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EDITORIALI Mimmo Bua Francesca Falchi ARTE Angelo Liberati Luigi Mazzarelli Bruno Pittau FILOSOFIA Manuel Furru Sri Aurobindo Cinema Fabrizio Derosas POESIA Antoni Canu Franco Cocco NARRATIVA Eduardo Pérsico Bruno Pittau TESTIMONIANZE Yuànne Orunésu RIVISTA DI ARTI, CINEMA, POESIA, FILOSOFIA E LETTERATURA DIRETTA DA MIMMO BUA 0 Anno I – N° 0 settembre 2007 S O LiANA Edita a cura dell'associazione manuelfurru & co e di Broken Art

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EDITORIALIMimmo Bua

Francesca Falchi

ARTEAngelo LiberatiLuigi Mazzarelli

Bruno Pittau

FILOSOFIAManuel FurruSri Aurobindo

CinemaFabrizio Derosas

POESIAAntoni CanuFranco Cocco

NARRATIVAEduardo Pérsico

Bruno Pittau

TESTIMONIANZEYuànne Orunésu

RIVISTA DI ARTI, CINEMA, POESIA, FILOSOFIA E LETTERATURA DIRETTA DA MIMMO BUA

0Anno I – N° 0

settembre 2007

SOLiANA

Edita a curadell'associazionemanuelfurru & co

e di Broken Art

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EditorialePresentazione – Mimmo BuaCultura stupefacente e disastro omologico – Francesca Falchi

ArteAngelo LiberatiLuigi MazzarelliHospital Blues – Bruno Pittau

Cinema - TeatroCantieri aperti di territori letterari – Fabrizio DerosasSceneggiatura e Trattamento – Via Paolo Fabbri 43 – f. d.Soggetto – Lui e lei – f. d.

FilosofiaFilosofia delle apparenze e filosofia del futuro – Manuel FurruLa fioritura dei Veda: Le Upanishad – Sri Auribindo

PoesiaAntoni CanuFranco Cocco

RaccontiDuelo al sol – Eduardo PersicoLa Casa dei Mondi – Bruno Pittau

TestimonianzeIsótes Philótes – Per Gianni Carchia – Yuànne Orunésu

SOLiANARivista di Arti • Poesia •Filosofia • Letteratura •

fondata e coordinatada Mimmo Bua

Sommariopag. 3

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www.soliana.net

Direttore responsabile:Francesca Falchi

Comitato di redazione:Mimmo Bua

Fabrizio DerosasFrancesca Falchi

Bruno Pittau

Progetto graficoe impaginazione:

Bruno Pittau,BROKEN ART, CA

AUTORIZZAZIONEDEL TRIBUNALE DI CAGLIARIn° 23/07 del 9.08.2007

Anno I

n. 0settembre 2007

Le opinioni espresse negliarticoli firmati impegnanoesclusivamente i loro autori.

Il Copyright © dei testi edelle immagini (saggi, poe-sie, racconti; disegni, foto-grafie, riproduzioni d’arte) èdei rispettivi autori.Tale materiale è liberamen-te utilizzabile per citazioni erecensioni, a condizione dicitare la fonte con il relativourl: www.soliana.net

Immagine di copertina: “La Gabbia”, tecnica mista rielaborata al computer 2006, Bruno Pittau.

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Soliana (in sardo logudorese) equi-vale a soleggiata.

Si dice di una stanza toccata dal sole,soprattutto al mattino. O anche diuna pendice collinare o diuna valle. Dove puoivedere il sole sorgere ediffondersi su unvasto orizzonte.

Soliana è unarivista che si fa inSardegna, isola alcentro del Medi-terraneo, un tempocrocevia di traffici edi culture.

È scritta e illustratada artisti, studiosi, poeti,narratori, cineasti sardi cheoperano in Sardegna o in qualsiasialtra parte del mondo, ma in base agliantichi costumi dell’ospitalità accoglieanche contributi di artisti, studiosi, poeti,narratori e cercatori di qualsiasi altra partedel mondo. Dunque è anche una rivistadove si parlano molte lingue.

Vuole essere, anche, un luogo di incon-tro o di pacati e utili confronti. E unluogo di ritrovo che chiama a collaborare imolti sardi d’oltremare che nei cinquecontinenti non vogliono spezzare il cordo-ne con l’isola madre.

Soliana è una barca a vela, con untimoniere che traccia una rotta ma con

molti collaboratori che governano le vele esenza i quali mai la barca potrebbe pren-dere il vento e seguire la rotta.

In prima fila gli amici che perprimi hanno risposto all’invi-

to: Angelo Liberati, pitto-re; Bruno Pittau, pitto-

re e grafico, che curala copertina e l’im-p a g i n a z i o n e .Fabrizio Derosasche cura le paginerelative all’arte chepredilige, il cine-

ma. E il nostro“motore atomico” di

riserva che garantirà lanavigazione anche nei

momenti di bonaccia, lanostra direttrice responsabile

Francesca “Auratomica” Falchi. Altri mari-nai e navigatori si sono già uniti all’equi-paggio. Altri ancora sicuramente si uni-ranno.

Soliana è uno sguardo al futuro chefluisce nel presente. Che guarda al passatoper trovare ciò che resta sempre, mutandoma senza alterarsi o svanire nell’oblio.

O questo è ciò che vuole essere: cercan-do l’eccellenza e rinunciando volentierialla mediocrità.

Da questo punto di vista, Soliana èanche una sfida.

PRESENTAZIONEMimmo Bua

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Angelo Liberati, DOPO IL DECLINO DELL’IMPERO AMERICANO,1990, colori acrilici, collage di veline con inchiostri,pastelli e olio su tela, cm 120 x 150

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L’abuso che si fa oggi del termine“cultura”, rende coloro che lo uti-lizzano (propriamente o, come

nella maggior parte dei casi, impropria-mente) dei tossicodipendenti con “licen-za di uccidere”, che sostituiscono la riabi-litazione con l’abilitazione. L’abilitazioneall’eccesso che sconfina nel cattivo gusto,che valica i limiti consentiti, originandouna degenerazione della cosiddetta “cul-tura” e di coloro che fanno/si fanno dicultura.

Quello che oggi viene comunementespacciato sotto il nome di “cultura”, ilpiù delle volte risulta tagliato e male:venduto in una confezione luccicante, ilcontenuto mescola in sé letteratura escollature, attualità ed imbonitori davendite al “serraglio”, arte e deviazionicorporali. L’overdose è garantita. I paradi-si artificiali creati da questa pseudo-sotto-retro cultura dominano impune-mente corpi ed anime, riducendo ad unostato di larvale adorazione del nulla iconsumatori incauti ma temporaneamen-te e felicemente obnubilati. Incauti econvinti assertori del “cu-cu-cultura”,ormai isolati da ogni reale fattibile, pro-duttori e consumatori (che, come inpirotecnici giochi di ruolo, si fondono econfondono gli uni con gli altri) sosten-gono il libero consumo, precipitando sestessi e chi ne condivide il vizio, in pozzineri d’ignoranza, privi di una qualsivo-glia via d’uscita. La Sardegna è territoriofertile per questi trafficanti di cultura“retroattiva”, che spacciano i loro sotto-prodotti “spettacolari” e di “alto livelloculturale” per merce di prima qualità.

Questa provoca danni neurolo-gici irreparabili e mutazioni gene-tiche di coscienza (sempre che la sipossieda), impedendo di considerare realtàalternative a queste artificiali, deformate edeformanti. La tossicità presente inSardegna è frutto di una sublimazione,che intorpidisce l’alto come il basso, ren-dendo vertici e basi non solo incapaci divolere la cultura ma anche solo di inten-derla. L’incapacità di vedere oltre queimondi, frutto di sostanze proibite perlegge, di considerare la possibilità chequalcosa esista concretamente e che fun-zioni, indipendentemente dall’assunzionedi moduli di cultura “stupefacente”, nonviene contemplata. Lo stupeficio chediventa maleficio offre garanzie maggioridi ottenebramento e priva di quell’inutilecapacità di pensare, ragionare e discuteresulle cose che accadono dentro e fuori dinoi, sostituendolo con un effimero piace-re, libero di costrizioni e privazioni. Eccola spiegazione para-scientifica del perchéin Sardegna certe cose vengano deliberata-mente ignorate: una fra le tante, ilProgetto Asuni, che sebbene offra, come datitolo, “parole e visioni intorno almondo”, quelle visioni troppo vicino alleparole ed al mondo stesso non produconola lobotomizzazione del pensiero cheimpedisce l’orrenda pratica di mettere ingioco la “visione” che si ha di se stessi nelmondo e del mondo. Soliana, nel suo per-corso, si schiera contro il “farsi di” culturaintesa come degenerazione tossica e sostie-ne il “fare cultura” come un impegno nelquale le varie manifestazioni della stessa,sia nel microcosmo che nel macrocosmo

Cultura stupefacentee disastro omologico

Francesca Falchi

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(il piccolo è scheggia e riflesso del grande)costituiscano punti e spunti di partenzaverso nuovi mondi “reali”, nei quali lozenith ed il nadir siano opposti e nel con-tempo complementari, dove la composi-zione sia frutto di scomposizioni, la perfe-zione armonia d’imperfezioni. Dove lacultura artificiale creata in laboratori seria-li in vista di una globalizzazione distrutti-va del libero mercato delle menti e degli

ingegni venga smascherata e resa incapacedi creare disastri “omologici”. Dove l’indi-pendenza di idea e forma sostituisca ladipendenza difforme, affinché l’abusodella cultura, quella doc, sia una praticalecita e rigenerante e non un illecito dan-neggiamento della dignità intellettuale edemotiva di ciascuno.

Angelo Liberati – I giorni d’Europa, 1991/94, colori acrilici, colori ad olio e smalti su medium density cm 198x198

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Angelo Liberati nasce a Frascati(Roma) il 2 giugno 1946 .L’incontro a Roma con il pittore

italo-argentino Silvio Benedetto, nei primianni sessanta (1964), è l’occasione per l’ap-prendimento delle tecniche del mestiere dipittore, attraverso la frequentazione dellostudio dell’artista, in via del Babuino, stra-da storica tra Piazza del Popolo e Piazza diSpagna. Per tutti gli anni Sessanta saràquesto il suo percorso preferito per le fre-quentazioni delle gallerie di punta in que-gli anni (Galleria Due Mondi, Il Fante diSpade, L’Attico, La Nuova Pesa). Nel 1970

si trasferisce in Sardegna, dove, a contattocon le neoavanguardie isolane (GalleriaSinibaldi, Il Basilisco di Francesco Tanda,Arte Duchamp), matura una poetica checombina la rivalutazione dell’elementopittorico con le pratiche del riporto e deldécollage di provenienza “pop”.

Programmaticamente il suo segno èpermeato dalla influenza di RenzoVespignani, maestro da sempre e amicofraterno per quasi vent’anni.

www.angeloliberati.it

ANGELO LIBERATI

Senza titolo, 1980,décollage, collage,inchiostri, matite

colorate e colori ad oliosu cartoncino sumedium density,

cm 76x56

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Bibliografia:• Angelo Liberati, opere 1975-1993, presentazionedi Mario Ursino e una testimonianza di RenzoVespignani, Ed. S.P.A.C.C. Roma 1993.

• Liberati, opere 1973-2000, con interventi diPietro Storari ed Enrico Deplano, Ed. CUEC –Cagliari 2001.

• Angelo Liberati – Opere, a cura di Maura Quartu,I Quaderni n. 1, catalogo della mostra al Museod’Arte Moderna e Contemporanea A. OrtizEchague di Atzara (NU) 2004-2005.

• Angelo Liberati – Luchino Visconti – percorsi dipittura, cinema, architettura.Cura e organizzazione Provincia di CagliariAssessorato Beni Culturali – Sistema MusealeTesti: Barbara Cadeddu, Maura Quartu, MarcellaSerreliSpazio San Pancrazio Cittadella dei Musei Cagliari24 febbraio – 25 marzo 2006

Documentari:• Arte Duchamp Cagliari-Stresa – regia di ToninoCasula, 1981• Angelo liberato – regia di Andrea Frisan, DVD,2003• L’Invito – regia di Gino Melchiorre, DVD, 2004• Transfer Drawing – consulenza video, GinoMelchiorre, DVD, 2005

2 giugno 2000, 2000, décollage, matite colorate, collage, inchiostri e pastelli sucartoncino, cm 100x70

Il postino suona sempre due volte, 1987, décollage, collage, matite colorate e inchiostrisu cartoncino, cm 25x25

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sopra: Angelo Liberati,RAFFAELLO-WENDERS, 1992,colori acrilici, collage, pastelli ematite colorate su tela,cm 150x120

a destra: Angelo Liberati,BALLAD OF A THIN MAN,1989, décollage, collage, inchiostrie pastelli su plexiglas, cm 40x50

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Angelo Liberati, Dopo il diluvio, 1989, acrilici, veline, inchiostri, collage e pastelli su tela, cm 150 x 150

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LUIGI MAZZARELLI

Luigi Mazzarelli, pittore, poeta, sag-gista e ricercatore, nasce a Cagliari il31.1.1940. Allievo di Foiso Fois si

distingue presto nelle iniziative culturali eartistiche a partire dai primi anni ’60: nelGruppo di Iniziativa Democratica (doveelabora nel 1964 il Manifesto assieme aPrimo Pantoli, Mauro Staccioli e GaetanoBrundu); nel 1967 fa parte del Centro diCultura Democratica e nel 1968 del Centrodi Arti Visive.

Dal 1968 al 2000 ha insegnato discipli-ne pittoriche al Liceo Artistico di Cagliari.

Negli anni ’70 porta la sua ricerca negliambiti dei circuiti “Alternativi” con dellemostre a Roma, Milano, Varese, Firenze enei poli industriali della Sardegna.

Nel 1975 riprende la pittura dopo lalunga parentesi di militanza politica edopo il gesto estremo di bruciare tutta lasua produzione artistica, pitture, disegni e“macchine cinetiche”.

Nel febbraio del 1983 presenta il mani-festo teorico della sua ricerca artistica allamostra antologica alla Galleria Comunaledi Cagliari, Alla ricerca della forma perduta(verrà pubblicato nel 2000 per le EdizioniZonza) dove, attraverso un bilancio accu-rato della critica d’arte degli ultimi 50anni mette a nudo la crisi irreversibile del-l’artista, e soprattutto presenta le suerecenti opere e quelle che Vittorino Fiorisu L’Unione Sarda dirà «scampate all’incen-dio», spiegando che «un pittore accese nel’70 un grande rogo e vi buttò dentro il suopassato. Fu un “autodafé” solitario. Migliaiadi disegni, grandi tele ridotte a pezzi,costruzioni pazientemente rifinite per creareillusioni cinetiche bruciarono nel caminettoper giorni e giorni». E ancora: «Nel ’70Mazzarelli aveva trent’anni ed un densopassato di sperimentatore. Era riuscito a

mettere a punto, indagando sul rapporto traarte e scienza, una “macchina del colore” cheaveva molto colpito uno studioso comeCorrado Maltese, il quale gliel’avrebbe cer-tamente strappata dalle mani quando lafaceva a pezzi per buttarla nel rogo».

Nel giugno 1983 fonda la prestigiosa rivi-sta Thèlema – teatro, letteratura, musica, arte,che produrrà 11 numeri accompagnati damostre, dibattiti e iniziative artistiche e cul-turali che hanno segnato un momento stori-co nel panorama isolano e che venneapprezzata a livello nazionale e internaziona-le, per i contenuti e la qualità della veste gra-fica. All’insegna dello slogan: la rivista d’arteche non ne parla; ne fa, coinvolse artisti, filo-sofi, intellettuali, letterati e poeti, in undibattito e confronto su temi concreti dellaricerca artistica d’avanguardia e in opposi-zione critica alla moda post-moderna.

Nel 1988, presentando l’undicesimo edultimo numero di Thèlema, Mazzarelliallestisce una mostra dove prende ulterior-mente le distanze dal “mondo dell’arte”

DOMENICA 24 MARZO 1996 – ORE 18,00

CAGLIARI — SANTA GILLALOCALITÀ “SA ILLETTA”

ROGOD’ARTISTA

PERFORMANCEDI LUIGI MAZZARELLI

ROGOD’ARTISTA

PERFORMANCEDI LUIGI MAZZARELLI

1983, la primalocandina di Thèlema.

1996, il volantino delRogo d’artista.

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ludico e frivolo, totalmente asservito alleleggi di mercato e polemicamente scrive lesue “dimissioni da artista”.

Nel 1996 Mazzarelli replicò la perfor-mance con “Rogo d’artista”, dove bruciòun’enorme catasta di dipinti, tele e disegniche comprendevano tutta la sua recenteproduzione e anche quel che era fortuita-mente scampato al primo “rogo”. Ungesto liberatorio che tuttavia risultòincomprensibile ad artisti ed intellettualilegati al feticcio dell’opera.

Si salvò dal rogo soltanto il “LibroBianco” dedicato ad Ada, la figlia scom-parsa giovanissima. Un’opera “infinita”dove Mazzarelli elabora una sua persona-lissima ricerca ripercorrendo il senso ed ilfine dell’arte visiva e su cui lavorò fino agliultimi giorni.

Ha lasciato il corpo il 2 settembre2006, vittima della Medicina assai più chedella malattia contro cui aveva strenua-mente lottato.

Luigi Mazzarelli nel 1988. (foto BP) 1996, Luigi Mazzarelli nel Rogo d’artista. (foto BP)

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Luigi Mazzarelli,Acquerello per Thèlema 6-7, 1984.

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con la possibilità di illimitate sperimenta-zioni, non combinavo un bel niente,distratto da mille necessità e troppo ansio-so per andare oltre brevi slanci e rapsodieincompiute.

Per un disegnatore il letto d’ospedale èun osservatorio estremamente interessan-te. Se riesci a scoraggiare l’invadenza della“troppa” socialità e le inutili chiacchiere,hai quasi tutto il tuo tempo per te, puoidisegnare senza ansia e dimenticare, spo-stare su un altro piano, l’angoscia di ognicosa.

Luigi sapeva bene, e da molto tempo,come reagire al dolore, ma io lo scoprivosulla mia pelle soltanto allora. Ero quasiimbarazzato a rispondergli sul mio stato disalute, il mio incidente, che per quantoavesse un decorso esasperantementelungo, non era paragonabile alla lottadisperata che lui stava conducendo controil guasto devastante della chemioterapia.

