Sintesi del libro del corso DI VITTORIO

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Dall’espansione allo sviluppo. Una Storia Economica dell’Europa pag. 1 DALL’ESPANSIONE ALLO SVILUPPO. UNA STORIA ECONOMICA DELL’EUROPA 1. TRA ESPANSIONE E SVILUPPO ECONOMICO NELL’EUROPA DEL XVIII SECOLO 1.1 NUOVE PROSPETTIVE SULLA MODERNIZZAZIONE ECONOMICA E LE MOLTE STRADE PERCORSE DALL’EUROPA VERSO IL XX SECOLO Secolo identificato con l’Illuminismo, guerra di indipendenza usa, rivoluzione francese e crisi delle monarchie europee dell’ancien regime. Per gli economisti, il secolo è studiato in funzione delle rivoluzioni industriali che nel secolo successivo trasformeranno le economie prima europee poi mondiali. Il primo paradigma era quella del “modello unico di modernizzazione” della Gran Bretagna di fine XVIII secolo e poi imitato da tutti i paesi che riuscirono ad industrializzarsi nel XIX secolo, reso famoso dallo studio di Rostow sulla prima rivoluzione industriale in Inghilterra (Stages of Economic Growth, 1960), nel quale questa viene considerata come la base empirica per un modello generale di sviluppo economico moderno applicabile a tutte le economie di ogni luogo e tempo e l’industrializzazione è il momento definitivo della trasformazione economica dal premoderno al moderno, definito dalla metafora del decollo (take-off) verso una crescita economica autosostenuta , evento epocale e fondamentale nella storia del mondo ottenuto grazie alla tecnologia ed ai macchinari. Nel corso della prima metà del 900 l’industrializzazione europea era stata studiata secondo il modello diffusivo del caso inglese, come risultato cioè del cammino di sviluppo dei followers nei confronti del first mover, i quali semplicemente impiegavano le nuove tecnologie disponibili importandole. Nuove interpretazioni mostrano come le differenti economie europee percorsero un cammino difficile e doloroso in una varietà di modi e velocità. Il decollo in Inghilterra è il risultato (l’apice) di una serie di precedenti cambiamenti e rivoluzioni che ne costituirono le precondizioni economiche, istituzionali e culturali: Rivoluzione agricola , incremento produttività (nuovi metodi di coltura, rotazioni di nuove colture, nuove forme di amministrazione agricola), liberazione di manodopera. Rivoluzione demografica : incrementa la manodopera e la domanda. Rivoluzione dei trasporti : mobilità, espansione del commercio locale ed interregionale. Rivoluzione nel credito : nuove istituzioni bancarie, flussi di investimento. Rivoluzione commerciale : nuova ricchezza, attitudini imprenditoriali, modelli di domanda e di consumo, frontiere del commercio più ampie. Per Rostow il capitalismo industriale era il prodotto di una impresa libera, che era stata capace di far leva sulla tecnologia mentre tra gli oppositori, Karl Marx & marxisti non interpretano diversamente sottolineando il carattere di sfruttamento che caratterizza il capitalismo borghese, la ricchezza dei ricchi deriva dallo sfruttamento dei poveri. Una debolezza centrale del modello unico è la difficoltà di misurare o datare il momento preciso del decollo nei diversi paesi: i critici insistono sul fatto che i modelli di sviluppo moderno sono stati diversi per ogni paese, presentano continuità col passato. Le rivoluzioni industriali vengono quindi considerate come processi più ampi di cambiamento economico, dove l’insediamento dei primi settori industriali è sia conseguenza che causa di profondi

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Dall’espansione allo sviluppo.

Una Storia Economica dell’Europa pag. 1

DALL’ESPANSIONE ALLO SVILUPPO. UNA STORIA ECONOMICA DELL’EUROPA

1. TRA ESPANSIONE E SVILUPPO ECONOMICO NELL’EUROPA DEL XVIII SECOLO 1.1 NUOVE PROSPETTIVE SULLA MODERNIZZAZIONE ECONOMICA E LE MOLTE STRADE PERCORSE DALL’EUROPA VERSO IL XX SECOLO Secolo identificato con l’Illuminismo, guerra di indipendenza usa, rivoluzione francese e crisi delle monarchie europee dell’ancien regime. Per gli economisti, il secolo è studiato in funzione delle rivoluzioni industriali che nel secolo successivo trasformeranno le economie prima europee poi mondiali. Il primo paradigma era quella del “modello unico di modernizzazione” della Gran Bretagna di fine XVIII secolo e poi imitato da tutti i paesi che riuscirono ad industrializzarsi nel XIX secolo, reso famoso dallo studio di Rostow sulla prima rivoluzione industriale in Inghilterra (Stages of Economic Growth, 1960), nel quale questa viene considerata come la base empirica per un modello generale di sviluppo economico moderno applicabile a tutte le economie di ogni luogo e tempo e l’industrializzazione è il momento definitivo della trasformazione economica dal premoderno al moderno, definito dalla metafora del decollo (take-off) verso una crescita economica autosostenuta, evento epocale e fondamentale nella storia del mondo ottenuto grazie alla tecnologia ed ai macchinari. Nel corso della prima metà del 900 l’industrializzazione europea era stata studiata secondo il modello diffusivo del caso inglese, come risultato cioè del cammino di sviluppo dei followers nei confronti del first mover, i quali semplicemente impiegavano le nuove tecnologie disponibili importandole. Nuove interpretazioni mostrano come le differenti economie europee percorsero un cammino difficile e doloroso in una varietà di modi e velocità. Il decollo in Inghilterra è il risultato (l’apice) di una serie di precedenti cambiamenti e rivoluzioni che ne costituirono le precondizioni economiche, istituzionali e culturali: Rivoluzione agricola, incremento produttività (nuovi metodi di coltura, rotazioni di nuove colture, nuove forme di amministrazione agricola), liberazione di manodopera. Rivoluzione demografica: incrementa la manodopera e la domanda. Rivoluzione dei trasporti: mobilità, espansione del commercio locale ed interregionale. Rivoluzione nel credito: nuove istituzioni bancarie, flussi di investimento. Rivoluzione commerciale: nuova ricchezza, attitudini imprenditoriali, modelli di domanda e di consumo, frontiere del commercio più ampie. Per Rostow il capitalismo industriale era il prodotto di una impresa libera, che era stata capace di far leva sulla tecnologia mentre tra gli oppositori, Karl Marx & marxisti non interpretano diversamente sottolineando il carattere di sfruttamento che caratterizza il capitalismo borghese, la ricchezza dei ricchi deriva dallo sfruttamento dei poveri. Una debolezza centrale del modello unico è la difficoltà di misurare o datare il momento preciso del decollo nei diversi paesi: i critici insistono sul fatto che i modelli di sviluppo moderno sono stati diversi per ogni paese, presentano continuità col passato. Le rivoluzioni industriali vengono quindi considerate come processi più ampi di cambiamento economico, dove l’insediamento dei primi settori industriali è sia conseguenza che causa di profondi

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cambiamenti strutturali e l’industrializzazione non è più vista come l’inevitabile apice di tutte le precedenti forme di crescita, ma come qualcosa di radicato nelle circostanze e contesti dell’Inghilterra. L’interpretazione sociologica dell’industrializzazione precoce inglese non convince perché: - non esistono ancora società nazionali, né economie nazionali (sono il prodotto del moderno sviluppo economico XIX secolo) ma piuttosto regionali, - gli attributi sociali e culturali attribuiti esclusivamente agli inglesi erano invece riscontrabili in molte parti dell’Europa, - Francia e Belgio stavano sperimentando forme di crescita economica altrettanto dinamiche, anzi sembra che le innovazioni tecnologiche dell’economia inglese fossero state stimolate dalla necessità di stare al passo. Il cambiamento di prospettiva sta nel liberare la storia economica del XVIII secolo dall’ombra delle rivoluzioni industriali, mettendo in luce cambiamenti propri di questo secolo nelle relazioni economiche tra l’Europa ed il resto del mondo: nascono le basi di una economia mondiale, conseguenza dei cambiamenti nelle economie europee e dell’espansione economica europea nel mondo noneuropeo. 1.2 LO SVILUPPO ECONOMICO EUROPEO NEL XVIII SECOLO: I TEMI CENTRALI Il secolo è uno spartiacque per il passaggio dall’ Europa medievale a quella moderna e contemporanea. Il processo centrale è la CRISI E COLLASSO DELLA STRUTTURA ISTITUZIONALE, CULTURALE, POLITICA ED ECONOMICA DELL’ANCIENT REGIME (termine introdotto dopo la rivoluzione francese del 1789 per descrivere il periodo dell’ignoranza e della superstizione precedente all’Illuminismo). La rivoluzione francese costituì una rottura col passato minore di quanto sembrò, trovando infatti le sue radici nella grande rivoluzione scientifica del secolo precedente, e mostrando i segni del nuovo cosmopolitismo che portò gli europei a contatto gli uni con gli altri, ed il vecchio mondo europeo in più stretto contatto sia con l’Oriente che con il nuovo mondo. Il secolo non fu realmente il periodo dell’Illiminismo, i cui assertori erano in minoranza. La storia economica europea del XVIII secolo fu contraddistinta da una nuova fase di espansione coloniale, continuazione di un più antico processo, che portò gli europei non solo in nordamerica ma anche verso est ed in particolare nel subcontinente indiano. Continuano quindi le lotte di rivalità tra i colonizzatori, in particolare Francia, Spagna e Gran Bretagna per l’egemonia navale e commerciale sia in Atlantico che in India, attenuandosi dopo la metà del secolo e creando nuove possibilità per il commercio e per la produzione. Le “periferie” europee (termine introdotto da Wallerstein per indicare Stati germanici, Europa orientale e centrale, Europa mediterranea), erano coinvolte non meno dei “centri” nei nuovi processi di trasformazione economica. Anzi, nell’Europa rurale l’aumento della domanda di prodotti agricoli ed i nuovi incentivi alla produzione produssero sconvolgimenti molto prima delle rivoluzioni industriali. Nuove realtà europee, indicatori di processi di cambiamento che diedero un’unità tematica alla storia economica europea: GRAND TOUR, itinerario per riscoprire i luoghi dell’antichità intrapreso da un numero sempre crescente di benestanti europei settentrionali (inglesi, francesi poi anche scandinavi, tedeschi, russi), viaggio d’istruzione che manifestò le prime nuove forme di ricchezza (la capacità di viaggiare, panorama nascente di cultura consumistica), e con l’avanzare del secolo il retroterra sociale si allarga. I viaggi sono resi possibili anche dalla cresciuta stabilità politica del continente europeo, e sono parte di un processo più ampio di esplorazione e scoperta all’interno del continente, opera dei governanti,

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responsabili dei primi tentativi di riorganizzazione amministrativa secondo il principio Illuminista che la P.A. dovesse basarsi sui principi della ragione. La premessa è che il governo razionale è possibile solo quando la P.A. possiede una conoscenza accurata delle condizioni della società, dell’agricoltura, commercio e dei produttori: i governi cominciarono a raccogliere e comprare dati ed informazioni su scala senza precedenti (aiutati dalla nuova scienza della statistica). Tra i principi riconosciuti c’è quello della forza creativa della libera impresa, per la quale serviva la rimozione delle tradizionali restrizioni che ostacolavano l’uso della terra come proprietà privata (diritti feudali) e dei privilegi e monopoli corporativi (tasse sul commercio interno), avvenuta solo nel 1800. 1.3 L’EUROPA AGRARIA Nel XIX secolo la schiacciante maggioranza degli europei era occupata nell’agricoltura, la produzione serviva a soddisfare il fabbisogno delle famiglie dei contadini e dei proprietari, i raccolti erano scarsi e gli agricoltori vulnerabili ai disastri naturali e metereologici e nessun surplus veniva distribuito nel mercato, Le regioni più orientate al commercio erano: Germania orientale e Polonia (cereali), Francia settentrionale. In Olanda, nei polders, si praticava agricoltura mista intensiva (arativa, casearia ed allevamento) per il commercio, come anche nelle Fiandre (paesi bassi meridionali). Ricco e fertile anche il complesso di terre irrigate nella bassa Lombardia a sud del Po. I metodi di coltivazione non cambiarono di molto lungo il secolo, ed anche cambiamenti semplici (aratri migliori, falci con forme diverse) portarono una maggiore produttività. Quando verso la metà del secolo i prezzi salirono, incoraggiarono un aumento della produzione, ottenuta principalmente aumentando la superficie coltivata o adottando colture più abbondanti e affidabili come la patata ed il granoturco. I prezzi furono però pellagra (alimentazione basata esclusivamente sul granoturco, deficienza di vitamine), distruzione dei terreni boschivi con problemi di erosione del suolo, e usurpazione delle common lands, da cui dipendeva il sostentamento di molte comunità rurali. La geografia economica era un mosaico di sistemi commerciali locali, regionali ed interregionali, e raramente coincideva con la geografia politica: In Francia coesistevano 3 sistemi distinti (meridionale mediterraneo, settentrionale manufatturiero, occidentale atlantico), in Spagna Cadice e Siviglia si contendevano il primato del commercio con le Americhe, la Catalogna aveva vocazione mediterranea e l’entroterra circuiti più chiusi e frammentati. I territori della monarchia asburgica avevano coesione persino minore. La geografia tagliò anche molte regioni da tutti i contatti, come le comunità montane oppure in pianura per la mancanza di strade percorribili o per il costo troppo alto dei trasporti di merci (per ovviare agli alti prezzi scozzesi ed irlandesi decisero di distillare il grano per farne whisky). I fiumi ed il mare erano la rete di comunicazione più veloce e sicura: Bologna per esempio rimase un’importante esportatrice di seta grazie alla sua vicinanza al Po. Tra i privilegi urbani che subordinavano gli interessi dei produttori rurali a quelli dei consumatori urbani, c’erano le associazioni e corporazioni che avevano il diritto di comprare a prezzi fissi merci di prima necessità, mentre severi controlli sulle manifatture stavano a significare che le città godevano di monopolio su molte forme di produzione artigianale.

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È il periodo in cui nasce la povertà urbana: le città sono un magnete per gente in cerca di lavoro e cibo dalle aree rurali soprattutto durante periodi di carestia o mancanza di raccolti. I governanti costruirono in risposta case per i poveri (monumenti alla benevolenza), sollecitati dai riformatori a colpire invece il problema alla radice eliminando i privilegi ed i vincoli interni al commercio tipici dell’ancient regime, denunciando anche i vincoli imposti all’agricoltura da privilegi feudali e consuetudinari, e della proprietà privata della terra e premondo per la liberalizzazione del commercio interno, specie per le merci di prima necessità, logica accettata nel 1754 dalla monarchia francese che emise i primi decreti in questo senso, lasciando comunque insoluti molti ostacoli. In alcuni Paesi il feudalesimo sopravviveva sottoforma di tasse, mentre in Europa continentale gran parte della popolazione era ancora soggetta alle istituzioni della schiavitù del feudalesimo: la Polonia e l’Europa dell’Est offrono un caso di tardiva reazione feudale, dove i proprietari terrieri, per compensare l’impatto della caduta dei prezzi di esportazione dei cereali, avevano aumentato gli obblighi delle esazioni feudali. Questa tardiva servitù della gleba assecondò la crescente domanda di importazione di cereali dell’Inghilterra. Gli Illuministi perdendo di vista il fatto che il feudalesimo agrario era nato per bilanciare e riconciliare i differenti interessi economici e sociali della società rurale, il termine per loro arrivò a simboleggiare tutti i difetti dell’ancient regime europeo. Ogni proprietà feudale era invece soggetta ad una varietà di usi collettivi ma sono i crescienti interessi commerciali che spingono i proprietari terrieri ad espropriare la terra pubblica (common lands). Uno dei segnali di cambiamento più critici delle economie rurali del XVIII fu la crescita costante della terra privata a spese degli usi collettivo. Per i riformatori, qualsiasi uso collettivo delle proprietà era offensivo, perché violava il principio dei diritti di proprietà. Il processo di privatizzazione mise in conflitto gli interessi ma mutò anche un delicato equilibrio ecologico: le pecore, passando stagionalmente per i terreni, li fertilizzavano. Questo processo si era sviluppato precocemente in Inghilterra verso la metà del XVII secolo, e fu mantenuto durante il secolo successivo incoraggiato dalla crescente domanda commerciale di prodotti e dallo sviluppo di nuovi principi di coltivazione e di conduzione aziendale. In questo contesto, la classe di contadini piccoli proprietari terrieri viene rimpiazzata da una classe più danarosa di fittavoli, e da lavoratori agricoli non proprietari, che dipendevano dai salari guadagnati nelle fattorie. La mancanza di un’ampia classe di agricoltori contadini, insieme alla nascita dell’agricoltura intensiva (sviluppo di vaste aziende agricole affidate ad amministratori professionisti per massimizzare la produzione per il mercato) sono le caratteristiche peculiare dell’agricoltura inglese del XVIII secolo, processo che porta alla ristrutturazione della società rurale, con una classe più stabile di fittavoli che rimpiazza le proprietà contadine più precarie, dove il surplus di popolazione si muoveva verso le città, che si andavo rapidamente espandendo. In questo contesto (come nella Repubblica Olandese) dove i proprietari terrieri erano meno legati o dipendenti dalla terra di quanto lo fosse la classe contadina, ma più liberi di farne l’uso che volevano, i nuovi metodi di coltivazione sono intordotti più facilmente che altrove. Sono i primi segnali di un’agricoltura capitalista. Anche per l’agricoltura l’Europa del XIX secolo fu un mosaico di realtà regionali contrastanti ed i divari che separavano le regioni con produttività più intensive dal resto erano crescenti, si iniziava a far sentire l’impatto crescente di una economia di mercato. 1.4 L’ENIGMA DEL XVIII SECOLO: LA RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA

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La rottura con tutti i precedenti modelli di sviluppo demografico, fu la causa della nuova domanda che incoraggiava la produzione destinata al commercio nell’Europa rurale. Durante la prima metà del secolo i prezzi dei cereali continuarono a cadere nonostante la rapida ripresa dei livelli di popolazione dopo la crisi del secolo precedente: la produzione raggiunta con i metodi intensivi, superava la domanda. La popolazione dell’Europa moderna stava seguendo il cosiddetto grafico a sega: appena la popolazione cominciava a crescere si verificavano crisi di sussistenza, carestie, malattie e morte. Nel XVIII secolo invece vi furono crisi, ma la ripresa fu sempre rapida e la lunga curva di espansione le cui cause sono sconosciute rimase ininterrotta. La mortalità infantile rimase alta e la morte era una relatà sempre presente anche per gli europei più agiati, in particolare se bambini. I nuovi modelli di espansione si spiegano in termini di grappoli di differenti sviluppi che concernevano diverse regioni in tempi ed intensità differenti come l’apparente scomparsa delle grandi epidemie (XVII peste, XIX colera), non certamente dovuta al miglioramento dell’igiene e della medicina il cui impatto sull’aspettativa di vita rimase trascurabile fino ai primi del XIX secolo). La più probabile spiegazione dell’espansione è la tendenza a matrimoni precoci, e perciò a più alti tassi di natalità tra le classi intermedie. 1.5 LA CRESCITA DEL COMMERCIO Interno L’Europa del XVIII secolo vide una continua espansione del commercio locale ed interregionale. Le aziende agricole dovevano soddisfare i bisogni di un numero crescente di persone non occupate nell’agricoltura che viveva nelle città l’impulso alla crescita economica era quasi direttamente proporzionale alla vitalità dei centri urbani. Negli Stati Germanici solo due città, Berlino ed Amburgo, avevano una popolazione superiore ai 100.000 abitanti, e meno del 4% della popolazione della monarchia asburgica viveva in centri con più di 10.000 abitanti. In Italia l’espansione demografica si concentrò nei centri rurali, con l’eccezione di Milano. Al sud Napoli primeggiava con 400.000 abitanti a metà del secolo. I tassi più veloci di espansione si ebbero in quelle regioni dove la crescita economica era più dinamica: i paesi Bassi meridionali, la Repubblica Olandese, molte regioni francesi, la bassa Renania, il Regno Unito. Molti governi cercarono di promuovere il commercio migliorando la rete di trasporti, come i canali in Francia. In Gran Bretagna si sviluppò un sistema per attrarre gli investimenti privati nella costruzione di strade, con il recupero dei costi mediante il pedaggio sul traffico. Per la maggior parte delle regioni europee comunque i mercati locali rimangono isolati fino all’epoca delle ferrovie, e la cresciente domanda commerciale privilegia i circuiti favoriti da condizioni geografiche, con l’accesso a porti marittimi o a corsi d’acqua navigabili. Fu per mare infatti che crescienti quantità di prodotti e materie prime cominciarono ad avviarsi ai mercati stranieri: le piccole imbarcazioni costiere che dal baltico al mediterraneo convogliarono vaste gamme di merci, furono spesso l’unico mezzo mediante il quale i produttori locali potevano raggiungere i mercati extraregionali. Il commercio su lunghe distanze costituì una percentuale del commercio europeo molto minore di quello svolto dal più modesto naviglio costiero. Queste attività costituirono inoltre il fondamento per la comparsa di numerosi porti che offrivano una base ai gruppi di mercanti.

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Il commercio internazionale Fino al 1800 la grande massa del commercio europeo avveniva all’interno dei confini europei, anche se l’espansione del commercio transatlantico fu un sorprendente indicatore della vitalità dell’espansione economica europea, e diede un contributo essenziale al processo di accumulazione di capitale che rese possibile la successiva espansione economica e l’industrializzazione dell’Europa (Immanuel Wallerstein sostiene che le grandi scoperte del XV secolo diedero vita ad un sistema economico mondiale il cui asse originario era l’Impero spagnolo, che mise insieme il vecchio ed il nuovo continente). Alla fine del XVII secolo il commercio non-europeo incideva meno del 10% sul giro d’affari commerciale londinese, in rapida crescita, e su quello di Amsterdam. Nel 1720, quando il commercio atlantico andava a gonfie vele, le esportazioni inglesi verso le colonie americane incidevano per meno del 50% sul valore delle esportazioni nel mediterraneo. Queste colonie offrivano ai mercanti europei preziose materie prime ma poche opportunità commerciali. All’inizio del XVIII secolo le nuove colonie europee oltreoceano erano ancora limitate alla costa atlantica, penetrando nell’entroterra sono in presenza di corsi d’acqua navigabili, come in Canada o nel New England. Fino ad allora infatti, “ né la Spagna né alcun’altra potenza europea aveva risorse e manodopera necessarie per la monopolizzazione dei vasti territori del Nuovo Mondo” (Fernand Braudel). Nelle due Carolina, nel Maryland, Georgia e Louisiana e più a sud nei Caraibi e nel Sud America, l’Inghilterra, la Repubblica Olandese, la Francia e la Spagna si contesero per tutto il secolo una posizione vantaggiosa, sviluppando economie da piantagioni per la coltivazione del tabacco, sul modello delle piantagioni di canna da zucchero nei Caraibi. Gli Olandesi primeggiavano sul trasporto marittimo grazie alle capacità tecniche della loro Fluitship, che trasportava grossi carichi più velocemente delle concorrenti. Nella seconda metà del XVII secolo la flotta olandese eguagliava in tonnellaggio le flotte mercantili dell’Inghilterra, Portogallo, Francia, Spagna e Germania messe insieme. I produttori fornivano inoltre merci più competitive: nel 1700 Amsterdam era la città commerciale ed il centro finanziario più importante al mondo. Alla fine del XVII britannici e francesi cominciarono a soppiantare gli olandesi nel commercio con il nord America: entrambi i paesi avevano adottato una legislazione monopolistica per escludere gli stranieri dal proprio commercio coloniale. L’economia olandese iniziava a perdere slancio, i centri manufatturieri non riuscirono ad adattarsi alla domanda del XVIII secolo di stoffe più leggere, e i pesanti costi di prosciugamento delle terre causarono problemi inflazionistici. Il caso olandese mostra come la vitalità dell’economia interna fosse una condizione essenziale per l’espansione del commercio internazionale, così come il caso spagnolo, che vede la prosperità di Cadice, che dal 1717 controllava il monopolio del commercio spagnolo con le sue colonie americane e caraibiche e per tutto il secolo si arricchì diventando la prima città spagnola, scomparire quando la guerra con la Gran Bretagna privò la Spagna delle sue colonie il commercio non aveva agito da impulso allo sviluppo o specializzazione agricola in Andalusia, o di nuove industrie o attività terziarie. Lo stesso in Francia, dove i porti della costa occidentale (Bordeaux, Nantes, Rochefort) si espansero sensazionalmente nel XVIII secolo in risposta alla espansione del commercio atlantico francese, sviluppando nuove industrie manifatturiere, di trasformazione, e specializzazione agricola (viticoltura), però non sopravvissero alla perdita dell’impero coloniale con le guerre napoleoniche.

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Le principali battaglie commerciali e politiche tra Francia e Gran Bretagna si combatterono nell’Atlantico, nonostante vi fossero importanti differenze strutturali nel commercio su lunga distanza dei due paesi: come gli olandesi si affidavano ad una progettazione nautica innovativa ma soprattutto a nuove merci e prodotti, riuscendo a sviluppare complesse reti commerciali. La Gran Bretagna ovviò l’impossibilità di penetrare i mercati iberici e mediterranei, che imponevano pesanti dazi d’importazione ai manufatti inglesi, commerciando in questi paesi pesce secco e salato del Nord America, potendo incrementare così l’acquisto di prodotti agricoli dal mediterraneo senza esborso di contante e ribilanciare la struttura del commercio britannico destinata a colmare il deficit commerciale verso i paesi baltici, fornitori di legname e di materiali necessari alla costruzione navale. Gli schiavi africani erano destinati alle piantagioni portoghesi del Brasile ed alle colonie dei Caraibi che completavano il sistema commerciale triangolare: Africa (schiavi) – America (prodotti coloniali zucchero, tabacco, caffè) – Europa. Sistema reso più dinamico (nonostante gli alti e bassi causati da naufragi) quando le importazioni coloniali divennero fondamentali per le nuove industrie di trasformazione e riesportazione nei porti britannici ed europei. Con l’aumentare dell’importanza economica delle colonie, fu sempre più difficile gestire le relazioni: i coloni non accettavano più i regolamenti restrittivi volti ad impedire loro di sviluppare i propri manufatti, questi risentimenti contribuirono alla ribellione dei coloni del Nord America contro il governo britannico. Negli ultimi decenni del secolo, dopo la Guerra di Indipendenza, il commercio della Gran Bretagna con le sue ex colonie crebbe ancor più velocemente, e fu in questo periodo che le piantagioni americane divennero importanti fornitrici della principale materia per le nuove industrie tessili, il cotone. Nonostante tutto, alla chiusura del XVIII secolo il 76% di tutto il commercio extraregionale europeo aveva ancora luogo all’interno dei confini europei: solo il 10% verso il Nord America, l’8% verso l’America Latina e Caraibi, il 5% verso l’Asia e meno dell’1% verso l’Africa. La produzione di merci in Francia nel 1700 era di 2 volte e mezza superiore a quella della Gran Bretagna, e per entrambi i paesi non va esagerata l’importanza del commercio atlantico. La rapida crescita di nuovi mercati di consumo fu un riflesso importante della diffusione di nuove forme di ricchezza tra sezioni sempre più ampie di elites europee, ricchezza non reinvestita ma usata in stili di vita urbani che aiutarono a sviluppare mode, idee ed attitudini culturali e nuove forme di mobilità fisica (grand tour). Come si muovevano le persone, così si muovevano le idee ed i confronti. Il commercio coloniale contribuì anche allo sviluppo ed espansione di una nuova cultura commerciale e di nuove istituzioni mercantili, assicurazioni commerciali e marittime, all’espansione del credito ed alla nascita di nuovi mercati commerciali e finanziari. Incoraggiò l’espansione di una varietà di tradizionali industrie di beni di consumo e nuove industrie, come quella della birra, o più direttamente quella delle costruzioni navali. Tra gli effetti quello più sensazionale fu la diminuzione dei costi di trasporto su lunghe distanze. Il commercio estero in generale e quello coloniale in particolare, rivestirono un ruolo importante quindi nell’espandere la capacità del mercato di fornire beni di consumo, ma non spiega la contemporanea crescita della domanda di beni di consumo: molte città portuali della costa occidentale britannica, ma anche città della provincia non collegate direttamente al commercio marittimo, crebbero con rapidità sorprendente (Bristol da 48.000 a 100.000 abitanti tra il 1700 ed il 1800, Liverpool da 6.000 a 35.000).

