Slot Machine: con il Teatro delle Albe nell’abisso … scena, solo ma in nostra partecipata e...

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1 novembre 2015 Slot Machine: con il Teatro delle Albe nell’abisso del gioco d’azzardo Marì Alberione Una discesa agli inferi. Questo viene raccontato in Slot Machine, il nuovo spettacolo diretto da Marco Martinelli (che lo ha scritto e ideato con Ermanna Montanari) in scena al TeatroLaCucina di Milano, nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini. Una caduta vertiginosa di un giocatore come tanti, Doriano, figlio di contadini che si sono spaccati la schiena per fare fortuna, che letteralmente annega nel gioco d’azzardo senza riuscire a riemergere. Un pantano in cui rimane invischiato, dapprima iniziato come una sorta di viaggio nell’antico Egitto alla ricerca di serpenti e Cleopatre della “Pharaoh’s Tomb”, una slot machine presto abbandonata, perché ritenuta di cattivo auspicio con la sua aura di maledizione aleggiante, a favore di giochi più caserecci: la rassicurante spiaggia di “Romagna mia“ e le donnine di “Pin Up”. Un gioco che ha delle regole ben precise: «Nei giorni pari Romagna mia / Nei giorni dispari Pin Up», quasi un mantra a cui aggrapparsi per cercare di dare una parvenza di razionalità a qualcosa che è totalmente fuori controllo. È lucida l’analisi di Doriano, pronto a votarsi al culto della macchinetta che lo trasformerà. Un uomo che è consapevole della sua schizofrenia («Il sale in zucca ce l’ho, io / Il problema è l’Altro / Quello là dentro, là in basso / quello che c’ha sempre fame») e di vivere in una realtà deformata (da qui l’uso degli specchi in scena che riflettono le varie anime del giocatore e lo deformano, creatura sempre più preda dei suoi demoni). A poco a poco fa il vuoto attorno a sé, sacrificando ogni legame affettivo: dapprima inganna i genitori, poi rinuncia alle fidanzate e agli amici e si affida a finanziarie e strozzini perché la sua dipendenza – resa fisicamente dagli spasmi dello straordinario Alessandro Argnani, sempre più ossessionato e consumato a mano a mano che il monologo procede – , non gli permette di fare altrimenti. Consapevole di essere vittima e carnefice di se stesso non può che subirne le estreme conseguenze. Les jeux sont faits. Rien ne va plus. E il sudario sul suo corpo non può che essere un tappeto verde. Un tema, quello del gioco d’azzardo, che da sempre affascina la letteratura (dall’autoritratto di Dostoevskij ne Il giocatore alla doppia vita della protagonista di Fuori tiro di Emmanuel Carrère, passando per Maupassant, Dickens, Schnitzler, Bukowski,…) e il cinema (da Lubitsch a Melville, da Altman a Scorsese la filmografia è sterminata), ma che sta diventando una patologia sociale: prima dell’estate il Ministero della Salute ha creato l’Osservatorio per il contrasto della diffusione del gioco d’azzardo e il fenomeno della dipendenza grave perché oltre due milioni di italiani sono a rischio. Ma il giro d’affari legato alle slot machines è enorme e, come si dice nello spettacolo, «In fondo in fondo / I giochi sono tasse!».

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1 novembre 2015 Slot Machine: con il Teatro delle Albe nell’abisso del gioco d’azzardo Marì Alberione

Una discesa agli inferi. Questo viene raccontato in Slot Machine, il nuovo spettacolo diretto da Marco Martinelli (che lo ha scritto e ideato con Ermanna Montanari) in scena al TeatroLaCucina di Milano, nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini. Una caduta vertiginosa di un giocatore come tanti, Doriano, figlio di contadini che si sono spaccati la schiena per fare fortuna, che letteralmente annega nel gioco d’azzardo senza riuscire a riemergere. Un pantano in cui rimane invischiato, dapprima iniziato come una sorta di viaggio nell’antico Egitto alla ricerca

di serpenti e Cleopatre della “Pharaoh’s Tomb”, una slot machine presto abbandonata, perché ritenuta di cattivo auspicio con la sua aura di maledizione aleggiante, a favore di giochi più caserecci: la rassicurante spiaggia di “Romagna mia“ e le donnine di “Pin Up”. Un gioco che ha delle regole ben precise: «Nei giorni pari Romagna mia / Nei giorni dispari Pin Up», quasi un mantra a cui aggrapparsi per cercare di dare una parvenza di razionalità a qualcosa che è totalmente fuori controllo. È lucida l’analisi di Doriano, pronto a votarsi al culto della macchinetta che lo trasformerà. Un uomo che è consapevole della sua schizofrenia («Il sale in zucca ce l’ho, io / Il problema è l’Altro / Quello là dentro, là in basso / quello che c’ha sempre fame») e di vivere in una realtà deformata (da qui l’uso degli specchi in scena che riflettono le varie anime del giocatore e lo deformano, creatura sempre più preda dei suoi demoni). A poco a poco fa il vuoto attorno a sé, sacrificando ogni legame affettivo: dapprima inganna i genitori, poi rinuncia alle fidanzate e agli amici e si affida a finanziarie e strozzini perché la sua dipendenza – resa fisicamente dagli spasmi dello straordinario Alessandro Argnani, sempre più ossessionato e consumato a mano a mano che il monologo procede – , non gli permette di fare altrimenti. Consapevole di essere vittima e carnefice di se stesso non può che subirne le estreme conseguenze. Les jeux sont faits. Rien ne va plus. E il sudario sul suo corpo non può che essere un tappeto verde.

Un tema, quello del gioco d’azzardo, che da sempre affascina la letteratura (dall’autoritratto di Dostoevskij ne Il giocatore alla doppia vita della protagonista di Fuori tiro di Emmanuel Carrère, passando per Maupassant, Dickens, Schnitzler, Bukowski,…) e il cinema (da Lubitsch a Melville, da Altman a Scorsese la filmografia è sterminata), ma che sta diventando una patologia sociale: prima dell’estate il Ministero della Salute ha creato l’Osservatorio per il contrasto della diffusione del gioco d’azzardo e il fenomeno della dipendenza grave perché oltre due milioni di italiani sono a rischio. Ma il giro d’affari legato alle slot machines è enorme e, come si dice nello spettacolo, «In fondo in fondo / I giochi sono tasse!».