Hospital BluesBruno Pittau

Dedicato a Luigi Mazzarelli,un Maestro, un Poeta, un Grande Utopista.

Era in opera la Necessità che cianima, quello stato tipicamente“umano” del narratizzarsi fatti,

vicende, immaginazioni, stati d’animo evisioni del mondo.

Fino a quel momento ignoravo cosafosse un “pneumotorace”, ma al terzogiorno di ricovero in ospedale compresiche la faccenda era quasi “seria” e ladegenza non sarebbe stata breve.

Mi feci portare un album Fabriano 4liscio ed il mio portamine 2B; era il solomodo per restituirmi a me stesso in quel-l’ambiente di socialità forzata con unvasto campionario di “umanità”.

Disegnare comporta osservazione, con-centrazione, isolamento. E tuttavia nonsei in solitudine nel tuo studio, sei in unletto d’ospedale, attorniato da varia “uma-nità” di malati, inservienti, infermiere,medici, volontari, sfaccendati, provocatoriche offrono immaginette di santini conl’indulgenza...

Però, rispetto agli altri ricoverati avevoun vantaggio enorme: potevo disegnare.Salvo un tubo infilato nel torace e collega-to ad un macchinario di aspirazione, nonavevo febbre, tenevo sotto controllo ildolore e avevo piena libertà d’azione dellebraccia.

Ne parlavo con Luigi, lui ricoverato aPerugia ed io a Cagliari. Di come in circo-stanze estreme si riscoprano le potenzialitàimmense dei “piccoli mezzi”: avevo appe-na una matita e della carta, ma era esatta-mente TUTTO quel che mi occorreva. Alcontrario, nel mio studio iperattrezzato,

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IIIl pittore se ne è andato,

il Maestro ha vinto!

C’è un confine sottile e indefinibile chesepara l’arte dalla vita, Luigi attraversòentrambi i deserti, vivendo ogni cosa finoin fondo e indirettamente mostrando, aquanti ebbero il privilegio di conoscerlo, ilsenso della vita, di quella vita che dice sìalla vita.

Gli parlai dei disegni che stavo facen-do, ma non feci in tempo a mostrarglieli.Luigi era sempre stato per me un punto diriferimento critico essenziale e insostitui-bile. Questo è un motivo per cui gli dedi-co i disegni di queste pagine. Ma ce nesono altri, più impersonali e sfuggenti,proverò ad esporne alcuni.

C’è il “comune osservatore” (in specieil critico “letterato”) che altro non puòdire più degli “stati d’animo” che gli susci-ta un’opera d’arte... e per quanto qualchegiudizio risulti sorprendente e sia motivodi riflessione, sono sempre e soltanto reso-

conti emotivi, impressioni sentimentali,chiacchiere, letteratura noiosa e molesta.

Luigi no, conosceva ogni piega del faree conciliava il “sentire” ed il “capire”; perquesto la sua qualità di “critico” era ine-guagliabile e unica, per respiro e ampiezzadi prospettiva.

Perché Luigi Mazzarelli non era artistamoderno né ancor meno post-moderno,era un classico, era leonardesco.

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Non sono stato di Luigi un “buonallievo”, e non perché precocemente m’in-segnò a tradirlo, ma perché rispetto allesue “provocazioni” non sono stato capacedi rispondergli adeguatamente, di darmigli strumenti teorici per comprendere afondo i suoi scritti. Mi ci vollero anni eanni perché iniziassi ad afferrare un puntonodale della sua ricerca, il “recupero dellasemantica”, ma non seppi mai affrontare ilproblema con serietà d’impegno program-matico e anch’io, come tutti quanti, mirifugiavo nel mio orticello, come tuttiquanti i somari imboccavo la comodastrada che conduce alla familiare greppiadel “cretinismo del mestiere”.

Luigi era un Maestro autentico, chedunque non volle mai discepoli impegnatiad emularlo, ma mostrò sempre comeandare oltre di sé, come superarlo. Speravadi trovare interlocutori, ma nessuno sepperaccogliere la sfida... tutti preoccupatiappena di pervenire ad una propria “acca-demia”, ad un proprio “marchio di fabbri-ca”.

Non fu la città, distaccata e indifferen-te, a dimenticarlo. Furono i pittori, quelliche dovevano essere i suoi primi affini, anon essere all’altezza del confronto. Cosìdella rivista “Thèlema”, in tanti ne sfrutta-rono la visibilità, pochi o nessuno colserola sfida progettuale.

Né poteva essere diversamente: chel’Arte sia morta nessuno vuol saperlo, matutti banchettano allegramente con le spo-glie decomposte. Si offendono se non par-tecipi al loro “pasto sacro” e casomai, perun eccezionale raptus di “cattiva coscien-za”, si chiedono se non gradisci il cibo o senon apprezzi la compagnia.

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III

«Il senso della verità nell’artista.L’artista ha, riguardo alla conoscenzadella verità, una moralità più debole delpensatore: egli non vuole a nessun costofarsi privare delle interpretazioni che allavita conferiscono splendore e profondità,e si ribella contro metodi e risultati fred-di e schietti. [...]».

F. NietzscheUmano, troppo umano, 146.

È “maleducazione” citare Nietzsche,ma io sono un barbaro e posso ben per-mettermi di non piacere. Con Luigi par-lammo spesso del filosofo tedesco e diquanto seppe darmi più dei tanti artisti(Kandinsky, Klee, De Chirico, etc.) chetanto ne trassero nel teorizzare e nel fare.In particolare sui “problemi” dell’autori-flessività e sulla necessità dell’artistamoderno di “stampelle” critiche e di una“cornice” che dichiari per lui «questa èarte».

Legittimazione... autolegittimazione...Autorizzarsi da sé...

Fino alle “DIMISSIONI D’ARTISTA”.

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LE DIMISSIONI D’ARTISTA

Luigi si era dimesso. Ne aveva fattocomunicazione scritta e a quelpunto non era più possibile ignorar-

la. La sera stessa si riunì il Gran Consigliodell’Arte.

Le corporazioni si espressero unanimi esolidali nel condannare l’argomento stessocome “fuori luogo”, un “non luogo a pro-cedere”...

E tuttavia un immaginario popolo one-sto voleva vederci chiaro e non si accon-tentava delle interpretazioni “giuridiche”dei fatti... pertanto le interrogazioni furo-no innumerevoli e gli stessi artisti vennerochiamati a risponderne direttamente.

Gli artisti (che, essendo artisti nonsanno ragionare normalmente) risposeroappunto artisticamente... Queste dimissio-ni – sostennero – sono esse stesse un fatto“artistico”... Una polemica, una provoca-zione come è appunto pieno il mondodell’arte.

L’immaginario popolo onesto prese arumoreggiare... e non si accontentava difar rientrare il problema al punto di par-tenza. Queste dimissioni – volevano sape-re – sono reali, hanno conseguenze nelmondo reale? Oppure è solo un gioco disocietà?

IV

«[...] Eppure si sarebbe dovuto capirequel che succedeva. Ondate incessan-ti di esseri inutili vengono dal fondodelle età a morire continuamentedinanzi a noi, eppure si rimane là asperare tante cose... Incapaci persinodi pensare a quella morte che noistessi si è. [...]».

Luis Ferdinand Céline,(Viaggio al Termine della Notte)

Rimangono piccoli insensati tentativiper ricostituire il presente che ci sfuggesotto lo sguardo.

Questi disegni sono stati fatti in circo-stanze difficili, perché solo in situazioniestreme matura la tensione che spinge araccontarsi, a dirsi le cose.

C’è un chiaro ed esplicito riferimento aDe Chirico e alla sua tematica del “SoleNero”; la figura umana è quella del mani-chino, l’immagine pura di un essere ditransizione quale è appunto l’umanità.

Sono disegni dedicati a Luigi per ildebito enorme del suo insegnamento.Perché in un mondo senza poesia c’era chicredeva nell’arma della poesia.

settembre 2006

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Èdifficile non annuire mentre si leggono le riflessioni di Luigi Pirandello, vergatenei Quaderni di Serafino Gubbio Operatore: «Se io al cinematografo non devopiù vedere il cinematografo ma una brutta copia del teatro, e devo sentir parlare

incongrua-mente leimmaginifotografiedegli atto-ri, con unavoce dimacchinatrasmessameccanica-mente, iop r e f e r i r òandarmenea teatro... bisogna che la cinematografia si liberi dalla lette-ratura, per trovare la sua vera rivoluzione».

Quel fascio di luce che dal proiettore raggiunge lo scher-mo rovescia l’immagine e la ingrandisce, colonizza nuovispazi attraverso l’immagine e la parola. Il cinema – ancoraoggi – con funzioni diverse e minori – è un catalizzatoredelle fantasie. Luogo del sogno e della ragione, marginalefabbrica dell’immaginario collettivo.

Per inaugurare questa rubrica cinematografica, contenutain questa nuova rivista, ho deciso di mettermi in gioco epresentare ai lettori la mia officina segreta. Il primo è unbreve testo letterario, il secondo è un trattamento ricavatodal raccontino, e il terzo è un frammento di sceneggiaturache tiene presente entrambi i tentativi e poi giunge a lidiinesplorati. Tre passaggi né canonici né tanto meno obbliga-ti, ma che mettono bene in evidenza come la scrittura cine-matografica abbia un carattere ibrido, dipenda dall’immagi-ne che la completerà, la relega in quell’equivoco destinatoalle opere che non sono ancora del tutto alla luce.

Cantieri apertidi territori letterari

Fabrizio Derosas

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Scena 1.Bologna. Millenovecentotrenta.

Camera ardente – interno giorno.Crocchio di parenti e amici.I familiari sono disposti alla rinfusa –

ai due lati del feretro aperto. In quelprofondo silenzio c’è un sentimento didisperazione e abbandono.

Dall’alto assistiamo all’ingresso incertoe timoroso del sacerdote e di due chieri-chetti.

I riti e i gesti di Don Giacomo sonoripetuti meccanicamente, senza alcunapartecipazione emotiva.

Abbracciando il vedovo e i figli.Martino – il chierichetto più grande –

sembra rapito estaticamente dal misterodella morte.

Osserva minuziosamente l’espressionedi solenne e rigida gravità della morta, egli occhi umidi e rossi dei numerosi astan-ti.

Breve carrello in avanti a stringere sulvolto di Martino, rivolgendosi all’anzianosacerdote.

Il grinzoso sacerdote lancia uno sguar-do severo al bambino, completamenteindifeso nella sua purezza.

Don GiacomoSiamo al cospetto della saggezza di

Dio.Sia fatta la sua volontà.MartinoPerché piangono? Ora vede Gesù ...

Scena 4.Anni novanta (venerdì).

Spiagge e centro abitato – esternointerno giorno.

Assistiamo dall’alto agli ingorghi dell’e-sodo preferragostano in un frastuonoassordante di clacson e motori reboanti.In seguito sorvoliamo le lunghe e affollatespiagge della riviera adriatica.

Con una lenta panoramica verticale lam.d.p. fa il suo ingresso all’ultimo pianodi via Paolo Fabbri 43, appartamentomodesto ma dignitoso di Martino eMargherita.

A mano a mano che procede la panora-mica, il trambusto brulicante dell’estate siaffievolisce, sino a diventare silenzio asso-luto. Margherita rade con meticolosità laruvida barba di Martino. Quest’ultimoappare ironicamente distaccato dal poemaonirico che gli propone la moglie.Martino sembra più interessato alla sua“cipolla” ormai capricciosa.

Lentamente, Martino si rende contoche lo sfogo onirico di Margherita è caricodi significati esistenziali, e così la suaattenzione si desta e capisce che quelsogno, non è un sogno qualunque.

MartinoTi ascolto – ho detto che ti ascolto,

non fare sempre l’offesa.MargheritaIo ero la direttrice dell’aeroporto.Stavo seduta dietro il mio tavolo in

uno stanzone infinito e deserto, ma vede-vo attraverso le pareti di vetro le piste cheerano illuminate. Il cielo pieno di stelledavanti a una grande sagoma dell’aereo.Spettava a me concedere il visto d’entrataai viaggiatori. Sto per farlo quando uno

Sceneggiatura“Via Paolo Fabbri 43”

(1999)Fabrizio Derosas

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mi sembra un po’ stravagante, e mi attraesenza che posso staccarmene.

È solo – da una parte – avvolto in unkimono sfarzoso e consumato che glimette addosso una luce preziosa.

MargheritaNon ha bagagli. È un orientale, sem-

bra nobile e miserabile. I capelli sonounti, sporchi, ha un cattivo odore distracci bagnati, di foglie marcite, peròquella nobiltà che emana dalla sua figura,

mi affascina e mi spaventa. Potrebbe esse-re un re, un santo, ma anche uno zingaro,un vagabondo, reso indifferente aldisprezzo degli altri da una lunga abitudi-ne alle mortificazioni e alla miseria. Unindefinibile sentimento di ansia e diinquietudine mi prende alla gola, mirende incerta. So che lo straniero si aspet-ta una mia decisione, ma non fa doman-de, non parla. Il mio disagio – la miaemozione crescono, lui oppone un silen-zio inequivocabile, perché il suo arrivo èreale, la sua presenza è reale. Questa cir-costanza non riguarda lui, riguarda me,lui doveva soltanto arrivare e ora c’è.Sono io che devo decidere se farlo entrareo no, se concedergli o negargli il visto. Misembra di balbettare delle scuse ipocrite,delle bugie puerili; dico che non sono ilvero capo dell’aeroporto, che la decisionenon spetta a me, io dipendo da altri, piùimportanti, più competenti. Loro sannocosa fare, non io che sono soltanto un’im-piegata.

Sento vergogna e autocommiserazione.Abbasso la testa, non so più cosa dire,

guardo smemorata la piccola targa sullascrivania – c’è scritto: la direttrice.

È sceso un grande silenzio, i passeggerilaggiù sul fondo, sono una massa muta eindistinta. Io non oso più sollevare latesta. Mi sembra che sia passato tantotempo, troppo: una vita. Con una lentez-za laboriosa costruisco nel sogno ladomanda che mi angoscia. Di che cosaavrò più paura alzando gli occhi? Divederlo ancora lì polveroso e scintillante, odi non trovarlo più.

Scena 16.Soggiorno (domenica) – interno giorno.

È ora di pranzo e Margherita mi portain tavola una zuppiera di verdure passate.

Il televisore è sintonizzato sul telegior-nale, ma Martino non sembra curarsene.Margherita serve entrambi e poi si siede.Osserva distrattamente lo schermo ma èpiù interessata al volto del marito che èsovrappensiero.

Margherita spegne il televisore per pro-vare a distoglierlo, ma senza successo.Attende qualche secondo continuando adosservarlo, il silenzio si fa pesante ed èinfranto solo dal suono delle posate.

L’espressione di Margherita si fa tesa ein breve sbotta risentita. Margherita alzagradualmente il volume.

Martino non si è mosso di un millime-tro.

Ha ascoltato tutto quasi compiaciuto.Margherita intanto rialza lo sguardo

mentre il marito toglie dalla tasca il fogliodel Giuramento, lo dischiude e glielomostra, lei si chiede che cosa sia.

Martino le passa il documento maMargherita non lo prende e sembra un po’scossa.

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Angelo Liberati,Omaggio a Marco

Ferreri, 1995, décollage,matite colorate su carta,

cm 64x30

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Martino inforca gli occhiali e cominciaa leggere il testo mentre l’espressione diMargherita si fa sempre più dolorosamen-te risoluta.

MargheritaHo aperto la porta e vi ho visti abbrac-

ciati.Non avevo mai provato quello che si è

scatenato dentro di me, come un brividodalla pancia alla testa.

Ho cacciato un urlo, senza accorgerme-ne.

Tu, ti sei voltato e mi hai guardato conuna faccia, un’espressione che non so defi-nire. Lei è corsa subito in bagno nudacom’era, è passata vicino a me, e pensa chequel suo corpo così diverso dal mio –ancora oggi non sono riuscita a dimenti-carlo.

Mi si è ficcata nella testa quella figura:il suo seno abbondante, i capelli neri ericci, mentre io ero liscia e bionda.

Mi sono sentita annullata, cancellata,un niente.

MartinoNon so cosa sarei diventato senza di te.Non abbiamo più l’età per prendere la

vespa e fuggire sulla spiaggia di Rimini.MartinoL’ho trovato stamattina, riordinando..MargheritaLeggilo tu ...Martino«Chiediamo di essere sacerdoti e di

custodire il vostro tempio; e poiché abbia-mo vissuto in armonia, la medesima oraporti via tutti e due: che io non veda maiil sepolcro di mia moglie, né io sia sepoltoda lei».

Angelo Liberati,Brigitte Bardot, SophiaLoren e Sophie Marceau(a), 1995, décollage,inchiostri, matitecolorate, grafite, pastellie smalti su cartoncino,cm 240x35.

A destra: particolare.

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Quando scoccavano le sette di seraabbassava tutte le tapparelle e poitrasportava dal cortile una discre-

ta provvista di legna stagionata. PoiMartino si dirigeva verso la sua piccolabiblioteca ed estraeva con sicurezza, da unapila di libri un volume ben rilegato. Eranoi Promessi Sposi. A questo punto Martino eMargherita si sedevano attorno al tavoloper cenare. Il pasto era rapido e frugale.

Raramente, avevano qualcosa da dirsi.Mezz’ora dopo comodamente seduti sudue poltrone sistemate una in faccia all’al-tra. Poco distanti dal focolare, egli leggevaad alta voce un capitolo del romanzomanzoniano.

Martino aveva 74 anni. Era un uomodi altezza media che nella maturità si eraleggermente irrobustito. Aveva la fronte eil piglio duro. Ma conoscendolo bene ci siaccorgeva che in realtà era una personamite. Non era raro il caso che quando ifigli lo andavano a trovare, al momentodella loro partenza li accompagnasse allaporta con le lacrime agli occhi.

Margherita aveva 72 anni. Ancora oggiera una bella donna, esile e minuta, dagliocchi tristi. Spesso Margherita era costrettaa rimanere a letto. Accusava terribili emi-cranie, capogiri. E poi lei per carattere eraportata ad ingigantire ogni piccolo raffred-dore. A Margherita piaceva essere coccolata.

Mi fece pensare subito alla zia Leoniedi Proust.

