta dalla nostra Città dopo il matrimonio con Paolo Pantano e residente a Noto, se ne sono fatti carico il sindaco Luca Cannata, l’assessore alla Cultura Si-mona Loreto, Domenico Amoroso già direttore dei Musei Civici di Caltagiro-ne e Santa Argentino graphic designer, che cura la digitalizzazione dei suoi scritti, visionabili grazie all’inserimento nel sito ufficiale del Comune di Avola. Il Primo cittadino l’ha definita “perso-na straordinaria che, gratuitamente, ha sempre lavorato per una conoscenza approfondita del nostro patrimonio sto-

rico, artistico e ambientale rendendoci orgogliosi. Ha dato tanto e tanto ancora potrà dare per i progetti che sono in can-tiere per la crescita della città, perché at-traverso la cultura si promuove anche il suo sviluppo economico, e questo rico-noscimento è il nostro modo di ringra-ziarla”. L’assessore Loreto, che ha ulti-mato i suoi studi universitari in architet-tura utilizzando anche i testi scritti dalla Gringeri Pantano, ha tenuto a precisare

che “mai la studiosa si è tirata indietro davanti alle richieste di collaborazione per qualsiasi intervento sul patrimonio culturale avolese, solo da ultimo il suo interessamento sui cannoni recuperati nel nostro mare e l’esposizione all’inter-no della cripta dell’antica chiesa di San Sebastiano. – e ad anticipare che – Si oc-cuperà presto del nascente museo all’in-terno di Palazzo Modica.” Domenico Amoroso nella sua lunga esposizione ha, tra l’altro, sottolineato che “con i suoi studi ha dimostrato che ogni città ha la sua storia e il suo valore e lo ha fat-to con grande capacità di divulgazione, utilizzando un taglio quasi anglosasso-ne che si fa comprendere. Partendo da un documento o da un monumento ne studia la conservazione e il suo utilizzo pensando alla cultura come fatto demo-cratico da condividere con tutti.” La “Signora dell’Esagono”, così come l’ha definita l’artista Elia Li Gioi, emo-zionantissima, ha preso la parola poco

prima della cerimonia raccontandosi da quando, arrivata ad Avola, mise da par-te l’attività proiettata alla pittura perché catturata dall’aspetto geometrico del centro storico, che meritava uno studio che la stessa ha approfondito ripercor-rendo la storia locale partendo dal 1693 e andando a ritroso nel tempo. Ha ricor-dato i suoi anni alla Pro Loco: la valo-rizzazione dei figli di Avola illustri e le loro opere; lo stemma che utilizzava la

Città qualche anno fa e da lei dipinto; gli annulli fila-telici e il primo dedicato all’esagono; il convegno sul mandorlo nel periodo quando si assisteva allo sdradicamento degli alberi per far posto agli agrumeti; le iniziative per dotare la città di una circonvallazio-ne, per il restauro del tea-tro e del vecchio mercato, oggi sede della biblioteca comunale con l’instal-lazione dell’esposizione permanente Il Mercato e la sua gente, per la creazione del museo Palmento e Fran-toio Midolo. Ne ha curato le esposizioni e le relative

pubblicazioni, così come ha curato mo-stre in Sicilia, a Roma, a Malta, a Parigi, a Tolosa e a Melbourne, divulgando in ogni luogo la nostra cultura. Impossibi-le elencare tutti i suoi scritti, ne citiamo solo alcuni su Avola fra i più conosciuti: Documenti storici e artistici sullo stemma ci-vico di Avola, Antiqua Abola, le “pietre” e i dipinti prima del 1693, Avola, Cava Grande e Vendicari nel Voyage in Sicilia (1776-79) di Jean Houel, Cava Grande di Cassibile, il parco delle orchidee selvatiche. I fiori della metafora, La città esagonale. Avola: l’anti-co sito, lo spazio urbano ricostruito, Storia e immagini della Chiesa di San Giovanni Battista in Avola, La chiesa di Sant’Anto-nio Abate in Avola. Da struttura medievale a chiesa tardo barocca. A Francesca vanno le congratulazioni de “Gli Avolesi nel Mondo” e della no-stra Redazione e gli auguri di buon lavo-ro per l’impegno che l’attende.

Alla “Signora dell’Esagono” la Cittadinanza Onorariadi Eleonora Vinci - foto di Lorenzo Caldarella

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Da sx Domenico Amoroso, Francesca Gringeri Pantano, il sindaco Giovanni Luca Cannata e l’assessore Simona Loreto

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Il 29 maggio del 2014 venne inaugu-rata presso l’ospedale di Avola la se-zione del TDM, che si trova ubicata

al piano terra, di fronte all’Unità Opera-tiva di Radiologia. Il TDM è un’inizia-tiva di CittadinanzAttiva, nata nel 1980 per tutelare e promuovere i diritti dei cittadini nell’ambito dei servizi sanitari e assistenziali e per contribuire a una più umana, efficace e razionale organizza-zione del servizio sanitario nazionale. È una rete costituita da cittadini comuni, ma anche da operatori dei diversi servizi e da professionisti, che si impegnano a titolo volontario (circa 10.000 in ambito nazionale). Esso opera mediante:- circa 300 sezioni locali, presenti su tutto il territorio nazionale, attive negli ospedali e nei servizi territoriali;- una struttura centrale che coordina le attività della rete e promuove le iniziati-ve nazionali;- gruppi tematici a livello nazionale, re-gionale e locale, collegati a specifici pro-grammi;- coordinamenti regionali, di supporto alle reti locali, e per la promozione di politiche regionali a tutela dei diritti in ambito sanitario.CittadinanzAttiva è un movimento lai-co di partecipazione civica fondato nel 1978, che, oltre a tutelare i diritti umani, lotta contro gli sprechi e la corruzione, tutela l’ambiente, il territorio, la salute, la sicurezza individuale e collettiva, il ri-sparmio e la veridicità degli atti pubblici. Promuove altresì la partecipazione dei giovani e assicura loro la formazione: in particolare, realizza percorsi di educa-zione alla cittadinanza e alla tutela dei diritti nelle scuole, coinvolgendo docen-ti e altri operatori, e, tramite gruppi di iniziativa civica collegati in reti, realiz-

za la tutela sociale dei diritti. Sono reti del movimento la rete europea ACN (Active Citizenship Network) e le reti nazionali: Tribunale dei diritti del ma-lato, Procuratori dei cittadini, Giustizia per i diritti, Scuola di Cittadinanzatti-va, Coordinamento delle associazioni dei malati cronici (CNAMC). Si tratta di un’organizzazione no profit, Onlus (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale), che si costituisce interlocutore criticamente costruttivo delle forze so-ciali e culturali, delle istituzioni dello Stato, delle Autonomie locali, dei partiti politici, dei soggetti dell’informazione, del mondo della produzione e del lavo-ro. Dovunque un essere umano si trovi in situazioni di soggezione, sofferenza e alienazione, e queste situazioni siano imputabili a responsabilità individuali, sociali, organizzative, istituzionali o cul-turali, CittadinanzAttiva interviene in sua difesa attraverso un’azione di tutela diretta.L’intervento è attuato:- per iniziativa e con il concorso dei cit-tadini;- con il sussidio di strutture organizzati-ve proprie o messe a disposizione da altri soggetti pubblici o privati, che condivi-dano le finalità del movimento, e con il coinvolgimento responsabile di tecnici, operatori, amministratori e dipendenti pubblici;- con la partecipazione dell’opinione

pubblica e attraverso la collaborazione con i mezzi di comunica-zione di massa;- in forme che non escludono il ricorso all’autorità giudizia-ria, la protesta pub-blica, la pressione o le campagne di opinione, ma predi-ligono l’esercizio di interpretare le situa-zioni, di rimediare

agli intoppi istituzionali e infine di con-seguire immediatamente i cambiamenti materiali della realtà che permettono il soddisfacimento dei diritti violati o la rimozione delle situazioni di sofferenza inutile e di ingiustizia.Con l’apertura di questa sede presso l’ospedale di Avola viene data a tutti i cittadini del territorio la possibilità di segnalare qualsiasi situazione di ingiusti-zia e chiedere l’intervento del TDM in propria difesa. Attualmente la sezione di Avola viene gestita da cinque volontari, che assicurano la presenza giornaliera per cinque giorni la settimana. Esiste an-che la possibilità di segnalare i disservizi attraverso il cellulare nelle ore di chiusu-ra dello sportello oppure di lasciare pres-so la sede una segnalazione scritta, alla quale si darà risposta con tempestività. Il 18/11/2015, nello spirito di collabora-zione con altre associazioni presenti nel territorio, si è tenuto un incontro pubbli-co presso il salone “Paolo VI” di Avola con l’Associazione Volontari Ospedalie-ri (AVO). L’incontro dal titolo “Diritti del paziente”, inserito nel 21° corso di formazione di tale Associazione è sta-to promosso dalla presidente Giovanna Rossitto; vi hanno preso parte, relazio-nando, la dott.ssa Rita Lo Presti, psico-loga e psicoterapeuta, responsabile della Rete Scuola e dell’Audit civico (Forma di partecipazione dei cittadini alla valu-tazione della qualità dei servizi sanitari locali e regionali) e il sottoscritto.La dott.ssa Lo Presti ha fatto il punto sulle finalità di CittadinanzAttiva con particolare riferimento al settore scuo-la, mentre il sottoscritto ha parlato del lavoro svolto, sin dalla sua apertura, dal-la locale sede del TDM. Gli interventi hanno stimolato numerose domande e riflessioni tra i presenti che hanno accol-to con grande entusiasmo tale iniziativa. Il 30/3/2016 si è tenuta nella sede di Noto l’Assemblea territoriale di Citta-dinanzAttiva Noto-Avola e, in quell’oc-casione, sono state rinnovate le cariche del movimento; sono risultati eletti: Concetta Oddo – coordinatrice territo-riale; Sebastiano Munafò – responsabile del TDM; Corrada Vinci – responsabile della Rete scuola; Corrado Cavarra – responsabile della Rete Procuratore dei cittadini; Pino Testa – responsabile della Rete Malati Cronici.

