Sobrietà

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Sobrietà PUBBLICAZIONE SCOUT PER EDUCATORI I.R. 2009 4

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RS Servire 4/09

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PUBBLICAZIONE SCOUT PER EDUCATORI

I.R.

20094

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S O M M A R I O

Sobrietà

Questo numero Giancarlo Lombardi pag. 1

1. Le sfide dello sviluppo sostenibile Stefano Zamagni pag. 4

2. Commento all’enciclica “Caritas in Veritate” Gian Paolo Salvini pag. 12

3. La sobrietà in B.-P. Mario Sica pag. 16

4. Sobrietà fa rima con libertà Giuseppe Grampa pag. 19

5. Roberto nel paese delle meraviglie Roberto Cociancich pag. 21

6. La Route, esercizio di sobrietà Davide Magatti pag. 26

7. Ricette per essere felici Laura Galimberti pag. 30

8. In parole povere, parla come mangi Franco La Ferla pag. 33

9. Sobrietà e risorse alimentari Carlo Petrini pag. 36

10. Povertà, castità, obbedienza

(ovvero il ritorno alla quotidianità con Dio) Raoul Tiraboschi pag. 40

11. La guida e lo scout sono sobri nel progettare Piero Gavinelli pag. 44

12. Recensione: “Il pane di ieri” Federica Fasciolo pag. 47

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l pensiero di S. Ignazio di Loyola che Davi-de Magatti ha riportato in apertura del suobel articolo

L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dionostro Signore, e, mediante questo, salvare la pro-

pria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono state createper l’uomo, e perché lo aiutino a conseguire il fine per cui è statocreato.Ne consegue che l’uomo tanto deve usare di esse, quanto lo aiu-tano per il suo fine, e tanto deve liberarsene, quanto glielo impe-discono.

riassume con chiarezza, anche se forse con un po’ di sem-plificazione, la ragione per la quale abbiamo deciso di de-dicare un quaderno di Servire al tema della sobrietàNon è quindi prevalente, come bene sottolinea Davide,l’accento economico, la sobrietà intesa come uso modera-to dei beni e delle risorse, bensì quello ascetico, una pota-tura del molto che restituisce significato ed attenzione alpoco che vale.

In una riflessione che, come sempre per noi, vuole avereun taglio sostanzialmente educativo, ci è sembrato di co-gliere nella società di oggi la forte tentazione e il granderischio all’“abuso” con conseguente difficoltà a impostarenella vita una corretta gerarchia di valori che risponda alsenso profondo della vita stessa e in ultima analisi anchealla più profonda felicità dell’uomo.L’“abuso” della parola, dell’immagine, del cibo, del sesso,dell’apparire: ne deriva un frastuono che impedisce diascoltare e di pensare, una ubriacatura che distrae dai va-lori semplici e reali, un ritmo di vita che non consente diradicare in sé sentimenti, impressioni e valutazioni signifi-cative.La sobrietà è il contrario di tutto questo, è senso della mi-sura, scelta di semplicità e di moderazione, ricerca di es-senzialità; è, come dice Francesco Gesualdi, nella breve in-tervista che trovate nel quaderno, “più un modo di essereche di avere”.Noi crediamo che lo scautismo faccia in profondità que-sta scelta e la proponga con efficacia nelle varie fasi dell’i-ter educativo.

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L’articolo di Mario Sica lo sottolinea con una intelligentee completa analisi del pensiero del fondatore B.-P. mentrealtri articoli lo dimostrano e lo propongono con la lettu-ra della vita scout.L’articolo di Piero Gavinelli, proprio in nome della so-brietà, mette in guardia dal rischio nell’Associazione di“eccesso nel progettare”.Abbiamo però voluto affrontare il tema della sobrietà an-che in alcuni aspetti generali per evitare che la “sobrietà”fosse solo intesa come virtù e stile personale, ciò che cer-tamente è, e non venisse compresa come proposta “politi-ca”, cioè scelta da proporre per un cambiamento di stile divita dei popoli, per un cambiamento nei rapporti che re-golano gli scambi fra le nazioni, soprattutto fra i paesi ric-chi e i paesi poveri.Gli articoli di Stefano Zamagni sulle “sfide dello sviluppocompatibile” e di Carlo Petrini sul “consumo delle risorsealimentari” si muovono esattamente in questa ottica.Ciò che ci sembra importante in questi interventi è laprofonda convinzione che un cambiamento di comporta-menti è possibile e non è accettabile rassegnarsi a un siste-ma di vita, personale e collettivo, che non solo è ingiusto,ma è anche spesso dannoso e non rende più felici.Anche l’ultima Enciclica del Papa “Caritas in veritate”, inevidente continuità con l’insegnamento di Paolo VI nella“Populorum Progressio”, di cui si celebra il 40° anniver-sario, sottolinea, come bene mette in evidenza padre Sal-vini, il dovere e la necessità di ripensare lo sviluppo nonsolo in un’ottica economica ma con una attenzione an-tropologica e con una volontà di giustizia sociale.Ciò che però ci preme sottolineare e che la redazione sen-te profondamente, è che la sobrietà non è solo un “dove-re” per rispetto ai valori che ci sembrano più importantima è anche una scelta di pienezza e di realizzazione uma-na.L’articolo di don Giuseppe che sottolinea la sobrietà co-

me “scelta di libertà”, mettendone in evidenza la coeren-za con gli insegnamenti evangelici e quelli di Laura e Fran-co che la valorizzano come modo per un miglior rappor-to fra le persone, sono tutti nella linea di dimostrare che lasobrietà è la scelta che meglio valorizza e soddisfa alcuneesigenze profonde dell’uomo.Si potrebbe a questo punto affermare che la sobrietà nonè una virtù politica, né una virtù particolare ma è la con-dizione di vita normale del cristiano: è lo stato descrittonella lettera “A Diogneto”. Forse diventa una virtù a cau-sa della patologia del contesto in cui viviamo.L’articolo di Roberto Cociancich, sotto la sua brillantezzascherzosa nasconde un giudizio profondo e sofferente epuò essere di sostegno a questa tesi.Più radicale è la proposta di Raoul Tiraboschi che riflettesul valore dei tre voti, Povertà, Castità, Obbedienza nel-l’ottica della quotidianità con Dio, di un rapporto con Luiche chiede silenzio, ascolto, generosità.Nel suo articolo Federica mette in luce il significato del li-bro di Enzo Bianchi “Il pane di ieri”, che ha avuto un gran-de successo editoriale, e che testimonia come la sobrietà divita aiuti a far crescere sensibilità e vocazioni forti.Occorre infine sottolineare, anche alla luce delle ultime in-dicazioni proposte, che la “sobrietà” è certamente vissutain modo diverso a seconda dei diversi stati di vita. Per unpolitico, uno studente, un prete, un industriale, una mam-ma casalinga, un’attrice….evidentemente la sobrietà è vis-suta in modo diverso, ma ciascuno deve porsi il problemae scegliere il cammino e la forma che gli sembrano piùcoerenti.Noi speriamo che i capi scout troveranno in questo qua-derno molti motivi di riflessione per la loro azione edu-cativa e buone ragioni per approfondire alcune scelte chelo scautismo propone.

Giancarlo Lombardi

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Sulla nozione di sviluppo umano sostenibileLa nozione di sviluppo sostenibile ètra quelle maggiormente circondateda un alone di ambiguità concettuale.Infatti, mentre sostenibilità è termineche rinvia all’idea di conservazione diun determinato stato di natura, svilup-po è termine che implica trasforma-zione in una forma o l’altra, di quellostato. Non è privo di interesse ricor-dare che l’espressione “sviluppo soste-nibile“ venne originariamente sceltaper ragioni di retorica politica. Oggi,sarebbe meglio parlare di solidarietàintergenerazionale. Prescindendo, co-munque, da questioni di semantica,quel che in questa sede mi preme por-re in risalto è che la pluralità di signi-ficati attribuiti alla nozione di svilup-po sostenibile è essa stessa sintomo diun profondo disagio a livello concet-tuale. Come si sa, è nel celebre Rap-porto Brundtland del 1987 che talenozione riceve la sua formulazione,per così dire, ufficiale: “Si intende persviluppo sostenibile uno sviluppo ingrado di soddisfare i bisogni del pre-sente senza compromettere la capacitàdelle generazioni future di soddisfare ipropri”. Ma già alcuni anni dopo, ilpremio Nobel Robert Solow pubbli-cava un saggio (1993) in cui si affer-mava che la sostenibilità è, in buonasostanza, una obbligazione morale ge-nerica della generazione presente nei

Le sfide dello sviluppo sostenibile

La necessità di comportamenti improntati alla sobrietà

per un più equilibrato rapporto dell’uomo con l’ambiente

è convinzione ormai ampiamente condivisa e sperimentata

con successo dalle persone di buona volontà.

Possono però non essere sufficientemente chiari a tutti

i concetti di fondo cui la sobrietà stessa deve dare

riferimento, per convincersi che essa non può restare una

velleitaria scelta di poche “anime belle” annegate fra

i miliardi di persone viventi nella biosfera. Questo articolo

ci aiuta, sia ad approfondire il concetto di “sviluppo umano

sostenibile” nella sua evoluzione dal 1987 a oggi, sia a essere

maggiormente consapevoli di come l’umanità sta pensando

e agendo, non senza difficoltà, a fronte della problematica

planetaria dell’ipotizzato cambiamento climatico per cause

antropiche. È necessario leggerlo con attenzione!

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confronti di quelle future. Scrive, in-fatti, il nostro: “La sostenibilità inquanto obbligazione morale, è unaobbligazione generica, non specifica.Non è l’obbligo di preservare questoo quello. Piuttosto è l’obbligo di con-servare la capacità di benessere di chiviene dopo di noi” (p. 187). Ne deri-va che la distruzione di risorse natura-li è accettabile fin tanto che essa vie-ne compensata da investimenti capacidi generare altri beni o servizi in gra-do di accrescere il benessere. In effet-ti, questa posizione di Solow risale al1974, anno in cui l’economista ame-ricano, inserendo una risorsa esauribi-le in un modello standard di crescitaintertemporale, fissava un risultato chesarebbe poi diventanto un punto di ri-ferimento fondamentale per tutta laletteratura sullo sviluppo sostenibile:un livello di consumo sostenibile puòessere assicurato, in linea di principio,tutte le volte in cui risulta tecnologi-camente possibile garantire un gradosufficiente di sostituibilità tra risorsanaturale e capitale fisico.Per altri autori, invece, la sostenibilitàha a che vedere con i diritti di pro-prietà delle generazioni future, un’ideache viene resa con l’affermazione:“Non abbiamo ereditato la terra dainostri genitori; la stiamo prendendo aprestito dai nostri figli“. La carica evo-cativa di tale frase viene spesso attri-buita a Ralph Woldo Emerson, anche

se non ne è affatto chiara l’origine. Inogni caso, questo punto di vista è for-temente condiviso da Howarth (1992)e da Norgaard (1992) i quali, pur ac-cogliendo l’idea solowiana della soste-nibilità come questione di equità in-tergenerazionale, non ne accettano lariduzione a problema di sostituibilitàtra risorse naturali e beni prodottiquali sono i beni capitale e ciò a par-tire dalla considerazione, affatto con-dividibile, secondo cui il fatto che duebeni siano sostituiti perfetti per la ge-nerazione presente non implica cheessi lo siano anche per le generazionifuture.Per altri studiosi, ancora, la sostenibi-lità non chiamerebbe in causa consi-derazioni distributive fra generazioni,ma assai più tradizionalmente, que-stioni di efficienza economica. Parten-do dalla constatazione che gran partedei beni ambientali ammettono dueusi alternativi - un uso distruttivo se-condo cui l’ambiente viene converti-to in bene privato goduto dalla gene-razione presente; e un uso come benepubblico, utilizzabile anche dalle ge-nerazioni future - Silvestre (1994) svi-luppa un modello in cui la sostenibi-lità può essere definita unicamente intermini di allocazione delle risorse tragenerazioni. La conclusione interes-sante del modello è che, se si conside-rano le generazioni future come fa-centi parte della società corrente, l’ef-

ficienza allocativa richiede che le ri-sorse ambientali vengano mantenutenel loro stato di natura per un nume-ro piuttosto alto di decenni. E tuttociò a prescindere dal principio che iviventi ereditino la terra dai genitorioppure la prendano a prestito dai lorofigli.Ora, quale che sia l’approccio di stu-dio che si ritenga di dover adottare,non deve sfuggire la rilevanza del di-scorso sulla sostenibilità ai fini dellapiù ampia questione del conflitto in-tergenerazionale legato al mutamentoambientale globale. Infatti, se scarsitàdelle risorse naturali e degrado am-bientale non ponessero, per una ragio-ne o l’altra, una minaccia seria al be-nessere delle generazioni future - co-me è appunto postulato dalla nozionedi sostenibilità - l’economista potreb-be tranquillamente prescindere dallequestioni di equità intergenerazionalee concentrare invece l’attenzione suisoli problemi di efficienza delle allo-cazioni intertemporali. La grande fio-ritura di contributi scientifici nel cor-so degli anni 70 e 80 del secolo scor-so sui temi delle esternalità e, più ingenerale, dei fallimenti del mercatocausati dalla presenza dei beni am-bientali deve proprio a ciò la sua ra-gion d’essere.Un mutamento radicale di prospettivasi registra a partire dalla fine degli an-ni 80, nel momento in cui si diffonde

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ambientali, la gestione efficiente dellerisorse a proprietà comune e l’effi-ciente allocazione intertemporale del-le risorse sono anche sufficienti a ga-rantire i diritti delle generazioni futu-re. Ma un attimo di riflessione basta aconvincerci che le cose non stannoproprio in questi termini.L’analisi costi-benefici è di grande ef-ficacia quando si tratta di identificarepotenziali miglioramenti paretiani –cioè opportunità di migliorare il be-nessere di tutti senza peggiorare il be-nessere di alcuno. Ma - come si sa - iprezzi e i prezzi-ombra su cui si basal’analisi in questione dipendono dalledotazioni iniziali detenute da ciascunagente. Se queste sono assegnate inmodo marcatamente distorto, l’effi-cienza non garantisce affatto la soste-nibilità dello sviluppo - può persinopeggiorarla. L’obiettivo della sosteni-bilità, in altri termini, richiede assaipiù dei miglioramenti di efficienza insenso paretiano; esso esige la messa inatto di politiche che valgano a realiz-zare il trasferimento di beni e risorseda una generazione all’altra.Discendono da ciò due conseguenzeimportanti. In primo luogo, a renderedifficile l’obiettivo della sostenibilitànon ci sono solamente i celebrati fal-limenti del mercato ma anche, e so-prattutto, le varie forme di non equitàdistributiva. Secondo, la via d’uscitanon può venirci allora indicata dall’a-

predisposto dall’economia ambientalerisulta inadeguato a trattare le “nuove”questioni. Non solamente l’idea se-condo cui i mercati concorrenziali sa-rebbero in grado di indurre le impre-se ad amministrare gli stock di risorseesauribili in modo da massimizzare iprofitti attualizzati si fonda sull’assun-to di previsione perfetta. Ciò che piùfa difetto è che questi modelli, cosìcome tutta la letteratura sulla cosid-detta crescita ottimale, non affrontanola questione dei meccanismi istituzio-nali necessari per realizzare un futurosostenibile. Quali istituzioni politicheed economiche sarebbero necessarieper assicurare la implementabilità diun sentiero di sviluppo sostenibile?Inoltre, è un fatto ormai acquisito cheproblemi sociali e problemi ambienta-li sono collegati in modo stretto. Nonsi può pensare di risolvere il problemaambientale se non si pone mano alproblema della fame, vera e propriapiaga e scandalo di questo tempo.È in tale contesto che il dibattito sul-lo sviluppo sostenibile si va oggi svol-gendo a partire da una prospettiva didiscorso diversa da quella del più re-cente passato. Alcuni economisti con-tinuano a ritenere che di sostenibilitàsi possa adeguatamente parlare pur re-stando all’interno dell’apparato dell’a-nalisi costi-benefici. Per costoro, leistituzioni necessarie per assicurarel’internalizzazione delle esternalità

la consapevolezza che i problemi am-bientali sono globali nella scala, perva-sivi nei loro effetti e soprattutto gene-ratori di conseguenze di rilievo in ca-po alle generazioni future. Il muta-mento climatico globale, la riduzionedell’ozono atmosferico, i danni irre-versibili alla biodiversità presentanocaratteristiche tali da rendere di fattoinservibili i pur elaborati approcci allasostenibilità fino ad allora adottati. Eciò per la semplice ragione che leazioni di oggi determinano costi po-tenziali a carico delle generazioni fu-ture che sono inerentemente impre-vedibili, dato la dinamica e la com-plessità dei sistemi ecologici. Ad esem-pio, il mutamento climatico può met-tere a repentaglio l’agricoltura di sus-sistenza in parecchie regioni del glo-bo, così come può aumentare la fre-quenza e la pericolosità delle tempe-ste tropicali. Ed ancora, il buco dell’o-zono potrebbe aumentare sensibil-mente la probabilità di contrarre ilcancro della pelle a seguito dell’espo-sizione ai raggi ultravioletti. E così via.Di fronte a prospettive del genere, nonha senso parlare di sostenibilità dellosviluppo in termini di generiche ga-ranzie accordate alle generazioni futu-re perché queste possano soddisfare iloro bisogni.Riusciamo così a spiegarci perché, inquesti ultimi anni, sia ormai diventatochiaro ai più che l’apparato teorico

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Protocollo non è riuscito a proporreuno schema di incentivo adeguato perridurre le emissioni, avendo preferitopuntare su meccanismi burocratico-amministrativo di difficile gestione alivello pratico e fortemente esposti amanipolazioni politiche. La terza critica, infine, tocca il proble-ma dei costi e, più nello specifico, lamancanza di un qualche principio diripartizione degli oneri (burden sha-ring). Sia le strategie di mitigation (mi-tigazione), volte a ridurre le emissioninell’atmosfera e ad aumentare la capa-cità di assorbimento dei gas serra daparte della terra, sia le strategie diadaptation (adattamento) mirate a con-tenere gli effetti già in atto dei muta-menti climatici, sono assai costose sulfronte dell’innovazione tecnologica,della riconversione di produzioni aforte impatto ambientale, di difesedelle aree minacciate da siccità, ecc.Come si può comprendere, la posta ingioco è la trasformazione radicale delmodello di sviluppo su scala globale,operazione questa bensì tecnicamentepossibile ma estremamente costosa intermini economico-finanziari. Comeripartirne i costi? Il criterio propor-zionale previsto dal protocollo di Kyo-to, anche nella versione allargata aipaesi di recente industrializzazione – iquali si impegnerebbero a ridurre leemissioni entro una certa data - limi-ta gravemente lo sviluppo di questi

di riduzione delle emissioni nei paesiin via di sviluppo e utilizzare così leconseguenti riduzioni certificate perrispettare i loro obiettivi di riduzione;c) serbatoi di carbonio mediante larealizzazione di attività agro-forestali.Triplice la critica che è stata rivolta alprotocollo in questione. La prima diqueste riguarda l’inefficacia del sistemasanzionatorio, dal momento che ipaesi firmatari dell’accordo andrannosoggetti a sanzioni (se mancheranno diraggiungere gli obiettivi) di tipo noneconomico, ma amministrativo. (Sitratta dell’obbligo di adottare un pia-no d’azione per il rispetto degli obiet-tivi e/o della maggiorazione del 30%sulle quantità di emissioni che manca-no al conseguimento dell’obiettivo,per una maggiorazione che viene po-sta in aggiunta agli obblighi che ver-ranno fissati nel secondo periodod’impegno). Non c’è bisogno di tantaesperienza per afferrare le implicazio-ni pratiche di un tale sistema che fini-sce per essere un’arma regolatoria concui i vari gruppi di pressione e le va-rie lobby si contendono il campo peracquisire posizioni di potere econo-mico. La seconda critica riguarda iprevisti meccanismi di flessibilità visticon sospetto. Ad esempio, essi nonprendono in considerazione i “debiti”di carbonio dovuti alla riduzione diforeste esistenti, ma solo i “crediti” perquelle piantate dopo il 1990. Inoltre, il

nalisi costi-benefici, proprio perchéessa ha strumenti per occuparsi di pro-blemi di efficienza e non già di equità.Se ne trae che il perseguimento di unobiettivo come quello dello svilupposostenibile esige la presa in considera-zione anche degli aspetti politici e eti-ci. In altro modo, l’orizzonte dell’effi-cienza non è sufficientemente vastoper contenere le istanze della sosteni-bilità, la quale è, innanzitutto, un pro-blema di definizione dei diritti di ge-nerazioni diverse.