 

3 novembre 2015 Slot machine di Maria Dolores Pesce

Il primo dei due dittici che hanno costituito e costruito l’opera musicale “Il Giocatore” presentata lo scorso anno al festival OPERA NOVA di Spoleto, e già allora recensita, è diventato una drammaturgia autonoma che ne compendia e integra la narrazione. Con questo lavoro Marco Martinelli, con pochi ritocchi registici e di scrittura scenica, si concentra sull’oscurità, l’oscurità della morte e l’oscurità del nostro inconscio. È una oscurità pesante a mala pena rischiarata dai flebili richiami (la terra ed i suoi all’apparenza modesti frutti di vita) ad una comune radice di compassione che sembra permanere anche nel fondo di questa fossa che ci siamo costruiti. Un richiamo che coinvolgendo l’essenza stessa di una umanità in perenne viaggio ed in perenne pericolo attenua nella comune responsabilizzazione la facile

tentazione di un giudizio o meglio di un pregiudizio moralistico, così lontano dalla sensibilità di Marco Martinelli eppure così diffuso e permeante una Società che vuole allontanare nel capro espiatorio le sue colpe, senza elaborarle. Il tema o problema del gioco è infatti un filo rosso che attraversa l’umanità, nella sua storia ma anche nella sua essenza, e per questo attraversa anche la letteratura, dal richiamo più agevole al racconto di Dostoevskij al Pirandello del “Fu Mattia Pascal”, nel segno comune della riflessione pascaliana, prossima credo alle suggestioni di Martinelli e delle Albe, della vita come continuo azzardo, come gioco in bilico tra vita e morte. Radici antichissime che però hanno prodotto e purtroppo producono in continuazione fronde tragicamente moderne che, come sappiamo, attraversano giornalmente la cronaca di questa nostra Italia. Qui, però, questo contadino romagnolo dalla parola diretta e pungente, ribalta ogni paradigma consueto rifiutandosi di essere non solo una vittima sacrificale, dei benpensanti che alimentano in fondo quel circuito ben poco virtuoso, ma la vittima “tout court” per diventare non tanto giudice quanto narratore lucido delle nostre responsabilità. Responsabilità non solo come comunità, con uno stato che si fa lui stesso biscazziere (e qui la denuncia è diretta e senza appello) ma responsabilità di ciascuno di noi quando siamo posti di fronte alla scelta, alla scelta che possiamo nasconderci ma che non possiamo eludere. Lo avvolge l’oscurità, l’oscurità di un inferno dantesco trasfigurato in fossa abbandonata nella campagna su cui la galaverna persevera cattiva, e l’oscurità di un inconscio che ci risucchia, “poveri cretinetti” o “sfigati”. Da questa oscurità alla fine nasce il rifiuto, il rifiuto di quei ruoli senza alternativa per ripensare il nostro giudizio su di lui e su di noi. Come in altre sue prove, questa drammaturgia ideata a quattro mani da Marco Martinelli e Ermanna Montanari non giudica e invita a non giudicare e in questo nasconde e protegge una opportunità, una volontà e una possibilità di riscatto che non sono mai perdute soprattutto nell’approssimarsi della morte, la possibilità e l’opportunità di una scelta. Dell’opera lirica il regista Marco Martinelli conserva la bellissima musica di Cristian Carrara, che l’avvolge e trasforma quella fossa quasi in un caldo giaciglio, e introduce con breve e intenso tratto di scrittura la terra, quella terra nera e feconda della Romagna, trasformata in denaro dalle convenzioni borghesi, ma conservata come ultimo tesoro nelle tasche del giocatore sconfitto. In scena, solo ma in nostra partecipata e commossa compagnia, il bravo Alessandro Argnani con la sua voce aspra che asseconda un scrittura aspra, in perenne lotta contro la sua trasformazione animalesca per scacciare e trasfigurare le strane risate, quasi grugniti, che ne accompagnano l’entrata in scena e dunque per esorcizzare quel mostro interiore che lo divora e che tutto intorno a lui consuma. Travolto ma ancora lucido, paradossalmente lucido di fronte alla spirale di menzogne e tradimenti che lì, in quella fossa, lo ha condotto. Come detto l’ideazione è di Marco Martinelli, che cura la regia, e di Ermanna Montanari, che cura lo spazio scenico e i costumi. Luci e fonica sono di Fabio Ceroni, Enrico Isola e Luca Pagliano, l’allestimento scenico è a cura della sempre impeccabile squadra tecnica delle Albe. Una produzione del teatro delle Albe in collaborazione con l’associazione Olinda, vista negli spazi dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini ove ha esordito in prima nazionale lo scorso 30 Ottobre e ove resterà in cartellone fino all’8 novembre, molto apprezzata dal pubblico presente.

6 novembre 2015

7 novembre 2015

Slot Machine Francesca Ruina

“L’abisso c’ha fame, c’ha sempre fame”. L’abisso borbotta, tira giù, ride. E’ il luogo dell’Altro, di quella creatura informe e barbuta che se ne sta “là in basso”, risucchiando tutto come un vortice, un buco nero. E’ “una bocca sdentata che grida”. Ride l’abisso, ride nel buio della scena che apre lo spettacolo di Martinelli; ride prima che si possa vedere il corpo di colui che ha invaso, del burattino che muove. Subdolamente, si è impossessato di lui, giorno dopo giorno, senza nemmeno dargli il tempo di accorgersene. Lui, eccolo, si chiama Doriano - interpretato, o meglio, visceralmente incarnato dal bravissimo Alessandro Argnani. Per il mondo, però,

