Sistema Museale del Lago di Bolsena Museo Civico ... · La Regione Lazio sostiene, con la legge...

140
a cura di Anna Laura Il Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” di Ischia di Castro Itinerario storico 2008 Quaderni 9 Sistema Museale del Lago di Bolsena

Transcript of Sistema Museale del Lago di Bolsena Museo Civico ... · La Regione Lazio sostiene, con la legge...

a cura diAnna Laura

Il MuseoCivico

Archeologico“Pietro

e Turiddo Lotti”di Ischia di Castro

Itinerario storico

2008

Quaderni9

9

Il Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” di Ischia di Castro

Quaderni

Sistema Museale del Lago di Bolsena

Comune di Ischia di CastroProvincia di ViterboRegione LazioUnione Europea

ISBN: 978-88-95066-08-0

Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti”

Bolsena 2008

Quaderni9

Città di Bolsena

Editrice

Sistema Museale del Lago di Bolsena

Città di Bolsena

Editrice

a cura diAnna Laura

con i contributi diGiuditta Gatteschi

Fabio RossiPaola Toiati

Maria Vittoria PateraAnna Laura

Il Museo Civico Archeologico“Pietro e Turiddo Lotti”

di Ischia di CastroItinerario storico

immagine di copertina

Eremo di Poggio Conte, Figura di Apostolo (Anonimo)

Sistema Museale del Lago di Bolsena (Provincia di Viterbo)Comuni di Acquapendente, Bagnoregio, Bolsena, Farnese, Gradoli, Grotte di Castro, Ischia di Castro,Latera, Montefiascone, Valentanowww.sistemimuseilazio.it/pag/sistema_bolsena.htmlwww.simulabo.it

Comune capofila Comune di BolsenaL.go San G. B. De la Salle, 301023 Bolsena (VT)Tel. 0761 795317 Fax 0761 795555e-mail: [email protected]

Quaderno realizzato dalMuseo civico archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” Piazza Cavalieri Vittorio Veneto01010 -I- Ischia di Castro (VT)tel. [email protected]@libero.it

ISBN: 978-88-95066-08-0

PREFAZIONI ALLA COLLANA DEI “QUADERNI”

“Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. E’ aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto”.

E’ con la definizione di museo fornita dall’ICOM (International Council of Museums) che desidero introdurre, quale auspicio di buon lavoro al servizio della collettività, la collana dei Quaderni del Sistema museale del lago di Bolsena, progettata dai direttori dei musei del comprensorio lacustre nell’ambito di un lavoro di promozione culturale di ampio respiro.

La Regione Lazio sostiene, con la legge 42/97 “Norme in materia di beni e servizi cul-turali del Lazio”, la cooperazione tra gli enti locali per la creazione di sistemi museali territoriali, ovvero per l’integrazione fra diverse realtà espositive di un’area omogenea, ai fini della qualificazione e dello sviluppo culturale dell’area medesima, della salva-guardia e della valorizzazione del suo patrimonio culturale e ambientale.

Sulla ricchezza e varietà dei beni presenti sul territorio regionale si sono spese molte parole, tutte vere, benché talvolta eccessivamente risonanti. Non indulgerò su questo aspetto, poiché l’Alto Viterbese, per dovizia e articolazione, si propone senza necessità di ulteriore sostegno.

Desidero sottolineare, invece, il “valore aggiunto” conferito al territorio dalla cura costante di operatori culturali attenti, di cittadini consapevoli, di amministratori locali disponibili. E a tal riguardo si deve dire che il Sistema museale del lago di Bolsena si pone in posizione privilegiata per la capacità dimostrata nel formulare proposte in gra-do di assorbire linee di sostegno straordinario, utilizzabili esclusivamente a fronte di progetti sofisticati, di realizzazioni accurate, di rigoroso rispetto dei tempi di attuazione preventivati.

La collana dei Quaderni del Sistema museale del lago di Bolsena si inserisce in un programma di lavoro scientifico coerente sia con i compiti educativi e didattici dei singoli musei sia con le esigenze promozionali proprie del Sistema. L’iniziativa è sostenuta con le risorse dell’Accordo di Programma Quadro sui “Beni Culturali” e prevede anche il restauro dello storico Palazzo Monaldeschi di Bolsena, da adibire a sede del Sistema.

giulia rodano

Assessore Regionale alla Cultura Spettacolo e Sport

III

Gli scopi posti a fondamento di un museo concepito in termini moderni sono moltepli-ci. Tra i più importanti si possono considerare tanto il recupero e la conservazione della memoria, per giungere a forme di tutela attiva del patrimonio culturale, quanto lo studio dei documenti e la ricerca sul territorio, per ampliare la base conoscitiva indispensabile all’informazione e, quindi, alla formazione della società in senso lato, ovviamente utiliz-zando livelli di lettura differenziati che, grazie alle potenzialità insite negli attuali mezzi di divulgazione, possono essere resi comprensibili e disponibili su larga scala.

Da questo complesso (ma non complicato) insieme di attività discende uno dei compi-ti più importanti: la promozione culturale della collettività, con particolare riferimento all’ambito scolastico che, attraverso il contributo offerto dal museo, può giovarsi di una nuova forma di apprendimento, risultante dall’integrazione dei programmi ministeriali con tutti quei prodotti formativi che vengono dal museo elaborati, filtrati e decodificati, al fine di tradurre in realtà quella lontana utopia dell’educazione permanente che Platone auspicava per le giovani leve ateniesi.

Un contributo che diventa ancora più importante e completo se viene proposto da un insieme di musei che, nel Sistema museale del lago di Bolsena (Si.Mu.La.Bo.), si pre-sentano come un unico articolato museo diffuso, raccolto attorno a un elemento unifi-catore, riconosciuto nel grande lago volsiniese. I musei che ne fanno attualmente par-te (Acquapendente, Bagnoregio, Bolsena, Farnese, Ischia di Castro, Gradoli, Grotte di Castro, Latera, Montefiascone, Valentano) si sono associati tra loro sulla base di una convenzione sottoscritta dalle rispettive amministrazioni comunali nel dicembre del 2000, sotto gli auspici della Regione Lazio e della Provincia di Viterbo.

Grazie alla presenza attiva di questo Sistema – le cui azioni si svolgono seguendo programmi comuni sostenuti finanziariamente dalla Regione Lazio, dalla Provincia di Viterbo e dai singoli comuni partecipanti – è oggi possibile fornire a ogni categoria di fruitori un’informazione completa e diversificata sull’Alto Viterbese, la cui conoscenza, al pari di ogni altro ambito, è base indispensabile per il rispetto, la tutela e lo sviluppo sostenibile del territorio.

La nuova collana dei “Quaderni del Sistema museale del lago di Bolsena” che prende ora l’avvio, si inserisce appieno nel progetto di promozione culturale a cui sopra accen-navo; un progetto che presto si gioverà anche di altri strumenti editoriali, tra cui una nuova e più approfondita guida ai poli museali e ai siti storici del territorio sistemico, a cui si affiancherà la serie delle Guide tematiche, opere monografiche di agile formato e di agevole lettura, destinate ad accompagnare lungo gli itinerari storici, naturalistici e demo-etno-antropologici dell’area tanto il visitatore frettoloso quanto il turista colto oppure l’esperto.

Il grande formato e la composizione interna di questi Quaderni consentono di rispetta-re le esigenze editoriali di ciascuno dei nostri musei che, difatti, possono scegliere tra gli strumenti più diversi (dal catalogo scientifico al catalogo degli argomenti museografici, da uno specifico approfondimento tematico a una guida del territorio e così via) e spa-ziare tra gli ambiti disciplinari più disparati (dall’archeologia alla natura, dalla storia alle tradizioni popolari, dalle scienze della terra all’architettura, dalla dialettologia alle festività religiose e quant’altro).

pietro tamburini

Coordinatore del Si.Mu.La.Bo.

IV

1

INTRODUZIONE

Dopo alcuni anni di chiusura per ristrutturazione, il 30 luglio 2005 il Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” di Ischia di Castro è stato riaperto al pubblico in un allestimento totalmente rinnovato rispetto al precedente, ampliato nello spazio espositivo ed impostato sullo schema di sale tematiche, che raccolgono le testimonianze della frequentazione umana nel territorio di Ischia di Castro dal Paleolitico Superiore al Rinascimento.

L’origine del Museo risale al 1958, quando venne donata al Comune di Ischia di Castro la collezione privata Stendardi-Lotti, che costituì il nucleo attorno al quale si è sviluppata nel tempo la raccolta attuale.

L’Antiquarium “Pietro Lotti”, questa la prima denominazione dell’istituzione, si rapporta al territorio ed alla Comunità quale primo riconoscimento della valenza culturale della conservazione e della fruizione pubblica di reperti, soprattutto materiali ceramici, comunemente considerati fino a quel momento dalla popolazione inutili “cocci”. Si fa strada la prima consapevolezza del legame storico tra le generazioni più lontane e quelle contemporanee, quale patrimonio in cui si identifica la stessa Comunità.

Nel corso degli anni ’60 l’area della Città di Castro, nel territorio del Comune, venne interessata da una serie di indagini archeologiche condotte dal Centro Belga di Ricerche Etrusche e Italiche, la Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale, l’ingegnere Tadolini, l’architetto De Angelis d’Ossat, che rinvennero le necropoli etrusche ed una piccola parte della città rinascimentale con risultati eclatanti, come il ritrovamento della biga etrusca di Castro, per la quantità e la rilevanza scientifica ed artistica dei corredi funebri e degli elementi architettonici pertinenti al Duomo di San Savino ed agli edifici della Piazza Maggiore.

L’impulso ed i risultati della ricerca archeologica comportarono un implemento del patrimonio raccolto nei locali dell’Antiquarium, che assunse con sempre maggiore evidenza il ruolo di istituzione culturale di riferimento non solo per la conservazione dei materiali archeologici, ma come centro di studio e ricerca.

Nel 1979 il Gruppo Archeologico Romano e la sezione locale Gruppo Archeologico “Armine”, procedette ad una ristrutturazione dell’allestimento con un’esposizione riordinata in base a criteri di sequenza cronologica, corredata dell’apparato didattico.

L’esigenza di dare applicazione ai dettami delle moderne discipline museologica e museografica, che negli anni ’80 si andavano sviluppando, soprattutto la necessità di dare all’Antiquarium una sede più consona, più ampia, che ne permettesse una fruizione valorizzata anche esteticamente, portò nel 1987 al trasferimento della sede museale nell’attuale edificio, con un allestimento, all’epoca all’avanguardia, basato su un criterio didattico-divulgativo, teso a rappresentare complessivamente il legame tra storia e territorio, secondo un percorso cronologico nella disposizione dei materiali, contestualizzati grazie al supporto di pannelli esplicativi. I siti di provenienza dei materiali venivano infatti illustrati ed inquadrati nell’ambito dell’intero quadro storico di riferimento, componendo così nel procedere dell’esposizione la storia del territorio.

L’attuale esposizione, ampliata con l’utilizzazione di una sala e parte del corridoio del piano superiore dell’edificio, propone il criterio di sale tematiche, mantenendo lo stesso principio didattico del riferimento contestuale, aggiornato dai nuovi dati che i vari giacimenti archeologici indagati hanno restituito nel corso della ricerca.

L’apparato espositivo si apre con la preistoria, con reperti del paleolitico superiore e neolitico rinvenuti nella Grotta di Settecannelle e materiali di varia provenienza dell’eneolitico e dell’età del Bronzo. La sala è dedicata al prof. Ferrante Rittatore Vonwiller, il primo archeologo che promosse la ricerca nel territorio, individuando e promulgando l’importanza scientifica di siti di fondamentale importanza nel contesto della preistoria italiana.

2

La parte più rilevante della sezione etrusca è costituita dalla collezione di statuaria funeraria, risalente al VI secolo, proveniente dalla “Tomba dei Bronzi”e dalla “Tomba a casa” di Castro, esemplare di un repertorio mitologico espresso stilisticamente con estrema raffinatezza estetica. Corredi funebri raccolgono ceramiche d’impasto, bucchero, vasi in stile etrusco-corinzio, che nell’ambito dell’esposizione rivestono un ruolo di grande rilievo.

Lo spazio espositivo dedicato al sito archeologico della Selvicciola, si divide nella sezione romana, con reperti provenienti dall’omonima villa-fattoria, e nella sezione longobarda, con la ricostruzione di tombe della necropoli altomedievale che documentano la tipologia della copertura “a lastra” e “alla cappuccina”, armi e monili caratterizzanti deposizioni maschili e femminili.

La collezione inerente il tardo medioevo e il rinascimento presenta il ciclo pittorico dell’Eremo di Poggio Conte, figure di apostoli, elementi architettonici del Duomo di San Savino e della Piazza Maggiore di Castro, ceramica castrense. Questa sezione è certamente destinata a ulteriori ampliamenti, considerando la progressiva ricerca che interessa l’area della città di Castro, indagini che hanno già restituito alla fruizione materiali di rilevante valore storico ed impatto estetico.

Il complesso così articolato nella sequenza dei periodi storici, propone in questo quadro un ordinamento topografico di rimando ai siti archeologici, divenendo esso stesso racconto storico ad integrazione delle evidenze archeologiche distribuite nel territorio.

anna laura

Direttore del Museo

3

1. IL PALEOLITICO E IL NEOLITICO NEL TERRITORIO DI ISChIA DI CASTRO

Nel nostro territorio le località che rivelano trac-ce di frequentazione risalente al periodo più remoto della storia dell’uomo sono molto rare. Ciò probabil-mente è imputabile, oltre che alla scarsa sistematicità delle ricerche, anche al fatto che gli strati geologici di età compresa fra 3.000.000 e 100.000 anni fa sono spesso difficilmente identificabili e raggiungibili, se non del tutto cancellati, a causa dell’intensa attività vulcanica del territorio che ne ha fortemente modifi-cato l’aspetto originario.

Nel comune di Ischia di Castro si segnalano le località riportate complessivamente qui di seguito (fig.1). È necessario tuttavia specificare che, nella maggior parte dei casi, esse sono identificate in base a raccolte di superficie inedite, riferite a materiale sporadico e non a documentazioni di scavi stratigra-fici, purtroppo molto scarsi. Tutto ciò rende difficile un inquadramento territoriale di più ampio respiro del popolamento avvenuto durante la Preistoria.

1) CASTELFRANCO DI FARNESE Vi sono stati rinvenuti da A. Baragliu1 alcuni

manufatti attribuibili genericamente al Paleolitico Superiore.

2) CHIUSA GALANTINI Una raccolta di superficie ha permesso di indi-

viduare nella zona un lembo di terreno di colore scuro (denominato “area b”), conservatosi soltanto parzialmente a causa del dilavamento, contenente

4

frammenti compatti di ceramica d’impasto a grana fine e sabbiosa, e schegge di selce, tra cui una la-mella di ossidiana. Si tratterebbe di materiale neoli-tico, come confermato dalla presenza negli impasti ceramici di minuti elementi granulari che, secondo l’autore2, sono caratteristici del Neolitico rispetto all’età dei metalli. Anche il rinvenimento di accette di pietra levigata e di utensili di ossidiana costitui-sce un ulteriore indizio dell’attribuzione cronolo-gica. Questo materiale neolitico sarebbe misto ad altro dell’età del bronzo.

3) CIOCCHETO-PIETRAFITTA Alle pendici del pianoro omonimo uno smot-

tamento provocato da una sorgente ha permesso il rinvenimento di abbondanti frammenti ceramici che, secondo gli autori3, testimonierebbero nella

zona la presenza di abitati neolitici all’aperto.

4) FOSSATONE In questa località gli autori4 indicano la presen-

za di un abitato neolitico e del Bronzo recente, oltre che una frequentazione, non ulteriormente determi-nabile, del Paleolitico medio; il sito è inedito.

5) GROTTA DEL SICILIANO Questo sito è segnalato dagli autori5 come un

abitato neolitico; i dati sono inediti.

6) GROTTA DI CARLI La grotta si trova nelle vicinanze del pianoro di

Punton di Villa in località Chiusa d’Ermini, a 150 m s.l.m. presso la sommità di un banco di traver-tino, e si affaccia su un affluente del fiume Fiora

10

6

2

1

3

4

9

85

7

11

12

13

14

COMUNE DI ISCHIA DI CASTROCARTA UBICAZIONE SITI ARCHEOLOGICI

Legenda

RACCOLTA DI SUPERFICIE

ABITATO

GROTTA

PALEOLITICO

NEOLITICO

CRONOLOGIA NON DETERMINATA

BASE CARTOGRAFICA DA C.T.R. SEZ. N. 343040 - 344010 - 343080- 344050

0 1 2 3 km

SCALA 1:50.000

FARNESE

Fig. 1.

5

a un’altezza di circa 100 m. Segnalata dal 1983 è stata oggetto di scavi clandestini, e durante il 1996 si è deciso un intervento per verificare la consi-stenza del deposito archeologico e la possibilità di chiudere la grotta. L’interno consta di due ambienti comunicanti: uno superiore, che ha restituito mate-riale dell’età del bronzo, e uno inferiore, anch’esso contenente manufatti dell’età del bronzo, che al suo interno, nella cosiddetta “nicchia N”, presentava materiale eterogeneo, tra cui circa trecento fram-menti di ceramica e di industria litica.

Oltre ai frammenti ceramici dell’età del bron-zo e dell’Eneolitico, se ne segnalano alcuni (due frammenti di ceramica impressa a linee dentel-late) attribuibili al Neolitico antico, due lamelle di ossidiana anch’esse neolitiche, e una lama di selce cronologicamente non determinabile. Due frammenti di ceramica, secondo gli autori, sono tipologicamente riferibili al tipo Lagozza o alla cultura Ripoli6. La grotta quindi, oltre ad aver avuto presumibilmente una funzione cultuale e/o funeraria durante l’età del bronzo, testimonia fre-quentazioni più antiche, risalenti al Neolitico e all’Eneolitico7.

7) LA COMUNELLA ( LE CANTONATE) Secondo gli autori8 alcuni materiali raccolti in

superficie, tra cui dei frammenti di ossidiana, in-dicherebbero la presenza di scarti di lavorazione, in grado di far identificare il sito come un “wor-kshop” del Paleolitico superiore e del Neolitico, forse legato ad un insediamento vicino ma attual-mente non localizzabile. Altrove9 il sito è citato come un abitato del Paleolitico superiore e del Neolitico.

8) LE VIGNACCE

Secondo gli autori10 i rinvenimenti effettuati farebbero localizzare qui un abitato neolitico; i dati sono inediti.

9) MANDRIA DELL’ARSA La località è citata dagli autori11 per i resti di

un abitato neolitico; il sito è inedito.

10) OSTERIACCIA DEL PUNTON DI VILLA Alle falde dell’Osteriaccia del Punton di Villa

sono stati raccolti frammenti di vari tipi di cera-mica: impressa, con decorazione lineare, e con profonde incisioni (in un esemplare realizzate in due serie su di un’ansa a rocchetto con lobi espansi), tutti riconducibili al Neolitico avanzato

e confrontabili con un esemplare della Grotta delle Settecannelle. Tra gli strumenti litici si segnalano alcune lame ed un’accetta levigata. Gli autori 12 precisano comunque come sia difficile, nella stessa località e in vicinanza di un insediamento dell’età del bronzo, determinare la presenza in superficie di tipi ceramici del Neolitico finale, in quanto privi di elementi caratteristici quali le anse. Questi rin-venimenti, sempre secondo gli autori, acquisiscono ancor più rilievo se si considera la stretta vicinanza con la Grotta delle Settecannelle, con cui potrebbe essere stata in diretto rapporto.

11) POGGIO CONTE Una segnalazione di Antonio Baragliu13 riferi-

sce che nei campi costeggianti la strada bianca, che da Ponte S. Pietro scende verso sud-est fiancheg-giando il Fiora, sono stati raccolti strumenti litici di cui si ignora la collocazione cronologica.

12) PONTE DELL’ARSA Ivan Scarabello14 riferisce che uno strumento di

selce di tipologia paleolitica è stato rinvenuto in un campo che costeggia il lato occidentale della strada Farnese-Pitigliano, poco prima del ponte dell’Ar-sa.

13) PIANIZZA Secondo Di Gennaro15 sia per gli ingrottamen-

ti che per l’abitato del pianoro rinvenuti in questa sede, è probabile una datazione che va dal Neolitico all’Eneolitico e alle prime fasi dell’età del bronzo.

1.1. il paleolitico nella grotta delle Settecannelle

La Grotta delle Settecannelle è situata a circa 10 km ad ovest di Ischia di Castro e a 20 km dal mare. Il deposito archeologico ha restituito testimonianze di frequentazione particolarmente significative per la preistoria del nostro territorio (fig.14), in partico-lare per il Paleolitico superiore, periodo del quale si sono rinvenuti materiali in posto ed una sequenza stratigrafica riferibile alla cultura epigravettiana, dalla fase antica, alla fase finale. La grotta fu poi abitata nel Neolitico, nell’Eneolitico e nelle prime fasi dell’età del bronzo.

La caverna trae origine dall’erosione, fluviale e meteorica, di un banco di tufo depositatosi duran-te l’eruzione del vulcano del monte Calvo, nel corso della lunga attività effusiva appartenente alla fase principale di Latera (da 253.000 a 166.000 anni fa).

6

Si tratta di un’ampia cavità (figg. 2,3) localizzata su una sponda del fosso Paternale, un affluente del fiume Fiora, che misura circa 20 m di lunghezza, 10,5 m di larghezza e 3 m di altezza sulla superficie naturale del deposito.

La sua estensione originaria, rispetto a quella attuale, si sviluppava ulteriormente in direzione del fosso ma, a causa di crolli della volta, la parte ante-riore è ora a cielo aperto e parzialmente ingombra di massi. La grotta è orientata NE-SW e presenta due ingressi situati alle estremità. In base alla lo-calizzazione dei reperti si suppone che l’ingresso a nord fosse utilizzato durante il Paleolitico supe-riore, mentre quello a sud sia stato principalmente utilizzato dal Neolitico fino ad epoca recente, come documentato dai numerosi frammenti di ceramica16 e dai resti di un cranio presumibilmente di età me-dievale17.

Posizionata attualmente 10 m al di sopra del let-to del torrente, ha costituito un ideale rifugio ampio e ventilato sin dai primordi della storia dell’uomo, come ci attestano le tracce dei cacciatori-raccogli-tori che ivi abitarono. La vicinanza poi di una sor-gente perenne, la fonte delle Settecannelle appunto, l’ha resa ancor più ambita come insediamento.

La grotta è stata scavata stratigraficamente dal 1985 al 2003, sotto la direzione di Paola Ucelli Gne-sutta18 del Dipartimento di Scienze Archeologiche dell’Università degli Studi di Pisa, grazie al con-tributo del Comune di Ischia di Castro. Tali scavi hanno permesso di rintracciare reperti databili dal Paleolitico superiore (Epigravettiano antico, evolu-to e finale) fino all’età del bronzo medio. I livelli superficiali rimaneggiati dai successivi frequenta-tori della grotta, che è stata utilizzata da pastori fino ad epoca recente, contenevano accumuli naturali

di detriti originatisi dal disfacimento della roccia, manufatti e strutture di diverse età preistoriche e storiche. Infatti sin dal Neolitico e fino al tardo Me-dioevo, si è verificato un fenomeno di distruzione dei precedenti livelli insediativi per opera dei nuovi frequentatori della grotta19 che, spianando e scavan-do buche, hanno intaccato i depositi preistorici.

Sono stati portati alla luce frammenti di cerami-ca d’età etrusca e romana ed alcuni d’età medievale e moderna 20, acciottolati, recinzioni con paletti an-cora conservati e, al centro della grotta, una grande area di combustione di età recente con residui di legna. Tali interventi hanno alterato la stratigrafia incidendo il deposito per una profondità di circa 60 cm, cioè fino alla base dei livelli neolitici.

Sia all’interno che all’esterno della grotta sono visibili tracce di interventi nella roccia, finalizza-ti alla realizzazione di coperture ed al sostegno di strutture lignee interpretabili come tavolati e man-giatoie, tipologicamente riferibili alle costruzioni rupestri medievali molto diffuse nella zona. Poco distante sono visibili, infatti, i resti dell’insedia-mento di Chiusa San Salvatore, che comprendeva una chiesa, oggi scomparsa, abitazioni rupestri e una “tagliata” nella roccia, realizzata per facilitare l’accesso alla Fonte delle Settecannelle21.

1.1.1. L’ambienteLa grotta si apre oggi 10 m al di sopra del fosso

Paternale che ha inciso profondamente il banco tu-faceo. Fino a 13.000 anni fa, il corso d’acqua scor-reva più in alto, all’incirca alla stessa quota della cavità, che invadeva periodicamente intaccando i depositi ed accumulando limi e sabbie. A questi, tra un’inondazione e un’altra, si sovrapponevano strati formati da detriti della volta e delle pareti, da pol-

Fig. 2. Veduta dell’ingresso della grotta. Fig. 3. Planimetria della grotta.

7

veri trasportate dal vento e da sedimenti organici accumulati dall’azione antropica22.

L’aspetto sedimentologico più peculiare in que-sta grotta è l’alternanza di depositi fluviali con al-tri originatisi dal disgregarsi della roccia, visibili soprattutto all’ingresso. All’interno della grotta, infatti, si sono verificate fasi d’accumulo e fasi d’erosione, la cui durata e il cui spessore non sono facilmente valutabili, a causa dell’intensa attivi-tà che caratterizza l’ambiente fluviale-torrentizio. Nel caso di Settecannelle, in particolare, l’attività predominante è stata quella d’accumulo dei detriti dovuti al disfacimento della roccia. L’azione ero-siva invece è stata minima, non essendo la cavità esposta agli agenti esogeni e abbassandosi progres-sivamente il vicino corso d’acqua23.

La successione stratigrafica dei sedimenti per-mette la seguente interpretazione degli eventi cli-matici susseguitisi nel tempo (dal basso all’alto, vedi fig.4):

• Un periodo freddo e umido, in cui il torren-te sommergeva sistematicamente l’interno della grotta riversandovi depositi fluviali, fatto questo

che indica come il torrente fosse molto vicino. Tale periodo culmina con un irrigidimento delle temperature (spesso al di sotto dello zero) che determina la presenza d’abbondanti blocchi cri-oclastici24 (strati 13 e 12). I depositi crioclastici infatti indicano come la temperatura raggiunges-se valori bassi, generando materiale detritico.

• Un periodo arido (strato 11), corrisponden-te ad un fenomeno di continentalizzazione25 del clima, indicato dalla presenza di polveri eoliche costituite da loess26, e da una fauna, come ad esempio il cavallo, tipica d’un ambiente steppi-co e di prateria.

• Un periodo più caldo (strato 10), in cui si rilevano un’intensa frequentazione umana e la presenza d’organismi scavatori che lasciano re-sidui organici.

• Un aumento di freddo e umidità (strato 9), che non raggiunge però i livelli della fase più antica, caratterizzato da processi crioclastici. In seguito, con l’aumento di temperatura si assiste al fenomeno del soliflusso (strati 8 e 7), che si attua quando c’è uno scorrimento lentissimo della parte superficiale del suolo e dei frammen-ti rocciosi, dovuto alla presenza d’acqua nel ter-reno.Servendoci dei dati sedimentologici si può ipo-

tizzare che la successione stratigrafica inizi verso la fine del Dryas antico27. Il periodo più caldo allora, rappresentato dallo strato 10, potrebbe corrisponde-re all’orizzonte paleoclimatico Boelling28, e la fase arida dello strato 11 potrebbe essere collocata tra il pre-Boelling e il Boelling stesso29. I resti organici indicativi delle condizioni ambientali sono costi-tuiti dai carboni della legna usata per accendere i focolari. Tali resti sono stati raccolti e analizzati al microscopio per poterne individuare le specie d’ap-partenenza e datati con il metodo del Carbonio 14.

Sono stati così rinvenuti almeno sei tipi diversi d’alberi e arbusti: l’acero (Acer sp.), la quercia a foglie caduche (Quercus sezione Robur), il ginepro (Juniperus sp.), il mandorlo selvatico (Prunus tipo Webbii), ed essenze vegetali appartenenti alla fami-glia delle leguminose e delle rosacee.

Per quanto concerne le analisi polliniche del-la regione, sono stati identificati prevalentemente pollini d’artemisia, un arbusto dei climi ventosi e freddi, e pollini di graminacee. Questo dato è con-fermato anche dalle analisi archeozoologiche, che hanno riscontrato la presenza di specie animali che vivevano in ambienti aperti con le suddette caratte-ristiche climatiche30.

Fig. 4. Stratigrafia di un settore di scavo.

8

1.1.2. La faunaIl quadro ambientale è completato dalle specie di

animali cacciati, dei quali rimangono testimonian-ze nei resti di pasto. Il materiale osteologico (per quanto in cattivo stato di conservazione a causa del-l’elevata acidità del terreno) relativo agli strati del Paleolitico31, è caratterizzato dalla forte predominan-za di equidi, cavallo e idruntino, o asino della step-pa (35%), seguiti da cervo (28%), bue primigenio (27%), cinghiale (8%) e capriolo (2%). Ciò risulta in linea con quanto riscontrato sulle coste tirreniche contraddistinte da tratti di spazi aperti, alternati a va-ste distese boscose.

Significativa la presenza dell’idruntino, un ca-vallo di piccola taglia con arti poco robusti molto simile all’asino, che visse nel periodo compreso tra 200.000 e 10.000 anni fa. Ne sono stati trovati resti in diversi giacimenti dell’Italia meridionale32. Le analogie più strette con questi dati ambientali, tenendo conto soprattutto della relativa vicinanza, sono con la Grotta Polesini (un sito presso Roma, cronologicamente correlabile con Settecannelle) dove si sono individuate condizioni climatiche si-mili e la compresenza di animali da foresta e ani-mali da boscaglia e prateria33.

Di notevole rilevanza è stata la scoperta, in pros-simità dell’ingresso nord, di un cranio con i palchi quasi completi di Cervus elaphus palmidactyloce-ros, o cervo rosso, che è stato possibile datare a circa 16.000 anni fa. Questa specie, comparsa in Europa durante il Pleistocene medio (800.000-125.000 anni fa), ebbe vasta diffusione grazie anche ad un’eleva-ta capacità d’adattamento sia all’ambiente di foresta che di prateria, ed è contraddistinta da un’ampia pal-matura distale. Tale particolarità, che probabilmente svolgeva un ruolo nel corteggiamento e nella com-petizione tra i maschi, potrebbe indicare con il suo sviluppo condizioni ambientali decisamente favore-voli, caratterizzate dalla quantità e qualità del cibo a disposizione34. L’esemplare di Settecannelle, par-ticolarmente ben conservato, è stato rinvenuto alla base di un deposito dell’Epigravettiano antico ed è correlabile con la fase climatica del Dryas antico35.

1.1.3. L’industria liticaIl materiale rinvenuto durante lo scavo archeo-

logico permette di ricostruire, oltre alle condizioni ambientali, anche la cosiddetta cultura materiale, ossia tutto l’insieme degli oggetti prodotti dalle po-polazioni che hanno frequentato la grotta. Per quan-to concerne il periodo più antico, la cultura mate-riale è rappresentata soprattutto dagli strumenti litici

(figg.5,6,7) ricavati da diverse materie prime, tra cui la selce e il diaspro.

Queste potevano essere raccolte sotto forma di ciottoli lungo i torrenti o in affioramenti primari, presso i Monti di Canino e La Doganella (Canino). I blocchi e i ciottoli venivano regolarizzati con la la-vorazione ottenendone i nuclei, dai quali, per percus-sione, si estraevano schegge e lame, che erano poi ritoccate per rendere il bordo meno fragile e produr-re strumenti adatti a diversi usi. La tecnica di ritoc-co caratteristica del Paleolitico superiore è quella a “ritocco erto”, cioè a stacchi verticali o sub-verticali

Fig. 5. Industria litica dell’Epigravettiano antico.

Fig. 6. Industria litica dell’Epigravettiano evoluto.

Fig. 7. Industria litica dell’Epigravettiano finale.

9

lungo il bordo, in modo da formare un “dorso”.Dal punto di vista cronologico le datazioni, effet-

tuate su campioni di carboni raccolti in diversi strati all’interno di focolari, hanno permesso di ricostruire le sotto elencate sequenze:

• epigravettiano antico = 16.620 +/- 210 ~ 16.200 +/- 200 anni da oggi (strato 16).

• epigravettiano EVOLUTO = 15.700 +/- 180 anni da oggi (strati 14-12).

• epigravettiano finale = 12.700 +/-170 ~ 12.540 +/-100 ~ 12.050 +/-150 anni da oggi (strato 10).

• epigravettiano finale senza geometrici (a contatto con lo strato che presenta la cera-mica cardiale) = 10.570 +/- 260 anni da oggi (strato 8)36.L’analisi dei manufatti litici rinvenuti all’inter-

no dei 2,5 m di deposito, in particolare nella zona centrale della grotta e verso l’ingresso nord nelle vicinanze di focolari, ha permesso di evidenziare sei livelli d’industria, dall’Epigravettiano antico al-l’Epigravettiano finale. In essi si individuano alcune tipologie d’oggetti tra cui:

• nuclei37: negli strati più bassi (strati 16-12) sono prevalentemente su ciottolo a due pia-ni di percussione opposti (55,8%), mentre sono rari quelli ad un piano di percussione; negli strati dell’Epigravettiano finale (strati 10-8) si verifica invece il fenomeno opposto (nuclei ad un piano di percussione 40%).

• bulini38: sono rari in tutti gli strati; mentre nel periodo più antico prevalgono quelli su ri-tocco, nei periodi successivi predominano i tipi semplici.

• grattatoI39: sono molto abbondanti nel-l’Epigravettiano antico, specie nelle forme laminari, mentre le forme corte sono più rare. Nell’Epigravettiano finale, quando la presenza di questo strumento tende a rarefarsi, predomi-nano le forme corte cui si associano quelle cir-colari.

• punte e lame a dorSo40, microgravetteS41, punte a cran42: sono presenti in misura abbon-dante durante l’Epigravettiano antico ed evolu-to; nell’Epigravettiano finale non si rinvengono più strumenti a cran e le percentuali degli altri si riducono sensibilmente, comparendo nuovi strumenti come dorsi, becchi e troncature.Il confronto con altri siti coevi e relativamen-

te vicini, come Grotta Polesini (Roma), Cenciano Diruto e Riparo Biedano (Viterbo)43, ha messo in

evidenza una rete di contatti culturali, documenta-bili del resto anche con altre zone dell’Italia centro-meridionale44.

1.1.4. L’arte mobiliareDurante il Paleolitico superiore si assiste al fe-

nomeno della comparsa dell’arte, manifestazione della complessa vita spirituale delle popolazioni dell’epoca. Essa viene distinta in arte parietale, in cui i supporti usati per l’espressione artistica erano le pareti di una grotta, e arte mobiliare, che comprende oggetti decorati o manufatti in pietra, osso, corno e avorio.

In particolare in Italia l’arte paleolitica si diffon-de dall’Epigravettiano (20.000-10.000 anni fa), pe-riodo cui si fa riferimento anche nell’ambito delle testimonianze della Grotta delle Settecannelle.

La grotta ha restituito abbondanti oggetti d’arte esclusivamente mobiliare, così come la maggior par-te dei siti italiani, giacchè l’arte parietale in Italia è conosciuta sostanzialmente in località del sud, quali Grotta di Levanzo e Grotta dell’Addaura (Sicilia), Grotta Paglicci e Grotta Romanelli (Puglia) e Riparo del Romito (Calabria).

Nel corso dell’Epigravettiano finale (14.000-10.000 anni fa) si assiste ad un aumento delle ma-nifestazioni artistiche, i cui soggetti variano da rap-presentazioni naturalistiche, cioè raffigurazioni di animali e più raramente umane, a rappresentazioni simboliche, costituite da motivi astratti, che culmi-neranno nell’ultima fase dell’Epigravettiano in Ita-lia, il cosiddetto “Romanelliano”45.

Gli oggetti d’arte mobiliare rinvenuti a Settecan-nelle sono una cinquantina, e si distinguono in or-namenti e oggetti d’uso, su supporti di pietra, osso o corno. Provengono da un’area di circa 20 m² lo-calizzata nella parte sud-ovest della grotta, all’inter-no della quale sono situate numerose lenti di forma ovale, residui carboniosi di focolari, aventi approssi-mativamente il diametro di 50 cm e lo spessore di 25 cm. I carboni rinvenutivi hanno restituito datazioni tra 12.700 e 12.000 anni fa per lo strato 10, e 10.750 +/- 250 per lo strato 846.

Gli ornamenti sono sono rappresentati da 10 ca-nini atrofici di cervo, 6 pendenti di pietra incisi, 2 conchiglie ed un ornamento in osso d’uccello. Pro-vengono tutti dagli strati 8 e 10 dell’Epigravettiano finale, eccetto un canino di cervo, trovato nei livelli più antichi dell’Epigravettiano evoluto. I denti in par-ticolare sono ampiamente diffusi come ornamento durante il Paleolitico superiore, e generalmente si può osservare che venivano scelti quelli aventi una forma

10

particolare (canini atrofici di cervo) o appartenenti a specie rare (grandi carnivori).

I canini atrofici di cervo (fig.8), dalla forma ar-rotondata e globulare, erano appositamente estratti dall’arcata superiore dell’animale e, durante il Paleoli-tico superiore in Italia e in Francia, erano spesso imita-ti in pietra, poiché molto ricercati.

A Settecannelle ne sono stati ritrovati 10, di cui due non perforati, perché ancora in fase di lavorazio-ne, appartenenti ad esemplari maschi. I canini di cervo risultano perforati con due diverse tecniche: la prima,

impiegata in quello proveniente dallo strato dell’Epi-gravettiano evoluto47, consiste nell’incisione a segui-to di un raschiamento localizzato, e produce un foro più piccolo; la seconda, più complessa e utilizzata nell’Epigravettiano finale, è quella per rotazione oppo-sta con perforazione biconica (la stessa utilizzata per i pendagli in steatite), che produce un foro più grande. In due esemplari si può osservare inoltre un’incisione preliminare48.

I pendenti di pietra (figg.9,10) sono realizzati in steatite gialla, verde chiaro e nera, una pietra facile da incidere, che proveniva dai giacimenti della Toscana (in particolare dal livornese e dalla provincia di Pisa), all’interno di un territorio abitualmente percorso per gli scambi di materie prime.

A questi si aggiunge un pendente di colore mar-rone chiaro con un foro fratturato, di cui non è stato possibile determinare la materia prima. Uno dei pen-

dagli rinvenuti è stato interpretato come un’imitazione in steatite di un canino atrofico di cervo.

Gli oggetti sono decorati con motivi astratti, rap-presentati da incisioni sul bordo -spesso a tacche-, da motivi lineari più complessi sulle facce, da motivi a croce, a pettine e a “scaletta”, a chevron49, a linee cur-ve che partono dal foro di sospensione. Anche se non si è in grado di interpretare il significato di questi sim-boli, gli oggetti rivelano un gusto artistico complesso e originale.

Fig. 8. Ornamenti di canini di cervo.

Fig. 9. Pendente in steatite verde.

Fig. 10. Pendente in steatite nera.

11

L’analisi al microscopio dei pezzi ha permesso di identificare le tracce caratteristiche dello stru-mento usato per incidere, l’uso dell’ocra per met-tere in risalto un motivo, i segni prodotti dal pro-tratto utilizzo50.

Sono evidenti similitudini sia nello stile e nella tecnica delle incisioni che nella materia prima uti-lizzata per realizzarli. A Settecannelle inoltre i pen-dagli, un ornamento molto raro nella nostra peniso-la, hanno bordi dentellati ben delineati in più di un esemplare, pur nella presenza di una certa varietà di forme. Questa omogeneità rispecchiava la tradizione e forse un elemento di identificazione di un determi-nato gruppo culturale51.

Uno dei pendenti in steatite nera (fig.11) è sta-to rinvenuto in una buca contenente dei denti molto alterati appartenenti ad un individuo anziano, forse una donna, e ad un giovane; questo potrebbe sugge-rire che alcuni di questi oggetti abbiano fatto parte di una sepoltura o comunque che siano stati voluta-mente seppelliti assieme a dei resti umani52.

Tra i più antichi oggetti d’ornamento figurano le conchiglie (figg.12,13). Diffusissime nel Paleolitico superiore e raccolte a scopo alimentare e ornamenta-le, potevano essere trovate anche già forate da orga-nismi predatori marini. In questo caso, dopo essere state raccolte raccolte “spiaggiate”, venivano consi-derate pronte all’uso ornamentale o si procedeva ad

un allargamento del foro preesistente. Se le conchi-glie risultavano integre, il foro poteva essere pratica-to con un piccolo e appuntito strumento di selce o di un altro materiale resistente. La difficoltà tecnica che doveva essere superata per forarle, così come per i pendagli in pietra, è indice dell’importanza sociale che rivestivano tali oggetti. La scelta delle specie raccolte, non casuale, evidenzia una preferenza per i Gasteropodi53 di piccole e medie dimensioni, più facili da forare rispetto alle conchiglie più grandi. Le conchiglie, infilate in un laccio e indossate come pendaglio o cucite sulle vesti, sono state rinvenute spesso in contesti funerari associate con dell’ocra, un ossido di ferro di colore rosso o marrone utilizza-to in contesti rituali e come colorante.

Sono più di una trentina i siti italiani che hanno restituito tale oggetto d’ornamento nel Paleolitico

Fig. 11. Ornamento in steatite nera rinvenuto in una buca assieme a dei denti umani.

Fig. 12. Ornamento in conchiglia forata di Columbella rustica.

Fig. 13. Ornamento in conchiglia forata di Glycymeris sp.

12

superiore, e tra le specie più diffuse in Italia du-rante l’Epigravettiano troviamo proprio quelle qui rappresentate54. La prima ad essere stata rinvenuta è infatti un esemplare di Columbella rustica, un pic-colo Gasteropode lungo 13 mm proveniente da un focolare dell’Epigravettiano, e raccolto insieme ad un elemento tubolare in osso d’uccello, anch’esso con tracce d’utilizzo. La conchiglia, lucida e di colo-re grigio scuro per la protratta esposizione al fuoco, conserva tracce della sua colorazione originaria, indizio che fu probabilmente raccolta spiaggiata e che non si trattava di una conchiglia fossile. Presen-ta un foro fratturato, che analizzato al microscopio mostra al suo interno tracce di levigatura, e sulla faccia posteriore un’usura dovuta probabilmente alla sospensione.

La seconda conchiglia, dalle dimensioni di circa 35 mm è un Glycymeris sp., con residui della sua ori-ginaria colorazione giallastra e alcune tracce d’ocra. Uno spesso strato sabbioso, che la ricopre anche in prossimità del foro di sospensione (forse di origine naturale e poi allargato), preparato levigandone pre-cedentemente l’apice, evidenzia una lunga perma-nenza in ambiente fluviale55.

L’altra categoria d’oggetti d’arte mobiliare è costituita da manufatti in pietra, osso o corno, che presentano incisioni naturalistiche e astratte. Il più significativo è un ciottolo di arenaria con incisioni naturalistiche sulle due facce, rappresentanti due esemplari di uro (Bos primigenius) cui si aggiunge una figura di stambecco, realizzata precedentemen-te. Il ciottolo è stato rinvenuto nelle vicinanze di un deposito ricoperto d’ocra dell’Epigravettiano finale, contenente un accumulo di ossa di bovidi ed equidi. In seguito ad un’accurata indagine si è verificato che esso fu utilizzato come percussore, mentre altre zone della sua superficie sono levigate in seguito all’uti-lizzo come mola o alla precisa volontà per eliminare le asperità della pietra.

Il ciottolo rivela tracce di ocra nei solchi dell’in-cisione che indicano il contatto con tale sostanza. L’analisi tecnologica ha permesso di individuare contemporaneità fra le tracce di uso e le raffigura-zioni: ciò indica che si tratta di un “utensile orna-to”, in cui si fondono le due funzioni, utilitaristica e simbolica.

Ciò è particolarmente significativo, in quanto questo tipo di analisi era già stato tentato per altre rappresentazioni di ciottoli paleolitici, senza però riuscire a verificare il legame tra l’utilizzo del ciotto-lo e la sua raffigurazione56.

La figura di uro localizzata sul recto del ciottolo

trova confronti nel Lazio con un bovide di Grotta Polesini57, e nel sud della penisola col bovide e col grande toro del Riparo del Romito in Calabria58, in-fine con un bovide della Grotta di Niscemi in Sici-lia59. L’uro di Settecannelle, più statico rispetto alle figurazioni meridionali, denota caratteri di maggiore arcaicità che lo collocano in una fase antecedente ai 12.000 anni fa.

Lo stambecco, rappresentato molto raramente nell’arte paleolitica italiana, è invece un soggetto ricorrente nell’arte maddaleniana60; il fatto che ad esso sia sovrapposta l’altra figura non è facilmente interpretabile: la compresenza potrebbe esprimere un concetto unitario -la coppia di animali, così fre-quente nell’arte paleolitica- oppure corrispondere ad un riutilizzo del ciottolo61.

Un secondo ciottolo in calcare, con raffigurazio-ne naturalistica definita di stile “mediterraneo”62, mostra il profilo di un animale provvisto probabil-mente di pelliccia, che non è stato possibile identifi-care (forse un orso) poiché mancante della testa e di particolari anatomici rilevanti. Dopo una prima fase di utilizzo, lo strumento è stato inciso e poi usato di nuovo: questo potrebbe indicare che l’incisione è stata volutamente lasciata incompiuta nelle zone destinate all’uso come percussore.

Presenta analogie, per la sua massa col bisonte di Lustignano63 (Pisa) e, per la delineazione rigida e sommaria, con il lupo della Grotta Polesini64.

Le molteplici tracce di un utilizzo prolungato di questi ciottoli indicano un notevole attaccamento a strumenti che venivano conservati a lungo e forse trasportati ed usati in luoghi diversi65.

Gli oggetti con incisioni geometriche e astratte, realizzati in arenaria, micascisto, calcare, cortice di selce e stalagmite, osso e corno, costituiscono la ca-tegoria più abbondante. Alcuni svolgevano funzio-ni pratiche, come percussori o ritoccatori, altri, che non presentano tracce d’uso, avevano probabilmente funzioni legate al culto. Il repertorio delle incisio-ni comprende motivi lineari, che in alcuni casi sono forse l’estrema schematizzazione di figure di anima-li, tratti paralleli e tacche colorate d’ocra, motivi li-neari destrutturati.

Un grande ciottolo piatto inciso con due diver-si strumenti, presenta un decoro molto complesso e ricco di simboli, che farebbe pensare ad una rappre-sentazione topografica66.

Una placchetta in micascisto (fig.14) coperta da fitte incisioni e cosparsa d’ocra (come i piccoli ciot-toli dello stesso tipo di calcare che la circondavano al momento della scoperta), sembrerebbe testimoniare

13

una precoce comparsa dei motivi lineari, coprenti l’intero supporto, del Romanelliano67.

I manufatti in osso sono stati ottenuti da ossa lunghe o da corna di cervidi con l’ausilio di cunei in pietra, legno ed osso, oltre che di strumenti litici

taglienti, che servivano anche per eseguire le rifi-niture68. Quelli acuminati, come punte e punteruo-li, furono utilizzati per perforare pelle fresca e sec-ca, alcuni dopo essere stati immanicati: tutto ciò si desume dalle tracce di usura individuate tramite l’analisi al microscopio.

Tra gli oggetti in osso il più significativo è un frammento bruciato di diafisi con una complessa decorazione geometrica. Un secondo frammento, trovato in un livello più profondo, presenta analo-ghe caratteristiche, come l’aspetto e la consistenza della superficie, il colore bruno scuro dovuto al-l’esposizione al fuoco e la tecnica di incisione, ma l’assenza di attacchi precisi non permette di attri-buire i due frammenti allo stesso manufatto.

Il primo potrebbe essere attinente ad uno stru-mento come una spatola o una punta, con un mo-tivo decorativo formato da tre elementi: la banda ad angoli (“greca”), il meandro e la linea spezzata, che richiamano quelli di ossi incisi di Grotta Po-lesini69, delle Grotte Maritza e Continenza, del Ri-paro del Romito70 e del Riparo Tagliente71. E’ stata osservata anche un’analogia con oggetti mobiliari in osso della Grotta di Cuina Turcului in Romania, che confermerebbe l’esistenza di contatti, già se-gnalati da diversi studiosi, fra la penisola italiana e l’est dell’Europa, in un periodo in cui gli spo-stamenti erano facilitati dal fatto che l’Adriatico settentrionale e centrale era una grande pianura emersa.

Le analisi tecnologiche hanno permesso di evi-denziare che l’incisione è stata eseguita prima che

l’osso fosse sottoposto ad azione termica e che, per indirizzare l’esecuzione del disegno, sono state effettuate delle “incisioni guida” costituite da una serie di linee parallele. Queste testimoniano una tecnica molto accurata ed una particolare attenzio-ne per il risultato estetico dell’oggetto72.

Un altro manufatto in osso molto singolare è una punta decorata con motivi a tacche e a zig-zag, la cui base è una spatola, realizzata su un osso lun-go di erbivoro (fig.15). Nella superficie interna, sul bordo decorato, è stata osservata al microscopio un’usura dovuta alla prensione prolungata dell’og-getto, mentre strie longitudinali sono state prodotte dalla ripulitura della cavità midollare dell’osso. La punta, ripetutamente affilata a causa della continua usura, è stata utilizzata per realizzare dei fori sulla pelle fresca73.

L’insieme dell’arte mobiliare di Settecannelle, uno tra i pochi siti ad avere fornito manufatti in-seriti in una sequenza cronostratigrafica, è ricco di motivi decorativi tra cui chevrons, zig-zag, tacche

e bande ad angoli, e si inserisce nel complesso ti-pico dell’arte del Paleolitico superiore italiano. E’ confrontabile in particolare con Grotta Polesini (Roma)74, il sito più prossimo anche geografica-

Fig. 14. Placchetta in micascisto incisa e cosparsa d’ocra.

Fig. 15. Punta in osso decorata con motivi a tacche e zig-zag.

14

mente, Grotte Maritza e Tronci (Abruzzo)75, Riparo Tagliente (Veneto)76, Grotta Paglicci (Puglia)77. La sua particolarità si manifesta con schemi ricorrenti come motivi a bande marginate e scalariformi, con segni quadrangolari contenenti linee parallele, ol-tre che con l’assenza di motivi decorativi a nastro, presenti in altri giacimenti del sud d’Italia78.

La presenza di un abbondante numero di ogget-ti di parure e la cospicua quantità d’ocra rilevabile su ciottoli in pietra e micascisto, nonché in alcuni strati della grotta, farebbero propendere per una destinazione cultuale della zona di accumulo del-l’arte mobiliare79. E’ stato anche possibile appurare che oltre alla lavorazione della selce, anche la pro-duzione artistica si svolgeva in parte in loco, come dimostrano i frammenti di steatite non lavorata, o i canini di cervo non ancora perforati80.

La produzione artistica di Settecannelle confer-ma dunque che la penisola italiana, dopo il miglio-ramento climatico di Allerod81 circa 14.000 anni fa, non sembra più trovarsi in una situazione di isolamento a causa della sua morfologia montuosa, ma si rivela aperta a contatti e scambi culturali con gruppi umani anche lontani, dell’area mediterranea e delle regioni dell’Europa continentale82.