Ecco che cosa si dissero in un giornospeciale della loro vita. Erano affacciati daun’oretta in terrazzo, quando Margheritacon il volto appoggiato sulla spalla diMartino gli disse: «Ti ricordi come cisiamo conosciuti?». «Siamo vecchi» mor-morò malinconicamente Martino.

Margherita proseguì: «Siamo un’ombrasbiadita di quello che eravamo». Martinol’interruppe seraficamente: «Che cosa vuoidire?». Margherita aggiunse con tonoserio: «Voglio dire che ero e sono innamo-rata di te, che mi piacevano i tuoi capelli,la tua intelligenza. Tu una volta mi haiconfidato che avevo attirato la tua atten-zione, perché ti era piaciuto il mio seno, lamia capigliatura corvina. Ora noi duesiamo altri, altre persone, differenti nonsolo fisicamente».

«Siamo saggi», disse Martino con iltono dello sberleffo misto alla nostalgia.Margherita l’abbracciò e gli sorrise e infi-ne concluse: «Non voglio separarmi date», asserì con una smorfia stampata in unvolto espressivo e al tempo stesso infantile.

Era un po’ di tempo che ambedue sisentivano turbati, angosciati. Ambeduepensavano con una certa insistenza allamorte.

Nelle prime ore del pomeriggio di unadomenica prese vita un proposito, cheseppure tragico essi agognavano con trepi-dazione.

soggetto

Lui e Lei(20 - 07 - ’89)

Fabrizio Derosas

Angelo Liberati,I giorni d’Europa,1991/94, colori acrilici,colori ad olio e smaltisu medium density cm198 x 198(particolare).

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Sono interminabili quelle domenichepomeriggio nelle quali non è possibile usci-re per la canicola del solleone, le strade sonovuote, solitarie, prive di vita. La domenicapomeriggio è un giorno irreale. È una gior-nata nella quale si sente con più gravità lasolitudine, la mancanza di solidarietà.

Tutti – tranne Martino e Margherita –lasciano la città.

Con un volume fievolissimo,Margherita disse: «Qualcuno ha detto chesuperati i 60 anni la vita è un maestro chenon ha più niente da insegnare».

Qualche istante dopo Martino si avviòverso il bagno. Si fece la barba con estre-ma cura. Subito dopo anche Margherita siritirò nella camera da letto. Ne uscì dueore dopo. Era elegantissima. Aveva i capel-li pettinati all’indietro, collo e mani ador-ne di gioielli. Per quell’occasione partico-lare aveva indossato l’abito bianco, l’abitoda sposa.

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Quando fece la sua comparsa in cuci-na, vide Martino intento a distendersi aterra. Ella non parlò. Ma quando si distesea fianco del marito accennò un sorriso.Seguì un lungo silenzio. Si baciarono. Epoi Martino disse: «Ovunque, tu sarai, làsarò anch’io». Lo ripeté pure Margherita.

A questo punto egli aprì il rubinettodel gas e attesero la fine.

Solo dopo diversi giorni si accorserodella nostra coppia. Nonostante il puzzoinsopportabile entrai a vederli. I due corpi– visto il calore estivo – erano in avanzatostato di decomposizione. Ma si potevanotare sulle labbra di Martino eMargherita un sorriso felice e sereno, cheneppure la freddezza della morte avevaalterato.

Apparentemente neppure la morte liaveva divisi.

Angelo Liberati,I giorni d’Europa,

1991/94, colori acrilici,colori ad olio e smalti

su medium density cm198 x 198

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cominciare? E pur considerando “veneran-da” la tradizione rimessa in auge daHeidegger, che proponeva di muoveredalla parola stessa o piuttosto dalla suaforma primitiva «scritta, per così dire, sul-l’atto di nascita della nostra propria storia»o dell’epoca attuale della storia universale,non può fare a meno di chiedersi se siadavvero necessario fare così e se la filosofiaqual è oggi continui davvero ad esseredeterminata dalle proprie origini, che inoccidente risalgono a circa due millenni emezzo or sono. Prima ancora di iniziare aparlarne, lo studioso si vede «posto dinan-zi a problemi immani, i quali inoltre pre-suppongono una certa idea della storiadella filosofia e della sua funzione».

Heidegger – sostiene Pomian – non sisarebbe certo sorpreso di sentirsi muoverel’obiezione circa un modo “circolare” diprocedere. Dato che egli stesso aveva pre-visto l’obiezione. Se l’interrogativo riguar-da l’essenza stessa della filosofia, se questointerrogativo nasce da un’esigenza profon-da e non è soltanto una domanda postatanto per avviare una conversazione, allorala filosofia in quanto filosofia deve essercidivenuta problematica. Se questo è vero, ladomanda che sorge immediatamentedopo è: in che misura ci è diventata pro-blematica la filosofia? E la prima conclu-sione è che siamo in grado di dirlo soltan-to se ci siamo già fatti un’idea della filosofia.Dunque è indispensabile sapere già checosa sia la filosofia. E stranamente o ineso-rabilmente ci ritroviamo spinti in un cir-colo vizioso. La filosofia stessa sembra esserecodesto circolo vizioso.

Heidegger, anche ammettendo la possi-bilità che non fosse o non sia possibiletrarsi fuori da questo circolo delle appa-

Solianasettembre 200733

«Atant de traverser desapparences…» era unascritta letta su un murodel Marais parigino, alla

fine degli anni Ottanta del secolo scorso,forse ormai cancellata dal muro o ricoper-ta dall’intonaco.

L’intero sforzo del pensiero umano dicomprendere la realtà per poterla trasfor-mare nel senso delle più grandi aspirazioniumane – che a volte i poeti definivanograndi illusioni e i visionari utopie – puòanche essere considerato un tentativo, chedura ormai da una trentina di secoli, diattraversare le apparenze e di pervenire allasostanza o all’essenza, alla verità delle cose.Ci hanno provato i filosofi e i cosiddettisaggi, ci provano ancora gli scienziati e icosiddetti ricercatori, ma nessuno di que-sti può pretendere o dirsi pienamente con-vinto di aver svelato interamente l’enigmadi questo mondo.

Alla fine del secolo XX gli storici e gliermeneuti della filosofia occidentale (datoche di quella orientale nulla sanno o quasitutto ignorano) ancora si interrogano:come parlare della filosofia? E uno deitrattati filosofici più noti di quello chemolti considerano se non il più grande,uno dei più importanti filosofi del secolodei fumi (o delle fumisterie) – MartinHeidegger, uno dei pochi, se non l’unico,che ancora osava affrontare l’enigma del-l’essere e del tempo – è intitolato, non acaso, “Che cos’è la filosofia” o “Che cosasignifica pensare”.

Uno dei più eminenti o accreditati sto-rici della filosofia occidentale, KrzysztofPomian, dovendo compilare un articolod’enciclopedia, affianca alla domandaun’altra domanda inevitabile: da dove

Filosofia delle Apparenzee Filosofia del Futuro

Manuel Furru

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renze, riteneva possibile «volgere il nostrosguardo sul circolo» ed era convinto che laparola greca originaria ci additasse la dire-zione.

Il significato primo e intrinseco dellaparola greca originaria è “amore della oper la sapienza”.

È un significato che sembra escludere ilplurale, dato che l’amore per la sapienza èunico e non si possono predicare tanti edifferenti amori per la sapienza. Anche se èpossibile che ognuno ami la sapienza o cer-chi di amarla a suo modo. Ma i filosofi suc-cessivi, soprattutto a partire dal rovescia-mento operato da Cartesio del «sono e per-ciò penso» (o sono in grado di pensare) nel«penso dunque sono» – che è come dire: senon fossi un essere dotato di mente pen-sante non sarei, in quanto non potrei pen-sare di essere – che si trattasse di costruttoridi sistemi mentali vasti o ristretti, di teoriefilosofiche o di semplici compilatori di trat-tati – hanno messo da parte il significatooriginario di filo-sofia, sostituendolo conquello di ricerca delle modalità e delle pro-cedure del sapere umano, cioè dell’animaledotato di mente. Più o meno convinti chela mente umana fosse il più alto e insupera-bile strumento emerso dall’evoluzione,raramente o quasi mai sono stati sfioratidall’idea che l’uomo potesse essere soltantoun essere di transizione e che ci fosse, nellepossibilità dell’evoluzione, qualcosa al disopra della mente, o diversi piani dellamente ai quali l’animale dotato di mentenon può o non può ancora elevarsi.

I filosofi detti spiritualisti o idealistihanno intravisto nello spirito qualcosa dipiù alto e più vasto della mente umana.Ma quasi sempre hanno posto lo Spirito aldi là della Materia e quindi al di là dellamente fatta di una materia più sottile mapur sempre materiale. E anche quando lascienza è arrivata a scoprire e a dimostrarecon il suo metodo e le sue procedurematematiche che la Materia altro non èche Energia, anche i filosofi spiritualistiesitano ad ammettere che l’Energia siaanche, intrinsecamente o essenzialmente,Intelligenza-Coscienza. A meno che que-sta Coscienza intelligente non sia concepi-ta come un Dio lontano ed estraneo alla

Materia. Difficilmente, un filosofo occi-dentale, riesce a concepire o ad accettareche la Materia non sia altro che la sostanzadello Spirito e che non ci sia separatezzafra spirito e materia in quanto entrambiaspetti di un’unica Realtà che è il Tutto.Che è poi l’idea fondamentale che sta allabase, come principio dimostrabile einconfutabile, della filosofia orientale, siadi quella cinese antica, che procede dal-l’intuizione o visione interiore del Taocome principio e origine del Tutto, sia diquella indiana antica e moderna che pro-cede dal Veda e si sviluppa nel Vedanta enelle Upanishad.

Il più grande (in assoluto) Poeta-filosofodell’India moderna – anche se non amavaessere definito un filosofo, pur ammetten-do di essersi occupato a lungo di filosofia –Aurobindo Ghoshe, noto come SriAurobindo, è anche il più grande e il piùautentico interprete degli antichi Veda,colui che ne ha svelato l’enigma nel suofondamentale trattato “Il segreto dei Veda”.

«I Veda – sostiene – sono la creazionedi una antica struttura mentale intuitiva esimbolica, alla quale la mente successivadell’uomo, – fortemente intellettualizzatae governata da un lato dall’idea razionale eda concezioni astratte, dall’altro dai fattidella vita e della materia accettati percome essi si presentano ai sensi ed all’in-telligenza, senza ricercare in essi alcunsignificato divino o mistico, abbandonan-dosi all’immaginazione come gioco dellacreatività estetica piuttosto che come pos-sibilità di apertura delle porte della verità,e confidando nei suoi suggerimenti soloquando essi sono confermati dalla ragioneo dall’esperienza fisica, esclusivamenteconsapevole di intuizioni prudentementeintellettualizzate e recalcitrante verso lamaggior parte delle altre, – è cresciutatotalmente estranea».

Se scomponiamo il passo evidenziandol’affermazione e l’inciso, la possiamo leg-gere così:

«C’è stata una antica struttura mentaleintuitiva e simbolica che ha prodotto, hacreato i Veda.

A questa antica struttura mentale lamente successiva dell’uomo è cresciutatotalmente estranea».

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L’inciso riassume o sintetizza le ragioni,le caratteristiche, le modalità e le procedu-re, che hanno accompagnato questa pro-gressiva estraniazione. Se le rielenchiamo,possiamo anche disporle in una somma dicategorie: intellettualizzazione, razionaliz-zazione basata su concezioni astratte, suidati apparenti dei sensi esteriori, immagi-nazione intesa come gioco della creativitàestetica, rinuncia alla ricerca della verità,quindi abbandono di ogni forma di amoreper il sapere, sperimentabilità basata esclu-sivamente sulle conferme razionali o dell’e-sperienza fisica, intuizionismo prudente-mente intellettualizzato, che tende semprea cristallizzare in una “teoria” le proprieintuizioni contrapponendole ad altre.L’elenco è essenziale e non esaustivo. E tut-tavia basta a convincerci che all’origine ealla base della “miseria”, della limitatezza,della pochezza, che in definitiva ha semprea che fare non solo con la presunzione maanche con l’ignoranza (compresa quelladetta crassa, o spessa) ci siano proprio que-ste caratteristiche o modalità del pensiero.

A nessun filosofo occidentale, ovvia-mente, né appartenente al secolo dei lumi,

né a quello dei successivi fuochi fatui,tanto meno a quello, appena trascorso maancora influente, dei fumi, è mai passataper la mente l’idea di tornare ai Vedacome all’origine della filosofia intesa comeamore del sapere e della sapienza. Tutt’alpiù, come in Heidegger, si trattava di tor-nare all’origine del concetto linguistico,del valore semantico del termine. I filosofioccidentali hanno semmai cercato di usci-re dal “circolo”, di non accettare l’idea delcircolo e di assumere un diverso puntod’avvio, senza dover retrocedere fino aiGreci. Scegliere una qualsiasi definizionedella filosofia, metterla magari a confron-to con altre in modo da determinare un“campo di ricerca”. Così da pervenire auna definizione che potesse apparire allamente chiara e precisa, come quella for-mulata, ad esempio, da Wittigenstein:

«La filosofia non è una delle scienzenaturali. La parola “filosofia” deve signifi-care qualcosa che sta sopra o sotto, nongià presso, le scienze naturali».

Il suo scopo può e deve essere solo la«chiarificazione dei pensieri». Poiché lafilosofia non è una dottrina ma un’attività.Un’opera filosofica consta essenzialmente

Bruno Pittau,La Gabbia II,tecnica mista 2003

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di illustrazioni. Il risultato della filosofianon sono delle “proposizioni filosofiche”,ma il “chiarirsi di proposizioni”.

Non si può dare a torto a Pomianquando afferma che, se ci si riflette sopra,questo passo pone tanti problemi quantesono le proposizioni. Arrivando all’ultima,si chiede in cosa consista la “chiarificazio-ne” delle proposizioni e se ci possa essereuna proposizione che chiarisca davvero(supposto che possa chiarire qualcosa) l’af-fermazione secondo cui «scopo della filo-sofia è solo la chiarificazione logica deipensieri».

Pomian si chiede anche se questadebba essere considerata soltanto la filoso-fia di Wittigenstein, che tende ad esclude-re dalla filosofia tutti gli altri modi di farefilosofia che non rientrano nei limiti “pro-positivi” da lui posti alla ricerca filosofica.Pomian dichiara di non voler muovereuna critica o di voler procedere a unaqualche confutazione del pensiero diWittigenstein. Si limita a dire, convinto didimostrarlo, che «la definizione wittigen-stainiana della filosofia può venire intesasoltanto a condizione che sia reinserita nelsuo contesto, ossia nell’insieme del suoTrattato logico-filosofico». Insomma, ladefinizione che Wittigenstein offre dellafilosofia “fa parte” della sua filosofia. Lostesso vale – aggiunge Pomian – per ladefinizione di Heidegger, così come perqualsiasi altra. La proposizione decisiva echiarificatrice di Pomian sembra essere laseguente:

«Insomma, ogni definizione della filo-sofia fa parte di una filosofia; ne è insiemeuna conseguenza e una giustificazione».

La conseguenza evidente è che ognidefinizione possibile «innalza al rango difilosofia una particolare filosofia», quelladel tale o tal altro pensatore; così facendo,essa espelle dalla sfera della filosofia, aper-tamente o implicitamente, tutte le altrefilosofie che non siano ad essa conformi.

Se si volesse parlare o scrivere di filoso-fia prendendo le mosse da una definizionesiffatta, ci si condannerebbe a parlare nondella filosofia, ma di alcune filosofie.Mettere in qualche modo d’accordo levarie definizioni proposte dai vari autoridi trattati o opere filosofiche diventa

impossibile. Dato che ognuna di esse sem-bra non avere nulla in comune con un’al-tra o con tutte le altre.

Ogni filosofo, argomenta ancoraPomian, decide lui, sovranamente, qualerisposta dare alla domanda “che cos’è lafilosofia?”. E rispondendo alla domandain modo tale da giustificare il propriomodo di procedere, cerca di acquisire iltitolo di filosofo. Sperando che l’accade-mia o il rinsecchito pubblico dei lettori ditesti che abbiano a che fare con la filosofiaglielo accrediti.

Diventa inevitabile chiedersi, come faPomian, se non sia ormai il caso di smet-tere di impiegare il termine “filosofia” ingenerale e di accompagnarlo sempre colnome proprio dell’autore di questa oquell’altra teoria filosofica. Quindi deci-dere di abbandonare l’idea stessa di unafilosofia di cui si possa parlare al singola-re, e rassegnarsi all’idea che esista e siasempre esistita solo una “pluralità irridu-cibile di filosofie”.

E tuttavia, per quanto diverse o diversi-ficate in “correnti”, “tendenze” o “posizio-ni” tutte codeste filosofie non sembranochiusa ognuna dentro la sua sfera esclusivae incomunicabile: in genere comunicanole une con le altre, e si scontrano anche osi contestano tra loro. Dunque i filosofi,anche se a malincuore od obtorto collo,sembrano riconoscersi reciprocamentecome “occupanti” (o tendenti ad occupa-re) uno stesso spazio. Lo storico della filo-sofia, o colui che intende occuparsi di filo-sofia, sembra concludere Pomian, dovreb-be allora limitarsi a scoprire i confini dellospazio occupato dalle varie contrastantifilosofie, dando per scontato che la speci-ficità della filosofia consiste proprio nelfatto che essa può realizzarsi solo in unapluralità di filosofie tra loro in conflitto.

«E bae e bogandhe atzola» avrebbe dettomio nonno, che di filosofia non si è maiinteressato se non di quella che, volgar-mente, può essere chiamata una semplice elimitata “filosofia contadina”, o se si vuoleanche “filosofia di luoghi comuni”: non èpossibile venire a capo della matassa.

Pomian non esclude la possibilità ditrovare parecchie soluzioni al problema. E

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sembra dare per scontato che ognuno èlibero di scegliere o di proporre la sua. Ilsuo tentativo, nel testo a cui facciamo rife-rimento, si basa sulla scelta di porsi all’e-sterno della filosofia cercando di arrivaread essa “per via indiretta”. Cominciando,o ricominciando, dalla domanda: qualisono gli oggetti che almeno un gruppofacente parte della nostra società riconoscecome oggetti esistenti o reali?