Il Rapporto Stern sul cambia-mento climatico e i suoi criticiCome noto, gli strumenti previsti perconseguire gli obiettivi indicati nelProtocollo di Kyoto sono basicamen-te tre: a) misure nazionali del tipo pia-ni di attribuzione dei permessi diemissione alle grandi industrie e pianisettoriali di intervento; b) meccanismiflessibili del tipo cap and trade, sostitu-tivi in parte dell’azione nazionale, co-me ad esempio il commercio interna-zionale delle emissioni (emission tradingscheme, in vigore nellUE dal 1° gen-naio 2005, che pone dei tetti alleemissioni e assegna ad ogni impresa unmonte certificati che possono essereutilizzati a copertura delle proprieemissioni oppure venduti); il clean de-velopment mechanism che prevede lapossibilità per i paesi dell’Allegato I (ipaesi sviluppati) di sviluppare progetti

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paesi, i quali vedrebbero aumentare ildivario che li separa dai paesi del Norddel mondo. D’altro canto, un criteriodi condivisione dei costi che ricono-scesse un eguale livello di emissioni aciascun abitante della terra solo all’ap-parenza sembrerebbe più equo, perchéin realtà esso non terrebbe conto delfatto che i diversi paesi hanno possibi-lità diverse di accedere a fonti di ener-gia rinnovabili. Ed anche il criterio diresponsabilità storica, in forza del qua-le chi più ha inquinato più deve paga-re, non va esente da censure propriosul piano dell’equità, perché non tie-ne conto della scusabile ignoranza delproblema ambientale fino a tutti glianni Sessanta.È a partire da un tale contesto di cri-tica che prende le mosse il RapportoStern, dal nome dell’economista diOxford, Nicholas Stern, che per inca-rico del primo ministro inglese TonyBlair, ricevette l’incarico di presiederee di coordinare i lavori di un’appositaCommissione di lavoro. Dopo aver os-servato che il cambiamento climaticocostituisce oggi per l’umanità intera laminaccia più seria a livello globale, ilRapporto parte dalla considerazioneche gran parte dei gas responsabili del-l’effetto serra sono conseguenza diret-ta dell’attività umana; sono cioè emis-sioni antropogeniche. Oggigiorno, illivello di diossido di carbonio (C02)presente nell’atmosfera è di 430 parti

per milione contro le 280 parti permilione di prima dell’avvento della ri-voluzione industriale. Proseguendocon l’attuale tasso di emissione, nel2035 si arriverà a 550 parti per milio-ne, un livello questo cui corrispondeun aumento della temperatura di duegradi centigradi. Le conseguenze diun tale aumento sulla agricoltura, sulclima, sul paesaggio naturale sono fa-cilmente immaginabili (Cfr. Arrow,2007). Anche se le cifre assolute pos-sono essere messe in discussione, quelche è irrefutabile è il trend del feno-meno, come lo stesso IPCC ha rico-nosciuto. Di qui l’urgenza di interve-nire. (Il Rapporto diviene di dominiopubblico il 30 ottobre 2006).L’idea di base del Rapporto è la con-siderazione del mutamento climaticocome caso specifico e peculiare diesternalità negativa e quindi come uncaso tipico di fallimento del mercato.L’obiettivo da perseguire è quello di“portare le aggiunte umane ai gas ser-ra al di sotto delle 10 gigatonnellate diC02 all’anno”. Un obiettivo questo ilcui costo è di circa il 2% del PIL glo-bale all’anno. Una sfida bensì impo-nente che però, a giudizio di Stern,può essere raccolta e vinta. Duplice lanovità del Rapporto. La prima è nel-l’adozione di un approccio pluridi-mensionale per trattare la questionedel cambiamento climatico. In ag-giunta all’aspetto economico, vengono

prese in considerazione sia la dimen-sione socio-politica sia quella etica. Èforse per questa sua caratteristica cheil Rapporto costituisce oggi una sortadi paradigma di riferimento nelle di-scussioni in materia, tanto che l’Uni-ted Nations Framework Convertionon Climate Change l’ha fatto proprioed esso costituirà il documento di ba-se per il COP 15 a Copenhagen neldicembre 2009. La seconda novità chemette conto evidenziare è il taglio po-licy-oriented e, per certi aspetti, peda-gogico del Rapporto, il cui impiantoè doppiamente trifario: tre obiettivi etre misure essenziali. Relativamente aiprimi, si tratta di assicurare che ognipolitica ambientale, se vuole risultaredi successo, deve soddisfare simulta-neamente, i requisiti dell’efficacia, del-l’efficienza e dell’equità. Interessante, eanche coraggiosa, l’implicita critica al-l’ordine sociale capitalistico che, se ca-pace di assicurare i primi due requisi-ti, non è certo in grado di soddisfarequello dell’equità. Per quanto concer-ne l’adozione degli strumenti di po-licy, Stern si sofferma su quelli di sta-bilizzazione, mitigazione e di adatta-mento indicando quali misure essen-ziali di intervento: la creazione di “car-bon markets” per raffreddare la dina-mica dei prezzi del carbone; lo svilup-po di nuove tecnologie, utilizzando laleva degli investimenti in ricerca e svi-luppo; tagli consistenti alle emissioni,

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intervenendo sui comportamenti siadelle imprese sia sugli stili di vita deiconsumatori.In mezzo al coro di consensi (si vedaper tutti Arrow, 2007; Mirrlees, 2009;Stiglitz, 2007), non potevano mancarele critiche al Rapporto. È d’interesseosservare che tali critiche riguardanonon tanto l’impianto concettuale e ca-tegoriale del lavoro, quanto piuttostogli aspetti tecnico-operativi. Ad esem-pio, W. Nordhaus (2007) contesta cheil tasso di preferenza temporale vicinoallo zero scelto da Stern sia quelloadeguato a pesare in modo equo leesigenze delle varie generazioni. Lostesso dicasi del tasso di avversione alrischio. Anche D. Maddison (2006) ri-tiene che le misure di policy suggeri-te dal Rapporto non possano sortirel’effetto desiderato. A suo parere, ilmodello cui guardare è quello giap-ponese, o “Mamizu” (acqua chiara) se-condo cui l’obiettivo di riduzione del-le emissioni si consegue attraverso tec-nologie più avanzate, scommettendosulla creatività umana e non sulla lo-gica pianificatoria tipica dei “gosplancomunitari” (l’espressione è di AndreiIllarionov, già capoeconomista delCremino). Come si trae dal rapporto“How to get climate policies back oncourse” redatto dal Mackinder Pro-gramme della London School of Eco-nomics e dell’Institute for Science, In-novation and Society di Oxford, “l’in-

dustria giapponese del ferro e dell’ac-ciaio ha ridotto le emissioni del 19 percento nel periodo 1991-2008, comerisultato diretto dei guadagni di effi-cienza. Un modo per replicare taleesperienza è quello di introdurre unacarbon tax il cui gettito dovrebbe esse-re specificamente utilizzato per finan-ziare gli investimenti in R & D.Sulla medesima linea di critica al Rap-porto Stern si muovono studiosi comeWilliam Nordhaus (2008) i quali sug-geriscono che la tassa sulle emissionipotrebbe innescare una riforma rivo-luzionaria della finanza pubblica e de-gli attuali schemi di incentivo. L’ideabase della riforma sarebbe quella di re-stituire il gettito della carbon tax aicittadini-contribuenti che verrebbero,in tal modo, ricompensati della perdi-ta di potere d’acquisto connessa almutamento tecnologico. Il vantaggiogrande di un simile progetto sta nellasua semplicità amministrativa e nellasua trasparenza; il che sottrarrebbe spa-zio alla miriade di regolamenti, sussi-di, certificati, obblighi vari che oltre adistorcere il mercato alimentano peri-colose posizioni di rendita. Quale insegnamento trarre dall’insie-me delle vivaci discussioni che hannoaccompagnato la pubblicazione delRapporto Stern? Che è sconveniente-mente riduttivo continuare a trattarela questione ambientale dal punto divista solo tecnico – economico, inge-

gneristico, chimico, fisico, ecc. È tem-po di introdurre nel discorso il puntodi vista delle libertà umane, interpre-tando in tal modo la relazione tra am-biente e well-being (lo star bene). Do-po aver distinto tra sostenibilità dei bi-sogni (needs) e sostenibilità del livellodi vita (standard of living), A. Sen(2007) in un saggio recente mostracome lo “human development ap-proach” da lui stesso proposto neglianni Novanta, sia in grado di imposta-re, su basi concettualmente nuove, ilrapporto tra sviluppo e tutela dell’am-biente. “Una volta che si riconosca –scrive Sen – la necessità di considera-re il mondo nella prospettiva più am-pia della libertà effettiva degli esseriumani, diviene immediatamente chia-ro che lo sviluppo non si può separa-re dalle preoccupazioni ecologiche eambientali. Infatti, componenti im-portanti delle libertà umane […] di-pendono totalmente dall’integrità del-l’ambiente […] Lo sviluppo devecomprendere l’ambiente e la convin-zione che lo sviluppo e l’ambientedebbano essere in contraddizione traloro non è compatibile con i principifondamentali della logica dello svilup-po umano” (2007, p.52). L’ambiente è“talvolta erroneamente consideratocome lo stato di natura” (Ib), ma ciònon può essere accettato sia perché “ilvalore dell’ambiente non può essereinteso solo in termini di ciò che esi-

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ste: si devono prendere in considera-zione anche le opportunità che di fat-to esso offre”, sia perché nell’ambien-te è necessario comprendere anche ilfrutto dell’azione umana. Scrive al ri-guardo il nostro: “L’ambiente non èsolo questione di conservazione passi-va, è anche un obiettivo da perseguireattivamente. Non dobbiamo pensareall’ambiente solo in termini di condi-zioni naturali preesistenti, in quantol’ambiente può comprendere anche irisultati della creazione umana […]Anche se molte attività umane che ac-compagnano il processo di sviluppopossono avere conseguenze negative,rientra nelle facoltà umane contrasta-re e prevenire un gran numero di taliconseguenze adottando provvedimen-ti tempestivi” (p.53).Come si può constatare, nell’argomen-tazione seniana rieccheggiano le posi-zioni della più recente elaborazione diteologia della creazione, posizioni chehanno trovato nella Caritas in Veritate diBenedetto XVI una loro autorevolecollocazione: lo sviluppo quando è au-

tenticamente umano non può svolger-si in contrasto con le leggi di natura.

Per concludereSorge spontanea la domanda: visti iproblemi e le difficoltà per risolverli,dobbiamo forse rassegnarci e lasciareche i processi in atto avanzino secondola loro logica interna? Solo pensarlo sa-rebbe massimamente irresponsabile,anche perché non c’è alcun bisogno diarrestare – come taluno suggerisce – ilprocesso di crescita o quello di globa-lizzazione. Piuttosto, quello che occor-re fare, e con urgenza, è di adoperarsiper l’affermazione di un ordine econo-mico e sociale fondato sulla pluralitàdei centri di potere, cioè sulla poliar-chia, la quale, a differenza del plurali-smo, non è solo numerosità, ma soprat-tutto diversità: sia dei modi di produ-zione sia dei modelli di consumo.Nessuno si nasconde le difficoltà e leinsidie insite nella attuazione pratica diuna simile strategia. Pensare che la di-versità degli interessi in gioco non re-chi tassi elevati di conflittualità sareb-

be ingenuo. Ma si tratta di un compi-to irrinunciabile se si vuole superare,per un verso, l’afflizione rappresentatadalla retorica a tutti i costi – una reto-rica che finisce spesso con l’assumeresfumature nichilistiche – e, per l’altroverso, l’ottimismo disincantato di chivede nel progresso tecnico–scientificoe in quello economico una sorta dimarcia trionfale dell’umanità verso lasua piena realizzazione. Soprattutto ilcristiano non può cadere vittima intrappole del genere perché conoscebene il senso profondo della celebrebattuta di Seneca secondo cui “Ciòche basta non è mai poco”. Porre alcentro dell’azione educativa, oggi, lavirtù della sobrietà è allora operazio-ne massimamente saggia, perché vale aliberare i giovani dal fascino di quellacultura consumistica che è la primamanifestazione dell’attuale “idolatriadi massa”: a causa della quale il giova-ne si crea l’idolo per possedere ciò chepoi finirà col possederà.

Stefano Zamagni

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Commento all’enciclica«Caritas in veritate»

La lettura di una lettera enciclica richiede sempre da parte

del credente grande impegno e attenzione. Padre Salvini –

direttore de “La Civiltà cattolica” – ha scritto per noi una

preziosa introduzione al testo di Benedetto XVI°,

nella quale delinea i contenuti dell’enciclica, che hanno

significativa attinenza con il tema di questo quaderno.

È, anche questo, un intervento da leggere con attenzione e

con la disposizione a trovare nelle parole del Santo Padre

una guida significativa per la propria vita.

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tuno, il che spiega anche l’accoglienzadecisamente positiva con cui è stataaccolta quasi universalmente dallastampa mondiale. In un momento dismarrimento, infatti, e di accuse reci-proche per non aver saputo né preve-dere, né far fronte in modo adeguatoal disastro economico e finanziario,l’enciclica ha portato una parola disperanza. Essa invita a compiere unaserie di riforme necessarie in vista diun sistema economico (ma non solo)mondiale più equo e più fraterno, fa-cendo della crisi un’occasione favore-vole per una ripresa e per una corre-zione di rotta. Invita a pensare in gran-de in un mondo che sembra capacesoltanto di navigare a vista.Il fatto che la Populorum progressio ven-ga più volte citata e «aggiornata», si-gnifica anzitutto che Benedetto XVIintende rivalutare il magistero di Pao-lo VI e quell’enciclica che, ai suoi tem-pi, venne bollata da molti come socia-lista, se non come comunista. In se-condo luogo significa che l’orizzontedella dottrina sociale della Chiesa si èormai spostato dall’orizzonte naziona-le (la vecchia «questione sociale» deirapporti tra lavoro e capitale) a quellomondiale, cosa indispensabile in unmondo globalizzato o in via di globa-lizzazione. Anche il bene comune èormai a dimensione planetaria.Il testo è molto articolato. Si compo-ne di 79 numeri, che comprendono

economica internazionale ha costret-to a un’ampia revisione in modo cheil testo non fosse superato dagli avve-nimenti.È stata così presentata alla stampa il 7luglio 2009, alla vigilia del G8 dell’A-quila, in un momento molto oppor-

La «Caritas in veritate» è la terza en-ciclica di Benedetto XVI ed è la pri-ma interamente dedicata alla questio-ne sociale. Destinata a celebrare il 40°della Populorum progressio di Paolo VI(1967) sarebbe dovuta apparire nel2007, ma il sopraggiungere della crisi

