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Societá Reggiana di Scienze Naturali Carlo Iacchetti

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Societá Reggianadi Scienze Naturali

Carlo Iacchetti

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2 Società Reggiana di Scienze Naturali

Notiziario naturalistico della Società Reggiana di Scienze Naturali 2010(S.R.S.N.)http://digilander.libero.it/srsne-mail: [email protected]

Autorizzazione del Tribunale di Reggio Emilia n. 1224 del 24/02/2009

Proprietà: Società Reggiana di Scienze Naturali,con sede in Reggio Emilia, via F. P. Tosti, 1

Direttore responsabile:Adriano Arati

Redazione:Bassi VillerBorghi Ing. EnricoScacchetti Prof. Maurizio

Comitato scientifico:

Bartoli dott. OmarDipartimento di Scienze della Terra, Università degli Studi di Parmavia Usberti 157a, 43124 Parma Bersani dott. DaniloDipartimento di Fisica, Università degli Studi di ParmaParco Area delle Scienze 7a, 43124 Parma

Garuti prof. GiorgioDepartment Angewandte Geowissenschaften und Geophysik, Montanuniversität LeobenPeter Tunner Str., 5, 8700 Leoben, Austria

Recapito postale: Società Reggiana di Scienze Naturalic/o Bassi Viller, via A. Gramsci, 10942024 Castelnovo di Sotto, RE

Incontri: Giovedì sera dalle 21 alle 23 salvo festivi, prefestivi e nei mesi di luglio ed agosto presso Scuole elementariD. Alighieri, via G. Puccini 4, Reggio Emilia

Quota annuale di iscrizione alla Società:Euro 20 (privati), Euro 25 (Enti pubblici). Conto corrente postale n. 94965216intestato a Società Reggiana di Scienze Naturali C. Iacchetti

Stampa: progetto, impaginazione e stampa a cura del servizio Comunicazione e Marketing del Comune di Reggio Emilia

Foto di copertina, dall'alto a sinistra, in senso orario:Giaggiolo susinaro (Iris graminea) (foto Massimo Gigante)Veduta invernale del rifugio Battisti (foto Omar Bartoli)Ragno granchio (Thomisus onustus) su aglio selvatico (foto Massimo Gigante)Rospo comune (Bufo bufo) albino (foto Roberto Parmiggiani)

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3Notiziario 2010

Cesare A. Papazzoni 5Fiat lux: il mistero dell’esplosione della vita 540 Milioni di anni fa

Leoni Alan, Menta Cristina, Conti Federica Delia 13Piccoli artropodi del suolo: biodiversità e bioindicatori

Loredana Guidi 21Zanzare, zecche, pidocchi & C. Così vicini e …così pericolosi?

Paolo Stara, Luigi Sanciu & Roberto Rizzo 27Segnalazione di una associazione ad echinidicon spatangoidi prevalenti in Sardegna

Enrico Borghi 43Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhianodell’Appennino reggiano

Attività della S.R.S.N. 2010 63

Sommario

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Fiat Lux: il Mistero dell’Esplosione della Vita

540 Milioni di Anni faCesare A. Papazzoni

Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Scienze della Terra

Relazione della conferenza tenuta presso i Musei Civici di Reggio Emilia in data 20 maggio 2010

There is another and allied difficulty, which is much graver.I allude to the manner in which numbers of species of the same group,

suddenly appear in the lowest known fossiliferous rocks. [...]Consequently, if my theory be true, it is indisputable that before the lowest Silurian stratum was deposited,

long periods elapsed, as long as, or probably far longer than,the whole interval from the Silurian age to the present day;

and that during these vast, yet quite unknown, periods of time, the world swarmed with living creatures.

To the question why we do not find records of these vast primordial periods, I can give no satisfactory answer. [...]

The case at present must remain inexplicable;and may be truly urged as a valid argument against

the views here entertained.

Vi è un altra, simile difficoltà, che è però molto più grave.Alludo al modo in cui numerose specie dello stesso gruppo

compaiono improvvisamente nelle più antiche rocce fossilifere conosciute. [...]Di conseguenza, se la mia teoria è vera, è incontestabile che,

prima che il più antico strato siluriano si depositasse, lunghi periodi trascorsero,lunghi quanto, o forse anche più lunghi dell’intero intervallo che corre

dal Siluriano fino ai giorni nostri, e che nel corso di questi vasti e ancora poco conosciuti periodi di tempo,il mondo pullulava di creature viventi.

Alla domanda sul perché non troviamo le testimonianze di questi vasti periodi primordiali,non posso dare alcuna risposta soddisfacente. [...]Il caso in esame rimane al momento inspiegabile,

e può essere davvero utilizzato come valido argomento contro le opinioni qui espresse.

Charles DarwinOn the Origin Of SpecieS

1st ed., 1859[Cap. IX “On the imperfection of the geological record”,

par. “On the sudden appearance of groups of Allied Species in the lowest known fossiliferous strata” mia traduzione dall’inglese]

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Notiziario 20106 Società Reggiana di Scienze Naturali

Darwin, prima di tuttoIl grande Charles Darwin si esprime così nella

prima edizione del suo libro destinato a cambiare per sempre l’idea sul posto degli esseri umani nella natura, nonché a scatenare dibattiti e polemiche ben lontani dall’essere risolti. Vorrei sottolineare l’onestà intellettuale dimostrata (non solo in questo passo) da Darwin nel mettere in risalto una grave difficoltà della propria teoria, anteponendo la verità alla difesa del proprio punto di vista. Darwin tenta alcune spie-gazioni, ma conclude che le risposte non sono così soddisfacenti come vorrebbe e lascia il lettore aperto al dubbio. Nelle successive edizioni dell’Origin, però, Darwin sembra trovare nelle più recenti scoperte del-la nascente scienza paleontologica una parte della ri-sposta. Nella quarta edizione (Darwin, 1866) saluta con entusiasmo la scoperta di animali più antichi e

primitivi come Eozoon, allora ritenuto un protozoo gigante. Anche se oggi sappiamo che Eozoon non è un vero fossile, ma una struttura di origine inorga-nica, abbiamo scoperto in seguito un numero di veri fossili di età pre-cambriana più che sufficiente per ritenere verificata la previsione di Darwin sulla pre-senza di creature precedenti i fossili cambriani (nota: nel 1859 il Cambriano non era stato ancora accettato dalla maggioranza dei geologi, i quali usavano per le rocce contenenti i fossili più antichi il nome di Silu-riano, a sua volta successivamente passato ad indicare un intervallo di tempo molto più ristretto e più recen-te del Cambriano). Lo studio dei fossili precambriani non era ancora maturo nel XIX secolo, e non lo sa-rebbe stato fino agli anni ‘60 del XX (Schopf, 2000).

Fig. 1 - Precambriano e Paleozoico nella scala dei tempi geologici (aggiornata al 2009) secondo la CommissioneInternazionale di Stratigrafia (disponibile in rete all’indirizzo http://www.stratigraphy.org/upload/ISChart2009.pdf).Sono evidenziati dai riquadri i periodi Ediacarano e Cambriano.

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7Cesare A. Papazzoni Fiat lux: il mistero dell'esplosione della vita...

Quanto tempo fa?Per capire il problema della cosiddetta “esplosione

cambriana”, ovvero della comparsa “improvvisa” dei fossili alla base del Cambriano, prima di tutto è bene sapere quando è avvenuta. Secondo la Commissione Internazionale di Stratigrafia (Fig. 1) la base del Cam-briano è datata a 542,0±1,0 Ma (milioni di anni), mentre il tetto è datato a 488,3±1,7 Ma. Il Cambria-no copre pertanto circa 53,7 Ma, un tempo lungo quasi quanto quello che separa il presente dall’estin-zione dei dinosauri (circa 65,5 Ma secondo la stessa scala). Prima del Cambriano esiste un altro periodo formalizzato, detto Ediacarano, che inizia circa 635 Ma fa e copre perciò quasi 100 Ma. È in questo lun-ghissimo intervallo di tempo che si svolgono gli avve-nimenti oggetto di questa nota.

Cosa accadde?

Abbiamo già visto che gli organismi viventi del Precambriano hanno lasciato traccia della loro esistenza per un tempo in-credibilmente lungo, circa 3 miliardi di anni (i fossili sicuri più antichi hanno circa 3,5 miliardi di anni). Tuttavia, per tutto questo tempo i fossili sono rari e riferibili, con rarissime eccezioni, ad organismi a corpo molle.

542 milioni di anni fa, i fossili di organismi con parti dure iniziarono im-provvisamente a diventare comuni. Si è stimato che, dei 38 phyla (i principali gruppi tassonomici nei quali si dividono gli or-ganismi) conosciuti, 544 Ma fa ne fossero certa-mente presenti soltanto 3, mentre 538 Ma fa erano presenti tutti e 38 (Gould, 1990). La documenta-zione fossile, dunque, indica un elevatissimo tasso di evoluzione o, in altre parole, un improvviso aumento della diversità, che non sarà mai più eguagliato duran-te il resto della storia della vita. La domanda che sorge a questo punto è: cosa è accaduto di speciale all’inizio del Cambriano?

Un passo indietro(l’esplosione cambriana al tempo di Darwin)...

Ricapitoliamo brevemente le conoscenze relative alla parte più antica della storia della Terra ai tempi di Darwin. Quando egli scrisse L’origine delle specie, a metà del XIX secolo, la conoscenza dei fossili era ancora estremamente limitata. Tuttavia, era già noto come la comparsa dei trilobiti marcasse l’inizio del Cambriano (o Siluriano inferiore, come veniva chia-mato al tempo). I trilobiti si trovavano immediata-mente con forme di dimensioni relativamente grandi, senza essere preceduti da antenati più piccoli, come avviene normalmente per quasi tutti i gruppi di nuo-va evoluzione. Questa situazione si poneva in effetti in contrasto con l’idea darwiniana di un’evoluzione graduale e continua. Darwin, come dimostrato dal passo citato in apertura, poteva soltanto appellarsi

all’incompletezza della documentazione fossile e prevedere che, con l’a-vanzare delle conoscen-ze, sarebbero prima o poi stati trovati anche i fossili degli antenati dei trilobiti. Per questo la notizia del ritrovamento di Eozoon come fossile precambriano gli provo-cò grande soddisfazione.

... e due passi avanti(l’esplosione cambriana oggi)

Anche se ben lungi dall’essere completa, la nostra conoscenza attua-le dei fossili precambria-ni ha raggiunto livelli impensabili 150 anni fa. La comparsa dei trilobi-ti non è stata arretrata nel tempo, e continua a segnare la base del Cam-briano. Tuttavia, oggi

sappiamo non solo che ci sono fossili precambriani, ma anche che essi non sono soltanto di organismi unicellulari. Gli organismi pluricellulari precambriani hanno lasciato fossili, ma questi erano di difficile con-servazione, essendo privi di parti dure. Per questo ai tempi di Darwin era improbabile trovarne i resti, che sono estremamente rari. In più, oggi possediamo uno strumento importantissimo che Darwin non aveva: la capacità di ottenere datazioni assolute ci permette di

Fig. 2 - Dickinsonia costata,uno dei rappresentanti

più caratteristici della fauna di Ediacara. Da Wikimedia Commons

(http://commons.wikimedia.org/wikiFile: DickinsoniaCostataC.jpg), immagine rilasciata con licenza

Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0Unported, autore Merikanto

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Notiziario 20108 Società Reggiana di Scienze Naturali

determinare quantitativamente la durata degli avveni-menti, in milioni di anni. Prima della scoperta della radioattività, a cavallo tra XIX e XX secolo, infatti, era impossibile determinare l’età in anni dei fossili e ci si doveva limitare a fornire una cronologia degli avve-nimenti. La durata della storia della Terra era stimata con grandissima incertezza, con la maggior parte de-gli scienziati propensa ad assegnare non più di 10-20 milioni di anni all’intera esistenza del nostro pianeta. Le datazioni radiometriche odierne, combinate con la cronologia data dai fossili, ci permettono di stabi-lire le età dei vari avvenimenti con incertezze molto ridotte, il più delle volte inferiori al milione di anni, o anche molto meno nel caso di eventi relativamente recenti.

Tre tappe verso la diversità: 1- La fauna di EdiacaraNel 1947 furono rinvenute presso le colline di

Ediacara, nell’Australia meridionale, tracce di animali a corpo molle (Fig. 2) più antichi della base del Cam-briano (circa 570 Ma, secondo le datazioni più re-centi). Successivamente, gli stessi fossili furono trovati anche in Namibia, Russia, Canada, Inghilterra, Sve-zia, Stati Uniti e Cina. L’interpretazione di questa fau-na, inizialmente ritenuta come un insieme di antenati di vari gruppi moderni, è stata messa in discussione da Seilacher (1989), il quale ritiene che si tratti di un gruppo omogeneo di antichi metazoi estintosi senza alcun discendente prima dell’inizio del Cambriano.

Tre tappe verso la diversità: 2 - Small Shelly Faunas (SSF)

I metazoi di Ediacara, indipendentemente dalla loro posizione nell’albero della vita, erano organismi a corpo molle, ovvero privo di parti dure mineralizzate.

I primi fossili di parti dure sono le cosiddette Small Shelly Faunas (o Small Shelly Fossils, SSF), pic-cole “conchiglie” le cui dimensioni massime raggiun-gono circa 1 cm, ma che normalmente sono molto più piccole, da uno a pochi mm, con forme piuttosto semplici e spesso coniche diritte o ricurve (Fig. 3).

Questi fossili sono stati trovati in strati del Pre-cambriano terminale e della base del Cambriano in Siberia, in Cina, in Europa ed in Australia; hanno composizione carbonatica o fosfatica, proprio come le conchiglie e le ossa degli organismi più diffusi nel successivo Fanerozoico.

Tre tappe verso la diversità: 3 - Trilobitied Archeociatidi

I fossili più noti tra le faune del Cambriano sono sicuramente i già citati trilobiti. Essi avevano gusci

Fig. 3 - Cloudina,un rappresentantedelle Small Shelly Faunas. La freccia indicauna bioperforazione. Da Wikimedia Commons (http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Cloudina_bud_n_boring_01.png), immagine di pubblico dominio.

Fig. 4 - Paradoxides harlani, un trilobite caratteristico del Cambriano (dal Manual of Geology di J.D. Dana, 1863)

Fig. 5 - Ethmophyllum whitneyi, un archeociatide del Cambriano nordamericano. Da Wikimedia Commons (http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ethmophyllum_whitneyi.png), immagine di pubblico dominio.

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(carapaci) mineralizzati ed erano dotati di spine e di grandi occhi composti (Fig. 4). Durante la prima parte del Cambriano, inoltre, erano molto diffusi gli archeociatidi, organismi esternamente simili ai coral-li, ma più verosimilmente imparentati con le attuali spugne (Fig. 5).Nel complesso, la transizione dai metazoi a corpo molle di Ediacara alle SSF, alle faune a trilobiti ed archeociatidi, anche se le relazioni tra i diversi gruppi sono tutt’altro che chiarite, fornisce una successione evolutiva graduale e “darwiniana”, che copre tra l’al-tro diversi milioni di anni. Si tratta di un tempo il cui ordine di grandezza è sicuramente breve su scala geo-logica, ma comunque compatibile con i meccanismi evolutivi noti.

L’esplosione cam-briana era inevita-bile?

È molto frequente l’identificazione del-l’evoluzione con un inevitabile progresso dell’organizzazione degli organismi, a volte inteso come una sorta di marcia trion-fale verso l’intelligen-za degli esseri umani. In realtà il concetto originale di evolu-zione, descritto da Darwin nell’Origine delle specie e da allora verificato innumere-voli volte, non prevede alcun automatico progresso. Il discorso sarebbe molto complesso, ma le conseguenze dell’evoluzione possono essere riassunte in due punti fondamentali: a) gli esseri viventi hanno tutti un co-mune antenato, la prima forma di vita; b) le diverse specie che si sono succedute sulla Terra derivano tutte dall’antenato comune per modificazioni successive. Poiché la selezione naturale è un processo del tutto cieco e legato alle condizioni locali presenti in un dato momento, essa non ha alcuna direzione prefe-renziale e non porta necessariamente ad un aumen-to della complessità. Tra l’altro, è stato fatto notare che gli organismi più diffusi sulla Terra sono (e sono

sempre stati) i batteri, la cui complessità strutturale è minima; la presenza degli organismi più complessi è probabilmente da ricollegarsi soltanto ad un amplia-mento della diversificazione (Gould, 1997)La velocità dell’ evoluzione è stata dimostrata (so-prattutto dagli studi paleontologici) tutt’altro che costante, già dagli studi pioneristici di G.G. Simpson (1944), alla base della cosiddetta sintesi moderna o neodarwinismo. Date queste premesse, risulta diffici-le sostenere che l’evoluzione delle parti dure fosse in assoluto “necessaria”, mentre appare molto più plau-sibile che si tratti dell’effetto di condizioni in qualche modo speciali.

L’esplosione cambriana è un “falso” prodottodalla natura del registro fossile?

L’incompletezza e le limitazioni intrin-seche della documen-tazione fossile potreb-bero avere qualche influenza sulla nostra percezione dell’evento cambriano. Ad esem-pio, l’apparente com-parsa improvvisa (nei tempi che abbiamo discusso prima) di or-ganismi con parti dure potrebbe essere dovuta soltanto alla comparsa di parti dure in phyla che esistevano già da tempo. In alternativa, i phyla con parti dure,

potrebbero essere comparsi proprio quando ne trovia-mo le prime tracce. In entrambi i casi ci troveremmo di fronte ad un evento reale, una comparsa improv-visa, anche se soltanto delle parti dure. Credo che sia perciò importante ricercare le cause dell’esplosione cambriana (EC).

Possibili cause dell’ECEsistono due gruppi principali di spiegazioni per

l’EC:1) Cause esterne (ambientali)2) Cause interne (biologiche)Non si può escludere che abbiano agito contempora-

Fig. 6 -Variazioni del contenuto di ossigeno nell’atmosferadurante l’ultimo miliardo di anni della storia della Terra.

Da Wikimedia Commons (http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sauerstoffgehalt-1000mj2.png),

immagine di pubblico dominio.

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Notiziario 201010 Società Reggiana di Scienze Naturali

neamente più cause di entrambe le categorie.Tra le cause di tipo 1) abbiamo:1A) Ipotesi del livello critico dell’ossigeno

Secondo questa ipotesi, le variazioni del livello di O2 nell’atmosfera avrebbero giocato un ruolo importante per la possibilità di sviluppare scheletri mineralizza-ti. Si sa che la quantità di ossigeno nell’atmosfera è aumentata in modo abbastanza regolare per tutto il Precambriano, pur rimanendo sempre a livelli molto inferiori a quelli raggiunti nel Fanerozoico. Alla fine del Proterozoico, circa 600 Ma fa, l’ossigeno presente avrebbe subìto un deciso aumento (Holland, 2006), passando da meno del 5% a oltre il 10% in volume (Fig. 6); per confronto, il livello attuale è di circa il 21%.Tra le parti dure secrete dagli organismi, soltanto la cheratina (sostanza presente negli esoscheletri di mol-ti artropodi, oltre che nelle unghie e nei capelli uma-ni) potrebbe essere comparsa anche con bassi livelli di

ossigeno, mentre gli scheletri calcarei e silicei (oggi i più diffusi tra gli organismi) richiedono concentrazio-ni di ossigeno analoghe a quelle attuali.

1B) Ipotesi dell’aumento dei nutrientiFosforo, nitrati e ferro sono nutrienti particolarmente importanti per lo sviluppo degli organismi marini. Si è ipotizzato che nel Cambriano essi siano diventati improvvisamente disponibili ed abbondanti, mentre in precedenza erano rapidamente sequestrati dal sep-pellimento nei sedimenti del fondo. Una delle possi-bili cause di questo aumento di nutrienti è legata al movimento delle placche tettoniche (smembramento del supercontinente di Rodinia) che avrebbe consen-tito il riciclaggio dei nutrienti attraverso l’attività del-le dorsali medio-oceaniche.In alternativa, si può pensare ad una maggiore effi-cienza della bioturbazione in grado di evitare il se-questro definitivo dei nutrienti. È significativo che le prime tracce di bioturbazione verticale (che entra nei primi centimetri di sedimento) compaiano proprio a cavallo del limite Precambriano-Cambriano.

1C) Ipotesi dell’aumento di temperaturaDopo una glaciazione particolarmente intensa, avve-nuta circa 580 Ma fa (la glaciazione di Gaskiers), le temperature risalirono. Si è proposto che l’aumento di temperatura abbia innescato l’aumento di diver-sità, in analogia a quanto si osserva oggi per le zone calde, dove la diversità è massima. La deglaciazione, inoltre, avrebbe comportato un aumento del livello del mare, che a sua volta potrebbe aver aumentato l’estensione degli ambienti disponibili (mari epicon-tinentali molto estesi), influenzando l’EC.Questa è forse l’ipotesi più debole, anche perché la glaciazione precede l’EC di quasi 40 milioni di anni, mentre la deglaciazione dovrebbe essere stata molto rapida (durata forse qualche migliaio di anni al massi-mo). La deglaciazione potrebbe invece essere in qual-che relazione con la comparsa e la rapida diffusione della fauna di Ediacara.

1D) Ipotesi dell’evento di interscambio inerzialeKirschvink et al. (1997) hanno proposto l’ipotesi di un improvviso cambiamento di posizione dell’asse di rotazione terrestre, che in seguito ad una distribuzio-ne anomala delle masse all’interno del globo avrebbe subito un assestamento inerziale, modificando la sua orientazione di ben 90°! Le prove di questo evento de-rivano dallo studio del paleomagnetismo tra Vendia-no (= Ediacarano) e Cambriano, che indicherebbe un

Fig. 7 – Principali eventi glaciali del Neoproterozoico (Cryogeniano ed Ediacarano). La durata complessiva della glaciazione Gaskiers è stimata in circa 1 Ma.

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11Cesare A. Papazzoni Fiat lux: il mistero dell'esplosione della vita...

movimento in tempi dell’ordine di 10-15 Ma appena. I continenti avrebbero quindi scambiato la loro po-sizione polare o equatoriale, modificando profonda-mente la paleogeografia. La rapidità del movimento avrebbe causato modificazioni climatiche estreme e di conseguenza profondi cambiamenti a livello biologi-co.

Tra le cause di tipo 2) abbiamo:2A) Ipotesi del vantaggio competitivodello scheletro

Secondo questa ipotesi, la comparsa degli scheletri mineralizzati avrebbe conferito un vantaggio com-petitivo nei confronti della predazione, consentendo lo sviluppo di numerose forme dotate di queste “ar-mature”. Tuttavia, da un punto di vista fisiologico, la costruzione dello scheletro richiede il consumo di una quantità di energia relativamente elevata. Tale energia può essere prodotta soltanto con un metabolismo ef-ficiente, che a sua volta richiede un elevato consumo di ossigeno. Si può pertanto facilmente capire come questa ipotesi sia collegata strettamente all’ipotesi del livello critico dell’ossigeno.

2B) Ipotesi del “giardino di Ediacara”Per quanto riguarda questa ipotesi, essa si rifà all’in-terpretazione di Seilacher (1989) secondo la quale la fauna di Ediacara non avrebbe parentela alcuna coi gruppi di metazoi moderni. In questo scenario, i me-tazoi pluricellulari della fauna di Ediacara sarebbero stati autotrofi e non soggetti a predazione. Ciò avreb-be limitato il numero di nicchie ecologiche disponi-bili e posto un limite molto basso alla possibilità di diversificazione.La comparsa dei primi predatori (erbivori e carnivo-ri), alla fine del Precambriano, avrebbe innescato l’au-mento esponenziale della diversità, causato dalla cre-

azione di nuove nicchie ecologiche prima inesistenti.La comparsa delle parti dure sarebbe soltanto un sot-toprodotto di questa esplosione ecologica che avreb-be posto fine all’idilliaco “giardino di Ediacara” senza predatori.