E da questa domanda prende le mossel’esposizione della sua personale filosofia,non trascurando di avvertire, fin dall’ini-zio:

«Finché manteniamo l’atteggiamentospontaneo, da tutti adottato nella vitaquotidiana, la pluralità di discorsi cheaffermano essere delle conoscenze non ci

turba. Eppure questi discorsi non sonosemplicemente diversi: sembrano essere, osono, in conflitto. Questo conflitto cicostringe ad abbandonare l’atteggiamentospontaneo e a domandarci se tutti glioggetti, che crediamo esistere, esistano; setutti i rapporti che pensiamo siano rap-porti con oggetti esistenti, lo siano davve-ro. Se tutti i discorsi, che affermano diessere dei saperi, siano dei saperi».

Insomma, per venir fuori da una “filo-sofia delle apparenze” – sembra direPomian, se l’interpretazione non è errata –per rispondere a queste domande “strane”non c’è altro modo, per colui che se lepone, se non quello di porsi, almeno ini-zialmente, al di fuori di tutti quei discorsi,in uno spazio vuoto.

Bruno Pittau,Dance at the Moon,tecnica mista 1995

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Pomian intende così dimostrare chetutte le filosofie rispondono a domande diquesto genere, e che filosofare significaappunto rispondere o cercare di risponde-re a domande di questo genere. Ma lanatura stessa di queste domande rendeimpossibile una risposta che possa venireaccolta all’unanimità da tutti i filosofi. Percui non resta che accettare il fatto che lafilosofia, per la sua stessa specificità, puòattuarsi solo come pluralità di filosofie. Laspecificità della filosofia dipende infatti daun certo tipo di domande, rispondendoalle quali essa si costituisce come filosofia,occupando una posizione rispetto a tutti idiscorsi che affermano o pretendono diessere dei saperi.

Non più filosofia come “amore delsapere” dunque; ma solo filosofia comeaffermazione/negazione di discorsi che siauto-propongono come saperi.

Per quanto riduttiva possa sembrare cisembra questa la migliore definizione pos-sibile di una filosofia delle apparenze.

È e sarà ineluttabilmente questa la filo-sofia del futuro?

Il Poeta-filosofo sunnominato (poetache si è occupato a lungo di filosofia,prima di immergersi quasi esclusivamentein un altro lavoro che potremmo chiamare“yoga integrale” di trasformazione delcorpo e delle cellule) nell’ultimo scrittosotto forma di messaggio, pubblicato coltitolo The Supramental Manifestation,sosteneva quanto segue:

«L’unica questione che, attraverso tuttele complicazioni, è poi la somma di tuttala filosofia, e attorno alla quale alla finegira tutta la ricerca umana, è il problemadi noi stessi: perché siamo qui e che cosasiamo, cosa c’è dietro di noi, prima di noi,e attorno a noi, e cosa dobbiamo fare dinoi stessi, dei nostri significati interiori edel mondo in cui viviamo».

Dato che per lui l’uomo è soltanto unessere di transizione di un processo evolu-tivo probabilmente infinito, alla domandasu cosa dobbiamo fare di noi stessi SriAurobindo rispondeva formulando unideale da porsi non in un lontano futuroma in un futuro che già fluisce nel presen-te: «una vita divina in un corpo divino».

Ma non si limitava a porre questo immen-so e ancora irraggiungibile ideale comeuna qualche profezia dell’oracolo delficoche dice e non dice. Prima ancora dirispondere ai dubbi poneva lui stesso ledomande: Che cosa sarà il corpo divino?Quale sarà la natura di questo corpo, lasua struttura, il principio del suo funzio-namento? Quale sarà la perfezione che lodistinguerà dalla fisicità limitata e imper-fetta nella quale siamo ora rinchiusi?Quali saranno le condizioni e le operazio-ni della sua vita, ancora fisica nella suabase sulla terra, che lo distinguerannocome divino?

La risposta alla quale tutte le altreseguono, con un argomentare da filosofopiù che da poeta, affidando quest’ultimoalla sua sintesi poetica più importante, ilpoema Savitri, è la domanda successiva:

«Se questo corpo dev’essere il prodotto,– ed è così che dobbiamo vederlo – diun’evoluzione che esca dalla nostra umanaignoranza e imperfezione per entrare inuna più grande verità dello spirito e dellanatura, attraverso quale procedimento oquali tappe esso potrebbe crescere fino amanifestarsi, o come potrebbe apparirerapidamente? Il procedere dell’evoluzionesulla terra finora è stato lento e tardivo.Quale principio deve intervenire perchéavvenga una trasformazione, un cambia-mento progressivo o improvviso?».

Nessun filosofo occidentale, o quasinessuno, fra quelli definiti da Pomiancome occupanti o aspiranti ad occupare lospazio che ancora si può chiamare filoso-fia, oserebbe porsi domande di questaportata. Se gli capitassero casualmentesotto gli occhi le considererebbe domande“fuori dello spazio consentito”, fuori dellaportata di una filosofia che deve limitarsialla definizione delle apparenze. Una filo-sofia che, fra l’altro, non ammette che sipossa parlare o ragionare o indagare anco-ra su dei “principî”, dato che tutti i princi-pi sono riducibili a semplice proposizioniindimostrabili dalla mente logico-raziona-le e dato che il linguaggio umano stesso èil limite che nessuno sforzo di andare oltrela fisica (ogni tentativo di formulare unameta-fisica) può o potrà mai varcare.L’essere umano così com’è (e non c’è

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motivo di pensare che nondebba arrivare ad estinguer-si così com’è, più o menocome già accadde ai dino-sauri) non dovrebbe neppu-re chiedersi che cosa ci sia(o se ci sia mai qualcosa)davanti a sé. Per essi, o perla grande maggioranza diessi, non si dà e non si puòneppure ipotizzare alcunafilosofia del futuro che nonsia un qualche indetermina-to o indeterminabile pro-lungamento del filosofaredel presente.

Per il filosofo Poeta SriAurobindo, «il fatto stessoche si sia giunti alla possibi-lità di questa trasformazioneè un risultato della nostraevoluzione».

I fondamenti e i presup-posti di questa verità evi-dente (che agli occhi deifilosofi occidentali puòanche apparire come unaproposizione indimostrabi-le) si può ritrovare nelle ori-gini della filosofia indiana,ben radicate in quella antica“struttura mentale intuitivae simbolica” che creò iVeda.

Non è per niente sor-prendente che in seguito iVeda siano diventati incom-prensibili “alle nostre mentitiranne” che considerandolinel loro aspetto linguistico più esteriore,anche per via dell’ostacolo di una linguaantica non pienamente compresa, hannoprodotto «le più inadeguate interpretazio-ni, per ridurre questa grande creazione diuna mente umana giovane e splendida auno scarabocchio pasticciato e mutilato, aun pot-pourri incoerente di assurdità diun’immaginazione primitiva, tesa a com-plicare ciò che altrimenti sarebbe l’assaisemplice, uniforme e comune testimo-nianza di una religione naturalistica cheavrebbe soltanto rispecchiato e solo poteva

servire i rozzi e materialistici desideri diuna barbara mentalità di vita».

Per l’idea scolastica e ritualistica deipreti indù e dei pandit (gli eruditi) i Vedadivennero niente di più che «un libro dimitologia e di cerimonie sacrificali». Dalloro canto, gli studiosi europei, ricercandoin essi solo ciò che era di un qualche inte-resse razionale – vale a dire la storia, i mitie le nozioni religiose popolari di una razzaprimitiva – «hanno fatto il torto peggioreai Veda e insistendo su una interpretazio-ne totalmente esteriore li hanno spogliati

Bruno Pittau,Preponderanza del rossomatita, acquerello 1992

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ancora di più del loro interesse spirituale edella loro bellezza e grandezza poetica».

Ovviamente così non poteva essere ecosì non era per i Rishi vedici, o «per igrandi veggenti e pensatori che li seguiro-no e svilupparono dalle loro intuizioniluminose e pregnanti una propria, meravi-gliosa struttura e un’esperienza senza pre-cedenti. I Veda furono per questi antichiveggenti il Mondo che scopriva la Verità,rivestendo di immagini e di simboli isignificati mistici [cioè segreti o più nasco-sti, o non immediatamente accessibili allamente di superficie] della vita».

Per Sri Aurobindo questa fu «uno sve-larsi della potenza della parola, della suamisteriosa capacità di rivelazione e di crea-zione»; ma non della parola dell’intelligen-za logica, razionale o estetica, alla qualenessuno, tanto meno lui, negava il suovalore specifico, semmai «quella di unaritmica espressione intuitiva e ispirata», diquel linguaggio poetico che nell’anticosanscrito era chiamato mantra.

Questo linguaggio ritmico-espressivo(che è poi il linguaggio della poesia, chericorre anche nei dialoghi filosofici degliantichi Greci) usava liberamente immagi-ni e miti, non come semplici orpelli del-l’immaginazione, ma come simboli, ovve-ro «parabole viventi di cose estremamentereali per chi le pronunciava e che nonpotevano trovare altrimenti la loro formaespressiva più intima e originale». Così,detto ancora poeticamente, «l’immagina-zione stessa diventava l’officiante sacro direaltà più grandi di quelle che incontranoe trattengono l’occhio e la mente limitatidalle suggestioni esterne della vita e del-l’esistenza materiale». Le apparenze,appunto, ovviamente quelle più esteriorie spesso secondarie, seppure non del tuttoinsignificanti.

Per gli antichi Rishi vedici il filosofoera nient’altro che il “poeta sacro” (il veg-gente, appunto, colui che ha gli occhi pervedere); ovvero «una mente visitata daqualche più alta luce e dalle sue forme diidea e parola, un veggente e un uditoredella Verità». Essi non vedevano affatto laloro funzione come se la immaginano glistudiosi moderni; non si consideravano

una sorta di stregoni o di santoni compo-sitori di inni e di formule magiche al ver-tice di una rozza e barbara tribù, ma veg-genti e pensatori. Ovvero poeti ispirati efilosofi amanti della verità, quindi cercato-ri del sapere che sta alla base di tutti isaperi. O che è la matrice e la culla di tuttii saperi possibili.

Ben lungi dal vedersi come semplicicatalogatori o chiarificatori di proposizio-ni, essi erano intimamente e profonda-mente convinti di possedere una alta veritàocculta da svelare. E per questo pretende-vano di essere i «latori di un linguaggioidoneo a una conoscenza divina», Per que-sto «parlarono esplicitamente delle loroforme espressive come di parole segreteche dichiarano il proprio significato pienosolo al veggente». Cioè al poeta-filosofo.

Per coloro che vennero subito dopo diloro i Veda erano ancora libri di conoscen-za, anzi proprio della conoscenza suprema,altrimenti detta verità, una «rivelazione,una grande espressione di verità eterna eimpersonale». Ma non di una veritàimmaginata o dogmatizzata dal teologo odal fondatore di una religione, o cristalliz-zata dalla gerarchia che si auto-proclamala continuatrice o il deposito autorizzatodella dottrina del fondatore o del vangeloche la ispira, salvo poi distorcerlo o fossi-lizzarlo nella lettera e nei significati, bensìdi qualcosa che i filosofi moderni nonsono neppure in grado di immaginare o diconcepire: «una grande espressione dieterna e impersonale verità vista e uditanell’esperienza interiore di pensatori ispi-rati e semidivini».

Questa che fu l’origine della filosofiapiù antica di cui ci restino le tracce saràanche, anzi è già la filosofia del futuro.Non sarà e non potrà mai essere unanuova religione, né di tipo confessionale eneppure di tipo laico, dato che non potràmai essere un coacervo di ideologie oideologismi, costruiti magari sulle premes-se di dieci o undici sofismi. Per il semplicefatto che il processo evolutivo ha resoormai obsoleto il tempo delle religioni.Adesso, diceva Mirra Alfassa detta Mère,la Madre, è tempo di cercatori.

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Le Upanishad – sostiene SriAurobindo – sono l’opera supre-ma della mente indiana, l’espres-sione più alta del suo genio, la

sua poesia più sublime, la più grande crea-zione del suo pensiero, la sua più altaespressione; non si tratta solo di un capo-lavoro letterario, ma di una vasta correntedi realizzazione spirituale1.

Sono allo stesso tempo i «documenti diuna filosofia rivelatrice e intuitiva, pene-trati da una luce, una potenza e una gran-dezza inesauribili» e «poemi spirituali diun’ispirazione assoluta, infallibile», dove leparole sono sempre giuste, il ritmo e l’e-spressione sempre ammirevoli.

Nelle Upanishad filosofia, religione epoesia costituiscono un tutto unico: lareligione tuttavia non sfocia mai in unculto e non è limitata da un intento etico-religioso, ma è piuttosto il tentativo di ele-varsi verso una scoperta infinita delDivino, del Sé, della realtà integrale piùalta del nostro essere e del nostro spirito,fondato su un’estasi di luminosaconoscenza. La filosofia delle Upanishadnon è una speculazione astratta e intellet-tuale sulla Verità e neppure un sistemaelaborato dall’intelletto logico, ma è «laverità vista, sentita, vissuta e ritenuta nelfondo della mente e dell’anima», espres-sione di una «gioia di certezza della sco-perta e della conquista». La poesia delleUpanishad è l’opera di una mente esteticache è ascesa al di sopra del suo abitualedominio per poter esprimere «la meravi-glia e la bellezza della più rara delle visioni

spirituali e la più profonda verità illumi-nata dell’io, di Dio e dell’universo»2.

Di solito questi caratteri fondanti edessenziali delle Upanishad vengono igno-rati o travisati dai traduttori stranieri, chesi limitano a cercarvi un “significato intel-lettuale” razionalizzabile, classificabile,archiviabile. Esse furono la sorgente di ungrande numero di filosofie e di religioniche hanno percorso l’India come i suoigrandi fiumi, fertilizzando la mente e lavita, mantenendo viva la loro anima nelcorso di una lunga successione di secoli.Anche se partivano da differenti punti divista, utilizzavano un altro linguaggio,usavano altre definizioni e altri ragiona-menti, anche il buddismo con le sue varieramificazioni sono stati una riaffermazio-ne di quelle esperienze, che hanno poicontribuito ad espandere negli altri conti-nenti.

Le idee delle Upanishad si ritrovano inlarga misura nel pensiero di Pitagora e diPlatone e costituiscono l’aspetto piùprofondo del neo-platonismo e dello gno-sticismo, che hanno influenzato conside-revolmente il pensiero occidentale; il sufi-smo sembra ripeterne la sostanza in unlinguaggio religioso differente. Buonaparte della metafisica tedesca è nella suasostanza uno sviluppo del loro insegna-mento, che aveva visto le “grandi realtà”da un punto di vista più spirituale. Lamentalità moderna, nelle sue correntimeno atrofizzate, si riapre alla loro poten-te influenza, talvolta in modo intenso.

La Fioritura dei Veda:Le Upanishad

Sri Aurobindo

1 SRI AUROBINDO, La litterature indienne – 2, in Les fondements de la culture indenne, Buchet/Chastel, Paris 1997.2 p. 358.

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Questo faceva presagire a Sri Aurobindo,già all’inizio del secolo XX, una «granderivoluzione nel pensiero filosofico e reli-gioso». Anche se a volte «esse filtranoattraverso ogni sorta di influenze distorte,a volte scorrono lentamente per vie direttee aperte».

Non c’è idea filosofica fondamentale dicui non si ritrovi l’origine, il seme o l’indi-cazione in queste antiche scritture. E ci siva rendendo conto che anche le vastegeneralizzazioni della scienza si applicano aleggi di natura che già furono scoperte daisaggi indiani, che ne avevano saputo vede-re il senso originale, il senso più vasto,nella verità più profonda dello spirito3.

E tuttavia non si tratta di “speculazioniintellettuali” – che mai avrebbero potutoattraversare i secoli – poiché i veggentinon si accontentavano di “pensare” laVerità ma volevano ed erano capaci di“contemplarla”, per poi rivestirla di ideeintuitive e immagini rivelatrici, che costi-tuivamo «un corpo di ideale trasparenzaattraverso il quale il nostro sguardo puòtuffarsi nell’illimitabile».

I veggenti delle Upanishad sondavanoogni cosa alla luce della “esistenza in sé”,la vedevano con l’occhio dell’Infinito, ed èper questo che le loro parole sono immor-tali, il loro significato è inesauribile e laloro autenticità irrefutabile. Le Upanishadsono il Vedanta, il libro che consolida unaconoscenza superiore anche a quella deiVeda, Conoscenza nel senso che l’India hadato a questa parola: Jñana. Una cono-scenza che non si limita a «pensare e pesa-re con la sola intelligenza, apprendere unamera forma mentale della verità» ma la«vede con l’anima, vive in essa totalmentecon tutta la potenza dell’essere interiore, lacoglie spiritualmente per una sorta diidentificazione con l’oggetto stesso dellaconoscenza». I veggenti delle Upanishadvolevano scoprire l’identità perfetta dell’ioche è in noi con l’Io universale che è inogni cosa, che è identico alla Divinità e alBrahman assoluto, Esistenza o Essere tra-scendente; e alla luce di questa visioneunica e unificatrice essi «contemplavano,sentivano, vivevano nel cuore stesso della

verità dell’esistenza interiore ed esteriorenell’uomo».

Le Upanishad sono «inni epici allaconoscenza del sé, alla conoscenza delmondo, alla conoscenza di Dio», sono«fiamme e lampi di illuminazione intuiti-va e rivelatrice», «visioni della Divinitàtrascendente, del Sé divino e universale»,di cui scoprono le relazioni con le cose e lecreature nell’immensità della sua manife-stazione cosmica. «Canti di conoscenzaispirata e di un’aspirazione e un’estasi cheè anche religiosa», ma senza quella “inten-sità ristretta” del sentimento religioso infe-riore. Trascendendo il culto in tutte leforme di devozione particolare, «esse sielevano fino all’Ananda», alla beatitudineuniversale del Divino, che l’uomo puòassaporare grazie alla prossimità e all’unio-ne con lo Spirito universale esistente in sé.Così il loro insegnamento va ben oltrequalsiasi “precetto etico”, ogni regolamentale di virtù: esso contiene infatti «l’i-deale supremo di un’azione spirituale fon-data sull’unione con Dio e con tutti gliesseri». Ed è proprio per questo che anchequando le forme vive del culto vedico siestinsero, le Upanishad ne preservarono lavitalità e il potere creatore, dando originealle grandi religioni devozionali dell’Indiae alla concezione del Dharma4.