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corregge le distorsioni del sistemaeconomico, ma dev’essere una dimen-sione che accompagna tutte le attivitàumana. «La sfera economica non è eti-camente neutrale né di natura sua di-sumana e antisociale. Essa appartieneall’attività dell’uomo e, proprio perchéumana, deve essere strutturata e istitu-zionalizzata eticamente» (n. 36).L’enciclica è molto volontaristica. Ri-tiene cioè che gli uomini e le donneabbiano i mezzi e la possibilità di crea-re relazioni migliori e più fraternenella nostra società. L’uomo non è maicondannato a subire la storia comeuna fatalità. Il Papa non si fida quindidegli automatismi di mercato e anco-ra meno della capacità del mercato diautoregolarsi o di correggere le pro-prie distorsioni. Questa affermazione,che in passato avrebbe suscitato aspreproteste nel fautori dell’economia li-berista, è oggi vista con simpatia inuno scenario disastrato proprio daun’economia di mercato priva di re-gole o con regole insufficienti. Tutte leaziende in difficoltà, nel pieno dellacrisi hanno invocato l’intervento del-lo Stato. Ma la Caritas in veritate nondemonizza il mercato e mette inguardia anche da un eccessivo statali-smo. Da tempo del resto molti avver-tivano che il mercato è uno strumen-to meraviglioso per l’efficienza concui sa produrre beni, ma la «mano in-visibile» di cui parlava Adam Smith,

in un mondo anonimo, del quale tut-ti siamo un po’ preda, o vittime, senzaesserne protagonisti. L’enciclica vuolefar sì che alcune dimensioni umane,oltre che cristiane, vengano recupera-te e contribuiscano a dare un’animaalla nostra convivenza planetaria inmodo che al centro di tutto ci sia lapersona umana e non qualcos’altro,come il Pil, il commercio, l’impresa, lamentalità mercantilistica ecc. «Il pro-blema decisivo è la complessiva tenu-ta morale della società» (n. 51).Esempio di quanto voglio dire è adesempio il discorso insistito su etica edeconomia, che devono continuamen-te integrarsi. Non si può, come spessosi è detto in passato, affidare all’eco-nomia il compito di produrre i beni,prescindendo dall’etica, e poi affidarealla politica il compito di distribuirlisecondo equità. Anche la produzione(ed è abbastanza nuovo che un’enci-clica si occupi dell’impresa e della pro-duzione) deve essere «etica» sia, ovvia-mente, nei rapporti di lavoro, ma intutte le scelte che vengono compiute.Ogni scelta economica infatti, anchese apparentemente tecnica, come l’in-vestire capitali, inventare determinatetecnologie e usarle è una scelta uma-na e come tale non può prescinderedalla valutazione etica. L’etica, e le re-gole che la rendono concreta, è qual-cosa che non si aggiunge dall’esterno,come un’etichetta o un correttivo che

un’introduzione, sei capitoli e unaconclusione. Ma, probabilmente anchea motivo dei tanti esperti che vi de-vono aver collaborato, vi si trovano ri-petizioni e molteplici dimensioni, nonsempre facili da porre in ordine logi-co. È perciò necessario leggere il testocon calma e «a piccole dosi», in mododa coglierne il significato e capire labellezza di molte pagine.In realtà l’enciclica non ha come temané la globalizzazione, come molti ave-vano annunciato, né tanto meno lacrisi economica, ma, come dice lostesso titolo «lo sviluppo umano inte-grale nella carità e nella verità», e aquesto tema si mantiene fedele. Unodei pensieri di fondo è dimostrare chel’avventura umana non è a fatta acompartimenti stagni, isolabili tra diloro, ma come «il libro della natura èuno e indivisibile» (n. 51), così lo è ildestino individuale e dei popoli. L’en-ciclica tocca perciò una serie moltoampia di temi (a un primo sguardo sipotrebbe dire, anche troppi) che fan-no tutti parte del cammino di ognipersona e di ogni popolo, e che devo-no essere umanizzati. Viviamo infattiin un mondo nel quale la finanza, leinformazioni, le tecnologie, il com-mercio, ecc. sono in buona parte glo-balizzate, ma non lo sono i valori. «Lasocietà sempre più globalizzata ci ren-de vicini, ma non ci rende fratelli» (n.19). Si ha anzi l’impressione di vivere

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ogni tanto soffre di crampi, quando adesempio si tratta di bisogni che essonon è in grado di soddisfare perchésfuggono alla logica del mercato. Bastipensare al problema degli anziani, aquello delle migrazioni, o della sanitàper le persone che non hanno il de-naro necessario per curarsi. E in ognicaso «il mercato non è, e non deveperciò diventare, di per sé il luogo del-la sopraffazione del forte sul debole»(n. 36).L’enciclica tesse un grande elogio del-lo sviluppo e della tecnica. Il primo ri-sponde alla propensione innata, costi-tutiva dell’uomo ad «essere di più» (n.14). La tecnica «permette di domina-re la materia, di ridurre i rischi, di ri-sparmiare fatica, di migliorare le con-dizioni di vita. Essa risponde alla stes-sa vocazione del lavoro umano» (n.69). Ma si tratta di strumenti e quinditutto dipende dal modo in cui vengo-no usati, come del resto il mercato, ildenaro e così via. E possono diventa-re mezzi distruttivi. Già A. Smith am-moniva a non attribuire al denaro lecolpe di chi lo usa. Facendo un con-fronto con l’epoca in cui venne pub-blicata la Populorum progressio la Caritasin veritate riconosce che uno sviluppoc’è stato e miliardi di persone sonouscite dalla povertà e dalla fame. Maresta ancora moltissimo da fare. Inol-tre, è vero che la povertà assoluta (cioèil numero di affamati, di coloro che

non hanno accesso all’acqua potabile,di analfabeti ecc.) è diminuita Ma nondappertutto e in alcuni Paesi (comenell’Africa subsahariana) c’è stato ad-dirittura un regresso. Inoltre è aumen-tata la povertà relativa, cioè la distanzatra ricchi e poveri, sia tra Paesi ricchie Paesi poveri, sia all’interno di ogniPaese, anche di quelli industrializzati,tra ricchi e poveri. L’enorme quantitàdi beni che l’economia di mercato haconsentito di produrre (negli ultimi50 anni forse se ne sono prodotti piùche in tutta la storia precedente del-l’umanità) è stata distribuita in modomolto disuguale e spesso iniquo. Ilmalcontento molto diffuso è dato so-prattutto dalla povertà relativa, cioè dalconfronto con gli altri. Al Gore, quan-do perse le elezioni per la presidenzaamericana, notava umoristicamente:«Non mi dispiace non essere Presi-dente degli Stati Uniti. Mi dispiaceche lo sia un altro». E le guerre (di cuil’enciclica parla soltanto in una riga:«quante risorse naturali sono devasta-te dalle guerre!» n. 51) le fanno non ipoveri «assoluti» (che devono pensarea sopravvivere), ma i poveri «relativi»che giudicano un’ingiustizia o un so-pruso la ricchezza di chi sta meglio diloro.Ma l’enciclica elenca anche le distor-sioni e i meccanismi che impedisconotuttora uno sviluppo integrale e se-condo giustizia: la rincorsa al massimo

profitto individuale; l’idea che il mer-cato abbia bisogno di una quota di po-vertà o di sottosviluppo per funziona-re meglio; la deregolamentazione delmercato del lavoro; le nuove forme dicolonialismo e di dipendenza; l’acca-parramento delle risorse energetichenon rinnovabili; lo scarso accesso al-l’educazione; il carico di sofferenzache accompagna i flussi migratori ecosì via. Ma effettua queste denuncenella convinzione che sia possibileuscirne e che esistano i mezzi neces-sari per farlo.I principi di fondo a cui ci si deveispirare, e che il testo indica sono cin-que: la giustizia, il bene comune, ilprincipio di sussidiarietà, quello di so-lidarietà e quello di reciprocità. Sonoconcetti di cui l’economia sinora si èpoco interessata, ma di cui il Papa ri-corda l’importanza e la necessità. Delresto non pochi economisti e pensa-tori laici vanno oggi riscoprendo ledimensioni più umane e solidali del-l’economia. Basti pensare agli studisulla felicità (meta a cui tutti tendia-mo in ogni nostra azione) che è co-stituita, più che da un certo livello dibeni, sopratutto dalle relazioni con glialtri: amicizia, amore, rapporti gratifi-canti sul lavoro ecc., che nessun mer-cato è in grado di fornire perché ap-partengono a un’altra dimensione.L’enciclica, più che concetti nuovi,introduce nel magistero della Chiesa

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in materia sociale alcune idee già fa-miliari a quanti si occupano di questematerie, ma che non avevano trovatosinora «diritto di cittadinanza» all’in-terno di un documento solenne dellaChiesa. Anzitutto la dimensione deldono, del gratuito, che deve entrareanche nell’economia perché è una di-mensione fondamentale dell’uomocome Dio lo ha creato, donandogligratuitamente l’esistenza. Se si perdela gratuità, si perde anche la speranza.L’enciclica rivaluta tutte quelle formedi azioni non ispirate dalla logica delprofitto, anche se producono un valo-re economico reale: il volontariato, il«non profit», il cosiddetto terzo setto-re, il commercio equo e solidale, ilmicrocredito ecc., lamentando anziche lo Stato non le favorisca di più. Vi è un insistito elogio di tutti i cor-pi intermedi, organizzazioni, associa-zioni ecc. che si pongono tra la logi-ca puramente privata e quella statali-sta. Vi è una forte difesa del sindacato,in un’epoca nella quale non è certofacile essere sindacalisti. Quella che laCaritas in veritate vuole rivalutare èl’economia civile, nella quale cioènella quale si recuperi anche il rap-porto di reciprocità, che l’economiamoderna, dalla rivoluzione industria-le in poi, sembra aver dimenticato. Inbase ad esso si è chiamati a fare qual-cosa di gratuito, che ha il sapore deldono, verso gli altri, con la speranza

che l’altro faccia lo stesso con me ocon altri, ma senza avere la certezzache questa «reciprocità» sarà effettiva-mente vissuta. Inutile dire che il prin-cipio, se vissuto realmente, portereb-be a una società fraterna di cui abbia-mo perduto il significato in un mon-do dove tutto si vende e si compra enon si dice più neppure grazie perchéc’è già scritto sullo scontrino del su-permercato.L’enciclica non è un trattato di socio-logia o di economia, ma il messaggiodi un Papa, che è convinto che «sen-za Dio l’uomo non sa dove andare enon riesce nemmeno a comprenderechi egli sia» (n. 78). Partendo da unavisione della fede il Papa indica le ra-gioni ultime dell’impegno a cui siamochiamati per essere collaboratori diDio (e non, come spesso è avvenuto,sabotatori del suo progetto!), ma ilsuo è anche un discorso molto laico equesto spiega a mio avviso il successoche l’enciclica ha sinora avuto anchein ambienti non vicini alla Chiesa.Nelle linee guida, di solidarietà nel-l’interdipendenza diffusa del nostromondo attuale, ogni persona impe-gnata per uno sviluppo autentico puòinfatti riconoscere molti degli idealiche lo muovono ogni giorno. Quelloa cui il Papa invita è un umanesimonuovo.

Gian Paolo Salvini

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“Non suggerisco mai agli altri di fareciò che non farei io stesso1”.B.-P. è ben conscio della portata edu-cativa dell’esempio, e in particolare delsuo esempio, in quanto Fondatore eCapo del Movimento. Di certo egli,dall’inizio del Movimento, fu l’incar-nazione della Legge scout, anche se incerti casi, cosciente di essere divenutol’eroe dei ragazzi, non esitò ad infio-rare alcuni episodi della sua vita. Questo però non gli accadde mai inun campo come la sobrietà, in cui ilsuo insegnamento fa strettamente cor-po col suo stile di vita.

Nell’insegnamento di B.-P. lo scout è

sobrio, in senso proprio come in sen-so figurato. Il secondo “scoglio” de Lastrada verso il successo – che è un po’ ilcapitolo della sobrietà – si intitola “Ilvino”, ma in realtà i pericoli controcui il giovane è messo in guardia sonomolteplici. Per quanto riguarda il con-sumo di alcool, se B.-P. confessa: “mipiace un bicchiere di buon vino, per ilsuo sapore, il suo colore e la freschez-za che dona”, gli è facile buttarla sulridere: la vita militare gli ha fornitonumerosi aneddoti gustosi sugli ecces-si del bere, che egli racconta col con-sueto brio. La conclusione però è net-ta: chi beve “perde ogni controllo del-la volontà e perde la sua energia; e

queste due cose sono le più impor-tanti del carattere”. Peggio ancora: “lasua possibilità di essere felice in que-sto mondo è perduta”2.Scrivendo all’indomani dell’introdu-zione, negli Stati Uniti e poi in altriPaesi, dell’introduzione della proibi-zione dell’importazione, vendita, pro-duzione e consumo di alcolici, B.-P.dichiara la propria contrarietà al proi-bizionismo: esso “offende i sentimen-ti delle persone libere e serie, che pre-ferirebbero correggersi da sole per in-timo convincimento, ed alle quali dàfastidio un rimedio imposto dal difuori da riformatori, per quanto benintenzionati”3. Eterno dilemma, inquesto e in altri campi, tra il proibiree il convincere: ma ciò che ci interes-sa è che B.-P. accentua la dimensioneeducativa del problema e, ancora unavolta, indica il rimedio nella forma-zione del carattere. Non indulge all’umorismo la sua con-danna del tabacco, basata essenzial-mente su tre motivi: la salute fisica (B.-P. parla un po’ a braccio – non eranoancora noti gli effetti devastanti del fu-mo – ma ci azzecca), l’effetto sulleproprie finanze, e infine il disagio deiterzi (non per gli effetti del fumo pas-sivo, ancora non ben noti, ma per con-siderazioni di cortesia scout). Il ragio-namento di B.-P. è ben conosciuto:“nessun ragazzo comincia a fumareperché gli piace; all’inizio anzi lo de-

La sobrietà in B.-P.L’articolo di Mario Sica rinforza una convinzione che

ogni aderente al movimento deve avere: lo stile scout è

intrinsecamente sobrio! Il modello di vita di B.-P. dovrebbe

essere imitato e proposto da ogni adulto appartenente

al movimento scout mondiale.

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testa, ma lo fa per spavalderia, per sem-brare un uomo, almeno così crede lui,mentre invece fa solo la figura di unpiccolo somaro”. E quindi l’antidotoche egli propone è basato sulla deri-sione: contrario a inserire una normaanti-fumo nel regolamento associativo(giacché un divieto sarebbe come ildrappo rosso per il toro ed invitereb-be alla violazione), B.-P. inventa la re-gola non scritta di un presunto “artico-lo 11” della Legge scout, “lo Scout nonè uno stupido”, che egli applica essen-zialmente al ragazzo che fuma4.Subito dopo il vino (con un accennoalle droghe, allora ancora un problemaindividuale, non un flagello sociale) e iltabacco, B.-P. parla dell’eccesso nelmangiare, nel parlare (parolacce e im-precazioni) e perfino nel dormire, edinfine di chi lavora all’eccesso, o al con-trario indulge a divertimenti malsani epassivi (ai suoi tempi, il music hall). Quindi l’invito è alla moderazione nelsoddisfacimento di tutti gli appetiti edesigenze naturali, ed alla padronanza disé. In effetti, “la padronanza di se stes-si costituisce i tre quarti del caratte-re5”, e “l’uomo che sa dominare la suacollera, la sua paura, le sue tentazioni– tutto, insomma, salvo la sua coscien-za e la sua vergogna – è sulla strada perdivenire un gentiluomo6”.Si noterà che tra i temi trattati non viè la dipendenza dal sesso. Questo te-ma è trattato nel terzo scoglio (“La

donna”), ma in una chiave individua-le (l’impulso sessuale, la masturbazio-ne, la preparazione al matrimonioecc.): il problema non aveva ancora irisvolti sociali e di massa che ha ac-quisito nell’Inghilterra di oggi.Tutto ciò è da lui inserito nel quadrogenerale della formazione del carattere.Va detto qui che il termine “carattere”non si riferisce, nel pensiero e negliscritti di B.-P., soltanto alla forza d’ani-mo o forza di volontà, ma all’interapersonalità dell’individuo. La sobrietà èdunque una componente assolutamen-te essenziale della personalità.

Ma lo scout è chiamato ad essere so-brio anche in senso figurato, cioè adessere scevro da ogni forma di ecces-so o di superfluo. Egli si accontenta diquello che ha e cerca di trarne il me-glio7. È abituato a contare su se stesso,a fare le cose da sé, senza farsi serviredagli altri8, giacché solo se sarà auto-sufficiente potrà essere in grado diaiutare gli altri. Lo aiuta in questo lavita al campo, dove impara a fare ameno di tanti oggetti che vivendo incasa aveva ritenuto necessari, e dovescopre che può fare tante cose da so-lo, in situazioni dove aveva semprepensato di avere bisogno degli altri9.Gli utensili da campo che lo Scout èinvitato a costruire hanno per scopo dieducarlo all’essenzialità mostrandogliche, appunto, può fare a meno di tan-

ti equipaggiamenti domestici super-flui. La sua stessa uniforme è la tenutasemplice ed essenziale dell’uomo delbosco (e per questo, tra l’altro, essa puòsopprimere ogni differenza tra le clas-si sociali).Le due forme di sobrietà si riunisco-no in una concezione della vita in cuisemplicità ed essenzialità aprono lastrada al godimento vero dell’esisten-za, cioè alla ricchezza autentica, per-ché “l’uomo veramente ricco è quel-lo che ha meno bisogni10”.