2C) Ipotesi dell’“interruttore della luce”Questa affascinante ipotesi, descritta in dettaglio da Parker (2005), parte dall’osservazione che tutti i me-tazoi pluricellulari precambriani noti, indipendente-mente dall’interpretazione sistematica che se ne pos-sa dare, non avevano occhi, né altri organi di senso fotosensibili. L’evento scatenante l’EC sarebbe stato fornito dalla comparsa della vista. Questo nuovo sen-so avrebbe permesso agli animali che ne erano dotati di scorgere forma, dimensioni e posizione degli altri, dandogli un vantaggio competitivo ineguagliabile. Ancora una volta, si pone l’accento sulla creazione di un numero virtualmente infinito di nuove nicchie ecologiche. In questa ottica (scusate il gioco di paro-le!) l’espansione dei trilobiti nel Cambriano sarebbe dovuta all’efficienza dei loro sofisticati occhi, oltre che alla presenza di elaborate appendici predatorie.

ConclusioniÈ possibile che molte se non tutte le ipotesi pre-

cedenti mettano in luce aspetti diversi delle cause che hanno portato al verificarsi dell’EC. Notiamo che diverse fanno riferimento ad avvenimenti molto singolari (come ad esempio l’interscambio inerziale) e/o difficilmente ripetibili (come l’aumento del livel-lo di ossigeno o la comparsa della vista). Questo può contribuire a farci comprendere come mai l’EC sia davvero unico, un evento planetario quasi impossibile da ripetere.

Bibliografia

Darwin, C. (1859) - On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life - 1st edition, J. Murray, London, 502 pp.

Darwin, C. (1866) - On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life - 4th edition, J. Murray, London, 458 pp.

Gould, S.J. (1990) - La vita meravigliosa - Feltrinelli Ed., 352 pp.

Gould, S.J. (1997) - Gli alberi non crescono fino in cielo - Arnoldo Mondadori Ed., 298 pp.

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Notiziario 201012 Società Reggiana di Scienze Naturali

Holland, H.D. (2006) - The oxygenation of the atmosphere and oceans - Phylosophical Transactions of the Royal Society, B, 361, 903-915.

Kirschvink, J.L., Ripperdan, R.L. & Evans, D.A. (1997) - Evidence for a Large-Scale Reorganization of Early Cambrian Continental Masses by Inertial Interchange True Polar Wander - Science, 277, 541-545.

Parker, A. (2005) - In un batter d’occhio - La causa del più spettacolare evento nella storia della vita - Zanichelli Ed., 306 pp.

Schopf, J.W. (2000) - Solution to Darwin’s dilemma: Discovery of the missing Precambrian record of life - PNAS, 97 (13), 6947-6953.

Seilacher, A. (1989) - Vendozoa: Organismic construction in the Proterozoic biosphere - Lethaia 22, 229-239.

Simpson, G.G.. (1944) - Tempo and Mode in Evolution - Columbia University Press, New York, 237 pp.

NOTA:le pubblicazioni originali di Charles Darwin sono liberamente consultabili online al sitohttp://darwin-online.org.uk/

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Piccoli Artropodi del suolo: Biodiversità e Bioindicatori

Alan Leoni, Cristina Menta, Federica Conti DeliaUniversità degli Studi di Parma, Museo di Storia Naturale

Relazione della conferenza tenuta presso i Musei Civici di Reggio Emilia in data 9 Dicembre 2010

Il profilo e la morfologia di un suolo sono il risultato di una combinazione sia delle caratteristiche topogra-fiche e della roccia madre sia dell’azione del clima, delle forme biologiche e del tempo (Giordano 1999). I suoli devono essere quindi considerati come una risorsa unica e limitata in quanto frutto di processi complessi e prolungati nel tempo, che possono co-prire periodi di centinaia o migliaia di anni. Infatti, semplici accumuli di materiali incoerenti sulla super-ficie terrestre non possono essere considerati suoli, in quanto l’alterazione fisica è un requisito necessario ma non sufficiente. Per poter parlare di suolo si deve essere in presenza di accumulo e trasformazione di sostanza organica, alterazione chimica dei minerali e formazione di struttura. Tali processi (complessiva-mente noti come pedogenesi) determinano lo svilup-parsi di una stratificazione verticale la cui profondità si estende fino al substrato pedogenetico, variando dai pochi centimetri dei suoli erosi di montagna fino ai vari metri delle terre rosse tropicali (Menta 2008). Il “profilo tipo” di un suolo può essere schematicamente rappresentato con la seguente successione verticale di strati (detti orizzonti). Dalla superficie scendendo in profondità possiamo incontrare:• Lettiera (orizzonti O1 e O2), costituita in preva-lenza da materiale organico. Particolarmente evidente nei suoli forestali dove si depositano i prodotti di ca-duta delle piante.• Strato eluviale (orizzonti A ed E), dove avviene l'a-sportazione del materiale solubile.• Strato illuviale (orizzonte B), in cui si depositano i materiali asportati dagli orizzonti superiori.• Roccia madre (orizzonte C ed R), substrato pedo-genetico.

La stratificazione sopra descritta è quella tipica di un suolo non rimaneggiato, come può essere quello di una foresta matura. Nelle aree sottoposte ad attivi-tà antropiche, quali la pratica agricola dell’aratura, queste modificano il profilo del suolo rimescolando gli strati. Considerando gli orizzonti A e B, la loro composizione relativa è in linea generale la seguente: 45% minerali, 25% soluzione acquosa, 5% sostanza organica, 25% gas dell’atmosfera ipogea. Le propor-zioni di acqua e gas sono complementari, in quan-to entrambe occupano gli stessi interstizi del suolo e quindi all'aumentare di una parte l'altra diminuisce di conseguenza. La sostanza organica (escludendo gli organismi viventi) è formata da una vasta gamma di composti, derivati principalmente dalla decomposi-zione della lettiera. In varie proporzioni sono presenti polisaccaridi (cellulose, emicellulose, lignina), lipidi, proteine, terpeni, tannini e altre sostanze tra cui le più caratteristiche sono gli acidi umici. Tali acidi de-rivanti dalla decomposizione di materiali vegetali ad opera dei batteri presenti nel suolo, sono importanti sia per la loro azione come soluzioni tampone (bilan-ciando le variazioni di pH) sia in quanto costituenti e precursori dell'humus (Parisi 1974, Giordano 1999). Quest’ultimo rappresenta la fase conclusiva di una serie di complesse trasformazioni a carico del detrito organico ed è, a sua volta, decomposto in sostanze minerali che vengono poi riassorbite dalle piante (Za-nella et al. 2001). La sostanza organica rappresenta la base delle reti trofiche che si sviluppano nel suo-lo, mancando quasi completamente in esso la com-ponente dei produttori primari (organismi autotrofi fotosintetici) su cui si sviluppano le catene trofiche ipogee.

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Notiziario 201014 Società Reggiana di Scienze Naturali

Il suolo può essere considerato come lo strato basale di tutti gli ecosistemi terrestri e svolge funzioni chia-ve, Ecosystem services (Millennium Ecosystem Asses-sment 2005), quali: sostenere le attività agricole che forniscono le risorse necessarie per il sostentamento delle popolazioni, Provisioning services; agire diretta-mente o cooperare al sequestro di carbonio ed alla re-golazione del ciclo dell’acqua, Regulation services; sup-portare fisicamente le attività umane, comprese quelle ricreative, Cultural services; permettere la chiusura dei cicli biogeochimici di diversi elementi rimettendo in circolo nutrienti assimilabili dalle piante, Supporting services. Quest’ultima funzione è svolta con il contri-buto degli organismi edafici, definiti da alcuni autori come un “superorganismo” che opera per degradare la sostanza organica. Infatti i vari organismi non sono in grado, agendo singolarmente, di rendere nuovamen-te disponibili per le piante elementi come l'azoto, il fosforo e lo zolfo, però ogni taxa esercita un'azione meccanica e/o chimica chiave in una parte del ciclo biogenetico di questi elementi, mantenendo quindi la fertilità del terreno.L’ambiente ipogeo è stato definito come “la foresta pluviale dei poveri” (Usher et al. 1979), in quanto nel “terreno che calpestiamo” l’abbondanza di organismi può raggiungere valori estremamente elevati. Ad esem-pio in un grammo di suolo arato è possibile trovare oltre 30.000 unità di Protozoi e nelle praterie i Nema-todi possono raggiungere densità pari a 20.000.000 in-dividui/m2 (Killham 1994). Il suolo costituisce quindi una fondamentale riserva di biodiversità, sebbene solo con il presente millennio esso abbia raggiunto un ruo-lo centrale nelle politiche internazionali di protezione ambientale, come testimoniato da documenti quali: European Union Biodiversity Action Plan for Agricul-ture (EU 2001), Kiev Resolution on Biodiversity (UN/ECE 2003), “Message from Malahide” (EU 2004).Data la sua complessità, la fauna edafica è spesso sud-divisa in categorie prive di valore tassonomico, ma ba-sate su criteri morfologici (generalmente dimensionali) od ecologici. Ad esempio una classificazione da molto utilizzata è incentrata sulla porzione del ciclo vitale tra-scorsa dai diversi gruppi nel suolo e dai rapporti eco-logici che intrattengono con esso (Zanella et al. 2001).

Geofili inattivi temporanei: sono organismi che abitano il suolo solo per alcuni periodi del-la loro vita (svernamento o metamorfosi) quan-do la stabilità climatica e la protezione fornita dall'ambiente ipogeo sono più necessari. A causa della loro relativa inattività, gli appartenenti a questo gruppo hanno un impatto modesto sulle funzioni ecologiche dell’ambiente ipogeo, anche

se possono rientrare nella rete trofica del suolo come prede.

Geofili attivi temporanei: abitano il suolo in modo stabile per buona parte del loro ciclo vitale, attraver-sando uno o più stadi di sviluppo, ed emergendo in genere come adulto alato. Oltre alle cicale e ad alcune specie di neurotteri, gli insetti di questo gruppo ap-partengono per la maggior parte a tre ordini: ditteri, coleotteri e lepidotteri (Wallwork 1970).

Geofili periodici: Conducono una fase del ciclo biologico nel suolo e, nel corso dell’intera vita, pur potendolo abbandonare, continuano a mantenere rapporti con l’ambiente ipogeo entrandovi periodica-mente per cacciare, per deporre le uova o per sfuggire a condizioni climatiche sfavorevoli. Molti coleotteri (carabidi, scarabeidi), ad esempio, conducono lo sta-dio larvale nella lettiera o nei primi orizzonti del suo-lo, mentre nello stadio adulto utilizzano il suolo come fonte trofica e rifugio.

Geobionti: sono organismi estremamente adattati alla vita nel suolo e non sono in grado di abbando-narlo nemmeno temporaneamente, in quanto le ca-ratteristiche anatomiche, sia della fase giovanile sia di quella adulta, non consentono loro di sopravvivere negli ambienti epigei. A questo gruppo appartengono molte specie di miriapodi, acari, e molluschi, oltre alla maggior parte dei collemboli, i dipluri ed i proturi. Come detto in precedenza la pedofauna è spesso clas-sificata in base a caratteristiche morfologiche, quali la lunghezza del corpo (Wallwork, 1970, Dindal 1990).

Microfauna: organismi la cui taglia è compresa tra 20 µm e 200 µm. Solo il gruppo dei protozoi è compreso completamente all’interno di questa categoria. Si pos-sono inoltre osservare piccoli acari, nematodi, rotiferi, tardigradi e crostacei copepodi.

Mesofauna: Organismi compresi tra 200 µm e 2 mm., quali: nematodi, rotiferi, tardigradi, piccoli ara-neidi, pseudoscorpioni, opilioni, enchitreidi, larve di insetto, piccoli isopodi e miriapodi.

Macrofauna: Organismi di dimensioni comprese tra 2 mm e 20 mm. In questo gruppo sono inclusi alcu-ni lombrichi, gasteropodi, isopodi, miriapodi, alcuni araneidi e la maggior parte degli insetti.

Megafauna: Organismi di dimensioni maggiori di 20 mm. A questa categoria appartengono gli invertebrati di dimensioni maggiori (lombrichi, gasteropodi, mi-

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15Alan Leoni, Cristina Menta, Federica Conti Delia Piccoli artropodi del suolo: biodiversità e bioindicatori

riapodi) ed i vertebrati (insettivori, piccoli roditori, rettili e anfibi). Nel ciclo del detrito gli organismi della meso- e ma-crofauna svolgono un'azione principalmente mec-canica (frammentazione), mentre l'attività di tipo biochimico è in gran parte dovuta ai batteri sim-biontici presenti nel loro intestino o liberi nel terre-no. La frammentazione è comunque fondamentale per la fertilità del terreno in quanto, aumentando il rapporto superficie/volume delle particelle, facilita l'aggressione di queste da parte di batteri e funghi e accelera, di conseguenza, la decomposizione ed il ricircolo dei nutrienti (Zanella et al. 2001). Gli or-ganismi della macro e mesofauna agiscono inoltre sulle popolazioni microbiche e fungine sia regolan-done la numerosità mediante predazione diretta od ingestione casuale sia diffondendo attraverso le feci spore ancora vitali. L’azione di scavo (bioturbazione) che alcuni taxa edafici compiono per spostarsi nel substrato fa-vorisce la creazione di spazi all’interno del suolo incre-mentando la porosità dello stesso. L'aumento dei pori tra le particelle a sua volta favori-sce l’attività batterica aerobia e di conseguenza la velocità di degradazione della sostan-za organica. La bioturbazione ha anche effetti positivi sui processi di percolazione e lo sviluppo della rizosfera, oltre a permettere il rimescola-mento del suolo e l’incorpo-razione della sostanza organi-ca degli strati più superficiali in quelli più profondi. Le specifiche caratteristiche dell’ambiente suolo (assenza di luce, limitate variazioni di temperatura ed umidità, spazi ridotti) determinano nei taxa strettamente legati ad esso evidenti fenomeni di convergenza evolutiva; infatti, anche in gruppi animali filogeneticamente distanti si osservano caratteri morfologici comuni legati all’adattamento alla vita nel suolo. Alcuni di questi caratteri, quali la riduzione delle dimensio-ni del corpo (miniaturizzazione), la riduzione della lunghezza delle appendici (zampe, antenne, furca) e la perdita di funzionalità degli occhi, che in alcu-ni casi comporta la completa scomparsa degli stessi

(anoftalmia), sono diretta conseguenza dei processi di riduzione di strutture che rivestono un'impor-tanza determinante nell’ambiente epigeo ma che nel suolo perdono la loro funzione. All’opposto si assiste allo sviluppo di igrorecettori e chemiorecettori che consentono agli organismi edafici di cercare cibo e condizioni più adatte alla sopravvivenza. Alla luce della vastità dell’argomento si preferisce incentrare il resto di questa trattazione sul gruppo dei microartropodi, cioè di quegli artropodi che ap-partengono principalmente alla mesofauna od alla componente di minori dimensioni della macrofau-na (es. chilopodi, diplopodi), citando solo i gruppi maggiormente rilevanti nella comunità edafica per numerosità o come indicatori di qualità del suolo. Infatti, come ricordato in precedenza, gli adatta-menti alla vita ipogea osservabili in questi organismi

(anoftalmia, tegumenti sottili, depigmentazione) li rendono particolarmente sensibili alle variazioni dei parametri am-bientali; per tale motivo alcuni gruppi sono generalmente cor-relati a suoli stabili e relativa-mente protetti dagli stress am-bientali. Tra questi taxa si de-vono ricordare sinfili, pauro-podi e proturi, (Bedano et al. 2006, Wallwork 1970) la cui diffusione è limitata all’am-biente ipogeo, con un conse-guente elevato adattamento alla vita nel suolo. Sebbene in alcuni casi siano state osserva-te notevoli densità dei tre taxa sopraccitati, i microartropodi numericamente dominanti nel suolo sono acari e collembo-li. Gli acari costituiscono un ordine, probabilmente polifi-letico, che attualmente com-prende più di 20000 specie, le quali si ipotizza rappresen-tino solo una parte estrema-

mente esigua del numero reale (Dindal 1990). Gli acari utilizzano una elevata varietà di risorse trofiche e nel suolo sono importanti sia come predatori (es. gamasidi) sia come detritivori (es. oribatei). Gli acari oribatei (Fig. 1) sono tra i gruppi di microartropo-di dominanti negli orizzonti organici del suolo dove svolgono una azione determinante nel ciclo del de-trito, arrivando in alcuni casi a ingerire anche il 50% dei prodotti di caduta delle piante (Wallwork 1970,

Fig 1: Acaro Oribateo. Foto Leoni A.

Fig 2: Mesaphorura krausbaueri (collembolo). Foto Leoni A.

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Notiziario 201016 Società Reggiana di Scienze Naturali

Dindal 1990). Tali acari sono più numerosi in suoli stabili come quelli forestali, mentre sono relativa-mente più rari nelle aree intensamente coltivate.I collemboli (Fig. 2) sono insetti apterigoti di piccole dimensioni (0,5 - 5 mm), la cui densità nel suolo può raggiungere in condizioni favorevoli, come nelle aree forestali, anche valori di 50000 individui/m2. Sono principalmente fungivori o detritivori (ma sono note an-che specie batteriofaghe o predatrici) e presentano una notevole adattabilità alle diverse risorse alimentari sia come gruppo sia a livello di singole specie. Tra i collem-boli è possibile evidenziare alcuni gruppi particolarmen-te sensibili agli stress ambientali (disseccamento, com-pattazione del suolo, ridotta disponibilità di nutrienti), tra cui le specie appartenenti alle famiglie Onychiuridae (Onychiurus, Protaphorura) e Tullbergiidae (Mesapho-rura, Paratullbergia), che mostrano evidenti adat-tamenti morfologici alla vita edafica. La presenza di tali specie indica ge-neralmente suoli stabili e tendenzialmente con buona disponibilità di nutrienti (Parisi 2001).I coleotteri, con le 300.000 specie note, rap-presentano il più grande ordine tra gli insetti ed anche nel suolo sono uno tra i gruppi più abbon-danti e variegati. Le fami-glie più comunemente as-sociate all’ambiente ipo-geo sono: Scarabaeidae, Pselaphidae, Staphylini-dae, Elateridae, Carabidae e Silphidae. Tra queste le più diffuse e frequenti sono Carabidae e Staphylinidae, le prime prevalentemente predatrici, le altre includono predatori e saprofagi. Nel suolo gli appartenenti a questo gruppo si comportano principal-mente come geofili; la larva e la pupa sono fondamen-talmente ipogee, mentre l’adulto vive in superficie e può rientrare nel suolo per cacciare o svernare (Menta 2008).

Rinviando a testi specifici per una dettagliata ana-lisi delle caratteristiche morfologiche ed ecologiche dei taxa edafici, si vuole terminare questa rapida trattazione citando solo come elenco alcuni altri gruppi di micro-artropodi presenti nel suolo: araneidi, pseudoscorpioni, palpigradi, emitteri, embiotteri, tisanotteri, imenotteri (in particolare formicidi), ditteri e lepidotteri (principal-mente come stadio larvale).

La composizione delle comunità edafiche è influen-zata dalle caratteristiche del suolo quali il regime idrico del terreno, la presenza di sostanza organica, il pH ed il tipo di humus (Hagvar 1982, Kuznetsova 2002): fat-tori generalmente correlati anche al tipo di vegetazio-ne presente nell’area. D’altra parte la vegetazione stessa modifica attivamente le caratteristiche fisico-chimiche del suolo (Materna 2004) agendo di conseguenza sulla composizione della pedofauna. Infatti, mediante l’appa-rato radicale le piante cambiano la distribuzione dell’ac-qua e dei nutrienti nel suolo, oltre a variare la porosità dello stesso tramite l’azione di scavo delle radici sottili. I prodotti di caduta delle piante (foglie e legno morto) rappresentano la principale risorsa trofica per le comu-nità edafiche ed il chimismo di tali prodotti (in partico-lare la presenza di cere e fenoli, ed il rapporto carbonio/

azoto) può inibire o favorire lo sviluppo di alcuni taxa (Pinto et al. 1997). Si osserva quindi come tra suolo, vegetazione e fauna edafica esista una fitta rete di interazioni, in cui ognu-na di queste componenti modi-fica ed è a sua volta influenzata dalle altre.

Le relazioni tra la vege-tazione e la complessità delle comunità edafiche possono es-sere esemplificate mediante due studi svolti dal Museo di Sto-ria Naturale dell’Università di Parma, principalmente in area padana. Nel primo caso la ri-cerca ha esaminato il territorio della riserva naturale “Guadine Pradaccio” nell’appennino par-mense evidenziando come le

diverse tipologie vegetazionali osservabili nell’area (bo-schi di faggio, vaccinieti e praterie) sottendano differenti popolamenti edafici, mostrando anche correlazioni tra la biodiversità vegetale e la pedofauna. Infatti, sia gli ar-busteti a mirtillo sia le praterie secondarie nitrofile ana-lizzate mostravano una generale riduzione nella ricchez-za in specie, sia vegetali sia dei microartropodi, rispetto alle faggete. Tale impoverimento è attribuibile sia al gra-diente altitudinale (Kallimanis et al. 2002) sia al tipo di copertura vegetale che espone maggiormente il suolo agli eventi atmosferici (vento, pioggia, variazioni di tem-peratura). Il medesimo studio ha inoltre evidenziato la presenza di diverse specie di collemboli generalmente distribuite nell’arco alpino, confermando i legami bio-geografici già noti per la vegetazione (Leoni 2008).

Il secondo studio sottolinea invece gli effetti delle

Fig. 3 - Numero di gruppi osservatinelle sette tipologie vegetali esaminate

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17Alan Leoni, Cristina Menta, Federica Conti Delia Piccoli artropodi del suolo: biodiversità e bioindicatori

pratiche colturali rispetto ad aree a maggiore naturalità, mediante l’analisi di 205 siti appartenenti a 7 tipologie vegetazionali: coltivi a mais e frumento, erbai ad alfa-alfa (Medicago sativa), prati stabili, terreni incolti, boschi di querce e di faggio (Menta in press). Dai dati ottenuti si evince come le comunità di microartropodi presentino valori crescenti di varietà e complessità (Fig. 3) a par-t i re dai coltivi (mais e frumento), ai prati (alfa-alfa, incolti, stabili), sino ai boschi (faggete e querceti). Si è inoltre osservato come i siti coltivati a prato stabile mostrino valori paragonabili a quelli ottenuti in zone boschive, indicando il prato stabile polifita quale po-tenziale riserva di biodiversità edafica in aree a voca-zione agricola e confermando quanto già noto anche per la biodiversità vegetale (Gardi et al. 2002).

BioindicatoriCon il termine bioindicatori si intendono quegli

organismi o quelle comunità che modificano il loro stato in presenza di inquinanti od altri stress, fornen-do informazioni di tipo qualitativo sull’ambiente. Nell’ambito dello studio del suolo l’ultimo decennio ha visto un crescente sviluppo delle tecniche di bio-indicazione basate sulle comunità edafiche, conside-rando più gruppi funzionali e le relazioni che tra essi intercorrono (van Straalen 1998). Quale esempio di tale approccio si descrive di seguito l’indice di qualità biologica del suolo QBS-ar (Parisi 2001) che si carat-terizza per la facilità di impiego, l’economicità dei ma-teriali utilizzati e la rapidità nei tempi di preparazione degli operatori.