Il “Tribunale dei Diritti del Malato” ad Avoladi Sebastiano Munafò - foto di Franco Carasi

Da sx Sebastiano Munafò, Rita Lo Presti e Giovanna Rossitto

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Sul Pittore che dipinse il Telero della Chiesa Madredi Francesca Gringeri Pantano - foto di Marinella Caruso

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L’autore del grande Telero che in Avola si esponeva nella Chie-sa Madre tra il Mercoledì delle

Ceneri e il Sabato Santo (dopo decenni di “dimenticanza” solo per la Pasqua del 2012 è stato ricollocato e rivisto nella sua interezza), pose alla base del dipinto, come si constatò nel suddetto anno, il suo nome Alfonso Mauceri, con l’aggiunta disegnò e dipinse, l’anno di esecuzione 1862 e il riferimento alla commit-tenza Per concorso della De-putazione1. Di tale pittore si era persa la memoria e niente sembrava ricordarne la provenienza, i luoghi dove era stato atti-vo, le altre opere prodotte. A “rompere” il silenzio che l’obliava è stata la recente rilettura di un documento del quale avevo dato notizie nel 2008 nel catalogo della mostra Musei nascosti. Col-lezioni e raccolte archeolo-giche a Siracusa dal XVIII al XX secolo curato dalla Soprintendenza di Siracu-sa2. Trattasi dall’Inventario ereditario dei beni del difunto Barone Don Antonino Astuto datato 29 maggio 1822 ed eseguito a Noto. In esso, al foglio 486, tra i periti eletti per inventariare e descrivere i beni del grande collezio-nista di reperti archeologi-ci, nato peraltro ad Avola, come riferisco nel suddetto catalogo, trovo elencato Alfonso Mauceri Pittore del vi-vente Michele, domiciliato a Noto. Attivatami negli Archivi di Stato e della Diocesi di Noto, ecco emergere i dati. Egli, a Noto, era nato da Michele sar-tore e da Innocenza Ortisi. Battezzato il 14 febbraio 1796, alle ore dodici, come l’atto specifica, gli erano stati imposti i nomi di Alongus Caitanus Corradus, ovve-ro di Alfonso Gaetano Corrado3. Aveva dunque 26 anni quando, nella sua quali-tà di Pittore, era stato chiamato a stima-re le prestigiose opere d’arte dell’Astuto,

fra le quali dipinti, incisioni, sculture. Il 15 agosto 1829 Don Alfonso, dichiara-tosi nei certificati di anni 33 e di profes-sione Pittore, sposa a Noto Donna Anna Maria Marotta, di anni 17 e figlia di Don Natalizio, di professione amanuen-si e di Donna Carmela Randone4. Dal

matrimonio nascevano sette figli: Fran-cesca (1831), Michela (1832), Raffaela I (1834), Raffaela II (1837), Corradina (1838), Innocenza (1840), Luigi (1842)5. Negli atti di nascita di costoro egli con-tinua a professarsi Pittore e domiciliato dapprima nella Strada Cassaro, dal 1834 nella Strada San Camillo. Il figlio Luigi, di professione sarto come il nonno pa-terno, nel 1863 sposava Orsola Mosco-vita Carveni e nel 1867 nasceva Alfon-so junior deceduto nel 18706.

Alfonso il Pittore, già vedovo, cessava di vivere nella città natale alle ore otto po-meridiane del 4 maggio 1873, a settan-tasette anni7. Una lunga vita nella quale dovette tanto operare, a Noto e dintorni, anche per soddisfare le esigenze della sua numerosa famiglia. Con i passaggi

generazionali sembra esser-si smarrita però ogni rela-zione tra la sua stessa esi-stenza e l’attività pittorica che, probabilmente, esplicò come “pittore decoratore” di edifici civili. Ad Avola il Mauceri è cer-tamente nel 1862 quando, a 66 anni, realizza il Telero con Pilato che presenta al popolo, con le parole Ecce Homo, Gesù flagellato e co-ronato di spine, nei toni del grigio-blu e su livelli che si sviluppano in verticale.Nella città Iblea Alfonso Mauceri è pure nel dicem-bre 1866. Tale affermazione deriva da una “connessio-ne” che mi ha portato a ri-vedere le lettere che il dotto botanico Giuseppe Bianca, nel 1866-67 inviò al presi-dente della Commissione di Corrispondenza per le An-tichità e Belle Arti di Sira-cusa per informarlo, in base all’incarico ricevuto, degli oggetti di pregio presenti nella soppressa corporazio-ne religiosa dei Cappuccini in Avola. Epistole che nel 1993 avevo consultato pres-so gli eredi del Bianca e, fra queste, il Verbale del 15 di-

cembre 1866 riguardante il quadro l’E-saltazione della Santa Croce che lo stesso anno resi pubblico in Antiqua Abola 8. In-sieme al verbale era uno schizzo a matita del quadro, non firmato, forse da riferire al pittore il cui nome, Alfonso Mauceri, ritrovai in una delle lettere del Bianca conservate ormai presso l’Archivio di Stato di Siracusa9. Lo studioso, con-scio del valore che la pala d’altare della chiesa della Santa Croce dei Cappuccini possedeva, «affinché la Commissione

note��6XO�Telero�FIU��6��%XUJDUHWWD, Il telero con Ecce Home della chiesa

madre di Avola, in ©$YROHVL�QHO�PRQGRª���$QQR�����Q���*LXJQR�������SS�����±�����,'����Il Telero con (FFH�+RPR della chiesa madre di Avola, in Avola. Note

di cultura popolare��0HVVLQD�������SS�����±������,'���,O�Telero è tor-

nato in funzione��LQ���$YROHVL�QHO�PRQGR!!��$QQR�����Q����*LXJQR�������S������)��*ULQJHUL�3DQWDQR��$VSHWWL�JHRJUD¿FL�VX�$QWRQLQR�$VWXWR, in Musei

nascosti. Collezioni e raccolte archeologiche a Siracusa dal XVIII

al XX secolo��D�FXUD�$��&ULVSLQR�H�$��0XVXPHFL��1DSROL�������S�������$UFKLYLR�6WRULFR�'LRFHVL�1RWR��5HJLVWUXP�%DSWL]DWRUXP�0DWULV�(F-FOHVLDH��YRO��%����I�����U��������������Q������$UFKLYLR�GL�6WDWR�GL�6LUDFXVD�±�6LUDFXVD�1RWR��6WDWR�&LYLOH�GL�1RWR��$WWL�GL�0DWULPRQLR��D��������UHJ�������SS�����±�����

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prima del 1693,�3DOHUPR�������SS������±������$UFKLYLR�GL�6WDWR�GL�6LUDFXVD��$UFKLYLR�SULYDWR�³�*LXVHSSH�%LDQFD´��EXVWD�Q����IDVF��Q��������JHQQDLR�������II��Q�Q��� Ibid., ���GLFHPEUH�������II��Q�Q����

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potesse formarsene un’idea più precisa, che forse non potrebbe raccogliere dalle sole parole della mia illustrazione», si era impegnato a far copiare il quadro dal pittore Alfonso Mauceri con «uno schizzo a colori»10. Tale lavoro, scrive il Bianca il 3 giugno 1867 al Presidente della Commissione, glielo aveva inviato insieme al verbale, ma «sepa-ratamente» e in «un rotolo» perché «unicamente destinato a farle conoscere, non quello che non è facile imitare, ma la precisa posizione delle figu-re»11. Lo prega pertanto «di voler raccomandare, che fosse data una gratificazione al pittore Sig.r Alfonso Mauceri, che molto si è travagliato per eseguire quello schizzo senza rimuovere il qua-dro dall’alta posizione in cui trovasi»12. Lo schizzo a colori, nel fondo della Prefettura di quegli anni non trovasi schedato negli indici dei registri di riferimento e si ritiene disperso. Rima-ne, fra le “carte” del Bianca, il disegno a matita del quadro, di circa centimetri 31x25, che egli poté far realizzare velocemente al pittore per me-glio ricordare la collocazione delle figure in esso rappresentate e descritte nel verbale.Il Mauceri, che aveva talento e dominava gli spa-zi, non dovette, nella fase del suo apprendistato, avere una formazione di base idonea alle sue aspi-razioni. Seppe comunque promuoversi ed ebbe l’ardire, per le vaste dimensioni della tela di lino, di circa venti metri di altezza (19,60x8,20m), di cimentarsi nell’impresa di dipingere il Telero della Chiesa Madre di Avola ed anche, come la ricerca in atto sta cominciando ad evidenziare, estesi de-cori parietali di dimore private.

In uno dei quartieri più antichi e famosi del mio paese, detto Belluvaddu, viveva la gente più strana

e simpatica che conoscessi al tempo della mia infanzia. Non era molto esteso il quartiere, ma era (ed è ancora, anche se molto meno) snodo importante tra la campagna e l’abitato. Esso consiste in un grande cortile attraversato da una strada che lo taglia in due parti. Al tempo, tutta l’area era in terra battuta e le case che si allineavano tutt’intorno al cortile, quasi tutte basse e modeste, erano occupate da famiglie povere e da botteghe di artigiani.Il cortile, ubicato strategicamente, era dunque anello di congiunzione tra il paese e gli uliveti con gli orti che cingevano le abitazioni. Attraversandolo, dal centro del paese si arrivava rapidamente in campagna e, qualche centinaio di metri più oltre, al mare. Pur non abitando lì, ma in una strada vicina, da bambino bazzicavo il Belluvaddu. Qualche volta ci finivo per giocare con alcuni compagni, ma molto più spesso ci andavo per le commissioni che mi affidava mia madre: comprare verdure fresche dagli ortolani o recarmi da don Turiddu lo scarparo. Non passava settimana, infatti, che una famiglia numerosa non avesse la necessità di fare aggiustare un paio di scarpe. Negli anni Quaranta e Cinquanta, sulle scarpe si potevano eseguire moltissimi rattoppi, perché dovevano durare per diversi anni.Don Turiddu non era un artigiano fine, un mastro calzolaio che creava calzature per signori, era invece alquanto grossolano, ma alacre nel lavoro come pochi e, soprattutto, era onesto e poco esoso: l’artigiano che potevano permettersi tutti. Piccolo, rotondetto, rapido nei movimenti, gli occhietti vispi e intelligenti, era sempre pronto a fare battute, ma anche a coglierle. Si può dire che riusciva a farsi compagnia da solo, tanto era il suo buonumore. Vicino ai sessanta, viveva con la moglie, senza figli, in tre stanzette, di cui una fungeva da ingresso e calzoleria. Forse proprio perché senza figli, egli amava chiacchierare con noi ragazzi. Spesso, quando non c’erano clienti, mi diceva: “Fermati, siediti e passami la cera su questi spaghi”. Volentieri ubbidivo, quando non dovevo rientrare subito, perché mi piaceva vedere quell’ometto che non si fermava un momento, mentre