Abbiamo detto che la sobrietà, nelsenso sia proprio che figurato, è statada B.-P. straordinariamente messa inpratica. Egli è, anzitutto, l’uomo dellapadronanza di sé: la gente lo sentivaogni tanto fischiettare, ed è il momen-to in cui egli era preso dall’ira, o dalletentazioni, o dalla paura, e fischiettavaper dominarsi (l’art. 8 della Legge –nella tradizione italiana “Lo Scout sor-ride e canta in ogni circostanza” – eranel testo iniziale di B.-P. “Lo Scoutsorride e fischietta…”). La sua vita èregolare: grande lavoratore – si alzaprestissimo al mattino – trova però iltempo per giocare coi suoi bambini oper portare a passeggio i cani.Ed è, inoltre, una vita sobria anche insenso figurato, ossia semplicissima. Vi-veva con la sua pensione di maggiorgenerale, non una super-pensione,malgrado fosse il massimo grado del-

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l’esercito, e coi diritti d’autore dei suoilibri: ed era, il suo, il solo reddito in fa-miglia. Viveva in campagna, ad una orabuona di treno da Londra, non soloper una questione di gusti, ma ancheper motivi economici. Non si fecemai remunerare per le sue conferenze,in patria o all’estero. Malgrado che ilcompito di Capo Scout inglese e –dopo il 1920 – quello di Capo Scoutdel mondo fossero incarichi a pienotempo, egli svolse sempre ambedue atitolo di volontariato, cioè non rice-vette mai alcun compenso per il suolavoro (naturalmente il Movimentogli rimborsava le spese di viaggio,mentre quelle di vitto e alloggio era-no normalmente coperte dalle asso-ciazioni che lo invitavano). Nessunaspesa stravagante o anche di normaletreno di vita: niente domestici, villeg-giature al mare, soggiorni in monta-gna, viaggi extra. Unico svago: qual-che partita di pesca su fiumi e tor-renti. Nessuna autovettura (prima chegli scout del mondo gliene regalasse-ro una, al Jamboree del 1929). Per ac-quistare un nuovo abito – per sé, maanche per moglie e figli – attendevache gli altri fossero ben utilizzati, e ivestiti rovesciati. “Un vestito, come

un problema, ha due versi. Tutti e duedevono essere sfruttati prima di di-chiararlo esaurito11”.Gli onori di ogni genere che le auto-rità di molti Paesi vollero tributargli– concessioni di onorificenze, di tito-li nobiliari, di lauree ad honorem –non lo smuovevano affatto dal suostile di vita: accettava tutto questo co-me un tributo reso non a lui stesso,ma al Movimento. Per quanto lo ri-guardava, non ci attaccava niente.Con la semplicità di tratto dei gran-di signori, continuava a dare la stessaattenzione a un Capo dello Stato co-me a un lupetto. Emblematico l’episodio delle bretel-le. Per il Jamboree di Arrowe Park del1929, destinato a celebrare la mag-giore età del Movimento, fu promos-sa una sottoscrizione mondiale perfare un regalo al Chief. Olave Baden-Powell fu incaricata di sondarlo suciò che desiderasse o di cui avesse bi-sogno: ma con molta cautela, per nonrivelare il motivo. B.-P. le rispose ri-petutamente di possedere tutto ciòche desiderava e di non aver bisognodi nulla. Finalmente, dinanzi alle in-sistenze della moglie, si indusse a di-re che, sì, qualcosa di cui aveva biso-

gno in effetti ci sarebbe stato: gli ser-viva un paio di bretelle nuove.Il risultato fu che ebbe in dono unasplendida Rolls Royce (oggi recupe-rata e funzionante), con una roulot-te verde, subito battezzate rispettiva-mente “Jam-Roll” e “Eccles”. Ma ilgiorno dopo gli scout irlandesi glifecero anche dono di uno splendidopaio di bretelle, consegnatogli uffi-cialmente in una solenne (ed umori-stica) cerimonia che arieggiava quel-la di consegna di un ordine cavalle-resco!

Mario Sica

1 Strada verso il Successo (di qui in poiSVS), 56.

2 SVS, 73-77.3 SVS, 79.4 SVS, 82. Cfr. anche SVS 243 e Tac-cuino (ed. 2008) 150.

5 SVS, 108.6 SVS, 92.7 Ultimo Messaggio agli Esploratori.8 SVS, 46-47 e passim.9 Girl Guiding, 63.10 LifÈs Snags and How To Meet Them126 e Alla Scuola della Vita 9.

11 SVS, 69.

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Il tema della sobrietà compare in nu-merosi testi del Nuovo Testamento:questo stile di vita è una caratteristicadel discepolo dell’Evangelo e manife-sta la consapevolezza del primato diDio nella vita del credente. Potremmodire che la sobrietà aiuta a liberarcidall’idolatria che invade il nostro cuo-re sedotto da tanti piccoli o grandiidoli.Nel Discorso della montagna (Mt6,19ss.) ritorna insistente l’appello adaccumulare tesori in cielo dove né tar-ma né ruggine consumano e dove i la-dri non scassinano e non rubano, ap-pello a non preoccuparsi del cibo e delvestito. Perentoria la conclusione:

“Cercate invece, innanzitutto, il regnodi Dio e la sua giustizia e tutte questecose vi saranno date in aggiunta”(v.33). Nessun disprezzo per questi be-ni della terra — il Padre celeste sa chene abbiamo bisogno — ma libertà dal-l’affanno che ci prende nella ricerca diqueste cose quando vengono conside-rate decisive, per dedicarsi a ricercareil primo e vero bene, appunto il Re-gno e la sua giustizia. Questo testo in-dica chiaramente il senso della so-brietà cristiana: è il riconoscimentodel carattere penultimo dei molteplicibeni oggetto della nostra preoccupataricerca per fare spazio al primo e de-cisivo bene. Potremmo dire che la so-

brietà è virtù regolatrice: presiede al-l’ordinato uso delle cose perché noninvadano il nostro cuore distogliendo-ci dal vero tesoro della nostra esisten-za; stabilisce le priorità impedendoche ciò che è pur utile ma secondarioprenda il primo posto. In questa chiave possiamo rileggere al-tre pagine evangeliche.

Liberarsi dai beni terreniCosì le parabole del tesoro nel campoe della perla preziosa (Mt 13,44-46).Una volta trovato il tesoro, il bene de-cisivo, non resta altro che ‘andare, ven-dere tutto’ per acquisirlo. Solo chi pra-ticando la sobrietà conosce il valorepenultimo e precario delle cose saràpronto a liberarsene per conquistare ilbene ultimo e duraturo, il tesoro delRegno. Nella casa di Betania, a Marta affac-cendata in molte cose Gesù ricordache “di una cosa sola c’è bisogno” (Lc10,38ss.) e che Maria ha fatto la scel-ta migliore che non le sarà mai tolta,la scelta di mettersi in ascolto delMaestro. Non c’è bisogno di moltecose, quelle che a molti di noi sem-brano le più importanti: sobrietà co-me sguardo capace di discernere l’es-senziale, lasciando quanto è accessorioe secondario. Di nuovo sobrietà comecapacità di riconoscere il primato diDio nella nostra vita vincendo la feb-bre di un attivismo esagerato.

Sobrietà fa rima con libertàSeguire Gesù richiede uno stile sobrio o addirittura povero.

Il tema dell’abbandono delle ricchezze terrene è

frequente nelle scritture e costituisce la condizione

necessaria per la sequela di Cristo.

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Ancora lo stile di sobrietà è comanda-to ai discepoli inviati in missione:“Non prendete nulla per il viaggio, nébastone, né sacca, né pane, né denaroe non portatevi due tuniche” (Lc 9,3).Perchè i discepoli devo andare a manivuote, privi di equipaggiamento? Cer-tamente perché essi sono affidati al-l’accoglienza di quanti ascolteranno laloro parola ma anche perché nelle lo-ro mani è posto il vero, decisivo bene:l’Evangelo. Se andassero attrezzati dimolte risorse finirebbero per compro-mettere la potenza, l’efficacia della Pa-rola. Significativa la consapevolezzache essi hanno di non disporre di oroe di argento ma solo della potenzadella Parola. Così Pietro allo storpiopresso la Porta detta Bella del Tempiodi Gerusalemme: “Non possiedo néargento né oro, ma quello che ho te lodo: nel nome di Gesù Cristo il Naza-reno alzati e cammina” (At 3,1ss:). Dinuovo uno stile sobrio, addiritturasprovvisto di mezzi, è condizione per-ché risplenda l’unico decisivo tesoro.

Liberarsi dall’ansia del possessoNella parabola del seminatore e deiterreni di nuovo affiora il tema dellasobrietà come condizione per la frut-tuosa ricezione della parola: “Quelloseminato tra i rovi è colui che ascol-ta la Parola, ma la preoccupazione del

mondo e la seduzione della ricchez-za soffocano la Parola ed essa non dàfrutto” (Mt 13,22). E ne abbiamoconferma nella pagina del Giovanericco (Mt 19,16): “Il giovane se neandò triste perché possedeva moltericchezze”. L’appello a seguire Gesùliberandosi dal possesso, scegliendouno stile di vita sobrio, anzi povero,cade nel vuoto proprio in ragione del-le molte ricchezze. E infatti la prima,decisiva beatitudine è quella della po-vertà ‘in spirito’ che certo non vuolsolo raccomandare l’interiore distaccodalle cose pur nell’effettivo possesso dimolto. Povero in spirito è colui chesceglie la povertà, abbraccia uno stilesobrio nel possesso e nell’uso dei be-ni della terra per poter aderire con li-bertà e dedizione all’Evangelo. Ancora in un altro contesto ci rag-giunge l’appello ad una vita sobria,come condizione per vivere ad occhiaperti, vigilanti. Servo fidato e pru-dente è quello che nell’attesa del Pa-drone che tarda ad arrivare non si la-scia andare a maltrattare i suoi com-pagni e “ a mangiare e bere con gliubriaconi” (Mt 24,45ss.): la vigilanzasi nutre di sobrietà, di un uso saggiodei beni perché non distolgano dallavigile attesa del Signore. Nel primo dei testi che abbiamo pas-sato in rassegna Gesù enuncia un

principio decisivo per illuminare ilnesso sobrietà—libertà. Afferma: “Làdove è il tuo tesoro, là sarà anche iltuo cuore” (Mt 6,21). Il tuo cuore,ovvero il centro della tua persona, letue scelte, le tue decisioni , noi di-remmo la tua coscienza, sta dove è iltuo tesoro, ciò che per te è il bene su-premo. Nella redazione di Luca que-sta parola è posta al termine della pa-rabola detta ‘del ricco stolto’. Stoltoperché ha accumulato tesori per sé enon si è arricchito presso Dio. La so-brietà difende dal cadere nella spira-le perversa di una esistenza conse-gnata alla logica dell’accumulo che èlogica di vanità: “Stolto, questa nottestessa ti sarà richiesta la tua vita. Equello che hai preparato, di chi sarà?”(Lc 12,13ss.). Possiamo concludere riconoscendoalla sobrietà evangelica, non solo unaqualità morale, come virtù che rac-comanda un comportamento misura-to, parco, diremmo del ‘giusto mezzo’nell’uso delle risorse terrene. Più ra-dicalmente la sobrietà come sguardolucido sul carattere penultimo di ognicosa—“cielo e terra passeranno”—ècondizione per riconoscere il tesoro,l’ultimo, decisivo e appagante benedei nostri giorni incerti.

Giuseppe Grampa

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Nel mezzo del camminFinalmente domenica! È una settima-na che sgobbo e ora: il momento tan-to atteso! La visita guidata al nuovocentro commerciale “Il Papavero” diCamerate Brianza! Mamma miaquanto sono eccitato: tutti i dépliantmi sono letto! Tutti gli spot di Tele-Brianza 54 ho guardato! Grandi im-perdibili offerte! Esplode la conve-nienza! Prendi tre paghi due! La feli-cità è ad un passo. Ad accoglierci cisarà proprio lui, Virgilio Mantoan! ilprincipe delle televendite, il profeta

della promozione a distanza, l’uomoche ha inventato lo slogan: “con l’ac-quisto ti conquisto”. Che emozione!Quel suo sorriso da simpatica cana-glia, il suo ciuffo sbarazzino... quel suofare disinvolto che piace tanto alle si-gnore... L’organizzazione del Papaveroè perfetta: navetta andata-ritorno daPiazza Castello completamente gra-tuìta. Ed eccomi quindi fin dalle pri-me luci dell’alba sul pullman delle au-tolinee “Caronte”: si parte! Attraver-siamo rapidi la città. Abbandoniamo ilcentro e ci inoltriamo per strade di

periferia che non conosco, affollate dipalazzi grigi e anonimi. Un pensierosgradevole mi attraverso la mente: daqui, forse, non saprei nemmeno torna-re a casa. È solo un attimo. Scorgo infondo alla via un manifesto gigante el’immagine di Beatrice P. , la mia ve-lina preferita, vestita solo del suo sor-riso e un cartello cubitale: “Al Papa-vero ti aspetto”. Grazie Beatrice, sen-to dentro di me una vaga felicità, ogniinquietudine si dissolve e, vinto dalrollìo del motore e dalla spossatezza ditanta eccitazione, quasi mi addormen-to sul finestrino.Il pullman entra nella rotonda e salelentamente le rampe del parcheggiomultipiano. Evviva, siamo arrivati!Una moltitudine di palloncini colora-ti si libera in cielo, coriandoli e stellefilanti... Musichine gracidanti sidiffondono nell’aria.Superato l’ingresso ecco una sala pienadi palline colorate dove i genitori pos-sono abbandonare gli amati pargoletti econcentrarsi sugli acquisti.Ovviamente comincio a sgomitare conun’anziana signora per afferrare uno deipochi carrelli rimasti disponibili. Ad untratto, quasi d’incanto, si materializza vi-cino a me proprio lui, Virgilio Man-toan! “Posso aiutarLa Roberto?” mi fa conla sua voce morbida e il suo inconfon-dibile sorriso. Il cuore mi batte all’im-pazzata “Gessùmmaria!! Sa persino comemi chiamo” penso fra me e me. Ed egli

Roberto nel paese delle meraviglie

L’articolo di Roberto racconta di un incubo. Alla fine della

lettura si insinua il dubbio che il racconto faccia riferimento

alla dimensione reale e quotidiana di tante persone. Vale

anche per il nostro modo di essere consumatori? Quale

spazio ha l’azione educativa in una società ipnotizzante?

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senza attendere la mia risposta, peraltroscontata, prosegue: “Mi segua, Le vogliofar vedere il nostro grande Centro, il cuore ei petali del Papavero!” Lo seguo pratica-mente in estasi.“Vede, Roberto, il nostro Centro è stato ar-chitettato in modo un po’ particolare. La suastruttura è circolare, anzi ellittica ma all’in-contrario. È una specie di grande cono a te-sta in giù. Venga, venga, non abbia timore: siaffacci alla balaustra”. Un po’ esitante miavvicino alla balconata e mi rendo con-to che ci troviamo nel punto più altodel Centro Commerciale. Sotto di noiin un brulicare di luci, musiche, imma-gini rilanciate da schermi televisivi, mi-gliaia e migliaia di consumatori (“visi-tatori!” mi corregge prontamente Man-toan) si muovono frenetici tra i banchi,gli scaffali, spingendo carrelli pieni dimerci e di prodotti: quintalate di telefo-ni cellulari, navigatori, tostapane... Or-ge di lavatrici, aspirapolveri, condizio-natori, rasoi elettrici, tutti ovviamente aun super prezzo. Messaggi suadenti siprotendono verso di me dal banco fri-gorifero: “Bontà divina, il Pasticcere dellemeraviglie: scopri la gamma dei prodottiBontà divina SELECTION”; Una bellaragazza mi ammonisce tenendo unenorme pesce per la coda: “Meglio delsalmone c’è solo il salmone già pronto! Ma-rinato al limone, al naturale, al gusto affu-micato”. Sotto lo sguardo compiaciutodi Virgilio finiscono nel mio carrello inpochi minuti uno stampo da forno in

silicone, due contenitori salvafreschezza,un pulitore a vapore, un adattatore tri-plo USB, un set di tappetini auto “Pre-mium”....”Virgilio, che dice? Prendo anchequesto portaoggetti per bagagliaio ?” “Macerto è in promozione! Solo 4,99 Euro!”.“È in promozione, in promozione!” L’im-magine radiosa di Beatrice P. che si di-mena con un martello di emergenza -“solo 8,99 Euro” compare sugli schermigiganti che scendono dal soffitto. Restorapito e a bocca aperta da tanta bellez-za fino a quando Beatrice sembra dis-solversi in un paradiso caraibico dovesempre splende il sole. Prima di scom-parire dallo schermo ammicca malizio-sa con un set di viti e bulloni che le ro-tolano pian piano sulla pelle.. “Solo Eu-ro 5,99: un’ imperdibile offerta”. “Virgilioandiamo, non vorrei restare senza...” . “Macerto” mi risponde con aria complice “epoi ricordi: con la Papavero Card può paga-re tutto in 36 comode rate senza interessi”.Un sentimento di felicità e gratitudineverso i proprietari del Centro Com-merciale mi pervade fin nell’intimo.

Tra color che son sospesiOsservo ancora la sua struttura: immen-se scale mobili collegano i piani l’uno al-l’altro, lampade alogene illuminano lalotta di uomini e donne che si sfidano,senza esclusione di colpi, per assicurasipelapatate elettrici, shampoo antiforfora,tubetti maionese “c’è+gusto”.Domando: “Virgilio, per quale motivo que-

ste scale mobili scendono solo verso il basso?”“L’uscita è verso il fondo” risponde sorri-dente e un po’ evasivo. “D’accordo ma seio volessi tornare indietro?” Virgilio miguarda sorpreso come se avessi detto unacosa un po’ sciocca e sconveniente. Fradi noi scende un momento di silenzioe di imbarazzo. Comprendo dal suosguardo quanto inopportuna e assurdaegli consideri la mia domanda. Perchémai dovrei desiderare di tornare in-dietro? Qui è tutto così splendido,esaltante, conveniente! Tutte le novità,le cose del progresso, i prodotti più al-la moda ci vengono offerti generosa-mente, forse persino disinteressata-mente. Come Prometeo portava ilfuoco degli Dei agli umani così i pro-prietari del Centro Commerciale cidonano un benessere di cui non com-prendiamo appieno l’importanza ed ilvalore. Perché gli uomini- sembravadomandare Virgilio – sono così scioc-chi da non rendersene conto? Perchésono così lenti ad accettare i doni de-gli Dei (o meglio: del Centro Com-merciale)? Perché così poca fede nelprogresso, nella civiltà della GrandeDistribuzione ?Io poi! Il più ingrato di tutti gli uo-mini: accolto da Virgilio Mantoan inpersona eppure pronto alla diserzione.Come ho potuto pensare solo per unistante di voler tornare indietro? Loguardo e provo vergogna di me stesso.Con gli occhi bassi dichiaro il mio

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pentimento per la futile domanda...Virgilio dopo avere scosso leggermen-te la testa prende da un espositore l’ul-timo modello di occhiali Butterfly e meli porge sorridendo. Dice “Provali, li hadisegnati Trada. Sono l’ultima moda”.Questo suo passare al tu mi lusinga e miconforta. Scaccio dalla testa alcune do-mande sgradevoli che non se ne vole-vano andare. “Anche questi in 36 comoderate?” “Ma certo!” Sorrido anch’io. Met-to gli occhiali nel carrello e lo spingoavanti con rinnovato entusiasmo.