Doriano è solo un senza nome, uno sfigato che si è giocato tutto, persino l’amato trattore New Holland rosso fiammante, quello con cui arava i campi dei genitori, una terra buona e feconda. Quella terra, quella vita contadina, che Doriano non sopporta più, che contrasta con il luccichio sfavillante della vita moderna, delle serate in discoteca, dei soldi e delle belle donne. Quel mondo fatato in cui vorrebbe stare senza portarsi sempre dietro quella puzza di terra e di sudore che non riesce a coprire, che insozza tutto, anche i soldi. Quell’universo lindo e profumato che sogna di sterminare, alle grida “Doriano è impazzito!” - unico punto di tutto il monologo in cui compare il suo nome, associato alla pazzia di cui immaginariamente si autocondanna. E allora inizia la sua scommessa, una scommessa contro se stesso, l’attesa di una vittoria che non ha più importanza, perché non si gioca per vincere, ma per perdersi, per annullare il tempo e la memoria, per cancellare nomi e legami, per svuotarsi le tasche dalla terra. Come quando Doriano lancia l’ennesima sfida, cercando nei pantaloni il denaro da puntare ed estraendone solo un grumo di terriccio, un’origine, un passato, che gli cade lentamente dalle dita. Dalle corse dei cavalli, alla Tomba del Faraone, alle Slot. Nei giorni pari “Romagna mia”, in quelli dispari “Pin Up”. Non si sgarra, ci vogliono regole anche per perdersi, per dipingersi intorno un mondo alienato di cui essere il re, l’unico e solo - davvero solo - signore del proprio vuoto. Questo riflettono gli specchi in cui Doriano si guarda - due laterali e uno centrale, sopra l’abisso - si racconta, si vede visto e si parla parlato, tra musica e silenzi. Ologrammi di un involucro che incarna l’automaton della propria ripetizione, “come un cane che torna al suo vomito”, incessantemente. Una reiterazione ossessiva di quell’abisso, di quell’orrendo e al tempo stesso bellissimo abisso, creato da Doriano contro Doriano; una tomba da scavarsi a mani nude, giù, in quella terra rifiutata, dove tutto è cominciato e dove tutto, inevitabilmente, ritornerà. In questo lavoro - ideato insieme a Ermanna Montanari - Marco Martinelli spoglia la scena dal luccichio delle Slot che ci si aspetterebbe da uno spettacolo sul gioco d’azzardo. Lo spazio scenico è ridotto all’essenziale: qualche alberello, specchi e buio - il buio, materico, è l’elemento principale. E poi Doriano, soprattutto c’è Doriano. C’è la rabbia di Doriano, la paura, le bugie, la compulsività, la solitudine. C’è un uomo, sfigato e “cretinetti”, che Martinelli ci mostra come dallo spioncino di una porta, da una crepa, da una fessura sottile. Umano, troppo umano, Doriano potremmo essere noi, il nostro vicino di casa, una di quelle migliaia di persone che, silenziosamente, ogni giorno spariscono, inghiottite nelle sale da gioco, ennesimo regalo dello Stato all’alienazione contemporanea. Senza caricature né forzature, con un linguaggio chiaro e diretto, Martinelli riesce a mostrarci l’intimità del dolore di un uomo che scompare dietro un eterno gesto ripetuto. Senza soluzioni, senza moralismi, lo spoglia davanti a noi, nella sua nudità ferita senza sangue, nelle sue bugie, nelle sue paure, nelle sue compulsioni e convulsioni; nel suo doppio gioco di vittoria e di perdita, che si sovrappongono fino a sostituirsi, fino a diventare una la conferma dell’altra, rendendo Doriano vincitore del vuoto e perdente di sé. Fino a cancellarlo - lui, Doriano, il suo nome e la sua storia - trasformandolo in staticità marmorea, meccanica come un gesto ripetuto all’infinito, ghiacciata come i campi là fuori, ricoperti da uno spesso strato di brina che tutto si divora. E fa freddo - davvero freddo - in questa fossa.  

7 novembre 2015

La mia droga si chiama slot Giampiero Raganelli Ludopatia: neologismo sempre più diffuso che quasi sembra una contraddizione, come può il gioco essere associato a una patologia? Azzardopatia, gioco d’azzardo patologico: ormai una piaga sociale sempre più diffusa da quando le slot machine sono diventate accessibili fin nel baretto sotto casa, nel ritrovo di quartiere tra i pensionati che bevono vino. La dipendenza da slot, videopoker e scommesse è oggetto di questo lavoro del Teatro delle Albe, Slot Machine, che fronteggia così un tema di impegno sociale di grande attualità. Protagonista sul palco il bravo Alessandro Argnani, che dà voce a una delle tante vittime di questa emergenza sociale. Disteso su una panca che può apparire come il lettino dello psicanalista – con il pubblico chiamato ad assumere questo ruolo, spesso interpellato dal personaggio che si rivolge agli spettatori, pubblico che entra nella scena, che si vede sul palco grazie a degli specchi – oppure come una lastra che funge da tomba per un uomo che è sprofondato nel baratro. Il protagonista si guarderà e confesserà allo specchio e, tramite questo, al pubblico. Un fesso, uno sfigato si definisce. Una vittima di una società dove si celano non poche insidie, in forme e dall’aspetto suadenti, in simboletti simpatici, accattivanti e colorati che devono allinearsi tutti uguali. Un ometto curvo, piegato dalla sua esperienza di dipendenza e schiavitù. Pochi dettagli del suo racconto ne delineano la biografia per sommi capi. Si capisce che è un uomo di campagna da come magnifica il suo scintillante trattore New Holland, di cui va orgoglioso, la marca più à la page di macchinari agricoli. E l’abisso in cui è precipitato è anche un abisso morale. Il personaggio agisce in stato di necessità, per procurarsi la sua dose giornaliera di gioco d’azzardo. Non esitando a imbrogliare i suoi stessi, ingenui, vecchi, simulando un guasto del prezioso trattore e facendosi dare da loro i soldi per poterlo riparare. Il trattore che si rompe, seppure per inganno, segna una rottura simbolica della vita di quest’uomo, del suo attaccamento alla terra che costituisce la sua ragione di vivere. Quella terra che spargerà, come fosse cenere, all’inizio e alla fine dello spettacolo, sugli alberelli con un gesto teatrale che rappresenta l’anelato ritorno alla natura, alla sua vita di prima. È una lotta iniqua quella contro il gioco d’azzardo e chi detiene il business, perché dietro c’è il monopolio di stato, con le enormi entrate che genera. È in fondo una tassa, un prelievo al cittadino, come osserva il nostro personaggio. E come sarebbe diverso se lo stato riuscisse a far percepire le tasse come un gioco d’azzardo! Quale migliore lotta contro l’evasione! Ci sono grandi affinità tra l’attore e il giocatore d’azzardo che deve simulare, ingannare le persone. Solo se recita bene può spuntarla e andare avanti. Una recitazione intensa, drammatica quella di Argnani, mai compiaciuta neanche alla chiamata al pubblico, che restituisce con grande efficacia stati di nevrosi e schizofrenia: l’autoanalisi del personaggio. Una risata si ode nel buio, all’inizio dello spettacolo. La scena è estremamente spoglia, la panca di cui sopra, dei pannelli stretti e alti, specchi coperti da teli – non ci si può vedere per ora, e delle foreste di abetini –alberelli di Natale senza addobbi. Argnani è spesso illuminato da un occhio di bue a forma di striscia, una riga luminosa che squarcia l’oscurità. E alla fine appariranno dei servi di scena a portare e condurre il protagonista. Mai illuminati, rimangono nell’oscurità. Sono i poteri oscuri che ci manovrano, che albergano in una società governata da condizionamenti, da bisogni imposti, in cui è difficile ormai parlare di libero arbitrio. E alla fine dello spettacolo torna il buio, prolungato. L’oblio. Martinelli confeziona così un lavoro teatrale dominato dall’angoscia, dove non c’è margine di speranza.  