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“Il commercio estero era una condizione necessaria ma non sufficiente per la crescita economica” (Carlo Cipolla) “Il più importante effetto del commercio estero sulle industrie interne venne dalla industrializzazione verso il commercio non viceversa” (K.P. Thomas & Donald McCloskey). 1.6 LE INDUSTRIE E LE MANIFATTURE I Paesi Bassi Meridionali (l’attuale Belgio, furono parte della monarchia asburgica fino al 1797 quando furono invase ed annesse alla Francia) Regione che sperimentò la più dinamica e sostenuta crescita nel XVIII secolo, ricca di risorse naturali, con una delle più avanzate economie agricole d’Europa, innumerevoli vie d’acqua navigabili che furono estese da canali e strade che le fornirono uno dei migliori sistemi di comunicazione d’Europa che fino al 1850 era tre volte più grande di quello dell’Inghilterra. Dai tempi antichi sono stati localizzazione di importanti centri di lavorazione dei metalli e di produzione tessile, grazie a ricchi depositi di minerali grezzi e di carbone. Le prime pompe a vapore vennero introdotte già nel 1737, ma solo nel 1800 usate a gran regime. Con un sempre maggiore ricorso alla meccanizzazione si espanse la produzione di carbone e metalli lavorati nel XVIII secolo con lo spostamento delle piccole fornaci familiari verso centri urbani con migliore accesso ai mercati extraregionali, trasformandosi in industrie. Bruxelles divenne il centro amministrativo ma anche finanziario e commerciale. Anversa era il principale porto e anche dopo la sua chiusura la città rimase un importante centro finanziario e commerciale rivale ad Amsterdam. Nei Paesi Bassi meridionali si svilupparono importanti industrie del tessile, che utilizzarono macchine a vapore dal 1799 introdotte a Verviers dall’imprenditore William Cockerill, che installò anche proprie imprese di fabbricazione di macchinari che nel 1813 iniziarono a produrre le prime macchine a vapore belghe. Altro importante centro tessile delle Fiandre era Gand, famosa per i suoi fini tessuti di lana e di lino, e che nel corso del XVIII subì un cambiamento tipico delle nuove economie: le stoffe di alta qualità furono rimpiazzate da nuovi tessuti più economici e leggeri di cotone per il Sud America. Cambiamento non però accompagnato dall’assimilazione delle nuove tecnologie che riducevano il costo e acceleravano la produzione, per le quali si aspetterà l’inizio del XIX secolo. Il Belgio non sentì l’impulso del passaggio dalla forza umana alla macchina nonostante godesse di tutte le risorse materiali e condizioni infrastrutturali per sostenere l’industrializzazione, la ragione era l’abbondante offerta di potenziale umano adeguato a soddisfare le necessità dell’industria e dell’agricoltura, manodopera a buon mercato (l’estrazione del carbone dal sottosuolo era agevole). L’Olanda al contrario non godeva delle stesse risorse naturali per l’industria e la maggior parte dell’agricoltura era intensiva, le terre recuperate dal mare erano poco popolate e la maggioranza delle industrie erano urbane. Il mercato era principalmente interno e quindi non avvertì la spinta verso la macchina. L’altra grande industria olandese era quella delle costruzioni navali, con sede ad Amsterdam, che continuava a prosperare senza richiedere cambiamenti tecnologici. La proto-industrializzazione (termine coniato da Franklin Mendels) Innovazione sviluppatasi nei Paesi poveri delle Fiandre e che si andava espandendo in molte altre regioni europee (distretti montani dello Yorkshire in Inghilterra, in molti Cantoni svizzeri, in

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Germania, Francia e Italia): percorso alternativo alla modernizzazione economica che vede la diffusione delle industrie fuori dalle città, nelle regioni agricole dove erano precarie le condizioni della coltivazione. Erano forme di manifattura rurale di produzione domestica. È l’abbandono dei monopoli sulla manifattura esercitati dalle città, e sebbene forme di produzione artigianale fossero sempre esistite, l’innovazione sta nel fatto che ora tale attività era organizzata da mercanti cittadini in vista di una produzione concorrenziale volta al mercato, utilizzando la manodopera rurale, più a buon mercato di quella cittadina. Il sistema centralizzato di lavoro industriale era più veloce, sfruttava economie di scala, operava un maggior controllo sulla qualità e quantità, recuperi più veloci degli esborsi di capitali, maggiore flessibilità alle mutazioni del mercato. Tali sistemi si potevano sviluppare solo dove c’era un eccesso di manodopera rurale. Per le famiglie era una fonte supplementare di reddito, sostenuto dalle donne e dai bambini: causava forti spinte all’incremento del tasso di natalità ed al matrimonio precoce. Nel corso di alcune generazioni questo aumento di bocche da sfamare iniziò a pesare sull’economia della famiglia, e la sovraproduzione causò una caduta dei prezzi e quindi dei redditi. Nello stesso tempo si accelerò in tutta Europa il declino delle città con insediamenti tessili più antichi. Tessuti nuovi e meno costosi soppiantavano le più antiche e pesanti stoffe di lusso, risultato non solo della concorrenza dei prezzi ma anche del cambiamento dei gusti e della scomparsa delle elites tradizionali. Altri centri europei dell’attività manifatturiera pre-industriale L’Europa era un mosaico di vecchie e nuove regioni manifatturiere, molte delle quali mostrarono grande dinamismo in questo secolo: in Renania, Basso Reno, Ruhr meridionale e Bassa Sassonia meno del 20% della popolazione era occupata nell’agricoltura, Berlino presentava una importante industria serica, Svezia e Cantoni Svizzeri industrie tessili come anche nelle Province alpine, Lombardia e Carso. In Boemia nel 1789 più di 400.000 (17,5% della pop.) lavoratori erano impegnati nella filatura della lana, cotone e lino. In più c’erano 59 ferrerie, 197 fornaci, e l’industria vetraria era in espansione (erano condizioni familiari ed il passaggio alla meccanizzazione fu lento). Boemia e Moravia godevano di estese risorse naturali e buona manodopera, ed erano l’unica parte della monarchia asburgica che godeva dell’accesso ai mercati esterni tramite il fiume Elba. La Catalogna sviluppò un fiorente nuovo settore manifatturiero basato sulla stampatura e tintura della tela di cotone (a Barcellona nel 1780 c’erano 80 fabbriche del settore) poi esportata nelle Americhe e nelle altre parti d’Europa e del Mediterraneo. La breve rassegna mostra come anche senza innovazione tecnologica, nel XVIII ci siano importanti cambiamenti nelle economie dei paesi. L’assenza di mercati elastici ed accessibili è il maggior ostacolo. La necessità di passare da stoffe pesanti a nuove più leggere il maggiore stimolo. FRANCIA E REGNO UNITO Ciò che fu eccezionale in Inghilterra fu la velocità di accettazione delle nuove tecnologie, l’applicazione pratica e la rapida diffusione, che stimolò la sostituzione della forza lavoro con macchinari. Francia e Gran Bretagna furono per tutto il secolo a pari passo per l’espansione commerciale e manifatturiera, la popolazione francese era superiore di un terzo a quella inglese, in tutti e due i paesi

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si assisteva al passaggio a stoffe più leggere di cotone, e ad una veloce introduzione delle novità tecnologiche in risposta ai mutamenti del mercato. La Francia possedeva comunque un ricco patrimonio di risorse economiche naturali, ricchi depositi di carbone e di minerali, abbondanza di legname da costruzione e d’uso industriale, fiumi e vie d’acqua navigabili, manodopera abbondante ed a buon mercato. Per questi motivi la meccanizzazione è sentita meno fortemente, le industrie possono espandersi senza difficoltà, senza sentire le strozzature dei concorrenti. In Inghilterra invece la mancanza di legname e della carbonella dovuta a secoli di metodi intensivi di coltivazione, espansione e costruzione urbana e della flotta navale porta i prezzi del legname alle stelle. Ecco perché ebbe gran successo l’invenzione di Abraham Darby, che sviluppò un processo di fusione del ferro sostituendo il carbone coke (prodotto dalla distillazione del carone fossile) alla carbonella nel 1709, seguito dall’introduzione del suo uso negli stadi finali della produzione siderurgica da Henry Cort nel 1784 che permise un abbattimento deciso dei costi. Nel 1800 l’Inghilterra produceva 200.000 tonnellate di ghisa grezza all’anno, nel 1870 6 milioni, più della metà della produzione mondiale. L’impatto di queste innovazioni fu rivoluzionario ma graduale. La ghisa grezza di qualità sempre più elevata ed economica, aveva usi infiniti, le industrie metallurgiche si liberavano dalla dipendenza dalla carbonella e dal legname e si espansero insieme a nuove industrie minerarie, industrie vetrarie (Birmingham) e della ceramica. Si iniziarono a sfruttare nuovi filoni minerari e tra il 1680 ed il 1780 la produzione di carbone in Inghilterra aumentò del 300%, incentivando lo sviluppo della rete di comunicazione, soprattutto canali. I primi tessuti leggeri di cotone e di lino importati dall’India riscossero un grandioso successo immediato in tutti i mercati, rivoluzionando i gusti degli europei occidentali, le possibilità del disegno sui capi di vestiario e segnando un importante progresso negli standard dell’igiene personale essendo lavabili più frequentemente. I primi sviluppi dell’industria cotoniera erano volti a limitare la dipendenza dalle importazioni dall’India, ma la domanda in crescita costante mise in luce diversi problemi (lentezza della produzione domestica, alto costo della manodopera) risolti dalla meccanizzazione della filatura (1830) con la centralizzazione di tutti i passaggi all’interno di fabbriche. Dinamismo che sviluppò tutta una serie di altre attività, dalla costruzione dei macchinari, allo sviluppo di reti di trasporto e fondazione di città (Manchester). La differenza tra l’Inghilterra ed i suoi vicini europei fu l’esuberanza della domanda sui mercati interni: la Francia per esempio presentava un’ampia popolazione contadina capace di autorifornirsi, le città erano piccole, il commercio era principalmente interno, le comunicazioni scarse, il territorio ampio. In Inghilterra invece le comunicazioni erano facili ed i porti raggiungibili, l’espansione urbana era vivace e rapida: la domanda urbana di consumi era dinamica e unica in Europa, come la domanda e produzione di birra, primo prodotto veramente di massa, destinata comunque alle classi più povere. Mentre in Francia e nel resto d’Europa le merci erano prodotte dalle stesse famiglie contadine per proprio uso, oppure da un’industria che badava più alla qualità che al volume, e che evitò quindi la meccanizzazione finche trovò manodopera specializzata con salari che non riducevano i profitti, le industrie inglesi provvedevano principalmente ai mercati di grosso volume e di basso costo, diventando modelli di organizzazione da imitare basate sulla divisione di manodopera e sui nuovi principi teorici di economisti come Adam Smith. Erano esempi tangibili dei valori che avrebbero ispirato l’era del capitalismo industriale: il ruolo dell’imprenditore e il lavoratore come unità.

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1.7 IL RUOLO DELLO Stato Uno dei temi centrali della prima storiografia economica collegava il precoce sviluppo dell’Inghilterra alla presenza di una cultura della libera impresa, mentre oggi si enfatizza di più l’importanza delle specifiche condizioni rurali e di mercato che incoraggiarono l’uso dei macchianari prima che altrove: una delle maggiori restrizioni allo sviluppo derivò dall’intervento dello Stato. Tutti gli stati europei continuavano a seguire le politiche mercantilistiche del XVII secolo basate sul presupposto che il volume del commercio è finito e che ogni stato dovrebbe protteggersi per assicurarsi la propria quota riducendo al minimo le importazioni straniere. Le politiche commerciali del XVIII secolo non furono influenzate da nuove teorie economiche ma piuttosto da necessità materiali dei governanti. Per quanto convincenti fossero in teoria i principi del libero scambio interno, il problema stava nel trovare un modo per rimpiazzare le entrate pubbliche e private (dazi e gabelle interni). Nel caso del commercio estero, il liberalismo andava contro la schiera di restrizioni e barriere monopolistiche delle nazioni commerciali più potenti. Nel XVIII secolo fu varia la capacità statale di proteggere e promuovere lgi interessi economici al fine di creare condizioni di stabilità e ordine. Le debolezze della monarchia spagnola e portoghese rendevano invece sedmpre più difficile la formazione di politiche commerciali coerenti.

2. LO SVILUPPO ECONOMICO NELL’EUROPA DEL XIX SECOLO 2.1 CRESCITA E TRASFORMAZIONE DELL’ECONOMIA EUROPEA Un secolo di crescita continuativa L’evoluzione economica di lungo periodo non procede mai in modo uniforme: ci sono aree inseguitrici ed aree guida, che sfruttano efficacemente le conoscenze tecniche disponibili grazie alla dotazione di risorse umane in grado di innovare e di utilizzare le nuove tecnologie, raggiungendo maggiore produttività delle risorse naturali disponibili, dai capitali e dal lavoro. Nella ricostruzione della storia dell’economia mondiale dal Medio Evo ad oggi, Meddison individua quattro fasi successive con diverse economie guida: XII – XVI con l’Italia centrosettentrionale e le Fiandre, 1600 – 1750 con i Paesi Bassi settentrionali, 1750 – 1890 con l’Inghilterra, 1890 – oggi USA. La rivoluzione industriale sviluppa una posizione di monopolio per l’Inghilterra nel commercio mondiale con una incredibile forza industriale a rapido progresso tecnico nella produzione tessile, siderurgica, meccanica e utilizzo del carbon fossile. L’occupazione nell’industria aumentò dal 44% nel 1700 al 60% nel 1820 e all’84% nel 1890, mentre quella nell’agricoltura passò dai due terzi della popolazione all’inizio secolo, all’8,8% nel 1910. Gli addetti all’agricoltura dei principali paesi europei e nell’area Nord-americana andarono progressivamente riducendosi e l’industria divenne la principale fonte di ricchezza e lavoro: fu una cesura di principale importanza con il passato dell’umanità.

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Grazie agli apporti della rivoluzione agricola, industriale e dei trasporti, l’Europa si liberava dai vincoli imposti dalla demografia e dalle limitate risorse del suolo. Il passaggio da fonti energetiche animate ad inanimate permise una crescita inimmaginabile nei secoli precedenti. L’800 è il primo secolo ad essere solamente in positivo, con crescita media annua del 2% del PIL. La crescita economica moderna viene rapportata alla quantità di beni prodotta da un Paese. Si calcola in termini di valore aggiunto, differenza tra il valore del prodotto finito ed il valore dei prodotti intermedi utilizzati, è la somma dei fattori di produzione impiegati: la produzione totale è approssimativamente uguale al reddito. Il PIL misura il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti all’interno di un Paese al lordo degli ammortamenti, sia dai cittadini che dagli stranieri (il PNL conta solo residenti). Per confrontare Paesi diversi non basta usare il cambio monetario, ma si usa un tasso di cambio speciale, il PPP (purchasing power parity), che tiene conto dei diversi livelli di prezzo. I dati sulla contabilità nazionale sono utili ma non tengono conto delle performance delle regioni-pilota dello sviluppo e sono per questo poco utili a comprendere le origini e le dinamiche interne dei processi di crescita. In tutte le nazioni si determinano differenze regionali nei tassi di crescita del reddito: in Italia per esempio, nel triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) il reddito era nel 1911 di un terzo superiore alla media nazionale. Differenze sono presenti anche all’interno dei diversi settori: è quindi necessario un approccio insieme macro e micro-analitico. I CAMBIAMENTI STRUTTURALI Con il passaggio da società rurale e agricola a civiltà industriale, il cambiamento strutturale più accentuato si coglie nei tassi di attività (rapporto tra popolazione attiva e passiva, e distribuzione nei vari settori): tutti i Paesi mostrano un incremento del tasso di attività femminile, con passaggio dall’attività di casalinga a lavoratrice a domicilio o occupata a tempo pieno fuori dalla famiglia. La struttura professionale della popolazione vede una diminuzione assoluta e relativa del settore primario (agricoltura, caccia e pesca), espansione del secondario (industrie e manifatture) e del terziario (P.A, banche, professioni). Processo più accentuato in alcuni paesi come la Germania, e meno in altri come in Italia, dove nel primario dal 1881 al 1911 si scese solo dal 61,8% al 59,1% e nel secondario si crebbe dal 20,5% al 23,6%. Il declino dell’agricoltura fu tanto più veloce quanto più precoce era stata la crescita. L’incremento del reddito pro-capite s’accompagnò ad un calo della fertilità e del tasso di natalità e mortalità infantile, e ad una crescita dei tassi di urbanizzazione, alfabetismo e scolarizazione. Crebbero anche le percentuali di risparmio, investimenti ed aumentò il grado di apertura al commercio internazionale. Gli effetti della crescita sulla distribuzione del reddito sono così ipotizzati da Kuznets: in una primissima fase i pochi addetti ai settori moderni guadagnano molto di più ma ad un certo punto il trend si inverte a causa della crescita della percentuale degli addetti ai nuovi settori ed il divario di produttività intersettoriale diminuisce. Schumpter ed i cicli di sviluppo La crescita non è mai stata lineare ma contraddistinta da variazioni e fluttuazioni che costituiscono la congiuntura di strutture diverse. Gli storici hanno da sempre cercato di individuare la regolarità nelle fluttuazioni che permettesse di prevedere gli andamenti futuri.

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Joseph Schumpeter ritiene che l’andamento ciclico costituisce l’essenza stessa del processo di sviluppo capitalistico, le fluttuazioni sono la conseguenza necessaria della rottura dell’equilibrio stazionario. In Business cycles (1939) individua l’esistenza di tre cicli: - ciclo classico o maggiore o Juglar, fra i 7 e gli 11 anni, ripartito in 4 fasi di recessione, depressione, ripresa e boom (a metà del ciclo scoppiano le classiche crisi di sovrapproduzione), - ciclo minore o Kitchin, o congiunturale, - movimenti di lungo periodo Kondratieff o onde lunghe, durano 40 – 50 anni, una fase ascendente ed una discendente. Determinante è l’attività innovativa: le invenzioni procedono in modo autonomo senza rispondere ad un bisogno concreto, hanno una genesi scientifica e non sono rilevanti per l’analisi economica, le innovazioni invece si sviluppano nel sistema economico e ne sono il fatto fondamentale, in risposta a determinati bisogni, e danno vita a nuove combinazioni dei fattori produttivi. Il motore del processo di sviluppo sono gli imprenditori innovatori, dai quali scaturiscono le innovazioni, i nuovi prodotti e processi, i miglioramenti all’organizzazione di un’impresa, le conquiste di nuovi mercati e nuove fonti di approviggionamento di materie prime. Guadagnano una temporanea posizione di rendita monopolistica che li ripaga del rischio iniziale, il guadagno differenziale viene poi gradualmente eliminato dalla concorrenza che imita e riporta il sistema ad un equilibrio stazionario. Nello studio delle fasi e dinamiche dello sviluppo si è passati da una prospettiva di imitazione del modello inglese alla verifica di importanti differenze per le quali si è cercato un comune denominatore, analizzando i cambiamenti economici in maniera comparativa. Negli anni 60 Walter Rostow e Alexander Gerschenkron tesero ad edificare una vera e propria teoria della storia economica, negando l’uso di modelli ciclici e proponendo interpretazioni incrementali dello sviluppo, entrambi accentuando gli aspetti di discontinuità che caratterizzano la fase iniziale dei processi di crescita delle economie. Gli stadi di Rostow ed il take off Rostow teorizza la teoria degli stadi, processo di crescita basato su 5 passi attraverso i quali ogni nazione sarebbe dovuta passare per raggiungere uno sviluppo economico completo e presuppone che tutte le economie soddisfino le varie fasi: 1. Società tradizionale, situazione pre-industriale con debole produttività del lavoro umano, preponderanza dell’agricoltura, stretta correlazione tra popolazione e risorse, società chiusa ed esposta ad epidemie e carestie. Il reddito pro-capite non aumenta perché il tasso di investimento eguaglia il tasso di incremento demografico, per l’evoluzione serve un aumento dei tassi di investimento. 2. Transizione, periodo di cambiamento, formazione di imprenditorialità e accumulo di capitali: incremento della produzione e produttività dell’agricoltura e delle miniere che permetta di indirizzare lavoro e capitali all’industria, sviluppo di servizi ed in particolare banche, uso efficiente delle materie prime locali o loro importazione, esportazione di prodotti manifatturati. 3. Decollo, processo di accelerazione economica che nel corso di due o tre decadi trasforma l’economia portandola stabilmente ad un livello produttivo molto più elevato di quello di partenza. L’accumulazione del capitale e l’incremento della produttività si autoalimentano: innalzamento tasso di investimenti al 10% del PNN (no riscontro storico), quadro politico, sociale ed istituzionale che sfrutti le tendenze all’espansione per favorire un processo generale di sviluppo, sviluppo di settori guida, industrie leader e industrie sussidiarie, subordino dell’agricoltura

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all’industria. (Gran Bretagna rivoluzione industriale, Belgio e Francia anni 30-60, Germania periodo 1850-1873, Svezia 1868-1890, Russia 1890-1914) 4. Maturità, il processo si estende, le innovazioni si diffondono, nuove industrie trasmettono dinamismo. Il volume degli investimenti passa dal 10 al 20% del reddito nazionale, la produzione supera l’incremento demografico ed i redditi aumentano costantemente, si destinano maggiori risorse ai consumi. 5. Età dei consumi di massa, modello americano, la distribuzione di una crescente quota del potere d’acquisto per i consumi spinge le imprese produttrici ad investire in processi di standardizzazione della produzione per allargare il mercato abbassando i prezzi. I critici notano come tale modello presenta un modello di crescita che si svolge ordinatamente attraverso fasi in cui uno stadio deriva da quello precedente ma non spiega i meccanismi di passaggio, le cause, e come non consideri le interazioni tra le diverse dimensioni (internazionale,nazionale, regionale) in cui si sviluppa il fenomeno. È una teoria di imitazione senza varianti. Gerschenkron e i vantaggi dell’arretratezza Ruolo centrale non le dinamiche di lungo periodo ma i due più importanti stadi di Rostow: le precondizioni e lo stadio del decollo. Studia i meccanismi che mettono i Paesi ritardatari in grado di avviare un processo di sviluppo, introduce il concetto di arretratezza relativa al paese leader, la Gran Bretagna, posizionando i diversi Paesi su una graduatoria di confronto con la quantità ed importanza dei prerequisiti. Più le condizioni sono simili, più è probabile un’imitazione veloce ed efficiente. Se invece i prerequisiti mancano, i Paesi possono colmare le lacune con l’impiego di fattori sostitutivi (il sistema bancario in Italia). I diversi percorsi di industrializzazione derivano dai diversi livelli di arretratezza e fattori sostitutivi. L’arretratezza ha comunque dei vantaggi: chi arriva dopo può imitare le tecnologie senza processi di perfezionamento e impiego di risorse in ricerca e sviluppo, utilizzando d’un colpo tecnologie che avevano impiegato oltre un secolo per arrivare a standard accettabili. Maggiore è il livello di arretratezza, più rapido sarà il ritmo di sviluppo industriale, maggiore lo sviluppo della grande industria, la concentrazione nella produzione di beni strumentali anziché di consumo, il ruolo degli attori istituzionali impiegati ad aumentare la velocità del processo, minore la crescita agricola e maggiore l’importazione di conoscenze tecniche e capitali stranieri. Chi è in testa non è sicuro di rimanervi (declino della Gran Bretagna nella seconda metà dell’800), chi è più vicino al leader può subentrarvi, chi è decaduto può recuperare posizioni (Italia). Il problema delle unità di analisi: Pollard e la regione economica Dagli anni 70 si cercano di abbandonare i modelli di interpretazione univoci e lineari cercando di evidenziare le caratteristiche peculiari di ciascun caso, incontrado però il problema dell’unità di base dell’analisi, comunemente quella nazionale (permetteva l’utilizzo di cifre raccolte da autorità centrali) si iniziavano a proporre le regioni, non necessariamente coincidenti con un’unità politico amministrativa. The peaceful conquest (1981) mostra come la nozione di decollo si debba applicare alla dimensione regionale, e come nel caso della Gran Bretagna la rivoluzione industriale fosse stata favorita dalla simultaneità del decollo di numerose sue regioni. Tra le regioni c’erano divari anche importanti

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(dualismo): l’industrializzazione europea si realizza in ogni nazione su base regionale, e studiando queste si valorizzano le interdipendenze ed i rapporti funzionali. Il contesto internazionale invece che fare da sfondo all’azione del Paese ritardatario (come sosteneva Gerschenkron), secondo Pollard interferisce con le decisioni dei singoli Paesi orientandone gli effetti in senso positivo o negativo: è il concetto del differenziale della contemporaneità, esempio tipico la costruzione delle ferrovie con diverso ruolo nelle economie dei Paesi in rapporto alle condizioni sul piano internazionale, oppure la guerra che incise direttamente, in un senso o nell’altro, sui processi di sviluppo dei Paesi. Paul David e la “path dependence” La spiegazione dei mutamenti tecnologici ed istituzionali non va ricercata in leggi economiche di portata universale ma nel percorso storico del processo in questione, per cui catene di eventi anche casuali finiscono col delimitare il campo delle scelte alla configurazione che si à venuta a determinare. Il percorso seguito dai first comers non può quindi essere imitato pedissequamente dai followers. Il ruolo dello Stato La competizione tra le diverse aree non è avvenuta soltanto sul piano tecnologico e produttivo ma anche sui sistemi di regole, sulla loro capacità di promuovere ed assecondare lo sviluppo abbassando i costi di transizione (ricerca, diffusione e organizzazione delle informazioni, costi di realizzazione delle innovazioni) e rendendo l’economia più efficiente. Le istituzioni si imitano come le tecnologie, e cambiano in rapporto alle condizioni economiche. Douglas North teorizza il mutamento economico come risultato di un cambiamento isittuzionale intonato alle esigenze delle attività produttive: in Gran Bretagna il ruolo del potere pubblico nella creazione di un efficiente mercato nazionale e nello svecchiamento delle istituzioni fu fondamentale, il miglioramento nella definizione ed applicazione dei diritti di proprietà favorì l’organizzazione di fabbrica che spinse all’introduzione di nuove tecnologie. Questa teoria spinse ad approfondire il rapporto tra istituzioni e sviluppo economico: oltre all’importanza di uno Stato attivo nella creazione di condizioni favorevoli, anche quella di istituzioni intermedie come sistemi produttivi locali o distretti industriali. Nel periodo della rivoluzione industriale le teorie in vigore erano quelle del liberalismo economico, volto a lasciare spazio all’armonico dispiegarsi dei meccanismi di mercato (Smith e Ricardo), e quelle interventiste basate sulla convinzione che lo Stato dovesse assicurare il suo intervento nelle vicende economiche in quanto il mercato non era in grado da solo di garantire sviluppo. Già dal primo 800 si ponevano le premesse per uno Stato con attivo ruolo nel processo di industrializzazione in Stati Uniti, Belgio, Francia e Germania, nel 1850 tali teorie iniziarono a differenziarsi nelle loro realizzazioni: negli USA si delineò il modello di Stato regolatore, in Europa una formulazione di rapporti tra Stato ed economia anticipatrice del modello forte di Stato e della fiducia nel big goverment che si affermeranno nelle nazionalizzazioni del XX secolo. Il peso dello Stato nell’economia è andato quindi crescendo nel corso del tempo, i sistemi capitalistici industriali non possono funzionare senza uno Stato che garantisca difesa e leggi.