Lo stile immaginifico delle Upanishadè ispirato in larga misura a quello delVeda, ne riprende spesso i simboli non-ché lo spirito e i metodi dell’antico sim-bolismo. Le Upanishad non si discostanodalla mentalità vedica e dalle sue ideefondamentali, ma le sviluppano, in uncerto senso allargandole e trasformando-le, per esprimere con immagini piùimmediatamente evidenti e illuminanticiò che era stato mantenuto come segretoe quindi “velato” nella lingua simbolicadel Veda. Quando noi riusciamo a pene-trarne il significato simbolico, scopriamoche si tratta di un significato profondo,«manifestato da un passaggio dalla cono-scenza psico-fisica alla conoscenza psico-spirituale». E anche se siamo abituati adutilizzare una terminologia più intellet-tuale, meno concreta e meno ricca di

3 Ivi, p. 59-60.4 Ivi, pp. 61-62.

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immagini, «queste esperienze permango-no valide per chi pratica lo yoga e risco-prono i segreti del nostro essere psico-fisico e psico-spirituale»5.

Le immagini del Veda e del Vedantasono diventate “estranee” alla mentalitàmoderna, che non crede più nella veritàvivente del simbolo: «intimidita dall’intel-letto, la nostra immaginazione rivelatricenon ha più il coraggio di accettare unavisione psichica e spirituale, di identificar-si in essa e di darle audacemente uncorpo». E tuttavia esse non hanno niente ache vedere con una sorta di «misticismoinfantile, primitivo e barbarico» che pureè stato loro attribuito. Il loro «linguaggiointuitivo vigoroso, vivo, luminosamentepoetico», è e resta per sempre «l’espressio-ne naturale di una cultura spirituale estre-mamente evoluta»6.

Le Upanishad in prosa ci mostranocome procedeva la mente indiana delleprime epoche, come utilizzava il simboloper poi trascenderlo e trovare l’espressioneconcreta del significato spirituale.

Per illustrare questo Sri Aurobindo sce-glie un passo tratto dalla PrashnaUpanishad sul potere e il significato dellasillaba Om.

«Questa sillaba Om, o Satyakama, è ilBrahman supremo ed è ugualmente ilBrahman inferiore. Così l’uomo di cono-scenza passa per questa dimora delBrahman, andando verso l’uno o versol’altro. E colui che medita sulla letteraunica ne riceve la conoscenza e prestodiviene un conquistatore sulla Terra.Allora questo i Riks lo portano verso ilmondo degli uomini e lì, divenuto perfet-to in Tapas, Brahmacharya e fede, egli hal’esperienza della grandezza dello Spirito.Ma non appena si realizza nella mente permezzo della doppia lettera, è condotto daiYajus verso il mondo di mezzo, verso ilmondo lunare di Soma. In questo mondodi Soma egli ha l’esperienza della maestàdello Spirito, poi ritorna. Ma colui cheper mezzo della triplice lettera, per mezzodi questa stessa sillaba Om, medita sulPurusha supremo, egli diventerà perfettonella luce che è il Sole. Così come il ser-pente rigetta la sua pelle, allo stesso modoegli è liberato dal peccato e dal male econdotto dai Sama verso il mondo diBrahman. Dopo questa densità di animeviventi, egli vede il più alto dei più altiPurusha, che riposa in questa dimora. Letre lettere afflitte dalla morte, ora le pro-nunce non più divise ma l’una all’altraunite, e in questo uso perfetto, l’azionedello spirito all’interno, all’esterno e nelmezzo diventa totale, e lo spirito sa, e nonne è turbato. Mediante i Riks noi raggiun-giamo questo mondo, mediante i Yaju ilmondo di mezzo, e mediante i Samanquello che i veggenti ci fanno conoscere.L’uomo di conoscenza va a Lui medianteOM, la sua dimora, e in verità fino allospirito supremo, che è calmo, senza età,senza paura, immortale»7.

I simboli di questo testo – commentaSri Aurobindo – ci restano oscuri; e tutta-via ci sono dei segni, delle indicazioni checonfermano il loro riferimento ad un’espe-rienza psichica che conduce a tre differentistadi della realizzazione spirituale: esterio-re, mentale, sovramentale. E infine, comefrutto di quest’ultima realizzazione, allostadio della più alta perfezione, all’azione

5 Ivi, p. 364.6 Ivi, p. 365.7 Ivi, p. 366.

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completa e integrale dell’essere nella calmaeternità dello Spirito immortale. In unafase successiva, nella MandukyaUpanishad, gli altri simboli vengono chia-riti e possiamo così penetrare nel cuorestesso del significato svelato. Il pensieromoderno è così messo in grado di risco-prire questo sapere col suo metodo moltodiverso, intellettuale, razionale e scientifi-co: a questo punto percepiamo che dietrole operazioni della nostra coscienza fisicaesteriore si svolgono le operazioni di un’al-tra coscienza subliminale, diversa eppureidentica, di cui la nostra mente è un fun-zionamento superficiale; ed è possibile cheal di sopra ci sia una sopra-coscienza spiri-tuale nella quale probabilmente potremoscoprire lo stato più alto e il segreto inte-grale del nostro essere. Studiando attenta-mente questo passo della PrashnaUpanishad ci accorgeremo che questacoscienza vi è già contenuta.

«Ritengo quindi che queste parole,come altre pronunciate dagli antichi saggi,per quanto la mente razionale possa sen-tirsi turbata dalla loro forma, non possonoessere rifiutate come un puerile mistici-smo, ma sono l’espressione immaginifica,naturale per la mentalità dell’epoca, diqualcosa che anche la ragione, con i suoiprocedimenti caratteristici, ci dimostraoggi nella loro verità: una verità per di piùprofonda, un sapere per di più reale»8.

Le Upanishad composte in versi man-tengono questo simbolismo intenso,vibrante, ma con un passo, diremmo, piùleggero e nell’insieme i loro versetti espri-mono apertamente ciò che l’altra ‘imma-gine’ si limitava a suggerire.

Le Upanishad abbondano di passaggiche sono poesia pura e filosofia spirituale,di una chiarezza e di una bellezza assolute,anche se quelle traduzioni che non nesanno captare le suggestioni e gli echi chefanno vibrare nei nostri sensi le parole e iritmi del sanscrito, non riescono a darenessuna idea della loro potenza e della

loro perfezione. In altri passi le verità psi-cologiche e filosofiche più sottili vengonoespresse con un potere supremo, senza chemai l’espressione poetica perda la sua asso-luta bellezza; si tratta di verità che diven-tano realtà per l’anima e per la mente, nondi semplici esposizioni intellettuali.Alcune Upanishad composte in prosa rea-lizzano un’arte della narrazione e una tra-dizione straordinariamente vive, in gradodi restituirci, anche se mediante brevi trat-ti, il quadro di quello straordinario risve-glio, di quella ricerca e di quella passionespirituali per la conoscenza suprema cheresero possibile la compilazione delleUpanishad stesse.

I Veda e le Upanishad non sono sol-tanto la sorgente della filosofia e dellareligione dell’India, ma anche di tutta lasua arte, della sua poesia e della sua lette-ratura.

Quest’anima, questo temperamento,questa mentalità e i loro concetti hannoaperto più tardi la via alle grandi filosofie,hanno edificato il Dharma, incarnato laloro giovinezza eroica nel Mahabharata enel Ramayana, si sono intellettualizzatinell’età classica della loro maturità, hannoprodigato alla scienza molte intuizioni ori-ginali, creato esperienze estetiche, vitali esensuali, hanno rinnovato la loro esperien-za psichica e spirituale nei Tantra e neiPurana. Sono quelle stesse che si sonoproiettate nella grandezza e nella bellezzadelle linee e dei colori di un’arte eccelsa,che hanno elaborato e colato i loro pensie-ri e le loro visioni nella pietra e nel bron-zo, per poi riversarsi nelle nuove vie diespressione aperte dalle lingue moderne.Sono sempre esse che dopo un periodo dieclissi riemergono di nuovo, oggi, identi-che nella loro diversità e pronte per unanuova vita e una nuova creazione9.

traduzione dal francese di Manuel Furru,revisione condotta sul testo inglese di Graziella Elia

8 Ivi, p. 367.9 Ivi, p. 370.

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Solianasettembre 200745

Antoni Canu,uno che vede i suoni

Antoni Canu è un poeta che, nelgergo letterario, qualcuno potreb-be definire naïf; non è cioè poeta

di “mestiere” (ma esiste o è mai esistito unmestiere di poeta?); ha scoperto la suavena (si dice, anche in sardo, sa musa) apiù di cinquant’anni suonati, trascorsi agirare al di qua e al di là del mare facendoil mestiere di aggiustatore tecnico, specia-lizzato in lavatrici.

Ad ennesima dimostrazione, se ce nefosse bisogno, che la poesia, come loSpirito, soffia dove, come e quando vuole.Ha partecipato a numerosi premi di poe-sia, vincendoli quasi tutti o ottenendolusinghieri riconoscimenti anche da com-petenti e rinomati degustatori di versi. Perlui, il concorso poetico, è solo un’occasio-ne per farsi un viaggio, visitare nuovi luo-ghi e conoscere persone che altrimentinon avrebbe modo di incontrare, neppurein veste di turista.

Alghero è la sua patria di elezione nelsenso più profondo che si può dare all’e-spressione: logudorese di Ozieri, che haaffinato la conoscenza dell’italiano attra-verso centinaia di letture fatte fra un inter-vento per rigenerare una pompa aspirantee un altro per sostituire un cestello, havoluto apprendere l’antico catalano cheormai parlano solo gli irriducibili e assimi-larne le linfe più segrete: quelle che appun-to alimentano la sorgente da cui scaturiscequel «canto di parole come una musica»che è la poesia per un poeta (o una molti-tudine di poeti) vagamente identificabilecol nome di Fernando Pessoa.

Dei versi di Pessoa, pur senza orec-chiarli né citarli, i canti di Antoni Canu

conservano quello che Yeats (irlandese,quindi isolano anche lui) chiamaval’«incanto» della poesia: un concetto checome quello indiano orientale di «dhvani»si può anche tentare di definire e di arti-colare con dotte evoluzioni, ma senzaaggiungere nulla a quel “silenzio” da cuideriva ogni autentica eloquenza.

I versi di Antoni Canu riescono, ognitanto, a sottrarre un po’ di musica al silen-zio, che è suono, vibrazione interiore.Soprattutto nella lingua originale, il catala-no di L’Alguer, che la nostàlgia la tiene «enla cambra, amb al costat... cent anys amb losbraços buits», e non «accanto... cent’anni conle braccia vuote». Per dire che ogni lingua,ogni dialetto, e ogni variante, ha i suoisuoni e le sue note e i suoi ritmi ed è daquesti che zampilla, in modi talvolta intra-ducibili, quel flusso che chiamiamo “poe-sia”. Anche quando molti, che la riduconoad un flusso indeterminato di pensieri esentimenti, non la riconoscono o nonsanno più riconoscerla come tale. Proprioperché la poesia vera, il “canto” degli anti-chi aèdi – se non si confonde l’ipnosi delleteorie con la semplice verità – è “al di là”sia dei pensieri che dei sentimenti: infattisuona e canta solo nella sfera della mentealta o “illuminata”, ma non dalle lampadeal neon delle vetrine e neppure dai proiet-tori editoriali o televisivi. Che quasi semprecostituiscono soltanto uno “schermo” postofra il cantore e l’ascoltatore del canto, dalquale filtrano soltanto i “rumori”, il fra-stuono inutile di tutto ciò che è insignifi-cante o carbonizzato, fossilizzato da secoli,anche se lo si spaccia per ultra-moderno opost-moderno: infatti è solo “post”.

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Solianasettembre 2007 46

Al di là di quel che ne pensano e nedicono certi “esperti” (che spesso sonosolo gli ossificatori e i bitumatori dellapoesia) tutto nasce da una “visione” delsuono in quella che i veri conoscitori chia-mano la “mente intuitiva”, dove la poesia,pur senza abitarvi, discende; e qui la visio-ne del suono diventa ascolto, quindi lin-guaggio che si condensa in figure chechiamiamo “versi”; è un linguaggio chenon ha bisogno di tante parole, come lamente ordinaria, separatrice e analizzante,e neppure di quell’andamento spesso ple-torico della mente detta “illuminata”. Lavirtù dell’intuizione è quella che suggeri-sce a Plotino la sintesi di tutti i cicli e glisforzi umani in una espressione di treparole, di cui due uguali: “Un volo dalSolo al Solo”.

I poeti sono dunque quella schierasempre più ristretta di esseri (nonostante iparnasi artificiali sovraffollati) che conti-nuano, nonostante gli artifici e le menzo-gne della cosiddetta “post-modernità”, adabitare il mondo, appunto, come dicevaHölderlin, “poeticamente”: misurando isuoni, e le parole.

Che cosa canta Antoni Canu? Canta ildolore, la nostalgia e la discordia “amar-ga”, ma anche il quarto di luna che dà vitaai «prats de llum» (i prati di luce) dove fio-riscono «les sillabes més lluminoses» da pie-gare alle forme del canto; canta l’attesadell’alba e i gabbiani che nella lingua d’e-lezione diventano «gavines que ullen l’ai-gua / en l’incerta claror/ del dia»; e cantasoprattutto i ricordi, dato che «sempre, c’èuna vecchia memoria che si muove in noi»(Satprem): scalette del paese d’origine,treni d’infanzia, parole sagge dei vecchi,gesti, come quelli di Xiu Antoni, lo nas-saiol, che aveva la sua casa nel Carrer delCarme, con le finestre spalancate e lìdavanti tesseva le sue «nasses de jonc / fillesde l’esperança / més fortes de la pena...».

Nelle sue «Paraules per un vell» il canto-re chiede al vecchio se potrà, nel tempo

del dolore, trovare conforto con i fram-menti dei ricordi (les miques dels records)quando l’angoscia monta «amb el cansar-sede la ment» (con lo stancarsi della mente).Trasposta in altro linguaggio una rispostapotrebbe essere: è proprio quando lamente si stanca, e l’ego miserello s’addor-menta, che anche il flusso dei ricordi sireimmerge nella sorgente; così cessa l’an-goscia e resta la serenità di chi si rendeconto semplicemente di “essere”. Ma que-sta è la “cerca” che la poesia di maniera (oalla moda) ha dismesso, forse fin daitempi in cui ha cessato d’essere “linguag-gio degli uccelli”, cioè degli angeli. E tut-tavia, ancora oggi, il poeta vero, qualun-que sia il mestiere praticato per sopravvi-vere, quando ha il coraggio di immergersinel fondo del suo pozzo di acqua chiara,riesce ancora a trarre suoni e vibrazioniche sovrastano il sottofondo dei rumoriassordanti della barbarie della macchina edella telematica. Anche quando il veicoloutilizzato è la lingua preziosamente con-servata da uno sparuto gruppo di felìbri (ipoeti che hanno salvato la linguad’Occitania, quella in cui è nata la poesiache diciamo, genericamente, “moderna”)in quella (quasi) intatta gemma mediterra-nea che è L’Alguer dei nostri sogni.

• La prima raccolta di versi di AntoniCanu è apparsa nel 1995 per i tipi delleEdicions del Sol di Alghero, col titolosemplice di Poesies (la pubblicazione, pre-sentata da Giulia Lanciani, è stata patroci-nata dalla Escola de Alguerés “PasqualScanu”).

• La seconda raccolta (Ediciones delSol) En l’arc dels dies (Nell’arco dei giorni)esce nel 2000, con i disegni di ManlioMasu e una pregevole introduzione diGiulia Lanciani.

• Fresca di stampa (luglio 2007) laterza raccolta, sempre per le Ediciones delSol, Nou Cant (Canto nuovo).

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Solianasettembre 200747

LA POESIA I L’ARADO

Les calandries voletejendamunt l’avançar de l’aradoque esfulla pàgines novesdespertant la poesia adormidaentre les ratelles dels solcsque se repeteixencon un joiòs argumentde obrir les cosciènciesamb la força dels versosque venen i venencom lo dentalque obri la terra

(2005)

PASQUA DE FLORS

Retornar de Figosamb l’olor de la terra en la pelli gaudir l’abraçadadels llençols frescos de bugadaAmb el fervor de la pasqua de florsvisitar els sepulcreson llampagaven les verdes plantesdel forment grillades sota els llitsen l’iglesia plenapenetrar el respir de l’encensa la preseència del ciri pasqualcom vestal dreta prop de l’altarabandonar-se al monòton fluirde les oracionsi al cant dels colomsque era en nosaltres

(2004)

LA POESIA E L’ARATRO

Le allodole volteggianosopra l’incedere dell’aratroche sfoglia pagine nuoverisvegliando la poesia sopitatra le righe dei solchiche si succedonocome un gioioso argomentod’aprire le coscienzecon la forza dei versiche vanno e vengonocome il vomereche apre la terra

PASCA DE FIORE

Ritornare da Figoscon l’odore della terra sulla pellee godere l’abbracciodelle lenzuola fresche di bucatoCol fervore de sa pasca de fiorevisitare i sepolcriin cui brillavano le verdi piantedel frumento germogliante sotto i lettinella chiesa gremitapenetrare il respiro dell’incensoal cospetto del cero pasqualecome vestale rittopresso l’altareabbandonarsi al monotono fluiredelle orazionie al canto delle colombeche era in noi

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LA SPERANZA

1Nel giardino dei lentischicoltiva la speranzamettila nel palmo della mano,offrila ai ventiche la portino nel più sperdutoovile della Barbagiadove possa fiorire tra le pietree la sua linfa, goccia dopo goccia,riempire il tempo chiaro.

2Lascia che il tuo cuoresi levidalla terra della malinconiae vadanella Valle dei Nuraghidove da millennila luce è incisa nella pietra,e gli uomini forgiano la speranzaper lottare con la morte.

3Tra le nuvoleirrompe il solecon la sua limpida allegriae assisti di nuovoalla festa della luceSignora di seta e sognoche invade l’animaper resistere alla sorte.

L’ESPERANÇA

1Al jardi dels llentisclescoltives l’esperança,posa-la al pam de la màdona-la als ventsque la portin al més llunyàcorral de la Barbagia,on pugui florir entres los pedresi la sua limfa, gota a gotaomplir el temps clar.