sparava motti e mi raccontava storie. “Don Turiddu, –facevo io – però mi dovete contare un cuntu”. “Quelli che ti racconto io, – rispondeva – non sono cunta inventati, Ianuzzu, ma storie vere, accadute nel nostro paese e spesso anche proprio in questo cortile”. Tra uno sputo e l’altro lanciato sulla scarpa che aveva per le mani, per ravvivare il colore (non stupisca ciò, in quegli anni la povera gente faticava anche a comprare il lucido, che peraltro vendevano anche sfuso), un giorno, il mio aedo di quartiere e d’infanzia, attaccò così: “Devi sapere che qui, in questo cortile, quando io ero un ragazzo come te, viveva e lavorava un famoso mastro carrettiere chiamato ‘zu Liboriu”. “Faceva solo carretti?” – ero intervenuto io. – “Sì, carretti, soprattutto, ma anche carrozze e aratri di legno. Ma non interrompermi. ‘Zu Liboriu era un maestro insuperabile e i massari che avevano cavalli e muli di valore si servivano da lui. Come me, non aveva figli, ma un nipote ce l’aveva, che lavorava con lui ed era, insieme, figlio, erede e allievo prediletto. Paolinu era l’ombra dello zio. I lavori dei mastri carrettieri, allora, si svolgevano quasi sempre fuori, salvo quando pioveva, oppure quando si montavano le ruote dei carri con la difficile calibratura delle bussole e dei cerchioni e quando si assemblavano i “quarti” e le casse delle carrozze di piazza. Allora ‘zu Liboriu diventava duro e rabbioso, pretendeva dai suoi aiutanti silenzio, precisione e rapidità. Solo la sua voce risuonava. Il capomastro dava ordini secchi, rapidi, ad alta voce e i lavoranti, madidi di sudore, accorrevano ad eseguire.Poi, terminata la fase delicata dell’opera, si tornava alla normalità e ‘zu Liboriu ridiventava gioviale e faceto, con un occhio al lavoro e uno a chi passava. E non passava anima viva, grandi o piccini che fossero, dal cortile del Belluvaddu che il mastro non avesse un saluto o una battuta da fare. In tutto il paese erano ben conosciuti il suo proverbiale buon cuore, ma anche la sua linguaccia! “Ora devi sapere, caro Ianuzzu, – continuava don Turiddu, mentre con le mani rapide tirava spaghi, batteva suole o afferrava e tirava con i denti un pezzo di cuoio appena tolto, gocciolante, da un catino pieno d’acqua non del tutto

profumato – che a quei tempi i gabinetti nelle case si riducevano a un pertugio nel pavimento. Ma anche quello non tutti ce lo avevano, perciò la gente si arrangiava come poteva. Così, essendo il Belluvaddu una scorciatoia tra l’abitato e la campagna, c’era un continuo viavai di persone e di animali a tutte le ore, per i motivi più vari. Passava di là spesso anche un ragazzotto buono e ingenuo, sui sedici anni, apprendista barbiere presso una barberia non lontana dalla Chiesa di Santa Venera. Anche quella barberia, come tante altre, era sprovvista di servizi. Ciccinu, così si chiamava, era un ragazzo dall’aria seria e riflessiva e camminava, normalmente, con molta tranquillità, ma quando passava di là, e ciò avveniva quasi tutti i giorni, il suo passo era svelto e, a volte, andava anche a trotto serrato, secondo l’urgenza del bisogno. ‘Zu Liboriu, grande conoscitore di uomini, in base alla cadenza delle persone, poteva capire dove si recavano e, di conseguenza, dosava le sue battute e i suoi discorsi. Un giorno, che aveva visto Ciccinu più svelto del solito, volle fermarlo e chiamandolo ad alta voce: “Ciccinu, dove vai con tanta furia? Ascoltami, ti devo informare con urgenza di quello che ho sentito stamane. Si tratta di una cosa molto grave e offensiva per te”. “Zu Liboriu, – fece il ragazzo, bloccando con sofferenza la corsa, ma continuando a saltellare – cosa volete? Fate presto che ho fretta”. Ma il mastro bontempone, vedendo il ragazzo sulle spine, facendo finta di non capire, continuò: “Ciccinu, ho sentito discorsi pesanti e infamanti sul tuo conto e bisogna chiarire la situazione subito, vero Paulinu?”, disse rivolto al nipote, eterna spalla sua. “Sì, sì, è proprio così,‘zu Liboriu, l’ho sentito anch’io, bisogna chiarire subito questa infamia buttata su Ciccinu!”.“Devi sapere, caro Ianuzzu, – mi spiegò don Turiddu – che a quel tempo si parlava tanto e con rispetto di uomini d’onore, e una barberia era un posto ideale per fare questi discorsi, specie quando si riempiva di contadini e operai per la rasatura di fine settimana. Si diceva di questo e di quello, che era uomo d’onore, senza paura di nessuno, vero malandrino, sempre pronto a scendere in difesa di

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Il vecchio zio Liboriodi Sebastiano Parisi

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quelli che si rivolgevano a lui. Forse è nata così la storia più brutta dei mafiosi! “Ma, tornando al nostro racconto, bisogna dire che i giovani sensibili dell’epoca vedevano in questi uomini dei veri eroi da imitare, come quelli che vedi tu la domenica quando vai al cinema Italia”. Ciccinu ascoltava sempre con attenzione questi discorsi e sognava anche lui, ingenuo e sensibile com’era, di diventare ammirato e onorato galantuomo. “Ma per diventare uomo d’onore, doveva anzitutto saper tirare di coltello”. Per la verità, circolavano a tal proposito voci sul praticante barbiere. Si diceva che fosse stato visto duellare con furore contro qualche grosso ulivo saraceno e lasciare il segno di qualche rasoiata su quelle pacifiche

piante secolari, che popolavano le chiuse attorno al Belluvaddu. ‘Zu Liboriu era al corrente delle dicerie e teneva il giovanotto sotto tiro.“Dunque, caro Ciccinu – aveva ripreso il mastro carrettiere, – le malelingue stamane mi hanno raccontato che tu, in un accanito duello rusticano, hai sfregiato la faccia della capra di cumpari Ciccu, e pare che il vecchio ora sia molto infuriato e ne voglia conto”. “Ma cosa dite, ‘zu Liboriu, non è vero quello che vi hanno raccontato”, ribattè Ciccinu. “Ma è proprio questo che ho risposto anch’io a tua discolpa a questi infami. Ciccinu, ho detto, è un picciottu serio e non fa queste minchiate, e la capra è un animale stupido che non fa male a nessuno. Ho detto anche che tu sei un ragazzo

d’onore e di coraggio e, se vieni toccato nel vivo, puoi vedertela con i migliori galantuomini del paese. Ho detto bene, Ciccinu?” “Avete detto benissimo, ‘zu Liboriu, ma ora lasciatemi andare perché debbo fare un bisogno urgente”, supplicò il ragazzo. Ma il mastro, volpe astuta e buontempone, capiva di avere il credulone in pugno e voleva prolungare ancora i contorcimenti del poverino. “E no, Ciccinu, tu ora mi devi dire per filo e per segno cosa devo rispondere a questi fetenti cornuti. Certe offese vanno lavate immediatamente”. Ma Ciccinu, ormai in preda a disperate convulsioni, fece un giro su se stesso e poi partì di gran carriera, mentre urlava: “Ditegli quello che volete, ‘zu Liboriu, io mi sto cacando addosso...”

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Al soffio dello Spirito di Seba-stiano Burgaretta (Santocono Editore, 2015) è una elegante

pubblicazione con una pregevole coper-tina, che riproduce il dipinto di Eugène Burnand, raffigurante i discepoli Pietro e Giovanni, i quali accorrono trepidanti al sepolcro vuoto il mattino della Resur-rezione. Poetico il titolo “Al soffio dello Spirito”, che esprime ade-sione all’azione dello Spi-rito Santo che penetra nel cuore degli uomini per far-ci riconoscere il linguaggio autentico di Dio.Il volume contiene una se-rie di riflessioni di natura spirituale, quasi tutte già pubblicate in varie riviste. Le problematiche affron-tate riflettono proposte di vita evangelicamente vis-suta e proiettata verso la dimensione della speran-za-certezza dell’assoluto e della vita eterna: un diario di bordo da parte di un cri-stiano convinto, che sente il dovere di te-stimoniare le sue convinzioni di fede nel travaglio della quotidianità e nella gioia di una conquista umana appagante.Una fede, dunque, vissuta come un dono da condividere con il fratello a cui è doveroso comunicare la ricchez-za della fede, lo spalancarsi dell’infini-to, effetto del sacrificio di Gesù Cristo, figlio di Dio, morto in croce e risorto. A mo’ di incipit, Sebastiano Burgaret-ta pone il saggio intitolato Credere nel Dio che non vediamo. La sua riflessione prende lo spunto dalla parabola sul ric-co epulone, narrata da Luca (Lc 16,19-31), sottolineando il passo in cui questo personaggio, tra i tormenti dell’inferno, prega Abramo di inviare Lazzaro a casa di suo padre, per evitare che anche i suoi cinque fratelli facciano la sua stessa fine. Esemplare la risposta di Abramo: Se non ascoltano Mosè e i profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persua-si. Dura da sconfiggere è l’incredulità di chi, anche contro ogni evidenza, si ostina a non credere. Dando voce alle Scritture e alla sua esperienza culturale e umana, Burgaretta ri-conosce che è proprio della condizione terrena dell’uomo vivere in questa tensione fra limite

corporeo e spinta a superare tale limite verso la libertà dello spirito. È il dramma del vi-vere. Dove cercare allora la soluzione al mistero del senso della vita? Lo scrittore non ha dubbi: La risposta va cercata nel-lo spirito attraverso la fede, che, secondo S. Tommaso, è sustanza di cose sperate ed argomento de le non parventi.La sua prima conclusione è sintetizzata

in questa dichiarazione di fede: Credere in Dio è affidarsi a Dio […] attra-verso la via che Egli ci ha dato: l’Amore, totale, as-soluto, come quello da Lui dato agli uomini e come quello di Gesù per il Padre, l’Amore che portò in croce. Quanto alla definizione dell’amore, egli si affida a San Giovanni della Croce, là dove in Spunti di Amore, il grande misti-co afferma: L’amore non consiste nel provare grandi sentimenti, ma nell’avere grandi nudità e nel patire