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2.2 DINAMICHE DEMOGRAFICHE E SOCIALI. IL RUOLO DELL’AGRICOLTURA La rivoluzione demografica in Europa Produzione e consumo sono correlati all’evoluzione della popolazione e alla sua distribuzione geografica, sociale e per fasce di età. I dati non sono precisi ma consentono approssimazioni utili: dal 1800 ed il 1914 la popolazione europea progredì al ritmo dello 0,93% all’anno, una vera e propria rivoluzione demografica che cambiò strutture, movimenti e comportamenti. L’Inghilterra anticipò le tendenze e già nel 1740 l’aumento consistente della popolazione permise un aumento della forza lavoro sia nelle campagne che nelle attività urbane, e l’impiego in nuovi settori manufatturieri come quello cotoniero. Il vecchio modello demografico di antico regime era caratterizzato da una combinazione di elevata natalità (fertilità media) e mortalità, che permetteva meccanismi di autoequilibrio tra popolazione e risorse (grafico a sega), ed un complesso di pratiche tendenti ad abbassare la fecondità femminile, e promuovere la scelta del celibato (donne nubili 15-20%) ed i matrimoni ritardati (uomini 30, donne 25-26) cercando di evitare le crisi da scarsità di risorse dovute ad un aumento della popolazione (trappola malthusiana). Per la prima volta nella storia dell’umanità, dall’800, grazie alle trasformazioni produttive, questo meccanismo non valeva più, si entrò nella transazione demografica: nei due secoli seguenti la crescita non conobbe più pause o regressioni. Dal 1800 al 1900 la popolazione mondiale crebbe del 70 % passando da 978 a 1.650 milioni, l’Europa registrò un aumento di più del doppio, passando da 208 a 430 milioni (i movimenti migratori contrassegnarono il secolo, gli europei contribuirono a triplicare il numero di abitanti dell’America Latina e Australia, e a moltiplicare per 10 quello dell’America del Nord). All’inizio della Prima Guerra Mondiale l’Europa contava 480 milioni di abitanti, tre volte la popolazione del 1750. All’inizio dell’800 una persona su 5 era europea, alla fine una su 4, e una su 3 se si contano anche gli emigrati. Un confronto tra le densità mostra come la popolazione fosse concentrata sul continente meno esteso, e se nella prima parte del secolo erano le aree nel Nord-Ovest d’Europa a crescere più rapidamente, nella seconda parte il Sud e l’Est. In Italia la popolazione crebbe continuativamente nel corso del secolo (Nord bassa natalità e mortalità, Sud alte entrambe), mentre la Francia subì un brusco rallentamento nel secondo 800 dovuto dalla caduta del tasso di natalità. Il nuovo modello demografico I perni furono la caduta della mortalità e la contrazione del tasso di natalità: in una prima fase di breve periodo la caduta della mortalità causò una crescita impetuosa, in una seconda invece la fertilità declinò ed il successivo aumento della popolazione dipese dal crescente allungamento della vita. La mortalità diminuì rapidamente nei primi due decenni del secolo, rimase poi stabile a lungo per far registrare una nuova caduta verso la fine del periodo. Il tasso di natalità invece diminuì molto lentamente prima di accentuare la sua tendenza a partire dagli anni 80. La diminuzione nelle nascite rifletteva la volontà delle famiglie di conservare o migliorare il proprio tenore di vita: meno figli significava maggiore garanzia di fronte al bisogno e migliore istruzione. La natalità restava alta nelle classi povere, che solo dopo la Prima Guerra Mondiale operarono un controllo sulle nascite. Scomparsero le grandi crisi di mortalità, cicli di carestia (eccezione crisi della patata in Irlanda 1845-1850) ed epidemie, virulenze e malattie infettive (progressi scienza medica, vaccino antivaiolo,

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rivoluzione microbica di Pasteur, ospedali asettici, aspirina, anestetici), le difese immunitarie aumentarono grazie ai miglioramenti alimentari ed igienici (risanamento e modernizzazione urbana, sistemazione fognature, eliminazione cloache, ampliamento strade, costruzione reti idriche). Il fondamentale cambiamento del XIX secolo è che né la fecondità né la mortalità delle popolazioni europee dipendevano più dalle disponibilità alimentari: tra popolazione e risorse il feedback divenne positivo, incremento demografico ed innovazioni tecnologiche andavano di pari passo. La rivoluzione agricola fece fare un balzo alla redditività della terra (rotazioni più efficienti, allevamenti, concimi, prime macchine agricole) permettendo di produrre di più con meno addetti, soddisfando nuovi bisogni e liberando un quota di lavoratori agricoli a vantaggio delle attività industriali e urbane. Rivoluzione agricola ed industriale consentirono di migliorare in quantita e qualità l’alimentazione. La rivoluzione nei trasporti e l’allargamento dei mercati ruppero l’isolamento di molti territori e limitarono le crisi di sussistenza: le cadute produttive potevano essere compensate dalle importazioni. La vita si allungava, dalla media dei 30 anni salì nel corso dell’800 ai 40 anni e toccò i 50 nel 900, maggiormente negli strati sociali che più beneficiavano del progresso materiale e scientifico. L’accresciuta consistenza delle fasce centrali della popolazione, quelle detentrici del potenziale riproduttivo, si riflesse sul tasso di fecondità generale, provocandone un incremento. Le aspettative di vita variavano vistosamente a seconda del mestiere esercitato o dello status di appartenenza: la malnutrizione, la mancanza di igiene nelle abitazioni e luoghi di lavoro, la mancanza di cure diminuivano la resistenza fisica dei ceti popolari, soprattutto dei lavoratori urbani, ma anche agricoli. Urbanesimo, migrazioni e colonizzaizoni La concomitanza dell’espansione demografica e delle trasformazioni economiche, determinò una ridistribuzione geografica e professionale della popolazione: l’industrializzazione procedette di pari passo con l’urbanizzazione, gli spostamenti verso le città aumentarono con l’introduzione di nuove tecnologie volte a limitare l’uso umano nelle campagne e con la crisi del lavoro a domicilio. La ferrovia aiutò lo spostamento massiccio. Dal 1851 al 1914 la percentuale degli abitanti delle città sulla popolazione passò in Gran Bretagna dal 48 al 73%, in Francia dal 25,5 al 44.2%. Dalle 23 città con più di 100 mila abitanti nel 1800, un secolo dopo se ne contavano in Europa 135. Sotto la spinta dell’industrializzazione e della rivoluzione dei trasporti si svilupparono sia piccoli centri che importanti città e metropoli già da tempo al centro delle rispettive economie nazionali (Londra, Parigi). Industrializzazione significò anche perfezionamento dei sistemi idraulici e gasdotti per l’illuminazione, le città inglobarono le periferie e i centri si svilupparono in altezza, creando nuovi posti di lavoro. La tendenza è un regresso del settore primario, espansione del secondario e del terziario. Ad eccezione della Gran Bretagna, tutte le società restarono comunque a predominanza rurale per buona parte dell’800. Una linea interpretativa di scuola Marxista capeggiata da Eric Hobsbawm ha messo in evidenza il deterioramento degli standard di vita nel passaggio all’età industriale, mentre una corrente neoliberista di Max Hartwell sottolinea un effetto positivo.

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L’industrializzazione rappresentò sicuramente quartieri dormitorio senza acqua e luce o servizi igienici e si accompagnò a durissimi orari di lavoro in ambienti malsani e promiscui, ma significò anche liberazione da carestie e miseria, nuove opportunità di miglioramento sociale e culturale. La metà del secolo segnò l’inizio della più grande migrazione di popoli nella storia, ad opera della popolazione rurale sotto la spinta della pressione demografica e delle avverse congiunture. Non si trattò solo di un fenomeno europeo ma furono certamente questi gli attori principali, che, disponendo di un territorio di circa 700 miglia quadrate (l’Europa), finirono per colonizzare e controllare ben 8 milioni di miglia quadrate, moltiplicando di 9 volte la superficie controllata. Nonostante fenomeni di migrazione interna, il fenomeno dominante divenne quello dell’emigrazione extracontinentale e permanente. Tra il 1821 ed il 1914 una cifra tra i 46 ed i 51 milioni di persone lasciarono l’Europa verso altri continenti: Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Brasile, Argentina. La migrazione fu favorita dalla rivoluzione dei trasporti marittimi e dagli stessi governi che cercavano di alleggerire il mercato del lavoro nazionale e garantire il livello dei salari. Il governo inglese stanziò nel 1869 5 milioni di sterline per l’emigrazione. Inizialmente la maggior parte degli emigranti erano inglesi, ma dagli anni 40 il fenomeno interessò l’Irlanda (patata 1847), Germania, ed Europa centro-meridionale pe difficoltà nelle economie. Tali spostamenti di popolazione determinarono cambiamenti nelle economie dall’una e dall’altra parte, e mentre le campagne europee si decongestionarono, le economie del nuovo mondo ricevettero importanti vantaggi: le partenze dei più giovani fecero crescere il tasso di natalità nei Paesi d’accoglienza, e ne modificarono i caratteri sociali e culturali, fondando comunità a base etnico-nazionale che si fusero lentamente alla massa. Il melting-pot si rivelò una delle chiavi dello sviluppo statunitense, e la più drammatica vicenda demografica nella storia della popolazione europea si tramutò in una fondamentale componente del cammino verso la modernizzazione. Le trasformazioni del settore agricolo Nonostante il ridimensionamento del settore agricolo sia uno degli aspetti più vistosi dello sviluppo economico europeo, l’agricoltura ha continuato a giocare un ruolo fondamentale nel proocesso di crescita economica moderna. Le trasformazioni del settore agricolo precedettero ed accompagnarono l’avvento delle società industriali e permisero di alimentare una popolazione sempre più numerosa ed urbanizzata incrementando produzione e produttività. La domanda di prodotti agricoli è inferiore di quella di manufatti e servizi, e sul consumo di generi alimentari influì il rallentamento nella crescita della popolazione. Da una dieta basata su cereali e vegetali si passò inoltre ad una dieta basata su carni e prodotti zootecnici. La produzione agricola crebbe comunque costantemente o per la crescita dei fattori (lavoro, capitale e terra) con interventi di bonifica in Olanda ed Italia bilanciate dalla perdita per l’industrializzazione, lavori di irrigazione dei terreni aridi e di calcinatura dei terreni acidi, oppure per la crescita della loro produttività (land-saving) o della produttività del lavoro (labour-saving). Nel XIX secolo si registrò un costante progresso nella qualità delle colture: rotazione continua con la sostituzione del maggese (periodo di riposo del terreno) con le leguminose, la maggiore dotazione di bestiame aumentava la quantitè di letame per la concimazione, si introdussero specie più adatte al clima e ai terreni e più resistenti ai parassiti, si svilupparono prodotti chimici fertilizzanti.

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Anche gli attrezzi in ferro vennero perfezionati (falci, aratri) e comparvero le prime macchine sostitutrici del lavoro umano (trebbiatrici, sgranatrici del cotone, mietitrici, mietitrebbiatrici, trattore negli anni 90) dove la manodopera era scarsa e quindi cara l’agricoltore era spinto a meccanizzarsi, dove invece la pressione demografica restava forte, questo non era spinto ad aumentare il suo capitale. Le caratteristiche dei suoli determinavano inoltre le diverse tipologie di attrezzi e macchinari. Il tasso di crescita della produzione, maggiore di quello della popolazione permise, grazie alla rivoluzione nei trasporti, di eliminare le crisi di sussistenza e di migliorare l’alimentazione delle masse popolari. 1877-1896 grande depressione, crisi agraria per la concorrenza con i prezzi dei prodotti esteri grazie alla rivoluzione dei trasporti. Tutti i prezzi calarono, specie dei vegetali e dei cereali (grano). La reazione fu una forte spinta alla politica protezionistica, ed un passaggio all’allevamento. 2.3 IL PROCESSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE EUROPEA L’Inghilterra e l’Europa continentale La rivoluzione industriale (metà 700 – primi decenni 800) segnò l’inizio di una nuova era nella storia dell’uomo. Fu l’effetto di una serie di innovazioni convergenti nell’agricoltura, commercio, trasporti e industria. Il fondamentale fattore fu il rapido incremento della capacità produttiva grazie all’utilizzo di tecniche sofisticate e lo sfruttamento di nuove fonti energetiche. La disponibilità di beni e servizi crebbe in misura inimmaginabile, i beni aumentavano più rapidamente della popolazione, gli standard di vita migliorarono e la vita economica conobbe continue trasformazioni ed accelerazioni. L’industrializzazione si è imposta, dal secondo 800, come condizione necessaria alla crescita e finì con l’identificarsi con lo sviluppo: dal 1820 al 1980 il prodotto lordo dei Paesi industrializzati è cresciuto di 60 volte, la popolazione di 4, il prodotto pro capite di 13, la produttività del lavoro di 20, producendo immensi con i Paesi non industializzati. Le vie dell’industrializzazione furono molteplici, sia per il peso dei percorsi di sviluppo precedenti, sia perché il quadro generale subì profondi mutamenti dopo la rivoluzione industriale inglese. Edward Wrigley individua l’elemento decisivo nell’utilizzo dell’energia derivante dal carbon fossile, abbondante a buon mercato e su vasta scala, un “miracolo insperato”, un “dono della sorte” il cui rendimento è stato massimizzato dal contesto inglese, dove c’era l’opportunità di fare profitti vendendo di più a prezzi più bassi, il che forniva un forte incentivo a cercare fonti di energia potenti e macchine sempre più automatizzate per aumentare il flusso dei prodotti e contenerne i costi. I mercati a loro volta si erano ingranditi ed il processo era capace di autoalimentarsi. La rivoluzione industriale si estese ben presto a tante altre regioni del continente dove sviluppi anteriori di lungo periodo avevano preparato il terreno, una serie di cambiamenti intervenuti nell’economia e nella società europea a partire dai secoli centrali del Medioevo, lenti progressi nell’agricoltura, nell’industria, allargamento delle relazioni commerciali. Il processo ebbe poco riguardo per i confini politici: i Paesi avevano radici comuni ed erano soggetti allo stesso clima. Quattro indicatori dello sviluppo economico europeo dal 1800 al 1913 sono la produzione di ferro e ghisa, il consumo di cotone, la produzione di carbone e i km di rete ferroviaria.

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L’ETA’ DELLE MACCHINE, DEL CARBONE E DEL VAPORE Uno sforzo convergente e comulativo: il tessile La tecnologia associata con lo sfruttamento di nuove fonti di energia fu il fattore chiave dell’eccezionale cambiamento europeo. Molte importanti innovazioni erano comunque state fatte anche in precedenza nelle industrie tradizionali (lavorazioni della porcellana, sbiancatura al cloro e processo di produzione della soda nel settore chimico, in Italia macchine per la filatura ad energia idraulica nell’industria della seta) e gli inglesi inizialmente imitarono tali tecnologie: ciò che mutò nei cambiamenti fu la continuità e la velocità del fenomeno. I benefici in termini di reddito pro capite si verificarono solo quando il progresso tecnico si estese a tutti i settori. La produzione di fabbrica non soppiantò il sistema domestico o di piccoli laboratori protoindustriale ma nuovi macchinari trovarono spazio nelle case. Nella modernizzazione delle economie europee le macchine ebbero un ruolo chiave: consentirono di aumentare la produttività cioè la produzione per lavoratore e per unità di tempo. Produssero un effetto valanga: la messa a punto in un settore di una macchina a forte produttività creava strozzature in un altro settore a monte o a valle, che stimolavano ingegneri e tecnici a scoprire nuove soluzioni: il progresso assumeva un’espansione illimitata. Nel settore tessile il punto critico era la meccanizzazione della filatura: l’inventore del filatoio meccanico fu Richard Arkwright, al quale nel 1764 si accompagnò l’invenzione della spoletta volante di James Heargraves. Negli anni 1780 la macchina diventò a vapore e permise di filare 100 libbre di cotone in 300 ore di lavoro contro le 5 mila del lavoro a mano. Erano comunque macchine costose che molti imprenditori non erano in grado di acquistare (solo nel 1815 la filatura divenne davvero meccanizzata). La tessitura rimase a mano fino al 1820 quando la meccanizzazione fu spinta dai progressi della filatura. Si affermò l’uso del cotone per la facilità di colorazione e lavaggio, elasticità dell’offerta di materia prima, adattabilità della fibra ai processi di meccanizzazione molto più che la lana. Il paradigma del carbone A segnare il cambiamento fu però il passaggio ad un nuovo paradigma energetico: il carbone. Prima la potenza europea derivava dalla buona ripartizione del manto forestale, era la civiltà del legno, che consumava circa 200 milioni di tonnellate di legna l’anno, a fine 700 in alcune regioni industriali francesi la deforestazione raggiunse livelli altissimi con gravi ripercussioni sull’ambiente e rincari del combustibile. In Inghilterra già dal 600 l’alto costo del legname, l’aumento della popolazione e la casuale disponibilità del fossile condussero alla progressiva adozione del carbone come energia termica. Nel 700, la vicinanza dei giacimenti al mare nonché lo sviluppo di una rete di canali a questo scopo, permisero di distribuire carbone con facilità (nel 700 si estrassero 3 Mt di carbone contro le 800 mila tonnellate del resto del mondo). Nel 1709 Abraham Darby, proprietario di una ferriera, produsse ghisa usando il fossile riscaldato ad alta temperatura in assenza di aria, che liberava in forma gassosa le impurità lasciando un prodotto spumoso e leggero, il carbon coke, utilizzato della lavorazione del ferro liberandola dalla dipendenza del sempre più scarso carbone di legna. Tra il 1760 ed il 1790 il procedimento al coke sostituì quello a carbone di legno.

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Innescò un circolo virtuoso tra espansione del consumo di fossile, sviluppo della meccanica, decollo della siderurgia, meccanizzazione dei trasporti, ulteriore domanda di carbone: spinta propulsiva che si esaurì solo verso fine 800. Il carbone sostenne lo sviluppo e facilitò l’industrializzazione di regioni ricche di miniere. Le innovazioni fondamentali derivarono dalla combinazione di genio creativo e desiderio di abbassare i costi, arrivando prima della affermazione dei principi fisici su cui si basavano, ed il loro successo dipese spesso dalla disponibilità di innovazioni complementari: James Watt, padre della meccanica a vapore, avvalendosi dei macchine perforatrici, migliorò enormemente l’efficienza energetica e introdusse innovazioni a questa macchina che divenne il simbolo delle tecnologie della rivoluzione industriale inglese. La meccanizzazione dei trasporti aprì una nuova fase della civiltà ma anche un capitolo nuovo nella storia dell’energia: quello della sua distribuzione, con piroscafi e ferrovie che trasportavano energia fossile anche dove non ne esistevano dotazioni, diventandone grande consumatore. Per tutto il 700 la forza motrice per eccellenza rimase comunque l’energia idraulica anche in Inghilterra, e la definitiva affermazione della macchina a vapore avvenne tra il 1800 ed il 1850 grazie ad una serie di innovazioni. In questo cinquantennio la macchina fece più per la scienza di quanto questa non abbia potuto fare per essa, determinando la nascita della termodinamica e contribuendo all’elaborazione del concetto di energia. Dotazioni di risorse e combinazioni energetiche Il modello energetico instauratosi in Inghilterra era plasmato sulla dotazione di risorse del Paese: energia idraulica diffusa (utilizzata dalla meccanizzazione tessile) e abbondanza di energia fossile trasformabile in energia meccanica. Con i miglioramenti introdotti nel primo trentennio dell’800 il vapore divenne conveniente e fu addottato nelle attività più diverse, anche in miniere e ferriere che necessitavano di intensità di energia superiori. Carbone e vapore non fecero dunque la rivoluzione industriale ma ne permisero lo straordinario sviluppo e diffusione. Gli altri Paesi non imitarono pessidequamente lo sviluppo inglese ma ogni realtà adottò tecnologie congeniali alla propria dotazione di risorse, modificandole ed adattandole alle proprie specificità. Acqua, legname e carbon fossile, carbone di legna e coke si combinarono in vario modo per soddisfare le esigenze di energia dei diversi Paesi e regioni. Il binomio tessile–energia idraulica operò quasi ovunque nella prima metà dell’800, il vapore sostituì la ruota idraulica solo dove il carbone era più abbondante (Belgio) o quando se ne scoprirono giacimenti rilevanti (Germania, Usa), gli altri Paesi, sprovvisti di carbone, dovettero aspettare la rivoluzione dei trasporti per poter disporre del fossile sul mercato oppure la messa a punto di tecnologie a minore intensità di carbone (Italia). Una definitiva soluzione al problema sarebbe venuta a fine secolo con le tecnologie elettriche. In Germania la chiave del processo fu lo sviluppo del bacino carbonifero della Ruhr, che nel giro di un ventennio divenne la regione con la massima concentrazione mondiale di industria pesante, si sviluppò una moderna siderurgia a coke che costituì il motore di tutta l’industrializzazione del Reich. L’American System of Manufacturing, sistema basato sulla standardizzazione del prodotto e sull’intercambiabilità delle parti. Consisteva nel produrre meccanismi composti da parti

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intercambiabili che si adattavano ed interagivano tra loro con precisione. Si otteneva maggiore velocità operativa e di movimentazione dei materiali. Inizialmente era applicato alla produzione di armi ma si allargò poi alle macchine agricole, da cucire, nelle pentole e serrature. La diffusione in Europa di metodi di produzione di massa fu ritardata fino alla prima guerra mondiale dalla propensione degli europei alla qualità, la loro sofisticazione dei consumi e la resistenza operaia (comportava l’eliminazione di operai specializzati). La collaborazione tra francesi, inglesi e tedeschi portò all’illuminazione a gas, sollecitata dalle esigenze della vita urbana e dalla necessità di illuminare le fabbriche per il lavoro notturno. I francesi inventarono il pallone aerostatico (fratelli Mongolfier, 1783). LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: ACCIAIO, CHIMICA ED ELETTRICITA’ Scienza e industria: l’acciaio Fino alla metà dell’800 le invenzioni erano opera di tecnici o artigiani privi di cultura scientifica approfondita, dal 1850 (seconda rivoluzione industriale) il ruolo della scienza divenne invece sempre più importante nella genesi delle innovazioni, i progressi tecnici dell’era che si usa chiamare dell’acciaio, dell’elettricità e della chimica furono sempre più dovuti a scoperte di laboratorio. Di tutti i prodotti nuovi del XIX secolo nessuno fu più importante dell’acciaio, che assommava i vantaggi del ferro e della ghisa (plasticità, elasticità, durezza) e divenne il prodotto base dell’industria pesante di beni strumentali (macchine, navi, rotaie, armi, ponti) e di beni di consumo. Era ormai necessario costruire macchine che non avessero i difetti di robustezza ed elasticità del ferro e che costassero meno (solo nel 1880 il costo della produzione di acciaio diventò concorrenziale con quella del ferro dolce grazie a diverse innovazioni tecniche). Chimica ed energia elettrica (campi di maggiore correlazione tra scienza e industria) I prodotti si moltiplicavano man mano che le ricerche di laboratorio progredivano, prima nella chimica di base (acido solforico, 1861), poi nella chimica organica (coloranti artificiali, fertilizzanti, ecc). Il centro propulsore fu in Germania, paese che aveva la più antica tradizione di ricerca sistematica, diventando il leader incontrastato in tutte le produzioni sintetiche come quella di ammoniaca (1904) e dei nitrati (1913). Nell’elettricità gli esperimenti a fini commerciali erano iniziati fin dai primi dell’800: 1808 dimostrazione dell’illuminazione elettrica di Davy, 1821 dinamo di Faraday, 1860 principio dell’autoeccitazione, 1880 prime lampadine di Thomas Edison. L’uso principale rimase nel campo della telegrafia e perché l’energia elettrica diventasse di uso comune fu necessario risolvere problemi di coerenza esistenti tra le parti del sistema (produzione, trasmissione, utilizzo). L’energia elettrica trasformò la vita quotidiana degli abitanti delle città e fece apparire nuovi prodotti come l’alluminio. La prima città ad essere illuminata fu NYC, i trasporti urbani divennero più rapidi (tram, metro) e permisero l’estensione di grandi agglomerati. L’industria e l’installazione di impianti elettrici divenne uno dei settori di punta del mondo indutriale. Gran parte delle innovazioni caratterizzanti il periodo tra il 1830 ed il 1914 vennero dalla ricombinazione di conoscenze precedenti (esemplare l’esperienza nel settore trasporti).