1.2. il neoliticoDurante il VI millennio negli insediamenti cen-

tro-europei si verificò un cambiamento radicale nelle società umane. Il passaggio da un’economia di caccia e raccolta a quella di produzione del cibo, che avven-ne durante il Neolitico, fu introdotto da genti prove-nienti dalla “mezzaluna fertile”, attraverso l’Anatolia e i Balcani. Tuttavia le forme economiche tradizio-nali non vennero abbandonate completamente né tanto meno in modo improvviso: caccia e raccolta rimasero fattori importanti per il reperimento del cibo, tanto che presso alcune comunità la selvaggina copriva ancora la maggior parte del fabbisogno di carne. La nuova economia, basata sulla coltivazione dei cereali e sull’addomesticamento di alcune specie animali, determinò un mutamento nel modo di vita, che da nomade si trasformò in stanziale, con abita-zioni durature e stabili, riunite in villaggi, talvolta protette da fossati e palizzate. Questa trasformazione fu possibile anche grazie al miglioramento climatico avvenuto col ritiro della glaciazione di Wurm, alla quale seguì il clima temperato dell’epoca attuale (Olocene) che favorì la crescita della vegetazione.

Tra le nuove acquisizioni figurano la lavorazio-ne della pietra mediante levigatura (utilizzata anche

nella produzione di nuovi strumenti adatti a tagliare il legname da costruzione ed a macinare i cereali), l’utilizzo di fibre animali e vegetali per confezionare tessuti. Un’altra innovazione è la produzione di cera-mica, un impasto di argilla e acqua che, dopo essere stato plasmato in diverse forme, essiccato all’aria e messo a cuocere in fosse ricoperte da legname, per-mette di ottenere dei contenitori impermeabili e resi-stenti al calore, per cuocere e conservare i cibi. Oltre che per i recipienti si usò l’argilla per realizzare pesi da telaio, fusaiole, colatoi, nonché piccole figurine animali o umane.

1.2.1. La ceramica a SettecannelleA Settecannelle il livello dell’occupazione

neolitica è stato trovato a diretto contatto con lo strato 8 della sequenza paleolitica, che ne risul-ta in parte intaccata. A causa quindi dei frequenti rimaneggiamenti occorsi già in antico non è sta-to possibile individuare un passaggio graduale dai livelli paleolitici a quelli neolitici83, né tanto meno si è conservata la stratigrafia neolitica. I nu-merosi frammenti di ceramica rinvenuti sono stati inquadrati dunque secondo il criterio tipologico, a causa del contesto stratigrafico disturbato84.

Un tipo ben documentato, rinvenuto in partico-lare nei pressi delle pareti sud e ovest della grotta è quello della “ceramica impressa cardiale” (fig.16),

Fig. 16. Frammento di ceramica cardiale.

15

detta così perché decorata con il margine dentellato di una conchiglia, il Cardium edule.

Tale ceramica è caratteristica della più antica cultura neolitica del Mediterraneo occidentale, ed è diffusa sulla costa tirrenica, nell’arcipelago toscano, in Sardegna, in Corsica, nel sud della Francia e sulla costa orientale della penisola iberica. Non sono sta-ti rinvenuti vasi completi ma numerosi frammenti, con impasto compatto e omogeneo, appartenenti a circa una ventina di vasi globulari, il cui diametro va da 10 a 30 cm, dalla forma a bocca larga, con fondo leggermente arrotondato o appiattito. La su-perficie esterna appare lisciata, mentre nell’interno sono visibili tracce di steccatura. Le impugnature dei vasi sono costituite da anse a nastro insellato o a maniglia triangolare oppure, e ciò costituisce un uni-cum nel panorama del Neolitico occidentale, da una presa composta da tre bugne disposte in orizzontale (fig.17). Il colore scuro della ceramica e la presenza di inclusi vulcanici indicano una produzione locale.

I tipi di decorazioni sono essenzialmente tre: un motivo più diffuso a banda e zig-zag discendenti sotto la bocca del vaso, che ricorda il cardiale clas-sico del sud della Francia, uno a piccole incisioni semicircolari, tipico del cardiale ligure-provenzale e dell’arcipelago toscano, uno infine con motivi a bande strette campite di linee dentellate che richia-ma il cardiale tirrenico tipo Basi-Pienza. Nella mol-teplicità degli stili si evidenziano i numerosi contatti e scambi marittimi che avvenivano tra la costa e le isole tirreniche, mediante i quali si importavano sel-ce, steatite e diaspro dalla Toscana, pietre verdi per le asce levigate dalla Corsica e la preziosa ossidiana dal Monte Arci in Sardegna85. A Settecannelle sono stati rinvenuti anche una piccola scheggia e un fram-mento di lama ritoccata di ossidiana, che, all’analisi col metodo della fluorescenza a raggi X, è risultata proveniente dalla località di Conca Cannas sul Mon-

te Arci. La grotta perciò rappresenta il sito più meri-dionale in cui penetrò l’ossidiana sarda, già rinvenu-ta, oltre che sulla costa ligure, nelle isole tirreniche, in Toscana e nel sud della Francia86.

Dopo la cultura della “ceramica impressa”, alla fine del VI millennio giunse dalla Pianura Padana nel Lazio settentrionale la cultura della “ceramica a linee incise”. Essa lascia tracce nella grotta di Sette-cannelle con frammenti di ceramica ad impasto com-patto e superficie lucida, di colore rossastro o bruno scuro a causa degli inclusi vulcanici, cui si aggiun-gono scarsi frammenti di ceramica fine di colore scu-ro, con la caratteristica decorazione a linee incise87. Su alcuni frammenti di colore bruno è presente il motivo decorativo a “note musicali”, principalmente conosciuto nell’aspetto di Fiorano, che si riscontra nelle culture delle Alpi orientali e della zona della pianura del Po88. L’impasto con inclusi vulcanici in-dica anche in questo caso una produzione locale.

Sono invece importati ed indicano rapporti col versante orientale della penisola, diversi frammenti di ceramica depurata acroma, fra i quali quelli di una tazza, rinvenuti in prossimità del cranio di un bam-bino ed un singolo frammento di ceramica dipinta tricromica (fig.18) scoperto fuori strato, nella zona centrale della grotta. I reperti, probabilmente deposti come offerte votive, sono inquadrabili nell’ambito della cultura di Ripoli del Neolitico medio.

Gli influssi culturali del sud della penisola sono testimoniati da un frammento di ansa tubolare con protome di anatrella, imitazione locale delle anse zoomorfe della cultura di Serra d’Alto, prodotto in argilla scura anziché in ceramica figulina89 acroma, tipica della cultura d’origine.

Altri frammenti di vasi rinvenuti all’interno del-la grotta sono riferibili all’ultima fase del Neolitico (fine IV - inizio III millennio). Anch’essi con le anse a rocchetto, di colore rosso o bruno chiaro tipiche

Fig. 17. Ansa a tre bugne. Fig. 18. Frammento di ceramica dipinta tricromica.

16

della cultura di Diana, imitano modelli meridionali, che si ispirano ai primi lucenti contenitori di rame. Un frammento di ansa canaliculata “a cartucciera” dall’impasto molto fine e lucente, riferibile alla cul-tura nord-occidentale di Chassey-Lagozza (fig.19), è stato rinvenuto nello stesso livello di alcune anse a rocchetto dello stile di Diana. La compresenza delle due tendenze culturali, che si verifica anche in altri giacimenti coevi, conferma l’importanza della grotta come punto di incontro di genti e tradizioni cultura-li diverse90 e permette il collegamento con il vicino abitato neolitico di Poggio Olivastro, che ha restitui-to importanti testimonianze della cultura chasseana.

Da questi dati si evince che la grotta è stata fre-quentata in diverse fasi.

Il primo periodo coincide con il Neolitico anti-co -prima metà del VI millennio-, testimoniato dalla presenza di ceramica cardiale, che è l’aspetto occi-dentale della ceramica impressa. Si distingue dalla ceramica impressa adriatica, caratterizzata da motivi che coprono l’intera superficie del vaso, per la deco-razione eseguita in modo molto accurato e scandita da motivi regolari91.

L’alta concentrazione di questa ceramica rende Settecannelle uno dei siti più importanti per questo periodo, con manifestazioni proprie dell’area cen-tro-tirrenica, sia per il colore scuro della ceramica prodotta con argille locali, che per la tipologia degli elementi di prensione92. Tra i siti che presentano la

decorazione a bande marginate campite troviamo Poggio Olivastro, le Grotte della Lattaia e dell’Orso di Sarteano93, Pienza, la Romita di Asciano, Piano-sa e alcuni siti della Corsica (Strette, Aleria e Basi). L’ansa a maniglia triangolare invece, elemento che troviamo sia nel Cardiale sia nella ceramica a linee incise della facies di Sarteano, ha confronti nell’ar-cipelago toscano (Piombino), in Sardegna (Filiestru, Grotta Verde e Corbeddu-Oliena) e infine in Corsi-ca (Basi, Strette e La Pietra)94. Alcuni frammenti di ceramica a piccoli punti o ondulazioni, che trova-no analogie con le decorazioni della prima fase del Neolitico in Sardegna, testimoniano contatti con le isole centro-tirreniche95; mentre quelli a piccole im-pressioni semicircolari ricordano la facies ligure di tipo Arene Candide-Caucade-Portiragnes96.

Anche durante la seconda fase del Neolitico an-tico, come conferma la notevole presenza della ce-ramica a linee incise dell’aspetto di Sarteano, il sito si mantiene fiorente, intrattenendo fitti contatti con la zona costiera e qualche scambio culturale con la zona adriatica (ceramica acroma depurata).

Durante la fase media del Neolitico, come sem-bra attestare l’esiguità dei rinvenimenti (frammento di ceramica tricromica, ansa tipo Serra d’Alto ed al-tri reperti scarsamente tipologici), si assiste probabil-mente ad un’occupazione della grotta meno intensa, nella quale si mantengono però i contatti con il sud della penisola e con la zona adriatica.

Nell’ultima fase del Neolitico riprende l’intensa frequentazione della grotta, con la presenza della cultura di Diana dal sud e di quella di Chassey dal nord-ovest, ad indicare probabilmente una fitta rete di contatti e di scambi con il sud d’Italia, forse anche per il commercio dell’ossidiana della Sicilia97.

1.2.2. Resti umani e strutture cultuali a Set-tecannelle

In prossimità della parete ovest, all’interno di una struttura semicircolare di pietre sono stati rinvenuti i resti di un cranio privo di mandibola (fig.20), il cui sviluppo dentario rinvia ad un individuo di circa 12 anni del quale, data la giovane età, non è possibile determinare il sesso. Il cranio era rivolto con la fac-cia a terra e poggiato verso destra all’interno di un avvallamento nel terreno, con una macina di pietra frammentata sul parietale sinistro.

La datazione al radiocarbonio effettuata su una parte del cranio, attualmente in corso di studio per la determinazione del DNA, lo colloca alla data di 6.580 +/- 50 anni da oggi, ossia intorno al 5500 a.C., all’interno della seconda fase del Neolitico antico98.

Fig. 19. Frammento di ansa “a cartucciera”.

17

Nelle immediate vicinanze del cranio è stato rin-venuto il fondo di un grande vaso con polvere d’ocra rossa (fig.21), insieme con altri frammenti dello stes-so tipo di ceramica acroma depurata, priva di inclusi vulcanici, che potrebbe quindi avere una provenienza esterna. Il vaso contenente ocra presenta delle affini-tà con i vasi a tre o quattro anse di due grotte neoliti-che della Sardegna: Grotta Verde e Grotta Filiestru99, oltre che con i livelli della ceramica impressa di due siti in Abruzzo: Grotta Continenza e Grotta dei Pic-cioni100. Anche il contesto rituale mostra similitudini con le due grotte-santuario abruzzesi.

Nei pressi di questi ritrovamenti vi erano fram-menti di ceramica impressa cardiale riferibili a circa venti vasi, elementi di industria litica su selce e quar-zo e resti di fauna domestica e selvatica. A causa dei rimaneggiamenti subiti dagli strati archeologici, non è possibile sapere se si tratti dei resti di una sepoltura sconvolta o se invece ci si trovi di fronte ad una tipo-logia di rito sacrificale. Presumibilmente sembra più credibile la seconda ipotesi, sia per l’assenza di altri resti scheletrici, sia per la presenza a poca distanza dal sito del cranio di un altro circolo di pietre, rima-neggiato in antico e privo di materiali, che richiama contesti cultuali neolitici, tra cui quello della Grotta dei Piccioni101. Tuttavia anche l’ipotesi di una tomba sconvolta è plausibile in quanto si ravvisano somi-glianze con sepolture del Neolitico antico dell’Ita-lia meridionale (Samari, Balsignano) e del sud della Francia (Grotte Gazel, Grotte d’Unang)102.

Anche un allineamento di pietre situato al centro della grotta e contenente frammenti di ceramica a de-corazione cardiale sembrerebbe delimitare un’area sacrale.

Altri resti umani, rinvenuti fuori strato sotto la pa-rete ovest, sono attribuibili ad almeno sette individui, quattro bambini e tre adulti (di cui una donna di età superiore ai trenta anni). Dalle prime analisi effettuate sui denti di due bambini (ad uno dei quali appartiene

il cranio) si sono riscontrate tracce di un arresto della crescita, chiaro segno di malnutrizione nella prima infanzia, che lascia dei solchi caratteristici a livello della superficie dentaria. Un femore potrebbe appar-tenere allo stesso individuo di dodici anni deposto al centro del circolo di pietre: questo perché, fatta salva l’eventualità di una vicinanza fortuita103, una parte di esso (la testa non ancora saldata) è stata rinvenuta non lontano dal cranio e nello stesso strato.

A ridosso della parete est è stato individuato un focolare composto da un acciottolato con residui di ocra, che conteneva ceramica e macine ricollegabi-li alla ceramica a linee incise. Tra le strutture rituali

trovate si segnalano infine due buche, di cui una con-tenente dell’ocra e due macine, e l’altra un punteruo-lo in osso di capra o pecora, insieme a frammenti di ceramica cardiale.

Queste testimonianze portano ad ipotizzare che la grotta sia stata frequentata durante il Neolitico come luogo di culto.

Il fiume Fiora e il territorio circostante, con le sue paludi costiere e le colline boscose ricche di caccia-gione, hanno costituito in passato un ideale approdo per le genti della ceramica impressa cardiale che dif-fondevano la cultura agraria nel Mediterraneo occi-dentale, come testimoniano numerosi siti tra cui Tor-re Crognola e Monte Rozzi, l’Osteriaccia di Punton di Villa, nelle immediate vicinanze di Settecannelle, Poggio Olivastro, nei pressi delle colline di Canino e Cuccumelletta nella piana di Vulci. Abbastanza age-voli dovevano risultare poi i collegamenti con la Val d’Orcia, assicurati dal fiume Ombrone, dove si tro-vano le grotte della Lattaia e di Sarteano e l’abitato di Pienza. Ampliando il panorama geografico verso sud, è possibile cogliere una fitta rete di insediamenti neolitici, con testimonianze della ceramica impressa nei monti della Tolfa e sul lago di Bracciano, dove si è scoperto l’abitato palafitticolo della Marmotta.

Fig. 20. Cranio rinvenuto all’interno di una struttura semicircolare.

Fig. 21. Frammento di un grande vaso ricoperto con ocra.

18

Verso occidente, nell’arcipelago toscano, impor-tanti ritrovamenti sono stati fatti nelle isole del Gi-glio e di Pianosa, che costituivano uno scalo lungo la rotta percorsa dai navigatori neolitici i quali, sfrut-tando le correnti marine, raggiungevano la Corsica e la Sardegna per approvvigionarsi di ossidiana da commerciare nel continente.

Le diverse analogie e gli scambi documentabi-li anche a distanze significative dimostrano dunque come il mar Tirreno agli inizi del VI millennio rap-presentasse non un ostacolo tra le diverse zone geo-grafiche che gli gravitavano attorno, quanto piutto-sto una risorsa in grado di mantenere e promuovere un’unità geografica e culturale104.

giuditta gatteSchi

1 bertolani – tulli 1993, p. 375. 2 di gennaro 1988, pp. 150-153.3 cifarelli – di gennaro 1993, p. 224.4 caSi et alii 1998, p. 424.5 Ibidem. 6 caSi – mieli 1998, p. 412.7 perSiani 2000, pp. 347-353.8 caSi – Stoppiello 1993, pp. 253-260.9 caSi et alii 1998, p. 424.10 caSi et alii 1998, pp. 421-432.11 Ibidem.12 cifarelli – di gennaro 1993, pp. 223-233.13 negroni catacchio – pellegrini 1988, p. 67.14 negroni catacchio – pellegrini 1988, p. 83.15 di gennaro 1986, p. 51.16 ucelli gneSutta 2002, p. 23.17 gneSutta ucelli – mallegni 1988, p. 323.18 Si ringrazia Paola Gnesutta per la preziosa collaborazione alla stesura del presente articolo, nonché per la documentazione fo-tografica gentilmente fornita. 19 ucelli gneSutta 2004, p. 3. Sono state trovate infatti tracce di un muro medievale costituito da grosse pietre, fungente da base per una struttura adiacente all’ingresso della grotta che ne ha intaccato i livelli antichi fino a quello Eneolitico. 20 gneSutta ucelli – mallegni 1988, p. 306.21 ucelli gneSutta 1993, p. 275.22 boSchian et alii 2004, p. 8.23 boSchian – ucelli gneSutta 1995, p. 46.24 Il crioclastismo è il fenomeno nel quale l’acqua, infiltrandosi nei pori della roccia e gelandosi con l’abbassamento della tem-peratura sotto lo zero, provoca delle spaccature che generano materiale detritico.25 Detto del clima caratterizzato da forti escursioni termiche tra estate e inverno.26 E’ una roccia sedimentaria composta da materiale molto fine di colore giallastro, per la presenza di ossidi di ferro, e con un’al-ta percentuale di carbonato di calcio.27 Il Dryas è una piccola pianta dei paesi nordici, che ha dato il nome a una serie di stadi finali freddi e aridi delle glaciazioni; a seconda degli autori inizia 16.000 o 14.000 anni fa.28 Fase temperata e umida corrispondente all’ultimo periodo del-la glaciazione Wurm.

29 boSchian – ucelli gneSutta 1995, p. 49.30 boSchian et alii 2004, p. 8.31 I dati si riferiscono ad un campione analizzato nei quadrati di scavo G-M / 6-7; il resto del materiale è in corso di studio.32 A Grotta Romanelli (Puglia), Grotta delle Mura (Monopoli), Grotta della Cala e Grotta del Mezzogiorno (Campania). 33 Cantoro 2004, p. 9.34 In particolare cibo ad alto valore proteico. 35 abbazzi 1995, pp. 189-206.36 ucelli gneSutta 1998a, p. 82.37 Sono il residuo del blocco originario privato di “schegge” (nel caso in cui la lunghezza e la larghezza dell’oggetto siano quasi equivalenti) o di “lame” (se la lunghezza è superiore al doppio della larghezza). 38 Si tratta di strumenti usati per perforare o incidere. 39 Sono schegge o lame a fronte arcuato usate nella lavorazione delle pelli, delle ossa e del legno.40 Strumenti caratterizzati da ritocco erto su un lato (dorso).41 Punte a dorso microlitiche su lama molto slanciata. 42 Punte a ritocco erto con incavo (cran) per l’immanicatura.43 Cfr. radmilli 1974; pennacchioni – tozzi 1984; palma di ce-Snola 1984.44 dini – petrinelli 2004, p. 11.45 Il Romanelliano è l’ultima fase dell’Epigravettiano finale, in cui l’arte si manifesta soprattutto attraverso rappresentazio-ni simboliche astratte, costituite da motivi lineari che coprono quasi tutto il supporto. 46 ucelli gneSutta 2004 (a cura di), p. 13.47 d’errico – ucelli gneSutta 1999, p. 134. Si tratta dell’esem-plare appartenente ad un adulto; i canini dell’Epigravettiano fi-nale provengono da un cervo giovane e gli altri invece da indivi-dui molto vecchi. I due canini non perforati, ritrovati nello stesso strato, sono di un animale giovane e di uno adulto. 48 ucelli gneSutta – criStiani 2002, p. 157.49 Si tratta di una decorazione molto diffusa durante l’Epigravet-tiano consistente in un motivo a forma di “V”che deriva proba-bilmente dalla stilizzazione delle corna di capra, da cui prende il nome. Può essere singolo o combinato con altri elementi ac-costati o sovrapposti, nel qual caso forma un motivo a “spina di pesce”. 50 d’errico – ucelli gneSutta 1999, pp. 131-134.51 ucelli gneSutta 2004 (a cura di), p. 14.52 d’errico – ucelli gneSutta 1999, pp. 128, 156.53 I Gasteropodi sono una famiglia di conchiglie che si distingue per avere il guscio esterno formato da un solo elemento, mentre i Bivalvi, cui appartiene la Glycymeris, hanno il guscio esterno formato da due parti speculari.54 gatteSchi 1999.55 gatteSchi 2004, p. 14.56 ucelli gneSutta 1998, p. 137.57 Cfr. radmilli 1974, fig. 36, n° 2.58 Cfr. grazioSi 1973, tavv. 82, 83.59 Cfr. grazioSi 1973, tav. 70.60 L’arte maddaleniana appartiene alla cultura omonima che prende il nome da un sito del sud-ovest della Francia, La Mag-dalene. Risulta caratterizzata da un’omogeneità nell’industria litica (lamelle a dorso con margine denticolato e bulini a becco) e dall’abbondanza di manufatti su osso e avorio come arpioni, zagaglie, ecc.61 ucelli gneSutta 1998, pp. 123-139.62 d’errico – ucelli gneSutta 1999, p. 146. Si denomina così uno stile di incisioni artistiche molto diffuso nella penisola ita-liana, contraddistinto dalla presenza di figure animali raffigura-te solo dal conterno, i cui arti sono abbozzati e le corna spesso definite o da un singolo tratto o da più tratti che restano aperti.

19

63 Cfr. bartoli et alii 1977. 64 Cfr. radmilli 1974, fig. 30.65 d’errico – ucelli gneSutta 1999, pp. 121-160.66 d’errico – ucelli gneSutta 1999, p. 153.67 ucelli gneSutta 2004 (a cura di), p. 13.68 criStiani 2004, p. 12.69 Cfr. radmilli 1974, fig. 28, n° 2.70 Cfr. grazioSi 1973; grifoni cremoneSi 1998.71 Cfr. leonardi 1988.72 ucelli gneSutta – criStiani 2002, pp. 143-160.73 criStiani 2004, p. 12.74 Cfr. radmilli 1974, fig. 27, n° 13.75 Cfr. radmilli 1977, figg. 85, 86.76 Cfr. leonardi 1988, fig. 27.77 Cfr. mezzena – palma di ceSnola 1992. 78 Cfr. Grotta Giovanna (Segre naldini 1992), Grotta Romanel-li, Grotta del Cavallo, Grotta delle Veneri di Parabita (grazioSi 1973; vigliardi 1972; martini 1992; cremoneSi 1992).79 ucelli gneSutta 1998a, pp. 84, 85.80 d’errico – ucelli gneSutta 1999, p. 154.81 Fase temperata e umida nell’ultimo periodo della glaciazione Wurm.82 ucelli gneSutta – criStiani 2002, p. 158.83 ucelli gneSutta 2000, p. 27.84 ucelli gneSutta – bertagnini 1993, p. 69. In alcuni casi infatti sono stati trovati frammenti dello stesso vaso dislocati in settori lontani tra loro, che confermano i rimaneggiamenti avvenuti. 85 ucelli gneSutta 2004 (a cura di), p. 5.86 ucelli gneSutta 2002, pp. 25, 26.87 ucelli gneSutta 2004 (a cura di), p. 5.88 ucelli gneSutta 1999, p. 59.89 La ceramica figulina è composta da un impasto depurato, os-sia una mistura decantata di terre fini omogenee, senza elementi degrassanti di diverso spessore e natura.90 ucelli gneSutta 2004 (a cura di), p. 5.91 ucelli gneSutta 2000, p. 30.92 ucelli gneSutta – bertagnini 1993, p. 104.93 Cfr. grifoni 1967.94 ucelli gneSutta 2002, p. 26.95 ucelli gneSutta 2000a, pp. 30, 31.96 ucelli gneSutta 1999a, p. 144.97 ucelli gneSutta 2000, p. 30.98 ucelli gneSutta 2003, p. 1072.99 ucelli gneSutta 2002, p. 24. Cfr. tanda 1980; trump 1982.100 ucelli gneSutta 1999, p. 64. Cfr. grifoni cremoneSi – mal-legni 1978; cremoneSi 1976.101 ucelli gneSutta 2004 (a cura di), p. 6.102 ucelli gneSutta 2003, p. 1074.103 gneSutta ucelli – mallegni 1988, pp. 303-325.104 ucelli gneSutta 2002, p. 26.

bibliografia

abbazzi l. 1995, “Occurence of palmated Cervus elaphus from

Italian late Pleistocene localities”, in Rendiconti Fi-sici dell’Accademia Nazionale dei Lincei s. 9, v. 6, Roma, pp. 189-206.

bartoli g. et alii 1977, Bartoli G.-Galiberti A.- Gorini P. “Oggetti d’ar-

te mobiliare rinvenuti nelle province di Grosseto e Pisa”, in Rivista di Scienze Preistoriche XXXII, 1-2, Firenze, pp. 193-217.

bertolani g. b.-tulli r.1993, “Rinvenimenti paleolitici nelle valli del Fiora e

dell’Albegna”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del primo incontro di studi, Saturnia-Farnese, 17-19 maggio 1991), Milano, pp. 375-377.

boSchian g. et alii

2004, Boschian G.-Castiglioni E.-Rottoli M., “Ambien-te e clima nel Paleolitico Superiore”, in Cacciatori e agricoltori preistorici nella Valle della Fiora. La Grotta di Settecannelle: dallo scavo la ricostruzione della vita e della cultura, Catalogo della mostra, a cura di P. Ucelli Gnesutta, Ischia di Castro, p. 8.

boSchian g.-ucelli gneSutta p.1995, “Osservazioni geoarcheologiche sui livelli pa-

leolitici della Grotta delle Settecannelle (Ischia di Castro, VT)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del secondo incontro di studi, Farnese, 21-23 maggio 1993), Milano, pp. 45-51.

cantoro g.2004, “La fauna e il clima a Settecannelle nel Paleoliti-

co”, in Cacciatori e agricoltori preistorici nella Valle della Fiora. La Grotta di Settecannelle: dallo scavo la ricostruzione della vita e della cultura, Catalogo della mostra, a cura di P. Ucelli Gnesutta, Ischia di Castro, p. 9.

caSi c. et alii

1998, Casi C.-Cosentino S.-Leonelli V.-Mieli G., “In-dagine territoriale nella Selva del Lamone: lo scavo dell’abitato preistorico di Prato Pianacquale (Farne-se -VT)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del terzo incontro di studi, Manciano-Farnese, 12-14 maggio 1995), Firenze, pp. 421-432.

caSi c.-mieli g.1998, “Nuovi dati sulla Grotta di Carli di Ischia di

Castro (VT)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del terzo incontro di studi, Manciano-Farnese, 12-14 maggio 1995), Firenze, pp. 411-419.

caSi c.-Stoppiello a. a. 1993, “Indagine territoriale nella Selva del Lamone: le

evidenze pre-protostoriche”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del primo incontro di studi, Saturnia-Farnese, 17-19 maggio 1991), Milano, pp. 253-260.

cifarelli f. m.-di gennaro f.1993, “I bacini della Paternale e della Vesca nella Prei-

20

storia: informazioni sullo sviluppo del territorio della Tuscia dallo studio dei valloni torrentizi”, in Preisto-ria e Protostoria in Etruria (Atti del primo incontro di studi, Saturnia-Farnese, 17-19 maggio 1991), Mi-lano, pp. 223-233.

cremoneSi g.1976, “La Grotta dei Piccioni di Bolognano nel quadro

delle culture dal neolitico all’età del bronzo”, Pisa.1992, “Manifestazioni d’arte mobiliare dai livelli epi-

romanelliani di Grotta delle Veneri di Parabita e da Grotta Marisa presso Otranto (Lecce)”, in Atti XXVIII Riun. Sc. I.I.P.P., Firenze, pp. 303-315.

criStiani e.2004, “Osso e corno. Tecnologia e sperimentazione”,

in Cacciatori e agricoltori preistorici nella Valle della Fiora. La Grotta di Settecannelle: dallo scavo la ricostruzione della vita e della cultura, Catalogo della mostra, a cura di P. Ucelli Gnesutta, Ischia di Castro, p. 12.

d’errico f.-ucelli gneSutta p.1999, “L’art mobilier épigravettien de la Grotte de Set-

tecannelle (Viterbo, Italie). Contexte archéologique, analyse technique et stylistique”, in L’Anthropologie tome 103, n° 1, Paris, pp. 121-60.

di gennaro f.1986, “Forme di insediamento tra Tevere e Fiora dal

Bronzo Finale al principio dell’età del ferro”, Firenze.1988, “Recenti indagini nei comuni di Pitigliano e

Ischia di Castro”, in Il Museo di Preistoria e Proto-storia della valle del fiume Fiora, a cura di N. Negro-ni Catacchio, Manciano, pp. 147-158.

dini m.-petrinelli c.2004, “L’Epigravettiano. L’industria litica del Paleoli-

tico Superiore a Settecannelle”, in Cacciatori e agri-coltori preistorici nella Valle della Fiora. La Grotta di Settecannelle: dallo scavo la ricostruzione della vita e della cultura, Catalogo della mostra, a cura di P. Ucelli Gnesutta, Ischia di Castro, p. 11.

gatteSchi g.1999, “L’uomo e il mare alla fine dell’Epigravettiano

in Italia: i molluschi ornamentali”, Tesi di laurea spe-rimentale in Ecologia Preistorica, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

2004, “L’arte mobiliare. Gli ornamenti. Le conchiglie marine”, in Cacciatori e agricoltori preistorici nella Valle della Fiora. La Grotta di Settecannelle: dal-lo scavo la ricostruzione della vita e della cultura, Catalogo della mostra, a cura di P. Ucelli Gnesutta, Ischia di Castro, p. 14.

grazioSi p.1973, “L’arte preistorica in Italia”, Firenze, Sansoni.

grifoni cremoneSi r.1967, “La Grotta dell’Orso di Sarteano”, in Origini I,

Roma, pp. 53-115.1998, “Alcune osservazioni sul rituale funerario nel

Paleolitico superiore della Grotta Continenza”, in Rivista di Scienze Preistoriche XLIX, Firenze, pp. 395-407.

grifoni cremoneSi r.-mallegni f.1978, “Testimonianze di un culto ad incinerazione nel

livello a ceramica impressa della Grotta Riparo Con-tinenza di Trasacco (L’Aquila) e studio dei resti uma-ni cremati”, in Atti Società Toscana Scienze Naturali, Memorie, Serie A, 85, pp. 253-279.

leonardi l.1988, “Art Paléolithique mobilier et pariétal en Italie”,

in L’Anthropologie 92, n° 1, Paris, pp. 139-202.

martini f.1992, “Nuove incisioni mobiliari dalla Grotta del Ca-

vallo (Lecce)”, in Atti XXVIII Riun. Sc. I.I. P.P., Fi-renze, pp. 327-340.

mezzena f.-palma di ceSnola a.1992, “Nuove manifestazioni d’arte epigravettiana del-

la Grotta Paglicci nel Gargano”, in Atti XXVIII Riun. Sc. I.I. P.P., Firenze.

negroni catacchio n.-pellegrini e. 1988, “Lista dei siti di interesse preistorico e protosto-

rico”, in Il Museo di Preistoria e Protostoria della valle del fiume Fiora, a cura di N. Negroni Catac-chio, Manciano, pp. 62-83.

palma di ceSnola a.1984, “Il Paleolitico Superiore in Lazio”, in Atti XXIV

Riun. Sc. I.I. P.P., Firenze, pp. 55-77.

pennacchioni m.-tozzi c.1984, “L’Epigravettiano di Cenciano Diruto”, in Atti

XXIV Riun. Sc. I.I. P.P., Firenze, pp. 183-193.

perSiani c. 2000, “La Grotta di Carli (Ischia di Castro – VT): rap-

porto preliminare sulla campagna del 1996”, in Prei-storia e Protostoria in Etruria (Atti del quarto in-contro di studi, Manciano-Montalto-Valentano, 12-4 settembre 1997), Milano, pp. 347-353.

radmilli a. m. 1974, “Gli scavi nella Grotta Polesini a Ponte Lucano

21

di Tivoli e la più antica arte nel Lazio”, ORIGINES, Firenze.

1977, “Storia dell’Abruzzo dalle origini all’età del bronzo”, Pisa.

Segre naldini e.1992, “Arte mobiliare della Grotta Giovanna (Siracu-

sa)”, in Atti XXVIII Riun. Sc. I.I. P.P., Firenze, pp. 347-354.

tanda g.1980, “Il Neolitico antico e medio della Grotta Verde,

Alghero”, in Atti XXI Riun. Sc. I.I. P.P., Firenze, pp. 45-94.

trump d. h.1982, “The Grotta Filiestru, Bonu Ighinu, Mara (Sassa-

ri)”, in Actes Colloque Néolithique ancien, Montpel-lier, pp. 327-331.

ucelli gneSutta p.1993, “Nuovi dati sullo scavo nella Grotta delle Set-

tecannelle (Ischia di Castro-Viterbo)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del primo incontro di studi, Saturnia-Farnese, 17-19 maggio 1991), Mila-no, pp. 275-284.

1998, “Un nuovo reperto di arte mobiliare dai livelli epigravettiani della Grotta di Settecannelle”, in Ri-vista di Scienze Preistoriche XLIX, Firenze, pp. 123 -139.

1998a, “Manifestations artistiques de l’Epigravettien final dans le site de Grotta di Settecannelle (Ischia di Castro)”, in Atti XIII Congresso Internazionale U.I.S.P.P., vol. 3, sez. 8, Forlì, pp. 81 – 88.

1999, “Le gisement Néolithique de la grotte de Set-tecannelle (Ischia di Castro – Viterbo – Latium)”, in Actes du colloque international XXIV Congres Pre-historique de France, Carcassonne, 26-30 settembre 1994, pp. 57-64.

1999a, “La Grotta di Settecannelle (Ischia di Castro, VT)”, in Ferrante Rittatore Vonwiller e la Maremma, 1936-1976. Paesaggi naturali, umani, archeologici (Atti del convegno, Ischia di Castro, 4-5 aprile 1998), Ischia di Castro, pp. 141-154.

2000, “Grotta di Settecannelle: analisi di materiali ce-ramici nel quadro del Neolitico dell’Italia centrale”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del quarto incontro di studi, Manciano-Montalto-Valentano, 12 -14 settembre 1997), Milano, pp. 27-38.

2000a, “La ceramica impressa cardiale nella Grotta di Settecannelle ed i suoi rapporti con l’area tirrenica”, in I rapporti tra l’Italia centrale tirrenica e la Cor-sica in età antica: il Neolitico a ceramica impressa cardiale, Interreg II Toscana-Corsica, Piombino, 23 dicembre 1999-30 gennaio 2000, pp. 30-31.

2002, “Gente del mare: gruppi della Ceramica Cardiale e rapporti tra isole e coste centro-tirreniche”, in Prei-storia e Protostoria in Etruria (Atti del quinto in-contro di studi, Sorano-Farnese, 12-4 maggio 2000), Milano, pp. 23-34.

2003, “Testimonianze di culti funerari nella Grotta di Settecannelle (Ischia di Castro-Viterbo)”, in Atti XXXV Riun. Sc. I.I. P.P., Lipari, giugno 2000, Firen-ze, pp. 1071-1075.

2004, (a cura di) “Cacciatori e agricoltori preistorici nella Valle della Fiora. La Grotta di Settecannelle: dallo scavo la ricostruzione della vita e della cultu-ra”, Catalogo della mostra, Ischia di Castro.

ucelli gneSutta p.-bertagnini a.1993, “Grotta delle Settecannelle (Ischia di Castro-

Viterbo). Analisi ed inquadramento della ceramica preistorica”, in Rassegna di Archeologia 11, Firenze, pp. 67-112.

ucelli gneSutta p.-criStiani e.2002, “Analisi stilistica e tecnologica di frammenti di

osso decorato dai livelli epigravettiani della Grotta di Settecannelle (Viterbo)”, in Rivista di Scienze Prei-storiche LII, Firenze, pp. 143-160.

ucelli gneSutta p.-mallegni f. 1988, “Note preliminari sullo scavo della Grotta del-

le Settecannelle (Ischia di Castro-Viterbo)”, in Atti Società Toscana Scienze Naturali, Memorie, Serie A, 95, pp. 303-325.

vigliardi a.1972, “Le incisioni su pietra romanelliane della Grotta

del Cavallo (Uluzzo, Lecce, Puglia)”, in Rivista di Scienze Preistoriche XXVII, Firenze, pp. 56-115.

Foto di Paola Ucelli Gnesutta, elaborazione della car-ta siti di Eraclio Tozzi, rilievo topografico di Giovanni Centini, stratigrafia di Remo Rachini.

23

2. LE EVIDENZE DELL’ETà DEI METALLI NEL TERRITORIO COMUNALE DI ISChIA DI CASTRO

La straordinaria ricchezza archeologica del ter-ritorio comunale di Ischia di Castro1, che si ma-nifesta con dati certi – allo stato attuale delle co-noscenze – a partire dal Paleolitico Superiore per arrivare al Medioevo, ha da sempre offerto e con-tinua ad offrire agli studiosi una fonte pressoché inesauribile di importanti testimonianze del pas-sato, un buon numero delle quali è riconducibile all’Età dei Metalli (Fig. 1)2.

Di tali evidenze, come è noto3, molte sono state intercettate per la prima volta, e spesso indagate più approfonditamente, grazie all’intensa attività di ricerca che prese il via, attorno agli anni Qua-ranta del secolo scorso, con l’opera incessante di Ferrante Rittatore Vonwiller4. Alla grande quantità dei dati del passato, purtroppo ancora non cono-sciuta in modo adeguato, vanno anche aggiunti gli interessanti risultati delle recenti ricerche: fra le più importanti per il periodo affrontato, di certo sono da ricordare le indagini territoriali all’interno della Selva del Lamone5, i saggi stratigrafici nella Grotta di Carli6 e, infine, lo scavo ancora in corso nel sito di Selvicciola.

L’occasione offerta da questa pubblicazione rende possibile ancora una volta, seppur breve-mente, riproporre alcune tappe fondamentali di una lunga fase della Preistoria locale di cui, anche nel nuovo allestimento del Museo Civico, sono esposte alcune significative testimonianze.

24

2.1. eneolitico Durante tutto l’Eneolitico, dalla metà circa del IV

fino agli ultimi secoli del III millennio a.C. in crono-logia calibrata, il territorio di Ischia di Castro è carat-terizzato essenzialmente dalla presenza delle necro-poli riconducibili alla Cultura di Rinaldone. Molto poco possiamo dire riguardo ad altre manifestazione culturali risalenti allo stesso periodo: la facies del Bicchiere Campaniforme, per esempio, maggior-mente attestata nelle aree limitrofe, è confermata nel nostro territorio soltanto dai due frammenti spora-dici di ceramica decorata con impressioni a pettine raccolti in loc. Punton di Villa-Casale Tiberi (Fig. 2) e in loc. Poggio Conte (Fig. 3), dal brassard litico proveniente dall’area di abitato di Crostoletto del Lamone, oltre che dai più cospicui reperti recuperati a Fontanile di Raim7.

Di certo più numerose le evidenze rinaldoniane, di cui con certezza si conoscono almeno otto necro-poli8; la prima di esse ad essere scoperta, nel 1941, fu quella di Ponte S. Pietro, posta sul versante me-ridionale del costone tufaceo in loc. Pianizza sulla

sinistra del Fiora. Le attività di scavo qui condotte da F. Rittatore Vonwiller e L. Cardini, per quasi un ven-tennio, seppur con ampi intervalli, hanno permesso di recuperare ben venticinque tombe le cui evidenze sono state oggetto recentemente di un nuovo e accu-rato studio9.

Risale al 1950 la segnalazione dell’esistenza di due tombe rinaldoniane in loc. Chiusa d’Ermini, nei pressi del Fosso della Paternale in direzione di Vulci10. Al momento del recupero le strutture presentavano la volta interamente crollata e i livelli di base – conte-nenti ossa e corredi – inglobati nelle concrezioni di calcare; intatte invece erano le lastre di chiusura delle celle funerarie. Negli anni Settanta del secolo scorso, a causa della frequente attività dei clandestini svol-ta nel sito, fu necessario sottoporre a nuova indagine esplorativa l’intera area per accertare almeno la reale ampiezza del sepolcreto: in quest’occasione furono identificate ulteriori dieci tombe, tutte violate già da tempo, che non restituirono alcun reperto di rilievo. L’esplorazione, tuttavia, permise di recuperare altre due strutture tombali, non sconvolte, con la volta della cella al momento del ritrovamento crollata; una con-

Fig. 1. Ischia di Castro, localizzazione dei principali siti dell’Età dei Metalli. (1. Fontanile di Raim; 2. Fosso delle Fontanelle; 3. Ortaccia; 4. Chiusa d’Ermini; 5. Pianetti di Castro; 6. Selvicciola; 7. Ponte S. Pietro e Ponte S. Pietro Valle; 8. Crognoletto dell’Arsa; 9. Poggio Volparo; 10. Mandriane di S. Giovanni; 11. Crostoletto di Lamone; 12 Punton di Villa; 13. Pianizza; 14. Grotta di Carli; 15. Grotta di Settecannelle; 16. Felcetone; 17. Grotta della Paternale; 18. Grotta Misa; 19. Grotta Nuova; 20. Cantone di Pietro; 21. Infernetto; 22. Chiusa Galantini; 23. Castelfranco Lamoncello).

Fig. 2. Punton di Villa – Casale Tiberi, frammento di ceramica campaniforme (da: negroni catacchio 1981).

Fig. 3. Poggio Conte, frammento di ceramica campaniforme (da: negroni catacchio 1990).

25

teneva soltanto alcuni frammenti ossei, l’altra invece conservava in posto sia l’inumato, un adulto maschio rannicchiato sul fianco sinistro, sia il relativo vaso di corredo11.

Del 1960 è la scoperta del sito di Fosso delle Fon-tanelle12; a tal proposito nel Notiziario della Rivista di Scienze Preistoriche dello stesso anno, a firma di L. Cardini e F. Rittattore, si può leggere: <<Una bre-ve campagna nell’autunno del 1960 ha condotto allo scavo di alcune tombe a forno, aperte nel tufo, presso il Fosso delle Fontanelle a non grande distanza da Ponte S. Pietro. Purtroppo le tombe erano state svuo-tate quasi completamente in antico, tuttavia qualche frammento ceramico indizia età eneolitica o al mas-simo del Bronzo iniziale. Interessantissima la costa-tazione che le porte dei loculi funebri si aprivano su una facciata ricavata nel banco di tufo>>.

Molto scarse sono le informazioni che si posso-no collazionare per le necropoli di Crognoletto del-l’Arsa13 e Poggio Volparo14, scoperte entrambe nel 1970, che in base a quanto è noto hanno restituito rispettivamente quattro e sei15 strutture tombali tutte profanate già da lungo tempo.

Due anni dopo, nel 1972, a seguito di alcuni lavo-ri agricoli in un declivio orientato verso Sud-Ovest in loc. Ortaccia16, si giunse al ritrovamento di altre due tombe rinaldoniane di cui furono raccolti tutti i materiali componenti i corredi. L’anno seguente fu anche eseguito un intervento diretto sul sito che, oltre al riconoscimento di precedenti attività illecite come testimoniarono subito le tombe 2 e 3 comple-tamente svuotate, permise di rintracciare e quindi scavare la tomba 1 ancora integra. Nella nota pub-blicata dal Falchetti sul recupero delle cinque grot-ticelle artificiali, è prestata molta attenzione alla de-scrizione delle strutture e dei reperti, mentre nessuna informazione utile viene fornita a proposito dei resti antropologici.

È del 1987 la scoperta della necropoli di Selvic-ciola, avvenuta casualmente in concomitanza con lo scavo della villa romana attigua, che è situata su un lieve pendio rivolto a Sud sulla riva sinistra del fos-so Strozzavolpe, poco prima della sua confluenza col fiume Fiora. Allo stato attuale il numero complessivo delle tombe indagate ammonta a oltre una trentina e potrebbe aumentare con il proseguimento dei lavori di scavo. L’importanza delle ricerche in questo sito, come si accennerà in seguito, è legata in particola-re agli accurati studi antropologici relativi al rituale funerario adottato dalle comunità rinaldoniane e alle preziosissime datazioni assolute, le uniche disponibi-li per tutte le necropoli fino ad oggi indagate in questa area, ottenute con il metodo del C14.

L’ultima necropoli rinaldoniana nota infine, quel-la in loc. Fontanile di Raim17, è venuta alla luce nel 1994 a seguito di alcuni lavori di scasso agricolo con mezzi meccanici che ne hanno provocato, sor-te comune anche ad altre necropoli del territorio, la quasi completa distruzione. Tuttavia, a seguito delle operazioni svolte e delle osservazioni fatte dagli ar-cheologi sia al momento del ritrovamento che nella campagna di ripulitura e documentazione del 1998, è stato possibile recuperare un buon numero di dati. Fra le altre risulta di una certa importanza l’evidenza archeologica della tomba 2: oltre ad essere una strut-tura di dimensioni ragguardevoli (3,6 m. x 3,8 m.), la più grande rispetto alle altre recuperate, essa ha re-stituito importanti elementi di corredo nella parte più bassa del pavimento, che conservava ancora parte del riempimento terroso, dove, insieme a materiali ricon-ducibili a forme tipicamente rinaldoniane, sono stati recuperati frammenti di ceramica con decorazione a pettine riconducibili all’aspetto culturale del “Bic-chiere Campaniforme” (Fig. 4).

A questo punto è possibile fare alcune considera-zioni di carattere generale sulla Cultura di Rinaldo-ne, anche al fine di far meglio comprendere l’impor-tanza dei ritrovamenti sopra brevemente ricordati.

La cultura di Rinaldone, dal nome della locali-tà nei pressi di Montefiascone (Viterbo) dove nel 1903 furono scoperte le prime tombe, era diffusa durante tutto l’Eneolitico nell’area centrale tirrenica fra Toscana meridionale e Lazio settentrionale, con una massima concentrazione lungo la valle del me-dio corso del fiume Fiora, oltre che nell’area sud-orientale del territorio di Roma a sud del Tevere18. La documentazione archeologica a nostra disposi-zione per la conoscenza e lo studio di questa cultura è connotata fortemente in senso funerario, essendo praticamente sconosciuti contesti di abitato associati alle necropoli o ad esse riconducibili. Sembra essere assodato che l’elemento caratterizzante della cultura sia proprio la tipologia delle necropoli, formate da

Fig. 4. Fontanile di Raim, ceramica campaniforme della tomba 2 (da: petitti et alii 2002).

26

un numero variabile di ambienti ipogei artificiali de-nominati “tombe a forno”, e tutti gli aspetti del com-plesso rituale funerario che in esse si manifestano.

Le tombe erano costituite essenzialmente da due elementi: una struttura di accesso e una camera se-polcrale o cella. Gli accessi alle camere funerarie potevano essere costituiti dalla sola porta, da un pic-colo corridoio o da un vestibolo di forma variabile, quadrangolare, ellittico oppure circolare. Il rinveni-mento di alcune tombe prive di strutture di accesso, in cui quindi l’ingresso nella cella funeraria avveni-va direttamente oltrepassando la lastra di chiusura in pietra, potrebbe essere spiegata dal fatto che gli ipogei talvolta erano posti su pendii fortemente sco-scesi che non rendevano possibile la costruzione dei vestiboli di accesso. Tale motivazione potrebbe es-sere valida per alcune tombe di Ponte S. Pietro e per altre del Naviglione (Farnese, VT), necropoli que-st’ultima che si apre addirittura sulla sommità di una forra scavata dal torrente omonimo. Per altri casi, come per le necropoli di Ortaccia, Palombaro (Far-nese, VT) e Porcareccia (Pitigliano, GR), sussiste il dubbio che l’assenza dei vestiboli di accesso sia da imputarsi al pessimo stato di conservazione del mo-numento funerario al momento del ritrovamento; è altresì possibile che in passato, data la minore im-portanza assegnata a questa componente strutturale dagli scopritori, considerata come del tutto secon-daria in rapporto alla cella in cui erano conservati i resti dei defunti, essa non sia stata affatto rilevata o segnalata. La camera che ospitava gli inumati poteva avere una forma circolare o ellittica, con dimensioni medie che variavano da un minimo di 1,25 x 1,10 m ad un massimo di 2,85 x 2,10 m. In base a quanto si può osservare nelle necropoli più esaustivamente edite, lo spazio all’interno di una cella non era diret-tamente proporzionale al numero degli inumati che vi erano deposti. È ipotizzabile inoltre che la dimen-sione delle tombe rinaldoniane, da un punto di vista funzionale, potesse permettere ai membri vivi della comunità di espletare tutte le operazioni rituali pre-viste e necessarie.

In generale, laddove i dati di scavo lo hanno con-sentito, sono state riconosciute inumazioni multiple (in prevalenza), singole e doppie, solo in pochi casi del tipo definito recentemente ad “ossario” (necro-poli di Selvicciola). Nelle tombe multiple si è potuto rilevare che l’uso di accantonare, o verso il fondo della cella o su un lato di essa, i resti delle prece-denti inumazioni per far posto ad una nuova deposi-zione (Fig. 5), pratica fino a poco tempo fa ritenuta pressoché dominante nella cultura di Rinaldone, è in realtà molto meno frequente di quanto si pensasse e

comunque solo in pochi casi dimostrabile con i dati antropologici a disposizione.

I dati desumibili dalla documentazione delle ne-cropoli meglio studiate, in particolare di Selvicciola, mostrano un ventaglio di situazioni davvero ampio di modi di seppellire il defunto. Si distinguono tom-

be con inumazione singola in connessione totale o parziale o con inumazione singola associata ad altri resti non in assetto anatomico; inumazioni doppie con un individuo in connessione o parzialmente di-sarticolato e l’altro non in assetto anatomico oppure con entrambi i defunti non in connessione; inuma-zioni multiple con un solo scheletro in connessione, o in parte disturbato, e altri resti sconnessi; infine i già ricordati “ossari” con resti parziali rideposti in-tenzionalmente, a volte all’interno di un ipogeo di-verso da quello in cui è avvenuta la precedente depo-sizione. Nelle necropoli rinaldoniane è ipotizzabile dunque una sequenza di interventi operati sui resti umani con riapertura della camera sepolcrale, che sottolineano come le diverse situazioni riscontrabili possano corrispondere ad un determinato momento di un rituale straordinariamente articolato sia nello spazio che nel tempo.

Dai dati finora disponibili, sembra che il primo atto sia rappresentato dall’inumazione di un indivi-duo accompagnato, nella quasi totalità dei casi, da un corredo personale riconoscibile. A questo primo stadio fanno seguito tutte quelle situazioni in cui gli scheletri sono stati disturbati nell’ordine anato-mico senza però essere confusi con altri individui. Esempi molto chiari in questo senso sono offerti dalle tombe 1, 4 e 12 di Selvicciola e da quelle in cui l’unica manipolazione consiste nella rotazione del cranio (tomba 15 di Selvicciola e 20 di Ponte

Fig. 5. Ponte S. Pietro, pianta della tomba 22 (da: miari 1993).