Come sopradescritto, gli organismi che abitano il suolo in modo continuativo evidenziano caratteri morfologici comuni dovuti alle particolari condizioni dell’ambiente ipogeo. Tali specializzazioni morfologi-che hanno però come conseguenza la maggiore vul-nerabilità di questi organismi agli stress ambientali, in quanto li rendono incapaci di abbandonare il suolo all’insorgere di condizioni sfavorevoli. L’indice sinteti-co QBS-ar (artropodi) valuta la qualità del suolo sulla base dell’intera comunità di microartropodi edafici ed è basato sul principio che un maggiore adattamento porta come conseguenza una più elevata vulnerabilità ai cambiamenti ambientali. Per tale motivo la presenza (o l’assenza) di gruppi euedafici (specializzati alla vita nel suolo) può essere utilizzata come strumento di va-lutazione della stabilità e della qualità di un suolo (Pa-risi et al. 2005). Tale approccio legato solo alla morfo-logia degli organismi permette di utilizzare il concetto di forma biologica, evitando i tipici problemi legati alla identificazione degli organismi a livello di genere o di specie, quali la necessità di operatori con elevate cono-scenze sistematiche e specializzazione in uno o pochi

Gruppo Valori EMI

Diplopodi 10-20

Chilopodi 10-20

Sinfili 20

Pauropodi 20

Collemboli 1-20

Proturi 20

Dipluri 20

Tisanuri 10

Blattari 5

Ortotteri 1-20

Dermatteri 1

Emitteri 1-10

Embiotteri 10

Tisanotteri 1

Psocotteri 1

Imenotteri 1-5

Coleotteri 1-20

Coleotteri (larva) 10

Ditteri (larva) 10

Lepidotteri (larva) 10

Acari 20

Araneidi 1-5

Opilionidi 10

Pseudoscorpioni 20

Palpigradi 20

Isopodi 10

Tab. 1: Schema (semplificato)per l’assegnazione degli EMI nell’indice QBS-ar.

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Notiziario 201018 Società Reggiana di Scienze Naturali

gruppi tassonomici. Con il termine forma biologica si identifica in questo caso un gruppo di organismi omo-geneo per morfologia e caratteristiche di adattamen-to alla vita nel suolo. Ad ogni forma biologica (FB) è possibile associare, mediante tabelle basate sia sulle caratteristiche tassonomiche sia sul livello di adatta-mento all’ambiente ipogeo, un valore numerico deno-minato Indice Ecomorfologico (EMI) compreso tra 1 e 20 (Tab. 1). Il valore dell’indice QBS corrisponde alla somma dei valori EMI associati alle forme biologiche estratte dai campioni di suolo. La metodologia di campionamento prevede il prelie-vo in ogni area di tre zolle di terreno e l’estrazione con selettore Berlese-Tüllgren (Wallwork 1970). Con l’ausilio di uno strereomicroscopio a basso ingrandi-mento (20 - 40 X) si procede quindi all’identificazio-ne delle FB ed all’assegnazione degli EMI. Il valore del QBS-ar è calcolato considerando tutti i gruppi

rilevati in almeno uno dei tre campioni di terreno; se in un gruppo sono presenti più forme biologiche si utilizza per la sommatoria il valore EMI più elevato tra quelli riscontrati. Il QBS-ar nei dieci anni trascorsi dalla sua prima divulgazione è stato impiegato in varie tipologie di ambiente sia naturali o semi-naturali (bo-schi e prati in aree protette, greti fluviali) sia in aree a diverso grado di antropizzazione (terreni coltivati, prati stabili), fino a zone fortemente degradate (di-scariche RSU). I dati ottenuti mostrano la sensibilità di tale indice ai diversi fattori ambientali quali: tipo di suolo, uso del suolo, tipo di vegetazione, e tipo di gestione nelle aree coltivate. Si deve però ricordare che come altri indici basati sulle comunità di organismi, il QBS-ar fornisce indicazioni relative al grado di soffe-renza di un suolo, ma che per valutarne le cause deve essere necessariamente associato ad indagini di tipo chimico, fisico e microbiologico.

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19Alan Leoni, Cristina Menta, Federica Conti Delia Piccoli artropodi del suolo: biodiversità e bioindicatori

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Zanzare, Zecche, Pidocchi & c. Così vicini e... così pericolosi?

Loredana GuidiAzienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia*

*Relazione della conferenza tenuta presso i Musei Civici di Reggio Emilia il 4 aprile 2010

Infestazione da pidocchi: pediculosiLa pediculosi è un'infestazione provocata dai pi-

docchi: piccoli parassiti (da uno a tre millimetri) di colore bianco-grigiastro che vivono solo sull'uomo e ne succhiano il sangue; si riproducono e depongono le uova attaccandole tenacemente ai capelli o ai peli.

Esistono tre diverse specie di pidocchi: quello del-la testa (Pediculus capitis), quello del corpo (Pedicu-lus humanus) e quello del pube (Phthirus pubis).

Pediculosi del capoÈ un'infestazione molto comune tra i bambini in

età prescolare e scolare (3-11 anni) e le loro famiglie. Le bambine sono più colpite dei maschi probabilmen-te a causa dei capelli lunghi, la trasmissione avviene in maniera diretta da una testa all’altra (il pidocchio non vola e non salta ma si muove) attraverso indumenti infestati (berretti, sciarpe) o con l’uso in comune di pettini, cuffie da bagno ecc.

È un’infestazione che si può trovare sia nei paesi ricchi che in quelli in via di sviluppo: non c'è correla-zione stretta tra l'igiene personale o lo stato di pulizia degli ambienti.

Non è un’infestazione pericolosa, può comunque provocare infezioni della pelle causate dal grattamen-to. I pidocchi al di fuori del corpo umano non posso-no vivere a lungo.

Un'accurata ispezione del cuoio capelluto è suffi-ciente per scoprire l'infestazione; le uova (lendini) ap-paiono sui capelli come puntini di aspetto biancastro che possono essere confusi con la forfora ma, a diffe-renza di questa, sono fortemente attaccate al capello.

L’infestazione si manifesta con irritazione e inten-so prurito soprattutto alla nuca, alla zona retro auri-colare e alla zona posteriore del collo.

La prevenzione si attua con corrette norme igie-niche come per es. evitare la condivisione di effetti personali nelle collettività.

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Notiziario 201022 Società Reggiana di Scienze Naturali

Pediculosi del pubeIl pidocchio si trova tra i peli delle regioni pubica

e perianale, del torace, delle cosce, delle ascelle, ciglia, sopracciglia, barba e baffi, ma mai nei capelli.

La trasmissione avviene per contatto intimo negli adulti. Induce prurito e provoca dermatiti, lesioni da grattamento che si possono complicare infettandosi. Per il trattamento occorre rasare i peli delle parti in-teressate ed utilizzare gli stessi prodotti antiparassitari con trattamenti ripetuti.

Pulce del gattoQuesto parassita provoca irritazione cutanea pru-

riginosa localizzata e anche dermatite allergica; può essere vettore di importanti malattie batteriche e an-che veicolo di alcune tenie.

Pulce del rattoÈ vettore primario della

peste bubbonica, della peste polmonare e del tifo murino. La prevenzione si attua col controllo di roditori e di pul-ci, la derattizzazione e l’uso di insetticidi.

Zanzara tigreQuesto insetto è vettore

di diverse malattie causate da arbovirus: chikungunya, den-gue, febbre gialla, encefaliti. Ma a parte la chikungunya, nelle nostre zone le altre pa-tologie sono assenti e quindi il rischio al momento è solo teorico. La prevenzione si at-tua con insetticidi di sintesi, i piretroidi, spruzzati in modo mirato dove si presume siano i focolai; si possono usare an-che alcuni prodotti in solven-ti acquosi che hanno un mi-nore impatto sull’ambiente e sulla salute; sono però abbat-

tenti e non persistenti, non rischiano di generare resi-stenze, hanno un’azione acuta e non cronica uccidendo le zanzare all’istante. Altro prodotto consigliato deriva da un batterio capace di produrre una tossina ad azio-ne molto specifica contro la zanzara tigre. Quest’ulti-mo ha numerosi vantaggi: è naturale, è già presente nell’ambiente, uccide solo le larve, si degrada molto velocemente, obbliga però a ripetere il trattamento con una certa frequenza.

Pediculosi del corpo e pediculosi del pube

Nessun prodotto chimico previene l’infestazio-ne; in caso si sospetti o sia presente infestazione nel-la comunità, ispezionare con regolarità la testa del bambino. Come terapia si usano prodotti insetticidi (polveri, shampoo, lozioni o spray) a base di estrat-to di piretro o piretroidi di sintesi (tretrametrina); durante il trattamento è utile ripassare i capelli col pettine a denti fitti (possibilmente scuro che per-mette di visualizzare le uova); è necessaria una se-conda applicazione di insetticida 7-10 giorni dopo la prima. Un utile rimedio “della nonna” è quello di frizionare il capo con una soluzione di acqua e aceto tiepida in parti eguali che riduce l’adesione delle uova al capello, ripassare i capelli dopo circa mezz’ora con il pettine fitto, esaminare i capelli ciocca per ciocca e sfilare manualmente le lendini. Lavare a 60°C o a secco gli abiti infestati, lenzuola e federe; immergere pettini, spazzole e fermagli in acqua bollente e sham-poo antiparassitario/deter-sivo/disinfettante per 1 ora; gli oggetti che vengono te-nuti a contatto con i capelli (ad es. peluche usati per ad-dormentarsi) devono essere lasciati all’aria aperta.

Il bambino affetto da pe-diculosi non può frequenta-re la collettività scolastica fino a che non abbia iniziato il trattamento specifico.

Pediculori del corpoIl pidocchio del corpo

è più grande di quello del capo, lo si trova negli indu-menti a diretto contatto con il corpo, provoca dermatiti pruriginose. La terapia è a base di formulazione inset-ticida in polvere: applicarla anche sulle superfici interne degli abiti, nelle cuciture, nelle pieghe e nelle tasche; ripetere un secondo intervento dopo 8-10 giorni. Trattare anche letti, materassi, cuscini e coperte.

Anche in questo caso gli indumenti devono es-sere lavati ad una temperatura di 60°C per un'ora o lavati a secco. Il pidocchio del corpo può essere vettore di malattie gravi come il tifo esantematico, la febbre ricorrente e la febbre delle trincee.

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23Loredana Guidi Zanzare, zecche, pidoccchi & C. Così vicini e...così pericolosi?

Come proteggersi dalla zanzara tigre: indossare abiti di colore chiaro, maniche lunghe e pantaloni lunghi, evitare l’uso di profumi, applicare sulla cute esposta repellenti per gli insetti ripetendo l’applica-zione ogni 2-3 ore; i repellenti e gli insetticidi a base di piretroidi possono essere spruzzati direttamente sugli abiti e sulle zanzariere.

Febbre ChikungunyaÈ una malattia virale caratterizzata da febbre,

cefalea, brividi, nausea, vomito, dolore articolare, e rash cutaneo, sanguinamenti da naso o gengive; solo rari casi hanno prognosi severa e devono essere ospedalizzati per interessamento del sistema nervoso centrale (meningo-encefaliti) che colpiscono soprat-tutto individui defedati. È una malattia quasi sempre auto-limitantesi e raramente fatale. Non esiste alcuno specifico trattamento contro il virus: la terapia è basata su farmaci sin-tomatici (antipiretici, antinfiammatori, riposo a letto e reintegrazione dei liquidi). Si può tra-smettere tramite il san-gue infetto.

AcariSi nutrono di scorie

organiche (residui di cellule morte, desqua-mazione della cute, peli, capelli…) e l’umidità e il calore ne favoriscono la proliferazione. Sono innocui eccezion fatta per le persone allergiche, che lamentano spesso l’insorgenza di crisi durante la notte o la mattina al risveglio poiché durante il son-no inalano le loro escrezioni. L'allergia non segue un andamento stagionale ma è presente in tutto l'arco dell'anno. Organi e apparati colpiti sono: l’apparato respiratorio (rinite allergica, tosse, asma), gli occhi (congiuntivite allergica) e la cute (eczema, dermatite atopica).

ScabbiaVolgarmente conosciuta col termine di “rogna”,

frequente negli strati sociali più poveri e con scarse misure igieniche. La femmina gravida del parassita scava un cunicolo nello strato corneo dell’epidermi-de, deposita ogni giorno due o tre grosse uova e muo-re dopo 30/60 gg. Nel punto di entrata del parassita

nella cute si forma un piccolo ponfo o macchiolina rosso-brunastra, in genere trascurata.

La trasmissione avviene per contatto personale (cute-cute), raramente da indumenti o da effetti let-terecci. La contagiosità è per tutto il periodo in cui il soggetto non è trattato; sono considerati “contatti stretti” i familiari e i conviventi; nel caso di un alun-no viene disposto l’allontanamento da scuola: verrà riammesso alla frequenza scolastica dopo controllo e certificazione da parte del medico curante dell’esecu-zione corretta della terapia.

La sintomatologia è caratterizzata da prurito in-tenso, specialmente notturno, che si acuisce col calore; le lesioni da grattamento possono confondere i segni dell’infestazione e sono evidenti soprattutto negli spazi tra le dita delle mani, dei piedi e alle pieghe dei polsi, delle ascelle, all’areola mammaria, nella parte interna

delle cosce, nella regione inguinale, ombelicale; nei bambini può colpire anche il volto. Per fare diagnosi certa occorre prelevare un campione di materiale dai cunicoli e farlo analizzare.

La terapia consiste nel trattamento con creme o lozioni dell'in-tera superficie cutanea dal collo in giù; non bisogna trascurare nes-suna zona. L'applica-zione va ripetuta anche il giorno dopo ma non oltre, va attuata terapia

antibiotica per le sovrin-fezioni batteriche delle

lesioni; va effettuata bonifica dell’ambiente lavando a 60°C la biancheria, le lenzuola e gli asciugamani; i vestiti che non possono essere lavati in acqua, devono essere esposti all’aria per alcuni giorni.

ZeccheIl morso della zecca non è di per sé pericoloso per

l’uomo; i rischi dipendono invece dalla possibilità di contrarre infezioni trasmesse da questi animali in qualità di vettori. Il morso è generalmente indolore perché questo parassita emette una sostanza conte-nente principi anestetici.

Le precauzioni da mettere in atto recandosi in bo-schi, prati ecc. sono: • vestirsi con abiti chiari e cappello • utilizzare repellenti

Scabbia

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Notiziario 201024 Società Reggiana di Scienze Naturali

di un alone rossastro che tende ad allargarsi, febbre, mal di testa, de-bolezza, dolori alle articolazioni, ingrossamento dei linfonodi; nel caso si riscontrino questi sintomi, rivolgersi al proprio medico curan-te.

Patologie infettive veicolateda zeccherickettsiosiborreliosi di Lymefebbre ricorrente da zecche tularemiameningoencefalite da zecche ehrlichiosi

Febbre bottonosadel Mediterraneo o rickettsiosi

(Il batterio trasmesso dalla zecca è la rickettsia). È una malattia più diffusa nell’area del Mediterraneo e in Italia; è trasmessa da una zecca del cane e di altri animali domesti-ci e selvatici (conigli, lepri, ovini, caprini e bovini). La malattia ha un periodo di incubazione fra 5 e 7 giorni dopo il morso della zecca infetta; la diagnosi di laboratorio si basa sull’identificazione della ri-sposta anticorpale specifica. La ma-lattia ha un esordio improvviso con sintomi simil influenzali, comparsa di esantema maculo-papuloso an-che alla pianta dei piedi e al palmo delle mani (vasculite); nei casi non complicati il trattamento antibioti-co è risolutivo nel giro di 2-3 gior-ni. Può essere letale in un numero molto basso di casi, ma si tratta in special modo di persone in condi-zioni di salute già compromesse. La serietà della malattia è data dalle possibili complicazioni a carico del sistema cardiovascolare, renale e

del sistema nervoso centrale.

Borreliosi di Lyme È sempre un’infezione di origine batterica (Borrelia);

colpisce la pelle, le articolazioni, il sistema nervoso e gli or-gani interni. Compare una macchia rossa che si espande lentamente; entro qualche settimana/qualche mese com-paiono disturbi neurologici come meningiti e polineuriti

• non uscire dai sentieri • non addentrarsi nell’erba alta • trattare con antiparassitari gli

animali domestici • mantenere l’erba di casa ben

tagliata• al ritorno da scampagnate e

gite occorre fare un attento esame visivo e tattile della pel-le, degli indumenti e se presen-ti zecche rimuoverle, spazzola-re gli indumenti, ispezionare il pelo del cane. Sulla pelle le zecche vanno

prontamente rimosse; la probabi-lità di contrarre un’infezione è di-rettamente proporzionale alla du-rata della permanenza del parassita sull’ospite. In ogni caso non è det-to che chiunque venga morso da zecca debba necessariamente con-trarre infezioni; questo vale solo per una percentuale di individui.

Rimozione della zecca• afferrarla con una pinzetta il

più possibile vicino alla pelle• tirare con un leggero movi-

mento di rotazione (attenzio-ne a non schiacciare il corpo della zecca, il rigurgito aumen-ta la trasmissione di malattie)

• disinfettare la zona dopo la rimozione evitando i disinfet-tanti che colorano la cute per-ché falserebbero il successivo periodo di osservazione

• non toccare a mani nude la zecca: se il rostro rimane all’in-terno della cute, estrarlo con un ago sterile

• distruggere la zecca brucian-dola.

Cosa non fare• non utilizzare mai per rimuo-

vere la zecca alcol, benzina, acetone, trielina, ammoniaca, creme ecc.; questi tentativi, che dovrebbero servire per asfissiare la zecca, sono inutili nonché dannosi. Occorre sempre considerare un periodo di osser-

vazione di 30-40 giorni per individuare la comparsa di eventuali segni e sintomi di infezione: comparsa

Rimozione della zecca

Borreliosi di Lyme

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25Loredana Guidi Zanzare, zecche, pidoccchi & C. Così vicini e...così pericolosi?

o disturbi muscolo articolari come artralgie migranti e mialgie, può comparire anche miocardite e disturbi della conduzione atrio-ventricolare; i sintomi sono fluttuanti; possono durare per mesi e cronicizzarsi. Anche in questo caso possono comparire artrite cronica, meningite, encefa-lomielite, atassia cerebellare, polineuropatie sensitivo–mo-torie, disturbi del sonno e comportamentali, a carico della cute acrodermatiti, dell’apparato cardiovascolare mioperi-cardite e cardiomegalia. Gli esami di laboratorio si basano sulla ricerca di anticorpi specifici, la malattia non porta a sviluppare immunità per cui può ripresentarsi.

Febbre (Borreliosi) ricorrente da zeccheL’agente patogeno anche in questo caso è la Borrelia

che può essere trasmessa anche dai pidocchi.I sintomi prevalentemente sono caratterizzati da feb-

bre alternata a periodi di apiressia, malessere di tipo in-fluenzale. La letalità è bassa tranne che in soggetti in con-dizioni di salute già compromesse.

RagniIl morso di ragni ha effetto irritante locale, provoca

vivo dolore anche lungo tutto l’arto. Nel punto di mor-so permane (per alcuni giorni fino a qualche mese) una zona rosso-bluastra con prurito, parestesie, ingrossamento dei linfonodi, brividi, ipertermia, cefalea, nausea e vomito, edema delle parti colpite, zone di necrosi che durano an-che due mesi. Il trattamento consiste nell’ applicare ghiac-cio sulla zona colpita, terapia cortisonica per l’infiamma-zione ed antibiotica se c’è infezione batterica.

OssiuriasiÈ diffusa in tutto il mondo, interessa maggiormente i

bambini in età scolare e prescolare; gli animali domestici non sono contagiati; l’uomo è l’ospite che ingerisce le uova del parassita attraverso la via oro-fecale o attraverso oggetti contaminati (giocattoli, lenzuola, biancheria, copri sedili di WC). Dopo l’ingestione dell’uovo, c’è la liberazione nell’intestino tenue delle larve che migrano fino all’inte-stino cieco: qui, in meno di un mese, si sviluppano nuove femmine gravide, pronte a deporre le uova. La femmina di ossiuro gravida raggiunge la zona perianale dove deposita circa 10.000 uova e qui di norma muore; ciascun uovo contiene un embrione; il periodo di contagiosità dura fino a che le femmine depongono le uova; il sintomo più eclatante è il prurito anale e perianale particolarmente fa-stidioso durante la notte; possono comparire disturbi del sonno e irritabilità (a causa del prurito). A volte però l’in-festazione può essere anche asintomatica. Il grattamento può comportare eczema perianale o infezione purulenta per sovrinfezione batterica. La diagnosi (effettuata tramite scotch test) ricerca al microscopio le uova. Un corretto comportamento di igiene personale previene il contagio;

quando è presente un individuo infestato, tutti i soggetti all’interno del nucleo familiare o della comunità devono essere trattati. Oltre la terapia specifica, occorre quotidia-namente cambiare le lenzuola e la biancheria intima, la-vando il tutto in lavatrice a 60° C.

AscaridiosiL’infestazione si manifesta con una fase precoce di

interessamento polmonare e una tardiva intestinale. Ci si ammala per ingestione di uova contenute nel cibo conta-minato o trasportate con le mani sporche di terra conta-minata. È frequente nelle zone rurali, più frequente nei bambini e risente della scarsa igiene personale. Dopo l’in-gestione delle uova, nell’intestino tenue si liberano le lar-ve che attraversano la parete intestinale e trasportate dalla corrente sanguigna o linfatica arrivano al polmone; le larve risalgono fino all’epiglottide, riingerite tornano al digiuno dove maturano.

I sintomi polmonari sono: broncopolmonite, tosse, dispnea, febbre, possono coresistere casi più lievi asinto-matici. I sintomi addominali sono: dolori addominali, malassorbimento del cibo, ritardo di crescita. Occorre fare terapia specifica.

TeniaLe uova del parassita (echinococco) si trovano nel

terreno o sulle piante; vengono ingerite dai bovini (ospiti intermedi) e nel loro intestino si liberano gli embrioni, che penetrano nella parete e attraverso i vasi sanguigni e linfa-tici vengono trasportati ai muscoli, dove si trasformano in cisti che possono rimanere vitali anche per 3 anni. L’inge-stione da parte dell’uomo di carne bovina cruda o poco cotta è seguita dallo sviluppo del verme adulto nell’intesti-no nel giro di circa 2 mesi.

La sintomatologia è di scarso rilievo o assente: a volte lieve insofferenza epigastrica, nausea, sensazione di fame, calo ponderale, diarrea, irritabilità e aumento dell’appetito, a volte segmenti di verme vengono eliminati con le feci. Si attua terapia specifica. Il verme non resiste ad una adegua-ta cottura della carne, così come al congelamento o alla conservazione sotto sale.

Nell’uomo si formano le cisti idatidee da echinococco sia nel fegato che nel polmone. Un tempo era contratta so-prattutto da pastori. Prima della diagnosi possono trascor-rere anche 20 anni. I sintomi compaiono quando le cisti si rompono: in questi casi la terapia è soprattutto chirurgica.

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Segnalazione di una associazione ad echinidi con spatangoidi prevalenti

in SardegnaPaolo Stara1, Luigi Sanciu2 e Roberto Rizzo3

1 Museo di Storia Naturale Aquilegia, via Italia 63, Pirri - Cagliari2 Centrostudi di Storia Naturale del Mediterraneo, c/o Geomuseo Monte Arci “Stefano Incani”, Masullas (OR)

3 Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna, Via Monteverdi, Iglesias (CI)

RiassuntoUna interessante associazione ad echinidi viene

segnalata in territorio di Isili, Provincia di Cagliari, Sardegna, Italia, entro i sedimenti marnoso-arenacei del Miocene Medio (Formazioni delle Marne di Ges-turi, Burdigaliano superiore – Langhiano Medio).