12 novembre 2015

Le Slot Machine delle Albe. Della caduta nel niente Francesco Audisio

Secondo Gioacchino Lavanco, docente all’Università di Palermo, uno dei più illustri studiosi del gioco in relazione alle sue derivazioni psicologiche (e patologiche), il giocatore d’azzardo rappresenta per sé e per la società un mondo altro, parallelo, contrapposto ad un mondo razionale e calcolatore. Un mondo diverso, che ha le sue regole e le sue certezze, che pure si basano sull’incertezza, in cui il vuoto cosmico che la persona vive nella sua insoddisfacente quotidianità sociale trova finalmente una collocazione, un senso, un modo per essere riempito. Ecco quindi che il protagonista di “Slot Machine”, nuovo lavoro del Teatro delle Albe, presentato nel suggestivo (e quanto mai appropriato!) Spazio Olinda di Milano, sceglie - più o meno volontariamente - di annullare tutto ciò che lo circonda

(affetti, lavoro, possibilità) sull’altare del niente, come spiega lo stesso Marco Martinelli, annegando nell’azzardo e, in questa progressiva dipendenza, cercando l'illusione di uno spazio libero da scelte e imposizioni: un antro in cui poter liberamente esprimere sé stesso. E’ stupefacente come, allora, nella scrittura drammaturgica di Martinelli e Montanari, si possa snodare un percorso che vede il protagonista Doriano prima prendere le misure (quelle macchinette con le immagini dei faraoni: “Io non so cosa siano i faraoni… ma certamente sono importanti”), e poi organizzare una vita attorno ad appuntamenti fissi col rischio: i giorni pari “Romagna Mia”, quelli dispari “Pin Up”. Il gioco diventa così uno spazio magico che protegge dall’esterno, un’autodistruzione in solitaria che però, in quanto gioco, potrebbe portare con sé anche il miracolo della convivenza sociale: inferno e paradiso, tutto insieme. "Il gioco può manifestarsi come la voragine dell’autodistruzione solitaria, oppure, al contrario, come il senso più alto e bello dello stare insieme - scrive ancora Martinelli - Il bivio è lì, davanti ai nostri occhi incerti e titubanti di pellegrini, e non vi è nessuna guida sicura che possa suggerirci la strada". E infatti, delle giornate di Doriano scomparirà il senso, che non si trova più; e scompare la vita. Lo spettacolo delle Albe, che si fa denuncia anche verso il ruolo dello Stato, è tanto semplice quanto efficace. Non c’è nulla sulla scena, solo un altare sacrificale, a cui il protagonista torna di continuo, e poi degli specchi in cui rivedere sé e ricordi sbiaditi di quello che, nella speranza di una nuova vita e di un nuovo ruolo da giocarvi, si sta perdendo: in questo caso la terra, quanto di più concreto ci sia, con quelle origini familiari di contadini "che non hanno capito niente". Il linguaggio è semplice, diretto, pulito. E dunque anche crudele. Forse un po’ inutile risulta invece la polemica ricchi/poveri che interrompe la narrazione della caduta, e che probabilmente non serve per comprendere a fondo la tragedia, come un po’ troppo didascalica appare la seconda parte dello spettacolo, con la musica thriller del finale. Ma puntuale e feroce è Alessandro Argnani, narratore di sé stesso e di tutti, lo “sfigato” che ci rappresenta, che cerca d’essere protagonista di fronte allo specchio seppur sta cadendo nel vuoto, nel buio. Finirà a perdere il suo New Holland rosso, il trattore preferito, ma anche i genitori, gli affetti, per costruire una ricchezza immaginaria fatta di fantasie, di altri sé e identità che probabilmente avrebbero tanto da dire. Finirà così, Doriano, in una fossa, fredda, coperto da un lenzuolo verde, quel verde della terra dei genitori. O del tavolo da gioco.  

2 dicembre 2015 Il giocatore allo specchio del Teatro delle Albe

E’ sempre molto difficile toccare un tema sociale importante - tossicodipendenza, prostituzione, ludopatia in questo caso - con un linguaggio come quello teatrale, senza farsi contaminare dalla patina di retorica che il dibattito istituzionale spesso deposita su questi argomenti. Slot Machine - drammaturgia E. Montanari e M. Martinelli, riesce in questo intento difficile: può essere interessante aprire il meccanismo per capire in parte come. Nata anche in seno alla splendida rassegna milanese “Da vicino nessuno è normale” che ne ha visto il debutto, lo spettacolo racconta con grande profondità la parabola di Doriano: contadino, persona semplice, legato a un elemento come la terra, si distanzia già, grazie a queste sue caratteristiche, dall’intrigante mondo di lustrini e smoking che è ancora, nell’immaginario collettivo, quello del gioco d’azzardo. Notare questo, senza cadere nella nozione di “personaggio”, ha un valore nella misura in cui la parabola acquista significato grazie al fatto che il punto di vista viene tenuto rigorosamente fermo su Doriano. Le notizie arrivano dall’esterno (il postino, le telefonate dai creditori): noi le sappiamo da lui, e con lui restiamo fermi dentro la voragine interiore in cui ormai è scivolato.