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In campo energetico si passò ad un nuovo paradigma, il petrolio: scoperto in Pennsylvania nel 1859 e usato per illuminazione e lubrificazione, nel 1900 iniziò a diventare combustibile nelle navi e solo nel 1914 iniziò a far concorrenza al carbone. Importanti innovazioni anche in altri settori: l’agricoltura europea beneficiò di fertilizzanti e fungicidi, le scoperte di Pasteur sull’origine dei batteri cambiarono la preparazione e conservazione dei cibi (sterilizzazione del latte), la centrifuga permise di separare il siero dal latte, le tecniche di refrigerazione permisero il trasporto di carni in tutto il mondo. Gli effetti politici e sociali di queste innovazioni furono enormi: le popolazioni agricole europee reagirono adottando politiche protezionistiche e la concorrenza stimolò la crescita di politiche di innovazione. Anche il mondo dell’informazione fu investito da cambiamenti, il più grande la macchina da scrivere che rivoluzionò l’organizzazione ed il funzionamento degli uffici, e nella stampa la rotativa. Ritmi e modalità di adozione delle nuove tecnologie dipesero da ragioni economiche ma anche dal funzionamento dei sistemi sociali nel loro insieme, dalle istituzioni e dai valori, rientrando nelle questioni più generali di sviluppo economico. La tecnologia non è una scatola nera liberamente accessibile (Nathan Rosenberg), fattori nazionali e locali specifici possono influenzare direttamente il cambiamento tecnico dandogli tratti nazionali oppure ostacolarlo attraverso l’assenza di capacità sociali come il livello dell’educazione, l’organizzazione politica e commerciale, le istituzioni finanziarie. GLI ATTORI DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE L’imprenditore è il vero motore del sistema capitalistico, e il proprietario dei mezzi di produzione, le macchine e le fabbriche (capitale fisso), materie prime, risorse finanziarie (capitale circolante). Organizza la produzione, decide di investire per innovare le tecnologie, i prodotti o le modalità organizzative, assume gli operai come salariati e vende i prodotti. Reinveste il profitto nell’impresa, consentendone lo sviluppo. Non può controllare il mercato e se ne assume il rischio. Le imprese, durante la fase di avvio all’industrializzazione erano un universo di piccole e autonome, incapaci di esercitare influenza sui prezzi, formavano una concorrenza perfetta, gli imprenditori si proponevano di conseguire il più alto rendimento possibile dai capitali investiti più che di realizzare un determinato volume di produzione. Nel XIX secolo comparvero imprese di grandi dimensioni che tendevano a conquistare posizioni dominanti capaci di imporre le loro decisioni e guidare i prezzi dominando il mercato (oligopolio o monopolio). Fino al 1860 la maggior parte delle imprese erano di piccola o media produzione, il cui capitale apparteneva ad un individuo solo o con qualche partner con responsabilità solidale ed illimitata dei soci (società in nome collettivo), sostituite poi dalla società anonime per azioni, in cui gli azionisti erano responsabili solo per le somme che avevano sottoscritto (s.r.l.), la cui adozione presupponeva la liberazione da alcuni vincoli statali. Parallelamente si rafforzano le concentrazioni industriali: un ristretto numero di imprese dominava la produzione di un intero settore, crescita dimensionale avviata per realizzare sempre maggiori economie di scala dato dal forte peso dei costi fissi. Per fronteggiare la concorrenza di beni a prezzi inferiori si cercarono soluzioni per combattere la concorrenza anarchica: nell’industria carbonifera e siderurgica i cartelli (tedeschi) stipulavano contratti che fissavano i volumi produttivi, i prezzi di vendita e le ripartizioni degli utili, in quella chimica ed elettrica prevalevano le fusioni di imprese, i trust americani (soprattutto nell’industria petrolifera con una spietata guerra di tariffe guidata da

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Standard Oil, di William Rockefeller). Le enormi concentrazioni avvenute tra il 1898 ed il 1906 sconvolsero le regole minando i fondamenti della libera impresa e portarono alla legislazione atitrust (legge Sherman 1890). Le banche ebbero inizialmente un ruolo debole limitato al finanziamento del commercio internazionale ed il collocamento dei prestiti governativi. Il sistema si fondava su banche centrali controllate da pochi ricchi azionisti che anticipavano i soldi allo Stato ed erano le banche delle banche, poi banche provinciali per i commercianti e piccoli industriali, e grandi banche private poco attratte dal prestito commerciale. Col procedere dell’industrializzazione il crescente bisogno di credito spinse alla creazione di nuove istituzioni bancarie che rastrellavano i capitali dei piccoli risparmiatori con nuove tecniche (conti correnti, depositi) e li prestavano ad interessi più alti. C’erano banche di deposito, che disponevano di ingenti risorse (passivo) date dai depositi a breve termine e da una rete di filiali, e negli impieghi (attivo) si dedicava alle operazioni ordinarie di anticipazione su titoli e scoperti sui conti correnti, e banche d’affari, senza filiali, con depositi di medio e lungo periodo di ricchi capitalisti e di società, contava sul capitale proprio versato e si assumeva più rischi occupandosi di investimenti a lungo termine, partecipazioni al capitale, prestiti ai governi, etc. In Inghilterra c’erano poche banche d’affari e la forza del sistema si basava sulla specializzazione delle funzioni, per esempio banche di deposito concentrate in un territorio che conoscevano alla perfezione. Poco per volta le banche private vennero assorbite dalle banche per azioni o si fusero tra loro: nel 1914 le big five, le cinque banche di Londra, prevalentemente ad origine provinciale, controllavano la maggior parte dei sistemi finanziari. In Francia c’era meno specializzazione, poca propensione al rischio, orientamento al credito a breve termine: prudenza gestionale. Il Credit mobilier, fondato dai fratelli Pereire, era una società a contratto con l’industria che controllava tutti i capitali investiti in certi settori ma morì sotto il peso dei debiti. In Germania il legame tra banca ed industria era molto forte. Le più grandi banche, tra cui Deutsche bank (1870), erano banche commerciali che davano credito a breve termine ed insieme banche d’investimento indirizzate a crediti a lungo termine: banche miste che seppero sostenere le società industriali nella formazione e negli aumenti di capitale, collocandone le azioni presso il pubblico. Per ridurre i rischi seppero favorire la protezione del mercato interno e la costituzione di cartelli tra imprese: in paese relativamente povero le banche furono il principale agente della trasformazione, e divennero modello per molti altri Paesi tra cui l’Italia. Le istituzioni pubbliche (Stato, collettività locali) furono un altro importante attore per la crescita economica del XIX secolo: Paesi a forte autonomia locale come la Gran Bretagna o gli Stai Uniti si affidarono più allo spirito d’impresa di singoli individui, grandi Paesi con importanti apparati statali quali Francia o Prussia videro lo Stato intervenire in modo più pesante, e nei Paesi secondi arrivati lo Stato fu un essenziale agente sostitutivo alla debolezza della borghesia e scarsità di capitale. Il generale lo Stato tendeva a limitare le proprie spese, ricorreva ad imposte indirette sui consumi piuttosto che a quelle dirette, e sul patrimonio, aumentando così le disuguaglianze sociali, incoraggiando gli investimenti e riducendo i consumi. Attraverso la legislazione promuovè la libera impresa eliminando antiche restrizioni, protesse le invenzioni con i brevetti, controllò le frodi regolamentando banche. In certi casi intervenne in aiuto di industrie in difficoltà o si fecce esso stesso

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imprenditore (Francia, regie des tabacs 1811). Alcune città alla fine del XIX secolo municipalizzarono la distribuzione del gas, elettricità, trasporti urbani. Il contributo più importante dello Stato allo sviluppo fu nel campo dell’istruzione ed educazione, associate a tre concetti: - Sviluppo: l’innovazione tecnologica richiedeva la creazione di un sistema scolastico di base e scuole di specializzazione di livello superiore. Gli Usa furono tra i primi a svilupparlo, in Francia naquero instituzione quali l’Ecole Politecnique da cui lo Stato trasse i propri quadri ed altre scuole locali di arti e mestieri di però basso livello di base, in Inghilterra l’insegnamento divenne gratuito solo nel 1891, ma il sistema non seppe stare al passo con la complessità tecnologica crescente, e questo determinò il sorpasso tedesco. - Declino: il caso dell’Inghilterra mostra come la mancanza di educazione porta ad una perdita di posizioni economiche acquistate, inibisce lo sviluppo. Oxford e Cambidge davano grande preparazione umanistica ma tralasciavano completamente quella tecnico-scientifica; il problema non fu la qualità ma la tipologia. - Cambiamento: tra i fondamentali fattori di sviluppo ci sono la formazione e la riproduzione di competenze e conoscenze sia specifiche che ad alto potenziale innovativo. La scuola va considerata all’interno di un più ampio insieme di attori che costituiscono la società. I PERCORSI NAZIONALI Nel corso dell’800 lo sviluppo industriale era alla base della potenza politica e militare nelle nazioni; nei rapporti tra le potenze le tonnellate di ghisa contavano più degli uomini. La nuova geografia industriale si disegnava attorno ai bacini ricchi di carbone cokizzabile che consentivano lo sviluppo dell’industria pesante e dei beni strumentali (i Paesi neri dell’Inghilterra, Galles e Scozia, la Loira, la Ruhr prussiana), oppure dove le esperienze industriali precedenti avevano trovato nuovi sviluppi, la manodopera era qualificata ed abbondante o i trasporti erano facili (grandi città come Londra e Parigi, fascia prealpina del Nord-Italia, regioni tessili dell’Alsazia e Svizzera). La Gran Bretagna godè di una supremazia schiacchiante durante la prima metà del secolo, il suo sviluppo tecnico assicurò prezzi bassi alle sue stoffe di cotone prodotte in grande quantità e gli imprenditori erano sostenuti dal clima di liberalismo, dal dinamismo del mercato interno e dall’abbondanza di materie prime e di carbone. Fino agli anni 80 mantenne la prima posizione per poi retrocedere e ritrovarsi nel 1914 al terzo posto dopo USA e Germania, che insieme alla Francia producevano il 71,2% dei manufatti mondiali. I suoi concorrenti diretti uscirono dalle guerre napoleoniche con ritardi da recuperare e grossi svantaggi come condizioni naturali meno favorevoli, scarsità di carboni facili da estrarre e trasformare in coke, capitali meno abbondanti, mentalità più attaccata all’impresa familiare, carenza di tecnici e operai specializzati. La legge inglese inoltre proibiva (fino al 1825) esportazioni di personale e di progetti di macchine. Il rallentamento dell’economia inglese, giunta con grande anticipo alla piena maturità ed allo sfruttamento delle proprie risorse, è dovuta anche a motivi sociali, come industriali poco innovatori e manageriali che si attardano nelle vecchie produzioni e tecnologie ed erano orientati al rendimento finanziario immediato più che all’efficienza tecnica, e la scuola che si occupò poco della formazione di base e dei quadri tecnici. L’industria degli Stati Uniti era favorita dall’abbondanza di risorse naturali ben localizzate e facilmente sfruttabili, dalla protezione doganale che riservò agli imprenditori il mercato interno più

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dinamico al mondo, dalla crescita demografica prodotta dalle ondate migratorie, dall’ambiente sociale favorevole all’accumulazione delle ricchezze materiali e all’adozione di tecniche moderne (dovuta alla carenza di manodopera e quindi l’alto costo del lavoro), all’equilibrio tra tutti i comparti produttivi e le diverse aree del paese e dalla crescita di grandi imprese nei settori strategici dello sviluppo. Il Belgio fu il Paese che più si conformò al modello inglese per similarità di risorse naturali, lunga tradizione marittima, commerciale e manifatturiera, e contiguità territoriale. In epoca napoleonica aveva beneficiato del mercato francese, poi fu accorpata ai Paesi Bassi e divenne indipendente nel 1830. Il sistema industriale era forte: attività mineraria e metallurgica, polo laniero più potente sul continente, meccanizzazione del lanificio, industria cotoniera, meccanica e siderurgica. Più tardi zuccherifici, vetrerie, cantieri navali, ferroviari e tranvari, industria chimica. Sperimentò inoltre un originale strumento finanziario di sostegno all’attività industriale, una banca di investimenti (1830) che deteneva pacchetti azionari di imprese e ne creava seguendone gli interessi. La banque del Belgique, creata nel 1835, fondò e rilevò in 4 anni ben 24 imprese industriali. Lo Stato ebbe un ruolo importante nella costruzione di ferrovie e nel 1840 il Belgio era il paese più industrializzato del continente, e tale rimase fino al 1914. La Francia, svantaggiata da istituzioni e mentalità imprenditoriale poco adatte allo sviluppo industriale e dalla scarsità di carbone, mantenne fino al 1850 in primo piano gli interessi agricoli pur raggiungendo importanti sviluppi nel settore cotoniero, siderurgico e meccanico. I tre quarti dell’output industriale provenivano dalla manifattura artigianale di beni di lusso ad alto valore aggiuntivo (industrie naturali) che godevano di alto prestigio e radicate tradizioni. Già seconda potenza commerciale al mondo, la crescita accelerò quando la mano pubblica (Napoleone III, secondo Impero) intervenne nella costruzione di una rete ferroviaria e telegrafica, ma pesò negativamente la sconfitta nella guerra franco prussiana con la perdita dell’Alsazia-Lorena, la recessione degli anni 80, le epidemie nel settore vitivinicolo, le guerre commerciali con l’Italia e in generale la svolta protezionistica del periodo che penalizzava un Paese principalmente esportatore, il rallentamento del mercato interno dovuto alla bassa crescita della popolazione. I punti di debolezza strutturali erano le piccole dimensioni aziendali sia in agricoltura che nelle attività manifatturiere, il dualismo tra un ampio settore di produzioni artigianali di nicchia e poli industriali moderni localizzati intorno ai grandi centri urbani, la dipendenza energetica dalla forza idraulica (l’elettricità consentì un recupero all’esordio del nuovo secolo che ebbe il suo settore trainante nell’industria automobilistica). La Germania grazie ai suoi rapidissimi sviluppi divenne la seconda potenza mondiale, il più temibile rivale continentale dell’Inghilterra. Le industrie avevano alla base attività di laboratorio, erano orientate più all’efficienza tecnica che al rendimento, e la Germania fu la prima nazione ad introdurre un sistema di previdenza sociale (1880). Il decollo avvenne dopo l’unificazione nel 1871 e si fondò sull’attiva partecipazione dello Stato e sui forti legami con le banche (ruolo propulsivo della banca mista) che iniziarono col finanziare le costruzioni ferroviarie, per poi estendersi ai settori a monte (industria mineraria, siderurgica e meccanica) ed a tutto il mercato. Il modello di sviluppo si configurò come capitalismo organizzato o capitalismo manageriale cooperativo, i cui aspetti più significativi furono la tendenza alla concentrazione degli impianti ed il conseguente rafforzamento del ruolo della grande impresa (big business), forte legame tra scienza ed industria, e l’affermazione di cooperazioni tra imprese dello stesso settore attraverso accordi di cartello per eliminare la concorrenza, stabilire i prezzi e i profitti, che divennero legittimi nel 1897 (106 nel 1890, 385 nel 1905) I settori di punta, meccanica industriale pesante (elettromeccanica), metallurgica e chimica (Bayer, aspirina, coloranti) producevano beni strumentali e non di consumo, si imposero sui mercati

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internazionali con aggressive politiche di marketing e richiedevano pesanti investimenti iniziali (banche) e sfruttavano i vantaggi delle economie di diversificazione e di scala. L’Impero Asburgico imitò il sistema finanziario tedesco ed i suoi cartelli ma la situazione economica era ben diversa: non si era modernizzata, l’apertura del mercato era bassa, l’industria era prevalentemente leggera (alimentare, tessile, vetro, carta) e all’interno dei suoi vasti territori le situazioni erano diversissime, Austria, Boemia e regioni italiane erano le più avanzate, seguivano Slovacchia, Ungheria e Slovenia, mentre il resto dell’Impero era tra le aree più arretrate del continente. La Russia annegava nell’enorme estensione territoriale i pur significativi progressi compiuti: possedeva (1914) il maggior chilometraggio di ferrovie in Europa, produceva la stessa quantità di acciaio ed elettricità della Francia, ma il reddito pro capite era di un terzo rispetto agli inglesi, il 75% della forza lavoro era occupato in agricoltura, il 72% era analfabeta e solo il 15% viveva in zone urbane. Lo zar Alessandro II abolì nel 1861 la servitù della gleba ma l’effettiva liberazione delle terre avvenne solo nel 1907. Lo Stato svolse un ruolo molto attivo come agente sostitutivo nei canali privati di investimento, seppe attirare investimenti stranieri, protesse le industrie siderurgiche, sussidiò gli investitori. Il capitale straniero svolse un ruolo fondamentale per saldare il debito pubblico, utilizzato nella costruzione di ferrovie e nel finanziamento alle società per azioni: per far questo lo stato tassò i redditi già bassi restringendo la domanda privata e quindi penalizzando le industrie di beni di consumo, facendo invece decollare grazie alla domanda pubblica dagli anni 80 l’industria pesante (carbone, acciaio, macchine) legata a ferrovie ed armamenti non solo nelle aree industriali di Mosca e San Pietroburgo ma anche negli Urali, in Ucraina e Polonia. La Spagna presentava un’agricoltura arretrata ed un livello di istruzione carente, a parte la Catalogna (industria cotoniera, meccanica, trasporti, elettrica) ed i Paesi baschi (industria siderurgica). Nell’800 la crescita fu quindi lenta e limitata. L’Italia, che nella sua stagione d’oro tardo medievale e rinascimentale aveva primeggiato nei commerci, manifatture e banche, concentrò le proprie attività industriali nella fascia tra l’alta pianura padana e le valli prealpine data la ricchezza di energia idraulica e la presenza di manifatture tradizionali favorite da un mix abbondante di materie prime. In un dominante contesto agricolo prevalevano piccole unità produttive e lavorazioni artigianali nel tessile, con la produzione di seta semilavorata, in crescita il cotoniero, arretrati invece la siderurgia e la meccanica. Nella prima metà dell’800 i territorio era stato sconvolto dal periodo napoleonico, dalla dominazione austriaca con la successiva frammentazione degli Stati preunitari con profonde differenze nelle strutture economiche, infrastrutture, nei livelli di istruzione e nelle condizioni socio-culturali che resero estremamente difficile il lavoro dei governanti nel porre le basi dell’unificazione. Essi effettuarono una vasta opera di modernizzazione istituzionale adottando una legislazione liberista ed una delle più avanzate leggi sull’istruzione (Casati), ed infrastrutturale sviluppando reti di ferrovie, strade e porti, le strutture educative, ricorrendo alla leva fiscale per procurarsi tali risorse. L’Italia era penalizzata dalla mancanza di carbone, dalla ristrettezza del mercato interno, dall’insufficiente accumulazione di capitali e di sistemi di finanziamento, dal basso livello dell’istruzione e da un quadro culturale non favorevole ad un mutamento strutturale del sistema economico. Il ruolo dello stato nello sviluppo fu da subito importante anche se diede preminenza ai consolidati interessi agricolo-commerciali e finanziari anche se con l’irrobustirsi delle attività secondarie, con il maggiore sostegno governativo dato dalla Sx storica e con gli effetti della crisi agraria che indusse al protezionismo, gli industriali ebbero più ascolto portando al decollo tra il 1896 ed il 1913: nell’ultimo ventennio del secolo tutti i settori industriali decollarono, con preminenza del

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tessile ma anche nella cantieristica, siderurgia, produzione materiale ferroviario ed armeria, produzione di elettricità (nel 1914 era uguale a quella della Francia), si avviò anche il settore automobilistico (Fiat 1899) e della gomma (Pirelli 1872). La forza produttiva si concentrava nel triangolo industriale (Torino, Milano, Genova), in parte del Veneto e del centro Italia, rimanendo condizionate dai permanenti squilibri regionali. 2.4 LA RIVOLUZIONE NEI TRASPORTI E NELLE COMUNICAZIONI Strade e canali Alla fine del 700 il commercio era ancora vincolato alla forza animale o alla navigazione lungo fiumi o coste. I nuovi mezzi di trasporto (ferrovia, nave a vapore, telegrafo) non determinarono la rivoluzione industriale iniziata prima del loro avvento, ma la accelerarono ed estesero, oltre che trasformare il tradizionale rapporto dell’uomo con lo spazio e le dimensioni del pianeta. Il trasporto, ancor più nel 900 con l’automobile e l’aereo, non fu più soltanto uno strumento mercantile di scambio ma divenne esso stesso parte rilevante dei mezzi di produzione. Uno dei prerequisiti della rivoluzione industriale inglese fu comunque la costruzione di un fitto sistema di canali che permetteva di abbattere il costo di trasporti di circa tre quarti rispetto al trasporto via terra. Sulla costruzione di canali e strade si diressero fin dal 1840 i principali investimenti, nel 1836 le strade a pedaggio inglesi (turnpikes, a capitali privati curate da trusts, consorzi locali) raggiungevano le 22 mila miglia, arrivando a raggiungere i più isolati villaggi, mentre in molte altre parti d’Europa la manutenzione si limitava alle strade maggiori per lo spostamento delle truppe. La Francia era il Paese con la migliore rete di comunicazioni: finanziamenti pubblici già dal 1750 favorirono il miglioramento delle già estese reti, nuovi sistemi di costruzione erano dovuti a scuole specifiche per la formazione di ingegneri e di direttori dei lavori stradali. All’inizio dell’800 ai 33 mila km di strade maestre se ne aggiunsero altri per gli spostamenti delle truppe in Belgio, Germania e Nord Italia (per il resto dell’Italia si dovette attendere l’unità per il potenziamento). Il costo dei trasporti terrestri diminuì di 4 volte grazie a diligenze più leggere, e nonostante l’avvento della ferrovia fece cadere in dusiso il trasporto a cavallo su lunghe distanze, questo si usò sulle brevi sino al primo 900. Fiumi e acque rimanevano la via meno onerosa e il trasporto interno venne ulteriormente solleccitato dalla maggiore domanda dovuta dall’aumento della popolazione, dalla riduzione dei costi di trasporto e dall’invenzione dei battelli a vapore (1812) che risolvevano le difficoltà del trasporto controcorrente: in Inghilterra la costruzione di canali venne intensificata per tutti i primi 40 anni dell’800, in Francia ci si concentrò principalmente sulle aree industriali per unire le regioni carbonifere ai mercati urbani, in Germania fu tarda e solo tra il 1873 ed il 1914 vennero costruiti 6600 km di canali. Avvento e sviluppo delle ferrovie La più importante invenzione del XIX secolo: il suo successo non fu dovuto ad un vantaggio tariffario ma alla migliore organizzazione, rapidità e versatilità del servizio. È il risultato della combinazione di elementi già esistenti prima dell’800: binari, carrelli e macchina a vapore che grazie all’invenzione della locomotiva (1825) divenne autonoma e dimostrò empiricamente la sua economicità sia per il trasporto di merci che di passeggeri (prima linea Liverpool-Manchester,1829). Da allora l’evoluzione

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punta alla ricerca di una velocità elevata e del massimo di energia possibile in grado di consentire trasporti di massa. L’acciaio che negli anni 70 sostituì ghisa e ferro aumentò la resistenza delle rotaie e la capacità dei vagoni, e continui progressi migliorarono il rendimento della ferrovia, l’aumento della sua estensione fu eccezionale (da 7200 nel 1840 a 925 mila nel 1906). All’inizio del XX secolo il 70% del chilometraggio mondiale era di compagnie capitalistiche, il restante 30 dello Stato (in Inghilterra erano unicamente di proprietà privata, in Italia statali). In Inghilterra il parlamento spese in ferrovie solo nel 1835 più di quanto aveva spesa per la costruzione di tutti i canali, era un settore che attraevagli investitori, rappresentava più che un fattore per il futuro sviluppo economico uno strumento necessario per sostenere l’industrializzazione già in atto, per soddisfare la domanda di trasporto di un paese già industriale: le ferrovie, anziché causa furono conseguenza dello sviluppo, evitando quindi problemi di inadeguatezza dell’industria meccanica e metallurgica. Le ferrovie erano finanziate da privati e si svilupparono senza coordinamento nel territorio fino al 1842 quando venne creato un organismo apposito. Per gli Stati Uniti, secondi nella corsa alla ferroviarizzazione, il fattore stimolante fu la domanda proveniente dall’agricoltura, divenendo a sua volta occasione di industrializzazione, così come successe in Belgio, Francia e Germania quindi la costruzione di ferrovie assunse un forte ruolo di modernizzazione dando impulso all’industria metalmeccanica, attivando sistemi di finanziamento ad hoc e di gestione su larga scala. In Belgio grazie alle piccole dimensioni, si costruì la prima rete continentale, ad iniziativa dello Stato, che stimolò lo sviluppo della siderurgia e meccanica per sostituire le importazioni inglesi. Le linee secondarie vennero lasciate all’iniziativa privata, ma poi riscattate dallo Stato che nel 1914 possedeva il 95% del chilometraggio totale. La Germania fu la sola altra impegnata nella stagione pioneristica delle costruzioni ferroviarie (ante 1850), puntò sull’iniziativa governativa (ruolo militare e politico), su quella privata e su capitali esteri, costruì in modo spartano, dal 1843 la metà della produzione di locomotive era interna. In Francia il vero decollo si ebbe con il Secondo Impero, ed il superamento delle ostilità dei fautori del completamento dei canali. La vastità del paese rendeva difficile il finanziamento pubblico, il sistema dominante fu quindi la concessione temporanea all’industria privata sotto il controllo statale: il governo decideva la struttura della rete, acquistava terreni, infrastrutture e stazioni mentre le società si assumevano gli oneri relativi a materiale rotabile, personale e organizzazione del servizio. Fu il ventennio 1850-1870 ad essere definito l’età d’oro della ferrovia, vide strutturarsi le reti continentali europea e Nord-americana. La Francia ebbe lo sviluppo migliore grazie alla garanzia statale, in Italia il sistema si sviluppò ad iniziativa statale dopo l’unificazione per l’italianizzazione, con accentuata dipendenza dall’estero sia per capitali che per materiali, la rete si estese accentuando gli squilibri. Le ferrovie fecero scomparire le diligenze e ridussero il traffico stradale, le vie d’acqua si mantennero per le merci voluminose e pesanti abbandonando il trasporto di persone e posta. Nell’ultimo ventennio del secolo si completarono le reti locali ed i collegmanti internazionali (trafori alpini) e intercontinentali. Trasporti marittimi L’affermazione della nave a vapore fu molto più graduale di quella della ferrovia sia per la sua lenta evoluzione nel ridurre i consumi e carico di combustibile, ma anche per la concorrenza della

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marineria a vela che aveva migliorato velocità e manovrabilità. L’apertura del canale di Suez (1869) abbreviò i percorsi per India ed Oceania e spostò le rotte su mari meno ventosi. Fino al 1850 i progressi del vapore furono più sensibili nella navigazione fluviale che in quella marittima, e la nave a vapore era ancora fornita di velatura (fino al 1880). Fu nel 1860 che si verificarono progressi decisivi: il ferro, e dal 1879 l’acciaio sostituirono il legno degli scafi diminuendo le spese di manutenzione e l’usura, l’elica eliminò le pale, il numero dell’equipaggio, i costi di funzionamento e le quantità di carbone diminuirono, aumentando gli spazi per i passeggeri o alle merci. All’inizio del XX secolo i piroscafi acquisirono la supremazia: il trasporto merci/passeggeri si specializzò. Anche l’industria navale crescette in parallelo, la predominanza inglese rimase un elemento chiave della sua potenza e fonte di entrate, possedendo metà delle navi europee. Le conseguenze economiche Funzione passiva mezzi di trasporto: trasferimento beni e persone. Funzione attiva: promuovere e moltiplicare lo sviluppo, riducendo i costi liberano risorse che possono essere destinate ad altri consumi a sostegno della crescita economica. Tra le principali conseguenze della rivoluzione dei trasporti c’è la riduzione dei prezzi dei noli marittimi per l’intensificarsi della concorrenza (più per le navi a vela), e il ribasso delle tariffe ferroviarie. Questo aumentò la mobilità delle persone agevolando i contatti, gli scambi e le interdipendenze economiche e sociali. Vennero inoltre stimolati settori a monte dando particolare stimolo alle industrie di costruzioni, alla siderurgia, alla meccanica ed ai servizi. Si crearono le prime grandi imprese di tipo capitalistico che svilupparono i primi ambiti di impiego manageriale. Il telegrafo e la globalizzazione dell’informazione 1835, Morse inventa il telegrafo che a partire dal 1843 consente di mettere in comunicazione quasi reale città e continenti diversi. La circumnavigazione del globo via cavi si completò nel 1902, più della metà dei quali era controllata dagli inglesi, il che consolidò la posizione di Londra come centro del mercato mondiale. Mezzo secolo dopo il telefono si affermò come strumento commerciale e solo a fine secolo si estese alla comunicazione privata. Le prime trasmissioni radio di Guglielmo Marconi sono del 1896 e posero le basi alla comunicazione di massa. 2.5 SCAMBI INTERNAZIONALI E SISTEMI MONETARI L’Europa e l’economia mondiale Nel corso dell’800 lo sviluppo del commercio internazionale conobbe un incremento prodigioso: il mondo divenne un mercato unico ed era l’Europa, già al centro della fitta rete di commerci con le Americhe, l’Asia e l’Africa, che dominava gli scambi. Protagonista assoluto il Regno Unito che controllava nell’800 il 36% del commercio mondiale (14% nel 1914), secondo posto a distacco per la Francia, superata all’inizio del XX secolo da Germania e Stati Uniti. L’economia internazionale diventava sempre più complessa consolidando nell’800 le relazioni già esistenti e formando nuovi equilibri, e si mantenne sotto il segno del gold standard.