Si tratta di echinidi dei generi Spatangus Gray, 1825; Toxopatagus Pomel 1883; Heterobrissus Man-zoni e Mazzetti, 1877; Aliaster Valdinucci, 1975; Ova Gray, oltre ad altri per la cui determinazione sono in corso ulteriori studi. Tra questi, Heterobrissus Manzo-ni & Mazzetti, 1877 viene qui segnalato per la prima volta in Sardegna.

Parole chiave: Spatangoida, Heterobrissus, Mio-cene, Sardegna.

AbstractAn interesting echinoidea association has been

reported in Isili (Cagliari Province, Sardinia, Italy) inside the middle Miocene (Marne di Gesturi Fm., Late Burdigalian – Middle Langhian) deposits. There are echinoids of the genera Spatangus Gray, 1825; Toxopatagus Pomel, 1883; Heterobrissus Manzoni & Mazzetti, 1877; Aliaster Valdinucci, 1975; Ova Gray, besides many others we are still studyng. Heterobrissus Manzoni & Mazzetti, 1877 has been reported here for the first time in Sardinia.

Key words: Spatangoida, Heterobrissus, Miocene, Sardinia.

Introduzione Il più recente studio sugli echinidi del Miocene

della Sardegna è dovuto a Comaschi Caria (1972); nessun altro specifico lavoro di sistematica regionale sugli echinidi risulta successivamente pubblicato.

Questo lavoro è il frutto di uno studio sistematico degli echinidi appartenenti alle collezioni del Museo di Storia Naturale Aquilegia di Cagliari e ad alcune collezioni private dell’Isola. Gli esemplari di echinidi esaminati provengono dai depositi sedimentari are-nacei e marnoso-arenacei affioranti ad E del centro abitato di Isili ed appartenenti alla formazione delle Marne di Gesturi (Burdigaliano sup.-Langhiano me-dio). Sono stati, inoltre, rilevati gli aspetti geologici dell’area e verrà effettuata anche una caratterizzazione paleoambientale e paleoecologica della fauna echino-logica in oggetto.

Materiali e metodiSono stati esaminati 60 individui pressoché com-

pleti, tutti raccolti nelle località di Baraci, Nuraghe Longu (Nur. Sant’Antonio nella nuova topografia) e Conca su Trau e, al fine di una migliore comparazione con quanto riportato in letteratura, sono state rilevate 17 misure dimensionali e fotografati 3 (ove necessa-rio 4) lati di ciascun esemplare. Di questi, un solo campione (il più significativo) per genere e per specie viene pubblicato.

Il seguente set dimensionale è stato rilevato per mezzo di un calibro ventesimale. Eccetto che per i pe-taloidi, le altre misure sono state eseguite sulla proie-zione verticale dell’esemplare in posizione di vita; in pochissimi casi, a causa di qualche incompletezza di parti del guscio, le misure sono state stimate.

Set di misure (fig. 1): L= lunghezza; W= lar-ghezza; H= altezza; L1= distanza apice-margine an-teriore; L2= lunghezza petaloide anteriore pari (ove possibile il sinistro); L3= larghezza petaloide ante-riore pari (idem); L4= lunghezza petaloide posteriore pari (idem); L5= larghezza petaloide posteriore pari

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Notiziario 201028 Società Reggiana di Scienze Naturali

(idem); L6= larghezza sinus; L7= profondità sinus; L8= lunghezza solco; L10= distanza stoma - margine anteriore; L11= larghezza periprocto; L12= altezza periprocto; Lp= lunghezza massima piastrone; Wp= larghezza massima piastrone; Dpa= divergenza peta-loidi anteriori pari; Dpp= divergenza petaloidi pari posteriori. Per una maggiore immediatezza nella let-tura e, al fine di eliminare l’influenza del fattore di crescita, la maggiore parte delle suddette misure sono state riportate nel testo come percentuale di L e nel caso del piastrone è stato considerato anche il rap-porto Wp/Lp.

Localizzazione dell’areaL’area studiata è posta ad Est del centro abitato

di Isili, Sardegna Centro-meridionale (Provincia di Cagliari) e ricompresa nei Fogli IGM 540 Sez. IV Isili e 540 Mandas della Carta geologica d’Italia al 50.000, del Servizio Geologico Italiano.

GeologiaNotizie generali

sulla geologia dell’area di Isili si ritrovano in Cherchi (1974;1985) e Carmignani et al. (2001). In particolare Murru et al. (2002a) hanno studiato gli affioramenti carbona-tici corrispondenti ai Calcari di Villagreca, individuando una “carbonate factory” (piattaforma carbonatica) risa-lente al Miocene Inferiore, di cui hanno definito la genesi. Tuttavia, nessuna descrizione se non generica, è stata fatta sulle macrofaune nei sedimenti della For-mazione delle Marne di Gesturi, situati stratigrafica-mente sopra ciò che resta della suddetta piattaforma. In particolare, la struttura in questione si sarebbe for-mata come conseguenza di forze tettoniche estensio-nali responsabili della formazione del rift oligo–mio-cenico della Sardegna (Cherchi & Montadert, 1982) che hanno provocato lo sprofondamento del basa-mento pre-oligocenico superiore lungo una direttrice NW-SE che va dal Golfo di Cagliari fino al Golfo dell’Asinara. Ha avuto inizio, così, con la conseguente e progressiva ingressione marina, il primo ciclo sedi-mentario marino del Miocene. Diverse faglie dirette,

parallele alla direzione principale del rift, formarono anche bacini marini di modesta estensione situati lungo i rilievi pre-oligocenici ancora affioranti. A par-tire dalla fine del Cattiano e fino al Burdigaliano infe-riore, in particolare lungo il suo margine orientale, si sarebbero formati dei reef con coralli ermatipici e limitate piattaforme carbonatiche. Nel bacino di Isili si formarono delle piattaforme carbonatiche e local-mente dei piccoli reef con andamento sub parallelo alle linee di costa, formando dei bracci di mare pro-tetti, collegati al bacino principale attraverso alcuni canali marini, descritti, dal punto di vista paleoam-bientale, da Murru et al. (2002b). In seguito movi-menti tettonici distensivi, che avrebbero determinato un ulteriore sprofondamento dell’area avrebbero in-terrotto la formazione di tali piattaforme e dato vita

a bacini di sedimen-tazione relativamente profondi anche se di piattaforma, ove si sarebbero depositati, a partire dal Burdi-galiano e fino al Lan-ghiano, i sedimenti arenacei e marnoso-arenacei entro i quali sono state trovate le diverse associazioni a echinidi segnalate in questa breve nota.

BaraciQuesta località si

trova a N della estesa giara basaltica di Isili-Nurri dove, alla quota di circa 515-525m

slm, si trova un altopiano di modesta estensione che segue l’andamento orizzontale delle bancate di sedi-menti marnoso-arenacei ivi presenti. In questi sedi-menti abbiamo osservato una associazione echino-logica con Heterobrissus, Spatangus corsicus, spatan-gidi non meglio identificati e rari pettinidi del genere Amusium.

Secondo il foglio 540 - Mandas, del Servizio Geo-logico Italiano, questi sedimenti risalgono al Burdiga-liano superiore-Langhiano medio (GSTc). Scenden-do di livello, l’erosione differenziale ha formato dei gradoni basati su alternanze di banchi arenacei o mar-noso-arenacei più o meno compatti. Anche in questi gradoni sono stati osservati esemplari di spatangidi per ora non meglio identificati. Scendendo questi gradoni, alla quota di 490-500m slm si osserva un

Figura 1Schema delle misure biometriche utilizzate nel testo.

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29Paolo Stara, Luigi Sanciu & Roberto Rizzo Segnalazione di una associazione ad echinidi...

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Notiziario 201030 Società Reggiana di Scienze Naturali

ultimo banco di arenaria marnosa grigia, apparente-mente sterile, il quale, messo in risalto dall’erosione superficiale differenziale, corre alla base del rilievo per qualche centinaio di metri. Nei sedimenti affioranti al di sotto di questo banco abbiamo osservato una abbondante fauna echinologica composta, in ordine di frequenza, da schizasteridi, piccoli spatangidi, peri-cosmidi, echinolampadidi, oltre ad altri echinidi che saranno oggetto di ulteriori studi. Questi sedimenti apparterrebbero al Membro delle Arenarie di Serra-longa, depositatesi a partire dall’Aquitaniano e fino al Burdigaliano; sulla base della sequenza osservabile localmente, questi affioramenti potrebbero essere stati depositati verso la fine di tale periodo.

Lungo i pendii di alcuni vicini rilievi, alla quota di circa 480m slm, le arenarie e le marne sono interrotte da uno strato, potente circa un metro, formato da un conglomerato ad elementi eterometrici decimetrici di origine paleozoica e mesozoica, cementato da arena-ria più o meno incoerente, con resti di pettinidi non meglio identificabili e, localmente, con abbondante Ostrea edulis lamellosa. I ciottoli del conglomerato e le stesse ostree mostrano attacchi da litofagi, spugne clionidi e da epibionti di ambiente litorale (verme-tidi non meglio deteminati). Tali sedimenti apparter-rebbero al Membro del Conglomerato di Duidduru e starebbero alla base della Formazione di Nurallao (NLL1 – Oligocene – Aquitaniano inferiore). A sud dell’area esaminata, al di sopra degli strati sedimen-tari di Baraci sono visibili le coperture basaltiche plio-pleistoceniche.

Nuraghe Longu (S. Antonio)In questa località affiorano marne e arenarie mar-

nose grigie con una associazione echinologica com-posta principalmente da Heterobrissus, Spatangus del-phinus, S. corsicus, Aliaster, Ova e, raramente, Toxo-patagus. I sedimenti di questa località sono indicati con la sigla GST del Foglio Mandas (Carta geologica d’Italia al 50.000) e risalirebbero alla parte superiore delle Marne di Gesturi, situabili stratigraficamente al Langhiano.

Conca su TrauSulla collina di Conca su Trau sono osservabili

tutti i sedimenti della complicata sequenza geologica che riguarda l’area di Isili. Alla sua base affiorano i Calcari di Villagreca, ben visibili lungo il corso dei Rii Corrigas e Brabacera, seguiti dal conglomerato e dalle arenarie di Serralonga della Formazione di Nurallao. Sopra questo pacco di sedimenti si trovano le Marne di Gesturi e i basalti pliopleistocenici. Nella parte più orientale, invece, affiorano sia il basamento Paleo-

zoico, sia le formazioni mesozoiche con le coperture oligoceniche. L’associazione echinologica osservata localmente è composta soprattutto da Spatangus cor-sicus con altri spatangidi che saranno oggetto di suc-cessivi studi.

Cenni di PaleoecologiaDalle prime osservazioni l’associazione segna-

lata corrisponderebbe a un’echinofauna tropicale di media profondità di piattaforma. Alcuni esemplari di Heterobrissus niasicus (una delle specie viventi di Hete-robrissus) proveniente dalle Filippine, presenti nelle collezioni del Museo Aquilegia, risulterebbero pescati a profondità intorno ai 200 metri. Le scarse incrosta-zioni presenti sulla superficie di molti degli esemplari fossili studiati, inoltre, non mostrano epibioni carat-teristici dei fondali costieri, come vermiculi, spugne clionidi ecc. ma sono di natura incerta. Questo, e i particolari danni rilevati nei gusci della echinofauna osservata, che riguardano soprattutto la faccia ado-rale degli echinidi, potrebbe indicare una sosta sulla superficie di un fondale relativamente profondo in presenza di bassa energia. Maggiori approfondimenti seguiranno l’esame completo delle echinofaune pre-senti in tutto il bacino oggetto del presente studio.

Classificazione sistematica

Ordine Spatangoida L. Agassiz, 1840Subordine Brissidina Stockley et Al. 2005

Famiglia Spatangidae Gray, 1825

Genere Spatangus Gray, 1825Il guscio ha contorno cordato con un solco ante-

riore più o meno profondo; la superficie apicale è più o meno inflata e il punto di massima altezza varia a seconda della specie; l’ambito è più o meno arroton-dato e la base più o meno appiattita; il disco apicale è sempre etmolisio con 4 gonopori, con la placca madreporica che si estende posteriormente al disco apicale, dove si allarga. L’ambulacro anteriore è stretto e dritto, con un piccolo poro per piastra, mentre gli ambulacri pari anteriori formano petaloidi allargati al centro e più o meno stretti all’estremità distale; una parte dei pori pari della fila anteriore sono chiusi o rudimentali, mentre i restanti sono più ampi e sempre coniugati (in alcune specie anche parte dei primi pori pari posteriori sono rudimentali). Gli ambulacri pari posteriori petaloidi sono allungati posteriormente e sempre meno flessuosi di quelli pari anteriori. Il peri-procto, ovale orizzontalmente, si apre sempre nella parte alta della faccia posteriore, che è più o meno

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31Paolo Stara, Luigi Sanciu & Roberto Rizzo Segnalazione di una associazione ad echinidi...

Fig. 1 Spatangus delphinus Defrance, 1827,esemplare S6 coll. Caschilia) Vista adapicaleb) Vista lateraleFig. 2 Spatangus delphinus Defrance, 1827,a) Vista posteriore MACPL1498b) Particolare apparato apicale MACPL1498

Fig. 3 Spatangus corsicus Desor,in Agassiz & Desor, 1847a) Vista aborale (Coll. Maullu)b) Vista laterale (idem)c) Vista adorale (idem)

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Notiziario 201032 Società Reggiana di Scienze Naturali

ampia, lungo la proiezione della sutura perradiale dell’ambulacro 5; il peristoma è più largo che lungo, reniforme, con dorso in avanti; il labbro, a forma di fungo o di incudine, vi si proietta leggermente sopra. Posteriormente la piastra labiale si trova in contatto con le due piastre sternali. Queste sono in genere am-pie, più lunghe che larghe e sempre fittamente tuber-colate. Insieme alle due episternali, queste formano il caratteristico piastrone, le cui caratteristiche oggi vengono ritenute diagnostiche. La tubercolazione aborale è eterogenea, con tubercoli sparsi in tutti gli intermbulacri. I tubercoli primari sono crenulati e forati, leggermente inclinati, ma non affondati nelle fossule (areole). Piccoli tubercoli sono sempre presen-ti attorno all’ambito. É presente solo una fasciola su-banale ben sviluppata bilobata a seconda della specie, ma non sempre visibile nei reperti fossili. (ripreso in parte da Smith, “The Echinoid Directory”, settembre 2011).

Spatangus delphinus Defrance, 1827(Tav. 1, fig. 1a, b; 2a, b)

Esemplari MACPL1500 (71mm); MACPL1544 (77mm); MACPL1498 (88mm); Ca8 (93mm); Ca6 (95mm).

Il contorno è in genere tanto lungo quanto largo; posteriormente ampiamente troncato; W varia da 93 a 103% di L. Il profilo è convesso con sommità posta dietro l’apice, dove una carena si estende fino al posteriore, più o meno curva verso il basso. Ap-parato apicale piccolo con 4 gonopori (Tav. I fig. 4) eccentrico verso il margine anteriore da cui dista il 26,3 - 37,5% di L (media 34,2). L’ambito è smus-sato, la faccia inferiore è relativamente piatta, con lo stoma leggermente infossato che dista dal margine anteriore il 31,5 -36,3% di L (media 33,3). Il lab-bro è lungo e con il piastrone si trova leggermente in rilievo. La lunghezza del piastrone (Lp) va da 39,7 a 43,6% di L; la larghezza (Wp) va da 29,5 a 31% di L, con un rapporto Wp/Lp che varia da 0,65 a 0,74. In corrispondenza dell’ambito, gli ambulacri posteriori e parte degli interambulacri pari laterali sollevano leggermente verso l’alto la faccia adorale, che ricorda così, vagamente, la sagoma di una “barca”. L’altezza è considerevole ma inferiore a quanto riportato da altri autori (Wright, 1864; Pereira, 2010) e va da 44,1% a 48,3% di L. La specie è caratterizzata dalla forma del solco, che incomincia ad affossarsi, in modo più o meno netto, in un punto distante dall’apice di circa ¼ della lunghezza totale per una lunghezza che varia dal 12,1 a 24% di L, finendo in un sinus largo da 21 a 32,4% di L e profondo da 6,3 a 12% di L. Il solco termina nello stoma, che è largo.

Petaloidi pari anteriori lunghi da 34 a 41% di L e larghi da 9 a 11,2% di L, leggermente flessuosi con l’area porifera anteriore inarcata in avanti al centro e ambedue leggermente flesse distalmente in avanti, divergenti tra loro con angoli ottusi che vanno da 130° a 145°. Petaloidi pari posteriori lunghi da 35,2 a 40,2% di L, e larghi mediamente come quelli ante-riori, dritti, con aree porifere subparallele che si chiu-dono distalmente, divergenti tra loro con angoli acuti che vanno da 50° a 60°. Aree interporifere con massi-ma ampiezza nella zona centrale che va da 3,5 a 5,2% di L. Periprocto ovaloide trasverso (Tav. I, fig. 3a) con larghezza che va da 12,5 a 15,5% di L (media 13.3); la fasciola subanale è visibile in quasi tutti gli esem-plari.Sul lato adorale, le aree interambulacrali 1, 4 e 2, 3 sono densamente tubercolate, con tubercoli piccoli all’ambito che si fanno più grandi verso lo stoma; fra i tubercoli primari si nota una densa granulazione. Le piastre ambulacrali presentano rari tubercoli. Sulla faccia aborale gli interambulacri presentano tuber-coli primari, crenulati, perforati e inclinati, disposti in gruppi lineari di 3 o 4 lungo il bordo adapicale delle piastre; negli interambulacri 1 e 4 i tubercoli primari partono dal lato della sutura interradiale e dall’apice occupando 5 o 6 piastre; negli interambu-lacri 2 e 3 invece partono grandi dal lato dei petaloidi pari e diminuiscono di dimensione man mano che si avvicinano all’ambulacro III e all’ambito. Essendo le piastre sagomate a “V”, anche la disposizione dei tubercoli pare assumere lo stesso andamento. Il resto della superficie è densamente granulato. In alcuni casi i tubercoli più piccoli raddoppiano e formano disegni diversi, come dei triangoli o dei quadrilateri. Nell’in-terambulacro 5 i tubercoli si presentano disposti generalmente in file di tre con dimensioni a scalare, lungo la sutura interradiale della carena, con densità e dimensioni sempre minori man mano che si scende verso la faccia posteriore. Fasciola subanale presente e ben marcata. Gli esemplari di Spatangus delphinus di Isili si distinguono per una altezza media inferiore rispetto al “tipo” e si differenziano da S. corsicus per la minima distanza dell’apice dal margine anteriore, per il caratteristico solco, per la minore dimensione dell’apparato apicale, per la maggiore divergenza tra i petali anteriori, per la più netta e larga troncatura del margine posteriore.

Spatangus corsicus Desor, in Agassiz & Desor, 1847

(Tav. 1, fig. 3a, b, c)Esemplari PL555 (56mm); MACPL1531 (56mm); Ma2 (58mm); Ma1 (59mm); Ma3 (65mm); MAC-PL1550 (85mm); PL1497 (98mm).

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33Paolo Stara, Luigi Sanciu & Roberto Rizzo Segnalazione di una associazione ad echinidi...

Fig. 1 Toxopatagus italicus Manzoni & Mazzetti, 1877, esemplare Coll. Caschilia) Vista aboraleb) Vista lateraleFig. 2 Aliaster lovisatoi (Cotteau, 1895)esemplare MACPL1276

a) Vista adapicaleb) Particolare apparato apicalec) Vista adoraled) Vista lateralee) Vista posteriore

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Notiziario 201034 Società Reggiana di Scienze Naturali

Fig. 1 Heterobrissus montesii Manzoni e Mazzetti,1877, esemplare MACPL1506a) Vista adapicaleb) Vista adoralec) Vista lateraleFig. 2 Ova karreri (Laube, 1869),esemplare MACPL1273

a) Vista adapicaleb) Particolare apparato apicalec) Vista lateraleFig. 3 Ova karreri (Laube, 1869),esemplare MACPL1274a) Vista posterioreb) Vista adorale

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35Paolo Stara, Luigi Sanciu & Roberto Rizzo Segnalazione di una associazione ad echinidi...

Gli echinidi da noi esaminati non sono fra i più grandi conosciuti e per questo li definiamo di medie dimensioni. Il contorno all’ambito è cordiforme più lungo che largo, molto arrotondato e tumido, pos-teriore sub acuminato e brevemente troncato; W varia da 90,5 a 98,2% di L (media 93,4). Il profilo è convesso con sommità posta dietro l’apice, che è subcentrale, con L1 che va da 41 a 46,9% L (media 45,3% di L) ed H che va dal 37,7 a 56,1% di L, con una media di 48,6% di L. Una breve carena è presente lungo l’interambulacro 5. In alcuni piccoli esemplari la faccia posteriore è sollevata rispetto alla faccia adorale. Il solco incomincia ad affossarsi uni-formemente già a brevissima distanza dall’apice, per una lunghezza che varia dal 31 a 44,9% di L, finendo in un sinus largo da 18,8 a 30,5% di L e profondo da 5,8 a 10,7% di L. Il solco termina nello stoma, che è largo. La faccia adorale è plano-convessa, con apparato stomale leggermente infossato ed eccentrico in avanti, soprattutto negli esemplari di dimensioni minori (L10= 25,9-32,1% di L) con media 29% di L; piastrone rilevato lungo la sutura sternale, di forma triangolare e di misure abbastanza variabili, con Lp che va da 38,1 a 51,7% di L (media 41,4) e Wp che va da 27,7 a 33,9% di L, con Wp/Lp che va da 0,65 a 0,8; le episternali sono molto ampie. Gli ambulacri posteriori che salgono verso l’apice passando ai lati della faccia posteriore, in diversi esemplari sollevano verso l’alto i bordi della faccia adorale. I petaloidi sono relativamente diritti e stretti; quelli anteriori lunghi da 33 a 40% di L (media 35,4) e larghi da 9 a 11% di L; quelli posteriori lunghi da 30,7 a 37,5% di L (media 33,6) e larghi da 8,6 a 9,8% di L. Tutti hanno la zona interporifera più larga di una singola zona porifera. L’angolo tra i due petaloidi anteriori pari va da 110° a 130° (media 123,5) mentre quello tra i posteriori varia da 55 a 64° (media 60,5).

La faccia posteriore non è molto grande, in alcuni esemplari giovanili è molto sollevata con periprocto largo da 10,2 a 17,8% di L (media 14,1). È visibile la fasciola subanale.

Sul lato adorale tutte le aree interambulacrali sono densamente coperte da tubercoli relativamente grandi e per il resto della superficie da una densa granula-zione. Le serie di piastre degli ambulacri I e V, adia-centi alle sternali presentano rari piccoli tubercoli; le piastre degli ambulacri II e IV sono coperte da rada tubercolazione.

Sul lato aborale le piastre extra porifere degli ambulacri II e IV presentano radi piccoli tubercoli. Gli interambulacri 1 e 4 presentano tubercoli primari crenulati, perforati ed inclinati, grandi in proporzione alla dimensione degli echinidi, disposti in linee da 3

a 5 lungo il bordo adapicale delle piastre (a partire dalla sutura interradiale), più grandi al centro e man mano più piccoli in direzione degli ambulacri; in al-cuni esemplari i tubercoli raddoppiano formando dei triangoli. Tale tubercolazione è presente fino all’altez-za dell’apice dei petaloidi pari anteriori, raramente li superano di una piastra. Anche gli interambulacri 2 e 3 mostrano tubercoli grandi, crenulati, forati e incli-nati, dalle prime piastre adapicali fino all’apice delle zone porifere dei petaloidi anteriori pari. Sono inoltre presenti tubercoli di minori dimensioni sia verso la sutura perradiale dei due interambulacri, sia verso i due lati dell’ambulacro III e verso l’ambito. In questi interambulacri i tubercoli primari sono disposti in se-rie lungo i lati adapicali delle piastre; in alcuni punti i tubercoli secondari raddoppiano o formano disegni diversi, come dei triangoli o dei quadrilateri. Nell’in-terambulacro 5 i tubercoli si presentano disposti in file di tre di dimensioni decrescenti, disposti lungo la metà delle piastre dal lato perradiale, e con dimen-sioni sempre più piccole man mano che si avvicinano al margine posteriore. Tutto il resto della superficie è densamente granulato.