27

S. Pietro). È molto probabile che questi interventi, eseguiti a distanza di tempo dalla deposizione ini-ziale con l’obiettivo di annullare progressivamente l’ordine anatomico, vadano strettamente collegati ad una forma di “rito di passaggio” che sanciva l’uscita definitiva dell’individuo dalla società dei vivi e la sua aggregazione definitiva al mondo dei morti. Un ulteriore stadio nel trattamento degli inu-mati è rappresentato da tutte quelle situazioni in cui le ossa di un individuo vengono selezionate e tra-slate in altre tombe, probabilmente con una minima parte del corredo anch’esso scelto e spostato, in un processo di totale disgregazione della individualità del defunto che in alcune tombe ossario trova la più compiuta espressione. Questo processo si riscontra in particolare nella tomba ossario numero 3 di Sel-vicciola nella quale ossa significative, e riconosci-bili come probabilmente appartenenti ad uno stesso individuo (crani, mandibole, femori), sono state deposte l’una lontano dall’altra dopo essere state selezionate. Un rituale lievemente diverso sembra invece riscontrarsi negli ossari 10 e 11 dove le po-che ossa rappresentanti gli individui sono rideposte lungo le pareti della camera.

Per la cultura di Rinaldone agli ormai numerosi e accurati studi di cronologia relativa, basati sia sui materiali ceramici sia sulle produzioni metallurgi-che, corrispondono purtroppo pochi riferimenti in termini di cronologia assoluta. Le uniche datazioni al C14 sono quelle della tomba senese di Colle Val d’Elsa (3505 – 3350 BC cal. 1 σ) e quelle effettuate a Selvicciola (comprese fra il 3631 – 3381 BC cal. 1 σ e il 2195 – 1965 BC cal. 1 σ) e a Lunghezzina (Roma) eseguite su collagene umano19. Le date ot-tenute per Selvicciola hanno permesso di costatare con certezza per il sito, ma è una realtà ipotizzabile anche per le altre necropoli, da un lato un lungo pe-riodo d’uso del sepolcreto – variamente confermato anche dagli studi crono – tipologici sui materiali di corredo –, dall’altro la presenza della pratica riguar-dante la rideposizione dei resti più antichi in contesti anche molto più recenti. Due casi emblematici sono quelli delle tombe multiple 5 e 8 di Selvicciola, in cui i rispettivi individui sepolti al loro interno non possono essersi incontrati in vita nell’ambito della loro comunità, ma si sono effettivamente congiunti grazie a chi ne ha manipolato i resti scheletrici. Seb-bene ancora poche, le datazioni assolute a nostra di-sposizione rendono chiara l’importanza, per la com-prensione del rituale della cultura di Rinaldone, non solo del fattore legato agli spazi (tombe), ma anche di quello connesso alle diverse manipolazioni avve-nute attraverso il tempo.

La riconsiderazione di tutti i dati antropologici editi permette inoltre di rilevare – in modo innova-tivo rispetto a quanto detto in passato – la presenza di un numero elevato di individui giovanili sepolti nelle grotticelle artificiali rinaldoniane. Nella lettera-tura antropologica del passato, quasi mai è stata fatta un’ulteriore distinzione di età all’interno della fascia degli individui giovanili, di conseguenza si ipotizza-va che i bambini non avessero accesso alle necropo-li. I dati più recenti, ottenuti sia per Poggialti Valle-lunga (Pitigliano, GR) che per Selvicciola, attestano invece che sia i bambini, sia gli adolescenti venivano sepolti nelle necropoli. Un caso rilevante è attestato proprio a Selvicciola dove, nella tomba 6, è presente un solo individuo di 9 anni, ancora in connessione anatomica, con un corredo composto da due cioto-le, tre cuspidi di freccia, un punteruolo di rame e un dentalium di ornamento. Per quanto concerne le altre classi di età il maggior numero degli inumati, sia ma-schili che femminili, aveva raggiunto l’età adulta al momento della morte; pochissimi sono gli individui adulto – maturi e ancora meno coloro i quali hanno raggiunto l’età della vecchiaia (oltre i 50 anni). I pri-mi casi di adulti con un’età compresa fra i 40 e i 50 anni sono stati rintracciati, per il momento, solo a Selvicciola (5 casi su 64 individui finora studiati).

Per quanto riguarda il sesso, il numero degli inu-mati maschili è solo lievemente superiore a quello degli inumati femminili e, ad eccezione delle tombe singole con scheletro in assetto anatomico completo, che nella quasi totalità sono uomini, entrambi sono presenti nelle varie tipologie tombali e subiscono analoghi trattamenti.

Fra gli elementi del corredo quello considerato di maggiore interesse nella cultura di Rinaldone è il vaso a fiasco (Fig. 6). Questo fittile ricorre general-mente in singoli esemplari con un numero comples-sivo di ritrovamenti, escludendo gli sporadici, che ammonta – allo stato attuale delle ricerche – a oltre 60. I vasi a fiasco vengono a costituire, quindi, quasi il 90 % di tutto il repertorio ceramico della cultura

Fig. 6. Ischia di Castro (territorio), esemplari di vasi a fiasco.

28

di Rinaldone. Nel rituale funerario esso era deposto vicino agli inumati dove veniva lasciato, in base a quanto si è osservato per la necropoli di Garavicchio (Capalbio, GR) e Ponte S. Pietro, fino a quando lo scheletro non perdeva totalmente il suo assetto ana-tomico. Con tutta probabilità il vaso a fiasco, in rari casi sostituito da un’altra forma vascolare, doveva rappresentare un oggetto propriamente di carattere funerario, deposto intenzionalmente dopo la morte e, cosa più importante, indipendentemente dal corredo personale del defunto, ma ad esso legato fino a quan-do rimaneva in connessione anatomica. Nell’eviden-za archeologica di Selvicciola tuttavia tale ipotesi, verificabile nelle due necropoli sopra citate, pare non trovare per il momento conferma.

Fra gli altri oggetti recuperati nei corredi si anno-verano anche altre forme vascolari fra cui le scodelle e le ciotole carenate oltre che alcuni vasetti d’impa-sto di forma cilindrica e troncoconica.

Nell’ambito dell’industria litica sono molto ben rappresentate le cuspidi di freccia (circa 185 elementi), quasi tutte con peduncolo e spalle. Ac-canto ad alcuni esemplari di più accurata fattura, sono presenti anche punte asimmetriche e talvolta ritoccate su una sola faccia. Scarsamente rappre-sentati sono i pugnali litici: in totale se ne contano solamente 3 esemplari. Ancora meno documentate sono le lame ritoccate come quelle recuperate per il momento solo a Garavicchio, mentre abbastanza rappresentati risultano gli oggetti in pietra levigata (teste di mazza e asce – martello). Queste ultime compaiono nei contesti rinaldoniani nel tipo a cor-po cilindrico, più o meno allungato, rigonfio in cor-rispondenza dell’occhio.

Gli oggetti di metallo comprendono lesine, asce piatte e pugnali nei tipi “Ponte S. Pietro”, “Rinaldo-ne” e “Guardistallo”; un pugnale non riconducibile ai tipi noti, ancora inedito, proviene dalla tomba 15 di Selvicciola. Realizzati in metallo, ma anche in pietra e materiale duro di origine animale sono pure alcuni elementi di ornamento, come le piccole e fra-gili perline o i vaghi di collana.

Va considerato infine che la quantità e le modalità del ritrovamento degli oggetti del corredo personale all’interno delle celle sia in relazione con il proces-so di selezione e rideposizione degli stessi del tutto analogo e parallelo a quello subito dai resti ossei.

Alcuni indizi di differenze di status si possono cogliere in alcune sepolture singole e doppie in cui il corredo, associabile all’individuo inumato, sembra distinguersi per il numero degli elementi presenti (Fig. 7). In alcuni casi, indizi di una maggiore im-portanza degli individui sepolti potrebbe essere an-

che indiziata dalle tombe che presentano alcune ca-ratteristiche architettoniche (per esempio la facciata dell’ipogeo lavorata come a Porcareccia o le mag-giori dimensioni della struttura riscontrate in alcune tombe a Ponte S. Pietro e a Selvicciola) che devono aver richiesto un maggior dispendio di energie nella loro costruzione.

Per concludere si segnala che in tutte le necro-poli di cui è nota la planimetria generale, le strut-ture tombali si dispongono in modo da permettere all’osservatore di individuare e riconoscere dei rag-gruppamenti di tombe. Anche se in alcuni siti, come in quello eponimo di Rinaldone e del Naviglione, la distribuzione delle tombe per gruppi sembrerebbe dettata dalle condizioni morfologiche del sito stes-so, in altri (Ponte S. Pietro e Selvicciola in parti-colare) l’articolazione topografica, più articolata e complessa e non determinata dalla natura del luogo, a quanto oggi rilevabile, farebbe ipotizzare altri fat-tori all’origine. Al momento, tuttavia, non è ancora possibile riconoscere una causa unitaria per questo fenomeno che potrebbe essere legato, ad esempio, agli aspetti cronologici delle necropoli – cioè ai loro lunghi periodi d’uso – oppure potrebbe rispecchiare l’esistenza di raggruppamenti sociali basati su vin-coli di parentela o di residenza. Un’organizzazione spaziale delle necropoli in base alle distinzioni di sesso o di età sembrerebbe invece meno probabile, almeno da quanto si evince dalle due necropoli me-glio indagate di Ponte S. Pietro e Selvicciola.

Fig. 7. Ponte S. Pietro, sezione e pianta della tomba 20 (da: miari 1993).

29

Appare evidente dal quadro qui sommariamente e non completamente delineato che le nuove eviden-ze indagate, soprattutto quella ischiana di Selviccio-la, unite ad alcune riconsiderazione dei ritrovamenti del passato, in modo prudente a causa della lacuno-sità delle fonti, hanno consentito di riconoscere la complessa realtà degli aspetti funerari e rituali della Cultura di Rinaldone, a cui le ricerche ancora in cor-so nel territorio in questione contribuiranno a fornire una migliore comprensione.

2.2. età del bronzo

2.2.1. Antica Età del Bronzo (circa 2300 – 1700 a.C.)

A partire all’incirca dalla fine del III millennio a.C., nella penisola italiana, contestualmente alle dinamiche che interessarono la preistoria su scala europea, iniziano ad essere evidenti sul piano tecno-logico, economico e culturale quei cambiamenti che caratterizzano gli inizi dell’Età del Bronzo.

La produzione metallurgica, in particolare, com-pie un balzo in avanti con la scoperta e l’uso della lega rame – stagno, il bronzo, e con l’aumento di nuo-ve classi di oggetti realizzabili. L’innovazione della metallurgia permette di ipotizzare anche una nuova strutturazione delle società, più complessa, dove tro-vano spazio nuove maestranze ad essa legate, quali ad esempio i fonditori e i ricercatori di materie prime e di combustibile. A partire da un momento avanzato del Bronzo Antico compare anche il fenomeno dei ripostigli20, ossia una sorta di riserve di metallo sotto forma di asce o “panelle” di materiale grezzo, che costituiscono una delle prime forme di “accumula-zione di ricchezza” e relativa tesaurizzazione.

Cercare tuttavia di rintracciare su un territorio specifico, come quello oggetto della presente tratta-zione, tutti i caratteri distintivi di questa fase della preistoria risulta allo stato attuale compito ancora arduo, a causa dell’oggettiva inadeguata condizione della documentazione archeologica disponibile. Nel territorio in questione la scarsità di indagini condotte in estensione e con una certa continuità in siti relativi all’Antica età del Bronzo, e la penuria di stratifica-zioni archeologiche chiaramente leggibili, rendono ancora molto difficile una ricostruzione chiara e puntuale delle modalità di popolamento di questo periodo. In un recente e accurato studio riguardante l’Italia centrale21 nel suo complesso, su una sele-zione di 126 siti con presenze attribuibili in modo certo all’Antica Età del Bronzo, soltanto 8 hanno restituito una serie stratigrafica con livelli riferibi-

li a questa fase; negli altri casi la documentazione consiste in raccolte di superficie, essenzialmente di reperti ceramici quasi sempre cronologicamente eterogenei, il cui unico approccio di studio possibi-le per individuare le diverse fasi di occupazione è l’esame tipologico.

Per quanto concerne Ischia di Castro22, una fre-quentazione del territorio durante l’Antica Età del Bronzo è attestata da alcuni reperti significativi raccolti in siti all’aperto, probabilmente di abitato, e da alcuni contesti in grotta. Per il primo caso si se-gnalano i frammenti ceramici da tempo noti da loc. Pianetti, da Crostoletto di Lamone e Le Cantonate, oltre che quelli più numerosi provenienti dalla Sel-va del Lamone; quest’ultima si configura come un areale ad elevata concentrazione di siti, alcuni dei quali fondati ex novo, che si caratterizzano – stando ai dati delle ricognizioni di superficie appunto – per le loro dimensioni piuttosto contenute e per essere posti a poca distanza gli uni dagli altri, o sulle ampie superfici pianeggianti dei pianori, o sui dolci declivi e nei fondovalle. Per il secondo caso vanno invece ricordati i pochi reperti dalla Grotta di Settecannelle, dalla Grotta di Carli e probabilmente anche da Grot-ta Nuova, Grotta Misa e Grotta della Paternale23.

I materiali editi dai contesti menzionati, essen-zialmente ceramici, sono collocabili complessiva-mente nella fase iniziale avanzata e matura dell’An-tica Età del Bronzo e in base alle loro caratteristiche morfologiche rientrano nel cosiddetto gruppo di Torre Crognola – Mezzano, recentemente definito e rintracciabile su tutta una vasta zona compresa fra la valle del fiume Fiora e la valle del Sacco24.

Un altro ritrovamento significativo proviene in-fine da loc. Cartalana25, sulla strada provinciale Far-nese – Pitigliano. Esso consiste in una “panella” di rame di forma rotondeggiante (peso 2 kg. circa, qua-si del tutto integra e in buono stato di conservazio-ne), avente una faccia convessa e l’altra piana, con un diametro quest’ultima di circa 13 cm. I tre segni lineari impressi a caldo sulla faccia piana (segni di proprietà o di riconoscimento?), lunghi ciascuno 3 cm., trovano un eccezionale confronto con un reper-to analogo facente parte del ripostiglio di S. Michele di Campiglia Marittima (LI), attribuibile ad un mo-mento avanzato dell’Antica Età del Bronzo.

2.2.2. Età del Bronzo Medio (circa 1700 – 1350 a.C.)

In seguito a numerosi studi e recenti messe a pun-to, l’Età del Bronzo Medio nell’intera fascia centrale della penisola viene articolata in tre fasi. Le prime due corrispondono alla facies detta di Grotta Nuova,

30

proprio dal sito eponimo nei pressi di Ischia di Ca-stro di cui diremo in seguito, caratterizzata nell’area laziale dalla produzione ceramica di alcune specifi-che forme, quali le scodelle ad orlo rientrante e vasca bassa, i boccali ad orlo rientrante con ansa a nastro, i vasi biconici a collo distinto o lo scodellone con orlo a colletto (Fig. 8); la terza vede invece la diffusione in tutta l’Italia centro meridionale della facies detta Appenninica, riconoscibile grazie alle caratteristiche decorazioni ad incisione, intaglio o excisione dei re-perti ceramici, secondo schemi e sintassi complessi e di accuratissima esecuzione. Al suo interno sono sta-ti distinti alcuni gruppi locali fra cui quello dell’area

medio – tirrenica, in cui rientrano i pochi siti segna-lati per la valle del Fiora e per la pianura vulcente26; dal territorio di Ischia di Castro, in modo specifico, frammenti appenninici, sporadici, sono stati recupe-rati da almeno sei siti: Grotta di Carli, Crostoletto di Lamone, Grotta Nuova, Ponte S. Pietro Valle, Le Colle di Grotta Misa e Grotta Misa (Fig. 9), Casti-glionco – Santa Lucia27.

Per quanto riguarda le modalità del popolamento, nelle fasi iniziali e centrali dell’Età del Bronzo Me-dio (facies di Grotta Nuova) molteplici sono i cam-biamenti che si possono osservare all’interno delle comunità umane insediate nella vallata del fiume Fiora nel suo complesso. I dati relativi alle indagini di superficie, sembrano indicare una diminuzione del numero degli abitati attivi nel periodo precedente; vengono messe in atto nuove forme di occupazio-ne spaziale più articolate e organizzate (pluralità di scelte insediative), gli abitati si stabilizzano e si accrescono nelle dimensioni, iniziano a svilupparsi precocemente anche quelli ubicati su pianori rocciosi naturalmente difesi. In quest’ultimo caso si potrebbe osservare una prima tappa nel cambiamento del pa-esaggio secondo un processo che vedrà nel Bronzo Finale l’affermazione di un preponderante modello di abitato. Tracce di una frequentazione risalente alle prime due fasi del Bronzo Medio sono state rileva-te nel corso degli anni sia in siti all’aperto come Le Colle di Grotta Misa, Crostoletto e Cantinaccia di Monte Donato, sia in siti ubicati su declivio come Ponte S. Pietro Valle, sia su altura come Pianizza,

Punton di Villa e probabilmente Castiglionco – S. Lucia. Alcuni frammenti ceramici coevi provengono inoltre dalla Selva del Lamone (La Comunella, Le Vignacce, Campo della Battaglia)28.

In questo stesso periodo un ruolo centrale e par-ticolare per la vita delle popolazioni lo hanno sicu-ramente ricoperto alcune delle grotte che si aprono lungo le sponde del fiume Fiora.

Come è noto, fin dal Neolitico e in varie parti della penisola, la “concezione religiosa” di alcune comu-nità umane le ha spinte ad espletare particolari pra-tiche rituali connesse alla fertilità della terra proprio nelle profondità delle grotte; in queste si può inoltre rilevare in modo abbastanza frequente la presenza di resti umani, in particolare di bambini, come ad esem-pio nella Grotta di Settecannelle. L’uso delle cavità naturali continua anche nell’Eneolitico, in modo pre-ponderante come sepolcreti collettivi di gruppi umani legati da vincoli di parentela; una situazione analoga si registra per l’Antica età del Bronzo in cui le grotte erano destinate ad accogliere, dopo la morte, i com-ponenti di un segmento specifico della comunità o determinate categorie di individui. È tuttavia con l’età del Bronzo Medio che si accentua la frequentazione delle grotte per scopi prettamente di natura cultuale, rievocando è vero antichissime tradizioni, ma distin-guendosi anche per tutta una serie di elementi indi-canti “concezioni religiose” molto più complesse. De-cisamente frequente la scelta di cavità con presenza dell’elemento idrico che collega l’ambiente al mondo misterioso sotterraneo sede della divinità, accentuan-done la sacralità.

Nel territorio di Ischia di Castro, si hanno alcu-ne delle più significative attestazioni di culti in grotta dell’età del Bronzo medio di tutto il versante medio – tirrenico. Ben note sono infatti le testimonianze ve-nute in luce a Grotta Nuova che, allo stesso modo di Grotta Misa, è una cavità articolata in più ambienti

Fig. 8. Grotta Nuova, scodellone con orlo a colletto (da: negroni catacchio 1981).

Fig. 9. Grotta Misa, ciotola con decorazione appenninica (da: cocchi genick, poggiani keller 1984).

31

che si aprono con accessi spesso ripidi e incerti in-ternamente percorsa da corsi d’acqua sotterranei che defluiscono in inghiottitoi naturali. Nella prima grotta erano stati deposti ritualmente lungo il corso d’acqua vasi contenenti cereali carbonizzati; fave carbonizza-te erano all’interno di una scodella ad orlo rientrante con un motivo cruciforme sul fondo, mentre semi e resti ossei di animali sono stati rinvenuti al di sotto di contenitori ceramici intenzionalmente capovolti. A Grotta Misa, invece, sono stati documentati i resti di un focolare acceso in situ sul quale erano stati deposti in porzioni distinte grano, farina, miglio e fave, oltre ai vasi integri contenenti altre granaglie, a resti di ossa di animali e ad alcuni vasetti miniaturistici.

Una analoga funzione cultuale sembra ipotiz-zabile, con un buon margine di certezza, anche per Grotta di Carli29, Grotta della Paternale e Grotta dell’Infernetto (che potrebbe tuttavia costituire in-sieme all’Infernaccio, cioè Grotta Nuova, un’unica cavità sotterranea)30.

La spaccatura naturale nella roccia del Felcetone venne invece utilizzata, stando alle notizie edite dal Rittatore Vonwiller31, come sepolcreto collettivo ad inumazione: circa 200 frammenti di ossa umane, per-tinenti ad almeno 14 individui, erano caoticamente mescolati con frammenti ceramici attribuibili ad una fase iniziale dell’Età del Bronzo Medio32.

2.2.3. Età del Bronzo Recente (circa 1350 – 1200 a.C.)

I resti riferibili al Bronzo recente nel territorio di Ischia di Castro, come anche in quelli limitrofi, sono veramente scarni e consistono per lo più in frammen-ti ceramici sporadici: cinque frammenti di cui uno di

ansa a Chiusa Galantini (Fig. 10), un frammento di ansa con apici laterali dalla loc. Cantonate, alcuni materiali da Crostoletto di Lamone e altri (inediti) da Fossatone nella Selva del Lamone33.

Un’evidenza tuttavia molto più significativa è certamente quella di Ponte S. Pietro Valle dove, nel

1972, un ampio sondaggio (sondaggio A) ha por-tato alla luce un ampio fondo di capanna di forma subcircolare con pavimento in argilla, al di sotto del quale fu possibile ritrovare anche un accurato pia-no di preparazione, spesso circa 10 cm., formato da terra pressata ricca di carboni, frammenti di ceramica e pietre. All’esterno della capanna, verso il lato sud, era collocato un focolare (diametro 60 cm. circa), mentre al suo interno verso il centro era stata ricavata una fossetta contenente svariati semi carbonizzati e interpretata dagli studiosi come una sorta di “offerta rituale” 34.

2.2.4. Età del Bronzo Finale (circa 1200 – 1000 a.C.)

Nell’ultima fase dell’età del Bronzo, oltre all’au-mento generalizzato delle attività artigianali e in par-ticolare di quella metallurgica con articolati sistemi di scambio a lunga distanza, altri due fenomeni macro-scopici si osservano in quasi tutta l’Etruria meridiona-le: l’adozione abbastanza generalizzata dell’uso della pratica incineratoria35 dei defunti e una sostanziale riorganizzazione del territorio (dovuta probabilmente all’aumento demografico e alla mutata struttura so-ciale) mediante l’adozione di uno specifico modello di abitato che preferiva in genere aree naturalmente o artificialmente difese.

Per quanto riguarda gli abitati, nel comune di Ischia di Castro le ricerche di superficie hanno permesso di recuperare solo alcune tracce della loro presenza36 e i due insediamenti più probabili, cioè Castiglionco – Santa Lucia e Osteriaccia di Puntone di Villa, sono entrambi protetti naturalmente (il primo su sperone tufaceo, il secondo su pianoro )37 secondo il modello prevalente sopra accennato. La presenza di un’area abitativa a est delle tombe di cui si dirà tra breve è stata riconosciuta da vari studiosi anche a Crostoletto di Lamone, luogo frequentato quasi senza soluzione di continuità fin dal Neolitico38.

Fig. 10. Chiusa Galantini, materiali ceramici del Bronzo Recente (da: di gennaro 1988).

Fig. 11. Ponte S. Pietro Valle, materiali dell’Età del Bronzo Finale (da: negroni catacchio 1981).

32

Informazioni ben più numerose si hanno per le pratiche funerarie, grazie al ritrovamento di impor-tanti contesti sepolcrali quali Ponte San Pietro Valle (Fig. 11), Castelfranco Lamoncello e Crostoletto di Lamone39. In Etruria meridionale le necropoli certe del Bronzo Finale attualmente note sono di poco in-feriori alla ventina e, purtroppo, solo per una mino-ranza di esse si conosce il numero esatto delle strut-ture tombali rinvenute, e ancora più raramente si è in grado di avanzare ipotesi sulla loro reale estensione. Della necropoli di Castelfranco Lamoncello (Figg. 12 e 13) sono note sei tombe ad incinerazione, in cinque delle quali i vasi contenenti le ceneri dei de-funti erano stati deposti all’interno di una custodia

ovoide di tufo, mentre la tomba II presentava un poz-zetto scavato nel tufo e chiuso da lastre di scisto; in quella limitrofa di Ponte San Pietro Valle se ne cono-scono sette: per sei di queste, riunite a gruppi di tre, è documentata la deposizione dei cinerari all’interno di cassette realizzate con lastre di scisto, mentre per una il cinerario era protetto da una custodia ovoide di tufo. Diversa ed eccezionale appare ancora oggi, per la zona e non solo, la situazione di Crostoletto di La-mone – sito purtroppo quasi completamente danneg-giato – dove sono stati ritrovati veri e propri tumuli

monumentali (otto, con un diametro compreso fra i 5 e i 12 – 14 m. circa), che attestano la compresenza sia del rito incineratorio (con vaso rituale posto in una ci-sta litica), sia del rito inumatorio, testimonianza quindi del passaggio da un costume funerario (inumazione) all’altro (incinerazione) e dell’antichità del primo im-pianto della necropoli. In alcuni casi (es. Tumulo III) erano riunite fino a sei tombe in fossette rivestite di lastre di pietra, due delle quali vuote, forse preparate in funzione di seppellimenti successivi (Fig. 14).

A quanto si può ricostruire, la scelta ubicazionale delle tre necropoli ha privilegiato le zone di pendio in posizione basale rispetto ai rilevi circostanti; tale criterio risulterebbe valido anche per altre necropoli coeve dei territori limitrofi, modello evidentemente condiviso dai vari gruppi, legati da vincoli parentelari (“famiglie”), insediati nella media valle del Fiora e ai quali potrebbero essere ricondotti i singoli contesti.

In generale i corredi risultano piuttosto sempli-ci, caratteristica abbastanza consueta per il periodo, e sono formati essenzialmente dal già ricordato vaso cinerario e dalla ciotola – coperchio e da rari oggetti di bronzo (fibule ad arco semplice, anellini). Data la loro particolarità, tuttavia, vanno ricordati i due vaghi in ambra del tipo “Tirinto”, uno dei quali ora perduto, dalla tomba 1 di Ponte San Pietro Valle (Fig. 15) e le sette perline in pasta vitrea azzurra dalla tomba 3 del-l’Area Sepolcrale II di Crostoletto di Lamone.

Conclude il panorama delle testimonianze funera-rie recuperate sul territorio di Ischia di Castro l’urna

Fig. 12. Castelfranco Lamoncello, vaso cinerario e ciotola coperchio della tomba 1.

Fig. 14. Crostoletto di Lamone, corredo della tomba 3 del Tumulo III (da: negroni catacchio 1981).

Fig. 13. Castelfranco Lamoncello, vaso cinerario della tomba 4.

33

cineraria rinvenuta casualmente <<negli immediati dintorni delle rovine di Castro>>40 e consegnata da un privato a Rittatore Vonwiller senza indicazioni sul luogo preciso della scoperta (Fig. 16). Indagini recen-temente condotte hanno reso possibile una migliore comprensione del reperto, oggi nel locale Museo, per-mettendo di ipotizzarne la provenienza dalla località denominata Pianetti – Campo Primera, effettivamen-te vicina alla città di Castro, ma ancora più vicina al complesso di Crostoletto di Lamone da cui dista solo poche centinaia di metri e al quale si potrebbe quindi ricondurre41.

2.3. età del ferro In tutta la valle del fiume Fiora, a partire dalla fase

terminale del Bronzo Finale fino al passaggio alla Prima età del Ferro (circa IX – VIII sec. a. C.)42, si assiste ad una trasformazione molto netta dell’asset-to territoriale complessivo che implica il progressivo abbandono, rapido ma non improvviso, delle sedi abi-tative di dimensioni minori, in stretta relazione con l’incremento demografico che interessa l’area inse-diativa del vasto pianoro tufaceo su cui fiorirà la città etrusca di Vulci. Con l’inizio della Prima età del Ferro tale processo sembra essere concluso e, ad esclusione di Vulci, il territorio circostante – quindi anche quello dell’attuale Ischia di Castro – non sembra essere più occupato da insediamenti stabili, eccezione fatta forse per alcuni piccoli nuclei sparsi nelle campagne (per es. Riminino), probabilmente finalizzati allo sfrutta-mento agricolo, e per alcune aree della fascia costiera (per es. Infernetto, con relativa necropoli in loc. Ser-pentaro)43.

Alcuni indizi di una nuova frequentazione dei ter-ritori dell’attuale comprensorio comunale si hanno solo a partire da una fase molto avanzata dell’VIII se-

colo a.C. e ci si riferisce, in particolare, ad un nucleo di materiali provenienti dal pianoro della futura città etrusca di Castro. Costituiscono tale gruppo alcune fi-bule del tipo a sanguisuga, alcune armille, due cosid-detti “rasoi” del tipo lunato già appartenuti alla col-lezione Stendardi e altri oggetti bronzei tutti facenti parte, probabilmente, di alcuni contesti funerari oggi completamente perduti44. Tale evidenza ben si ac-corda con quel processo di nuova e completa ristrut-

turazione del territorio avviato dalla città di Vulci a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., che spinge a rioccupare vari luoghi lungo le medio – alte valli del Fiora e dell’Albegna (fra cui: Saturnia, So-vana, Pitigliano, Poggio Buco, Castro e Marsiliana) alcuni dei quali diverranno luoghi strategici nell’am-bito della politica vulcente di espansione e controllo dell’entroterra durante tutto il VII e fino alla prima metà del VI secolo a.C.45.

fabio roSSi

1 Coordinate topografiche: IGM 1: 25000, F. 136 I SO, NO, II NO, IV SE.2 Con Età dei Metalli si è soliti indicare un lungo periodo della preistoria recente e della protostoria in cui le varie comunità uma-ne succedutesi nel tempo hanno affiancato, per le loro produzioni artigianali, l’uso dei metalli (inizialmente il rame nell’Eneolitico, quindi il bronzo e il ferro nelle età eponime) al tradizionale e ormai ben consolidato utilizzo dell’argilla, della pietra e di altre materie prime.3 Per tutte le ricerche di preistoria e protostoria svolte fino al 1975, non solo nel territorio in questione ma anche in quelli limitrofi, si può fare riferimento al contributo di rittatore – falchetti – ne-groni catacchio (1977) presentato in occasione del X Convegno di Studi Etruschi e Italici, riproposto dagli stessi autori – con solo alcuni accorgimenti editoriali – nella sede dei Quaderni della Ri-cerca Scientifica del CNR (rittatore vonwiller – falchetti – ne-groni catacchio 1978). Per le scoperte e i ritrovamenti degli anni successivi si rimanda invece a negroni catacchio 1981 e 1988. A

Fig. 15. Ponte S. Pietro Valle, probabile corredo della tomba 1 (da: negroni catacchio 1981).

Fig. 16. Pianetti – Campo Primera (“...dintorni delle rovine di Castro...”), vaso cinerario sporadico.

34

partire dagli anni Novanta del secolo scorso, l’appuntamento con cadenza biennale dei Convegni di Preistoria e Protostoria in Etruria (con relativi Atti), a cura di N. Negroni Catacchio dell’Università degli Studi di Milano, offre la migliore occasione per conoscere lo status quo della ricerca in tutta la valle del Fiora e, quindi, anche nel territorio di Ischia di Castro.4 Alla memoria e al ricordo dell’attività scientifica svolta nella valle del fiume Fiora dal Prof. F. Rittatore Vonwiller è stato recentemente svolto ad Ischia di Castro un convegno commemorativo, alla cui lettura degli Atti si rimanda anche per la presentazione dei dati di alcune ricerche degli ultimi anni (peroni – rittatore vonwiller 1999). 5 caSi – Stoppiello 1993; caSi et alii 1998.6 Campagna di scavo 1996, Camera Inferiore: perSiani 2000.7 fugazzola delpino – pellegrini 1998, ivi bibl. prec.; d’ercole – pennacchioni 2001, ivi bibl. prec.; negroni catacchio – miari 1998; petitti et alii 2002; negroni catacchio 1990.8 Oltre alle aree funerarie si può ricordare il ritrovamento di due fittili della cultura di Rinaldone in loc. Pietra Pinzuta ai Pianetti di Castro (rittatore 1951) e la segnalazione che in loc. Mandriane di S. Giovanni, nei pressi dell’antica città di Castro, un nuovo contesto simile – tuttavia mai sottoposto ad indagini più accurate – è stato individuato a seguito dell’attività illecita dei clandestini. Presso il locale Museo Civico, inoltre, sono esposti alcuni materiali sporadici (vasi, punte di freccia e due asce martello in pietra) provenienti dal territorio in questione.9 miari 1993, 1994, 1995.10 rittatore 1951.11 rittatore vonwiller – falchetti – negroni catacchio 1977, 1978.12 In seguito al ritrovamento nel 1994 di una nuova necropoli ri-naldoniana, quella del “Fontanile di Raim”, proprio presso il Fosso delle Fontanelle, alcuni Autori hanno avanzato l’ipotesi che possa trattarsi dello stesso sepolcreto (negroni catacchio – miari 1998, p. 85). Tuttavia, la mancanza dell’esatta ubicazione geografica del toponimo usato nel 1960, non permette di fare osservazioni in senso assoluto.13 rittatore vonwiller – falchetti – negroni catacchio 1977, 1978.14 rittatore 1970, dove l’Autore specifica che furono recuperate solo due punte di freccia.15 rittatore vonwiller – falchetti – negroni catacchio 1977, 1978. Con buona probabilità la necropoli di Poggio Volparo era col-locata al di sopra di una piccola altura posta all’altezza di uno dei due rami (Fosso del Caiolo e dello Scatola) che vanno a formare il Fosso della Paternale, alcuni ipotizzano proprio nella zona Nord del corso del Caiolo (cifarelli – di gennaro 1993, p. 224 nota 3, p. 225 nota 6). Tuttavia un’indagine di accertamento della reale ubicazione delle tombe non è stata ancora condotta.16 falchetti 1982.17 Cfr. nota 12. Sul ritrovamento: negroni catacchio – miari 1998; petitti et alii 2002.18 colini 1903; pernier 1905; dolfini 2004, anzidei et alii c.s. a, b.19 calattini 1990; conti et alii 1998, anzidei et alii c.s. a, b.20 In archeologia preistorica si definisce “ripostiglio” un insieme di oggetti interi o frammentari, generalmente di metallo, deposti (riposti) in modo intenzionale in un luogo nascosto: entro vasi, a volte in ripari rocciosi, ma anche semplicemente in buche nella terra. Qualunque sia la giusta interpretazione da dare ai ripostigli preistorici (depositi di fonditori o di “mercanti”, forma di tesauriz-zazione, offerte votive, ecc…), essi si presentano come delle vere e proprie scorte di materiale grezzo, semilavorato o lavorato presenti sull’intero territorio italiano a partire dall’Antica Età del Bronzo e che raggiunsero una particolare complessità, soprattutto in Etruria,

nell’Età del Bronzo Finale e nella Prima età del Ferro.21 cocchi genick 1998, in particolare per quanto detto pp. 21 – 26.22 Per la bibliografia dei siti di seguito menzionati si rimanda alla pubblicazione citata a nota 22; per i siti della Selva del Lamone si veda caSi – Stoppiello 1993 e caSi et alii 1998.23 In relazione alla funzione svolta da queste due grotte nell’Antica Età del Bronzo, non mi pare che le varie fasi delle ricerche svolte abbiano fornito dati sufficienti per una chiara identificazione, anche se tuttavia sembrerebbe per il momento da escludere sia una loro utilizzazione per scopi funerari (come invece abbondantemente at-testato nelle grotte coeve dell’area grossetana, per es.: Grotta del Somaro, Grotta dello Scoglietto, Grotta Prato, Grotta del Fontino, Grottino di Ansedonia e Punta degli Stretti), sia un uso a scopo di culto (come sarà invece puntualmente attestato nella successiva Età del Bronzo Medio).24 cocchi genick 1998, in particolare per quanto detto pp. 320 – 327.25 ciavatta – lucarelli 1995.26 cocchi genick 1995, 2002.27 cocchi genick 1995, ivi bibl. prec.28 caSi et alii 1998; cocchi genick 1995, ivi bibl. prec.29 E’ tuttavia ipotizzabile per questo sito anche una parallela e coeva funzione sepolcrale (perSiani 2000).30 Molto più difficoltosa è l’interpretazione della scarna documenta-zione nota per la Grotta del Puntone di Villa (15 frammenti ceramici raccolti nel 1947 dal Rittatore Vonwiller e dallo stesso attribuiti ge-nericamente all’età Bronzo) e per la Grotta dello Sbirro.31 rittatore 1951.32 Nonostante le evidenze del Felcetone e forse anche della Grotta di Carli che sottolineano durante il Bronzo Medio una certa continuità dell’ideologia funeraria dei secoli precedenti, le modalità sepolcrali cominciano a cambiare notevolmente. Ciò è molto probabilmente da ricondurre alle mutate condizioni sociali delle comunità: alle se-polture collettive in cavità naturali, si contrappongono ora le prime tombe monumentali scavate nella roccia come bene attestano quella a camera con dromos di accesso di Prato di Frabulino e la tomba R del Naviglione, entrambe nel limitrofo territorio di Farnese (caSi et alii 1995; conti – perSiani 1999).33 caSi et alii 1998; di gennaro 1988; negroni catacchio 1981.34 guidi 1989 – 1990; negroni catacchio 1981;35 La pratica funeraria in questione, documentata in Etruria meri-dionale a partire dal XII sec. a.C. circa, prevedeva il rito della cre-mazione dei defunti e la raccolta delle ceneri all’interno di un vaso, quasi sempre biconico e decorato all’esterno con motivi tipici e ri-correnti del periodo, coperto in genere da una scodella, emisferica o carenata spesso recante un’ansa, collocata in posizione rovesciata.36 di gennaro 1986, in particolare pp. 51 – 53. Si ricordano inoltre le due asce in Bronzo dalla loc. Pianizza: negroni catacchio 1981, tav. 103 n° 3.37 di gennaro 1988.38 caSi 1999. 39 negroni catacchio 1985; poggiani keller – figura 1979; ritta-tore 1961; rittatore – falchetti – negroni 1977.40 rittatore vonwiller 1951.41 Da ultimo caSi 1994, 1999.42 Per le complesse problematiche cronologiche relative alle ulti-me fasi dell’Età del Bronzo Finale e all’Età del Ferro, che qui si è preferito non riprendere accettando di utilizzare la cronologia tradi-zionale, si ritiene opportuno comunque rinviare il lettore a quanto emerso recentemente, nel Convegno di Roma del 2003: bartoloni – delpino 2004. 43 Su queste tematiche da ultimo cardoSa 2005.44 colonna 1977; rittatore 1951. 45 colonna 1977; cardoSa 2005; pacciarelli 1999.

35

BIBLIOGRAFIA*

anzidei a. p.-bedini a.-carboni g.-d’annibale m. l. - egidi r.

c.s. a, “Recenti acquisizioni sugli aspetti funerari e domestici della facies di Rinaldone nel territorio di Roma”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del settimo incontro di studi, Valentano e Pi-tigliano, 17-18 settembre 2004), Milano, in corso di stampa.

anzidei a. p.-carboni g.-egidi r.-malvone m.c.s. b, “Rinaldone a Sud del Tevere: nuove necropoli e

materiali da contesti di abitato nel comprensorio del-la via Tuscolana nell’area sud-est di Roma”, in Atti della XL Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, in corso di stampa.

bartoloni g.-delpino f. (a cura di)2004, “Oriente e Occidente. Metodi e discipline a con-

fronto. Riflessioni sulla cronologia dell’età del fer-ro italiana”, in Mediterranea I (Atti dell’Incontro di Studi, Roma, 30-31 ottobre 2003), Pisa-Roma.

ciavatta d.-lucarelli r.1995, “Indizio di un ripostiglio del Bronzo Antico in

località <<Cartalana>> - Comune di Ischia di Castro (VT)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del secondo incontro di studi, Farnese, 21-23 maggio 1993), vol. I, Milano, pp. 265-266.

calattini m.1990, “Rinvenimento di tombe a grotticella a Colle Val

d’Elsa (Siena)”, in Rassegna di Archeologia 9, pp. 239-247.

cardoSa m.2005, “Paesaggi nel territorio di Vulci dalla tarda proto-

storia alla romanizzazione”, in Dinamiche di svilup-po delle città nell’Etruria meridionale: Veio, Caere, Tarquinia, Vulci (Atti del XXIII Convegno di Studi Etruschi e Italici, Roma-Veio-Cerveteri/Pyrgi-Tar-quinia-Tuscanica-Vulci-Viterbo, 1-6 ottobre 2001), Pisa-Roma, pp. 561-568.

caSi c.1994, “L’urna cineraria dalle vicinanze di Castro e i

complessi funerari della media valle del Fiora nel Bronzo Finale”, in Informazioni 10, pp. 80-82.

caSi c.1999, “I muraglioni di Crostoletto nella Selva del La-

mone”, in peroni r., rittatore vonwiller L. (a cura

di), Ferrante Rittatore Vonwiller e la Maremma, 1936-1976. Paesaggi naturali, umani, archeologi-ci (Atti del Convegno, Ischia di Castro, 4-5 aprile 1998), Ischia di Castro, pp. 255-262.

caSi c.-Stoppiello a.1993, “Indagine territoriale nella Selva del Lamone:

le evidenze pre-protostoriche”, in Preistoria e Pro-tostoria in Etruria (Atti del primo incontro di studi, Saturnia e Farnese, 17-18 maggio 1991), Milano, pp. 253-260.

caSi c.-coSentino S.-leonelli v.-mieli g.1998, “Indagine territoriale nella Selva del Lamone:

lo scavo dell’abitato preistorico di Prato Pianac-quale (Farnese, VT)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del terzo incontro di studi, Manciano e Farnese, 12 – 14 maggio 1995), Milano, pp. 421 – 432.

caSi c.-d’ercole v.-negroni catacchio n.-trucco f.1995, “Prato di Frabulino (Farnese, VT). Tomba a

camera dell’Età del Bronzo”, in Preistoria e Pro-tostoria in Etruria (Atti del secondo incontro di studi, Farnese, 21-23 maggio 1993), vol. I, Milano, pp. 81-110.

cerilli e.-conti a. m.-macchiarelli r.-petitti p.-Salvadei l.

1993, “Rapporto preliminare sugli scavi eseguiti nel-la necropoli eneolitica della Selvicciola (Ischia di Castro-VT)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del primo incontro di studi, Saturnia e Farne-se, 17-18 maggio 1991), Milano, pp. 75-84

cifarelli f. m.-di gennaro f.1993, “I bacini della Paternale e della Vesca nella

Preistoria: informazioni sullo sviluppo del terri-torio della Tuscia dallo studio dei valloni torrenti-zi”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del primo incontro di studi, Saturnia e Farnese, 17-18 maggio 1991), Milano, pp. 223-233.

cocchi genick d. (a cura di)1995, “Aspetti culturali della media età del bronzo

nell’Italia centro-meridionale”, Firenze.

cocchi genick d. 1998, “L’Antica età del Bronzo nell’Italia centrale.

Profilo di un’epoca e di una appropriata strategia di ricerca”, Firenze.

2002, “Grotta Nuova: la prima unità culturale attorno all’Etruria protostorica”, Viareggio.

36

cocchi genick d. – poggiani keller r.1984, “La collezione di Grotta Misa conservata al

Museo Fiorentino di Preistoria”, in AA.VV., Studi di Antichità in onore di Guglielmo Maetzke, vol. I, Roma, pp. 31-65.

colini g. a. 1903, “Tombe eneolitiche del Viterbese (Roma)”, in Bul-

lettino di Paletnologia Italiana 29, pp.150 -186.

colonna g.1977, “La presenza di Vulci nelle valli del Fiora e

dell’Albegna prima del IV secolo a.C.”, in La ci-viltà arcaica di Vulci e la sua espansione (Atti del X Convegno di Studi Etruschi e Italici, Grosseto -Roselle-Vulci, 29 maggio-2 giugno 1975), Firen-ze, pp. 189-213.

conti a. m.-perSiani c.1999, “Le necropoli eneolitiche della Selvicciola e

del Naviglione”, in peroni r., rittatore vonwil-ler l. (a cura di), Ferrante Rittatore Vonwiller e la Maremma, 1936-1976. Paesaggi naturali, umani, archeologici (Atti del Convegno, Ischia di Castro 4-5 aprile 1998), Ischia di Castro, pp. 219-230.

conti a.m.-perSiani c.-petitti p. 1998, “Articolazione interna e rapporti esterni dei

gruppi sociali rinaldoniani”, in De Marinis C. (a cura di), Età del Rame del Vicino Oriente e in Europa (Atti del XIII Congresso dell’Unione Internazionale delle Scienze preistoriche e protostoriche, Forlì 8-14 settembre 1996, vol. 4, sez.10), Forlì, pp. 31-35.

d’ercole v.-pennacchioni m.2001, “Il Campaniforme in Italia centrale. Lazio ed

Abruzzi”, in nicoliS f. (a cura di), Bell Beakers today. Pottery, people, culture, symbols in prehis-toric Europe (Proceeding of the International Col-loqium, Riva del Garda (Trento, Italy), 11-16 May 1998), Trento, vol. II, pp. 667-669.

di gennaro f.1986, “Forme di insediamento tra Tevere e Fiora dal

Bronzo Finale al principio dell’età del Ferro”, Firenze.1988, “Recenti indagini nei comuni di Pitigliano e

Ischia di Castro”, in negroni catacchio (a cura di), Il Museo di Preistoria e Protostoria della Valle del Fiume Fiora, Manciano, pp. 147-158.

dolfini a.2004, “La necropoli di Rinaldone (Montefiascone, VT):

rituale funerario e società nell’Eneolitico dell’Ita-

lia centrale”, in Bullettino di Paletnologia Italiana 95, pp.127-278.

falchetti f.1982, “Due nuove necropoli eneolitiche della cultu-

ra di Rinaldone nella Valle del Fiora”, in aa. vv., Studi in onore di Ferrante Rittatore Vonwiller, par-te I, vol. 1, Como, pp. 135-143.

fugazzola delpino m.a.-pellegrini e.1998, “Presenze Campaniformi nell’Italia centro-

meridionale”, in nicoliS f.-motteS e. (a cura di), Simbolo ed Enigma. Il Bicchiere Campaniforme e l’Italia nella preistoria europea del III millennio a.C., Catalogo della Mostra, Trento, pp.155-160.

guidi a.1989-1990, “Alcune osservazioni sulla problematica

delle offerte nella preistoria dell’Italia centrale”, in Scienze dell’Antichità 3-4, pp. 403-414.

iaia c.-mandoleSi a.1993, “Topografia dell’insediamento dell’VIII seco-

lo a.C. in Etruria meridionale”, in Journal of An-cient Topography III, pp. 17-48.

lotti t.-rittatore f.1941, “Castro e il suo territorio”, in Studi Etruschi

XV, pp. 299-05.

miari m.1993, “La necropoli eneolitica di Ponte S. Pietro

(Ischia di Castro-Viterbo)”, in Rivista di Scienze Preistoriche XLV, 1, pp. 101-166.

1994, “Il rituale funerario nella necropoli eneolitica di ponte S. Pietro”, in Origini XVIII, pp. 51-390.

1995, “Topografia e organizzazione spaziale nella necropoli eneolitica di Ponte S. Pietro”, in Prei-storia e Protostoria in Etruria (Atti del secondo incontro di studi, Farnese, 21-23 maggio 1993), vol. I, Milano, pp. 55-66.

mieli g.1994, “ Valle del Fiora: luoghi di culto”, in Informa-

zioni 10, pp. 97-100.

negroni catacchio n. (a cura di)1981, “Sorgenti della Nova. Una comunità protosto-

rica e il suo territorio nell’Etruria meridionale”, Catalogo della mostra, Roma.

negroni catacchio n.1985, “ Nuovi dati sulla preistoria e protostoria della

37

Valle del fiume Fiora”, in aa. vv., Studi in onore di Salvatore Maria Puglisi, Roma, pp. 833-850.

negroni catacchio n. (a cura di)1990, “Preistoria e Protostoria in Etruria. Notiziario

1990”, Milano.

negroni catacchio n.-domanico l.-miari m.1989-1990, “Offerte votive in grotta e in abitato nelle

valli del Fiora e dell’Albegna nel corso dell’Età del Bronzo: indizi e proposte interpretative”, in Scienze dell’Antichità 3-4, pp. 579-597.

negroni catacchio n.-miari m. 1998, “La necropoli rinaldoniana di Fontanile di Raim

(Ischia di Castro-VT)”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del terzo incontro di studi, Man-ciano e Farnese, 12-14 maggio 1995), Milano, pp. 391-400.

pacciarelli m.1999, “Le origini di Vulci e il suo entroterra”, in pero-

ni r., rittatore vonwiller l. (a cura di), Ferrante Rittatore Vonwiller e la Maremma, 1936-1976. Pa-esaggi naturali, umani, archeologici (Atti del Con-vegno, Ischia di Castro 4-5 aprile 1998), Ischia di Castro, pp. 55-67.

pernier l.1905, “Tombe eneolitiche del Viterbese”, in Bolletti-

no di Paletnologia Italiana 31, pp. 145-153.

perSiani c.2000, “La Grotta di Carli (Ischia di Castro-VT): rap-

porto preliminare sulla campagna del 1996”, in Preistoria e Protostoria in Etruria (Atti del quarto incontro di studi, Manciano-Montalto di Castro-Valentano, 12-14 settembre 1997), Milano, pp. 347-353..

petitti p.-negroni catacchio n.-conti a.m.-lemo-rini c.-perSiani c.

2002, “La necropoli eneolitica del Fontanile di Raim. Nuovi dati dalla campagna di scavo 1998”, in Prei-storia e Protostoria in Etruria (Atti del quinto in-contro di studi, Sorano e Farnese, 12-14 Maggio 2000), Milano, vol. 2, pp. 545-559.

poggiani keller r.-figura p.1979, “III. I tumuli e l’abitato di Crostoletto di Lamone

(prov. di Viterbo): Nuovi risultati e precisazioni”, in Atti della XXI Riunione Scientifica dell’Istituto Italia-no di Preistoria e Protostoria, Firenze, pp. 346-381.

rittatore f.1951, “Scoperte di età eneolitica e del Bronzo nella Ma-

remma Tosco-Laziale”, in Rivista di Scienze Preistori-che VI, pp. 3-33.

1961, “Ancora dei sepolcreti di facies protovillanoviana di Ponte S. Pietro Valle e Lamoncello sul fiume Fiora”, in Studi Etruschi XXIX, pp. 287-303.

1970, “Poggio Volparo (Ischia di Castro-Viterbo)”, in Rivista di Scienze Preistoriche XXV, 2, Notiziario, p. 422.

rittatore f.-cardini l.1960, “Fosso delle Fontanelle”, in Rivista di Scienze

Preistoriche XV, Notiziario, p. 235.

rittatore vonwiller f.-falchetti f.-negroni catac-chio n.

1977, “Preistoria e protostoria della valle del fiume Fiora, in La civiltà arcaica di Vulci e la sua espansione (Atti del X Convegno di Studi Etruschi e Italici, Grosseto-Roselle-Vulci, 29 maggio-2 giugno 1975), Firenze, pp. 114-130.

1978, “ Preistoria e Protostoria della valle del fiume Fio-ra”, in Quaderni della Ricerca Scientifica 100, volume 2, pp. 27-82.

*Bibliografia aggiornata al maggio 2006

39

3. NECROPOLI ETRUSChE DI CASTRO

Castro è posta su di un altura tufacea, delimitata a sud dal fosso Filonica e dal fiume Olpeta, emissario del lago di Mezzano ed affluente del Fiora, e a nord dal Fosso delle Monache.