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Tra il 1815 ed il 1914 influirono sulle relazioni commerciali: - il progresso tecnologico permise un aumento dei traffici richiedendo nuove materie prime da importare (cotone dall’Asia e dalle Americhe) e proponendo nuovi prodotti da piazzare su mercati extraeuropei; - la rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni che consolidò una serie di rapporti commerciali e legami politici, e ridusse i costi di trasporto di merci; - la crescita della popolazione mondiale che passò da 900 milioni nel 1800 a 1,6 miliardi nel 1900, facendo nascere nuovi fenomeni di migrazioni, rendendo il lavoro più mobile, aumentando la richiesta di beni di consumo (l’Europa dipese a livello alimentare sempre più da produzioni extraeuropee); - l’accumulazione di capitali con una forte partecipazione d’investimenti stranieri (Inghilterra a parte) attratte da performance di sviluppo elevate. Liberalismo e sviluppo del commercio internazionale Grazie al ribasso dei costi di trasporto, l’aumento della varietà dei prodotti e del potere d’acquisto delle popolazioni, nel corso dell’800 lo sviluppo del commercio internazionale conobbe un incremento straordinario, registrando il tasso di crescita più elevato tra il 1842 al 1873, periodo del libero scambio (dagli anni 70 alla prima guerra mondiale vi fu un aumento del protezionismo) che incise più fortemente sul PIL dei Paesi più piccoli che potevano specializzarsi in una gamma ristretta di prodotti, questi furono infatti i più favorevoli, mentre Paesi grandi come Stati Uniti o Russia furono i più protezionisti, così come i Paesi in corso di industrializzazione. Vi fu inoltre un processo di multilateralizzazione: i Paesi non dovevano bilanciare esortazioni ed importazioni con ogni singolo partner ma nell’aggregato. Il pensiero liberista dell’800 (David Ricardo, scuola classica) riteneva che una volta superate le barriere naturali bisognasse superare anche quelle artificiali, dazi e proibizioni. Il libero commercio permetteva la specializzazione del lavoro aumentando la produttività globale del sistema e rendendo più efficiente l’uso delle risorse, costituendo un importante fattore di modernizzazione per i Paesi inseguitori. Nessun paese comunque arrivò allo sviluppo industriale con completa libertà di commercio, il protezionismo serviva a promuovere lo sviluppo di settori industriali ancora in embrione. Tra 600 e 700 la maggior parte degli Stati europei aveva abbracciato le teorie mercantiliste: perché l’economia di una nazione fosse prospera bisognava che le esportazioni superassero le importazioni, lo Stato doveva intervenire nel fissare protezioni nel flusso di merci straniere, e incentivazioni sull’esportazione di prodotti. Fu in Inghilterra del 1750 che presero forma nuove visioni: Adam Smith (1776) riteneva che la ricchezza delle nazioni poteva aumentare allocando meglio le risorse, la mano invisibile del mercato avrebbe portato all’equilibrio ottimale, David Ricardo (1819) mostrò con la legge dei costi comparati i vantaggi della specializzazione e della divisione internazionale del lavoro. Gli Stati Uniti adottarono le teorie di protezionisti come l’americano Hamilton che voleva il libero scambio a seconda del livello di sviluppo economico di una nazione, o del tedesco List che sostenne che il liberalismo avvantaggia i Paesi già sviluppati ed impedisce agli altri di industrializzarsi, e che il passaggio ad un regime industriale può avvenire solo con l’ausilio di un regime protezionistico. Fino al 1913 l’economia americana fu una delle più protette dalla concorrenza. Corn laws: complicato sistema di dazi sul grano d’importazione introdotto dagli inglesi e tipico di legislazioni che vogliono ridurre l’imposta diretta concentrando il carico sui dazi doganali relativi ai consumi, variabili a seconda del prezzo interno del grano al fine di proteggere i produttori interni e

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gli interessi dei grandi proprietari terrieri che vedevano i prezzi mantenuti elevati, scaricando il costo economico e sociale sui ceti meno abbienti e rendendo quasi impossibile l’importazione di cereali. Contro tali leggi l’industriale di Manchester Richard Cobden formò una lega, sostenendo che l’industria britannica dipendeva dalle condizioni atmosferiche che influivano i raccolti: un cattivo raccolto determinava un aumento del prezzo del pane, diminuzione del consumo di altri prodotti, disoccupazione, calo delle importazioni ed esportazioni. Per combattere le crisi economiche i governi accettarono i suggerimenti e dal 1842 iniziarono a ridurre i dazi per arrivare al definitivo trionfo del libero scambio nel 1860 quando l’Inghilterra era all’apice della sua forza economica, anno di stipulazione del trattato Cobden-Chevalier fra Gran Bretagna e Francia che prevedeva la rimozione di tutte le tariffe sull’importazione di merci francesi da parte dell’Inghilterra in cambio di una riduzione delle tariffe sulle merci inglesi ponendo un dazio del 30% come massimo. Grazie alla clausola della nazione più forte il libero scambio trovò uno sviluppo a catena che coinvolse la maggior parte delle nazioni europee. Il ritorno al protezionismo Fattori che cambiarono il panorama dell’Europa dal 1870 orinentandola al protezionismo: - il raggiungimento di alti livelli di sviluppo industriale spinse i ceti imprenditoriali a chiedere protezione dalla concorrenza, - l’importazione di grano a basso prezzo da Stati Uniti e Russia resi possibili dai nuovi trasporti a basso costo, - la crisi economica che si abbatté sull’Europa rese la competizione più difficile, - l’affermarsi del nazionalismo ed imperialismo modificò il clima delle relazioni, si crearono le tensioni politiche che portarono alla guerra mondiale, si affermò una relazione sempre più stretta tra protezionismo e politica di prestigio internazionale, - le imprese coloniali portarono a scontri diplomatici sulla spartizione di terre e l’espansione coloniale aveva alti costi, ricavabili dal sistema tariffario, - l’abbandono di posizioni liberiste da parte di importanti nazioni produsse effetti a catena. In Germania Bismark adottò tariffe sui prodotti nazionali tra il 1879 ed il 1881, l’Italia preunitaria esportava materie prime agricole e prodotti semilavorati (seta) importando manufatti industriali, il passaggio dal liberalismo della classe dirigente del nuovo Regno al protezionismo fu graduale e travagliato, che vide con l’avvento della sx storica e la necessità di industrializzazione l’abbandono delle teorie di specializzazione internazionale, per adottare prima una politica di tipo semiprotezionistico (tariffa doganale 1878) ed arrivare infine alla svolta tariffaria del 1887, tenacemente sostenuta dal leader degli industriali del tempo, il laniere e senatore Alessandro Rossi di Schio. Tutti i Paesi tornarono quindi a posizioni di protezionismo ad esclusione delle nazioni con il commercio più sviluppato dell’Europa Nord-occidentale, e dell’Inghilterra che manteneva una forte apertura economica divenendo il perno dell’intero sistema di scambio internazionale. Il colonialismo La Gran Bretagna era l’unico paese con un forte legame economico con le proprie colonie: l’investimento verso queste copriva nel 1914 il 64% degli investimenti totali. Il cosiddetto declino economico inglese può essere associato ad una eccessiva insistenza in produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale assorbibili dai mercati coloniali, ma che allontanava gli interessi ai prodotti della seconda rivoluzione. Nel lungo periodo il legame coloniale avrebbe assorbito enormi capitali

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destinabili invece in processi di rinnovamento tecnologico interno, ed avrebbe creato un fenomeno di immobilità produttiva dovuto alla presenza di mercati poco sofisticati. L’economia internazionale Netta supremazia inglese lungo tutto l’800, Europa al centro del sistema-mondo, Stati Uniti in crescita. Il sistema è riconducibile ad un modello centro-periferia in cui l’Europa ha le redini del gioco e sviluppa la gran parte dei propri commerci all’interno dei propri confini (oltre 80% delle esportazioni europee trovava mercati d’acquisto in Europa stessa), era la periferia ad avere bisogno dell’Europa per avviare processi di sviluppo commerciale ed industriale. Il grande sviluppo del commercio internazionale, di cui la Gran Bretagna era il leader indiscusso, non avrebbe potuto realizzarsi senza lo sviluppo di sistemi di finanziamento: mercati di titoli, d’azioni, mercati di valuta estera, banche centrali, private e commerciali furono gli strumenti per una espansione finanziaria senza precedenti. Tutto il mercato internazionale venne a regolarsi su Londra, la City, che disponeva di un mercato finanziario specializzato ed informato, rafforzato dalla supremazia della sterlina che grazie ai suoi servizi riusciva ad equilibrare la bilancia dei pagamenti. Profitti di attività commerciali restavano all’estero sotto forma di investimento in attività di produzione o investiti nel debito pubblico: attività che segnarono la crescita fenomenale dell’investimento estero nell’800. L’Europa era sia maggiore investitore al mondo (Gran Bretagna 43%, Francia 20%, Germania 13% nel 1913) che maggiore ricettore di investimenti (Europa 27% con Paesi balcanici, Russia e turchia maggiori riceventi, Nord America 24%, Sud America 19%, Asia 16%)

3. IL XX SECOLO, TRA ROTTURA E PROSPERITA’ Belle Epoque, dal 1900 al 1914, periodo di grande prosperità per l’economia mondiale, globalizzata grazie ai nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, le persone e le merci potevano viaggiare ovunque ed in tempo reale, non c’erano ostacoli al commercio, se non alcuni dazi contenuti, il benessere si diffondeva in tutto il mondo, le regioni agricole progredivano ininterrottamente e gli strati sociali più poveri emigravano verso le Americhe. Questo progresso miracoloso può spiegarsi con un insieme di circostanze favorevoli: l’egemonia di Londra come piazza borsistica, finanziaria, commerciale e di servizi, il predominio dell’economia inglese nel complesso semplificava il mondo e facilitava gi scambi. È a questo equilibrio che si orienta il nostro futuro. 3.1 CRESCITA E TRASFORMAZIONE DELL’ECONOMIA La crescita secolare Il PIL europeo è cresciuto dal 1913 al 1998 di 7 volte, lo stesso incremento annuale della Belle Epoque, un aumento secolare mai visto prima in Europa. America del Nord, Africa e Oceania lo aumentarono di 14 volte, l’Asia di 19 e l’America Latina di 24. L’economia mondiale nel complesso è cresciuta di 12 volte. L’Europa nel 1913 generava il 47% del PIL mondiale, nel 1998 solo il 26%: il XX secolo vede un decremento continuo della posizione europea nell’economia mondiale, spiegato dal fatto che la popolazione europea cresceva alla metà del ritmo della popolazione mondiale compensato da un aumento relativo del benessere pro capite. Nel 1820 l’Europa aveva il 32,2% di PIL e il 21,5% di

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popolazione, il che significa un livello di prosperità materiale superiore del 50% rispetto alla media mondiale, che nel 1998 arriva quasi a doppiare. C’erano meno europei, ma più prosperi. L’evoluzione demografica Durante il secolo i Paesi europei sono cresciuti di circa 300 milioni di abitanti, da 500 a 800, quindi più del 60%. La situazione prima del 1913, dopo le guerre balcaniche e con le frontiere esistenti in quel momento, vedeva il grosso della popolazione (88%) concentrata in 7 Stati (Russia, Germania, Austria-Ungheria, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna). Il ritmo di crescita dal 1900 al 1913 fu di 1,11%, dal 1913 al 1950 (transwar years) molto più lenta, alcuni Paesi soffrirono di perdite numeriche considerevoli durante le guerre (Polonia e Cecoslovacchia), altri entrarono in una fase di stagnazione totale (Francia ma anche Germania, Austria ed Irlanda) mentre le periferie europee, la mediterranea e la settentrionale ebbero maggiori incrementi con in testa l’Olanda. Dopo il 1950 il ritmo globale di crescita aumenta come frutto del maggiore ottimismo del dopoguerra in tutti i Paesi tranne alcuni del blocco sovietico (Ungheria e Bulgaria), crescita concentrata nel terzo quarto di secolo (1950-1973 +1% annuo, 1973-1990 +0,5%, 1990-1998 +0,2%), mentre l’ultimo decennio fu segnato da una stagnazione totale dell’Europa orientale (CSI inclusa). I tassi di mortalità, specialmente quella infantile, declinarono fortemente, la speranza di vita alla nascita era in costante aumento. Nel 1900 si superavano raramente i 50 (Italia 43, Russia 32), alla fine del secolo la speranza di vita alla nascita era di 77–79 anni. La situazione attuale è di equilibrio tra natalità e mortalità, entrambe attorno al 10%0 . L’Europa fu durante tutto il XIX secolo un continente di emigrazione. Tra le due guerre l’Europa occidentale ed in particolare Gran Bretagna, Belgio e Francia cominciarono ad attrarre immigrati (dal Sud o dall’Est Europa) per la necessità di manodopera dovuta alle enormi perdite di vite umane, alle mutilazioni ed invalidità provocate dalla guerra, ma anche per le nuove severe leggi sull’immigrazione americane. Dopo la seconda guerra mondiale l’immigrazione europea ebbe un decollo, continuando negli anni ‘50 a convivere con la dominante emigrazione transoceanica, per trasformarsi negli anni ’60 in immigrazione netta iniziando ad attrarre anche popolazioni delle ex colonie ed extraeuropee. Il potenziale economico PIL: moltiplicazione della popolazione per il reddito pro capite, è il migliore indicatore della potenza economica, della capacità complessiva di mobilitare risorse. Nel 1913 le 6 maggiori potenze europee (Russia 20,4%, Germania 19,4%, Austria–Ungheria 17,2%, Francia10,7%, Regno Unito 10,1% ed Italia 6,1%) cumulavano l’85% del PIL (prodotto interno lordo). Ma tenendo conto anche il peso del PIL totale (coloniale), poderoso per l’Inghilterra (146% confrontato col PIL della madrepatria) e per l’Olanda (181%), ininfluente per Italia e Spagna (1%), la classifica del potenziale economico cambia vedendo l’Inghilterra al primo posto (31,9%), la Russia sprovvista di colonie retrocessa al secondo (15,5%) seguita da Germania (15,1%) e Francia (9,9%). Come si vede il potenziale britannico è molto superiore a quello dei soli territori metropolitani. Alla fine del XX secolo la situazione è stravolta: i grandi imperi coloniali sono svaniti, gli imperi centrali ed orientali si sono dissolti, il ranking delle potenze economiche è mutato del tutto. I grandi

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nemici delle due guerre guidano la graduatoria: Regno Unito, Francia ed Italia sono allo stesso livello, quello che resta dell’Unione Sovietica è molto meno importante di qualsiasi Russia passata, gli antichi Paesi del blocco sovietico hanno meno peso di quello che gli spetterebbe rispetto alla loro popolazione e si trovano in modo consistente dietro ai piccoli Paesi dell’Europa occidentale. Il reddito pro capite Cresciuto in media dell’1,73% annuo. La prosperità europea crebbe moderatamente (+1% annuo) nel 1913-1950 e 1973-1998, registrando un quarto di secolo nel mezzo con una crescita quasi 4 volte superiore (la golden age). Per l’Europa occidentale il dopo 1973 vede una crescita del doppio del prima 1950, mentre per l’Europa orientale sono anni catastrofici (in particolare gli anni 90). Nel 1913 il Paese più ricco era il Regno Unito, seguito dai Paesi che commerciavano intensamente con lui o che gli somigliavano nelle loro forme di specializzazione industriale (Svizzera, Belgio, Olanda, Danimarca), i nemici della grande guerra (Germania, Francia, austri) si situavano ad un terzo in meno di reddito pro capite con livelli molto simili tra loro, l’Italia era ad un gradino sotto a quasi la metà di reddito rispetto alla media britannica, superando però i Paesi della periferia mediterranea, mentre la Russia si situava ad un terzo e chiudeva la lista delle grandi potenze (la sua potenza derivava dall’estensione e dalla popolazione). Nel 1998 la situazione è più irregolare: la distanza dal primo all’ultimo è cresciuta (Europa occidentale-orientale), passando da 5 a 8 volte, mentre si è creata una forte convergenza tra i Paesi europei occidentali, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia non si differenziano di più del 10%. Società con alti livelli di consumo I consumi alimentari, insieme al reddito pro capite, migliorano: più calorie consumate, dieta diversificata, ma soprattutto sostituzione dei cereali e tuberi con prodotti lattei, proteine della carne e la frutta. Anche il consumo per l’abitazione aumenta (componente del riscaldamento), insieme ai trasporti individuali, tempo libero, sanità ed educazione. Il grande processo di socializzazione tecnologica del secolo fu la diffusione di massa dell’automobile, che segna anche la frontiera della diffusione della società dei consumi di massa (Gran Bretagna e Francia i Paesi più avanzati tra le due guerre, il blocco orientale arriva in ritardo) . Altri due oggetti che sintetizzano i modelli di consumo ed i cambiamenti di gusto sono la televisione (inventata in Inghilterra e quindi solo qui presente nel 1950 e diffusa nel 1955, la diffusione non distingue tra blocchi, è un’invenzione utile per i regimi dittatoriali, nel 70 c’è convergenza europea nei livelli di consumo, la TV ha eguagliato gli europei, negli anni 90 sono gli scandinavi in testa per ragioni climatiche e un sostrato educativo molto forte che assorbe le nuove tecnologie dell’informazione) ed i computer. Il ruolo propulsore del progresso tecnologico Prima della grande guerra il mondo era dominato dalle grandi rivoluzioni della prima rivoluzione industriale basate sul carbone: la siderurgia, la meccanica a vapore, la ferrovia, la nave a vapore. Nel 1900-1913 si assiste all’ascesa di nuove tecnologie (l’elettricità, il motore a combustione interna e la chimica industriale, il telefono sostituisce il telegrafo) che non dominavano il panorama industriale ma sicuramente quello degli investimenti. La ricostruzione dopo la guerra frenò il cambiamento tecnologico europeo in quanto miniere, altiforni, ferrovie e fabbriche furono riparate in velocità consolidando le vecchie tecnologie e

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segnando l’invecchiamento rispetto agli Stati Uniti, le cui innovazione tecnologiche risorsero in Europa solo quando l’attività economica si normalizzò. I due fenomeni tecnologici più rilevanti tra le due guerre sono l’elettrificazione (già a buon livello prima della grande guerra, fu considerata un simbolo di modernità, attirò ingenti investimenti nelle decadi ’20 e ’30 e venne applicata in tutti i settori) e la diffusione di massa dell’automobile, già in corso dal 1914 acquistò grande rilievo con la guerra e la Ford T inondò l’Europa nel dopoguerra grazie ai suoi prezzi contenuti. L’applicazione della scienza all’industria, già peculiarità tedesca alla fine del XIX secolo, diventò un investimento fisso ed ebbe risvolti nelle fibre artificiali e sintetiche e nell’industriale farmaceutica. La seconda guerra mondiale godette di tutte queste innovazioni, la più importante delle quali la radio, che rivoluzionò le comunicazioni di massa e la propaganda politica oltre che a ridurre i costi di comunicazione e intrattenimento. Gli Stati Uniti, non colpiti nel loro territorio dalla seconda guerra mondiale, uscirono da questa con molte innovazioni tecnologiche inizialmente dovute alla necessità di superare gli armamenti tedeschi, e poi applicate in infiniti campi: raggi laser, nuovi materiali come la plastica, l’energia atomica. L’Europa si avvantaggiò di queste innovazioni come leva per colmare il gap tecnologico che si era creato tra i due continenti, mai tanto accentuato come tra il 1945 ed il 1950. Il nucleo tecnologico organizzativo importato fu il fordismo, sistema a catena di montaggio che dominò la ricostruzione europea e la golden age. L’Europa cominciò ad emergere imitando le tecnologie americane fino ad arrivare a sfidare gli Stati Uniti sul loro stesso terreno: imprese europee di industria automobilistica, chimica e delle costruzioni meccaniche cominciarono a penetrare sui mercati internazionali. Nel 1973 la crisi del petrolio, che si sarebbe ripetuta nel 1979-1980, distrusse le basi energetiche del modello in quanto l’energia cara significa un ridimensionamento del sistema fordista che dovette essere adattato alle nuove circostanze. Dal 1985 la domanda di PC si delineava inesauribile e venne incoraggiata la ricerca, l’investimento e la domanda privata. Nella decade degli anni 90 c’è la rivoluzione di Internet che vede la combinazione di informatica e telematica, elaborazione e trasmissione dei dati. Le economie sviluppate riescono a migliorare la loro già alta produttività principalmente attraverso il progresso tecnologico. Al giorno d’oggi non più solo il capitale fisico ma anche quello umano hanno un ruolo fondamentale e sotto questo aspetto le economie europee, dotate di grandi quantità di capitale fisico, sommato alle sempre più alte dotazioni di capitale umano, sono ad alta intensità di capitale. Tecnologie come quella elettrica ed automobilistica hanno richiesto investimenti pubblici e privati ingenti nel reperimento di fonti energetiche, nel trasporto dell’enegia e del combustibile, nella creazione di infrastrutture per il loro uso, nella fabbricazione degli strumenti o prodotti che sfruttano le nuove tecnologie, che hanno incoraggiato la formazione di grandi imprese dedicate a questo scopo, che a sua volta hanno incoraggiato altre imprese per la loro manutenzione: il capitale non residenziale (cioè capitale fisico ad esclusione dei fabbricati per civile abitazione, è il capitale propriamente produttivo) ha effetti moltiplicatori. Grado di intensità capitalista dell’economia = capitale non residenziale / PIL Il cambiamento strutturale: la decadenza dell’agricoltura Man mano che cresce il PIL, la proporzione originata dall’agricoltura diminuisce mentre cresce l’industria, il settore terziario sostituisce progressivamente l’agricoltura ed industria diventando settore dominante alla fine del XX secolo: il tratto dominante del secolo rimane comunque la caduta della popolazione attiva in agricoltura.

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Nel 1910 si distinguevano 4 Europe: Gran Bretagna già industrializzata (9% in agricoltura), blocco dell’Europa centro-occidentale con in testa Belgio, Svizzera e Olanda, i più avanzati nel percorso di emulazione, che avevano spostato la loro manodopera verso l’industria, poi i Paesi con ancora dal 49 al 58% occupati in agricoltura, avevano solo iniziato il percorso (Svezia, Grecia, Irlanda, Italia, Spagna, Portogallo), infine il blocco dei Paesi ancora agrari come la Polonia, Romania, Finlandia, Bulgaria e Yugoslavia. Nel 1950 la tendenza è della diminuzione di 10 punti media, spicca la Finlandia con 33 punti in meno e la Svezia con 28, paese che si è industrializzato tra le due guerre, Austria e Cecoslovacchia sono invece stagnanti. Nel 1980 le proporzioni sono fortemente convergenti verso il basso, con una diminuzione media di 20 punti: tra i Paesi con meno dell’11% si colloca tutta l’Europa centro e Nord-occidentale, con la Cecoslovacchia e la Finlandia che dimostrano l’enormità dei cambiamenti da loro sperimentati in meno di un secolo. I Paesi dell’Est seguono in coda ma a distanza ravvicinata, le eccezioni in negativo sono Portogallo che riduce solo di metà e la Grecia di un terzo (contro le riduzioni medie ad un quinto). L’evoluzione fino al 1998 è prevedibile ma presenta un’eccezione: la Romania che pass dal 29 al 40% di occupati in agricoltura invertendo la tendenza (come in realtà successe in tutta l’area balcanica), un vero e proprio ritorno all’agricoltura per effetto delle grandi crisi di sopravvivenza dei Paesi nei quali la transazione al capitalismo ed al mercato è fallita. La contrazione degli occupati in agricoltura si è sviluppata insieme all’aumento del prodotto agrario: la prima guerra mondiale comporta una drammatica riduzione della produzione portando carestia e fame, ci vorrà poi un decennio per tornare ai livelli dell’anteguerra (si ricorreva ad importazioni d’oltremare). La seconda guerra mondiale torna a mandare a fondo la produzione, che dopo la guerra si riprende grazie al protezionismo, e nonostante l’occupazione agraria continuasse a diminuire, la produttività iniziò a crescere grazie all’introduzione di macchinari di ogni tipo. Attualmente l’agricoltura è il settore che riceve più sovvenzioni attraverso i fondi dell’Unione Europea. Cambiamento strutturale: industrializzazione e deindustrializzazione Nel XX secolo il prodotto industriale è cresciuto molto, ma ha sofferto le ondate delle due guerre mondiali, della depressione anni Trenta e della crisi industriale più profonda del secolo a partire dal 1975, culminata in un processo di deindustrializzazione, imperante nell’ultimo quarto di secolo. La graduatoria nel 1910 dei Paesi in relazione alla popolazione attiva industriale è simile a quella dell’agricoltura ma invertita e riflette lo stesso fenomeno di declino dell’agricoltura. Nel 1960, finite le guerre, la tendenza era una crescita netta dell’occupazione industriale, che per i Paesi dall’industrializzazione arretrata fu spettacolare: Finlandia e Polonia guadagnano 20 punti, altri Paesi del Sud e dell’Est Europa guadagnano tra i 12 ed i 17 punti con le eccezioni di Grecia, Romania e Yugoslavia che non crescono più di 7 punti come i Paesi già industrializzati. L’unico paese che procede verso una deindustrializzazione è la Gran Bretagna, con una diminuzione di 4 punti. Il risultato è che si è creata un’area intensamente industriale nel cuore dell’Europa con percentuali di occupati vicine al 50%. Tutti i Paesi comunque completeranno la loro industrializzazione tra il 1960 ed il 1980, quando i Paesi dell’Est sono ben piazzati (peso minore dei servizi nella loro struttura occupazionale), i Paesi dell’Europa centrale (Germanie, Cecoslovacchia, Svizzera, Olanda, Italia ed Ungheria) costituiscono il nucleo industriale europeo, la Grecia si mostra in gran ritardo non sembrando né orientale né occidentale, gli altri Paesi balcanici si caricano di furore per l’industrializzazione, le due ex grandi

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potenze (Gran Bretagna e Belgio) sono in una posizione intermedia, i Paesi scandinavi con alto PIL procapite si trovano invece nella parte bassa. Da questo si intuisce come ormai il vento stia soffiando verso i servizi e come la specializzazione industriale non sia ormai garanzia di sviluppo. Cambiamento non percepito dai Paesi sovietici che, verso il 1988/89 conquistano i primi posti in termini di specializzazione industriale. La composizione interindustriale: dal tessile all’elettronica Nell’accezione più ampia fanno parte dell’industria anche l’estrazione di minerali, la produzione e distribuzione di acqua, gas ed elettricità e l’industria delle costruzioni, ma siccome una parte delle loro attività è estranea alla trasformazione industriale, si considera il nnucleo centrale dell’attività industriale la manifattura, divisa in 6 settori. Duranto il periodo dell’industrializzazione crescente (1913 – 1975) il settore in maggiore regresso relativo è il tessile, seguito dall’alimentazione e in ultimo dalla produzione di metalli, mentre i settori in piena espansione sono quelli della lavorazione di prodotti metallici e la chimica. Gli altri settori hanno avuto traiettoria ambigua: i Paesi industriali emergenti tendono a specializzarsi nei settori manifatturieri più maturi dove l’applicazione della nuova tecnologia ha scarso impatto sui costi di produzione e dove il fattore competitivo sono i salari, i Paesi più avanzati tendono invece a collocarsi nei settori più progrediti dove la componente del capitale umano è cruciale. I Paesi dell’Europa orientale, quelli ad industrializzazione forzata, si sono impegnati a fondo dopo la seconda guerra mondiale per dotarsi di tutti i settori manifatturieri, privilegiando quelli a tecnologia più avanzata rispetto a quelli tradizionali, e quelle attività a più alta intensità di lavoro non qualificato rispetto a quelle ad elevata intensità di capitale fisico e umano. Nel 1973 c’erano poche differenze nella struttura industriale europea occidentale ed orientale, più marcate erano invece quelle tra Nord e Sud: in Europa occidentale e meridionale i settori ad alta intensità di lavoro poco qualificato (alimenti, bevande e tabacco) sono in declino mentre sperimentano forti incrementi in Europa orientale, viceversa il settore dei macchinari industriali e del materiale di trasporto, con maggiori esigenze di capitale fisico e lavoro qualificato continua a crescere nell’Ovest ma soffre nell’Est. L’auge della grande impresa industriale I settori manifatturieri più dinamici sono stati anche quelli con imprese di maggiori dimensioni e migliore riuscita durante il secolo. Nel 1912 2 nazioni hanno entrambe 14 casi di grandi imprese industriali (gli Stati Uniti 54), Regno Unito (un paio di imprese tessili, un paio di tabacco, una di birra Guinness, una alimentare Lever, due di miniere non ferrose, tre di industria pesante, una chimica ed una petrolifera) e Germania (4 settori: 7 in siderurgia e industria pesante, 3 nella chimica, 2 settore minerario del carbone, 2 elettrico). Altri Paesi dotati di grandi industrie sono la Francia (4 compagnie minerarie), la Russia (tutte con importante presenza di capitale straniero e nazionalizzate con la rivoluzione del 1917). Malgrado la penetrazione delle nuove tecnologie della chimica, elettronica e petrolio, all’inizio del secolo domina ancora il peso delle attività di prima industrializzazione come quelle tessili, il settore minerario, metallurgico e delle costruzioni legate alle ferrovie e della navigazione. È dal 1937 che la preminenza imprenditoriale delle nuove tecnologie diventa un dato di fatto: sorgono grandi imprese chimiche e petrolifere mentre scompaiono quelle tessili, siderurgiche e soprattutto minerarie. Nel 1958 il processo si intensifica e diventa dominante l’insieme dei colossi imprenditoriali legati al paradigma automobilistico (petrolio, costruzione di auto e pneumatici), nel 1973 entrano le