Spatangus corsicus si differenzia da S. delphinus, oltre che per la forma del guscio, più acuminata e meno gonfia anteriormente, per la posizione dell’ap-parato apicale, subcentrale, con solco anteriore lungo, che si allarga e si approfondisce uniformemente verso il margine anteriore; per la posizione dello stoma, che è più prossimo al margine anteriore; per la divergenza tra i petali anteriori e posteriori che è minore e in genere sub cruciforme.

Ordine Holasteroida Durham & Melville, 1957Famiglia Hemipneustidae Lambert, 1917

Genere Toxopatagus Pomel, 1883 (Tav. 2, fig. 1a,b)Guscio largo subcircolare con profilo discoidale,

caratterizzato da due protuberanze nella parte ado-rale posteriore. Disco apicale di tipo holasteroide con 4 gonopori, visibilmente eccentrico all’indietro. Ambulacri subpetaloidi pari lunghi fin quasi all’am-bito, aperti distalmente; quelli anteriori inarcati in avanti e quelli posteriori flessi all’indietro; petaloidi anteriori più stretti di quelli posteriori e con anche le aree interporifere più strette di quelle dei posteriori. Aree interporifere negli ambulacri I e V ampie più del doppio di ogni singola area porifera. I pori sono co-niugati e allungati. Il solco anteriore, corrispondente all’ambulacro impari anteriore, si approfondisce con continuità a partire dall’apice ed il sinus è molto pro-

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Notiziario 201036 Società Reggiana di Scienze Naturali

fondo e stretto. I pori di tale ambulacro sono semplici isopori. Il peristoma è prossimo al margine anteriore, stretto e profondo; labrum molto proiettato in avanti sul peristoma. Il periprocto è inframarginale, visibile in proiezione orale.

La tubercolazione aborale è omogenea e fine in un fondo molto finemente granulato. Non sono state rico-nosciute fasciole.

(Riduzione da Smith, “The Echinoid Directory”, settembre 2011).

Toxopatagus italicus Manzoni & Mazzetti, 1877Tav. 2, fig. 1a,bL’unico esemplare (coll. Caschili) che abbiamo

potuto osservare ricalca perfettamente la specie tipo, caratterizzandosi solo per una altezza leggermente maggiore e per il margine meno sottile. Peristoma non visibile e periprocto non misurato. La lunghezza è circa 90mm con W pari al 100% di L; H è pari al 40% di L, mentre nell’olotipo è il 33%; apice distante dal margine anteriore (L1= 65,5% di L) con un solco che partendo dall’apice scende verso il margine ante-riore allargandosi e approfondendosi uniformemente, fino a formare un sinus largo 14,4% di L e profondo 6,6% di L; petaloidi anteriori pari lunghi circa 51% di L e larghi distalmente 20%di L; zone interporifere larghe 9% di L; petalodi posteriori sono lunghi circa 35% di L con zone interporifere non distintamente misurabili distalmente. Superficie adorale non leggi-bile. Nonostante non sia visibile la superficie adorale si può senz’altro, come si vede nella Tavola 2 fig. 1a, b, assegnare l’esemplare da noi esaminato alla specie Toxopatagus italicus, tipica delle associazioni echinolo-giche del Miocene medio delle regioni del nord Italia.

Subordine PaleopneustinaMarkov & Solovjev 2001

Incertae sedis B (Vedi Smith, 2011)

Genere Heterobrissus Manzoni e Mazzetti, 1877Guscio di grandi dimensioni, ovato, senza solco

anteriore e con la faccia posteriore leggermente tron-ca. Superficie adorale piana e aborale elevata cupoli-forme.

Disco apicale etmolisio con 4 gonopori, eccentri-co in avanti. Ambulacro anteriore stretto che si allarga verso l’ambito con pori minuti. Ambulacri pari sub-petaloidi lunghi quasi fino all’ambito, in genere aperti distalmente, con serie di pori sub paralleli. Peristoma spostato in avanti, molto incassato; labbro grande, prominente in avanti, che copre parte del peristoma; l’area peristomiale mostra fillodi molto sviluppati. Il

periprocto, inframarginale, è subcircolare e grande e disposto sul prolungamento dell’interambulacro 5. Piastrone leggermente rialzato nella sua parte pos-teriore. Non sono conosciute fasciole. La superficie aborale è coperta da grandi tubercoli sparsi. Gli am-bulacri posteriori sulla superficie orale sono coperti da tubercoli dietro ai fillodi.

(Riduzione da Smith, “The Echinoid Directory”, settembre 2011).

Heterobrissus montesii Manzoni e Mazzetti, 1877 (Tav. 3, fig. 1a,b,c)8 esemplari (MACPL1502- MACPL1509) con L

che va da 110 a 122, più o meno completi che presen-tano più o meno rilevanti deformazioni. W va da 74 a 91% di L; l’apice risulta eccentrico in avanti, distante dal margine anteriore da 36 a 40% di L; H varia da 47 a 54% di L; il peristoma dista dal margine anteriore 33-34% di L. L’area porifera degli ambulacri anteriori è lunga mediamente il 49% di L e larga 9,8% di L; gli ambulacri pari posteriori sono lunghi mediamente 57,5% di L e larghi mediamente 12,5 di L. Negli esemplari esaminati gli pseudo-petaloidi sono gene-ralmente aperti distalmente; in un caso un petaloide posteriore si chiude a breve distanza dall’apice per poi riaprirsi verso l’ambito. I tubercoli primari sono grandi, scrobicolati e perforati, disposti in gruppi di 2-3 per piastra negli interambulacri 1 e 4 della super-ficie aborale; sulla superficie adorale ricoprono tutti i settori eccetto che la fossa peristomiale, dove sono presenti evidenti fillodi. Anche il labbro e tutto il piastrone con le piastre ambulacrali posteriori sono coperti da una fitta coltre di tubercoli, più piccoli di quelli della faccia aborale. I campioni esaminati, per-ciò, corrispondono al tipo di H. montesii.

Famiglia Schizasteridae Lambert, 1905

Genere Aliaster Valdinucci, 1975Guscio da ovato a subcircolare con faccia pos-

teriore troncata; profilo generalmente depresso con faccia aborale inclinata in avanti. Il disco apicale è di tipo etmolisio con 4 gonopori, leggermente eccen-trico indietro. Ambulacro anteriore impari sul lato aborale, infossato, che forma un debole sinus passan-do all’ambito. Ambulacri petaloidi lunghi, profondi e disposti in modo cruciforme. I petaloidi anteriori pari sono leggermente flessi e largamente divergenti; quelli posteriori più corti di circa la metà di quelli an-teriori. Peristoma reniforme convesso in avanti vicino al margine anteriore e parzialmente nascosto dalla piastra labiale. La piastra labiale è corta, squadrata e

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37Paolo Stara, Luigi Sanciu & Roberto Rizzo Segnalazione di una associazione ad echinidi...

non si estende oltre la prima placca ambulacrale. Le sternali sono simmetriche, grandi e triangolari; epis-ternali biseriali offset. Periprocto aperto in alto sulla faccia posteriore verticale del guscio. L’unica fasciola, la peripetala, è indentata due piastre interambulacrali dietro i petaloidi pari anteriori. Il genere Aliaster è un soggettivo sinonimo recente di Opissaster.

(Riduzione da Smith, “The Echinoid Directory”, settembre 2011).

Aliaster lovisatoi (Cotteau, 1895)(Tav. 2, fig. 2a,b,c,d,e)Quattro esemplari L= 33; 35,5; 60; 64mmEchinidi di piccole - medie dimensioni, con pro-

filo basso e contorno da tondeggiante negli esemplari di taglia minore, allungato e acuminato in quelli di maggiori dimensioni che mostrano un debole rostro posteriore, alto sulla faccia periproctale. W varia dal 100% di L negli esemplari piccoli al 93,7% di L in quelli più grandi. L’altezza H varia, anche a causa di evidenti deformazioni dal 51,6 al 57,8% di L. L’appa-rato apicale è visibile in quelli di maggiori dimensioni, ha 4 gonopori e dista dal margine anteriore da 43,5 a 54,6% di L. L’ambulacro anteriore impari è scavato a partire da pochi millimetri dall’apice e attraversa l’ambito con un sinus molto attenuato, per finire nel-la fossa stomiale, in cui lo stoma, piccolo e reniforme, dista dal margine anteriore da 22,7 a 31% di L. Le aree petaloidee pari formano fra loro una X in cui quelle anteriori divergono tra loro di 90° (nella parte rettilinea) e quelli posteriori di circa 75°. I petaloidi anteriori pari variano da quasi rettilinei negli esem-plari piccoli a leggermente flessi in quelli più grandi e sono lunghi dal 23.8% in quelli più piccoli al 39% di L in uno di quelli di maggiori dimensioni. I peta-loidi posteriori sono più corti risultando il 12% di L nell’esemplare più piccolo e il 21,8% di L in quello più grande. Il piastrone è piatto, con profilo ellittico e labrum largo che mostra il bordo rilevato nella sua parte proiettata sullo stoma. Le serie di piastre ambu-lacrali che bordano ai due lati il piastrone sono liscie e prive di tubercoli, che invece ricoprono tutto il resto del guscio. La superficie adapicale degli interambula-cri 2 e 3 mostra tubercoli leggermente più grandi. Il periprocto è tondeggiante, piccolo, e negli esemplari di taglia inferiore misura mediamente il 12% di L.

I nostri esemplari, pur provenendo da località diverse della Sardegna, sono chiaramente sovrappo-nibili a quelli sardi illustrati sotto il nome di Hemias-ter (Trachiaster) lovisatoi da Comaschi Caria (1972). Per maggiori delucidazioni sull’attribuzione generica e sulla sinonimia di questo interessante schizasteride vedere Kroh (2005).

Genere Ova Gray, 1825Guscio ovato, più o meno appuntito e carenato

posteriormente, con solco anteriore profondo. Il disco apicale è di tipo etmolisiano con 2 gonopori e con le piastre genitali anteriori imperforate. Ambulacro anteriore maggiormente infossato adapicalmente e meno all’ambito, con i pori disposti uniserialmente eccetto che nell’esemplare della specie tipo, dove sono disposti in doppia serie. Gli altri ambulacri sono pro-fondi e scavati; quelli anteriori sono più lunghi e più flessi di quelli posteriori. Periprocto piccolo e ova-loide con massima larghezza in verticale, aperto sulla parte alta della faccia posteriore del guscio. Peristoma reniforme, prossimo al margine anteriore della super-ficie adorale, con il labrum corto e largo, in ampio contatto con le sternali, che non si estende fino alla seconda piastra ambulacrale. Piastrone ampio e ovato, con episternali non appaiate che non formano parte significativa del piastrone. Tubercolazione nella faccia aborale fitta e uniformemente densa. Fasciole peripe-tala e latero-anale ben sviluppate.

(Riduzione da Smith, “The Echinoid Directory”, agosto 2011).

Ova karreri (Laube, 1869)(Tav. 3 fig. 2a, b, c; 3a, b)Due esemplari: MACPL1273, 50mm; MAC-

PL1274, 53,3mm.Si tratta di echinidi di piccole - medie dimensio-

ni, con profilo depresso, a forma di cuneo puntato in avanti e contorno un po’ a forma di losanga, acumi-nato posteriormente, dove è troncato obliquamente dall’alto in basso e in dentro dalla faccia posteriore. Periprocto aperto in alto nella faccia posteriore. La larghezza W è 84 e 91,5% di L. L’altezza H va da 52 a 48,5% di L. L’apparato apicale ha 2 gonopori grandi e dista dal margine anteriore 48 e 46,7% di L. L’ambu-lacro anteriore impari, largo e rettilineo, è scavato a partire da vicino all’apice e attraversa l’ambito con un sinus molto attenuato, per finire nella fossa stomiale, in cui lo stoma reniforme, più largo che stretto, dista dal margine anteriore da 16 al 19% di L. Le altre aree petaloidee formano fra loro una X con quelle ante-riori divergenti (considerando il tratto rettilineo più lungo) tra loro di 60° e quelli posteriori di circa 45°. I petaloidi anteriori pari sono molto flessi in avanti a partire da breve distanza dall’apice e mediamente sono lunghi circa il 30% di L. I petaloidi posteriori sono più corti risultando il 19% di L. Il piastrone è piatto, con forma da sub triangolare ad ellittica ed il labrum largo con bordo rilevato anteriormente. Le serie di piastre ambulacrali che bordano ai due lati il piastrone sono liscie e prive di tubercoli, che in-

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Notiziario 201038 Società Reggiana di Scienze Naturali

vece ricoprono tutto il piastrone in modo regolare. La superficie adapicale dei due interambulacri ante-riori mostra tubercoli leggermente più grandi. Il peri-procto è ampio, apparentemente ovaloide e verticale. Fasciola peripetala visibile parzialmente a causa delle condizioni dei due individui esaminati.

Questi esemplari sono chiaramente sovrapponi-bili a quelli di Schizaster lovisatoi illustrati dalla Co-maschi Caria (1972) attualmente spostati nel genere Ova per via della presenza dei due soli pori genitali aperti nell’apice e posti in sinonimia con Ova karreri da Kroh (2005) nel cui lavoro è possibile trovare ulte-riori approfondimenti.

Discussione

SpatangidiSull’attribuzione di alcuni Spatangidi ad un ge-

nere o ad alcune specie piuttosto che ad altre, non c’è sempre stato accordo fra gli autori, che in passato hanno creato un numero molto elevato di “specie” vedi Comaschi Caria (1972). Di recente, Philippe (1998), Kroh (2005) e Pereira (2010) hanno com-piuto degli importanti sforzi per semplificare questa situazione tassonomica. Tuttavia, non sempre questa azione di riordino e sfoltimento è risultata chiara e difinitiva, a causa di diverse interpretazioni e note-voli difficoltà. Sintetizzando potremo dire che: 1) gli echinidi di questa famiglia sono caratterizzati da una grande variabilità morfologica; 2) spesso le at-tribuzioni specifiche si basavano su campioni unici e incompleti e/o le descrizioni e le illustrazioni non sempre sono state esaustive; 3) non sempre è stata considerata in modo stretto la stratigrafia dei giaci-menti considerati, anzi, spesso la localizzazione geo-grafica e stratigrafica degli esemplari è ignota o non aggiornata.

Due specie in particolare, secondo noi presenti in Sardegna, ed in particolare ad Isili, Spatangus del-phinus e S. corsicus, sono state unite in sinonimia e distaccate varie volte da diversi autori nel corso del tempo. Dal momento che Defrance (1827) che ha istituito la specie S. delphinus non aveva provveduto ad illustrare l’olotipo, per eseguire gli opportuni confronti ci si è riferiti alla illustrazione di Wright (1864, tav. XXII, fig. 4a, b), una delle più antiche disponibili, che raffigura un esemplare di Malta, ed a quella di un esemplare della Sardegna, illustrato da Comaschi Caria (1972, tav. XLVII, fig. 4) e da lei riferito a S. corsicus. Circa la differenza di vedute sulla succitata attribuzione, Lambert (1909) riportava così, testualmente, a pag. 112 le differenze tra Prospatangus

(Spatangus) delphinus e Prospatangus (Spatangus) corsi-cus: “Desor aveva confuso il Prospatangus corsicus con il Prospatangus delphinus che se ne distingue, come ha detto Cotteau, per la forma più tozza, la sua fac-cia superiore più elevata, più rigonfia in avanti, il suo solco frastagliante ulteriormente l’ambito, il suo apice molto più eccentrico (ovviamente... in avanti), i suoi petali più flessuosi, ben più affusolati, più depressi, con pori meno bruscamente atrofizzati verso l’apice (cfr. Tav. I, figg. 1a e 2b, presente lavoro), per i suoi tubercoli scrobiculati meno numerosi, limitati lateral-mente al centro delle aree (interambulacrali) e discen-denti meno in basso, per le sue zone peripiastronali punteggiate e nodulose.

P. delphinus è ben figurato da M. de Loriol nell’Echinologie helvétiques (Ech. Tertiarie, pl. XXIII, fig. 1) e anche da Wright nel 1864 su un indi-viduo di Malta (pl. II, fig. 4). È al contrario impos-sibile affermare l’esattezza della determinazione di Mazzetti per il suo Prospatangus così mal figurato di Montese (tav. III, fig. 5). Cotteau riunì al tipo di P. delphinus (pl. VIII) una forma a solco ben più atte-nuato, petali più dritti, più lunghi, più stretti e più flessuosi, con pori atrofizzati in zona adapicale più numerosi e zone peripiastronali più lisce (pl. VIII)” poi prosegue affermando: “Plusieurs P. de Sardaigne sont malhereusemente en très fachéux état... e troppo mutilati per permettere una corretta determinazione o l’istituzione di nuove specie...”. proseguendo: “M. Parona ha citato in Sardegna P. corsicus e P. austriacus Laube; ma la determinazione del primo, fatta su un frammento dell’Helveziano di S. Michele, resta ben dubbia; quanto al secondo, probabilmente dell’Aqui-taniano di Funtanazza, sembra dalla descrizione, piuttosto il P. manzonii Simonelli, ma più probabil-mente è il mio P. thiery”.

Riguardo alle antiche fonti possiamo notare che le illustrazioni seguono spesso l’interpretazione dell’artista che le eseguiva piuttosto che le descri-zioni testuali (ma siamo coscienti che anche il report fotografico spesso può deformare il dato oggettivo, a causa della falsa prospettiva, della improvvida dire-zione o diffusione delle luci, ecc.). Se prendiamo la descrizione di S. corsicus fatta da Cotteau (1877, pag. 333) circa forma e lunghezza dei petaloidi, basandosi sull’esemplare-tipo (moule 78), illustrato a Tav. XVII, figg. 1,2,3, osserviamo, p. es., che mentre egli afferma “Aires ambulacraires paires pétaloides, accuminées à leur extrémité, subflexueuse, les postérieures un peu plus longues que les autres.” una semplice misura-zione eseguita sulla foto mostra che al contrario sono gli anteriori ad essere ben più lunghi dei posteriori (sic). Ciò detto, essendo gli esemplari di Isili in discre-

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39Paolo Stara, Luigi Sanciu & Roberto Rizzo Segnalazione di una associazione ad echinidi...

to stato di conservazione, ma non potendo raffron-tarli con i rispettivi olotipi, in particolare il tipo di S. delphinus, ci siamo riferiti, come fece anche Lambert (1909), alla illustrazione di Wright (1864) che pare seguire più correttamente la descrizione riportata nel testo. In particolare abbiamo considerato Il solco che comincia ad approfondirsi anteriormente lontano dall’apice, la posizione molto eccentrica in avanti dell’apice e la maggiore divergenza tra i petali anterio-ri. Wright, comunque, notò la maggiore dimensione del periprocto in delphinus, cosa non confermata nei nostri esemplari.

Va detto che i soli dati biometrici forniti da molti degli antichi autori erano lunghezza L, larghezza W e (non sempre) altezza H del guscio. Abbiamo potuto osservare, purtroppo, che nei confronti dei fossili di Spatangus, proprio il dato sulla larghezza W non ap-pare molto significativo, se non in pochi casi, come peraltro, quello sull’altezza H, che in queste due spe-cie pare molto variabile, sia per motivi naturali che per le deformazioni prodotte dai processi di fossiliz-zazione. Deformazioni a parte, ciò che pare variare di meno sembra proprio il “bauplan” della specie, che presenta alcune particolarità poco misurabili ma suf-ficientemente costanti.

SchizasteridiHemiaster (Trachiaster) lovisatoi (Cotteau, 1895),

vedi Comaschi Caria (1972) è stato raggruppato, con alcune altre specie di Trachyaster e di Opissaster, sotto il nuovo genere Aliaster da Valdinucci (1975) in base alla diversa indentazione che il solco frontale forma nel margine anteriore. Secondo Smith (2011) ciò non sarebbe un elemento significativo di differenza nell’architettura di questi echinidi. Tuttavia, in man-canza di ulteriori studi riguardanti queste attribuzioni generiche ci atteniamo alle attuali indicazioni, iden-tificando i nostri esemplari come Aliaster lovisatoi (Cotteau, 1895). Schizaster lovisatoi è stato posto in sinonimia con Ova karreri da Kroh (2005, pag. 149). Tuttavia, come si potrà notare dall’illustrazione (Tav. 3, fig. 2a-b-c) i nostri individui di S. lovisatoi, pur rientrando nel genere Ova avendo l’apparato apicale con soli 2 gonopori, differiscono da quelli illustrati in Kroh (2005, pag. 152, fig. 65 e Tav. 65) e in Pereira (2010, Tav. 49, fig. 1a, b, c e fig. 2a, b, c).

Ritenendo che tale differenza potrebbe farsi risa-lire alla variabilità morfologica intrinseca del genere e delle sue specie e in attesa di esaminare ulteriori esem-plari per poter eventualmente eseguire qualche analisi statistica, abbiamo ritenuto giusto porre gli esemplari di Isili qui illustrati nel nuovo nome di Ova karreri (Laube, 1869).

ConclusioniGià da questa breve esposizione e dal primo esame

di una parte dell’abbondante echinofauna fossile rac-colta nel bacino miocenico di Isili, appare evidente la similitudine con quelle del Langhiano di altre regioni italiane ed in particolare del Piemonte e della Liguria (Airaghi, 1901) e dell’Emilia (Manzoni & Mazzetti 1877; Mazzetti G. 1881; Stefanini, 1908 e 1909).

In effetti, la maggior diversità tassonomica delle associazioni segnalate nelle regioni sopracitate, potrebbe essere ragguagliata includendo anche le associazioni del Burdigaliano della Sardegna, che ci ripromettiamo di trattare in un successivo lavoro, sia dal punto di vista geologico che paleontologico e paleoambientale.

Sarebbe interessante, a questo punto, conoscere nel dettaglio anche gli affioramenti dove sono state raccolte le faune descritte dagli antichi paleonto-logi. È interessante considerare come la presenza di echinidi rari e di limitata estensione geostratigra-fica come quelli dei generi Heterobrissus Manzoni e Mazzetti, 1877 e Toxopatagus Pomel, 1825, in bacini mediterranei così lontani tra loro, faccia presupporre la presenza di specie simili anche del genere Spatan-gus, nonostante per ora non ne sia emersa l’evidenza. È anche interessante notare che nella stessa località convivevano spatangidi appartenenti a specie diverse, come accade per esempio agli attuali S. purpureus e S. subinermis (Néraudeau et al., 1998), cosa che farebbe presupporre la presenza di distinte nicchie ecologiche vicine o sovrapposte negli stessi paleoambienti.

Solo ulteriori studi, estesi anche ad altre regioni, potranno chiarire queste ipotesi.

RingraziamentiGli Autori ringraziano i signori Arturo Maullu di Quartucciu (Cagliari) e Sergio Caschili di Cagliari per aver donato al Museo Aquilegia diversi echinidi oggetto del presente studio e il sig. Carlo Cabiddu di Villanovaforru per aver messo a disposizione vari re-perti della sua collezione. Li ringraziamo tutti anche, insieme al Sig. A. Mua, per le precise indicazioni pres-tateci durante i numerosi rilievi effettuati in campo.Un ringraziamento particolare va ad Enrico Borghi della Società Reggiana di Scienze Naturali (Reggio Emilia) per il rilevante sostegno e i numerosi consigli che ci ha fornito durante lo svolgimento del presente studio e per l’attenta rilettura critica del presente lavoro. Un ringraziamento va anche a Michael Gatt di Rabat (Malta) che ha messo a disposizione diversi Spatangidi di Malta per una comparazione con quelli della Sardegna da noi studiati.