2Deixa que el teu cors’alcide la terra de la malenconiai vagien la Vall dels Nuracson de millenisla llum ès incidida a la pedra,i els hòmens forgen l’esperançaper lluitar amb la mort.

3Entre els nùvolsirrompre el solamb la sua limpida alegriai veus de noula festa de la llumSenyora de seda i somnique envaeix l’ànimaper resistir a la sort.

(2001)

testi in italiano: Antoni Canu

traduzione in spagnolo: Joan Armangué

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LA ESPERANZA

1En el jardin de lentiscoscultiva la esperanza,tómala con la palma de tu mano,échala al vientopara que la lleve al corralmás lejano de Barbagia,que florezca entre las piedrasy su linfa, gota a gota,llene el tiempo claro.

2Deja que tu corazónse levantede la tierra de la melancolìay vayaal Valle de los Nuraguesdonde la luz está gravada en la piedradesde hace siglosy los hombres forjan la esperanzapara luchar contra la muerte.

3Entre las nubesirrumpe el solcon su lìmpida alegrìa,y vuelves a verla fiesta de la luzSeñora de seda y sueñoque invade el almapara resistir ante el azar.

traducción de Joan Armangué

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Angelo Liberati, ZABRISKIE POINT, 1997, décollage, veline, colori acrilici e inchiostri su lastra di metallo, cm 43x63

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da La spina segreta

C’ è sempre almeno un filo di colpa anche nella cattiva sorte;non incolpare mai la fortuna, c’è sempre un filo di colpa

anche da parte tua (non ghettes gulpa mai a sa Fortuna; semperfilu bi hat de falta tua).

Antonio PigliaruLa salvezza dell’azione nell’etica barbaricina

Non era illusione il credere accresciutecostellazioni dopo viaggi spaziali e poistupori e parabole e leggende...un altro pianeta è ormai scopertoroteante nella sua ellittica solitudinee presto battezzato Sardegna.

Ma il mondo il mondo ha inizioe fine qui in questo limitaredi pietra mare cieloplenitudine di frontierache tutto più unisce dove più separaimmedicabilmente?

E non è forse insania travestirsi da eredidi una illibata Preistoriain questa pietra di Deloscagliata non sai piùda quale fionda d’insuperbito Iddionelle materne acque del mare non più mioal cui tonfo ancora s’allargano a rivedesolate gli anelli della tua lontananzadella mia vilipesa ànsima di cantoredove il reticolato delle stelle attonitecosì gelosamente custodisceil totem dell’umile pecorastordita dall’ululato del cane

Franco CoccoEden Calvario

Franco Cocco è nato aBuddusò (Sassari). Docentedi materie letterarie presso lescuole superiori, già distacca-to, dal Ministero del laPubblica Istruzione, per com-piti di ricerca letteraria e diformazione didattica pressol’Istituto di Filologia Modernadell’Università di Sassari.

Autore di varie raccolte dipoesie, ne ha fornito qualcheanticipazione su La FieraLetteraria, su La Grotta dellaVipera, su Thèlema, suSalpare.

Ha svolto attività di criticodi letteratura contemporaneacon saggi e recensioni su rivi-ste e giornali letterari, oltreche su La Grotta della Vipera,su Il ragguaglio librario e LaNuova Sardegna.

Ha pubblicato:• Pasolini, un mito dentro

lo scisma (1984) • Dovel’ombra di alloro – Poeti escrittori bilingui di Ozieri, dal1800 al 1986 (1987) • Ilsaggio linguistico letterarioL’isola immaginario d’arcipe-lago (1995) • La raccolta disaggi del Convegno sulFelibrismo, riguardante la lin-gua materna e la poesia diSardegna, L’amarezza leggia-dra della lingua (1997).

E le raccolte poetiche:La radice del pianto

(1995) finalista al Premioletterario Giuseppe Dessì nel1996 • L’arca del vento(1998) premio Dessì 1999• In nome del la pietra(1999) • Sos cantos de suentu bardaneri, (2001) rac-colta di poesie bilingui sardologudorese-italiano, premionazionale Lanciano – MarioSansone nel 2002.

Imminente la pubblicazio-ne di una raccolta dal titoloLa spina segreta di poesie inlingua italiana e di una raccol-ta in lingua sarda-logudorese,con traduzione in lingua italia-na, dal titolo Bijones de luna– Visioni lunari.

Sta per uscire una raccoltadi epigrammi, in lingua italia-na, dal titolo A fil di spada.

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quando ai caldi plenilunisi agita la torcia della volpee dall’otre d’un inquietodèmone si svincolano ventie più non sai se su scoglierefioriscono improvvisimandorli di spumain preludi d’effimere primavere?

Ma più del maestrales’impenna scalpitandol’ineffabile vento della faida

che ordisce altra bardanae ne sciabola l’animasucchiando anche il midollopiù mite di quello del sambuco(ahi dolce pretesto che adescavainfantili sfide con cerbottane...)dove il nuraghe intorno sparge mestoil suo ventaglio d’ombrae silenzi bisbiglianocon la noia del tempo.

Non era forse sognosperare affratellati in un’ansia di patriadentro il serraglio d’isola frotte d’uomini cupiancora incapestrati a un bandolo di sanguereciso da matassa sempre più rosicchiatada quel dente affilato a scheggia d’etnia?

Ahi l’eremitano disperso formicaiodi paesi agghindati nelle piazze in giubilo...e si rincorrono immote stagioni di costumiquando albeggiano notti ai lampi di settembreintanto che accordi di materne coralilingue ascolti appena emerse dalle piùprofonde millenarie gole e tremi a saperlegià scorie di cimeli che vanno alla derivaspumeggiando all’infranta musica dei dialetti.

Ma non è più follia esorcizzareriso di melagrana sulla bocca

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ammansita dal filtro dell’euforbiain questo Eden calvariodove digrigna denti anche il teschio di lunae oracoli di Parca si scrivono a carboneancora ancoralungo complici muri della Casa del Popoloo del Santo Patrono?

Proprio quidove sognano uomini con cuoredi colomba ramoscello d’ulivoscampato al diluvio?

I padri hanno adescatosulla rupe d’arcigna identitài figli esangui di speranzadistillando ebbrezza di chimeresono loro i padri anch’essi figlid’una stirpe d’eguali più diversieppure dolorosamente inconscid’altra più trafelata alteritàevocata da Soloni ispiratinel miraggio d’un deserto d’attesedove sorgono aurore di crepuscolo.

Ahi terra di Canaanreliquario d’esilio

dove imperversa mulinando occultovento di solitudinealito temerario che pure maledicotornato a risuonarel’epica del tuo dolore anticoe l’odissea d’una sottile angosciafiligranata di malinconiache ormai più non ti dicosopra ossari di roccesopra betili d’uominisopra una dissepolta stele di poetaistoriata con lampi di visioniche neppure la serastraziata dalla lamadorata dell’ultimo soleriesce a ricomporrein tumulo d’ombrain cenere d’oblio.

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nella pagina a fronte:Angelo Liberati – Sul Cinema, 1987,

décollage, inchiostri, collage, colori acrilici e colori adolio su cartoncino, cm 25 x 25

Bruno Pittau,Io sono tre,

matita, acquerello 1990«Forse non si è fatti per un solo io.Si ha torto a volercisi attenere.Pregiudizio dell’unità.

In una doppia, tripla, quadrupla vita, ci sisentirebbe maggiormente a proprio agio,meno rosi e paralizzati dal subconscioostile al conscio (ostilità degli altri iospogliati).La più grande fatica di una giornata e diuna vita potrebbe proprio essere dovutaallo sforzo, alla tensione necessaria perconservare uno stesso io attraverso letentazioni continue di cambiarlo».

Henri Michaux (Altrove)

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Solianasettembre 200755

Una mañana la fábrica no abrió elportón y nadie sabía por dóndeandaban los responsables. Los

despedidos se juntaron enfrente y gritaronsin que los recibieran; el último en aten-derlos fue un muchacho bien vestido quedijo pertenecer a un Banco y al otro díallegaron los uniformados a vigilar desdelos patrulleros. Lospolicías fingían suindiferencia detrásde gorras y metral-letas, algunos hastase entretuvieron aldesgaire haciendocostalear los cabal-los y dentro del barvolcaron algunabotella de cerveza yla electrónica delcombate espacial.Al mediodía el airecaliente se adheríaa las camisas abier-tas y aquietaba loscuerpos, y desde cuando la policía se llevóde los pelos a quiénes sostenían un cartel,– «el mejor negocio de los ricos es unapelea entre los pobres» – se había calmadoel griterío exaltado. Tanto que el oficial acargo salió del auto y se desperezó, provo-cativo, desafiando con su gesto a un mani-festante que caminaba por mitad de lacalle. Sin otra expresión cada uno tomócuenta del otro; ninguno de los dos apuróel paso y separados por media cuadraempezaron a verse la cara. El hombre traelas manos en su chaqueta de verano, unsudor liviano le cubre la piel y sin embar-go no detiene su andar cauteloso. Por ahíel policía se preguntó en una ráfaga por

qué ese imbécil no sale disparado pordonde vino, según haría cualquiera dandoel ejemplo. Pero no, en tanto el gentíoatempera cada sonido como si el silenciolos protegiera y se aquietaron los de acaballo, se alarga un instante inmodifica-ble, de sólido metal. El oficial está aco-stumbrado y cuando él dispare no sentirá

mucho ni poco;ese cabrón no lemeterá miedo y éldecidió hacerlosólo. Aunque ya noreciba ni el mur-mullo del gentío ydebería haberdesenfundado... Alotro las piernas lollevan sin sentirlo,bien sabe qué loespera si lo llevanal cuartel y si arrie-sga otro paso nopodrá usar el arma.Tal vez presienta

alguna imaginaria multitud que lo sostie-ne y su mano derecha, humedecida, calzaexacta en el puño del revólver. Nadie ten-dría esa decisión si no anduviera bienarmado, piensa el de uniforme y tensa elgrito de sacar tirando; el otro no era unchiquilín y gatilló sin mostrar el arma. Unfogonazo de humito blanco surgió de sucampera y el tipo corrió a perderse poruna calle del costado. Al silencio lo deshi-zo un hachazo de sirenas y el motor de lospatrulleros. Los despedidos contuvieronfrases de temor espeso entre las veredas dela fábrica y en aquel mediodía, el muertoresultó un policía de uniforme.

Duelo al solEduardo Persico

Eduardo Pérsico è nato aBanfield, in Argentina, evive a Lanús. Ha pubblicato:

1978. Crónicas del Aban-donado. Racconti. EditorMensaje. (Faja de Honor dela SADE)1982. Gardel Supo Reti-rarse a Tiempo. Romanzo.Ediciones Corregidor.1983. Resistencia Lunfarda.Poesie. Edit. Rueda.1986. El Olvido está enLibertad. Romanzo, Edito-rial Futuro.1989. De nuevo lejos deUppsala. Romanzo, BellEdiciones.1991. Un Mundo casi Feliz.Racconti e poesie. EdicionesTrilce.1993. Nadie Muere deAmor en Disneylandia.Romanzo. Beas Ediciones.(Premio Fondo Nacional delas Artes)1995. Cuentos con Mujeres.Beas Ediciones.1998. Madame Bovary erauna Buena Chica. Romanzo.Beas Ediciones2001. El Infierno de Rosell.Romanzo. Ediciones delLeopardo.2004. Lunfardo en el tangoy la poética popular. Saggioe glossario ProyectoEditorial, Ciudad Universita-ria de la UBA.Ha partecipato a:Fútbol a Puro Cuento,Ediciones Faro Verde;Escritores argentinos segúnellos mismos, redatto dallaINCCA de Colombia, daJoseph Vélez, della BaylorUniversity, USA;Cien sonetos Lunfardescos,Academia Porteña delLunfardo;Los que conocieron aBorges nos cuentan, Edito-rial Tres Haches.

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Solianasettembre 2007 56

Una mattina il portone della fab-brica rimase chiuso e nessunosapeva dove fossero i responsabili.

I licenziati si radunarono lì davanti egridarono perché li ricevessero; l’ultimo adascoltarli fu un giovanotto ben vestito chedisse di appartenere ad una Banca. Il gior-no dopo arrivarono i militari a vigilaredietro le autoblindo. I poliziotti si mostra-vano indifferenti dietro i berretti e lemitragliette, alcuni addirittura feceroaccostare i cavalli e se ne andarono al bar abere birra e a giocare a battaglie spaziali.

Verso mezzogiorno l’aria soffocantefaceva attaccare le camicie aperte e intor-pidiva i corpi, e quando la polizia levò dimezzo quelli che tenevano un cartello – «ilmiglior affare dei ricchi è la guerra frapoveri» – il gridare esaltato diventò sem-pre meno stridente. Tanto che l’ufficiale alcomando scese dall’auto e si stiracchiòaffrontando un dimostrante che cammi-nava in mezzo alla strada. Nessuno deidue diede retta all’altro, nessuno dei dueaffrettò il passo e arrivati a un mezzometro di distanza cominciarono a guar-darsi in faccia. L’uomo tiene le mani nellasua giacchetta estiva, la pelle coperta daun sudore leggero, continua a camminarelentamente. Probabilmente il poliziotto sidomandò d’un tratto perché quell’imbe-cille non se ne tornava alla svelta là dadove era venuto, come avrebbe fattochiunque, dando il buon esempio a qual-cun altro. Invece no, la ressa attutisce isuoni, come se il silenzio li proteggesse ecalmasse i prodi cavalieri; gli orologi dila-tano un istante immodificabile che nellamemoria diventerà di metallo.

L’ufficiale di polizia ci è abituato e sedovesse sparare non gli farà né caldo néfreddo. Nessuna paura di quel caprone edecise di farlo, ancorché non sentisse ilmormorio della strada e avrebbe già dovutosfoderare l’arma… Quell’altro, le gambe loportano senza accorgersene, sa bene cosa loaspetta se lo portano in caserma e se fa unaltro passo avanti non potrà più usare l’ar-ma. A volte avverte un’immaginaria molti-tudine che lo sostiene e la sua mano destra,umida di sudore, impugna saldamente ilrevolver. Nessuno si mostrerebbe così deci-so se non andasse in giro ben armato, pensaquello in uniforme, pronto ad estrarre e atirare; l’altro non era un ragazzetto e preméil grilletto senza mostrare l’arma. Una vam-pata di fumo bianco uscì dalla sua giubbaleggera e il tipo si affrettò a dileguarsi inuna strada laterale.

Il silenzio fu lacerato da uno stridore disirene e dal vigoroso rumore dei blindati. Ilicenziati si tennero dentro anche quellefrasi di paura spessa fra i sentieri della fab-brica, e a mezzogiorno fu appurato che ilmorto era un poliziotto in uniforme.

(traduzione di Mimmo Bua,revisione di Francesca Falchi)

Duello al soleEduardo Persico

Eduardo Persico con Borges.

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Voi credete di avere un lungo riposo fino alla rinascita: non illudetevi!Tra l’ultimo attimo della coscienza e il primo raggio della nuova vita

non si situa «il tempo» – ciò passa rapido come il fulmine, anche se le crea-ture viventi potessero misurare per bilioni di anni, e anche se non potesseroneppure misurare.L’assenza di tempo e la successione sono compatibili, non appena sia toltodi mezzo l’intelletto!

F. NIETZSCHE

GAIA SCIENZA – Frammenti postumi Estate-Autunno 1881 – 11 (37)

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Erano gli ultimi dolcissimi raggi disole di un pomeriggio di ottobrenell’aula di Giustizia del tribunale

di Bähàll ’L Kàbhüll. Tonio era assorto diindefinito struggimento nostalgico... fissa-va il pulviscolo agitarsi sotto la luce aran-cio-violetta e spandersi in alto, ad inonda-re la volta verde di Allah.

L’avvocato Jallàjhäktàr si alzò improvvi-samente in piedi e lesse velocemente unabreve dichiarazione di cui Tonio non capìassolutamente nulla, poi divenne più con-citato e tenne un discorso pieno di ululati esuoni aspirati, infine chinò il capo, indicòTonio e disse qualcosa che suonava come«Khied hel minimum dhe hlà pëhéna...».

Tonio mise a fuoco con molta fatica ilvolto del giudice, o meglio dovette prova-re infinite volte ad assestarne l’immagine...A momenti sembrava signor Venanzio, ilbarbiere di piazza Carlo Alberto, poidiventava zio Pietrino che lo guardavaserio e cattivo... adesso era diventato unpergolato di pervinche, mille fiori azzurri-ni che sbocciano l’uno sull’altro e avvolgo-no una figura gesticolante... Il giudice?

Tonio rimaneva affascinato dalle stupe-facenti metamorfosi... osservava il perfetto

sincronismo tra le emissioni sonore dellafigura sullo scranno e le sue repentine tra-sformazioni... Bastava una pausa dellavoce, per quanto breve, che il giudicediventasse innegabilmente il signorVenanzio... ma altrettanto istantaneamen-te, al riprendere del flusso verboso il giu-dice assumeva forme incongrue, si dilata-va, si contraeva, pulsava...

Breve pausa a effetto – il giudice si sta-bilizzò nella sua propria figura edomandò: «Sìêeth kulphêevhöol? Khümvhé dêchiéréte?».

«Eh? – disse Tonio trattenendo le risatefino alle lacrime – Non so? Che? Io noncapire la lingua di voi... Deve esserci erro-re... io non capire... voi capire?».

Il volto del giudice si irrigidì in unasmorfia di disprezzo... si pietrificò in sca-glie di roccia e pronunciò la sentenza: «Elmalhèdìtt infedhèl shìa dahànnahàto ahàl-la pëhéna dehé mhùehérte mehédiànttihìmpihìccàjòhon!».

Dalla folla si levò possente l’urloALLAH O AKBAR!!! E subito inni diguerra e slogan contro l’Occidente, gli ita-liani, Tonio.

La Casa dei MondiBruno Pittau

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§

Si risvegliò due giorni dopo nell’infer-meria del carcere di sicurezza assoluta “ElSehépulchro”. Si guardò attorno e cercò diricostruire dove fosse finito e per qualivicende.

Ma tutto si fermava a quando eraentrato nell’infame taverna di Saied aBähàll ’L Kàbhüll... dove si era vantato,folle sconsideratezza, di poter “reggere”qualunque dose d’hascisc, compreso unsinistro intruglio di “Sbàhällö dehèlDiähàblo” e “Inchübo Mörthàl”.