Tra la perduta gentePoco per volta cominciamo a scende-re i piani. Ciascuno di essi mi appareimmenso, sconfinato, merci di ogni ta-glia, colore, provenienza. Siamo scesisolo al quarto piano e il carrello è giastracolmo e pesante. Con lo sguardoscruto l’orizzonte come CristoforoColombo guardava l’Oceano mare.Esso mi appare sconfinato e pieno didispenser, commesse premurose, ban-chi di cravatte, mutande, camicie co-lorate, accessori, casse che squillanoemettendo gli scontrini....“Virgilio, tutto questo è veramente meravi-glioso. Sembra che ogni desiderio possa es-sere esaudito”. “È esattamente così” ri-sponde indulgente la mia guida. “Ma -incalzo io facendomi un po’ di corag-gio – di questo passo presto non avremopiù desideri...”. Virgilio scuote la testa.“Vedi, Roberto, le cose stanno diversamen-

te. Infatti non solo noi possiamo desidera-re sempre di avere più di quel che già ab-biamo (e già così i desideri sono quasi in-finiti) ma soprattutto possiamo desideraredi avere di più di quel che già hanno glialtri. Non è necessario avere bisogno di unacosa per desiderarla. Intendo dire: un biso-gno fondamentale come l’acqua o la luceper le piante senza le quali esse muoiono.Per vivere l’uomo non ha bisogno di mol-to di più delle piante. No, le cose possonoin realtà essere desiderate anche se effetti-vamente inutili, superflue, ridondanti.Questo è il segreto! Trovare il modo di fardiventare necessario ciò che in natura nonlo sarebbe. L’invidia, la gelosia, la vanità:ecco le più grandi invenzioni di ogni tem-po! Ecco il motore dello sviluppo e della co-noscenza. L’avidità, il desiderio di primeg-giare che erroneamente sono considerati daalcuni sentimenti negativi, spingono gli uo-mini a desiderare sempre di più e di me-glio, il che ovviamente determina il succes-so non solo del nostro Centro Commercia-le ma anche del progresso e dello sviluppo.Comprando, consumando si immette linfaed energia nel circuito economico, i nostrifornitori possono lavorare, il sistema cresce,la ricchezza si espande. L’egoismo è laforma più alta di altruismo”.Rimango stupefatto e senza parole. Larealtà, da questo punto di vista, nonl’avevo mai considerata. Riprendo insilenzio il mio cammino scendendopiano piano verso il fondo. I piani sisuccedono l’uno all’altro, sempre

sconfinati. Uomini e donne spingonoi loro carrelli sempre più stracolmi epesanti. Alcuni portano non uno madue o addirittura tre carrelli. Appaio-no spossati e procedono a fatica. Altrisi impadroniscono con la forza o conla furbizia dei carrelli altrui e poi liobbligano a spingere anche i propri.Man mano che scendiamo verso ilbasso la luce splendente dei piani altisi fa più cupa, gli odori, i profumi simescolano, si contaminano e siconfondono. Non sempre riesco a di-stinguere i volti degli altri visitatori.Anche la musica appare più stonata oforse è semplicemente che comincia agirarmi la testa. Questa discesa comin-cia ad apparirmi assurda. È un non-senso. Personaggi senza volto si pre-sentano, raccontano storie o filastroc-che che non comprendo. Forse sonodiscorsi politici o forse omelie oppu-re soltanto spot pubblicitari. Avrei bi-sogno di un conforto, di un volto ami-co, una luce di bellezza, qualcuno chedia un senso a questo cammino che lemerci stipate nel mio carrello non san-no darmi. Cercando di farmi forzafaccio un segno alla mia guida e gli di-co “Virgilio, ho un desiderio che non homai confessato e che forse neppure il Cen-tro Commerciale può esaudire”. “Impossi-bile!” - ribatte lui “dimmi di che si trat-ta”. “Fin da quando ero bambino sono ri-masto affascinato dalla bellezza che per meè una ragione di speranza e di conforto”.

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“Ebbene?” “Ecco, sui vostri depliant, sui vo-stri manifesti ho ammirato spesso Beatrice P.che io considero la creatura più bella dell’U-niverso. Vorrei tanto poterla incontrare”. “Ah, se è solo questo non c’è nulla di più fa-cile. Stiamo proprio arrivando nella zona delCentro Commerciale dove si trovano i cen-tri estetici. Sicuramente è da queste parti.Aspettami qui, te la vado a cercare”. Il so-lo pensiero di poter conoscere da vici-no Beatrice P mi riempie nuovamentedi speranza e di fiducia. “Che sciocco so-no”, dico a me stesso, “così facile all’ab-battimento. Sii uomo e preparati ad incon-trare degnamente la donna dei tuoi sogni”.Ma poi nell’attesa sale alla testa un’altradomanda: “Perché i Centri Estetici?”.Nell’oscurità vedo avvicinarsi la sago-ma di Virgilio in compagnia di unadonna, anzi una orribile megera. “Ecco,Beatrice, ti presento Roberto, un nostro visi-tatore, un tipo un po’ strano, forse un idea-lista”. “ Ma non è lei!” grido io, facendoun salto indietro, “non le assomiglia nean-che un po’!”. “Ma certo che è lei, è solo cheun po’ struccata, non è vero Bea?” “Già,già” dice lei masticando una cicca e fa-cendomi ciao distrattamente con lamanina. “No che non è lei – ribadisco io-Beatrice è la bellezza, la grazia fatta perso-na. Questa qui non sa nemmeno parlare”“Già, già” fa lei annuendo con unasmorfia. “Roberto, capisco che sei nuovo, macerte tue ingenuità mi sorprendono: non esi-ste la bellezza: esiste la cosmesi, la chirurgiaplastica, le protesi, il silicone, il trucco, il pho-

toshop... tutte cose che si possono acquista-re. Per questo esiste il Centro Commerciale,una speranza, anzi una certezza per unaumanità che altrimenti sarebbe infelice...Qui tutto si può comprare! Vedi il mio fa-moso ciuffo sbarazzino? Una volta era unasemplice parrucca oggi, grazie ai progressi delnostro centro estetico, è il frutto di un vero eproprio trapianto di capelli!”. Sbarro gliocchi davanti all’orrore che mi si paradavanti: anime perse, corpi rifatti, sor-risi artificiali. Cerco di scappare, travol-go nel buio alcuni uomini che spingo-no i carrelli, raggiungo le scale mobilie tento di risalirle nonostante il loromovimento contrario. La fatica è im-mensa, la risalita impossibile. In pochiminuti sopraggiungono commessi chemi afferrano, mi bloccano, mi trasci-nano da dove ero venuto e mi amma-nettano al mio carrello.

Lasciate ogni speranza Virgilio come se nulla fosse successoprosegue nel suo tour infernale. Scen-diamo di alcuni gironi, io lo seguo atesta bassa “Qui puoi comprare una den-tiera, qui un rene, qui un fegato e un pan-creas... Con le buone o le cattive la gentevende di tutto. Se c’è la domanda c’è anchel’offerta”. Ammanettato al mio carrellochiedo quasi piangendo: “Con le catti-ve?”. “Ma si, non andare tanto per il sot-tile. Ci sono un sacco di condannati a mor-te sparsi nel mondo: in Cina, in Birmaniae in tutti quei paesi lontani: che se ne fan-

no del rene? E poi tutti quei bambini delSud America... A proposito di bambini: ec-co la nostra agenzia viaggi: Thailandia,Cuba, Brasile? Hai voglia di sfogarti? Di-vertimento assicurato, carne fresca e senzamalattie...” dice sghignazzando. “No,questo no!” imploro tra i singhiozzi. Eavanzo tra uomini che piangono, mol-ti ammanettati come me ai loro carrel-li, in un abisso senza luce, intralciati daicartoni delle confezioni che vengonogettati dai piani superiori, montagne dispazzatura che crescono, corpi feriti diuna umanità usata come pezzi di ri-cambio, tutto ciò che il Grande CentroCommerciale tenta di espellere e cherimane come un’immane zavorra nelsuo ventre più profondo.

Uscimmo a riveder le stelleL’autista del pullman è costretto ad unaimprovvisa frenata ed io mi sveglio disoprassalto! “Gessùmmaria è stato solo unsolo sogno! Mamma mia che orribile incu-bo! Che terribile spavento, mi sento tutto su-dato”. Guardo fuori dal finestrino, sia-mo quasi arrivati. Il pullman entra nel-la rotonda e sale lentamente le rampedel parcheggio multipiano. Una molti-tudine di palloncini colorati si liberanel cielo, coriandoli e stelle filanti...Musichine gracidanti si diffondononell’aria. Da un grande manifesto Bea-trice P. mi fa ciao con la manina.

Roberto Cociancich

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L’uomo è creato per lodare, riverire e servi-re Dio nostro Signore, e, mediante questo,salvare la propria anima; e le altre cose sul-la faccia della terra sono state create perl’uomo, e perché lo aiutino a conseguire ilfine per cui è stato creato.Ne consegue che l’uomo tanto deve usare diesse, quanto lo aiutano per il suo fine, e tan-to deve liberarsene, quanto glielo impediscono.S. Ignazio di Loyola – Esercizi spirituali

Andare al cuoreSobrio è un termine che nasce in op-posizione ad ebbro, ubriaco. Indicaletteralmente colui che non è in pre-da ad ebbrezza, colui che si è astenu-to dall’eccesso.

Qui, per noi, sobrietà è il risultato del-le scelte che portano a tenere o lascia-re le cose che utilizziamo, i modi e leparole di cui ci serviamo, a secondache ci portino più o meno vicino alcuore di ciò che stiamo vivendo, allasintesi di ciò che conta davvero.Non è, quindi, prevalente l’accentoeconomico, la sobrietà intesa comeuso moderato dei beni e delle risorse,bensì quello ascetico, una potatura delmolto che restituisce significato ed at-tenzione al poco che vale.È bene, dunque, avere un’idea condivi-sa di valore per poter dialogare su qualeatteggiamento o quale comportamentopossa essere giudicato sobrio e quale no.

Di certo, quali che siano per noi prin-cipi e priorità, non è difficile scoprir-si votati alla quotidiana collezione dicose ed impegni. Cresce ogni giornoil carico di oggetti che abitano insie-me a noi e con essi il numero di ap-puntamenti che ci appaiono irrinun-ciabili. Sembra giusto, persino dovero-so, non trascurare le occasioni: muoviogni pietra, tenta ogni passo, moltipli-ca le esperienze. Si consolida la ten-sione ad estendere sistematicamente ilproprio perimetro di azione, ad essereproiettati verso molteplici nuove rela-zioni, eventi, viaggi, conoscenze: tuttealla portata di tutti.A questo disordinato bottino risultanon semplice dare un senso.Nella corsa compulsiva verso impegnie potenzialità si contraggono i mo-menti orientati all’elaborazione, alpensiero, al discernimento, ma, soprat-tutto, si rischia di disperdere moltotempo.In alcuni attimi di grazia, diventa evi-dente la necessità di fare il punto sul-l’essenziale, tenendo con sé alcune co-se e lasciandone molte altre, nasce ilbisogno di seguire una traccia cheporti in un luogo solo, abbandonandoil tentativo di raggiungerli tutti.

Rovering ovvero l’arte di partirePartire per una Route significa, benprima di aver portato un solo passo sulsentiero, saper chiudere uno zaino.

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La Route, esercizio di sobrietà

La strada, per la branca rover, costituisce il paradigma della

sobrietà: poche cose, zaino leggero, incertezza del cammino,

semplicità nei rapporti con le persone, disponibilità

all’incontro, attenzione alla vita interiore.

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L’esercizio della preparazione, dellascelta selettiva di cosa prendere con sée cosa lasciare, è il primo movimentodi distacco, di riduzione, di partenza.Poche cose addosso, quelle utili alcammino, alla sopravvivenza e allapreghiera. Per una decina di giorniquelli saranno i mezzi e quelle le per-sone.Una volta in Route lo zaino viene ri-chiuso ogni mattina, la tenda piegata.Si ringrazia per la meraviglia data dailuoghi incontrati, ma si riparte. Ognigiorno.Una buona Route non prevede mol-te attività, si nutre di poco: la Strada ela preghiera sono l’essenziale cadenzadella giornata del Clan. Anche il tem-po è vissuto con continuità e gradua-lità dall’alba al tramonto, senza innu-merevoli frammentazioni o sovrappo-sizioni: buona parte delle ore sono de-dicate al cammino, con un compagnoaffianco o, a tratti, procedendo da so-li, in preziosi momenti di silenzio.Ma perchè stare nel poco? Il cibo, latenda, l’uso del tempo, le stesse cose egli stessi volti, per giorni. Si potrebbedire: perchè vivendo nel segno dellapovertà e della semplicità ci educhiamoad essere economi e ad un buon usodei beni a nostra disposizione. Ma c’èdell’altro: la Route ci insegna a leggerel’essenziale, ci aiuta a dare senso.A conclusione di un anno di attività cisi propone un momento di si sintesi

nel quale provare a vivere davvero se-condo i riferimenti profondi condivi-si fin qui, di fatto, quelli della Carta diClan, quelli della Legge. Così, ancheattraverso la semplicità del fare, crescel’attenzione a quanto conta davvero, achi mi vive accanto, al significato diuna celebrazione, di una veglia, all’im-pegno da portare al ritorno. Non si tratta di ambire allo stile au-stero e severo degli stiliti, che viveva-no pregando in cima ad una colonna,ma di semplificare, almeno in parte,l’offerta vorticosa che ci viene dallestrade del mondo, senza con questo ri-fuggire da esso.

StileAd un rover e una scolta è chiesto unsalto di qualità importante nel mododi porsi davanti agli altri. Sobrietà nonè soltanto un’uniforme in ordine eduno zaino essenziale, ma lo stile cheorienta la scelta dei comportamenti datenere, del linguaggio da usare, del ti-po di relazioni da coltivare. La sobrietà di un Clan si manifesta at-traverso lo stile rispettoso con cui siarriva e si riparte, attraverso le ceri-monie semplici ma solenni o le veri-fiche brevi ma incisive, ma anche nel-la capacità di modificare consapevol-mente i propri programmi, cercandola priorità. Chi cammina in montagna,ad esempio, si alza presto al mattino:canti e danze fino a tarda notte diven-

tano allora alternativi alla partenzapuntuale del giorno seguente. Cosìcome, mentre si lavora ad un capitoloo alla scrittura della Carta di Clan, sipuò scegliere di concentrare l’impe-gno in pochi mesi, integrando il con-fronto con esperienze attive, o di di-stribuire lungo un intero anno una se-rie interminabile di dibattiti. La Rou-te è, in questo senso, un tempo privi-legiato nel quale concretizzare i pen-sieri, chiudere una scrittura ed evitaredispersioni.

Ogni giornoLa semplicità dei momenti vissuti in-sieme, capi e ragazzi, è parte della bel-lezza di una Route. Ma una buonaRoute, non essendo evasione, mira alritorno: il suo valore è anche in quan-to riportato ai mesi che verranno, pernon rimanere uno tra gli altri appun-tamenti di mezza estate.La strada come strumento del metodoscout è proposta come immagine delcammino personale del ragazzo. Cosìla Route, lontano dal rappresentare lavita intera, offre comunque un eserci-zio di preparazione ad essa.La disposizione a viaggiare con un ca-rico leggero va coltivata ogni giorno.Lo scopo rimane lo stesso: farsi guida-re dall’attenzione costante al sensodelle nostre azioni. Come sul sentiero,anche nella quotidianità stringere ilcerchio dell’indispensabile aiuta a re-

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stituirgli valore. Questo non significaaffatto chiudersi preventivamente allecose, ma riportarle alla giusta impor-tanza di fronte alla vita. Si tende a trattare la sobrietà comeobiettivo fine a se stesso o come valo-re genericamente tipico dello scout,dimenticando che la si propone ai ra-gazzi come una via per identificare unordine di priorità per sé e per la pro-pria vita.

Togliere pesoNegli ultimi giorni di una buonaRoute si ha la sensazione che nella so-brietà di vita si raggiunga meglio l’es-senziale. Che nel poco ci sia maggiorchiarezza. Per il senso delle cose, per ladirezione da dare a una scelta, per ildialogo tra le persone.Nel progressivo tenere e lasciare, si af-fina il lavoro dello scultore che, men-tre leva materiale, insieme riconosce edà forma alla propria opera. Si compieuno sforzo di riduzione, ma si recupe-ra in comprensione.È il passaggio dall’andare in cerca del-la conoscenza di se stessi attraverso lemolteplici esperienze allo scegliere didiventare ciò che si diventa.