per amore dell’Amato. Un ideale credibile fondato sul messaggio di Cristo. Certamente, è comprensibile soffermarsi sui miracoli, sulle esperienze mistiche, ma a condizione di sapere che non sono prove della fede, ma segni, doni, ben sapendo che la cosa più difficile da ac-cettare è il mistero dell’Incarnazione. Fa scandalo una tale forma d’amore per cui il cielo si è abbassato per elevare la ter-ra. È proprio dell’uomo ricercare le cose di lassù, dove – come afferma San Paolo – si trova Cristo assiso alla destra del Padre. È questo il grande obiettivo dell’uomo, analizzato nel secondo saggio, che per-corre i sentieri della speranza. Dinanzi ai fallimenti della politica, della tecnica e perfino della scienza, che si sono spes-so trasformate in strumento di asservi-mento dell’uomo stesso, la speranza cri-stiana è la sola àncora di salvezza. Con Giannino Piana, il Nostro pen-sa che l’errore dell’uomo moderno stia nell’aver riposto tutta la propria fiducia nel progresso o nella rivoluzione sociale e politica, in definitiva nell’autosufficienza umana. Il crollo fatale delle ideologie ha prodotto angoscia, disperazione, smarrimento e vuoto esistenziale. Paradossalmente tale

fallimento può riaccendere nelle persone liberate da utopie terrene la speranza in Cristo redentore, la quale è alimentata dalla sua resurrezione che, però, non è mai disgiunta dalla croce e dalla morte. Per conseguenza, colui che crede non è sot-tratto alle paure del vivere e del morire, per-ché non c’è resurrezione senza morte. Il saggista addita un esempio concreto di amore in azione in Teresa di Calcutta, che ha annunciato Cristo, speranza del mondo, attraverso l’amore dei poveri, dei sofferenti e dei moribondi. Se non ci appelliamo a Cristo, rimaniamo a mani vuote. In una efficace sintesi Burgaretta dichiara: La speranza cristiana, che nasce dalla fede e s’incarna sul terreno della storia che quotidianamente l’uomo occupa, si pro-ietta oltre la storia, verso la gloria, alla quale Dio Padre chiama tutti attraverso la persona di Cristo Gesù per perseguire la beatitudi-ne eterna. Ma ecco entrare in scena il protagonista del volume, lo Spirito Santo, presentato come l’amore di Dio riversato nei nostri cuori, capace di liberarci dall’angoscia se invocato con fiducia: “Veni, Creator Spiritus”. Al soffio dello Spirito, titolo del terzo saggio e del libro tout court, è l’in-cipit di una meditazione poetica sulla creazione perenne e vitale generata dal soffio eterno dello Spirito, il Consolato-re. Dopo l’ascensione di Cristo, l’unica legge del cristiano è questo lasciarsi condurre docilmente dallo Spirito di Dio rivelato in Cri-sto. L’appello di Burgaretta ad aprirci a Lui è un richiamo a farci permeare dalla misteriosa potenza divina, immettendo in noi lo spirito di carità, i cui doni San Paolo esplicita nella Lettera ai Corinti: La carità è paziente, è benigna; non è invidio-sa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sop-porta. Se le Beatitudini sono il manifesto del Cristianesimo, l’inno paolino alla carità ne è l’esplicitazione concreta. La naturale conseguenza di questo ideale è l’esercizio del sano discernimento per lasciarci portare nei cieli della libertà che con-ducono al regno, consapevoli che qualun-que peccato o bestemmia sarà perdonato agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata (Mt 12, 31).Un opportuno accenno al valore dell’Eu-

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Meditando su “Al soffio dello Spirito”di Angelo Fortuna - foto di Cinzia BiancaR

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caristia ci spiana il cammino alla lettura del saggio Venuto nelle nostre mani. San-ta Teresa d’Avila testimonia che Cristo “non lascia di farsi presente nell’ostia nonostante l’indegnità del sacerdote”. Per amore di noi uomini Gesù viene anche nelle mani di un suo nemico, ribadisce il saggista, a dimostrazione dell’umiltà di Dio insegnata e donata agli uomini con l’Eucaristia, il più grande mistero dell’amo-re di Dio Padre per l’uomo. Grazie al dono dell’Eucaristia, come efficacemente sin-tetizza San Paolo, non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me! Non poteva ovviamente mancare un capitolo interamente dedicato a Maria, la “Tota Pulchra”. Sulla scorta della Lu-men Gentium e, naturalmente, del Van-gelo, il Nostro mette subito in evidenza la figura di Maria, madre della Chiesa e di noi tutti: inestimabile dono fattoci da Gesù morente sulla croce: Donna, ecco tuo figlio! Poi rivolta al discepolo (Giovan-ni): ecco tua madre (Gv 19, 26 – 27). Ri-ferendosi all’enciclica Redemptoris Mater di San Giovanni Paolo II, approfondisce questa sublime realtà, concludendo che dove c’è la Chiesa c’è Maria. Maria non è solo madre della Chiesa, ma anche no-stra sorella amica nell’umanità… che ci af-fratella in Cristo. Questa espressione di papa Paolo VI avvicina ancor più a noi Maria, madre, sorella e anche avvocata nostra. Come madre Maria ci insegna a vi-vere della e nella grazia di Dio, come sorella ci sta accanto e ci accompagna. Ecco perché i suoi interventi e le sue manifestazioni nei secoli sono innume-revoli a dimostrazione di una presenza costante, amorevole e fedele. Maria, “Spes unica et Causa nostrae laetitiae”. Veramente, “de Maria nunquam satis”.L’aspirazione alla perfezione anima il sesto saggio del libro, dedicato alla sba-lorditiva realtà che Dio ci ha voluti a sua immagine, liberi, esposti dunque anche alla disubbidienza. Il mistero dell’uomo – riflette lo scrittore – si nasconde tutto in questa somiglianza con Dio, nell’essere egli la proiezione di Dio. Mistero sublime e ter-ribile, un mistero che spesso l’uomo ha volto a suo danno tramite il cattivo uso della libertà, che lo ha condotto a cadere nell’individualismo, nell’idolatria di sé, nella stolta pretesa di sostituirsi a Dio. Come è potuto succedere? È la tragica storia di un equivoco insito nel non voler comprendere il linguaggio dell’amore e della libertà.Proprio per rispettare la libertà dell’uo-mo, Dio ci ha dato, come dice Messori rifacendosi a Pascal, abbastanza luce per

credere e abbastanza ombra per dubitare. Senza queste provvidenziali ombre, la fede non sarebbe una proposta ma un’imposizione. Il Dio d’amore si tra-sformerebbe in Dio padrone e la Chie-sa da comunità dei chiamati diverrebbe una specie di campo di concentramento del pensiero unico obbligatorio.Per salire al Tabor, per squarciare il velo che ci impedisce di contemplare Dio, oc-corre indirizzare la nostra libertà verso la dura realtà della croce per risorgere con Cristo. Giusto nel capitolo Dal Tabor a noi, il saggista ci offre una bella interpre-tazione della Trasfigurazione (Lc 9, 28 – 36; Mt 17, 9; Mc 8, 9 - 10), anticipazio-ne fatta a Pietro, Giovanni e Giacomo della luce e gloria della condizione cele-ste. Egli analizza il fenomeno riflettendo sulla consegna del silenzio che Gesù im-pose ai tre apostoli fino a che non fosse risuscitato dai morti. Essi non capirono quanto avveniva dinanzi ai loro occhi, limitandosi a balbettare il benessere inte-riore di cui furono invasi: Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia. Essendo la Trasfigurazione una anticipazione del-la condizione post mortem degli eletti, Burgaretta chiede soccorso a San Paolo, che, nella Lettera ai Corinti, descrive come verremo trasformati, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore. Altro elemento da meditare

è che Gesù e i tre apostoli erano saliti sul Tabor per pregare. Il monte esprime l’ascesi a Dio attraverso la preghiera, conditio sine qua non per accedere alla dimensione gloriosa della Trasfigurazio-ne che, comunque, solo lo scandalo della croce, unico strumento di salvezza, ren-de possibile.

Proseguendo per i sentieri luminosi del Nuovo Testamento, il Nostro incontra il passo del Vangelo di Giovanni (cap. 9, 1 – 5), relativo all’uomo nato cieco. La sua riflessione prende di mira la doman-da dei discepoli a Gesù: Rabbì, chi ha pec-cato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco? La secca risposta di Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero le opere di Dio, fa piazza pu-lita dei pregiudizi, secondo cui le sventu-re sono conseguenza di colpe personali o familiari. Tale modo di giudicare, oltre che del pensiero ebraico, è anche proprio del pensiero greco (Edipo) e ricorre nella letteratura moderna e nel nostro quoti-diano. Il lacerante interrogativo sulle sventure che riteniamo una punizione divina resta senza risposta, a meno di non entrare nella prospettiva cristica, ri-conoscendo che nella persona sofferente è Dio che vive, è Dio che chiama, che chiede aiuto, che ha bisogno di amore, di compren-sione, di carità vivente. Soccorre la citazio-ne della Gaudium et Spes: … per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Necessaria la ricerca di un luogo di in-contro con Cristo che il saggista indi-vidua nello spirito di fraternità. Senza la fraternità è vano discettare di libertà e uguaglianza. Ma eccolo puntare al Vangelo di Giovanni (cap. 15,9-17), al

comandamento dell’amore: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Come figlio di Dio onnipotente, Gesù è nostro fratello, sì che la nostra risposta al suo comanda-mento d’amore esige di rendere effettiva la fratellanza. Solo allora libertà e ugua-glianza troveranno soddisfacente realiz-