A nord, distante ca. 20 km., si trova Vulci, verso sud è la Selva del Lamone.

Questa posizione strategica la pone, come la vi-cina Poggio Buco, a difesa e controllo delle vie che mettevano in comunicazione Vulci con l’entroterra e il Settentrione.

Una tagliata di notevoli dimensioni ed altre mi-nori, collegava Castro con le vie per Vulci e l’area meridionale1.

Castro segue le fortune espansionistiche di Vul-ci, come lei vive un momento di massimo splendore tra il VII-VI secolo, seguito da una decadenza nel V. Si avverte una ripresa nel IV secolo, diminuita dello splendore artistico e culturale dei secoli precedenti.

La crisi che investe la società etrusca nel V secolo è determinata da diversi e differenti fattori politici: la fine della pace persica in Oriente; le sconfitte nava-li inferte dai siracusani prima ai Cartaginesi (Imera, 480 a.C.) poi agli stessi Etruschi (Cuma, 474 a.C.); i movimenti delle popolazioni lungo la penisola (Sa-belli e Celti).

A queste e forse più determinante, si aggiunge una crescente chiusura dell’oligarchia dominante verso l’esterno, caratterizzata da un maggior control-lo nelle importazioni e nelle spese pubbliche.

L’economia si sposta verso i centri dell’interno e del Nord dove è avvenuto ‘uno sviluppo urbano più rallentato ed un maggior equilibrio tra città e cam-pagna’2.

40

Nel V secolo si assiste ad una diminuzione del popolamento in tutta l’area meridionale del territorio vulcente, le campagne si spopolano a favore della sopravvivenza dei grandi centri agricoli 3.

La decadenza dei centri dell’entroterra, come Ca-stro, più che da relazionare con la crisi che investe Vulci, è da ricercarsi nelle politiche del territorio at-tuate da questa.

La nuova economia punta allo sfruttamento intensivo della terra, i centri di nuova fondazione sono prettamente agricoli. Nel contempo si assi-ste, intorno alla Selva del Lamone, all’abbandono degli abitati posti in zone aperte, privilegiando siti arroccati all’interno della Selva, difesi da cinte murarie, come Rofalco4.

Probabilmente Castro eredita il potere esercitato per anni da Crostoletto del Lamone, abitato distri-buito su terrazzamenti che nel bronzo finale svolge-va una funzione difensiva, vero epicentro dei vari villaggi della valle del Fiora5.

Nel corso del secolo VIII l’aristocrazia vulcente si espande verso le campagne proponendo i modelli insediativi della città costiera.

La spinta verso l’entroterra , oltre allo scopo di investire nella terra il ricavato dei ricchi commerci, trovava maggior interesse nella conquista di nuovi centri di potere, indipendenti e in grado di rivaleg-giare con la città madre6.

Si viene così a creare una disposizione dei centri abitati omogenea, con una tipologia costante: co-struzione su pianori naturali, serviti da vicini corsi d’acqua che scorrono in profonde vallate, spesso comunicanti con il grande bacino del Fiora; centri aperti verso le vallate e vicini ai terreni agricoli ma circoscritti da boschi.

La maggior parte dei siti è limitata su un fianco dalla Selva del Lamone. Le necropoli circondano l’abitato, sovente a confine dei corsi d’acqua.

Il modello abitativo di Castro rientra in tale clas-sificazione; viene localizzato sullo sperone tufaceo dove, in epoca medievale, verrà ad impiantarsi la città di Castro, sede vescovile in seguito distrutta da papa Innocenzo X, nel 1649.

A lungo erroneamente identificata con Statonia, che le attuali ricerche tendono invece a situare nella zona di Bomarzo7, rivela, per la presenza dei ricchi corredi funerari e la monumentalità architettonica di alcuni sepolcri, l’importanza del centro e la presenza di una classe aristocratica in grado di mostrare i se-gni del suo potere.

Il suo pianoro venne indagato dal Dennis che ne riportò una sensazione fortemente negativa: ‘ Non vi sono parole sufficienti e adeguate per descrivere

quale e quanto malinconico luogo sia Castro, uno dei più lugubri che ricordo in Etruria. Non si tratta solo della sua solitudine... non si tratta neppure dell’ec-cessiva vegetazione cresciuta. E’ il suo aspetto gene-rale: in nessun luogo il bosco è più buio e più denso, in nessun luogo i dirupi sono più neri e minacciosi... in nessuna località il passato oscura lo spirito con più profondo terrore’8.

Una prima ricognizione dell’area delle necropoli venne effettuata da Rittatore9.

I ricercatori rilevarono la presenza di una vasta necropoli che divisero in tre gruppi principali, impo-stando una tipologia delle tombe presenti e recupe-rando parte di alcuni corredi.

L’importanza del risultato delle indagini diede l’avvio a campagne di scavo , a cura del Centro di Ricerche dell’ Università Belga, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, dal 1964 al 196710. A queste seguirono ricerche sistematiche da parte della SAEM11.

Molte delle strutture funerarie risultavano depre-date, consentendo comunque di recuperare parte del materiale ceramico e statuario riferibile alla fine del VII e VI secolo a.C., di chiara impronta vulcente.

La necropoli di Castro circonda l’altura tufacea, dove probabilmente sorgeva l’abitato, su tre lati cor-rispondenti alla moderna suddivisione, attuata dal Rittatore, in area sepolcrale Nord Ovest, Nord Est e Centrale.

L’area più importante, per la concentrazione e la tipologia delle tombe, alcune principesche, è quella più vicina all’antico oppidum, in località Poggi di Castro. Le altre due si trovano nelle colline oltre il Fosso delle Monache.

La tipologia architettonica mostra tombe a came-ra semplice,con lungo corridoio di accesso (dromos), vestibolo del tipo vulcente a cielo aperto, a volte an-che con tre ingressi e più ambienti.

Nel 1979 la SAEM conduce una campagna di ri-cerca e ripulitura nella necropoli lungo la tagliata di Poggi di Castro, dove sono presenti tombe a camera con decorazioni ottenute incidendo la pietra tufacea.

In questo contesto, si ritrovano elementi tipici dell’architettura funeraria etrusca attestati nel terri-torio, come la tomba con tetto displuviato e pilastro maestro centrale a rilievo (columen); altra, preceduta da breve dromos, sempre con camera centrale a tetto displuviato, columen e motivo della finta porta, rica-vata incidendo la parete di tufo di fondo 12.

Il motivo della ‘finta porta’ è largamente attestato nel territorio, tende a rappresentare il passaggio tra due mondi, terreno e ultraterreno, invitando a supe-rarla per il viaggio nell’aldilà. Si trovano confronti

41

nella necropoli della vicina Poggio Buco; a Tarqui-nia viene espressa nei motivi parietali dipinti; a Tu-scania viene incisa nel tufo alla tomba della Castel-luccia 13.

Lungo la collina su terrazzamenti, a ridosso di una tagliata, oltre alle tombe a camera, sono presenti le tombe a cassone vulcente, fosse di forma tronco-piramidale, accessibili da un’apertura rettangolare posta sul soffitto e chiusa da pietre, databili tra gli inizi VII secolo e l’orientalizzante recente.

L’area maggiormente indagata dalle ricerche è quella orientale, nel terreno denominato ‘proprietà Sterbini’, ed è la necropoli più vicina all’abitato.

Sono presenti in questa zona tombe del tipo a camera provviste di ricchi corredi, con pianta inter-na semplice, prive di decorazioni, esternamente un vestibolo aperto e lungo dromos. E’ all’esterno che la decorazione tende ad esprimere l’importanza del contesto.

3.1. tomba dei bronziViene così denominata per la concentrazione del

materiale bronzeo che vi venne rinvenuto, malgrado fosse stata già depredata in passato.

Si tratta di oggetti realizzati in ambiente vul-cente. La fama delle fonderie di Vulci era conosciu-ta ovunque, così come quella dei suoi bronzisti abili nelle decorazioni in laminato e a sbalzo 14.

Uno stretto e lungo dromos immette in un vestibo-lo a cielo aperto, su questo si aprono quattro camere.

La tomba era destinata ad ospitare un nucleo familiare di ceto elevato. La camera centrale era assegnata probabilmente, al capostipite; il corre-do contenuto, bronzi, vasellame da banchetto in bucchero,denota la presenza di officine vulcenti e di importazione da area greco-orientale.

La camera laterale ospitava una donna, con vesti intessute in oro 15.

I corpi dei defunti erano deposti su letti lignei.Il corredo materiale , che permette di datare la

tomba al secondo venticinquennio del VI secolo a.C., è composto da oggetti per il simposio: calici di bronzo su alto piede, bacini bronzei decorati, vassoi in lamina di bronzo.

Il materiale ceramico comprende anfore da trasporto e vasellame figurato con decorazioni etrusco- corinzie, oggetti in bucchero di fabbri-cazione vulcente tra cui un’hydria decorata da un fregio di felini 16.

Il modello decorativo vulcente, contaminato da influssi artistici greco-orientali, è presente anche all’esterno della tomba dove, all’ingresso del dro-

mos, si rinvenne 17 una serie di statue zoomorfe a tutto tondo, realizzate in nenfro.

Vengono datate ai primi decenni del VI secolo, eseguite da varie botteghe, interpretano un dise-gno preciso voluto per quel particolare contesto.

Le statue di animali, con funzione di guardiani e custodi della tomba, esprimono un gusto deri-vato dagli Etruschi da modelli dell’arte orientale che, in forme maggiori, decoravano i grandi spazi pubblici.

Nell’ VIII secolo il tema zoomorfo viene am-piamente utilizzato, nell’oreficeria, nella cerami-ca, nei bronzi sbalzati e nella statuaria, tanto da poter affermare che ‘La scultura in pietra etrusca sia una tra le meno umane dell’antichità. In ciò possiamo riconoscere un preciso significato fune-rario: il leone ruggente protegge con efficacia la tomba della quale difende l’ingresso, la sfinge as-solve il compito, essa pure, di sentinella’ 18.

Nella Tomba dei Bronzi vengono rappresentati differenti animali, realizzati in proporzioni diver-se, con le teste volte a visione laterale o frontale, forse per dare movimento all’insieme.

Sono presenti leoni ruggenti, cavalli alati, arieti in posizione flessa, una sfinge aptera con le mani im-pegnate a trattenere le trecce della capigliatura.

I numerosi frammenti raccolti nell’area, per-mettono la ricostruzione di altre statue di identico soggetto, portando a ritenere che gli animali fos-sero rappresentati in coppia.

E’ presente un leone alato (Fig. 1), con le ali realizzate in un motivo a scala tipico nei modelli assiri e mediato agli etruschi attraverso i greci.

Fig. 1. Tomba dei Bronzi. Particolare del leone alato.

42

Così come di derivazione greca, ispirandosi a temi protocorinzi e corinzi, viene resa la criniera del cavallo scandita da lunghi ciuffi (Fig. 2).

La sfinge e l’ariete richiamano, nell’insieme, motivi ionici.

Le specie rappresentate non sono casuali, ognuna esprime un significato particolare.

Alcuni animali possiedono le ali, caratteristica dell’essere divinizzato, del mezzo per lasciare il mondo terreno.

Il leone è animale che esprime potenza. In ambito orientale, particolarmente in Egitto, vengono rappre-sentati a coppie perchè sono i guardiani dei due oriz-zonti, l’est e l’ovest, del corso solare. Sorvegliano lo scorrere del giorno, Ieri e il Domani 19.

La sfinge, animale fantastico che può avere le ali ma non vola, esprime l’ineluttabile, l’insondabile

con in più gli attribu-ti del leone. Anche lei è animale solare, guardiano dei due orizzonti.

Lo hus 20 distin-gue nella statuaria etrusca arcaica, tre differenti modi di esprimere la sfinge: accovacciata, seduta con la testa a prolun-gamento del corpo e seduta con la te-sta girata. Aggiunge inoltre che tre elementi iconografici caratterizzano l’animale fantastico: la pettinatura, il trattamento del petto e quello delle ali.

Una statua di sfinge presente nella Tomba de i Bronzi, si tiene le trecce della capigliatura con le mani, guardando fisso avanti a sé (Fig. 3; Fig. 4; Fig. 5). Anche questo gesto esprime un particolare signi-ficato: i capelli venivano considerati, anticamente, la sede dell’anima e la treccia manifestava il legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Trova precisi confronti nel repertorio delle ‘piangenti’, un motivo orientale raffigurante , in differenti modi, una donna che si stringe al petto le trecce, conosciuto nella ce-ramica ed ampiamente attestato in area chiusina 21.

Anche il cavallo simboleggia il mondo ctonio; tradizionalmente è l’animale che trasporta il defun-

Fig. 2. Tomba dei Bronzi. Il cavallo.

Fig. 3. Tomba dei Bronzi. Particolare della sfinge che stringe i capelli.

Fig. 4. Tomba dei Bronzi. Particolare della sfinge.

fig. 5. Tomba dei Bronzi: La sfinge in nenfro a guardia del sepolcro.

43

to in un aldilà sublimato. Oltre che nella statuaria si trova raffigurato, nella necropoli di Castro, nelle decorazioni vascolari.

Infine l’ariete, simbolo di forza, fecondità e rina-scita 22 (Fig. 6).

All’esterno della tomba, tra i frammenti delle sta-tue, era presente un cippo di forma troncoconica a colonna, ancora parzialmente integro, alto m. 2,50 ed altri frammenti pertinenti ad elementi analoghi.

Poco distante dall’area, si rinvenne una struttura circolare, di circa 5 m. di diametro, recante quattro incassi, riferibile ad un’area cultuale, collegabile alla tomba, dove i quattro cippi-obelisco erano di-sposti sulla platea circolare 23.

Un confronto può ricercarsi nella necropoli di S. Giuliano dove è presente un’area rituale antistante una tomba, con una platea con due file di cippi a terminazione piramidale 24.

3.2. tomba della bigaLa tomba presenta vestibolo a cielo aperto che im-

mette ad un’unica camera, asimmetrica, con ingresso scandito da due porte. Probabilmente era prevista an-che una terza apertura che è visibile in parete appena sbozzata, forse interrotta dalla repentina morte del destinatario.

L’interno della tomba, manomesso, comprende una banchina dove era deposto il sarcofago ligneo, un particolare funerario di origine meridionale, uti-lizzato per le sepolture più importanti. Viene attestato in area falisco-volsiniese, presente sia a Veio che a Pitigliano, dove il defunto viene adagiato nel tronco di una quercia 25.

Uno studio recente 26 indica nel destinatario del-la tomba una donna, di giovane età, come sembrano riferirsi i dati archeologici e gli oggetti del corredo recuperati: sandali impreziositi con inserti di oro e ambra, un pendente aureo con incastonato uno scara-

beo inciso che richiama soggetti di area egiziana, un tintinnabulo bronzeo.

La tomba prende il nome da una biga, un currus, rinvenuta nel vestibolo, coperta da uno strato fango-so, che l’ha restituita praticamente integra. Lungo lo stretto corridoio erano deposti i due cavalli che do-vevano trainarla, di età giovane, tra i cinque-sei anni, sacrificati per l’occasione.

La biga si presenta priva di tracce di usura, re-alizzata in legno di quercia e lamine di bronzo. Le fiancate laterali bronzee erano decorate da due efebi in posizione stante, raffigurati di profilo, con le brac-cia distese lungo i fianchi e il volto dritto in avanti. I capelli sono lunghi e scendono ondulati sulle spalle.

L’insieme è opera di squisita fattura etrusca in sti-le ionizzante.

Il manufatto, in ottimo stato di conservazione e recentemente oggetto di accurato restauro 27 può da-tarsi tra il 530-520 a.C.

Si tratta di un carro a due ruote, utilizzato in pa-rate e in guerra, capace di trasportare una o due per-sone in piedi, manifesta uno status sociale elevato e simboleggia il veicolo necessario per accompagnare il defunto nell’oltretomba 28.

3.4. tomba delle travi o del principe maSSimo

Tomba a camera con soffitto a travetti rilevati, si-mile alle travi del tetto ligneo.

Nella necropoli di Castro, rappresenta un unicum, come tipologia architettonica riporta a modelli cere-tani.

Databile all’età arcaica, metà del VI secolo, gra-zie ai dati forniti dal materiale del corredo composto da vasi di bucchero.

3.5. tomba del tetto diSluviatoNel VII secolo a.C., secondo la diffusa ideologia

che vede nella tomba la casa dove il defunto avrebbe continuato a vivere 29, si sviluppa un modello archi-tettonico imitante l’abitazione.

Le forme architettoniche sono maestose, rigonfie, in sintonia con il gusto ionico dell’epoca 30.

All’interno la tomba è simile ad una camera con finte porte che allargano visivamente la planimetria, pilastro portante spesso centrale (columen) e travi laterali, incisi a rilievo nella roccia, imitanti l’intrec-cio dei pali lignei nel soffitto (mutuli).

La stessa ideologia è presente all’esterno dell’edi-ficio funerario.

La tomba a tetto displuviato, o a ‘casa’, è una

Fig. 6. Tomba dei Bronzi: Ariete, posto all’ingresso della tomba.

44

diramazione della più impiegata tomba ‘a dado’. In comune ha il corpo quadrangolare decorato da cor-nici; se ne discosta per il coronamento che ricorda il tetto di una casa31.

Si trova di fronte la chiesetta del Crocefisso di Castro. L’aspetto è monumentale, costruita su un basamento formato da blocchi di tufo disposti in giunti simmetrici (isodomi), che poggiano su un basamento modanato (toro) composto da filari, il primo con blocchi tufacei e il secondo con blocchi più piccoli, in nenfro giallo-rosato.

Il restante alzato è in tufo.Un’intercapedine isola il monumento dalla roc-

cia retrostante, dove sono ricavate canalette per il naturale deflusso delle acque meteoriche.

Il tetto doveva essere displuviato, decorato da due protomi di animali, un leone e un ariete, ese-guiti a tutto tondo, poste agli angoli degli spioventi, a guisa di acroteri o gocciolatoi.

La tomba internamente è composta da tre ca-mere, la centrale con columen a rilievo. Disposte lungo le pareti, si trovano le banchine .

Sono presenti quattro porte, due introducono nella camera centrale.

Le sculture vengono datate tra il secondo quar-to- metà del VI secolo a. C., in particolare un leone in nenfro rosa, reso plasticamente con le orecchie chiuse e il muso digrignante32.

La scultura, per la resa della criniera e del muso con le fauci spalancate, è ascrivibile ad un’officina operante a Vulci. Confronti nei modelli culturali si sono ravvisati a Tuscania con la tomba a casa della necropoli della Peschiera e con la tomba a casa con

portico nella necropoli di Pian di Mola33.Lungo una Tagliata, costruita in epoca medie-

vale su una strada più antica, sono presenti altre sepolture fortemente danneggiate dai lavori dei ca-vatori medievali.

Le tombe, appartenenti al rito inumatorio, sono del tipo a fossa: semplici con risega o loculo (que-sto più raro rappresentato, attualmente, da un solo esempio) e a cassone ricoperte da lastroni.

Le tombe a cassone, tipiche nel territorio vul-cente, con vestibolo scoperto, vennero utilizzate fino al V secolo a.C.

Sono presenti anche sepolture a nicchia simili a delle grotticelle.

In una tomba a camera, situata nelle vicinanze della tomba della Biga e datata tra la fine del IV- inizi III secolo a.C., venne ritrovato uno specchio in bronzo, decorato da tre figure eroiche del mon-do greco, con incisa la scritta TALMIThE da poter tradurre in Palamede.

Sempre nell’area della necropoli di Castro, sem-brano provenire due iscrizioni dedicatorie, incise su due anforette di bucchero, dono di un certo AVILE ACVILNAS ad un ignoto aristocratico.

Il personaggio è già noto per offerte con dedica rinvenute a Portonaccio, a Veio. Lo stesso nome, ma nella forma latinizzata di AQUILIUS, farà la sua comparsa nella Roma del V secolo a.C.34.

Nell’area orientale della necropoli venne messo in luce, dagli scavi condotti dai belgi, un teatro. Si tratta dei resti di una cavea composta da sedici gra-dini impostati sul banco naturale geologico.

I dati archeologici raccolti datavano, come ulti-ma fase di utilizzo, il V secolo a.C., identificando la struttura come platea per i giochi funebri, un rituale testimoniato da molte culture arcaiche.

Nei locali del Museo Civico Archeologico di Fig. 7. Ricostruzione della Tomba a Casa.

Fig. 8. Ricostruzione dell’ingresso della Tomba della Biga.

45

Ischia di Castro, di recente ristrutturazione, sono esposti i corredi funerari provenienti dalla necropo-li di Castro e materiali della collezione Lotti donata allo Stato.

Lungo il corridoio di accesso alle sale del piano terra, è stata riproposta la teoria delle statue zoo-morfe della Tomba dei Bronzi. Interessante la rico-struzione, nelle sale del piano superiore, del tetto della Tomba a Casa (Fig. 7) con i gocciolatoi e la statua del leone riposizionati secondo il disegno originario e dell’ingresso della Tomba della Biga (Fig. 8).

Il corredo vascolare e il sarcofago ligneo vengo-no esposti in una vetrina.

paola toiati

1 rendeli, 1993, p. 81.2 torelli, 2004, p. 124.3 rendeli, 1993, p. 219.4 incitti, 1999, pp. 5-21.5 colonna g., 1977, p. 198.6 ibidem, p. 202.7 munzi m., 1995, pp. 285-299; Stanco e.a., 1994, pp. 247-251.8 denniS g., 1993, p. 49.9 lotti t.- rittatore f., 1941, pp.299-305.10 de ruyt f., 1965-1966, pp. 1-14.11 Sgubini moretti a.m.-de lucia brolli m., 2003, pp. 363-387.12 bloch r., 1963, p. 154.13 colonna di Paolo e., 1983, p.24; Sgubini moretti, 1980, p. 523 SS.14 bloch r., 1963, p. 67.15 Sgubini moretti a.m.- de lucia brolli m., 2003, p. 373.16 Sgubini moretti a.m.- de lucia brolli m., 2003, p. 372.17 de ruyt f., 1970, pp. 178-179; pp.183-184 ; 1965-1966, pp. 1-5.18 bloch r., 1963, p. 53.19 chevalier J.-gheerbrant a., 2005, p. 13-14 vol. ii (leoni); p. 382 vol. ii (Sfinge); p. 41, vol. i (ali).20 huS a., 1961,pp. 208-222, tav. v, Xii, XXXvi.21 torelli m., 2004, p. 84 fig. 50.22 chevalier J.- gheerbrant a., 2005, p. 195 vol. i (capelli); p. 490 vol. ii (treccia).23 Sgubini moretti a.m.- de lucia brolli m., 2003 , p. 375.24 colonna di Paolo e., 1983, p. 24.25 ciacci a., 1999, p. 114.26 Sgubini moretti a.m.-de lucia brolli m., 2003, p. 381.27 boitani f., 1998, pp. 206.28 incitti m., 1992, p. 9.29 bloch r., 1963, p. 153 SS.30 torelli m., 2004, p. 87.31 colonna di Paolo e., 1983, p. 9.32 aavv., 1985, p. 296.33 Sgubini moretti a.m.-de lucia brolli m.,2003 , p. 378.34 ciacci a., 1999, p.113; torelli m., 2004, p. 76.

BIBLIOGRAFIA

aa.vv.1985, “Civiltà degli Etruschi”, Catalogo della Mostra

in criStofani m. (a cura di), Firenze.1986, “Architettura etrusca nel Viterbese”, Catalogo

della Mostra, Roma.1998, “Carri da guerra e principi etruschi”, Catalogo

della Mostra, (Viterbo 1997-1998), Roma.1999, “Dizionario illustrato della Civiltà etrusca” in

criStofani m. (a cura di), Firenze.

aimo p.- clementi r.1973, “Castro”, in Archeologia X, 4/5, pp. 25-40.

bloch r. 1963, “Gli Etruschi”, Londra.

boitani f.1987, “La biga etrusca di Castro”, in Antiqua, 5-6, pp.

84-91.1998, “Carri da guerra e principi etruschi”, Catalogo

della Mostra (Viterbo 1997-1998), Roma 1999.

chevalier J.- gheerbrant a.2005, “Dizionario dei simboli”, Milano.

ciacci a.1999, “Dizionario illustrato della Civiltà etrusca” in

criStofani m. (a cura di), Firenze.

colonna g.1967, “L’Etruria meridionale interna dal villanoviano

alle tombe rupestri”, in Studi Etruschi XXXV, pp. 3-30, Firenze-Roma.

1970, “Castro”, in Viterbo, pp. 32-33.1977, “La presenza di Vulci nelle valli del Fiora e

dell’Albegna”, Grosseto.

colonna di paolo e.1983, “Necropoli rupestri del Viterbese”, Roma.

de lucia brolli m.a.1991, “Agro Falisco” (Guide territoriali dell’Etruria

Meridionale), Roma.

denniS g.1993, “Città e necropoli d’Etruria”, Siena.

de ruyt f.1964-1965, “Saggi e scoperte della Missione Belga

nella necropoli etrusca di Castro”, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia,

46

vol. XXXVII, pp. 63-81, Roma.1967, “Risultati dei più recenti scavi belgi a Castro:

1965-1966” in Rendiconti della Pontificia Accade-mia Romana di Archeologia, vol. XXXIX, pp. 1-14, Roma.

1970, “Problemi e scoperte nel sito etrusco nella sepolta Castro a nord di Vulci”, in Atti del Convegno di Stu-di sulla città etrusca e italica preromana (Bologna-Marzabotto-Ferrara-Comacchio 1966), pp. 177-181, Bologna.

denniS g. 1993, (a cura di) F. Cambi “Città e necropoli d’Etruria,

Vulci”, Siena.

gavelli g.1985, “Castro misteriosa città etrusca”, Ischia di Castro.

giannini p.2003, “Centri etruschi e romani dell’Etruria Meridio-

nale”, Grotte di Castro.

huS a.1961, “Recherches sur la statuaire en pierre étrusque

archaique”, Paris.

incitti m.1992, “Appunti di architettura funeraria etrusca”,

Roma.1999, “L’abitato fortificato di Rofalco nell’entroter-

ra vulcente, ipotesi preliminari sulle fasi etrusche dell’insediamento” in Archeologia uomo territorio 18, Roma.

lotti t.- rittatore f.1941, “Castro e il suo territorio”, in Studi Etruschi XV,

pp. 299-305, Firenze-Roma.

maggiani a. - pellegrini e.1985, “La media valle del Fiora dalla preistoria alla ro-

manizzazione”, Pitigliano.

munzi m.1995, “La nuova Statonia”, in Ostraka, anno IV, 2, pp.

285-299, Napoli.

rendeli m.1993, “Città aperte. Ambiente e paesaggio rurale or-

ganizzato nell’Etruria meridionale costiera durante l’età orientalizzante e arcaica”, Roma.

Scheffer c.1986, “Schede” in Architettura etrusca nel Viterbese,

Catalogo della Mostra, Roma, pp. 115-128.

Sgubini moretti a.m.1980, “Castro”, in Studi Etruschi XLVIII, pp. 523-526,

Firenze-Roma..1986, “Confronti nell’architettura funeraria rupestre:

qualche esempio”, in Architettura etrusca nel Viter-bese, Catalogo della Mostra, pp.137-144, Roma.

Sgubini moretti a.m.- de lucia brolli m.a.2003, “Castro: un centro dell’entroterra vulcente”, in An-

nali della Fondazione per il Museo ‘Claudio Faina’, vol. X, Orvieto.

Stanco e.a.1994, “La localizzazione di Statonia: nuove considera-

zioni in base alle antiche fonti”, in MEFRA 106, 1, pp. 247-251, Roma.

torelli m.2004, “L’arte degli Etruschi”, Bari.

47

4. LA VILLA ROMANA DELLA SELVICCIOLA

La villa di epoca romana in località Selvicciola si trova nel territorio di Ischia di Castro (VT), situata tra i Monti di Canino e il Fosso dello Strozzavolpe.

Costruita su tre terrazze naturali, secondo i con-sigli degli agronomi1: la prima, la più bassa, nel se-dimento limo-sabbioso; le altre due ricavate nella fondazione geologica di calcare travertinoso, poste lungo un pendio leggermente digradante a nord-est verso il Fosso dello Strozzavolpe.

La villa venne alla luce nel 1981 a seguito di la-vori agricoli. Seguirono sistematiche campagne di scavo, tuttora in corso, da parte della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria meridionale, con la colla-borazione del Gruppo Archeologico Romano.

Allo stato attuale, il risultato delle indagini per-mette di ricostruire un complesso architettonico ti-pologicamente ascrivibile ad una villa di campagna, distinta in una zona residenziale (pars urbana) e una produttiva (pars rustica)2.

La fondazione è da ritenersi precedente alla fase romana, tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., documentata dal rinvenimento di fori di palo, pertinenti, probabilmente, a strutture lignee di una fattoria tardo etrusca.

La villa viene impiantata in età repubblicana, nel-la seconda metà del III secolo a.C., seguita da varie fasi abitative e ristrutturazioni cessati nel V secolo d.C.

La conquista romana di Vulci, nel 280 a.C., com-porta l’abbandono di circa la metà degli insediamen-ti agricoli presenti nella regione, con la creazione di nuovi.

Incisiva per la romanizzazione del territorio è la

48

costruzione della rete stradale, particolarmente per i tracciati delle vie Aurelia e Clodia, assi di comunica-zione e commercio tra i centri costieri e l’interno.

La via Clodia, costruita tra la fine del III e il II secolo a.C.3, probabilmente su di un tracciato preesi-stente, a differenza della via Aurelia, non aggirava i centri etruschi ma li includeva nel suo percorso.

La Tabula Peutingeriana4 rende possibile traccia-re il percorso della Clodia dove, all’altezza di Mon-temerano, si distaccava dalla strada Castro- Saturnia per dirigersi verso Marsiliana5.

Per collegare Castro a Tuscania, probabilmente, traversava il tratto pianeggiante tra i monti di Ca-nino; qui doveva distaccarsi un percorso minore diretto alle ville a confine del Fosso Strozzavolpe, tra queste, la Selvicciola. Verso la fine del III secolo a.C., si assiste ad un forte incremento della popo-lazione nell’area compresa tra i Monti di Canino e il Fosso dello Strozzavolpe, con forti tracce di par-cellizzazione agraria6. Risale a questo periodo il pri-mo impianto della villa romana. Nel I secolo a.C., intorno all’anno 80, viene documentata una note-vole riduzione del popolamento nell’area compresa tra i monti di Canino e il Fosso dello Strozzavolpe, probabilmente a seguito delle guerre civili che ve-dono l’Etruria centrale favorevole a Mario. Dal 120 all’80 a.C. i siti scendono da 96 a 46. Come altre aree dell’Etruria, il territorio vulcente si risolleva in

età augustea. Le ville da 46 si attestano a 77 e per la maggior parte sopravvivono fino al II secolo d.C.7. Nel II d.C. si assiste ad una nuova fase decrescente nel popolamento.

Le ville presenti si trovano per la maggior par-te allineate lungo l’asse viario Visentium-Vulci, già importante in età repubblicana; la maggior parte de-gli edifici è presente lungo il Fosso dello Strozzavol-pe8. Una nuova fase di decrescita, in particolar modo sentita tra Castro e Visentium, avviene nel corso del III secolo d.C., gli insediamenti rurali scendono da 67 a 43. Lo stato di conservazione in cui è pervenuta la villa della Selvicciola non è ottimale, dato il per-petrarsi dei lavori agricoli nel tempo; in alcuni setto-ri si è conservato soltanto il livello di fondazione.

Il risultato delle indagini di scavo permette co-munque di delineare una parte residenziale, habita-tio dominica (Fig. 2, lettera A), riservata al proprie-tario che non vive necessariamente sul luogo, impo-stata nella terrazza superiore, intorno ad un peristilio colonnato. Ad una prima sporadica fase in età pre-romana, ascrivibile al periodo tardo etrusco,doveva appartenere un edificio, forse una fattoria di piccole dimensioni (Fig. 2, lettera B). In questa fase, rin-tracciabile nell’area sud orientale, vengono scavati nel terreno di tufite giallastra tre pozzi ,per una pro-fondità di sei-sette metri, muniti di pedarole sui due lati delle pareti, per facilitare la discesa dei lavoranti

Fig. 1. Ricostruzione della villa.

49

nelle periodiche pulizie. In età medio repubblicana, seconda metà del III secolo a.C., l’estensione del precedente edificio non deve essere stata essenzial-mente modificata, probabilmente il proprietario si limitò ad effettuare alcune ristrutturazioni nell’area produttiva. Appartengono a questa fase dei cunicoli di drenaggio delle acque meteoriche e tracce di al-loggiamento di dolia effossa (grandi orci interrati).

Segue la costruzione dell’edificio nella seconda metà del II inizi I a.C., testimoniata da due ambien-ti pavimentati in cocciopisto, posti nell’angolo sud orientale. Si tratta di locali di servizio, forse inerenti alla cucina (Fig. 3, n. 1-2).

Uno dei due ambienti, mostra un muro portante costruito in blocchi squadrati di tufo, a questo viene ad appoggiarsi una seconda struttura muraria, in pie-tre calcaree legate con malta. Nell’angolo formato dai due muri, era collocata una vaschetta in coccio-pisto, il cui canale di scolo defluiva in un fognolo ricavato nel muro.

La zona produttiva (pars rustica), si trovava nell’area meridionale, sotto la basis villae. Si tratta di un frantoio oleario, con vasca di raccolta (lacus) del liquido ottenuto dalla spremitura doliarium e pozzo collegato ad una cisterna attraverso dei cuni-

coli. Un’area granaria, con pozzi e silos, viene co-struita nell’area sud-ovest, sigillando le precedenti strutture. In età augustea, periodo di rivitalizzazione di Vulci con un accrescimento della popolazione, si assiste ad un primo restauro e ristrutturazione della villa. In questo periodo l’analisi del popolamento evidenzia la presenza, lungo il Fosso dello Strozza-volpe, di 27 siti; di questi, due sono vici, uno è una necropoli, le restanti ventiquattro sono ville, nove di nuova formazione9. I materiali raccolti negli strati di riempimento documentano la nuova fase struttura-le, rendendo possibile una datazione tra la fine del II inizi I a.C.

Dall’area padronale proviene un denario d’argen-to di Lucio Flaminio Cilone datato al 108-100 a.C.10.

Nella fase augustea, vengono distrutte le struttu-re precedenti dei due ambienti di servizio presenti nella parte residenziale, obliterate da un pavimento. Quattro nuovi ambienti, probabilmente cubicola, si dispongono lungo il lato est del peristilio che, in que-sta fase, viene decorato da colonne in travertino sca-nalate e ricoperte di intonaco rosso (Fig. 2, lettera D).

Il lato settentrionale, al limite dell’attuale corso del Fosso dello Strozzavolpe, è occupato da ambien-ti pavimentati a mosaico bianco/nero, di incerta de-

Fig. 2. Pianta: A parte residenziale; B impianto oleario; C ambienti mosaicati; D peristilio colonnato.

50

stinazione (Fig. 2, lettera C). L’habitatio dominica sembra quindi disporsi lungo il corpo orientale della villa. La lettura della disposizione degli ambienti pa-dronali è resa incerta per lo spostamento, avvenuto nel tempo, dell’alveo del Fosso dello Strozzavolpe che ha fortemente eroso il lato orientale della villa.

Nella zona sud viene impiantato un piccolo im-pianto termale, provvisto di calidarium e sotto-stante ipocausto con prefurnium. Contiguo è un ambiente con vasca, probabilmente il frigidarium. Le strutture murarie degli ambienti mostrano un pa-ramento in latericium. Ad ovest del peristilio, vie-ne ricavato un pozzo-cisterna, con sovrastante vera di forma cilindrica, modanata alla base e all’orlo e decorata da strigilature. Il lato settentrionale del peristilio, celava oltre il colonnato, l’impianto ole-ario (Fig. 2, lettera B). E’ la parte fructuaria del-la zona rustica, con gli ambienti per la lavorazione dell’olio. Si tratta di un locale con torcularium per la frantumazione delle olive, il liquido ricavato ve-niva deposto in tre vasche (structile gemellar) di differente profondità, per decantare e separare l’olio dall’acqua (Fig. 4). Un pozzo raccoglieva lo scarto della potatura delle olive, probabilmente utilizzato

come concimaia (sterquilinia). All’esterno era un cortile scoperto con dolia seminterrati e pozzo-silos per la conservazione delle olive (tabulatum) (Fig. 5, sezione e pianta). Il frantoio si imposta in età au-gustea; subisce una serie di ristrutturazioni con am-pliamento e perfezionamento dell’impianto produt-tivo, tra il II e il III secolo d.C. Viene costruito un deposito ipogeo, le vasche subiscono alcune modi-fiche, quella centrale viene leggermente rialzata. La corte rustica viene delimitata da uno spesso muro di recinzione, orientato nord ovest- sud est. Vi è quin-di incidenza nella produzione di olio in un’epoca in cui, non solo nella regione ma in tutta la penisola, si assiste ad una decadenza nella produzione del vino, confermata dalla scomparsa di alcune forme di an-fore da trasporto vinarie11. Nell’area meridionale, sui resti di epoca repubblicana, viene scavata una cisterna con sottostanti cunicoli di deflusso e si co-struisce, nel lato nord-ovest una vasca pavimentata a tasselli, di incerta destinazione. Nella prima metà del V secolo d.C., la cisterna del peristilio, persa ormai la sua funzione originaria, diviene una sorta di ‘butto’, riempita con macerie e vasellame. La ri-mozione degli strati presenti all’interno, ha restitu-ito materiali ceramici e in bronzo, resti di cibo (una pentola conteneva ancora dei ceci), frammenti ossei pertinenti ad animali da cortile, cacciagione, gusci di tartarughe, noccioli di frutta. Tra i materiali edi-lizi, i frammenti della vera del pozzo, una zampa ferina in travertino pertinente ad un trapezoforo (tavolo rettangolare) o ad una delfica (tavolo ro-tondo), resti dei rocchi delle colonne del peristilio, frammenti delle travi lignee della botola di chiusu-ra della cisterna. Nell’area del frantoio oleario, lo scavo delle vasche di raccolta, ha documentato una fase finale di utilizzazione delle strutture, con suc-cessivo riempimento di materiale di scarico. Sono stati raccolti resti di rami e noccioli di ulivo, gusci di noci, cereali, acini d’uva. Dagli strati di abban-dono del complesso termale, proviene un denario di Filippo l’Arabo (244-249). Allo stato attuale delle ricerche, si ha testimonianza di un utilizzo, docu-mentato nell’area del frantoio, in età longobarda. Attualmente non conosciamo il nome del proprie-tario della villa e non è dato sapere se vi siano sta-ti mutamenti nella gestione. Nell’area padronale, durante le fasi di scavo degli strati datati tra l’età tardo repubblicana e la seconda metà del II secolo a.C., vennero rinvenuti due frammenti fittili, per-tinenti ad embrici, con bollo in cartiglio rettango-lare, recanti le diciture: MINUCIUS.C.F. MINUCI e L.MINUC(I). La gens Minucia annovera rappre-sentanti in Senato nel IV secolo a.C., ben attestata

Fig. 3. Ambienti relativi alla cucina, nn. 1 e 2.

Fig. 4. Particolare delle vasche di raccolta dell’impianto oleario.

51

nell’Italia centro meridionale12 meno in Etruria.Un Lucius Minucius Thermus viene ricordato

come legatus in Spagna Citeriore e in Istria, tra il 181 e il 177 a.C.13 e in Egitto, nel 145-144 a.C., come rappresentante nell’ambasceria romana man-data a controllare la contesa al trono dopo la morte di Tolomeo VI Filometore14.

Altro probabile personaggio, Lucius Minucius Basilus, riveste varie cariche politiche a Roma tra l’88 e il 45 a.C.15. Un Lucio Minucio Natalis, uffi-ciale sotto Traiano, viene menzionato in una dedica di altare offerta al tempio ad Apollo a Maternum (Canino), ma resta incerta l’attribuzione alla stessa famiglia16. La villa composta sia di una parte ur-bana che di una rustica, per la sua estensione e per l’utilizzo protratto nel tempo, è comunque indice della ricchezza di una famiglia di proprietari terrie-ri. Circostanti la villa, si possono ipotizzare ampie aree destinate alle coltivazioni: orti e frutteti in-torno all’edificio, campi coltivati a cereali, uliveti. Animali da cortile intorno al granaio e maiali liberi tra i boschi; probabile un canneto lungo il Fosso dello Strozzavolpe.

Nelle immediate vicinanze della villa, corri-spondenti al Podere 2 della Bonifica, si rinvenne, in passato, un deposito votivo. Nel corso della campagna di scavo 1989 sul sito della Selvicciola,

nell’area della necropoli longobarda, venne recu-perata un’epigrafe su stele ad edicola,della prima età imperiale, riutilizzata come lastra di sepoltura di una tomba longobarda. Si tratta della dedica di un Collegium Deanae ad Amabilis17, forse la villa confinava con un santuario edificato a Diana. I ma-teriali ceramici raccolti nel corso degli scavi, sono stati essenziali per la datazione delle varie fasi di vita e abbandono della villa.

La cisterna del peristilio, ha restituito vasellame in gran parte integro, sia fittile che bronzeo e par-te delle decorazioni architettoniche e suppellettili dell’edificio. Nei restanti ambienti, dove maggiore è stata la distruzione dei lavori agricoli, si sono rac-colti materiali frammentati.

Nei locali del Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro, l’epoca romana risulta documenta-ta, oltre che da corredi tombali provenienti da diffe-renti necropoli, dalla villa della Selvicciola.

Insieme ai reperti ceramici (Fig. 6, 198, 199, 201, 203, 206) è esposta la vera del pozzo restaurata e in-tegrata delle parti mancanti (Fig. n. 196), la zampa ferina in travertino a sostegno del trapezoforo (Fig. n. 213) e una serie di epigrafi rinvenute nell’edificio e in altri siti.

paola toiati

Fig. 5. Ricostruzione del doliarium.

52

Fig. 6. Grande bacile.

Fig. 7. Piatto in sigillata chiara.

Fig. 8. Brocca in ceramica verniciata.

Fig. 9. Oinochoe in bronzo.

Fig. 10. Oinochoe in bronzo (particolare).

53

Fig. 11. Materiali provenienti dalla cisterna della villa.

Fig. 12. Vera di pozzo ricavata da un rocchio di colonna. Fig. 13. Trapezoforo zoomorfo.

54

1 La dislocazione panoramica, la più salubre secondo la dispo-sizione degli agronomi (Cat. 14.5) comporta spesso un’archi-tettura ‘a terrazze’. regoli e., 2002, p.147.2 “La villa si articola fin dall’inizio nella parti urbana e rustica, quest’ultima divisibile a sua volta nelle parti rustica e fructua-ria. La parte urbana è riservata al dominus. La parte rustica comprende l’instrumentum vocale (gli schiavi), semivocale (bestiame) e mutum (suppellettili). La parte fructuaria si rife-risce alla lavorazione e conservazione dei prodotti dei campi” (carandini A. 1989, p. 109). 3“È probabile che entrò in uso poco dopo la sottomissione definitiva della regione nella prima parte del III secolo; ma la principale risistemazione deve essere avvenuta più tardi, probabilmente come harris ha suggerito (1971, pp. 166-167) contemporaneamente alla fondazione della colonia di Saturnia nel 183 a.C., sua ultima destinazione.” (potter th. w., 1985, p.117).4 tab. peut.. IV - 5; V - 1.5 cambi F., 2002, p.133.6 gazzetti G., 2002, p.350.7 ghini G., 2002, p.357.8 gazzetti G., 2002, p.360-362.9 toiati P., 2002, p.357.10 pontacolone l.-toiati p., 2002, p.150.11 carandini A., 1989, pp. 115-116.12 A Pompei è attestata una textrina dei Minuci (della corte, 1965, p. 301).13 broughton t.r.S., 1952, p.471; liviuS s.d.14 broughton T.R.S., 1986, p.142.15 broughton T.R.S.,1960, p.388.16 gazzetti G., 1995,p. 301.17 toiati P., 2002, p. 371.

BIBLIOGRAFIA

aa.vv.2002, “Paesaggi d’ Etruria” (a cura di A. Carandini- F.

Cambi), Roma.

broughton t.r.S.1952, “The Magistrates of the Roman Republic”,

New York.1960, “The Magistrates of the Roman Republic”, sup-

plement, Oxford.1986, “The Magistrates of The Roman Republic”, sup-

plement, Atlanta (Georgia).

cambi f.2002, “La via Clodia e le sue diramazioni”, in Aa.Vv.

2002, Roma.

carandini a.1989, “La villa romana e la piantagione schiavistica”,

in Storia di Roma, Torino, p. 109 ss.

della corte m.1965, “Case e abitanti di Pompei”, Napoli.

gazzetti g.1995, “La villa romana in località Selvicciola” (Ischia

di Castro), in Paper of the Fifth conference of Italian Archaeology, Oxford, pp. 297-302.

2002, “L’organizzazione del territorio meridionale dopo la conquista”, in Aa.Vv. 2002, pp. 350-351.

2002, “Il popolamento nel II secolo d.C.”, in aa.vv. 2002, pp. 359-362.

ghini g.2002, “Il popolamento in età augustea”, in Aa.Vv.

2002, pp. 357-359.

harriS w. v.1971, “Rome in Etruria and Umbria”, Oxford.

liviuS tituS

s.d. “Storia di Roma dalla sua fondazione”, Milano. potter th. w.1985, “Storia del paesaggio dell’Etruria meridionale”,

Roma. pontacolone l.- toiati p.1985, “La villa della Selvicciola”, in La romanizzazio-

ne dell’ Etruria. Il territorio di Vulci, Catalogo della Mostra, Firenze, pp.149-151.

regoli e.2002, “Paesaggi d’Etruria”, in carandini a. - cambi

f. (a cura di), Roma.

toiati p. 2002, “Il popolamento nel I secolo a.C.”, in aa.vv.

2002, p. 357; I luoghi di culto, pp. 369-371.

55

5. IL PERIODO LONGOBARDO

5.1. la preSenza longobarda nell’alto lazio

Il territorio dell’Alto Lazio fu interessato dalla migrazione longobarda a partire dalla fine del VI secolo. I Longobardi avevano avuto modo di cono-scere la penisola italiana durante le fasi finali del-la guerra greco-gotica, quando un loro contingente militare, costituito da 2500 uomini armati e 3000 servitori, era stato arruolato nell’esercito bizantino in funzione antigota1. Tale intervento militare è sta-to reputato dagli storici il propellente per indirizzare verso l’Italia quel fenomeno di migrazione di massa già in atto, che si concretizzò con l’occupazione pro-gressiva della penisola.

Di origine germanica, provenienti secondo Paolo Diacono dalla Scandinavia2, i Longobardi compaio-no nelle fonti storiche a partire dal I secolo a.C. Gli scrittori latini e greci3 indicano la loro sede primitiva nell’Europa settentrionale lungo il corso inferiore del fiume Elba, da dove poi si spostarono verso il Danubio, entrando in relazione con l’impero romano e giungendo a stipulare con esso trattati di allean-za4. Nel 568 guidati da Alboino abbandonarono la Pannonia e valicarono le Alpi5.

Nell’area dell’Alto Lazio le prime occupazioni storicamente documentate avvennero tra il 591 e il 5926, anni in cui il duca di Spoleto Ariulfo con-quistò Bomarzo, Orte e Sutri, forse per assicurarsi il controllo degli assi stradali a nord di Roma7. Le città furono riconquistate subito dopo dall’esarca Romano nel viaggio di ritorno verso Ravenna, per garantire il collegamento tra Ducato Romano ed Esarcato.

56

Fig. 1. La diffusione dei toponimi di probabile origine longobarda. (Da incitti 1997).

57

A queste vicende seguirono nel 593 azioni di saccheggio del re Agilulfo8, che giunse anche ad assediare Roma, e poi nel 605 una nuova offensiva che portò alla depredazione di Orvieto e Bagnoregio. Tale azione costrinse i Bizantini ad arretrare la dife-sa del Ducato lungo un limes che andava dai monti Cimini ai monti della Tolfa, e che aveva in Forum Cassii, Sutri, Bieda e Civitavecchia le sue piazze-forti9. Nel 60710 fu stipulata la pace con la quale è presumibile che si riconoscessero i territori di con-quista e l’estensione dell’area di dominio germanico che prese il nome di Tuscia Longobarda. Nella De-scriptio orbis romani di Giorgio da Ciprio, scritta tra il 610 e il 63011, è possibile cogliere il nuovo assetto territoriale in quanto è indicata la linea difensiva lon-gobarda lungo i castra di Tuscania, Vetralla, Viterbo, Bagnoregio e Orvieto.

Un’ulteriore espansione dei confini della Tuscia Longobarda si ebbe nel 727-728, con la conquista di Sutri da parte di alcune milizie provenienti proba-bilmente dalle città di Tuscania, Viterbo e Orvieto12. A questa azione seguì l’occupazione di Orte, Ame-lia, Bomarzo e Blera da parte del re Liutprando che determinò l’ampliamento verso sud e verso est del territorio.

Il nuovo assetto perdurò fino al 742 quando, in seguito alla richiesta di papa Zaccaria, il re restituì i quattro centri e anche altri territori sottratti in pre-cedenza13.

Con la fine del regno longobardo a opera dei Franchi l’Alto Lazio fu donato alla Chiesa e divenne parte del Patrimonium Sancti Petri14.

5.2. i longobardi nel territorio di caStroL’occupazione del territorio di Castro da parte

di nuclei longobardi avvenne presumibilmente tra il 592 e il 607. Una lettera di Gregorio Magno del 59215 infatti riferisce dell’assedio della città di So-vana, poco a nord, a opera di Ariulfo duca di Spo-leto. Il papa nella missiva chiedeva a Mauricio e Vitaliano, maestri delle milizie del Ducato Roma-no, di verificare la lealtà degli abitanti di Sovana che, prestando fede alle parole dello stesso duca, avrebbero trattato la resa con lui. L’esito di questo evento – se all’assedio seguì occupazione o se ci fu un ritiro degli aggressori – non traspare dalle suc-cessive lettere del papa né da altri documenti. Tut-tavia la pace conclusa nel 607 tra i Bizantini e il re Agilulfo16, riconoscendo come longobardi i centri di Tuscania, Vetralla, Viterbo, Bagnoregio e Orvie-to, ratificava l’avvenuta conquista del territorio alto laziale compreso tra questi centri, e quindi anche

del territorio di Castro.Un ausilio per il riconoscimento dello stanzia-

mento di questo popolo in ambito castrense può ve-nire dall’analisi di alcuni toponimi rilevabili nella cartografia, la cui formazione è ascrivibile proprio a tale periodo (fig. 1). Essi infatti derivano da termini propri del lessico longobardo, che linguisticamente è una varietà del germanico, classificabile tra le lingue indoeuropee17.

Il toponimo più diffuso è ‘Sala’ che ricorre a c.a 1 km a sud - ovest di Castro nella forma ‘Poggio Salone’18. Esso è evoluzione da *saliz e ha un signi-ficato originario di ‘costruzione con un solo grande vano’, poi ‘casa per la residenza padronale nella cur-tis e per la raccolta delle derrate dovute al padrone’, infine ‘casa di campagna’19. A Poggio Salone sono stati rinvenuti i resti di un piccolo edificio di culto di epoca romanica, eretto su un basamento di origine etrusca costituito da blocchi di tufo20. Lo stesso eti-mo si trova in ‘Salabrone’, a nord-est lungo il corso dell’Olpeta, e fuori territorio comunale in ‘S. Maria di Sala’, che è nota da fonti d’archivio solo a parti-re dal XII secolo, ma offre numerose testimonianze materiali anche di epoca precedente21.