Nient’altro, nessun ricordo più recente.E questa era certamente la corsia di un

ospedale, per quanto scalcinato e, curiosa-mente, con gli ammalati incatenati allabranda... Quest’ultimo particolare lo fecetrasalire, cercò di sollevarsi sul letto maavvertì lancinante il fine corsa del braccia-letto stretto ai polsi.

«Aiu... Aiut...» strillò Tonio tirando lecatene.

«Hey! Amigo! – gli fece un marocchinonel letto accanto – Tu conviene que starecalmo o loro molto ingazzare... e loro guan-do ingazzare bogo o niende sgherzare...».

«Chi amigo? – trasalì Tonio scorgendoil marocchino – Dove siamo? Perchésiamo incatenati?».

«Shhhh – sibilò il marocchino – Eggoghe loro vengono...».

«Loro» erano uno che sembrava unmedico e un altro che era un poliziotto.Quest’ultimo si piazzò al capezzale diTonio, mentre quello che sembrava unmedico si fermò ai piedi del letto, si acceseuna sigaretta e chiese «Come vi sentite?».

«Come? – balbettò Tonio – Come? Visentite? Chiii?».

«State calmo... – riprese affabile quelloche sembrava un medico – Ricordate dovevi trovate e perché ci siete finito?».

«Ah! – esclamò Tonio – Ma lei... leiparla italiano...».

«L’avete scampata bella... A pezzettinivolevano farvi... ma alla fine le guardiehanno disperso la folla ed eccovi qua,ancora tutto intero...».

«A pezzettini? E perché?».«C’era l’ordine di impedire il linciag-

gio... – commentò quello che sembrava

un medico – tuttavia qualche scalmanatoriesce sempre ad assestare qualche basto-nata al condannato...».

«Al condannato?» si incuriosì Tonio.«Purtroppo... – continuò il medico –

non siamo autorizzati a curarvi le ferite ené lenirvi le sofferenze... gli anesteticisono razionati e riservati ai membri delpartito islamico».

«Ma...».«Solo nei casi di effettiva necessità... –

recitò il medico – è prescrivibile al con-dannato una terapia di sedativi oquant’altro possa indebolire la consapevo-lezza della colpa e della sorte che lo atten-de... In particolare si dovrà intervenireunicamente nei casi in cui lo stimolodoloroso, anziché acuire e tener desta lacoscienza, sia talmente intenso da com-promettere esso stesso la coscienza...».

Tonio non sapeva se ridere, piangere,incazzarsi o fuggire... Ma non gli diederoil tempo di capirlo, il “medico” si congedòbruscamente: «Le mando Jensur, il cancel-liere... non si preoccupi, parla italiano e lespiegherà tutto».

Jensur parlava un italiano approssima-tivo e confondeva essere con avere, ma riu-scì ugualmente a spiegare a Tonio che erastato condannato a morte per trafficointernazionale di stupefacenti.

«No... un momento...» balbettavaTonio.

«Tu essere con di voi bagagli de valigiela droghe...».

«No... un momento... CHE droghe?CHI droghe? Due spinellucci al massi-mo...» disse Tonio sempre più sconvolto.

«No due spinellucci al massimo... –rispose Jensur – ma oppio... molto dioppio... più molto di due spinellucci almassimo...».

«No... un momento... ci dev’essere unerrore...».

«No errore... tutti testimoni... tuttiessere visti voi con molto di oppio quevaligi pieni... italiani più molti di oppio!italiani contrabbanda tutto!».

«No... un momento... – balbettò Tonioterrorizzato e incazzato – CHE italiani?CHI italiani? Qui si generalizza!... Iovoglio l’ambasciatore! Io voglio l’avvocato!Io voglio...».

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«Tu avere già processato e tu esserecondanna di morto a tribunale... no nien-te possibili di voi ambasciati... che lui noiessere arrestato di sedizione antiislami-ca...» rispose Jensur.

«No... un momento... – balbettò Toniogià in pieno panico – Io sono italiano manon c’entro nulla... non ho fatto nulla...due canne... ho preso due canne e me lesono fumate, che traffico? chi traffico?».

«Tu traffico! Italiano traffico!Occidente traffico! Tutti traffico controNazione Islam!».

«No ma guardi che io non c’entro conl’Occidente... – dichiarò Tonio terrorizza-to – Si figuri che sono sardo e noi delMediterraneo siamo da considerarci aparte...».

«Ah! – rise per la prima volta Jensur –Tu diverte... Me sincero a dispiacere tumorto... Ma Occidente con tu essere diavvisata! No di ingerenze in NazioneIslam!».

«Sì, sì... sì... sì... glielo giuro... unmomento... mi creda... ho capito che lacolpa è dell’Occidente... ma io...» farfugliòTonio disperato.

«Tu traffico... – rispose Jensur ritornan-do serio – tu giusta condanna...».

«No ma... – fece ancora Tonio – chigiusta condanna? dove giusta condanna?chi condanna? ...».

Ma per Jensur l’argomento era ormaichiuso, disse alla guardia qualcosa chesuonava come «Jàhahälläarg! Tzch! Tzch!Tzch! Yahàllähàllaarg!» e si allontanò nelcorridoio.

§

Certo, una condanna a morte è dura damandar giù... ma a Tonio non diedero iltempo di starci troppo a pensare... Doponeanche un’ora vennero a prenderlo.Quattro fucilieri di Allah si piazzaronosulla porta e una specie di prete intonòuna litanìa che era la lettura della sentenza.

Tonio non ebbe dunque il tempo dipiangere e implorare... nessuno gli chiesese avesse un ultimo desiderio o se volessemandare una lettera a casa... gli legaronopolsi e caviglie, gli misero un cappuccionero in testa e via sulla forca.

L’esecuzione avvenne rapida e precisaper mano di Kahàl El Tahàmal, espertostrangolatore che in mancanza di meglioarrotondava da boia impiccatore, e Tonionon poté lamentare nessuna particolaremancanza di riguardo.

«È fatta... – digrignò Tonio in quellampo che si dice illumini l’intera vita tra-scorsa – questa vita è andata...» e imma-ginò di estinguersi nei pochi spasmi delleultime sensazioni... dormire un sonnosenza sogni e chi lo sa, svegliarsi nuova-mente un giorno in chissà quale mondo avivere chissà quale vita.

E infatti, come la mente di Toniodivenne un vuoto circuito disattivato... inquel medesimo istante del 307 a.C. quellastessa vita ricomparve in Manciuria, sottole spoglie di Thèñg Näñg Cïùøüñg, visponeonato incarnato nella stirpe dei TalBahàl Thél Thäl y Sheng Na Tà Ràhähàl.

Ma qualcosa non andò per il verso giu-sto... Una volta ogni tremila eoni puòverificarsi una straordinaria esitazione...

Tonio osservava perplesso il propriomanichino penzolare dalla forca e con-temporaneamente strillava dalla culla divimini in Manciuria nel 307 a.C.

§

Zürl Tschnnji-Ji indossò la specialetuta protettiva e si inoltrò nella sala dei“Mondi protetti”.

Attraversò la stanza di decontaminazio-ne e si diresse alla sua postazione di lavo-ro: «Unità di controllo 102, qui il 1°addetto Zürl Tschnnji-Ji, prendo servi-zio».

«Ricevuto Unità di controllo 102, latua scheda rimarrà operativa fino all’ora16 del prossimo ciclo standard, vegliaattento, veglia bene».

«Ricevuto...».Zürl Tschnnji-Ji con un impulso del

pensiero chiuse l’interfono e dispiegò ungiornale sportivo sulla consolle del quadrocomandi.

«Sì, veglia attento... veglia bene... –borbottò scorrendo le classifiche dei cam-pionati di vento astrale – quando la smet-teranno con questi stupidi ammonimenti?

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Qui è tutto talmente predeterminato chemi chiedo cosa ci stiamo a fare noi, sem-plici operatori di controllo, a schiacciareun pulsante verde quando si accende unaluce rossa...».

La sua squadra preferita, i Trijillijirrø,una formazione del Braccio Ovest, nonavevano disputato l’incontro... Difficoltàtecniche, spiegava l’articolo, le vele astralierano incappate in una tempesta di meteo-riti e uno dei giocatori era stato raccoltosemiassiderato nell’orbita di Orione IV.

«Non è più come una volta... – com-mentò Zürl – Ai miei tempi, quando gio-cavano i Kalamàr... Ci voleva ben altroche quattro meteoriti...».

Con un impulso del pensiero appallot-tolò il giornale... lo scaraventò in un ango-lo, sopra una pila di documenti immate-riali.

«Ecco, bravo, ritorna fra i mondi possi-bili, ma adesso vattene alla mia presenza».

Le cataste di documenti immaterialiincorniciavano il bordo inferiore dellaparete di monitoraggio.

Forse fu per questo che Zürl Tschnnji-Ji non vide subito il segnale di “indebitatransustanziazione” lampeggiare dietrouna pila di documenti immateriali.

«Ma che cazzo... – borbottò senza capi-re bene – indebita... indebita transustan-ziazione...».

Ma era inutile controllare, ordinarecheck-up e procedure di verifica, il regola-mento parlava chiaro, anche nella remotapossibilità di una tale evenienza, probabi-listicamente irrilevante, bisognava porreimmediatamente in atto la procedura 9...

«Centrale... Centrale... qui Unità dicontrollo 102, 1° addetto Zürl Tschnnji-Ji... Procedura nove, ripeto, proceduranove...».

«Qui Centrale, chiediamo conferma:procedura nove in atto?».

«Procedura nove, confermo, proceduranove...».

La Centrale sembrò esitare, quasi che isuoi circuiti fossero restii dall’attivare inu-suali connessioni. Tuttavia la proceduranove parlava chiaro: bisognava fare così ecosì, bastava consultare il manuale e si tro-vavano le risposte. Niente era stato lascia-to all’imponderabile o all’improbabile,

tutto era previsto, predeterminato e circo-scritto. Niente poteva evolversi oltre que-ste misure.

«Qui Centrale... – riprese l’interfono –Si segnala grave anomalia “sospetta” nellavasca TCH 56, settore Spazio 14, TempoAH7; il livello delle transustanziazionieccede di 87 cicli la soglia di ricarica...Urge immediato intervento manuale...Urge immediato intervento manuale...Urge immediato...».

«Merda... lo sapevo che finiva così...»sbottò Zürl Tschnnji-Ji infilandosi nellacabina di decontaminazione n. 1. E cosìvia per una dozzina di stazioni decontami-nanti finché Zürl Tschnnji-Ji emerse nellaGrande Sala dei Mondi.

Innanzitutto doveva individuare la cabi-na di controllo secondaria, comporre icodici di emergenza e attivare i circuitisecondari. Insomma, un bel casino per unoche non l’aveva mai fatto e che l’aveva stu-diato a casaccio nelle svogliate lezioni sugli“stati di emergenza rari e anomali”...Comunque Zürl Tschnnji-Ji non era tipoda perdersi d’animo, bestemmiava e male-diceva ma faceva il suo dovere meglio chepoteva. E dopo tutto questo era il primointervento manuale che affrontava in tuttala sua carriera di addetto di controllo... nonpoteva lamentarsi, in vent’anni il suo lavorosi era limitato a recitare due formule all’in-terfono e vigilare che niente succedesse.

«Però adesso il casino è successo... –rabbrividì Zürl Tschnnji-Ji – Bisogna tro-vare quella maledetta cabina in fretta... sele transustanziazioni si mischiano all’at-mosfera della Grande Sala dei Mondi...No, non voglio neanche pensarci...».

Trovare la cabina non fu agevole, erapraticamente sepolta sotto tralicci e impal-cature da costruzione. Gli imbianchini diinnumerevoli eoni addietro avevano acca-tastato pile di recipienti di colore e cartonidi tutte le misure.

Sotto un foglio di masonite si trovò ilPannello di controllo.

Si leggeva benissimo la targhetta delfabbricante: mod. 101 – garantito100.000 eoni.

«Sì, col cazzo... – sbottò Zürl Tschnnji-Ji – Sentirete il rapporto che invieròall’Ufficio Manutenzione...».

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I codici d’emergenza funzionavano, icircuiti secondari si attivarono immediata-mente e l’ordine venne ricostituito.

«Va bene... – si rinfrancò ZürlTschnnji-Ji – Quel che si doveva fare èstato fatto...» le procedure erano assolte enessun rimprovero gli poteva venire. Manon poté reprimere un brivido al pensierodi una transustanziazione incontrollata.

Certo, tra l’allarme e la chiamata allaCentrale, indossare la tuta, attraversare lestazioni decontaminanti, individuare lacabina di controllo e attivare i circuitisecondari erano trascorse 193 unità tem-porali standard.

Un tempo relativamente breve per ZürlTschnnji-Ji... e chissà, per gli infinitimondi immersi nelle vasche, quanto rela-tivamente lungo...

E in ogni caso, lungo o corto che dir sivoglia, era stato sufficiente ad alterare iconfini delle transustanziazioni? Ovvero,si domandava Zürl Tschnnji-Ji con vagaapprensione, era forse accaduto che qual-che creatura partecipasse e invadesse ilmondo del creatore? Finora una simileevenienza era considerata una speculazio-ne senza significato: ogni “Al-di-là” è perdefinizione inaccessibile, Sherlock Holmese Conan Doyle non dovranno MAIincontrarsi.

§

Tonio, o meglio, un informe turbinosovorticare di molecole in riassemblamento,protese attorno i suoi nuovi sconosciutisensi.

Bruno Pittau, Eye,tecnica mistarielaborata al computer,1998

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Non è chiaro il “meccanismo” di que-sto fatto, ma l’Occhio seppe darsi la formaadatta alla sua funzione. Forse in un solorapidissimo istante le provò tutte e assunsela prima combinazione appropriata. Nonc’era un migliore possibile, non c’era l’e-voluzione intesa come progressione versoun fine ultimo. E, oltrettutto, in questadimensione la vita diventava ardua dadistinguere. I nuovi sensi di Tonio loavvertirono immediatamente, ma dovettetradurselo nelle sue anteriori classificazio-ni: quello era un mondo di silicio.

«È dunque questa l’Eternità? È questoil riposo prima della rinascita? No, deveesserci qualcosa di sbagliato...».

Ancòra protese nuovi e sconosciutisensi all’esplorazione del “mondo” e prestoimparò a distinguere se stesso dall’am-biente esterno.

Si rese conto di volteggiare in un ele-mento gassoso, un’atmosfera densa enubiforme. Più o meno come le medusesvolazzava, planava, si librava in unmondo dove non avrebbe dovuto essere.

Ormai era chiaro che la sua nuova formamateriale risuonava su frequenze molto piùelevate della precedente “forma pesante”. Etuttavia non aveva raggiunto la trasparenza,qualcosa di indefinibilmente solido lo trat-teneva e lo esponeva agli influssi della mate-ria e all’illusione del tempo.

Già, il tempo... Tonio ne dovette adat-tare la sensazione allo scorrere di questonuovo mondo ovattato e nebuloso.

Finché, dopo un tempo indefinibile,iniziò a ravvisare lontani ostacoli... forse ilpavimento, forse una parete, forse la voltadi un cielo che non era infinito.

No, ormai distingueva persino le mat-tonelle. Era un pavimento. C’era persinoun omino che faceva le pulizie con lascopa, il secchio e lo straccio...

Planando lieve Tonio mise a fuoco idettagli. L’omino stava lustrando unagrande cupola di materiale trasparente e sicapiva che era contrariato per qualcosa,borbottava e imprecava e malediceva, macontinuava a svolgere lo sgradito compito.

«Lo sapevo... – sbraitava ZürlTschnnji-Ji – i mondi vanno in malora ma

la manutenzione deve fare le sue battagliesindacali e un semplice addetto al control-lo si ritrova a svolgere mansioni che nongli competono... Ma questa volta dovran-no sentirmi, cazzo! se mi dovranno senti-re...».

Spruzzò una specie di “Vetril” sullacupola e dissipò uno spesso strato di pol-vere.

«Per forza... – riprese Zürl Tschnnji-Ji– non prende mai luce... sfido io che suc-cedono i casini... – poi, osservando leragnatele che avvolgevano la centralina dialimentazione secondaria commentò sem-pre più rancoroso – e quando salterà tuttoin aria per un corto circuito non potrannodire che è stata colpa mia!».

Ormai la cupola era quasi completa-mente liberata dalla polvere di infinitieoni e risplendeva sotto luci dallo spettrovioletto... Con una virata e planando rav-vicinato Tonio osservò il mondo sotto lacupola e riconobbe il profilo dell’Europa edell’Africa... l’India risultava un po’ alladeriva e il Sud America si congiungevaall’Antartide, ma nel complesso era il suomondo, il suo pianeta. Ma per esempio laluna, si vedeva benissimo, era un artefattoben dipinto sopra falsi cieli.

Tonio non capì se sentirsi deluso o illu-minato di sconvolgente rivelazione.Dopotutto questo poteva benissimo esserel’inferno di un incubo crudele, oppurel’anticamera del paradiso.

Fu in quel momento che una stranacorrente d’aria fece voltare Zürl Tschnnji-Ji e il suo sguardo incrociò quello diTonio.

Zürl Tschnnji-Ji, nonostante le sue con-getture e vaghe apprensioni, non era pre-parato a quell’incontro. Tonio non avevaforma che i sensi di Zürl potessero afferra-re... soltanto lo sguardo, la forma-occhioche tanta inquietudine assale nei primati,emergeva dalla materia in dilatazione.

Zürl Tschnnji-Ji trasalì stupefatto eimmobilizzato di terrore. Abbandonò ilsecchio, lasciò andare la scopa e si accasciòesanime mormorando «mio Dio... mioDio...».

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Somiglianza, amicizia... Un’endiadicerto suggestiva nella sua concentra-zione estrema. Sulla cui “verità”, tut-

tavia, per il tempo che la nostra amicizia èdurata, mai ho sentito il bisogno di for-mulare domande. Di interrogarmi.Eravamo “in qualche modo” simili?

Ho accolto l’amicizia di Gianni comesi accoglie un dono discreto. E discreta-mente l’ho anche costeggiata: senza inva-dere, senza profanare. Limitandomi sem-plicemente a viverla d’istinto, con natura-lezza. Cercando, sempre, di custodirlasoprattutto quando le occasioni di fre-quentarci si diradarono e finirono colridursi a un caffè di fretta, una telefonata,una cartolina. Cercando, anche, di nondilapidarla. Di non sciuparla.