Da sx don Maurizio Novello, Sebastiano Burgaretta e mons. Giuseppe Greco

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zazione. Un esempio di amore totale? Il bacio amorevole al lebbroso da parte di San Francesco. Il nostro saggista vola sempre alto, ma sa che è nel quotidiano della vita cristiana che si sviluppa il rapporto con Dio e con i fratelli, nel buio dell’anima, nel silenzio di Dio, nel disagio nostro, nel travaglio, nella sofferenza, ma anche nella gioia cristiana del nostro lavoro, delle occupazioni, di tutti i nostri gesti… Il tutto nell’accoglienza dei fratelli, segno vivo della presenza e del-la benedizione di Dio, fiaccole d’amore e di luce che Dio accende per noi nel nostro cammino di ascensione a Lui. Di rigore, pertanto, tornare al Vangelo di Matteo (25,31-46), che precisa quale sia il servi-zio ai fratelli che porta alla beatitudine: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fon-dazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovar-mi. Il cristiano deve interiorizzare la vir-tù della fratellanza per essere fermento e segno di contraddizione. Quale miglior testo, sotto questo aspetto, della Lettera a Diogneto degli inizi del Cristianesimo: essere nel mondo senza essere del mon-do, vivere nella carne ma non secondo la carne! Ogni terra straniera è patria per il cristiano così come ogni patria è terra straniera. Ma non significa tutto ciò individua-re in questa vita i segni dell’altra? Del sì scontato a questo interrogativo si dà ragione nel successivo saggio. Il Nostro spiega anzitutto l’accezione che egli con-ferisce al termine segno, considerato non come prova dell’aldilà, ma come seme, documento vivo e sempre attuale. Il se-gno per eccellenza è Cristo, come risulta evidente nel passo evangelico di Giovan-

ni (Gv 3,1-22): … come Mosè innalzò il ser-pente nel deserto, così bisogna che sia innalza-to il Figlio dell’uomo, perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna. Alla sequela di Cristo possiamo abbandonare la logica del mondo essendo ancora in vita e dive-nendo segno di vita eterna nella misura in cui viviamo le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Poiché sappiamo che delle tre rimarrà la carità, cioè l’amore che tutto comprende, è ad essa che dob-biamo conformarci. Fede e sana razio-nalità si fondono perché la fede cristiana è non solo credibile ma conforme alla ragione. La conclusione della riflessione sui segni dell’altra vita è la seguente: Dovremmo es-sere a tutti gli effetti ciò che già siamo: segni di vita eterna.., segni vivi di povertà evan-gelica. È questo pure il tema della suc-cessiva meditazione dedicata ai giovani ma valida per tutti. Sul tema dei poveri e degli umili, evangelicamente parlando, c’è una vasta letteratura che, ai nostri giorni, si è fatta carne nella quotidiana testimonianza di papa Francesco grazie alla particolare attenzione che egli rivol-ge alle periferie del mondo, tramite il caldo auspicio di una Chiesa povera. Il testo del Nostro, scritto in epoca antece-dente all’elezione di papa Francesco, è singolarmente in linea con il suo magi-stero. Puntuale un altro riferimento alla Lumen Gentium: Come Cristo è stato inviato dal Padre a dare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il loro cuore contrito (Lc 4,18), così pure la Chiesa circonda d’af-fettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sof-ferenti l’immagine del suo Fondatore. Come non pensare a Teresa di Calcutta, nella quale il processo di trasformazione, la metànoia, per farsi dono agli ultimi ha raggiunto i massimi livelli?Burgaretta può così presentare ai giovani uno speciale cammino di santificazione, fondato sugli impegni di studio, di lavoro e sulle attività sociali di volontariato. Il suo obiettivo è mostrare che, mentre tutto il resto passa, i valori fondamentali restano fermi a illuminare il cammino di tutti. In un tempo in cui i miti rivoluzionari sono miseramente sprofondati nel nichilismo, praticare l’opzione dell’amore cristiano è la sola alternativa credibile, razionale e umanamente seducente.Il concetto della santità vissuta nella re-altà effettuale è trattato nel saggio La nor-ma del quotidiano come via di santità. C’è, nel recente passato, chi ha criticato l’ec-cesso di proclamazioni di santità da parte di Giovanni Paolo II. Burgaretta sgom-

bra il campo da incomprensioni dichia-rando che, poiché Dio abita in ciascuno di noi, la santità risiede nell’ordinarietà della vita quotidiana, nella disponibili-tà a rispondere all’invito di Cristo. Così Matteo: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16,24). Certamente sul tema della santità scontiamo il pregiudizio pre-conciliare che la riservava a pochi eletti. Ha forse contribuito a tale convin-zione il passo di Matteo (Mt 5,48) che ci chiama a essere perfetti come perfetto è il Padre nostro nei cieli? Preferibile adot-tare l’interpretazione del Nostro, che vi legge l’appello a vivere una continua, per-manente, quotidiana tensione, appunto in salutare inquietudine, per essere sempre più all’altezza dell’istanza evangelica. Tutto ciò coincide con la convinzione di Josemaria Escrivá de Balaguer, che perseguiva la liberazione dagli idoli e dal nulla attraverso una santità praticata nel compiere i doveri piccoli di ogni istante. Il Concilio Vaticano II, sempre nella Lu-men Gentium, è stato esplicito nel sottoli-neare che tutti i fedeli sono chiamati alla santità in virtù di una pienezza di vita, umile e faticosa, vissuta in spirito di cari-tà. Stare nel mondo, pertanto, ma contro la logica del mondo. Tout se tient.L’ultima parte del libro, intitolata Sciara-da pasquale, si caratterizza per una lunga lettera – quasi un trattato di spiritualità cristiana – in risposta alla lettera, pubbli-cata in appendice, di un amico, il poeta Giovanni Stella, il quale significava al Nostro la sua difficoltà di credere. Non siamo di fronte a un ateo, ma piuttosto a una persona non ancora toccata dalla grazia. Citando Oriana Fallaci e Gesual-do Bufalino, Giovanni Stella riflette sul fatto che vita e morte si manifestano non solo come ossimoro per antonomasia, ma endiadi, binomio inscindibile. Indi, prosegue: C’era buio, assenza totale prima della nascita […]. In quello stesso stato di assenza e buio ritengo si ritorna con la morte, evento che conclude e chiude la parabola della vita. Sarà così?Rispondendo a Giovanni Stella, in nome dell’amicizia e dell’affetto che ho per te come persona e, quindi, anche in nome del referen-te cui fa capo tutto, Sebastiano Burgaret-ta evidenzia come la vita sia anzitutto dono, gratuità, bellezza. Essa, tuttavia, lo riconosce, finisce per ingripparsi, talvolta, nel busillis che chiamiamo morte. Dovremmo dunque rassegnarci a patire l’umiliazione di autoimporci la limitazione razionale che ci porterebbe alla considerazione che l’uomo sia meno di un bruco o di una formica? Immagina piuttosto un futuro

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di farfalle belle ed eleganti, esito e compi-mento dell’energia vitale, della luce di cui siamo fatti sostanzialmente. Il suo invi-to è di superare i limiti della ragione raziocinativa, per far proprio il mes-saggio-testimonianza di Gesù Cristo, l’uomo Dio, che ci ha promesso che il nostro corpo, come il suo, risorgerà, e per affidarci a lui. L’incapacità di po-ter dominare il tempo che fugge con-siglierebbe di trasformare il krónos in kairós, in tempo opportuno, seguendo l’insegnamento del Catechismo di San Pio X, che raccomanda di conoscere, amare e servire Dio in questa vita e poi goderlo nell’altra, in Paradiso. È il Risorto la risposta definitiva, lu-minosa, ai nostri interrogativi, dub-bi e inquietudini. La resurrezione di Cristo, fondamento della nostra fede, come sottolineato da San Paolo, dà senso alla vita e alla morte. Senza la resurrezione di Cristo, tutto sarebbe insensato, vano, disperante. Ma come pervenire al Risorto? Sebastiano fa ri-ferimento al card. Martini, secondo il quale “ogni uomo, ogni donna di que-sta terra, può vedere il Risorto, se ac-consente a cercarlo e a lasciarsi cerca-re”. Dunque, se non erige muri e se si affida all’infinita misericordia di Dio.

***Durante il periodo pasquale del 2013, fu chiesto a Sebastiano Burgaretta di elaborare sette meditazioni come in-troduzioni alle “Sette parole di Gesù in croce”. I testi furono letti dall’Auto-re nella Chiesa di Sant’Antonio Aba-te di Avola il 19 marzo 2013 e poi, il 26 successivo, nella Chiesa Madre. Si tratta di riflessioni spirituali, che van-no al cuore del messaggio evangelico perché danno la misura dell’amore – senza misura – di Dio per ciascuna persona umana. Trattando degli ulti-mi istanti di vita terrena di Gesù Cri-sto, Sebastiano conferma come le ra-gioni della speranza travalichino ogni forma di disperazione e confermino quanto sconfinati siano gli orizzonti della misericordia di Dio.

***Merita una segnalazione tra le prezio-sità di Al soffio dello Spirito l’introduzio-ne di Francesca Magro, Le vie di Gesù Cristo, e una sua meditazione Pregare, perché, collocata a conclusione del bel volume. La mistica avolese definisce la preghiera contatto dialogico e vitale con Dio. Un balsamo dell’anima, per il cristiano, strumento di accesso al su-blime.

“Il principe e il suo si-cario” di Gigi Monel-lo è un libro di Storia, un’analisi della psi-cologia del tiranno e molto altro ancora. Di fatto, terminato questo testo, avvincente come un romanzo e rigoroso come un saggio, il let-tore si interroga sulla natura effettiva dello scritto. Certo, il libro narra uno stralcio del-la Storia italica, tra il 1499 e il 1502 all’api-ce del potere di Papa Alessandro VI Bor-gia, entrando nel vivo di una vicenda particolare (la resistenza di Faenza al Duca Valentino, il principe di machia-velliana memoria e l’uccisione crudele ed efferata del giovanissimo signore della città, Astorre Manfredi); certo, esso tratteggia anche lo sfondo politico e antropologico di quella Italia (già da un po’, Ahi, serva Italia...) del 1500, in cui si posero le basi devastanti del futu-ro del Paese; certo, si interroga anche sui meandri della mente tirannica. Ma non è tutto qui. Ogni volta che si voglia tentare di chiudere questo testo in una definizione, ci si accorge come questa sia imprecisa, non completa. Questo libro, infatti, è un prisma a molte fac-ce. Prima di tutto è un testo, accurato e suggestivo, che fa ripassare al lettore un momento della Storia, magari non bene approfondito; quindi, fornisce elemen-ti sulle dinamiche mentali del tiranno- non solo di Cesare Borgia in partico-lare; inoltre, induce il lettore – senza forzatura alcuna da parte dell’autore – a ritrovare nella narrazione archetipi imbarazzanti, ancora presenti nella re-altà odierna. Solo per fare un esempio, non è difficile riconoscere analogie tra la facilità con cui allora la plebe cedeva alle lusinghe e agli inganni di deten-tori del potere: bastava qualche festa popolana, qualche divertimento bece-ro e tutto veniva assorbito e la tragica leggerezza con cui oggi, e nel passato più prossimo, non più la plebe ma i “ cittadini” credono- hanno creduto- a ciarlatani e paranoici, complici qual-

che parata o qualche evento comunicativo a luce “sparata”. E non è finita. Il taglio di Monello insiste sul tasto della Storia vista dalla parte delle vitti-me. Astorre Manfre-di, che nei manuali è un nome e basta, qui diventa ciò che era effettivamente: un giovane nel momen-to della sua crescita, sul punto di diventare uomo. Ancora ragaz-zo, con le paure e le angosce dell’età, ma