Un altro toponimo che si può considerare di ori-gine germanica è ‘Pantalla’ testimoniato da ‘Fon-tanile di Pantalla’, a nord-ovest di Castro22. Esso è prossimo a ‘Poggio del Gaggio’ in cui si può ravvi-sare il termine *gahagi che significa ‘terreno (bosco, pascolo) riservato, bandita’23. Questo stesso radicale si può riconoscere in ‘Fosso del Caiolo’ a est di Castro e in ‘Valle Caiella’ a nord della città24.

Sono degne di rilievo, pur trovandosi fuori ter-ritorio comunale, altre località, quali il ‘Fontanile di Valderico’25, a c.a 9 km a est di Castro, il cui antroponimo è certamente di origine germanica, probabilmente gota26, e Castellardo, nel comune di Canino. Quest’ultimo è formato da castellum + il radicale *ward, che significa ‘zona, posto di guar-dia’27. Recenti scavi compiuti dalla Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale e dal GAR, hanno messo in luce un vero proprio insediamento dotato di strutture difensive, abitazioni in parte ru-pestri, chiesa e silos28.

Lo studio toponomastico trova la sua ragione scientifica nel modo di formazione di un nome, che è il risultato di un intervento umano sul territorio, prolungato nel tempo e cristallizzato, specchio al tempo stesso delle condizioni storiche e sociali, economiche e linguistiche che lo hanno generato. Esso tuttavia non è esaustivo, in quanto andrebbe corredato da adeguata indagine archeologica, né è assoluto in quanto evidenze archeologiche sono

58

state individuate anche in aree prive di toponimi significativi. E’ questo il caso del sito della Selvic-ciola che, pur non conservando a livello onoma-stico indizi del suo passato, ha rivelato consistenti testimonianze di un insediamento antropico che va dall’eneolitico all’altomedioevo.

5.3. l’inSediamento alto medioevale del-la Selvicciola

Il sito della Selvicciola, situato al confine tra i comuni di Ischia di Castro e Canino, è stato indivi-duato e scavato dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale e dal Gruppo Archeologi-co Romano, che, a partire dal 1982, hanno messo in luce un piccolo insediamento alto medioevale con relativa area sepolcrale29 (fig. 2).

L’insediamento, pur modesto nelle sue espres-sioni, è eccezionalmente significativo per il perio-do storico che documenta e per il territorio in cui si inserisce, in quanto, sviluppandosi in un’epoca

estremamente avara di fonti e di testimonianze materiali, attesta l’esistenza di forme abitative ru-rali, a diffusione capillare, non altrimenti note, in cui si stabiliscono nuclei umani allogeni, interpre-tabili come famiglie longobarde in via di romaniz-zazione30. Quello in esame si impiantò nell’area delle strutture abbandonate della villa romana, che furono trasformate e adattate alle esigenze del nuovo gruppo umano. L’inizio di questa nuova fase è percepibile negli strati di riempimento che si sono sovrapposti all’abbandono, avvenuto tra il 400 e il 45031.

Le colmature riguardarono in particolare la ci-sterna dell’atrio, i cunicoli di drenaggio, e le vasche del frantoio oleario, determinando sostanzialmente la distruzione di parti vitali della villa. Tale evento se nel caso della cisterna può essere stato dettato da un abbassamento della falda acquifera e pertanto da una perdita di funzionalità, negli altri casi può esse-re interpretato come segno di una differente impo-stazione economica, basata più sullo sfruttamento

Fig. 2. Pianta complessiva del sito della Selvicciola con le strutture della villa romana, le sepolture alto medioevali e l’edificio di culto. (Disegni di d. Gasseau).

59

silvo-pastorale che su quello agricolo. Nei riempi-menti furono ritrovati frammenti ceramici che da-tano questa fase al primo quarto del VII secolo32. Si tratta di forme aperte (coppe, piatti, teglie) (fig. 3), di ceramica sigillata di provenienza africana, estre-mamente importanti sia come testimonianza della diffusione di questo prodotto nel mercato mediter-raneo e in particolare alto laziale, sia come prova indiretta della continuità degli scambi commerciali, nell’epoca dell’occupazione longobarda.

Lo scavo ha permesso di mettere in luce un’area abitativa, un luogo di culto e un’area sepolcrale, di-stribuiti su una superficie contratta rispetto a quella occupata in epoca romana.

5.4. le Strutture abitative e l’edificio di culto

Le strutture abitative alto medioevali della Sel-vicciola sono solo in parte determinabili sia per i danni causati dalla messa a coltura dell’area, sia per il riutilizzo degli ambienti già esistenti della villa sia per l’impiego di materiale deperibile nella realizza-zione dei nuovi.

Furono compiute trasformazioni nella parte re-sidenziale della villa dove ci fu una totale dismis-sione dell’impianto termale, testimoniata dal riem-pimento dei cunicoli di drenaggio a esso collegati33. Il ritrovamento di buche di palo nel pavimento in cocciopesto ha fatto ipotizzare l’esistenza di strut-ture lignee e l’uso di questi ambienti a scopo abita-tivo. Altri interventi riguardarono il peristilio dove lo scavo ha rilevato incassi per l’alloggiamento di parti lignee, il riempimento della cisterna e la di-struzione del relativo pozzo.

Nell’area produttiva le vasche del frantoio furo-no completamente interrate e anche alcuni silos di età repubblicana e imperiale furono obliterati e ma-nomessi dalla costruzione di tombe.

L’edificio di culto invece fu l’unico stabile costrui-to ex novo. Esso fu realizzato intorno alla metà del VII secolo, a ovest della villa nell’area già occupata da sepolture34 (fig. 4). L’esplorazione ha evidenziato una monoaula di m 14,55 di lunghezza ricostruibile per m 8,55 di larghezza, dotata di abside sporgente semicircolare nel lato corto meridionale, e realizzata con blocchi irregolari di travertino di medie e picco-le dimensioni, messi in opera su letti di malta (fig. 5). All’interno sono stati trovati frammenti di intonaco dipinto e di lastre e crustae marmoree, e nella zona absidale tessere e lastrine di pasta vitrea35. Questi elementi inducono a pensare che l’edificio fosse de-corato con un mosaico policromo, almeno nell’area presbiterale, e che avesse un rivestimento di lastre di marmo e una decorazione ad affresco.

Alla chiesa si addossava un piccolo ambiente

Fig. 3. Ceramica rinvenuta nel riempimento del pozzo.

Fig. 4. Pianta dell’edificio di culto della Selvicciola. (Disegni d. Gasseau).

Fig. 5. Ricostruzione dell’alzato della chiesa della Selvicciola. (Di-segni d. Gasseau).

60

quadrangolare sul lato est, che aveva probabilmen-te funzioni di sacrestia. Di fronte all’edificio inve-ce nell’angolo nord - est è stata messa in luce una struttura a pianta circolare, interpretabile come un sepolcro tardo antico o, data anche la contiguità con la chiesa, come un battistero36.

L’indagine archeologica ha permesso di recupe-rare nell’area della villa vari reperti37 in metallo, ce-ramica e pasta vitrea, tra cui prevalgono attrezzi da

lavoro (coltelli, falci, chiodi) in ferro, ed elementi di ornamento personale o finimento (fig. 6).

5.5. l’area SepolcraleL’area sepolcrale della Selvicciola si estende a

ovest delle strutture della villa romana, in quella par-te in precedenza adibita ad aia e sfruttata per le col-tivazioni. Essa è costituita da c.a 200 sepolture che coprono un arco cronologico compreso tra la fine del VI secolo e il IX38 (fig. 7). Fa eccezione un gruppo di deposizioni che per gli elementi di corredo si data tra la fine del IV e il V secolo, connotandosi pertanto come nucleo sepolcrale più antico, precedente all’ar-rivo della comunità longobarda39. Si tratta di tombe a fossa, scavate nel banco e orientate est-ovest che, con la loro disposizione formano un allineamento nord-sud. Su questo nucleo si è poi impiantata la chiesa

che con le sue fondazioni ha in parte tagliato alcune sepolture, sovrapponendosi all’allineamento40.

La planimetria complessiva della necropoli con-sente di distinguere quattro gruppi di tombe, sulla base della loro vicinanza41. Il primo si può riconosce-re nell’area interna ed esterna della chiesa ed è costi-tuito da 68 deposizioni di cui 46 orientate est-ovest e 16 nord-sud42. Il ritrovamento di parti dell’apparato scheletrico in molte circostanze ha permesso di indi-viduare il senso di deposizione dell’inumato che nel-le tombe orientate est-ovest era deposto con cranio rivolto a ovest (in 24 casi + 2 a est riscontrabili su 46 totali) mentre in quelle nord-sud era posizionato con testa a sud (in 11 casi riscontrabili su 16 totali)43.

Un secondo nucleo è identificabile nella pros-simità sud-est dell’edificio religioso e comprende 17 sepolture di cui 8 con disposizione est-ovest e 5 nord-sud44.

Un terzo raggruppamento è circoscrivibile nel settore sud della necropoli ed è costituito da 4 tombe tutte orientate est-ovest e con inumati rivolti a ovest

Fig. 6. Materiali rinvenuti nell’area della villa della Selvicciola.

Fig. 7. Pianta dell’area sepolcrale della Selvicciola. (Da incitti 1997).

Fig. 8. Pianta e sezione di una tomba con chiusura a lastre di calcare. (Disegni D. Gasseau).

61

nei 2 casi documentabili45.Il quarto gruppo può essere isolato a est e vi si

riconoscono 8 deposizioni tutte scavate in senso est-ovest, senza un particolare allineamento46.

In molti casi lo scavo archeologico ha consen-tito di accertare la copertura delle tombe, che è attestata sostanzialmente in tre forme. Quella che ricorre con maggiore frequenza è la chiusura con lastre irregolari di calcare travertinoso o di tufo, di grandezza medio grande, poste in orizzontale (se ne contano 11 nel primo gruppo, 10 nel secondo, 3 nel terzo e 5 nel quarto)47 (figg. 8-8a).

Segue la copertura con tegole disposte alla cap-puccina (ne sono state trovate 19 nel primo nucleo, e 3 nel secondo)48 (figg. 9-9a), e infine quella con

lastre di nenfro o roccia vulcanica, lavorate a tetto displuviato, di cui sono stati individuati 3 esempi nel primo gruppo e 1 nel quarto49 (fig. 10).

Il confronto quantitativo evidenzia una grande concentrazione delle tombe alla cappuccina nel pri-mo nucleo, che si configura come quello più antico del cimitero. Questa tipologia sepolcrale, tra l’altro esclusiva all’interno della chiesa, è inoltre strati-graficamente anteriore a quella a lastre, ed è perciò ipotizzabile che l’uso di un tipo rispetto all’altro di-penda da differenti archi cronologici piuttosto che da scelte di tipo rituale o etnico50.

Alcune fosse presentavano un rivestimento con lastre di travertino infisse verticalmente, altre con ciottoli e scaglie litiche a volte di reimpiego, altre ancora, in particolare quelle all’interno della chie-sa, un rivestimento in muratura51 (fig. 11). Proprio all’interno dell’edificio religioso sono stati osserva-ti casi di riutilizzazione del sepolcro, con riduzione dello scheletro e degli elementi di corredo in nicchie laterali. Tale fenomeno si osserva per esempio nella tomba 82/1 che, pur essendo una cappuccina integra, in una nicchia laterale chiusa da embrice, conser-vava resti ossei, parti di un orecchino in argento e frammenti di ceramica52.

L’analisi della planimetria generale dell’area per- Fig. 8a. Ricostruzione della tomba a lastre 86/16. Sala Longobarda.

Fig. 9. Pianta e sezione di una tomba alla cappuccina. (Disegni d. Gasseau).

Fig. 9a. Ricostruzione della tomba alla cappuccina 82/3. Sala Lon-gobarda.

62

mette infine di osservare l’esistenza di veri e propri allineamenti53, prevalentemente nord-sud, delle inu-mazioni. Il più antico è costituito da quello indivi-duato sotto l’edificio religioso e poi obliterato dalla medesima costruzione. Tale disposizione non è tutta-via riconducibile a una vera e propria organizzazio-ne tafonomica dell’area, rispondente a criteri di tipo etnico o religioso. Essa sembra piuttosto rispondere a esigenze topografiche o forse meglio a raggruppa-menti familiari o sociali54. Esempi di organizzazio-ne cimiteriale simile ricorrono in omologhi contesti longobardi di ambito italiano, come quelli di Nocera Umbra, Testona e Castel Trosino55. In essi tuttavia la sistemazione delle sepolture sembra essere più re-golare e se ne può cogliere l’evoluzione diacronica sulla base della distribuzione e dei mutamenti degli oggetti di corredo.

5.6. gli elementi di corredoLa maggior parte delle tombe alto medioevali

della Selvicciola, di cui è stato possibile determinare struttura e copertura, ha restituito elementi di corre-do che permettono sovente di definire sesso, etnia e rango sociale dell’inumato, anche nei casi in cui l’apparato scheletrico non si è conservato o è forte-mente deteriorato. Si tratta di oggetti di ornamento personale o di accompagno, deposti direttamente sull’individuo, o messi invece nella fossa ai suoi lati, che fanno trasparire alcuni aspetti del rituale funera-rio. La loro presenza è stata riscontrata soprattutto nelle sepolture dei nuclei più antichi, quelli indivi-duati intorno all’edificio religioso, mentre sembra rarefarsi nei settori più recenti. L’analisi tipologica condotta su di essi ha consentito di distinguere le de-posizioni maschili da quelle femminili a eccezione di un gruppo in cui mancano indicatori specifici56.

Le tombe sicuramente maschili sono caratteriz-zate da oggetti di metallo e d’osso. I primi, in per-centuale maggiore rispetto agli altri, sono pertinenti principalmente all’abbigliamento militare, segno distintivo dell’appartenenza alla classe dei guerrie-ri che si differenziavano nell’armamento secondo la propria ricchezza57. Consistente è la presenza di armi e cinture. Sono attestati coltelli (fig. 12) in ferro, di lunghezza compresa tra cm 14 e cm 22, con probabi-

Fig. 12. Coltello in ferro proveniente dalla tomba 86/13.

Fig. 10. Sezione e pianta della copertura e del fondo fossa di una tomba con chiusura a lastre displuviate. (Disegni d. Gasseau).

Fig. 11. Pianta e sezione trasversale e longitudinale di una tomba in muratura. (Disegni d. Gasseau).

63

le manico di legno non conservato, e puntali di bron-zo, che erano fissati ai foderi (in pelle o cuoio) delle spade58, di cui tuttavia non si conservano esemplari.

Spicca fra tutti i reperti metallici l’umbone di scudo, in ferro, (fig. 13) rinvenuto nella tomba 82/2, posto di traverso sul cranio del defunto59. L’umbo-ne era la parte centrale dello scudo, che con la sua forma concava permetteva la presa e garantiva la protezione della mano. Era fissato mediante borchie metalliche alle liste di legno ricoperte di cuoio che componevano la restante parte, di forma circolare o ellittica60. L’esemplare della Selvicciola ha forma conica e falda larga (cm 4,5), con una circonferenza di cm 25,5 e un’altezza di cm 12 c.a, caratteristiche

che permettono di datarlo entro i primi decenni del VII secolo61 (fig. 14).

Rilevante è anche il ritrovamento di scramasax, la tipica spada longobarda, di media lunghezza e a un solo taglio, che venivano impiegati pure per usi domestici62. Ne sono stati trovati 4 (fig. 15), deposti lungo il fianco degli inumati, di lunghezza compresa tra cm 48 e 6063. Sono di ferro, a lama larga, piuttosto pesanti, trovati in associazione a coltelli che dovevano essere custoditi in una tasca laterale del fodero. Di estremo interesse è il sax del corredo 86/13 che, di cm 60 di lunghezza, ha l’impugnatura d’argento e la lamina con decora-zione all’agemina64. Questi tipi di spade erano por-tati sospesi alla cintura mediante l’utilizzazione di

foderi di cuoio o pelle, di cui rimangono sovente borchie, ribattini e puntali.

La cintura poteva essere di tipo semplice, di cuoio con fibbia metallica (è il caso di quella della tomba 86/13), o avere vari elementi ornamentali. In quest’ul-timo caso era provvista di fibbia metallica con ardi-glione, puntale, passanti, borchie, placchette e linguet-te di guarnizione65 (figg. 16 - 17). Le parti di bronzo si presentano spesso sagomate e con bullette di ab-bellimento, alcune con incisioni tipo “Aldeno”, che richiamano il ‘secondo stile animalistico’66. Quelle

Fig. 13. Umbone di scudo in ferro proveniente dalla tomba 82/2.

Fig. 14. Umbone di scudo in ferro proveniente dalla tomba 82/2. (Da incitti 1997).

Fig. 15. Sax rinvenuti in quattro tombe della Selvicciola: uno di essi ha manico in argento e lama con decorazione all’agemina.

Fig 16. Esemplare di cintura proveniente dalla tomba 87/4.

Fig 17. Ricostruzione di una cintura multipla. (Da i longobardi e la guerra 2004).

64

di ferro invece sono decorate in molti casi con la tecnica dell’agemina, che riproduce motivi astratti e geometrici, a volte impreziositi dall’inserzione di almandini (granati)67.

Sono state rinvenute cinture a 5, a 6 e a 9 elementi, di bronzo o di ferro. Una a 9 elementi in particolare (T 89/4) era posta all’interno di una fossa pertinente a un infante di età inferiore ai sei anni, segno inequi-vocabile che essa costituiva l’ornamento distintivo per indicare l’appartenenza a uno specifico status sociale, a prescindere dall’esercizio dell’attività guerriera68.

Altra cintura attestata è quella da faretra, indiziata nella T 86/8 da fibbia, placchette di piccole dimensioni e soprattutto dalle punte di freccia in ferro69. Queste sono difficilmente classificabili perché mantengo-no nel tempo la loro forma, tuttavia per il contesto si datano alla prima metà del VII secolo. L’arco e le frecce costituivano l’armamento leggero previ-sto dalle leggi militari di Astolfo per le classi meno abbienti70.

Peculiare inoltre la scoperta di una coppia di speroni di bronzo71, e di due staffe di ferro72 (fig. 18), che rivelano, insieme a frammentini di ossido di ferro rintracciati in prossimità dei piedi di altri inumati73, l’uso di questi finimenti per il cavallo,

inventati in oriente nel II secolo a.C. e diffusi in occidente dagli Avari a partire dal VII secolo74.

Accanto a oggetti propri dell’armamento mi-litare sono stati trovati anche acciarini (T 86/8, T 86/9), un anello (T 86/8), uno spillone frammenta-rio di ferro (T 86/5), utilizzato probabilmente per fermare il lenzuolo funebre, e un pettine in osso (T 87/4), la cui associazione con un coltello di ferro e una cintura da spatha a 5 elementi di bronzo non lascia dubbi sull’identità maschile del defunto75. In fosse coperte alla cappuccina sono state scoperte inoltre, come unici materiali fittili, due lucerne, una delle quali caratterizzata da un Chrismon a rilievo76.

Sono state individuate anche diverse monete77 sia nelle tombe sia all’interno della chiesa. Tra queste ul-

time se ne distinguono una d’argento e una che su una faccia riproduce il monogramma costantiniano78.

Le tombe femminili sicuramente identificate con-tengono elementi propri dell’ornamento personale e ceramica79. Sono attestati orecchini, anelli, bracciali, spilloni e un puntale da cintura. Gli orecchini sono di bronzo ad anello di tipo semplice (T 86/3)80 o a cerchietto con perla di pasta vitrea (T 85/3) (fig. 19), a essi se ne aggiunge uno mutilo d’argento ritrovato

nella nicchia esterna della tomba 82/181. Gli anelli sono anch’essi di bronzo arricchiti da perle di pasta vitrea (T 85/15) (fig. 20), materiale utilizzato anche per vaghi di collana e per tessere di mosaico presenti nei corredi delle sepolture 85/3 e 85/15. I bracciali sono stati messi in luce in tre contesti82 e sono for-mati o da un’unica lamina di bronzo o da due armil-le, una di bronzo e l’altra di ferro, legate insieme. Quello della deposizione 90/4 (fig. 21) è caratteriz-zato da una lamina bronzea piatta con decorazione geometrica eseguita a punzone. Compaiono inoltre tra i reperti metallici spilloni in ferro, in bronzo, ma anche in bronzo e argento83 (fig. 22), e monete di piccolo taglio per lo più illeggibili.

La ceramica che è stata recuperata nelle sepol-

Fig 18. Staffa rinvenuta nella tomba 86/2. (Da incitti 1997).

Fig. 19. Orecchini con perla di pasta vitrea provenienti dalla tomba 85/3.

Fig. 20. Anelli con perla di pasta vitrea rinvenuti nella tomba 85/15.

Fig. 21. Bracciale in bronzo dalla tomba 90/4.

65

ture sicuramente femminili84 comprende forme aperte (coppe, pentole) e chiuse (brocche) in argil-la chiara, alcune delle quali conservano tracce di vernice opaca rosso – arancio e mostrano una deco-razione incisa a zig-zag (fig. 23), confrontabile con quella riprodotta su vasi della necropoli di Castel Trosino85.

Nell’area cimiteriale della Selvicciola vi è infine un gruppo di deposizioni86 i cui elementi di corredo non permettono di definire il sesso degli inumati. Tra essi particolari sono i pettini in osso87, che pos-

sono essere attribuiti ad ambiti tanto maschili che femminili (fig. 24).

Rilevante è infine l’attestazione di oggetti in ve-tro ritrovati nelle tombe 82/9 e 85/1188. Si tratta di frammenti pertinenti a bottiglie e a coppe databili tra IV e V secolo, che testimoniano l’utilizzazione di questo materiale ancora in età tardo imperiale. Il vetro infatti con la scoperta della tecnica della sof-

fiatura nel I secolo a.C. si diffuse rapidamente nella società romana giungendo a sostituire in molte fun-zioni il vasellame da mensa in argilla e in bronzo89.

5.7. l’organizzazione del territorioL’espansione della dominazione longobarda, tra

la fine del VI e l’inizio del VII secolo, determinò un cambiamento anche nell’amministrazione del terri-torio. La struttura agraria sotto il dominio goto era rimasta pressoché inalterata, perché l’assegnazione della “terza parte dei campi” di cui parlano le fonti90 non interessò la proprietà privata, e solo in pochi casi ci furono espropri o usurpazioni91.

L’occupazione dei Longobardi al contrario portò alla sostituzione della classe burocratica e dei vecchi possessores romani con gli esponenti dell’aristocra-zia guerriera92. Questo fenomeno che contraddistin-gue le regioni settentrionali d’Italia non è altrettanto riconoscibile nelle aree del centro e in particolare nell’area dell’Alto Lazio, sia per la povertà dei do-cumenti d’archivio, sia per l’esiguità ed episodicità delle indagini archeologiche.

In ambito castrense sulla base dell’analisi to-ponomastica e dei ritrovamenti si può pensare che ci sia stata tale sovrapposizione o quanto meno che siano state occupate terre ormai abbandona-te93. L’indagine topografica consente di ipotizzare un’organizzazione territoriale basata su piccole unità insediative; la loro distribuzione se da un lato permette di verificare fenomeni di continuità o di abbandono, di distruzione o di nuovo impianto, dal-l’altro non dà indicazioni assolute sull’etnia degli abitanti data la capacità di integrazione degli ele-menti allogeni con il substrato.

Lo studio sul popolamento nell’entroterra vul-cente tra VI e VII secolo rivela una diminuzione degli insediamenti agricoli, che da 25 presenti nel VI scendono a 11 nel VII, con 2 sole nuove fonda-zioni94.

Nel territorio di Castro notizie di ritrovamen-ti, non sempre comprovate, individuano ben 5 siti agrari di quest’epoca nell’area intorno al pianoro della città. A tali segnalazioni se ne possono ag-giungere altre suffragate da materiali. E’ il caso di tombe a fossa coperte da lastre litiche, messe in luce a Colli di S. Colombano, che hanno restituito uno scramasax, uno sperone di bronzo, fibbie ed elementi di cintura di ferro e di bronzo95. E’ il caso di Poggio Falcone dove ci sono resti di edifici, tom-be anche a fossa, e un percorso stradale96. E’ il caso di Pianetto in cui sono documentate sepolture a fos-sa chiuse da lastre litiche e i resti dell’oratorio di S.

Fig 22. Spilloni in bronzo e argento dalle tombe 86/6 e 85/18.

Fig. 23. Ceramica con decorazione incisa a zig-zag proveniente dalla tomba 82/1.

Fig. 24. Pettine in osso con decorazione incisa dalla tomba 86/17.

66

Silvestro97. E’ il caso infine di Punton di Villa dove sono state scoperte deposizioni chiuse da lastroni di travertino e da tegole98.

La localizzazione degli insediamenti permette di osservare una distribuzione di questi siti lungo il fiume Olpeta e il torrente Strozzavolpe, e fa ipotizzare l’esi-stenza di assi viari di collegamento. I dati del popo-lamento rileverebbero una progressiva perdita di im-portanza dell’allineamento lungo il corso dell’Olpeta a est di Castro, a favore di un assetto gravitante lungo la riva est del Fiora99. Questo consentiva un contatto tra la costa vulcente e Sovana presumibilmente trami-te una strada nord-sud che sfruttava parzialmente la Clodia e si inseriva nella rete viaria interna100.

A livello amministrativo l’antica prefettura di Statonia divenne parte della Tuscia Longobarda e in particolare del gastaldato di Tuscania che si estendeva dal mar Tirreno al lago di Bolsena, dal fiume Fiora ai monti Cimini.

A partire dall’VIII secolo compaiono nei docu-menti d’archivio le prime menzioni di Castro e del suo territorio. La più antica testimonianza si ha in un passo del Liber Pontificalis101 del 768-772, relativo al presule della città, a cui fa seguito un documento del Regestum Farfense del 775102, estremamente in-teressante per le notizie indirette che se ne possono ricavare. E’ un atto, sottoscritto all’indomani del-la fine del regno, in cui Aimo dona alcuni suoi beni all’Abbazia di Farfa. Aimo è qualificato come volta-rius, apparteneva vale a dire a quella classe di mano-dopera specializzata esperta nell’edilizia sia pubblica che privata. Una classe che godeva di una posizione sociale favorevole, tutelata e sostenuta da interventi regali, miranti a garantire l’indipendenza economica dei suoi membri spesso anche con donazioni103. Il do-cumento in esame, elencando i beni elargiti da Aimo, nomina sia quelli derivanti da eredità e da compra-vendite sia quelli ex dono regum ossia provenienti dal fisco longobardo. Le proprietà fiscali erano utilizzate dai sovrani per fornire a uomini liberi la rendita agra-ria necessaria per poter continuare a esercitare la loro preziosa professione104. Aimo possedeva beni anche a Castro, dei quali tuttavia non si conosce l’entità né l’origine; si ribadisce comunque la loro appartenenza ai confini longobardi.

Di poco posteriori sono un passo del Liber Pon-tificalis105 della vita di Leone III e un atto del Mona-stero di S. Salvatore sul monte Amiata106 in cui si fa riferimento ai fines castrisana. Si tratta di due testi che, seppur generici nelle indicazioni, testimoniano l’avvenuta formazione di un centro capace di auto-nomia, controllo del territorio e gestione delle risorse economiche.

Altrettanto importante, soprattutto per l’aspetto amministrativo, è la carta di convenienza dell’813 contenuta nel Regestum Farfense107, relativa a una contesa tra il monastero e due coniugi, defraudati dell’eredità per una donazione fatta ai monaci da dei loro avi. Tra i testimoni chiamati a comporre il di-verbio compare un uomo dal personale longobardo, Mauringus, che viene definito sculdahis de Castro. Oltre all’attestazione della città, notevole è la qua-lifica del personaggio. Lo sculdahis infatti, citato nei documenti ben oltre la fine del regno108, era un pubblico ufficiale di istituzione longobarda che ave-va funzioni giuridiche e amministrative ed era sot-toposto al duca o al gastaldo. Secondo alcuni109 le sue funzioni erano legate a circoscrizioni minori, le ‘sculdascie’, una sorta di istituti eccezionali a carat-tere eminentemente militare, posti lungo il confine o in punti strategici, in cui questi funzionari svol-gevano oltre che incarichi militari, anche operazioni giudiziarie o di polizia110. Secondo altri111 esercitava-no il loro ruolo intorno al gastaldo senza specifiche competenze territoriali, essendo distribuiti in modo regolare all’interno di ogni iudiciaria, e questo sulla base dell’analisi di documenti del fermano e del re-atino che dimostrerebbe l’assenza di circoscrizioni minori rispetto al gastaldato affidate agli sculdasci.

5.8. la Sede epiScopaleLa testimonianza più antica dell’esistenza della

sede episcopale di Castro risale all’VIII secolo, epo-ca in cui se ne parla nella vita del pontefice Stefano III (768-772)112. Nel Liber Pontificalis infatti si no-

Fig. 25. Estensione territoriale della diocesi di Castro.(Da raSpi Serra 1974).

67

mina “Lautfredus episcopus civitate Castro”113, una citazione estremamente importante sia perché certi-fica l’esistenza della cattedra sia perché connota la sede come città. Sulla base di essa si può ipotizzare, già a partire da questo periodo, la ricostituzione di un nucleo urbano, sul pianoro un tempo occupato dall’abitato etrusco, e la determinazione dei suoi confini114.

La nomina del vescovo implicava, oltre che la presenza di una comunità cristiana numericamente consistente, un’organizzazione territoriale spiritual-mente e amministrativamente sottoposta alle sue cure. Il passo del Liber Pontificalis, attestandone la formazione, rivela che anche nelle aree di dominio longobardo la Chiesa riusciva a esercitare un certo controllo tramite i suoi vescovi, che, pur sottoposti ad autorità regia o ducale, si mantenevano sostan-zialmente fedeli alla cattedra di Pietro.

Prima dell’VIII secolo si potrebbe riconoscere l’esistenza del presule cittadino in Custoditus, firma-tario del concilio romano del 680115: l’attribuzione a Castro potrebbe avvenire sulla base della loca-lizzazione topografica riferita dal testo greco, dal momento che quello latino non la riporta. Il testo greco116 viene tradotto “Custoditus ecclesiae Castro Valentinae episcopus”117: il Castrum Valentini sa-rebbe pertanto la città di Castro. La sede episcopale sarebbe stata trasferita in posizione acropolica per ragioni di sicurezza e salubrità. Secondo alcuni118 il trasferimento sarebbe avvenuto in concomitanza con l’abbandono dell’antico sito di Visentium (Bisen-zio, sulla sponda occidentale del lago di Bolsena), un centro testimoniato da un’iscrizione del 254119, la cui comunità cristiana viene forse citata da Gregorio Magno (590-604) in un discusso passo dei suoi Dia-loghi120. Secondo altri121 invece la cattedra sarebbe stata portata da Vulci, in seguito al progressivo ab-bandono della città. Vulci offre testimonianze certe della presenza di una comunità cristiana122, ma non una documentazione sicura dell’organizzazione epi-scopale, eccetto il discusso passo di Gregorio Ma-gno, da cui si potrebbe arguire tale esistenza se ap-plicato alla città123.

Difficile determinare l’estensione territoriale del-la diocesi nelle prime fasi della sua istituzione o del suo spostamento. In base alla ricostruzione effettuata dalla Raspi Serra124 (fig. 25) si può dire che la sede vescovile controllasse un territorio che giungeva fino alla costa tirrenica compresa tra il Fiora e metà del lago di Burano. Da questo bacino il confine risaliva verso nord fino all’altezza del fosso della Nova dove, piegando a est, ne seguiva il corso, comprendendo la selva del Lamone e il lago di Mezzano. Rimanendo a

ovest del lago di Bolsena scendeva verso la costa tir-renica tenendosi a est del torrente Timone125. L’area includeva otto oppida126, ossia otto centri fortificati, tale almeno la situazione in piena età medioevale, al termine di quel processo di incastellamento127 che tra X e XI secolo determinò l’accentramento della popolazione rurale in siti muniti e il progressivo ab-bandono degli insediamenti sparsi nel territorio.

Al momento dell’impianto diocesano le forme del popolamento erano invece molto più articolate e l’ordinamento vescovile si inserì verosimilmente in un tessuto sociale già parzialmente cristianizzato che doveva far capo a plebes128 per l’amministra-zione dei sacramenti e la celebrazione dei riti sacri. Del resto la stessa diffusione del cristianesimo in quest’area precede di almeno tre secoli la sede epi-scopale129. Prendendo in considerazione il solo ter-ritorio di Castro130 si può individuare la più antica testimonianza archeologica della presenza cristiana nella villa romana della Selvicciola. Infatti fa parte del corredo di una delle tombe più antiche del ci-mitero, che si sviluppò a ovest della zona residen-ziale, una lucerna (fig. 26) in terra sigillata africana D2, databile tra IV e metà V secolo131. È realizzata a matrice e reca impresso nel disco superiore un Chri-smon132, ossia un simbolo esclusivamente cristiano, formato dalle prime due lettere (ΧΡ) del nome gre-co di Cristo, incrociate insieme. A questo reperto si associa un’attestazione ben più consistente costitu-ita dalla piccola chiesa realizzata intorno alla metà del VII secolo133. L’edificio di culto anticipa di quasi un secolo la formazione (o il trasferimento) della sede episcopale134 e sancisce la cristianità dell’area funeraria, le cui sepolture tendono anzi a concen-trarsi intorno ad esso, spesso riutilizzando le fosse dell’interno135. Aveva certamente funzioni funerarie, ma doveva assolvere anche alle esigenze cultuali del

Fig. 26. Lucerna con impresso il Chrismon rinvenuta nella tom-ba 85/4.

68

nucleo umano presente alla Selvicciola e forse anche delle campagne limitrofe. Si potrebbe in sostanza ipotizzare che l’edificio, proprio perché inserito in un contesto allo stesso tempo abitativo e funerario, abbia svolto la funzione di plebs, ossia di cellula religiosa capace di soddisfare le principali necessi-tà liturgiche, catechetiche e sacramentali, e questo prima che l’organizzazione episcopale assorbisse e accentrasse tale ruolo. Se ci fossero sufficienti in-dizi archeologici per interpretare la struttura circo-lare, individuata all’esterno dell’edificio, come un battistero si potrebbe addirittura pensare a una ec-clesia baptismalis di tipo rurale, ossia a una chiesa con diritto di somministrazione del battesimo, inse-rita nel tessuto agrario del territorio.

maria vittoria patera

1 melucco vaccaro 1982, p. 27; brühl 1984, p. 98; delogu 1980, p. 8.2 paolo diacono, H.L., I, cc. 7 sgg ; melucco vaccaro 1982, p 21; delogu 1980, p. 9: l’affermazione delle fonti antiche, pur non essendo comprovata da dati archeologici, ha un suo fonda-mento nelle analogie riscontrabili tra diritto longobardo e diritto scandinavo.3 tacito Annales II, 63, Germania 40; velleio patercolo II, 106; Strabone VII, 1,3.4 delogu 1980, p. 4; melucco vaccaro 1982, pp. 24-26.5 O.G.L. c. 5; brühl 1984, p. 97: con maggiore probabilità il passaggio avvenne soltanto nel 569.6 Nei due decenni precedenti la presenza di bande armate facenti capo al re, ma da esso indipendenti, è intuibile da alcune notizie delle fonti. Paolo Diacono (II,26) riferisce che “Alboin … invasit omnia usque ad Tusciam, praeter Romam…”, da alcuni (feli-ciangeli 1908, p. 8) questo passo è stato interpretato nel senso che le armate longobarde occuparono anche la Tuscia a eccezio-ne di Roma e di altre città costiere. Gregorio Magno in due let-tere (Epistulae V, 39 e XIII, 39) una (595) rivolta all’imperatrice Costantina, l’altra (603) all’imperatore Foca, si lamenta della pressione esercitata dai Longobardi nelle zone adiacenti a Roma e parla rispettivamente di 27 e di 35 anni già trascorsi dall’inizio della loro invasione. Lo stesso agnello ravennate p. 272 ante-pone la depredazione della Tuscia all’espugnazione di Pavia.7 paolo diacono, H.L., IV, 8; L.P., I, LXVI Gregorius.8 peSante 2004, pp. 9-12: l’intervento del re trova spiegazio-ne nella politica del duca di Spoleto, quasi del tutto svincolata dall’autorità regia e capace di alleanze estreme.9 delogu 1980, p. 39.10 raSpi Serra 1987, p. 317; maetzke 2002, p. 117. Nel 605 fu stipulata una tregua a cui seguì un secondo patto triennale nel 606 cfr. capo 1992, p. 507.11 mor 1973, p. 50. Di diversa opinione sulla datazione dell’ope-ra di Giorgio da Ciprio è conti 1973, p. 98, secondo cui sarebbe stata redatta negli ultimi decenni del VI secolo e rispecchierebbe la situazione politico amministrativa della penisola tra la fine del regno di Giustino II e la costituzione dell’Esarcato (584).12 L.P., I , Gregorius II, XCII, c. XXI, p. 407; delogu 1980, p. 151.13 L.P., I, Zacharias, XCIII, p. 429; bertolini 1941, pp. 481-484. Di notevole interesse è il passo del Liber Pontificalis che riporta

la cronaca dell’evento poiché in esso vengono descritti il viag-gio del papa nel territorio longobardo e il corteo di funzionari incaricati dal re di accompagnare il pontefice. Il corteo fece sosta anche a Viterbo, una città che aveva assunto sempre maggiore importanza e che, pur non essendo sede di gastaldato, era dotata di presidio militare e di corte regia. Nelle fasi finali del regno lo stesso re Desiderio fece stanza a Viterbo per preparare l’invasio-ne del Ducato Romano, ma poi si ritirò persuaso dai messi papali e dalla scomunica del pontefice. (Sulle fasi alto medioevali di Viterbo si veda lanconelli 1992 ).14 Carlo Magno, erede della regalità longobarda e di ogni suo dominio, nel 787 donò a S. Pietro – considerato in grado di pos-sedere ed esercitare la sovranità attraverso la Chiesa e i suoi suc-cessori – alcuni territori ampliando verso nord l’estensione del Ducato Romano. Il passaggio tuttavia non fu né immediato né indolore tanto che Ludovico il Pio, Ottone I ed Enrico II furono costretti nei loro diplomi a ratificare le antiche concessioni. Cfr. ducheSne 1970, cap. IV; raSpi Serra 1987, p. 15.15 gregorio magno, Epistulae II, 28.16 paolo diacono, H.L., IV, 32; raSpi Serra 1987, p. 317.17 arcamone 1984, p. 381.18 incitti 1997, p. 214.19 Sabatini 1964, p. 154-158; pellegrini 1974, p. 427; arcamone 1984, pp. 404.20 incitti 1997, p. 214.21 ibidem, p. 215; narciSi 1994, p. 66: S. Maria di Sala potreb-be essere identificata con la località ‘Sala’, nominata nella Bolla di Leone IV (852) - (campanari 1856, pp. 92-108) - indirizzata a Virbono, vescovo di Tuscania, per confermare i possessi e i confini della diocesi. L’identificazione tuttavia non è univoca in quanto nel territorio di Canino esiste un altro toponimo ‘Sala’ nei pressi della Madonna del tufo che è contiguo alle altre località citate nella Bolla.22 incitti 1997, p. 215.23 ibidem, p. 215; Sabatini 1964, p. 184-187.24 C. T. R. 1:10000.25 incitti 1997, p. 215.26 arcamone 1984: il suffisso *rikaz= splendente, di origine ger-manica, evolve in rico in goto e in risi in longobardo.27 Sabatini 1964, pp. 164-165; arcamone 1984, p. 404. Potreb-be anche trattarsi di una parola di formazione gota, ma ciò non diminuisce il valore storico e semantico della realtà che lo ha determinato.28 di mario 2004.29 gazzetti 1995; incitti 1997, 2002.30 Sui processi relativi a nuclei longobardi in via di romanizza-zione e a elementi latini in via di germanizzazione si veda incitti 2002, p. 374, con bibliografia relativa.31 gazzetti 1995, p. 302.32 ibidem, p. 302.33 ibidem, p. 302.34 ibidem, p. 302.35 incitti 1997, p. 216.36 ibidem, p. 216, 2002, p. 369.37 incitti 1997, 2002. E’ ipotizzabile che alcuni materiali siano stati dispersi dalle arature e che provengano dalle vicine tombe. Parte di questi reperti sono esposti nella sala longobarda del Mu-seo Civico “Pietro e Turiddo Lotti” di Ischia di Castro. 38 gazzetti 1995, p. 302.39 incitti 1997, p. 216.40 ibidem, p. 216.41 incitti 2002, p. 372.42 ibidem, p. 372: i danni causati dalle profonde arature non sempre hanno permesso di identificare orientamento e copertura.43 ibidem, p. 372.

69

44 ibidem, p. 372: di 4 tombe di questo nucleo non è accertabile l’orientamento.45 ibidem, p. 372.46 ibidem, p. 372.47 ibidem, p. 372.48 ibidem, p. 372.49 ibidem, p. 372.50 ibidem, p. 373.51 incitti 1997, p. 222: un caso di reimpiego si osserva nella tom-ba 86/8 nella quale è stato trovato un frammento di iscrizione funeraria romana di età imperiale.52 incitti 1997, p. 220.53 E’ tipico del costume longobardo l’organizzazione dei cimiteri con tombe disposte in fila, Reiherngräber, per la quale si veda incitti 2002, p. 374; bierbrauer 1984, p. 470.54 incitti 2002, pp. 373-374.55 incitti 2002, p. 374; melucco vaccaro 1982, pp. 94-108.56 Si tratta delle tombe 82/9, 85/11, 85/14, 86/6 i cui corredi non contengono quegli oggetti personali da cui si può risalire all’identità maschile o femminile.57 i longobardi e la guerra 2004, pp. 87-93: notevoli le leg-gi del re Astolfo (a. 750) relative al reclutamento dell’esercito, che stabilivano le tipologie di armamento in base alla ricchezza. Nell’VIII secolo solo gli uomini liberi ricchi a sufficienza pote-vano armarsi, senza particolare distinzione etnica tra Longobardi e Romani.58 La spada, attestata soprattutto in siti d’oltralpe e dell’Italia set-tentrionale, era a due tagli e raggiungeva una lunghezza compre-sa tra cm 75 e cm 90. Poteva essere affiancata dalla semispada di cm 40 di lunghezza e dallo scramasax a un solo taglio. Cfr. i longobardi e la guerra 2004, pp. 96-99.59 incitti 1997, p. 220; incitti 2002, p. 373: la tomba, ricavata nello spazio interno della chiesa, aveva una copertura con tegole disposte alla cappuccina. Nella sala longobarda del Museo Civi-co “Pietro e Turiddo Lotti” si propone una ricostruzione 1:1 della tomba con scheletro originale.60 i longobardi e la guerra 2004, pp. 101-102: lo scudo aveva un forte valore simbolico, il suo abbandono sul campo di batta-glia era considerato un disonore. Di esso si colgono variazioni ti-pologiche: da uno scudo a falda stretta, con parte centrale conica e coppa a cono appiattito, si passa nel VII secolo a un tipo a falda larga con parte centrale conica e coppa a cupola.61 incitti 1997, p. 220. La tomba ha restituito anche l’immanica-tura dello scudo, ripiegata in antico, forse a scopo rituale.62 i longobardi e la guerra 2004, p. 98.63 Sono presenti nelle tombe 86/8, di cm 48 di lunghezza, 86/9, di cm 55 di lunghezza, 86/11, di cm 50 di lunghezza, 86/13, di cm 60 di lunghezza.64 L’agemina è una tecnica di decorazione operata a disegno su oggetti di ferro o acciaio. Consiste nel battere a freddo fili o la-minette di oro, d’argento o di rame in solchi e incavi realizzati a sottosquadro.65 Cinture a più elementi si ritrovano nelle tombe 86/2, 86/5, 86/8, 86/9, 86/11, 87/4, 89/4, cfr. incitti 1997.66 incitti 1997, p. 225, T 86/9. Per ‘secondo stile animalistico’ si intende la specifica decorazione degli elementi metallici che si afferma a partire dalla metà del VI secolo, caratterizzata dalla fusione del repertorio animalistico di primo stile con l’intreccio di origine mediterranea. La banda nastriforme diventa l’elemen-to predominante e le figure stilizzate degli animali si saldano e si fondono con esso. Cfr. melucco vaccaro 1982, pp. 52-55; delogu 1980, pp. 47-48.67 incitti 1997: elementi in ferro decorati all’agemina si osserva-no nelle tombe 86/2, 86/11, 86/9, 89/4. Nella T 86/2 in particolare si osserva una linguetta abbellita da un motivo a ‘maschera uma-

na’, confrontabile in Italia con un esemplare da Calvisano (BS), ma soprattutto con uno da Altstadten, databili entro la seconda metà del VII secolo, v. incitti 1997, p. 232.68 incitti 1997, pp. 222, 235, cfr. i longobardi e la guerra 2004, p. 91.69 incitti 1997, pp. 222-225.70 i longobardi e la guerra 2004, pp. 87-93.71 incitti 1997, p. 225, T 86/11. Questa tomba, coperta da lastre litiche irregolari disposte orizzontalmente, ha restituito un ric-co corredo: speroni, sax, coltello, cintura a più elementi di ferro con decorazione all’agemina e almandini, e una seconda cintura ritrovata arrotolata tra la testa e il limite ovest della sepoltura, forse parte terminale della medesima. In essa è stato rinvenuto un individuo di sesso maschile caratterizzato da apparato schele-trico possente, perfettamente conservato, che permette di stabi-lire un’altezza in vita di m 2 c.a. Nel Museo, sala longobarda, si propone una ricostruzione 1:1 della deposizione, con scheletro originale.72 incitti 1997, p. 232, T 86/2. Le staffe hanno forma diversa e trovano confronti con esemplari ungheresi, databili dopo la metà del VII secolo. 73 incitti 1997, p. 225, T 86/8. Agli esemplari della Selviccio-la vanno aggiunte le notizie circa il ritrovamento di speroni di bronzo a Fontanile della Doganella, sperone di bronzo e staffa a Colli di S. Colombano, speroni di ferro a Poggio Falcone (incitti 1997, pp. 233-235).74 i longobardi e la guerra 2004, p. 106: nel territorio italiano sono state trovate staffe nelle necropoli di Castel Trosino nelle Marche (2), Borgomasino in Piemonte (2), Cividale nel Friuli (2) e Campochiaro nel Molise (numerosi esemplari). 75 Tale associazione è confermata dai ritrovamenti effettuati in altre necropoli longobarde dove in tombe maschili si ritrovano pettini in osso con funzione di amuleto cfr. bierbrauer 1984, pp. 469-508.76 incitti 1997, p. 216, 2002, p. 373. Per la sua descrizione vedi infra 5.8.77 Per la produzione monetaria in età longobarda si veda arSlan 1984, pp. 413-444; pardi 2003.78 incitti 2002, p. 374. Le monete sono esposte nella sala longo-barda del Museo.79 incitti 1997, 2002.80 incitti 1997, pp. 217-220: la tomba, databile per il corredo al V-VI secolo, è coperta senza esserne intaccata dalle fondazioni della chiesa, costituendo pertanto il termine post quem per la re-alizzazione dell’edificio.81 incitti 1997, p. 220.82 Si tratta delle tombe 85/3, 86/3 e 90/4: per la 86/3 si veda incit-ti 1997, pp. 217-220, per le altre si confronti il materiale esposto al Museo Civico di Ischia di Castro.83 Sono stati rinvenuti nelle tombe 85/15, 90/8, 85/18 e 86/6, in osso nella 90/4. Erano posizionati prevalentemente sulla regione toracica o su una spalla, tranne quello della tomba 85/18 posto in prossimità della testa, forse utilizzato nell’acconciatura o per fermare il sudario, v. incitti 2002, p. 374. 84 Si tratta delle tombe 86/3, 82/1 (incitti 1997), e 91/5 per la quale si veda il corredo esposto nella sala longobarda del Museo Civico di Ischia di Castro.85 incitti 1997, pp. 217-220, 2002, p. 373.86 Il gruppo è costituito dalle tombe 82/9, 85/11, 90/8, 86/4, 86/17, e da altre inedite per le quali si veda incitti 1997 e i corredi espo-sti nella sala longobarda del Museo Civico di Ischia di Castro.87 Uno dei pettini ha una decorazione incisa di tipo geometrico; questi reperti sono stati trovati oltre che nella T 87/4, maschile, nella T 86/17 e nella T 91/5.88 incitti 1997, pp. 216-217, 2002, p. 373 oggetti vitrei frammen-

70

tari si ritrovano in tombe alla cappuccina sia di infanti che di adulti; iSingS 1957, affine al tipo 125 p. 156.89 Saguì 2003, p. 148; de caroliS 2004, pp. 71-79. Il vetro era particolarmente apprezzato perché materiale leggero, traspa-rente e inodore e si prestava anche alla rifusione.90 ennodio, Epistulae, IX, 23; caSSiodoro, Variae, II, 16; Sto-ria del mondo medioevale 1978, I, p. 436; vera 1993, pp. 139-143. Diverse le interpretazioni sull’istituto della tertia de-cisa dal prefetto Liberio nel 493: secondo alcuni sarebbe stata attuata confiscando beni ai proprietari romani (gaeta – villani 1988, p. 37); secondo altri sarebbero state assegnate terre del demanio (Storia del mondo medioevale 1978, I, p. 436); al-tri ancora ritengono che i Goti percepirono un terzo del gettito dell’imposta fondiaria (vera 1993, pp. 139-141) con il quale acquistarono beni terrieri presi dal patrimonium regio, derivan-te dalla res privata imperiale.91 E’ il caso dei senatori Argolico e Amandino ai quali Teodato sottrasse la ‘casa Arbitana’, un esteso latifondo nei dintorni del lago di Bolsena. Come controparte ricevettero da Teodorico la massa ‘Palentiana’, situata nel territorio viterbese. Cfr.: caSSio-doro, Variae, II,12; baffioni 1981, p. 194. Sulle vessazioni di Teodato si veda procopio, “La guerra gotica”, I, 3.92 paolo diacono, H.L., II, 26; bruhl 1984, p. 115; incitti 1997, p. 213.93 incitti 1997, p. 213.94 incitti 2002, p. 368.95 incitti 1997, p. 234.96 ibidem, p. 234.97 ibidem, p. 234: tra i resti sono stati osservati frammenti di ceramica acroma, ossa e un ardiglione di bronzo databile fine VI prima metà VII secolo. L’oratorio, spesso identificato con S. Maria del Pianetto, era già in abbandono al momento della prima guerra di Castro nel 1641.98 incitti 2002, p. 368.99 ibidem, pp. 368-369.100 incitti 1997, p. 235, 2002, p. 368.101 L.P., I, Stephanus III, p. 475.102 R.F., II, doc. 92, a. 775.103 raSpi Serra 1987, p. 225.104 raSpi Serra 1987, p. 225; toubert 1976, pp. 128-144. 105 L.P., II, p. 11 (a. 795-816).106 C.D.A., 59, a. 807.107 R.F., II, doc. 199, a. 813.108 raSpi Serra 1987, pp. 267-268: attestazioni di questa magi-stratura si hanno anche in epoca carolingia e ottoniana.109 taurino 1970, pp. 659-710.110 taurino 1970, p. 685; Saracco previoli 1973, pp. 629-630.111 Saracco previoli 1973, pp. 627-677.112 L.P., I, Stephanus III, p. 475; raSpi Serra 1987, p. 55.113 Il vescovo Lautfredus non compare nella serie dei presuli castrensi dell’Ughelli cfr. ughelli, 1717, I, coll. 578-584.114 L’esistenza di un’entità territoriale è confermata da un passo del Liber Pontificalis (II, Leo III, p. 11) e da un documento del Monastero di S. Salvatore sul monte Amiata (C.D.A., 59), nei quali si fa riferimento ai fines castrisana.115 ughelli 1717, I, col. 579; raSpi Serra 1987, p. 56.116 raSpi Serra 1987, p. 56: “επισκοπος εκκλησιας του Βαλεντινοκαστρον”.117 ducheSne 1892, p. 489; bavant 1979, p. 80.118 ducheSne 1892, p. 489; bavant 1979, p. 80.119 raSpi Serra 1974, p. 52.120 gregorio magno, Dialogi III,17: il passo riporta Qua-dragesimus nomine Buxentinae ecclesiae subdiaconus, letto dall’ughelli (1717) come ecclesiae Vulcentinae o Volciensis e da lanzoni (1927, p. 527) come Visentinae (Visentium=Bisenzio).