Nessun referente filosofico che ci acco-munasse. Ho frequentato sempre pocoquesti sentieri, a ragione o a torto diffi-dandone: come piste e tracciati verso nes-sun-posto. Come attività bastevole e fine ase stessa, piuttosto tecnicizzata, semprepiù lontana dalle cose, dissociata dallarealtà. Un esercizio piuttosto vano, mani-polatorio: un linguaggio vertiginoso checercava di mettermi nel sacco con le paro-le... Tradotto in termini “ordinari”, mipareva – a torto o a ragione – che special-

mente il virtuosismo verbale dei filosofiuniversitari, piuttosto supponenti, si ridu-cesse a ben poca cosa.

Se da dilettante – trovando cioè “dilet-to” nelle disordinate letture che facevo –ho talvolta “costeggiato” qualche filosofo,è stato per quanti hanno saputo intreccia-re insieme la filosofia con la poesia, la filo-sofia con la vita. In quanto esperienzatutta personale. In quanto “qualcosa” per-sonalmente vissuta...

– A Gianni un tale intreccio era riusci-to. Quello che era eccezionale, in lui, è diessere stato egli stesso questo intreccio.

* * *

Posso allora supporre di aver fatto partedi quella non certo esigua coorte di fulà-ster, di mattòidi e stralunati, dei quali scri-ve Sergio Givone in una sua commossa“memoria” di Gianni. Gli extra-vagàntesche in Sardegna, tra indulgenza e simpa-tia, amiamo definire foras de kòntu oppureforas de tìnu: chi canta appena fuori dalcoro, chi salta fuori dalla vasca comune.In breve: i marginali. Che Gianni inesora-bilmente “calamitava” e verso i quali la suapiuttosto rara sensibilità lo spingeva. Una

Ora… ogni ampliamento della coscienza di luie del suo nome che io opero, è come

una moltiplicazione di questo suo secondo vivere…Io credo che “in qualche modo” egli lo senta

e questi miei sforzi lo tocchino e lo rallegrino.

Michel de Montaigne

Isótes filótesPer Gianni Carchia

Yuànne Orunésu

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mai stanca capacità di emozione. Dicuriosità. Di meravigliarsi ancora unavolta e sempre del diverso. Aperto semprea una sorta di divertito stupore...

È stato sicuramente questo, pressochéal primo incontro, ad attirarmi. Qualcosache ha a che fare con la “pelle”, con l’emo-zione più che con la ragione. Quel sorri-dere insieme ironico e mite degli occhidietro due vetri già allora di bottiglia.

Già allora. Quando?...Già: quando... Una presenza che,

discreta sempre, di tanto in tanto ancora tivisiti la notte, come ricomporla in “ricor-di”? Senza in qualche modo ridurla, inqualche modo tradirla… Fissandosi nelparticolare, aggrappandosi al dettaglio, viavia che affievolisce il ricordo diviene insie-me fuorviante. Confonde i piani, il primae il dopo, le contrade e i luoghi, ciò cheaccadde con quanto non è stato. Falsificale carte... Irriducibile a sommatoria oaccumulo di dettagli mai fermi e sempremeno affidabili, è allora Mnemosìne, laMemoria, a soccorrere: occhio che si apreall’insieme del nostro procedere, allonta-narci e mutare. Perché memoria è avereprima e già dimenticato. Il superfluo.

… Sé que habrás de llorarme cuandomuera

para olvidarme y, luego,poderme recordar, limpios los ojos

que miran en el tiempo.

I poeti, questo, lo sanno. Conoscono ilvalore dell’oblio: strappo dall’aneddotico,dall’episodico, dal dettaglio. Per affondarenel sottosuolo della sensibilità e dell’emo-zione. Memoria di una “lontananza” eorma, traccia da seguire con passione.Giacché solo la creatura appassionata rie-sce a trionfare sull’oblio…

– Mai separando emozione e ragione,al pari del poeta, anche questo Gianni losapeva.

* * *

Ho chiesto a Giancarlo di lasciarmi dasolo con lui. E, per il tempo che sosterò inquesta stanza, non far entrare nessuno.

So che domande mai formulate nelpassato, per oltre trent’anni, si affolleran-no tutte in una volta. So che non avrannorisposta. Che il domandare e il risponderesi risolverà in un monologare muto.Interrogando me stesso, rispondendomida solo, cantilena appena sussurrata all’o-recchio dell’amico che, infine, nella quietedallo strazio ha requie. Ri-posa.

Ho morti ed a se stessi li ho lasciati,stupito di vederli così in pace,a casa loro nella morte, giusti,così diversi dalla loro fama ...

Che la tua morte ci spaventò; anzi,c’interruppe scindendo il Poi dal

Prima:questo, sì, ci riguarda, e come tutto il

restosarà compito nostro dargli un senso.

* * *

Autunno Sessantasei. In transumanzadalle periferie dell’impero, Nùoro, appro-do a Torino. Via Bligny, 10: “QuaderniRossi”. Gli anni della “società del malesse-re”, in Sardegna. Insofferenze, fermentodappertutto. Tra i giovani della “sinistra”,un nome, Raniero Panzieri, e due “qua-derni”, Rossi e Piacentini, sono un puntodi riferimento per molti. Quasi premoni-zione e attesa che “qualcosa” stia per acca-dere. Che qualcosa debba mutare e stiaper mutare vite individuali e collettive.

Non sarà così. Noi, che pensavamo ditrasformare il mondo, a stento avremmosalvato noi stessi.

È sotto questo cielo che ho incontratoGianni. Era al terzo anno di Liceo. Nonaveva ancora diciannove anni. E, assieme alui, altri tre o quattro under-venti dal piùdisparato temperamento, ma di identicaestrazione sociale e collocazione politica.La federazione giovanile comunista. Ma secomuni erano o potevano apparire le pre-messe, quanto mai disparati ne sarebberorisultati i rispettivi sviluppi e approdi. Aiquattro venti della vita.

Il più lesto e “ascoltato” tra loro, certoMarino, il cui arrivo di rientro dai volanti-

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naggi di fabbrica si attendeva quasi ilresponso della Pitonessa, credo pascoli,oggi, nelle sinecure di qualche “ricercato-rio” universitario di aghi nel pagliaio. Echi, di questo gruppo, ancora oggi, all’orad’aria e dietro le sbarre di un carcere. Altriancora prematuramente restituito allaterra...

Ancora un anno alla fine: l’annus mira-bilis del Sessantotto già spirava nell’ariacome Spirito del Tempo. E i “Quaderni”sarebbero stati chiusi per sempre.

Attorno al grande tavolo della “sala riu-nioni”, per tutto il Sessantasette, si avvi-cendarono non pochi di coloro che, inseguito, sarebbero passati come “i cattivimaestri” di un’intera generazione. E cheben vagamente corrispondevano, “visti-da-vicino”, all’immagine fantasmatica chea mio uso e consumo avevo edificato leg-gendone gli scritti “da-lontano”.Nonostante potessi ora vederli, osareanche parlarci e per così dire “toccarli”, neavvertivo come una sorta di algido distac-co. Una irraggiungibile lontananzaumana.

Pur nella sua riservatezza, Gianni nonne pareva particolarmente, come me, sug-gestionato. Ero io, non lui, a provenire dauna lontana periferia, da quella “provinciaprofonda” che dentro e fuori come un“marcato” mi segnava.

Per quanto ben dieci anni ci separasse-ro, fosse poco più che un ragazzo, lui riu-sciva a colmare soggezioni e distanze perme quasi proibitive. Forse perché, nono-stante insospettate curiosità e aperture, unsardo resta sempre e dappertutto un sardo.E l’etichetta che ci è stata cucita addosso,di gente taciturna e introversa, nonostanteun’incontenibile capacità di riso e ironia,ha finito col marcarci...

Ma, forse, è stato proprio questo adavvicinarci e l’uno all’altro così a lungolegarci…

– Questo, forse. E sicuramente la poe-sia: Trakl, Yvan Goll, Celan, Rilke...Poiché, come avrebbe poi scritto in quelsuo struggente e sofferto testamento spiri-tuale che è L’amore del pensiero, accoglien-do la lezione di Tommaso quasi a sigillodel suo itinerearium mentis, «la ragioneper la quale il filosofo viene paragonato al

poeta è che entrambi hanno a che fare conlo stupore».

* * *

Ritrovavo a Torino, in fabbrica e incasa, i sardi che all’inizio degli anniSessanta avevano incartonato poche coseverso ogni contrada d’Europa. Un esodoche aveva svuotato i paesi dell’Isola dove,simultaneamente, prendeva l’avvio unasistematica devastazione ambientale eumana con lo sgretolamento delle anticheforme produttive, l’erosione delle comu-nità e dei codici di comportamento, le ser-vitù militari, il petrolchimico e le milleeffimere fabbrichette di ogni nulla.

Li ritrovavo a Torino, i sardi della dia-spora. Prima di me e come me avevanocercato anche loro un posto che li adottas-se, ma con la riservatezza di chi è ancheconsapevole che questo non può avveniree saremmo rimasti ciò che eravamo.

Non si trattava di ritornare malinconi-camente a un comune grembo di pietraie,ritrovarsi. Né di regredire ai balli e ai cantiche, per una ragione o per l’altra, avevamolasciato oltre il mare. Alle stazioni e aiporti.

Si trattava, ora, di crescere insieme“fuori”. Di darsi ragione di questo “esserefuori”. Alcuni, presero a frequentare i“Quaderni”.

Gianni li adottò e fu da loro adottato.Ci fu simpatia e affetto: Francesco,Achille, Antonio, Gonàrio “piastrella”...Sovente si andava a rosicchiare qualcosainsieme, la sera, dopo riunioni che “svuo-tavano”: bettolacce del centro in perenneconflitto con l’igiene. O si cenava a casaloro: e allora la cena era cena...

Raramente ho visto Gianni, come inquesti simposi, così “a casa sua”, cosìdivertito come in questi “convivi” dideportati, di ironici e talora sarcasticifuori-casa. Per loro, Gianni era affettuosa-mente, data l’età, “su vruskeddòsu”. Ilpustoloso.

– Lui, perdutamente, affettuosamentene rideva.

* * *

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Estate Sessantanove. La primaverachiude a Torino con gli scontri di corsoTraiano: per l’intanto, prendiamoci lacittà si diceva. Il mutamento, la “rivolu-zione” è appena dietro la porta.Irromperà, sicuramente, al rientro dalleferie. Possiamo parcheggiarla.

Tra lo scorso anno e questo, traMirafiori e il centro storico, la città pareessersi trasmutata in un accampamentoalla vigilia dell’assalto finale. Bivacchi inognidòve: pisani, veneti, romani...La birranon manca.

Sbiaditi e dissolti i “Quaderni rossi”nella marea montante del movimento stu-dentesco e questo, per partenogenesi, in“gruppi” mai stanchi di ringhiarsi a vicen-da. Ognuno con i suoi “leaders” invaria-bilmente supponenti e spocchiosi: cavalca-no la tigre, loro. Tanti berrettini “allalenin” sulle teste. Baschi “alla guevara”…

Ognuno con i “suoi” operai da aizzarecontro la tiepida ortodossia della fazionerivale, quando non da buttare sopra ilmarmo accogliente degli obitori. Si salve-ranno comunque e sempre, loro: i coc-chieri.

Inviando gli altri nei luoghi più esposti,incitandoli con grida alla lotta,

ritirandosi in previsione dello scacco.Dovendo scegliere fra la morte propria e

quella dell’amicosceglievano la sua, pensando

freddamente:purché si compia.

È da ritenersi provato che siano statimigliori di quelli,

creduli, impetuosi, ma poco curanti dellavita ...

Pisa ha già avuto il “suo” morto sullepiazze. Non può essere da meno Torino:avrà il “suo” morto anch’essa in un’occu-pazione di case.

Ce lo garantiscono i proto-talebani di“servire il popolo” agitando libretti rossi ebandiere: l’oriente è rosso, anche l’occi-dente sarà rosso. Infatti: sangue a fiumi.Nessun altro sarebbe riuscito a surclassarliin profezia...

Ancora qualche anno, e il rosso stin-gerà nell’arancione. Dal timoniere si virerà

sui santoni. Da questi su un impensato“cavaliere”, sia pure con qualche macchiadi troppo.

I più lesti e “saggi” faranno rientro infamiglia: l’uscio di casa era rimasto pru-dentemente socchiuso per il ritorno del“prodigo”. Del resto, si era trattato pursempre di “generosità” giovanili, o soltan-to di un abbaglio, o appena “un modo didire”, un comprensibile equivoco… Eh sì,la classe è classe: si poteva diventare sol-tanto quel che sempre si è stati.

Ossequiente al raziocinio e al cuore,Gianni aveva compreso dove protagoni-smi e supponenze avrebbero portato, dovee come sarebbe andata a finire: nel fuocoliberato.

In agosto ci raggiunse in Sardegna. Alrientro dalle ferie, e dalle “riflessioni”,saremmo usciti per sempre da ogni ideolo-gia come da ogni “gruppo”. Mai più“appartenere-per-escludere”. Persuasi,forse, di antivedere già il crepuscolo delfuturo.

– L’u-topìa rovesciata in dis-topìa.

* * *

Con la Sardegna, a partire da quelleamicizie e quell’estate, Gianni non avreb-be più allentato i rapporti. Custodì forsenella memoria il breve tempo trascorso inpaese, un borgo pastorale della provinciadi Nùoro che andava amaramente speri-mentando svuotamenti e transumanzeforzate oltre il mare.

Ancora prima delle luci dell’alba, siprecipitava dal letto e correva alla finestra,stupito, allo scalpiccìo ritmato sui ciottolidai cavalli che riportavano i pastori nellecampagne. Scintille di zoccoli e ferro sullapietra... Oppure, riusciva ancora a intrave-dervi, come poi a Patmos, una tracciasuperstite del sacro...

Verso la metà degli anni Ottanta, trail dicembre del 1984 e il maggio 1986,con generosità tutta sua avrebbe collabo-rato a una rivista “povera” di teatro-lette-ratura-musica-arte: “Thèlema”. Un incre-dibile manu-fatto “tessùto” a Cagliari ailimiti di un temerario chisciottismo daalcuni “esiliati della vita”. Castellani

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atemporali e un po’ “fulàster” di unaneo-rabelaisiana Abbazia di Thelème:senza porte né mura.

Sicuramente, la più bella e originalerivista delle arti pensata e realizzata nellaSardegna di quegli anni, in uno spiritonon dogmaticamente ma criticamente“anti-moderno”, di ragionato rifiuto del-l’industria culturale, del consumismo del-l’immagine, della pubblicità, della setto-rializzazione e strumentalizzazione delsapere.

Gianni vi pubblicò due preziosi saggi:“Arcaico e Post-Moderno” nel numero 6-7del dicembre Ottantaquattro. E “Quadrid’epoca. Pittura e Post Histoire”, nel nume-ro 8 del luglio Ottantacinque.

Il numero 9 del maggio 1986 apre conuna sua breve presentazione –Torino, 13maggio – che, qui, mi piace riportare:

“Ora che si chiude questa prima stagionedi attività fervida ed entusiasta, ci si puòchiedere cosa è stata fin qui ‘Thèlema’ e cosapotrà forse essere nel futuro. ‘Thèlema’ è perme il nome di un’ostinata volontà di passag-gio, il desiderio di transito ad una regioneche, in mancanza di meglio, vorrei chiama-re il regno della forma pura.

Ci sarà bene un giorno in cui, per rag-giungere questa regione e disporre del poten-ziale energetico necessario, non avremo piùbisogno dello spaventoso dislivello di cuitestimoniano anche queste mie righe – fra laparola e l’immagine.

Proprio nelle sue lacerazioni, ‘Thèlema’ èallora la prefigurazione di un mondo dove,da un lato, l’immagine sia solo e unicamen-te scrittura, senza più l’impotenza del sognoe della ‘volontà d’arte’, mentre, dall’altrolato, la parola e il linguaggio perdano ognifunzione ‘giudicante’, abbandonando l’im-perio della predicazione e la violenza dell’i-deologia.

In mezzo, per ora, c’è la ‘stretta’ di questocammino, ripido da tutti i lati”.

Invitato da comuni amici, Gianni feceritorno in Sardegna nel novembre delNovantasei: un convegno di studi su“Agostino d’Ippona e le apocalissidell’Occidente”. Tenne una relazione su“Apocalissi, gnosi e modernità”.

Ma per lui, al di là del “convegno”, sitrattò di un “ritorno”: a “quella” luce, a untempo come sospeso, agli amici che viaveva lasciato.

Insieme, avevamo programmato unavacanza per il giugno del Novantanove…Gli promisi che sarei stato, per lui eMonica, una passabile “guida indiana” escelsi il luogo, la casa aperta sul mare.

Più avanti, mi chiamò per dirmi chestava “poco bene”, chiedendomi di riman-dare tutto per il mese di settembre… Lasua voce, lenta, al telefono… Fece ditutto, ora lo so, per non allarmarmi.

Fino all’ultimo – disattenzione, incre-dulità, presentimento, rimozione… – nonmi sono mai reso conto della “verità” delsuo star male. Né, se non “dopo”, qualefosse il male che l’aveva consumato.

* * *

Così adesso, in questa stanza, è un sen-tirmi in colpa. E un ripetermi, vano, lesue stesse parole: «Chi nasce alla sapienzanon ne gode, è intrappolato in una tenzoneperigliosa. Essa… conserva il potenzialedistruttivo della sua origine divina».

Con Gianni, la filosofia perde forse asempre il suo “stupore”. Sicuramente,perde a sempre la sua grazia, il suo sorriso.E, con essi, ogni ragione di poesia.Quanto di lui mi attraeva, quanto a lui milegava...

E tuttavia, se mi dovessero domandareperché, così diversi, questa amicizia questoaffetto così a lungo hanno potuto durare,non saprei altrimenti rispondere se noncon le parole del Signore di Montaigne:“Perché era lui. Perché ero io”.

Ora… il succo genuino e il midollo delsuo valore

lo hanno seguito e a noi sono rimastesolo la corteccia e le foglie.

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Bruno Pittau, Semantica 1 – tecnica mista 1987

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