già uomo nella determinazione di resi-stere. Quindi immagina le sue sofferen-ze nell’anno della prigionia, la crudeltà di chi gliele aveva inflitte e di chi ha posto fine alla sua vita. Sopra a tutto, infine, sta l’obiettivo primo dell’autore di demistificare la figura di Cesare Bor-gia, e con lui tutta quella italianità pro-fonda. Che percorre la fibre più intime della nazione: da Borgia a duci, principi e capi-popolo più recenti. Fatta di dilettantismo, cinismo e retoricume e del suo complemen-tare: la vecchia, cara, funesta ammirazione per il furfante abile. Dunque, il testo si fa irridente nei confronti dei Grandi, osannati: a cominciare dal “Segretario fiorentino”, l’uomo “di scrittoio abba-gliato e incantato dall’uomo di azio-ne”, (che – come è ampiamente noto – pensò al Valentino come modello del moderno Principe) a seguire con tutti i vari Borgia/fascinati, tra cui Maria Bellonci. Gigi Monello rovescia la vi-sione di De Sanctis che vedeva nell’uo-mo guicciardiniano il paradigma di quella degenerazione che, con parola machiavelliana, costituiva la «corrutte-la» della società intera. La corruttela, sostiene Monello, è invece nella storia dei Borgia dove c’è una sconcezza speciale che esige di essere colta; la parte più sotti-le del fascino, quel senso di cialtronesca in versione assoluta, quello sberleffo solenne ai valori morali... Non può esserci po-litica senza morale, dunque. Ci perdo-neranno, certi maggiori nostri, se non ce la sentiamo di contraddire il nostro autore.

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Il furfante abilenon tramonta maidi Renza Bertuzzi

“Sono stata più crudele con chi più ho amato”. Questo disse Guðrún alla fine dei suoi giorni. Il libro – che riporta in quarta di copertina l’espressione di cui sopra e che Alessandro Zironi, nella bella e puntuale postfazione, che titola Una storia di donne, scrive essere tra le frasi più celebri tutta la letteratura nordica, divenuta proverbiale in Islanda come da noi “L’amor ch’a nulla amato amar perdona” di dantesca memoria –, mi arriva, fresco di stampa, rinvenuto dopo spasmodica ricerca, gradito dono dell’amico Giancarlo. Guðrún “bellezza imperiosa, fiera, passionale...”, la figlia di Osvirf, è donna intelligente, raffinatissima, “la migliore che fosse mai nata in Islanda”. Quattro mariti, senza contare Kjartan, a cui si era promessa… Una sorta di Sheherazade dei ghiacciai, che domina il carnefice; l’una si conquista la grazia dopo mille notti di canto e incanto, l’altra ama sì, ma per uccidere l’anima e il corpo con crudeltà. Siamo in Islanda, terra che affascina Giancarlo Zoppini, il mio giovane amico, noto avvocato tributarista di rinomato studio ambrosiano (Tremonti), che nel poco tempo libero coltiva letture letterarie. I pochi giorni di vacanza li dedica a soggiorni in Val d’Aosta, alta montagna, d’inverno innevata, d’estate sotto il sole, o in luoghi sperduti e lontani: quest’anno l’Islanda. Raggiunta con una nave postale, pochi passeggeri molta meditazione. Per ammirarne il fascino: un intero giorno dedicato a fotografare le foche sul ghiaccio nell’assoluto silenzio di un angolo sperduto di questo pianeta affollato e infollito. Gli altri giorni trascorsi fra quella gente, in quei luoghi... lontani, diversi dai nostri, proprio un altro mondo, eppure parte integrante di questo mondo. Altra gente, tanto differente da noi, eppure comunque, simili fra simili.“Sei quello della pietra e della fionda / uomo del mio tempo”, poetava Quasimodo, il siculo-greco, così lontano

dai freddi paesi nordici, dai ghiacciai dell’Islanda, l’isola che per affascinare Giancarlo, fino a catturarlo, significa che...Le sue sono incursioni nel silenzio, nella quiete: il riposo del guerriero, che trascorre il tempo lavorativo a curare pratiche tributarie tanto di grossi gruppi industriali o finanziari, quanto di personaggi famosi del mondo dello spettacolo o della moda. N e c e s s i t a t a m e n e appariscente nelle vesti professionali è riservato e solitario in privato. Come me,

che ormai propendo solo per questo e non più per quello.Quel 1° agosto 2005 lasciò il fuoco in studio per venirmi a prendere in aeroporto e accompagnarmi in clinica, laddove venne a trovarmi tutti i giorni. Eppure Milano è piena di taxi.Quando ritorna qui, in terra di Sicilia – ci conoscemmo per questioni professionali, una complessa vicenda che ci consentì di lavorare insieme molti anni, cementando una vera amicizia –, le escursioni sono rivolte alla ricerca di luoghi non affollati. È il desiderio di entrambi. La prossima volta in programma c’è l’Etna: per lui sarà la prima volta, per me – che vergogna! – un ritorno dopo oltre dieci anni.Eppure al gigante, con bianco mantello d’inverno, alto, imponente e maestoso anche negli altri periodi, ho dedicato versi, osservandolo a distanza. E ogni qualvolta me lo ritrovo avanti gli occhi, gli parlo, intimorito e gioioso, trepidante e orgoglioso, come un David che osserva Golia per la prima volta. Di quando in quando, rosse colate laviche, eruzioni, lapilli... – ancor più fascinose quando è innevato – ci fanno ricordare che Mongibello è vivo e vegeto, come l’Isola che lo custodisce in seno, questa portatrice di gioia e dolore, luce e lutto, bene e male, vita e morte, un ossimoro per antonomasia.Avevo inviato Gelsomino d’Arabia a Giancarlo, come faccio con tutti i miei libri che pubblico via via, esito di un hobby diventato vizio: scrivere. Perché, di preciso non so. Forse, fra le tante

ragioni s’impone quella di ammazzare il tempo, prima che con la sua scure implacabile si vendichi di me.Affettuosamente, l’amico, com’è sua abitudine, ogni volta colpisce nel segno; stavolta mi ha ricambiato il piccolo dono, decuplicato almeno: una bella lunga lettera manoscritta con inchiostro blu, simile a quello che ho in uso io che amo ancora le stilo, gli inchiostri colorati, la scrittura manuale, il servizio postale... E anche due libri: Sulla Francia di Emil Cioran, appena uscito che, recensito sul “Corriere della Sera” avevo già mandato a ritirare e stavo leggendo, saccheggiandolo, quasi alla fine, sottolineato e annotato. Affinità elettive, ho subito pensato, così gli ho scritto: stessi gusti letterari. Cioran, che “avrebbe dato tutti paesaggi del mondo per quello della sua infanzia”, è stato un grande... Leggerlo procura una gioia dell’animo.Anche Laxdaele Saga c’era nel plico (Iperborea editrice, Milano 2015, pp 303, euro 17,00). Stessi gusti in letteratura, dicevo. Giancarlo è gran lettore, di palato fine, studioso di Borges, al quale ha dedicato un bellissimo saggio fatto oggetto di relazione in un Convegno letterario e che ora m’è venuta l’idea di inviare all’amico Titta Madìa, noto penalista romano, che dirige la rivista di eloquenza Gli Oratori del Giorno, che Giancarlo riceve. Madìa leggerà il saggio, e chissà, magari lo pubblicherà: le cose belle lo affascinano. Ogni tanto pubblica qualche mio scritto, ma è più per affettuosità d’amico che altro. Non penso che la mia firma meriti quella tribuna così alta. Borges – è scritto nel risvolto di copertina del libro che ho appena ricevuto – ritiene che “è nelle saghe islandesi che nasce il racconto moderno, in quel mondo di eroismi, intrighi, amori, odi, riappacificazioni, dove storia e leggenda, realtà e prodigio, si sovrappongono e si fondono…”. Stato di necessità o ius superveniens, per dirla con un linguaggio caro all’amico, m’impone di sospendere la lettura in corso della corposa autobiografia George Simenon per mani di Pierre Assouline, appena arrivata, che intervalla “I passages” di Parigi di Walter Benjamin, e La folie Baudelaire di

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Laxadaela Saga, non solo un librodi Giovanni Stella

Roberto Calasso, libri entrambi belli e interessanti, suggeritimi da Jean-Paul Manganaro, di cui ho scritto e che ringrazio.Da stasera abbandono Parigi, la mia cara, amata Parigi, per trasferirmi – avverto già i brividi di freddo – in Islanda. Non ci andrò né con l’aereo, né con la nave, né con l’immaginazione, ma con il mezzo a me più congeniale: il libro. Da sempre l’amico più caro dell’uomo: non lo tradisce mai. Il libro di cui parlo, si apre con una mappa geografica sulla parte dell’Isola del ghiaccio dove si svolge la Saga, questa famosa per la poetica del testo che narra del ruolo di domino delle donne esercitato allora. E ora? Segue un glossario toponomastico e una nota sulla pronuncia. Il sommario riporta i titoli dei 78 capitoli che compongono il testo! Anelli d’una catena, fotogrammi che scorrono veloci come in una moviola, che compongono il filmato nella sua unità, che gli occhi, leggendo, rendono alla vista, la mente alla visione. Per mani della curatrice, la brava Silvia Cosimini, c’è una nota sulla traduzione che spiega come ha operato il lavoro, saga antica, basandosi sul testo originale edito da Einar Olafur Sveinsson del 1934.Una tavola cronologica data fra l’870 e il 1073 gli eventi narrativi del libro che si chiude con altra tavola, stavolta con i legami familiari nella Laxàrdalr e la bibliografia che riporta il testo utilizzato per la traduzione, altre quattro traduzioni di riferimento e 31 testi di approfondimenti.L’elenco dei volumi pubblicati dall’Editore dà contezza della peculiarità delle casa editrice che stampa tutti libri particolari, come questo, originale anche nella veste grafica ed estetica.L’intera copertina riporta un particolare dai bei colori del Fregio di Beethoven di Gustav Klimt.Dimenticavo. La cura maniacale che riservo a ogni libro che tengo in mano, del tutto simile a quella della madre col bimbo neonato in braccio, mi ha costretto a sollevare con dita delicate il bollino di “Rizzoli galleria” che copre il prezzo, indicato in alto, sbirciando e ricoprendo.Giancarlo è persona raffinata, anche nei dettagli.

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L’odore del tempo è l’ultima opera di An-gelo Fortuna, ed è, inaspettatamente, una silloge di poesie. Non avrei invero imma-ginato che il Nostro potesse tardivamente dedicarsi alla poesia, lui che per tanti anni ha avuto una pratica esclusiva con la pro-sa, spaziando dalla scrittura giornalistica alla saggistica, dalle biografie di alcuni netini illustri alle monografie letterarie e alla narrativa.Non voglio tuttavia credere che la sua passione per la poesia abbia un’origine recente, perché la presenza nel libro di al-cune liriche ‘datate’ lascia supporre un’at-tività poetica iniziata qualche decennio fa. Evidentemente Fortuna l’avrà consi-derata, tale attività, secondaria rispetto ai suoi preminenti interessi per le tipologie di scrittura già dette, così da dedicarvisi saltuariamente, ma non senza un serio impegno sotto la spinta dell’esigenza di manifestare le tante emozioni sollecitate da varie occasioni ed esperienze di vita. In tal modo le diverse liriche si sono an-date accumulando nel corso degli anni, per essere pubblicate quando hanno co-stituito un considerevole corpus poetico di oltre sessanta componimenti, che ora nel libro si presentano divisi in quattro sezio-ni: “L’odore del tempo”, che è la prima sezione, il cui titolo si estende all’intero volume, “Il sole nero che trafigge il cuo-re”, “L’onda che già t’accolse nel suo seno”, “Stella risplendente del mattino”.Credo che risponda ad uno schema logi-co ben preciso, direi studiato, tale parti-zione: infatti, sorgente d’ispirazione delle liriche delle prime due sezioni sono quasi sempre la natura e il paesaggio, mutevole

nelle diverse stagioni, della terra di Sici-lia, esattamente di quella estrema parte sud-orientale dell’isola ove si trovano luoghi cari e familiari al poeta; dedicate a varie persone sono invece le liriche della terza e quarta sezione. È possibile notare ancora una sorta di correlazione – anche questa voluta? – delle prime due sezioni con la terza e la quarta, perché, come agli ampi paesaggi e scenari naturali della prima sezione si sostituiscono, nella seconda, luoghi ben precisi (da Vendicari alle Pianette, dalla nota piazza Pancali di Siracusa alla piaz-za Santa Venera di Avola), così, ancora una volta per una sorta di restringimento dell’orizzonte poetico, la poesia degli af-fetti familiari, contrassegnata nella quarta sezione da una serie di componimenti de-dicati ai genitori, ai piccoli nipoti e all’a-mata moglie, prende il posto delle liriche della terza sezione ispirate da varie perso-ne conosciute dal poeta, parecchie delle quali ormai morte e ricordate con una commozione non meno intensa di quella che pervade i componimenti dedicati ai cari.Particolarmente efficace, ed evocativo del contenuto fondamentale del libro, risulta il titolo: L’odore del tempo. In effetti, il sen-timento del tempo, del tempo che scorre inesorabilmente lasciando all’uomo il beneficio, se non la pena, di poter ricor-dare il passato che mai più ritornerà, ‘le mystère de la vie qui s’en va’, come For-tuna dice nella lirica “Le soir” interamen-te composta in francese, è motivo larga-mente diffuso in tutte e quattro le sezioni dell’opera.

L’odore del tempodi Salvatore Salemi - foto di Corrado Bono

Panoramica della Sala di lettura della Biblioteca Comunale

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Lo avvertiamo come prorompente nelle prime due sezioni, in cui la ricorrente contemplazione della natura solleci-ta nell’animo del poeta la percezione dell’inarrestabile fluire del tempo e l’e-vocazione di frammenti di vita vissuta. Lo avvertiamo nelle liriche della terza e quarta sezione, traboccanti di commo-zione, dedicate a diverse care persone che hanno ormai lasciato la vita terre-na (i genitori, amici, conoscenti): qui il motivo del tempo che fugge, del soffio vorticoso del tempo ignaro, glaciale e tra-volgente, si avverte, indirettamente, sia come assenza attuale di quelle persone dalla terra che un tempo li accolse, sia attraverso la rievocazione di momenti e luoghi del loro vissuto: così, il ricordo dei perduti amori e del frangersi silente delle onde sulla sabbia dorata a Pantanello tra-volge la mente e l’anima dello zio Nzino Passarello, durante la tragica campagna di Russia in cui perderà la vita; e quanto al compianto ami-co Umberto, il poeta ricorda le cor-se insieme a lui, un tempo, durante gli anni della fanciullezza, su quei verdi prati / ove il semplice rimbalzo del pallone / narrava all’innocenza di fanciulli / sensazioni e vaghe fantasie. Si avverte, l’odore del tempo, an-che se non sembrerebbe a prima lettura, nelle poesie che definirei ‘familiari’ della quarta sezione: si annida in quelle dedicate ai nipoti ancori piccoli, ma che il fluire del tempo ha ormai allonta-nato da quella tenera età che li rendeva immagine sempre fascinosa / dell’ondata di grazia che attraversa / chi vive nel pensiero del Signore. Si avverte, in-fine, persino nell’ampio componimento dedicato all’amata consorte, il poemetto A Clara: qui il tempo sembra scandire le diverse tappe, che Fortuna rievoca con grande passione, del rapporto con la propria compagna di vita; ed è il tempo a suscitare la consapevolezza che gran parte dell’esistenza terrena è trascorsa e a fortificare quel rapporto: ora che il tem-po accelera i suoi passi / cresce l’amore, cresce a dismisura”. Lo sforzo del poeta di esprimere l’inef-fabile, cioè di rivelare con la parola la profondità dei sentimenti, degli affetti e delle emozioni di cui i cari colmano il suo cuore, sforzo indubbiamente sin-cero, tende tuttavia a sfociare in queste liriche ‘familiari’ nell’uso di espressioni piuttosto studiate e ridondanti; tale par-ticolarità insieme al contenuto troppo circoscritto, si vorrebbe dire privato, di

tali liriche induce il lettore a rivolgere un particolare apprezzamento soprattutto alle prime due sezioni del libro caratte-rizzate da una tematica universale, quel-la del tempo che fugge, e da un linguag-gio poetico più immediato e spontaneo.In esse lo spunto è spesso costituito da un dato esterno, che è un dettaglio della natura ovvero un aspetto di quel paesag-gio della Sicilia sud-orientale che è par-ticolarmente familiare al poeta, e questi sa tracciarne con abili pennellate le linee essenziali nelle diverse stagioni dell’an-no, vale a dire nel fluire del tempo: la sferza del vento sulle creste degli abeti che spazza dagli orizzonti la canicola, / gli aridi meriggi portando seco; il polverone che si accende nel bagliore che acceca l’universo / con mediterranee solarità; il pulviscolo denso che si solleva dall’arido asfalto, / mosso dal

vorticoso solleone e trastulla foglie secche con aghi di pino / che invadono gli spazi solitari delle vie riarse di periferia. Ma l’elemen-to oggettivo è presto superato, perché l’animo del poeta è sempre incline, per usare il titolo di una lirica del libro, allo ‘sconfinamento’, ad andare oltre il dato sensoriale; così un dettaglio della natura, del paesaggio può proiettarlo nel passa-to, sollecitando il recupero di frammenti di vissuto: il fragore del temporale diffonde profumi di tempi tramontati, quando erano verdi i cieli della vita; lontani effluvi trasbor-da lo scirocco e un improvviso sibilo di un tre-no /… / riaccende l’oro d’antiche traversate / e lacrime dal tempo prosciugate.Sembra avere un’anima la natura, se è vero che gelida e malinconica la luna /… cerca invano fantasmi di fanciulli / che un tempo veleggiavano felici / incontro all’avve-nire, e se, quando l’estate sta per dissol-versi nell’incipiente autunno, lo sciabordio leggero delle onde /… sommesso lamenta la fuga degli amanti / disseminati nelle giungle

urbane.E ancora, si carica di simboli la natura per chi, come il Nostro, sa essere ‘visio-nario’, affidandosi alle visioni del cuore al di là di nebbia e foschie: così i bagliori fiammeggianti dell’aurora possono essere vaghe promesse di un giorno senza sera e la luna rosso fuoco che sorge a Oriente catti-vante promessa di serenità, sia pure fugace. Questo atteggiamento da visionario rag-giunge l’acme allorquando la contem-plazione della natura sollecita la mente al pensiero dell’arcano che circonda l’uomo e la vita stessa dell’universo. In-vero, per il nostro poeta c’è sempre qual-cosa nella natura, come l’azzurro cobalto fascinoso del Mediterraneo, che richiama i cercatori del mistero / proiettati oltre il flusso della vita e che fa scattare l’animo alato, che così parte… all’avventura / verso lindi

orizzonti spalancati / alla scoperta del senso dell’arcano: perciò nella visione del sole che sorge, si leva nel cielo e infine scompare silenzioso rapido nel fuoco del tramonto Fortuna sente di inseguire il mistero; di vivere l’irrompe-re dell’infinito /… / nei colori dell’ar-cobaleno, / nel richiamo fascinoso delle stelle /… / nel tremulo chiarore della luna; e ancora di sentire l’eterno che ti avvolge /… / nella sera che diffonde le sue ombre, per rendersi conto alla fine che la vita è struggente attesa del Tutto. L’infinito, l’eterno, il Tutto: sono, queste, parole-chiave della conce-zione esistenziale di Fortuna quale si manifesta attraverso la sua espe-

rienza poetica; ma questa esperienza egli affronta sostenuto dalla sua nota solida fede cristiana, per cui ben si comprende come il senso dell’infinito, dell’eterno, del Tutto coincida con il senso del divi-no. Ed è proprio la forza della fede, sono le certezze che la fede può donare ad evi-tare che il turbamento, lo scoramento, e a volte l’angoisse pénétrante, che invado-no l’animo del poeta di fronte al miste-ro della vita che se ne va, possano sfociare nella disperazione.Per comprendere quanto la forza della fede religiosa possa essere di conforto per l’uomo, e per l’uomo Fortuna, si prenda in considerazione una riflessio-ne sul dramma del tempo dello scrittore, avolese anche lui, Giovanni Stella, che fede non ha: “Non la morte mi spaventa – non ci incontreremo – ma l’oblio del tempo, che nel condurmi in quel nulla da cui vengo, cancella ogni cosa, renden-dola poi come mai esistita” (Perché scrivo. Per chi scrivo, in Avolesi nel mondo, giugno