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farmaceutiche (chimica fine), che si moltiplicano nel 1998 insieme a quelle di materiale elettronico ma non spiazzano il primo posto della Shell (anglo-olandese del petrolio). I Paesi con grandi dotazioni di minerale di carbone e di ferro hanno perso il loro vantaggio sul terreno della grande impresa, recuperato invece da quelli che sono riusciti a sviluppare nuove tecnologie e ad adattarsi alle nuove condizioni del mercato mondiale. La diversificazione dei servizi La Legge di Clark (alla crescita dell’industria seguirà quella dei servizi) si attua alla perfezione, portando come conseguenza la crescita dei servizi moderni ad alta intensità di tecnologia ed informazione. Le fasi: - svillupo dei servizi modeni per il XIX secolo: trasporti, comunicazioni, servizi finanziari ed assicurazioni si completa nel 1913–1950 con l’auge dell’impresa moderna con domanda crescente di servizi amministrativi e apertura di nuovi tipi di lavoro; - anni ’50 e ’60 il processo prosegue alimentato dalla crescita dello Stato di benessere, con una grande richiesta di lavoratori dei servizi personali avanzati, principalmente nel settore sanitario e scolastico; - anni ‘80prende corpo la rivoluzione informatica che esploderà nel decennio seguente, il risultato è un processo di terziarizzazione vivacissimo. I Paesi con reddito pro capite più elevato sono a fine secolo quelli che più sono andati avanti nel cammino di terziarizzazzione: banche commerciali, compagnie di assicurazione, imprese di trasporto, imprese elettriche, commercio all’ingrosso. La convergenza tecnologica dei diversi settori di attività, lo sviluppo dei mercati borsistici e la tendenza universale alla privatizzazione delle imprese pubbliche, hanno finito per unificare la visione imprenditoriale. Tra le più grandi compagnie di servizi classificate da Business Week nel 1998, il settore finanziario predomina con 6 banche (inglesi e svizzeri), 2 assicurazioni e 1 di servizi finanziari tra le prime 15 europee, il rimanente sono 6 imprese di telecomunicazioni. Nessuna impresa di trasporto che invece avrebbero dominato la classifica di inizio secolo, sostituite dalle imprese di telecomunicazione, bene la Germania, male la Francia. Modelli nazionali di crescita. I Paesi della prima industrializzazione Valutando i tassi di crescita del PIL pro capite del secolo si nota come esistano due clubs: i Paesi occidentali che sono tanto più cresciuti quanto più erano poveri ad inizio secolo, ed i Paesi orientali che sono cresciuti poco nonostante fossero poveri. Il Regno Unito era il più ricco nel 1913 ed infatti è quello che cresce meno durante il secolo, i Paesi scandinavi invece, quelli che si trovano alle periferie meno industrializzate dell’Europa occidentale, stanno nella parte alta della graduatoria così come la periferia occidentale e meridionale (Irlanda, Portogallo, Grecia, Italia e Spagna), Paesi che invece avevano imitato precocemente l’industrializzazione britannica (Belgio) o che si erano rapidamente adattati (Svizzera, Germania, Austria, Francia) sono al di sopra della Gran Bretagna ma sotto gli scandinavi. L’economia britannica, a causa dell’elevato livello dal quale partiva, è stata quella con la crescita più lenta tra quelle occidentali, perdendo la suapredominanza durante il secolo. Rispose molto bene alle due guerre aumentando il suo prodotto ed imponendosi così ai nemici, ma entrabi i dopoguerra furono periodi di stagnazione. Reagì bene alle grandi crisi economiche del secolo (1929, 1973 che coincise con l’entrata nella CEE, 1979), con carica innovativa che dimostrava il dinamismo economico.

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Nel ‘45 in Regno Unito era ancora il paese più ricco d’Europa mentre nel’79 si trovava in situazione di decadenza fino ad arrivare al sorpasso italiano all’inizio degli anni ’80. Il Belgio, nazione di più antica industrializzazione dopo la Gran Bretagna, patì duramente le due guerre riuscendo però ad effettuare a buon ritmo la ricostruzione, soffrì lievemente la grande depressione ma essendo legata al gold standard tardò a riprendersi, stagnando per tutto il decennio 1929-1939. Come tutti i Paesi occupati dalla Germania subì importanti perdite del PIL durante la seconda guerra mondiale ma non distruzioni di capitale, il che gli permise di svolgere un ruolo dinamico durante la ricostruzione postbellica fornendo carbone, ferro, acciaio e macchinai agli altri Paesi, e non si servì del piano Marshall evidenziando nel decennio ’50 l’invecchiamento industriale. Fu per questo una crescita relativamente lenta nel contesto europeo, ma la sua integrazione iniziale nella CEE le fu favorevole. Fu colpita duramente dalla crisi petrolifera senza più riuscire ad arrivare ai livelli ante 1973, nonostante i tentativi di conversione della sua base mineraria ed industriale concentrata nell’area vallona ed incrementando l’occupazione del settore pubblico. La soluzione si trovò invece nella concessione di agevolazioni per l’ubicazione sul territorio di multinazionali, attirando forti investimenti e rilanciando l’economia. L’Olanda recuperò nel XX secolo quel dinamismo che ne aveva fatto l’economia più prospera dell’Europa del XVII secolo, grazie la dispiegamento delle tecnologie della seconda rivoluzione industriale che la liberarono dalla dipendenza del carbone. Fu neutrale durante la prima guerra mondiale ed approfittò di questa posizione durante e dopo il conflitto: nel 1929 era cresciuta del 77% rispetto al 1913, successo dovuto alla neutrlità nella guerra ed alla buona vicinanza e intenso commercio con la Gran Bretagna (uno dei colossi alimentari è parzialmente olandese, la Unilever), ma soprattutto alla posizione di porta marittima della Germania che le permise di avere accesso a tutto il mercato tedesco, controllandone il mercato petrolifero, l’importazione, la raffinazione e la distribuzione e creando così la Royal Dutch, futura Shell. Grazie alla leadership tecnologica e commerciale della Philips gli olandesi sfruttarono tutto il mercato centroeuropeo nel campo degli elettrodomestici. Nel decennio ’70 scoprirono una risorsa naturale molto apprezzata come il gas naturale e riuscirono finalmente ad uscire dal Dutch disease negli anni ’80. La Svizzera seppe arricchirsi senza disporre delle risorse naturali proprie della prima industrializzazione. Uscì frenata dalla guerra ma seppe approfittare della rovina della Germania per trasformarsi in sede di molte attività di matrice tedesca, la sua vita economica fu sempre dipendente dalle trasformazioni del suo poderoso vicino. L’impatto del 1929 fu lieve ma generò una prolungata stagnazione che durò per tutta la seconda guerra mondiale, per arrivare al grande momento della Svizzera che coincise con la fine della guerra: qui ristagnò la ricchezza accumulata dai nazisti, oro e valute, dal 1944 al 1945 il suo PIL crebbe spettacolarmente del 29% e dal 1945 al 1947 di un altro 20%. La golden age fu interrotta nel 1949 e nel 1958 quando le turbolenze monetarie la investirono transitoriamente, la crisi del petrolio la colpì fortemente, così come la deregolamentazione finanziaria e la caduta del muro di Berlino (1989) con la deviazione di risorse tedesche verso l’ex RDT. La Svizzera si basa oggi sulle sue imprese industriali, pessime multinazionali d farmaci. Il protagonismo secolare dei second comers La Germania soffrì, durante le due guerre, di grandi cambiamenti territoriali, la sua superficie aumentò in modo spettacolare in entrambi i conflitti, dato che amministrava territori altrui, per poi subire forti sanzioni territoriali causati dalle sconfitte, significative per la prima, radicali quelle della seconda: inizialmente divisa in 4 zone di occupazione militare da parte delle principali nazioni alleate e con forti cessioni alla Polonia, dal 1949 si crea la divisione tra RFT e RDT che durerà 40 anni (unificazione nel 1990). Le guerre e la grande crisi del 1929-1932 dominarono i lineamenti dell’economia tedesca: il primo dopoguerra fu penoso, il secondo iniziò in modo patetico ma finì

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bene. La prima guerra mondiale, la crisi del 1919, quella del 23 e del 29 impallidiscono di fronte al crollo sofferto nel 1945 e 1946 (durezza del secondo dopoguerra). Il boom degli anni 50 è conseguenza dell’intensità della caduta e delle possibilità di recupero che aveva un paese con popolazione ed infrastrutture qualificate, l’industria tedesca recuperò il suo dinamismo e tornò ad essere fornitrice di macchinari e materiale da trasporto. I crescenti lacci commerciali diedero fondamento alla scommessa per il mercato comune europeo che si concretizzò con il Trattato di Roma del 1957. Alla fine del XX secolo l’economia tedesca era di nuovo la maggiore in Europa. Malgrado le due vittorie, l’economia francese risentì della devastazione delle due guerre, ed il periodo tra le due fu dominato dallo spettro della stagnazione demografica e dall’arretratezza economica. Nel periodo che va dal 1929 al 1944 l’economia francese di contrae del 51% (contro un aumento del 55% di quella tedesca), mentre nel secondo dopoguerra la Francia inaugura una lunga fase di crescita e di dinamismo. La ricostruzione fu utilizzata a fondo per innovare le infrastrutture di trasporto ed il macchinario industriale, entrando nella CEE la Francia accresce i suoi mercati ed elimina i rischi di un conflitto con il suo storico nemico. La continua e rapida crescita del periodo 1945-1974 cambiò l’immagine di ritardo e l’economia francese diventò ben strutturata e perfettamente dotata di capitale umano sapendo convertirsi in economia dinamica dal punto di vista tecnologico ed imprenditoriale. Reagì alla seconda crisi del petrolio con una strategia di espansione della domanda, mentre la coincidenza nel 1881 della difficile congiuntura economica internazionale con l’ingresso al governo di una maggioranza di sinistra portò effetti negativi che si concretizzarono in una svalutazione del franco rispetto al marco, considerato pietra miliare della revisione della politica economica francese. Al 2000 l’economica francese è la seconda per il PIL dopo la Germania. L’Italia è il paese che ha goduto dei tassi di crescita più elevati nel secolo tra i Paesi che si avversarono nella grande guerra. L’iniziale neutralità e la lontananza dai fronti di guerra consentirono all’economica italiana di prosperare durante il primo conflitto, ma il dopoguerra fu duro e vide crisi di sovrapproduzione e conflitti redistributivi che finirono per dar luogo al fascismo, che dominò il periodo tra le due guerre (dal 1922 al 1943). Il primo decennio fu liberale mentre il secondo autarchico. Gli ultimi due anni del conflitto furono caotici mentre la ricostruzione fu un successo, quasi un miracolo. L’Italia, come Germania e Francia, utilizzò i fondi del piano Marshall per ricostruire la sua industria e i suoi trasporti. Si inserì nei circuiti commerciali intereuropei che diedero luogo alla CEE e seppe approfittarne per accrescere i suoi mercati e offrire nuove prospettive di lavoro alla sua popolazione. Il miracolo iniziò ad incrinarsi nel 62 ma durò fino alla crisi del 1973. Negli ultimi due decenni inoltre l’Italia ha richiamato l’attenzione per il suo successo con la piccola impresa ed i suoi distretti industriali diventando un esempio paradigmatico grazie soprattutto alle sue esportazioni. Il XX secolo è il secolo dell’Unione Sovietica (URSS), segnato dalla sua origine nel 1917 e la sua fine nel 1991, nascita vista come risultato inevitabile del fallimento dello zarismo, ma anche dovuta alle estreme condizioni portate dalla prima guerra mondiale nella politica ed economia che favorirono la nascita di alternative radicali. Il primo periodo, il “comunismo di guerra” (1917-1921) è seguito dall’epoca della NEP (nuova politica economica) che fece segnare un recupero economico e arrivò fino al 1927 anno in cui si lancia il primo piano quinquennale, taglio netto nella politica economica sovietica e mondiale che portò una forte crescita, seguito da un periodo di pianificazione centralizzata che durerà fino al 1991. I piani iniziali centrati sull’industrializzazione e creazione della grande industria pesante sono seguiti dallo sforzo di ricostruzione postbellica che durerà un decennio, e da un altro decennio di tentativi di riforma successivi alla morte di Stalin (1954). Inizia poi una decade di decadenza (periodo del breznevismo) interrotta dagli sforzi riformatori di Gorbachov e la sua Perestroika (ricostruzione) negli anni ‘80. Il PIL russo, sovietico e post sovietivo è segnato da forti rotture: la prima guerra mondiale, proseguita fino al 1921 come guerra civile, la seconda guerra mondiale che tornò a ridurre drasticamente il potenziale produttivo del paese, e un’altra caduta

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spettacolare nel 1989 dovuta alle modalità della transizione all’economia di mercato, che vide un’assimetria di liberalizzazione (si liberalizzarono solo i settori in cui c’era più interesse) che creò distorsioni, violenze organizzate che limitarono gli investimenti e le attività imprenditoriali. L’ex URSS è entrata in un percorso distruttivo. I destini delle periferie I Paesi europei che più sono cresciuti nel corso del XX secolo sono quelli delle periferie occidentali: i Paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Finlandia, Norvegia) e quelli mediterranei (Sud). Sono Paesi che si presentano relativamente poveri all’inizio del secolo rispetto ai Paesi già industrializzati. L’elemento dominante dell’esperienza economica scandinava (in particolare svedese) del XX secolo è la velocità e continuità di crescita. La parziale neutralità durante le due guerre ed il modesto impatto della crisi degli anni ‘30 assicurarono all’economia una crescita ed un livello di benessere superiori agli altri Paesi europei: risale infatti agli anni Trenta l’insediamento dello Stato del Benessere. Lo scenario economico era stabile, l’impegno produttivo di sindacati e padroni era forte, i tassi di alfabetizzazione alti favorendo la specializzazione in attività industriali e di servizi con elevati contenuti tecnologici. La ricostruzione e la golden age fornirono mercati in espansione e contesto internazionale favorevole. La crisi del petrolio li colpì con forza diversa, la Norvegia infatti grazie alla scoperta di riserve di petrolio nel mare del Nord si trasformò in grande esportatore di greggio ed il suo tasso di crescita nell’ultimo quarto di secolo è importante. Soffrirono anche della crisi europea dei primi anni 90, in particolare la Finlandia, orientata al commercio con l’Unione Sovietica che dopo la caduta liberalizzò i commerci costringendo la Finlandia a specializzarsi in altre attività, risultati ottenuti brillantemente nell’elettronica e telecomunicazioni. Dopo l’indipendenza nel 1920 l’Irlanda crebbe alla velocità della Gran Bretagna ma senza godere dello stesso livello di prosperità. Neutrale nella seconda guerra mondiale, non godette degli aiuti del piano Marshall, e vide fino alla fine del decennio del 1950 un certo autarchismo di matrice agraria. Non partecipò alla CEE ed il suo legame al commercio internazionale si limitò ad un accordo con il Regno Unito. Entrò nella Comunità Europea nel 1973 sperando in una svolta ma l’ambiente internazionale fu poco propizio, nel 1980 decise di aprirsi agli investimenti esteri e dovette aspettare il 1993, quando fu paragonata alle tigri asiatiche, per approfittare del suo potenziale, avvantaggiata dall’essere un paese anglofono. Nel primo terzo del XX secolo il Portogallo oscillò tra monarchia e repubblica e tra dittatura e democrazia. La soluzione più stabile fu una dittatura repubblicana imposta da Salazar nel 1927 e durata fino al 1974. Superò bene la crisi degli anni ’30 e si avvantaggiò della sua neutralità durante la seconda guerra mondiale e delle iniziative di cooperazione occidentale postbelliche. Nelle decadi del 1950 e 1960 crebbe bene ma subì un salasso economico ed umano durante le guerre coloniali dal 1961 al 1974. Nel 1974 la rivoluzione dei garofani mise fine alla dittatura e la rapida decolonizzazione generò quasi un milione di immigrati. A partire dall’entrata nella CEE nel 1987 ha saputo approfittare delle opportunità del grande mercato europeo e dei fondi comunitari destinati alle regioni più povere e alle produzioni agrarie. La Spagna si presentò agli anni ’20 con un livello di prosperità superiore al 1913 dovuto alla sua neutralità, riducendo le distanze rispetto agli altri Paesi europei. Naturalizzò tutti gli investimenti in mano straniera e riuscì a dotarsi della quara maggiore riserva aurea del mondo dilapidata durante la guerra civile dal 1936 al 1939. Ci fu una forte espansione negli anni 20, ed una blanda depressione nella prima metà dei 30, la guerra civile la buttò in depressione. Durante la seconda guerra mondiale la Spagna fu prigioniera degli accordi tra Hitler e Mussolini (potenze dell’Asse) e solo quando nel dopoguerra le potenze alleate decisero di non intervenire contro la dittatura di Franco, complice la

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guerra fredda, la crescita economica si mise in moto e fu folgorante, riuscendo a compensare il tempo perduto. Nel 1959 l’economia si liberalizzò ed iniziò a godere del turismo, delle rimesse degli emigrati e degli investimenti esteri, crescendo molto in fretta dal 1969 al 1973. La crisi petrolifera segnò come per tutti la fine della golden age, situazione complicata dalla delicata transizione politica alla democrazia. Nuovi impulsi di crescita derivati dall’integrazione nella CEE. Il risultato in termini di crescita della Grecia, il più orientale dei Paesi occidentali, è meritevole e mostra la forza delle tendenze alla convergenza economica quando le si lascia agire. Agli inizi del 1920 dovette accogliere 2 milioni di greci fuggiti dalla Turchia in conseguenza di reinsediamenti massicci di popolazione, occupata durante la seconda guerra mondiale dalle truppe dell’Asse, la Grecia subì distruzioni fino al 1949 a causa di una feroce guerra civile. Stabilizzata politicamente, la Grecia utilizzò per la crescita economica la forte domanda europea occidentale, le rimesse degli emigrati ed il crescente turismo. Entrata nella CEE nel 1980 non è riuscita a trasformare gli aiuti comunitari in una leva di modernizzazione. L’Europa centro orientale sorse dalle ceneri dei quattro imperi sconfitti: il tedesco, il russo, l’austro-ungarico e l’Ottomano. Gli stati erano creati dai trattati di pace e non avevano tradizione né risorse. Dedicarono gli anni 20 a dotarsi di una minima struttura statale e a costruirsi un’identità nazionale, riuscendoci in parte grazie agli aiuti nordamericani, francesi, britannici e belgi. Furono tutti catturati dal moto vorticoso dell’espansione hitleriana e rimasero sotto il controllo sovietico dopo la seconda guerra mondiale tranne la Finlandia e l’Austria. L’Austria è il paese che ha passato peggio gli anni tra le guerre: nel 1950 possedeva un PIL superiore solo del 9% a quello del 1913, soffrì molto duramente la prima guerra mondiale ed ebbe una ricostruzione molto lenta e fragile dopo il crollo di tutta la struttura imperiale asburgica che dava vita a Vienna, capitale politica, economica e finanziaria dell’impero. La prolungata crisi si superò solo durante l’assorbimento nello spazio economico nazista, ma i buoni anni finirono bruscamente con l’occupazione alleata nel 1945 quando in un solo anno il PIL crollò del 60%. L’Austria rimase divisa anch’essa in 4 settori ma senza divisioni territoriali, la ricostruzione fu lenta, si completò nel 1953 quando inizia la golden age: crescita rapida agevolata dall’ubicazione geopolitica in quanto faceva parte dell’economia occidentale ma era ottimamente collocata per realizzare compiti di intermediazione commerciale tra Est e Ovest. L’Austria recupererà tutti i suoi arretramenti bellici e tornerà ad essere prospera. Tutti gli altri Paesi dell’area centro orientale si integrano tra il 1945 e il 1948 all’area sovietica, restandoci fino al 1989 e condividendone la crescita 3.2 LE GRANDI TAPPE Le fluttuazioni dell’economia 1913 - esplosione della guerra e riduzione del PIL, che poi fluttua tra alti e bassi. 1918 - fase finale della guerra e disorganizzazione successiva, caduta più forte. 1923 - si ristabilisce il livello precedente alla guerra gli anni 20 sono di prosperità crescente 1929-1932 il PIL cade continuamente totalizzando una perdita di più di 10 punti percentuali. 1933-1939 recupero, incremento del 30% negli anni 30 le politiche sono autarchiche e si orientano a preparare nuovi conflitti. Il massimo del 1939 resiste precariamente fino al 1943. 1944-1945 affondo fragoroso, caduta più forte del secolo, 15% in un anno. Con la guerra i Paesi si esauriscono e l’economia si paralizza. 1946-1975 golden age dell’economia capitalista, aumento continuo del PIL (1948 anno iniziale del Piano Marshall, 1973 ultimo anno di prosperità)

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1946-1950 ricostruzione, tasso di crescita annuo del 7%. Il recupero del massimo precedente alla guerra si ottiene già nel 1949, finisce il periodo storico dei transwar years (1914-1945) contrapposto agli interwas years (1918-1939). 1951-1952 la crescita diminuisce ma la guerra si Corea e quella fredda danno nuovo impulso all’economia europea che recupera forza fino al 1957. 1958 insieme di crisi e incertezze nella stabilità monetaria frenano la crescita che ritorna ai livelli precedenti già nel 1959. 1960-1964 periodo più luminoso della golden age, ottimismo generale. 1965-1967 rallentamento 1968-1973 nuovo ciclo espansivo 1974 i prezzi del petrolio crescono bruscamente ma l’economia gode dell’inerzia del periodo precedente 1975 caduta del PIL, crisi poderosa, cambio di fase 1974-1990 stagnazione economica 1975-1979 le economie cercano di aggiustarsi, ritmo meno intenso 1979 nuova crisi petrolifera, nuova fase di pessimismo 1980-1982 stagnazione 1982-1988 crescita del 2-3% media (4%nel 1988) 1989 caduta caduta del blocco sovietico, non porta acceclerazione per la crescita occidentale: 1990-1993 il PIL in semiparalisi 1993 annus horribilis dell’economia europea 1993-2000 maggiore armonia produce alcuni casi di crescita modesta ma costante. Grande guerra e pace incerta Con l’esplosione della guerra crollò il mondo economico, sociale, politico, culturale, era la fine del’era del liberalismo ottocentesco. Lasciò una pesante eredità che condizionò la storia europea nel successivo quarto di secolo gettando le basi della seconda e per la rivoluzione che generò un sistema sociale contrapposto al capitalismo, il modello sovietico. Tre spetti importanti: rottura radicale con il passato, trasformazione dei modi di funzionamento delle economie nazionali e dell’economia internazionale, conseguenze economiche e costi della guerra: Appena si aprirono i combattimenti, i mercati finanaziari precipitarono e i governi persero il controllo delle transazioni estere sospendendo la conversione delle monete: il gold standard (modello monetario internazionale) fu smantellato, fu eliminato il libero movimento di capitali e di persone e il commercio estero trovò nuovi ostacoli. La guerra rappresentò una rivoluzione economica: i governi organizzarono economie di guerra per fabbricare armamenti ed assicurare provviste di beni essenziali agli eserciti ed alla popolazione civile, mobilitando in modo massiccio le risorse economiche e impiegando un dirigismo sistematico nel campo della produzione e distribuzione, controllando redditi e prezzi, ferendo a morte il liberalismo economico imperante fino al 1914 che nonostante gli sforzi non riuscì mai a tornare alla situazione precedente. Durante la guerra tutti i Paesi (compresi i neutrali) subirono cadute del loro PIL o comunque non crebbero salvo due eccezioni: l’Italia che cominciò neutrale ed entrò nel 1915 mantenendo le operazioni fuori dalle sue frontiere o da territori economicamente rilevanti e lavorando duro, ed il Regno Unito che mobilitò tutte le risorse. Finita la guerra, nel 1919 tutti i Paesi neutrali sono in buone condizioni per approfittare del ritorno alla normalità, tutti crescono e per alcuni c’è persino un boom (Danimarca e Olanda), Regno Unito e Italia, cresciuti orientati alle necessità belliche, cadono nella depressione postbellica così come gli imperi centrali (Germania e Austria) che subiscono forti cadute del PIL.

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Nel 1924, con la chiusura della ricostruzione, sono finite anche le grandi inflazioni: i Paesi neutrali sono cresciuti superando il preguerra, così come i Paesi Alleati occupati (Francia e Belgio) e i Paesi degli imperi centrali che non avevano nessun legame con gli sconfitti (Cecoslovacchia e Yugoslavia) grazie ad abbondanti crediti dai vincitori. Italia e Regno Unito rimasero inchiodati ai livelli del 1919 e vissero un duro dopoguerra (in Italia generò il fascismo, mentre nel Regno Unito l’incertezza), come gli sconfitti (Germania, Austria, Ungheria, Turchia e Bulgaria) che passarono gli anni 20 nello sforzo di recupero. Il maggiore costo della guerra fu in vite umane (9 milioni di militari, 5 di civili) ed invalidi di guerra, il dolore e la sofferenza non possono esprimersi in termini economici. Il costo esorbitante che colpì le economie fu quello dei beni usati e distrutti nelle operazioni militari, che provocò indebitamenti colossali di spesa pubblica, ai quali i politici tardarono ad occuparsene in quanto decisi ad imporre indennizzi ai nemici sconfitti, ricorrendo alla via finanziaria più facile: l’emissione di denaro. Deficit pubblico ed inflazione sono i due squilibri macroeconomici più gravi per il dopoguerra, uniti a quelli che Keynes chiamò le “conseguenze economiche della pace” cioè le condizioni imposte dai vincitori nei trattati di pace firmati a Parigi nel 1919 (trattato di Versailles con la Germania) che comportarono la ricomposizione della mappa politica europea con conseguenti disordini economici e conflitti, e la richiesta di astronomici risarcimenti dalla Germania (che la spinsero al disastro monetario, l’iperinflazione) rovinando lo spirito di cooperazione e ritardando la ripresa tedesca e con essa quella europea. Gli Stati Uniti, trasformati in principale creditore e fornitore di beni che i belligeranti, impegnati nella fabbricazione di materiale bellico, non erano in grado di produrre, reclamarono intensamente la devoluzione dei crediti a fine guerra, ai quali i Paesi non erano in grado di rispondere in quanto impiegati nella ricostruzione delle economie. I “felici anni Venti” e le crisi degli anni Trenta Il 1919 fu l’anno economicamente peggiore: la riconversione dalle economie di guerra non fu facile, c’erano milioni di rifugiati, cambiamenti di confine, disorganizzazione, sovrapproduzione e scarsità. Ci vollero più di 2 anni perché le economie si normalizzassero, di più per i perdenti. Il 1922 fu il primo degli anni di prosperità, con una crescita generale dell’8,5%. Non per tutti: la Germania infatti vide i suoi ricchi bacini minerari occupati da francesi e belgi che decisero di recuperare in natura i debiti, lo Stato repubblicano si rifiutò di collaborare con gli invasori e finanziò i salari dei lavoratori in sciopero emettendo più denaro e mettendo in moto una spirale inflazionista che portò il passaggio ad economia di baratto nel 1923 (iperinflazione) dalla quale uscì solo con l’aiuto americano che dilazionò temporalmente i debiti per permettere all’economia tedesca di riprendersi (Piano Dawes 1925) Il resto dell’Europa visse invece i “felici anni 20”: dal 1921 al 1925 il PIL era cresciuto del 23%, le invenzioni degli americani durante la guerra arrivavano in Europa, come la Ford T e gli elettrodomestici. I Paesi, seguendo quanto consigliato da Dawes, tornarono al gold standard, che in Gran Bretagna (criticato da Keynes “le conseguenze economiche di Mr. Churchill) implicò una rivalutazione della valuta nazionale da compensare con una riduzione del costo del lavoro, che provocò una recessione fulminante e la depressione che scatenò il grande sciopero del settore minerario del carbone nel 1926 e finì per dar luogo ad un governo di grande coalizione con la storica entrata al governo del partito laburista. I tre anni seguenti furono di notevole crescita e si assaporò ovunque la prosperità, persino in Germania, Austria, e in URSS che grazie alla NEP di Stalin (1924-1927) stava promettentamente recuperando.