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Notiziario 201040 Società Reggiana di Scienze Naturali

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Il genere SpatanguS (Echinoidea)

nel Langhiano dell’Appennino reggianoEnrico Borghi

Società Reggiana di Scienze Naturali

RiassuntoViene esaminato un gruppo di esemplari appar-

tenenti al genere Spatangus Gray, 1825 raccolti nel Langhiano del Reggiano. Il confronto coi tipi delle specie segnalate in letteratura nel Miocene medio dell’Emilia-Romagna e le analisi statistiche biometri-che mostrano la presenza di tre specie: Spatangus sub-conicus Mazzetti, 1881, S. destefanii Stefanini, 1908 e S. fabianii Lambert, 1924. Di esse vengono fornite descrizioni morfologiche più complete ed alcune os-servazioni riguardanti la paleoecologia.

Parole chiave: Echinoidea, Spatangus, Langhiano, Emilia.

Abstract[The genus Spatangus (Echinoidea) in the Lan-

ghian of the Reggio Emilia Province (Northern Italy)]. 27 species of the genus Spatangus Gray, 1825 have been recorded through times in the Langhian of Emilia-Romagna (Tab. 1). 15 of them were erected as new taxa on the basis of fossil material recovered from this region. Ancient studies often used poorly-preserved material and underestimated the intra-spe-cific morphological variability, thus leading to erect new species on the basis of slight morphological dif-ferences (e.g. Mazzetti and Pantanelli; see Tab. 1). To unravel the complex taxonomy it is necessary to study well preserved material, paying attention also to the plastron structure which was still unknown in these forms (Kroh, 2005). The fossil record under study consists of 32 specimens, collected from the Pantano Formation (Langhian) cropping out at four localities in the Reggio Emilia Province: Castellaro, Case Ferra-ri, Monte Valestra and Pantano. 172 additional speci-mens were examined at public Institutions. Statistical

analyses have been carried out, as well as morpholo-gical comparison with the type-material of the spe-cies attributed to Spatangus recorded in the Middle Miocene of Emilia-Romagna. The fossil material has been compared also with the other species of Spatan-gus described by modern methods (Philippe, 1998; Kroh, 2005; Pereira, 2010). Three species are present at the examined area: Spa-tangus subconicus Mazzetti, 1881, S. destefanii Stefani-ni, 1908 and S. fabianii Lambert, 1924. The morpho-logical description and illustration of these forms are herein improved. These large-sized species have some common features: deep frontal notch, rather sharp test margin, similar tuberculation arrangement and narrow sternum with labral plate extending to the se-cond ambulacral plate. S. subconicus shows an almost subcircular test outline, a regularly arched lateral pro-file, with subcentral apical system and very long pe-tals. The depression in the ambulacrum III does not extend till the apical disk. S. destefanii is distinguished from S. subconicus and S. fabianii by the test which is more longitudinally elongated and posteriorly carina-te in interambulacrum 5; petals are shorter, the de-pression in ambulacrum III extends far up to the api-cal disk. S. fabianii differs from the other two species by its depressed test, the apical system closer to the anterior margin and the narrower frontal notch. The-se species show a large morphological variability. He-terobrissus montesi and Mazettia pareti are commonly associated to Spatangus in the Pantano Formation of Emilia Romagna. The comparison with living sister taxa (H. histrix and Linopneustes) and their bathyme-tric ranges suggests that the studied echinoids inhabi-ted continental shelf settings, probably around 200 m water depth. This is in accordance with the interpre-

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Notiziario 201044 Società Reggiana di Scienze Naturali

tation of the geological setting given in the literature: highly bioturbated Spatangus-bearing silty-pelites are alternated to arenitic layers at the examined localities. The pelites represent the autochthonous deposition within inner shelf and upper slope settings; the thin and well-stratified arenites represent low-energy rese-dimentation events. A strong Caribbean link exists with the echinofau-na of the Northern Apennines: H. histrix and Li-nopneustes live today in the Gulf of Mexico. Also Palaeobrissus was recorded in the Langhian of the Apennines, this genus is today endemic of the Ca-ribbean area.It is probable that other species of Spatangus are present in the Northern Apennines, but further in-vestigation is needed, based on material from other areas, which is beyond the scope of this study.

Key Words: Echinoidea, Spatangus, Miocene, Emilia (Northern Italy).

IntroduzioneLe citazioni del genere Spatangus sono numerose

nel Miocene medio-inferiore del Mediterraneo. Nel Langhiano dell’Emilia sono state segnalate ben 27 specie, 15 delle quali furono descritte come nuove (Tab. 1). Molte di queste determinazioni si basa-vano su materiale scarso e/o mal conservato, come sottolineò Stefanini (1908), che tentò di mettere ordine alla complicata tassonomia accumulatasi col tempo. La tendenza, comune a quei tempi, di sot-tostimare la variabilità morfologica delle specie por-tava a creare nuovi taxa sulla base di differenze che oggi sarebbero considerate poco significative. Ciò è evidente soprattutto nei lavori di Mazzetti & Panta-nelli (Tab. 1). Gli spatangidi tendono a deformarsi in modo plastico, senza mostrare fratture evidenti,

a seguito delle azioni indotte dal sedimento inglo-bante; ciò indusse talvolta ad interpretare gli effetti di deformazioni come caratteri specifici.Per districare la complessa situazione tassonomica creatasi nel corso del tempo è necessario studiare esemplari in buono stato di conservazione, prove-nienti dall’area tipica, utilizzando analisi morfolo-giche e statistiche biometriche e prestando atten-zione alla struttura del piastrone, particolare quasi totalmente trascurato in queste forme dagli antichi autori (Kroh, 2005). Gli esemplari disponibili sono stati confrontati col materiale tipico delle specie di Spatangus descritte per il Miocene Medio dell’Emilia Romagna e con le specie di Spatangus fossili ed attuali già studiate con metodi moderni. In particolare con S. delphinus Defrance, 1827, al quale sono stati riuniti da Phi-lippe (1998), in base allo studio della popolazione tipica del Bacino del Rodano (Francia): S. corsicus Desor in Agassiz & Desor, 1847, S. simplex (Desor, 1858), S. rissoi Desor, 1858 e S. manzonii Simonel-li, 1884. Secondo Pereira (2010) anche S. austriacus Laube, 1869 ricadrebbe in sinonimia.Tutte queste specie sono state citate in passato an-che nel Miocene dell’Emilia-Romagna (Tab. 1).

Materiali e metodi31 esemplari raccolti dall’autore (Me01-31)

sono conservati presso il Museo di Paleontologia dell’Università di Firenze (IGF). Provengono da quattro località del Reggiano: Castellaro, Case Ferrari, Monte Valestra e Pantano (Fig. 1). Sono stati esaminati altri 172 esemplari dell’Emilia-Ro-magna e di altre regioni, attribuiti al genere Spa-tangus, presso raccolte pubbliche: Dipartimento di Paleontologia e dell’Orto Botanico, Università di

Mappa delle località di ritrovamento del Reggiano citate nel testo.

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45Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

Modena e Reggio Emilia (IPUM; collezione Maz-zetti), Dipartimento Scienze della Terra, Università di Parma (IGUP; esemplari descritti da Laureri, 1963) e Museo di Paleontologia dell’Università di Firenze (IGF; collezioni Manzoni, Nelli, Stefanini e Michelotti). Inoltre un esemplare di Castellaro (Me32) appartenente ad una collezione privata. Dal momento che si è notato che i disegni di Man-zoni (1879 e 1880), pur se accurati, non raffigurano con esattezza tutti i particolari morfologici, viene riportata l’illustrazione fotografica degli esemplari originali, dove è stato possibile rintracciarli. Alcuni dei tipi descritti da Manzoni (1879) e altri esemplari rite-nuti significativi sono stati codificati presso l’IGF per facilitarne la rintracciabilità.L’analisi statistica biometri-ca bivariata è basata su 43 esemplari. I valori degli 11 parametri metrici considera-ti (vedi Fig. 2) sono espressi come percentuale di L (lun-ghezza del guscio), al fine di prevenire le possibili distor-sioni dovute alla crescita degli individui. I dati di 28 esem-plari di S. delphinus sono sta-ti utilizzati per confronto; 10 di essi provengono dalla loca-lità tipica (Burdigaliano del bacino del Rodano; misure tratte da Philippe, 1998), 18 dal Langhiano della Sardegna (dati forniti da Paolo Stara, luglio 2011). L’analisi mul-tivariata (PCA) è basata sul programma PAST (Hammer et al., 2001) e utilizza i dati biometrici di 34 esemplari.

GeologiaLa Formazione di Panta-

no (Gruppo di Bismantova) si compone di due cicli: il pri-mo (Burdigaliano superiore) consiste di depositi sottocosta o di piattaforma interna, il ci-clo superiore (Langhiano in-feriore) è costituito prevalen-temente da siltiti bioturbate di piattaforma interna (Amo-rosi, 1992a,b). Il limite con

la sovrastante Formazione di Cigarello è datato al Langhiano, tra la zona a Praeorbulina glomerosa e la parte bassa di quella a Orbulina suturalis - Globorota-lia peripheroronda (Amorosi et al., 1996). I due cicli della Formazione di Pantano sono riconoscibili an-che nella successione del Miocene medio-inferiore dell’area Romagna - Marche: la separazione delle due sequenze corrisponde al limite litostratigrafico tra le Formazioni di San Marino e di Monte Fuma-iolo (Amorosi, 2002a,b). Simili depositi di piatta-forma sono compresi anche nelle Marne di Cessole (Piemonte), nella Formazione di Vicchio (Tosca-

na) e nella sequenza di Santa Maria Tiberina (Umbria). Da tutte queste aree sono state descritte echinofaune simili a quella del Langhiano dell’E-milia-Romagna.Il materiale oggetto di que-sto studio proviene dal ciclo superiore della Formazione di Pantano che affiora a Case Ferrari, Castellaro, Monte Valestra e Pantano. La facies più diffusa in queste località consiste di siltiti sabbiose gri-gie, alternate ad areniti più o meno calcaree ben stratifi-cate. Nelle siltiti le strutture sedimentarie sono poco rico-noscibili a causa dell’inten-sa bioturbazione (Amorosi, 2002a,b), nel complesso la fauna è scarsa e si raccolgo-no soprattutto echinoidi dei generi Spatangus, Schizaster e Brissopsis. Le peliti siltose rap-presentano secondo Amorosi (2002a) la deposizione autoc-tona in un ambiente di piat-taforma interna. I sottili stra-ti arenacei gradati e con base netta, alternati alle peliti, rappresentano eventi di rise-dimentazione di bassa energia da ambienti adiacenti (Amo-rosi, 2002a, b). Sono ben esposti e diffusi soprattutto nell’area N e NW di Monte Valestra, dove gli echinoidi sono localmente frequenti. Gli strati più spessi, costituiti da arenaria più fine con una

Fig. 2 – Schema delle misure rilevate.H= altezza del guscio,

L= lunghezza del guscio,L1= distanza del sistema apicaledal margine anteriore del guscio,L2 e L3= lunghezza e larghezza

dei petali anteriori pari,L4 e L5= lunghezza e larghezza

dei petali posteriori,L6 e L7= rispettivamente profondità

e larghezza del solco frontale,L8= lunghezza della depressione

nell’ambulacro IIIpartendo dal margine anteriore,L9= distanza del bordo anteriore

del peristomadal margine anteriore del guscio,

W= larghezza del guscio.

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Notiziario 201046 Società Reggiana di Scienze Naturali

0,28

0,33

0,38

0,43

0,48

48 68 88 108 128L (mm)

L2/L

0,72

0,82

0,92

1,02

1,12

48 68 88 108 128L (mm)

W/L

A

B

C

S

P

0,28

0,35

0,42

0,49

0,56

48 68 88 108 128L (mm)

L1/L

0,08

0,15

0,22

0,29

0,36

48 68 88 108 128L (mm)

L7/L

0,28

0,32

0,36

0,40

0,44

48 68 88 108 128L (mm)

L4/L

0,4

0,6

0,8

1

48 68 88 108 128L (mm)

L8/L1

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47Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

caratteristica frattura a lastre, rappresentano invece eventi turbiditici di elevata energia; in essi gli echi-noidi sono rari e mal conservati.

Note storicheDopo un periodo iniziale di intensa produzione di

studi riguardanti gli echinidi del Miocene dell’Appen-nino emiliano, comprendente la seconda metà dell’800 e gli inizi del ‘900, solo Laureri (1963) si dedicò in seguito a questo argomento. Manzoni (1879, 1880) per primo studiò in modo organico l’echinofauna lan-ghiana dell’Emilia e attribuì il materiale appartenente al genere Spatangus a S. austriacus Laube, 1869 e S. chi-tonosus Sismonda, 1841. Tutti gli esemplari attribuiti alla specie di Laube furono tuttavia successivamente riassegnati ad altri taxa. Già pochi anni dopo Simonel-li (1884) sottolineò differenze tra il materiale dell’E-milia e i tipi di S. austriacus e propose l’attribuzione dell’intero gruppo a S. manzonii n. sp. Questa proposta non fu però accettata da Stefanini (1908). Due esem-plari figurati da Manzoni (1879: tav. 4, fig. 41 e tav. 3, figg. 19-20) furono attribuiti da Stefanini (1908) rispettivamente a S. destefanii n. sp. e a S. subconicus Mazzetti, 1881. Un altro (tav. 3, fig. 28-30) servì da tipo per Lambert (1909) per il suo Prospatangus uni-formis n. sp. Altri esem-plari (Manzoni, 1879, tav. 2, fig. 10-11 e tav. 3, figg. 21-22) costituiro-no il materiale tipo di P. fabianii Lambert, 1924 (in Lambert & Thiéry, 1909-1925), su un altro ancora (tav. 4, fig. 41) fu basata la specie P. airaghii Lambert, 1924. Mazzetti e Pantanelli (Tab. 1) as-segnarono gli esemplari di Spatangus dell’Emilia a ben 20 specie diverse, 10 delle quali nuove. Di queste ultime tuttavia solo S. subconicus e S. aequidilatatus vennero successivamente accettate come valide da Stefanini (1908). Infine Laureri (1963) istituì S. venzoi

su un unico esemplare di Castellaro e segnalò dalla stessa località S. fabianii e S. cfr airaghii.

Caratteristiche morfologiche del materialein studio:

L’esame morfologico preliminare del materiale a disposizione porta a separare tre morfotipi, indicati per semplicità di trattazione con le lettere A, B e C.Le forme A e B mostrano alcuni caratteri in comune. B si differenzia per la carena più accentuata nell’inte-rambulacro 5 sul lato aborale, carattere che appare le-gato all’allungamento longitudinale del guscio, e il lato posteriore che appare meno inclinato. A e C hanno in comune il contorno quasi equidimensionale o comun-que poco allungato del guscio. In C il guscio è più de-presso e allargato posteriormente rispetto ad A e B, il profilo laterale è più irregolare, con la parte anteriore rapidamente declive verso il margine; mancano le coste radiali che dall’apice scendono sino al margine, sempre presenti sul lato aborale di A e B negli interambulacri 2 e 3. L’incisione del margine anteriore in C è a forma di

“U”, non di “V” come più spesso avviene per A e B, ed è più stretta rispetto a quella di B e, soprattutto, di A.Sulla base di questa in-formazione preliminare viene impostata l’anali-si statistica biometrica bivariata, che utilizza i dati tratti da 27 esem-plari raccolti dall’autore e 15 esaminati in rac-colte pubbliche. I grafi-ci ottenuti confermano le osservazioni emerse dall’esame morfologico ed evidenziano ulterio-ri diversità: B, oltre ad avere guscio più allun-gato (Fig. 3a) di A e C, ha i petali anteriori e posteriori più corti (Fig. 3c,d) e la depressione dell’ambulacro III si estende maggiormen-te verso il disco apicale (Fig. 3f ), spesso giun-gendo sino ad esso. In C l’apparato apicale è spo-stato nettamente più in avanti rispetto alle altre

Nella pagina precedente

Fig. 3 – Analisi statistica bivariata.S= Spatangus delphinus Defrance, 1827 della Sardegna.

P= S. delphinus del Bacino del Rodano, Francia(dati tratti da Philippe, 1998).

Triangoli vuoti (A)= S. subconicus Mazzetti, 1881,triangoli pieni (B)= S. destefanii Stefanini, 1908,

rombi pieni (C)= S. fabianii Lambert, 1924.

Fig. 4 – Analisi statistica multivariata, diagramma PCA.Per la legenda vedi didascalia di Fig. 3.

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Notiziario 201048 Società Reggiana di Scienze Naturali

due forme (Fig. 3e). Non si notano invece differenze si-gnificative tra i morfotipi A e B per quanto riguarda gli altri parametri considerati. Si potrebbe ipotizzare che la minor lunghezza dei petali (L2, L4) sia una conse-guenza strutturale dovuta al restringimento del guscio, negli esemplari allungati longitudinalmente (forma B). Non è però spiegabile con la stessa motivazione il solco anteriore più esteso verso l’ambitus. I grafici mostrano alcune variazioni ontogenetiche comuni alle tre forme in esame: con la crescita il guscio tende ad allungarsi (Fig. 3a) e i petali si accorciano (Fig. 3c.d). Inoltre sia la profondità che la larghezza del solco anteriore di-minuiscono (Fig. 3b). Come ulteriore indagine viene impostata l’analisi multivariata (PCA), che utilizza 8 parametri metrici ed è basata su un campione costi-tuito da 16 esemplari della forma A, 13 della B e 5 della C. I primi tre fattori comprendono quasi il 90%

della variabilità dell’in-tero gruppo di dati. Il primo fattore (PC1) è controllato dalla larghez-za del guscio (W) e dalla lunghezza dei petali (L2 ed L4); il secondo (PC2) dalla posizione dell’appa-rato apicale (L1), il terzo (PC3) dall’estensione del solco frontale lungo l’ambulacro III (L8). Si evidenzia una netta separazione dei dati relativi ai 3 morfotipi considerati (Fig. 4). Analogo test effettuato rispettiva-mente con 9 e 10 parametri, ma con 7 e 9 esemplari in meno perché mancanti di alcuni dati biometrici, mo-stra risultati analoghi.

DiscussioneL’esame morfologico e le analisi statistiche biome-

triche confermano la presenza di tre specie distinte.Non essendo stati raccolti sinora nel Reggiano esem-plari simili a quelli attribuiti da Manzoni (1879, 1880) a S. chitonosus, tutto il materiale in esame corrisponde al gruppo attribuito originariamente a S. austriacus. Kroh (2005) notò la presenza di vari morfotipi all’interno di questo raggruppamento e sottolineò la diversità del piastrone rispetto a quel-lo di S. austriacus nell’unico caso in cui lo schema era stato illustrato (Manzoni, 1879, tav. 3, fig. 21). Il materiale in studio conferma la netta diversità ri-spetto alla specie di Laube e all’affine S. delphinus: il guscio è più elevato, con contorno meno regola-re, il margine più sottile e lo sterno è più stretto. Il confronto statistico mostra ulteriori differenze: in

S. delphinus il solco an-teriore è più largo (Fig. 3b), il guscio è meno allungato di quello della forma B (Fig. 3a), l’a-pice è più prossimo al margine anteriore (Fig. 3e) rispetto alle forme A e B, i petali sono più corti (Fig. 3c,d) rispetto

a quelli di A e C, la depressione dell’ambulacro III si estende meno verso l’apice rispetto alla forma B. La modificazione ontogenetica comune alle tre forme in esame, vista nel paragrafo precedente, secondo la quale sia la profondità che la larghezza del solco anteriore diminuiscono con la crescita, mostra una tendenza inversa rispetto a quella di S. austriacus (confronta Kroh, 2005, p. 181). Ciò costituisce un

Fig. 5 - Schemi dei piastroni:A) Spatangus subconicus Mazzetti, 1881

(Me09, L= 81 mm), Langhiano di Case Ferrari.B) Spatangus destefanii Stefanini, 1908

(Me10, L= 95 mm), Langhiano di Case Ferrari.C) Spatangus fabianii Lambert, 1924,

tipo (Manzoni 1878, tav.3, figg. 21-22; L=118 mm), Langhiano di Praduro.

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49Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

ulteriore elemento di diversità rispetto alla specie di Laube.Il morfotipo A, in base ai caratteri morfologici sopra descritti, viene assegnato a S. subconicus Mazzetti (1881). L’olotipo di S. subconicus (IPUM) appare poco deformato ma molto usurato superficialmen-te. Le illustrazioni migliori di questa specie sono quelle fornite da Airaghi (1901: tav. 27, figg. 7-7a) e Stefanini (1909, tav. 16, fig. 4). Altri esemplari piuttosto deformati furono utilizzati da Mazzetti & Pantanelli (1885, 1887) come tipi per le nuove spe-cie S. arcuatus e S. haemisphaericus che, in accordo con Stefanini (1908), sono da porre in sinonimia con S. subconicus. L’esemplare di Castellaro attribu-ito da Laureri (1963, tav. 1, fig. 1 e tav. 2. fig. 2) a S. fabianii è in realtà un tipico S. subconicus. Il profilo laterale è elevato e la parte anteriore del gu-scio è fortemente declive verso il margine, ma anche un esemplare delle Colline di Torino (IGF 15292E, collezione Michelotti; Tav. 1, figg. 5- 6) mostra un aspetto simile, nonostante sia privo del lato adorale. Anche S. venzoi Laureri (1963) è da porre in sinoni-mia. Per stessa ammissione di Laureri questa forma è molto vicina a Spatangus sp. di Botto Micca, che era già stato assegnato a S. subconicus da Stefanini (1908). La forma B viene attribuita a S. destefanii Stefanini, 1908 dal momento che corrisponde all’o-lotipo e all’altro esemplare della collezione Manzoni (1879: tav. 4, fig. 41) indicato da Stefanini come appartenente a questa specie. S. airaghii Lambert, 1924 rientra chiaramente in sinonimia con S. de-stefanii. È strano che Lambert abbia creato questa specie basandosi proprio su uno dei tipi già designati da Stefanini e caratterizzandola con particolari che erano già stati definiti dallo stesso Stefanini come diagnostici di S. destefanii: “petali dritti e affilati e solco anteriore che si estende sino all’apice”. En-trambi i tipi sono privi del lato adorale; tuttavia altri esemplari attribuibili a questa specie hanno permes-so di completare la descrizione.La forma C corrisponde agli esemplari di Manzoni (1879) che Lambert indicò come tipi di S. fabianii, ad eccezione di quello di tav. 3, figg. 19-20, che è chiara-mente da attribuire a S. subconicus, come fatto notare anche da Stefanini (1908). L’esame diretto di uno di questi esemplari (Manzoni, 1879: tav. 3, fig 21) con-ferma che la struttura del piastrone è diversa da quella di S. austriacus, soprattutto per lo sterno più stretto, che mostra il rapporto larghezza/lunghezza=0,58 con-tro 0,85-0,95 della specie di Laube (confronta Kroh, 2005). Il disegno di Manzoni si discosta per certi par-ticolari dal vero: il labbro in realtà è un po’ meno spor-gente e la parte posteriore del guscio è decisamente più

allargata (e con esso la fasciola). L’esemplare di Case Ferrari attribuito a questa specie da Laureri (1963, tav. 2, fig. 1) è un tipico S. subconicus. Per ammissione del-lo stesso Laureri, il guscio è decisamente più elevato e rigonfio rispetto all’esemplare di Manzoni (1879: tav. 2, fig. 10) utilizzato come confronto. S. fabianii citato da Maczynska (1979) nel Badeniano della Polonia è molto diverso dai tipi e probabilmente appartiene ad un’altra specieNegli affioramenti del Reggiano non sono stati raccol-ti esemplari in buone condizioni corrispondenti alle altre specie di Spatangus citate in letteratura nel Lan-ghiano dell’Appennino. Queste forme, in particolare S. aequidilatatus, S. chitonosus e S. corsicus, necessitano di ulteriori indagini basate su materiale proveniente da altre aree, cosa che esula dallo scopo di questo lavoro.