A questo è funzionale la qualità della recitazione (la cantilena proposta riesce nel suo intento straniante: il racconto rimane, comunque, in parte letteratura). Anche la notevole cura della scena contribuisce notevolmente al lavoro: la torcia che illumina parti di corpo, spezzettando la realtà; lo specchio che invece la raddoppia e unisce l’utile al poetico. Una soggettiva che i dettagli rendono estremamente profonda (in questo forse più che nel tema, il lavoro richiama Dostoevskij); un racconto lucidissimo eppure nello stesso tempo sprofondato dentro una visione parziale e malata (Che altro potevo fare? dice Doriano, all’apice della distruzione). La profondità dei dettagli mostra il lavoro di ricerca fatto sulla ludopatia: la verità delle testimonianze da cui lo spettacolo trae linfa. Maria Renda  

anno XXIX 1/2016

17 febbraio 2016

Via crucis per Slot Machine di Massimo Marino

Ancora dal laboratorio di Ravenna Teatro. Nella stagione di teatro contemporaneo al Rasi, si può vedere tutta la ricchezza di produzioni del Teatro delle Albe, ma anche guardare quanto la presenza della compagnia diretta da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari sia stata in grado di suscitare nella città. È andata in scena, nei giorni scorsi, una novità, Slot Machine con Alessandro Argnani, testo di Martinelli, ideazione di Martinelli e Montanari, uno squarcio sul gioco d’azzardo.

In un fosso Slot Machine lo avevamo già visto a Spoleto nel settembre del 2014 in forma di opera lirica sperimentale con le belle musiche di Cristian Carrara. In quell’occasione si chiamava alla Dostoevskij Il giocatore e vedeva in più la presenza di cantanti lirici, ma la struttura era simile. Un uomo racconta il suo sprofondamento nel gioco d’azzardo, prima le corse dei cavalli, poi le slot, le macchinette, sempre di più. Disteso su un letto di legno, con i piedi scalzi, la barba, sembra un Cristo alla sua via crucis. Confessa una passione che lo ha avvolto, lo ha rapinato di se stesso, fino a fargli dimenticare il lavoro, la famiglia, fino a portarlo a mentire, a indebitarsi, a precipitare in fondo, sempre più in fondo, prima con le finanziarie, le bugie ai genitori per procurarsi soldi, poi a finire nelle mani degli strozzini. Mentre racconta, scorgiamo intorno a quel giaciglio da obitorio, nel buio che avvolge la scena, alberelli, forse abeti di Natale, piccoli, una corona di natura, di campagna, di infanzia al suo viaggio nell’oscurità. Disteso, ne scorgiamo il volto grazie a uno specchio. Quando si alza, scopre altri specchi, che ne rimandano l’immagine raddoppiata, circonfusa di disperazione, di solitudine, di distanza dagli altri, di rancore, tutto quello che forse ha causato la sua passione per il gioco, quel ripiegamento nell’altro se stesso, in quel sosia dal volto contratto, vestito di tutto punto e con i piedi scalzi come un morto. O forse è stato il demone del gioco, lo sguardo sull’abisso, a risucchiarlo lontano dagli altri, dalla vita, una vita qualsiasi, banale, in campagna, con genitori contadini diventati benestanti, tanto da permettersi un costosissimo trattore che lui, naturalmente, ha prima impegnato e poi venduto. Non sappiamo quale dei due doppi abbia guidato la caduta: il furore per il gioco o la solitudine, la noia, la sottile quotidiana disperazione in cerca di evasioni… La lingua è un italiano mal masticato con qualche ormai pallido sfondo dialettale, a indicare una trasformazione antropologica, dalla campagna antica, dall’analfabetismo dei genitori, a un presente di danaro facile, di sradicamento e di derive, tra le quali quella del gioco, propiziata da uno stato che cinicamente guadagna sulle debolezze, un navigare senza rotta fino a pericolosamente galleggiare insidiati dai vortici. Alessandro Argani mostra i risultati della scuola Albe: incalzante, incisivo, disperato, ma soprattutto sperso, disegna un uomo che si ritrova una mattina, nel ghiaccio umido della galaverna, in un fosso, buttato come un sacco da due sicari degli strozzini, senza quasi rendersi conto perché. Un morto che parla, cercandosi allo specchio, con un simbolico panno verde simile a sudario in mano. Un nuovo tipo di uomo senza qualità del nostro tempo, che emerge dal buio in quello spazio affascinante e di stretto contatto che è il Vulkano, fuori Ravenna, luogo dove la stagione del teatro Rasi si allunga per spettacoli che richiedono un rapporto intimo, quasi di meditazione, tra spettatori e attori. La musica rimane quella incisiva, slittante, fluida di Cristian Carrara, senza le arie per i cantanti, nel bello spazio scenico misterioso, specchio della frantumazione dell’io del personaggio, che all’inizio appare per bagliori e lacerti di volto, membra, braccia, corpo nella luce di una pila, tra borborigmi, risatine, schiocchi, sinistre sonorità, a disegnare una vita sprofondata, sfondata. La regia è di Marco Martinelli.

21 marzo 2016

“Slot Machine”, il dramma didattico delle Albe sul gioco d’azzardo MATTEO BRIGHENTI | In Italia ci sono ufficialmente 414.158 slot machine, circa una ogni 144 abitanti, neonati compresi. Il più vasto mercato in Europa, e uno dei più grandi al mondo, ha prodotto un milione e trecentomila “giocatori problematici” che si svegliano la mattina e vanno a dormire la sera con un unico pensiero, fisso in testa: giocare e giocarsi tutto. Slot Machine di Marco Martinelli è la discesa nel ‘sottosuolo’ di uno di loro, Doriano, figlio di contadini, che per togliersi di dosso il puzzo della terra – le sue radici – sceglie prima l’azzardo delle scommesse ai cavalli e poi quello delle macchine mangiasoldi. Un vortice, una spirale, un gorgo di frustrazione ed esaltazione che Alessandro Argnani, da solo in scena, restituisce con quieta e insieme violenta arrendevolezza. Un labirinto vorticoso e terrorizzante che è l’opposto della rupe che innalza, del monte Olimpo la cui ascesa conduce alla gloria: qui la redenzione non è da meno della fortuna, una povera illusione. Lo spettacolo, ideato da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, prodotto dal Teatro delle Albe – Ravenna Teatro in collaborazione con Olinda, è un soliloquio dalla fossa, come recita il sottotitolo. Quella terra che Doriano

aveva sempre rifuggito ora, per contrappasso della sua scelta di vita, è tutta intorno a lui. Slot Machine comincia con un lamento nel buio, un oscuro grammelot che mangia se stesso, il fiato e i suoni, accompagnato da una musica tra Twin Peaks e un film di Sorrentino. Una pila illumina un volto che ride isterico e poi due piedi scalzi che scappano frenetici: il giocatore di Argnani cerca una via di fuga dagli strozzini, un’allucinazione della mente, com’è il gioco, com’è l’intero spazio scenico. Arriva in proscenio, a sinistra, dove il passo è fermato da un piccolo bosco di alberi bassi, di plastica, abeti di un Natale di morte su cui l’attore rovescia della terra che ha in tasca. Il teatro ha la forza di mostrare, con la lingua dei segni della rappresentazione, il prima nel dopo e il fuori nel dentro: ciò che è avvenuto torna a succedere nel momento in cui lo si ripete, lui ricopre di terra gli alberi e, per tramite loro, seppellisce anche se stesso. Altrettanti alberi si accendono in altri tre punti del palcoscenico a tracciare gli assi cardinali della bussola della ragione persa da Doriano, una finta foresta di Dunsinane che muove contro questo Macbeth di provincia accecato dal potere del gioco. In mezzo, su un tavolo da obitorio, Argnani, in gessato e camicia azzurra, è deposto come il Cristo morto di Mantegna. Si dibatte, si divincola tra gli spasimi delle voci che lo inseguono, gli altri, la società, che gli dà dello “sfigato”, e l’Altro, il gioco, per cui è soltanto un “cretinetti”. Sopra di lui, in fondo, uno specchio deformante come quelli del luna park lo mette di fronte a come lo hanno ridotto le macchinette, un uomo che ha perso ogni barlume di umanità. La morte rivela ciò che la vita ci ha fatto diventare. Un’immagine che Doriano non vuole vedere né può accettare: meglio, molto meglio il viso pulito che rimandano le slot machine, cioè due grandi specchi ai lati davanti al tavolo-bara con un panno verde per sudario. Argnani li usa per raccontare l’incontro con le macchinette. Diventano presto l’unico mondo possibile, abitato da “io basta”, l’incanto di un riflesso di sé nell’antico Egitto con La Tomba del Faraone, sulle spiagge della Romagna con Romagna Mia, tra le donne che ha perduto con Pin Up. Basta premere un bottone, tanto l’importante non è vincere, è giocare. Il tema dello specchio e della prigionia del doppio, da cui non scappi perché l’Altro sei tu e di quello scontro inutile hai però bisogno per vivere, sull’esempio de I Duellanti di Conrad, è sottolineato e

reso sguardo vivo e non solo mentale dal disegno luci. L’illuminazione è quasi sempre di taglio, come se Argnani si trovasse ovunque in bilico, al confine con il buio: parlare significa per lui portare alla luce (delle macchinette) l’esistente facendolo uscire dalle ombre di ciò che sa e soffre, mentre tutto il resto è solamente sfondo, avanzo di oscurità. “Martinelli non ci consegna un giocatore – scrive Marco Dotti nella postfazione al testo di Slot Machine pubblicato da Luca Sossella editore – ci consegna a lui. E lui cosa fa? Non ci giudica, non ci parla, non ci vede. Ci saluta e se ne va, nella fossa”. Lo spettacolo, infatti, è una radiografia simbolica dei sintomi della ludopatia, dal bisogno di aumentare sempre più la posta per eccitarsi, al tornare sui propri passi per rifarsi, inseguendo le sconfitte, e ancora al mentire e commettere azioni illecite per trovare i soldi da giocare, arrivando a mettere in pericolo la famiglia, gli affetti, gli amici, il lavoro, e perfino la vita. Un dramma didattico alla Brecht per cui quello che sembra inevitabile va comunque analizzato e messo in discussione. Il disegno didascalico complessivo stempera così nella profondità dei suoi obiettivi il girare a volte a vuoto di Alessandro Argnani, come i rulli delle slot, e il suo non affacciarsi mai compiutamente, ‘attraverso’ gli specchi, dentro la claustrofobia di una mente ossessiva. In definitiva, si tratta di uno spettacolo del dolore sostenibile, non punta a indignare, quanto a dimostrare con l’esempio negativo di Doriano che il gioco d’azzardo è una malattia (sociale), ma d’altra parte nessuno è favorevole alle macchinette, eccetto la minoranza di chi ci lucra o ne è ammalato. Slot Machine scommette allora sul convincere chi è già convinto e così vince, vince sempre. Tale e quale a La Tomba del Faraone, Romagna Mia o Pin Up.

15 aprile 2016 Una vita a puntate. Il giocatore del Teatro delle Albe di Mariangela Milone

Niente da fare: la musica è migliore quando imita il silenzio. Non il silenzio semplice, quello che tutti immaginiamo, ma l’esperienza del silenzio vero, fatto di rumori poderosi, melodie intrise di emotività e note che ricalcano pedissequamente l’indicibile della nostra presenza in uno spazio. In una parola, il sentimento. Oppure la sua totale assenza. Slot Machine. Soliloquio dalla fossa inizia con un rumore strisciante che s’insinua in uno spazio buio, ancora spento. Il suono di una voce ventriloquiale arriva insieme al fascio luminoso di una torcia elettrica: ai suoni si mescolano baluginii su superfici riflettenti che rimandano indietro la luce, ne spezzano il raggio. La luminosità non è funzionale, non mostra niente se non la fonte stessa dalla quale proviene: il barbaglio bianco della torcia si manifesta a tratti sugli specchi, occhio che brancola nel vuoto e si rimbalza addosso. Quando un chiarore in grado di mostrare veramente qualcosa appare, cade come un tramonto dorato su dei minuscoli alberelli in miniatura, posizionati in quattro punti della scena come un recinto apparentemente protettivo. È come se lo spettacolo iniziasse quando lo spettatore, per la prima volta, distoglie lo sguardo, andando a zonzo al di là della scatola riflettente costruita sul palco. Qui abita un personaggio senza volto che, ripetitivamente, riesce a donarci un’immagine che coincide col vuoto. Vuoto per chi? Non di certo per sé. La sua vocetta infantile ha la perentorietà di chi vuole stabilire delle regole ma, non potendolo fare sul serio, lo fa per gioco,

in nome, anzi, di un gioco incomprensibile per quei non-giocatori estranei alla faccenda. Lo spazio scenico elaborato da Ermanna Montanari sembra suggerire latentemente come, intorno a lui, vi siano sempre architetture urbane e sociali pronte ad assicurargli un obnubilante soggiorno: panorami simili in tutto alla quotidianità rifuggita, eppure diversi da quella quanto basta per alimentare un’illusione di spostamento. Questo giocatore non cerca emozioni né rivincite: si sente diverso, quasi un santo in ritiro nella sua cella, il solo e l’unico a percepire un qualche Mistero, del quale però non ha visioni. Di qui, forse, lo strabismo con cui si chiede d’osservare il caso: da una parte, quest’uomo è un geroglifico, realtà oscura a noi estranea, latente nell’ombra, ai margini delle nostre vite; dall’altro, la sua condizione somiglia molto alla nostra. Per tutto lo spettacolo le immagini hanno l’unico scopo di moltiplicarsi senza mai affascinarci ma evocando la vita che manca: vengono in mente, invisibili agli occhi, gli specchi brulicanti delle Folies Bergère cha fanno da sfondo all’isolamento dei protagonisti in primo piano nei quadri di Manet; le attese immerse nel colore dei quadri di Hopper, dove le figure sono sedute di profilo per affondare lo sguardo altrove. Ma in scena l’unico altrove è rappresentato dalla terra tradita e svenduta su cui lo sguardo del personaggio e quello del pubblico si accavallano e distorcono reciprocamente, l’uno conquistato dalle sfumature dorate, l’altro mai rassegnato alla grettezza di un pensiero disumano al punto di tradire senza vergogna parenti e amici. Nello spettatore la lacerazione continua fino e oltre il momento degli applausi, quando il volto dell’attore (Alessandro Argnani), finalmente in luce, rivela un’umiltà disarmante e un sorriso onesto che colgono di sorpresa e spiazzano, per qualche momento, quelle persone del pubblico ancora coinvolte nella difficile impresa di capire che no, non era noia quella avvertita in certi passaggi, e che invece, si, era reale disturbo quello che, in altri momenti, gli ha fatto allontanare lo sguardo in cerca di un dialogo con qualcosa che non fosse riflesso in uno specchio. L’applauso arriva scrosciante quasi da tutte le parti. Quelli che, dubbiosi, non hanno applaudito in sala, forse lo stanno facendo adesso, rivedendosi.

8 maggio 2016 Slot Machine : un viaggio negli abissi del gioco d'azzardo di Letizia Bernazza “Non è importante vincere. È importante giocare. Solo quello conta appena entro nel bar”.

Ruota intorno a questa frase emblematica, Slot Machine del Teatro delle Albe presentato all'Angelo Mai di Roma dal 27 al 29 aprile scorso. Un lavoro intenso che non lascia scampo allo spettatore, chiamato a seguire lo sprofondamento di Doriano - unico protagonista in scena, interpretato dal bravissimo Alessandro Argnani - nella sua caduta vertiginosa tra le sabbie mobili del gioco d'azzardo. E, infatti, da subito è il buio ad accogliere i partecipanti. L'assenza pressoché totale di luce, li accompagna nel tragico viaggio - senza via d'uscita - della vittima, assillata dal gioco e dal ricatto dei debiti. Già perché quell'uomo solo, figlio di contadini, che invece di sporcarsi le mani di terra come i suoi genitori, ha come unico obiettivo di

annullarsi nel meccanismo perverso delle slot, annegherà inesorabilmente nell'autodistruzione. Un annichilamento di cui sono complici anche la Società e lo Stato che, in nome del profitto, invogliano la ludopatia (meglio individuata come G.A.P., gioco di azzardo patologico) attraverso la liberalizzazione stessa del gioco d'azzardo, fonte di malattia per milioni di italiani di ogni età, estrazione sociale e sesso, sebbene ad essere colpiti maggiormente siano precari, pensionati e disoccupati (!).

La dipendenza dalle “macchinette” porterà Doriano a divenire un brandello di essere umano senza un passato e senza un presente. Il suo passato e le sue tradizioni familiari, espressione dell'atavica e autentica comunità di cui fa parte, vengono infatti cancellate dalla smania incontrollata per assurde scommesse che ogni volta fa con se stesso e con il falso promesso luccichìo dello scorrere impetuoso di simboli “ipocriti” che si succedono implacabili sugli schermi delle slot nei giorni pari a “Romagna mia” e nei giorni dispari al “Pin up” e, ancor prima, alle poste sui cavalli o alle puntate fatte sulla bizzarra Tomba del Faraone. La sua iniziazione alle scommesse avviene ad opera del fantomatico Eraldo, uno che se ne intendeva, e che lo aveva introdotto in un mondo diverso: su quei maledetti display non scorrevano ciliegie e pesche. Doriano le conosceva fin troppo bene. I suoi genitori le curavano, le raccoglievano. Forse lui se ne era anche cibato. Ma rotolavano giù gli antichi egizi. Vuoi mettere la novità? Le slot non emanano l'odore della terra o il lezzo del sudore di chi rientra a casa dopo giornate passate nei campi e in più, se c'è il guadagno facile, perché non approfittarne? A costo di svendere tutto: se stessi e il proprio Universo, persino l'amato New Holland, il trattore rosso fiammante dei suoi genitori. Un oggetto-simbolo liquidato per poco, così come ad essere messe in saldo sono la Tradizione e la Memoria. Bagagli importanti e imprescindibili dal nostro essere persone.

Radici da non recidere mai se vogliamo continuare a essere presenti nel Mondo. Altrimenti si viene spogliati. Diveniamo morti viventi. Costretti a sopravvivere, al pari di Doriano, su quelle tavole fredde simili a un letto asettico di ospedale dove è la solitudine angosciosa a schernirsi di noi. E, allora, non abbiamo nessun dialogo con il resto dell'umanità. Restiamo nell'angusto e solipsistico spazio delle non-relazioni e della non-comunicazione che ci trasforma in esseri inermi, privati di confronti intersoggettivi e ridotti, per comoda convenienza sociale, a esseri autoreferenziali come dimostrano nella messinscena il gioco di specchi che circondano il personaggio principale e che rappresentano la sua distanza “condizionata” rispetto all'Altro da Sé. Le ciniche risate iniziali, quasi una difesa alla disperazione del protagonista, accentuano per l'intera durata dello spettacolo la progressiva emarginazione di Doriano cui fanno da contrappunto le musiche poetiche di Cristian Carrara in armonia con l'essenzialità dell'impianto scenico e dei costumi di Ermanna Montanari. Il principale pregio di Slot Machine : Marco Martinelli ed Ermanna Montanari sono riusciti a stimolare la riflessione degli spettatori su un tema di grande attualità (ricordiamo che Slot Machine era già stato presentato a Spoleto nel 2014 come opera lirica sperimentale e si intitolava, prendendo spunto dall'ancora attuale romanzo di Dostoievskij, Il giocatore ), consegnandoci un lavoro che con la sua poesia e con la forza del linguaggio “vero” del Teatro è in grado di insegnarci che la bellezza dei nostri cuori non va mai svenduta e che soltanto noi possiamo decidere “… da chi e da che cosa lasciarci afferrare”.

 7  marzo  2017  

di  Alessandro  Carraro  

NEL  BUIO  PER  FAR  LUCE.  SLOT  MACHINE  DEL  TEATRO  DELLE  ALBE  

Uno  “sfigato”.  Si  presenta  così  Doriano,  protagonista  di  Slot  Machine,  spettacolo  del  Teatro  delle  Albe  visto  il  25  febbraio  al  teatro  Alice  Zeppilli  di  Pieve  di  Cento.  Risate  isteriche  e  spasmi  convulsi  aprono  il  sipario,  catapultando  il  pubblico  in  un  luogo  indefinito  e  oscuro  che  poi  si  scoprirà  essere  una  fossa.  Doriano  sta  aspettando  il  suo  assassino  che  tornerà  a  «finire  il  lavoro»,  e  mentre  aspetta  di  morire  racconta  la  sua  storia  con  la  sincerità  disarmante  di  chi  non  ha  più  tempo  per  mentire.  Ha  iniziato  con  le  corse  dei  cavalli  e  poi  è  passato  alle  Slot,  percorrendo  in  picchiata  le  tappe  di  una  narrazione  già  scritta:  chiede  soldi  ad  amici  e  parenti,  inganna  e  deruba  i  familiari  infine  quando  ormai  è  rimasto  solo,  si  indebita  sempre  di  più  per  alimentare  quel  “doppio”  insaziabile  che,  dentro  di  lui,  si  ciba  di  azzardo.  Il  testo  di  Marco  Martinelli  (anche  regista  dello  spettacolo)  è  basato  su  racconti  reali  di  giocatori  ed  ex-­‐giocatori,  e  mantiene  la  spietatezza  di  un’autoconfessione,  priva  di  moralismo  ma  al  sapore  di  avvertimento.  Il  monologo  non  sembra  voler  tratteggiare  il  profilo  del  “giocatore  tipo”,  Doriano  è  come  noi,  soltanto  ci  è  caduto  dentro  (..al  gioco  d’azzardo?  Alla  fossa?).  Alessandro  Argnani,  unico  attore,  è  intenso  e  convince,  si  scuote  in  spasmi,  poi  si  rassegna  e  soprattutto  fa  i  conti  con  se  stesso,  “specchiandosi”  in  una  coreografia  che  di  specchi,  anche  deformanti,  fa  un  uso  non  gratuito  ma  simbolico.  Le  luci  sono  espressive  e  circoscritte,  seguono  il  protagonista  nel  suo  giro  a  vuoto,  facendo  emergere  dalla  dominante  oscurità  gli  effetti  calcolati  delle  superfici  riflettenti.  Quando  Doriano  è  sdraiato  sul  fondo  della  fossa,  grazie  agli  specchi  lo  vediamo  sdoppiato,  dall’alto  e  dal  fianco,  e  il  suo  dimenarsi  viene  amplificato:  traspare  chiaramente  il  senso  di  trovarsi  imprigionati  senza  via  d’uscita  in  una  gabbia  mentale  ancora  prima  che  reale.  La  musica  di  Cristian  Carrara,  nata  come  Opera  contemporanea  e  registrata  dall’orchestra  del  Teatro  Lirico  di  Spoleto  nel  2014,  svolge  una  parte  importante  nella  suggestione  complessiva  dello  spettacolo,  accompagnando  sempre  l’azione  nei  suoi  apici  drammatici  come  nei  momenti  introspettivi.  Dopo  essersi  occupati  di  morti  sul  lavoro  (Il  volo  –  La  ballata  dei  picchettini),  di  violenza  sulle  donne  (A  te  come  te),  e  di  immigrazione  (Rumore  di  acque),  il  Teatro  delle  Albe  non  smentisce  la  sua  propensione  a  parlare  di  questioni  etiche.  L’atteggiamento  è  quello  della  presentazione  dei  fatti,  il  giudizio  non  è  vincolato  ma,  guidato  dal  mezzo  teatrale,  tende  a  prendere  la  direzione  desiderata  dagli  autori.  In  questo  caso  accade  che  le  suggestioni  simboliche  dell’arte  riescano  ad  essere  più  efficaci  di  tanti  discorsi  sterili,  anche  della  politica,  nel  trattare  un  tema  caldo  come  la  dipendenza  da  gioco  d’azzardo.