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Rimanevano comunque alcuni squilibri a livello di economia mondiale, come quelli causati dalla ristrutturazione produttiva internazionale: la guerra aveva incoraggiato l’aumento della capacità produttiva in tutto il mondo extrabelligerante per sostituire i mercati che prima venivano riforniti con l’importazione dall’Europa, che alla fine della guerra, con il ritorno alla normalità produttiva europea, portò a un problema di sovrapproduzione cronico che provocò una tendenza chiamata “deflazione strutturale” che riflette l’eccesso di offerta di beni sul mercato condizionando le opportunità di commercio durante la decade degli anni 20. Questa difficoltà di riorganizzazione produttiva spiega, secondo Kinndleberger, la durezza della crisi del 1929: la domanda mondiale andò decelerando di fronte all’incapacità dell’offerta di sostenere i prezzi commercializzando costantemente a prezzi di saldo. L’isolazionismo nordamericano inoltre, che intorpidiva la crescita del resto del mondo, si era dimostrato prima con il disinteresse per i trattati di pace e per il nuovo ordine mondiale, poi con il rifiuto del Congresso di entrare nella Società delle Nazioni, con la chiusura all’immigrazione, che provocava l’abbassamento dei salari operai e si realizzò con l’imposizione di una quota massima, ed infine con l’imposizione di dazi commerciali protezionistici che nel 1931 chiusero letteralmente le frontiere americane. In nordamerica si viveva comunque una grande prosperità, in gran parte derivata dagli enormi guadagni procurati dalla neutralità, dai prezzi insuperabili per i prodotti agrari, minerari ed industriali, qui si sviluppavano mode e nuovi prodotti, l’American way of life (le comodità della vita moderna) si diffonde attraverso nuovi mezzi di comunicazione, il più brillante dei quali è il cinema. In questo ambiente pieno di sicurezza e di prosperità si andò estendendo notevolmente l’investimento in borsa e l’acquisto di azioni di credito: il mercato borsistico attraè sempre più fondi entrando in una fase decisamente rialzista durante il 1928 e 1929, tutto basato sul fatto che l’economia non avrebbe cessato di crescere. In effetti molti mercati andavano riducendosi dalla crescente disparità degli Stati Uniti, e lo stesso mercato interno andava saturandosi e la capacità produttiva stava diventando sproporzionata rispetto alla capacità di assorbimento del mercato, mostrando un raffreddamento economico nel secondo semestre del 1929, che provocò una corrente di vendite nella borsa di NYC che culminò alla fine di ottobre nella precipitazione delle quotazioni (venerdì nero e martedì nero), dei valori dei titoli, distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro possessori. Molti investitori avevano comprato azioni a credito e la relativa insolvenza travolse chi aveva concesso loro i prestiti cioè le banche, e la spirale della contrazione del credito si mise in moto in tutte le direzioni, annullando le liquidità delle imprese, costrette a sospendere i pagamenti, molte a chiudere i battenti provocando disoccupazione. La Federal Reserv (FED, la banca centrale statunitense) sottovalutò il fenomeno e non intervenì, difesa dal presidente Hoover, che con questo errore si giocò la presidenza a favore dell’elezione nel 1932 di Roosvelt. Mentre la crisi borsistica si trasformava in bancaria e finanziaria in tutto il mondo, un altro meccanismo distruttivo si era messo in moto: l’America, per difendere la propria produzione, inasprì il protezionismo e ridusse fino a sospenderla l’erogazione di crediti all’estero, provocando la reazione di numerosi altri Paesi che avevano reagito con dazi più duri, e la tendenza alla guerra commerciale si vide rafforzata dalla caduta dell’attività economica e la crisi si globalizzò, portando il commercio mondiale a ridursi in modo continuo per 4 anni in una spirale di contrazione. Per sfuggire a questa ragnatela la soluzione era svalutare, tagliare cioè il legame con il gold standard, l’istituzione che simbolizzava la stabilità, normalità e benessere e che tanto era costato reintrodurre. Il Regno Unito fu il primo ad abbandonarla (settembre 1931), seguito da tutti i Paesi dell’area del Commonwealth e dai piccoli Paesi europei che dipendevano dal mercato britannico. In generale si comportarono meglio i Paesi che ne uscirono presto, riuscendo a svalutare e recuperare capacità competitiva, persa invece dagli altri.

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La crisi durò dal 1929 al 1933, il PIL europeo cadde mediamente del 10%, colpendo più duramente i Paesi sconfitti in guerra ed i loro eredi (Germania, Austria, Polonia e Cecoslovacchia) in quanto più legati a credito e commercio, due grandi meccanismi di diffusione della crisi. I Paesi scandinavi, la Spagna, l’Italia, ed i Paesi balcanici subirono leggermente la crisi, l’URSS neanche la soffrì. In generale la soluzione fu una certa chiusura commerciale ed un maggiore intervento pubblico, caso estremo gli Stati Uniti con il New Deal (1933) del neoeletto presidente Roosvelt che eliminò il gold standard e sostenne la domanda interna di consumo ed investimento attraverso l’iniziativa pubblica e la messa in moto di grandi opere pubbliche, iniziativa intrapresa anche da Hitler ma con tono politico completamente diverso: distrusse i sindacati e liquidò ogni opposizione politica, il tratto basilare della sua politica fu l’autarchia, il forte investimento per il riarmo dell’esercito, la produzione di articoli sostitutivi di quelli che dovevano importarsi, la chiusura commerciale, mantenne il gold standard. Forti investimenti pubblici anche in Gran Bretagna ed in Italia, con l’orientamento autarchico di Mussolini. Uscita dalla crisi, nell’Europa degli anni 30 si diffusero innovazioni come la radio, le fibre artificiali, le automobili di piccola dimensione, l’alluminio, nuovi elettrodomestici e vari prodotti che rianimarono l’offerta imprenditoriale e la domanda privata: fino al 1939 l’espansione economica dà luogo a 7 anni di crescita economica ininterrotta (unica eccezione la Spagna immersa in una guerra civile 1936-1939). La seconda guerra mondiale ed il progetto del nuovo ordine economico internazionale Fu molto più distruttiva della prima (16 milioni di militari, 26 milioni di civili), armamenti più potenti, odio più profondo, genocidi. Anche lo sforzo economico fu di scala maggiore in tutti i maggiori contendenti Germania, Regno Unito, Italia, URSS, Stati Uniti e Giappone, dove le capacità produttive vennero ampliate al massimo e scomparì la disoccupazione. Il PIL aumentò solo nei Paesi non occupati (Stati Uniti raddoppiarono il PIL in 5 anni) mentre in quelli occupati subì un crollo disastroso (Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio) in quanto l’occupazione significò disorganizzazione, sabotaggi, deviazione di risorse verso la Germania. Preparando la ricostruzione Dopo una veloce ricostruzione economica, il mondo si vide spronato alla maggiore crescita mai sperimentata, il secondo dopoguerra venne infatti affrontato con una ferma volontà di cooperazione economica da parte dei governanti, principalmente da Stati Uniti e Gran Bretagna (i due leader dell’economia mondiale e baluardi del blocco alleato), le coscienze dei quali erano state scosse e gli atteggiamenti su come sviluppare le relazioni economiche in tempo di pace capovolti: avevano imparato la “lezione della storia”. No debiti di guerra per evitare l’asfissia, no isolamento degli Stati Uniti, nuove regole accettate da tutti per scongiurare il pericolo di una ripetizione delle politiche di impoverimento del vicino (protezionismo esagerato e svalutazioni competitive). Serviva che la comunità internazionale si dotasse di una nuova architettura istituzionale che garantisse un commercio libero ed un sistema di pagamenti capace di assorbire gli squilibri, Gran Bretagna e Stati Uniti iniziarono nel 1941 a lavorare a tale modello, e convocarono nel giugno del 1944 una conferenza economica internazionale a Bretton Woods (nordamerica) durante la quale si approvò una cornice istituzionale alla quale si sarebbero conformate tutte le relazioni economiche internazionali, che definì l’ambiente nel quale avrebbero dovuto operare idealmente il commercio, i movimenti di capitale ed i pagamenti esteri, un orizzonte verso il quale dovevano incamminarsi le politiche commerciali e cambiarie.

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Gli accordi si basavano sulla creazione di 3 nuove istituzioni sovranazionali: - OCI (Organizzazione per il Commercio Internazionale) per il rafforzamento di un commercio libero, che non arrivò a nascere, fallì, e si dovette colmare il vuoto con un accordo più flessibile, il GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio) che favorì attraverso negoziati (round) una progressiva liberalizzazione del commercio mondiale e si trasformò nel 1995 in vera organizzazione con il nome di OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio). - BIRS (Banca Mondiale) con lo scopo di finanziare investimenti di lungo termine, strategici pe lo sviluppo economico, che non sono solitamente presi in considerazione dal capitale privato, e di cooperare alla ricostruzione economica. - FMI (Fondo Monetario Internazionale) è l’elemento fondamentale, si occupa della difesa di un sistema cambiario a tassi regolabili ma fissi, poteva prestare assistenza finanziaria ai Paesi in deficit nei conti esteri. È lo strumento che combina il rigore con la flessibilità, conferendo stabilità e prevedibilità al sistema monetario internazionale. Queste istituzioni, anche se la realtà non si adeguò alle aspettative e se le misure adottate impallidirono di fronte al piano Marshall, hanno permesso una crescita economica sicuramente maggiore durante la seconda metà del XX secolo che se non ci fossero state, hanno garantito relazioni economiche sicure e stabili. Ricostruzione postbellica, divisione in blocchi ed integrazioni regionali 1945-1947 sono dominati dalla politica degli aiuti umanitari: le nuove amministrazioni nei territori liberati dal controllo nazista, con l’aiuto dell’UNRRA (United Nation Relif and Rehabilitation Administration) concentrano la loro attenzione sui compiti urgenti di soccorso alle decine di milioni di feriti, prigionieri, dispersi, città devastate e nazioni disorganizzate. L’estate del 1947 era il termine fissato per rendere operanti gli accordi di Bretton Woods ma era prematuro e gli Stati Uniti proposero un grande piano di ricostruzione. Tutta l’Europa si era lanciata in ambiziosi progetti di modernizzazione e invece di cercare di ridurre il deficit commerciale, importavano ingenti beni capitali dagli Stati Uniti, molto superiori alla loro capacità di pagamento, e Washington temendo una brusca caduta della domanda europea sentì la necessità di cercare una soluzione per conservare l’eccezionale livello delle esportazioni e quindi delle attività e dell’occupazione che l’economia americana aveva conseguito grazie alla guerra. Tra l’aprile 1948 e il giugno 1951 il governo statunitense fornì ai Paesi dell’Europa occidentale aiuti per un importo di 13.000 milioni di dollari, l’essenza dell’ERP (European Recovery Program) o piano Marshall. I Paesi maggiormente beneficiati furono quelli piccoli come Grecia, Austria e Olanda, il resto ottenne dei miglioramenti del PIL dal 5 al 10%. L’obiettivo era di finanziare le importazioni che l’Europa necessitava ma non poteva permettersi, in cambio l’Europa si impegnava ad iniziare, una volta ricostruita, il processo di liberizzazione commerciale che significava apertura dei mercati europei alla competizione dei produttori americani. L’America inoltre, sempre a questo scopo, finanziò l’esportazione di beni verso l’Europa, elimitò il limite massimo produttivo imposto alla Germania dopo la guerra (che facilitò la normalizzazione produttiva di tutta l’industria europea), e permise ai governi europei di approntare sistemi preferenziali transitori di commercio intraeuropeo. Già nel 1949 gli inglesi, non potendo sopportare il peso della sopravvalutazione, svalutarono la lira sterlina e durante la tempesta successiva riuscirono ad introdurre uno schema di cooperazione monetaria intereuropea che aveva l’intento di risparmiare dollari ed orientato alla più rapida stabilizzazione dei tassi di cambio: è l’UEP (Unione Europea dei Pagamenti) creato nel 1950 e destinato a finire nel 1958 che tra le altre cose incoraggiò a fare il passo verso la CEE (Comunità Economica Europea) con il Trattato di Roma firmato nel 1957 da Germania (RFT),Belgio, Francia, Olanda, Italia e Lussemburgo, e reso effettivo nel 1958.

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Il primo esperimento di integrazione risale al maggio 1959 quando Robert Schuman, ministro francese degli Affari Esteri, propose di collocare la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto un’unica Alta Autorità comune, rinunciando alla propria sovranità in settore essenziale per l’economia francese, e riconoscendo la neonara RFT, erede dei nemici storici, alleato senza pari. Con il Trattato di Parigi del 1951 si crea, a questo scopo e con ottimo risultato, la CECA (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio), decisivo affinchè la Germania si sentisse e fosse integrata nella CEE e si creasse così una solida piattaforma per una crescita economica simbiotica. Per Italia, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo il beneficio fu l’accesso preferenziale al sempre più dinamico mercato tedesco, mentre per la Germania la libertà di poter disimpiegare completamente tutto il suo potenziale di crescita senza provocare apprensione. Il Regno Unito, con gli altri Paesi occidentali piccoli, o molto orientati al commercio con la Gran Bretagna (Danimarca, Norvegia, Svezia, Svizzera), o ancora che non potevano integrarsi alla CEE per ragioni politiche (Portogallo che non realizzava il regime democratico) o per obbligo di neutraità (Austria e Finlandia), fondarono nel 1959 l’EFTA (European Free Trade Association). Rimanevano fuori dalle grandi alleanze l’Irlanda, legata da un personale trattato commerciale con la Gran Bretagna, la Grecia, comunque parte della Nato, e la Spagna. Impatto del processo di integrazione europea sull’area di influenza sovietica Titti i Paesi dell’area sovietica furono invitati a partecipare al piano Marshall ma intimati dall’URSS di declinare l’offerta (implicava per Stalin cessioni di potere e di capacità di controllo). Il mondo era Stato diviso, a Yalta e Potsdam, in aree di influenza, in blocchi, quello pro-americano decise di creare l’alleanza militare dell’Atlantico settentrionale, la NATO, mentre l’URSS creò in risposta nel 1949 il COMECON (Consiglio di Mutua Assistenza Economica) che riunì tutti i Paesi ad economia socialista che si trovavano nell’orbita sovietica e che fece ben poco, non potendo l’URSS beneficiare di niente tipo piano Marshall, bloccò comunque il recupero degli indennizzi di guerra dai Paesi occupati, un drenaggio di risorse (materiale da trasporto, macchinari, materie prime e prodotti semilavorati) che stava frenando la capacità di ricostruzione delle economie del Paesi dell’Est. I Paesi che rimasero sotto l’influenza sovietica (Albania, Bugaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, RDT, Romania e Yugoslavia) puntarono su un modello di sviluppo autarchico. Il legame con il resto del mondo era limitato, all’interno del COMECON da: - fissazione di quantità e prezzi dei prodotti che si dovevano commerciare, gli scambi si realizzavano a vantaggio dell’URSS che così si rifaceva dei danni subiti durante la seconda guerra mondiale e manteneva la sua leadership, - mancanza di libertà nelle negoziazioni che dovevano sempre essere autorizzate, - mancanza di competitività dei prodotti dell’area e incapacità di sapere quale fosse il prezzo che andava fissato per non perdere terreno nel commercio internazionale (eliminazione del sistema dei prezzi di mercato). L’emergenza del terzo mondo Primo mondo: blocco capitalista diretto dagli Stati Uniti, economie dimercato prospere, sistemi di proprietà privata e democrazie politiche. Secondo mondo: blocco comunista guidato dall’Unione Sovietica, economie abbastanza prospere di pianificazione centralizzata, sistemi di proprietà collettiva, democrazie popolari (dittature). Terzo mondo: tutto il resto, potevano essere capitalisti o socialisti, economie di mercato o pianificate, democrazie formali o popolari, crearono il movimento dei Paesi non allineati, non desideravano essere soggetti né agli Stati Uniti né all’Unione Sovietica.

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La gran parte erano ex colonie delle potenze occidentali o del Giappone, per le quali la decolonizzazione fu il principale fattore unificante (quella nipponica durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale che interessò quasi tutto l’Estremo Oriente, quella inglese e quella francese, tra il 1945 ed il 1965: 1947-1949 emancipazione di India, Pakistan, Indonesia, 1960 Africa completata nel 1964, quella portoghese nel 1975), che offrì nuove opportunità di sviluppo politico e sociale che non sempre si realizzarono e sebbene le ex colonie non potessero più beneficiare di accessi preferenziali ai mercati metropolitani, registrarono risultati positivi durante la golden age: il Pil asiatico dal 1950 al 1973 crescè del 5,2%, quello africano del 4,5%, dinamismo esaurito dai notevoli incrementi demografici di questi anni. La golden age (1950-1973) Caratterizzata dalla globalità della crescita economica: in Europa occidentale il PIL pro capite cresce del 4,1%, quello dell’URSS e Europa orientale del 3,5%, nelle America del Nord del 2,4%, del Sud del 2,5%, in Asia del 3%, Giappone 8,1%, Africa 2,2%: la crescita del PIL mondiale fu sempre tra il 5 ed il 6%. Il fattore terra ha avuto pochissima importanza, il fattore lavoro meno nell’area OCSE (12%) rispetto al blocco sovietico, Asia ed America Latina (tra il 35 ed il 41%) a causa di una minore crescita demografica combinata ad una riduzione di ore lavorate per persona, OCSE e URSS hanno mobilitato più capitale che lavoro ma l’URSS il doppio. Il PTF (Produttività Totale dei Fattori) misura tutti gli altri fattori meno precisabili. In sintesi i Paesi più avanzati sono cresciuti per un migliore utilizzo integrato dei fattori (PTF) più che per l’aggiunta di altri, la crescita dell’URSS è stata estensiva mentre quella dell’OCSE intensiva. OCSE: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, raggruppa i Paesi ad economia di mercato e più sviluppati includendo tutti quelli dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda ed il Giappone. È discendente dell’Ufficio Europeo di Cooperazione Economica. Il PTF nell’Europa occidentale crebbe spettacolarmente dal 1950 in quanto alla fine della guerra si trovò con una quantità e qualità di tecnologie da copiare impressionante, aveva la qualificazione necessaria, la voglia di lavorare per recuperare le distanze rispetto agli Stati Uniti, l’ambiente era efficiente e gli sforzi non venivano sprecati (il sistema politico ed economico era difeso dai governi e c’era convergenza di politiche nazionali concepite per alimentare il consenso politico e la coesione sociale, che creò una solida base per la crescita economica). Il 1958 fu di crisi economica per gli aggiustamenti produttivi imposti dall’avvento di un mondo di parità fisse, stabilità cambiaria prevista da Bretton Woods, che una volta superata portò un grande successo, i veri anni di golden age che portarono una crescita ininterrotta e spettacolare del commercio intereuropeo. Nel 1973, dopo 12 anni di continui solleciti ma sopratturro dopo l’abbandono al potere del generale francese De Gaulle, da sempre contrario, la Gran Bretagna entrò nella CEE con Danimarca ed Irlanda, lasciando nell’indecisione gli altri Paesi dell’EFTA. Durante la golden age c’era una forte tendenza alla convergenza dei redditi pro capite dell’Europa occidentale, superiori di quelli americani e mondiali, migliori quelli dei Paesi più poveri o più impoveriti in guerra di quelli dei Paesi già ricchi, neutrali o non occupati.

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Crisi petrolifere, stagflazione e sfide extraeuropee I meccanismi di compromesso interno si stavano andando via via deteriorando con la comparsa delle nuove generazioni, la conflittualità sindacale aumentava e divenne preoccupante agli inizi degli anni 70. La stabilità cambiaria, un compromesso di stabilità basilare del mondo economico del dopoguerra, svanì quando il presidente Nixon decise nell’agosto del 1971 la sospensione della convertibilità in oro del dollaro in quanto di fronte al deficit pubblico dovuto alle spese militari straordinarie e crescenti della guerra del Vietnam, gli Stati Uniti avevano bisogno di mettere mano a politiche inflazioniste. Era la fine dell’era dell’attuazione degli accordi monetari di Bretton Woods, e l’inizio di un periodo di instabilità monetaria internazionale nonostante si rafforzarono i meccanismi di cooperazione tra le monete europee mediante l’adozione del “serpente monetario”, fissazione di bande di fluttuazione per le valute (maggior margine di attuazione di politiche monetarie). Lo shock arriva alla fine del 1973: un brusco aumento dei prezzi del petrolio deciso dall’OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) come rappresaglia per l’atteggiamento pro-israeliano dei Paesi occidentali nella guerra del Kippur. In pochi mesi il prezzo del petrolio si quadruplicò portando massicci deficit commerciali in tutti i Paesi importatori, per i quali il petrolio già rappresentava la partita maggiore delle importazioni, era il pane dell’industria che ormai ovunque aveva sostituito il carbone, in termini economici la domanda di petrolio era molto rigida, il che provocò un impoverimento di tutti i Paesi importatori, quelli dell’OCSE. Il mondo era diviso in base a nuove frontiere: i Paesi autosufficienti, e protetti quindi dalla crisi, erano le due grandi potenze mondiali, Stati Uniti e Unione Sovietica che approfittò per aumentare le sue esportazioni, chi soffrì maggiormente furono Europa occidentale, Giappone e il Terzo Mondo importatore di petrolio che si indebitò aspettando tempi migliori, mentre i Paesi dell’OPEC si arricchirono fino a limiti inverosimili, i piccoli emirati arabi e gli altri micro Paesi esportatori riuscirono a distribuire la fiumana di dollari tra la parentela ed i sudditi, i Paesi con maggiore popolazione (Iran, Iraq, Algeria, Venezuela, Indonesia e Nigeria) misero in moto ambiziosi programmi di industrializzazione e benessere sociale. Le risposte alla crisi furono diverse e nell’ambiente più incerto creato dai tassi di cambio fluttuanti i governi ebbero maggiori margini di manovra, si distinsero 3 tipi di politiche: - Spagna e Svezia ritennero che la crisi fosse transitoria e ridussero le imposte alla vendita dei derivati del petrolio, senza prepararsi al risparmio energetico. - Il blocco più numeroso (Francia, Gran Bretagna, Italia) applicò politiche di trasferimento dei nuovi prezzi al pubblico ed affrontò la crisi con una volontà di risparmio energetico, senza però rivedere la politica dei redditi, rivendicata ed ottenuta dai sindacati. Si entrò in politiche inflazioniste. - RFT e Giappone accettarono l’idea di essersi impoveriti, e quest’ultimo, una volta assimilata la nuova struttura dei prezzi, tornò a crescere a gran velocità puntando allo sviluppo di settori poco intensivi da punto di vista energetico, come l’elettronica di consumo. La RFT cercò di ridurre l’inflazione obbligando gli operatori economici a ridimensionare le entrate, uscendo dalla crisi con una moneta più forte, inflazione bassa, guadagni in competitività e struttura industriale rinnovata ed alleggerita dai settori che consumavano più petrolio. In generale in tutti i Paesi dell’OCSE l’inflazione e la disoccupazione aumentarono. La situazione è quella della stagflazione, combinazione di stagnazione economica (aumento prezzi e disoccupazione) ed inflazione, non prevista nei modelli di politica economica tradizionali di taglio keinesiano.