Davide Magatti

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“Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti”Da un’intervista a Francesco Gesualdi del 7 febbraio 2005

Nel tuo libro proponi una sceltaapparentemente semplice e co-munque condivisibile, quella diuno stile di vita improntato alla so-brietà. Ci puoi spiegare in breve latua proposta?La sobrietà è uno stile di vita, personalee collettivo, più parsimonioso, più pulito,più lento, più inserito nei cicli naturali. Lasobrietà è più un modo di essere che diavere. È uno stile di vita che sa distin-guere tra i bisogni reali e quelli imposti.È la capacità di dare alle esigenze del cor-po il giusto peso senza dimenticare quel-le spirituali, affettive, intellettuali, sociali.È un modo di organizzare la società af-finché sia garantita a tutti la possibilità disoddisfare i bisogni fondamentali con ilminor dispendio di risorse e produzionedi rifiuti. In ambito personale, la sobrietàsi può riassumere in dieci parole d’ordi-ne: pensare, consumare critico, rallentare,ridurre, condividere, recuperare, riparare,riciclare, consumare locale, consumareprodotti di stagione. Naturalmente nondobbiamo limitarci a rivedere i nostriconsumi privati, ma anche quelli collet-tivi perché anche fra questi ce ne sono didannosi e di superflui. Di sicuro dovremoeliminare gli armamenti, ma dovremoanche sprecare meno energia per l’illu-minazione delle città, dovremo accon-tentarci di treni meno veloci e meno lus-

suosi, dovremo costruire meno strade.Perfino in ambito sanitario dovremo di-ventare più sobri affrontando la malattianon solo con la scienza, ma anche conuna diversa concezione della vita e dellamorte, in modo da evitare l’accanimentoterapeutico e l’eccessiva medicalizzazionedi eventi naturali come la vecchiaia. Rinunciare al superfluo, ma ancheragionare più analiticamente sututto ciò che compone la nostraquotidianità, per la gente può sem-brare uno sforzo straordinario. Èmolto difficile cambiare gli stili divita e le abitudini...Dovremmo riflettere di più sui risvoltinegativi del consumismo. Un aspetto chenon consideriamo mai è il tempo. Primadi tutto quello che passiamo al lavoro perguadagnare i soldi necessari per i nostriacquisti. Prendiamo come esempio l’au-tomobile. Secondo un rapporto dell’Acipubblicato nel gennaio 2004, mediamen-te il possesso dell’auto costa 4.414 euro al-l’anno. Qualcosa come 500 ore di lavorosecondo i salari medi. Se ci aggiungiamoil tempo passato nel traffico, quello cheserve per cercare un parcheggio e per lamanutenzione, l’automobile assorbe ognianno un migliaio di ore della nostra vita.Se facciamo lo stesso calcolo per tutti glialtri beni ci accorgiamo che viviamo perconsumare. Consideriamo che di media

ogni casa dispone di 10.000 oggetti, con-tro i 236 che erano in uso presso gli in-diani Navajos. Per ognuno di essi dobbia-mo lavorare, recarci al supermercato, sce-glierlo, fare la coda alla cassa. Una volta acasa, dobbiamo pulirli, spolverarli, siste-marli. Se consideriamo tutto, il supercon-sumo è un lavoro forzato che ci succhiala vita. Un altro aspetto da tenere presen-te sono i rifiuti. In Italia se ne produconocirca 120 milioni di tonnellate, di cui 90industriali e 30 urbani. Ogni individuoproduce mezza tonnellata di rifiuti do-mestici all’anno e nove tonnellate di gasserra. L’inquinamento atmosferico ha ildifetto di essere invisibile, mentre i rifiutisolidi li depositiamo per strada e li di-mentichiamo. Ma prima o poi ci presen-tano il conto. Il cambiamento del clima ègià una drammatica realtà. Potremmocontinuare con le risorse. La base biolo-gica del pianeta, su cui poggia la nostraesistenza, si sta assottigliando di giorno ingiorno. L’acqua,le foreste, i pesci, i suolisono elementi già fortemente compro-messi. Perfino le risorse minerarie dannosegni di scarsità. Primo fra tutti il petrolioper il cui controllo siamo tornati a com-battere guerre di tipo coloniale.

Francesco Gesualdi Sobrietà. Dallo sprecodi pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, 2005,pp. 168, euro 9,00.

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Ricette per essere feliciGli undici consigli per mettersi sulla strada della felicità

e vivere meglio più un consiglio che li orienta tutti:

si può andare controcorrente

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gno di psicoterapia e via dicendo. Losostiene Piero Ferrucci, autore del li-bro “La forza della gentilezza”. Prova-re per credere.

C’è bisogno di gratuità “..gratuitamente avete ricevuto, gratuita-mente date” non parliamo solo di benimateriali, ma di una modalità di rela-zione. Che non “usa” degli altri comedi strumenti al nostro servizio, di cuipossiamo comprare il corpo, l’opinio-ne o la preferenza, e che poi possiamolasciare quando non ci servono più. Lapersona non è una merce. La recipro-cità è la dimensione fondante delle re-lazioni umane.Shopping and fucking, cult del nuovoteatro inglese, mette in scena pasti sur-gelati, pasticche, sesso, cioccolata, ho-tlines, amore e denaro. Solo lo shop-ping è piacere, il denaro è la civiltà.Ogni rapporto, anche sessuale, è unacompravendita. Scandaloso o premo-nitore? Incontriamo gli amici solo perl’aperitivo al bar (10 euro)? collezio-niamo fidanzate/i?

C’è bisogno di quotidianitàLa parola etica deriva dal greco ethos,che vuol dire anche abitudine, consue-tudine; è proprio nella quotidianità chesi creano comunità, appartenenze. Unagrande famiglia, una serie di nipoti, ipropri genitori, ma anche i colleghi diufficio, i compagni di scuola: come

cietà australiana uSocial offre a paga-mento amici da aggiungere al proprioprofilo Facebook. Prezzi variabili da87euro (pacchetto da mille amici) ai654 euro (pacchetto da cinquemila).Ridicolo o al passo con i tempi? Aquanti vecchi compagni di scuola ab-biamo telefonato negli ultimi due an-ni e quanti abbiamo “incontrato” suFacebook?

C’è bisogno di gentilezzaEssere gentili è un po’ demodé, am-mettiamolo, ma sempre bello. Permet-te di gettare un ponte verso l’altro, an-che lo sconosciuto, con piccoli gesti ,parole, attenzioni. Studi scientificihanno dimostrato che le persone gen-tili sono più felici e vivono più a lun-go, sono più sane, hanno meno biso-

I risultati sono deliziosi per il palato el’umore, perché disprezzare le ricette? Gli ingredienti possono essere mescola-ti a piacere, purché con cura, fino ad ot-tenere un impasto omogeneo. Atten-zione alle dosi e alla qualità degli ele-menti essenziali. La cottura dipende dal-la legna e dal calore delle relazioni.Ogni cuoco sperimentato sa che impa-stare ingredienti diversi può provocarelievitazioni vistose, ma effimere.

C’è bisogno di guardarsi negli occhiUn colloquio può essere virtuale, manon un’amicizia, un amore, un fi-glio… sobrietà vuol dire utilizzare latecnologia quando serve, ma nonconfonderla con la realtà, e non pen-sarla (o pensarci) onnipotente. La so-

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dono di noi stessi. La preghiera a Taizéprevede sempre anche un momento disilenzio.

C’è bisogno di fedeltàFedeltà: costante rispondenza alla fi-ducia accordata da altri o ad un impe-gno liberamente assunto. Risponden-za alla verità, alla realtà dei fatti;conformità all’originale (vocabolarioDevoto-Oli). È un patto che ci impe-gna oltre la durata del tempo e anchese gli altri non ci stanno più. Sappiamoche Dio mantiene le promesse anchequando gli uomini lo rinnegano. Si leg-ge in una indagine Istat che tra il 1995e il 2005 in Italia i divorzi sono cre-sciuti del 74%, e le separazioni del57.3%. Nel 2005 i mariti divorziati ave-vano mediamente 43 anni, mentre lemogli 40. Saranno oggi più felici?

C’è bisogno di essenzialitàUno stile di vita sobrio non si misurasolo da ciò che appare, ma da ciò cheabbiamo nel cuore, dalle aspirazione edalle attese che ci spingono. “Non ac-cumulatevi tesori sulla terra... Perchè la do-ve è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.”(Lc. 6, 19-21)Un’identità sobria vuol dire identitàdi una persona sicura di sé e unitarianelle sue scelte. Essere persone auten-tiche ci permette di incontrare gli al-tri senza maschere e senza bisogno difingere. E rende più facile capirsi.

sto ci permette di creare relazioniprofonde, perché vere, senza masche-re. Con le persone e non con le cosedietro a cui si nascondono. Si è ricchi in proporzione alle cose di cui siriesce a fare a meno (Gandhi): nello zai-no mettete sempre poche cose, percamminare leggeri nella vita.

C’è bisogno di moderazioneNei gesti, nelle parole, negli stili di vi-ta. Vuol dire stupore per le piccole co-se, “attenzione” per le sfumature, ildettaglio. Il desiderio nasce dallo sfio-rare e non dall’afferrare… Il primobacio, tenersi per mano: gesti che han-no un significato profondo o dimen-ticati appena vissuti? Urlare non invita a farsi ascoltare. Esi-birsi non aiuta a rendersi interessanti.Anche se oggi sembra di andare con-tro corrente.

C’è bisogno di silenzioÈ lo spazio per ascoltarsi e per ascol-tare. Sommergiamo di parole gli altri,per ascoltare solo noi stessi. O anche so-lo perché abbiamo paura del vuoto. Unbuon dialogo non si misura dalle tanteparole ma dalla profondità di queste. Unmomento di silenzio, anche molto bre-ve, è come una sosta santa, un ripososabbatico, una tregua dalle preoccupa-zioni. La pace interiore può essere unacosa rischiosa: ci rende vuoti e poveri,disintegra le amarezze e ci conduce al

trasformare la fatica di tutti i giorninella sfida di una piccola/grande av-ventura? La grandezza di una vita nonsi misura solo in gesti eroici, ma nellagestione sorridente delle innumerevo-li grane della quotidianità. È la passio-ne delle pazienze.

C’è bisogno di accettare se stessiI disordini alimentari, che si manife-stano come anoressia o bulimia ner-vosa, sono diventati nell’ultimo ven-tennio una vera e propria emergenzapresso i giovani, soprattutto le giovanidonne. Negli Stati Uniti, le associazio-ni mediche parlano di una vera e pro-pria “epidemia”: se non trattati i di-sturbi alimentari, possono diventarepermanenti e persino portare allamorte (per suicidio o per arresto car-diaco). Un eccesso di pressione e diaspettativa, o al contrario sentirsi tra-scurati, essere oggetto di derisione (perla propria forma fisica, il peso o l’ap-parenza), possono diventare una forzaautodistruttiva. Nella relazione con ilcibo, accettare se stessi è una questio-ne vitale.

C’è bisogno di semplicitàIl metodo scout funziona, perché èsemplice. Vicino alla natura e quindiall’uomo. Vivere sotto una tenda, ac-cendere un fuoco, camminare insieme,cantare, fare fatica, sentire caldo e fred-do, avere sete e trovare l’acqua. Que-

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C’è bisogno di passioneLe passioni sono dinamiche. Se nondesiderassimo, se non avessimo questaspinta, la nostra vita sarebbe inerte,passiva. Le passioni sono la vera po-tenza, l’energia dell’esistenza. Possonodiventare distruttive, ma possono di-ventare una potenza costruttiva più for-te di ogni dovere, imperativo o sugge-rimento. Non sono sobrie, sono tra-volgenti, a volte irragionevoli, sempreun po’ inebrianti. Ci fanno fare tardila notte, o scalare le montagne, ci fan-no camminare per ore, ci rendono co-raggiosi, fino a rischiare l’osso del col-lo, o il posto di lavoro, ci fanno lascia-re tutto per una perla preziosa, cam-biare la vita per un’ideale o una per-sona speciale, ci fanno vivere. Ci fan-no amare.

Laura Galimberti

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In parole povere, parla come mangi

C’è la sobrietà anche nel linguaggio e nel modo

di relazionarsi con gli altri? L’articolo di Franco,

sobrio e concreto, dà chiare indicazioni di stile.

La sintesi di questo breve preambolo èallora: che le parole non sono mai po-vere; che il mangiare è variegato equindi la parola rifugge da piatti stan-dard, dovendo le parole soddisfare siale orecchie raffinate che quelle deisordastri e degli inappetenti; che èpraticamente impossibile redigere unmanuale di stile del parlare, condivisoda tutti.Ma dato che a noi boy-scout piacel’im-possibile, ecco il tentativo di trac-ciare qualche suggerimento di stilescout anche nel parlare. L’ordine alfa-betico dei suggerimenti sottolinea illoro disordine concettuale.

Cortesi Gentilezza, stile, affabilità, pazienza so-no buone attitudini per dialogare, an-che apprezzate quando si deve sempli-cemente parlare a silenti ascoltatori. Sipuò poi sempre discutere senza alzareil tono di voce, ascoltando le recipro-che argomentazioni, senza interrom-pere chi parla.

Economi Si può fare anche economia di parole.Parlare sobriamente, ma anche tacere,se non serve parlare o quando non siha nulla di sensato o di arricchente dadire, perché l’importanza della miapresenza può essere a volte segnata so-lo da quanto ho imparato e non daquanto ho fatto mettere a verbale. Del

un’attrazione gravitazionale talmente ele-vata da non permettere l’allontanamento dialcunché dalla propria superficie, risultan-do così invisibile e rilevando dunque la suapresenza solo indirettamene per gli effettidel suo intenso campo gravitazionale”);ma è pericoloso descriverlo ricorrendoa oggetti e termini quotidiani, perchéquesta espressione inventata dal fisico J.A. Wheeler, con i termini esplicativi chene derivano, sintetizza in realtà concet-ti quasi incomprensibili ai più. E, al con-trario, bisogna convincersi che espres-sioni indigeribili in campo socio-poli-tico potrebbero tradursi in frasi fluideappetibili anche agli elettori di boccabuona. Anche se non sempre però sipuò comunicare qualcosa in terminisemplificati, senza stravolgere il concet-to che si vuol comunicare.

Beh, dipendeDipende da quanto, come, quando,con chi mangi. Perché un conto è ri-cevere come secondo piatto un fuga-ce SMS d’amore (“TVTB Xkè 6 la miadolcezza”), un altro è gustare la sere-nata di Romeo (“Parla, oh parla ancoraangelo di luce. Sei bella in questa notte emi sovrasti come un alato messaggero cele-ste cavalcante su pigre e sbuffanti nuvo-le!”). Un paio di maniche è bersi uncomizio sulle convergenze parallele, unaltro è assaggiare le parole di Euclidesul fatto che “data una qualsiasi retta eun punto esterno ad essa, esiste una e unasola retta che passa per quel punto e noninterseca mai la retta data, per quanto la siprolunghi”. Si può inchiodarsi in testala spiegazione di “buco nero” (“un cor-po celeste estremamente denso, dotato di

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resto, il tacere può segnare anche losforzo di passare dalla sincerità (dicoquello che penso) alla verità (penso aquello che dico, perché mi preme di-re quello che è vero; ma, nel dubbio,posso anche per il momento tacere). Nelle verifiche di comunità, si può,essere incisivi per concretezza e umo-rismo. Dire poco ma bene: il “sì, sì; no,no” evangelico (perché il di più vienedal maligno - Mt 5, 37). Si può sinte-tizzare, azzeccando slogan intelligenti,sull’esempio delle frasi di B.-P. (C’èsempre almeno il 5% di buono in ognuno- La vera felicità consiste nel fare quella de-gli altri).

Leali Occorre saper parlare (ho/hai sbaglia-to). C’è in genere una marcata ten-denza (soprattutto sul lavoro) a rifug-gire da frasi come “Ho sbagliato - Nonho capito - Non ho fatto a tempo a finirequanto mi ero impegnato a fare - Non so-no capace“. È più comodo insommasalvare la faccia e dire sempre che ècolpa del “governo ladro”. Eppure fra-si come le precedenti, subito seguiteda un “Ma non dovrebbe più succedere -Mi basta in genere battere il naso una so-la volta - Dovrei farcela a recuperare -Adesso trovo chi mi insegna“ (intreccia-te cioè con l’orgoglio personale deri-vante dal 1° articolo della Leggescout), consentirebbero di giocaresempre lealmente il proprio gioco.

Questa lealtà è relativamente facilequando riguarda noi stessi, rispetto aquando serve invece dire apertamentead altri che hanno sbagliato, non han-no capito, non hanno mantenuto il lo-ro impegno, ecc. Per non parlare delladifficoltà di quando questi altri sononostri superiori. Vale in tutti i casi laregola che, se non siamo capaci di di-re subito all’interessato quando va det-to, si può rimandare a un’occasionesuccessiva più favorevole (ad es. perl’assenza di altri uditori): allora è do-veroso tacere intanto con tutti, pernon cadere nello sterile sfogo del pet-tegolezzo.

Meritare fiducia Mantenere la parola data, una scaden-za decisa, un impegno preso aiutano anon parlare a vanvera o da sbruffoni.È bene poi, tutte le volte che è possi-bile, prepararsi ciò che ci viene chie-sto di dire, per rifuggire dall’improv-visazione e dalla banalità. È prudentedosare l’ostentazione del “Dico semprequello che penso!”, misurandola con leverifica se io “penso sempre a quello chedico”, che potrebbe essere inopportu-no, sbagliato, cattivo.È confortante poi, quando si chiamaqualcuno ad aiutarci, vederlo subitoapparire sorridente ed esclamante “Ec-comi”, invece di sentire in lontananzafrasi dilatorie come “Che c’è? – Arrivo– Un momento – Un attimino”.

Puri di parole Serve fare i conti con la promessa dibeatitudine per i puri di cuore (Mt5,8), temperata dall’esortazione di es-sere “prudenti come i serpenti e sem-plici come le colombe” (Mt 10,16).Un esercizio di purezza è l’agire con-tro le “dietrologie”, difendendosi(sempre con la prudenza dei serpen-ti…) dai cinici che invitano i candidia trascurare le parole udite, per legge-re invece “fra le righe” il significatovero di quanto ci viene detto. Simme-tricamente dovremo stare sempre sul-le righe e non tra le righe quando par-liamo ad altri, non dimenticando maiche le parole sono pietre (Carlo Levi)e possono ferire, mentre la verità cifarà liberi (Gv 8,32).

Sorridono e cantano anche nelle difficoltà Si tratta di modalità espressive nonverbali che aiutano a mantenersi sobriin particolari situazioni, quando le no-stre parole rischierebbero di diventareun diluvio letale anche per provettinuotatori. Questo invito della Leggescout è affine a quello della lirica If diR. Kipling (“Se riesci a mantenere la cal-ma quando tutti attorno a te la stanno per-dendo...”) e ci spinge a imitare lo hu-mour britannico (es. di Phileas Fogg deIl giro del mondo in 80 giorni). Un eser-cizio utile può essere la tradizione diun villaggio della Costa d’Avorio, in

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cui i forestieri accolti si sentono rivol-gere dal capovillaggio l’impegnativadomanda “Qual è la buona notizia?”;che si traduce in una sorta di impera-tivo morale di trovare comunque sem-pre qualcosa di buono da narrare aglialtri, anche dal profondo della nostratristezza. Non è facile, ma si deve pro-vare, per mantenere il dominio di noistessi e un atteggiamento positivo neiconfronti della vita; con un ottimismonon idiota, ma con i piedi per terra(perché vige l’11° articolo della Leg-ge “Lo Scout non è uno sciocco”).

Franco La Ferla

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Sobrietà e risorse alimentariCambiare si può. Basta usa-e-getta, basta consumo

incontrollato, basta sprechi di cibo e di risorse.

Siamo sull’orlo di una crisi ambientale, climatica, ecologica

che priverà il mondo delle sue risorse essenziali:

è necessario che i Governi e i cittadini si convincano

della necessità di cambiare rotta.