Secondo Lanzoni durante l’invasione longobarda il vescovo di Visentium si sarebbe trasferito nel Castrum Valentini (Castro), conservando il nome ufficiale, che ricompare nel 743 come “bi-suntianus episcopus”.121 ughelli 1717, I, col. 579.122 fiocchi nicolai 1988, pp. 49-55; maSSabò 1979: gli scavi effettuati a partire dal 1834 hanno rilevato un ipogeo funerario a carattere cristiano, iscrizioni, un cimitero sub divo (gazzet-ti 1985), e un piccolo edificio a pianta basilicale, interpretato come chiesa.123 ughelli 1717; fiocchi nicolai 1988, pp. 54-55: accettando l’identificazione di ecclesia Buxentina con Vulci, si pone il pro-blema dell’esistenza della cattedra di per sé non nominata nel passo; tuttavia il termine ecclesia viene usato in modo sistema-tico da Gregorio Magno per indicare le sedi urbane vescovili, ed è pertanto probabile che Vulci lo fosse, pur non escludendo un semplice riferimento a una chiesa pievana.124 raSpi Serra 1974, carta fuori testo.125 La diocesi di Castro confinava nel lato orientale con quella di Tuscania i cui confini vengono descritti dalla bolla di Leo-ne IV (852) al vescovo Virbono (giontella 1996), allo scopo di confermare la diocesi nei suoi limiti e nelle sue proprietà. La determinazione dell’estensione territoriale e delle rispettive competenze era fondamentale per la riscossione delle decime. Nel 1042 per la riscossione di tributi da alcuni castelli nasce una controversia tra i presuli delle due sedi, risolta da papa Be-nedetto IX a favore di Bonizone vescovo di Tuscania e a scapito di Godizone di Castro (giontella 1996).126 ughelli 1717, I, col. 579.127 toubert 1980, pp. 88-91; potter 1985, pp. 186-195; de-logu 1989, pp. 267-288; marazzi – potter – king 1989, pp. 103-119; SenniS 1996, pp. 45-49.128 Sulla funzione delle pievi in età alto medioevale si veda vio-lante 1982. 129 La diffusione del cristianesimo è difficile da percepire nei primi secoli dell’impero sia perché le prime comunità cristiane non avevano caratteri fortemente distintivi per i luoghi di culto e per le aree funerarie sia perché in Etruria le pratiche augurali e divinatorie si mantennero a lungo (tertulliano, Apologeticum, c. 40). Essa tuttavia risulta strettamente legata alle vie consolari e alle rotte commerciali (SiniScalco 1987, pp. 47-51). Ritro-vamenti di epoca paleocristiana sono stati fatti proprio lungo le maggiori vie consolari. Lungo il tracciato della Clodia per esempio si hanno testimonianze a S. Liberato, presso il lago di Bracciano, a Blera, a Tuscania (si veda fiocchi nicolai 1988, pp. 77-93) e oltre confine a Pitigliano (boggi 1998).130 Si intende l’attuale territorio del comune di Ischia di Castro, oggetto del presente lavoro.131 incitti 1997, p. 216; toiati RA 61.132 Per le varianti grafiche di questo simbolo si veda teStini 1980, pp. 353-356; cervellin 1998, pp. 88-89.133 incitti 1997; gazzetti 1995, p. 302.134 Se si accetta Custoditus come primo vescovo la chiesa è an-teriore di c.a tre decenni.135 incitti 1997. Una situazione analoga, la realizzazione di una chiesa nell’area funeraria, si verifica nel sito di Invillino (melucco vaccaro 1982).

BIBLIOGRAFIA

agnello

1872, “Agnellus Liber Pontificalis Ecclesiae Ra-

71

vennatis”, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum langobardicarum et italicarum, hannover, III, pp. 265-391.

arcamone g.1984, “I germani d’Italia: lingue e documenti linguisti-

ci”, in G. puglieSe carratelli (a cura di), Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano, pp. 381-408.

arSlan E. A.1984, “La monetazione”, in puglieSe carratelli G.

(a cura di), Magistra Barbaritas. I barbari in Ita-lia, Milano, pp. 413-444.

baffioni G.1981, “Annio da Viterbo, Documenti e Ricerche.

Contributi alla storia degli studi etruschi e italici”, Roma.

bavant B.1979, “Le Duché byzantine de Rome. Origine, dureé

et extension geographique”, in Melange de L’Ecole Française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes, 91 (1979), 1, pp. 41-88.

bertolini o.1941, “Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi”,

Bologna.

bierbrauer v.1984, “Aspetti archeologici di Goti, Alamanni e

Longobardi”, in G. puglieSe carratelli (a cura di), Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Mi-lano, pp. 445-508.

boggi r.1988, “Sorano-Sovana-Pitigliano, viaggio attraverso

la civiltà del tufo”, Pitigliano.

bruhl C. R.1984, “Storia dei Longobardi”, in G. puglieSe car-

ratelli (a cura di), Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano, pp. 97-126.

campanari S.1856, “Tuscania e i suoi monumenti”, Montefiascone.

caSSiodoro

1533, “M. Aurelii Cassiodori Variarum libri XII”, accurSio M. (a cura di), Augusta Vindelicorum.

cervellin l.1988, “L’arte cristiana delle origini”, Torino.

C.d.a. = Codex diplomatiCus amiatinus

1982, kurze W. (a cura di), 4 voll., Tübingen.

conti P. M.1973, “La Tuscia e i suoi ordinamenti territoriali

nell’alto medioevo”, in Atti del V Congresso In-ternazionale di Studi sull’Alto Medioevo, Lucca 1971, Spoleto, pp. 61-116.

C.t.R. = Carta Tecnica Regionale 10:000 de caroliS e.2004, “Il vetro nella vita quotidiana”, in beretta m.

-di paSquale g. (a cura di), Vitrum, il vetro fra arte e scienza nel mondo romano, Prato, pp. 71- 79.

delogu P.1980, “Il Regno Longobardo”, in G. galaSSo (a cura

di), Storia d’Italia I, Longobardi e Bizantini, Tori-no, pp. 1-216.

1989, “Incastellamento”, in Archeologia Medioeva-le, pp. 267-288.

di mario G. (a cura di)2004, “Castellardo”, Montefiascone.

ducheSne L 1892, “Le sedi episcopali nell’antico ducato di

Roma”, in Archivio della Real Società di Storia Patria, XV (1892), pp. 475-503.

1970, “I primi tempi dello Stato pontificio”, Torino.

ennodio

1885, “F. Ennodii Opera”, in vogel F. (recensuit), MONUMENTA GERMANIAE HISTORICA, Aucto-rum Antiquissimorum, t. VII, Berolini.

feliciangeli B.1908, “Longobardi e Bizantini lungo la via Flaminia

nel secolo VI”, Camerino.

fiocchi nicolai V. 1988, “I cimiteri paleocristiani del Lazio, I, Etruria

meridionale”, Città del Vaticano.

gaeta F.-villani P.1988, “Corso di storia”, Milano.

gazzetti G.1985, “La Casa del Criptoportico”, in carandini A.

(a cura di) La Romanizzazione dell’Etruria: il ter-ritorio di Vulci, Milano.

1995, “La Villa Romana in Località Selvicciola (Is-chia di Castro VT)”, in Settlement and Economy in Italy 1500 BC to AD 1500, Papers of the Fifth Conference of Italian Archaeology, pp. 297-302.

72

giontella g.1997, “Cronotassi dei vescovi della diocesi di Tu-

scania”, in Rivista storica del Lazio, 6, Roma, pp. 3-22.

gregorio magno

1957, “Gregorii I papae Registrum epistolarum”, inewald P.-hartmann M. (a cura di) Monumenta Ger-

maniae Historica, Epistulae, Berolini.

gregorio magno

1924, “Dialogi libri IV”, moricca U. (a cura di), Roma.

i longobardi e la guerra

2004, a c.a di moro p., Città di Castello.

incitti M.1997, “La necropoli altomedievale della Selvicciola

ad Ischia di Castro (VT) ed il territorio castrense in età longobarda”, in paroli L. (a cura di) L’Ita-lia centro settentrionale in età longobarda, Firenze, pp. 213-238.

2002, “Il popolamento a metà del VII secolo d.C. La necropoli altomedievale della Selvicciola”, in ca-randini a. – cambi f. (a cura di) Paesaggi d’Etru-ria, Roma, pp. 368-369, 372-374.

iSingS c.1957, “Roman Glass from dated finds”, Groningen-

Djakarta.

lanconelli A.1992, “Dal castrum alla civitas: il territorio di Viterbo

tra VIII e IX secolo”, Società e Storia, 56 (1992), pp. 245-266.

lanzoni f. 1927, “Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del

VII sec. (a. 604)”, (Studi e Testi 35 bis), Faenza.

l.p. = libeR pontifiCalis

1981, ducheSne L. (texte, introduction et commen-taire par l’Abbé ), 3 voll., ristampa Paris.

maetzke g. 2002, “Ferento nel Medioevo tra continuità e trasfor-

mazione”, in pani ermini L. (a cura di), Dalla Tuscia Romana al territorio valvense, Roma, pp. 113-142.

marazzi f. – potter t. – king a. 1989, “Mola di Monte gelato (Mazzano Romano -

VT): notizie preliminari sulle campagne di scavo 1986-1988 e considerazioni sulle origini dell’in-castellamento in Etruria meridionale alla luce dei

nuovi dati archeologici”, in Archeologia Medioeva-le, pp. 103-119.

maSSabò b.1979, “Vulci e il suo territorio in età etrusca e romana”,

in L’Universo, 49, (1979), pp. 137-184, 369-400, 489-512.

melucco vaccaro a.1982, “I Longobardi in Italia”, Milano.

mor C. G.1973, “Alcuni problemi della Tuscia Longobarda”, in

Atti del V Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo, Lucca 1971, Spoleto, pp. 49-60.

narciSi L.1994, “S. Maria di Sala: una chiesa da salvare”, in In-

formazioni, n.s., III, 10, pp. 64-70.

o.G.l. = oRiGo Gentis lanGobaRdoRum

1978, waitz G. (a cura di), in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores rerum Langobardicarum et Ita-licarum, hannoverae.

paolo diacono

1992, “Historia Langobardorum”, L. capo (a cura di), Milano.

pardi R.2003, “Monete Flavie Longobarde”, Roma.

pellegrini G.B.1974, “Attraverso la toponomastica urbana medioevale

in Italia”, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioe-vo, XXI (1974), pp. 401-476.

peSante L.2004, “L’Alto Lazio nell’Altomedioevo: letture arche-

ologiche di fenomeni storici”, in Biblioteca e Socie-tà, Viterbo pp. 8-18.

potter T. W.1985, “Storia del paesaggio dell’Etruria meridionale.

Archeologia e trasformazioni del territorio”, Urbino.

procopio

1895-1898, “La guerra gotica”, 3 voll., comparetti D. (a cura di), Roma.

raSpi Serra J.1974, “Le diocesi dell’alto Lazio, Bagnoregio- Bomar-

zo- Castro- Civita Castellana- Nepi- Orte- Sutri- Tu-scania”, (Corpus della scultura altomedievale, VIII), Spoleto.

73

1987, “Economia e territorio. Il patrimonium Beati Pe-tri nella Tuscia”, in collaborazione con laganaro fabiano C., Napoli.

R.f. = ReGestum faRfense

1879-1914, “Il Regesto di Farfa, compilato da Gre-gorio di Catino”, giorgi I. - balzani U. (a cura di), 5 voll., Roma.

Sabatini F.1964, “Riflessi linguistici della dominazione longo-

barda nell’Italia mediana e meridionale”, (Accade-mia Toscana di scienze e lettere la “Colombaria”, ns XIV, 1963-1964), Firenze.

Saguì M.2003, “Il vetro nei corredi funerari”, in egidi r.-

catalano p.- Spadoni d. (a cura di) Aspetti di vita quotidiana dalle necropoli della via Latina. Locali-tà Osteria del Curato, Roma, pp. 147-153.

Saracco previoli E. 1973, “Lo sculdahis nel territorio longobardo di Rieti

(secc. VIII-IX)”, in Studi Medioevali, XIV (1973), pp. 627-677.

SenniS a. 1996, “Un territorio da ricomporre: il Lazio tra i seco-

li IV e XIV”, in Atlante storico politico del Lazio, Laterza, pp. 29-62.

SiniScalco P. 1987, “Il cammino di Cristo nell’Impero romano”,

Bari.

Storia del mondo medievale 1979, 7 voll., Milano.

Strabone

1989, “Géographie”, t. IV (livre VII), baladié r. (a cura di), Paris.

tacito

1982, “Annali”, 3 voll., reSta barrile A. (a cura di), Bologna.

tacito

1969, “Germania”, reSta barrile A. (a cura di), Bo-logna.

taurino E.1970, “L’organizzazione territoriale della contea di

Fermo nei secc. VIII-X. La persistenza della di-strettuazione minore longobarda nel Ducato di Spoleto: i gastaldi minori”, in Studi medioevali, XI (1970), pp. 659-710.

tertulliano 1984, “Apologetico”, reSta barrile A. (a cura di),

Bologna.

teStini P.1980, “Archeologia Cristiana”, Bari.

toubert P.1976, “La liberté personelle au haut Moyen Age et

le problème des arimanni”, in Etudes sur l’Italie médiévale (IX-XIV s), London, pp. 128-144.

1980, “Feudalesimo mediterraneo. Il caso del Lazio medievale”, Milano.

ughelli F.1717, “Italia Sacra”, 10 voll., Venezia (1717-1722).

velleio

1924, “C. Velleius Paterculus, Historiae Romanae ad M. Vinicium cos. Libri duo”, Shypley F. W. (a cura di), London.

vera d.1993, “Proprietà terriera e società rurale nell’Italia

gotica”, in Atti del XIII Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo “Teoderico il Grande e i Goti d’Italia”, (Milano 1992), 2 voll., Spoleto, pp. 133-166.

violante c.1982, “Le strutture organizzative della cura d’anime

nelle campagne dell’Italia centro-settentrionale (secoli V-X)”, in Settimane del Centro di studio sull’alto medioevo, “Cristianizzazione e organiz-zazione ecclesiastica delle campagne nell’alto me-dioevo: espansione e resistenza”, XXVIII, (Spoleto 1980), 2 voll., Spoleto, pp. 963-1158.

75

6. INSEDIAMENTI MONASTICI MEDIEVALI. L’EREMO DI POGGIO CONTE

Nell’ambito della civiltà medievale, la fonda-mentale presenza dell’occupazione cristiana del ter-ritorio attraverso lo sviluppo del monachesimo, con fondazioni di monasteri ed eremi, ebbe una grande incidenza nella trasformazione ed il rinnovamento dell’assetto urbano, territoriale ed economico, nella rinascita culturale ed artistica, costituì uno dei cardi-ni nello sviluppo della civiltà europea1.

Nella prima fase il monachesimo fu essenzial-mente fenomeno di eremitismo. Dai deserti della Palestina, dell’Egitto, dell’Asia Minore, alle grotte delle contrade più appartate dell’occidente, recupe-rando insediamenti trogloditici ed aree rese sacre dalla funzione funebre, la figura dell’eremita, forma-tasi alla scuola dei Padri del deserto, Atanasio, Anto-nio, Basilio, Macario, Pacomio, punti di riferimento costanti per tutti i cosiddetti “Atleti di Dio”2, si dif-fonde nell’ambito di comunità cristiane, dove erano già praticate forme di vita ascetica, con il proposito di realizzare più perfettamente l’ideale cristiano ed il messaggio evangelico3.

In un primo tempo infatti, l’asceta non troncò i suoi rapporti con la comunità, ma continuò a vivere al suo interno.

Tra il III e il IV secolo cominciò ad affermarsi la pratica eremitica con la scelta di una vita solitaria, la sola in grado di realizzare l’assolutizzazione del-la preghiera e della meditazione, lontano dalla città

76

e dalla vita associata, considerata l’unica civile nel mondo antico.

L’eremita, il cui modello può riconoscersi in Giovanni il Battista, cerca il distacco dal mondo e dalla storia, consapevole della propria condizione di “xenitèia”, di straniero sulla terra, nell’aspirazione ad incarnare l’ideale del “vir Dei”, del “martire” nel senso etimologico del termine, tutto teso all’adesio-ne totalizzante a Cristo.

La prima forma di vita monastica cenobitica, in comunità, si realizza nel deserto egiziano ad opera di Pacomio, il quale, dopo una prima fase di eremi-tismo, fonda una comunità, dando vita al primo mo-nastero, basato su una prassi di vita tesa a coniugare l’elevazione spirituale con norme che rendano la con-vivenza comunitaria regolata ed autosufficiente4.

Il monachesimo orientale esercitò un fascino profondo e durevole nel complesso della tradizione cristiana, anche occidentale, ma, per quanto legato all’esempio orientale, il monachesimo occidentale riuscì ad elaborare progressivamente caratteristiche peculiari, prima fra tutte il superamento di un grande particolarismo di regole monastiche, con l’adozione di una sola regola, dettata da Benedetto da Norcia, e con l’integrazione di elementi di spiritualità propri della matrice orientale con elementi pragmatici pro-pri della mentalità e della cultura latina.

Benedetto trae dalla precedente “Regola del Ma-estro”, un testo anonimo, estremamente farraginoso, ricco di riferimenti biblici e spirituali, ma difficil-mente utilizzabile nella pratica comunitaria, una nor-mativa agile, adattabile a situazioni diverse, capace di organizzare nelle grandi linee la vita di una comu-nità monastica, valorizzando l’apporto del singolo monaco alla realizzazione dell’ideale comunitario, ed al tempo stesso la personale ricerca del rappor-to con Dio, con il primario obiettivo dell’ascesa per gradi verso Dio attraverso l’umiltà5. La regola di Benedetto propone un ideale monastico le cui direttrici concorrono alla realizzazione del nuovo modello di monaco che, stemprato l’intransigen-te soggettivismo ascetico, collabora in comunità nell’alternanza di lavoro e preghiera, manualità e studio, nel continuo esercizio di disciplina fisica, morale, spirituale6.

Tale modello risultò tanto valido da espandersi in tutta Europa ed assorbire il già proposto e larga-mente diffuso in occidente monachesimo irlandese di Colombano, anacoretico e peregrinante7.

Colombano, dotto monaco irlandese, fu stre-nuo assertore di una particolare forma di disciplina ascetica, la “peregrinatio religiosa”, cioè l’allonta-narsi dalla terra d’origine come segno visibile del

proprio abbandono della vita precedente. Dopo aver percorso la Gallia, dove fonda la ce-

leberrima abbazia di Luxeil, e la Svizzera, in Italia fonda nel 614 il monastero di Bobbio, nell’Ap-pennino settentrionale, primo monastero fondato nell’ancora ariano e semi-pagano regno longobar-do8.

La spiritualità e la regola di Colombano, carat-terizzate da una forte tendenza all’eremitismo ed all’ascesi, con l’imposizione di un regime di vita estremamente duro, si diffusero in Italia affiancan-do l’opera dei Benedettini.

La severità quasi barbarica della regola irlande-se, assai meno precisa di quella benedettina nell’or-ganizzare l’attività quotidiana del monaco, meno adattabile a situazioni diverse e più difficile da pra-ticare, ebbe come conseguenza che nel corso del VII secolo si andò affermando una forma di regola mista, in cui allo spirito organizzativo benedetti-no si affianca la spiritualità irlandese. Dopo questa fase intermedia i seguaci di Colombano adottarono definitivamente il modello monastico benedettino9, che conobbe il trionfo definitivo ed irreversibile sotto Ludovico il Pio, tanto che nell’ 817 la Regola di San Benedetto divenne l’unica che fosse lecito osservare nelle grandi abbazie dell’impero10.

Da allora fino al XIII secolo, la storia del mo-nachesimo occidentale coincide con la storia del movimento, poi Ordine benedettino. Le grandi ri-forme del X e XI secolo, che prendono il nome dalle abbazie che ne furono il cuore, costituiscono comunque le varianti interpretative della Regola di Benedetto. Soprattutto quelle di Cluny e di Citeaux, splendidi risultati contraddittori di una stessa aspira-zione alla fedeltà integrale allo spirito ed alla lettera della Regola originale11.

Tra l’VIII ed il XIII secolo, l’immigrazione di comunità monastico-religiose e laiche bizantine nel centro-sud d’Italia, diede un’impronta grecizzante al monachesimo latino12, influenzandolo soprattutto nella manifestazione eremitico rupestre e fondendo i propri elementi basiliani con quelli predominanti, benedettini13.

Ciò si riscontra notevolmente nella produzione artistica di piccole comunità monastiche di imposta-zione coerente con i dettami di san Basilio, che nel corso di una lenta evoluzione dalla vita eremitica a quella comunitaria, prima con la “laura basiliana”, poi con il cenobio, arricchirono i propri luoghi di culto, in cui si concentrano le maggiori elaborazioni architettoniche e decorative, con elementi liturgici e repertori icnografici e pittorici in cui vengono vicen-devolmente trasferiti valori culturali e religiosi occi-

77

dentali ed orientali.Il termine greco λαύρα (laura) significa letteral-

mente “via stretta”. Acquisisce in seguito l’accezione di quartiere di piccola città di solito recintata da pa-lizzata. Di qui passa poi a designare colonie semia-nacoretiche di monaci che, conducendo una vita ere-mitica in luoghi deserti, avevano come riferimento istituzionale, in cui condurre la condivisione di vita spirituale e comunitaria, un piccolo insediamento, il cui fulcro era costituito dalla chiesa, protetto con pa-lizzate o altri recinti.

I monaci vivevano raggruppati attorno ad un ana-coreta di particolare fama o sotto l’autorità di un an-ziano, indipendenti tra loro. Si riunivano nella chiesa comune la domenica per la celebrazione dell’Euca-restia, poi per il pasto comune. Nel centro della laura vivevano generalmente l’abate, l’economo e qualche altro monaco. Gli edifici essenziali erano la chiesa, il panificio e locali per il deposito di utensili e alimenti. Le celle dei monaci erano disseminate nei dintorni in grotte o ripari naturali. Con una sempre maggior pratica di vita comunitaria, le laure si trasformano in veri monasteri. A questo ceppo paleocristiano dell’ascetismo eremitico, è stato attribuito il carat-teristico tipo di insediamento rupestre, con chiese ed abitazioni scavate nella roccia14.

Nel territorio castrense la presenza monastica, nel duplice aspetto di penetrazione cristiana e gestio-ne del patrimonio delle grandi abbazie benedettine del centro Italia, S. Salvatore all’Amiata e S. Maria di Farfa, risulta documentata, con la presenza di co-munità operanti e riconosciute giuridicamente come possedimento, quindi celle, filiazioni dei monasteri succitati, nel IX secolo, quindi, presumibilmente, qualche secolo più tardi dall’effettiva originaria af-fermazione dell’ideale ascetico cristiano nell’area15. Del resto anche nella nostra regione, il monachesi-mo nella sua prima fase fu essenzialmente fenomeno anacoretico e la vita solitaria e nascosta condotta dai primi monaci ed eremiti, non permise di trasmettere memorie documentarie o significativi segni distintivi dell’insediamento materiale di carattere religioso ru-pestre. Infatti la tipologia del primitivo insediamento eremitico nel suo primo manifestarsi non presenta una definizione morfologica collocabile stilistica-mente e cronologicamente. Le tecniche di esca-vazione nel corso dei secoli rimangono immutate, come gli adattamenti intenzionali dell’elemento na-turale, giacitoi, nicchie, cavità portalucerna, incassi per strutture lignee, conche e cisterne, per le prime esigenze vitali, comuni ovunque e presenti in ogni utilizzazione di carattere rupestre laica o religiosa. Soprattutto nei nuclei più antichi, in cui la stessa

essenzialità dei caratteri è espressione di pratiche di vita culturalmente non elaborate o volutamente semplificate16. L’abitazione in grotta o l’uso cultuale delle cavità naturali in epoca preistorica costituisco-no un vasto fenomeno profondamente connesso al territorio17. Nell’ambito dell’insediamento rupestre preclassico, la tipicità è costituita dalla particolare espressione delle necropoli rupestri, legate nella ti-pologia dei riferimenti architettonici alle evidenze particolari delle abitazioni18. Anche nel medioevo la civiltà rupestre prolunga la continuità dei due con-tenuti, sacrale e domestico, con la riutilizzazione di grotte probabilmente preistoriche a carattere cultuale o con l’insediamento nelle loro immediate vicinanze, o con l’adozione della tipologia delle semplici abita-zioni trogloditiche, o con lo sfruttamento di nuclei resi sacri dalla funzione cimiteriale, tombe a camera, arcosoli, colombari.

Nell’ambito degli insediamenti a carattere reli-gioso, la piccola cella di tipo anacoretico, esicastico, non si distingue nella tipologia, riconoscibile per in-dizi precisi o assonanze di morfologia ed essenziale per la identificazione e quindi per la comprensione del sito, dai caratteri abitativi propri dell’insedia-mento rupestre19.

Il complesso monastico rupestre continua nell’an-tica impostazione formale, secondo una tradizione di radice benedettina ed orientale, i cui esempi più significativi si diffondono nell’area mediterranea, Cappadocia, Armenia, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia, con l’elaborazione di spazi in cui il richiamo al momento di realizzazione, e la matrice spirituale, ideologica ed estetica alla base dell’insediamento vengono registrati dagli elementi architettonici e de-corativi20.

Ciò che resta a testimoniare la presenza del feno-meno monastico nella diocesi castrense nel medioe-vo, in ambito documentario e archivistico è oggetti-vamente esiguo. Pochi sono i riferimenti ai cenobi e si ignorano quasi completamente gli eremi castrensi, le cui origini e le cui relazioni con i monasteri del-la zona sono del tutto oscure. Mentre questi ultimi ebbero vita breve, gli eremi ebbero continuità di fre-quentazione, alcuni fino al secolo XIX21.

Dei quattro monasteri della diocesi di Castro, tutti extraurbani, l’abbazia di San Colombano risul-ta essere la più ricca di riferimenti documentari22. Purtroppo a questa evidenza documentaria non cor-risponde sul territorio l’evidenza dei resti dell’in-sediamento. Infatti il sito su cui sorgevano i ruderi dell’abbazia, probabilmente oggetto di spoliazione dal momento dell’abbandono, è stato poi nel corso dei secoli sconvolto dai lavori agricoli, tanto che del

78

centro monastico non rimangono resti visibili del-le strutture murarie in coerenza, ma soltanto lacerti di muratura e frammenti di marmi da rivestimento. Impossibile quindi ricostruirne l’entità e stabilirne i valori architettonici e le tipologie stilistiche del com-plesso edilizio.

La prima menzione dell’esistenza del Monaste-ro di San Colombano è contenuta in un documento amiatino dell’anno 810, in cui si dichiara l’apparte-nenza della “Cella Sancti Columbani” all’abbazia di San Salvatore all’Amiata. Il documento è stato re-datto proprio in San Colombano23.

Un particolare concentramento presentano gli eremi dislocati in un raggio di pochi chilometri nei pressi di Castro, l’eremo di Poggio Conte, l’eremo di Chiusa del Vescovo, e nelle immediate vicinanze di Ischia di Castro, gli eremi di San Macario, di San Biagio, di Santa Maria della Pieve24. Questi ultimi tre insediamenti sono menzionati nella relazione di una visita pastorale del 26 Agosto 1478, conservata nei “libri catastali” della Curia Vescovile di Castro, trasferiti nel 1649 alla Curia Vescovile di Acquapen-dente25. Di essi rimangono poche strutture murarie visibili, essendo stati i complessi nel corso degli anni, quasi completamente sconvolti dall’uso agri-colo.

Poggio Conte e Chiusa del Vescovo costituisco-no i monumenti rupestri più significativi e più vicini agli schemi compositivi del modello di insediamento religioso e abitativo ipogeo del Mediterraneo.

In particolare l’eremo di Poggio Conte, insedia-mento di cui oggi sussistono la chiesa e la sezione della parte abitativa, il quale, malgrado i gravi atti vandalici di cui è stato oggetto, quali l’asportazione di parte degli affreschi e la quasi completa demolizio-ne di una vela di crociera, si propone come l’espres-sione rupestre più matura della zona, conservando la tipologia originale dell’impianto architettonico e buona parte della decorazione pittorica, dati storico-documentari fondamentali per l’interpretazione del sito in assenza di riferimenti documentari testuali26.

Posto in località Chiusa delle Arminie, toponimo che probabilmente si riferisce ad “Armine”, antico nome del fiume Fiora, poco distante dai Colli di San Colombano, su cui sorgeva il monastero omonimo, il nucleo di Poggio Conte, ricavato interamente in un costone di tufo, si affaccia sulla valle del Fiora , del tutto nascosto dalla vegetazione27.

Per la natura stessa della struttura geologica del luogo, il banco di tufo poggia su una fascia di calca-re, le strutture del complesso risultano estremamente compromesse dall’azione erosiva esercitata da crolli e dilavamento sulla roccia, che permette facilità di

scavo e lavorazione ed è particolarmente adattabile all’habitat rupestre, ma al tempo stesso risulta essere molto sensibile all’azione degli agenti atmosferici28.

Nelle immediate vicinanze la presenza di un ru-scello che getta le sue acque nel dirupo sottostante, formando una cascata ai piedi dell’insediamento, rende il luogo molto suggestivo, e soprattutto ne per-mette la sussistenza.

Venendo a mancare fonti scritte riguardanti l’in-sediamento e reperti archeologici riferibili al sito, i dati cronologici e gli elementi che ne denuncino la matrice di appartenenza nell’ambito delle comuni-tà monastiche operanti nella regione, devono essere desunti dall’analisi stilistica, icnografica e pittorica della chiesa, particolari evidenti che tuttavia possono essere elaborazioni successive all’epoca del primiti-vo impianto ipogeo.

La localizzazione del nucleo rupestre nelle vici-nanze del monastero di San Colombano fa supporre un rapporto di dipendenza dell’eremo da questa ab-bazia benedettina, come una delle “celle”, filiazio-ni, che il maggiore centro monastico del territorio possedeva, non solo come irradiazione di spiritualità e di evangelizzazione, ma anche come controllo eco-nomico del proprio patrimonio terriero29.

L’impianto della chiesa si sviluppa in senso lon-gitudinale (sud-nord) (fig. 1) in due ambienti il primo dei quali, la navata, a pianta rozzamente quadrilatera con copertura cupoliforme, il secondo, il presbiterio, a pianta quadrata con abside rettilinea e volta a cro-ciera (fig. 2). Attigui alla chiesa, a destra della fronte, i vani di abitazione, quasi completamente franati, di cui rimangono le sole pareti di fondo ad andamento rettilineo, che fanno supporre una pianta all’incirca quadrilatera e ambienti comunicanti30 (fig. 3).

La facciata della chiesa presenta una lettura del-la morfologia molto compromessa per la corrosione dell’elemento (fig. 4). Incassata nella rupe, si svilup-pa in due parti divise dall’aggetto della lunetta supe-riore, in cui si apre un “occhio” decorato (fig. 5) da un tortiglione tra due riseghe a gradino, sostenuto nella zona inferiore da due semicolonne per parte, ormai quasi completamente abrase (fig. 6). La corrosione non permette di delineare la sagoma dell’ingresso, soprattutto nell’andamento dell’arco di entrata, pre-sumibilmente a sesto acuto, forse trilobato.

La fronte interna, oltre alle semicolonne dell’in-tradosso, è mossa da una cornice semplice, tra due riseghe, priva di decorazione intorno alla luce del rosone (figg. 7-10).

All’interno, il primo ambiente si amplia al di fuori del perimetro della navata sulla destra, in due nicchie rettangolari a pianta quasi quadrata, separate

79

da un setto divisorio (fig. 11), e sulla sinistra in un rozzo deambulatorio con volta a botte ribassata che lo collega al presbiterio, prima fase di scavo per na-vate laterali, lasciato allo stadio iniziale forse per l’abbandono del sito31 (fig. 12).

La pianta rettilinea del vano è raccordata alla volta cupoliforme tramite una fascia a tamburo su cui erano dipinte in tredici nicchie appena accen-nate, le figure degli Apostoli, disposte a coppie, divise da colonnine, alla destra e alla sinistra della figura centrale del Cristo32 (fig. 13). Al centro della volta un rosone scolpito a rilievo, riproduce un fio-re quadrilobato con rientranza curvilinea al centro dei lobi e quattro petali più piccoli che si innestano sui quattro assi, creando un originale gioco di cur-ve concave e convesse. Il disegno floreale risulta colorato in alternanza di rosso e azzurro nell’inter-no dei petali, nero nel cordolo in rilievo (fig. 14).

La volta è sostenuta da quattro pilastri a fascio con i montanti frontali, due a pianta rettangolare verso l’ingresso, due a pianta poligonale con capi-telli cubici ai lati dell’ingresso al presbiterio (figg. 15-16), un arco ogivale con cornice a fascia agget-tante, decorato nell’intradosso con motivi floreali (figg. 17-18). La copertura del coro, sopraelevato di un gradino rispetto alla navata, è a crociera ogi-vale senza chiave di volta, con costoloni a sezione acuta e quadrilatera, decorati e terminanti in quattro lobi, separati dalle direttrici assiali, che formano un fiore a rilievo al centro della volta. Le vele della crociera sono completamente decorate con motivi geometrici e floreali, ognuna con diverse composi-zioni. I colori impiegati: ocra, rosso, azzurro, nero nelle bordure (fig. 19). La pianta del presbiterio si conclude con un’abside a terminazione rettilinea, nella quale si apre, al centro, una nicchia cuspidata compresa in due montanti laterali, in asse con l’en-trata e l’altare, con evidente carattere di cattedra, e resti di due scanni laterali, sul fondo dei quali, erano raffigurati due santi vescovi con mitria, pa-storale, piviale, oggi non più visibili33 ( fig. 20).

L’altare al centro della planimetria del vano, è costituito da un blocco parallelepipedo ricavato nel masso, articolato da quattro pilastrini angolari che sostengono il piano della mensa attualmente note-volmente deteriorato (fig. 21).

Sulla destra si apre una profonda cavità con ca-lotta, semplicemente scalpellata, ulteriore riprova di un ampliamento in fase di realizzazione, lasciato incompiuto.

L’elaborazione dell’icnografia e dell’alzato, le soluzioni delle volte ad ogiva, l’uso delle moda-nature a sezione semicircolare, i cosiddetti costo-

loni “a toro”, la presenza di pilastri compositi a fascio, l’abside a terminazione rettilinea, le nerva-ture della volta a crociera, costituiscono elemen-ti strutturali e decorativi di schemi architettonici propri dell’edilizia gotico-cistercense chiaramente alla base dell’impianto complessivo della chiesa rupestre. Tali schemi compositivi vengono appli-cati in questo caso, con estrema sicurezza culturale anche se con criterio di sintesi e manifestano nella realizzazione, oltre ad una innegabile esperienza dell’architettura al negativo, il rapporto immediato con modelli francesi del XIII secolo mediati dalla cultura cistercense34.

Soprattutto nella concezione spaziale, nel modo di scandire e misurare lo spazio, nel rappor-to tra valori modulari e canoni compositivi, tipica espressione della mentalità e del gusto cistercense. Da ciò si deduce che con molta probabilità monaci benedettini cistercensi, non solo furono abitatori dell’eremo, ma presiedettero, o realizzarono ma-terialmente lo scavo dell’oratorio35. Fare questo significò trasferire valori propri dell’edilizia “Ber-nardina”, volti ad esprimere la scelta dell’essenzia-le e di riflesso una rigorosa tendenza all’astrazione intellettuale, matematica e geometrica dello spa-zio, in un’architettura di vuoto nel pieno36.

Ed uno dei cardini fondamentali su cui si mosse la rivoluzione cistercense in campo architettonico, fu quello di impostare i propri edifici, chiese e mo-nasteri, su una figura geometrica di base e su valori modulari che vengono ripetuti nello sviluppo della planimetria e dell’alzato, rispettando rigorosamen-te i rapporti proporzionali37.

La chiesa dell’eremo di Poggio Conte si pre-senta nell’impianto generale conforme a tale diret-tiva ideologica e formale.

La decorazione pittorica ad affresco su uno stra-to d’intonaco sottilissimo, quasi una pittura mu-raria su una base di bianco, che interessa la zona superiore dell’alzato38, risulta oggi particolarmente compromessa, come già accennato, sia per l’aspor-tazione delle figure degli Apostoli, del Cristo e dei due Santi Vescovi, sia per la perdita di due delle vele della crociera, sia per l’azione costantemente erosiva e deteriorante dell’umidità e degli organi-smi vegetali ed animali sulla superstite superficie affrescata.

Nella navata l’intento narrativo-didascalico della decorazione pittorica prevale su quello or-namentale. Qui infatti erano collocati gli affreschi degli apostoli intorno alla figura centrale del Cri-sto, in una canonica rappresentazione desunta da modelli paleocristiani e bizantini, che si può sup-

80

porre nell’atteggiamento benedicente, secondo il modello del “pantocrator”. Trafugati nell’estate del 1964, dei tredici lastroni di tufo asportati vennero recuperati sei dai Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico comandati dal Generale Ro-dolfo Siviero, presso Sirmione, nel settembre del 1965. Dopo il restauro, i sei affreschi vennero cu-stoditi a Firenze, in Palazzo Vecchio, poi esposti nella mostra Museo “L’opera ritrovata” in onore dell’opera di grande merito dell’ufficiale italiano nel recupero e nella tutela del patrimonio artistico e archeologico del nostro Paese. Nel 1988 venne-ro poi trasferiti definitivamente nel Museo Civico di Ischia di Castro, dove sono attualmente esposti (fig. 22-XX).

Originariamente le figure si presentavano di-sposte a coppie, separate da colonnine che con-ferivano al personaggio una collocazione spaziale compiuta, come entro una nicchia. La collocazio-ne in nicchia infatti, rappresentava nel repertorio pagano prima, poi in quello dei sarcofagi paleo-cristiani un elemento glorificante, proprio della regalità e della divinità.

Se ne può dedurre la disposizione ai lati del Cristo dall’atteggiamento dei volti, girati verso la figura preminente della composizione. Gli Apo-stoli infatti, colti nel gesto dell’acclamazione, si rivolgono verso il Cristo.

Probabilmente un lacerto della figura del Cri-sto è da riconoscersi nella sinopia del volto, estre-mamente sbiadita e difficilmente leggibile, senza tracce di colore all’interno, che ancora oggi può notarsi nella posizione centrale, riservata al perso-naggio più eminente della scena.

La disposizione paratattica della composizione è tipica del repertorio iconografico paleocristiano, (V – VI secolo) espresso nei mosaici absidali delle grandi basiliche, nelle rappresentazioni di “tradi-tio clavis” e “traditio legis”, nelle scene di esalta-zione dei martiri, i quali tengono con una mano la corona o la palma del martirio, o lo strumento del proprio martirio, il rotulum o il volumen, chiara allusione alla diffusione del vangelo e della dottri-na cristiana, come in questo caso, e acclamano con l’altra. Gli Apostoli ripetono l’iconografia di tali cortei in cui le figure, indipendenti, isolate l’una dall’altra, ricalcano tipi fissi, idealizzati, allineati su fondi d’oro, espressione della concezione bi-zantina39.

L’impostazione classica degli affreschi di Pog-gio Conte deroga tuttavia dalla totale adesione al modello bizantino nella collocazione spaziale del personaggio, rappresentato in questo caso non su

un fondo neutro, ma in un primitivo tentativo di prospettiva, in uno spazio definito da riquadri po-sti dietro la testa e dietro i piedi delle figure, che simulano uno spazio realistico.

Gli Apostoli, come nella tradizione paleocri-stiana, vestono la tunica ed il pallio, calzano il “calceus” reso alla maniera ravennate, molto sti-lizzato. Il volto è messo in risalto dal nimbo, il cui colore contrasta con quello del riquadro sot-tostante. Delle sei figure, due conservano il nome, scritto in lettere gotiche sopra l’aureola, Andrea e Paolo, di una è rimasta la lettera iniziale “T”, che induce a pensare al nome Tommaso. Le altre lo hanno perso in seguito all’asportazione. I perso-naggi tengono tra le mani il volumen, uno di loro, Tommaso (?), il rotulum, di solito usati nella sim-bologia paleocristiana per indicare la legge evange-lica di cui gli Apostoli rappresentano i custodi per eccellenza. L’ impostazione formale delle figure ri-sente notevolmente dei canoni bizantini, nella linea disegnativa marcata che ne delinea i contorni, che rende il panneggio delle vesti. Il plasticismo è reso mediante linee strutturali rapide ed incisive che ne accentuano l’espressione, ignorando il chiaroscuro, con netti passaggi di piani. La novità della conce-zione figurativa è rappresentata dall’accenno al mo-vimento dei corpi, che hanno perso la staticità della ritmica convenzionale bizantina e nel tentativo di una certa individuazione psicologica e fisionomica dei personaggi che si evidenzia sui tratti dei volti e nell’atteggiamento delle mani.

In Tommaso il gesto dell’indicare ci riporta al passo del Vangelo in cui egli afferma i voler mettere il dito nel foro dei chiodi che perforarono le mani del Cristo, per poter credere alla sua resurrezione. In Andrea il movimento degli occhi, nell’altra figura, non identificabile, il gesto della mano sotto il mento, atteggiamento che esprime tristezza, dolore, di fron-te alla conclusione del cammino terreno del Cristo, nel personaggio più giovane, Giovanni, il gesto della mano alzata, espressione di stupore, meraviglia, per aver assistito nell’Apocalisse alla gloria del Cristo. Paolo è rappresentato secondo un’iconografia tipi-ca, già canonizzata nel IV-V secolo. Compare con la spada, che rappresenta lo strumento del suo martirio o, più probabilmente la potenza della parola, oltre al volumen che allude alla sua opera letteraria ed al suo contributo teologico e dottrinario nella diffusione del verbo evangelico.

Preciso il calligrafismo che descrive la barba ed i capelli di ognuno; sul volto si possono rilevare anco-ra i resti dei pomelli resi con macchie rosse. Anche nella descrizione dei volti, si nota una contrapposi-

81

zione dialettica di valori pittorici orientale ed occi-dentali, in cui l’elemento aulico, classico, bizantino, si fonde con contenuti di una corrente più naturali-stica e popolaresca che rivela influssi della contem-poranea scultura tardo romanica, di una cultura più specificamente nordica.

Se l’iconografia è basata sulla matrice classica, bizantina, la ricerca che ne emerge, di maggiore plasticità ed intensità espressiva, smorza l’indirizzo culturale orientale, e induce a proporre l’esecuzione degli affreschi come opera di un maestro, o maestri locali, educati da maestranze educate sul linguaggio artistico di Costantinopoli, volgarizzato da instanze artistiche occidentali40.

Il ciclo pittorico di Poggio Conte si inserisce nell’ambito di quella produzione laziale rappresenta-ta dagli affreschi di Castel Sant’Elia, di San Pietro a Tuscania, della Madonna del Duomo di Vetralla, del Redentore di Sutri, del Trittico di Tivoli, della Ma-donna del Santuario del Sorbo a Campagnano, del Salvatore di S. Maria di Capranica, e del trittico di S. Maria Assunta di Trevignano, per la quale non si può parlar di Scuola o di ambiente unitario di cultu-ra, ma piuttosto di risultati a carattere particolaristico e frammentario di un’arte provinciale che si muove entro questi due poli, il bizantino ed il romanico, nel momento di passaggio dalla presentazione delle im-magini alla rappresentazione delle azioni41. Tale mo-mento costituisce un crinale della storia da cui si do-mina la tradizione medievale che anticipa la visione di nuove realtà e di nuove concezioni artistiche che troveranno realizzazione piena nel Rinascimento.

anna laura

1 Per uno studio complessivo e sguardo d’insieme sulla storia del monachesimo in Italia: g. penco, 1969; Centro storico benedettino italiano (a cura di), 1981; g. penco, 1983²; Aa.Vv., 1987; si veda-no inoltre: t. lecciSotti, 1957, pp. 311-337; Aa.Vv., 1965; Aa.Vv., 1971; g. barone 1987. Per un approfondimento sui rapporti tra monachesimo e cultura cfr. leclercq, 1983.2 Il termine “asceta” (dal greco askêtês), significa letteralmente at-leta, colui che si esercita. “L’atleta di Dio”, è colui che fa esercizi in vista della purificazione che lo avvicina a Cristo.3 Cfr. palladio, 1974. Palladio, un eremita diventato Vescovo, trat-teggia nella sua opera una sorta di galleria dei Padri del deserto. Cfr. barone, 1987, pp. 7-154 «I pacomiani prendevano i loro pasti in comune e in comune lavoravano e pregavano. La comunità – come ce la descrive l’in-sostituibile Palladio – è molto laboriosa “ …chi lavora la terra da contadino, chi fa il giardiniere, chi fa il fabbro, chi il panettiere, chi il falegname, chi il gualcheraio, chi intreccia grossi panieri, chi fa il conciatore di pelli, chi il calzolaio, chi il calligrafo, chi fabbrica piccoli cestelli…”. Tutti poi sono tenuti a imparare a memoria le Scritture. Il monastero si propone già, sin da questi suoi primi inizi, come una comunità autosufficiente» (barone, 1987 p. 11).