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Quando il prezzo del greggio si fu stabilizzato e tutte le politiche cominciavano a produrre i loro risultati, arrivò il secondo shock petrolifero, nel 1979: lo Sha di Persia fu abbattuto da una rivoluzione islamica diretta dall’Ayatollah Khomeini, le cui dichiarazioni antioccidentali e la tensione con gli Stati Uniti crearono incertezza nel mercato petrolifero, che si tramutò in panico quando nel 1980 esplose la guerra tra Iran ed Iraq che si sviluppò fino nelle loro regioni produttrici di greggio. L’OPEC approfittò per imporre una nuova moltiplicazione dei prezzi del greggio che impoverì nuovamente i Paesi importatori tra il 1981 ed il 1983. I Paesi della CEE si sforzarono di coordinare le loro politiche per reagire alla crisi, riattivando il SME (Sistema Monetario Europeo) con margini di oscillazione tra le monete abbastanza ristretti (ormai si era convinti che convenisse lottare insieme contro l’inflazione). I Paesi dell’OPEC si ritrovarono in un regime di sovrabbondanza economica, accumularono fortune enormi in petroldollari, che per le monarchie arabe ritornarono nei mercati borsistici e nelle banche occidentali in cerca di opportunità redditizie di investimento, impossibili nelle piccolo monarchie arabe: i nuovi ricchi dei Paesi poveri depositavano massicciamente il denaro nei Paesi ricchi. Per i Paesi più popolati ed indipendenti vennero invece investiti in strategie più ambiziose ed orientate allo sviluppo delle loro economie, sviluppando l’industria della raffinazione del petrolio e tutte le industrie derivate, ma anche tentando l’industria pesante con il sogno di entrare nel club dei Paesi industriali. CRISI DEL DEBITO: la quotazione del dollaro si era mantenuta bassa nella decade del 1970 e iniziò a salire con l’arrivo di Reagan alla presidenza, e con la politica condotta dalla Riserva federale di scarsità del denaro allo scopo di sostenere la quotazione del dollaro. C’era forte fiducia nella ripresa della sua quotazione e tutti gli investitori del mondo si rivolgevano verso questi titoli: il dollaro salì inarrestabilmente per cinque anni (1980-1985) colpendo principalmente quei Paesi che si erano indebitati in dollari, in particolar modo in Messico, dove la crisi esplose nel 1982 con la caduta del peso messicano che generò un irrefrenabile circolo vizioso che finì della sospensione delle intenzioni di saldare il debito, che interessò anche i Paesi dell’America Latina e l’Africa. Dal 1991 al 1988 l’economia europea sperimentò un recupero modesto ma continuo, gli Stati Uniti intanto erano immersi in politiche di riforma strutturale liberal-conservatore del presidente Reagan. Tra il 1985 ed il 1986 tutto cambiò, prezzi del petrolio, del dollaro e dei tassi di interesse nordamicani cominciarono a scendere, nel gennaio 1986 l’Arabia Saudita ruppe il cartello dell’OPEC ed aumentò la produzione, seguita dagli altri Paesi ed il prezzo del greggio precipitò raggiungendo il suo livello reale anteriore alla crisi del 1973. Il dollaro scese e la crisi del debito divenne governabile. Il contesto successivo è di maggiore ottimismo, Spagna e Portogallo entrano nella CEE (1986) che lancia pa proposta di Atto Unico per il completamento dell’unificazione del mercato comune europeo, che si applicò progressivamente dal 1987 al 1993. L’espansione europea crebbe fino al massimo del 4% nel solo 1988. Caduta del blocco sovietico, rilancio dell’integrazione europea e globalizzazione Il 1989 è l’annus mirabilis del capitalismo occidentale, è l’anno della caduta del muro di Berilino e della maggior parte dei regimi dittatoriali dei Paesi dell’Est nel giro di poche settimane (novembre-dicembre), è anche l’ultimo anno di crescita: il decennio 1990 sarà molto diverso. Questi paesi avevano vissuto una lenta decadenza dalla fine della golden age, la prima crisi fu vissuta in modo uguale in tutta l’Europa (i Paesi del COMECON acqustavano petrolio dall’URSS a prezzi inferiori dei quelli del mercato mondiale, erano fissati impiegando la media dei 5 anni precedenti, per evitare shock) mentre la seconda fu più sofferta nell’Est dal 1979 al 1981 dove non si era capita la lezione e molti Paesi furono costretti ad indebitarsi in occidente con il quale avevano già dei debiti che

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diventavano preoccupanti con il rincaro del dollaro, mentre i Paesi occidentali dal 1981 recupevano il loro ritmo di crescita, quelli orientali non riuscivano a stabilizzarsi e dopo 1956 le difficoltà, persino per l’URSS erano insostenibili (le spese militari della guerra in Afghanistan, combinate con la sfida militare con gli Stati Uniti moltiplicavano le uscite per la difesa), il sistema andava perdendo capacità di manovra. Dopo le rivoluzioni democratiche del 1989 l’Europa orientale, URSS compresa, si proposero di accelerare la transizione alla democrazia ed al capitalismo. Il processo subì un arresto con il colpo di Stato dell’agosto del 1991 che fallì nel tentativo di ritornare all’ortodossia comunista ma riuscì a rovesciare Gorbaciov, sostituito dal leader della resistenza al golpe, Yeltsin anche accelerò i cambiamenti convertendo l’URSS in CSI (Confederazione Stati Indipendenti) e convocando elezioni democratiche. La conversione ad economia di mercato, capitalista ed aperta fu traumatica, ci furono 4 anni di recessione (un crollo del 18% dal 1990 al 1992) per ritornare a tassi positivi nel 1994. Ci fu una vera rivoluzione economica che si verificò in modo istantaneo: le economie si aprirono al commercio estero di beni e servizi ed ai movimenti di capitali e persone, sparì la pianificazione ed emersero i mercati, le proprietà pubbliche vennero privatizzate con enorme ripercussione sui conti pubblici e sulle fortune private. I Paesi che decisero di accelerare i cambiamenti sono riusciti ad abbreviare la sofferenza della fase di transizione ed entrare in una nuova era di crescita, mentre quelli che esitarono nella transizione sono rimasti impantanati tra due sistemi ed hanno subito ricadute dolorosissime. La transizione di maggiore successo è quella Polacca che ha minimizzato le perdite (in termini di intensità e durata) ed è riuscita a tornare a crescere impetuosamente. La Cechia completò una transizione rapida ma senza grande crescita, la Slovacchia, che cominciò con un regime politico simile al vecchio, con scarsa dotazione di infrastrutture, popolazione meno istruita e con un peso opprimente della grande impresa statale riuscì dopo due anni di transizione di tornare a crescere con velocità dal 1994. L’Ungheria non riuscì a far decollare la sua crescita, mentre gli altri tre Paesi (Romania, Bulgaria, RDT) rappresentarono transizioni fallite che dopo un tentativo cadono nel marasma economico e tornano ai vecchi sistemi e politiche. I Paesi balcanici, a differenza di questi, avevano usanze occidentali nella politica e nel diritto più recenti: la Yugoslavia subì un crollo del PIL dal 1989 al 1993 non dovuto alla transizione di mercato ma al caos derivante dalla frammentazione che fu estremamente traumatica e diede luogo a lunghe guerre devastatrici e spietate che hanno occupato il decennio. Nonostante l’economia yugoslava era quella a più alta concentrazione mercantile, con numerose imprese private, importanti investimenti stranieri e aperta al turismo, il suo potenziale andò in rovina dinanzi allo smembramento bellico. La Slovenia, separatasi per prima, è l’unica ad aver evitato il caos. La transizione più traumatica fu quella dell’URSS, che iniziò prima e durò di più. Gorbaciov già dal 1985 introdusse riforme nel clima di libertà, nell’informazione, nella politica ma non nell’economia, senza toccare le pianificazioni. Solo dopo il colpo di Stato del 1991 si cominciò una transizione economica realizzata nella confusione, senza orientamenti e concertazione: il commercio estero fu liberalizzato mentre i mercati interni continuavano ad essere controllati dall’ufficio di pianificazione, dal1990 al 1998 c’è un vero disastro economico. La RDT viene assorbita dalla RFT dopo la caduta del muro nel 1990, la cui popolazione aumentò di un quarto, al quale avrebbe dovuto estendere diritti economici, infrastrutture ed opportunità equivalenti, il che richiese cospicui investimenti che la nuova Germania realizzò indebitandosi, il cancelliere Kohl approfittò della centralità del marco e dell’economia tedesca innalzando i tassi di interesse per attrarre fondi da tutto il mondo, disseminando il problema del finanziamento della ricostruzione dell’ex RDT in tutti i Paesi dell’Unione Europea, ma anche provocando una rivalutazione del marco inarrestabile che, costretta in una banda di fluttuazione dalla SME, provocò nel settembre 1992 una crisi cambiaria di grandi proporzioni: la banda di fluttuazione fu ampliata

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facilitando così grandi svalutazioni ed una instabilità che durerà fino al 1993, interrompendo inoltre gli impegni per l’integrazione monetaria presi nel 1991 con il Trattato di Maastricht che costituiva l’Unione Europea. L’Unione Economica e Monetaria fu la risposta al conflitto sorto tra l’incertezza avvertira di fronte all’unificazione della Germania e l’impossibilità di generare politiche monetarie indipendenti dalla Germania. L’integrazione monetaria viene rilanciata nel 1993 quando l’Unione Europea ha ufficialmente origine: l’euro sarà la massima espressione di integrazione economica europea, si crea l’Istituto Monetario Europeo nel 1994 che lancerà il calendario per la piena applicazione dei criteri di adesione alla moneta unica (i criteri di convergenza di Maastricht) da attuarsi entro il 1998, che domineranno la vita economica dell’Europa occidentale: non aver svalutato negli ultimi due anni, non avere un tasso di inflazione superiore di un punto e mezzo la media dei tre più bassi, non avere tassi di interesse a lungo termine superiori di due punti ai tre con inflazione più bassa, non avere un debito pubblico che superi il 60% del PIL né un deficit dei conti pubblici superiore al 3% del PIL. Questi criteri e la volontà di applicarli agevolarono la riduzione dell’inflazione che si era messa in moto, l’impegno per il contenimento della spesa e del debito e per il controllo monetario incoraggiò la fiducia dei mercati e il prezzo del denaro cominciò a cadere rendendo più gestibili i deficit pubblici e la massa del debito. L’economia europea riprese il cammino della crescita, dal gennaio del 1995 i membri comunitari divennero 15, con l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia, e le parità fisse dell’euro vennero approvate nel maggio 1998, la moneta unica cominciò ad essere quotata sui mercati monetari dal 1 gennaio 1999. La globalizzazione Si sono integrate molto più le borse valori che qualsiasi altra attività mercantile (le popolazione affrontano ostacoli per emigrare, le merci subiscono limitazioni significative, i flussi di capitali no). La capitalizzazione borsistica aggregata è cresciuta tra il 1983 ed il 1998 ad un tasso del 15% annuale, 6 volte più del PIL, e ancora più alta è stata la crescita dei volumi delle negoziazioni nelle borse mondiali. I fattori dell’integrazione dei mercati finanziari sono stati politici, economici, ma anche tecnologici, con l’interconnessione delle borse mondiali nel 1987 grazie alla diffusione dell’informatica personalizzata (PC) e al miglioramento delle telecomunicazioni che facilitarono la trasmissione di dati a distanza. L’industria delle telecomunicazioni passò da una serie di monopoli nazionali alla liberalizzazione e deregulation negli Stati Uniti, Gran Bretagna e nei Paesi della loro area culturale, parte della rivoluzione conservatrice degli anni 80, le stelle della borsa europea negli anni 90 sono state proprio le compagnie di telecomunicazioni privatizzate. L’Europa è rimasta indietro rispetto all’America nella New Economy ed in Internet, ma non per quanto riguarda la telefonia mobile, che è invece cresciuta in modo straordinario. Internet ha permesso che il commercio internazionale di servizi si trasformasse in un’area molto dinamica di crescita. Dopo il 1973, a differenza di quello che accadde nella golden age, la crescita europea fu un fallimento rispetto a quella statunitense, e non fu inversamente proporzionale al livello di reddito iniziale per due motivi: i Paesi più poveri, quelli dell’ex area sovietica, sono cresciuti molto meno di quelli occidentali, ed elementi esogeni al modello di convergenza dei tassi di crescita, come le politiche seguite, hanno avuto più grande importanza.

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3.3 LE POLITICHE ECONOMICHE E SOCIALI Il tratto caratteristico dell’economia europea del XX secolo è Stato il ruolo crescente dello Stato: da mercati sempre più controllati ad uno Stato sempre più coinvolto nell’andamento dell’economia. È un secolo di sperimentazione politica, nel quale le politiche economiche e sociali sono state le protagoniste. Le politiche dei diritti di proprietà Le due direzioni sono quelle della statalizzazione o privatizzazione. Dopo il XIX secolo durante il quale la concezione liberale della proprietà privata era intesa come sacra, il XX secolo si inaugura con la rivoluzione bolscevica nell’ottobre 1917 che portò l’abolizione della proprietà privata (con un’espropriazione su grande scala e senza indennizzo, non solo dei cittadini russi ma anche degli stranieri che avevano investito in Russia provocando un conflitto diplomatico che bloccò le relazioni tra URSS e Paesi occidentali per molte decadi, che uno dei fatti economici più importanti del secolo) e la sua sostituzione con quella socializzata controllata dai soviet, o assemblee rivoluzionarie, ruppe la tradizione di rispetto dei diritti di proprietà ed ebbe enorme impatto su tutto lo scenario politico mobilitando contro l’URSS e contro qualunque barlume di politica comunista, i settori conservatori. Le sinistre si divisero in ragione dell’adesione o ripudio della rivoluzione bolscevica, definendo due campi inconciliabili. La sinistra moderata, socialdemocratica, si allontanò da Lenin e dal bolscevismo, e l’entusiasmo riformatore verso la rivoluzione russa si raffreddò ancora di più con l’entrata del partito nel governo della Germania del dopoguerra ed i continui conflitti con i partiti comunisti nati dal 1920 in tutta Europa, attratti invece dalla rivoluzione (che difesero e diffusero) così come gli anarchici che però si sentirono presto defraudati dalla fortissima componente statalista dei bolscevichi. Tra le due guerre la socialdemocrazia difese il diritto della proprietà privata combinato con un intervento sussidiario dello Stato per garantire diritti complementari per migliorare il livello di vita del cittadino. Non ci furono socializzazioni ma statalizzazioni o nazionalizzazioni, verso le quali erano le dittature di orientamento fascista le più orientate: in Spagna il generale Primo de Rivera espropriò con indennizzo nel 1924 tutte le imprese telefoniche e nel 1927 quelle di raffinazione e distribuzione del petrolio con l’obiettivo di creare un monopolio, Mussolini nazionalizzò in Italia la grande banca di investimento con tutti i suoi investimenti a causa della crisi dell’inizio degli anni 30, salvataggio dal fallimento con denaro pubblico delle imprese avvenuto in segreto e che vide la nascita dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) per raggruppare tutte le imprese di carattere industriale rimaste nelle mani dello Stato. Anche hitler intervenne attivamente nella definizione di progetti industriali imponendo fusioni e fissando obiettivi circostanziali. L’interventismo di nuovo tipo di Roosvelt incoraggiò anche la sinistra non comunista a scommettere sulla nazionalizzazione (il primo caso fu quello della nazionalizzazione delle ferrovie francesi nel 1936 durante il governo del Fronte Popolare), così come fecero le necessità di guerra. Un’ondata di nazionalizzazioni si verifica nel dopoguerra, sia in Europa orientale dove fu eliminato il diritto di proprietà privata, che nei grandi Paesi democratici dell’Europa occidentale (Gran Bretagna, Francia, Italia) durante gli anni di governo delle sinistre, nei quali grandi imprese industriali e di servizi passarono nelle mani dello Stato per la necessità di conseguire economie di scala, produrre beni a prezzi politicamente accettabili, assicurare la disponibilità a tutta la cittadinanza, riequilibrare il territorio, contribuire al pieno impiego, sostenere il benessere dei lavoratori, migliorare il potenziale tecnologico. Vi furono due tipi di configurazione giuridica delle imprese nazionalizzate: quella britannica, che cercava di conservare il meglio della flessibilità privata, le imprese funzionavano come in regime privato ma i gestori erano responsabili di fronte al parlamento che ne designava gli amministratori, essendone proprietario, e quella alternativa (Italia e Francia) che vedeva un’impresa pubblica

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responsabile di fronte al dipartimento ministeriale o trasformata in dipendenza pubblica equivalente a qualunque altro ministero (ferrovie e servizi pubblici). Con la crisi petrolifera e la nuova fase di stagnazione economicale imprese pubbliche si dimostrarono più rigide di quelle private dovendo soddisfare simultaneamente una pluralità di interessi contrastanti, e proprio a loro viene attribuita agli inizi degli anni 80 la responsabilità del cattivo Stato dei conti pubblici. Il 1979 anno in cui l’impresa pubblica aveva raggiunto la massima importanza, iniziano a verificarsi le prime privatizzazioni, con un’accelerazione del movimento nel 1989 con la caduta del socialismo. Tali processi hanno significato la costituzione di un ampio stuolo di possessori di titoli di proprietà di imprese private, un capitalismo popolare che fu la base del progetto thatcheriano e reaganiano e si diffuse in tutto il mondo. Le privatizzazioni più radicali sono state quelle nell’URSS e gli altri Paesi ex comunisti europei. L’interventismo pubblico Nel XX secolo l’interventismo aveva l’obiettivo di assicurare le condizioni migliori per il successo militare e aveva quindi motivazioni extra-economiche ma militari e strategiche. Sono tre le principai modalità: - Interventismo sistematico, politiche di pianificazione. Sono un’altra rivoluzione oltre a quella sovietica, si sviluppa in Germania e Gran Bretagna, viene abbandonata dopo la prima guerra mondiale e recuperata nel 1927 dai governi di Stalin e da quelli fascisti, trovando nuova legittimità durante la seconda guerra mondiale, nel dopoguerra viene rivendicata dai laburisti britannici e viene abbracciata anche dalla destra, con i gollisti prima e da Franco poi nel 1960. Il contenuto ideologico è più attenuato che nelle nazionalizzazioni e inizia a perdere consensi quando si rivela la sua inadeguatezza nel rispondere a necessità e gusti cangianti e nel reagire di fronte a tecnologie che non si prestano ad una gestione centralizzata come quelle su grande scala ed alto numero di unità produttive (impianti siderurgici o centrali nucleari) ma di uso e gestione individuale come l’automobile o il PC. - Interventismo selettivo, politiche di sviluppo o strutturali. Politiche di promozione della crescita economica nelle aree arretrate, sconosciute prima del 1945, sono propugnate da economisti dello sviluppo (il fondatore è Paul Rosenstein-Rodan) che vedono la necessità di un deciso impulso orientato alla creazione di infrastrutture che permettessero ai Paesi di dotarsi del capitale fisico indispensabile per la crescita, partendo dal principio che tali interventi avrebbero permesso agli aiutati di recuperare il ritardo e convergere con re regioni ricche, politiche che godettero di grande prestigio nelle decadi 1950 e 1960 (perdendo poi molto della loro attendibilità iniziale) e sulle quali puntano i grandi organismi di cooperazione economica come la Commissione Economica per l’Europa (CEE) delle Nazioni Unite, l’OCSE, la Banca Mondiale (esempi il Piano Marshall e la Cassa per il Mezzogiorno, 1950). - Interventismo ordinario, l’intervento nei mercati. Nel periodo bellico dal 1914 al 1918 le pratiche interventiste si moltiplicarono e furono poi soppresse con il ritorno alla pace per poi riprendere vigore durante le mobilitazioni precedenti la seconda guerra mondiale e durante il conflitto: sono sempre le guerre a giustificare l’intervento, e sono tipi di intervento transitori, concreti per un mercato preciso o un preciso aspetto. Un esempio sono i libretti di sussistenza, sistemi di razionamento introdotti nei mercati di alimenti, bevande, tabacco e combustibili in risposta alla riduzione di offerta e condizione di penuria, ma anche l’abitudine attuale di fissare prezzi controllati come affitti bloccati e salari minimi, orari commerciali, nati con origine temporale. Le politiche di spesa Fino al 1913 esisteva una sola ortodossia di bilancio: le spese pubbliche ordinarie dovevano finanziarsi mediante le entrate erariali ordinarie, ed il deficit doveva essere nullo, solo spese

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straordinarie, come le guerre, potevano finanziarsi con meccanismi di indebitamento o di conio (eterodossi) per raggiungere la vittoria, per poi essere rifinanziate con una riduzione delle spese ordinarie e con un incremento delle imposte. Era la concezione di ortodossia liberale, che prevedeva anche che le P.A. fossero di dimensioni ridotte al minimo, tendenza che andò indebolendosi ma era ancora robusta alla vigilia della guerra. Il XX secolo sarà caratterizzato da un ampliamento delle funzioni assunte dagli Stati, dell’attivismo pubblico, del peso dello Stato nell’economia e della spesa pubblica. I conflitti bellici accelerano il processo esigendo bruschi incrementi della spesa che non tornò mai alla normalità precedente. Finite le guerre gli Stati mantennero numerose funzioni assunte in via transitoria durante i conflitti, generando una spinta continua all’incremento della spesa che provocò uno dei problemi più frequenti delle finanze europee durante il secolo: l’indebitamento. L’introduzione dello Stato di Benessere e l’orientamento della spesa pubblica verso finalità sociali (la nuova spesa pubblica del secolo) si finanziava con le imposte che gravavano sulle entrate permanenti dei cittadini: l’imposta sul reddito fu introdotta in tutti i Paesi dell’Europa occidentale durante. Tali politiche di benessere sociale si fondavano su programmi di sovvenzione pubblica generalizzata delle cure sanitarie, delle pensioni di vecchiaia, dei sussidi di disoccupazione e della scolarizzazione obbligatoria (già introdotta alla fine del XIX secolo). La prima esperienza di assistenza sanitaria e pensionistica fu realizzata nella decade 1880 da Bismarck, si diffuse poi tra gli Stati scandinavi e nei piccoli Paesi dell’Europa centro-occidentale, ma fu nel secondo dopoguerra con l’ingresso ai governi dei partiti di sinistra che ci fu il momento più significativo della sua diffusione, che toccò in modo particolarmente attivo l’Europa orientale (grazie alla perequazione dei redditi). C’è un paradosso: la spesa pubblica è rigida, rimane stabile senza reagire alle circostanze dell’economia in quanto è risultato di compromessi permanenti, le entrate fiscali invece sono sottoposte al ciclo delle attività economiche. La saldatura di questo squilibrio provoca fasi deficit e fasi di surplus, e l’ortodossia liberale che voleva che con i surplus si pagassero i debiti assunti in circostanze eccezionali e non erano permessi deficit, fu messa in crisi negli anni 30, quando la recessione non sembrava voler cambiare tendenza. Nacquero le “politiche keinesiane”: far ricorso alla spesa pubblica deficitaria come meccanismo per elevare le aspettative economiche introducendo denaro nei circuiti economici tramite l’aumento della domanda pubblica (Gran Bretagna, Svezia, Germania e Stati Uniti ricorsero a tale spesa per finanziare programmi di opere pubbliche, costruzione di abitazioni sociali, creazione di sussidi di disoccupazione o riarmo). Le politiche keinesiane durarono fino all’inizio della crisi del petrolio, quando entrarono in crisi in quanto si basavano su un mondo in depressione (erano valide se l’equilibrio dell’offerta e della domanda si stabiliva al di sotto della piena occupazione, creando quindi disoccupazione) e non potevano quindi valere in un mondo di piena occupazione. Le politiche commerciali La prima guerra mondiale comportò un’introduzione di protezionismo in tutte le politiche nazionali: la dichiarazione di guerra comportò la proibizione di commerciare con i nemici, sfruttata dai Paesi neutrali per realizzare ingenti traffici, ed il rincaro inverosimile del commercio marittimo (noli e assicurazioni marittime). Con il ritorno alla pace l’esigenza di proteggere gli interessi che si erano creati ovunque portò ad una marcia verso il protezionismo tra il 1919 ed il 1921, anno in cui l’America chiuse le frontiere agli immigrati per poi chiudere anche il mercato nel 1929 (tariffa Hawley-Smooth). Gli anni 30 furono di chiusura commerciale sempre più intensa, adottata da tutte le politiche autarchiche in quanto in sintonia con gli ideali nazionalisti e gli obiettivi di riarmo e preparazione alla guerra e meno estremista negli altri Paesi che videro l’introduzione di nuove misure di intervento

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pubblico nel commercio estero (accordi di cleaning cioè compensazione bilaterale dei saldi esteri, limiti quantitativi alle importazioni, permessi e licenze, pagamenti in contanti). Gli accordi per il secondo dopoguerra, il Bretton Woods in particolare, nacquero dalla convinzione che gli ostacoli al commercio erano sbagliati e che un nuovo ordine economico internazionale doveva garantire il libero commercio. Le difficoltà nel passare da regime protetto a libero furono fortissime, tanto da far fallire l’OCI, sostituita dal GATT che sanciva accordi (rounds) di liberalizzazione modesti ma sempre aperti a nuove e più significative intese (Kennedy round, Uruguay round che culminò nella creazione dell’OMC). La CEE nacque in questo contesto di riduzioni commerciali, negoziate una per una e a muso duro e non significò la fine delle politiche commerciali anzi continuò a dedicargli enormi sforzi ed in particolare riguardo le relazioni con i Paesi aspiranti all’ammissione, le relazioni con i Paesi poveri e la politica commerciale estera ordinaria con Stati Uniti, Giappone, Estremo Oriente, Paesi asiatici e latinoamericani. Il maggiore successo della CEE sarà l’integrazione dei Paesi dell’EFTA: 1957 formazione della CEE 1973 entrata Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca 1986 entrata Spagna e Portogallo 1995 entrata Austria, Finlandia e Svezia Le politiche di stabilizzazione Sono quelle orientate a ridurre la variabilità dei tassi di cambio e dei prezzi, intimamente connessi tra loro, sono le politiche più classiche e conservatrici e perciò sempre nell’occhio del ciclone. Ci sono sempre state, durante il gold standard erano automatich, senza il modello aureo gli stati dovevano invece impegnarsi di più. La prima guerra mondiale significò sospensione del gold standard in tutto il mondo, le banche annunciarono che non avrebbero più cambiato carta moneta in oro, in modo da poter emettere più denaro e infatti ciò produsse inflazione. Con il ritorno alla normalità tornò anche il gold standard, gli anni 20 sono dominati dalla lentezza di questo processo che venne abbandonato dai governi appena completato, nel 1931 per poter svalutare le loro divise, recuperare capacità competitiva sui mercati internazionali e limitare il volume delle loro importazioni. Fu un circolo vizioso chiamato la politica del “rubare al tuo vicino”. Il gold standard fu, secondo Eichengreen, una gabbia d’oro per i Paesi che lo adottarono, e prima se ne fossero liberati e avessero recuperato libertà di azione monetaria, commerciale e fiscale, meglio sarebbe Stato. Negli anni 30 andò in fatti in crisi definitiva. Gli anni 30 furono l’ultimo periodo di deflazione generalizzata (riduzione della cartamoneta), durante la seconda guerra mondiale non vi furono politiche di stabilizzazione, ma solo verso la fine, coloro che si ritenevano i vincitori (gli Alleati) cominciarono a preoccuparsi delle condizioni di stabilità del sistema riuscendo ad evitare le iperinflazione del primo dopoguerra. Nel secondo dopoguerra si fece ricorso al razionamento e a stretti controlli sull’emissione di denaro, i Paesi tentati da politiche inflazionistiche vennero sollecitati ad abbandonarle dagli Stati Uniti che stanziarono a questo proposito il piano Marshall. Con la fine della ricostruzione nel 1950 si entrò in un lungo periodo di stabilità monetaria, fino al 1973 i tassi di inflazione furono moderati e convergenti. Con la crisi petrolifera tutti i Paesi registrano grandi inflazioni senza controllo tranne il nucleo che segue la RFT nel suo impegno di stabilità monetaria (Austria, Svizzera, Belgio e Olanda), e il recupero di credito delle politiche di

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Dall’espansione allo sviluppo.

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stabilizzazione (che sarà lentissimo) sarà molto legato all’autorevolezza della politica monetaria prudente ed indipendente della Banca Federale Tedesca (Bundesbank), la stabilità cambiaria della quale saranno al centro anche dei progetti di integrazione monetaria europea. Le politiche di cooperazione Sono le più delicate di tutte le politiche economiche, sono nazionali (orientate all’intermediazione tra le parti sociali per il conseguimento di accordi salariali) o internazionali. Le prime dominarono i primi decenni del secolo: la lotta di classe fu la norma per i sindacati di classe e le organizzazioni padronali che si affrontavano. Più intenso era il confronto più si moltiplicavano le possibilità di esplosioni rivoluzionarie o colpi di Stato fascisti. L’esperienza della golden age ha mostrato come la frammentazione delle rappresentanze sindacali ha come conseguenza una maggiore litigiosità e si fa entrare l’economia in un circolo vizioso inflazionista che porta alla stagnazione economica. Al contrario, Paesi che hanno rappresentanze sindacali unite e centralizzate (come l’area scandinava e germanica) normalmente raggiungono accordi più responsabili e sostenibili che sono alla base di circoli virtuosi di crescita. Sono chiamati sistemi neo-corporativi per il riconoscimento della centralità degli interessi economici e la necessità nazionale di giungere ad accordi tra le parti, ed in effetti nei Paesi dell’Europa centro occidentale e settentrionale questa formula con una rappresentanza nel governo ha avuto successo riducendo i conflitti, migliorando la distribuzione delle entrate e la capacità di adattamento alle fluttuazioni dell’economia internazionale. Le politiche di cooperazione internazionale sono le più sofisticate, richiedono più tempo, comportano più rischio politico nel breve termine ma hanno dimostrato la loro efficacia. Già alla fine della seconda guerra mondiale gli incontri si moltiplicano in vista della preparazione del nuovo ordine mondiale: il più famoso è quello di Bretton Woods, luglio 1944 che culminò con la creazione delle Nazioni Unite ed il dispiegamento di organizzazioni internazionali