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sempre più forsennati e intanto le di-scariche si riempiono a dismisura. Ilconcetto dell’usa-e-getta è esemplareda questo punto di vista, ma se ciò èforse più immediatamente comprensi-bile per gli oggetti di uso quotidiano,spesso ci sfugge il fatto che anche il ci-bo ha finito con il rispondere a questimeccanismi un po’ perversi: sprechia-mo il cibo in quantità insospettabili,che gridano vendetta rispetto al miliar-do di affamati che popolano il nostropianeta o anche soltanto per la sacralitàche i nostri alimenti dovrebbero avere.In Italia, secondo una ricerca condot-ta nel 2007 da Siticibo del Banco Ali-mentare, sprechiamo ogni giorno4.000 tonnellate di cibo edibile. Vale adire 1,46 milioni di tonnellate l’anno.Nel Regno Unito, cito il Waste andResources Action Programme (WRAP), sisprecano invece 6,7 milioni di tonnel-late all’anno, circa un terzo del totaledisponibile. Secondo il Dipertimentodell’Agricoltura statunitense (U.S. De-partment of Agriculture, USDA), in-vece gli americani sprecano un quar-to del loro cibo, 25,9 milioni di ton-nellate l’anno. Ma uno studio condot-to dall’Università dell’Arizona nel2004 spinge l’asticella più in alto: ildato può spingersi fino al 50% del to-tale. Un dato curioso, ma terribile, ri-guarda poi per esempio quanto risosprecano ogni giorni i filippini: 1,2milioni di tonnellate.

un’esternalità negativa del sistema, mal’elemento centrale su cui si fonda ilsistema stesso. Ci vengono inculcati sempre nuovibisogni, che promettono una soddisfa-zione maggiore rispetto ai vecchi, manessuno ci spiega che l’insoddisfazio-ne è scientemente programmata neiprodotti di consumo: accanto alla se-rialità e l’omologazione, i prodotticontengono il germe di un’obsole-scenza che è il presupposto affinché ilsistema possa perpetuarsi. Il vecchio èdestinato a fare posto al nuovo a ritmi

La maggior parte del cibo oggi è assi-milabile a un normale prodotto diconsumo, né più né meno. Per questola sua produzione - fortemente indu-strializzata - e il suo consumo - sem-pre più frenetico e privo di valori – sisono trasformati in atti pienamente ri-spondenti alle regole del consumismo.I paradigmi sono: crescente velocità fi-no a perdere il controllo dei processi;la continua proposizione di falsi biso-gni, indotti dalla pubblicità e dallapromozione di stili di vita insostenibi-li; uno spreco strutturale che non è

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4.000 tonnellate ogni giorno nella so-la Italia: è uno scandalo. Ma realistico:provate, quando avrete finito di legge-re quest’articolo, ad aprire il vostro fri-gorifero. Vi troverete moncherini diformaggio assaliti dalla muffa, vasettiaperti da chissà quanto e mai finiti,prodotti dell’industria alimentare sca-duti o prossimi a scadere: il frigorife-ro, nato per allungare la vita dei cibi, èoggi l’anticamera della pattumiera.Il sistema del cibo, così per come si èstrutturato, oggi è insostenibile nonsoltanto dal punto di vista di produ-zione, trasformazione e distribuzione– che ricordiamo essere responsabili,direttamente o indirettamente di circail 70% delle emissioni complessive sulpianeta – ma anche dal punto di vistadel consumo. Tanto che la semplicefrase “io mangio il cibo” si è infine ri-baltata: oggi è il cibo che mangia l’a-ria, l’acqua, il terreno, che mangia icontadini e noi stessi (se apparteniamoalla schiera dei “consumatori”). Un cambio di rotta è quanto mai au-spicabile, anche alla luce delle crisiepocali che stiamo attraversando. Dal2008 a oggi si sono succedute unagrave crisi alimentare dovuta alle spe-culazioni sulle materie prime (trattatecome commodities qualsiasi, ma stiamoparlando di cibo, non di acciaio!) cheha fatto innalzare i prezzi causandoben 33 rivolte nei Paesi in via di svi-luppo; poi è subentrata la crisi finan-

ziaria che ha tanto fatto parlare di sé(a questo proposito va sottolineato chebasterebbero 30 miliardi di dollari al-l’anno per risolvere il problema dellafame nel mondo, ma non si trovano,mentre per salvare le banche dal col-lasso i Governi di vari Paesi a fine2008 hanno elargito centinaia di mi-liardi in pochi giorni). Il tutto avvie-ne all’ombra di una situazione clima-tica ed ecologica che definire critica èormai quasi un eufemismo. Purtroppo attendere che la politica in-tervenga è quasi utopico, sembra nongliene importi o che non sia prepara-ta a sufficienza, ma sono sicuro che itempi siano maturi per un nuovoumanesimo: tocca a noi. Colui cheoggi è identificato con il termine“consumatore” ha in mano un potereincredibile. Se è vero, come dice Wen-dell Berry (poeta-contadino del Ken-tucky) che «Mangiare è un atto agri-colo”, allora in base a ciò che sceglia-mo di mangiare abbiamo la possibilitàdi orientare il tipo di agricoltura chesi fa nel mondo, il tipo di produzionee i sistemi di distribuzione. Per esempio, scegliendo un cibo loca-le, di stagione, cercando di ridurre alminimo le intermediazioni commer-ciali – e dunque sfruttando forme al-ternative di distribuzione come i mer-cati dei contadini o i gruppi di acqui-sto – possiamo fare molto per inverti-re la rotta distruttiva del sistema-cibo.

Con semplici atti quotidiani, anchemolto piacevoli, possiamo imprimerepiccole svolte virtuose. È soprattuttosui sistemi di economia locale che do-vremo puntare: un rinnovato rapportocittà-campagna attraverso l’agricolturadi prossimità e un recuperato rapportocon i contadini, in maniera il più pos-sibile diretta, che insieme a un’adegua-ta informazione ed educazione ci aiu-terà a trasformarci da “consumatori” aqualcosa più simile a dei “co-produtto-ri”. Vale a dire che il nostro atto finale,quello di scegliere un cibo e mangiar-lo, potrà essere a buon titolo l’ultimoatto del processo di produzione e nonun gesto isolato e irresponsabile. Così sievita lo spreco. È una nuova alleanza, quella tra pro-duttori e “co-produttori”, che partedal riconoscimento del giusto valoreal cibo, dalla sua importanza in quan-to elemento conviviale e culturale,fonte di vita, e finisce con il ricrearedimensioni comunitarie sui nostri ter-ritori. Una nuova democrazia parteci-pativa che con il cibo, la nostra sovra-nità alimentare, finirà con il riconse-gnarci le nostre vite asservite al con-sumismo. Il vero prodotto di consumodel sistema consumistico, infatti, siamonoi. Ecco perché il cibo ci mangia.C’è un ultimo elemento che trovo ri-voluzionario e che ha grande valenzaeconomica se si vuole dare un nuovoorientamento al sistema di produzio-

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Se prevedo di dare qualcosa – beni, ci-bo, tempo, forza lavoro – inserisco nelmeccanismo economico una sorta dicuscinetto, che al contempo riesce agovernare il limite di sostenibilità -economica, ecologica ed esistenziale -e anche ad evitare, o meglio a preve-nire, lo spreco.Questa è sobrietà nell’utilizzo delle ri-sorse alimentari e la cosa curiosa è chequesta sobrietà, questo consumo re-sponsabile, è tutto meno che mortifi-cante o subordinata a grandi rinunce.Ogni atto che possiamo mettere inmoto, sia come produttori che come“co-produttori”, alla fine si riveleràquanto mai piacevole da farsi: sia dalpunto di vista del gusto, sia da quellodi un’umanità ritrovata e felice.

Carlo Petrini

e le strutture. Siamo piuttosto precisi:così otteniamo la quantità esatta dibirra da fare in anno. A quella aggiun-giamo soltanto un’ulteriore quota,quella che servirà a generare i soldiche daremo in carità.»Rimasi folgorato: questo sì che è ave-re senso del limite, produrre per i bi-sogni reali e non strafare, rinunciarealla cupidigia che ha la lontana e fina-le conseguenza di farci mangiare dalcibo e da tutto ciò che produciamo. Apensarci bene però, la cosa più impor-tante di ciò che mi ha detto il mona-co di Rochefort è la dimensione diquel surplus fatto per essere donato.Rappresenta un’economia della gra-tuità che si è persa del tutto nel vorti-ce consumistico, dove il profitto è l’u-nica religione e dove ogni cosa che sifa deve sempre avere un tornaconto.

ne del cibo: nelle economie locali sipuò introdurre il dono, che finisce perl’avere la funzione di prevenzione del-lo spreco. Nel 2003 ebbi la fortuna diessere accolto dai monaci trappisti del-l’Abbaye Notre-Dame de Saint-Remy a Rochefort in Belgio, produt-tori di una delle migliori birre almondo, la Rochefort. Quando vidiche il loro impianto di produzione erasfruttato soltanto a metà chiesi lumi aun monaco, che mi spiegò la loro fi-losofia produttiva: «Non abbiamo bi-sogno di raddoppiare la produzione.Ogni anno ci riuniamo e stabiliamoquanta birra dovremo fare per prov-vedere ai bisogni della nostra comu-nità. Calcoliamo i costi delle attrezza-ture e della produzione, i costi del la-voro nostro e dei laici che ci aiutano,quanto serve a mantenere il convento

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Povertà, castità, obbedienza(ovvero il ritorno alla quotidianità con Dio)

Povertà, castità e obbedienza sono parole uscite dal lessico

corrente; casomai sono i termini opposti che dominano la

società contemporanea. Anche in questo caso possiamo

pensare a una vita e a un’educazione contro corrente, non

per tornare al passato, ma per pensare a un futuro migliore.

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quotidianità? E con quali strumenti?L’importanza della tematica è resa evi-dente dalle tante produzioni letterarie(tra i tanti, Hans U. von Balthasar in ma-niera costante)1, da recenti omelie delPapa (Santuario di Mariazell-Austria 8settembre 2007) e dalle tante personeche in numero sempre crescente si re-cano in monasteri quali ad esempio Bo-se, Camaldoli per condividere con imonaci qualche momento di preghierae riflessione, all’ombra dei consiglievangelici fatti propri dagli stessi mona-ci e ritrovando, per almeno un mo-mento, uno spazio festivo nella condi-zione quotidiana di transitorietà di cia-scuno.La transitorità, nella tradizione orien-tale cristiana è momento centrale, rap-presentata dal tempo del sabato santo,momento di fatica e di profonda as-senza, che è necessario e che richiedeun profondo lavoro su se stessi, ripor-tando il credente alla serietà quotidia-na della vita. In questo contesto credo sia moltoimportante riuscire a ritrovare anchenel passato, per trarne il dovuto inse-gnamento, persone e luoghi, esperien-ze, che hanno significato molto in ter-mini di vicinanza a Dio, di scelta “re-ligiosa” quotidiana consapevole, dicammino necessariamente continuo ecomunitario. Nella storia del popolo di Israele, po-polo eletto, c’è una profonda e co-

quindi ampiamente schiacciato e di-mensionato a scelta minoritaria e per-dente. Infatti quale R/S in prossimità dellaPartenza chiederebbe alla comunità diclan di accompagnarlo attraverso unascelta di povertà, castità e obbedienza?Oppure quale capo scout riesce nelproprio ambito associativo, lavorativo,famigliare a sentire come propri questi“consigli”, a vincere la lotta spiritualedentro se stesso, per viverli con serena

Provando anche solo a leggere e rileg-gere con calma i tre voti, o consiglievangelici, immediatamente, a pelle,ne emerge il significato che il conte-sto culturale dei nostri giorni ha attri-buito agli stessi, caricandoli di un si-gnificato sicuramente distante dalquello originario, quasi collocandoliin ambito negativo.Il tema della sobrietà in ogni ambito,che trova nei consigli evangelici unapossibile struttura portante, ne esce

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tra i cosiddetti figli della Luce e i figlidelle Tenebre, che i componenti sen-tivano oramai imminente.

La ricerca della veritàAncora oggi, per noi cristiani, ancheper noi scout così sempre presenti nel-le nostre realtà sociali e ecclesiali, co-me per gli hasidim di oltre 2000 annifa, è sensibilmente percepibile unaprofonda inquietudine.Un filo rosso, visibile, ci unisce in que-sta tensione verso l’alto, a nostra voltariuniti nella Chiesa attorno al Maestro ecompagno di strada, Gesù di Nazareth.Ancora oggi, come per le prime comu-nità cristiane, viviamo l’assenza/presen-za del Signore, ritrovandoci attorno al-l’eucarestia.Suggestivo è leggere nel libro del pro-feta “minore” Michea, tra quelli ritro-vati in copie nelle grotte di Qumran -e quindi costantemente pregato e ri-prodotto dai membri della comunità -, il passo di seguito:Michea 6,8:“Uomo ti è stato insegnato ciò che è buonoe ciò che richiede il Signore da te:praticare la giustizia, amare la pietàe camminare umilmente con il tuo Dio.”Nel bel libro di Antonietta Potente daltitolo “La religiosità della vita”3 questobrano è significativamente utilizzatoper i rileggere i voti - consigli evan-gelici - della vita religiosa affinché imedesimi siano, attraverso uno sguar-

dopo circa due secoli, nell’anno 68DC quando la X Legione Fretensisdistrusse interamente l’insediamento,per riemergere solamente nel 1947con la scoperta dei notissimi e prezio-si rotoli. Negli ultimi 20 anni – con diversi clandel Progetto Terrasanta o gruppi dipellegrini - ho avuto la possibilità sisostare alcune decine di volte pressogli scavi di Qumran e di riflettere sulsignificato di questa comunità che perscelta e necessità, allontanandosi dalTempio, aveva dovuto ritrovare nelle“sole” Scritture le regole della propriavita personale e comunitaria.Da quanto contenuto nei rotoli dellaRegola della Comunità questi precet-ti consistevano sinteticamente nell’a-more verso Dio, nell’amore verso ilprossimo - quest’ultimo strettamenteinteso come l’appartenente alla pro-pria comunità - e nell’amore verso lavirtù, tramite la vita ascetica all’inter-no della comunità.Questa profonda quotidianità era vis-suta quindi nella condizione di co-stante assenza/presenza, dovuta da unlato alla lontananza dal Tempio e dal-l’altro alla vicinanza all’Altissimo me-diante le rigide regole di vita dellaComunità.La quotidianità della vita, così regola-ta, nella comunità di Qumran avrebbedovuto permettere la preparazione alcombattimento tra il Bene e il Male,

stante inquietudine; infatti ancora og-gi, nonostante la costituzione dellostato di Israele rappresenti per moltiebrei l’inizio dell’era messianica, lepromesse di Dio, il sogno di Dio tar-dano concretamente a realizzarsi.

La comunità degli esseniCirca nell’anno 152 A.C. in Palestina,in prossimità del Mar Morto a causa digravi divergenze nella pratica religio-sa – in particolar modo i calendari, l’e-lezione del sommo sacerdote, la mo-dalità di effettuazione dei riti- uomi-ni devoti chiamati Hasidim legati allapura osservanza della Legge, costitui-scono quella che viene chiamata cor-rente Essena. 2

Questi uomini si auto-esiliarono at-torno al Maestro di Giustizia, lascian-do il Tempio di Gerusalemme – uni-co luogo della presenza di Dio e del-la conseguente offerta dei sacrifici -compiendo una immensa rinuncia al-lontanandosi dalla città Santa, “sosti-tuendo” per quanto possibile i sacrifi-ci al Tempio con uno stile di vita asce-tico, osservando scrupolosamente laLegge, cercando di viverla nello spiri-to e alla lettera. Nella quotidianità l’at-tività fortemente prevalente della co-munità era, oltre la preghiera, la tra-scrizione rituale dei rotoli delle SacreScritture.La comunità di Sokoka- Qumran ter-mina definitivamente la sua esistenza

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con il tuo Dio- , cioè l’ascolto intenso,che ci deve riportare al più grande do-no fattoci da Dio, la nostra vita, affin-ché ne possiamo avere maggiore fa-miliarità, imparando a restarle fedeli,aumentando la consapevolezza di se,riconoscendola come dono, ascoltan-do per rispondere riprendendo l’ini-ziativa.Con queste declinazioni i tre consiglievangelici, nuovamente letti e riletti,acquisiscono un sapore diverso, si ca-ratterizzano per una positività, un face-re possibile, una dimensione umana, cheli rende davvero preziosi e alla porta-ta di ciascuno, quotidiani.

Raoul Tiraboschi

1 Seguire Gesù. Povertà, castità, obbedienza,H. Von Balthasar, Piemme, Milano,1990

2 I manoscritti del Mar Morto, F. Mebarki,E. Puech, ed It. A cura di G. Ravasi,Jaca Book, Milano, 2003.

3 La religiosità della vita, Antonietta Po-tente, Icone edizioni, Roma, 2003

Il recupero di questo stile di vita nonè qualcosa di più, riservato ai soli mo-naci o ai consacrati, ma un modo divita offerto a tutti, una reale condivi-sione di pane e vino, possibile attra-verso un maggiore discernimento deiconsigli evangelici, personale e comu-nitario.Di particolare interesse sono infatti ledeclinazioni che la teologa Potente fadei consigli evangelici.La povertà - praticare la giustizia - si vi-ve imparando a essere persone giuste;tutti, poveri e ricchi. Il voto di povertàdiviene quindi una pedagogia per im-parare uno stile di vita, così caro a noiscout anche per la sua dimensione ditestimonianza e profezia, che può fa-vorire e anticipare una storia differen-te, nella quale essere anche parte. La castità - amare la pietà- , spesso re-legata al solo aspetto sessuale ma cheal contrario potrebbe assumere unadiversa e più ampia valorizzazione neldesiderio di tessere delle nuove rela-zioni nella nostra quotidianità.Ridurre infatti tutta la questione eticaalla sessualità rappresenta la sola super-ficie delle tante problematiche relativealle false relazioni quotidiane con lecose, con le persone, con noi stessi, co-sì tanto presenti nella nostra società eche necessitano con urgenza di unamaggiore responsabilizzazione, co-minciando proprio da noi capi scout. L’Obbedienza - camminare umilmente

do moderno e attuale ri-proposti evissuti dalla comunità cristiana intera,attraverso relazioni differenti, unamaggiore presenza nella nostra storiafatta di attesa e preparazione, restandofedeli al presente, cogliendo la ric-chezza e la preziosità della nostra quo-tidianità. In particolar modo mi pare molto in-teressante l’intuizione per la quale og-gi, la scelta del continuare a cercare Ve-rità, nel tipico atteggiamento scoutdell’essere in piedi e ben vigili, si po-ne in netto contrasto con le “certez-ze” che appisolano, che neutralizzano,che rendono con il tempo incapaci dicogliere le differenze, di apprezzarle.Certezze che mettono in cattività ilcuore, addomesticandolo e rendonodifficile obbedire alla vita. Restiamo svegli e in movimento! Èl’esortazione che pervade il testo. La quotidianità, in questa prospetta-zione, diviene nuovamente l’unicotempio che ha il credente, è l’unicarealtà dove può imparare ad amaredavvero, attraverso luoghi, spazi, per-sone, dentro un tempo e una realtàconcrete.In questo modo i luoghi dove vivia-mo le nostre vite, dove ci mettiamo ingioco, dove meglio possiamo condivi-dere la nostra fede e i nostri valori, di-ventano i reali santuari, realmente luo-ghi dell’Incontro, realmente vicini al-l’uomo quotidiano.