Confronto differenziale: Le tre specie identificate nel Reggiano si differen-

ziano da quelle note in letteratura per i sotto elencati motivi.S. delphinus Defrance, 1827 si distingue dagli esem-plari emiliani per gli stessi motivi visti per S. austriacus.S. purpureus Müller, 1776, presente nel Mediterraneo dal Messiniano (Néraudeau et al., 2001), si distingue per la piastra labiale che non si estende oltre la prima piastra ambulacrale, il margine più rigonfio e il solco anteriore meno profondo.S. postulosus Wright, 1864 del Miocene del Medi-terraneo, ha tubercoli primari più numerosi e più piccoli, profilo meno elevato e margine più spesso e arrotondato.S. euglyphus Laube, 1868 dell’Aquitaniano del Ve-neto, ha il solco frontale meno profondo, petali più corti, il periprocto posizionato più in basso sul lato posteriore e il peristoma più distante dal margine an-teriore.S. subinermis Pomel, 1887 presente nel Mediterraneo sin dal Pliocene, si distingue per la scarsa quantità di tubercoli primari, la piastra labiale che non si estende oltre la prima ambulacrale e per la fasciola subanale più stretta e cordiforme (Néraudeau et al., 1998).S. saheliensis Pomel, 1887 del Miocene superiore-Pliocene del nord Africa e Spagna, ha petali più cor-ti e stretti, i tubercoli primari sono più radi (Pomel, 1887: tav. 15, figg. 1-3; Lachkhem & Roman, 1995: tav. 3, fig. 10). Il contorno del guscio e la forma del solco si avvicinano a quello di S. fabianii, ma il profilo laterale è diverso e più regolarmente declive in avanti, la depressione frontale dell’ambulacro III arriva sino all’apice.Spatangus sp. 2 di Kroh (2005), del Langhiano-Ser-ravalliano inferiore della Paratetide ha lo sterno più

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Notiziario 201050 Società Reggiana di Scienze Naturali

largo, il labbro è allungato trasversalmente e non si estende oltre la prima piastra ambulacrale.S. castelli Taramelli, 1869, del Miocene superiore del nord Africa, e S. taramelli Airaghi, 1908, del Serra-valliano del Piemonte, si distinguono per il profilo laterale più depresso, il margine più arrotondato e il solco anteriore meno incavato. Inoltre i tubercoli pri-mari negli IA 1 e 4 si estendono sino all’intera metà adradiale della colonna posteriore.

SistematicaSecondo Kroh & Smith, 2010

Classe Echinoidea Leske, 1778Ordine Spatangoida L. Agassiz, 1840

Famiglia Spatangidae Gray, 1825Genere Spatangus Gray, 1825

Spatangus subconicus Mazzetti, 1881Tav. 1, figg. 1-9; Fig. 5a

1879 Spatangus austriacus Laube – Manzoni (pars), p. 12, tav. 3, figg. 19-20, tav. 2, figg. 10-151881a Spatangus subconicus Mazzetti – Mazzetti, p. 1, tav. 2, fig. 21881b Spatangus subconicus – Mazzetti, p. 21, tav. 2, fig. 21884 Spatangus subconicus Mazzetti – Coppi, p. 1911885 Spatangus arcuatus Mazzetti & Pantanelli – Mazzetti & Pantanelli, p. 7, tav. 1, fig. 21887 Spatangus haemisphaericus Mazzetti & Panta-nelli – Mazzetti & Pantanelli, p. 51897 Spatangus austriacus Laube – Vinassa de Regny, p. 191896 Spatangus sp. – Botto Micca, p. 373, tav. 10, fig. 71901 Spatangus Botto-Miccai Airaghi (non Vinassa de Regny) – Airaghi, p. 216, tav. 27 figg. 7-7a1908 Spatangus subconicus Mazzetti – Stefanini, p. 113, tav. 16, fig. 41963 Prospatangus fabianii Lambert – Laureri, pp. 6-8, tav. 1, figg. 1a-b, tav. 4, fig. 11963 Prospatangus venzoi Laureri – Laureri, pp. 10-11, tav. 2, fig. 2-2a; tav. 4, fig. 2

Materiale tipo: Mazzetti, 1881; p. 1, tav. 2, fig. 2 (IPUM), Montese (Modena), Langhiano.Materiale esaminato dal Reggiano: 15 esemplari, dei quali 12 di Monte Valestra e 3 di Case Ferrari. 2 esemplari di Castellaro descritti da Laureri (1963; IGUP) sono stati utilizzati per confronto.Descrizione: Specie di grandi dimensioni (L=67-

107 mm nel materiale studiato). Guscio a contorno subcircolare, o poco allungato longitudinalmente, ristretto posteriormente. Massima larghezza in cor-rispondenza del centro o poco anteriore ad esso. Faccia aborale piuttosto elevata e rigonfia. Profilo la-terale regolarmente arcuato con lato posteriore for-temente inclinato (ca. 45°). Massima altezza (H=33-52% L) in corrispondenza del disco apicale o appe-na posteriore ad esso. Incisione frontale profonda, inizialmente larga. La depressione nell’ambulacro III parte dal margine ma si annulla sempre prima di arriva all’apice. Margine arrotondato (Tav. 1, figg. 6, 8). Faccia orale quasi piana con l’area peristomia-le incavata e il piastrone moderatamente sporgente (Tav. 1, figg. 7, 9 ).Sistema apicale: Posto in corrispondenza o appena spostato anteriormente rispetto al centro; la distanza media dal margine anteriore è 46% L. E’ etmolitico, con 4 gonopori di uguale dimensione; i due del paio anteriore sono più vicini tra loro rispetto a quelli del paio posteriore (v. Laureri, 1963: pl. 1, fig. 1a,b).Ambulacri (A): Petali pari dritti o poco flessuosi, lunghi, quasi chiusi distalmente. Gli anteriori sono più diver-genti (105°-115°) dei posteriori (65°-70°). Zone porifere piuttosto depresse, le interporifere sono 2-2,5 volte più larghe di una singola area porifera. Le aree ambulacrali al di fuori dei petali e le interporifere sono prive di tu-bercoli primari; solo rari tubercoli di medie dimensioni possono essere presenti negli A II e IV, nei pressi della sutura con gli interambulacri 2 e 3. Sul lato adorale sono presenti fillodi ben sviluppate ai lati del peristoma. Gli A I e V formano un’area peri-piastronale con solo piccoli tubercoli sparsi.Interambulacri (IA): Sul lato aborale gli IA 2, 3 e 5 sono un po’ rigonfi. Negli IA 2 e 3 sono sempre presenti due coste radiali poco rilevate che si estendono dall’apice sino al margine (Tav. 1, figg. 2, 5), in corrispondenza del quale generano due deboli convessità sul contorno. Tubercoli primari grandi, crenulati e perforati con areole inclinate. Sono disposti in gruppi lineari o disposti a “V” presso il bordo adapicale di ogni piastra (Tav. 1, fig. 1) negli IA 1, 4 e 5. Negli IA 2 e 3 i grandi tubercoli pri-mari si trovano lungo i bordi adapicali delle piastre nel-le colonne posteriori e, più piccoli, nelle aree adiacenti l’ambulacro III. Nel complesso sono numerosi ma non oltrepassano l’apice dei petali, a parte le serie adiacenti all’ambulacro III che giungono, rimpicciolendosi gra-dualmente, sino all’ambitus. Il resto della superficie abo-rale è coperta da minuti tubercoli e granuli. Sul lato ado-rale gli IA sono densamente coperti da tubercoli primari, più piccoli di quelli del lato aborale e con dimensione crescente dal margine verso il peristoma; pochi tubercoli secondari e miliari sono sparsi tra i primari.

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51Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

Piastrone (Fig. 5a): Sterno piuttosto stretto (media del rapporto larghezza//lunghezza=0,65). Labbro poco sporgente, la piastra labiale è poco allungata e si estende sino alla seconda piastra ambulacrale.Peristoma: Reniforme. Larghezza=20% L, distanza del bordo anteriore dal margine=25% L. Periprocto: ovale, allungato trasversalmente (Tav. 1, fig. 3), posto sotto la proiezione dell’IA 5. Misura 13x8 mm in un esemplare con L=93 mm.Fasciola: Presente solo la subanale, bilobata, col ramo superiore poco inflesso centralmente e piuttosto lar-ga (larghezza=40% L).La notevole variabilità morfologica presente nel campione in esame comprende: un moderato allun-gamento antero-posteriore del guscio (Tav. 1. fig. 2), profilo laterale più o meno elevato e più o meno arcuato (Tav. 1, figg. 6-9), margine più sottile della media (Tav. 1, figg. 3, 7, 9), i tubercoli primari sul lato abora-le variano come quantità e pos-sono estendersi verso il margine anche oltre l’apice dei petali. In rari casi è presente una carena, seppur poco rilevata, nell’IA 5 sul lato aborale (Tav. 1, fig. 3).Località: Presente a Monte Va-lestra, Castellaro e Case Ferrari (Appennino reggiano). Questa specie è citata in molte locali-tà del Langhiano dell’Emilia: Montese (MO), Praduro e Jano (BO), Montorsello e Pantano (RE). Coppi (1884) la citò an-che da Rocca S. Maria (MO). Fu citata da Botto Micca (1896) e Airaghi (1901) anche nell’“Elveziano” del Piemonte: Tetti Garrone, Pino Torinese e Baldissero (TO); questi affiora-menti sono attualmente attri-buiti al Gruppo della Pietra da Cantoni (Burdigaliano – base del Langhiano: Clari et al., 1995) e alle sovrastanti Marne di Mincengo (Langhiano superiore – Serra-valliano).

Spatangus destefanii Stefanini, 1908Tav. 2, figg. 1-8; Tav. 4, figg. 3-4; Fig. 5b; Fig. 6

1879 Spatangus austriacus, Laube – (pars) Manzoni, p. 12, tav. 4, fig. 411908 Spatangus destefanii Stefanini – Stefanini, p. 112-113, tav. 4, fig. 3

1924 Prospatangus airaghii Lambert – Lambert (in Lambert & Thiéry, 1909-1925), p. 4621963 Propatangus cfr. airaghii Lambert – Laureri, pp. 9-10, tav. 2, figg. 1-1a, tav. 4, fig. 3

Materiale tipo: Stefanini (1909) tav. 4, fig. 3 (IGF 15293E), Manzoni (1879) tav. 4, fig. 41 (IGF 15294E); Langhiano di Praduro-Jano (Bologna).Materiale esaminato dal Reggiano: 15 esemplari, dei quali 8 da Monte Valestra, 4 da Case Ferrari, 2 da Castellaro e 1 da Pantano.Descrizione: Guscio di grandi dimensioni (L max= 120 mm) allungato antero-posteriormente (W= 81-90% L) e ristretto posteriormente. La massima lar-ghezza coincide con la posizione del sistema apicale. Solco anteriore profondo, di solito a forma di “V”. Profilo laterale uniformemente convesso, con lato po-

steriore moderatamente incli-nato (Tav. 2, figg. 3-4). Carena poco rilevata presente nell’inte-rambulacro 5. Massima altezza (H= 35-50% L) posta poste-riormente all’apice. Margine piuttosto sottile (Tav. 4, fig. 4). Faccia adorale quasi piana, un po’ incavata nell’area peristo-miale, piastrone un po’ rigonfio.Sistema apicale: come in S. sub-conicus.Ambulacri: Sul lato aborale, l’ambulacro III mostra una de-pressione che parte dall’apice o da un punto vicino ad esso (Tav. 2, figg. 1, 2, 8) e si appro-fondisce gradualmente verso il margine anteriore; i pori sono minuti e disposti obliquamente. Petali quasi chiusi distalmente, quelli anteriori più divergenti (105°-120°) dei posteriori (60°-70°); tutti sono dritti o poco flessuosi e poco dissimili come

lunghezza e larghezza. Aree porifere depresse, inter-porifere un po’ rigonfie circa 2-2,5 volte più larghe di un’area porifera. La zona interporifera mostra solo tubercoli secondari e miliari. Sul lato adorale sono presenti fillodi ben sviluppate ai lati dello stoma. Gli ambulacri I e V formano aree peri-piastronali prive di tubercoli primari.Interambulacri: IA 2, 3 e 5 un po’ rigonfi. In IA 2 e 3 due coste radiali poco rilevate si estendono dall’apice sino al margine (Tav. 4, fig. 3), dove inducono due deboli convessità sul contorno. La tubercolazione,

Fig. 6 – Spatangus destefanii Stefanini, 1908 (Me32, L= 89 mm), lato aborale.

Langhiano di Castellaro.

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Notiziario 201052 Società Reggiana di Scienze Naturali

sia sul lato aborale che quello adorale, corrisponde a quella di S. subconicus (Tav. 2, fig. 7). I tubercoli pri-mari normalmente non si estendono oltre l’apice dei petali. Alcuni esemplari conservano parte degli aculei primari, che sono sottili e con base fortemente cre-nulate, sia sul lato aborale (Tav. 2, fig. 6) che adorale.Piastrone (Fig. 5B): Larghezza/lunghezza dello ster-no= 0,66. Labbro poco sporgente con piastra labiale poco allungata che si estende sino alla seconda piastra ambulacrale.Peristoma: Reniforme, larghezza= 15% L, distanza dal margine anteriore= 25% L.Periprocto e fasciola subanale: come in S. subconicus.La notevole variabilità morfologica rilevata nel campione in esame comprende: il profilo laterale del guscio più o meno elevato e più o meno declive anteriormente (Tav. 2, figg. 3-4), il solco frontale in rari casi mostra una forma a “U” con pareti la-terali quasi parallele (Tav. 4. fig. 3), la depressione nell’ambulacro III talvolta si annulla a una certa di-stanza dall’apice (Tav. 4, fig. 3), il margine un po’ più arrotondato e rigonfio (Tav. 2, fig. 5), i tubercoli primari più o meno numerosi e distribuiti su aree di differente estensione, i petali anteriori un po’inflessi in avanti distalmente.Località: Presente a Monte Valestra, Castellaro e Case Ferrari; rara a Pantano. I tipi provengono da Praduro e Jano (BO). Gli altri esemplari esaminati nelle collezioni Mazzetti (IPUM), Manzoni e Stefa-nini (IGF) sono di Guiglia, Montese, Salto e Seme-lano (MO).

Spatangus fabianii Lambert, 1924Tav. 3, figg. 1-9; Tav. 4, figg. 1-2; Fig. 5c

1879 Spatangus austriacus, Laube – (pars) Manzoni, p. 12, tav. 2 figg 10-15, tav. 3 figg 21-221908 Spatangus austriacus Laube – (pars) Stefanini, pp. 109-1121924 Prospatangus fabianii Lambert – Lambert (in Lambert & Thiéry, 1909-1925), p. 462Non 1963 Propatangus fabianii Lambert – Laureri, pp. 6-8, tav. 1, figg. 1a-c

Materiale tipo: Manzoni (1879) tav. 2, figg 10-13 e 15 (IGF 15295E) e Manzoni (1879) tav. 3, figg 21-22 (IGF 15296E); Langhiano di Praduro-Jano (Bologna).Materiale esaminato dal Reggiano: 2 esemplari, Monte Valestra.Descrizione: Specie di grandi dimensioni (Lmax=118 mm), con guscio quasi largo come lun-go (W=97-102% L), troncato e poco ristretto po-

steriormente (Tav. 3, figg. 1, 5, 7, Tav. 4, fig. 1). Massima larghezza posta anteriormente rispetto al centro. Guscio depresso (H=30-34% L). Profilo la-terale non regolarmente arcuato: la parte anteriore è rapidamente declive verso il margine anteriore (Tav. 3, figg. 4, 6). Lato posteriore poco elevato e mode-ratamente inclinato. Incisione frontale stretta, con pareti del solco quasi parallele (Tav. 3, figg. 5, 9). Margine piuttosto sottile (Tav. 3, fig. 8).Sistema apicale: Situato anteriormente rispetto al centro (L1=37-40% L). E’ di tipo etmolitico, con quattro gonopori di eguali dimensioni.Ambulacri (A): La depressione in A III non raggiunge l’apice e si annulla a una notevole distanza da esso (L8=50-62% di L1). Petali molto sviluppati (L2 e L4=35-39% L), dritti o poco flessuosi, chiusi all’e-stremità.Interambulacri (IA): Sul lato aborale le superfici in-terambulacrali non sono rigonfie e mancano le due coste radiali caratteristiche di S. subconicus e S. de-stefanii. La tubercolazione corrisponde a quella in S. subconicus.Piastrone (Fig. 5C): Sterno stretto (larghezza/lun-ghezza=0,58-0,63), la piastra labiale si estende alla seconda piastra ambulacrale.Peristoma: Piuttosto stretto (larghezza=15% L) e vi-cino al margine anteriore (L9=22% L). Labbro poco sporgente.Periprocto: Ovale, allungato trasversalmente. Misura 14x8 mm in un esemplare di L=118 mm. È posizio-nato in alto sul lato posteriore.Fasciola: Presente solo la fasciola subanale, che è bilo-bata e larga (larghezza=47-49% L).La variabilità comprende il solco nell’ambulacro III più o meno largo e profondo, in un solo caso il con-torno del guscio si stringe posteriormente (Tav. 3, fig. 2), il profilo della parte anteriore può mantenersi ele-vato sino quasi al margine (Tav. 3, fig. 3).Località: Due soli esemplari raccolti a Monte Vale-stra. I tipi sono di Praduro e Jano. È molto meno co-mune rispetto a S. subconicus e S. destefanii in tutte le località dell’Emilia.

Paleoecologia La fauna associata a Spatangus nelle località esami-

nate è scarsa e presenta una bassa diversità specifica. È costituita in prevalenza dal nautiloide Aturia, da tubi si-fonali di bivalvi perforatori del legno (Teredinidae) e da resti di ottocoralli della famiglia Isididae Lamouroux, 1812. Una situazione analoga fu descritta da Smith & Gale (2009) per l’echinofauna della Pakhna Formation di Cipro (Miocene), dove fu prospettato un ambiente

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53Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

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S. purpureus Müller, 1776 l l l

S. delphinus Defrance, 1827 l l l

S. chitonosus Sismonda, 1841 l l l

S. corsicus Desor, 1847 l l l

S. philippi Desor, 1858 l

S. spinosissimus Desor, 1858l

S. brissoides Leske, 1778 ll

S. meridionalis Risso, 1825l

S. pustulosus Wright, 1864 l

S. euglyphus Laube, 1868 l

S. austriacus Laube, 1869 l l l l l l

S. aequidilatatus Mazzetti 1881 < l l l

S. subconicus Mazzetti 1881 < l l

S. manzonii Simonelli, 1883 < l

S. hemiornatus Mazzetti & Pantanelli, 1885 <

S. arcuatus Mazzetti & Pantanelli, 1885 < l

S. pagliarolensis Mazzetti & Pantanelli, 1885 < l

S. discoidalis Mazzetti & Pantanelli, 1887 <

S. semelanensis Mazzetti & Pantanelli, 1887 <

S. podex Mazzetti & Pantanelli, 1887 <

S. cor Mazzetti & Pantanelli, 1887 <

S. haemisphaericus Mazzetti & Pantanelli, 1887 < l

S. destefanii Stefanini, 1908 <

S. uniformis Lambert, 1909 <

S. airaghii Lambert,1924 < l

S. fabianii Lambert,1924

< l

S. venzoi Laureri, 1963

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Notiziario 201054 Società Reggiana di Scienze Naturali

oligotrofico batiale con basso flusso di materiale orga-nico verso il fondale. A Monte Valestra si notano anche rari modelli interni di gasteropodi attribuibili ai generi Eudolium, Pholadomia e Thyasira. A Case Ferrari e Ca-stellaro sono presenti concentrazioni del bivalve Ostrei-nella e di pteropodi. Anche questi elementi sembrano indicare un ambiente piuttosto profondo.L’echinofauna del Langhiano dell’Emilia è molto affi-ne a quella segnalata nel Miocene Medio di Piemonte (Airaghi, 1901), Marche (de Loriol, 1882), Lazio (De Angelis d’Ossat, 1897) e Sardegna (Lambert, 1909; P. Stara, comunicaz. pers., ottobre 2011). Essa com-prende Heterobrissus montesii Manzoni & Mazzetti, 1877 e Mazettia pareti (Manzoni, 1879), oltre a meno frequenti Schizater, Brissopsis, Pericosmus. A Cameri-no è presente anche Cleistechinus canavarii de Loriol (1882), specie attualmente considerata da Smith & Gale (2009) come appartenente al genere Palaeobris-sus. Heterobrissus e Palaeobrissus sono echinoidi detriti-vori che si trovano attualmente solo su fondali batiali (Smith & Gale, 2009). In particolare, H. hystrix, che è la specie vivente più vicina a H. montesii, vive nella zona caraibica (Golfo del Messico, Cuba e Colombia) a profondità di 220-1610 m (Mortensen, 1950). Ma-zettia, anche se endemica del Mediterraneo, è molto vicina a Linopneustes, che vive nei Caraibi e Indo-Paci-fico condividendo in parte l’ambiente di Palaeobrissus e Heterobrissus, ma senza estendersi così in profondità come questi ultimi; la sua distribuzione batimetrica varia da 55 a 710 m, con massima frequenza tra 200 e 500 m. Schizater e Pericosmus sono considerati tipici elementi della fauna di piattaforma del Mediterraneo nel Miocene Medio (Smith & Gale, 2009). In parti-colare Pericosmus latus nel Miocene di Malta viveva a circa 200 m di profondità (Cappelletti, 2008).

In sintesi, il confronto con la batimetria dei paren-ti attuali più stretti indica per l’echinofauna dell’Emi-lia un ambiente epibatiale, più probabilmente attorno ai 200 m di profondità.

Le peliti siltose grigie rappresentano secondo Amo-rosi (2002b) la deposizione autoctona in un ambiente di piattaforma interna. I dati faunistici rilevati sembra-no rafforzare l’interpretazione di Papani et al. (1989), secondo i quali l’ambiente deposizionale si estendeva anche più in profondità, sino alla “parte superiore del-la scarpata”. A Valestra gli echinoidi si trovano anche negli strati arenacei che rappresentano eventi di risedi-mentazione di bassa energia (Amorosi, 2002a,b). Ciò spiegherebbe il fatto che siano spesso rappresentati da gusci privi del lato adorale o di quello posteriore, che costituiscono le parti più deboli dell’esoscheletro. No-nostante la fragilità del guscio si raccolgono tuttavia anche esemplari completi, che talvolta conservano una

parte delle spine, come fu segnalato anche da Manzoni (1879) e Stefanini (1908). Ciò indica che i fenomeni di trasporto non erano traumatici e che una parte degli echinoidi era ancora in vita al momento dell’evento.Resti vegetali e di bivalvi perforatori del legno sono piuttosto frequenti negli strati che contengono gli echinidi nelle località esaminate, indicando apporto di detrito organico sul fondale. Il fitodetrito costitui-sce uno degli alimenti principali di Spatangus (Barberá et al., 2011) e probabilmente costituiva una fonte ali-mentare anche per le specie fossili esaminate.Si nota un forte legame tra gli spatangidi del Langhia-no dell’Emilia e l’echinofauna batiale dei Caraibi: H. histrix e Linopneustes vivono oggi nel Golfo del Mexi-co e Palaeobrissus è endemico dell’area caraibica.