Angelo Fortuna e Gildo Mollica

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2015, pp. 42-43). È ancora la fede ad infondere nell’ani-mo del Nostro un candore che non viene meno neppure al cospetto della leggia-dria del corpo femminile, che è esalta-ta attraverso le figure della danzatrice Gülnür Ünal e dell’attrice Kim Novak in due liriche della terza sezione del libro; perciò Fortuna può dire che l’armonico, flessuoso ed avvolgente / ritmare delle mem-bra di Gülnür, anziché provocare scurrili subumane indegnità, rinvia alla dolce mi-steriosa pienezza / dei corpi eletti d’Eva e di Adamo / che godevano in purezza e libertà, e che i dolci e fascinosi occhi di Kim No-vak sono ammaliante approccio all’armonia / che alberga nell’animo dell’uomo / che per-segue bellezza e meraviglia.Per tale motivo, una visione casta dell’amore informa il poemetto finale dedicato da Fortuna alla moglie Cla-ra, al punto che, a ragione, il prefatore del volume, Corrado Di Pietro, parla di “una concezione quasi stilnovistica dell’amore e della donna” presente nei versi di quest’ultimo componimento; in-fatti la vicenda d’amore con la sua dolce, immensa, amorevole Claretta è rivelata al lettore, stilnovisticamente, soprattutto come un’esperienza di costante elevazio-ne spirituale grazie alle virtù di lei, che è creatura del Signore, / immagine compiuta

di bellezza / pura, immacolata e sconfinante / nei misteriosi edenici giardini. È assente nei versi di questo poemetto ogni riferimento alla fisicità dell’esperienza amorosa e della donna, la cui bellezza, nell’impossibilità di de-scriverla, è evocata attraverso una serie di metafore tratte dalla natura: la sua Clara è come la “zagara olezzante” o come una “splendida rosa piena di fragranze” e i suoi occhi di un tempo, quand’era ancora fanciulla in fiore, “lu-minosi, immensi come il cosmo oltre le stelle”.E il poeta si mostra ripiegato su se stesso per cogliere e rivelare gli effetti benefici che l’amata produce nella sua anima: il suo pensiero è … liberato dall’affanno / sotto l’impeto del caldo affetto di lei; è lei che colma di speranza il cuore del poeta, che è pago di sentirsi ‘libero prigioniero’ del suo amore. ‘Dono divino’ a lui con-cesso (quanto della concezione stilnovi-stica della donna è in questa immagine!), ella si pone come guida sicura: è presenza viva tra i flutti della vita; è sole sfolgorante che illumina il cammino terreno.Ma, da credente, Fortuna ben sa che al termine di questo cammino, dopo la morte, si aprirà una nuova vita, per cui non può fare a meno di immaginare la sua Clara compagna inseparabile an-

che … oltre il confine / là dove amore sfo-cia nell’Amore. Efficace e commovente risulta, in questo senso, l’immagine con cui termina l’ultima lirica, composta in francese, e quindi il libro: La main dans la main nous en irons / vers les espaces de l’éternel amour.Sì, entrambi andranno insieme, la mano nella mano, verso gli spazi dell’eterno amore, perché la salda fede cristiana in-fonde la certezza che sono “da sempre destinati al bacio dell’Onnipotente Id-dio”.La speranza di “annegare nell’eternità”, nel bacio e nell’abbraccio dell’Onnipo-tente Iddio è il punto culminante dell’e-sperienza d’amore di Fortuna; speranza tenuta viva dalla forza della fede, perché – come osserva Stella nello scritto già ci-tato – “la certezza di incontrare Dio ali-menta la speranza di chi ha fede”. L’Onnipotente Iddio è quel Dio che già aveva fatto capolino, nelle liriche delle prime due sezioni del libro, attraverso il sentimento dell’infinito, dell’eterno, del Tutto suscitato nell’animo del poeta dallo spettacolo grandioso della Natura; per tale motivo credo che non sia un’e-sagerazione considerare L’odore del tempo un’opera di profonda religiosità.

“Molto in parvo loco”, la famosa frase di Dante (Paradiso, XIX Canto, vv. 133-135) è la giusta metafora per descrivere la poetica di Corrado Bono non perché adoperi “lettere mozze” per ottimizzare gli spazi ma perché riesce a comunicare con pochi versi tutto un mondo musi-calmente sonoro, caldo, profumato e lu-minoso. Nel suo canto l’inno alla Vita e all’Amore, momenti di gioia e di dolore,

paure e speranze, preghiere e ringrazia-menti, temi etici e civili …Chi lo legge è convinto di entrare in un piccolo spazio poetico e si ritrova in un grande giardino dove emozioni sgorga-no, debordano, affollano, soffuse da una gioia quasi infantile e delicatamente so-gnante.Con la grazia di un giardiniere cura e innesta gli alberi del senso della Vita in-

viando il messaggio che biso-gna prenderla così com’è sen-za mai disperare o rinnegarla. Un’altra sua modalità di vive-re la Poesia sono gli “acrosti-ci”, quei componimenti dove la prima lettera di ogni ver-so, letti per ordine, danno un nome; è un genere poetico che facilmente può scadere nell’ar-tificiosità ma anche in questo caso Corrado non si smenti-sce! Dotato di rara sensibilità che gli consente di “vedere l’Altro” con occhio profondo

e discreto carpisce il non visibile e co-munica del protagonista di turno affetti e qualità che a volte sono veri e propri insight con la sua scrittura semplice fat-ta di pensieri chiari ed espressi senza contorcimenti, veri versi che scorrono piacevoli, armoniosi, amabili… quasi dei “post-it” emozionali, dei flash senti-mentali. Il suo punto di forza è proprio questo: riuscire a rispecchiare la sempli-cità e l’universalità semplicemente col linguaggio.Leggendo le sue poesie viene in mente il candore delle vette innevate, le piccole polle limpide e incontaminate, le bru-ghiere dove l’erba s’inchina alla sferza del vento, la leggiadria del volo di far-falla, il rigoglio del verde primaverile e il cilestrino del cielo estivo, lo Yin e lo Yang, il bianco (formato da tutti i colori con la luce) e il nero (formato da tutti i colori in assenza di luce), gli orizzonti illimitati dove cielo e mare si incontrano e creano l’infinito …

“Molto in parvo loco”di Nina Esposito - foto di Corrado Bono

L’angolo della postaRedazione Avolesi nel mondovia Felice Orsini, 3 - 96012 AVOLA (SR)email: [email protected]

Nizza (Francia), Dicembre 2015 Carissima AmicaGrazie per la rivista di giugno che ho ricevuto alcuni giorni fa. Mi fa sempre piacere avere vostre notizie che mi permettono di mantenere sempre vivo questo legame intimo con la mia terra natale.Proverò a sentirti per telefono per avere il piacere di scambiare due parole dal vivo. Con grande amicizia e affetto siciliano!!!

Lucia Ficara

Cagliari, 13/12/2015 Gentile Presidente e cari Consoci, vi ringrazio per il cortese invito a partecipare alla riunione in programma per il giorno 18 del corrente mese. Sono spiacente di non potere partecipare di persona e, in particolare, per non potere essere presente alla presentazione del volume del mio carissimo Amico Attilio Mangiagli. Le mie novanta primavere e in particolare le mie condizioni di salute, mi hanno costretto a interrompere il mio consueto annuale ritorno nel mio Paese natio. I miei medici mi consigliano di non correre i rischi di un viaggio in nave o in aereo. Vogliate scusarmi e gradire i miei saluti e i più sinceri voti augurali.

Nando Monello

Vigevano, 05 dicembre 2015Gentilissima Graziella,“La voglia di fare e trasmettere, il gusto della ricerca nel passato e nel presente”. Così tu scrivi. Condivido la tua riflessione e ringraziandoti per l’invio del fascicolo di giugno de “Avolesi nel mondo”, esprimo il mio compiacimento nel constatare lo spirito di “ricerca” che permea gli articoli, tutti animati dall’esigenza di essere quanto più possibile veritieri. Eclettismo e versatilità conferiscono alla rivista note variegate e, a volte, complesse. I temi sono, infatti, vari. Dalla Lode a Santa Venera alle riflessioni sulla Costituzione, dalla vita di quartiere, festa di S. Giuseppe, alla nota mitologica in chiave sociologica, che dire poi del confronto tra passato e presente dell’Islam in Sicilia e nell’Italia meridionale?Tanti sono gli articoli degni di considerazione, ma li accomuno tutti in un unico giudizio di sintesi armonica nei diversi contenuti e nei diversi registri linguistici. Graziella, è molto piacevole quello che fai, rendendo i soci partecipi agli eventi, attraverso la lettura degli ambienti che si è riusciti a creare. Il tuo monito “Ad majora” vorrei sottolinearlo citando un passo tratto da “Le confessioni di Sant’Agostino, Libro I capitolo XX: ”Gratias tibi, dulcedo mea et honor meus et fiducia mea deus meus, gratias tibi de donis tuis; sed tu mihi ea serva ita enim servabis me, et augebuntur et perficientur quae dedisti mihi et ero ipse tecum, quia et ut sim tu dedisti mihi”. [Grazie ti siano rese o Dio, mia dolcezza, mio onore, mia fiducia: grazie per i tuoi doni. Ma tu me li conserva. Così conserverai me: e ciò che mi hai dato aumenterà, si perfezionerà e sarò sempre con Te, perché anche il mio essere è dono tuo]. Colgo l’occasione per inviare a te, ai tuoi cari e ai nostri concittadini i più cari saluti.

Maria Barone

Ringrazio per l’invito e presenzierei volentieri l’evento. La distanza, purtroppo me lo impedisce.Complimenti per l’iniziativa. Sto effettuando una campagna di sviluppo culturale, invitando gruppi di cui faccio parte e amici a regalarsi e regalare agli amici due libri di narrativa storica illustrati, multipremiati, avvincenti, emozionanti, che descrivono quanto accaduto negli anni difficili, in particolare nella nostra Sicilia anni ‘40, con usi e costumi. Troverete tutto su: www.ernandes.net/vindigni e su Google: Giorgio Vindigni – Rintracciabili su: Amazon – LaFeltrinelli – InMondadori – [email protected] - “IL RITORNO” 1922/1947 - 20 Premi letterari - “La storia contemporanea raccontata da chi l’ha vissuta” e “ASPIRAZIONI DI UN ADOLESCENTE” 1948/1959 - 10 Premi in 18 mesi – Un libro meraviglioso unico nel suo genere.

Cordialmente,Cav.Uff. Giorgio Vindigni

Presidente Assoc.Cultur. “AMICI DELLA SICILIA-F.lli Florio” - Roma

Anno XVII n. 1 (38) - GIuGno 2016

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