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La guida e lo scout sonosobri nel progettareOvvero se il progettare dell’Agesci

appartiene alla categoria della sobrietà

In conclusione di questo quaderno, possiamo fare un breve

esame di coscienza sulla “sobrietà” del nostro modo

di lavorare nelle strutture associative?Le cinque domande

di Piero aspettano risposte concrete.

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Di progettualità riempiamo le nostreassemblee e i nostri incontri di comeprogettare trattiamo ampiamente neicampi di formazione, di progetto/pro-getti puntualizziamo in Consiglio ge-nerale.Dopo qualche decennio penso possaessere arrivato il momento, proprioperché ritengo non si tratti di un tabù,di ragionare pacatamente intorno alladimensione del nostro progettare equesto proprio nell’ottica di quella so-brietà – tema di questo quaderno diServire – che sia dote essenziale perchi, come noi capi, ha il compito diaiutare a crescere persone vere, attra-verso momenti che permettano lorodi scoprire percorsi “virtuosi”, utili madimensionati alle necessità.

Il topolino che partorisce la montagna?Ho avuto la fortuna di poter conosce-re sufficientemente la realtà associati-va nazionale per poter affermare che ilnostro progettare, in casi che non so-no sporadici, non ha proprio una va-lenza “economica”, disattendendo alcontenuto del nono articolo dellaLegge, che quando parla di guida escout economi non intende nel solosenso dell’uso del denaro, ma soprat-tutto in quello del modo di vivere lapropria vita e le proprie scelte e quin-di anche nel senso della sobrietà.Ci sono progetti (educativi e di zona

ma, in associazione ne abbiamo fattoquasi un tabù.Il tema che si vuole sviluppare e quel-lo della sobrietà che è essenziale averese si vuol far funzionare il “sistema deiprogetti”.Negli anni, per ogni livello associativoci siamo costruiti un progetto (chequalche volta ci illudiamo sia un Pro-getto): progetto del Capo, progettoeducativo, progetto di Zona, progettoregionale, progetto nazionale.

Potrebbe essere un aspetto importan-te da inserire nell’articolato delle Leg-ge scout se, a qualcuno, venisse inmente di procedere ad una sua decli-nazione nella contemporaneità.Si tratta di affrontare un argomento dicui in molti ambiti si parla, alcune vol-te esplicitamente, altre volte – nellamaggior parte dei casi – con accennitimidi quasi si stesse affrontando qual-cosa di delicato e probabilmente cosìpotrebbe essere perché, di questo te-

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progetti che “accompagnino” il nostroservizio e che ci siano utili un po’ co-me le briciole di Pollicino nel bosco.

Alleggerire lo zainoUna delle frasi di Baden-Powell piùfrequentemente utilizzate dagli scout,è quella che parla di come si preparalo zaino e di quello che va lasciato acasa per essere leggeri, ovvero il muc-chio delle cose che non servirannomai e quello delle cose che potrebbe-ro servire qualche volta.Come sempre il nostro fondatore di-ce semplicemente una cosa importan-te: quando si parte per un’avventura(qualsiasi essa sia) dobbiamo avere connoi solo le cose indispensabili.Io credo che queste possano essere es-senziali:• definire e perseguire tenace-

mente l’obbiettivo e non disper-dersi sugli aspetti che non sonoparte del cuore della nostra propo-sta, non confondendo il significatodel progetto con quello del pro-gramma;

• costruire passaggi concreta-mente realizzabili e alla portatadi tutti e non percorsi complessialla portata di pochi, che rendonola verifica un esercizio sterile per-ché sostanzialmente ingestibile;

• porci lo scopo di essere “leg-gibili” anche per l’esterno (le fa-miglie dei nostri ragazzi, le altre as-

gettare non sia in quest’ottica di “so-brietà pragmatica”, ma in un’otticateorica e un po’ intellettualistica (sno-bistica?), dove conta più l’esercizio delprogettare che non l’obbiettivo daraggiungere e ciò attraverso un per-corso, significativo sì, ma fondamen-talmente estraneo alle nostre caratteri-stiche di “seri volontari del metodo”.Pare quasi che talora si venga mag-giormente coinvolti nella costruzionedal contenitore piuttosto che dalle ca-ratteristiche che deve avere il conte-nuto.In un mondo che giustamente sotto-linea la positività della contaminazio-ne culturale, mi pare che si siano mu-tuate, nel nostro progettare, metodicheche appartengono ad altri ambiti(scientifici, formativi e pedagogici)che, se non applicate, ci fanno temeredi essere dei “praticoni” del lavoroeducativo.Ma è un timore che dobbiamo fugareperché noi non siamo chiamati adesercizi pedagogici teorici, siamo chia-mati all’ascolto dei ragazzi, a crescereinsieme a loro nel gioco dell’autoedu-cazione, a condividere l’incarnazionedel Patto Associativo in un territoriocon altri Capi (termine “alto” e checontinuiamo ad utilizzare, anche se ta-lora forse inconsapevolmente rispettoal suo significato profondo).Siamo chiamati insomma a costruiredei percorsi educativi condivisi, dei

in modo particolare) che richiedonoanni di gestazione prima di vedere laluce, in testi alcune volte di ardua in-terpretazione e con contenuti che at-tengono più alla scienza pedagogicache al dare un senso forte ed incisivoalla proposta educativa con il metodoscout.Ci sono progetti che vengono scritti(e uso appositamente questo termine)“perché bisogna”, senza che alle spal-le ci sia una passione vera, quella pas-sione che dovrebbe essere alla base diogni nostra azione (la guida e lo scoutsono leali).Ci sono progetti che si pongono ob-biettivi di grandissimo respiro e checoprono tutto il panorama educativo,ma che poi si disperdono al momen-to della traduzione in azioni possibili.È questo utile per un lavoro educati-vo che vuole essere efficace e alla por-tata di tutti, pur nella serietà dell’im-pegno?

Mutuata una modalità estranea?Nel metodo scout, avendo una pro-spettiva educativa complessiva, l’ap-proccio al progettare è sostenuto dal-l’azione costruita intorno al possibile,al condivisibile, al verificabile.Abbiamo una meta alta e cerchiamodi raggiungerla dandoci degli obbiet-tivi concreti e proporzionali per rag-giungerla.Mi pare che alcune volte il nostro pro-

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La “macchina” che abbiamo costrui-to negli anni intorno ai progetti è an-cora la macchina adatta oggi e i no-stri progetti non rischiano di essereauto-referenziali e non efficaci?Sull’ultimo numero di Servire, i Pre-sidenti del Comitato nazionale si in-terrogavano e ci interrogavano suipossibili scenari del futuro associati-vo prossimo venturo (speranza o so-pravvivenza?) e sul ruolo della Co-munità dei capi.Io credo che in questo serio interro-garci, uno spazio importante l’avràanche la nostra capacità di essere alpasso nel reinventare il nostro pro-gettare.Avremo la voglia e la capacità com-plessiva di misurarci su ciò?

Piero Gavinelli

tempo, si è tramutato in qualcosa didiverso dallo spirito originale?La “mentalità progettuale” alla basedella nostra azione educativa (l’aiutarea darsi degli strumenti per pensare conuna prospettiva di progetto le azionipersonali e comunitarie) non è forsestato frainteso con il semplicistico ave-re un progetto scritto per ogni azioneeducativa?Non avendo definito un sistema a ca-scata, abbiamo realmente la necessitàdi un progetto per ogni livello asso-ciativo, progetti che solo con grandisforzi riusciamo a legare parzialmentetra loro?Abbiamo in associazione un modo diprogettare sobrio, leggero, educativa-mente incisivo o la “struttura proget-tuale” che ci siamo dati ce lo impe-disce?

sociazioni, le istituzioni, ecc.) enon redattori di documenti peraddetti ai lavori.

Per finire alcune domande, forse difficiliPer poter affrontare il tema nella giu-sta prospettiva, è necessario porsi sere-namente alcune domande, senza pre-concetti e senza il timore, che non èda appassionati di educazione quali di-ciamo di essere, di dover difenderequalcosa “a prescindere”.Non sono le uniche domande possi-bili, ma sono certamente quelle di ba-se, quelle alle quali non è possibile nondare una risposta.Il senso del progettare alla base dalprogetto educativo del Gruppo (ma-dre/padre di tutti progetti associativi),è stato mantenuto o, con il passare del

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intollerabile, dalla solitudine e da unaviolenza domestica verbale e psicolo-gica che nessuno immaginava neanchedi denunciare; eppure non c’è asprez-za né risentimento nelle sue righe, masi percepisce una sapienza antica, unequilibrio e un desiderio di pace uni-ti a una grande riconoscenza per chigli ha dato i natali e per la gente concui ha vissuto.I ricordi prendono via dalla sua terra,dal piccolo paese di Castel Boglione,circondato di viti e di ulivi: una vitadura, contadina, scandita dai ritmi delraccolto e dal suono delle campane,annunciatrici di gioia e di dolore, dimorte e di pericolo …E proprio dall’etica della terra muo-vono le sue prime riflessioni: “ Miamadre deponeva sul tavolo ogni mattinauna grissia del “pane di ieri“, un fiasco divino, un orciolo di olio e un saliera, tuttoricoperto da un tovagliolo da lei ricamatocon la scritta: l’olio, il pane, il vino e il sa-le siano lezione e consolazione…”È un’un immagine molto bella, segnoche il pane diventa simbolo di naturae cultura, il pane fa vivere, il vino dàgusto alla vita, rallegra il cuore, addol-cisce le fatiche.Allora il cibo, oltre a nutrimento ne-cessario, è qualcosa di cui si deve avercura, la tavola è luogo di incontro e difesta, un modo di voler bene agli altri.Così è il rito della bagna couda, piattotipico della tradizione contadina: pre-

Trasmette un gran senso di pace il di-panarsi degli accadimenti che EnzoBianchi, fondatore e priore della co-munità monastica di Bose, in provin-cia di Biella, fa rivivere in questo libro:è il racconto della sua realtà giovanile,trascorsa nelle Langhe e nel Monfer-rato negli anni dell’immediato dopo-guerra, in una dimensione che non ènostalgica rievocazione di un tempo“che non tornerà piu’”, ma è tenta-tivo di riscoprire il significato dellavita presente, e di gettare uno solidoancoraggio per il domani. “Il nutri-mento solido che ci viene dal passato èbuono anche per il futuro e i principi so-stanziali che hanno alimentato l’esisten-za di chi ci ha preceduto sono in grado disostenere anche noi e di darci vita, gioia,serena condivisione nel nostro amore ac-canto a quanti amiamo.”Non c’è in queste pagine il rimpian-to o una visione idilliaca della vita diallora, spesso segnata da una miseria

È l’orizzonte della sobrietà quello chesi ritrova in modo semplice ed effica-ce nel libro di Enzo Bianchi “Il pa-ne di ieri”: il termine non comparenel titolo, nei capitoletti, nella coper-tina, ma traspare inequivocabilmentedalle pagine di sapienza che l’autore cioffre. Sobrietà vissuta e proposta noncome austerità o severità, ma comestile di vita che sa discernere tra le co-se fondamentali e il superfluo, tra l’es-senzialità e l’eccedenza, che sa privile-giare il dialogo e l’ascolto, attraverso iricordi di un tempo passato tratteg-giati come “pennellature” di vita vis-suta, ricchi di saggezza e di una gran-de fiducia nella Provvidenza.“Vorrei che da queste pagine emergesse la ric-chezza di umanità che ho ereditato dal miovissuto, la gratitudine per quanto mi è statodato di sperimentare, l’amore per la terra eper la compagnia degli uomini cui sono sta-to educato dalle vicende della vita, prima an-cora delle persone che ho avuto accanto”…

Recensione: “Il pane di ieri”*

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mentale per il pane quotidiano didomani: ridestare nella società la cul-tura dei valori, a cominciare dai gio-vani, avere il lievito della fiducia nel-l’umanità, credere nell’uomo, nellasua grandezza, credere che è possibi-le rendere migliore la vita di tutti, te-nendo lo sguardo verso un orizzon-te comune, verso una speranza con-divisa.La vita vale la pena di essere vissutapienamente in ogni suo avvenimen-to, anche il piu’semplice, nello spiri-to di umanità e di fede, nella certez-za che “venuti i tempi maturi“, quan-to si è seminato non andrà comun-que perso. Così Enzo Bianchi sinte-tizza il suo messaggio: molto abbia-mo da imparare dalla storia, ma so-prattutto dalla terra, quella terra chedovrebbe educarci al rispetto, alla pa-zienza, alla tolleranza. “Il pane di ieriè buono anche domani”, dice un anti-co proverbio: essere sobri allora è es-sere grati per quel che si ha, avere ilsenso del limite, della condivisone edel rispetto.

Federica Fasciolo

* “Il pane di ieri” Enzo Bianchi, Einaudi, Torino, 2008

notti di dicembre, quando la serascendeva subito ed era bello condivi-dere la gioia del fuoco; chi era redu-ce da una malattia o da un dispiaceretroppo forte non si faceva vedere e sene stava da solo a bere fino ad addor-mentarsi con la testa sul tavolo: l’oc-casione era anche un modo per ascol-tare le storie dalle voci dei vecchiraccolti nelle stalle, scaldati dal tepo-re degli animali: “Quando gli uominiiniziavano a contare storie sempre “mol-to colorite”, allora anche i bambini si fer-mavano e ascoltavano rapiti.”E poi i ricordi dei maestri vita, per-sone umili ma in grado di dare gran-di lezioni e a cui Enzo Bianchi riser-va un’attenzione personale: girova-ghi, mendicanti, solitari “capaci di pa-role acute come frecce, che, senza ferire, col-pivano il cuore.”Da questi incontri nasce una grandesaggezza che suggerisce nel tempo,non solo di ricercare la sobrietà nelvivere e una maggior solidarietà nelcondividere, bensì, a un livello anco-ra piu’ radicale, la capacità di aderirealla realtà, di prendere coscienza deipropri limiti, per irrobustirsi nell’af-frontare le sfide che il futuro riserva.Ecco allora un ingrediente fonda-

pararla e mangiarla insieme significavafar propria la vita degli altri, quasicondividendo un’opera d’arte, conl’acciugaio che arrivava dalla Liguriain bicicletta con “u pan du mar”, ilpesce dei poveri, e poi l’aglio delMonferrato e ancora l’olio della Li-guria, “in uno scambio di terre, di genti,di culture … con alimenti poveri ma ric-chi di umanità”.E poi la vigna, colta nella sua bellez-za e poesia attraverso le stagioni, nelduro e paziente lavoro vissuto nell’at-tesa dei frutti: la stagione della ven-demmia, non solo coronamento diuna anno di lavoro, ma segno di unradicale rapporto fra l’uomo e la ter-ra.”Curare la vigna è come amare la pro-pria vita”. Così come “l’orto, grandemetafora della vita spirituale, anche la no-stra vita interiore deve essere coltivata e la-vorata, richiede semine, irrigazioni, curecontinue, difesa da intromissioni indebite.L’orto, come lo spazio interiore della no-stra vita è luogo di lavoro e di delizia,luogo di semina e di raccolto, luogo di at-tesa e di soddisfazione nell’attesa pazien-te e operosa, nella custodia attenta potràdare frutti a suo tempo …”Le immagini si rincorrono nel succe-dersi delle esperienze: le veglie, nelle

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I.R.

Vorrei ora concludere con unapreghiera:

Signore,rendici uomini liberi,che non accettano doniper compieresemplicementeil proprio dovere.

Signore,rendici uomini liberidal desideriodi possedere cose:esse non ci renderanno migliori.

Signore,rendici uomini liberidal desideriodi possedere persone:il loro bene vengaprima di tuttoe sopra ogni altra cosa.

Signore,rendici uomini liberidal desideriodi possedere potere:esso non ci farà più forti.

Signore,rendici uomini liberidal desideriodi possedere denari:essi non ci porteranno ricchezza, ma ci bruceranno il cuore, la mente, le mani.

Signore, rendici uomini liberi nelle profondità del nostro cuore, nell’acutezza della nostra mente, nelle azioni che, ogni giomo, compiamo.

Signore, rendici capaci disobrietà,condivisione,accoglienza.E aiutacia fare ordinenelle nostre passioni.

Fa’ che ci riconoscanodallo spezzare del pane,dalla condivisione del sapere,dall’ardore del nostro cuore,dalla nostra ricerca della giustizia,dal nostro dare tutto,come la vedova al tempio,tutto, senza calcoli,con gioia,con dedizione intensa e totale.

Signore,ti preghiamo,perché la politico sia migliore,perché si preoccupi del bene comune,perché sappia indicare le stradeper un mondo piu giusto,perche i suoi uomini e le sue donnesappiano dimenticarsi di sée dedicarsi senza rimpianti e ritomia costruire una comunitàautenticamente fraterna e solidale,dove ciascuno si senta amato.

La sobrietà dimenticata Incontro del Cardinale Dionigi Tettamenzi, arcivescovo di Milano, con gli amministratori locali

Milano, 30 gennaio 2009