ConclusioniNella Formazione di Pantano (Langhiano) della

provincia di Reggio Emilia vengono identificate tre delle specie di Spatangus segnalate in letteratura per l’Emilia-Romagna: S. subconicus Mazzetti, 1881, S. destefanii Stefanini, 1908 e S. fabianii Lambert, 1924. Le prime due specie sono affini tra loro, S. fabianii si distingue nettamente dalle altre due ed è la meno frequente nelle località esaminate. S. airaghii Lam-bert, 1924 e S. venzoi Laureri, 1963 vengono posti in sinonimia rispettivamente con S. destefanii e con S. subconicus. In base alle caratteristiche della fauna associata e a un confronto attualistico con echinoi-di affini viventi, viene prospettato un ambiente di vita piuttosto profondo, probabilmente epibatiale di piattaforma-scarpata. Si trattava di echinoidi detriti-vori per i quali la presenza di fitodetrito sul fonda-le, indicato anche dalla presenza di numerosi bivalvi perforatori del legno, costituiva una importante fonte di alimentazione. Una forte affinità lega l’associazione degli spatangidi del Langhiano dell’Emilia all’attuale echinofauna batiale dell’area Caraibica.

RingraziamentiSono grato a Stefano Dominici (Museo di Sto-

ria Naturale, Sezione di Geologia e Paleontologia, Università di Firenze), Paolo Serventi (Dipartimento di Paleontologia e dell’Orto Botanico, Università di Modena e Reggio Emilia) e Paola Monegatti (Dipar-timento di Scienze della Terra, Università di Parma) che hanno consentito l’accesso alle collezioni conser-vate nelle rispettive istituzioni. Ringrazio anche Paolo Stara (Museo di Storia Naturale Aquilegia, Cagliari) e Luca Bertolaso (Società Reggiana di Scienze Natu-rali) per aver fornito informazioni su materiale fossile e sulle località di ritrovamento rispettivamente delle Sardegna e del Reggiano.

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55Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

Tavola 1 – Spatangus subconicus Mazzetti, 1881. Langhiano:fig. 1 - Lato aborale (Me01, L= 92 mm). Monte Valestra.fig. 2, 8 - Vista aborale e laterale, esemplare privo della faccia adorale (Me04, L= 110 mm). Monte Valestra.fig. 3, 4, 7 - Vista dei lati posteriore, anteriore e laterale (Me05, L= 93 mm). Monte Valestra.fig. 5-6 - Vista aborale e laterale, esemplare privo della faccia adorale (IGF 15292E: collezione Michelotti, L= 112 mm). Colline di Torino.fig. 9 - Vista laterale (Me09, L= 81 mm). Monte Valestra.

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Notiziario 201056 Società Reggiana di Scienze Naturali

Tavola 2 – Spatangus destefanii Stefanini, 1908. Langhiano:fig. 1 - Vista aborale dell’olotipo (IGF 15293E: collezione Manzoni, W= 99 mm). Praduro.fig. 2 - Vista aborale (Me02, L= 84 mm). Monte Valestra.fig. 3, 5 - Viste laterale e frontale, esemplare privo della faccia adorale (Me03, L= 104 mm). Castellaro.fig. 4, 8 - Viste laterale e aborale (Me08, L= 89 mm). Monte Valestra.fig. 6 - Aculei primari del lato aborale, max lunghezza 22 mm (Me15). Case Ferrari.fig. 7 - Particolare dei tubercoli primari nell’interambulacro 4 (Me32, L= 107 mm). Castellaro.

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57Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

Tavola 3 – Spatangus fabianii Lambert, 1924. Langhiano:fig. 1, 3 - Vista dei lati aborale e laterale (IGF 15297E: collezione Manzoni, L= 97 mm). Praduro.fig. 2, 4 - Lato aborale e vista laterale (IGF 15298E: collezione Manzoni, L= 98 mm). Jano.fig. 5-6 - Tipo designato da Lambert (1924) sulla base dell’illustrazione di Manzoni (1879, tav. 3, figg. 21-22). Vista adorale e profilo laterale, (IGF 15296E, L=118 mm). Praduro.fig. 7 - Tipo designato da Lambert (1924) sulla base dell’illustrazione di Manzoni (1879, tav. 2, fig. 10). Lato aborale (IGF 15295E: collezione Manzoni, L= 112 mm). Jano.fig. 8-9 - Vista del lato posteriore e particolare del solco anteriore (Me.31, L= 118 mm). Monte Valestra.

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Notiziario 201058 Società Reggiana di Scienze Naturali

Tavola 4 – Spatangus fabianii Lambert, 1924. Langhiano:fig. 1-2 - Lato adorale e vista laterale (Me07, L= 96 mm). Monte Valestra. – Spatangus destefanii Stefanini, 1908. Langhiano:fig. 3 - Vista aborale (Me14, L= 98 mm). Monte Valestra.fig. 4 - Vista posteriore (Me03, L= 104 mm). Castellaro.

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59Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

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Notiziario 201060 Società Reggiana di Scienze Naturali

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Manzoni A. (1880). Echinodermi fossili della molassa serpentinosa e supplemento agli echinodermi dello Schlier della colline di Bologna. Denkschriften der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften mathematisch-naturwissenschaftliche Classe, Wien, 42: 185-190.

Manzoni A. & Mazzetti G. (1877). Echinodermi nuovi della Molassa Miocenica di Montese nella Provincia di Modena. Atti della Società Toscana di Scienze Naturali, 3(2): 350-356.

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Mazzetti G. (1881a). Echinodermi fossili di Montese. Annuario della Società dei Naturalisti in Modena, serie 2, 15: 108-126.

Mazzetti G. (1881b). Echinodermi fossili di Pantano. Annuario della Società dei Naturalisti in Modena, serie 2, 15: 127-129.

Mazzetti G. (1896). Catalogo degli Echinidi fossili della collezione Mazzetti esistente nella R. Università di Modena. Memorie della Regia Accademia di Scenze, Lettere ed Arti, Modena, serie 2, 11: 409-461.

Mazzetti G. & Pantanelli D. (1885). Cenno monografico intorno alla fauna fossile di Montese. Parte pri-ma. Atti della Società dei Naturalisti in Modena, Memorie, 4 (1885): 58-96.

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Mortensen, T. (1950). A monograph of the Echinoidea. V 1. Spatangoida. C.A. Reitzel, Copenhagen: 432 pp.

Nelli B. (1903). Fossili miocenici del Macigno di Porretta. Bollettino della Società Geologica Italiana, Roma, 22: 181-252.

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Pereira P. (2010). Echinoidea from the Neogene of Portugal mainland. Palaeontos, 18: 154 pp.

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Stefanini G. (1908). Echinidi del Miocene medio dell’Emilia (Parte prima). Palaeontographia Italica, Pisa, 14: 65-120.

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61Enrico Borghi Il genere Spatangus (Echinoidea) nel Langhiano...

Stefanini G. (1909). Echinidi del Miocene medio dell’Emilia (Parte seconda). Palaeontographia Italica, Pisa, 15: 57-114.

Taramelli T. (1869). Sopra alcuni Echinidi cretacei e terziari del Friuli. Atti del Regio Istituto veneto di scienze, lettere e arti, Venezia, 14(3): 1-38.

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62 Società Reggiana di Scienze Naturali

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63Notiziario 2010

Attività della S.R.S.N. 2010

Serate scientifiche presso i Musei Civicidi Reggio Emilia

Tra scienza e natura

Da settembre 2008, le serate scientifiche hanno iniziato a svolgersi nella sede dei Musei Civici di Reggio Emilia, in segno di continuità del lavoro che da anni vede impegnata la nostra società con la sezione scientifica dei Musei.

Mercoledì 20 gennaioCome si legge l’etichetta dell’acqua minerale?

Relatore: Giampiero Venturelli (già del Dipartimento di Scienze della Terra Università di Parma)

Tutti maneggiano bottiglie di acqua minerale; i più si accontentano di leggere aggettivi e avverbi del tipo oligominerale, minerale naturale, frizzante, lievemente frizzante, frizzante naturale etc. E in questa grande confusione non emerge alcuna chiarezza. Forse è l’aggettivo oligominerale quello che, più di altri, richiama situazioni esoteriche. Gli oligoelementi sono ormai menzionati su tutti i cartelloni o cartellini pubblicitari che garantiscono la buona salute!

In verità la lettura dell’etichetta di un’acqua minerale richiede conoscenze di chimica tutt’altro che superficiali. E chi non conosce questo linguaggio rischia di non capirci proprio nulla; proprio come colui che volesse leggere un sonetto di Shakespeare senza conoscere la lingua inglese.

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Martedì 16 febbraioLe pietre della città di Reggio

Relatore: Luigi Vernia (già del Dipartimento di Scienze della Terra Università di Parma)

Nel 1953 il geologo Francesco Rodolico pubblicava un’ importante opera intitolata “Le pietre delle città d’Italia”, nella quale descriveva e classificava le rocce da costruzione ed ornamentali utilizzate nei più importanti monumenti delle nostre città d’arte. Il corposo volume non soltanto forniva dati fondamentali ai fini di eventuali restauri, ma completava le conoscenze di carattere storico ed artistico in relazione alle tecniche estrattive, al trasporto, alla lavorazione ed all’impiego di queste fondamentali georisorse nel corso dei secoli. In questa conferenza, mediante la proiezione di oltre 100 diapositive, sono state illustrate le pietre usate negli edifici civili e religiosi del centro storico di Reggio in un arco di tempo che va dall’età matildica fino al XIX secolo. Particolare riguardo è stato rivolto al periodo XV – XVI secolo, durante il quale si passa dall’impiego di rocce dell’Appennino all’impiego di rocce alpine, a dimostrazione di una netta evoluzione delle tecniche estrattive e di trasporto dei materiali litoidi.

Giovedì 4 marzoZanzare, zecche, pidocchi & C.: così vicini e... così pericolosi

Relatori: Loredana Guidi (Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia)

e Antonella Tzirarkas (Dipartimento didattico dei Musei Civici di Reggio Emilia)

Giovedì 25 marzoDestinazione Luna. Tra realtà e fantascienza

Relatore: Simone Dalla Salda (Associazione Scandianese di Fisica Astronomica)

21 luglio 1969, ore 4 e 56: Neil Alden Armstrong, americano di 38 anni, posa il piede sinistro sul suolo lunare, davanti agli sguardi trepidanti di milioni di persone in tutto il mondo. “È un piccolo passo per un uomo, ma un balzo da gigante per l’umanità”, che corona anni di sforzi, successi, fallimenti e speranze.

Rievocando il millenario sogno di raggiungere la Luna, dalle fantasie di scrittori e poeti alle moderne costruzioni cinematografiche, la serata ha ripercorso, tra realtà e fantascienza, le più significative tappe che hanno portato alla conquista del nostro satellite. Nel confutare poi le oltraggiose ed inconsistenti tesi di “complotti lunari” e “falsi allunaggi”, si è reso ulteriore omaggio a tutti coloro che, anche a costo della vita, hanno reso possibile lo storico sbarco sulla Luna.

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65Notiziario 2010

Mercoledì 14 aprileBiodiversità delle zone umide dalla pianura padana

al crinale appenninicoRelatore: Giampaolo Rossetti

(Dipartimento di Scienze Biologiche Università di Parma)

Il termine “biodiversità” è diventato di uso comune dopo la ratifica della Convenzione sulla Diversità Biologica avvenuta a Rio de Janeiro nel 1992. È ormai opinione diffusa, non solo in ambito scientifico, che la conservazione della biodiversità sia un’esigenza irrinunciabile e che da essa dipenda il futuro del nostro pianeta e, secondo una visione più utilitaristica, soprattutto quello dell’umanità. Nonostante ciò, negli ultimi anni la diversità biologica ha assunto un ruolo via via più marginale nei programmi di ricerca e nelle agende politiche. Le Nazioni Unite hanno proclamato il 2010 anno internazionale della biodiversità: sarà l’occasione per riportare al centro dell’attenzione questo importante tema? È certo che le nostre conoscenze a proposito sono molto frammentarie. Ad esempio, possiamo affermare con sicurezza che gli impatti antropici stanno erodendo velocemente il patrimonio di biodiversità, ma siamo ben lontani dal poter rispondere con un ragionevole grado di approsimazione a un (apparentemente) semplice quesito: quante specie esistono? Infatti, se si esclude un ristrettissimo novero di gruppi vegetali ed animali, l’incertezza sui numeri regna sovrana.

Il tema della serata ha riguardato la biodiversità di acque interne. Gli ambienti acquatici non marini costituiscono solo lo 0,01% delle acque presenti sulla terra, ma ospitano il 6% di tutte le specie e più del 10% delle specie animali conosciute. Alcuni ecosistemi sono degli “hotspot” di biodiversità acquatica e sostengono un numero incredibilmente elevato di specie endemiche, ad esempio grandi laghi come il Baikal e il Tanganyika che si sono originati milioni di anni fa. E gli ambienti acquatici “minori”, quelli che ci sono più familiari, che ruolo hanno nel mantenimento della diversità biologica? Si è tentato di dare una risposta attraverso la presentazione di casi di studio riguardanti laghi e pozze del crinale appenninico, sorgenti montane, fontanili, zone umide perifluviali, sistemi di acque correnti, acque sotterranee: si tratta di ambienti di grande interesse naturalistico ed ecologico, ma intrinsecamente fragili e fortemente esposti ad impatti che si verificano a diverse scale, per i quali si sottolinea la necessità di intraprendere efficaci misure di conservazione e ripristino. Si è scoperto che un’incredibile varietà di forme di invertebrati, spesso di dimensioni microscopiche, popola questi ambienti acquatici. Si è parlato degli adattamenti e delle strategie vitali di questi animali, del loro ruolo nelle reti trofiche degli ecosistemi acquatici, del loro impiego come organismi modello per

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ricerche sia di base che applicate e come indicatori di qualità delle acque. È stata ribadita, infine, l’importanza di studi tassonomici e sistematici come strumento essenziale per conoscere e conservare la biodiversità.

Giovedì 6 maggioL’acqua salsa di Poiano: gli ultimi misteri del buio

Relatore: Mauro Chiesi (Società Speleologica Italiana)

Le Fonti (fontana salsa) di Poiano sono la più copiosa sorgente carsica dell’Appennino settentrionale. A causa della forte salinità, hanno destato interesse scientifico sin dalla prima accurata descrizione, nel 1612. Già questa datazione descrive l’estrema velocità del fenomeno carsico nelle evaporiti triassiche della val di Secchia. Da oltre 70 anni tutta la vasta area carsica è stata oggetto di ripetute ricerche speleologiche, multidisciplinari, in gran parte rivolte a indagare un modello plausibile per la salinità delle acque risorgenti a Poiano. Il Progetto Trias, attraverso avanzate tecniche di monitoraggio in continuo, ha aggiunto fondamentali conoscenze riguardo all’idrodinamica e all’idrochimica dell’acquifero, provando la diretta correlazione delle variazioni di salinità con un fenomeno diapirico complesso attivo per l’area di Poiano.

Oltre a ciò, per la prima volta in modo esaustivo, si è indagato il peculiare popolamento faunistico interstiziale, con la descrizione di 7 nuove specie animali rinvenute nelle acque sotterranee dell’area. Tutte le più recenti ricerche scientifiche, raccolte nel volume che è stato presentato, confermano per quest’area un interesse ambientale ancora maggiore di quello già riconosciuto. Il buio delle grotte della val Secchia, con tutto ciò, custodisce ancora misteri da svelare.

Giovedì 20 maggioFiat lux: il mistero dell’esplosione della vita 540 milioni di anni fa

Relatore: Cesare Papazzoni (Dipartimento di Scienze della Terra

Università di Modena e Reggio Emilia)

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67Notiziario 2010

Novembre-Dicembre 2010 2010: omaggio alla biodiversità

Giovedì 4 novembreIn aiuto delle piante che scompaiono: problemi di tutela

della biodiversità vegetale nella pianura reggianaRelatore: Daniele Dallai

(Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Biologia)

L’obiettivo prioritario della conservazione biologica è quello di mantenere gli organismi negli habitat originari (in situ). Tuttavia, soprattutto in contesti antropizzati, varie specie si presentano in piccoli popolamenti, o subiscono forti contrazioni numeriche per cause tutt’altro che naturali. In questi casi la conservazione ex situ può affiancare quella in situ, garantendo la sopravvivenza temporanea di individui al di fuori dal loro habitat, in prospettiva di traslocazioni in natura.

Gli Orti Botanici, in particolare quelli universitari che svolgono contemporaneamente attività di ricerca, didattica e divulgazione culturale, contribuiscono alla Conservation Strategy in modo diretto, come punto di riferimento scientifico e come centri di conservazione biologica, ma anche indirettamente, evidenziando al pubblico il significato e l’importanza di questi temi. Si tratta di progetti complessi e multidisciplinari che richiedono analisi a diversi livelli (genetico, di popolazione, di specie e di ecosistema) e devono necessariamente essere attuati in collaborazione con gli Enti preposti alla gestione del territorio. Presso l’Orto Botanico di Modena sono state intraprese alcune attività di conservazione integrata in situ/ex situ in vari contesti territoriali, con particolare riguardo a specie legate ad ambienti umidi planiziari del territorio emiliano. Dopo una breve introduzione di carattere generale sul tema della biodiversità vegetale, sono state illustrate alcune iniziative svolte a livello locale, mettendone in luce le criticità e i punti di forza.

Giovedì 11 novembreIllustri estinti e nuovi sgraditi ospiti nella fauna reggiana:

indirizzi di gestione della biodiversità animaleRelatore: Luigi Sala

(Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Biologia)

L’introduzione di specie animali esotiche è oggi riconosciuta fra le  principali cause di perdita di diversità biologica a scala planetaria.  Prendendo spunto dalla ricca casistica di specie estranee alla fauna

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locale presenti nel territorio emiliano, si sono ripercorse le cause della loro introduzione e le ioro implicazioni  sull’ambiente e sulle comunità indigene. È stato accennato infine  alle norme e alle azioni adottate al fine di contrastare il fenomeno in ambito regionale.

Giovedì 18 novembreBiodiversità dell’avifauna reggiana tra nuovi arrivi e sparizioni

Relatore: Luca Bagni (LIPU, Lega Italiana Protezione Uccelli e Cisniar,

Centro Italiano Studi Nidi Artificiali)

Con quasi 10000 specie in tutto il mondo e oltre 500 specie avvistate in Italia, quella degli uccelli è la più vasta classe di vertebrati terrestri. All’elevata ricchezza di specie si aggiunga che gli uccelli sono generalmente relativamente facili da vedere e da studiare. In questi ultimi anni si è assistito a repentini cambiamenti nella composizione delle comunità di uccelli del nostro territorio, specialmente in città e nelle aree rurali, con diminuzioni di alcune specie ed incrementi di altre. Alcuni casi sono indubbiamente noti anche alla gente comune, altri passano più inosservati. Identificarne le cause non è mai semplice, certo è che questi animali rappresentano degli importanti indicatori dello stato di salute del nostro ambiente di vita. Studiarli può dunque aiutarci ad interpretare meglio i cambiamenti che intervengono sul territorio e a prevederne gli effetti. Nel corso dell’incontro sono stati illustrati e commentati alcuni casi, noti e meno noti, di specie in aumento e in diminuzione, provando poi a fare un sintetico bilancio della situazione dell’avifauna provinciale.

Giovedì 25 novembreAmore bestiale - Sesso e sessualità negli insetti

Relatore: Mauro Mandrioli (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia,

Dipartimento di Biologia animale)

Gli insetti rappresentano un “modello” di assoluto successo evolutivo come ben testimoniato dalla loro incredibile biodiversità. Parte del loro successo deriva dalle straordinarie strategie riproduttive che gli insetti hanno evoluto. La presentazione ha guidato i presenti alla scoperta delle modalità e strategie riproduttive degli insetti, mettendole a confronto con quelle di altri viventi per rispondere ad una domanda: ma siamo veramente così diversi dagli insetti?

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Giovedì 2 dicembreL’aquila reale nel Parco nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano

Relatori: Mario Pedrelli e Michele Mendi (LIPU, Lega Italiana Protezione Uccelli)

La serata è stata divisa in due parti, la prima dove sono state illustrate con immagini le caratteristiche della specie, la biologia riproduttiva, l’areale di distribuzione della specie nel mondo, in Europa, in Italia ed in Emilia Romagna; poi verranno evidenziate le sottospecie, le loro prede, le tecniche di caccia, ecc.

Nella seconda parte sono state illustrate le foto di aquila reale realizzate in Italia e in altri paesi, come Finlandia, Svezia, Bulgaria e Spagna e ancora foto di altre specie che interagiscono direttamente con l’aquila reale o che occupano il suo habitat.

Giovedì 9 dicembrePiccoli artropodi del suolo: biodiversità e bioindicatori

Relatore Alan Leoni (Ph. Doctor in Biologia vegetale)

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70 Società Reggiana di Scienze Naturali

Altre attività 2010l Domenica 23 maggio: partecipazione alla 17.a giornata scambio di minerali a Soave (VR) con tavolo espositivo.l Sabato 21-venerdì 27 agosto: partecipazione al Congresso IMA (International Mineralogical Association) a Budapest, con presentazione della comunicazione orale “Multi-disciplinary investigation of datolite from basalts in the Northern Apennines ophiolites (Italy): genetic implications”.l Lunedì 13-mercoledì 15 settembre: partecipazione all’89° Congresso SIMP (Società Italiana di Mineralogia e Petrografia) a Ferrara “L’evoluzione del sistema Terra dagli atomi ai vulcani”, con presentazione del poster “Minerals from emilian ophiolites”.l Domenica 26 settembre partecipazione all’incontro nazionale “Pliocenica 2010” tenutosi presso il Museo Geologico di Castell’Arquato, organizzato da: Museo geologico G. Cortesi Castell’Arquato, Riserva Naturale Geologica del Piacenziano e Servizio Geologico Regione Emilia-Romagna. Argomenti trattati:  geologia e paleontologia, musei e aree protette.l Sabato 6 e Domenica 7 Novembre partecipazione con tavolo espositivo alla 45a Mostra e Scambio minerali al parco di Novegro (MI) organizzata dal Gruppo Mineralogico Lombardo. l Continuazione del progetto Gemme Italiane in collaborazione con l’Università di Pavia.

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71Notiziario 2010

Pubblicazioni dei soci nell’anno 2010l Garilli V. 4, Borghi E. 1, Galletti L. 4 & Pollina F. 4 “First record of the Oligo-Miocene sand dollar Amphiope Agassiz, 1840 (Echinoidea: Astriclypeidae) from the Miocene of Sicily”. Bollettino della Società Paleontologica Italiana, Modena. 49 (2): 89-96.l Zaccarini, F. 1,2, Garuti, G.1,2, Scacchetti, M.1, Bartoli, O.1,3 & Bakker, R.J. 2 “Multi-disciplinary investigation of datolite from basalts in the Northern Apennines ophiolites (Italy): genetic implications”. Abstract volume for IMA 2010, Oral sessions, pag. 480.l Scacchetti M. 1, Bartoli O. 1,3, Garuti G. 1,2 & Zaccarini F. 1,2 “Minerals from emilian ophiolites”. Abstract volume for 89th SIMP Meeeting, “L’evoluzione del sistema Terra dagli atomi ai vulcani”, Poster sessions, pag. 85.

1 Società Reggiana di Scienze Naturali, Via F.P. Tosti 1, 42124 Reggio Emilia 2 Department Angewandte Geowissenschaften und Geophysik, Montanuniversität Leoben, Peter Tunner Str., 5, 8700 Leoben, Austria3 Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Parma, Via Usberti 157a, 43100 Parma4 A.PE.MA., Research and Educational Service, Palermo  

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CONGRESSO IMABUDAPEST 21 - 27 agosto 2010