5 Riguardo alla regola di S. Benedetto, da alcuni decenni è sem-pre più assodato un continuo riferimento dell’ordinamento be-nedettino alla cosiddetta “Regula Magistri”. «I due testi infatti sono strettamente collegati…Fino a qualche decennio fa la Re-gula Magistri, - opera anonima e senza titolo, detta così perché la maggior parte dei 95 capitoli è introdotta come una risposta del Signore tramite il “Maestro” alle domande dei discepoli – fu ritenuta un documento posteriore, dipendente dalla regola di S. Benedetto…Oggi dopo approfonditi esami filologici gli studiosi sono propensi ad invertire il rapporto fra le due regole, presentan-do la Regula Magistri come un blocco omogeneo ma informe dai cui S. Benedetto ha saputo trarre il proprio capolavoro» ( picaSSo et alii 1987, pp. 8-14). Cfr. inoltre geneStout, 1940, pp. 51-112; penco, 1956, pp. 283-306; de vogüé, 1983, col. 1556.6 Alla sua origine la Regola Benedettina, che si impose con gran-de autorevolezza nei secoli successivi come sintesi perfetta delle direttrici del modello di vita monastica, era solo una delle tante regole in uso nel VI sec., essendo stata concepita per le comunità direttamente fondate da S. Benedetto, Montecassino, Subiaco, Terracina. (barone, 1987 p. 21).7 Cfr. tommaSini, 1932.8 Il re longobardo Agilulfo acconsentì alla fondazione anche per i vantaggi politici dovuti alla presenza di un personaggio tanto au-torevole, e per ragioni militari, essendo il territorio sul quale sor-geva il monastero al confine del regno longobardo con la Liguria, ancora in mano ai Bizantini. picaSSo et alii, 1987 pp. 15-22.9 Dopo che Bobbio divenne abbazia benedettina, nel sec VII, le sue fondazioni monastiche furono anch’esse benedettine. (tom-maSini, 1932 p. 401).10 L’affermarsi definitivamente della regola benedettina si deve soprattutto all’opera costante di Benedetto di Aniane, nel sud del-la Francia. (barone, 1987 p. 27).11 «Nel contraddittorio tra Cluny e Citeaux impersonate dai due grandi abati del XII secolo, il cistercense Bernardo di Chiara-valle e il cluniacense Pietro il Venerabile, la posta era sempre la stessa, la fedeltà integrale allo spirito e alla lettera della Regola di Benedetto» (barone, 1987, p. 27 ). Cfr. le voci Cluniacensi e Cistercensi in barbero, frugoni, 1998.12 Cfr. sull’argomento orSi, 1929; Scaduto, 1947; guillou, 1965; pertuSi, 1965, pp. 382-426; prandi, 1965, pp. 435-456; fonSeca, 1967, pp. 132-144; agnello, 1969; fonSeca, 1970; Jacovelli, 1971; fonSeca, 1995; caputo, 1996; de miniciS, 2003 (a cura di); barone, 2004.13 «Il monachesimo bizantino si presentava sotto due forme, quel-la orientale, contemplativa, nella tradizione dei padri del deserto, e quella ellenica, conforme ai principi di S. Basilio, per il quale la vita comune e l’obbedienza rappresentavano l’ascesi migliore» (thierry, 1993 p. 20). «Storici e teologi chiamano “Padri cap-padoci” tre vescovi del IV secolo: san Basilio (muore nel 378), che fu arcivescovo di Cesarea - capoluogo della diocesi civile del Ponto -, suo fratello minore Gregorio (muore nel 395), vescovo di Nissa, e il loro comune amico, un altro Gregorio vescovo di Naziano, soprannominato il Teologo (muore nel 390). Soprattut-to San Basilio, “il nostro padre Basilio”, come lo chiamerà san Benedetto, esercitò una grande influenza sul monachesimo e sul-le liturgie d’Oriente» (gain, 1993 p. 12).14 A questo tipo di insediamento è stato attribuito l’appellativo di “basiliano”. Il fenomeno della civiltà o habitat rupestre, che interessa l’intera Italia meridionale, continentale ed insulare, dal VI al XII secolo, è stato rapportato quasi esclusivamente a questa corrente monastica di origini bizantine, con insedia-menti di comunità greche che avrebbero dato avvio o ampliato il costume di “vivere in grotta”. L’insieme delle complesse e differenziate realtà sociali e culturali, civili e religiose lega-te all’esperienza di insediamento rupestre, è stato negli ulti-

82

mi decenni oggetto di interesse ed indagini scientifiche ed ha completato il quadro di conoscenza riguardo a questa forma abitativa che si viene delineando come un vero e proprio “si-stema abitativo”, slegato dal fenomeno puramente monastico, con una propria evoluzione architettonica ed urbanistica, risul-tato di molteplici fattori socio-culturali, storici ed economici e di condizionamenti ambientali. Cfr. uggeri, 1974; francovich et alii, 1980, pp. 217-242; parenti, 1980; de miniciS, 2003 (a cura di); giannichedda et alii, 2005, pp. 78-97. «A corren-ti monacali è stato attribuito questo tipo di insediamento, che ha finito di per ricevere…l’etichetta di “basiliano”. I Basiliani hanno avuto certamente un peso notevole nella storia monasti-ca del Medioevo meridionale, anche se non bisogna per questo perdere di vista la continuità delle comunità rupestri a carattere laico, che costituirono dei veri nuclei di popolamento in con-trapposizione a quelli urbani» (uggeri, 1974, p. 198).15 Nella diocesi di Castro, l’Abbazia di Farfa possedeva la chiesa di S. Mamiliano in Mariliano, già documentata nel IX secolo (gregorio di catino, 1879-1914, II, doc. 193, p. 157), probabile nucleo originario dell’Abbazia di San Mamiliano; l’Abbazia di San Salvatore, estendeva la propria giurisdizione sulla cella di San Colombano, secondo un documento dell’an-no 810 (kurze, 1974-1982, I, doc. 68, pp. 135-137). 16 «Appare estremamente problematico determinare l’epoca di scavo di ambienti ipogei con un’approssimazione accettabile… La determinazione dell’epoca di scavo è il maggior problema che si presenta quando si studiano gli ambienti rupestri. Non è possibile indicare una datazione delle singole grotte quando non presentino delle particolarità evidenti, che tuttavia posso-no essere successive, come affreschi incisioni o bassorilievi, e non siano in rapporto strettissimo con strutture in muratura più facilmente databili. Anche l’erosione naturale della superficie interna delle pareti dipende dal tipo di tufo scavato piuttosto che dal trascorrere del tempo» (francovich et alii, 1980, p. 222, nota n. 86).17 Cfr. mieli, 1994. Delle numerose grotte presenti nel territo-rio, risultate insediamenti di epoca preistorica, la grotta di Set-tecannelle, il cui giacimento è stato completamente indagato, presenta la doppia valenza culturale di residenza e santuario. 18 Per la tipologia delle tombe castrensi cfr. moretti Sgubini, de lucia brolli, 2003. Sulle tombe rupestri e sul rapporto tra la casa e la tomba nell’ambiente etrusco cfr. bianchi bandinel-li, 1929; gargana, 1931.19 « Uno stretto rapporto morfologico relaziona infatti i com-plessi trogloditici religiosi alle tipologie domestiche… base comune gli ambienti quadrilateri, spesso forniti di vasche per la raccolta dell’acqua, movimentati da nicchie o fori, a volte a due piani raccordati da scale, partiti da pilastri, con limitate aperture, animati sulla fronte da incassi a timpano che indu-cono ad ipotizzare completamenti lignei» (raSpi Serra, 1976, p. 35).20 «Diversamente dalle case, le chiese rupestri hanno elementi destinati alle pratiche di culto che, ovviamente, ne facilitano il riconoscimento. Si tratta di elementi propri dell’architettu-ra religiosa che, in taluni casi, rinviano al mondo bizantino: absidi, diaframmi di separazione tra presbiterio ed aula, vani con funzione di sagrestia, cattedre, vasche battesimali. Talvol-ta si conservano anche raffigurazioni dipinte su intonaco aventi soggetti sacri: figure di santi, scene ispirate al Vecchio o Nuo-vo Testamento» (giannichedda et alii, 2005, p. 86).21 Ancora nel 1582, il Vescovo di Castro Celso Paci, nell’am-bito della sinodo diocesana tenutasi in quell’anno, interviene a disciplinare il movimento eremitico, evidentemente fiorente nella zona, per eliminare l’anarchia e gli eccessi venutisi a ve-rificare al suo interno. Il Vescovo ordina che l’intenzione e la

vocazione di chi vuole diventare eremita, siano sottoposte al suo giudizio, onde l’autorità episcopale possa appurarne l’or-todossia. Cfr. Atti della Sinodo Diocesana del 26 Aprile 1582, manoscritto custodito presso l’Archivio annesso alla Curia Vescovile di Acquapendente, sezione “Scritture provenienti da Castro”.22 La documentazione che si riferisce all’Abbazia di San Co-lombano è raccolta in lecciSotti, 1965-1975; ed in kurze, 1974 –1982. La dedica al santo irlandese fa supporre che la fondazione del cenobio sia avvenuta ad opera dei seguaci di S. Colombano.23 kurze, 1974- 1982, I, doc. n. 68, pp. 135-137.24 J. Raspi Serra include nella tipologia del complesso rupe-stre a carattere religioso anche gli insediamenti di Chiusa San Salvatore e di S. Lucia. Cfr. raSpi Serra, 1978 pp. 82-93. Cfr. gavelli, 1986², sintetico studio sugli eremi castrensi. 25 Dopo la distruzione della città di Castro, avvenuta nel 1649, le terre dell’ex Ducato omonimo vennero cedute alla Santa Sede. Con la bolla “In supremo militanti Ecclesiae Trono”, ve-niva trasferita la sede episcopale di Castro ad Acquapendente con l’intero archivio diocesano. Cfr. Stendardi, 1993³, p. 157.26 Una breve notizia dell’insediamento è apparsa in brunetti nardi (a cura di), 1972, in cui si dà notizia del « rinvenimento (1962) di un tempietto paleocristiano scavato nel tufo, con due ambienti decorati da affreschi…». Nella nota risulta errata la localizzazione al vocabolo San Colombano, anche se i colli detti di San Colombano sono poco distanti dall’insediamento. Una preziosa descrizione dell’eremo è data dallo studioso lo-cale Turiddo Lotti in un articolo del 1956. Tale descrizione è molto utile per la ricostruzione dell’aspetto originale della chie-sa prima dell’asportazione dei dipinti. Cfr. lotti, 1956, p. 51; 27 L’insediamento viene identificato nel catalogo della mostra “L’opera ritrovata. Omaggio a Rodolfo Siviero”, 1984, p. 68, come “Romitorio di San Colombano”.28 Per i riferimenti geologici cfr. francovich et alii, 1980, pp. 217-218.29 L’unità economica ed amministrativa del patrimonio abba-ziale benedettino è la “curtis”, centro prevalentemente agricolo con a capo un preposto fornito di poteri relativamente auto-nomi rispetto all’abbazia madre. L’organizzazione curtense del territorio risponde all’intento di decentramento ammini-strativo, resosi necessario data l’estensione patrimoniale delle maggiori abbazie. A capo di questi nuclei è l’“ecclesia” o la cella, che costituisce l’unità amministrativo-giuridica dei beni abbaziali. Di qui il fiorire nelle campagne di piccoli monasteri attorno ai quali si vanno raccogliendo coloni e massari. Nume-rosi restano i contratti di livello ed enfiteusi stipulati dalla cella con la popolazione del luogo, con lo scopo precipuo di messa a coltura delle terre donate all’abbazia. Cfr. la voce “curtis” in barbero, frugoni, 1994, pp. 94-96. 30 Nel suo articolo del 1956, il Lotti dichiara: “… due anni fa, temendo una maggiore rovina (della chiesa , interrata fino a m. 1.30 circa dal piano di calpestio originale) per l’umidità, feci sterrare l’esterno e l’interno del monumento…” lotti, 1956, p. 51. Lo scavo del riempimento non venne certamente realiz-zato seguendo criteri scientifici. Lo stesso Lotti non accenna alla presenza di reperti archeologici nell’interro che potessero contribuire ad ipotizzare una collocazione cronologica del nu-cleo o maggiori notizie sulla sua frequentazione. Non è inoltre specificato il livello raggiunto dallo scavo, che, da quanto di deduce, non arrivò al piano originale dal momento che il Lotti afferma “…Nel centro (del presbiterio) affiora un grosso masso rettangolare, indubbiamente l’altare…” lotti, 1956, p. 51. Nel corso degli anni il riempimento venne nuovamente accumu-landosi all’interno, tanto che nel 1993 fu necessario un nuovo

83

scavo della chiesa per liberarne l’area dalle infiltrazioni ester-ne. Lo scavo liberò completamente l’edificio al suo interno, scoprendo completamente l’altare fino al piano di calpestio, e l’area esterna all’entrata, fino al banco naturale pavimentale. L’interro non rese evidenti variazioni di sequenze stratigrafi-che, anche nello strato che probabilmente non venne rimosso nel 1954. Lo studio da ritenere di riferimento per l’analisi sto-rica ed archeologica del sito a tutt’oggi, è stato pubblicato da J. raSpi Serra, 1976. In laura 1988 ed in laura 1991, viene svolta una successiva analisi dell’insediamento con particolare attenzione agli affreschi raffiguranti gli Apostoli.31 Considerando la complessità delle soluzioni architettoniche adottate per l’aula ed il presbiterio della chiesa, compiute in ogni elemento, e l’elaborato programma decorativo pittorico che si sviluppa sull’alzato della struttura, con un repertorio che alterna cicli figurativi a motivi geometrici e floreali, ricoprendolo interamente, si suppone che, concepita originariamente a navata unica, realizzata compiutamente anche nei particolari decorativi, la chiesa, non più adeguata per lo spazio, forse a causa di una più numerosa frequentazione, dovette essere ampliata in navate laterali. Si ignora la causa dell’interruzione dei lavori da cui ne risulta l’irregolarità della pianta.32 Di questi 13 affreschi, trafugati nel 1964, ne vennero recupe-rati 6 a Sirmione, dai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Artistico. Esposti a Firenze in Palazzo Vecchio, nella mostra “L’opera ritrovata. Omaggio a Rodolfo Siviero” nel 1984, vennero nel 1988 restituiti al Comune di Ischia di Castro ed alle-stiti nel Museo Civico. 33 «Sugli scanni descritti due santi mitrati di ottima conservazio-ne… Forse sono le figure dei Santi Savino e Colombano, il pri-mo protettore di Castro, il secondo tanto venerato in antico nelle nostre contrade…» lotti, 1956, p. 51. Oggi queste figure non sono più visibili. Si può supporre che anche questi dipinti siano stati asportati. 34 «Il nucleo di Poggio Conte si rivela come l’espressione ru-pestre più matura della zona, distinguendosi per una assonanza morfologica ad esempi strutturali, imitati con chiara evidenza (la fronte, le volte, le nervature). Se richiami a tipologie edilizie non sono nuovi nel percorso degli insediamenti rupestri, ad esempio pugliesi, non certo frequente è la sicurezza culturale dimostrata dal complesso, che nelle sue scelte si riferisce a soluzioni volta-te ad ogiva, con probabilità, mediate dalla cultura cistercense. In questa chiave sembrerebbe da leggere la facciata: l’occhio, la partizione in due data dall’aggetto, le semicolonne che inqua-drano l’entrata e scandiscono la fronte ci riportano a tipologie descritte dall’Aubert ( L’Architecture cistercienne en France, Paris, 1947, I, pag. 352 e ss., figg. 252, 253, 254, 255, 256) nelle quali, ovviamente gli autori della fronte della chiesa rupestre di Poggio Conte, hanno operato con criterio di sintesi. All’interno lo stesso sistema di coperture, l’uso vario delle modanature, indi-ca consapevolezza della morfologia ormai frequente nella cultura francese del XIII secolo a cui deve con probabilità richiamarsi anche il fiore del primo vano, da interpretare, ci sembra, come un elaborato esempio di copertura a volta che riduce il sistema strutturale nella soluzione ornamentale della chiave» (raSpi Ser-ra, 1978, p. 140). Per i rapporti tra l’architettura cistercense ed l’architettura gotica cfr. grodecki, 1978, p. 17; romanini, 1988, pp. 361-372.35 Cfr. romanini, 1969; sull’architettura monastica, come edilizia prodotta in funzione di una specifica regola di vita ed espressio-ne ideologica alla base della stessa regola, cfr.: leclercq, 1957; aubert, 1959; romanini, righetti toSti croce, in aa.vv. 1987. «Nata da una “fuga e saeculo” - secondo la celebre defini-zione di Leclercq - l’architettura monastica si propone alla civiltà medievale come una “città altra”, di schietta natura utopica, a un

tempo “città ideale” e “città modello”» (romanini, righetti toSti croce, in aa.vv. 1987, p. 425). 36 Gli Statuti dell’Ordine, opera di Bernardo di Chiaravalle, pre-scrivevano dettami anche in ambito della elaborazione architet-tonica degli edifici e delle chiese cistercensi, tanto che si può parlare di una vera e propria architettura cistercense, sia per gli edifici a carattere sacro che per i complessi abbaziali ad essi an-nessi. Sull’arte cistercense di ispirazione Bernardina cfr.: aa.vv., 1994; duby, 1982. 37 «Non ultima riprova di una intellettualistica e matura compo-sizione dell’ambiente, la possibile realizzazione in funzione di valori modulari e di organici canoni compositivi: ciò dimostra la lettura della facciata e dell’icnografia…» (raSpi Serra, 1976, p. 140). Sui valori modulari alla base degli schemi architettonici cistercensi cfr. romanini, 1969; romanini, righetti toSti croce, in aa.vv. 1987, pp. 425-475. 38 Nella scheda del catalogo “L’opera ritrovata. Omaggio a Ro-dolfo Siviero”, in cui sono state pubblicate per la prima volta le figure degli Apostoli provenienti dall’Eremo di Poggio Conte, la curatrice Gabriella Capecchi definisce la tecnica dei dipinti “tem-pera su lastra di tufo”. capecchi in aa.vv. 1984, p. 68.39 Lo sfondo d’oro, abituale delle icone e dei mosaici bizantini, valore assoluto senza cromatismi, diventa simbolo dell’eternità perché incorruttibile.40 «L’andamento tipologico indica, pur nella situazione attua-le di lettura estremamente compromessa, rapporti con esempi della pittura romana del XIII secolo…» raSpi Serra, 1976, p. 130. «In questo periodo (dal IX al XII sec.), si venne creando (nell’Italia centrale) una Scuola Latina, che impose il suo gusto e la sua maniera staccandosi dai filoni bizantino e benedettino: gli artisti colorarono le loro storie di un gusto popolare…» capecchi in aa.vv., 1984 p. 68.41 matthiae, 1966.

84

Fig. 1. Pianta della chiesa (Disegno C. Tabarrini).

Fig. 2. Sezione longitudinale (Disegno C. Tabarrini).

85

Fig. 3. Vani dell’abitazione.

Fig. 4. Facciata della chiesa.

86

Fig. 5. Facciata della chiesa. Particolare dell’”occhio”.

Fig. 6. Facciata della chiesa. Semicolonne dell’ingresso. Fig. 7. Facciata della chiesa. Fronte interna.

87

Fig. 8. Facciata della chiesa. Campata dell’ingresso. Prospetto (Disegno C. Tabarrini).

88

Fig. 9. Pilastro alla sinistra dell’ingresso. Prospetto (Disegno C. Tabarrini).

89

Fig. 10. Pilastro alla sinistra dell’ingresso.

90

Fig. 11. Pilastro alla destra dell’ingresso. Prospetto (Disegno C. Tabarrini).

91

Fig. 12. Pilastro alla destra dell’ingresso.

92

Fig. 13. Interno della chiesa. Navata destra.

93

Fig. 14. Interno della chiesa. Navata sinistra.

Fig. 15. Tamburo. Nicchie nelle quali erano disposte le figure degli Apostoli.

94

Fig. 16. Volta cupoliforme. Rosone.

95

Fig. 17. Ingresso al presbiterio. Pilastro sinistro. Prospetto (Dise-gno C. Tabarrini).

Fig. 18. Ingresso al presbiterio. Pilastro sinistro.

Fig. 19. Ingresso al presbiterio. Pilastro destro. Prospetto (Disegno C. Tabarrini).

Fig. 20. Ingresso al presbiterio. Pilastro destro.

96

Fig. 21. Campata dell’altare. Prospetto (Disegno C. Tabarrini).

Fig. 22. Ingresso al presbiterio. Arco ogivale.

97

Fig. 23. Presbiterio. Volta a crociera.

Fig. 24. Abside.

98

Fig. 25. Altare.

Fig. 26. Altare.

99

Fig.

27.

Fig

ure

di A

post

oli.

Alle

stim

ento

nel

Mus

eo C

ivic

o A

rche

olog

ico

Piet

ro e

Tur

iddo

Lot

ti di

Isch

ia d

i Cas

tro.

100

Fig. 28. Figura di Apostolo non identificabile.

101

Fig. 29. Figura di Apostolo non identificabile.

102

Fig. 30. Figura di Apostolo. Sant’Andrea.

103

Fig. 31. Figura di Apostolo identificabile in San Giovanni.

104

Fig. 32. Figura di Apostolo. San Paolo.

105

Fig. 33. Figura di Apostolo. San Tommaso.

106

BIBLIOGRAFIA

aa.vv.1965, “L’eremitismo in occidente nei secoli XI e XII”

(Atti della terza Settimana internazionale di studi medievali, Mendola, 1965), Milano. 1971, “ Il monachesimo e la riforma ecclesiastica

(1049-1122)” (Atti della quarta Settimana interna-zionale di studi medievali, Mendola, 1968), Mila-no.

1984, “L’opera ritrovata. Omaggio a Rodolfo Siviero” Catalogo della mostra, Firenze.

1987, “Dall’eremo al cenobio. La civiltà monastica in Italia dalle origini all’età di Dante”, Milano.

1989, “Il monachesimo nel primo millennio” (Atti del convegno internazionale di studi, Roma, 24-25 feb-braio 1989 - Casamari, 26 febbraio 1989), Roma.

1994, “Ratio fecit diversum. San Bernardo e le arti”(Atti del Congresso internazionale, Roma, 27-29 maggio 1991) Roma.

agnello G.1969, “I santuari rupestri della Calabria”, in Atti del IV

Congresso storico calabrese, Napoli. aubert M.1958, “Esiste-t-il une architecture cistercienne?”, in

Cahiers de Civilisation Médiévale, I, pp. 153-158. barbero a. – frugoni C.1998, “Dizionario del Medioevo”, Roma-Bari.

barone G.1987, “Le ore del Monaco”, in Storia Dossier, VI, Fi-

renze.

barone f.2004, “Quando in Sicilia i monaci erano greci”, in Me-

dioevo, VIII, n, 2, Milano, pp. 76-85.

bianchi bandinelli r.1929, “Sovana”, Firenze.

brunetti nardi g. (a cura di)1972, “Repertorio degli scavi e delle scoperte arche-

ologiche nell’Etruria Meridionale”, II, (1966-1970), Roma, pp. 121-122.

capecchi G.1984, “Maestro laziale del sec. XII”, in AA. VV.1984, p. 68.

caputo f.1996, “Il monachesimo italogreco e benedettino in Ba-

silicata”, in L. BUBBICO, F. CAPUTO, A. MAU-RANO (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, Matera.

centro Storico benedettino italiano (a cura di)1981, “Monasticon Italiae”, Cesena

de miniciS e. (a cura di)2003, “Insediamenti rupestri medievali della Tuscia I.

Le abitazioni”, Roma.

de vogue a. 1983, “Regula Benedicti”, in Dizionario degli studi di

perfezione, VII, col. 1556, Roma. duby g.1982 , “San Bernardo e l’arte cistercense”, Torino

fonSeca c.D.1967, “La civiltà rupestre del Mezzogiorno d’Italia”, in

La rassegna pugliese, II, pp. 132-144, Bari.1970, “Civiltà rupestre in terra jonica”, Milano-Roma.1995, “Chiese ed asceteri di Matera”, Roma. francovich r. et alii1980, francovich R. – gelichi S. – parenti R., “Aspetti

e problemi di forme abitative minori attraverso la do-cumentazione materiale della Toscana medievale”, in Archeologia Medievale, VII, Firenze, pp. 217-246.

gain b.1993, “Monachesimo e liturgia al tempo dei Padri cap-

padoci”, in Il mondo della Bibbia, XIX, n. 4 Luglio-Settembre, Leuman, pp. 12-15.

gargana a.1931, “La necropoli rupestre di San Giuliano”, Roma.

gavelli G.1986_, “I Romitori. Insediamenti monastici nel territo-

rio di Ischia di Castro”, Ischia di Castro.

geneStout A.1940, “La Règle du Maître et la Règle de Saint Benoît”,

in Revue d’Ascetique et de Mystique, 21, pp. 51-112.

giannichedda E. et alii2005, giannichedda E. – lapadula E. – de miniciS E.,

“Costruire in negativo. L’archeologia rupestre” in Archeo. Attualità del passato, XXI, n. 7, Milano.

gregorio di catino

1849-1914, “Il Regesto di Farfa”, (a cura di Ivano Gior-gi e Ugo Balzani), Roma

grodecki l.1978, “Architettura gotica”, Milano. guillou a.1965, “Il monachesimo greco in Italia meridionale e in

107

Sicilia nel medioevo”, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, Vita e Pensiero, Milano.

Jacovelli g.1971, “Insediamenti rupestri medievali pugliesi. Tipo-

logia ed esempi” in Studi di Storia pugliese in onore di Nicola Vacca, Galatina.

kurze w.1974-1982, “Codex diplomaticus Amiatinus. Urkun-

denbuch der Abtei S. Salvatore am Montamiata. Von den Anfängen bis zum Regierungsantritt Papst Inno-zenz 3., 736/1198”, vol. 2, Tübingen.

laura a.1988, “Gli affreschi del Romitorio di Poggio Conte. Il

recupero della nostra storia”, Ischia di Castro.1991, “Gli affreschi dell’Eremo di Poggio Conte”, in

Biblioteche & dintorni, n. 1-4, Viterbo.

lecciSotti t.1957, “Aspetti e problemi del monachesimo in Italia”

in Il Monachesimo nell’alto Medioevo e la forma-zione della civiltà occidentale (Spoleto, 8-14 aprile 1956), Spoleto, pp. 311-337.

1965-1975, “Abbazia di Montecassino. I regesti dell’Archivio” Roma.

leclercq J.1957, “Y’a-t -il une culture monastique?” in Il Mona-

chesimo nell’alto Medioevo e la formazione della civiltà occidentale (Spoleto, 8-14 aprile 1956), Spo-leto, pp. 339-356.

1983, “Cultura umanistica e desiderio di Dio; studio sulla letteratura monastica del Medio Evo”, Firenze.

lotti, t.1956, “Il Romitorio di Poggio Conte”, in Illustrazione

Italiana, LXXXIII, n.2, Milano.

matthiae g.1966, “Pittura romana del Medioevo”, Roma.

mieli g.1994, “Valle del Fiora: luoghi di culto in grotta”, in

Informazioni, III, n.10, Viterbo.

moretti Sgubini a.m., de lucia brolli, m.a.2003, “Castro: un centro dell’entroterra vulcente” in

Atti del Convegno Internazionale di Studi sulla Sto-ria e l’Archeologia dell’Etruria, (Annali della Fon-dazione per il Museo ‘Claudio Faina’, X), Roma.

orSi p.1929, “Le chiese basiliane della Calabria” Firenze.

palladio di galazia

1974, “Storia Lausiaca” Verona.

parenti r.1980, “Vitozza: un insediamento rupestre nel territo-

rio di Sorano”, Firenze.

penco g.1956, “Origine e sviluppi della questione della ‘Regu-

la Magistri’”, in Antonius Magnus Eremita, Studia Anselmiana, XXXVIII, Roma.

1969, “Il monachesimo in Italia” in Nuove questioni di storia medievale, Milano.

1983, “Storia del monachesimo in Italia dalle origini alla fine del Medioevo”, Milano.

pertuSi a.1965, “Aspetti organizzativi e culturali nell’ambiente

monacale greco dell’Italia meridionale” in L’ere-mitismo in Occidente nei sec. XI e XII (Miscella-nea del Centro di Studi Medioevali, 4), Milano, pp. 382-426.

prandi a.1965, “Aspetti archeologici dell’eremitismo in Puglia”

in L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII (Mi-scellanea del Centro di Studi Medioevali, 4), Milano, pp. 435-456.

picaSSo g.1987, “Il monachesimo nell’alto Medioevo”, in AA.VV.

1987, pp. 3-63.

raSpi Serra J.1976, “Insediamenti rupestri religiosi nella Tuscia” in

Mélanges de l’École Française de Rome, Tome 88, I, (1976), Roma, pp. 27-156.

romanini a. m.1969, “Povertà e razionalità nell’architettura cister-

cense del XII secolo” in Povertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli XI-XII, Centro Todi, Todi, 191-224.

Romanini a. m., righetti toSti croce m.1987, “Monachesimo medievale e architettura mona-

stica”, in AA.VV. 1987, pp. 425-475.

Scaduto m.1947, “Il monachesimo basiliano nella Sicilia medie-

vale”, Roma.

Stendardi e.1993, “Memorie storiche della distrutta città di Castro”,

Ischia di Castro.

108

thierry n.1993, “Monasteri ed eremi in Cappadocia”, in Il mondo

della Bibbia, XIX, n. 4 Luglio-Settembre, Leuman, pp. 20-26.

tommaSini a. m.1932, “I Santi irlandesi in Italia”, Milano uggeri g.1974, “Gli insediamenti rupestri medievali. Problemi

di metodo e prospettive di ricerca” in Archeologia Medievale, I, Firenze, pp. 195-230.

109

7. CASTRO IN ETà MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE

7.1. l’aSSetto urbanoNelle fonti d’archivio la più antica testimonian-

za dell’occupazione del pianoro di Castro risale al 769, anno in cui il Liber Pontificalis1 nel riferire il nome del vescovo della città attesta allo stesso tem-po l’esistenza di un abitato. Questo viene definito civitas, un termine che nel Liber è spesso utilizzato in alternanza con castrum, al di là di un’intenzio-nale distinzione tipologica. In altri documenti2, da-tabili tra la fine dell’VIII e la metà del IX secolo, si parla inoltre di fines castrisana, ossia di un territo-rio ben definito posto sotto il controllo dell’abitato, ormai divenuto organismo urbano in grado di am-ministrare e tutelare persone, beni e proprietà.

Le attuali conoscenze del sito non permettono di determinare la consistenza dell’impianto alto medio-evale, sia per l’esiguità dei settori messi in luce dagli scavi archeologici, sia per la probabile utilizzazione di strutture precarie3, forse realizzate con materiale deperibile e successivamente rimpiazzate dalle mu-rature medioevali e rinascimentali.

Una cronaca anonima inserita nello scritto del 1610 del dottor Mariano Ghezzi4 riferisce che la città nel X secolo “olim dicebatur Castrum D. Felicita-tis”. L’appellativo non trova riscontro nei documenti storici5 che rilevano invece per Castro la denomina-zione di comitatus nel 10866 e l’appartenenza alla famiglia Ildebrandini dal X al XIII secolo7.

Alla fine del XIII secolo passò sotto il control-lo diretto della S. Sede e vi rimase fino al 1537, eccetto brevi e saltuari periodi in cui fu occupata da esponenti della famiglia Farnese. In tale fase

110

fu amministrata da podestà nominati direttamente dal Rettore del Patrimonio di S. Pietro8.

Dalle liste per la corresponsione dei censi alla Camera Apostolica si può desumere quale fosse la consistenza numerica degli abitanti in età medioe-vale. Da esse si ricava infatti che l’abitato nel XIII secolo pagava la procuratio, la Tallia Militum e il focatico9.

Nei resoconti del XIV secolo risulta invece esente per l’estrema indigenza in cui versava la po-polazione. Le stime sul popolamento effettuate sul-la base delle tasse pagate inducono a pensare che Castro avesse una popolazione non superiore alle 800 unità, che si mantenne sostanzialmente stabi-le fino al 1537, quando la costituzione del Ducato

Farnesiano favorì un incremento demografico10. La presenza della corte e dei maggiori esponenti della famiglia Farnese aveva attirato nella città elementi di varia estrazione e aveva incentivato l’economia. Tale situazione di benessere durò solo qualche de-cennio; le stesse cronache del 1600 lamentano una diminuzione di popolazione sia per lo spostamento della corte ducale in Parma, sia per l’insalubrità del luogo, interessato da fenomeni malarici11. Questa tendenza rimase pressoché invariata nonostante i tentativi fatti per ripopolare il centro, tra i quali lo scritto sulla salubrità dell’aria di Castro composto dal dottor Ghezzi a scopo propagandistico12.

La città si estese sul pianoro tufaceo (fig. 1) de-limitato a sud dal fiume Olpeta e a nord dal Fosso delle Monache, giungendo a occuparne completa-mente la superficie solo in epoca rinascimentale (fig. 2). Pur essendo naturalmente ben munita su tre lati, era dotata di un sistema difensivo costituito da un castello, che già esisteva all’epoca di Clemente IV (1265-1268)13 e che fu variamente ristruttura-to in seguito, e da una cinta muraria corredata da merli guelfi, di cui rimane un’immagine stilizzata impressa su un sigillo14 (fig. 3). Lungo il perimetro si aprivano quattro porte che permettevano i colle-gamenti con il territorio circostante e l’accesso alle sorgenti di acqua potabile: Porta Castello, situata nel settore nord–est del pianoro, Porta Lamberta nel fianco est, Porta S. Maria, nell’estremità sud-ovest e Porta Forella nel fianco nord-ovest.

Fig. 1. La città di Castro in un disegno del Codice Vaticano Barb. Lat. 9901, f. 34.

Fig. 2. Pianta redatta dal Soldati nel 1644 mostra la massima espansione della città. (Collezione Lotti).

111

L’impianto urbano medioevale, in parte oblite-rato dal riassetto voluto dai Farnese, si può rico-struire sulla base delle cronache del tempo. Esi-steva un articolato sistema viario che metteva in relazione le varie piazze e i rioni15. Vi erano una Platea Maior, posta nel punto più alto del pianoro e nella quale si ergeva il Palazzo Pubblico con la tor-re campanaria e l’abside della chiesa di S. Pancra-zio, la piazza del Capitone, la piazzetta delle Erbe, dove si svolgeva il mercato dei prodotti agricoli, la piazza del Petrone, quella del Vescovado, su cui si affacciavano l’episcopio e la chiesa di S. Savino, la piazzetta di Campo di Fiore e la piazzetta di Castello. Nelle fonti si nominano inoltre i rioni di Capitone, Petrone, Piazza, Castello e Croce.

A sud-ovest della Piazza Maggiore si estendeva il quartiere artigianale, in cui si aprivano botteghe di pellami e di lini. In tale area le ricognizioni ar-cheologiche hanno permesso di individuare ambien-ti ipogei sotto i piani di abitazione16. Si tratta di vani scavati nel tufo collegati mediante rampe in legno o in muratura con le rispettive case. Gli esempi più antichi mostrano una struttura irregolare tendenzial-mente ovaleggiante, quelli più recenti un impianto regolare con vani squadrati e soffitto piano, a volte completati o divisi da setti murari. Alcune cantine avevano un ingresso direttamente sulla strada, altre presentavano sul lato pubblico solo finestre a boc-ca di lupo per luce e aria. Molte si articolavano su più livelli con ulteriore piano interrato più profondo, scavato nel banco di tufo e raccordato tramite una scala ricavata nella roccia. L’interno era variamen-te attrezzato con elementi lignei di cui rimangono gli incassi dei pali nelle pareti, con nicchie di varia grandezza, con silos per contenere granaglie, con pozzi per la raccolta d’acqua piovana, con ripiani per le botti, soprattutto nei livelli più profondi. In alcuni ambienti sono stati individuati i ‘butti’ ossia gli immondezzai delle case soprastanti costituiti da pozzi scavati nel banco, collegati con una canaletta al piano abitato: in essi era possibile gettare rifiuti

di ogni genere, resti di pasto, ceramica, mobili e og-getti in disuso17.

L’approvvigionamento idrico era garantito dalle cisterne e dai pozzi di raccolta d’acqua piovana e soprattutto dalle sorgenti situate a valle del pianoro, una raggiungibile da Porta Forella e l’altra da Porta S. Maria. Quella di S. Maria era la più importan-te, ma aveva una portata soggetta a cali stagionali e perciò era interdetta da maggio a settembre. Non vi era pertanto abbondanza di acqua corrente, ele-mento che favorì l’acuirsi dei fenomeni malarici e l’aspetto non troppo pulito degli abitanti18.

7.2. i farneSe e il ducato di caStroLa famiglia Farnese divenne proprietaria della

città di Castro solo nel 1537, pur avendo tentato di entrarne in possesso nei due secoli precedenti per la sua posizione strategica.

La famiglia trasse origine quasi certamente dal-l’Alto Lazio e in particolare dal Castrum Farneti, l’attuale Farnese19, di cui divenne proprietaria grazie a un privilegio di Ottone I20.

Gli eventi relativi a Castro e alla formazione del Ducato sono legati alla figura di Ranuccio il Vec-chio21, capostipite del ramo più illustre della casata, quello che giunse alla dignità pontificale. Ranuccio era cittadino di Orvieto e fu investito dei vicariati di Latera e Marta all’inizio del 140022. Sotto il pon-tificato di Eugenio IV fu ricompensato per i suoi servigi con feudi quinquennali23, che costituirono successivamente il nucleo del Ducato. Il figlio Pier-luigi, detto seniore dagli storici, continuò a conso-lidare i possessi familiari, e tra i suoi discendenti Bartolomeo entrò in possesso del feudo di Latera, divenendo il fondatore del ramo dei Duchi di Latera, Alessandro fu eletto pontefice nel 1534, portando la famiglia all’apice della gloria. Alessandro nacque probabilmente a Canino nel 1468 e grazie alle sue qualità politiche e diplomatiche fu nominato da papa Alessandro VI tesoriere generale, cardinale diacono e nel 1494 legato del Patrimonio di S. Pietro. Con-tinuò a svolgere missioni diplomatiche per i papi successivi e fu ricompensato con la nomina a lega-to della Marca Anconetana e con la legittimazione dei figli avuti da una donna della famiglia Ruffini24. Si attivò per accrescere la potenza della dinastia sia consolidando i feudi che erano stati acquistati con censo25, sia inserendo i familiari, in particolare il fi-glio Pierluigi, nello scenario politico internazionale. Alle proprietà della stirpe mancava il sito di Castro, particolarmente ambito per la sua posizione strate-gica. Nel 1527, nell’ambito degli eventi che portaro-

Fig. 3. Stemma della città di Castro impresso su un sigillo. (Da tabarrini 2007).

112

no al sacco di Roma a opera dei Lanzichenecchi, i Farnese tentarono di impadronirsene, innescando un meccanismo di vendette che causò il più grave ecci-dio della storia della città. Le cronache26 raccontano che il cardinale Alessandro aveva convinto gli espo-nenti delle più importanti famiglie castrensi a mettersi sotto il patrocinio del figlio Pierluigi consegnandogli la comunità. Le sue truppe, con l’aiuto dei congiurati, occuparono la città fino all’ottobre del 1527, quando lo stesso Pierluigi fu costretto ad abbandonarla per la mi-naccia di scomunica e di confisca dei beni mossa da Clemente VII. I suoi sostenitori furono perseguiti dal vescovo cittadino che incaricò Ludovico Orsini di con-quistare la città e di saccheggiarla. Il tentativo, compiu-to all’inizio di novembre, fallì, nonostante l’impiego di un gran numero di armati, sia per l’imprendibilità del luogo sia per la fedeltà degli abitanti. Questa resistenza fu interpretata come ribellione tanto che il papa, sulla base della relazione episcopale degli eventi, ordinò a Galeazzo Farnese di prendere Castro e di punirla. Ga-leazzo, avvalendosi anche di centurie di Corsi e grazie al tradimento di Soranesi abitanti in città, riuscì a entra-re dalla Porta S. Maria e a impadronirsi dell’abitato il 28 dicembre 1527, uccidendo o prendendo in ostaggio molti abitanti27. La depredazione subita, sia dalle trup-pe di Galeazzo che da quelle di Pierluigi28, determinò un periodo di grande povertà, per la confisca di beni e di bestiame e per la devastazione dei campi.

Il quadro storico cambiò nel momento in cui alla morte di Clemente VII fu eletto al soglio pontificio il cardinale Alessandro, il 13 ottobre 1534, che as-sunse il nome di Paolo III. Papa Farnese incrementò l’importanza della famiglia e riuscì a ottenere la cit-tà di Castro permutandola con Frascati, nel marzo del 153729. Il 31 ottobre dello stesso anno eresse a Ducato il territorio pertinente ai castelli di famiglia, fissandone la capitale in Castro e nominando suo figlio Pierluigi duca30. Il Ducato di Castro, un vero e proprio stato nello stato, ebbe diversi privilegi: il diritto di battere moneta, l’esenzione dalla tassa sul sale, l’abolizione dei dazi per la vendita di prodotti agricoli fuori confine e per l’importazione dei metal-li necessari alla produzione monetaria31. Per la città questo evento politico significò una nuova veste ur-banistica, adeguata ai tempi e consona al rango dei cortigiani, e determinò un rilancio economico espo-nenziale perché fece affluire beni e persone legate alla vita di corte o interessate allo sfruttamento delle risorse.

Il periodo di prosperità durò per tutto il tempo in cui ci fu la presenza reale del duca nella capitale. La sua assenza causò infatti un progressivo declino, innescato dall’acquisizione del Ducato di Parma e Piacenza nel

1545. Paolo III riuscì infatti a ottenere tale possesso per Pierluigi in cambio della cessione di Camerino e Nepi, che ritornarono alla Camera Apostolica32. Pierluigi si trasferì nella nuova sede trapiantandovi anche l’attività della zecca, e a Castro gli subentrò il figlio Ottavio.

La città fu governata successivamente da Orazio33 e alla morte di questi nuovamente da Ottavio34 che tenne contemporaneamente anche Parma e Piacenza. Nella realtà durante la doppia reggenza di Ottavio, Castro fu guidata da Girolama Orsini e dal figlio Alessandro35, creato cardinale dal papa nel 1534. Entrambi l’ammi-nistrarono con lungimiranza emanando provvedimenti per stabilire l’ordine e per rafforzare l’autorità statale, ulteriormente consolidata dalle “Sanctiones Municipa-les”, un vero e proprio codice civile e penale, promul-gato da Ottavio nel 155836. Con la morte del cardinale Alessandro nel 1589 si concluse un’epoca considerata dalle cronache fiorente, un’epoca in cui si facevano “giostre singolarissime, tornamene inaudite, combatti-menti di tori, feste e spassi”37.

7.3. la riStrutturazione urbaniSticaLa trasformazione di Castro in capitale del Duca-

to determinò un forte impulso di rinnovamento edi-lizio motivato dal desiderio di rendere degna della corte quella che era stata definita da Annibal Caro una ‘bicocca di zingari’38. La ristrutturazione, che ri-guardò edifici sia pubblici che privati, fu affidata al-l’architetto Antonio da Sangallo il Giovane, che, pur non essendo presente in modo stabile, dava direttive mediante disegni e lettere ai suoi collaboratori, in particolare al fratello Francesco Battista e al cugino Bastiano detto Aristotile39.

Lo spazio urbano su cui maggiormente interven-ne l’architetto fu Piazza Maggiore, la piazza princi-pale della città, che venne rinnovata secondo i cano-ni rinascimentali e dotata di impianto fognario per lo scolo delle acque meteoriche40. Gli scavi archeologi-ci compiuti41 hanno rivelato una piazza rettangolare di m 65,23 di lunghezza per m 20 di larghezza, de-finita lungo il perimetro dagli edifici più importanti dell’abitato (fig. 4). Era pavimentata con mattoni di cotto disposti a spina di pesce, ancora visibili in situ negli spazi privi di macerie, mentre nell’area centra-le vi continuavano a essere un pozzo - cisterna42 e la statua equestre innalzata in onore di Giovanni Se-rangeli, scopritore dell’allume43. Da essa si dipartiva-no la via del Vescovado che conduceva all’episcopio, la via del Castello che portava al Castello, quella per Porta Lamberta e attraverso questa all’Olpeta, quella per S. Maria attraverso il quartiere artigianale della contrada Capitone e la via del Macello con il primo

113

tratto coperto.Lungo il perimetro furono costruiti edifici nuovi

necessari all’attività dell’amministrazione pubblica mentre quelli esistenti furono regolarizzati e adattati alle forme architettoniche del Sangallo.

Sul lato corto nord orientale fu eretta la Zecca44,

l’edificio destinato a coniare monete proprie, secondo il privilegio concesso da Paolo III nel 153745. Di essa ci rimane il disegno del prospetto ideato dall’architet-to farnesiano a imitazione del medesimo edificio di Roma46 (fig. 5). Gli scavi effettuati nel 1967 e i succes-sivi interventi di pulitura del sito hanno permesso di verificare una sostanziale corrispondenza tra gli ele-menti atterrati e il progetto originario (fig. 5a). L’edi-ficio concepito a doppio piano aveva una larghezza

Fig. 4. Pianta della Piazza Maggiore. (Disegni p. l. Gavazzi).

Fig. 5. Disegno di Antonio da Sangallo per la Zecca di Castro. Uffizi Firenze dis. n° 189. (Da tabarrini 2007).

Fig. 5a. Disegno ricostruttivo dell’aspetto reale della Zecca. (Da gieSS 1981).

114

di m 8,85 e un’altezza ipotizzabile di c.a m 16,70. Fu realizzato in blocchi di tufo e rivestito almeno in facciata da parallelepipedi di travertino lavorati a bugnato. L’accesso avveniva tramite una porta centrale arcuata, diversamente da quanto indicato nel disegno dove invece si osservano un ingres-so architravato e due piccole finestre rettangolari, probabilmente soppresse per ragioni di sicurezza. Il primo piano era scandito da quattro lesene con rispettivi semicapitelli, tra le quali trovavano po-sto al centro un grande finestrone arcuato, in asse con l’entrata, sormontato da un enorme stemma farnesiano in travertino, ai lati quattro finestre rettangolari e due stemmi di dimensioni inferiori. Lo scavo ha permesso il recupero di due emblemi: quello di minori proporzioni coronato, che raffi-gura le chiavi di S. Pietro con il padiglione papale tra sei gigli farnesiani47 (fig. 6); e quello centrale di notevole grandezza, che rappresenta anch’esso il padiglione papale con le chiavi di S. Pietro e sei gigli, racchiusi in un cartiglio a volute e contornati da una cornice a ovoli48 (fig. 7). Altri elementi archi-tettonici pertinenti alla Zecca sono visibili ancora in situ assieme alle parti strutturali atterrate nel 1649. L’edificio fu concluso nel 1538 e iniziò a produrre monete già nello stesso anno a opera dei maestri zecchieri Leonardo Centone da Parma e Giovanni Maria Bossio di Reggio49. Inizialmente si trattò di monete di piccolo taglio d’argento e di mistura (ar-gento e rame)50, poi nel 1545 con mastro Alessandro detto il Greco iniziò la produzione di monete grosse, d’oro e d’argento51. Vennero coniate utilizzando sim-boli della città di Castro o della famiglia Farnese: lo stemma formato da padiglione con chiavi decussate e gigli farnesiani, S. Savino protettore della città raf-figurato a figura intera o a mezzobusto, l’unicorno, il ritratto di Pierluigi e la croce lignea con l’inserzione di quattro gigli. L’attività durò poco tempo in quan-

to, con il trasferimento della corte ducale a Parma, Pierlu-igi trasportò nella nuova sede anche la zecca, chiamando da Castro i maestri monetie-ri52. E’ probabile che in tale circostanza, per impedire un uso improprio della struttu-ra, sia stato murato l’ingresso dell’edificio, come è possibile vedere sul posto dove si con-serva un blocco con incisa la data 156453.

Nella piazza il lato lun-go occidentale era occupato

dall’edificio dell’Hostaria54, che comprendeva un vero e proprio albergo, per accogliere gli ospiti della corte ducale, e la casa del Capitano Meo. La presenza di quest’ultima all’interno del complesso trova la sua ragion d’essere nel fatto che il Capitano era a capo delle milizie ducali e svolgeva pertanto funzioni di vigilanza sulla vicina residenza. L’Hostaria (fig. 8), messa in luce solo parzialmente dalle campagne di scavo, fu progettata dal Sangallo, che propose varie soluzioni per la realizzazione del prospetto e del piano nobile. Il disegno originario della fron-te dell’edificio prevedeva al piano terra un portico di tredici arcate aperto sulla piazza, caratterizzato da paraste doriche, al piano nobile finestre a tutto sesto timpanate, incorniciate da paraste corinzie, al terzo piano un loggiato nano con arcatelle a tre fornici55. Un secondo disegno più semplificato ri-

Fig. 6. Stemma laterale del-la Zecca. Comune di Ischia di Castro.

Fig. 7. Stemma centrale della Zecca. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro – Sala Rinascimentale.

Fig. 8. Disegno di Antonio da Sangallo il Giovane per il pianterreno dell’Hostaria di Castro. Uffizi Firenze dis. n° 299. (Da tabarrini 2007).

115

vela quello che forse fu effettivamente realizzato: un porticato con lesene doriche al piano terra e am-pie finestre con davanzale al piano nobile56 (fig. 9). Gli scavi finora compiuti non consentono di dare maggiori precisazioni sull’alzato, né di appurare se esso sia stato effettivamente costruito57. hanno confermato l’esistenza del lungo porticato, soprae-levato di due gradini rispetto alla piazza, collegato da un lato alla casa di Scaramuccia e dall’altro al

Palazzo del Podestà. In esso si aprivano dieci botte-ghe, di cui si possono individuare le strutture mura-rie, l’ingresso per l’Hostaria vera e propria, quello per la casa del Colonnello58, e l’imbocco voltato della via del Macello sotto la tredicesima arcata59. Dalle botteghe era possibile accedere a locali seminterrati comunicanti tra loro che prendevano luce e aria da finestre a bocca di lupo aperte nella piazza; essi furono utilizzati inizialmente come magazzini e successivamente, insieme alle botteghe, come de-posito per armi da fuoco, munizioni e armature60. Il portico era pavimentato con mattoni disposti a spina di pesce ed era coperto con volte a vela so-stenute da pilastri. Rimangono i resti basamentali e numerosi elementi architettonici in travertino, tra cui i semicapitelli delle paraste, i triglifi e le meto-pe con giglio farnesiano della trabeazione61 (fig. 10). L’interno dell’edificio, che tra l’altro fu edificato a cavallo di un forte dislivello, probabilmente crollò lungo il fianco occidentale della rupe, al momento della distruzione della città. Il piano nobile62 (fig. 11) prevedeva per la casa del Capitano Meo una sala, un salone con camino, una camera, una loggia e un cortile scoperto; per l’albergo ducale un gran-de cortile scoperto, un’anticamera, una camera, un salone con camino, una grandissima sala con tre finestre sulla piazza, e un camerone con camino.

Nella parte sud occidentale della piazza formava un angolo con l’Hostaria il Palazzo del Podestà63, antecedente alla ristrutturazione farnesiana e dota-to di torre civica. Non sono stati effettuati scavi in questo settore che permettano di indicarne forma e architettura. Ad esso potrebbero essere riferiti due basi d’ingresso in travertino delimitanti due gradini, individuati in fase di ricognizione.

Antonio da Sangallo intervenne anche sugli edifici privati presenti sulla piazza e appartenenti a famiglie che avevano sostenuto l’ascesa di Pierluigi Farnese.

Fig. 9. Probabile aspetto dell’Hostaria nel lato piazza. (Disegni P. L. Gavazzi).

Fig. 10. Metopa con giglio farnesiano che abbelliva la trabeazione dell’Hostaria. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro - Sala Rinascimentale.

Fig. 11. Disegno di Antonio da Sangallo il Giovane per il piano superiore dell’Hostaria di Castro. Uffizi Firenze dis. n° 742. (Da tabarrini 2007).

116

Nell’angolo nord si trovava la casa di Antonio Scaramuccia64, preesistente alla sistemazione cin-quecentesca. Priva di ingresso sul lato piazza, face-va angolo con l’Hostaria e chiudeva con la Zecca lo spazio urbano su questo lato. I sondaggi archeologici hanno evidenziato un paramento originario in bloc-chi di tufo, attualmente visibile per c.a m 2 di altez-za, e una zoccolatura di travertino aggiunta in fase di risistemazione.

Il lato lungo orientale era invece delimitato da altri edifici indagati limitatamente al fronte. Vi era il Palazzo A o Palazzo del Cavalier Sassuolo65, costeggiato a nord dalla via per Porta Castello. Aveva una lunghezza di m 17,20 e un ingresso ri-alzato di due gradini sulla piazza. La facciata con paramento in laterizi era ritmata da coppie di pa-raste su alta zoccolatura in travertino, intervallate probabilmente da finestre con mensole e cornici di travertino66. Il ritrovamento di semicapitelli dorici e ionici (fig. 12) ha fatto ipotizzare l’esistenza di un secondo piano e la distribuzione dei due ordini su livelli diversi. In alcuni punti si osserva ancora la muratura precedente all’intervento rinascimentale,

che rivela un orientamento diverso rispetto a quel-lo farnesiano.

A tale edificio si affiancava un atrio panchinato evidenziato da un arco cassettonato di travertino67 (fig. 13) e a seguire la casa di Giacomo Garonio68, identificata grazie al ritrovamento dell’iscrizione sul portale. Di essa è stato messo in luce l’atrio, di m 4,80x4,40, che aveva una pavimentazione in mattoni di cotto e lungo le pareti due panchine sorrette da mensole di travertino. Il portale, at-tualmente trasferito nel giardino del Museo Civi-co Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” di Ischia di Castro (fig. 14), presenta una cornice modanata e nell’architrave l’iscrizione con il nome del pro-prietario in caratteri latini.

Nell’area della piazza doveva sorgere il Palazzo Ducale di incerta ubicazione e realizzazione. Esi-ste un disegno del Sangallo69 (fig. 15) relativo al

prospetto di un palazzo Ducale, ma non si hanno prove certe che in queste forme sia stato realizzato proprio a Castro. Secondo alcuni fu costruito di seguito alla casa del Garonio70; secondo altri esso costituiva l’ala a valle dell’Hostaria, pensato dal Sangallo in tale posizione per offrire al duca una dimora separata e aperta sulla vallata71.

L’architetto farnesiano si interessò anche del si-stema difensivo della città progettando la fortifica-zione delle porte e il rafforzamento di tutta la cinta muraria mediante la creazione di bastioni72. Per Porta Castello, situata nel versante privo di difese naturali, ideò una tenaglia bastionata asimmetrica che inglo-bò la doppia porta medioevale73 (fig. 16). Per Porta Lamberta, il principale accesso della città, disegnò una doppia tenaglia con bastione fortificato nel lato valle e un ingresso monumentale, caratterizzato da

Fig. 12. Semicapitello di parasta in travertino proveniente dal Palaz-zo A o del Cavalier Sassuolo. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro - Sala Rinascimentale.

Fig. 13. Arco cassettonato di travertino rinvenuto in un atrio adiacen-te al Palazzo A o del Cavalier Sassuolo. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro - Sala Rinascimentale.

Fig. 14. Portale di Giacomo Garonio in travertino.

117

un fornice incorniciato da colonne doriche e sormon-tato da timpano triangolare74 (fig. 17).

7.4. gli edifici religioSiMolteplici sono gli edifici religiosi menzionati

nelle fonti e documentati dalla cartografia antica, di alcuni dei quali si possono individuare ancora le strutture nell’area archeologica di Castro.

La cattedrale della città sorgeva lungo il limite nord-occidentale del pianoro in prossimità di Porta Forella, sul versante opposto rispetto a Porta Lam-berta, ma ad essa collegata mediante una gradina-ta75. La chiesa era dedicata a S. Savino, vescovo e martire, le cui reliquie erano conservate sotto l’altar maggiore. La notizia più antica dell’edificio risale al 128676 anno in cui si ricorda la sua consacrazio-ne, avvenuta alla presenza del Vescovo Bernardo e di altri vescovi della Tuscia, in particolare di quelli di Sutri e di Bagnoregio77. Si apriva con tre portali su una platea sopraelevata nella piazza del Vescova-do, spazio urbano di forma trapezoidale pavimenta-to con clasti di basalto e travertino su cui si ergeva l’episcopio78. Sulla base delle mappe urbane antiche79 e dei sondaggi archeologici effettuati nel 1960-61 e nel 196780, la chiesa aveva un impianto basilicale a tre navate, con abside sporgente rettangolare81 (fig. 18). La navata centrale, quasi doppia rispetto alle la-

Fig. 15. Disegno di Antonio da Sangallo il Giovane per il prospetto del Palazzo Ducale. (U 1678 A). Da nanni 2004). .

Fig 16. Particolare della pianta del Soldati (1644) relativo alla tenaglia bastionata progettata per Porta Castello.

Fig. 17. Disegno di Antonio da Sangallo il Giovane per Porta Lamberta. Uffizi Firenze dis. n° 750 (A). (Da gavalli 2007). Fig. 18. Pianta della cattedrale di S. Savino. (Disegni d. Gasseau).

118

terali, era distinta da esse mediante colonne formate da blocchi di basalto e travertino. Il presbiterio era rialzato rispetto all’assemblea e la torre campanaria inserita nel fondo della navata sinistra, torre che per la sua altezza svolgeva anche funzioni di avvistamen-to e di difesa82. La facciata, conservata solo nella parte

inferiore, era movimentata in basso da tre ingressi a rincasso, di cui il centrale maggiore, decorati con cor-nici modanate e colonne laterali. Nella parte mediana vi era una teoria di archetti ciechi (fig. 19) sostenuti da colonnine in nenfro di altezza maggiore rispetto ad al-tri esempi documentati nel territorio dell’Alto Lazio83. Nella parte alta doveva esserci un rosone chiuso da vetro colorato (testimoniato da frammenti impiombati rinvenuti al momento dello scavo), del quale rimango-no due colonnine marmoree della raggiera, decorate con motivo tortile e a squame, e le cornici dei piccoli oculi della fascia esterna84. Il prospetto era inoltre ab-bellito con l’inserzione di lastre di reimpiego databili al IX-X secolo85 e di conci lavorati di nenfro, alcuni con raffigurazioni zoomorfe e antropomorfe ad alto-rilievo, altri con racemi vegetali86 (fig. 20 a-d). La sua copertura doveva essere a capriate almeno fino ai la-vori di ristrutturazione che interessarono l’edificio alla fine del 1500. Infatti nel 1588 e ancora nel 1594 un consistente smottamento del fianco della rupe causò il crollo del tetto e forti lesioni alle murature perime-

Fig. 19. Teoria di archi in nenfro che decorava la facciata di S. Savino. (Disegni d. Gasseau).

Fig. 20. Elementi di abbellimento della facciata: a. lastra altomedioevale in travertino di reimpiego; b. concio in nenfro con decorazione fito-morfa; c. capitello figurato; d. protome antropomorfa in nenfro. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro - Sala Medioevale.

119

trali, solo la facciata rimase integra87. Gli interventi di restauro furono radicali e modificarono in parte l’icnografia della chiesa. Furono ampliate le cappel-le delle navate laterali con aggiunte poco profonde a terminazione lineare, le colonne furono trasformate in pilastri cruciformi con rivestimento di mattoni e tra-vertino, furono ricostruiti gli archi trasversali e chiuso un portale laterale. In questa circostanza è probabile che la nave centrale abbia ricevuto una copertura con volta a botte. La pavimentazione messa in luce con gli accertamenti archeologici consta nella nave centrale di mattoni di cotto rettangolari, esagonali e ottago-nali disposti secondo uno schema geometrico, nella laterale sinistra di mattoni rettangolari; rimangono indeterminabili i pavimenti della navatella di destra e del presbiterio. Nel mattonato erano inoltre alloggiate diverse sepolture, chiuse da lastre di travertino, per-tinenti a vescovi e notabili della città88. Scarse sono le informazioni circa la decorazione interna dell’edifi-cio. Oltre a un affresco raffigurante S. Savino, restau-rato nel 164289, si conoscono le suppellettili e alcune effigi grazie alle descrizioni contenute in talune visite pastorali. Importanti sono i resoconti di mons. Cane-se, del 1477, in cui si elencano le cappelle, di mons. Maccabei, del 1559, a cui si devono lavori di restauro nell’episcopio e l’imbiancatura a calce della cattedra-le, e di mons. Caccia, del 1603, che restituisce una puntuale descrizione architettonica90.

Prima dell’erezione a cattedrale di S. Savino svol-se tale funzione la chiesa di S. Maria intus civitatem, definita la più antica cattedrale di Castro nella visita di mons. Caccia del 1603. Dislocata all’interno delle mura urbane lungo il costone meridionale del piano-

ro, in prossimità della porta omonima, fu gestita dai Francescani fin quando nel 1600 il crollo del tetto non costrinse all’abbandono91. Venne restaurata dalla So-cietà degli Artigiani che vi stabilirono la loro sede. La campagna di scavo effettuata nel 199792 e le successi-ve ripuliture hanno permesso di conoscere meglio la struttura della chiesa, nota in precedenza solo dalla planimetria del Soldati che tuttavia non riporta fedel-mente le sue proporzioni93. Lo scavo, seppur parziale, ha rivelato un impianto basilicale con transetto spor-gente, dotato di tre absidi semicircolari e di copertu-ra a volta (fig. 21). L’edificio, realizzato con blocchi di tufo ben squadrati, messi in opera su sottili letti di malta, fu costruito in queste forme probabilmente tra

il XIII e il XIV secolo. Ben visibile è il braccio destro del transetto (fig. 22) la cui muratura si conserva fino all’imposta della volta e al catino absidale. E’ dotato di ingresso indipendente, ha un bancone in muratu-ra lungo il muro perimetrale e una porta nella parete destra poi trasformata in nicchia94. L’abside originaria fu tamponata probabilmente nel corso del XVI secolo per accogliere un altare con edicola in travertino: in questo spazio si trovavano un’immagine della Trini-tà e un’iscrizione incisa con il nome del committen-te “hIERONIM SPONTni”95. Nelle pareti è visibile quanto resta della decorazione ad affresco che doveva ricoprire buona parte delle superfici. Si riconoscono ai lati dell’edicola S. Savino (con estrema probabili-tà) e S. Antonio abate con relativi dedicanti; lungo il lato destro una Madonna in trono con Bambino tra due angeli, S. Antonio da Padova, un’iscrizione latina con data MCCCCXXXX, S. Michele Arcan-

Fig. 21. Pianta ipotetica della chiesa di S. Maria intus civitatem par-zialmente indagata. (Disegni p. l. Gavazzi).

Fig. 22. Chiesa di S. Maria intus civitatem: assonometria del braccio destro del transetto con l’altare di “hIERONIM SPONTni”. (Dise-gni p. l. Gavazzi).

120

gelo (nella nicchia) e una triade di santi tra cui S. Sa-vino e S. Pancrazio. Caratteristica comune è quella di essere per buona parte degli ex-voto, ossia delle

raffigurazioni eseguite in seguito all’ottenimento di una grazia, chiesta dall’offerente che spesso compa-re nella rappresentazione stessa. Notevole è anche il rinvenimento di elementi architettonici, di conci di tufo con intonaco dipinto e di parti delle volte crollate caratterizzate da ceramiche affogate nella muratura per alleggerirne il peso (fig. 23). Le ce-ramiche sono di grandissimo interesse perché te-stimoniano la circolazione a Castro di forme con sintassi decorativa affine a quella di produzione or-vietana e lucchese96.

Tra gli edifici religiosi più antichi spicca per collo-cazione e significato politico la chiesa di S. Pancrazio, fondata secondo le fonti nel X secolo da Bernardo De Jannis vescovo di Vulci, che avrebbe portato qui le re-liquie del santo dalla vicina città97. La chiesa, indicata nella planimetria del Soldati al n° 7, sorgeva in contra-da Capitone adiacente al Palazzo del Podestà, ma con l’abside rivolta verso la Piazza Maggiore. Le recenti ripuliture98 hanno evidenziato una monoaula di pic-cole dimensioni caratterizzata da blocchi di tufo di varia grandezza, probabile testimonianza di più fasi costruttive, e da materiale di reimpiego, fra cui risal-ta un cippo con iscrizione funeraria di età romana99

(fig. 24). Tra le macerie sono stati rinvenuti elementi di cornice, conci con frammenti di scultura archi-tettonica in stucco, un frammento di piatto con la

Fig. 24. Iscrizione funeraria romana reimpiegata nella muratura di S. Pancrazio. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro - Sala Romana.

Fig. 25. Frammenti architettonici e suppellettile liturgica provenienti dalla chiesa di S. Pancrazio. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro - Sala Medioevale e Rinascimentale.

Fig. 23. Ceramica proveniente dalle volte di S. Maria intus civitatem. Museo Civico Archeologico Ischia di Castro - Sala Medioevale e Rinascimentale.

121

raffigurazione dell’Agnus Dei e la parte di un oggetto metallico forse pertinente a un ostensorio100 (fig. 25).

Nell’estremo lembo sud-occidentale del pianoro di Castro sono in parte visibili alcune delle strutture realizzate su progetto di Antonio da Sangallo il Gio-vane per dare alloggio alla comunità francescana. I Francescani avevano il loro primitivo convento in prossimità di Porta Castello, che fu smantellato al momento dell’edificazione delle nuove opere difensi-ve, volute da Pierluigi Farnese101. L’architetto farne-siano progettò pertanto una seconda sede, da ubicare in località Prato Cotone102, che da disegno doveva comprendere la chiesa, il convento e il chiostro. Essa non fu mai completata perché con il trasferimento della corte ducale a Parma e Piacenza si spostaro-no anche gli interessi del duca103. Attualmente sono visibili solo i locali seminterrati previsti sotto il re-fettorio e la sacrestia, mentre nel luogo in cui doveva sorgere il chiostro vi è una voragine profonda ben 14 metri, forse determinata dal crollo di cisterne sot-terranee.

Nell’area urbana si riconoscono inoltre i resti del Monastero della Visitazione o della Duchessa, voluto da Girolama Orsini intorno alla metà del XVI seco-lo e mai terminato104. Indicato al n° 15 nella pianta del Soldati fu costruito in prossimità di Porta Lam-berta unendo insieme edifici preesistenti. In segui-

to a disordini interni avvenuti al tempo del vescovo Cittadini le monache furono trasferite a Viterbo e la struttura castrense abbandonata105.

Le fonti menzionano inoltre altri edifici sacri sia in ambito urbano, chiese e oratori a volte con annes-so ospedale, sia extraurbani106 (fig. 26). Essi sono in genere di difficile ubicazione perché situati in zone non interessate da scavi archeologici. Diversamente sono poco fruibili perché della loro struttura si con-serva solo qualche resto. E’ il caso della chiesa di S. Maria e dell’oratorio di S. Silvestro, che sorgevano in località il Pianetto; della chiesa di S. Maria dei Servi, posta sulla strada verso il ponte dei mulini; e della chiesa rupestre di S. Maria della Cava, ricavata nella rupe della Cavagrande di Castro.

7.5. la fine del ducatoIl declino del Ducato di Castro, favorito dalla

lontananza dei duchi, trova la sua ragione profonda nel progressivo indebitamento a cui fu sottoposto da-gli ultimi esponenti della famiglia Farnese, che, per mantenere la corte parmense, non esitarono a con-trarre debiti con la Camera Apostolica, utilizzando come garanzia i beni e le risorse del Ducato. Con Ranuccio I107, succeduto al duca Alessandro, iniziò la consuetudine dei prestiti, i cosiddetti Monti Far-

Fig. 26. Incisione di A. Salminci: la città di Castro durante l’assedio del 1641.

122

nesiani, che durante la sua reggenza raggiunsero i novecentoquindicimila scudi.

I duchi si attirarono con la loro condotta spregiu-dicata numerose inimicizie, sia in campo politico che finanziario, acuite dall’assenza di protezione della Chiesa, un tempo basata sulla figura di Paolo III108. La situazione continuò a peggiorare con Odoardo109 a cui Urbano VIII concesse ulteriori prestiti per un ammontare totale di 1.291.700 scudi. Considerata la cronica insolvenza dei Farnese è ipotizzabile che la liberalità del papa fosse una manovra per accelera-re il loro fallimento e per permettere ai Barberini di impadronirsi di Castro110. Il blocco della libera esportazione dei grani dal Ducato111 spinse Odoardo a rafforzare le difese della città e di altri centri in vi-sta di uno scontro armato. La guerra112 si concretizzò nel 1641 a opera delle truppe pontificie che presero Montalto, Ponte della Badia, Valentano, Ischia e as-sediarono Castro. Dopo due giorni la città si arrese, gli abitanti conservarono i loro privilegi e gli uomini d’arme si ritirarono incolumi in altri stati. Il Duca-to venne amministrato dalla Camera Apostolica, in particolare dai Barberini, mentre lo scenario bellico si spostò su Parma e Piacenza113. Odoardo tentò più volte di riconquistare i suoi domini laziali ma senza successo, finché, dopo la pace di Venezia, non gli vennero restituiti nel luglio del 1644, grazie anche alla mediazione del cardinale Alessandro Bichi, ple-nipotenziario del re di Francia114.

Il trattato, che prevedeva il pagamento dei debiti, non risolse tuttavia il contrasto esistente tra la fami-glia Farnese e i suoi creditori, anche per l’impossi-bilità di Ranuccio II115 di far fronte a un ammontare così elevato. L’insolvenza, condannata ripetutamente anche dal nuovo pontefice, Innocenzo X Pamphili, deteriorò ulteriormente le relazioni diplomatiche che si ruppero in modo definitivo con la nomina del nuo-vo vescovo di Castro. Infatti, morto mons. Giunta nell’ottobre del 1646, Innocenzo X nominò vescovo il barnabita Cristoforo Giarda, aspramente contesta-to da Ranuccio II, che ne impedì l’insediamento116. Costretto comunque a partire per la nuova sede, il presule venne ucciso mentre si trovava in prossimità di Monterosi il 18 marzo del 1649 da sicari mandati, secondo i commentatori dell’evento, dallo stesso Ra-nuccio II117. Il papa reagì a tale eccidio con la scomu-nica di tutti gli esecutori materiali e dei mandanti, a cui seguirono le taglie di 5000 scudi per la cattura degli assassini e infine la guerra contro il Ducato.

L’esercito pontificio, comandato dal Widmann e dal Gabrielli, iniziò l’occupazione del Ducato nel maggio del 1649, giungendo ad assediare Castro ai primi di giugno118. La città si arrese il 2 settembre, e

secondo i patti di resa dovevano essere garantiti ai cittadini l’incolumità personale, il possesso dei beni e il godimento dei privilegi consueti; invece, per vo-lontà di Innocenzo X, gli abitanti furono costretti a lasciare le loro case e la città venne completamente distrutta119. La demolizione fu eseguita da operai dei centri vicini, che per questo furono anche pagati a cottimo. Essi murarono gli ingressi delle cantine e dei piani interrati, demolirono con funi e piccole mine i piani elevati in modo che le murature atter-rate impedissero ogni tentativo di ricostruzione120. Furono abbattuti con questo sistema edifici pubblici e privati, chiese e conventi, monumenti e fortifica-zioni. Tutti gli arredi e le suppellettili furono portati via o saccheggiati, persino le imposte e gli stipiti delle porte. Della città al 3 dicembre non rimaneva più nulla.

Con la distruzione della città la sede episcopale venne trasferita ad Acquapendente, assieme ad alcu-ni oggetti sacri, come la statua dell’Immacolata che si venerava nella chiesa dei frati Francescani121.

L’antica comunità ebraica fu dispersa e i suoi membri furono costretti a rifugiarsi a Pitigliano e in altri luoghi. Gli Ebrei erano presenti in Castro fin dal 1537122; Pierluigi infatti per rivitalizzare l’economia del Ducato aveva favorito l’arrivo di Sabatullo di Giuseppe allo scopo di far aprire un banco di prestito decennale rinnovabile123. Con Sabatullo erano giunte altre famiglie ebraiche a cui era stato concesso, tra le altre cose, di conservare le proprie consuetudini religiose, di avere dipendenti anche cristiani, di non portare il segno distintivo in città e nel suo distretto e di essere esenti da tasse di estrazione e di passo124. Nonostante le numerose restrizioni papali125 la co-munità ebraica riuscì a vivere a Castro quasi inin-terrottamente e a sostenere l’economia del Ducato fino al 1649.

Maria Vittoria Patera

1 L.P., I, Stephanus III, p. 475.2 L.P., II, Leo III, p. 11, a. 795-816; C.D.A., 59, a. 807, e 124, a. 844.3 Non si possono nemmeno escludere forme abitative di tipo ru-pestre, attestate in diverse aree dell’Alto Lazio. Cfr. raSpi Serra 1976.4 ghezzi 1610.5 L’unica citazione di un castellum felicitatis si trova nel diploma di Ludovico il Pio dell’817 in relazione ai castelli donati dall’im-peratore al Patrimonio di S. Pietro (cfr. raSpi Serra 1987, p. 15). Questo castellum tuttavia non sembra avere legami con Castro in quanto viene nominato prima di Orvieto e non tra Tuscania e Sovana come dovrebbe essere per contiguità territoriale.6 caliSSe 1894, pp. 114-115; carta 1985, pp. 103-104.

123

7 aimo - clementi 1971, p. 52.8 carta 1985, pp. 103-104.9 conti 1980, pp. 64-65.10 luzi 1986, pp. 13-14.11 luzi 1986, pp. 13-14; zucchi 1630; giraldi 1600.12 luzi 1986, p. 14; ghezzi 1610.13 carta 1985.14 aimo - clementi 1988, p. 9; zanetti 1789, V, p. 358.15 aimo - clementi 1988, p. 9.16 gardener mctaggart 1985; patera-Schiavi 2002.17 Lo scavo stratigrafico di un ‘butto’ consente di recuperare ce-ramica medioevale e rinascimentale e di conoscere produzioni locali e sintassi decorative.18 baffioni 1968, pp. 15-16: Annibal Caro in una lettera al Gaddi del 1532 lamenta l’aspetto sudicio delle donne di Castro oltre che il loro comportamento piuttosto libero.19 apollonJ ghetti 1985, p. 16; catalano 1985, p. 29: il nome di Farnese allude alle farnie (quercus peduncolata) presenti nel territorio.20foSSati 1998, p. 1; apollonJ ghetti 1985, p. 16. Il Castrum Farneti sarebbe stato restituito a un certo Petrus de Farneto, combattente in Puglia nel 1134. Storicamente la prima menzione certa della famiglia è relativa a Prudenzio Farnese che nel 1154 accolse in Orvieto papa Adriano IV in fuga da Roma. Successi-vamente altri membri sono noti soprattutto per aver assunto inca-richi militari al servizio di municipi dell’Alto Lazio.21 apollonJ ghetti 1985, p. 17: Ranuccio era nipote di Ranuccio, fratello di Pietro V, noto nelle cronache locali soprattutto per le imprese dei suoi sette figli, alcuni dei quali oltraggiarono le don-ne di Ischia e per questo furono trucidati.22 foSSati 1998, p. 1: Marta fu restituita e ricomprata con censo dalla Camera Apostolica nel 1461.23 apollonJ ghetti 1985, pp. 17-18. A lui si deve la realizzazione del sepolcro di famiglia nell’isola Bisentina, che sarà ristrutturato nel corso del 1500 per volontà di Paolo III Farnese a opera di Antonio da Sangallo il Giovane.24 foSSati 1998, p. 1: Alessandro ebbe da Silvia (?) Ruffini Pier-luigi (1503), Paolo (1504, morto qualche anno dopo), Ranuccio (1509, morto ventenne) e Costanza.25 Le proprietà farnesiane nel territorio dell’Alto Lazio agli inizi del 1500 comprendevano oltre a Farnese e Ischia feudi impe-riali, Marta (1461), Valentano, Latera, Tessennano e Piansano (1463), Canino, Gradoli e Abbazia del Ponte (1464), Cellere e Pianiano (1519) dote di Girolama Orsini sposa di Pierluigi, a cui vanno aggiunti Arlena, Capodimonte, Bisenzio, Isola Bisentina e Martana, Mezzano e Borghetto in epoca non determinabile. V. foSSati 1998, p. 1.26 baffioni–mattiangeli-lotti 1981, pp. 23-55.27 La cronaca descrive la ferocia degli armati “Tale fu lo spargi-mento di sangue nello scontro fra cittadini e assalitori, da sem-brare che lungo la via, che dalla chiesa di S. Pancrazio scende per circa mezzo stadio al quartiere del Capitone, scorresse un rivolo di sangue” (baffioni–mattiangeli-lotti 1981, p. 41).28 Secondo la cronaca di Domenico Angeli le truppe di Pierluigi rientrarono in Castro dopo quelle di Galeazzo e continuarono il saccheggio (gennaio-febbraio 1528), v. baffioni–mattiangeli-lotti 1981, pp. 44-51.29 La famiglia Farnese aveva acquistato Frascati da Lucrezia del-la Rovere, vedova di Marc’Antonio Colonna. La permuta fu fatta su suggerimento di Paolo III e si rivelò vantaggiosa per la Chie-sa in quanto Frascati aveva una rendita annua valutabile intorno ai 1200 scudi, contro i 230 di Castro, v. baffioni–mattiangeli-lotti 1981, p. 66.30 A Castro e Castello delle Grotte (1537) si erano aggiunti i feudi di Montalto e Piscina (1535). Per la costituzione del Ducato si veda Stendardi 1993, pp. 111-115.

31 conti 1980, pp. 155-157.32 foSSati 1998, p. 2.33 Orazio (1531-1554) fu prefetto di Roma, sposò Diana di Valois figlia naturale del re di Francia Enrico II, morì durante l’asse-dio di Edino. Subentrò al fratello Ottavio nel governo di Castro alla morte del padre Pierluigi (1547). V. Stendardi 1993, pp. 117-121; foSSati 1998, p. 6.34 Ottavio (1524-1586) fu prefetto di Roma, sposò Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V. Successe al padre Pierluigi nell’amministrazione di Castro nel momento in cui il padre si spostò su Parma e Piacenza. Alla sua morte (1547) governò Par-ma e Piacenza e alla morte del fratello Orazio (1554) riprese an-che Castro. V. Stendardi 1993, pp. 117-121; foSSati 1998, p. 6.35 Alessandro (1520-1589), avviato alla carriera ecclesiastica, fu nominato vice-cancelliere di Santa Romana Chiesa, legato pon-tificio presso Carlo V e legato del Patrimonio. A partire dal 1545 si occupò insieme alla madre Girolama dell’amministrazione di Castro durante le assenze dei fratelli Orazio e Ottavio. V. Sten-dardi 1993, pp. 117-121; foSSati 1998, pp. 6-7.36 Stendardi 1993, pp. 118-121; gavelli 2005.37 baffioni–mattiangeli-lotti 1981, p. 106.38 baffioni 1968; foSSati 1998, p. 2: due lettere di Annibal Caro descrivono la situazione della città prima e dopo la ristrutturazio-ne urbanistica del Sangallo, quella del 13 ottobre 1532 e quella del 28 luglio 1543.39 aimo - clementi 1971, pp. 51-52, 55-56; foSSati 1998, p. 5: probabilmente l’incarico di ristrutturazione fu affidato ad Anto-nio nel marzo del 1537.40 Le proporzioni della piazza sono in rapporto 1/3, in analogia a quella di Vigevano e di Loreto o al cortile del Belvedere del Bra-mante. V. aimo - clementi 1971, pp. 56-57, e 1988, p. 34; fiore 1976, p. 82. Questa ristrutturazione urbanistica comportò l’ab-battimento di edifici medioevali per la creazione di uno spazio urbano regolare. Ne è testimonianza la richiesta di risarcimento che ancora nel 1545 fu fatta al duca Ottavio da parte della Comu-nità (aimo - clementi 1988, n 52).41 tadolini 1961; mezzetti montuori 1967.42 aimo - clementi 1971, pp. 54-55: è ipotizzabile che questo poz-zo fosse dotato di un sistema di filtraggio delle acque meteoriche attraverso strati di sabbia e ghiaia secondo l’uso ‘veneziano’.43 Giovanni era figlio del giurista Paolo Serangeli ed era imparen-tato con Enea Piccolomini (papa Pio II) a cui si deve l’iniziativa del monumento.44 aimo - clementi 1971, pp. 61-63; fiore 1976, pp. 83-84; aimo - clementi 1988, pp. 35-36; contrucci 1999, p. 27; tabarrini 2004.45 Con la concessione di battere moneta iniziò nel territorio di Castro la ricerca di miniere da cui estrarre i metalli, testimonia-ta da lettere di Annibal Caro. Alla carenza di materia prima si supplì con il privilegio concesso dalla Santa Sede nel 1538 di poter importare ogni tipo di metallo senza pagare alcun dazio. V. contrucci 1999, p. 32; foSSati 1998, p. 3.46 Si tratta del disegno U 189A conservato agli Uffizi di Firenze in cui c’è la specificazione autografa ‘per Castro’, cfr. aimo - clementi 1971; foSSati 1998; contrucci 1999.47 Lo stemma è stato affisso sull’ingresso del Palazzo Comunale di Ischia di Castro.48 Lo stemma, ritrovato in frammenti, è stato recentemente re-staurato (estate 2005) a opera dell’Istituto per l’Arte e il Restau-ro Palazzo Spinelli di Firenze. E’ attualmente esposto nella sala rinascimentale del Museo Civico Archeologico di Ischia di Ca-stro.49 contrucci 1999, pp. 36-37; foSSati 1998, p. 4: è preferibile pensare a un inizio di produzione nel 1540.50 contrucci 1999, pp. 36-37, 62-70: si produssero baiocchetti d’argento di 0,32 e 0,25 gr., quattrini di mistura di 0,70 gr.

124

51 foSSati 1998, p. 6; contrucci 1999, pp. 36-37, 47-61: si coniarono scudi d’oro di 3,21 gr., paoli d’argento di 4,17 gr., grossi d’argento di 1,59 gr., mezzo grossi testoni d’argento di 0,60 gr.52 contrucci 1999, p. 37: una lettera della moglie di Leonardo Centone al duca di Parma testimonia che nell’aprile del 1546 l’attività era sospesa; Leonardo ebbe in appalto la zecca par-mense a partire dal giugno 1546.53 Questa data ha suscitato controversie in quanto lascerebbe pensare a un’attività della Zecca di Castro fino al 1564, smen-tita dal trasferimento dei maestri monetieri fin dal 1546. E’ ra-gionevole pensare allora a un errore del lapicida che avrebbe invertito le ultime due cifre. Cfr. contrucci 1999, p. 27. Di diversa opinione è foSSati 1998, p. 6.54 aimo - clementi 1971, pp. 59-61, 1988, pp. 34-35.55 aimo - clementi 1988, pp. 34-35, disegno U750Av.56 ibidem, pp. 34-35, disegno U297A.57 L’Hostaria, così come altri edifici di Castro, rimase incom-piuta e non si può escludere che per la sua facciata sia stata adottata una soluzione ancor più semplificata, proposta da un disegno attribuito a Francesco di Giuliano da Sangallo (U1958 A), per il quale cfr. fiore 1976, p. 87, fig. 1.58 aimo - clementi 1988, n 58: il Capitano Bartolomeo della Mirandola è chiamato ‘Colonnello’ nel Libro dei Contratti di Castro.59 E’ Antonio da Sangallo stesso a chiederne la realizzazione per ragioni di proporzioni, v. aimo - clementi 1971, pp. 59-60.60 aimo - clementi 1988, p. 35: nel XVII secolo la diminuzione della popolazione e l’aumento della guarnigione dei soldati fa-vorì questo mutamento.61 Molti elementi architettonici sono visibili nell’area della piazza, altri sono esposti nel Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro.62 La struttura e la destinazione degli ambienti del piano nobile si ricava dal disegno n° 742 degli Uffizi di Firenze. Cfr. aimo - clementi 1971, p. 60; giovannoni 1959, p. 200.63 Nel disegno del Sangallo U299A la tredicesima arcata del portico dell’Hostaria poggia sul Palazzo del Podestà che è co-steggiato da Via del Macello. Non si può escludere che questo edificio preesistente sia stato adattato alla nuova veste urbani-stica della piazza.64 aimo - clementi 1988, p. 35: Scaramuccia sostenne Pierluigi Farnese nel 1527.65 aimo - clementi 1971, p. 64, 1988, p. 36: il palazzo prende il nome dal suo proprietario Antonio de Cassis da Sassuolo, familiare di Pierluigi. Nel 1587 la sua casa divenne il Palazzo della Comunità (cfr. aimo - clementi 1988, n 72).66 Alcuni di questi elementi architettonici sono esposti nella sala rinascimentale del Museo di Ischia di Castro.67 aimo - clementi 1988, p. 36; gieSS 1981: è probabile che l’atrio costituisse un ulteriore ingresso al palazzo del Cavalier Sassuolo. L’arco cassettonato è stato in parte ricostruito nella sala rinascimentale del Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” di Ischia di Castro.68 aimo - clementi 1971, pp. 64-65, 1988, pp. 36-37. Giacomo Garonio era un sostenitore di Pierluigi Farnese fin dal 1527. 69 aimo - clementi 1971, p. 65: disegno n° 1684.70 aimo - clementi 1971, p. 65; foSSati 1998, p. 4.71 fiore 1976, pp. 85-87.72 Per le strutture difensive della città si veda fiore 1976, pp. 81-82; aimo - clementi 1988, pp. 27-33. Per quelle effettuate durante la prima guerra di Castro chiovelli 1993, pp. 155-172. I progetti del Sangallo furono attuati parzialmente e alcuni portati a termine da architetti estranei alla sua cerchia quali

Benedetto Zaccagni detto Torchiarino e Jacopo Meleghino.73 aimo - clementi 1988, pp. 29, 32: i lavori risultano in via di completamento nel 1562.74 aimo - clementi 1988, p. 30; fiore 1976, pp. 81-82.75 Intorno alla cattedrale vi erano due fossati artificiali che nel tempo furono colmati. Queste opere difensive, assegnabili a epoca precedente (aimo - clementi 1988, p. 10), secondo gar-dener mctaggart 1985 potrebbero essere una testimonianza degli interventi etruschi sull’impianto urbano della città.76 Questa data di per sé non esclude che l’edificio sia stato pre-ceduto da una chiesa più antica, e che sia stato costruito in forme nuove e maggiori in concomitanza con l’attribuzione del titolo di cattedrale. Alla fase più antica potrebbero essere riferiti i plutei di recinzione presbiterale reimpiegati nella fac-ciata. Si tratta di lastre di travertino con decorazione a nastro bisolcato databili al IX secolo, che tuttavia secondo alcuni stu-diosi potrebbero provenire da materiale di spolio della vicina città di Vulci. Cfr. raSpi Serra 1974, pp. 52-55.77 La consacrazione della cattedrale è ricordata da una iscrizio-ne celebrativa che era fissata sulla facciata e che attualmente si trova nella chiesa parrocchiale di Ischia di Castro. Cfr. aimo - clementi 1988, p. 10; nanni 2004, pp. 97-101.78 Il palazzo è stato parzialmente indagato e lascia supporre una povertà di impianto, determinata anche dal fatto che i vescovi nel tempo preferirono l’episcopio di Acquapendente perché più consono alle loro necessità.79 Incisione di A. Salminci del 1641, planimetria di C. Soldati del 1644. Cfr. aimo - clementi 1988, p. 14.80 Si tratta rispettivamente degli scavi archeologici condotti da Tadolini e da D’Ossat. Cfr. aimo - clementi 1988, gieSS 1981.81 Doveva misurare m 43,50 di lunghezza per m 23,30 di lar-ghezza, con un’altezza stimabile di m 14,50. Cfr. aimo - cle-menti 1988, p. 14.82 aimo - clementi 1988, pp. 10, 22: nel 1649 durante l’assedio della città il campanile fu utilizzato dal curato di S. Savino per colpire con spingarda gli assedianti. 83 aimo - clementi 1988, p. 16: questo pseudo loggiato misura m 1,85 di altezza. E’ attualmente conservato nella chiesa di S.Rocco a Ischia di Castro.84 aimo - clementi 1988, p. 16.85 raSpi Serra 1974, pp. 52-55: si tratta di lastre di travertino pertinenti alla recinzione presbiterale di una chiesa alto me-dioevale, caratterizzate dalla decorazione a treccia, a cerchi annodati, a foglie pendule o a rete. Attualmente sono conser-vate a Ischia di Castro nel Museo Civico Archeologico “P. e T. Lotti” e nella chiesa parrocchiale. 86 Tali elementi sono esposti nel Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro.87 aimo - clementi 1988, p. 12: nel libro dei Contratti di Castro relativi agli anni 1594-95 si riportano i contratti stipulati con vari artigiani che, sotto la direzione di Pompeo Pazzaghello, restaurarono il duomo di S. Savino.88 ibidem, p. 14.89 ibidem, p. 12: il restauro fu compiuto dal pittore bolognese Anton Maria Panico, allievo del Caracci.90 aimo - clementi 1988, pp. 11-12. Il vescovo Maccabei (1543-1568) decise di dare alla cattedrale un aspetto moderno, imbiancando le superfici scure e creando mediante stilatura l’effetto travertino, per adeguare la chiesa al rinnovamento edilizio voluto dalla famiglia Farnese; nanni 2004, pp. 73-80, 103-109.91 aimo - clementi 1988, p. 19: i Francescani, dopo la distru-zione del loro convento, effettuata per far posto a opere di-

125

fensive (1551), e il mancato completamento della nuova edifi-cazione a Prato Cotone, eressero il loro cenobio accanto a S. Maria (1571).92 Campagna di scavo luglio-agosto 1997, condotta dalla So-printendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale sotto la direzione scientifica del dott. Gazzetti.93 aimo - clementi 1988, p. 17: la chiesa di S. Maria è identifi-cabile con il n° 9 della planimetria del Soldati. Da quanto appare dalla mappa l’edificio sembrerebbe una mo-noaula di piccole dimensioni diversamente da quanto dimo-strato dallo scavo e dalle ripuliture.94 La porta immetteva probabilmente in un’area a giardino for-se utilizzata a scopo funerario.95 L’affresco descritto nella visita di mons. Caccia del 1603 si può identificare con quello trafugato da clandestini e recu-perato dall’Arma dei Carabinieri come proveniente dalla città di Castro; l’iscrizione invece si è deteriorata dopo il ritrova-mento.96 Alcune di queste ceramiche sono esposte nel Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro. Per le produzioni ceramiche di Castro si veda luzi 1987.97 zucchi 1630, p. 18; aimo - clementi 1988, p. 17; nanni 2004, pp. 42, 82-83.98 Interventi di ripulitura sono stati condotti nelle estati 2004-2005 dal GAR sotto la direzione scientifica del dott. G. Gazzetti in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Ar-chitettonici, Ambientali e Paesaggistici del Lazio.99 Il cippo è esposto nel lapidario del Museo Civico Archeolo-gico “P. e T. Lotti” di Ischia di Castro. Al momento del ritrova-mento l’iscrizione era completamente coperta da intonaco.100 Gli elementi ritrovati sono esposti nella sala rinascimentale del Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro.101 I Francescani erano già privi di sede nel 1551.102 Del Convento dei Frati Francescani a Prato Cotone riman-gono tre disegni di Antonio da Sangallo il Giovane agli Uffizi di Firenze. Dalla loro lettura è possibile seguire le modifiche operate dall’architetto per adattare la struttura al luogo e per adeguarla ai voleri di Pierluigi Farnese e dei frati. Cfr. aimo - clementi 1988, pp. 18-19; fiore 1976, p. 88.103 Nonostante la mancata attuazione del progetto il Convento di S. Francesco a Prato Cotone è regolarmente indicato nella planimetria del Soldati del 1641.104 aimo - clementi 1988, pp. 17-18; zucchi 1630, p. 18; gi-raldi 1600, p. 83.105 aimo - clementi 1988, p. 25 n 69: nel 1573 il vescovo F. Cittadini fu accusato di rapporti impropri nei confronti della badessa Elena Porzia Orsini, a causa dei quali papa Gregorio XIII istruì un processo e un’ispezione in città. Un’eco di que-sto episodio si trova nel romanzo di Stendhal “La badessa di Castro”. L’ex monastero fu utilizzato durante la prima guerra di Castro come deposito d’armi e munizioni.106 Si tratta di informazioni desumibili da testi (Zucchi) e da piante o riproduzioni (Soldati 1644, Salminci 1641). Cfr. aimo - clementi 1988, pp. 17, 19-21.107 Ranuccio I (1569-1622) nel 1592 subentrò nel governo dei ducati al padre, il duca Alessandro, (figlio a sua volta di Otta-vio), grande condottiero al servizio della Spagna che combatté a Lepanto e nelle Fiandre. Ranuccio, che non visitò mai Ca-stro, fu oggetto di una congiura sventata tempestivamente. V. galeotti 1972, p. 18.108 Paolo III morì nel 1549 e da allora alla famiglia Farnese mancò l’incondizionato appoggio dei pontefici successivi. 109 Odoardo (1612-1646) successe al padre Ranuccio I nel 1622. V. galeotti 1972, p. 19.

110 luzi 1986, p. 16; galeotti 1972, pp. 20-21: i Barberini era-no i maggiori creditori dei Farnese e miravano a sostituirsi a loro nella guida del Ducato.111 L’esportazione di merce senza il pagamento di dazi era un privilegio concesso al momento della fondazione del Ducato nel 1537. L’abolizione di questo privilegio unita al dirottamen-to del commercio per Viterbo sull’antico percorso della Cassia (attraverso Sutri e Vetralla) con esclusione della via Cimina, determinarono forti danni all’economia castrense. 112 luzi 1986, pp. 17-18; galeotti 1972, pp. 21-25; chiovelli 1994. Castro era difesa da 1200 soldati mentre le truppe pon-tificie, comandate da Luigi Mattei, potevano contare su 10000 uomini.113 luzi 1986, pp. 18-19: ogni centro del Ducato corrispondeva alla Camera Apostolica la sua quota per pagare i debiti con-tratti dai Farnese.114 chiovelli 1994, pp. 9-10: il trattato di Venezia, sottoscritto alla fine di marzo del 1644, prevedeva la demolizione di tutte le fortificazioni erette nel corso della guerra e la restituzione di tutti i castelli impropriamente occupati entro sessanta giorni dalla ratifica.115 Ranuccio II (1630-1649) successe al padre Odoardo all’età di sedici anni. Divenuto maggiorenne cercò di far fronte ai debiti con la vendita del Ducato di Castro alla Camera Aposto-lica, transazione iniziata ma mai conclusa. V. galeotti 1972, pp. 26-27; luzi 1986, p. 18.116 luzi 1986, pp. 18-21: Cristoforo Giarda fu nominato vesco-vo il 17 aprile 1648 e destinato a Castro. Fu consacrato il 18 maggio e sciolto dal voto di non accettare cariche ecclesiasti-che. Date le resistenze di Ranuccio II, dovute ai dissidi con Innocenzo X e alla pretesa di poter scegliere il vescovo, si recò di persona a Parma per rendere omaggio al duca ma non venne ricevuto. Inviò allora il suo canonico Grossi a prendere posses-so della sede, ma gli fu impedito di entrare in città. 117 luzi 1986, pp. 20-27; galeotti 1972, pp. 28-30.118 luzi 1986, pp. 30-55; galeotti 1972, pp. 30-33: le truppe inizialmente si acquartierarono in Valentano, la cui comunità fu costretta a provvedere al vettovagliamento.119 Il giornale della demolizione di Castro offre un dettagliato resoconto dell’attività di distruzione. Secondo gli storici In-nocenzo X fu spinto a questa decisione drastica dalla cognata Donna Olimpia Maidalchini, gelosa di un feudo così potente in mano a una famiglia rivale. Cfr. luzi 1986, pp. 30-55; galeot-ti 1972, p. 33; Stendardi 1993, pp. 147-155.120 Tale sistema di demolizione ha permesso il ritrovamento di blocchi unitari di muratura e nel caso della Zecca l’atterra-mento della facciata. 121 galeotti 1972, p. 35; aimo - clementi 1988, p. 19: furo-no trasferite ad Acquapendente anche due campane di Castro, mentre altre due furono portate a Roma nella chiesa di S. Agnese a piazza Navona.122 biondi 1993, p. 79: non si può escludere che anche prima della formazione del Ducato vi fossero ebrei in città, ma certa-mente essi emigrarono in seguito al sacco del 1527.123 ibidem, pp. 79-113.124 Sabatullo grazie alla sua attività di prestatore era riusci-to a possedere parte della farmacia-spezieria della città e 4 case, segno evidente che a Castro non furono applicate le di-sposizioni emanate da Paolo IV contro gli Ebrei nel 1555, che prescrivevano l’istituzione dei ghetti e vietavano agli Ebrei di possedere beni stabili e di commerciare prodotti agricoli. V. biondi 1993, p. 82.125 Le bolle di Paolo IV, Pio V, Clemente VIII, Paolo V, cfr. biondi 1993, pp. 82-87; mancini 2003, pp. 4-13.

126

BIBLIOGRAFIA

aimo p.-clementi r. 1971, “La Piazza di Castro”, in Bollettino della Società

Storica Maremmana, 23, pp. 51-66.1973, “Castro”, in Archeologia, X, 4/5, pp. 25-40.1988, “Castro: struttura urbana e architetture dal Me-

dioevo alla sua distruzione”, in Quaderni dell’Istitu-to di Storia dell’Architettura, 11, pp. 5-50.

apollonJ ghetti b. m. 1985, “Considerazioni introduttive allo studio delle

sopravvivenze farnesiane nella Tuscia”, in I Farnese dalla Tuscia Romana alle corti d’Europa, Viterbo, pp. 15-27.

baffioni G.1968, “Annibal Caro e la città di Castro”, Roma.

baffioni G. – mattiangeli P. - lotti T.1981, “Dominici Angeli castrensis de depredatione Ca-

strensium et suae patriae Historia”, Roma.

biondi a. 1993, “Banchieri e Mercanti ebrei a Castro nel periodo

del ducato Farnesiano (1547-1649)”, in “La dimensio-ne europea dei Farnese” Bulletin de l’Institut Histo-rique Belge a Rome,(LXIII), pp. 79-113.

caliSSe C. 1894, “Documenti del monastero di S. Salvatore sul

Monte Amiata riguardanti il territorio romano (secc. VIII-XII), in Archivio della Real Società Romana di Storia Patria, XVII (1894), pp. 95-195.

carta = carta dei luoghi fortificati del lazio

1985, Roma.

catalano m.1985, “Giardini storici del Lazio in epoca farnesiana:

aspetti botanici di conservazione e restauro del verde storico”, in I Farnese dalla Tuscia Romana alle corti d’Europa, Viterbo, pp. 29-36.

chiovelli r. 1993, “Cronologia della prima guerra di Castro

(1641-1644) nelle Carte Barberini presso la Biblioteca Vaticana”, (a cura di) in Biblioteca e Società (20).

1993a, “Ingegneri e opere militari”, in Bulletin de l’Insti-tut Historique Belge de Rome,(63), pp. 155-192.

clementi r. 1986, “Il progetto della Porta Lamberta a Castro”, in

“Antonio da Sangallo il Giovane – la vita e l’opera” Atti del XXII Congresso di teoria dell’Architettura,

Roma, pp. 373-381.1992, “Castro: città fortezza farnesiana progettata da

Antonio da Sangallo”, in Il Banditore, VII, n. 5, pp. 15-18.

C.d.a. = Codex diplomatiCus amiatinus

1982, kurze W. (a cura di), 4 voll., Tübingen. conti S.1980, “Le sedi umane abbandonate nel patrimonio di S.

Pietro”, Firenze. contrucci g.1999, “Le monete del Ducato di Castro”,

Acquapendente.

filippi S. – lotti p.l.1978, “Documenti sullo stato di Castro”, in Storia della

città, (7), Milano.

fiore f. p.1976, “Castro capitale farnesiana (1537-1649): un pro-

gramma di «instauratio» urbana”, in Quaderni dell’Isti-tuto di Storia dell’Architettura, Roma, pp. 75-94.

foSSati p. m. 1998, “Una Zecca per un nuovo Ducato: Castro”, in Bi-

blioteca e Società, (30).

galeotti r. 1972, “Il Ducato di Castro e le sue milizie”, Roma.

gardener mctaggart h.1985, “Castro Eine Ortswüstung in Tuszien. Archäo-

logische Feldforschungen in einer mittelalterlichen Stadtruine in Italien”, Oxford.

gavelli g.1983, “La città di Castro e Antonio da Sangallo”, Ischia

di Castro.2007, “La città di Castro e Antonio da Sangallo”, (ristam-

pa) Acquapendente

ghezzi m.1610, “Discorso sopra la salubrità dell’aria di Castro”, in

baffioni G. – mattiangeli P. - lotti T (a cura di), Do-minici Angeli castrensis de depredatione Castrensium et suae patriae Historia, Roma, pp. 92-102.

gieSS h. 1978, “Die Stadt Castro und die plane von Antonio da

Sangallo dem Jungeren”, in Romisches Jahrbrech fur kunstgeschichte, I, pp. 46-88.

1981, “Die Stadt Castro und die plane von Antonio da Sangallo dem Jungeren”, in Romisches Jahrbrech fur kunstgeschichte, II, pp. 86-140.

127

giovannoni G.1959, “Antonio da Sangallo il Giovane”, Roma.

giraldi f.1600, “Copia dell’Informatione et discorsi dello sta-

to di Castro”, in baffioni G. – mattiangeli P. - lotti T (a cura di) , Dominici Angeli castrensis de depreda-tione Castrensium et suae patriae Historia, Roma, pp. 80-85.

l.p. = libeR pontifiCalis

1981, ducheSne L. (texte, introduction et commentaire par l’Abbé), 3 voll., ristampa Paris.

luzi R.1986, “L’inedito giornale dell’assedio, presa e demolizio-

ne di Castro (1649)”, Valentano.1987, “La produzione della ceramica ad ingobbio nella

distrutta città di Castro”, Rimini.

mancini b. 2003, “Le comunità ebraiche nelle terre di rifugio del Pa-

trimonio tra XVI e XVII secolo”, in Biblioteca e Socie-tà, pp. 4-13.

mezzetti p. – montuori n.a.1967, “La città di Castro – Relazione storica”, in Bolletti-

no della Società Storica maremmana, (16), Grosseto.

pellegri m.1977, “Castro le sue rovine e l’opera del Sangallo”,

estratto da Archivio Storico delle province Parmensi, (29), Parma.

polidori e. ramacci m.g.1976, “Fonti e documenti per la storia di Castro”, in Sto-

ria della città, (1), Milano.

raSpi Serra J.1974, “Le diocesi dell’alto Lazio, Bagnoregio- Bomarzo-

Castro- Civita Castellana- Nepi- Orte- Sutri- Tuscania”, Corpus della scultura altomedievale, VIII, Spoleto.

1976, “Insediamenti rupestri religiosi nella Tuscia”, Mé-langes de l’École Française de Rome, Moyen Age, 88 (1976), 1, pp. 27-156.

1987, “Economia e territorio. Il patrimonium Beati Petri nella Tuscia”, in collaborazione con laganaro fabia-no C., Napoli.

Salvadori S. – violanti f.1970, “Castro e la cultura urbanistica del Rinascimento”,

estratto da Necropoli, (9/10; 11/12).

SiSi e. 1958, “Castro città scomparsa progettata e costruita

da Antonio da Sangallo il Giovane”, estratto da Ur-banistica, (23).

Stendardi E.1993, “Memorie storiche della distrutta città di Castro”,

Grotte di Castro.

Stendhal h.B.1972, “La badessa di Castro”, Torino. tabarrini c.2004, “Antonio da Sangallo il Giovane «Per il duca

di Castro»”, in Biblioteca e Società, Viterbo, giugno 2004.

2007, “Antonio da Sangallo il Giovane - Disegni per Castro del Duca di Castro”, Bolsena.

tadolini S.1961, “Una città ritrovata: Castro di Antonio da San-

gallo”, in Atti dell’Accademia Nazionale di S. Luca, Roma.

zanetti g. a. 1789, “Nuova raccolta delle Monete e Zecche d’Italia”,

voll. I-XI, Bologna, 1779-1789.

zucchi b.1630, “Informazione e cronica della città di Castro”, in

baffioni G. – mattiangeli P. - lotti T (a cura di) , Dominici Angeli castrensis de depredatione Castren-sium et suae patriae Historia, Roma, pp. 103-115.

INDICE

PREFAZIONI ALLA COLLANA DEI “QUADERNI” ......................................................... IIIgiulia rodano, Assessore Regionale alla Cultura Spettacolo e Sportpietro tamburini, Coordinatore del Sistema museale del lago di Bolsena

INTRODUZIONE ................................................................................................................... 1anna laura, Direttore del Museo

1. IL PALEOLITICO E IL NEOLITICO NEL TERRITORIO DI ISChIA DI CASTRO ..... 3 (Giuditta Gatteschi)

1.1. il paleolitico nella grotta delle Settecannelle..................................................... 5 1.1.1. L’ambiente 1.1.2. La fauna 1.1.3. L’industria litica 1.1.4. L’arte mobiliare 1.2. il neolitico ............................................................................................................... 14 1.2.1 la ceramica a Settecannelle

1.2.2. reSti umani e Strutture cultuali a Settecannelle

2. LE EVIDENZE DELL’ETà DEI METALLI NEL TERRITORIO COMUNALE DI ISChIA DI CASTRO (Fabio Rossi) ............................................................................. 23

2.1. eneolitico .................................................................................................................. 242.2. età del bronzo ......................................................................................................... 28 2.2.1. Antica Età del Bronzo (circa 2300 – 1700 a.C.) 2.2.2. Età del Bronzo Medio (circa 1700 – 1350 a.C.) 2.2.3. Età del Bronzo Recente (circa 1350 – 1200 a.C.) 2.2.4. Età del Bronzo Finale (circa 1200 – 1000 a.C.) 2.3. età del ferro ........................................................................................................... 33

3. NECROPOLI ETRUSChE DI CASTRO (Paola Toiati).................................................... 393.1. tomba dei bronzi ....................................................................................................... 413.2. tomba della biga ...................................................................................................... 433.4. tomba delle travi o del principe maSSimo ............................................................. 433.5. tomba del tetto diSluviato ...................................................................................... 43

4. LA VILLA ROMANA DELLA SELVICCIOLA (Paola Toiati) ........................................ 47

5. IL PERIODO LONGOBARDO (Maria Vittoria Patera) 5.1. la preSenza longobarda nell’alto lazio ............................................................... 555.2. i longobardi nel territorio di caStro .................................................................... 575.3. l’inSediamento alto medioevale della Selvicciola ................................................. 585.4. le Strutture abitative e l’edificio di culto ............................................................. 595.5. l’area Sepolcrale ..................................................................................................... 605.6. gli elementi di corredo ........................................................................................... 625.8. la Sede epiScopale .................................................................................................... 66

6. INSEDIAMENTI MONASTICI MEDIEVALI. L’EREMO DI POGGIO CONTE (Anna Laura) ................................................................ 75

7. CASTRO IN ETà MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE (Maria Vittoria Patera)7.1. l’aSSetto urbano ...................................................................................................... 1097.2. i farneSe e il ducato di caStro ............................................................................... 1117.3. la riStrutturazione urbaniStica ............................................................................. 1127.4. gli edifici religioSi .................................................................................................. 1177.5. la fine del ducato .................................................................................................... 121

Copertina e impaginazioneGraphisphaera - Acquapendente (VT)

Finito di stampare nel mese di Aprile 2008dalla Tipolitografia Ambrosini - Acquapendente (VT)

a cura diAnna Laura

Il MuseoCivico

Archeologico“Pietro

e Turiddo Lotti”di Ischia di Castro

Itinerario storico

2008

Quaderni9

9

Il Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” di Ischia di Castro

Quaderni

Sistema Museale del Lago di Bolsena

Comune di Ischia di CastroProvincia di ViterboRegione LazioUnione Europea

ISBN: 978-88-95066-08-0

Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti”