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Simone Casu Perché ho rinunciato al disegno! Pregiudizi, errori e delusioni dovuti alla mancanza di un codice di apprendimento nella didattica del disegno Centro Umanista di Espressione Artistica

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Simone Casu

Perché ho rinunciato al disegno!

Pregiudizi, errori e delusioni dovuti alla mancanza di un codice di apprendimento nella didattica del disegno

Centro Umanista di Espressione Artistica

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Perché ho rinunciato al disegno

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Tu sei libero

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Introduzione

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Introduzione

In questo testo ho voluto raccontare le mie esperienze di insegnate di disegno nella speranza che possano, in qualche modo, essere di sostegno al lettore che vuole intraprendere una disciplina artistica, un incoraggiamento a non rinunciare e a credere nelle proprie capacità.

A chi invece ha rinunciato da tempo o pensa di rinunciare a disegnare, vorrei trasmettere la certezza che il saper disegnare non è, come si crede comunemente, una capacità che appartiene ai pochi dotati.

Attraverso le sperimentazioni metodologiche portate avanti da Giovanni Spinicchia in più di 40 anni di esperienza didattica, è stato possibile elaborare un codice definito nei termini di Ascoltare Pensare e Disegnare (AS.PE.DI.®) per educare i bambini, e Vedere Ragionare e Disegnare (VE.RA.DI.®) per adolescenti e adulti.

Un codice che ha permesso a chiunque imparare a disegnare senza commettere errori, orientato con gli stessi fini con cui è composta la grammatica per l’apprendimento della lingua che ha dato modo a tutti noi di imparare a leggere ed a scrivere, con facilità, correttezza, ordine e tempo, senza che siano state richieste predisposizioni di talento.

Infine, mi auguro con questo piccolo contributo di stimolare la ricerca pedagogica in un settore del sapere, ancora limitato dai tanti pregiudizi, che considerano il disegno, e l’arte in generale, un passatempo privo di significati profondi ed indispensabili nella costruzione di una società più umana, in cui si valorizzino la libertà di espressione e la ricerca di un senso più ampio della vita.

Finalità del testo

Perché ho rinunciato al disegno

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Perché ho rinunciato al disegno

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Introduzione

Notizie Autore

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Introduzione

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Casu 1969 - Nasce a Cagliari.

1987 - Segnalato all’interno del Liceo Artistico di Cagliari, partecipa ad una performance di PLEXUS ART al Bastione Vittorio Emanuele II di Cagliari, grazie all’appoggio dei suoi maestri Gaetano Brundu, Mario Olla, Giancarlo Marchisio e Luigi Mazzarelli.

1989 - Consegue la maturità artistica col massimo punteggio e si trasferisce a Firenze dove frequenta l’Accademia di Belle Arti nella scuola di pittura di Roberto Palumbo e successivamente di Adriano Bimbi.

1991 - Lascia gli studi accademici per dedicarsi ad una ricerca artistica non istituzionale.

1993 - Fonda il gruppo artistico “Spazio alla mente”.

1994 - Fonda col l’editore Nicodemo Maggiulli la casa editrice scientifica SEE di cui ricoprirà la carica di responsabile editoriale fino al 2004. In questi anni esegue anche centinaia di illustrazioni scientifiche con i massimi studiosi di medicina nazionali ed internazionali.

1996 - Fonda la scuola d’arte “Centro Umanista di Espressione Artistica” a Firenze. Scuola dove inizialmente si tengono solo corsi di disegno e pittura, fino a giungere nel 2006 a circa 25 proposte formative per adulti in differenti campi dell’espressione artistica, dalla musica al cinema, dalla scrittura al fumetto.

2000 - Intraprende con l’arch. Giovanni Liberti una proficua collaborazione di studio e ricerca sulla psicologia e la morfologia dell’immagine che lo porta a tradurre dallo spagnolo un testo fondamentale, Segni, simboli e allegorie, e a creare il sito www.morfologia.net, portale di interpretazione, studio e applicazione degli studi morfologici sui simboli e le allegorie.

2000/2006 - La sua ricerca lo porta ad allestire dei veri e propri spettacoli di interazione artistica col pubblico a Villa Strozzi a Firenze, dove crea un gruppo artistico, il CUEA STAFF, con il quale intraprende studi e applicazioni nel campo del pensiero creativo. Da essi nascono dei corsi di formazione per artisti.

2004 - Nasce la collaborazione col prof. Giovanni Spinicchia per la realizzazione di un testo di disegno in cui convergano le rispettive esperienze didattiche. Tali esperienze, sperimentate nell’ambito del Centro Umanista di Espressione Artistica, si indirizzano in una direzione diametralmente opposta a quella avviata grazie al celebre testo di Betty Edward, Disegnare con la parte destra del cervello.

2005 - Si dedica anche alla fotografia elaborata al computer ed espone alla Galleria del CUEA.

2006 - Fonda l’Istituto Internazionale di Arte Trascendentale ESTETRA che si occupa di formazione specialistica per lo sviluppo della spiritualità nell’arte (www.estetra.org)

2009 - Fonda, assieme a decine di studiosi e ricercatori di diverse nazionalità, il Centro Mondiale di Studi Umanisti. Partecipa alla costruzione del Centro Studi Umanisti Salvatore Puledda di Roma (www.csuroma.org), di cui è membro attivo.

2010 - Attualmente è impegnato nella promozione dei metodi didattici VE.RA.DI.© AS.PE.DI.© (ascoltare, pensare, disegnare) ed ES.TE.TRA.© (espressione, tecnica, trascendenza) e nella stesura di 7 libri che comporranno la collana di arte trascendentale che riguardano argomenti di estetica, psicologia dell’immagine, sociologia, critica, didattica ed educazione.

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Perché ho rinunciato al disegno

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Introduzione

Finalità del testo ............................................................................................................. pag. 03Notizie Autori .................................................................................................................. pag. 05

I Codici di Apprendimento ......................................................................................... pag. 09

1. Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata .......... pag. 11

Esaurire l’entusiasmo iniziale .................................................................................... pag. 13Scoraggiamento ............................................................................................................. pag. 15Conclusioni ....................................................................................................................... pag. 15

2. Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico ........... pag. 17

La didattica tradizionale .............................................................................................. pag. 19I cambiamenti negli anni ’60 e ‘70 .......................................................................... pag. 20Gli equivoci della didattica contemporanea ....................................................... pag. 21

Troppi discorsi e poche indicazioni ..................................................................... pag. 21Porsi in competizione coi modelli della storia dell’arte.............................. pag. 22La mancanza di laboratori ...................................................................................... pag. 23La supremazia scientifica su quella creativa e istintiva ............................. pag. 24

La prospettiva .......................................................................................................... pag. 25La luce ........................................................................................................................ pag. 27L’anatomia ................................................................................................................ pag. 28

La conoscenza dei mezzi artistici ............................................................................ pag. 30Conclusioni ....................................................................................................................... pag. 31

3. Da grande volevo fare l’artista! ........................................................ pag. 33

La tormentata via dell’Arte ......................................................................................... pag. 35Lavorare per vivere o vivere per lavorare ............................................................. pag. 37Gli artisti “lavoratori” .................................................................................................... pag. 37La formazione al disegno per adulti ....................................................................... pag. 37Il disegno come conoscenza ...................................................................................... pag. 38Conclusioni ....................................................................................................................... pag. 39

4. Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica ............ pag. 41

Siamo tutti bambini ...................................................................................................... pag. 43Fuggire dalla routine .................................................................................................... pag. 46Sviluppare la motivazione .......................................................................................... pag. 47

Mortificare la motivazione ..................................................................................... pag. 49La nostra missione ......................................................................................................... pag. 52Essere al pari e non essere sopra ............................................................................. pag. 52Capire chi siamo e chi sono ....................................................................................... pag. 54

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Perché ho rinunciato al disegno

Vocazione insegnante .................................................................................................. pag. 55Il miglior modo per apprendere ........................................................................... pag. 55Capacità di adattarsi ................................................................................................. pag. 56Cercare di non giudicare ......................................................................................... pag. 57Accompagnare ............................................................................................................ pag. 57

Peculiarità dei corsi d’arte del CUEA ...................................................................... pag. 58Entrare in contatto col profondo ........................................................................ pag. 58Integrazione delle esperienze profonde ........................................................... pag. 60Creare un buon “clima” ............................................................................................ pag. 61

Cura della sfera emotiva ..................................................................................... pag. 61Cura del Gioco ........................................................................................................ pag. 63Cura del rapporto tra gli allievi ........................................................................ pag. 65Cura dello spazio .................................................................................................... pag. 69Cura del tempo ....................................................................................................... pag. 69

Strumenti Pedagogici “speciali” ........................................................................... pag. 73Il fattore mistico-spirituale ............................................................................... pag. 73La disciplina interiore ........................................................................................... pag. 74Il dialogo interiore ................................................................................................. pag. 75

Come sopravvive una scuola privata ..................................................................... pag. 77Differenze tra pubblico e privato ........................................................................ pag. 78

Differenze di motivazione .................................................................................. pag. 79Differenze di programma ................................................................................... pag. 82

La dipendenza economica ...................................................................................... pag. 83Si chiude un ciclo e se ne apre un altro ............................................................... pag. 88Conclusioni ....................................................................................................................... pag. 89

5. Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI. .......................................................................................... pag. 91

Nuove metodologie di apprendimento artistico ............................................... pag. 93I limiti del metodo Disegnare con la Parte destra del Cervello ................... pag. 94Conflitto tra gli emisferi .............................................................................................. pag. 95Esercitazioni teoriche e poco applicabili .............................................................. pag. 98

Ma che confusione! .................................................................................................. pag. 99Esperienza VE.RA.DI. ...................................................................................................... pag. 99Conclusioni ....................................................................................................................... pag. 101

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Introduzione

Per rendere comprensibili tutte quelle parti del libro che richiamano i metodi elaborati da Giovanni Spinicchia, riportiamo brevemente quali siano le caratteristiche peculiari di questi rivoluzionari codici di apprendimento.

AS.PE.DI.®AScoltare, PEnsare, DIsegnare si propone tutto il recupero di quelle immagini che

hanno costituito il disegno del bambino in età prescolare. Immagini entro cui tutte le cose della realtà circostante erano rappresentate e identificate nella loro natura spontanea ed in relazione alla sensibilità, al livello culturale del proprio ambiente.

AS.PE.DI.® pur continuando a rispettare la personalità grafica di ciascuno ha permesso, attraverso racconti e letture di prose e poesie, di ricavare i contenuti e i significati di quella realtà prima immaginata e adesso rappresentata attraverso riferimenti reali precisi.

VE.RA.DI.®VEdere, RAgionare, DIsegnare si propone di recuperare attraverso la copia della

realtà tutte quelle componenti formali di cui è composta, attraverso l’occhio che vede, la mente che ragiona e la mano che disegna.

I propositi hanno permesso di eliminare durante le esercitazioni l’uso della matita per permettere al candidato di usare la penna biro per non cancellare gli errori dai quali ricavare le motivazioni per crescere. Il motivo fondamentale del codice è quello di condurre ciascuno alla rappresentazione di tutta la realtà disegnata correttamente nelle forme, nelle linee e nelle proporzioni.

Infine, nel testo si accenna anche al metodo di specializzazione elaborato da Simone Casu, che descriviamo in breve.

ES.TE.TRA.®ESpressione, TEcnica, TRAscendenza si propone di recuperare la forza espressiva

della nostra infanzia, attraverso una destabilizzazione delle strutture psicoemotive, che hanno generato negli anni una rigidità formale. Recuperata la vitalità primordiale, la si affina attraverso le tecniche fondamentali dell’arte per poi trascenderle, fino a giungere ad una personale interpretazione delle tecniche acquisite.

Questo metodo didattico di specializzazione si basa sullo studio dei processi creativi che coinvolgono il pensiero, il sentimento e l’azione (intesa come gestualità), cercando di creare una coerenza tra i diversi livelli. Alla base di questa pedagogia vi è lo sviluppo dell’auto osservazione, attraverso la quale, l’apprendista, unico protagonista del metodo, si costruisce come desidera. Il metodo consiste, dunque, nel fornire strumenti di auto educazione.

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I Codici di Apprendimento

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Perché ho rinunciato al disegno

Capitolo 1 11

Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata

Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata

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Perchè ho rinunciato al disegno

Capitolo 1 13

Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata

Nelle esperienze descritte nei capitoli precedenti è possibile che molti di voi lettori abbiano riconosciuto la propria esperienza di bambini e di adolescenti, che spinti da un naturale senso al disegno si sono sentiti non sorretti in questa loro ricerca. Ma c’è da dire che la formazione al Disegno, materia complessa ampia e profonda, ha ricevuto solo recentemente le dovute attenzioni pedagogiche.

Ancora oggi è una strada in salita, soprattutto se analizzata nel contesto dello sviluppo istituzionale delle strutture educative, che mancano di una adeguata attenzione e di un appropriato investimento al confronto ad altri settori sociali che pur essendo affatto costruttivi, come il mercato degli armamenti ad esempio, sembra che godano di maggiore attenzione da parte dei dirigenti economici e politici.

Solo se si analizza il sistema educativo in un contesto più ampio risulta evidente che non sarà possibile un progresso didattico se esso non è accompagnato da un cambiamento di tutte le componenti sociali.

Ciò non ci impedisce di fare delle valutazioni e delle proposte affinché lo specifico campo della pedagogia del disegno possa avanzare, ma siamo consapevoli che l’argomento vada osservato da una prospettiva più ampia, pur non generalizzando ed entrando in merito a responsabilità politiche ed economiche.

Riteniamo quindi che il cambiamento delle complesse problematiche sociali in cui siamo immersi, possa anche essere stimolato grazie al contributo di una corretta istruzione al disegno. Istruzione che possa consentire di educare persone rendendole più sicure di sé, alleggerite da molti timori e paure legate alla loro espressività.

In questo capitolo vedremo come un sistema educativo che non sia in grado di aiutare i bambini a superare le difficoltà di apprendimento del disegno, può addirittura danneggiarli, creando in loro demotivazione, paura di sbagliare e chiusura emotiva. Tali frustrazioni possono causare dei blocchi nella loro personalità per poi avere, come avremo occasione di riportare nei capitoli successivi, notevoli conseguenze nell’adulto.

Nella memoria di tutti noi il disegno spontaneo della prima infanzia era vissuto con grande intensità e piacere.

Questa passione fonte di vita, ha una notevole importanza nello sviluppo complessivo della persona e la mancanza di un codice di apprendimento nelle scuole dell’obbligo, porta spesso gli insegnanti in difficoltà e, nella maggior parte dei casi, si può verificare una retrocessione della fantasia del bambino.

La retrocessione si manifesta attraverso degli atteggiamenti tipici, che tratteremo in questo capitolo.

Esaurire l’entusiasmo inizialeChi non ricorda con piacere il negozio in cui da

piccoli si vendevano i fogli, le matite, i pennarelli e tutti quei giochi - così li vivevamo - che servivano per le materie artistiche?

Ancora oggi, quando da adulti entriamo in questi negozi ci appaiono come dei magici bazar delle fiabe orientali. Mille colori, matite di ogni genere, la carta ruvida, liscia, martellata di tutti gli spessori e colori, fanno sembrare questi luoghi magici. Per non parlare del profumo delle tinte e del legno usato per le matite, e la plastilina, il DAS e i pennelli di ogni forgia e spessore. Che meraviglia!

Forse è ancora oggi tutto questo rappresenta in noi la magia dell’arte. Vorremo usare tutti quei colori e sapere cosa servono tutti gli strumenti a noi sconosciuti ma che infondono il fascino della creazione.

Tutta quella moltitudine però ci disorienta, perché dentro di noi sappiamo che non sono i mezzi grafici o pittorici che fanno l’artista. È la conoscenza, potremo definirla alchemica, ciò che gli consente attraverso dei semplici pennelli e delle comuni matite, di inventare mondi che fino a quel momento erano sconosciuti in cui ci sentiamo come “a casa”.

Tutto questo probabilmente fa parte dei nostri ricordi d’infanzia, memorie della scuola e dell’entusiasmo con cui ci perdevamo nei compiti artistici.

Ma purtroppo sorgono anche dei tristi ricordi, perché sappiamo che quei trascorsi e quell’entusiasmo cessarono di vivere in noi. Ma cosa può essere successo? Cosa può averci allontanato da una attività così gioiosa e felice?

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Perchè ho rinunciato al disegno

Sicuramente alcune motivazioni del nostro abbandono andranno rintracciate nell’intimo del nostro cuore, alcune invece possono derivare dalle modalità con cui abbiamo vissuto questa esperienza in rapporto agli altri.

Proviamo a ricostruire quali possano esser stati gli avvenimenti che ci hanno fatto abbandonare il disegno e la pittura. Anche se può causare un velo di tristezza, e possa sembrare un poco melodrammatico, cerchiamo di ripercorrere quello che è stato probabilmente un trauma nella nostra infanzia.

Prima di questo momento di abbandono, le attività artistiche ci avevano sempre entusiasmato, soprattutto eravamo dei veri sperimentatori. Usavamo tutti i mezzi che avevamo a disposizione: pennarelli, plastilina, DAS, tempera, matite... Tutto ciò che esprimevamo col segno e col colore era per noi fonte sicura di gioia.

Conoscevamo ora le proprietà dei pennarelli, delle matite, della tempera. Avevamo imbrattato centinaia di fogli in tutti i modi che potevamo scoprire. Tutto questo lo abbiamo fatto in maniera naturale senza essere seguiti pedagogicamente dagli adulti.

Non si poteva certo andare avanti in questo modo spontaneo fino a diventare adulti!

Forse un giorno qualsiasi, ci siamo soffermati a guardare i nostri disegni spontanei e abbiamo avvertito che in essi non c’era una crescita, ma una ripetizione. É difficile rintracciare il momento in cui è comparsa questa consapevolezza, ma nella nostra mente abbiamo constatato una inadeguatezza tra i nostri elaborati e la nostra necessità espressiva.

Come quando cerchiamo di esprimerci con una lingua che non conosciamo a sufficienza, ci siamo trovati di fronte ai nostri limiti, e questo, non ci piaceva affatto. Nessun essere umano gioisce di fronte ai propri limiti quando le sue intenzioni sono quelle di avanzare nella scoperta e non di ritrovarsi chiuso in una meccanica e noiosa ripetizione.

Chi ripeterebbe all’infinito gli stessi errori? Quella casa, appena abbozzata e rude, che ci aveva

rallegrato quando avevamo 6 anni, ora che ne abbiamo 8 ci sembra, inadeguata e priva di forza.

E quell’albero ancora presenta un cerchio verde e due linee dritte per il tronco: ma non è così! Noi lo vediamo rigoglioso nel giardino, pieno di foglie e col tronco vivo, bitorzoluto e con tutte quelle incredibili linee delle venature.

Ma nel nostro disegno non v’è nessuna traccia di quella nostra percezione, non v’è traccia di quella nostra intenzione, non v’è traccia di quella nostra sensibilità.

È probabile che in questi momenti l’entusiasmo iniziale si sia arenato perché i contenuti che ci eravamo proposti di trasferire sul foglio erano rimasti nella nostra immaginazione, mentre sul foglio solo una parodia infantile di un pensiero che nella nostra mente era oramai evoluto e ricco di significati.

Quanti di voi si riconoscono in questa fantasiosa ricostruzione? E quanti di voi riconoscono in questa frustrazione, la stessa che oggi si presenta di fronte alla voglia di creare?

In questi momenti avviene uno scontro tra la pratica della mano e la propria immaginazione. Questa mano, lasciata nell’ignoranza, non traduce più il proprio mondo interiore e ci sentiamo degli incapaci, e i disegni - che un tempo erano la nostra gioia - diventano ora i testimoni della nostra impotenza.

A circa 8-10 anni ci vergogniamo di essi, li nascondiamo agli adulti, e vaghiamo alla disperata ricerca di soluzioni, copiando dalle riviste, ricalcando, o imitando i nostri compagni che riteniamo più bravi e capaci.

Tutto ciò non sarebbe forse avvenuto se avessimo avuto il supporto di un adulto che, attraverso un codice di apprendimento, ci avesse guidato ed aiutato sintonizzare la nostra immaginazione con la realtà. Il nostro pensiero così arricchito avrebbe potuto guidare la mano verso la risoluzione dei nostri desideri espressivi.

Per sostenere nel tempo l’entusiasmo ci vuole una formazione strutturale basata sul principio di saper vedere, saper pensare, saper ragionare come esposto nel metodo VE.RA.DI.

Se non interviene un aiuto pedagogico qualsiasi persona, di fronte alla ripetizione degli stessi errori, si convince prima o poi che quel compito non fa per lei e abbandona i propri propositi espressivi.

Capitolo 1 15

Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata

Vorremo urlare al modo, a chi comanda alle famiglie ai singoli, che credono che l’arte sia solo un passatempo, a tutti coloro vorremo dire: che le sensazioni proprie dell’esperienza artistica non possono essere sostituite da altre attività.

Il mondo interiore che si esprime nell’arte e cono cui dialogavamo tutti nella nostra infanzia, non muore e non morirà mai perché è parte del bagaglio umano e tutti noi lo portiamo dentro.

Lo scoraggiamento, che ha in qualche modo impedito lo sviluppo dell’esperienza artistica nell’adolescenza, si ripresenterà ancora quando si cercherà di riprendere in mano questa ricchezza. Ma ancor più profonda è quella forza creativa che vi ha dato voglia e l’entusiasmo nella vostra fanciullezza. Quando voi lo chiederete essa continuerà ad essere a nostra disposizione.

Nel quinto e sesto capitolo riprenderemo da questo punto e cercheremo di capire come questo fallimentare vissuto agisca da adulti e soprattutto vedremo come è possibile rinnovare l’entusiasmo e superare finalmente questo blocco.

Conclusioni

ScoraggiamentoDopo questa fase di entusiasmo sopraggiunge

un periodo di scoraggiamento, che può anche essere superato, ma essendo vissuto spesso in solitudine oltrepassare questa crisi dipende soprattutto dal carattere della persona.

Quando un adolescente, rinuncia a disegnare solitamente è perché, dopo diversi tentativi, non si ritiene capace, supportato dai commenti degli adulti che come lui sono stati a loro tempo, vittime del pregiudizio della dote naturale.

È di fondamentale importanza comprendere che l’abbandono al disegno non avviene perché si esaurisce la curiosità e la voglia di farlo. Assolutamente, no!

Al contrario essa ritornerà sempre fuori nel corso degli anni, e continuerà ad essere un’energia positiva dentro di sé.

Cosicché, nell’adolescente, avviene spesso una interruzione della pratica artistica. Una rottura e non una scelta consapevole. I suoi interessi cambiano e quell’entusiasmo creativo viene trasferito in parte ad altre occupazioni.

Ma è probabile che nell’interiorità viva per sempre una sconfitta. Sensazione che forse cercherà di soddisfare da adulto intraprendendo una qualsiasi altra pratica artistica alla ricerca di mezzo che gli consenta di esprimere la sua umanità.

Così, in maniera indifferente, la società costruisce intere generazioni di artisti “mancati”.

Ci auguriamo che questa umanità ferita possa, grazie a questo testo ed i metodi AS.PE.DI. e VE.RA.DI., riscattare la propria frustrazione dimostrando a se stessi ed al mondo che per apprendere a disegnare non è mai troppo tardi.

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Perchè ho rinunciato al disegno

Capitolo 2 17

Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

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Perché ho rinunciato al disegno

Capitolo 2 19

Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

In questo capitolo ci occuperemo di mettere in rilievo alcuni equivoci pedagogici della didattica del disegno attuata nelle scuole superiori ad indirizzo artistico, Istituti d’Arte e Licei Artistici, ed in parte anche nelle Accademie di Belle Arti.

Li definiamo equivoci perché ci occuperemo di quegli errori didattici che persistono grazie ad una particolare fama che si è andata accumulando nel tempo. Essi perdurano nell’educazione, nonostante non diano i risultati dovuti. Solitamente si crede ingenuamente, che si stiano attuando i metodi migliori e corretti per trasmettere informazioni e conoscenze, ma forse non è così.

Tratteremo di queste convinzioni, stereotipi se così li si vuole definire, che sono difficili da sradicare e che

in alcune occasioni, oltre a non dare i risultati che ci si aspetta, appesantiscono, complicano ed in qualche modo danneggiano lo sviluppo creativo.

Il fenomeno, che potremo definire di “trascinamento” è ben comprensibile in un settore in cui non vi sono stati significativi cambiamenti, se non addirittura peggioramenti, rispetto al passato.

Cosicché alcuni vecchi modelli continuano a vivere in una società decisamente cambiata rispetto all’epoca in cui si sono creati.

Iniziamo il capitolo con una piccola carrellata di quella che era la didattica del disegno negli anni ’50 prima che avvenissero le trasformazioni degli anni ’60 e ’70 del XX secolo.

La didattica tradizionaleI modelli di riferimento per la didattica tradizionale

del disegno sono da sempre state le opere dei grandi artisti. Esse venivano utilizzate come modelli da copiare e da imitare. La didattica dell’arte di un tempo era molto semplice e consisteva soprattutto in questa pratica: la copia incessante ed instancabile dei maestri.

L’insegnate, artista operante e non teorico, poneva il candidato di fronte ad un disegno, per lo più di origine rinascimentale, da riprodurre graficamente. Non era una didattica complessa, e per quanto il carisma e la sensibilità di alcuni insegnanti faceva di loro dei grandi maestri, non vi erano un codice o una grammatica del disegno. Non vi era una scuola pedagogica di riferimento adeguata ai tempi moderni.

Lo scopo di quell’approccio imitativo era quello di avvicinarsi il più possibile della tecnica e alla forma dei modelli storici, per poi passare a copiare dei soggetti dal vero ed infine dedicarsi a vere e proprie creazioni originali.

Prima i maestri dell’arte, poi la natura morta e infine la figura umana. I paesaggi non erano soggetti facilmente riproducibili nelle classi, ma a volte si realizzavano bozzetti che poi venivano dipinti in aula.

Nonostante le ricerche effettuate dalla psicologia e dalla pedagogia nei primi anni del ‘900, e nonostante le sperimentazioni didattiche di scuole come in Bauhaus, l’ambiente dell’istruzione artistica mantenne il suo carattere conservatore, e non fu sostanzialmente

toccato dalle discipline psico-pedagogiche che esplosero all’inizio del XX secolo.

A sostegno di questa mancanza di rinnovamento e messa in discussione ha sempre pesato la credenza che l’arte fosse materia adatta a pochi talentuosi e non disciplina accessibile da chiunque.

Cosicché gli allievi copiavano questi soggetti ma senza che gli venissero date istruzioni di come e dove iniziare la copia, o in che modo questa poteva essere recepita dall’occhio e trasferita sulla carta. Gli unici consigli che potevano incoraggiare erano affidati ad esempi pratici in cui il maestro interveniva sul foglio di ciascuno impostando approssimativamente delle linee, dalle quali ricavare la forma generale dell’illustrazione. Nonostante l’esempio pratico le soluzioni di tutti gli errori che potevano susseguirsi durante l’esecuzione rimanevano sempre inspiegabili e lasciate all’iniziativa individuale.

Una didattica molto semplice, in cui si dava per scontato che bastasse mostrare come si fa un disegno per poter trasmettere le conoscenze grafiche. Ancora oggi ci sono insegnanti che adottano questo facile quanto inefficace metodo, non solo nel disegno ma anche nella matematica ad esempio, in cui il professore esegue delle operazioni alla lavagna ed esclama: “Ecco fatto, tutto chiaro?”

Domanda solitamente ingannevole, dato che se qualcuno si azzardava a dire: “Non ho capito niente!”

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Perché ho rinunciato al disegno

rischiava di essere in qualche modo guardato con sospetto, giudicato a volte stupido o nel peggiore dei casi insolente.

A quel punto chi meglio riusciva, per una serie di motivi inspiegabili, ad indovinare le linee che potevano restituire una forma il più possibile vicina al modello, riceveva le lodi ed il consenso di insegnate e compagni. Tutto questo si perpetuava senza che nessuno sapesse perché e come riuscisse a conquistare tali risultati. L’arte era un mistero e frutto del destino.

Per tutti gli altri che non riuscivano nel compito rimaneva la speranza di capire e migliorare nel tempo, affidandosi soprattutto alla quantità dei disegni. Spinti da queste intenzioni ottenevano cartelle con un numero

cospicuo di disegni ma nei quali spesso si ripetevano i soliti errori. E anche se gli venivano fatti notare gli insegnanti non avevano le conoscenze per guidarli e trasmettere loro delle strategie per correggersi.

Laddove ancora sussistono questi atteggiamenti pedagogici in effetti non si sta applicando nessuna pedagogia atta al superamento dei limiti.

Al contrario, queste difficoltà possono essere in questo modo amplificate e la persistenza degli errori può diventare motivo di vergogna e frustrazione.

I cambiamenti negli anni ’60 e ‘70La didattica del disegno che precede i movimenti

studenteschi e dell’arte degli anni ’70 era dunque molto semplice, si basava sul fare, fare e fare. Era una didattica di quantità, del dovere e dell’impegno.

Dopo il ’68 la ferrea disciplina, l’autoritarismo e la violenza punitiva dei metodi educativi dei nostri nonni, queste forme sono state giustamente condannate. In questo rifiuto della commistione tra violenza ed educazione non si può che vedere un fatto di civiltà ed evoluzione.

Ma è anche vero che il disegno, come tutte le materie, necessita di un metodo che ne disciplini l’apprendimento fatto di regole da rispettare. E in quegli anni le regole venivano confuse con l’autoritarismo, e la didattica ferrea del disegno, ereditata dal passato, venne in gran parte abbandonata in favore di una maggiore libertà espressiva e soggettiva.

Agire il libertà è molto nobile, ma per poter essere applicata e vissuta con vantaggio si deve sostenere sulla conoscenza. Per disegnare liberamente, per cantare liberamente, per scrivere liberamente bisogna saper disegnare, cantare e scrivere correttamente.

Senza queste basi solide, che si ottengono solo con una certa disciplina di metodo e non autoritaria, appassionando e fornendo degli strumenti efficaci agli allievi, l’apprendimento del disegno nelle scuole d’arte ha continuato ad essere privilegio dei soli talentuosi.

In effetti credere in maniera così ingenua che bastasse lo spontaneismo a formare gli artisti del futuro, giustificato con il fatto di lasciare libertà espressiva, ha causato la perdita delle conoscenze provenienti da quella tradizione antica. Tradizione che aveva, nei suoi limiti, formato intere generazioni di artisti-artigiani che sapevano cosa significasse il mestiere dell’artista, disegnatore e pittore.

Così sulla falsa via della ricerca di uno stile personale rifiutando in toto le tradizioni, la didattica degli anni ’70 si è concentrata sulla formazione umana ed intellettuale, lasciando le giovani generazioni abbandonate a se stesse in quanto al mestiere dell’arte.

Questa tendenza al rifiuto del mestiere, che si basa sul disegno e sulla pittura dal vero, è avvenuta anche nel campo dell’arte. L’arte concettuale, body art, il minimalismo sono espressioni ricche di inventiva e di nuovi linguaggi come le performance e installazioni, ma in cui il mestiere del disegnatore e del pittore oramai non esistono più.

Dagli anni ’60 si assiste dunque all’esplosione di movimento globale che promuove l’allontanamento dalla “maestria”, causando un impoverimento culturale e artistico che oggi si mostra in tutte le sue conseguenze.

Capitolo 2 21

Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

È difficile capire verso dove vada la didattica contemporanea. Attualmente il mondo della scuola si presenta molto frammentato ed in mano alle iniziative individuali piuttosto che ad una chiara direzione volta al recupero dei valori formativi del saper disegnare e del saper dipingere correttamente la realtà.

L’unico metodo nuovo che in questi anni è venuto alla luce è Disegnare con la parte destra del cervello, della ricercatrice americana Betty Edwards, che però risulta anch’esso, dalla nostra personale esperienza, inadeguato e non privo di equivoci come avremo occasione di commentare nel capitolo settimo.

I metodi AS.PE.DI.® e VE.RA.DI.®, ancora sconosciuti agli addetti ai lavori, vogliono essere un punto di partenza per il rinnovamento di queste antiche e indispensabili discipline che si basano sul disegno.

Qualsiasi rinnovamento sarà dunque possibile solo se si riconoscono equivoci pedagogici che ancora vengono attuati, nella speranza che quanto testimoniamo possa stimolare insegnati e discenti a sviluppare nuove strategie atte al superamento dei vecchi schemi.

Troppi discorsi e poche indicazioni

In questi ultimi 50 anni la scuola e la formazione in generale, si è enormemente arricchita dei contributi dovuti ad una maggiore circolazione dell’informazione, di una alfabetizzazione radicata, di una disponibilità bibliografica incredibilmente vasta e di tecnologie multimediali utili l’apprendimento.

L’evoluzione tecnologica ha permesso un amplia-mento della conoscenza concettuale a scapito di tutta la conoscenza artigianale che è alla base dell’arte. L’insegnamento del disegno e delle materie artistiche si è quindi spostato verso la letteratura, verso la filosofia, verso lo studio teorico lasciando grandi vuoti sull’aspet-to pratico, snaturando così in maniera profonda le

materie artistiche. Le tendenze sociali, e quindi anche dell’arte, si sono andate spostando verso il culto del concetto, dell’idea dell’astrazione.

Anche le relazioni umane hanno subito una sorta di “astrazione” nelle comunicazioni telefoniche, via internet e con la televisione. Il mondo virtuale e dell’immagine si è andato imponendo su quello reale e della sostanza. Anche l’economia concreta dell’operaio e dell’industria è diventata astrazione sviluppandosi a favore della speculazione finanziaria.

L’apparato teorico sta superando l’esperienza e nella didattica del disegno sta surclassando l’esercizio manuale.

Molti ragazzi della scuola media ci raccontano che nell’ora di Educazione Artistica fanno storia dell’arte. Molti ragazzi del Liceo o dell’Istituto d’Arte ci testimoniano che hanno passato intere lezioni a cercare di cogliere la bellezza del colore, l’esattezza di certe composizioni, senza che tutti questi studi li abbiamo portati a disegnare e dipingere meglio. All’Accademia di belle arti molte materie teoriche ingolfano e riempiono la mente senza dare nessuna soluzione su come si disegna e si dipinge un volto, il carnato, le vene, un paesaggio. Nel piano di studi delle scuole d’arte la maggior parte delle materie non sono di laboratorio ma intellettuali.

Il disegno è una pratica. La sua didattica deve fornire le soluzioni ai problemi pratici che non risiedono nel concettuale ma nell’esperienza.

Quando di fronte ad un modello reale che presenta 100 linee ne vengono ricopiate solo 50 è chiaro che il disegno non è corretto. Quando le proporzioni tra cosa e cosa, tra linea e linea non sono rispettate, c’è un errore. Quando le inclinazioni delle cose soggette alla visione prospettica non vengono rispettate, il disegno non è esatto come intuito da Giovanni Spinicchia nel suo metodo didattico VE.RA.DI.®

Senza niente togliere alle tendenze dell’arte contemporanea, la scuola ad indirizzo artistico, nella sua funzione formativa ha perso sempre più il suo

ruolo: garantire quel bagaglio di conoscenze basilari che possano condurre i giovani a saper disegnare e dipingere la realtà senza commettere errori.

Gli equivoci della didattica contemporanea

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Perché ho rinunciato al disegno

Come fare a disegnare tutte le linee, le proporzioni e le inclinazioni della realtà che ho davanti? Queste sono le problematiche che deve risolvere una didattica che sia adeguata al compito del disegno. Se non viene data nessuna indicazione per il superamento di queste semplici e concrete problematiche, gli errori continueranno a persistere, addirittura fino al compimento degli studi superiori e universitari.

Riteniamo inadeguate e ancora fortemente radicate, tutte quelle pratiche didattiche in cui si crede che nel disegno e nella pittura vada bene fare qualsiasi cosa e che tutto debba essere permesso per non disturbare la “personalità espressiva”.

E così il vuoto di indicazioni pratiche e puntuali, viene colmato da una eccessiva teorizzazione che allontana ed “ingolfa” la mente dei futuri operatori d’arte, senza condurli a saper disegnare e dipingere.

Per illustrare meglio questo equivoco, in cui la teoria ha surclassato la pratica, vi raccontiamo il forviante rapporto che si è creato coi Maestri dell’arte, che vengono studiati, non più copiando le loro opere, forse unica vera fonte di conoscenza, ma speculando sulle congetture dei critici e degli storici dell’arte.

Porsi in competizione coi modelli della storia dell’arte

Oggigiorno la possibilità di accedere alle informazioni e alle immagini è incredibilmente più vasta di quella di soli trent’anni fa. Possiamo dunque immaginarci il rapporto che potevano avere gli studenti d’arte del passato nei confronti della Storia dell’Arte.

È credenza diffusa in fatto che avere a disposizione mille immagini di artisti di ogni epoca sia un vantaggio ed una ricchezza per il giovane apprendista. Lo è sicuramente per lo storico dell’arte, per l’amante in cerca di emozioni, ma per un ragazzo che si appresta a diventare artista questa mole di informazione può causare un effetto opposto a quel che si crede.

Non vi sarà difficile immaginare come questi modelli causino grandi aspettative e come il “mito” romantico dell’artista diventi da subito un esempio intellettuale, che pone l’allievo in una tacita competizione ideale con questi riferimenti.

In ogni disciplina difficile e complessa, la sfida è sempre con se stessi e si affronta

con la pratica, ed il confronto dovrebbe essere con i propri coetanei e non con i grandi maestri, da cui si esce solitamente perdenti.

Nel passato il rapporto con l’opera di altri artisti avveniva soprattutto attraverso la percezione dal vero e non su fotografia. Questo permetteva all’aspirante artista di recepire molte più informazioni sull’esecuzione dell’opera, le informazioni relative alla sua fattezza artigianale, ossia quelle veramente necessarie per il suo apprendimento. In una foto tutto questo sparisce, non si vede come è stato dipinto un quadro ed anche i colori sono alterati. Ciò che si può cogliere nelle riproduzioni è l’impostazione generale dell’opera ed il disegno delle forme. Quindi, dal punto di vista delle informazioni utili all’apprendista, poter guardare un’opera dal vero vale mille altre riprodotte su carta o a video.

Inoltre le informazioni che accompagnano la riproduzione delle opere d’arte, redatte dagli storici dell’arte, non fanno riferimento alla loro realizzazione artigianale, ai procedimenti e alle tecniche, ma sono per la maggior parte informazioni storiche, critiche e filosofiche, che solitamente non dicono niente rispetto al processo creativo e di realizzazione.

Infine i modelli riprodotti nelle riviste sono tutti dei maestri storicizzati, essi rappresentano il Top del Top, in questo modo vengono a mancare i riferimenti intermedi, molto più prossimi all’allievo e alle sue possibilità, che gli consentirebbero un confronto più adeguato e non inibente. Ciò si verifica soprattutto se di questi grandi artisti si tengono nascosti tutti gli errori, gli sbagli ed i tentativi che li hanno condotti a realizzare i loro capolavori. Così facendo l’informazione è parziale ed in qualche modo falsa, perché per diventare artista chiunque è passato attraverso un lungo processo, che solitamente viene celato facendo mancare quel collegamento tra lo studente e il grande artista.

Lo studio dell’arte, come normalmente viene trasmesso, presenta, dunque, questi tre svantaggi:1. la perdita dei dati visivi relativi all’esecuzione

dell’opera2. la mancanza dei dati procedurali e delle tecniche

utilizzate3. il confronto impari e irraggiungibile

dall’apprendista

Capitolo 2 23

Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

L’uso di tali modelli nella didattica dell’arte è controproducente per la pratica perché anziché stimolare l’allievo nel fare, lo inibiscono perché il bagaglio di aspettative lo rende ipercritico nei propri confronti e sterile di esperienza.

A maggior ragione risulta ancor più pericoloso il confronto con gli autori moderni, così distanti dalla pratica artigiana. Per questi artisti è ancora più opportuno far conoscere la loro formazione giovanile, perché spesso è passata per il “classico” per poi essere abbandonata per delle soluzioni personali e originali irripetibili e ineguagliabili. Tutte le correnti moderne come il cubismo, l’espressionismo, l’astrattismo ecc. che hanno superato il formalismo realistico non possono essere prese da modello per chi si appresta a disegnare dal vero. Lo studente giustamente si chiede: perché vuoi che disegni correttamente una natura morta se poi esalti coloro che non la sanno disegnare realisticamente?

Quel che proponiamo non è certamente una censura, o la negazione della storia dell’arte, ma una maggiore consapevolezza e sensibilità del suo uso nell’educazione artigianale dell’apprendista. La nostra esperienza ci insegna che le informazioni teoriche debbono essere trasmesse in funzione del fare e non in maniera scollegata ed eccessiva.

Lo studio dell’arte per l’artista dovrà quindi essere sostanzialmente differente da quella dello storico.

Per l’allievo artigiano, non è solamente la storia di un pensiero o di uno stile, ma l’avanzare di una tecnica e di un linguaggio, che non dovrebbe essere teorico ma procedurale.

Nella sua formazione il modello da seguire per l’apprendimento del disegno dovrebbe essere principalmente la realtà e non gli altri maestri, così come è stato per tutti i grandi dell’arte nel primo periodo della loro formazione. Acquisite le capacità artigianali, qualsiasi allievo potrà dedicarsi, con soddisfazione e capacità allo sviluppo del proprio linguaggio espressivo, senza esser stato “soffocato” dai modelli astratti, perché solo teorici, dei maestri dell’arte.

Se così fosse le scuole d’arte tornerebbero ad avere nei laboratori il centro delle attività di formazione la loro essenza didattica diventerebbe pratica e non teorica.

La mancanza di laboratoriIl processo di cambiamento nelle scuole d’arte, che

dagli anni ’50 del XX secolo ad oggi ha visto l’avanzare della teoria rispetto alla pratica, si fa evidente nella riduzione e scomparsa dei laboratori di formazione dei giovani artisti di domani.

Non sappiamo se la chiusura dei laboratori sia una conseguenza dello spostamento teorico dell’arte o ne sia una causa, ma sicuramente sono da considerare strettamente in relazione.

I laboratori artistici non sono stati tutti smantellati, ancora sono presenti in molti istituti ma non vengono utilizzati perché nessun professore si assume più questo impegno. Riteniamo che in questi anni si siano perdute le competenze e il mestiere per poterli riattivare. Questi ambienti rendevano possibile agli allievi di misurarsi con fatti pratici e tecnici del mestiere dell’arte.

La scuola d’arte, un tempo, era una fucina dove la didattica ruotava attorno al lavoro manuale e alle tecniche di laboratorio. Ci riferiamo a laboratori che non dovrebbero mancare come quello di incisione, di scultura, di fonderia, di ebanisteria, di pittura su stoffa, di fotografia, di ceramica, di pittura murale e affresco, eccetera che sono espressione di un sapere che oramai è scomparso non solo nelle scuole ma anche nelle attività artigianali.

Come esempio ricordiamo alcune testimonianze dei nostri allievi.

In cinque anni di Liceo Artistico, ci riferisce uno studente, l’unico laboratorio della scuola di sviluppo e stampa fotografica in bianco e nero, che aveva poche cose come qualche vaschetta e un ingranditore, non fu mai utilizzato perché non c’era nessuno che se ne assumesse le responsabilità. Mentre uno studente dell’Accademia di Firenze ci riferisce che il laboratorio di sviluppo e stampa fotografica era aperto solo due ore a settimana. Il corso di fotografia aveva più di 100 iscritti e l’accademia contava 3500 studenti. Chiaramente le carte per sviluppare non erano fornite dalla scuola, e nel laboratorio potevano lavorare solo due persone per ogni apertura.

Siamo sicuri che queste testimonianze non siano da generalizzare e crediamo che ancora in molte scuole d’arte le cose vadano diversamente, ma nonostante le eccellenze, questo processo di impoverimento della didattica dell’arte avanzerà ancora in questa direzione.

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Perché ho rinunciato al disegno

La supremazia scientifica su quella creativa e istintiva

Viviamo nell’epoca del trionfo della scienza e della tecnologia che ha indubbiamente dato un forte impulso nell’evoluzione sociale ma non crediamo che abbia avuto lo stesso esito nella vita emotiva e spirituale delle persone. Al contrario crediamo che un eccessivo materialismo abbia impoverito la vita delle persone.

Anche nella didattica dell’arte possiamo rintracciare degli atteggiamenti che rappresentano questo processo di annichilimento della sfera emotiva a favore dei processi logico razionali.

L’arte non è una scienza, non si deve basare sulla matematica e sulla geometria e tantomeno sulle discipline medico scientifiche, che possono essere al servizio della formazione artistica ma non devono rappresentare dei dogmi che in qualche modo limitano la libera creazione e lo sviluppo delle capacità intuitive.

Nella formazione artistica si trattano diversi argomenti e difficoltà che, attraverso un progressivo sperimentare, si vanno risolvendo attraverso delle soluzioni pratiche che caratterizzano la conoscenza artistica differenziandola da quella teorica di fondamentale utilità nella scienza.

I punti in comune tra arte e scienza sono tantissimi e sicuramente nei secoli passati c’è stato un prolifico confronto che ha permesso dei salti evolutivi in entrambe le discipline, e ci auguriamo avvenga anche nel futuro. Il confine è spesso molto sottile nelle procedure ma decisamente differente negli obbiettivi.

La pratica scientifica è quanto di più distante dalla quella artistica anche se non sono rare le convergenze.

Quella scientifica si sviluppa grazie a leggi e regole che devono essere riproducibili ed in qualche modo prevedibili, la matematica e la statistica sono infatti il mezzo principale di questa disciplina. In arte la prevedibilità e la riproducibilità dei fenomeni significa al contrario la perdita della sua magia, della sua peculiare forza ispiratrice che sopraggiunge inaspettata.

Ne consegue che se non si vuole istruire solamente alla tecnica, condizione necessaria per diventare

operatori artistici, è necessario scardinare le regole che sono state necessarie nella prima fase di formazione per andare oltre le stesse.

Gli argomenti formativi dove riscontriamo una supremazia della scienza rispetto alla creatività artistica sono principalmente:1. la prospettiva2. la luce3. l’anatomia

Su questi tre argomenti la scienza ci ha rivelato incredibili segreti che possono essere di grande stimolo per l’artista. Ma riteniamo che nel momento in cui si crede che la conoscenza delle leggi scientifiche che regolano questi fenomeni, sia un bagaglio indispensabile per l’artista, si commetta un errore pedagogico.

In particolar modo nello studio della prospettiva, del chiaroscuro e dell’anatomia umana, che sono tra gli argomenti più complessi e ostici da assimilare e comprendere per gli aspiranti artisti, le spiegazioni teoriche che derivano dalla scienza e della geometria abbiano fuorviato dalle soluzioni artistiche.

C’è da dire che questi compiti rappresentano dei veri e propri scogli nella formazione artistica in cui molti si sono arenati. Ciò è stato ed è causa di frustrazione tanto per gli allievi che per gli insegnanti che si sentono spesso disarmati e non riescono ad elaborare una didattica adeguata per la trasmissione di queste conoscenze. Forse per compensare queste difficoltà si è creduto che sviluppare una conoscenza scientifica su questi temi potesse aiutare.

Secondo la nostra esperienza, la conoscenza scientifica può indubbiamente arricchire la mente del discente, ed è vero che la crescita concettuale e del linguaggio contribuisce notevolmente allo sviluppo evolutivo.

Grazie alla sua crescita intellettiva il bambino è stimolato a disegnare realtà più complesse e strutturate, e ciò avviene grazie alle conoscenze acquisite nelle scuole elementari. Risulta anche evidente che l’affinamento intellettivo non porta conseguentemente ad uno sviluppo grafico ed immaginifico, anzi, spesso avviene il contrario.

La sfera percettiva, emotiva e corporea, e, nel nostro caso, soprattutto manuale, hanno bisogno di indicazioni pedagogiche specifiche che vadano di pari passo alla crescita intellettiva. Laddove questo sviluppo è condotto in maniera disuguale si possono creare conflitti dovuti

Capitolo 2 25

Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

alla inadeguatezza delle attività e del linguaggio grafico rispetto a quello verbale e numerico. Linguaggio grafico che continua ad essere svolto dal fanciullo in maniera sempre più frustrante e deludente. È forse superfluo porre in evidenza il fatto che oggi assistiamo ad un notevole sbilanciamento della pedagogia che si rivolge all’adolescente formandolo per essere un buon lavoratore, senza peraltro raggiungere neanche lo scopo professionale.

Questa parentesi sull’evoluzione grafica del bambino e dell’adolescente, ci fa capire che è indispensabile procedere per diverse vie se si intende far crescere le persone nella loro totalità. Vi è una via intellettiva, astratta, concettuale in cui si sviluppa la logica, la matematica ed il linguaggio, una via che invece tende a potenziare la sfera emotiva, intuitiva, sensibile, ed infine un’altra via che si occupa dello sviluppo del corpo in armonia con il resto delle abilità.

Dovrebbe risultare evidente che non si può allenare il corpo attraverso la matematica, che non si può sviluppare la capacità artistica ed espressiva attraverso esercizi ginnici, ed infine non si può abilitare al disegno e alla pittura studiando i fenomeni da riprodurre in maniera scientifica e teorica.

Non si tratta di dividere una persona in tre parti, essa va sempre considerata nella sua totalità, e l’educazione dovrebbe curarne tutti gli aspetti, si tratta piuttosto di considerare la specificità dei compiti e la adeguatezza o meno di studi ed esercitazioni atti allo sviluppo grafico.

La didattica del disegno e della pittura si deve basare sull’occhio che vede, la mente che elabora e ragiona sulle linee, sulla forma e sui colori, e che a sua volta trasmette correttamente alla mano ciò che deve eseguire.

La didattica del disegno e della pittura si deve basare principalmente sulla copia dal vero e sulla soluzione formale dei fenomeni osservati e non sulla conoscenza scientifica. Tantomeno se questa conoscenza viene offerta come soluzione e rimedio ai problemi che incorrono nella percezione e nella traduzione, prima mentale e poi sul foglio o la tela, delle forme ricavate dalla copia della realtà.

Facciamo un esempio, che può sembrare assurdo, di uso eccessivo delle informazioni non necessarie al

compito grafico. Immaginate di dover disegnare o dipingere uno scorcio urbano, vi sedete ed osservate, secondo voi per poter eseguire un corretto disegno è indispensabile sapere come questa città sia sorta, come sia stata progettata, quale sia il numero di abitanti? Riformuliamo la domanda. Secondo voi è necessario sapere come nella geometria siano spiegati i fenomeni della prospettiva per poter disegnare correttamente uno scorcio architettonico?

Pensiamo che non sia necessario. Illustreremo di seguito le nostre riflessioni.

La prospettivaLa prospettiva scientifica deriva dalla geometria e

contempla differenti tipologie: frontale, accidentale, dall’alto e dal basso. Si tratta di complessi procedimenti che partono da una visione geometrica di piante e prospetti da cui poi ricavare una visione simile a quella umana.

I suoi risultati non sono applicabili al disegno dal vero delle forme, perché l’occhio umano recepisce in maniera molto estesa e con più facile lettura rispetto alle interpretazioni scientifiche1.

La prospettiva scientifica chiarisce le regole geometriche che dovrebbero restituire una visione della realtà. Questo è ciò che si crede!

Questa convinzione non corrisponde a verità. Non esiste nella pratica del disegno la fissità del punto di vista, non esistono le rette né orizzontali e né verticali perché sappiamo che la nostra visione è curva e stereoscopica. Stiamo affermando che ciò che è considerato vero nel convenzionale contesto della geometria, è in gran parte falso nella pratica della visione, che è un atto molto più vivo e complesso a cui non si può applicare la rigidità sterile e riduttiva della geometria.

Se provate a disegnare applicando queste regole risulteranno disegni che restituiscono una concezione delle cose che sembra estraniarsi dalla normale visione. Questa “aberrazione” si rende evidente soprattutto quando essa si applica a soggetti che si estendono oltre il campo visivo (un angolo di circa 80 gradi) che si ottiene fissando un unico punto di vista.

La geometria ricostruisce la realtà anche oltre questi confini del campo ma per l’occhio umano queste si traducono in vistose deformazioni. Quindi per vari motivi il modo di guardare della geometria non è lo stesso di

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Perché ho rinunciato al disegno

quello naturale. La prospettiva scientifica è ricca di regole, di astrazioni e di procedimenti sovrabbondanti rispetto alle indicazioni utili nel disegno.

Le uniche indicazioni che si conservano della prospettiva scientifica nel metodo VE.RA.DI.®, sono il punto di vista, la linea di orizzonte e l’inclinazione delle linee verso i nostri occhi. Anche il concetto dei punti di fuga, così fondamentale nella prospettiva geometrica viene appena accennato come possibilità astratta della geometria, ma non come procedimento utile al recupero delle linee della realtà.

Per meglio comprendere questo argomento vi riporto una mia esperienza prima di incontrare il metodo VE.RA.DI.

Quando col programma del corso di disegno giungemmo alla prospettiva, una simpatica e laboriosa studentessa svedese, laureata in Architettura nel suo paese di origine, si sentii sufficientemente preparata ad affrontare il compito data la sua buona conoscenza della prospettiva scientifica. Il compito consisteva nel disegno di un angolo della propria casa. La lezione successiva mi portò il disegno di una credenza decisamente improbabile, freddo e quasi allucinato, che però rispondeva totalmente alle regole prospettiche da lei assimilate in precedenza!

Cosa era capitato?

Lei non aveva osservato l’oggetto in questione. Se lo avesse fatto avrebbe dovuto muovere il collo per guardare in basso, e di conseguenza cambiare il punto di vista, ed in questo modo i piedi della credenza non sarebbero risultati così deformati.

Essa non ha concentrato la sua attenzione alla forma che aveva davanti, ma era preoccupata dei applicare correttamente regole prospettiche, spostando in questo modo l’attenzione dalla forma reale osservata alla astrazione mentale ricordata.

Gli spiegai che la deformazione della parte bassa della credenza - con quello spigolo così improbabile - fosse dovuta al fatto che l‘osservatore si sia posto troppo vicino al soggetto e bastava fare qualche passo indietro per far rientrare il mobile nel suo campo visivo e poter, così, cogliere la realtà mantenendo una certa armonia.

Dunque, se dalla sua posizione la parte bassa della credenza era esclusa dal campo visivo, ciò che ha disegnato era una ricostruzione astratta che ha fatto derivare dai punti di fuga secondo la geometria che ben sapeva. Per questo motivo il suo elaborato presentava un certo realismo solo nella parte superiore, che lei vedeva senza dover piegare la testa.

In questo disegno, che può sembrare a prima vista corretto, possiamo notare una delle frequenti deformazioni della realtà osservata dovute all’uso preconcetto della prospettiva geometrica.La parte bassa che poggia terra, soprattutto nella zona destra, si presenta forzatamente a punta. L’acutizzazione degli angoli distanti dal punto di vista geometrico rendono qualsiasi copia del vero dura, fredda e quasi allucinata dato che si discosta notevolmente da ciò che normalmente si osserva.

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Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

La luceDa quando Newton scompose i colori della luce per

mezzo di un prisma le nostre conoscenze riguardo al fenomeno di irradiazione, riflessione e assorbimento da parte dei vari pigmenti si è andato sommando ed oggi disponiamo di tantissime informazioni a riguardo. Anche la fotografia con la sua esattezza ha contribuito notevolmente a comprendere il fenomeno dal punto di vista della percezione.

Nell’apprendimento del disegno è fondamentale capire il volume delle cose dato dalla luce. Questo argomento, noto come chiaroscuro, presenta un certo grado di difficoltà e spesso è disatteso negli insegnamenti artistici.

Anche in questo caso bisogna saper distinguere quali conoscenze siano necessarie al neofita e quali siano eccessive devono rimanere estranee alla formazione di base per condurre con semplicità e chiarezza il compito educativo.

La visione scientifica considera la luce come raggi che, vengono rappresentate nella geometria come linee parallele per il sole e irradianti per tutte le altre fonti di luce artificiali. Questi raggi-linee, sempre secondo la geometria, colpiscono gli oggetti lasciando un lato in luce ed uno in ombra, oggetti che a loro volta proiettano un’ombra su un piano o su altre superfici. Il tutto viene condotto in un “ambiente” astratto e asettico in cui non sono contemplati né i riflessi di altri oggetti e né i comportamenti complessi di assorbimento o rifrazione di questi raggi. Si viene così a costruire una situazione geometricamente esatta ma proprio per questo percettivamente sbagliata perché lo spazio in cui vivono queste realtà è uno spazio vuoto ed isolato dal resto delle cose.

Nella copia dal vero la luce non si comporta mai come una linea retta che colpisce un corpo ma si moltiplica in una quasi infinita quantità di raggi, che si riflettono dappertutto e creano una sorta di spazialità luminosa che avvolge le cose. Ed è in questa “atmosfera” luminosa in cui sono immerse che le cose mostrano la loro natura volumetrica.

In questo schema si illustra l’azione della luce nello spazio astratto della geometria. L’immagine mostra chiaramente la distanza che incorre tra la copia dal vero nell’arte, ricca di suggestioni e di sensibilità, dalla fredda e meccanica interpretazione che si ottiene nelle scienze geometriche, in cui il fenomeno è ridotto all’essenzialità della ragione.

Fonte luminosa puntiforme

Linea d’orizzonte

Ombra propria

Ombra portata

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Perché ho rinunciato al disegno

Nell’arte si fa un uso estetico della luce e se anche presenta una logica simile a quella scientifica, ma da esso si distanzia e si differenzia perché le luci vengono inserite nel disegno e nella pittura per logiche di contrasto e di bellezza, per far risaltare e contraddistinguere dei particolari. L’artista è guidato da un senso estetico della luce e non scientifico.

Ricordo una lezione sulle luci e sulle ombre eseguita alla lavagna dal mio professore. Dopo le spiegazioni geometriche attraverso varie proiezioni ortogonali da cui ricavare le prospettive luminose, ci diede un foglio fotocopiato in cui era disegnato un ambiente scarno, un angolo di casa forse, dove c’erano un tavolo e degli oggetti. Noi dovevamo scegliere il lato da cui proveniva la luce, se essa era in alto o in basso, se era solare o artificiale, forte o debole. Capii tante cose sul funzionamento scientifico della luce ma quella lezione non mi chiarì affatto su come mi dovessi comportare nel disegno chiaroscurale. La maggior parte dei miei compagni andò a casa con la testa sovraccarica di informazioni e consegnarono le fotocopie con le luci tutte sbagliate. Povero professore nessuno in fondo era riuscito ad applicare la visione scientifica!

Ricordo anche che quando disegnavamo i gessi o alcune nature morte quei calcoli erano l’ultima cosa che ci veniva in mente. Compresi che la luce non si comportava in quel modo freddo e astratto spiegato alla lavagna, essa era vita, essa era come una carezza che occorreva cogliere con sensibilità solo ed esclusivamente osservando il vero, aggiungendo a poco a poco quei valori chiaroscurali che poi mi restituivano la realtà nella sua natura volumetrica.

Ciò di cui avevamo bisogno, come allievi, non era una lezione teorica ma pratica in cui venivamo guidati osservare la complessa natura delle cose.

A distanza di anni, come insegnanti, siamo riusciti attraverso una attenta indagine dal vero, escludendo totalmente la geometria delle luci, a far comprendere e assimilare quella sensibilità sottile che occorre per ricreare sul foglio quella magia che rende vivi gli oggetti inanimati.

L’anatomiaDi fronte ad una figura umana ci si rende subito

conto che non basta disegnare i contorni o i muscoli per rendere vitale il nostro disegno al pari del modello. Disegnare il corpo umano è un esercizio che può essere

molto frustrante, non solo per i problemi legati alle proporzioni e all’esattezza delle linee ma soprattutto in virtù di quella sensazione che abbiamo della massa corporea, della sua articolata forma che è allo steso tempo statica e dinamica.

In quanti casi, in cui sentiamo i nostri disegni inadeguati al vero, facciamo ricorso ai manuali di anatomia per cercare senza esisto la soluzione ai nostri errori?

Questo equivoco è tra i più radicati nelle scuole d’arte. Credere che non si possa conquistare la figura umana senza prima avere studiato i testi scientifici di anatomia è cosa comune. La conoscenza scientifica non risolve assolutamente le difficoltà che si possono incontrare nel riprodurre manualmente una realtà complessa come quella del corpo umano.

Vorrei riportare, a tal proposito, una significativa esperienza. Al Liceo Artistico di Cagliari a supporto della materia di Anatomia Artistica avevamo in dotazione un manuale fatto da un medico. Questo voluminoso manuale era composto da una sezione saggistica, di circa 350 pagine, e dall’atlante dello scheletro e dei muscoli di circa 50 pagine.

Alla prima lezione quando ci presentarono il testo di studio ci fu lo sgomento di tutti i miei compagni. La professoressa ci mostrava il manuale che noi osservavamo quasi terrorizzati: pagine e pagine che spiegavano i muscoli, le inserzioni, le vene, gli organi, le funzioni articolari e vi dicendo.

Che senso aveva un tale compendio di conoscenze scientifiche per un artista?

Era un testo di anatomia medica adattato superficialmente all’uso artistico. Eppure nel manuale c’era scritto “ad uso dei Licei Artistici e Scuole d’arte”. Ritenendoci vittime di un grosso equivoco, cercammo un gruppo di ragazzi di convincere la professoressa a cambiare testo, sostituendolo con uno più snello e ricco di immagini. Dopo una indagine di circa una settimana scoprimmo che quello era l’unico testo in tutta la scuola e non riuscimmo così a scampare a quel triste destino. Ben presto, con grande sollievo, ci accorgemmo che di quel libro se ne faceva solo uso di consultazione, si utilizzava soprattutto l’atlante allegato utile per riprodurre i disegni. Ma ciò non ci dispensò dallo studiare tutte le articolazioni, il liquido sinoviale, la tipologia di muscoli, ecc..

Capitolo 2 29

Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

Alla fine dei due anni di anatomia nessuno sapeva i nomi a memoria dei muscoli e delle varie componenti anatomiche. Nessuno sapeva l’anatomia scientifica. Tutti noi avevano portato dei disegni anatomici copiati senza nessuna consapevolezza profonda della bellezza della figura umana, così estranea a quelle scarnificate mostruosità anatomicamente corrette. Come delle fotocopiatrici umane avevamo copiato le tavole anatomiche - molti di noi addirittura ricalcando da fotocopie ingrandite - e ciò fu sufficiente per essere promossi.

A cosa servirono questi due anni di studio pseudo scientifico? Nessuno di noi mostrò un miglioramento dovuto allo studio anatomico nel disegno della modella che realizzavamo nelle ore di Figura, materia in cui si copiava dal vero il corpo umano. Tali conoscenze, anche affascinanti se vogliamo, rimasero in una zona della mente separata nettamente dalla pratica artistica.

Se consideriamo il corpo umano una somma di massa muscolare e di vitalità (biologica e spirituale),

non è conoscendone la struttura interna che si può sperare di riprodurre al meglio il suoi significati.

Per recuperare le linee che compongono questa forma è sufficiente tenere presente mentalmente i comportamenti naturali da cui si è sviluppato l’essere umano, come spieghiamo approfonditamente nel testo VE.RA.DI.®.

Se tutto è generato da un cellula tonda che si unisce ad un’altra cellula sarà il movimento circolare a permetterci di recuperare, senza snaturarla, la natura umana. Da questo nucleo si va formando il feto che non è altro che un insieme circolare di elementi, dagli arti, alla nuca agli stessi vasi sanguigni, ed è chiaramente circolare anche la pancia della madre che ospita il feto.

Nella sua esperienza Giovanni Spinicchia ha accantonato i testi scientifici di anatomia ed ha invitato gli allievi a disegnare attraverso l’istinto e il gesto circolare. Gesto continuo e leggero e soprattutto ricco di movimenti.

Questo atteggiamento pedagogico, gli ha consentito non solo di trasmettere loro il senso del volume, delle forme e delle proporzioni, ma soprattutto di rappresentare l’energia vitale di cui il corpo umano e la natura sono espressione.

Ecco come si presenta una tavola di anatomia scientifica. Un corpo scarnificato, che mai avremo modo di vedere nelle nostre indagini artistiche. Un corpo disposto in una posizione standardizzata e difficilmente riscontrabile nei nostri modelli dal vero o fotografici.Il corpo umano, al contrario di quanto esposto nelle tavole anatomiche, è raro che presenti una evidenza muscolare, soprattutto nelle figure femminili. Ma l’elemento forse più distante tra la teoria e la pratica, è che le forme umane, nella loro articolazione e variabilità dei punti di vista dal quale si possono osservare, presentano forme pressoché infinite. Non è quindi importante e necessario, al fine del disegno, se non per amore della conoscenza, apprendere le nozioni anatomiche che si distaccano, per la loro astrazione, dalla realtà esecutiva.

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Perché ho rinunciato al disegno

In conclusione a questa rassegna, ci auguriamo di aver chiarito sufficientemente quali siano le sostanziali differenze tra conoscenza scientifica e conoscenza artistica, e come le prime intervengano dannosamente nelle seconde.

Quando si trasmettono informazioni che non servono al compito pratico, esse confondono e creano disturbi, distraendo il candidato dallo studio della forma. A maggior ragione quando queste informazioni creano aspettative rendendo il compito nevrotico e pignolo e non, come sia opportuno, disteso e piacevole.

Riteniamo che sia necessario porre un limite, capire quanta debba essere l’informazione scientifica necessaria all’allievo e che sia stimolante e non inibente, che liberi piuttosto che sovraccaricare.

Per arricchire il pensiero del disegnatore può essere interessante la conoscenza di come le cose dell’universo si possono formare, avere nozioni sui processi chimici, sull’incidenza dei fotoni luminosi nelle superfici, ecc. ma sono conoscenze che acquisirà nelle altre discipline e che ricercherà da solo nella misura e nelle modalità che più riterrà opportuno.

Bisogna essere in grado di rinunciare alla sovrabbondanza di informazioni, si tratta di fare un lavoro in cui si toglie più che aggiungere. Riteniamo necessario questo alleggerimento, soprattutto, in questo momento storico in cui siamo bombardati da milioni di informazioni inutili e secondarie che non sono assolutamente indispensabili alla vita, ma che contrariamente creano disorientamento e confusione.

La conoscenza dei mezzi artisticiIn conclusione cercheremo di stimolare una

riflessione anche sull’uso adeguato dei mezzi artistici, in quanto oggi abbiamo una grande possibilità di scelta di colori, matite, carboncini, terre, pennelli, in un numero così vasto che disorienterebbe chiunque.

Quindi sarebbe opportuna una pedagogica che possa orientare gli insegnanti ad una introduzione graduale e misurata di questi mezzi che consenta di stabilire anche un ordine progressivo.

È mentalità diffusa considerare che i mezzi possano fare il fine, ovvero che attrezzarsi delle più costose tecnologie possa rendere più bravi. Questa credenza per quanto possa far sorridere e apparire ridicola non deve essere sottovalutata, dato che nella didattica del disegno e della pittura viene forse data più importanza all’uso dei mezzi che all’elaborazione di un codice di apprendimento.

Non è raro che il bambino, l’adolescente o l’adulto si circondino di matite di ogni gradazione, di pennarelli, tipi di carta, pennelli e quant’altro in maniera sproporzionata alla loro capacità. Fintanto che l’iniziativa è assunta dal principiante che si è fatto prendere dall’entusiasmo o dalla smania di consumo non vi sono pericolose controindicazioni perché la situazione arriverà ben presto ad un punto di arresto e di saturazione, dato che i buoni propositi si areneranno nelle difficoltà richiede la gestione di tale ricchezza di mezzi.

La responsabilità di un insegnante è ben diversa dato che il neofita si fida delle sue indicazioni. Non è opportuno ritenere che tale quantità di mezzi sia necessaria, soprattutto di fronte ai sacrifici economici che spesso si sostengono per il loro acquisto. È normale, quindi, che l’allievo si rivolga all’insegnante su come si debbano usare tutti questi mezzi. Questa quantità aumenta le aspettative, creando una sorta di ansia di sapere come adoperare questi strumenti.

In questi casi è molto importante che i docenti introducano gradualmente all’impiego di tali risorse, facendo attenzione che i candidati non siano sottoposti precocemente a delle problematiche troppo avanzate per le loro capacità.

Immaginate un bambino piccolo che impara a leggere e fare le prime operazioni matematiche, i caratteri sono grandi, pochi di numero ed i compiti molto semplici. A nessuno verrebbe in mente di porli di fronte ad un libro di Svevo o a delle equazioni. Se così si comportasse, il risultato non potrà che essere uno solo: fallimento e frustrazione. E se si dicesse loro: “non siete portati per la letteratura e la matematica!”, come spesso avviene nel disegno, oltre al danno ci sarebbe anche una beffa.

L’utilizzo di certi mezzi complessi e difficoltosi deve

Capitolo 2 31

Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico

essere promosso solo quando il discente ha acquisito il sillabario del disegno, ossia quando possiede la capacità di cogliere una forma nei suoi significati spaziali, proporzionali e chiaroscurali, come insegna nei suoi metodi Giovanni Spinicchia.

Nel metodo AS.PE.DI.® l’uso di certi mezzi si introduce gradualmente, e nel caso di VE.RA.DI.® si fa solo uso della sola penna a biro e del foglio da fotocopia A4 e, solo in un secondo momento, il foglio più grande di formato A3.

L’uso della penna a biro si è rivelato il mezzo più idoneo per l’apprendimento, perché il suo segno rimane pulito, chiaro e incancellabile a differenza del lapis dalla punta instabile e dalle tracce non favorevoli per imparare a disegnare. La penna biro permette di superare ansie, nevrosi, difficoltà di impiego. Inoltre consente di non cancellare gli errori perché devono rimanere sul foglio, il quale diventa in questo modo un documento indelebile, utile per porre a confronto i disegni successivi in cui evidenziare i progressi conquistati ed indicare i passi ancora da percorrere.

Dall’esperienza VE.RA.DI.® abbiamo quindi ritenuto che la matita, il carboncino e i pennarelli non sono adatti per l’apprendimento di base del disegno, ma vanno introdotti solamente quando il candidato non commetterà più errori di forma, di proporzioni, di armonie volumetriche e sensibilità chiaroscurali, e ciò si consegue, grazie al metodo, in un solo anno di studio.

In conclusione, riteniamo che solamente nel momento in cui è assimilata la “grammatica” del disegno siano i benvenuti tutti i mezzi che possono arricchire, trasformare e restituire valori espressivi legati allo stile personale.

1. In verità la prospettiva geometrica non traduce ciò che l’essere umano vede. La forma matematico-geometrica che più si avvicina alla visione umana è la prospettiva curva. Questa teorie tiene conto delle deformazioni visive si attuano distanziandosi dal punto centrale di osservazione. Anche la visione ottica di tipo sferico che proviene dall’occhio al cervello non è “vera” dato che queste informazioni, parziali e deformate, vengono in realtà corrette e configurate grazie all’intervento del cervello. Ne consegue che la realtà che vediamo è particolarmente complessa e difficilmente si presta ad essere ridotta da regole matematiche.

ConclusioniCi auspichiamo, con questo capitolo, di non aver fatto barcollare nessun “mito” nella mente di molti lettori,

ma solamente di aver stimolato delle riflessioni che portino ad agire con maggiore consapevolezza pedagogica. Consapevolezza che liberi dal seguire meccanicamente la tradizione o quanto ci è stato trasmesso. In particolar modo, ci auguriamo di aver incoraggiato la ricerca verso lo sviluppo creativo di nuove strategie che definiscano con maggiore precisione gli obbiettivi della didattica dell’arte.

Note

La suggestione dei negozi d’arte spesso spinge gli aspiranti artisti ad acquistare materiali artistici che si rivelano troppo difficili e complessi nel loro utilizzo, per finire ben presto abbandonati.

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Da grande volevo fare l’artista!

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Capitolo 3 35

Da grande volevo fare l’artista!

Nei precedenti capitoli abbiamo esposto i motivi a cui si può far risalire la mancanza di un codice di apprendimento del disegno.

Si è parlato di alcuni preconcetti, degli equivoci pedagogici e della mancanza di interesse, da parte delle istituzioni educative e politiche, allo sviluppo del disegno in seno alle società.

Abbiamo anche fatto notare come ciò sia frutto di una inadeguatezza generale della collettività che non è consapevole dei valori pedagogici della pratica del disegno e della pittura.

Nelle nostre testimonianze non abbiamo cercato un colpevole, ma abbiamo condotto la nostra riflessione soffermandoci sulle responsabilità della scuola e delle famiglie.

Ma siamo sicuri che le responsabilità del nostro abbandono si debbano esclusivamente agli altri?

È conveniente capire come anche i nostri genitori ed insegnanti si siano trovati a loro volta influenzati da un modo di pensare comune, che ha, in fondo, convinto anche noi!

Per farlo è necessario rompere con il principe dei pregiudizi!

La convinzione più difficile da sradicare, che tutti assumiamo come vera senza opporre grandi resistenze. Vediamo, potrebbe recitare così: chi si dedica all’arte è molto probabile che morirà di fame, in solitudine, generalmente incompreso e abbandonato, ed inoltre, diseredato dalla famiglia e dalla società!

Sembra che esageriamo? Sì. Ma non è forse questo il destino che attende chi

si dedica al suo piacere senza curarsi del lavoro e del guadagno?

Non è forse questa la tacita paura che si nasconde in quella velata minaccia che sembra faccia un’intera società a chi vuole dedicarsi all’arte alla poesia o alla musica?

Lo scopo, di questo breve capitolo è quello di sen-sibilizzare il lettore a curare la propria natura artistica ed espressiva.

Dedicatevi alla vostra passione con somma soddi-sfazione e libertà indipendentemente dal timore di non avere più di che vivere!

La tormentata via dell’ArteLa società attuale è formata da una

moltitudine di persone a cui, per diverse ragioni, gli è stata negata fin dalla tenera età, la possibilità di frequentare scuole in cui far emergere le proprie doti creative ed artistiche.

Questa condizione non è nuova, in passato molte persone evitavano, anche col solo pensiero, di intra-prendere una carriera artistica pur avendone il desi-derio. Sapevano benissimo che per le loro condizioni socio-economiche o culturali, non potevano permet-tersi una tale aspirazione. Studiare e dedicarsi all’arte fino agli anni ‘50 era privilegio di pochi benestanti o figli d’arte.

La difficile condizione a cui poteva andare incontro chi desiderasse dedicarsi all’arte, si è imposta nel roman-ticismo quando l’artista oramai non era più un artigiano ma un individuo libero dai dettami della committenza.

Si legge nelle biografie di tanti artisti come sia stato difficile far accettare le loro scelte alla famiglia. Quante siano state le peripezie che hanno dovuto affrontare pur di realizzare la loro vocazione.

Perché è stato sempre così arduo far accettare alle famiglie che l’unica cosa che ci sentivamo di fare nella vita era dedicarsi all’arte?

Perché non riusciamo a farci una ragione di questa negazione?

Perché questa rinuncia è causa di così tanta frustrazione fino a divenire, in molti casi, un triste e malinconico mal di vivere?

Senza nessuna pretesa psicologica o sociologica vorremo esporre alcune considerazioni, in gran parte derivate dall’esperienza di insegnamento e dal continuo contatto con questa umanità che potremmo definire di “artisti mancati”.

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Perché ho rinunciato al disegno

Diversi anni fa ci imbattemmo in una vignetta del grandissimo umorista americano, Jules Feiffer, che meglio di ogni discorso esprime efficacemente alcuni “effetti collaterali” causati dalla negazione delle proprie velleità artistiche.

Vignetta di Jules Feiffer, tratta dai Tascabili Bompiani 1982 ©

Capitolo 3 37

Da grande volevo fare l’artista!

Lavorare per vivere o vivere per lavorareUno dei principali impedimenti culturali a sfavore

della professione artistica è, dunque, il fatto di credere che essa non possa garantire un futuro sostentamento.

Come tutte le credenze sociali, non si può negare che vi sia una parte di verità in questa convinzione. Ciò è possibile ma non sicuro. Anche per altri indirizzi di studio vale la stessa cosa.

Un fatto è invece molto probabile: i danni psico-logici che derivano da questa repressione vocazionale sono maggiori dei vantaggi che si possono ottenere da scelte, apparentemente più oculate, guidate dalla sicurezza del lavoro.

L’artista mancato, infatti, sceglie con poca con-vinzione una professione che gli permetta di vivere o di sopravvivere. Questa situazione di ripiego, nella maggior parte dei casi, non si attutisce nel tempo, al

contrario spesso si acutizza in pensieri ed insoddisfazio-ni che rendono il soggetto poco felice e con il costante pensiero e la speranza di potere realizzare un giorno, anche se in età avanzata, il sogno andato infranto.

Questa umanità, può vivere col costante senso di inadeguatezza, e si nutre di sogni e speranze verso espressioni come l’arte, la danza, la moda, il teatro, il cinema, la letteratura, e tutto ciò che risuona in quella particolare frequenza, dimostrando nei confronti di tutte le arti una forte partecipazione spirituale.

Per il mercato economico sono una risorsa, in quanto costoro sono i maggiori consumatori dei prodotti artistici, e questa frustrazione, come per la maggior parte dei malesseri, è il motore nel processo di compensazione offerto dal sistema commerciale.

Gli artisti “lavoratori”Ma questo destino, comune a molte generazioni,

non è stato così per tutti. Alcuni, forse più fortunati o determinati, hanno il tempo e possibilità economiche per potersi dedicare alle proprie aspirazioni artistiche nonostante professino altri mestieri per vivere.

Questa capacità di adattarsi alle situazioni senza negarsi la possibilità di creare, in cui convivono l’artista e il lavoratore, ci è sembrato un modo apprezzabile di affrontare il problema. Molti di loro sono persone che lavorano mezza giornata o insegnanti, che pur non essendo artisti professionisti, dedicano metà della loro vita a questa loro attitudine.

Esempio storico di artista-lavoratore lo troviamo nel pittore Henry Rousseau detto il “Doganiere” im-piegato al dazio della prefettura della Senna a Parigi

fino al 1893, quando all’età di 49 decide di dedicarsi solo alla pittura. Iniziò a dipingere nel 1871 a 27 anni da autodidatta e solo da pensionato si dedicò intera-mente a questa passione. Anche l’agente di cambio Paul Gauguin lasciò sia il lavoro che la famiglia nel 1883 a 35 anni per dedicarsi alla pittura.

Come per ogni situazione che non desideriamo ma che per cause maggiori ci è toccato vivere è impor-tante non demordere, perché vi possono essere delle strategie che consentano una mediazione tra passione e costrizione. Si tratta di fede. Se si ha fede nella vita, col tempo, è possibile creare quelle opportunità che sono venute a mancare nell’adolescenza, superando in questo modo l’insoddisfazione, aprendo nuovamente il nostro futuro alla realizzazione dei nostri sogni.

La formazione al disegno per adultiLa considerevole affluenza degli adulti nelle scuole

artistiche private è un esempio che mostra come la speranza di dedicarsi al disegno non si spegne col tempo. Si rivolgono a questi centri persone di varie

età ed estrazione culturale con l’intento di recuperare quella preparazione che è venuta a mancare in ado-lescenza, realizzando in questo modo, un sogno a suo tempo negato.

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Perché ho rinunciato al disegno

Vi sono moltissime scuole d’arte private che si muovono intorno alle speranze di chi non vuole mollare a cui va dato il giusto riconoscimento, in quanto con-tribuiscono a mantenere vive le speranze di diventare artisti.

Queste scuole permettono, a prescindere da ogni risultato estetico o mira professionale, di far vivere mo-

menti di profondo e appagante piacere, in cui possono trovare consolazione le problematiche quotidiane.

I mancati risultati ottenuti dalle scuole pubbliche nella didattica del disegno, da origine a quello che posiamo definire “anal-fabetismo artistico”.

Il disegno come conoscenzaPer sviluppare l’alfabetizzazione al disegno è ne-

cessario condurre le nuove generazioni a disegnare senza errori, come sostenuto dal metodo VE.RA.DI.

Così facendo si considererebbe anche il disegno, alla stregua delle lettere e dei numeri, una acquisizione necessaria per lo sviluppo e la crescita della società.

Secondo noi l’obbiettivo della didattica dell’arte nelle scuole superiori, come abbiamo già avuto occa-sione di scrivere, non dovrebbe essere solo quello di formare artisti e artigiani, bensì quello contribuire allo sviluppo emotivo-espressivo della persona. Le materie artistiche permettono di incrementare una maggiore libertà e creatività, capacità indispensabili per applicarsi in ogni attività dalla quale si cerchi di trarre soddisfa-zione esistenziale.

Resta significativo il fatto che l’educazione artistica sia considerata una materia formativa solo fino alle scuole medie - anche se con un numero ristretto di ore - e decade nelle scuole superiori che non siano ad indirizzo artistico.

Ciò è conseguenza di una impostazione della scuola orientata principalmente allo scopo professionale, che, paradossalmente, non è neanche in grado di sostenere, perché, come tutti ben sanno, il livello di disoccupazione è tale da far sembrare questo obiettivo un pretesto per non adempiere allo sviluppo delle nuove generazioni. Rimane dunque un “vuoto” in cui le scuole si riducono in “parcheggi”, e ciò porta a pensare che le politiche sociali siano manovrate da chi ha interesse a mantenere i popoli nell’ignoranza e in uno stato di non realizza-zione delle proprie aspirazioni.

Queste affermazioni, possono sembrare estremiste e prive di fondamento, eppure tutti i giorni assistiamo

allo smantellamento della scuola e delle università, intese sempre più come luoghi fuori dal mondo, in cui gli allievi e gli insegnanti vivono una crescente precarietà di lavoro e di conoscenze. Quanto viene trasmesso risulta sempre meno adeguato per affrontare il proprio futuro.

Come insegnante noto che in tutti i campi del sapere si sta verificando un fenomeno crescente di impoverimento.

Nel caso specifico del disegno e della pittura, che difficilmente si prestano a formare un essere produt-tivo e meccanico, questo impoverimento è ancora più evidente. Vivono la stessa sorte tutte quelle materie di formazione dello spirito, come tutte le discipline uma-nistiche, che mostrano un disadattamento crescente tra il mondo dello studio e l’ambiente sociale.

Quindi riteniamo che la sorte, che storicamente è capitata a chi voleva intraprendere la via dell’arte, ovvero una lotta contro i pregiudizi, sia comune a tutte le iniziative che non appaiono utili e produttive. Ci riferiamo a tutti i settori della ricerca che non hanno una diretta applicazione pratica, come ad esempio la filosofia.

Per noi è evidente che il valore di queste discipline non risieda nella produttività e nella creazione di ricchezza materiale.

La maggiore parte delle persone si sente ricono-scente per contributo che l’arte , nei secoli, ha dato alla crescita delle società. Nessuno potrebbe asserire che l’arte, e di conseguenza il disegno, siano inutili e non necessarie per la vita e lo sviluppo collettivo. Eppure, nonostante questo aperto riconoscimento del valore etico e spirituale, a questa antica sapienza non viene riservato un grande valore nella pratica formativa.

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Da grande volevo fare l’artista!

Tutto ciò si può riassumere nel detto “l’arte non paga”, inteso in maniera degradante. Questo atteggia-mento di sfiducia si riscontra anche nella considerazio-ne che si ha delle scuole d’arte: piene di persone che non hanno voglia di studiare e per questo considerate di serie B.

Stufo di sentire sempre gli stessi stereotipi ho de-ciso di provare a sfatare queste convinzioni. Mi sono immaginato di avere come interlocutore un ferreo sostenitore del lavoro, per il quale tutto l’agire deve essere “pratico”, e chiaramente, deve dare guadagno!

Riuscite ad immaginare un siffatto individuo?Bene! Lui è convinto che l’arte non paghi. Ostentando sicurezza mi dice: “Tu vivi nel mondo dei

sogni, intraprendere una scuola ad indirizzo artistico è solo una perdita di tempo o tutt’al più un piacevole passatempo privo di una qualsiasi utilità sociale”.

Gli rispondo sicuro, suscitando grande sorpresa nel pragmatico personaggio immaginario.

“Mi permetto di dissentire, e le farò vedere, come il disegno sia una nobile disciplina, non estranea al mondo del lavoro, l’unico “che conta” per lei”.

“Le farò un elenco delle professioni in cui il dise-gno è conoscenza indispensabile e necessaria, inoltre, con sua sicura soddisfazione, potrà verificare che tali occupazioni siano ben retribuite, solitamente oltre la media degli impieghi!”

“Ecco dunque dove si può applicare l’arte del di-segno:

• Cinema (story board, in cui si disegnano e si dipin-gono le scene principali prima di girare il film)

• Pubblicità (bozzetti iniziali, layout, ecc.)

• Editoria (illustrazioni di copertine, di favole, di

racconti, ecc.)

• Diffusione scientifica (illustrazioni di anatomia, di biologia, di fisica, ecc.)

• Satira e umorismo (vignette e strisce)

• Fumetto (sia la parte in matita, che la chinatura e la colorazione)

• Architettura (schizzi iniziali del progetto e successi-ve elaborazioni prima della parte tecnica)

• Incisione e stampa artistica

• Confezione di Gadget (disegni su maglie, inviti di auguri, targhe, ecc.)

• Cartoni animati (schizzi iniziali, studio dei perso-naggi, ambienti di sfondo, ecc.)

• Progettazione design (mobili, sedie, oggettistica, lampadari, auto, moto, ecc.)

• Moda (modelli di vestiti, stoffe, accessori, borse, scarpe, ecc.)

• Educazione (elementare e media oltre che profes-sionale e superiore)

• Scenografia teatrale e cinematografica

A questo punto, il nostro ostinato personaggio dapprima è dubbioso e titubante, ma poi si arrende all’evidenza e mi dice:

“Caspiterina! Non è assolutamente vero che l’arte non paga!

Se solo lo avessi saputo a 13 anni, non avrei certamente studiato per diventare ragioniere!”

ConclusioniNon rinunciate alla vostra vocazione. Non importa se vi sarà utile per guadagnare. Attraverso il disegno

sarete in grado di accrescere la vostra capacità di osservazione e di ragionamento in tutto ciò che farete. Ma soprattutto rendete felice la vostra anima che è eterna, ed è per questo motivo non è mai “troppo tardi” per riprendere a disegnare!

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Perché ho rinunciato al disegno

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

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Capitolo 4 43

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

In questo capitolo racconto l’esperienza di una scuola particolare, il Centro Umanista di Espressione Artistica (CUEA) in cui si è cercato di promuovere l’espressione artisti-ca con un chiaro intento di far stare bene le persone, di regalare momenti di gioia, di confronto e di stacco dalla stancante vita quotidiana.

In questa “anomala” scuola abbiamo vissuto serate molto profonde e di armonia, di pace e di vera passione per l’arte. Tutto questo è stato possibile per la grande forza che i nostri allievi ci hanno dato per superare anche i tanti momenti difficili. Per questo motivo ringrazio tutte le persone che in 10 anni di vita del centro mi hanno dato la possibilità di sperimentare sempre nuove strategie didattiche e di accrescere la mia esperienza, e hanno reso di me una persona migliore.

Siamo tutti bambiniQuando una persona decide, dopo tanti anni di

ritornare a disegnare, è possibile che ritornino a farsi presenti tutte quelle paure e difficoltà proprie della sua infanzia che lo hanno, poi, portato a rinunciare al disegno.

Forse è per questo motivo che la sua sensibilità e la sua fragilità sono molto labili come quando era bambino.

Ci si accorge ben presto che molte difficoltà di apprendimento derivino da una bassa autostima dovuta ad una educazione infantile e scolastica non priva di rigidità e di mortificazioni per lo spirito, libero e felice, del giovane apprendista.

Non si può certamente ignorare questa complessità e questa frustrazione ben descritte nel quinto capitolo.

Occorre, dunque, nella maggior parte dei casi aiutare sciogliere le paure ed i timori che negli anni si sono andate stratificando, attraverso esercizi semplici immaginando di dialogare con degli adulti che non sono poi tanto diversi da come erano da bambini.

Per questo abbiamo voluto creare una didattica che avesse come primi obbiettivi la distensione nervosa, di ansie e paure, ed il rafforzamento della propria stima in modo che infondesse fiducia nelle proprie capacità. Contemporaneamente a questo tratto caratteristico di sensibilità, affrontare chiaramente le problematiche tecniche del disegno e delle altre discipline artistiche che si insegnavano al CUEA. Quando, all’inizio dell’esperienza mia di insegnante,

non ho agito con questa attenzione, ho rischiato in più situazioni di alimentare le loro frustrazioni anziché aiutarli a superarle. Ho rischiato di sommare un nuovo fallimento ed una nuova delusione nella loro esperienza di “disegnatori falliti”.

Le forme in cui si può esprimere questa fragilità infantile nell’adulto sono tante e sottili, e vanno dal disagio sottile che provano nell’essere guardati disegnare, alla sofferenza evidente nel constatare i propri errori. A volte si esprime con rabbia, altre volte con impazienza dovuta all’ansia di non riuscire. In diverse occasioni l’adulto, come il bambino, sente il bisogno dimostrare che ha capito tutto, anche se molti concetti non gli sono chiari, pur di compiacere all’insegnate o non rivelare la propria ignoranza.

Che fare dunque con questi teneri esseri che non sembrano poi così tanto cresciuti? È importante, innanzitutto, riconoscere questa loro condizione. È importante riconoscere anche in noi insegnati quello stesso disagio, questo per non sentirci diversi. Nessuno in classe quando si disegna è un adulto. Ci sentiamo come scoperti nella nostra intimità e tutto questo va saputo accompagnare con la leggerezza del gioco e la sospensione del giudizio.

Fin dalla formazione della nostra scuola nel 1996, era chiaro che la finalità della nostra didattica non era solamente quella di insegnare una tecnica. Siamo partiti per istruire le persone ad esprimersi con l’arte e ci siamo ritrovati ad avere il ruolo, forse troppo importante, di accompagnarli in parte nella ricostruzione di sé stessi.

Tutto ciò ci ha portato a comprendere quale fosse il migliore uso delle arti espressive. Abbiamo verificato

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Perché ho rinunciato al disegno

che l’arte è uno dei più potenti strumenti che l’essere umano ha elaborato per rendere migliore la sua esistenza.

Per questo motivo sono convinto che una scuola d’arte per adulti può ricoprire un ruolo importante nel creare benessere sociale, oltre che di formazione, in quanto aiuta le persone a liberarsi delle proprie catene, a liberarsi dalle conseguenze della violenza sociale che la ha portati a reprimere la loro parte artistica e creativa.

Una scuola d’arte può operare ponendo particolare attenzione alle problematiche psico-emotive senza per questo finire nella terapia, ma semplicemente ampliando la propria visione didattica, includendo, al pari della trasmissione tecnica, la distensione di quelle tensioni che impediscono di avanzare nell’apprendimento di una disciplina, così pure nella vita di tutti i giorni.

Per non scivolare in un errore di ambiguità nella propria pedagogia, il fine principale di una scuola artistica deve rimanere quello di insegnare un mestiere manuale ed espressivo, mentre il fine curativo dell’arte è specifico di un centro terapeutico.

Eppure nella nostra esperienza i due aspetti, tecnico ed umano, sembravano essere inscindibili, e il benessere della persona era necessario alla riuscita del compito artistico e viceversa.

Per questo motivo le persone sentivano che la nostra era una scuola particolare, non a caso si chiamava Centro Umanista di Espressione Artistica, in cui l’amore per l’essere umano dava senso all’espressione e l’espressione diventava mezzo per liberarsi dalle proprie paure. Una scuola dove tra arte e vita, tra crescita artistica e spirituale non ci fosse alcuna differenza. Un laboratorio creativo in cui si cercava di superare tanto le difficoltà tecniche che psicologiche.

Ma questo non fu un facile compito perché occorreva rivolgersi a loro in quanto adulti ma, senza urtare la loro sensibilità, dialogare con il loro bambino interiore dall’altro lato. A volte si chiedeva troppo, e si è rischiato il più lezioni di sovraccaricarli di compiti da svolgere in classe e a casa, facendoci trasportare dalla nostra passione per la materia che insegnavamo, senza considerare la loro fatica dopo una giornata di lavoro.

Questo fu un errore che feci nelle prime esperienze. Ricordo uno dei miei primi corsi.

Alla prima lezione di presentazione, mi introducevo raccontando un poco le mie esperienze artistiche e facendo vedere alcuni dei miei lavori. Ero convinto che questo comportamento aperto potesse tranquillizzare gli allievi. Cercavo di dare loro come una sorta di “garanzia” delle mie capacità mostrando la mia attività artistica. Era chiaro che si trattava di una mia insicurezza e questo rituale scomparve ben presto, perché i risultati che ottenni erano ben diversi da quelli che mi aspettavo.

Alla terza presentazione, infatti, decisi che non aveva alcun senso esporre il proprio curriculum, in quanto questo non soddisfava un loro reale interesse ma si rivelò essere solo una mia inutile premura. Capii che non c’era da parte loro nessuna curiosità o esigenza di comprendere chi era la persona a cui affidavano la propria formazione. Il loro interesse era rivolto principalmente al costo del corso, agli orari e la frequenza, e l’unica “garanzia” che chiedevano era quella di rassicurarli che attraverso questo corso sarebbero stati in grado di disegnare.

Molti di loro mi chiedevano ansiosi: “Impareremo a disegnare?” oppure “Sei sicuro che anche io, che non ho mai saputo disegnare, imparerò?”

Dovevo dare loro questa certezza? Sì, è quello che mi chiedevano. Ed io gliela davo, ma le loro ansie non si placcavano.

E pensare che ero partito con l’aspettativa di trovarmi con persone del tutto differenti. Mi immaginavo degli amanti del disegno e dell’arte, voraci e curiosi di comprendere il senso profondo del percorso che gli proponevamo, e tante cose “elevate” come queste. Ed invece loro stavano su un’altra frequenza, così diversa dalla mia. Alcuni erano terribilmente preoccupati e sembravano mossi solo dalle loro paure. Oh, come le giudicai! Persone apprensive e superficiali, molto più interessate alla quantità di ore che alla qualità, al costo del corso piuttosto che la preparazione dell’insegnante.

Era evidente che non riuscivo ad interpretare correttamente le loro ansie. In effetti, iniziare un corso avendo così poca stima dei propri allievi, non era certamente ciò che desideravo, e quindi cercai di formulare nuove risposte che potessero spiegarmi il senso di tali comportamenti.

La soluzione non tardò a venire quando una allieva mi fece una domanda molto semplice e diretta.

Capitolo 4 45

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Era la prima lezione del corso di disegno, iniziai a chiedere quali fossero le motivazioni che li avevano spinti a partecipare, chiesi sulla loro vita precedente di disegnatori infantili, li informai sulla differenza che corre tra un’intenzione ed un progetto… insomma dopo circa 1 ora di dialogo e di riflessione una allieva mi disse: “Scusa Simone, si pensa molto a questo corso?”

“Non ti preoccupare adesso si inizia a disegnare.” Gli risposi. Cercai poi di motivare tutto quel preambolo: “In queste prime lezioni si lavora soprattutto con la mente perché saper disegnare significa innanzitutto saper vedere, e la mente va educata a vedere. Sei preoccupata?”

“Sì, perché penso già così tanto quando sono a lavoro, che quando vengo qui a disegnare non ho più voglia di pensare!”

Sacrosante parole, su cui si può scrivere un intero libro!

Furono queste parole a farmi fare uno scatto nella testa. La loro principale necessità non era quella di capire il senso dei loro blocchi nel disegno, o quali fattori che intervenissero come il “saper vedere”, e tante altre parole che io avevo dispensato dall’alto della mia esperienza. No! Non erano quelle le risposte che cercavano.

La loro principale necessità era di fuggire dalla propria routine. Di divertirsi e stare bene. E, come nel caso della allieva, di “non pensare!”

Scoprì ben presto che una delle maggiori cause che li spingeva alla partecipazione - anche se mai mi fu dichiarata in questo modo - era la necessità di allontanarsi da qualcosa, e di vivere semplicemente nuove sensazioni.

Vidi ben presto che la maggior parte di loro non era mossa dalle stesse motivazioni che potevo rintracciare in me che avevo scelto di fare dell’arte la mia vita. La loro partecipazione non aveva in generale né gli obbiettivi e né l’interesse di noi insegnanti, erano semplicemente alla ricerca di un modo per rilassarsi, distrarsi, certamente anche di crescere, ma senza troppe domande e troppe introspezioni. Cercavano un corso d’arte condotto con moderazione. Pochi compiti, poche problematiche, e possibilmente con un insegnante che gli diceva esattamente cosa fare e come fare, che, in

conclusione, gli risolvesse i problemi senza che loro si sforzassero a trovare delle soluzioni. Una cosa tutto sommato passiva, quasi come guardare la televisione.

Era evidente che questa superficialità di approccio, rifletteva una condizione di pas-sività nel quale siamo stati tutti educati.

Questo era un riflesso automatico, un modo di porsi meccanico, che tutti noi abbiamo in tante occasioni, ma che andava trasformato per poter apprendere il disegno in cui si richiedono ragionamento, motivazione e molta pazienza.

Si trattava dunque di accettare una sfida didattica che non avevo minimamente previsto: riuscire ad infondere il gusto del pensare, dell’agire e del sentire in maniera diversa, più profonda, complessa, curiosa e consapevole, nonostante il mondo li stesse trascinando in direzione opposta, passiva e priva di forza creativa.

Il problema era strutturale e aveva a che fare con nostro abituale stile di vita, con le nostre insoddisfazioni lavorative, con la pesantezza della giornata. Ma che mi aspettavo! Erano persone comuni provate dalle mille vicissitudini che la società gli impone, che evidenziavano una certa stanchezza fisica e mentale, condizione questa che non potevamo ignorare.

Li avevo giudicati superficiali e in fuga da se stessi. Li avevo giudicati come avranno fatto i loro genitori, i loro insegnanti, e forse loro a sé stessi. Invece mi stavano insegnando, col solo fatto di venire ogni settimana al corso, che era qualcosa di più profondo che li spingeva e che io avrei dovuto vedere oltre il manto della consuetudine.

Non mi ci volle in realtà molto tempo, in poche lezioni mi mostrarono che il bambino non si era mai arreso all’adulto, il bambino era sì, ferito, ma vivo e voleva ancora giocare, scoprire, mettersi in discussione. In tutti questi anni di insegnamento ho avuto la fortuna di conoscere delle persone incredibilmente vaste, interessanti e ricche di suggestioni, ma che per vari motivi iniziavano il corso sfiduciate, se vogliamo anche superficialmente, ma che poi riuscivano tutte, con i loro ritmi e tempi diversi, a tirare fuori l’artista che era in loro, ed il bambino infantile diventava ora finalmente adulto.

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Perché ho rinunciato al disegno

Certo può risultare paradossale rilevare che una delle motivazioni dominanti che spingeva le persone ad iscriversi ad un corso d’arte, come i nostri, fosse fuggire da sé stessi. Ancor più in una scuola come la nostra in cui si pubblicizzava un approccio all’arte del tutto contrario!

Ma questo è ciò che consideravamo quando analizzavamo le motivazioni e le aspettative dei nostri allievi.

Forse la fuga, se così possiamo definirla, è parte nevralgica del nostro sistema di consumo. Ed un corso per loro era probabilmente solo uno dei tanti “prodotti” da cui trarre distrazione ed evasione.

In realtà non si può fuggire da noi stessi, e loro lo sapevano bene, ed esaminando attentamente le nostre considerazioni iniziali, arrivammo ben presto a comprendere che sì fuggivano, ma da un ruolo che in qualche modo avevano assunto, come ho esposto nel quinto capitolo e che è ben illustrato nella poetica vignetta di Feiffer.

Un ruolo solitamente lavorativo ma non di rado anche globale e che riguardava varie sfere della loro vita. Certamente questa insoddisfazione si presentava con varie intensità e sfaccettature, e non tutti evidenziavano questo malessere. Eppure, senza cadere in uno stereotipo esistenzialista, sempre c’era questa spinta verso qualcosa di diverso, qualcosa che desse maggiore pienezza, in cui conciliare la propria passione negata con gli impegni quotidiani.

Questa spinta andava compresa ed alimentata soprattutto nei punti più articolati del percorso di formazione, punti in cui si stancavano facilmente.

Non avrei mai pensato all’inizio della mia carriera di insegnante che il peggior “nemico” fosse la stanchezza, mia e loro, derivata dagli impegni quotidiani.

Una stanchezza mentale oltre che fisica, dovuta all’aumentare delle difficoltà di vita che in questi anni è cresciuta esponenzialmente.

Le condizioni energetiche e di benessere dei nostri allievi, che valutavamo nella loro capacità di porre attenzione, di svolgere i compiti assegnati, di motivazione, di curiosità, ecc. andò dunque peggiorando dal 1996 al 2006 quando rinunciammo ai corsi di base per dedicaci alla specializzazione.

Questo processo indotto di “istupidimento” seguiva di pari passo l’innalzamento delle tensioni sociali e della pressione psicologica ed emotiva che ne derivavano. Un dato significativo può essere illustrato dal fatto che le informazioni metodiche che si trasmettevano in un corso del ’96 in soli tre mesi, nel 2006 si erano diluite in nove mesi. Certamente all’inizio il corso era troppo concentrato, ma le difficoltà di concentrazione si sono moltiplicate nel corso del tempo.

Un’altra sfida che ci si presentò all’inizio di questa esperienza fu quindi quella di riuscire a mantenere sempre un alto livello didattico, che ci consentisse di trasmettere delle tecniche e contemporaneamente sciogliere tensioni e paure. Fare tutto ciò senza affaticare gli allevi, evitando così, di entrare in conflitto con le loro legittime richieste di distensione e di svago durate i corsi.

La situazione ci richiedeva di alleggerire la didattica senza per questo rinunciare alle informazioni necessarie. Un impegno che ci ha fatto crescere enormemente come insegnanti, e ci hanno portato ad una maggiore consapevolezza di cosa sia veramente utile e necessario trasmettere nelle lezioni. Da questa sfida sono nate le considerazioni che abbiamo esposto nel quarto capitolo, quando esaminiamo gli equivoci che ci sono derivati dal seguire meccanicamente le strategie che abbiamo ereditato dalla scuola.

Ci siamo dovuti inventare esercizi divertenti, leggeri, creativi, stimolanti e allo stesso tempo densi di significati, con un giusto numero di pratiche e con un crescendo di curiosità e motivazione.

Inizialmente, privi di esperienza di come si facesse a risolvere questi ostacoli, abbiamo cercato di informarci attraverso testi e altre esperienze.

Con tanta curiosità e voglia di istruirci abbiamo iniziato a documentarci su come le altre strutture di educazione e formazione per adulti, non solo artistiche ma umanistiche in generale, cercavano di risolvere il problema della mancanza di energie dei propri allievi.

Ci ponemmo delle domande che ci guidassero nella ricerca. Ad esempio ci chiedevamo come “curavano” la ferita infantile causata dall’abbandono del disegno?

Fuggire dalla routine

Capitolo 4 47

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Se avvertissero, come noi, l’importanza del lavoro sensibile e complesso nell’accompagnare emotivamente e psicologicamente l’allievo verso il superamento dell’ansia, che si verificava puntualmente nell’apprendere le tecniche ed i procedimenti artistici?

Lo so, penserete alla nostra ingenuità nel cercare in tal modo queste risposte! E avete ben ragione, perché scoprimmo che per molte scuole non è affatto necessario connettersi con questa dimensione che l’allievo porta con sé. Anzi, molti insegnanti ritengono che intervenire sul piano psicologico, facendosi carico in qualche modo del superamento di queste frustrazioni, sia un compito che non li deve riguardare.

Indagando più profondamente era evidente che molte scuole non si facevano carico dell’umanità dei propri allievi, al contrario cercavano quasi di ridurre al minimo il contatto umano, in una sorta di rapporto asettico e affatto coinvolgente.

Un fatto però ci sorprese: il gran numero di iscritti che tali strutture avevano! Era come se gli stessi allievi cercassero ed avessero necessità di questo tipo di trattamento.

Non erano scuole, ma uno dei tanti pro-dotti di consumo che la società ci offre! “Se vuoi fuggire, vieni da noi”, sembra che recitino le loro pubblicità.

D’altronde, oggigiorno, in ogni attività umana c’è chi lavora per obbiettivi puramente commerciali e chi per il benessere collettivo.

Il nostro problema lo dovevamo risolvere da soli. La tendenza alla fuga per dimenticarsi di sé stessi non veniva affatto trasformata da questi istituti, ma all’opposto sembrava che ci fosse una sorta di complicità in cui l’allievo era, paradossalmente, contento di partecipare a questi corsi. Corsi carissimi, che però vantavano nomi di prestigio. Avevano così

tanti iscritti che le relazioni tra gli allievi non erano poi tanto differenti da quelle che si sviluppano in un qualsiasi, freddo e popoloso, luogo di lavoro. Relazioni anonime e formali, in cui tra insegnanti e allievi si ripeteva lo stesso modello scolastico, fatto di voti, di campanelle, di professori che arrivano in ritardo, e soprattutto di lezioni prive di una qualsiasi pedagogica profonda e ben preparata.

Potete ben capire la nostra delusione. Eravamo al contempo tristi ed indignati per l’esistenza di così tanti istituti che davano la parvenza, o meglio, l’illusione della formazione, ma che in realtà non insegnavano niente o quel poco che facevano era privo di tutte quelle ricchezze e significati che noi sentivamo voler trasmettere.

Nessuno scandalo dunque, questo era il mondo, là, fuori dal Centro Umanista di Espressione Artistica. Benvenuti in questo pianeta, sembrava dirci il beffardo destino!

E così, in questo modo sconfortante, avevamo preso contatto con quello che era il business della formazione degli adulti. Un vero affare. Ecco dove vanno tutti questi “artisti mancati”!

Un ultimo fatto, se vogliamo bizzarro, per non dire altro. Nella maggior parte dei casi molti istituti, per compensare l’incapacità didattica, rilasciavano certificati e diplomi che attestavano il loro prestigio scolastico, esibendo, inoltre, tutti riconoscimenti possibili esposti in bella vista come garanzia del loro successo e della loro efficacia. Ma la garanzia di un istituto privato non dovrebbe forse risiedere nell’onestà dei propri insegnanti?

Cosicché siamo rimasti col nostro problema iniziale: motivare! Motivare queste persone stanche della propria routine a rivitalizzarsi, a rompere la fatica e la pigrizia attraverso didattiche preparate per rendere appassionante l’acquisizione delle conoscenze.

Sviluppare la motivazioneAlla luce delle prime esperienze, e a seguito del

confronto con le altre scuole, ci si presentava un bivio: dare agli allievi ciò che ci chiedono e dare ciò che noi ritenevamo utile per loro?

Ci si sente un poco mamme o paternalisti, a volte,

nello svolgere il ruolo di insegnanti. Definire bambini gli adulti significa avvertire in loro quell’inesperienza, quei timori, e quelle insicurezze che non si addicono a persone adulte che affrontano con sicurezza la vita. Almeno questo è ciò che ci presenta il modello

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Perché ho rinunciato al disegno

stereotipato dell’adulto. Ma la realtà si presentava diversa dallo stereotipo: l’adulto ci chiedeva certezze, di essere guidato, accompagnato in maniera rassicurante verso il superamento delle difficoltà per ottenere il successo sperato. Come insegnanti sentivamo il nostro “potere” di fronte a loro, almeno quello che loro ci attribuivano, dovuto alla fiducia o speranza nella nostra capacità di guidarli.

I bambini ad esempio vogliono mangiare sempre le stesse cose, solitamente patatine fritte e dolci, ma i buoni genitori sanno che non è una alimentazione completa e cercano di fargli piacere anche la verdura e la frutta. Similmente anche per noi, di fronte alla richiesta di fuga dalla routine, di rilassamento o di passività, ad esempio quando sentivano faticoso dover “pensare”, ci siamo trovati a prendere decisioni che fossero per il loro meglio, per la loro crescita.

Non avevamo dubbi su ciò che di “meglio” potevamo offrirgli: un percorso educativo che li aiutasse ad integrarsi col mondo, anzi li stimolasse in qualche modo a cambiarlo a partire dall’energia che l’arte poteva generare in loro. Ciò che offrivamo era ben lontano dalla fuga dalla propria routine, al contrario voleva essere una leva per cambiarla, attraverso l’esperienza artistica; acquisire potere sulla propria esistenza, stima di se stessi e la forza per tornare alle proprie cose con rinnovata fede ed entusiasmo. Loro ci chiedevano di non pensare e noi, invece, desideravamo stimolarli a riflettere perché non credevamo che quella fosse la loro più profonda richiesta. Era la loro fuga, ma non la loro richiesta.

Certo l’arte ha il potere di creare nuovi mondi, un mondo parallelo dove tutto è bellissimo in cui potersi rifugiare. Ma questo atteggiamento, tipico del bambino che si protegge nel mondo della fantasia, noi non lo potevamo sostenere. La nostra scuola non voleva essere un rifugio ma solo un porto di mare dove attraccare, rifornirsi di energia, riposarsi per poi nuovamente salpare le vele ed affrontare il mare, a volte piatto a volte burrascoso, della vita.

Cercavamo in questo modo di applicare un principio fondamentale del Movimento Umanista, organizzazione internazionale nonviolenta di cui facevamo parte, che recitava: “tratta gli altri come vuoi essere trattato”.

Questa, conosciuta come Regola Aurea in molteplici culture antiche, ci suggeriva che le persone volevano crescere e non essere trattate da bambini, ma da adulte. Volevano pensare e non fuggire, volevano non riposare e appiattirsi ma crescere con vigore. Questo è ciò che sentivamo essi volessero nel profondo, e ciò è quanto abbiamo tentato di dargli.

Il punto chiave era dunque risvegliare in loro questa intenzione di crescita che in qualche modo si era assopita. Si trattava di sviluppare la motivazione.

Ecco cosa era per noi motivare: richiamare le loro migliori virtù, in modo che le potessero applicare e sviluppare nell’arte. Sapevamo poi che avrebbero, a secondo della necessità di ognuno, potuto disporre di questa energia per tornare nella loro routine, in cui sentivano la vita sfuggirgli di mano, per riprendersi il loro potere decisionale, la cui perdita causava così tanta stanchezza e voglia di non pensare.

Ma non eravamo né maghi, né i loro genitori, né avevamo intenzione di offendere la loro sensibilità ed indipendenza, la motivazione si poteva dare solo attraverso un accordo reciproco, altrimenti la nostra non sarebbe stata educazione ma imposizione paternalista, da cui avrebbero fatto bene a fuggire!

Il compito non fu poi così difficile, erano persone molto intelligenti e sensibili quelle che venivano ai nostri corsi. Si trattava, dunque, di chiarire il più possibile con gli allievi il senso di questa loro partecipazione, un senso che fosse il più utile e profondo possibile e che potesse veramente soddisfarci entrambi, allievi e insegnanti.

Sapevamo che un corso ripetitivo, piatto, in cui si fanno gli esercizi classici, in cui si cerca di non affaticarsi, di non pensare, di fuggire, non sarebbe mai stato svolto da noi insegnanti che educavamo spinti dalla passione e per vocazione. Sarebbe stato una mortificazione prima di tutto per noi, di conseguenza lo sarebbe stato sicuramente per loro. La nostra didattica si basava principalmente su un fatto di coerenza personale e riconoscevamo che poteva essere l’unico modo per essere di aiuto ai nostri allievi.

Motivare, dunque. Cercando di rompere la superficialità iniziale e stabilire uno speciale accordo sui fini didattici. La superficialità nasceva da un tipo di approccio scolastico acquisito nella scuola dell’obbligo, che non invoglia alla creatività ma aumenta la passività.

Capitolo 4 49

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

“Fai così”, ti dicono! Se poi non fai in quel modo ti puniscono coi voti. Questa non è educazione, ma coercizione.

La motivazione si crea attraverso dei fatti pratici ed una sensibilità. Se non si sente l’umanità dell’altro, se lo si vede solo come una “quota” mensile, se lo si sente prima come un allievo che come persona, sarà molto difficile trasmettergli la passione, elemento necessario per la motivazione. Allo stesso modo, per quanta passione un insegnate e un allievo ci mettano nello svolgere un compito, se non si avanza nella comprensione e acquisizione tecnica la motivazione va scomparendo. Due persone potrebbero essere buoni amici, volersi bene, ma al contempo non fare un passo avanti nel rapporto tra insegnate e allievo. Non si tratta di compensare con la simpatia e l’affetto la responsabilità didattica, assolutamente no! Alla scuola ho avuto vari professori e professoresse buoni, amabili e gentili, ma che non mi hanno insegnato niente! Che me ne faccio di un tale rapporto?

La motivazione si attua se la didattica permette di avanzare e garantendo i risultati promessi. La motivazione è conseguenza di un ottenimento degli obiettivi iniziali, per i quali, una persona si rivolge ad un maestro o ad una scuola. La benzina della motivazione è imparare a fare e fare imparando. Il resto può essere sola demagogia se non è accompagnato da una reale abilitazione.

Mortificare la motivazioneQuando si insegna si vede ben presto che al di là di

qualsiasi simpatia o affetto che si produca tra allievo e docente, la motivazione nella disciplina cresce o declina se si ottengono i risultati. Siamo legati al fine che ci siamo proposti, se non lo raggiungiamo ci abbattiamo, e a nulla valgono i “va bene, non ti preoccupare…” dell’insegnante, se dopo vari tentativi non si ottengono i risultati sperati.

È una questione di onestà professionale. Se vendi una macchina con certe caratteristiche, che deve dare certe performance, questa macchina le deve soddisfare. Se non parte bene, perde olio, non compie la sua funzione non puoi col sorriso, i titoli o quant’altro, cercare di convincere il cliente che va tutto bene. Non va bene affatto!

Però non funziona così, in maniera evidente, in vari settori della vita umana. Nella politica ad esempio,

continuiamo a votare chi ha dimostrato di essere falso e disonesto. Forse abbiamo paura perché sentiamo che non ci sono alternative, oppure perché si insinua qualcosa di larvato, qualcosa che ci da l’illusione di avere ciò che chiediamo senza per questo ottenerlo.

Si tratta della demagogia.

Demagogia è un termine di origine lingua greca (composto di demos, “popolo”, e agein, “condurre, trascinare”) che indica un comportamento incline ad assecondare le aspettative della gente sulla base della percezione delle loro necessità, per ottenere consenso, anche se poi sono difficilmente realizzabili o non realizzabili.

L’istruzione vive spesso di demagogia, in particolare quella privata. Lo scorso paragrafo vi ho raccontato della nostra deludente presa di coscienza rispetto alle tante scuole private. Vi ho parlato di un business, dovuto alle carenze della scuola pubblica.

Permettermi di raccontarvi ancora qualcosa, che vi aiuti a scoprire certi meccanismi. Immagino che molti lettori siano persone che cercano di imparare a disegnare da adulti. Molti di voi è probabile che si rivolgeranno a degli istituti o scuole, vorremo evitarvi di avere brutte delusioni, e soprattutto di buttare al vento i vostri soldi.

Vi raccontai che non tutte le scuole credono che l’obbiettivo principale sia il benessere dell’allievo, e spesso, per attirare clienti, fanno perno su aspetti secondari rispetto alla pedagogica. Difficilmente un cliente domanda quale pedagogica è utilizzata da una scuola. Pensa, onestamente, che se si vende un’auto essa debba funzionare. Non si chiede se questa funziona o se ha un motore!!! Lo si dà per scontato.

Se pubblicizzi un corso di disegno e di pittura è chiaro - qui sta l’inganno - che sai insegnarlo! No è detto. Non date per scontato tutto ciò come se fosse un assunto.

L’elemento veramente più importante nel-l’educazione, è il metodo pedagogico usato. Di conseguenza, dovrebbe essere la qualità primaria di un insegnate e di una scuola.

È in questa direzione che dovrebbero andare la maggior parte degli sforzi di una scuola e degli insegnanti e non in altri settori, che se pur importanti, non si devono sostituire alla ricerca didattica. Spesso

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Perché ho rinunciato al disegno

si punta ad altri fattori al fine di “annebbiare” i futuri allievi e clienti.

Ecco perché vi parlo di demagogia.

Vi riporto dunque, alcune esperienze.Uno dei meccanismi che abbiamo scoperto a nostre

spese, e che spesso si valuta la capacità didattica di un insegnante a partire dalla sua fama come artista. È importante capire che sono due cose distinte e separate, anche si usa questa popolarità per attestare la capacità di un insegnante. Questa sostituzione dei termini, tra successo personale e successo didattico, è un atteggiamento comune. Lo si fa troppo spesso, generalmente non in malafede, ma non sempre…

Se avete notato, sempre più frequentemente, la qualità di una scuola e dei suoi risultati viene inquadrata in un’ottica di prestigio. Ma che centra? Il prestigio degli insegnanti è veramente un metro di misura adatto per chi vuole apprendere?

Molte scuole basano la propria fortuna sul prestigio dei propri risultati numerici, della loro grandezza, il che potrebbe derivare solamente da un’ottima capacità commerciale, da un grande investimento economico, e non dalla qualità pedagogica.

Anche se questo sembra oggi un atteggiamento “normale”, vorrei invece farvi notare che il prestigio o il successo può essere qualcosa di molto lontano dalla qualità didattica, soprattutto quando diventa un vanto. Non c’è niente di peggio di una scuola vanitosa e che fa bella mostra dei propri “trofei”. È ovvio che tutto questo luccichio si traduce in un prezzo da pagare: il prezzo del prestigio!

Se un insegnante o una scuola promuove i propri corsi in funzione dei propri meriti prestigiosi, dando poche indicazioni o addirittura non informando adeguatamente sui metodi didattici, vi devono sorgere dei sospetti. Se ci pensate bene, è come se un meccanico dicesse: venite da me perché ho riparato la macchina del presidente della repubblica! Personalmente preferisco andare da chi mi informa su altre caratteristiche, ad esempio se usa certi accorgimenti tecnici, il computer, o mi fornisce altra tipologia di dati che attestano, ad esempio, che su mille macchine riparate nessuno è tornato indietro per lamentarsi!

Insomma, sono convinto che la qualità didattica di un corso o di una scuola non debba scivolare nei meccanismi illusori della pubblicità, ma debba informare su quali siano i suoi principi morali, quali le sue

credenze politiche o religiose, quale sia la loro visione dell’essere umano e il proprio concetto di educazione ed apprendimento. Ovvero debba onestamente fornire al discente le informazioni sui punti più importanti, ovvero quelli che avranno una maggiore influenza sulla sua formazione. Nella formazione, secondo voi, influisce molto più il credo religioso e politico di un insegnate oppure il fatto che lui abbia dipinto un quadro, che si trova esposto nel più grande museo del mondo?

Il prestigio di un insegnante può ad esem-pio derivargli dai meriti professionali, come essere un pittore di successo, ma questo non significa che come didatta sia eccellente, o altrettanto capace.

Comunemente, molte scuole, con il solo obbiettivo di fare soldi, puntano al prestigio, senza prestare nessun interesse alla formazione o al controllo della qualità dei propri corsi e, di conseguenza, dei metodi pedagogici utilizzati dai propri insegnanti.

Vi racconto un’esperienza. Un anno venimmo contattati da un prestigioso compositore di canzoni a livello nazionale, per promuovere un corso di composizione all’interno della nostra scuola. Compositore che chiamiamo B.D.

Il noto compositore ci propose un seminario da svolgersi in tre mesi. Questo seminario si rivolgeva a chi volesse apprendere a scrivere testi e musiche pop. Bisogna dire che B.D. è un bravissimo compositore, ha scritto tante belle canzoni per RAF, Laura Pausini, Marco Masini, ecc., insomma, veramente un personaggio di grande prestigio. Ci piacque la sua proposta e ci accordammo su tutte le specifiche per svolgere il seminario al CUEA. Scoprimmo poi che lo stesso fu da lui proposto, anche ad altre scuole di musica decisamente più grosse e famose della nostra piccola realtà di quartiere. Ed è con orgoglio che vi racconto che il nostro fu l’unico corso che riuscì ad avviarsi con 12 partecipanti, mentre le altre strutture non riuscirono né a promuoverlo e né a realizzarlo.

Tra gli allievi si inserì anche un nostro insegnante che ci riferiva, nelle riunioni didattiche della scuola, come fosse l’andamento del seminario.

Il seminario attirò molte persone, per il fatto che chi lo conduceva era B.D.. Fu notevole l’influenza del nome di prestigio nel richiamare gli allievi. L’anno dopo, infatti, il seminario di composizione fu condotto

Capitolo 4 51

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

da un altro compositore. Decisamente preparato pedagogicamente, Leonardo Abbate, ma praticamente sconosciuto ai più, ed è per questo che l’adesione fu di sole tre persone. Si capisce dunque come molte scuole puntino, demagogicamente, a dare alla gente ciò che chiedono e non ciò di cui hanno bisogno.

Anche se il nome richiamò molte persone, il seminario fu per noi una grande delusione rispetto ai nostri standard di qualità didattica, in quanto B.D. commise diversi errori, gravi e meno gravi.

Vi faccio un elenco di quelli che per noi furono i motivi della sua inadeguatezza:• improvvisava le lezioni di volta in volta• criticava i lavori degli allievi senza dare una alternativa

e senza indicare come correggere tali errori• le lezioni non avevano gradualità e progressione• opinava secondo gusti personali senza fornire

indicazioni precise su tali opinioni• non dava precise indicazioni sul lavoro da svolgere• buttava giù il morale degli allievi in relazione ai loro

risultati• non ascoltava le motivazioni che hanno spinto gli

allievi nelle loro scelte ma giudicava da una occhiata sommaria e frettolosa

• poneva sé stesso e le proprie opere come modello con atteggiamenti vanitosi

Fu un tentativo, ma dobbiamo forse ringraziare B.D., perché l’accaduto ci fu molto utile per comprendere certe dinamiche e maturare nell’esperienza.

Oltre a questa conoscenza diretta, furono molte le testimonianze di allievi che, prima di approdare alla nostra scuola, avevano partecipato a corsi o stage tenuti da personaggi di successo, ottenendo solo una grande delusione. Furono queste esperienze ci fecero intendere che non si poteva, in base alla reputazione professionale, formulare un assioma deduttivo, che portasse a pensare che: maggiore è il prestigio della scuola e dell’insegnante e maggiore è la loro capacità didattica.

Addirittura, per una logica di compensazione, formulammo un nuovo assioma: laddove si punta sul prestigio è alta la probabilità di scontrarsi con un’istruzione con scarsa cura delle relazioni umane e della qualità pedagogica.

La motivazione è quindi il motore pulsante che fa avanzare qualsiasi persona di fronte alle difficoltà, che, in questo modo, cambiano quasi di significato. Non sono più dei muri invalicabili in cui si arena il nostro entusiasmo, ma al contrario, divengono strumenti e leve per la nostra crescita. È attraverso il superamento della stanchezza, della pigrizia, delle proprie pure e ansie, che si può misurare il nostro progresso.

Se si mortifica la motivazione, qualsiasi ostacolo si può tramutare nella fine del tentativo. Il compito principale di ogni didattica è forse alimentare quella forza interiore che, come una formula magica, trasforma la difficoltà in stimolo, ed il fallimento in risorsa necessaria alla ricerca di sempre nuove soluzioni, più chiare e complesse, il cui “premio” accresce in misura proporzionale alla fatica svolta per il suo raggiungimento.

Riassumendo, ci siamo ritrovati più o meno in questa situazione: volevamo insegnare ad adulti ad esprimersi con l’arte, ma per farlo dovevamo tener conto di:1. della pregressa fatica dovuta alla routine

quotidiana2. della possibile regressione infantile dovuta a

quella antica frustrazione di artisti mancati, che si riscontrava da subito anche nelle loro creazioni, più simili ai bambini che agli adulti

3. una possibile tendenza alla fuga dalla propria vita, vissuta con delusione

4. un atteggiamento passivo, ereditato dalla scuola in cui, di fronte ai compiti da svolgere, si ponevano nei confronti dell’insegnante come se fosse una sorta di “mago” che potesse insegnare loro un’arte senza che loro si sforzassero più di tanto

Questi furono, dunque, i quattro principali scogli che abbiamo incontrato nella nostra missione: fatica, insicurezza infantile, fuga dalla delusione, passività intellettuale. Riuscire ad insegnare agli adulti significava per noi superare questi ostacoli.

La chiave di volta, era quella di riuscire a sviluppare la motivazione eliminando, con l’esperienza, tutti quei fattori che, viceversa, potessero mortificarla.

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Perché ho rinunciato al disegno

Potrete forse pensare che il superamento di tali ostacoli fosse il nostro incarico. Questo compito sarebbe stato impossibile se affrontato in quest’ottica.

Inoltre, avrebbe fatto di noi dei manipolatori, degli Dei o dei leader, che tanto si vantano del loro potere sugli altri. Niente di tutto ciò. Niente che creasse nuove catene e nuove dipendenze.

Ciò che ci guidava recitava in tutt’altro modo: è solo dentro ogni persona che risiedono la forza e la capacità di superare tali impedimenti.

Immaginate la complessità di ognuno dei nostri allievi, o di ognuno di noi. Nessuno potrebbe fornirci delle soluzioni a questo livello di complessità. Nessuno potrebbe avere accesso alla nostra testa, al nostro cuore e a tutta la nostra storia. E, spesso, anche noi non abbiamo così tante informazioni che ci facciano comprendere con chiarezza chi siamo, cosa vogliamo, da dove veniamo e via dicendo. A volte sentiamo che non ci conosciamo affatto. Come si può educare, dunque, una persona assumendoci la responsabilità delle sue componenti profonde?

La chiave di volta era un’altra. Motivarli significava fornire loro strumenti per riuscire il più possibile nelle loro intenzioni. Senza questo attivarsi da parte loro è impossibile qualsiasi didattica. Noi fornivamo strumenti consolidati, i progressi potevano avvenire oppure no, non dipendeva da noi. A quel punto si palesava il limite del nostro compito, il resto era affidato esclusivamente alla loro volontà.

Sì, è vero, sapevamo che attraverso l’arte potevano

esprimere la propria diversità e creatività con tutti i suoi meravigliosi effetti collaterali, ma era un evento che non dipendeva da noi ma dalla loro voglia di lasciarsi andare. E anche se loro continuavano ad attribuire alla capacità dell’insegnante tali risultati a noi era chiaro che non era così.

Quello che potevamo proporre con una certa esperienza era che si poteva stimolare e non indurre, la volontà creativa. E se si liberava la creatività, questo fatto poteva dare loro una tale soddisfazione da fungere da detonante per avviare tutte quelle trasformazioni necessarie per crescere: il superamento della fatica, l’evoluzione dell’infantilismo, la rottura della paura, il rilassamento dell’ansia ed il sorpasso della passività.

Questa magia detonante può cambiare la direzione della vita. E se la nostra vita è bella, se la nostra vita è energica, non vale la pena fuggire, non vale la pena annullarsi. Invece, vale la pena osare e non si ha più timore di prendere a piene mani tutti quegli aspetti che non ci soddisfano per cambiarli in meglio.

Questo è il potere dell’essere umano. Questo è il potere dell’arte. Questo è il senso dell’arte: un potente strumento al servizio della vita.

Che cosa è, dunque, un insegnate? Non un mago, certamente, non un leader. Ma neanche una mamma o un padre. Forse è vicino ad un amico, ma molto di più.

Nessuno di noi era un insegnante. Ci dovevamo inventare, e i nostri allievi erano i nostri maestri.

La nostra missione

Essere al pari e non essere sopraMa proviamo a definire che cosa credevamo fosse

un insegnante.L’insegnante ha il compito di organizzare, distribuire

e trasmettere delle conoscenze affinché il discente possa compiere un nuovo salto evolutivo. In questo compito contribuisce alla Dialettica Generazionale1 in cui il vecchio sistema di credenze e conoscenze cede il passo al nuovo.

Questo superamento del vecchio per opera del nuovo, avviene grazie alla spinta operata dalle generazioni più giovani che percepiscono realtà che non possono avvertire le generazioni precedenti è per questo motivo, se non le si castra, che esse si trovano sempre in condizione di effettuare dei cambiamenti rispetto al passato. E, anche se a volte ci sono dei passi indietro, l’essere umano ha sempre complessivamente

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

compiuto passi in avanti nella sua evoluzione, grazie alle nuove generazioni.

Ma se le si castra, se le si opprime, se le si condiziona a tal punto da rinnegare la loro diversità, si otterrà solo una grande tristezza. Si soffre molto di questa cosa, di questa violenza.

Noi non eravamo di certo la vecchia generazione che insegnava ai bambini, in cui c’è sempre il rischio di imporre le proprie contraddizioni. E, dunque, chi eravamo noi? Persone uguali a loro, simili, pari in esperienza vitale. Non si verifica la stessa condizione con i bambini, in cui le differenze di conoscenze sono al pari di quelle di vita.

Anzi spesso ci accade di insegnare a persone con un’esperienza della vita maggiore della nostra, ed è quindi ridicolo porsi nei loro confronti come maestri di vita. Il nostro ruolo è ben chiaro: trasmettere loro delle conoscenze tecniche.

Nessuno di noi era un Maestro, nel senso più profondo del termine, ovvero persona con una così vasta conoscenza delle propria materia, da essere un faro illuminante nella sua disciplina. Queste persone si chiamano, per l’appunto, “luminari”.

Non eravamo maestri o luminari, ma avevamo una piccola esperienza in più di loro. Un evento, forse, nella nostra vita faceva la differenza, rispetto alle persone che venivano alla nostra scuola: avevamo potuto esprimere e studiare quell’arte che ora ci chiedevano di trasmettergli. Dunque, non una grande differenza in termini globali. Sicuramente abbiamo avuto le nostre difficoltà nell’appendere l’arte e ciò che ci ha sorretto è stata una forte passione, la stessa che cercavamo di infondere nei nostri allievi, senza la quale ogni impresa può risultare impossibile da raggiungere.

Eravamo insegnanti per questo motivo: trasmettevamo loro quelle poche cose che avevamo avuto dalla vita e raggiunto col desiderio di fare, per condividere la gioia dell’arte.

Non eravamo migliori, più intelligenti o più bravi di loro. Certo, molti insegnanti frustrati - e quanti ce ne sono! - cercano di sentirsi superiori ai propri allievi perché vittime della loro frustrazione. Probabilmente capita a tutti di pensare di essere migliori di altri per fuggire dalla nostra mediocrità. Ma quanti danni si commettono in questo modo?

Sì, questo è stato un pericolo anche per noi; sentirsi insegnanti, in qualche modo, può invitare a sentirsi in un livello più alto, superiori ai propri allievi.

Pensiamo che questo modo di porsi nell’insegnamento sia alla radice della maggior parte dei danni educativi. Forse sto esagerando nel dire che sia la struttura politica che quella istituzionale non agiscono nella stessa misura nella formazione scolastica quanto l’insegnante. Se veramente fosse una condizione meccanica, viste le condizioni sociali e legislative in cui si trova la scuola pubblica da sempre, non dovrebbero esistere bravi insegnanti perché tutti sarebbero minati nel loro agire. Certo, molti insegnanti abbandonano, rinunciano se ne vanno via, col motivo che non li “lasciano lavorare”, ed in gran parte può essere anche vero, ma la didattica è fuori da tutto ciò.

Si tratta solo ed esclusivamente di come si tratta l’altra persona, di come la si considera, di come si considera il proprio lavoro. Per cui non credo tanto ai mali strutturali, che pure si verificano in molti casi, è una direzione mentale, psicologica, se vogliamo da mettere in discussione. A poco valgono le lotte sindacali, o gli stipendi alti o bassi. Nella classe c’è una persona con altre persone, vi è un sufficiente grado di libertà da parte dell’insegnante per fare quello che vuole all’interno di contenitori programmatici del tutto relativi.

Il punto centrale di molte scuole è la considerazione che si ha del ruolo dei docenti e del ruolo dei discenti. Sono purtroppo inseriti in una struttura di capo-subordinato, di sovrano-suddito, di superiore ed inferiore. I livelli di esperienza si tramutano in livelli di potere.

Questo è stato un errore frequente nella storia dell’istruzione. È questo è forse il punto più incongruo nell’educazione tradizionale.

Nessuno al mondo considererebbe la scuola e le istituzioni educative come un fattore regressivo nell’evoluzione umana, eppure oggi, si evidenzia palesemente questa contraddizione: la scuola non libera ma opprime. La scuola, che fondamentalmente è qualcosa che abbiamo creato per il superamento del dolore e la sofferenza, è stata, ed è, troppo spesso motivo di sofferenza, di frustrazione, di coercizione e di controllo sociale. Questa è una direzione mentale che sempre si è insinuata nei fini formativi, annullandone il senso.

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Perché ho rinunciato al disegno

Purtroppo, nei miei studi della storia della didattica, ho visto come facilmente essa porta con se anche l’autoritarismo, le punizioni fisiche, la violenza religiosa, morale. Spesso le tecnologie didattiche sono state, ed ancora lo sono in tante zone del pianeta, cinghie, frustini, ecc. Questi strumenti di violenza si giustificano a partire dal primitivo concetto educativo di punizione e premio. Nella scuola si sono sviluppate così tante pratiche di umiliazione e repressione, che, ad esempio, non si vede come il giudizio ed il voto non sono altro che dei frustini psicologici a cui gli insegnanti dovrebbero ribellarsi, come ha fatto Giovanni Spinicchia nella sua luminosa carriera scolastica.

Solo recentemente, e parliamo dell’inizio del ‘900, si sono fatte avanti filosofe e modelli didattici nonviolenti, di rispetto della persona, che considerano l’apprendimento come gioia e gioco. Queste pedagogie però ancora oggi attendono di essere trasferite in tutte le realtà scolastiche.

Insegnare agli adulti, anche se si manifesta in loro qualche atteggiamento infantile, non vuol dire approfittarsi di loro, manipolarli o esercitare l’autorità

del superiore - anche se a volte è da loro richiesta - che crea, sempre e comunque, frustrazione e dipendenza.

Certo, un giovane o un bambino, non hanno la forza e la struttura di esperienza che gli permetta di opporsi alla negazione della loro diversità e libertà come la potrebbe avere un adulto. Ma spesso anche gli adulti, contrariamente a come si potrebbe pensare, non riescono ad avere strumenti per opporsi a questo tipo di pratiche, che non sono degne di essere chiamate pedagogiche.

Ecco perché ho esordito nel capitolo dicendo che gli adulti sono come i bambini, anche per il fatto che sono disarmati di fronte alle didattiche tradizionali, che non li fanno avanzare e li frustrano. Didattiche che, diversamente, loro sostengono perché credono, dalle esperienze giovanili, che essere allievi significa in fondo in fondo, sentirsi inferiori, considerarsi inferiori, e porsi nei confronti dell’insegnante con sudditanza. Vi racconterò, nel paragrafo sulla chiusura della nostra scuola, alcune esperienze che possano illustravi queste mie considerazioni, e come gli adulti siano molto più manipolabili di quanto si creda.

Capire chi siamo e chi sonoDi conseguenza, presa coscienza delle difficoltà che

ogni allievo portava con sé nella sua storia, abbiamo dovuto chiarirci bene che cosa potevamo fare come insegnanti. E questo ci ha condotto ad una crescente presa di coscienza del nostro ruolo, ai limiti di rispetto della persona e all’etica che ci doveva orientare nella nostra missione. Dovevamo investire sulla loro umanità e non credere di avere dei superpoteri!

Mi sembrò, quindi, opportuno iniziare con la conoscenza, la più approfondita possibile in quelle condizioni, delle persone che venivano ai corsi. Prima di agire era chiaro che dovevo conoscere e studiare le mie classi.

Per adempiere a questa esigenza, alla prima lezione facevo compilare loro un questionario sulla loro storia scolastica e personale. Traevo molte informazioni da quei pochi scritti, tra cui avevo spesso la conferma che la maggior parte di loro presentava un trauma infantile legato al disegno. Ma ciò che cercavo era il livello di motivazione personale, che solitamente non era

sufficientemente costruito, chiaro e dunque poteva ben presto esaurirsi. La motivazione classica e comprensibile era quella di imparare a disegnare, dipingere, ecc. per questo cercavo di aiutarli a comprenderne il perché. Perché vuoi imparare a disegnare? Cosa ti aspetti? Di divertirmi, di avere piacere. Mi rispondevano.

Che inesperienza! Che stoltezza la mia! Davvero pensavo che loro mi avessero detto qual’era la loro motivazione profonda. Che mi potevo aspettare se non quelle risposte?

Anche se non rinunciai al questionario e al momento di scambio in classe sulle motivazioni, era chiaro che le motivazioni, quelle profonde, ero io a dovergliele tirare fuori. Questo era il mio compito, fare in modo che, oltre al consueto “perché mi piace”, iniziasse a crescere in loro una curiosità ed una passione per ciò che loro non potevano sapere. Non potevano sapere che cosa poteva dare loro il disegno, che cosa poteva risvegliare la pittura, la fotografia, il modellato, e tutte le arti che insegnavo.

Capitolo 4 55

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Era come se, chiedendo ad bambino il motivo per cui gli piace giocare, mi aspettassi che mi dicesse: “per sviluppare le capacità creative e cognitive della mia psiche!”

Questo non lo deve aver chiaro l’allievo. Neanche aspettarselo da loro solo perché essendo adulti si crede siano più consapevoli di un bambino. I motivi profondi li deve conoscere l’insegnante, senza questa chiarezza come potrà stimolarli in loro?

Insegnare agli adulti, anche in questo caso, non è diverso dall’insegnare ai bambini. Solo che l’adulto, a differenza del bambino, può sommare a queste nuove esperienze quelle precedenti, altre capacità che ha acquisito fino a quel momento.

Motivare un adulto quindi significa spesso, aiutarlo a stabilire delle relazioni, dei collegamenti tra le sue aspirazioni vitali generali, e quella particolare del disegno.

Bisogna quindi capire l’altro nella maggiore ampiezza possibile. Bisogna cercare il più possibile di stabilire un vincolo profondo, aperto e di fiducia, dove, lui si possa rivelare a te che insegni. Svelare, col tempo, la sua incredibile ricchezza senza il timore di essere manipolato o giudicato.

La prima missione era quella di stabilire un vincolo profondo con l’allievo, e questo non lo si può di certo fare formalmente. Se così si agisse nessuno si aprirebbe a te. Nessuno.

Questa missione non richiede quindi solo una trasformazione dell’allievo, ma anche una aperta e sincera e costante messa in discussione dell’insegnante. Una genuina voglia di entrare in contatto con l’altro, che trascende in questo modo da qualsiasi “impegno professionale” per divenire un rapporto tra i più profondi che si possono creare tra due esseri umani.

Vocazione insegnanteLa professione didattica è per me una vocazione

al dare.Se così non fosse, se fosse solo un lavoro, per quanto

nobile sia questo intento, non si riuscirebbe a cogliere la complessità del rapporto umano fatto a volte di fragilità e dipendenza, ma anche di crescita e forza, di frustrazione e fatica, di superamento e gioia.

È un cammino, almeno lo è per me. Un cammino dove gli eventi mi hanno richiesto di sviluppare attitudini che prima non avevo o erano appena abbozzate.

Ciò che mi sento di raccontare è il mio cammino in cui forse molti insegnanti si potranno riconoscere.

Come prima cosa ho capito che dovevo studiare, non potevo non sapere ciò che insegnavo. Ed io non sapevo quasi niente prima di insegnare.

Il miglior modo per apprendereIn questi anni, avrei dovuto pagare i miei allievi

per tutto quello che ho dovuto studiare grazie alle loro esigenze, richieste e domande. Spero, infatti che nessuno, dopo quanto scrivo, mi venga a reclamare tutti i debiti che ho accumulato!

La mia prima esperienza fu, come avete avuto occasione di notare, ricca di insegnamenti. Come tutte le “prime volte” gli errori sono tantissimi, ma è proprio grazie a questi che si ha la possibilità di imparare per migliorare di volta in volta.

Non ricordo a quale lezione, forse la ottava o la nona, fatto sta che quella sera non avevo preparato in dettaglio la lezione. Forse nessuno se ne accorse, ma la mia tensione interna era tale che mi ripromisi di non trovarmi mai più in una tale condizione. Un disagio che forse ho provato solo nei banchi di scuola. Non successe niente di grave, là fuori nel mondo della classe. Improvvisai e le cose andarono per il verso giusto. Nessuno mi disse niente. E come avrebbero potuto. Così come il pubblico non si accorge dell’attore che sbaglia una battuta perché non conosce il testo, anche io quella sera ero riuscito ad arrivare alla fine. Ma l’accaduto mi portò a riflettere per diversi giorni. Perché ero stato così male? Cosa era accaduto in me? Non era la paura di una figuraccia, di fatto le cose le sapevo e avevo poi tenuto bene la lezione.

Fu qualcosa di più profondo, che agì in me. Qualcosa che mi creava una contraddizione profonda e che

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Perché ho rinunciato al disegno

aveva a che fare con il mio senso etico. Camminando per Firenze, di fronte alla mia città amica, gli eventi mi vollero consapevole di quel mio malessere. Non ero stato onesto! Non è di una onestà esterna che vi parlo, ma qualcosa di impossibile da creare attraverso un morale o una legge sociali. Qualcosa che non si vede e che nessuno ti verrà mai a recriminare.

Ero stato disonesto, e questo mi faceva soffrire, e mi ripromisi allora di non andare più ad una lezione senza che io fossi stato sufficientemente preparato per dare loro quel che il mio compito prometteva.

Non si insegna per dovere. Per dovere si fanno molte cose, ma non insegnare. Insegnare è un aspetto dell’amare ed esso, come l’olio con l’acqua, non lega col dovere.

La morale era sempre quella di trattare l’altro come vorrei essere trattato, ed io avevo troppo sofferto dell’incompetenza della maggior parte dei miei insegnanti e non volevo di certo ripetere lo stesso schema.

Se avessi permesso di rimuovere quella sensazione attraverso una qualsiasi giustifica-zione, avrei aperto la strada ad una condizione che poteva rivelarsi fatale nella mia carriera: che si può insegnare improvvisando.

Nell’insegnamento è fondamentale l’improvvisazione, in tante occasioni, ma come un medico o un ingegnere, o qualsiasi altra professione, non si posso commettere certi errori che tanto male possono produrre negli altri.

Da allora tutte le mie lezioni sono preparate tempo prima, e non il giorno prima considerando “troppo cavie” i propri allievi. Un poco cavie lo sono state ed ancora lo saranno, perché la mia didattica è in parte sperimentale, ma la sua base, che cerco di rendere sempre più solida con l’esperienza, non è un salto nel vuoto.

Cosicché, mosso dal piacere della mia vocazione, in questi lunghi anni mi sono ritrovato a studiare moltissime cose, a fare corsi di formazione, a dipingere e sperimentare nell’arte, mosso dalla grande motivazione che i miei allievi mi offrono.

Come potrei infondere loro passione e motivazione se io per primo non le vivessi?

Sarei falso e disonesto, e questo è forse il principale motivo del fallimento pedagogico di molti insegnanti e di molte scuole.

Capacità di adattarsiLa mia ricchezza pedagogica la devo anche al fatto

che ogni allievo mi richiede di sviluppare sempre nuove strategie. Sia ben chiaro, che non sempre ho il tempo, l’attenzione e la forza per questa costante messa in discussione, ma è per me un punto guida. So che devo sviluppare la mia capacità di adattamento alle diverse situazioni. In effetti sono convinto che l’educatore dovrebbe avere la capacità di porsi in relazione con gli allievi adattandosi il più possibile alle loro esigenze.

Nel CUEA venivano persone abbastanza diverse, persone che forse mai avrei incontrato nei normali miei giri di amicizia, così legati alle mie esigenze, ai miei interessi. Ognuno si circonda di amici che in qualche modo hanno cose in comune, mentre le persone che incontra casualmente a lavoro, in autobus o, nel mio caso alla prima lezione del corso, non erano vagliate dai miei gusti o pregiudizi.

Erano persone semplicemente e fantasticamente diverse da quelle che generalmente frequentavo.

Io avevo le mie caratteristiche e loro in qualche modo le hanno dovute a volte sopportare, ma anche mi sforzavo di essere diverso con loro.

In un corso si presentò una ragazza che mi richiedeva tutta l’attenzione. Io non potevo essere a sola sua disposizione perché la classe era numerosa. Quando non aveva la mia attenzione la prendeva dal resto della classe introducendo argomenti a cui altri si catalizzavano che nulla avevano a che fare con la lezione. Lo faceva a voce alta disturbando chi voleva disegnare. Era una mina vagante e se non avessi operato in qualche modo, la classe si sarebbe presto sciolta perché il lavoro da fare si complicava enormemente se non c’erano concentrazione e silenzio.

A mio favore, come carattere, c’è sempre stato il fatto che non provo quasi mai antipatie o irritazioni per le persone, ed in quel caso la persona non mi causò malumori, ma era per me oltremodo difficile arginare i suoi comportamenti.

I primi tentativi furono scherzosi, in cui gli facevo notare che era importante mantenere concentrazione sia nel compito che per tutta la classe. Solitamente il maestro, riesce con un minimo di autorità a sedare tali espressioni, ma non in quel caso. Sembrava una locomotiva logorroica inarrestabile! Non potevo andare contro di lei, più cercavo di reprimere tale situazione e più essa esplodeva.

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Riflettendo sui motivi possibili di tale manifestazione, mi resi conto che ottenevo il contrario da lei perché nessuno la ascoltava, e più non la si ascoltava e più lei parlava.

Come adattarsi? Se davo segno di ascoltarla lei partiva in quarta, se la sconnettevo lei partiva in quarta ugualmente rivolgendosi alle altre ragazze. Se le ragazze l’avessero isolata, lei, forse, si sarebbe ridimensionata. Dopo 4 lezioni decisi di sconnettere quel comportamento. Decisi di ignorarlo completamente. Mi concentrai invece sui suoi disegni, gli diedi compiti semplici e gli feci un sacco di complimenti, facendogli notare in più di una occasione i suoi raggiungimenti.

Ecco un esempio di come io stessi sbagliando a pormi frontalmente, alla fine lei cercava attenzione, in maniera sicuramente sproporzionata, ma non era rimproverandola scherzosamente o rifiutandomi di ascoltarla che lei si rilassava. Mi adattai alle sue modalità. Lei mi chiedeva qualcosa che non ero solito dare in quei modi, forme e quantità. Voleva dieci complimenti a sera, che io non sono solito dare. Ma mi sforzai di darglieli in maniera sincera, altrimenti non sarebbe cambiata. Cambiò. Ma poi nel giro di due mesi andò via. Era chiaro che la sua motivazione si era esaurita.

Cercare di non giudicareNon sono solito commentare in termini di giudizio,

di nessun genere. Il bello, il brutto, il brava, il cattiva, ecc.. Il giudizio, non dovrebbe far parte della mia didattica. Anche se in diversi casi lo faccio per adattarmi alle richieste. Giudico un sacco di cose, eccome, anche io ho questo vizio, ma l’insegnamento mi aiuta a tenerlo a bada, mi educa a trattare gli altri in maniera migliore di come faccio solitamente.

Sarà il ruolo, l’importanza che sento di avere, ma questo mi consente di avere un certo profilo che in altre situazioni non riesco a mantenere, e guai se non fosse così. Sarei insegnante per 24 ore al giorno anche nei sogni!

Nella didattica cerco di aiutare l’altro a sviluppare autocritica, quindi rilevo soprattutto gli errori e le conquiste nel disegno o in tutte le altre discipline che insegno. Il linguaggio non è freddo, ma sì, è soprattutto tecnico. I valori che assegno possono essere assunti anche come giudizio, in chi è permaloso, ma è più difficile offendersi se si valuta con l’allievo che una linea è corta, inclinata o sbagliata in relazione al modello.

Alle vie della permalosità non ci sono limiti, e può capitare che qualcuno sia identificato a tal punto col suo lavoro che lo si possa irritare qualsiasi cosa si dica. Bene, loro avranno pochi commenti. Non li chiedono e non li avranno. Il rapporto è a due, ed io sono al loro servizio anche nella misura in cui loro mi richiedono.

Non sempre è semplice perché io tendo a dare molto di più di quanto chiedono, è una capacità che vado affinando e che mi richiede meno protagonismo, di rimanere più in disparte.

AccompagnareNon è forse lo stesso modo con cui sono stato

educato. Come si fa ad accompagnare qualcuno se le classi sono di 30 persone? Ciò è impossibile. Come scriverò alla fine del capitolo la qualità è spesso nemica della quantità.

Questo inconveniente, legato all’impossibilità di seguire fianco a fianco più di un tot di persone si può superare con un metodo semplice e chiaro in cui gli allievi non incontrano tante difficoltà. Più sono le difficoltà pedagogiche e maggiore sarà l’energia richiesta dagli allievi che chiederanno di essere accompagnati.

Col metodo VE.RA.DI., il più efficace da me sperimentato, si possono fare anche classi con 25 persone. Questo lo si deve soprattutto alla qualità ed efficacia di questo codice, semplice e chiaro, che da indicazioni giuste e misurate senza porre in disagio gli allievi.

Se vi è una didattica “forte”, che cioè permette ai discenti di auto apprendere, le richieste saranno ridotte alle sole necessarie. Se invece si crea una pedagogica che non punti all’indipendenza del discente dall’educatore, esso dovrà faticare moltissimo con i risultati che ne conseguono. Se sarà brillante, energico ed avrà pochi allievi la lezione procede bene, ma se venisse a mancare questo livello di performance, allora sarà tutto molto faticoso.

Accompagnare non crea dipendenza, ma sostiene, anche solo attraverso la vicinanza. Chi invece deve sostenere l’allievo non deve essere la figura del maestro ma la sua pedagogica, il suo metodo. Esso deve avere il compito di sostenere e condurre allievi ed educatore, l’insegnante diventa come un pulsante di allarme: usare solo in caso di pericolo!

Ogni didattica “forte” punta sulle capacità insite nella persona, crea problemi e da i giusti strumenti

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Perché ho rinunciato al disegno

per risolverli. Non è l’insegnante che risolve, ma gli strumenti che si acquisiscono.

L’auto apprendimento è la forma più efficace ed evoluta di pedagogia per adulti. Per comprendere come si attui basta studiare il metodo VE.RA.DI. pubblicato dalla stessa casa editrice, ed anche il metodo ES.TE.TRA. si basa totalmente su questo principio fondamentale della pedagogia umanista. Il metodo ES.TE.TRA. si basa su dei principi ed una struttura di riferimento che si modifica a seconda dell’allievo, ed è per questo suo adattarsi continuamente che ancora non sono riuscito a crearne un codice da esporre in un libro. Con l’esperienza mi auguro un giorno di poter esemplificare la complessità di questo metodo per la pubblicazione di un manuale.

Il concetto che sta alla base di questa difficoltà di codificare in un libro questo metodo, è che esso si basa su criteri mobili come l’ambiente, i medium usati, le tipologie delle persone ed ogni allievo lo usa a suo modo. Auto apprendono da una serie di imput che si basano su una struttura, la stessa struttura psichica dell’apprendere.

Questo metodo cerca di seguire le fasi del pensare in relazione all’imparare facendo.

È un metodo innovativo che ancora è in fase di

codificazione e che in questo momento è ancora in sperimentazione.

Non credo serva elencare tutti i vantaggi di questa modalità didattica rispetto ad altre, che creano dipendenza nel discente.

Prima di raccontarvi quelle che sono per me le peculiarità dell’insegnamento dell’arte, cerco di riassumere quanto detto in questo capito dedicato alla vocazione insegnante.

Insegnare è un atto di solidarietà e di amore che non deve essere confuso con altre forme di vicinanza affettiva, come quella dei genitori o degli amici. L’insegnante è tale in quanto persona preparata, che ha studiato ed applicato quanto insegna. Deve sapersi adattare alle esigenze dei discenti senza imporre le sue conoscenze e la sua personalità. Per fare questo è necessario che sospenda il giudizio dei propri allievi accompagnandoli attraverso la forza della sua pedagogica, che deve avere l’obiettivo chiaro di non creare dipendenze e confusione. Questa didattica sarà utile nella misura in cui saprà investire sulle capacità innate dell’apprendere e trasmettere strumenti, dalla comprovata efficacia, per il superamento delle difficoltà proprie della disciplina che si insegna.

Peculiarità dei corsi d’arte del CUEAÈ probabile che le osservazioni che vi ho cercato di

comunicare in questo semplice libro, possano essere riferibili non solo all’educazione e l’apprendimento delle discipline artistiche ma si possano ritrovare elementi comuni all’insegnamento nella sua generalità.

Quello che scrivo è comunque riferito alla sola educazione artistica che, come tale, ha le sue specificità. Cercherò in questo paragrafo di illustrare quali siano gli elementi che per me non debbono mancare nell’ istruzione delle discipline artistiche.

Entrare in contatto col profondoQuasi sempre insegnare ad altri ad esprimersi

artisticamente ci porta a scoprire aspetti profondi e intimi delle persone. La personalità dell’individuo è vero che si manifesta anche nel compimento di un calcolo matematico, ma la componente emotiva e la rivelazione

del mondo interiore non sono richieste nella soluzione di una equazione, mentre invece è compito sostanziale e necessario, esprimerle nel fare artistico.

Se è vero che nell’arte la persona si apre e rivela elementi della sua interiorità, spesso ad essa misteriosi e sconosciuti, si avrà a che fare con elementi di profonda intimità che richiedono una sensibilità adeguata per essere condotti al loro affinamento.

Non di rado questa esternazione causa degli sconvolgimenti dovuti a quelle “rivelazioni” al a cui spesso l’autore non sa dare risposta. Cosa mi sta succedendo? Può esclamare dentro di sé l’allievo che è appena stato creatore di qualcosa che non contava di possedere.

Se non riconosce i propri valori, attribuendoli al caso o all’insegnante, non imparerà da essi. Finito il corso, o quelle che sono state le condizioni che lo hanno fatto esprimere non disegnerà più, non dipingerà più.

Capitolo 4 59

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Questo può significare ad esempio che non ha integrato in sé quanto avvenuto in quelle condizioni, attribuendo a fattori esterni il motivo di tali conquiste. Sicuramente ci sono anche altri motivi, primo tra tutti l’interesse a continuare, ma è sul versante dell’integrazione di quelle esperienze come proprie, che l’educatore può agire per dare forza e sicurezza all’allievo.

Questo fatto è molto più ricorrente di quanto si pensi a credere. In un certo qual modo è una sconfitta della pedagogia. Ciò sta a significare che non è avvenuta una vera presa di consapevolezza e non si sia rotta la condizione di dipendenza.

Forse sto entrando in dettagli troppo specifici, ma molti lettori che hanno frequentato corsi o scuole d’arte avranno modo di riconoscersi.

Questo fenomeno è direttamente relazionabile a quanto ho descritto inizialmente riguardo agli adulti. La mancanza di autostima, l’ansia, la paura di sbagliare possono essere talmente radicate che non permettono di riconoscere come proprie certe rivelazioni. È come se una parte di loro dicesse: “non sono stato io a disegnare, è un caso esserci riuscito, è merito dell’insegnante. Io sono quello incapace.”

Non mi fa piacere parlare di questo aspetto. Vorrei non si verificasse. Faccio di tutto affinché l’allievo si senta capace di andare per la sua strada sostenuto dalle proprie forze.

Ad oggi ho solo una risposta a questo fenomeno di abbandono della pratica artistica dovuta alla fine dei corsi. La vita di tutti i giorni è quanto di più distante dall’arte. L’arte ha bisogno di una serenità mentale, anche se si nutre spesso di inquietudine. Inquietudine creativa esistenziale, ben diversa dallo stress quotidiano. Inoltre, ha bisogno di spazi e tempi diversi da quelli abituali. Bisogna anche di essere condivisa, altrimenti muore.

Come fare dunque ad integrare questa esperienza che appare così diversa e distante dal resto delle altre attività?

Non è cosa semplice. In qualche modo l’arte fa pressione al resto della vita. Preme affinché cambino alcune condizioni. In questo senso rappresenta potenzialmente un fattore rivoluzionario, in cui sembra che per dedicarsi alla propria espressività e libertà, debbano essere scardinate altre abitudini che girano in senso contrario.

Chi ha il coraggio di destrutturare la sua vita per far rientrare in essa la pratica artistica? Ci sono stati miei allievi che lo hanno fatto, è vero, ma sono stati veramente pochi, ma sono gli unici che hanno in qualche modo continuato a praticare ciò che hanno appreso nei corsi.

Anche se questa rivoluzione non l’ho mai chiesta, e mai mi sono permesso di farlo, per la maggior parte dei mie allievi ho notato che ad un certo punto avveniva un blocco. Uno stop! Un’autodifesa, forse, nei confronti della forza creatrice, che non a caso è rappresentata nell’antichità greca da Dioniso, il Dio delle forze primordiali e distruttrici. Una allegoria che può aiutare a meglio intendere la tendenza della forza dell’arte.

Ad ogni modo, attraverso la pratica artistica si può giungere a questo bivio interiore, in cui ciò che sempre ci è piaciuto fare, si esprime con la forza dei risultati artistici, ma poi, data la sua pericolosa tendenza, essa viene nuovamente messa da parte.

È probabile che tutto questo sia solo frutto della mia sensibilità, e così mi piacerebbe che fosse. Magari proietto significati che non esistono. Però, mi sono chiesto un giorno se questo fosse vero, che cosa avviene nella persona che lo vive?

Vi faccio degli esempi. Mi metto nei panni di una mia tipica allieva, provo ad entrare nei suoi pensieri. Posso pensare che “creando ed ottenendo dei buoni risultati, cresce il mio entusiasmo. Può essere che questa mia attività rimanga solo un passatempo, un hobby che condivido con qualche amico ed i miei compagni di corso. Il prossimo anno farò danza, o teatro, dedicandomi in questo modo ad attività piacevoli che rendono la mia vita più godibile. Ogni tanto creo cose ‘strane’, forti, che rivelano qualcosa di più profondo. Un caso. Sono belle, ne sono orgogliosa. Ma tutto finisce qui.”

Questo è il caso tipico, che non arriva a nessun bivio, il suo vivere fila in questo modo.

Ora cerco di mettermi nei panni di quest’altra tipologia, più inquieta, e forse profonda. “Sono contenta perché sto imparando molte cose. Cresce il mio entusiasmo e dipingo o disegno ogni qual volta posso. Non vedo l’ora di arrivare al corso e mostrare i miei 20 elaborati. La cosa mi prende a tal punto che sento un cambiamento nella mia vita. Sento che volevo fare solo questo nella mia giornata. Una particolare energia mi prende e mi da forza. Ogni tanto creo cose “strane”,

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Perché ho rinunciato al disegno

forti, che rivelano qualcosa di più profondo. E tutto questo non so come gestirlo perché mette a scompiglio la mia vita”

Ho avuto varie allieve di questo tipo, più donne che uomini.

Come vedete le cose cambiano tra le due tipologie. Cambia il modo di vivere l’arte. Le prime integrano in qualche modo l’esperienza, le seconde hanno difficoltà a integrarla. Continuiamo il racconto dove eravamo rimasti.

“Ogni tanto creo cose ‘strane’, forti, che rivelano qualcosa di più profondo. Esse mi rimandano alla mia vita, in qualche modo mi rivelano chi sono. È come se mi ritrovassi a faccia a faccia con me stessa. Ma non sono pronta. La mia vita non è pronta. Vorrei fare l’artista, Ma non ne ho il coraggio e forse la capacità. Ma è questo che sento e non so come gestirlo.”

Non credo che insegnando una lingua straniera o ad usare la macchina, o il marketing si possano ottenere queste situazioni. Nell’arte è bene sapere che si possono verificare in diverse persone forti prese di coscienza senza che siano preparate ad affrontarle.

Certamente potevo ignorare questi effetti collaterali. Potevo dedicarmi alla mia vocazione senza curare questi casi. Ma erano frequenti, più di quanto possiate immaginare.

Non dico che mi sentissi all’altezza, ciò avvicinava il mio ruolo di insegnate d’arte alla figura dello psicologo, in cui veniva richiesto che fossi in parte anche maestro di vita, perché in quel caso la vita entrava in maniera prepotente nell’arte e viceversa.

Ma come artista capivo, molto più di quel che davo ad intendere. Nelle loro creazioni, come una sorta di sciamano che riesce a decifrare i segni e dei colori, scorgevo che cosa avveniva nel processo creativo dell’allievo a partire dalle loro opere. Non so, forse è un dono. Ma sapevo quando stava succedendo o era successo qualcosa di molto profondo ed importante nella realizzazione del disegno o della pittura.

“Guarda cosa capita a chi vuole insegnare l’arte!” Mi diceva la mia coscienza. “Ora che tu li hai portati a scoprire queste cose, li devi anche aiutare ad integrarle!”

Per etica personale non volevo immettermi nella vita profonda dei mie allievi. Non perché non sentissi che potesse anche esser utile a loro, ma era una

responsabilità che andava oltre il mio piccolo ruolo.Decisi allora che non potevo considerarmi loro

insegnante, almeno nelle forme standard. Loro erano al mio pari. Come loro avevo gli stessi problemi, non potevo di certo dargli soluzioni. A livello esistenziale ero vicino a loro, umanamente ero come loro. Anche io mi trovavo ad avere a che fare con Dioniso, e non era certo semplice conciliarlo con resto della mia vita.

Con queste persone, tuttora miei grandi amici, dovevo mostrarmi ed avvicinarmi come persona. Come amico potevo accompagnarli, perché nell’amicizia potevo sviluppare quella intimità necessaria per poter parlare e confrontarsi su queste strane complicazioni dionisiache!

Con molti di loro decisi poi di fondare l’istituto ES.TE.TRA. che studia e cerca di sviluppare la spiritualità nell’arte, in cui confluirono le cose migliori e più profonde del CUEA, aprendo così un nuovo ciclo più ampio e complesso del primo di cui vi parlerò alla fine del capitolo.

Riassumendo un insegnante d’arte, si può trovare a dove fronteggiare situazioni molto complesse e profonde proprie della materia, sta alla sua didattica, alla scuola dove insegna decidere o meno di approfittare di questa speciale intimità che si viene a creare con alcuni allievi.

Noi del CUEA sentivamo che la nostra esperienza andava in quella direzione, per questo cercammo, anche cambiando locale, di favorire questa intimità a nostro avviso necessaria affinché le persone si sentissero motivate ad esprimersi liberamente.

Integrazione delle esperienze profonde

Eravamo rimasti al bivio interiore. Attraverso l’arte si rivela, o si può rivelare una forte inadeguatezza della propria vita, che non è strutturata per vivere pienamente la propria diversità e ancor meno per esprimerla.

Per aiutare i nostri allievi a vivere senza paura questa rivelazione, occorreva creare una bella atmosfera, di fratellanza, serenità, gioco in cui potessero esprimere la propria intimità ed evitare in questo modo che essa mettesse a scompiglio la loro vita.

Si trattava in poche parole di creare le condizioni

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

necessarie affinché ciò che “stimolavamo” si potesse realmente soddisfare. Immaginate che qualcosa stuzzichi il vostro appetito, se esso poi non si soddisfacesse pienamente vi rimarrebbe sempre un certo malessere, una certa fame che potrebbe dare fastidio nelle vostre altre attività. Allo stesso modo stuzzicare la voglia di esprimersi, portando le persone a quel bivio in cui la vita non si mostra adatta, almeno in quel momento, per realizzare i propri “appetiti” artistici potrebbe rivelarsi una potenziale fonte di frustrazione.

Se una scuola d’arte per adulti, a cui molti di loro si rivolgono perché hanno una certa mortificazione dovuta alle loro passate esperienze di artisti mancati, non riuscisse a soddisfare pienamente il loro desiderio, la loro frustrazione è molto probabile che cresca, sommandosi a quella biografica.

Quindi non basta stuzzicare, ma bisogna soddisfare nel miglior modo possibile, altrimenti è meglio non mettere le persone di fronte alla loro necessità delusa.

Per integrare queste esperienze profonde si deve creare tra allievi, e con l’insegnante, un certo livello di intimità e comunicazione che possa permettere di esternare le proprie esigenze, inquietudini, o quant’altro, e poterle, così, elaborare. Questa elaborazione si ha nel condividerle, nel sapere che non sono cose che succedono solo a chi le vive, nel sapere che sono fenomeni propri dell’arte, che sono i gioielli che la vita ci regala per dimostrarci che siamo parte creativa della bellezza dell’universo.

Creare un buon “clima”Abbiamo preso in prestito questo termine, che ben

si addice per descrivere quell’atmosfera necessaria per l’espressione artistica.

Come avete potuto dedurre da quanto scrivo, fare arte è tutt’altro che una operazione meccanica e fredda. Non si tratta di un processo lineare, ma complesso, che richiede una condizione che favorisca l’apertura, la mancanza di tensioni e preoccupazioni.

Questa distensione e apertura è sempre più indispensabile a man mano che il compito richiede una maggiore partecipazione emotiva e psicologica da parte dell’allievo.

Il tutto deve essere condotto con atteggiamenti amorevoli. Ogni volta che ci rivolgiamo a loro potremo farlo pensando che sono degli incapaci, oppure dei

frustrati, oppure la nostra “quota mensile”. Loro lo sentirebbero, anche se siamo simpatici e amabili nelle forme. Ve lo posso garantire, perché quando mi sono mosso in questo modo loro non si sono aperti con me. Giustamente, direi.

Invece, se penso che sono fantastici così come si manifestano, che sono già una incredibile forma del divino, senza che ci sia bisogno di dimostrare niente a nessuno, e tanto meno a me che insegno, tutto cambia. Se penso all’atro come qualcosa di meraviglioso e che io esisto perché lui esiste, si può ottenere dal nostro rapporto qualcosa di molto speciale che va oltre qualsiasi stratagemma didattico.

È una didattica che parte da molto lontano, da una concezione dell’essere umano aperta e dignitosa. E non può essere solo un concetto, per quanto bello che sia, esso si deve in qualche modo tradurre in una sensibilità capace di trasmettersi tra le persone, al di là di ogni parola o pedagogia.

Questo almeno era il presupposto del CUEA, che nasceva dal Movimento Umanista e da questi suoi basilari concetti, nella speranza che questi si traducessero nella pratica di formazione.

Creare un buon clima, nella pratica, significava riuscire a inventare una sorta di salottino emotivo, dove gli allievi si potessero accomodare tranquillamente, in caldi e avvolgenti cuscini affettivi.

Per un buon clima ci voleva principalmente cura per la sfera emotiva, quindi attraverso il gioco e l’osservazione del rapporto tra loro, inoltre, tutto ciò si doveva accompagnare da una particolare attenzione allo spazio in cui ciò avrebbe dovuto esprimersi ed al tempo, che doveva essere sostanzialmente magico, diverso quindi da quello quotidiano, nel quale trovare un rifugio confortevole.

Nel CUEA si era cercato di costruire questo speciale clima, che oltre alla nostra didattica, era una componente che, pensavamo, ci rendesse un poco differenti dalle scuole tradizionali.

Cura della sfera emotivaDobbiamo ammettere che ci sono corsi e discipline

in cui le emozioni si possono tenere ad una certa distanza, ed altri in cui il fattore emotivo è determinante, come ad esempio nel teatro e nella musica, che pure si insegnavano al CUEA. Con questo, non voglio dire che i caratteri delle persone non si manifestino

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Perché ho rinunciato al disegno

giocando a calcio o imparando ad utilizzare un programma informatico o anche nella compilazione della dichiarazione dei redditi, ma il ruolo dell’emotività è differente. Un buon educatore, qualsiasi disciplina insegni, deve sempre tener conto degli aspetti emotivi e psicologici dei propri allievi, ma nel caso delle arti espressive si dovrebbe lavorare, non solo osservandoli e indirizzandoli nello svolgimento dei compiti, ma, soprattutto, rivolgersi allo sviluppo di questi fattori, che sono alla base dell’arte. Un persona molto tesa e preoccupata dei risultati, e si sa che quelli estetici sono tra i più difficili da ottenere, avrà sicuramente più difficoltà ad apprendere dei procedimenti tecnici, perché, come ho già scritto, la sua attenzione viene “risucchiata” dalla sua paura, distraendolo dal compito da svolgere.

Vi sono cose che si imparano per ripetizione, come un testo di una poesia, delle nozioni, ma recitare, dipingere, danzare o disegnare con passione e sentimento, lo si può fare solo se si inserisce la spina che collega la mente al proprio cuore. Ci vuole quella che comunemente viene chiamata ispirazione, condizione non necessaria, anche se auspicabile, per tante attività umane.

L’ispirazione non è altro che un contatto più profondo con se stessi, con il sacro e il poetico dentro di noi, è apertura, rilassamen-to, ampliamento delle percezioni.

Per arrivare ad essere ispirati è necessario che le emotività “grossolane” quelle più animali, come la paura, il timore, la rabbia, l’ansia, l’angoscia, ecc. cedano il passo a quelle più elevate come la pace, l’allegria, la gioia, il benessere, l’apertura poetica, ecc.. L’unico modo veramente efficace che abbiamo sperimentato è quello di alleggerire, di ironizzare, insomma, di prendere le cose come un gioco.

Ad una delle prime visite di Giovanni Spinicchia, al CUEA mi commentò che trovava singolare il rapporto che stabilivo con gli allievi. In effetti, senza nessuna programmazione particolare, la spinta ad insegnare con rilassatezza e gioia di fare, mi ha portato negli anni ad abbattere le barriere formali con gli allievi. Sicuramente la simpatia e l’estroversione sono dei punti a favore dell’insegnamento. Anche il carisma personale di chi educa, aiuta nel gradimento per la materia. Ma devo dire che non è solamente una questione di carattere.

Infatti diversi insegnanti del CUEA, solitamente chiusi o riservati se non addirittura timidi, durante

l’ora di lezione si trasformavano. Tiravano fuori ironia, parlantina, empatia con gli altri. In qualche modo fuoriuscivano da ciò che erano nella quotidianità ed interpretavano una sorta di ruolo teatrale, il ruolo più adatto all’insegnante: l’estroverso carismatico.

È per me oggi evidente che le forme del CUEA, come il suo orientamento pedagogico, facilitavano e promuovevano questi atteggiamenti rivolti al dare piuttosto che al prendere, ma tali comportamenti non si potevano assolutamente produrre a degli accordi a tavolino, tra l’altro mai stabiliti, tra insegnati e con gli allievi.

Molti di noi nei periodi di insegnamento, si sono trovati in momenti di difficoltà personali o sono stati coinvolti in situazioni di malessere dei propri cari, ciò nonostante, siamo stati capaci di tirare fuori energie e atteggiamenti inconsueti, ed a volte del tutto inediti che non pensavano di avere.

Vi voglio raccontare di una situazione diversa ma esemplare, che mi ha fatto capire che noi siamo molto di più di ciò che crediamo o che mostriamo nella consuetudine. In adolescenza ebbi un incidente in motorino con un amico che si tranciò letteralmente il polpaccio, io che ancora svengo alla vista di un mio taglietto nel dito, reagì con grande controllo e sangue freddo, lo soccorsi e lo accompagnai all’ospedale. Quando mi dissero che era stato tutto risolto, svenni e stetti al pronto soccorso il doppio del tempo del mio amico! Allo stesso modo ho visto persone trasformarsi mentre insegnavano, il senso di responsabilità li trasformava in meglio.

Una persone sensibile e che ama insegnare non si risparmierà, gli verrà quasi naturale di giocare, alleggerire, ironizzare, si disporrà all’ascolto e si mostrerà rassicurante e saggia, perché è consapevole che, per prendere riferimento in lui, gli allievi hanno bisogno di tutto questo.

Quindi non importa se un docente sia aperto, chiuso, carismatico o chissà quale altra caratteristica comportamentale esprima in tutte le altre situazioni vitali, ciò che i miei colleghi mi hanno insegnato è che attraverso la passione per ciò che si fa e l’assunzione profonda di responsabilità nell’educare, ci si può trasformare se il fine è considerato di vitale importanza.

A facilitare questo atteggiamento “plastico” interveniva il fatto che una struttura come la nostra aveva un esplicito fine umanistico e sociale. Questa impostazione ci facilitava nello stabilire un giusto ruolo

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

tra allievo ed insegnante, e la maggior parte delle volte si riusciva a trascendere i ruoli formali, per giungere ad una relazione più profonda e umana, stabilendo, così, un contatto profondo tra persone diverse che si univano nell’amore per l’arte e per la vita.

Spesso, nei momenti in cui non era necessario il ruolo dell’insegnante, mentre si attendeva di iniziare la lezione o nella pausa intermedia o alla fine della lezione, ci si confrontava su situazioni quotidiane, esistenziali, anche molto intime e personali. L’insegnante diveniva un amico a cui rivolgere delle confidenze e viceversa. Oggi molti dei miei amici sono ex studenti del CUEA. Questi rapporti erano, inoltre, facilitati dal fatto che sempre il locale era disponibile ad altri incontri culturali extra corso, anche se la maggior parte delle persone partecipava solo alle lezioni. In questi altre occasioni di socializzazione non vi erano più insegnanti e allievi ma solo persone attirate dai valori e dallo stile del CUEA, tanto da sentirsi spinti verso un legame più profondo con gli insegnanti.

I miei allievi li abbraccio, li bacio, so delle loro situazioni personali, spesso mi incontro con loro fuori dai corsi e seminari che tengo, questo perché permetto che la stima recipro-ca che nasce tra insegnante e allievo, si possa estendere alla persona nel suo complesso e nella sua ampiezza.

Curare la sfera emotiva è stata, ed è, per me qualcosa che si è rivelata indispensabile nella mia didattica, ma mi rendo conto che essa proviene da molto più lontano, da un gusto alle relazioni che dovrebbe essere alla base di qualsiasi scuola e didattica.

Non mi è mai interessato, inoltre, che questo approccio umano portasse o creasse un “culto” dell’insegnante. Se i miei allievi fossero dei miei “fan” ciò rappresenterebbe per me un fallimento, perché significherebbe che avrei usato l’insegnamento per pormi al centro, per esibirmi, per fare il “ganzo” come si dice a Firenze. Spesso molti insegnanti, riprendendo un discorso già fatto, considerano gli allievi il proprio pubblico, esibendosi in classe, ma questo comportamento non porta ad essere dei buoni didatti. Il giusto riferimento, che è bene che gli allievi assumano nei confronti del docente, deve essere in relazione solamente a quella cura della sfera emotiva che potrei definire comportamenti nonviolenti, relativi ad un modo di confrontarsi dolce, sempre allegro,

giocoso in cui non vi è nessun dramma, anche quando si sbagliano le proporzioni o i colori, cercando sempre di guardare oltre.

Questo stile educativo che da forza al positivo, alle virtù, rasserena e apre il futuro a nuove prospettive di crescita, non può essere falso, ipocrita, formale, perché l’allievo se ne accorge. Non si può trasmettere dicendo “non ti preoccupare va tutto bene”, di fronte ad un errore, ma nel profondo pensare che invece lui “non capisce un accidente”.

L’atteggiamento ruffiano è scorretto, come pure mettere le mani sul disegno dell’altro per correggerlo, è un modo diverso per dire sempre “non capisci niente”. Quando i nostri allievi si sentivano trattati con dolcezza, sensibilità, pazienza, con competenza e professionalità, è chiaro che si sentissero attratti da quell’ambiente di cui il proprio insegnante era parte, ma questo lo si otteneva perché nessuno improvvisava e tutti gli insegnanti erano preparati tecnicamente ed umanamente.

Qualcuno potrebbe dire che in ogni corso di ogni scuola si stabiliscono rapporti umani di amicizia, ed invece no! Il nostro speciale rapporto con gli allievi si manifestava perché era parte della programmazione e della nostra preparazione, noi si faceva di tutto per incontrarci umanamente con gli allievi, nelle pause, nei diversi appuntamenti extracorso, come vedere una mostra, andare al cinema o al teatro, ma anche quando organizzavamo una serata di letture, ed tante altre attività specifiche atte volontariamente per creare questa atmosfera emotiva che portava solo vantaggi. In qualche modo cercavamo nel CUEA di creare il mondo che volevamo e che non incontravamo in vari settori dell’ambiante sociale.

Tutto questo avvertì Giovanni Spinicchia al primo nostro incontro e commentò che non ci poteva essere ambiente migliore per insegnare discipline artistiche, dato che le paure e le ansie venivano in tal modo rilassate.

Cura del GiocoCiò che caratterizza una bella emotività tra le

persone è quella complicità che si ottiene nella leggerezza del gioco. È per questo motivo che la maggior parte degli esercizi che venivano proposti nei corsi del CUEA erano strutturati come dei giochi. In particolare in tutti quei corsi che avevano una notevole parte creativa e di invenzione, come quelli di scrittura

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Perché ho rinunciato al disegno

creativa, sceneggiatura, fumetto e teatro. Rispetto ad altri corsi, che potrei definire più interpretativi che creativi, come disegno, pittura, modellato in creta, canto o chitarra, prima di permettersi di giocare era necessaria una discreta conoscenza tecnica, e quindi spingere gli allievi, e la didattica, verso queste forme giocose, risultava immobilizzante piuttosto che liberatoria. In questi corsi gli esercizi erano, dunque, più tecnici.

Ma in entrambe le sfere disciplinari va-leva lo stesso principio: se c’è divertimento questo accresce l’entusiasmo e la voglia di mettersi alla prova (tanto è un gioco!).

L’aspetto ludico in ciò che si fa, aiuta e facilita l’apertura emotiva e la costanza nella partecipazione. Se l’insegnante sa essere simpatico, brillante e trasmette il suo sapere con battute e forme giocose, gli allievi sono molto più disposti ad apprendere e riescono a memorizzare meglio le cose. L’atteggiamento serioso si deve alternare al gioco altrimenti si rischia una saturazione ed il corso diverrebbe una gita tra amici dove verrebbe meno la giusta concentrazione. Giocare sì, ma con misura e moderazione.

Quando, invece, la serietà e la solennità sono alla base dei comportamenti di un insegnate abbiamo tutti sperimentato che non coinvolge, anzi spesso genera rifiuto. È vero che se con la simpatia si cerca di compensare l’incapacità di insegnare si cade nell’opposto. Allora meglio uno più serio e onesto che uno spiritoso e truffaldino! Tra la simpatia e la conoscenza è preferibile la seconda, ma se si riesce a creare un connubio tra conoscenza e allegria, il gioco è fatto: tutti gli allievi saranno presto conquistati.

Un buon insegnante deve curare quel “carisma simpatico”, altrimenti tutto gli sfugge di mano. Il carisma di cui parliamo non è quello ipnotico che solo alcuni personaggi hanno, si può conquistare gli allievi in tanti modi attraverso la pazienza, la preparazione, la simpatia, la comunicazione diretta, anche con il modo di vestire. Per questo ho commentato che ci sono professori carismatici anche se non sono persone carismatiche.

Nella didattica dell’arte il gioco è strumentale, al di là del carattere dell’insegnante. Esso dovrebbe essere sviluppato anche con l’ottica professionale, certamente infilarcelo dappertutto non ha senso, ma si può cercare di rendere i propri corsi sempre più brillanti, tonici, svegli, anche se nella vita non siamo showman.

Insomma, credo che si possa sviluppare il mestiere di educatore assumendo dei ruoli appropriati, anche se questi non sono quelli consueti della vita di tutti i giorni. D’altra parte chi non “recita” nella vita diversi ruoli? Forse il nostro modo di porci è lo stesso quando siamo di fronte ai figli, o siamo nell’intimità con la nostra amante? Quindi crediamo che vi siano dei ruoli adeguati allo scopo di istruire, ed altri, invece, inadeguati.

Personalmente gioco molto sulle paure, sulle insicurezze mie e altrui. Mi mostro spesso che non so le cose, metto dubbi su ciò che ho appena affermato apertamente, poi controllo in un libro e la lezione successiva mi correggo e dico loro che la lezione precedente ho detto una inesattezza. Questo atteggiamento, contrariamente a come si potrebbe pensare, non fa perdere riferimento in me, ma al contrario accresce la loro stima. Mentire non porta mai da nessuna parte. Spero, in questo modo di trasmettere un principio fondamentale che la conoscenza non è sapere cose, ma porsi costantemente dubbi e domande senza paura di non avere risposte. La conoscenza è fatta di dubbi più che di certezze.

Gioco anche con quanto io affermo, a volte, con troppa solennità. Se mi accorgo di aver esposto dei concetto come se fossero verità assolute, cerco poi successivamente di ironizzare. In effetti mi vergogno di alcune mie rigidità. Cerco anche di ammorbidire le rigidità degli altri. Ad esempio, riguardo al senso di mancanza di autostima di cui tutti soffriamo, al momento in cui si verificano questi conflitti interni che irrigidiscono, dico spesso durante la lezione che, per chi lo desidera, solo in caso di necessità, “ho un frustino per fustigarsi, di ottima qualità che garantisce un buon livello di sofferenza”. Così trattarci male diventa una sorta di parodia autolesionista, e risulta più difficile prendersi sul serio.

Un altro gioco è lanciare una provocazione allegra, una sorta di gara a chi fa più errori, perché chi più sbaglia più cresce e questo consente di fare maggiori avanzamenti.

Ma attenzione a giocare troppo! Ed io, un poco burlone, ne ho abusato in qualche occasione. Ad esempio, bisogna porre attenzione a capire subito chi dei propri allievi è permaloso, con loro non fate mai battute, non scherzate e non ironizzate, ma al contrario scoprite il loro atteggiamento facendo i seri, essendo cupi e mesti. Insomma, enfatizzate dolcemente il loro ruoli nella speranza che essi si specchino e venga poi da loro l’esigenza di alleggerire. È un gioco a “specchio”

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

che utilizzo con certi allievi, loro si incupiscono ed io pure, loro drammatizzano ed io li seguo, sempre con soavità e rispetto, senza mai arrivare alla presa in giro. Se condotto in giusta misura, loro sentono, in questo modo, con maggiore forza il proprio ruolo come inadeguato e nella maggior parte dei casi cambiano velocemente. Il tutto avviene in quella dimensione tacita, di non detti, che è indispensabile sviluppare nella parte psicologica di ogni didattica.

Ricordo una volta un allievo che triste e costernato mi fece vedere un suo risultato grafico, definendolo come “uno schifo”. Si aspettava chiaramente che gli dicessi “ma no! Non fa schifo…”, insomma, che mi opponessi al suo giudizio. Gli chiesi, impressionato come di chi non mette in discussione ciò che l’altro afferma, di chiarire un tale giudizio, e di farmi comprendere quali erano i motivi per cui definiva schifoso il proprio disegno. Non me li seppe dire, si accorse quasi subito che lo schifo era da attribuire più ad un tono emotivo, un atteggiamento generalizzato. Era questo “clima interiore” a fargli credere che il suo disegno era brutto. Chiaramente, quando il suo fluire negativo cessò, e si mise in un atteggiamento aperto e disponibile, uscendo così da quel tono un poco rabbioso, gli dissi quali cose doveva cambiare per abbellirlo e quali erano i motivi dei suoi errori. Ascoltò con molta attenzione. Cambiò il suo disegno che appariva ora di suo gradimento e non tornò più da me con quell’atteggiamento lamentoso e vittimistico.

È chiaro che un insegnante debba rischiare in alcuni casi. Può capitare magari di non riuscire ad ottenere la relazione che ci si aspettava, magari a volte si ottiene chiusura e distacco, come successe con un allievo che dopo diverse lezioni ancora si arrabbiava se commentavo i suoi lavori. Vedevo che si alterava perché da me voleva solo che gli dicessi che va bene, bravo, i tuoi disegni sono meravigliosi! Lui chiedeva solo questo. Capii che non era lì per imparare, ma per passare un piacevole pomeriggio, amava disegnare e mi mostrava i suoi lavori con orgoglio come se mi dicesse “guarda che cosa bella ho fatto?”. Smisi di commentare i suoi lavori e mi complimentavo sempre delle cose belle che aveva fatto. La sua relazione cambiò e quando mi vedeva sorrideva compiaciuto e contento. È chiaro che gli accordi impliciti con gli allievi possono essere diversi, e che non si possa trattare tutti allo stesso modo. L’elemento importante, credo, sia al di la delle forme, di avere la sensazione che si stia contribuendo al suo benessere, il che è sempre sinonimo di crescita.

Cura del rapporto tra gli allieviCi sono discipline, alcune delle quali da noi

insegnate al CUEA, in cui il rapporto con gli altri è necessario ed indispensabile. Mi riferisco al teatro, alla danza, alla musica orchestrale, alla realizzazione di un cortometraggio o di un film.

Si ritiene, forse anche ingenuamente, che il disegno e la pittura siano arti individuali, in cui non ha importanza il rapporto con gli altri, o almeno non quanto quello con sé stessi.

Ritengo, invece, che in maniera meno evidente, il rapporto di gruppo sia una componente necessaria per creare quella complicità e spirito collettivo che rende l’apprendimento più interessante e curioso. Questi legami profondi costruiti durante tutto l’anno si evidenziano in maniera particolare nei saggi di fine anno.

In ogni corso artistico promosso da una struttura privata c’è quasi sempre, un saggio di fine anno. Questo può essere un video, una mostra, un balletto o una pubblicazione. Almeno nel CUEA, si è sempre creato un momento finale dove gli allievi potessero confrontarsi e mostrare il loro percorso di crescita ad amici e familiari.

Per certi versi è un fatto commerciale, la scuola si promuove perché non ha assicurato un continuo affluire di allievi, ma per noi questo era un significato decisamente periferico, il senso del saggio di fine anno era principalmente pedagogico.

Il saggio non poteva essere una forzatura, un obbligo, perché altrimenti avrebbe perso il suo interesse profondo. Per questo motivo durante i nove mesi di corsi, ci si assicurava di formare le persone, in modo tale che sentissero il traguardo finale, non come una forzatura o qualcosa di prematuro, ma come una naturale conseguenza dello studio.

Ricordate che vi ho raccontato che l’inizio dell’anno la maggior parte degli allievi manifestava spesso tendenze del tutto contrarie, come paura, ansie, infantilismi, bassa autostima e tutte quelle espressioni che non potremmo di certo considerare centrifughe, che spingono verso il mondo, ma al contrario contratte e di chiusura. Capirete dunque che il nostro obiettivo finale ci chiamava a lavorare in direzione opposta a quella meccanica del principio.

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Perché ho rinunciato al disegno

Per noi il saggio di fine Giugno significava costruire una sensibilità, quella di non aver timore di dedicare ad altri la propria arte, mostrare ciò che si è acquisito con piacere e divertimento, manifestandosi in una forma priva di esibizionismo e pretese estetiche, ma che fosse confidenziale e sincera, e soprattutto sentita dagli allievi.

Ottenere una tale trasformazione era possibile solo se nei mesi del corso si maturava un senso dell’arte più ampio e profondo grazie alla condivisione, per questo tutti i saggi erano vissuti come una sincera comunicazione, un punto di verifica, un momento di confronto, e soprattutto una meta che stimolava perché significava per loro un motivo in più di miglioramento.

Spesso si arrivava alla fine dell’anno scolastico, a Maggio, un poco stanchi. Si avvertiva il peso di un inverno trascorso e già albeggiava la voglia di partire per andare in ferie.

Per questo motivo era ancor più necessario rinnovare gli entusiasmi e le energie. Il saggio di fine giugno aveva questo effetto. Il saggio consisteva in due, tre giorni dedicati alle mostre di disegno, pittura, fotografia e fumetto, alla presentazione e la lettura dei racconti degli allievi di scrittura creativa e sceneggiatura. Inoltre veniva pubblicata una piccola rivista con racconti e le tavole e le illustrazioni di fumetto. Il tardo pomeriggio era il momento del saggio-concerto dei musicisti di canto e chitarra, mentre la sera avveniva la proiezione dei video realizzati dagli allievi della sezione di cinema. Il saggio era una bella festa con tante persone che si trattenevano fino alla sera partecipando alla cena, a volte anche di 150 persone.

Per noi insegnanti era una faticaccia ma sicuramente ne è sempre valsa la pena perché questo consentiva agli allievi di “guardare” il frutto della loro esperienza di formazione.

Non è la stessa cosa fare un saggio o non farlo, perché in questa occasione si rivela il talento nascosto di chi inizia questo piccolo viaggio non sapendo o non credendo di averne. Senza questo momento finale non si compie la sintesi, non ci si accorge del proprio percorso e dei risultati estetici, spirituali ed umani che si sono compiuti.

Il saggio finale consente di cogliere il senso del processo di crescita che non si avverte durante l’anno. Durante l’anno si procede per gradi e per passi e solitamente la stima di sé stessi è sempre molto

bassa. Questo si deve al fatto che tutti i principianti commettono molti errori ed è facile buttarsi giù. Ma anche avvengono molte e belle conquiste, ma gli errori e il negativo risaltano sempre rispetto a ciò che è buono. Il nostro affezionato pessimismo ci porta ad avere una visuale del nostro lavoro sempre riduttiva e negativa. Inoltre, durante l’anno, mancava una visione complessiva dell’avanzamento perché ogni lezione è distinta e separata dalle altre. Il saggio finale consente di vedere in maniera distaccata, e in uno spazio-tempo ridotto, la sequenza il lavoro svolto.

Tutto ciò portava sempre a sperimentare una vera e propria sorpresa rispetto a se stessi, un eureka!, che altrimenti era impos-sibile ottenere.

Il fenomeno può essere così interpretato. Se ci ponessimo a guardare un film in un anno, osservando 100 fotogrammi al giorno non arriveremo a comprendere la storia, ne avremo una sensazione ed una percezione rarefatta e distorta, ma se avessimo poi la possibilità di vedere in fila tutti i fotogrammi, come avviene quando guardiamo un film, è probabile che molti contenuti nuovi possano apparire. Allo stesso modo il saggio di fine anno consente una percezione compatta e logica del proprio lavoro.

Voglio portarvi un esempio concreto di questo fenomeno. Un anno, una persona abbastanza “distratta”, arrivò verso la fine del corso con la netta sensazione di non aver fatto niente, e credeva di avere realizzato niente di buono. Durante i giorni della preparazione della mostra espose i suoi tre lavori, li guardò soffermandosi su di essi in diversi momenti, ma non riusciva a valorizzarli. Venne il giorno del saggio. I suoi tre dipinti ebbero moltissime approvazioni, destarono interesse e stima. Molte persone, sorprese di tali risultati estetici, gli chiesero come avesse fatto a realizzarli! Alla fine della serata lei e tutti gli altri suoi compagni, erano come esaltati! Mi dissero che solo allora avevano avuto la chiara sensazione che ciò che avevano realizzato in sole 36 lezioni aveva dell’incredibile, soprattutto ponendo gli ultimi lavori in confronto al loro livello di partenza.

Quando i nostri allievi arrivavano ad avere questo riconoscimento del loro lavoro, per noi si poteva dire concluso il processo di formazione!

Il rapporto tra allievi aveva una grande importanza per noi, e per esprimersi in questo modo nei saggi di

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fine anno, era indispensabile stimolare uno stile di relazioni, che potesse orientare l’interazione e rapporti tra gli allievi, durante tutto l’anno. Lo stile era quello delle relazioni nonviolente.

Ma vediamo come solitamente si danno le relazioni nei gruppi umani all’interno delle scuole e delle classi. Dalle nostre e altrui esperienze avevamo notato che spesso la competizione, il prestigio e l’ipocrisia erano diventati normali aspetti delle relazioni che si instaurano all’interno di molte classi nelle scuole statali e private. A noi era chiaro che quella era una terribile conseguenza di una didattica che adotta la politica dei premi e delle punizioni. Ad esempio, per paura dei cattivi voti non si potrà mai distinguere se l’allievo ha lavorato mosso dalla voglia di conquistare una conoscenza sincera e profonda o, come contrariamente avviene, mosso dal timore studia solo superficialmente.

Non siamo stati educati a studiare per noi stessi, ma, ahimè, per gli altri!

A noi era chiaro fin dal principio che questo sistema didattico non lo si poteva mantenere nella nostra scuola. Tantomeno in una scuola privata come la nostra - anche se molte lo adottano - perché alla base delle scelte che portavano le persone adulte ad iscriversi da noi, come abbiamo scoperto ben presto, c’era una motivazione intimamente personale. È quindi principalmente in relazione a se stessi e al piacere di creare, che decidono di iscriversi, e non certamente per ottenere un voto, un pezzo di carta, una professione. I nostri erano corsi per amatori, ovvero amanti dell’arte.

Immaginatevi inadeguatezza di un simile metodo, basato sui premi e punizioni, nelle scuole per amatori! Non solo è dannoso, ma è totalmente inutile. Eppure ancora esistono scuole per adulti che danno voti e attestati, e che quindi influenzano, in qualche modo, la loro didattica verso quel fine così rozzo e inadeguato.

Per questo motivo ci è sembrato molto più interessante educare all’auto valutazione e all’auto apprendimento, ossia trasferire nell’allievo dei minimi strumenti per potersi orientare senza la necessità del maestro, diminuendone sempre più l’importanza fino a quando la sua figura non scompare e la persona ripone soprattutto in sé stessa il fulcro delle proprie decisioni artistiche. Si tratta di aiutare i discenti a prendere in mano le redini del gioco.

Questo metodo che valorizza l’indipendenza individuale, può sembrare distante dalle dinamiche

di gruppo, invece è l’elemento che determina sostanzialmente il sistema di relazioni. Infatti, se si adotta questa linea di pensiero, al posto della competizione si instaura la collaborazione o la stima reciproca dei compagni, perché la maggior parte degli insegnamenti deriverà dalla singole scoperte, dalle particolari soluzioni che ogni allievo ha trovato. I riferimenti educativi saranno così distribuiti tra docente e compagni. Essi si scambieranno complimenti sinceri, e quando alcuni otterranno significativi risultati, gli altri saranno mossi dalla voglia di raggiungerli. Se una sera uno di loro eseguiva un buon disegno, i compagni erano spinti al fargli tante domande su cosa gli fosse successo, per scoprire in questo modo, elementi che potessero essere utili all’intera classe. In sintesi, saranno mossi dalla curiosità per l’altro piuttosto che dall’invidia.

In tutti questi anni, a parte alcuni rarissimi casi, l’insieme della classe è sempre stata motivo di stimolo per il singolo. Gli altri consentivano all’individuo di ritrovarsi, di riconoscere sé stesso, e questo genera un particolare entusiasmo in cui è naturale che si creino vincoli di amicizia. Devo dire che diverse amicizie che si sono andate costruendo al CUEA si sono andate rafforzando nel tempo e sono vive ancora oggi.

Posso dire che nella didattica del disegno e della pittura non vi sono delle vere e proprie forme di collaborazione diretta tra allievi, come lo era nel teatro o nella danza, come ad esempio potrebbero essere fare un disegno o una pittura collettiva, ma l’unione tra loro avviene per una naturale tendenza al condividere, insita in ogni essere umano.

Nel disegno ognuno è, correttamente, concentrato a trovare una propria entità, una propria forma, ma questa definizione di sé stessi si va configurando non solo a partire dalla comparazione dei propri lavori nel tempo, quindi osservando cosa succede nel suo processo di crescita, ma, e questo è notevolmente diverso a come si crede, ciò che li fa avanzare è il confronto coi propri compagni e, in misura decisamente minore, con gli esempi tratti dalla storia dell’arte.

Nessuno vive isolato, dunque, e l’influenza e la partecipazione degli altri nella propria formazione risulta un fattore moltiplicativo.

Se si adotta una didattica nonviolenta, di non competizione con gli altri e soprattutto con sé stessi, gran parte dell’attenzione si rivolge al lavoro, alla qualità dei compiti, ed in parte ad osservare cosa succede, con curiosità e profondità, agli altri suoi

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Perché ho rinunciato al disegno

compagni. La moltiplicazione avviene perché negli altri vede possibilità espressive e strategiche differenti dalla sua, vede che ci sono mille modi di disegnare una stessa bottiglia. Ciò non vuol dire che cerchi di emularli spinto da chissà quale ansiosa e schizofrenica ricerca della perfezione. Può essere enormemente soddisfatto del suo stile e ed è per questo motivo che non vede i disegni degli altri come modelli da seguire. Ciò avviene nell’invidioso, invece, che sente quegli altri modi di esprimersi come nemici perché vorrebbe essere il migliore. Ma nella pace delle relazioni questi modi diversi di esprimersi sono ricchezza, ed è grazie a questa diversità che l’individuo affina il suo stile. Lo stile personale, grazie a questa modalità, ha la possibilità di crescere per differenze, per confronti sani e profondi. Non si tratta di emulazione ma di moltiplicazione della visione individuale e della consapevolezza che si ha del proprio lavoro.

Vi ho raccontato dei saggi di fine anno e della didattica nonviolenta e collaborativa, ma c’è, un ultimo un fattore che aiuta le relazioni tra allievi. Si tratta di qualcosa di non usuale che definisco azione di forma.

L’azione di forma non procede insegnando qualcosa o concetti, non si tratta di trasmet-tere attraverso i canali concettuali, ma come per il “buon clima” di cui si parlava, di creare delle modalità, o forme, alle quali gli allievi vanno adattandosi armoniosamente.

Per questo motivo il creare delle buone relazioni nella classe dipende, non solo dalle didattiche e dalle procedure di apprendimento, ma soprattutto dall’insegnante che si pone in una certa forma di relazione fin dal principio. Se è rigido e distante, se non approfondisce la conoscenza umana dei propri allievi anche l’insieme acquisirà in qualche modo quelle forme fredde e distaccate.

Prima si è parlato di questi elementi da un altro punto di vista. Del carisma dell’insegnante, della sua efficacia, del rapporto coi singoli allievi, ecc. ma non delle relazioni di classe. Di tutte le relazioni che si svolgono dentro quella forma, che come un ambito fisico di cui parleremo dopo, contiene ed influenza, dando ad esempio ritmo e tono emotivo, a tutto ciò che si svolge nel suo interno. Al contrario di quanto prima esposto, vorrei farvi notare che si tratta di una azione indiretta, e spesso impercettibile, che agisce

senza che la si veda agire.Una azione di forma è ad esempio quella del buon

clima, o di un buono spazio, che contribuiscono a creare un ambiente caldo, piacevole, rilassato, dove si scherza, si fanno delle battute, si ironizza, si parla apertamente di ciò che ci succede, si ammettono i propri errori, e ci si mostra per quello che si è, evitando forzarsi di apparire per come non siamo. Questo era per noi l’ambiente migliore per avanzare nella crescita artistica unitamente alla crescita della persona.

Questa “forma”, per continuare ad esemplificare, è diversa da quella di una azienda, della famiglia, degli amici. È un luogo in cui ci si confida e ci si apre. Anche l’insegnante, quindi, nei suoi modi particolari di porsi, agisce a dare volume o piattezza, luce o buio, colore o grigiore a quella forma.

Quando venivano allievi nuovi, inserendosi anche uno o due mesi dall’inizio dei corsi, essi entravano in una forma di relazioni già costruita. Tra me e gli altri allievi già c’era una certa simpatia, sintonia, ecc.. Se io trattavo il nuovo venuto, come tutti gli altri compagni solitamente facevano, come un estraneo a quel che già si era creato, lui avrebbe sofferto del suo entrare in ritardo. Questo è molto importante, perché già si trova nelle condizioni psicologiche sfavorevoli di partenza rispetto al programma del corso, a cui si aggiungeva il senso di estraneità relazionale. Poteva dunque verificarsi una certa possibilità di “rimbalzo”, se vogliamo definirlo in questo modo, che poteva mettere a disagio il nuovo arrivato. Quindi, io per primo, non lo trattavo come uno nuovo creando in questo modo un’azione di forma. Se agli altri compagni già li abbracciavo, per fare un esempio, o gli rivolgevo battute complici, anche con lui, in maniera più soft ed indagatrice, mettevo la stessa forma fin dal primo minuto. Questo atteggiamento non è diverso da quando conosciamo nuove persone e li trattiamo come se fossero dei vecchi amici. Capita anche quando ci introduciamo in alcuni ambienti familiari così dolci ed inclusivi che ti sembrano da subito “la tua famiglia”.

Se attuavo sul momento questa forma, anche gli altri lo includevano da subito. Se non la mettevo, e mi è capitato, poteva farlo un altro allievo, certamente, ma era decisamente meno probabile, e non avrebbe avuto lo stesso significato, perché un insegnante è come un direttore d’orchestra e la sua autorità ha una maggiore influenza nell’insieme.

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Cura dello spazioIl buon clima si deve anche all’ascendente che hanno

l’organizzazione e strutturazione dello spazio in cui si svolgono le lezioni.

Come si può essere rilassati e aperti in certi luoghi freddi, duri, pomposi, o che magari riflettono una certa aggressività o un senso di potenza e di potere di chi li ha costruiti?

Dato che l’ambiente di lavoro, influenza notevolmente le attività svolte al suo interno, è indispensabile che esso rispecchi tutte le caratteristiche che abbiamo chiamato “buon clima”.

Gli architetti di un tempo lo sapevano bene, e oltre a progettare uno spazio per assolvere a delle esigenze pratiche, lo costruivano anche in funzione delle esigenze estetiche e spirituali, come risulta evidente nell’architettura sacra. Il luogo in cui si studia e si crea sembra un argomento secondario in una scuola rispetto agli strumenti e alle attrezzature, ma non lo è. Non basta una stanza qualsiasi con un tavolo e le sedie, come noi avevamo nelle nostre scuole.

Per disegnare e dipingere sarebbe opportuno avere a disposizione uno spazio ampio dove si possa usufruire di una parete in cui appendere dei grandi fogli o tele. L’ambiente dovrebbe essere caldo e sereno, luminoso, ma soprattutto “sacro”. Sacro perché è un luogo di concentrazione, di espressione e di esperienza profonda. Un luogo da tenere distinto dagli altri dove si mangia, si dorme e si legge. Non sottovalutate l’apporto creativo che può avere uno spazio dedicato all’espressione, se ben costruito agirà positivamente su di voi. In un luogo così curato, ci verrà voglia, quasi automaticamente, di creare. Esso porta entusiasmo ed invenzione, allo stesso modo in cui quando siamo all’interno di una cucina rilassante e comoda, sentiamo che questo luogo stimola il desiderio di mangiare o, in una riposante stanza da letto, di dormire. Allestire adeguatamente uno spazio fisico aiuta a conquistare quello spazio mentale necessario alla creazione, ben più complesso e difficile da ritagliare al giorno ripetitivo e automatico.

All’interno del CUEA il locale dei corsi non era suddiviso in delle stanze isolate, come solitamente è in una scuola, ma c’erano delle stanze di passaggio. Questo, che poteva sembrare un deficit, invece nello stile della scuola diventava una virtù, perché si interpretava lo

spazio come un luogo aperto. Certamente chi passava da una stanza ad un’altra vedendo gli altri che disegnavano o dipingevano, lo faceva con attenzione e il giusto silenzio, ma allo stesso tempo vedeva come i quadri o i disegni evolvevano, vedeva come si organizzavano gli altri corsi, si incuriosiva delle altre arti.

Nella stanza di passaggio venivano svolti tutti i corsi manuali: disegno, pittura, modellato in creta, fumetto e teatro. Mentre nelle altre stanze, a sinistra, che davano su quella principale di passaggio, si svolgevano i corsi di scrittura creativa, riprese video e montaggio, sceneggiatura e composizione. Infine tutti gli altri corsi di musica, in un’altra sala insonorizzata, che stava al lato destro. Questa particolare organizzazione degli spazi faceva sì che il lavoro della scuola circolasse, come una sorta di linfa vitale, tra tutti gli allievi che si incontravano, soprattutto nella pausa.

Per evitare un sovraccarico di informazioni si decise di spezzare le tre ore circa di lezione con una pausa. La pausa era programmata, più o meno come gli orari di ingresso e uscita dei corsi, in sincronia con gli altri corsi. In questo quarto d’ora di stacco, gli allievi si ritrovavano in uno spazio che chiamammo “Caffè dei Pazzi”, angolo in cui si poteva prendere un caffè, un tè, un barretta di cioccolato, un pacchetto di crackers. In queste pause si creava un breve momento in cui le persone potevano dirsi cosa facevano nella vita, come era andata la giornata, confrontarsi sulle difficoltà, ecc..

Sono nate molte amicizie all’interno del CUEA, forse proprio perché noi si favoriva lo scambio, la curiosità e il genuino interesse per il lavoro degli altri corsi. Molti allievi infatti mi testimoniavano che la sera, anche se stanchi, si rigeneravano in quell’ambiente caldo e umano e tanti di loro, hanno espresso il loro dispiacere per la chiusura della scuola avvenuta nel 1996.

Vorrei adesso parlarvi di un fattore tempo nella didattica dei corsi d’arte, considerato da pochissimi o nessuno, forse proprio perché bizzarro e sfuggevole, come è d’altronde sempre il tempo. Per farlo, ho però necessità di portarvi da un’altra parte, dal quale poi osservare quanto ho da testimoniare, e poterlo comprendere in profondità, almeno mi auguro di riuscirci con questo giro largo!

Cura del tempoUn indigeno delle isole Samoa il capo Tuiavii

di Tiavea fu invitato alla fine dell’800 a Londra per conoscere la nostra civiltà. Al suo ritorno alle isole

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Perché ho rinunciato al disegno

Samoa raccontò ai suoi conterranei del suo viaggio nelle terre dell’uomo bianco e chiamava Papalagi. La sua descrizione della società londinese è qualcosa di straordinario.

Consigliamo vivamente la lettura di tale libretto, Papalagi, edito da Stampa Alternativa nell’edizione che allora si chiamava Millelire, e che oggi è diventata di 2 euro. Il capo Tuiavii raccontava così il nostro rapporto col tempo, ed è appunto questa visione estranea che ci porterà a trattare poi il nostro argomento.

Il Papalagi non ha tempo.Il Papalagi è sempre scontento del tempo che ha a disposizione, e accusa il Grande Spirito di non avergliene dato di più. Bestemmia contro Dio e la sua grande saggezza dividendo e ridividendo ogni nuovo giorno secondo un piano preciso. Lo spezza proprio come si farebbe conuna noce di cocco servendosi di un coltello da boscaglia.Tutte le parti hanno un nome preciso: secondi, minuti, ore.Il secondo è più piccolo del minuto, che è più piccolo dell’ora; tutti insieme fanno un’ora, e sono necessari sessanta minuti, e ancora più secondi, per arrivare a un’ora.Questa è una cosa che ho assimilato male, che non ho mai capito bene, perché mi fa star male pensare più del necessario a cose così infantili. Il Papalagi fa di questo un gran sapere. Gli uomini, le donne e i bambini stessi, che ancora non si reggono sulle loro gambe, portano nei loro panni una piccola e piatta macchina rotonda, che pende sul collo legata a spesse catene di metallo, oppure è allacciata al polso con strisce di pelle, dalla quale sanno leggere il tempo. Questa lettura non è facile. Si fanno esercitare i bambini, tenendo la macchinetta vicino all’orecchio per farli divertire.Queste macchine, che si possono portare facilmente su due dita tese, assomigliano al loro interno alle macchine che sono dentro la pancia delle grandi navi, che voi tutti conoscete. Ci sono però anche grandi e pesanti macchine del tempo che stanno ritte all’interno delle capanne o che pendono dall’estremità più alta delle case, perché possano essere viste da lontano. Quindi dopo che è passata una parte del tempo, due piccole dita che sono all’esterno lo segnalano, e contemporaneamente la macchina manda un urlo, e uno spirito colpisce il ferro che è nel suo cuore.Proprio così, in una città europea quando una parte del tempo è trascorsa c’è un fragore violento.Quando risuona questo rumore del tempo il Papalagi si lamenta: «È duro pensare che è passata un’altra ora». Fa poi una faccia triste, come chi debba sopportare una gran pena, anche se arriva subito un’ora tutta fresca.Non ho mai compreso tutto questo, posso solo pensare che si tratti

di una grave malattia. «Il tempo mi sfugge», «II tempo galoppa come un cavallo!», «Datemi un po’ di tempo!», questi sono i lamenti dell’uomo bianco.Dico che questa deve essere una malattia, perché, se anche il Bianco ha voglia di fare qualcosa che in cuor suo desidera, per esempio stare al sole o andare sul fiume in barca, oppure amare la sua ragazza, guasta quasi sempre il suo piacere fissandosi sul pensiero: «Non mi rimanetempo per essere contento». Il tempo ci sarebbe, ma lui anche con la migliore volontà non riesce a vederlo. Parla di mille cose che gli rubano il tempo, si piega imbronciato e scontento su un lavoro che non ha voglia di fare, che non gli da nessuna gioia e al quale non lo obbliga nessuno tranne lui stesso. Se però improvvisamente si accorge di avere tempo, che ne ha a disposizione, o se un altro gli da del tempo - i Papalagi si danno reciprocamente tempo in molte maniere: niente viene tanto stimato quanto questa attività - allora gli manca nuovamente la voglia, o è stanco per il lavoro fatto senza gioia. E di regola vuole fare il giorno dopo ciò per cui avrebbe tempo quello stesso giorno.Ci sono Papalagi che sostengono di non avere mai tempo. Corrono freneticamente qua e là, come se fossero posseduti dal demonio, e ovunque vadano fanno del male e creano spavento perché hanno perso il loro tempo.Questa ossessione è uno stato tremendo, una malattia che nessun uomo della medicina può guarire, che contagia molti e porta alla rovina.

Poiché ogni Papalagi è posseduto dall’angoscia per il tempo, sa anche molto precisamente quante volte sono sorti la luna e il sole da quando ha visto per la prima volta la grande luce, e non solo lo sanno tutti gli uomini, ma anche tutte le donne e tutti i bambini, anche piccoli. E questo gioca un ruolo così importante da venir festeggiato a intervalli di tempo precisi e costanti con fiori e grandi banchetti. Spesso ho sentito come ci si sentisse in dovere di vergognarsi per me, quando mi si chiedeva l’età e io ridevo non sapendolo. «Ma devi pur sapere quanti anni hai!» dicevano, lo rimanevo in silenzio e pensavo: è meglio che non lo sappia.Sapere l’età significa sapere per quante lune si è vissuti. Questo contare e cercare di sapere è molto pericoloso, perché si sa quante lune dura la vita della maggioranza delle persone. Ognuno vi presta una grande attenzione, e quando sono passate proprio tante lune si dice: «Tra poco morirò». Non si prova più nessuna gioia e si muore veramente in poco tempo. In Europa ci sono solo poche persone che hanno veramente tempo. Forse non ce n’è proprio nessuna. Per questo la maggior parte di loro corrono attraverso la vita come un sasso che sia stato lanciato. Quasi tutti camminano guardando per terra e agitando le braccia per procedere il più velocemente possibile. Quando qualcuno li

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

ferma dicono irritati: «Perché mi devi disturbare, non ho tempo, cerca di sfruttare bene il tuo». Si comportano proprio come se chi è più veloce valesse di più e fosse più valoroso di chi procede lentamente. Ho visto un uomo mettersi le mani tra i capelli, digrignare i denti e strabuzzare gli occhi come un pesce agonizzante, diventare rosso e verde e sbattere mani e piedi, perché il suo servitore era arrivato più tardi di un soffio. Il soffio era per lui una grande perdita, irreparabile. Il servitore fu costretto a lasciare la capanna, il Papalagi lo cacciò e gli gridò: «Mi hai rubato tempo abbastanza. Chi non rispetta il tempo, non ne è degno». Solo una volta ho incontrato un uomo che aveva molto tempo e non si lamentava mai per la sua mancanza; ma quest’uomo era povero, sporco e abbandonato. La gente si teneva alla larga da lui e nessuno lo rispettava. Non riuscivo a comprendere un tale comportamento: camminava senza fretta e i suoi occhi sorridevano in modo tranquillo e amichevole. Quando lo chiesi a lui la sua espressione si alterò e disse tristemente: «Non ho saputo mai utilizzare il mio tempo e per questo sono una povera nullità disprezzata da tutti». Quest’uomo aveva tempo ma neanche lui era felice.

Il Papalagi dedica tutte le sue forze e i suoi pensieri a trovare il modo di rendere sempre più pieno il tempo. Utilizza l’acqua e il fuoco, la tempesta, i lampi del cielo per trattenere il tempo. Costruisce ruote di ferro per i suoi piedi e da ali alle sue parole per avere più tempo. E perché tutta questa gran fatica? Cosa fa il Papalagi con il suo tempo? Non l’ho mai capito veramente, anche se parla e gesticola come se il Grande Spirito lo avesse invitato a un ricevimento. Credo che il tempo gli sgusci via come un serpente tra le mani umide, proprio perché lo tiene troppo stretto a sé. Non gli lascia il modo di riprendersi. Gli corre dietro dandogli la caccia tendendo le mani, non gli concede alcuna sosta perché possa stendersi al sole. Il tempo deve stargli sempre vicino, deve cantargli e dirgli qualcosa. Il tempo però è quieto e pacifico, ama la tranquillità e starsene disteso su una stuoia.

Il Papalagi non ha compreso il tempo, non lo capisce, e lo maltratta con i suoi rozzi costumi. Cari fratelli! Non ci siamo mai lamentati per il tempo, lo abbiamo amato così come è venuto, non gli siamo mai corsi dietro, non lo abbiamo mai voluto concentrare o dilatare. Non è stato mai per noi motivo di disagio o fastidio. Si faccia avanti chi tra noi non ha tempo! Tutti noi abbiamo tempo in gran quantità; e siamo soddisfatti del tempo che abbiamo, non abbiamo bisogno di più tempo di quanto ne abbiamo e comunque ne abbiamo abbastanza. Sappiamo che arriviamo sempre in tempo ai nostri obiettivi e che il Grande Spirito ci chiama a lui secondo la sua volontà, anche se

non conosciamo il numero delle nostre lune. Dobbiamo liberare il povero, il confuso Papalagi dalla follia, dobbiamo distruggergli la sua piccola macchina del tempo rotonda e annunciargli che dall’alba al tramonto c’è molto più tempo di quanto un uomo possa avere bisogno.

É chiaro che il nostro rapporto col tempo è in relazione ad un meccanismo frenetico in cui siamo coinvolti nostro malgrado. Cosa centri tutto questo con l’arte è affare che non si può comprendere se minimamente non si è sperimentato cosa avviene nella creazione. Ma siccome tutti noi, almeno da piccini, abbiamo creato, dipinto, disegnato e forse recitato, non vi sarà difficile comprovare con la vostra esperienza quanto affermo.

Il tempo dell’arte, il tempo della creazione è quasi opposto al tempo della produzione frenetica nel quale siamo immersi tutta la giornata. Quindi, per dedicarsi ad una qual-siasi disciplina artistica esso dovrà essere modificato.

Il tempo dell’arte, diceva Garcia Marquez, va al passo di mulo!

Se condividete quanto detto, è chiaro che oltre al buon clima, alla didattica “forte”, e a tutte quelle cose che abbiamo cercato di sviluppare nel CUEA, vi era bisogno di un tempo o ritmo adeguato. E ovvio che per avanzare nel disegno, come in qualsiasi altra conoscenza occorre dedicargli del tempo, ma pur sempre si ragiona in termini di quantità. Non occorre solo un numero di ore, di quantità di tempo, ma soprattutto occorre un tempo qualitativamente sereno e fortemente vissuto. E questo lo si conquisterà a man mano che cresce in noi l’entusiasmo, a man mano che superiamo limiti e difficoltà.

Suggerisco, quindi, di non entrare assolutamente in conflitto con il resto delle altre occupazioni, ma è più indicato far sì che questo tempo sia una conquista di passione, in cui la gioia che sorgerà nel dedicarsi a disegnare possa a poco a poco dare la forza ed il piacere di restare delle ore a svolgere quel compito. Così, in maniera molto naturale, i discenti si ritrovano a dedicare a questa disciplina un tempo durante la settimana che credevano di non avere disponibile!

Come se avessero vinto dei bonus tempo che pensavano di non avere il diritto di ricevere.

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Perché ho rinunciato al disegno

Disegnare e dipingere sono attività in cui ci riprendiamo il nostro tempo. Questa tipologia di tempo è inversamente proporzionali all’ansia e alla fretta.

Il comportamento ansioso può portare a voler bruciare le tappe. A volte è sostenuto dal fatto che si crede che con la fretta si avanzi velocemente, e spinti da quest’ansia si trangugiano una infinità di argomenti, che in realtà non riusciamo ad assimilare. La nostra è la cultura della quantità e ciò influenza anche il nostro approccio allo studio. La quantità crea spesso l’illusione di avanzare, ma se ciò che si è studiato non viene assimilato profondamente, tale conoscenza svanirà o creerà dei blocchi in uno stadio avanzato dell’apprendimento. Questo fenomeno avviene perché affronteremo con presunzione tutte quelle problematiche relative ad un livello di difficoltà superiore alle nostre capacità, problematiche ci richiedono conoscenze che in realtà non abbiamo acquisito perché siamo andati dritti e spediti in precedenza. Quindi è importante comprendere che soffermarsi a fondo, senza passare a nuove problematiche fino a quando le precedenti non sono state sufficientemente comprese ed integrate, non è una perdita di tempo. La lentezza che deriva dal lavoro accurato e di qualità è una garanzia che quanto abbiamo appreso non svanisca dopo una settimana, ma soprattutto è la condizione necessaria per qualsiasi disciplina artistica.

Difatti, mi ha sempre sorpreso chi organizzava corsi di base (quelli che partivano da zero per intendersi), con una durata di tre mesi. Se la lentezza è alla base dell’insegnamento artistico, la fretta, l’efficientismo di certi corsi di base riesce veramente a far maturare chi non ha nessuna esperienza?

Nei corsi di base del CUEA spesso af-fluivano allievi da altre esperienze veloci e concentrate, fast, a volte poco gratificanti se non fallimentari. Avevano sperimentato che per certe conoscenze non esistono scorciatoie.

A chi sente che non ha tempo e vuole sapere tutto e subito, va chiarito che questo atteggiamento di forzatura lo porterà ad ottenere il contrario. Vi sono scuole che ammaliano, dando l’illusione che si possano acquisire subito (subito!), certe capacità, io credo che lo facciano perché intuiscono che questo è ciò che richiedono molte persone. Non si possono illudere le persone che certi risultati avvengano in pochi mesi, ma certamente è possibile avere delle soddisfazioni

fin dalla prima lezione, soddisfazioni che servono per dare quel senso di avanzamento concreto che aiuta i discenti ad avere l’entusiasmo a continuare. Altrimenti, questa voglia di ottenere tutto subito, porta le persone ad andarsene e questa era una sfida per una scuola privata come la nostra.

Per i corsi del CUEA si faceva questo esempio: fare delle scale musicale per 9 mesi è frustrante, meglio imparare degli accordi minimi che consentano di suonare un pezzo semplice in pochi mesi, per poi accedere a livelli più complessi e più alti, ma avendo la soddisfazione, e direi il sostegno, che qualcosa di concreto si sia stati grado di farlo da subito. Anche nel disegno si lavora per risultati graduali, che danno comunque un senso di concretezza, visibile fin dai primi esercizi, nei quali si pone l’allievo a copiare un soggetto dal vero fin dalla prima lezione, in modo tale che subito sia operativo.

Un altro quesito che spesso ci pongono gli allievi è: “quanto tempo occorre per imparare?”. Questo punto è molto importante perché va compreso che il tempo senza la pazienza non dà i suoi frutti. Il tempo per imparare non lo si può determinare a priori perché nell’apprendimento agiscono diversi fattori. Ogni persona compie un percorso di comprensione differente per lo stesso argomento. Solitamente chi lavora bene all’inizio e crea solide basi, nella fase finale si può poi permettere di accelerare. Mentre al contrario chi è stato troppo vorace, spesso si blocca nei compiti più complessi che si presentano a fine corso, e, se non ritrova la giusta umiltà, abbandona il compito non credendosi capace di risolverlo. Chiaramente un buon insegnate e un buon metodo didattico, ben strutturato come VE.RA.DI., evitano che gli allievi “si brucino” per l’ansia di voler arrivare.

La cura del tempo, noi la ottenevamo soprattutto a partire dal buon clima e dalla didattica appassionante, che facevano permanere i nostri allievi nel compito, senza l’ansia di andare avanti. Più o meno come per un bacio, o per un bell’abbraccio, il tempo si dilatava e pareva eterno, e le nostre tre ore di lezione diventavano un’oasi nel tempo meccanico. Un oasi dove ci si dimenticava dell’orologio, e dove, dentro la settimana, dentro il giorno e dentro le ore, era come se si aprisse una parentesi, una sospensione in cui la soddisfazione era tale da non avere più necessità di “altro tempo” per fare o raggiungere ciò che in quel preciso momento già avveniva e si andava manifestando.

Capitolo 4 73

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Strumenti Pedagogici “speciali”Come avete avuto occasione di constatare, questo

capitolo è in realtà un libro nel libro. Non solo per la sua lunghezza, ma soprattutto perché si tratta di raccontarvi una lunga ed intensa esperienza, che vorrebbe, come una qualsiasi storia di vita, non essere lineare ma rispecchiare in qualche modo quell’intreccio e complessità esistenziali che poco si addicono ad essere raccontate in maniera fredda e sistematica.

Non è frutto di uno studio, come potrebbero essere altri capitoli del libro, ma un racconto in cui i temi fondamentali dell’educazione agli adulti, riaffiorano costantemente in ogni parte e non si concludono ed esauriscono in un paragrafo.

Spero che questo modo di procedere, in cui si compiono dei voli circolari attorno alle stesse esperienze e concetti, possa essere di vostro gradimento, in quanto ad ogni nuovo volo gli stessi argomenti vengono osservati da punti di vista differenti, cambiando assumendo così sempre più spessore e profondità, o almeno mi auguro che questo avvenga in voi che leggete!

A tal proposito, nel paragrafo in cui vi racconto di quando i nostri allievi entrano in contatto col profondo, ho lasciato alcune cose in sospeso, che vorrei riprendere con maggiore focalizzazione nelle prossime righe.

Il fattore mistico-spiritualeIn questi anni di insegnamento artistico ho scoperto

che il fenomeno spirituale, altrimenti non saprei defi-nirlo, è un elemento intrinseco, e affatto trascurabile, nell’apprendimento. Si tratta del fenomeno in cui attra-verso la pratica artistica il discente comprende, scopre, vive, sperimenta emozioni, intuizioni e pensieri che vanno molto più in là del compito che sta svolgendo.

Un giorno un allievo mi portò un suo disegno che aveva fatto sedendosi su una collina e guardando in basso. Erano solo ed esclusivamente dei cespugli, in realtà erano solo delle chiazze chiaroscurali sul foglio. Eppure guardando quel disegno compresi che lui aveva avuto una esperienza profonda, di trascendenza rispetto ai cespugli, ed era andato oltre la dimensione materiale delle piante e ne aveva colto in qualche modo la vibrazione intensa della vita. Queste “chiazze” cespugliose vibravano ancora sul foglio come mosse dal vento o come se stessero crescendo per opera della linfa vitale, della fotosintesi.

Compresi subito la situazione e lo guardai negli occhi con un profondo senso di complicità trasmettendogli che avevo capito cosa gli era successo. Ci capimmo subito e gli chiesi se aveva disegnato solo i cespugli o se gli era successo qualcos’altro. Mi disse che si era perso, aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio, che era entrato in trance e quando si ridestò aveva finito il disegno. In fondo non sapeva se lo aveva fatto lui perché quell’esperienza di sé stesso era così diversa da come si percepiva abitualmente, e mentre disegnava si sentiva in pace con se stesso ed in armonia con quell’ambiente.

Si può insegnare ad avere questo contatto più profondo con noi stessi?

Questa è la sfida dell’Istituto ESTETRA, fondato al sciogliersi del CUEA. Diversi esperimenti mi inducono a credere, che lo si può fare, semplicemente innescando dei quesiti, delle domande, delle riflessioni più poetiche, più ampie sul senso di ciò che si fa. Perché credo che il senso dell’arte non è quello naturale della sopravvivenza del corpo e della specie, non si manifesta quando ci si trova di fronte ad un problema logico, un problema economico o materiale da affrontare, ma sembra essere una necessità spirituale di elevazione, una necessità di godimento estatico, un desiderio di esistere più in là della morte.

Non penso che si possa insegnare espressione artistica a certi livelli se si ha paura di toccare certi temi esistenziali profondi. Certamente in pratiche di base il mondo spirituale si presenta con meno frequenza, ma nei corsi di specializzazione e soprattutto di pittura, esso è quasi costantemente presente per chi lo sa cogliere e sostenere. L’arte ad un certo punto richiede l’abbandono, un abbandono che ha a che vedere con una fiducia totale, completa ed incondizionata nei confronti di tutto, di noi stessi, del mondo, dell’universo. Si può educare per creare le condizioni affinché possa avvenire questo abbandono, questo momento che precede l’ispirazione, e, se gli eventi lo vorranno, si riuscirà ad accedere a questo particolare stato di grazia mentre si disegna, si dipinge, si danza, si suona e si crea qualcosa di artistico.

Ci sono persone che pur essendosi dedicate per anni ad una disciplina artistica non sono avanzate, perché forse non hanno lavorato sul nucleo dei blocchi emotivi e psicologici, indirizzando così i loro sforzi solamente allo sviluppo della parte tecnica. L’educazione artistica è una educazione psicologica, emotiva e, a certi livelli,

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Perché ho rinunciato al disegno

soprattutto spirituale, perché i fenomeni che si vanno sperimentando sono di difficile inquadramento, se li si cerca di ridurre a dei procedimenti tecnici, per quanto complessi ed elaborati essi siano. Chi si appresta ad imparare l’arte deve essere disposto a farsi un poco sconvolgere, a farsi trasportare verso comprensioni che possono anche mettere in discussione la sua intera esistenza, e ciò si potrà verificare solo se si riesce a porci con verità senza avere il timore delle conseguenze di questo totale abbandono.

È per questo motivo che le condizioni in cui si sono date le mie prime esperienze col CUEA, si sono rivelate, in un certo punto del mio percorso, inadeguate a questi nuovi e più ampi propositi.

Eppure molte delle cose sperimentate in quella sede sono alla base della nuova didattica che ho definito dell’Arte Trascendentale, fra tutte quelle esperienze didattiche, due in particolare mi hanno spinto in quella direzione.

La disciplina interioreHo parlato dell’auto apprendimento come quel

complesso insieme di operazioni che avvengono nell’allievo e che non possono essere né trasmesse né indotte dall’insegnante. Ciò è valido per tutte le operazioni di apprendimento, ed il termine auto, sta solo a significare una necessità di differenziarle da quello che da sempre è stato definito in maniera confusa apprendimento. Si crede che si apprende grazie a delle operazioni che avvengono soprattutto “fuori” come se esse fossero contenute nell’esercizio dato. Questo modo di vedere ha detratto un certo potere all’allievo a favore della metodologia usata e dell’insegnante. In realtà la maggior parte delle operazioni avvengono “dentro”, spesso all’insaputa dello stesso allievo. Non è che certi meccanismi avvengono veramente all’insaputa dell’allievo, esso ne ha tutte le sensazioni, il problema sta nel non riconoscerle, nel non saperle vedere e decifrare, ed in questo la didattica tradizionale non ha certamente contribuito, anzi ha operato inversamente.

Di conseguenza l’apprendimento è dovuto a tutta una serie di operazioni (di cui scriverò nei futuri testi), che non possono essere guidate che non dall’operatore stesso. Ma come fa il discente a dirigere le proprie operazioni se non sa che esistono, né come si manifestano, e tantomeno, come si orientano?

Lo stesso insegnate non è consapevole del perché sa disegnare, del come apprende, del come struttura

e guida le diverse strategie psico-emotive, come può, dunque, trasmettere qualcosa che non sa?

In qualche modo è possibile che agisca anche un altro elemento, che potremmo definire di possesso o di potere. Se le persone capiscono come auto apprendere, attraverso questa comunicazione con se stessi, scompare la figura dell’insegnante perché il vero artefice della crescita è l’allievo. Se si estendesse questo atteggiamento libero e consapevole in tutte le sfere della vita si potrebbero a spezzare tutte le catene di dipendenza.

Cosicché, è difficile che in un mondo dove non si vuole la libertà delle persone, la didattica possa svilupparsi e crescere in questa direzione.

Ne convenite?

Ed è per questa struttura di pensiero condizionante che l’educazione di sé stessi è così poco sviluppata. Per accrescere una cosciente auto educazione non si tratta di conoscere dei procedimenti precodificati, ma di essere attenti osservatori di ciò che ci succede dato che le situazioni sono sempre diverse, e noi con esse, e qualsiasi procedimento mentale che sia meccanico e non dinamico risulterebbe una forzatura, o quantomeno inadeguato. Non c’è niente di più difficile che conoscere se stessi, è decisamente più facile vedere, criticare, disquisire su ciò che è esterno a noi, come ad esempio i commenti didattici o di altro tipo che si fanno ai lavori degli altri.

In tutta onestà neanche noi insegnanti ci siamo chiesti fino in fondo il motivo di certe abilità che sono forse innate, ci succedono e basta, siamo capaci e basta. Se anche avessimo colto delle caratteristiche peculiari nella nostra intimità operativa, senza una immediata documentazione, con lo scorrere del tempo ci si dimentica presto quali fossero i passi, i ragionamenti, che ci hanno portato a certe soluzioni nel disegno o nella pittura. Come anche ci siamo dimenticati delle inquietudini che hanno accompagnato tali conquiste, le nostre paure e le nostre ansie. Per cui chiediamo ai nostri allievi di compiere azioni che per primi non sappiamo come si verifichino in noi stessi, certo ne vediamo i risultati esterni, ma non ne conosciamo i meccanismi interiori. Quei meccanismi che sono stati per noi necessari per avanzare, lo sono anche per i nostri allievi.

Il rischio è quello di credere che ci siano cose

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

“evidenti”, scontate e che non hanno bisogno di spiegazioni, che basta farle vedere o narrarle per spiegarle ad altri. Quando si costruisce una pedagogia che da per scontato quali siano i meccanismi mentali dell’apprendimento, solitamente si passa subito da un tema ad un altro, con una facilità e velocità che, a pensarci bene, noi docenti abbiamo ottenuto solo grazie al lavoro di anni. Poi, quando insegniamo, chiediamo che i discenti compiano questi passi in pochi mesi con la stessa agilità.

Crediamo che un buon insegnante e un buon allievo, debbano innanzitutto domandarsi sui quei processi di apprendimento, elaborazione e sintesi che hanno agito nella loro mente, nel nostro cuore, di nascosto, tacitamente. Da taciti bisogna poi renderli espliciti, esteriorizzarli, organizzarli, ordinarli in modo tale che possano essere percorribili da altri.

Se ci osservassimo, magari scopriremo che abbiamo operato in una determinata forma, in un modo, con delle caratteristiche “interne” che non sono affatto evidenti. C’era in noi una curiosità, una necessità, una voglia di scoprire, smontare, capire, che ha fatto sì, che con i giusti esercizi, ci siamo rafforzati e siamo cresciuti.

Questo bisognerebbe forse insegnare: un atteggiamento che sia di aiuto per osser-vare e dirigere i nostri pensieri sulla forma, sull’estetica, sui contenuti, sulle modalità di percepire e di agire. Questo è ciò che intendo per disciplina interiore.

Coi metodi AS.PE.DI., VE.RA.DI. e ES.TE.TRA. si insegna, non una tecnica manuale, ma un atteggiamento mentale. L’atteggiamento è prima della tecnica. Pensare e sentire prima di agire. È forse azzardato dire che istruiamo a pensare ma è così, e lo diciamo alla presentazione di nostri corsi di disegno. Mentre in quelli di pittura è fondamentale sentire, per questo stiamo cercando di sviluppare anche un codice di apprendimento per la pittura che potrebbe chiamarsi Sentire, Vedere, Dipingere. Da sempre la pittura è stata associata al sentimento ed il disegno alla ragione, e noi possiamo confermare che i processi che intervengono sono di fatto differenti e si completano a vicenda.

Tutto questo, ovvero agire artisticamente (e non solo) con attenzione a noi stessi mentre contemporaneamente facciamo attenzione alle operazioni tecniche, che abbiamo chiamato Disciplina Interiore, è alla base della

didattica del CUEA degli ultimi anni ed è fondamento della pedagogia dell’Arte Trascendentale.

Per non dare solo indicazioni filosofiche o psicologiche vi vogliamo illustrare uno strumento pratico che noi usiamo, e che ritroverete nel libro VE.RA.DI..

Il dialogo interiorePartiamo da un presupposto: se ciò che succede

nella mente prima, durante e dopo il disegno, è determinante nei risultati grafici e psico-emotivi finali, non è indifferente osservare questo strano movimento di pensieri, che tanto si adoperano per la creazione, ad esempio, di un disegno.

Non bisogna credere che sia importante solamente guidare i ragionamenti durante l’esecuzione del compito, ciò porterebbe a credere che disegno sia solo una pratica manuale. Il candidato inizia in realtà a disegnare “mentalmente”, e lo fa prima di prendere in mano una matita: lo fa immaginando il compito, e poi guardando i modelli da disegnare. Solo dopo avere iniziato questo processo visivo e mentale di preparazione, solo dopo questa intenzione che già “lavora” prima di operare sul foglio, esso inizia a tradurre in linee ciò che vede. Lo fa grazie al ragionamento che guida la mano. Senza questo ragionamento che precede, conduce e segue l’operazione sul foglio la mano non saprebbe dove andare.

Tutto ciò è molto semplice se ci pensate, ma è sempre rimasto ai margini se non addirittura assente nella didattica del disegno come di altre discipline. È questo che ci ha condotto, Giovanni Spinicchia, prima, ed io poi a distanza di circa 40 anni, a comprendere che non si insegna a disegnare o dipingere, ma a pensare e sentire. A pensare in un certo modo, e da qui, di conseguenza, a vedere, e poi per ultimo a disegnare. Certamente poi tutte queste fasi diventano quasi simultanee e retro alimentanti, ma è opportuno distinguerle nella pedagogia in modo da educare la mente col pensiero, l’occhio con la visione e la mano con la pratica del segno.

Non finisce qui il processo, almeno non ancora. Finita la fase grafica la sua mente continua ancora ad elaborare, a riprova di questo meccanismo, molto spesso è solo dopo che ha già disegnato che capisce come doveva disegnare. Ma come! Sì, avviene proprio così. Si crede che si apprenda durante, ma il punto

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Perché ho rinunciato al disegno

in cui avviene la comprensione di tutta la fase di apprendimento- quando uno esclama “ho capito!” - avviene in quel momento fondamentale che è la valutazione dell’elaborato.

Il processo di apprendimento che parte dall’intenzione, passando dall’esplorazione o premonizione del compito, al mettersi in condizione fisica di farlo, fino all’esecuzione pratica, si concretizza solo nella fase in cui “esce” da quello stato creativo e ne può vedere i risultati. Quando è dentro lo vive, ma solo quando è fuori che lo comprende.

Ma andiamo ancora oltre, laddove si crede che non esista più nessun apprendimento, e che questo si sia concluso in classe, o durate l’esercitazione.

Abbiamo notato, senza che l’insegnate lo pretenda o ne faccia una richiesta pratica, che il candidato in ogni circostanza in cui viene a trovarsi, ossia nelle varie situazioni del suo quotidiano, pur non essendo munito di foglio e matita, automaticamente il suo pensiero osserva un qualcosa che lo incuriosisce con lo stesso atteggiamento mentale del disegnatore, del pittore, del poeta e così via. Durante questa scoperta la sua mente già elabora, si appassiona, disegna, dipinge, scrive, danza, suona, ma la cosa più sconvolgente per il nostro vecchio modo di intendere, è che lo fa senza disegnare, dipingere, scrivere, danzare e suonare.

È strano crederlo ma la sua mente si istruisce in continuazione e non solo quando esegue il compito. Anzi, diciamo che il “fare” è solo il punto centrale di una operazione che non ha limiti definiti di tempo e di spazio. Si da in una indefinitezza spazio temporale, e questo è un punto che ora non posso approfondire ma vi chiedo solamente di mettere in relazione queste ultime affermazioni con quanto scritto sulla concezione di spazio e di tempo nel CUEA.

Quindi, in classe, durate quell’esercizio, si dà e si manifesta qualcosa che è iniziato molto tempo prima e finirà quando non si sa.

Nella pratica didattica tutto questo si traduce semplicemente chiedendo e parlando di cosa succede, di cosa è successo prima, e di cosa succederà dopo. In questo modo l’allievo porta con se dei semi di consapevolezza o di attenzione durate tutta la settimana, e osserva qualcosa di più ampio, estendendo, così, la sua possibilità di apprendere.

Già prima di conoscere e sperimentare il metodo VE.RA.DI. di Giovanni Spinicchia, in cui tutto ciò è sistematizzato ed esplicitamente manifesto, si usava invitare gli allievi a porre attenzione ai pensieri prima, durante e dopo gli esercizi. L’idea era quella di stimolare la concentrazione a tutto il dispiegarsi del processo artistico. Questo “movimento” della mente lo chiamammo il Dialogo Interiore; un dialogo che ognuno ha sempre fatto tra sé e sé, un dialogo che l’allievo sostiene nella sua mente e che sempre è rimasto oscuro, anche agli stessi “dotati”, che non vedevano come il fluire di certi ragionamenti fosse determinante per giungere a certi risultati artistici e tecnici.

Scoprii questo meccanismo quando al CUEA iniziarono i corsi di teatro, in effetti l’attore si prepara moltissimo prima di recitare, di entrare inscena, di fare arte. Esso compie tutta una serie di esercizi, meditazioni e sviluppa la concentrazione e ciò che noi vediamo in un’ora è frutto di mesi di lavoro. Iniziai a osservarmi mentre disegnavo e dipingevo e vidi che dare spazio a diverse operazioni di preparazione mi facilitava nel compito. Come mai non ci avevo mai pensato prima! Ora la didattica di ES.TE.TRA. consta di molte esercitazioni ante-creative che predispongono gli allievi a compiere al massimo dell’energia, o concentrazione, i loro disegni e pitture.

Grazie all’incontro con VE.RA.DI. abbiamo compreso che l’esito di un disegno corretto si consegue fin dai primi ragionamenti, come il buon giorno si vede dal mattino. La didattica VE.RA.DI. agisce sulla mente, perché è dalla qualità e tipologia dei comportamenti psico-emotivi, che la mano di conseguenza agisce: quindi è chiaro che non è la mano va corretta, ma la mente, sono il pensiero ed il ragionamento che vanno guidati verso una precisa modalità che consentirà di avanzare.

I pensieri “nocivi” che precedono il disegno (e che poi ne compromettono il risultato o lo rendono più difficile di quel che è), sono composti da tutte quelle immaginazioni ansiose dovute alle aspettative estetiche. Partire con l’idea di fare un “bel disegno”, è secondo Giovanni Spinichhia - e da me comprovato - la maggiore fonte di ansia a sua volta generata dalla paura di sbagliare. Chiaramente essi, a loro volta, derivano da un sentimento più ampio e diffuso che possiamo identificare con la mancanza di fiducia nelle proprie capacità.

Tutti questi atteggiamenti sono comprensibili e

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

hanno le loro motivazioni. Quindi nella nostra didattica non si cerca né di contrastarli e né di mettersi in nessun modo in conflitto con essi, perché nella lotta si ottiene solo un aumento di tensione.

Si possono riconoscere, quindi , specifici comportamenti sia mentali che esecutivi, a cui bisognerà dare una risposta pedagogica. Li riportiamo sinteticamente2:• convinzione o pregiudizio di non saper disegnare• credere che il soggetto da copiare non vada bene• paura di commettere errori• che sia un problema il non saper usare i medium

(matita, pennarelli, ecc.)• eccessiva velocità di esecuzione del disegno• sguardo assorbito più dal foglio e dal segno che dal

riferimento reale• pensiero distratto da una serie di divagazioni personali

e di tutto rispetto ma che nulla hanno a che fare con il compito proposto

• ridurre a poche linee la realtà la quale era composta di maggiore complessità

Questi sono i maggiori comportamenti mentali che vanno educati unitamente agli errori tipici del disegno (mancanza di linee, di forme, inclinazioni, proporzioni, ecc.).

Per rasserenare il candidato abbiamo già commentato che in VE.RA.DI. usiamo mezzi semplici, oggetti e forme facili e minime, cercando di dosare con un giusto grado di distribuzione, i compiti, in modo da porre in progressione le difficoltà, ma in particolare diciamo loro cosa essi stanno pensando, in quelli che chiamiamo Dialoghi Interiori. Ovvero gli facciamo presente alcuni pensieri che è molto probabile che il candidato sperimenterà. Evidenziandoli, avrà la possibilità di

vederli agire, e potrà accumulare quella esperienza che gli consentirà di dirigerli correttamente, ad esempio, muovendo in altre direzioni la propria attenzione, non alle ansie, insicurezze e paure, ma alle linee, alle forme, alle proporzioni, ecc..

Così facendo lui inizierà ad apprendere come dialogare con queste ansie, con questi “personaggi” o “voci” interiori. Operazione, questa, che sarebbe impossibile fare a partire da una operazione esterna, da parte del tutore ad esempio. A questo punto spero risulti chiarissimo, che apprendere richiede la manipolazione di vissuti per la maggior parte osservabili e educabili da “dentro” e quindi di responsabilità, quasi esclusiva, dell’allievo.

Per concludere, non pensiate che l’orientamento attento di questi vissuti psico-emotivi non sia più necessario, perché essi, col tempo, scompaiano. L’attore esperto di teatro continua a testimoniare che prima di salire sul palco ha timore come la prima volta, solo che ora, e questo lo aggiungiamo noi, sa come usarlo a suo favore, come controllarlo e superarlo.

Il Dialogo Interiore non ha l’obbiettivo di zittire, o risolvere certi giochi di forza, non ha dunque nessun obiettivo terapeutico, ma quello di capacitare i nostri allievi a saper orientare la propria intenzione creativa, ora rilassandosi e facendo silenzio, ora sfruttando certe forze per dare energia alle proprie creazioni, ma mai comunque, quella di negare o entrare in conflitto con la loro complessità, che sperimentiamo in tutte le nostre azioni.

Saper condurre il Dialogo Interiore con-sente, quindi, di tramutare in ricchezza tutto ciò che prima era solo impedimento.

Come sopravvive una scuola privataIn questa seconda parte del capitolo, seconda

perché tratterò argomenti non solo didattici, vorrei parlarvi di quelle condizioni organizzative e strutturali che hanno permesso ed influito nella nostra didattica. Questi avvenimenti e condizioni hanno influito sulla scuola, in forma diversa ma non minore rispetto a ciò che fino ad ora abbiamo raccontato, che era soprattutto inerente ai corsi e all’esperienza di insegnamento.

Credo sia molto significativo, e forse anche opportuno e in qualche modo appassionate, raccontarvi quale fosse la particolare condizione sociale in cui ha operato il CUEA. Come noi abbiamo cercato di contrastare, se vogliamo, la tendenza generale, di disumanizzazione. Quindi si parlerà di cosa vuol dire essere una scuola privata, senza finanziamenti, senza appoggi politici e senza cedere a compromessi.

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Perché ho rinunciato al disegno

Vi illustrerò cosa significasse per noi essere una scuola promossa dal Movimento Umanista, e quindi in sostanza, contribuire, nelle nostre forme e nei nostri modi, di cui in gran parte avete già appreso, al grande progetto di costruzione di una società nonviolenta operata attraverso lo sviluppo dell’Umanesimo Universalista3.

Differenze tra pubblico e privatoUna scuola per adulti come CUEA, colma, a volte

a distanza di molto tempo, i vuoti di conoscenza che le scuole tradizionali hanno lasciato nelle persone. Ma anche soddisfano nuove esigenze di formazione, con discipline estranee alle scuole pubbliche e che, grazie alla passione di molti insegnanti e scuole private, si vanno diffondendo nella collettività. Ne sono un esempio tutte quelle pratiche non riconosciute dallo stato, come le medicine integrative e provenienti da altre culture, che possono essere diffuse solo ed esclusivamente grazie alle iniziative private.

In generale si rivolgono a queste strutture persone che sentono la necessità di un con-tinuo apprendimento per il piacere di sapere e il gusto del fare.

La nostra attività educativa viene definita “formazione permanente”, differente da quella primaria, superiore ed universitaria. Una differenza sostanziale con le scuole istituzionali sta nel fatto che il piacere di studiare cede, troppo spesso, il passo al dovere. Per questo motivo la caratteristica motivazionale di chi si iscrive in queste scuole si basa principalmente sul piacere, il piacere di venire a “scuola”.

I nostri studi non sono necessari per accedere a livelli lavorativi più alti, a cui purtroppo si è ridotta la maggior parte della giustificazione culturale didattica, ma alla conoscenza per la conoscenza. Questa è una condizione di base che differenzia notevolmente la nostra didattica di scuole private amatoriali per adulti, dalle scuole istituzionali o professionali.

Un altro elemento sostanziale di differenza, è che ogni allievo paga il corso, ossia deve reciprocamente dare qualcosa per accedere agli studi, e se i corsi non sono come lui desidera o vorrebbe, cessano le motivazioni che lo spingono a pagare e quindi a sostenere una scuola che non lo soddisfa. Noi insegnanti privati siamo

scelti di mese in mese4. La nostra è un’attività a più alto rischio di quelle istituzionali e questo fatto ci dovrebbe spingere a lavorare maggiormente con un criterio la qualità che di quantità, perché i nostri allievi sono anche i nostri clienti. Detto così parrebbe un poco rozzo, ma a nostro avviso è un fattore di garanzia del servizio.

Certamente, come abbiamo già affrontato, vi sono anche scuole private pessime che raggiungono discreti numeri di partecipazione, soprattutto grazie alla pubblicità o al prestigio della scuola o degli insegnanti, e pur educando con metodi tradizionali, con la logica del premio-punizione ad esempio, mantengono il loro status.

L’adulto pagante ha quindi un potere di scelta più grande rispetto ad altre tipologie di allievi, come gli studenti universitari o della scuola dell’obbligo ad esempio. Questo vantaggio lo possiede indipendentemente dal fatto che si avvalga o meno di questo potere.

Altro punto caratteristico dell’insegnamento agli adulti è la diversità delle persone che vi partecipano. Nel caso dei corsi collettivi ci troviamo spesso con classi composte da persone di età compresa tra i venti e i sessantacinque anni. Nel caso dei corsi individuali le esigenze sono anch’esse molto diverse. Cosicché la programmazione di base subisce modificazioni didattiche notevoli a seconda degli allievi ed ogni anno si va modificando e migliorando.

Inoltre, essendo corsi principalmente serali, svolti dopo le stancanti attività lavorative hanno necessità di una parte pratica molto superiore a quella teorica. Per noi sarebbe impensabile fare lezioni come all’Università composte di tre ore di sola teoria, o stando seduti su di una sedie per ore. È forse per questa ragione, che la nostra didattica è più vicina a quella delle scuole elementari, in cui c’è un’ampia parte di sperimentazione di gioco. Essendo corsi del dopolavoro, sono rilassanti, non richiedono molti compiti da fare a casa e non vi sono esami da sostenere. Ognuno prende quello che vuole e che può, quindi devono essere ricchi di esercizi molto graduali e devono soddisfare sia chi ha tempo energie e attenzione, e sia coloro che non dispongono di tali risorse. Così facendo si cerca di soddisfare le loro esigenze soprattutto nelle ore di partecipazione al corso. Questa tipologia di corsi non deve frustrare, non deve essere l’ennesimo impegno doveroso.

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

Queste differenze tra pubblico e privato, potrei riassumerle in un breve elenco:• colmano i “vuoti” delle scuole pubbliche o parificate• si basano sul piacere di venire a scuola• questo richiede maggiore attenzione alla qualità• gli studenti sono anche clienti• gli studenti hanno (potenzialmente) maggiore potere

sugli orientamenti didattici• maggiore diversità (età, formazione, provenienza,

professione, ecc.)• corsi principalmente serali e che si svolgono dopo

il lavoro

Grazie al confronto con la scuola pubblica, da cui tutti proveniamo, abbiamo riflettuto su quali dovessero essere, le caratteristiche strutturali della nostra scuola privata. Poi ci siamo confrontati con altre scuole private, ed anche in quel caso abbiamo sentito il bisogno di tracciare delle differenze. A furia di cercare di distinguerci abbiamo compreso che cosa non ci piaceva affatto, e allora abbiamo detto: proviamo a fare diversamente! C’è chi dice che i cattivi modelli siano devianti, per noi invece sono stati molto utili. Alla fine, il nostro sentirci diversi ci ha aiutato nella ricerca, a cui abbiamo aggiunto i principi filosofici e ideologici del Movimento Umanista e le nostre esperienze nate dal rapporto con gli allievi.

Abbiamo messo tutto assieme nel calderone creativo e ne è venuta fuori una didattica che aveva più o meno le caratteristiche che abbiamo fino ad ora trattato, che riassumo in un breve elenco:• interagire con persone traumatizzate• gli allievi non devono sobbarcarsi di compiti e di

impegni eccessivi• la lezione deve essere distensiva e piacevole• gradualismo semplice ed elementare• parte pratica più ampia di quella teorica• cura delle relazioni e degli spazi• didattica nonviolenta• auto apprendimento• accompagnare nelle fasi profonde e spirituali

L’effetto complessivo di questa impostazione, lo potrei tuttavia ancora riassumere in una solo concetto: dare motivazione.

Motivazione dell’allievo, ma anche del-l’insegnate e della scuola, nel cercare di

ottenere dalle nostre esperienze il meglio per tutti noi.

Ma perché quando io andavo a scuola non era così? Perché la scuola pubblica è così priva di questa benzina, di questo fuoco che muove le montagne? Perché è la motivazione, che potrei ridefinire come volontà mossa dal desiderio della conoscenza, pare stia arrivando ai minimi storici nella scuola pubblica?

Voi potrete a questo punto farvi un’altra domanda, ovvero perché in tutto il testo, nonostante io insegni in una scuola privata, sono così coinvolto nel problema della scuola pubblica?

Va bene, ve lo dirò chiaramente. Non credo nell’iniziativa privata, e dopo ve ne darò testimonianza. Invece credo fermamente nell’iniziativa pubblica. L’istruzione è un diritto fondamentale di tutti, e non ho nessun interesse di categoria o sciocchezze simili. Sono un didatta e l’unico mio interesse è vedere una società che cresce, che avanza, e non posso quindi che stimolare un rinnovamento della scuola pubblica, che invece ho sofferto moltissimo, come quasi tutti i miei amici. L’ho sofferta alle medie, alle superiori e all’università ho toccato l’apoteosi. I queste esperienze ho potuto vivere quella contraddizione che vede l’istruzione relegata al ruolo di formazione al lavoro, nel migliore dei casi, e di disintegrazione dello spirito critico ed autocritico, nel peggiore e più diffuso dei casi.

Per cui, vorrei stimolare un cambiamento, anche solo attraverso queste mia esperienza che dal settore privato vede con una certa angolazione il pubblico. E mi auguro, che questo particolare mio punto di vista, possa essere in qualche modo di aiuto.

Differenze di motivazioneNella scuola dell’obbligo (elementari e medie), in

quella superiore ed universitaria ed infine professionale si dà quasi per scontato quali siano le motivazioni che spingono a studiare: nella prima si studia perché è un obbligo e quindi non sei motivato veramente; nella seconda spesso la motivazione non cambia rispetto alla scuola dell’obbligo, infatti, i dati parlano molto chiaramente rispetto alla percezione della scuola come un parcheggio; così si arriva all’università, terzo caso, in cui vi sono alcune persone mosse da diversi ideali ed altre, che continuano meccanicamente ad andare a scuola senza in fonda avere ben chiaro il perché, infatti, le persone che si laureano sono una percentuale

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Perché ho rinunciato al disegno

bassissima degli iscritti; le scuole professionali di tre anni, di cuoco, muratore, elettricista, per intenderci hanno la motivazione del lavoro, ma se ci pensiamo anch’essa per molti è una costrizione (a chi piace veramente lavorare?), anche quando non c’era obbligo scolastico fino a 16 anni ma fino ai 13.

Se indagassimo tra i milioni di studenti al mondo, risulterebbero rari coloro che lo fanno per passione, per motivazione profonda, per il piacere di fare. Questa percentuale in scuole come il CUEA, che si rivolgono ad adulti, è altissima perché se non sei motivato non ti iscrivi ad un corso che paghi e che ti richiede energia, tempo e fatica, soprattutto quando si svolge dopo che si è lavorato per 6-8 ore.

Questo era un punto di forza fondamentale del CUEA perché senza motivazione non si apprende. Senza motivazione si fatica. Senza motivazione ci si annoia. Senza motivazione ci si violenta o si viene violentati. Senza motivazione impieghiamo il minimo delle nostre risorse per ottenere il minimo dei risultati.

Senza motivazione, o se addirittura obbli-gati, colleghiamo lo studio e la conoscenza a sensazioni di sofferenza, e questo fatto ci incatena all’ignoranza, sentita al contrario in modo piacevole.

È triste constatare che solo in pochi casi ed in poche scuole la motivazione degli allievi e degli insegnanti, risplende chiaramente ed è ricca di emozione e di ambizioni.

Ma c’è da dire una cosa a riguardo: forzatamente, senza gusto, senza motivazione ma solo col senso del dovere, si possono ottenere dei mediocri ma pur validi risultati in tutto ciò che riguarda l’apprendimento non creativo ma, piuttosto, potrei definire, meccanico. Per intenderci si può imparare a memoria una poesia, un procedimento matematico, una formula chimica. Si possono quindi acquisire dei dati per poi “riversarli” nelle interrogazioni ed esami, e per questo rituale, svuotato di senso, ottenere addirittura un voto! Si può arrivare perfino a laurearsi, in questo modo asettico e disciplinato, così, spinti dal dovere e dalla paura provocata dal sottile ricatto, che senza il titolo di studio non siamo “nessuno” sono arrivati fino in fondo moltissimi studenti.

Questo è circolo vizioso del dovere, si studia per dovere perché ci si prepara al dovere del lavoro. Se si studiasse in libertà dove li trovano i giovani che poi

lavorino con un sano e costruito senso del dovere? Vanno educati fin da piccini!

In questo surreale scenario si crea un altro circolo vizioso pieno di menzogne. Si mente ai figlioli quando rientrano da scuole e dicono che non gli piace, si mentono i professori quando si studia solo per le interrogazioni e gli esami, si mente alla società quando si fa un lavoro che non ci piace, ed a volte si mente a noi stessi quando ci facciamo piacere tutto questo che non è minimamente mosso dal piacere e dalla voglia di conoscenza.

Nell’arte non esiste menzogna. Se provi a disegnare, o dipingere o danzare o qualsiasi altra arte espressiva non viene fuori niente. Niente di artistico, solo delle schifezze! Si può certamente dissimulare, ma per farlo bisogna essere degli esperti.

Chi insegna arte, o una qualsiasi disciplina artistica, con l’obbiettivo di trasmettere dei significati profondi, e non solamente per conseguire uno stipendio, sa benissimo che non vi sono trucchi, non si può barare, non si riesce a creare senza motivazione. È inutile provare e riprovare, non succede niente, o al massimo solo qualcosa di tecnico, di mestiere, e i neofiti non hanno questo livello di conoscenze. Le padronanze artistiche ed espressive non si possono acquisire col senso del dovere, ma solo attraverso una sensibilità ed una dedizione che ponga al centro la propria diversità e unicità umana. In realtà qualsiasi conoscenza è creativa e non meccanica, è forse per questo che assistiamo al trionfo della tecnica sulla scienza, alla super valutazione delle università tecniche piuttosto che a quelle umanistiche.

Sto forse esagerando? Mi piacerebbe pensare che la maggior parte degli studenti che ho conosciuto si dedicassero allo studio mossi da una voglia vorace di conoscere, da una curiosità insaziabile, accompagnati da una leggera e soave melodia, che altro non è che quel meraviglioso sentire il proprio pensiero muoversi, crescere, svilupparsi. Avere un bel vissuto di quello che si chiama apprendimento e studio.

Mi sembra che ci sia questa differenza sostanziale, della motivazione, tra ciò che può fare una piccola scuola privata e ciò che non fa il mastodontico apparato pubblico. Ricordo che molti miei compagni alla fine delle scuole medie non avevano una vocazione conclamata, come la mia, e per questo motivo non sapevano che

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

indirizzo scolastico imboccare dopo la licenza media. Questo, era un problema, per loro e soprattutto per i genitori. Il criterio di scelta non si basava in generale su cosa ti piace, su cosa senti vuoi fare, ma su ciò che pensi possa essere il tuo futuro lavoro.

Se ci pensate ha qualcosa di allucinante chiedere ad un fanciullo in piena esplosione ormonale di scegliere in base al lavoro che farà tra dieci o quindici anni!! Eppure non ci si rende conto di questa assurdità e la si considera normale.

Al CUEA, tutti noi insegnanti, avevamo vissuto direttamente o indirettamente questo delirio, e sapevamo che cosa significasse questa forzatura nello sviluppo della persona, che, come ho all’inizio commentato, aumenta esponenzialmente quando c’è di mezzo il piacere dell’arte, soprattutto quando si ha a che fare con gli adulti che si sentono artisti mancati.

Per questo passato non proprio libero, i motivi che spingevano le persone a partecipare ai corsi erano per noi importantissimi e bisognava conoscerli. Alla prima lezione dei corsi di Disegno, Pittura e Scultura e Fumetto si affrontava con gli allievi il senso della loro motivazione. Lo si faceva usando un questionario. Chi voleva poteva commentare le sue risposte agli altri.

Nel questionario si chiedeva: perché ti sei iscritto al corso, cosa ti aspetti, su quali risorse (tempo e spazi) credi di poterti “appoggiare” per fare questo cammino?

Prima di rispondere al questionario, era per noi necessario fare una premessa, onde evitare risposte troppo generiche o superficiali, che poco senso avrebbero avuto per noi e per loro.

Facevamo, quindi, un distinguo tra i sogni (o aspirazioni) dai progetti: un progetto è un piano concreto e per realizzarsi necessita di obbiettivi e di pianificazione, mentre un sogno orienta lo spirito, il progetto da direzione al corpo, alle azioni. Poi si procedeva a far compilare il foglio con su scritte delle domande. L’introduzione di questa premessa tra il mondo delle idee e quello dei fatti, li portava a connettersi col senso dell’impegno nei confronti di se stessi oltre che del corso. Un piccolo punto di consapevolezza, almeno noi ci provavamo, prima di iniziare il corso. Così, si dialogava di questo fatto personale, e questo ci consentiva di porre in risalto un punto fondamentale dell’apprendimento: i risultati che avrebbero ottenuto alla fine dell’anno sarebbero dipesi soprattutto dalla loro motivazione.

Non potevano certamente cogliere appieno quella premessa, dato che introduceva un atteggiamento che si sarebbe sviluppato in futuro, con il dialogo interiore e tutti gli altri strumenti. Però faceva sì che non si creassero, almeno ci provavamo, false speranze o sterili aspettative.

Per aiutare ad avere un presa di coscienza delle loro motivazione, usavamo un semplice questionario, e altre due spiegazioni. Il tutto non durava più di un’ora. Si trattava principalmente di rispetto. Il rispetto di loro come persone. Chiedergli chi erano e cosa volevano ci sembrava l’unica cosa ovvia da fare, come potevamo considerarli numeri, o cognomi, o l’ennesima classe del 1997?

Non è forse così che spesso ci siamo sentiti alle scuole pubbliche? Ciò che cerco di mostrare è che forse non occorre una rivoluzione totale, globale, per stimolare la motivazione di tanti studenti, ma un semplice questionario, un considerare con maggiore profondità le persone.

Non voglio dire che a partire da quelle sole domande cambiavano atteggiamento, la loro predisposizione iniziale era di passività, come abbiamo già visto, credevano che si apprende grazie all’insegnante, visto come un demiurgo. Ma ciò dava subito un senso di vicinanza tra noi e loro che non si sente più nella maggior parte delle scuole.

Cerchiamo di chiarire meglio questo trasfondo in cui l’insegnante viene visto come un demiurgo. Quando si trovavano di fronte alla prima domanda del questionario, che era “Cosa ti aspetti da questo corso?”, potevano rispondere: di imparare a disegnare! Ma quello era chiaro fin dall’inizio, sennò che si iscrive a fare una persona?

Noi, allora, ci servivamo dell’interscambio per approfondire il quesito: “Bene, vuoi disegnare, è ovvio, ma cosa ti aspetti da questo saper disegnare? Cosa chiedi?”. Volevamo che si spingesse a pensare a cosa sarebbe accaduto nella sua vita dopo che avesse imparato a disegnare. Direte che siamo stati un poco folli, ma loro sentivano, al di là delle risposte, di cui sempre meno curavamo le formulazioni, che al CUEA si spingeva verso un modo di intendere e di ragionare, in cui loro erano i protagonisti principali.

Nessuno si poneva quelle domande in quel modo. Nessuno lo faceva prima che si trovasse di fronte a quello stimolo che lo portava a rivelare e valorizzare le proprie intenzioni.

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Perché ho rinunciato al disegno

Il questionario iniziale era come un dialo-go socratico, maieutico, in cui estraevamo da loro, come una gestatrice, il senso di quella loro partecipazione.

Allora in loro sorgevano come per incanto le motivazioni più profonde e specifiche: “Voglio imparare a disegnare le piante perché vorrei diventare un progettista di giardini”; “Voglio imparare a dipingere il mare perché mi affascina la luce che colpisce la sua superficie”.

Insomma questo era l’obbiettivo della prima lezione: cercavamo di aiutarli nel formulare il più possibile il senso della loro partecipazione.

La capacità di partecipare era proporzio-nale alla chiarezza dei loro intenti: più erano confusi e maggiori erano le loro difficoltà, maggiore era la loro chiarezza e maggiori erano l’entusiasmo e la voglia di fare.

Quando il motivo di partecipazione si esternava e si rendeva esplicito, per gli allievi ma anche per gli insegnanti, essi scoprivano che dietro una loro scelta, apparentemente futile, si celavano profonde ragioni che avevano trascurato, ma che, grazie a questa scoperta, si rafforzava in loro il senso di partecipazione.

L’obbiettivo più importante era appassionare gli allievi ad un percorso sentito valido al di là dei risultati. Appassionare a vivere esperienze che trovano il loro pieno senso nell’essere vissute profondamente al presente senza rincorrere un fine ultimo. Certo era difficile portarli a questo tipo di sensibilità, ovvero gioire del mezzo, il disegnare, indipendentemente dai risultati, ma questa era la didattica del CUEA far comprendere questo principio: i passi sono più importanti dei risultati, dato che la meta finale non è che la somma delle sensazioni e dei vissuti accumulati durante il percorso.

Se durante il corso ci siamo arrabbiati, se abbiamo preteso troppo, se abbiamo fatto le cose tanto per farle col senso del dovere, sapremo forse disegnare un poco ma saremo molto stanchi, molto snervati. Se invece ci divertiamo nel fare le cose e siamo felici del fatto che, dopo tanti anni, siamo riusciti a dedicare del tempo ad una attività che abbiamo sempre desiderato riprendere in mano questo solo è sufficiente a soddisfarci. Se viviamo l’apprendimento in questo modo ci divertiamo tantissimo e cresciamo molto più velocemente.

E questo modo di vivere lo studio e la pratiche conoscitive, è quanto forse c’è di più distante dalla scuola pubblica, in cui è tutto finalizzato alla promozione, ai voti, al diploma o alla laurea. Non posso soffermarmi in questa sede ad illustrarvi quello che è il modello di scuola pubblica senza tutte queste mete esterne, ma vi chiedo di riflettere sul fatto che possa esistere un altro modo di impostare l’istruzione in cui i mezzi sono il fine e non viceversa.

Un modo in cui al centro non vi è obbligo, non vi sono parcheggi generazionali di studenti, non vi sono numeri di matricola, non sarebbe più a favore della conoscenza? Certo l’obbligo, i voti e tutto il resto sono stati strumenti indispensabili un una fase di sviluppo dell’istruzione pubblica, ma poi da strumenti sono diventati l’obbiettivo primario che spinge le persone a istruirsi. Questo capovolgimento di termini ha causato un profondo disorientamento di studenti, professori ed istituzioni, e ci ha allontanato dalla conoscenza.

Con la nostre esperienza speriamo, quindi, di aver messo in risalto il fatto che la motivazione è qualcosa di molto complesso e che appartiene più al mondo interiore che al raggiungimento di obiettivi esterni.

Differenze di programmaUna scuola privata amatoriale, a differenza di quella

pubblica o una privata parificata, gode di una grande libertà di azione. Questa libertà si evidenzia in maniera particolare nella programmazione didattica.

La chiarezza del percorso formativo che proponevamo ai nostri allievi era per noi un altra leva fondamentale per elevare la motivazione. Mettevamo particolare cura nello spiegare che cosa offrivamo nel nostri corsi.

Per esempio, all’Università ci danno il programma di studi, nelle scuole medie e superiori il programma è stabilito dal Ministero, ma se ci pensate bene non sono altro che un elenco di cose, come se fosse una lista della spesa o un menù culinario. Per noi un programma era qualcosa di ben diverso.

Un programma non consiste solo in un elenco di cose che si faranno, ma soprattutto si dovrebbero precisare agli allievi quali siano gli obbiettivi didattici.

Come ho già sottolineato, questo modo di procedere,

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

che dovrebbe essere scontato e ovvio, non corrisponde alla norma. Il programma, ovvero la lista di ciò che si andrà a studiare, per essere compreso gli va dato un senso, una direzione. In un menù, ad esempio, non c’è scritto niente riguardo all’alimentazione corretta o suggerita. In un menù non si spiega perché è meglio il prosciutto come antipasto, la pasta come primo e l’insalata nel finale. L’elenco e la suddivisione in categorie non è quindi sufficiente per illustrare un pasto, allo stesso modo un programma non è sufficiente per illustrare una didattica, manca qualcosa di fondamentale.

In un percorso di formazione sarebbe bene chiarire, nella misura adeguata, quale sia il criterio per cui nel programma si studiano delle cose per prime, perché altre per seconde, ma soprattutto è essenziale dichiarare che cosa si dovrebbe ottenere attraverso queste informazioni.

Che cosa produce, quindi, nell’allievo la mancanza di queste fondamentali informazioni?

Se ci pensate bene, è come se un medico agisse sul nostro corpo senza che noi avessimo consapevolezza di quello che sta facendo. Non vi sentirete come degli oggetti? Non vi sentirete come esclusi dalle scelte fondamentali? E queste scelte, non dovreste essere voi a deciderle, in fondo si tratta della vostra vita e non di quella degli insegnanti!

Si tratta di potere che ci viene sottratto. Potremmo definire questo atteggiamento come una forma di abuso di potere. Il potere che dovrebbe essere nelle mani del discente, lui dovrebbe sapere per poter scegliere, ma in realtà non accade niente di tutto ciò. In realtà l’insegnante gode di una superiorità su di voi. Che uso ne farà? Se sarà un bravo insegnante o un cattivo insegnante ce ne accorgeremo?

Il punto centrale di questo “vizio”, non saprei come definirlo, è che lo studente si trova sprovvisto di strumenti per potere valutare l’operato del suo istruttore. Come faccio a valutare se sono stati raggiunti gli obbiettivi se mi si presenta solo un elenco?

Come si può pretendere dunque che qual-siasi allievo sia motivato, se lo escludiamo fin dal principio a partecipare in maniera attiva ai piani generali, di cui lui sarà il principale destinatario?

Se l’insegnante si aspetta qualcosa, se promette dei risultati li deve rendere espliciti fin dal principio.

In questo modo si compromette con gli allievi che possono, a loro volta, valutare alla fine del percorso se hanno ottenuto gli obbiettivi promossi dall’insegnante. Questa è una condotta onesta e rispettosa, ed è parte della nostra didattica nonviolenta.

Questo tipo di premessa, o di programma, richiedeva un impegno non indifferente da parte di noi insegnanti. Cosicché anche ogni lezione, doveva avere un suo particolare obbiettivo, ed esso doveva essere raggiunto dalla maggior parte della classe, altrimenti non si poteva andare avanti nel programma.

Ma l’aspetto più “sano”, si deve al fatto che, rivelando apertamente il senso del programma, tutti erano chiamati a partecipare attivamente al suo raggiungimento, e il rapporto di potere tra insegnanti e allievi, si capovolgeva. Ognuno con le proprie responsabilità lavorava al raggiungimento degli obiettivi siano essi interiori o esteriori.

La dipendenza economicaAbbiamo visto che l’economia, o la necessità

del denaro, sia una spina nel fianco nella didattica, perché i valori ed obbiettivi pedagogici sono forse diametralmente opposti a quelli economici.

Si è detto che la scuola perde senso se la si intende solo ai fini della formazione professionale, si è detto che anche le scuole private, spesso perdono senso perché sono spinte verso il business, si è inoltre dichiarato, che anche un insegnante che compie la sua funzione per il solo scopo di guadagnarsi uno stipendio, è possibile che perda il suo senso.

Il fatto di credere che il denaro sia un valore, sembra faccia perdere senso a tutto ciò che di più alto vi è nell’essere umano e nella società che ha costruito. Il denaro è dunque insensato?

È la solita regola del “dipende da come lo si usa”, del come lo si vive e del valore che ad esso si attribuisce. In una scuola privata il fatto di dover dipendere dalla costante affluenza di fondi, può anche avere un ruolo stimolante, come testimonierò in questo paragrafo, ma essa non potrà prescindere dalla direzione disumanizzate generale, in cui il ricatto economico pare lo strumento principale.

Che succedeva nel CUEA? Bene, ora ve lo racconto.Nella nostra pedagogia si introdussero, dunque,

diversi momenti di riflessione, di auto valutazione e di introspezione per potere far crescere la coscienza

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Perché ho rinunciato al disegno

e far approfondire le motivazioni dei nostri allievi. Tutto ciò ci portò a creare ben presto una particolare consapevolezza riguardo al ruolo delle aspettative, paure e timori, nel processo apprendimento. Si cercava, di conseguenza, di impiegare tutte queste osservazioni, nella creazione di una pedagogia che in qualche modo cercasse di dare delle risposte che potessero avvicinarci alla soluzione di queste tante sfide. Nel complesso, tutto ciò lo abbiamo sentito come un forte stimolo per la nostra missione educativa.

Immagino che voi avrete riflettuto in diversi punti del capitolo, sul tempo e l’energia che questi obbiettivi ci richiedevano. In effetti, tutto ciò, esigeva riunioni regolari tra insegnanti, preparazione puntuale e dettagliata dei corsi, personalizzazione e adattamento della didattica sugli allievi, elaborazione di momenti di verifica, valutazioni delle loro risposte e delle nostre metodologie, e via dicendo.

Un poco pazzi, in effetti ci sentivamo, ma al di là della nostra missione vocazionale, tutto ciò doveva essere finanziato da qualcuno, altrimenti dove avremo preso il tempo se avessimo dovuto lavorare otto ore al giorno come tutti quanti?

Ma noi non avevamo tutti quei soldi. Tutto questo grande lavoro non aveva un riscontro economico, ovvero, non erano sufficienti le iscrizioni degli allievi per sostenere la scuola e le nostre ricerche.

Sapevamo dunque che se non fossimo riusciti a guadagnare a sufficienza, prima o poi, la scuola sarebbe chiusa, come poi è successo nel 2006.

La soluzione non era quella che tutti si aspetterebbero, ed è in effetti la più facile da un punto di vista esteriore, ossia quella di aumentare gli iscritti, aumentare la pubblicità, aumentare la retta mensile.

Ma non lo abbiamo fatto, e vi spiego perché. Ciò che è avvenuto non è stato di certo un suicidio premeditato, ma una maturazione di alcuni principi.

Il primo dubbio amletico è stato: come conciliare l’azione culturale vera e sentita, con la capacità di creare ricchezza economica?

Questa era l’altra sfida, non didattica, ma di sopravvivenza. La sfida che non si vede, ma a cui siamo stati sottoposti soprattutto negli ultimi anni con l’entrata in eurolandia, dal 2002 al 2006.

L’insegnamento delle persone adulte è purtroppo

spesso, una questione di soldi, di business, come si usa dire. Nella maggior parte dei casi l’adulto per formarsi paga un retta mensile o annuale. La formazione fino all’Università è ancora in parte garantita dallo stato, ma le necessità cultuali e formative delle persone adulte non sono mai state considerate dalle istituzioni pubbliche al pari di quelle del un bambino, dell’adolescente e del ragazzo. Forse uno stato giusto ed equo non dovrebbe considerare assolto il proprio compito con lo scadere della giovinezza, ma sarebbe auspicabile accompagnare l’evoluzione culturale in tutte le fasce di età. È vero che esiste anche l’università dell’età libera, che è gratuita, ma non supplisce le esigenze popolari. Un fatto è comunque evidente: la formazione degli adulti è diventata un mercato economico non indifferente.

Si può anche diventare ricchi aprendo una scuola per adulti e questo ci rimanda ad un problema non irrilevante che riguarda la direzione didattica di queste scuole. Si tratta di un aperto conflitto di interessi, in cui non è chiaro se l’obbiettivo principale di un istituto formativo sia la preparazione dei propri insegnanti e la qualità didattica, o, al contrario, quello di incrementare i propri profitti a scapito della qualità.

Questo dubbio è amletico, perché in fondo influisce sull’essenza, intesa come onestà educativa, di un istituto privato. Almeno, noi del CUEA sentivamo che il confine tra il discente ed il cliente era sottile e compromettente.

Abbiamo detto che un adulto in cerca di distrazioni ed in atteggiamento di fuga dalle proprie frustrazioni può essere facile “preda” per istituti che promettono ciò che loro vogliono sentirsi dire, senza che poi ci sia un riscontro reale nei risultati di apprendimento.

Al di la delle sterili polemiche, ci siamo scontrati con delle realtà educative private che sono a pieno titolo delle aziende, che vendono un prodotto come tanti e che operano attraverso il canale forviante, se non menzognero, della pubblicità, che in questo caso è solo propaganda. Abbiamo quindi sentito subito il bisogno di differenziarci come la scuola di “vocazione” rispetto a quelle di “business”.

Una scuola di vocazione, come noi ci siamo definiti, opera mossa da un reale e genuino interesse per una educazione che liberi l’essere umano dalle oppressioni, e che considera la cultura e la creatività come mezzi per l’evoluzione spirituale e intellettuale della persona. Operare in virtù di un business ci è invece apparso come una sorta di contraddizione o, per lo meno, ci

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

si è presentato un reale pericolo di infatuazione al denaro, che ci avrebbe potuto condurre in una direzione opposta a quella che ci eravamo proposti.

Risulta evidente che per sostenere la ricerca didattica ed un costante miglioramento delle nostre proposte formative, occorreva investire molto tempo che non sarebbe stato possibile compensare con le quote di iscrizione, a meno che esse non fossero state elevate, ma in questo modo cessavamo di essere una scuola che puntava all’educazione della base sociale. Decidemmo allora di insegnare percependo solamente un rimborso spese e dedicando il nostro tempo come volontari senza percepire uno stipendio adeguato. Per questo la maggior parte degli insegnanti del CUEA lavoravano mezza giornata svolgendo altri lavori per potersi dedicare alla formazione semi volontaria.

Certamente vi sono anche esempi di scuole private che riescono a dedicare molto tempo alla qualità senza che questi costi ricadano totalmente nelle quote di iscrizione, ma solitamente sono appoggiate da sponsor istituzionali e privati. Inoltre è più facile sostenersi come scuola privata, se si promuovono corsi professionali, perché gli allievi sorretti della speranza di futuri guadagni che potranno avere grazie alle conoscenze acquisite, sono disposti a pagare delle quote onerose.

Insomma, le scuole create per il piacere di stare bene, per il piacere di creare, senza nessun fine professionale, e senza lavorare sulla quantità a scapito della qualità - ci sono scuole che facevano classi di 50 persone, ma come si fa a seguirle! - vivono quasi tutte ai limiti. Dovevamo accettare che non si diventa ricchi se si hanno certi obiettivi.

Quindi la nostra prima difficoltà è stata, fino all’ultimo, il reperimento delle risorse economiche.

Negli anni facemmo vari tentativi per operare senza aumentare le quote di iscrizione, ma ciò alla fine non fu possibile. Allora, per non convertirci in una scuola di business, decidemmo di chiudere. Sia ben chiaro che nessuno di noi era allergico ai soldi e riteniamo sia una virtù riuscire a gestire un apparato che comporta delle ingenti spese lasciandolo sempre in attivo, ma questa non era una nostra virtù ed il pericolo di perdere la nostra direzione umanista fu reale, quindi in varie occasioni, inclusa quella che portò a cessare l’attività, abbiamo preferito mantenerci fuori da certi meccanismi.

Il problema economico non è certamente il più nobile e il più interessante da affrontare per una scuola d’arte, però crediamo che la nostra esperienza possa testimoniare il livello di disumanizzazione che la schiavitù del denaro comporta.

Avere risorse proporzionate al lavoro svolto, è stato un punto di fondamentale importanza per poter aprire una sede adeguata, per poter avere attrezzature idonee e, soprattutto, poter fornire ai nostri allievi gratuitamente, tutto il materiale didattico all’interno della popolare quota di iscrizione. Purtroppo tali risorse non furono mai sufficienti e le strategie che avremmo dovuto affrontare non erano in sintonia coi nostri ideali.

Eravamo proprio incontentabili, non volevamo cedere alle pressioni economiche ma allo stesso tempo non ci piacevano le facili soluzioni, che forse ci avrebbero deviato dai nostri fini.

Fu molto significativo anche il nostro tentativo di farci appoggiare nella ricerca didattica - ne andava della sopravvivenza della scuola - da istituzioni pubbliche come il comune, il quartiere dove operavamo e le varie fondazioni private.

Forse tutta la nostra energia non sarebbe dovuta andare nella ricerca pedagogica, ma nelle conoscenze politiche, nel conoscere le persone che contano, avere forse insegnanti famosi, avere una sede di lusso, spendere molti più soldi in pubblicità. Ma a quel punto, la nostra vocazione Umanista sarebbe stata solo un nome, un termine vuoto, che non qualificava il nostro centro.

Abbiamo cercato dei finanziamenti pubblici, ma non ne abbiamo ricavato niente se non una delusione. Per comprendere come ragionano i nostri dirigenti, in relazione alle iniziative culturali di base e che hanno il solo scopo del benessere umano, riportiamo una beve testimonianza.

Un anno cercammo di farci aiutare dall’ammini-strazione comunale del nostro quartiere noto a Firenze come Quartiere 4. La nostra richiesta era quella di finanziare e/o promuovere i corsi. Essendo in crisi per i costi altissimi dell’affitto e le altre spese, cercavamo solamente di sopravvivere come associazione, per que-sto la nostra richiesta non era affatto onerosa. Dopo aver esaminato la nostra proposta, il quartiere si disse interessato a due sole tipologie di corsi, perché non erano promossi da altri enti che sostenevano nella loro programmazione annuale di formazione per adulti.

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Perché ho rinunciato al disegno

Erano interessati al corso di Fumetto e di Scrittura per il Cinema. Per questo motivo chiamarono gli insegnanti per avere delle informazioni riguardo al programma. All’incontro settimanale tra gli insegnanti chiesi come era andata la conversazione e se avrebbero promosso ed inserito nel loro calendario i nostri due corsi.

Gli insegnanti avevano ricevuto infatti una loro telefonata. In questo colloquio, freddo ed indiretto, avevano subito una sorta di terzo grado, così almeno me lo descrisse Andrea Cantucci che si occupava del fumetto. Da questo interrogatorio risultava che l’elemento fondamentale e discriminante per patrocinare le attività era: quanto è famoso l’insegnante?

Ve lo aspettavate? Avevamo parlato di questo “piccolo” problema nei paragrafi precedenti, e delle conseguenze che questo modo di pensare, prima che di operare, poteva avere rispetto alla qualità del servizio didattico. Si torna sempre da quelle parti, come vedete!

Siamo stati discriminati perché i nostri insegnanti non sono mai stati famosi e non lo sono ancora, è semplicemente gente che ama quello che fa e che ha messo molta più energia nella didattica che nella promozione della professione. I risultati che ottenevamo con gli allievi attestavano che si lavorava con un buon livello qualitativo ma a loro questo non interessava. Siamo stati esclusi dal festino dei finanziamenti solo perché per noi è meglio una persona felice che sa disegnare male, che una persona tesa, ansiosa, piena di aspettative, e infelice che sa disegnare benissimo! E noi abbiamo sempre cercato di ottenere tanto i risultati tecnici che persone felici!

Ma era ovvio che agli impiegati del Quartiere 4 non interessava affatto sapere quanto erano felici i nostri allievi, quanto erano felici di venire a creare e studiare dopo una faticosa giornata di lavoro. Non ci potevamo aspettare che loro ce lo chiedessero, ma quando gli abbiamo fatto notare che questi erano i risultati che per noi contavano più di ogni prestigio, a loro tutto ciò non gli riguardava. Come avrebbero potuto gonfiarsi il petto promuovendo degli anonimi sconosciuti?

Non c’è da meravigliarsi se il “tratto umano” che dovrebbe essere il punto centrale di ogni attività, oggi-giorno è in ribasso, ed a guardar bene, nell’educazione non è mai stato una priorità irrinunciabile!

È grazie a questa condizione sociale disumanizzata

che vivono e si arricchiscono diverse scuole che si occupano di espressione artistica. Ci riescono pur avendo insegnanti che improvvisano la maggior parte delle lezioni, che vengono in ritardo alla lezione, insegnanti che ripetono sempre le stesse cose, e che in generale educano con l’atteggiamento irrispettoso che noi abbiamo esemplificato nel prestigioso professionista, B.D., che ha tenuto da noi il corso di composizione.

Per questo siamo felici di non essere stata una scuola di successo, di prestigio, perché questo è il risultato del nostro rifiuto di muoversi attraverso le conoscenze politiche, alle iniziative di prestigio, i trucchi pubblicitari, e così via. Abbiamo chiuso per un atto di coerenza, e ciò non ci ha portato a nessun dispiacere personale, ma solo sociale. Crediamo che il mondo, in fondo, abbia perduto qualcosa. Il mondo ogni giorno perde molto di più di una scuola di vocazione perché il sistema economico e di controllo psicologico in realtà non favorisce la coerenza, ma la violenza.

Ritorniamo al nostro conflitto d’interesse, che abbiamo lasciato in sospeso.

Solitamente l’adulto è allievo ma anche cliente, e questo meccanismo è sostanzialmente diverso dalla scuola pubblica, che è gratuita. Nell’istruzione statale uno studente non è, almeno per ora, anche un cliente. Egli è solo studente.

Alcuni credono che la mancanza di potere degli studenti nella scuola pubblica, è dovuto al fatto che non paghi, ed in una società basata sull’economia lo studente è giusto ed opportuno, se vuole potere, che si converta in cliente e le scuole in aziende.

Così pensa chi sostiene che vada privatizzato tutto ciò che può dare profitto, e la scuola è presa d’assalto ogni giorno da questi squali.

Così forse crede anche la gente, che il cliente-studente abbia più potere dello studente. Lui può scegliere dove andare, e se una scuola non lo soddisfa, dirotterà le proprie finanze verso un’altra struttura! Il cliente-studente ha il potere di punire ed il mercato, così penalizzato (vi risuona questa parola?) dovrà cambiare altrimenti perde la sua possibilità di profitto.

Sembra un racconto dell’orrore o grottesco, ne convenite?

La nostra esperienza coi clienti-studenti, ci conferma tutto il contrario. Il cliente-studente, come lo studente non pagante, non si ribella quando la struttura

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Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

educativa si dimostra impreparata o improvvisata. Non si oppone al disservizio. Non fa richiesta di una prestazione migliore.

Vorrei raccontarvi qualcosa a proposito. Fin dalle primissime esperienze avevo preso la buona abitudine, subito dopo ogni lezione, di scrivere al computer il resoconto della lezione. Annotavo le reazioni degli allievi, riflessioni di vario genere, punti da modificare della didattica, propositi per migliorare o integrare la metodologia con dispense, letture, immagini, proiezioni e quant’altro.

All’inizio della mia professione usavo chiedere, in diversi momenti del corso, suggerimenti per il miglioramento, consigli utili alla crescita, e soprattutto alla fine del trimestre o del semestre facevo compilare una scheda di valutazione sulle diverse componenti del corso e autovalutazione sui momenti di apprendimento.

Così facendo mi ritrovai dopo qualche anno ad insegnare con lezioni sempre diverse e rinnovate. Pensai, scherzosamente riguardandomi indietro, e visti i tanti miglioramenti sopraggiunti nel tempo, quanto mi avessero sopportato gli allievi nelle prime, rozze ed immature lezioni!

Grazie a loro stavo migliorando. Ma attenzione, nessuno di loro aveva mai direttamente contribuito al miglioramento delle lezioni, se non per qualche commento sporadico. La maggior parte delle modifiche erano desunte dalla mie riflessioni a caldo e a freddo. Loro avevano contribuito sostanzialmente allo sviluppo, ma solo perché li avevo ascoltati ed interpretati, gli facevo domande e gli ponevo questionari. Nessuno di loro mi avrebbe portato, alla fine dell’anno la valutazione scritta dell’esperienza se io non gliela avessi chiesta!

Non mi potevo di certo aspettare che un allievo mi dicesse: in questo punto sei stato troppo prolisso, in quest’altro avrei invertito i fattori, ecc.. Non è loro compito, ma è responsabilità diretta dell’insegnante e indirettamente della direzione scolastica.

Le persone che si avvicinano timidamente ad una materia di studio o a dei laboratori non sono in grado di muovere una critica precisa di qualcosa che non conoscono. Vi ricordate l’esempio dell’attore? Non può il pubblico valutare se ha sbagliato la battuta, non ne

ha i mezzi. Certo, lo studente comunica in mille modi e critica in tante forme. Dà delle avvisaglie che qualcosa non va quando mostra stanchezza, o nel calo della frequenza, se la sua partecipazione è attiva o passiva, ecc.. Questi sono tutti indicatori importantissimi della sua “critica”, ma solo l’insegnante li può decifrare per trarne dei motivi di miglioramento o di valutazione della didattica adottata.

Ritorno su questo punto perché ingenuamente si crede che pagando qualcosa, questo ci dia potere decisionale, ma non è vero, il nostro potere è sempre a portata di mano e dipende solo ed esclusivamente dal nostro livello di attenzione e di conoscenza. Non centra un bel niente se paghiamo o meno! Al momento possiamo minacciare, fare un poco di chiasso, anche andarcene. Chi non vuole cambiare troverà il modo per raggirare in ogni forma le critiche, e sempre troverà uno stratagemma fino a quando gli studenti non avranno sviluppato un vero senso critico.

Vi sono vari stratagemmi per raggirare lo studente pagante acritico. Perché esso si fida sostanzialmente di voi. E, come ai bambini, a cui si può raccontare di tutto, lo si può mentire facendo credere di sapere cose che non si sanno, facendo il “maestro” sapientone, ponendoli sempre in uno stato di difficoltà. In tal modo saranno sempre troppo preoccupati di loro stessi, dei loro errori, per poter dedicare la loro attenzione alla qualità dell’insegnante. E anche se non si ottengono i risultati finali promessi, è un gioco da ragazzi raggirarli. Si può fare in modo che sia lo studente a sentirsi in colpa, impreparato, stupido e ignorante: “noi le cose gliele abbiamo dette è lui che non ha capito!”

Sembra un film di animazione, la Crudelia Demon della didattica. Questi sono meccanismi che ho visto così tante volte in moto, ma non penso siano mossi da malafede, ma solo da un modello di relazioni sociale, e di relazioni insegnante allievo che si basano sulla manipolazione e la coercizione, direi quasi volontaria e bilaterale.

Quante volte di fronte ad un fallimento didattico abbiamo pensato più meno una cosa simile? “Sono stupido, il povero insegnate ci ha provato, mi dispiace che gli ho fatto perdere del tempo, in effetti, lo sapevo fin dal principio che non ero capace…”

Ho visto intere classi trattate a “pesci in faccia” dai propri insegnanti. Per me questo si esprime, ad esempio, quando si affrontano le lezioni improvvisando totalmente, quando si criticano gli allievi senza dare loro soluzioni alternative, o quando arrivano a fine anno

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Perché ho rinunciato al disegno

coi propri disegni “fatti” dagli stessi professori! L’elenco di atteggiamenti scorretti da parte di insegnanti nei confronti degli adulti paganti può essere decisamente più lungo, eppure nonostante tutto questo gli allievi sono apparentemente contenti. Anzi, vi potrà forse non sorprendere, il fatto che molti di loro stimassero coloro che non gli avevano trasmesso niente, ma li avevano solamente intrattenuti con grandi promesse e paroloni.

Ma come? Vi trattano male e voi pagate senza dire niente? Vi dà il minimo della sua energia e voi lo difendete? Non vi ribellate? Anzi, mi sa che devo stare attento alle mie critiche perché voi, ora, lo difendete!

Non è forse questo il meccanismo che vi è tra i servi ed i padroni? Non è forse questo quel tipo di “amore” che incorre tra il carne-fice e alcune delle sue vittime?

Forse vado troppo lontano, per un libro che ha l’obbiettivo di fornire domande al perché non si disegna più, al perché non si sia imparato a disegnare, al perché si sia rinunciato. Forse è anomalo che mi metta a descrivere questi meccanismi così ampi e complessi?

Spero di non avervi distratto troppo dal vostro interesse iniziale, e mi auguro di essere riuscito a trasmettere un principio: non esistono fenomeni isolati, quindi anche l’educazione assumerà le forme tipiche di relazione che vi sono tra le persone appartenenti alla stessa epoca storica.

Il modello macroscopico di complicità tra oppressi e oppressori così evidente socialmente, si ripresenta, in forme più lievi e dissimulate anche all’interno di una classe scolastica. Non credo che tutto ciò distolga dalla domanda scritta sulla copertina del libro. Solo che il

problema specifico del disegno, lo si cerca di vedere con una ampiezza, forse inaspettata per il lettore.

L’insegnante, la scuole e l’allievo non vanno migliorando le loro condizioni attraverso una dialettica ed una lotta di potere.

Non si tratta di promuovere una gara a chi ha più potere per non farsi fagocitare, come nel darwinismo sociale5, ma di aumentare il proprio livello di attenzione di consapevo-lezza, quale unico vero e potente strumento di potere sulle nostre vite.

Quindi, anche se può risultare un mistero non possiamo negare il fatto che alcune persone diventano tanto più servili, mansuete e innocue quanto più le si tratti male o le si usi e le si sfrutti. Tutti si aspettano una loro ribellione dalla quale possa scaturire un miglioramento sociale. Ma non si ribellano poi tanto. I giovani sempre presentano questo pericolo, ma poi pare che si ammansuetano col tempo.!

Io credo in una ribellione più silenziosa e meno fragorosa da quelle romantiche che sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo. Ogni persona, senza scendere in piazza può cambiare il mondo. Forse si tratta di sviluppare una profonda onestà in tutte le nostre attività, fuori dai riflettori dello stereotipo rivoluzionario. Questo atteggiamento, più umile e sentito, è andato maturando in noi anche grazie ai tanti problemi economici a cui il CUEA è stato sottoposto negli anni.

Per riassumere, dobbiamo ringraziare le incertezze economiche e le sue pressioni conseguenti, perché ci hanno permesso di rafforzarci e di chiarire la nostra direzione di scuola umanista e di vocazione.

Si chiude un ciclo e se ne apre un altroIl Centro Umanista di Espressione Artistica, fondato

a Firenze nel 1996, diventa una scuola di base nel 1997-98. Dopo i primi anni in cui i corsi si svolgevano in delle strutture sociali, quali sono le Case del Popolo, decidemmo di aprire un nostro locale. Nel 2003, si cambiò sede, in modo che fosse adatta ai nostri scopi di crescita.

Nel 2006, con oltre 12 mila euro di debiti, si scioglie la scuola, rimanendo solo associazione e qualche corso sporadico.

Tutte le esperienze più belle e profonde non sono andate perdute, a parte quelle che rimarranno per sempre nei cuori delle persone che hanno condiviso

Capitolo 4 89

Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica

questa bellissima avventura, perché molte delle conoscenze pedagogiche stanno ora confluendo nel metodo Espressione Tecnica Trascendenza (ES.TE.TRA.).

Questo metodo e l’istituto omonimo, continuano

quel viaggio utopistico e incredibilmente gratificante iniziato nel CUEA, la creazione di una nuova didattica dell’arte che sappia coniugare i principi etici della nonviolenza con quelli estetici dell’arte, affinché tra etica ed estetica non vi sia nessuna differenza.

ConclusioniIn questi oltre dieci anni di insegnamento ad adulti di discipline artistiche ho scoperto che se si hanno

le giuste motivazioni ed i giusti mezzi, si possono ottenere grandi avanzamenti nella pratica del disegno e della pittura, anche in età avanzata.

Anche se molte occasioni sono andate perdute, forse per una inadeguata educazione infantile, ritengo che solo da adulti si riescano a cogliere ed apprezzare determinati valori di cui l’arte è portatrice.

1. La Dialettica Generazionale è, secondo Silo che riprende il concetto da Ortega y Gasset, il vero motore della storia. Si tratta di quella spinta al cambiamento che ogni nuova generazione promuove rispetto alla precedente. Vedi Silo, Opere Complete Vol. I, Contributi al pensiero: discussioni storiologiche; ed. Multimage, Firenze 2000

2. Vedi a tal proposito il Capitoli 3 e 4 del libro VE.RA.DI.,3. Per conoscere più approfonditamente questi concetti visita il sito www.umanipedia.org4. Per ovviare a questo problema la maggior parte delle scuole private chiede agli iscritti di pagare un’unica quota annuale, anche se a rate,

che verrà trattenuta dall’istituto indipendentemente dalla frequenza dell’allievo. Al CUEA invece ritenevamo che all’allievo gli dovesse essere data la possibilità di sceglierci di mese in mese, in modo tale da stimolare gli insegnanti a non adagiarsi. Poi nell’ultimi due anni fummo costretti per una questione di stabilità a dividere la rette in trimestri.

5. Vedi a tal proposito la pagina di wikipedia all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Darwinismo_sociale

Note

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Perché ho rinunciato al disegno

Capitolo 5 91

Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.

Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.

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tolo

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Perché ho rinunciato al disegno

Capitolo 5 93

Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.

In questo capitolo porrò a confronto la metodologia VE.RA.DI. con la metodologia Disegnare con la parte Destra del Cervello che abbrevio con la sigla D.C..

Forse per tirare l’acqua al mio mulino, come si dice popolarmente! Ma credo che, vista la popolarità del metodo D.C., ci siano molte persone che hanno abbandonato il proposito di disegnare perché si sono arenate in alcuni punti chiave di questo metodo. Cercherò, quindi, attraverso la mia esperienza didattica, di evidenziare questi nodi difficilmente rilevabili dal principiante. Ma è proprio grazie al metodo VE.RA.DI. che oggi sono in grado fornire indicazioni alternative per andare avanti.

La metodologia VE.RA.DI. è stata introdotta nel Centro Umanista di Espressione Artistica nel 2004, dopo otto anni di utilizzo della metodologia elaborata negli anni ’70 dalla ricercatrice americana Betty Edwards, conosciuta come Disegnare con la parte destra del

Cervello. L’introduzione di questo nuovo codice di apprendimento, mi ha portato a riconoscere il limiti del metodo D.C. e a non farne più uso, dato che creava non pochi problemi di apprendimento.

Prima di raccontarvi quali siano le lacune e gli errori concettuali del metodo D.C., sento doveroso riconoscere che al testo della Betty Edwards va dato un grande merito per aver rinnovato l’entusiasmo in molte persone adulte che credevano che disegnare fosse solo una questione di talento.

Il libro della Edwards è purtroppo l’unica metodologia, aperta e al servizio di tutti, per l’apprendimento del disegno che ha rotto con i pregiudizi sociali. Ci auguriamo, con il libro VE.RA.DI., di poter contribuire attivamente alla ricerca didattica per superare tutti gli ostacoli che hanno impedito a milioni di persone nel mondo di disegnare correttamente.

Nuove metodologie di apprendimento artisticoIn questi ultimi anni, nel campo della creatività,

dello sviluppo delle facoltà mentali e nell’educazione, abbiamo visto sorgere con piacere, metodologie specialistiche che hanno abbreviato e reso più facili alcune attività e, al contempo, hanno aperto nuove prospettive dando vita a nuove discipline di studio e nuovi procedimenti di azione.

La ricerca che dagli anni ‘60 ha portato Giovanni Spinicchia ai metodi AS.PE.DI.® e VE.RA.DI.® può essere inserita in una dimensione internazionale che ha visto, in quegli stessi anni, il manifestarsi di una necessità di cambiamento rispetto alle metodologie classiche. Nei paesi anglosassoni la ricerca didattica e sperimentale su nuove metodiche di sviluppo della persona attraverso l’arte, ha dimostrato che tali applicazioni danno grandi frutti se sapute sfruttare e valorizzare.

Grazie al loro atteggiamento pragmatico hanno sistematizzato e reso semplici e puntuali molte operazioni di uso comune, queste loro innovazioni sono soprattutto da attribuire ad un diverso approccio, più spregiudicato se vogliamo, che ha portato all’avanguardia il loro modo di operare. La scrittura creativa, ad esempio, consiste in un atteggiamento

sistematico in cui lo scrivere - anche se sempre si è scritto - risulta scomposto in passi semplici e percorribili da tutti. Non da ultimo va detto che tale impulso innovativo è anche stato mosso da una ricerca del business, e loro sono dei maestri in questo settore.

L’Italia, paese di grande tradizione storica culturale, soprattutto nell’arte, è rimasta molto indietro rispetto alle innovazioni americane ed inglesi, sia per una condizione di arretratezza culturale e sia per una mancanza di investimento verso tutto ciò che è nuovo ed innovativo. Siamo come ancorati al nostro passato, e se andate in libreria a vedere i nomi degli autori della quasi totalità dei manuali di disegno e pittura, scoprirete che sono stranieri, per la maggior parte anglosassoni.

Cosicché ci ritroviamo americanizzati nella maggior parte delle attività persino, forse non tutti ne sono al corrente, in quelle di cui siamo stati maestri per secoli, come l’arte e la didattica artistica. Non mi interessa di certo esaltare l’orgoglio nazionale, per il quale francamente non nutro alcun interesse, ma ritengo che tra noi e gli anglosassoni vi siano sufficienti differenze che meritano di essere valorizzate, e non uniformate dal pensiero unico della globalizzazione.

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Perché ho rinunciato al disegno

Per promuovere il metodo VE.RA.DI. in Italia, tra gli editori e gli investitori pubblici e privati, abbiamo girato in lungo ed in largo e le risposte sono sempre state negative. Questo dimostra ancora una volta quanta strada ci sia ancora da fare affinché si dia il giusto valore alla ricerca didattica, ed in generale a tutta la conoscenza.

Cosicché, oggi in libreria troviamo molti titoli di grande successo su nuove metodologie tutti di importazione. Per citarne solamente alcuni in relazione all’arte e alla creatività, ci riferiamo alla Betty Edwards creatrice del metodo Disegnare con la Parte destra del Cervello, a Edward de Bono fautore del Pensiero Laterale, a Richard Bandler ideatore della Programmazione Neuro Linguistica (PNL), a Tony Buzzan teorico delle Mappe Mentali, e la lista potrebbe continuare ancora.

Un dubbio rimane, in cui non è chiaro se il successo di tali metodi si deve principalmente alla loro forza e costruzione intellettuale, o diversamente, alla loro forza commerciale!

Anche nel campo della didattica musicale, nei primi anni del XX secolo, sono stati elaborati metodi efficacissimi, che aspettiamo ancora di vedere applicati in grande scala in Italia, come quello Carl Horff o Suzuki, utilizzati largamente in Germania e Giappone ed in tante regioni del pianeta. Anche oltralpe negli anni ’60 è stata elaborata una metodologia psicoterapeutica ed espressiva al disegno e alla pittura dalla pedagogista Martenot da cui prende il nome il metodo omonimo.

È mai possibile che in tutti questi anni i creativi italiani si siano come atrofizzati? Non crediamo assolutamente. Giovanni Spinicchia è dimostrazione di una vitalità creativa che non ha smesso di esistere nella nostra nazione, ciò che invece è cambiato è un

atteggiamento in cui non si valorizzano più i propri talenti, ed è forse per questo motivo che dal 2002 al 2010 circa 60 mila ricercatori e giovani sono “scappati” dall’Italia verso altri paesi.

Punto in comune di tutte queste metodologie è l’ideazione e la messa in pratica di una serie di regole, procedimenti, atteggiamenti, ecc., che possiamo definire Codici di Apprendimento, che facilitano, e rendono di più ampia portata, l’accesso a delle competenze specifiche e l’uso delle stesse. Ma soprattutto hanno permesso di ottenere dei risultati in gran lunga superiori di quelli che si ottenevano e si ottengono, coi metodi tradizionali.

Grazie alle nuove metodologie di insegnamento è avvenuto:1. un miglioramento di quanto già si acquisiva con

altre metodologie2. una maggiore accessibilità delle conoscenze3 . maggiore possibilità di avere successo, inteso come

ottenimento degli obiettivi4. il raggiungimento di risultati più eccellenti ed, in

alcuni casi, “miracolosi”5. apertura di nuove prospettive e figure professionali

Purtroppo queste nuove metodiche, non più tanto nuove visto che esistono da circa quarant’anni, continuano ad essere estranee alla maggior parte delle persone e degli educatori.

Si nota, soprattutto che le nuove metodologie non si sono mai trasferite nelle didattiche istituzionali delle scuole statali o parificate, se non per interesse e merito di iniziative individuali. Anche se l’arretratezza didattica del nostro paese è a volte quasi irritante, se non indignante, ci auguriamo che i tempi siano maturi per una più ampia diffusione di metodiche non tradizionali nell’educazione alle arti e alla creatività espressiva.

I limiti del metodo Disegnare con la Parte destra del Cervello

Senza dubbio va dato atto che questo metodo nel campo della psicopedagogia del disegno è stato come un fulmine a ciel sereno ed ancora, a distanza di più di 30 anni dalla sua prima pubblicazione in Italia, è

rimasto fino ad oggi, a parte VE.RA.DI., l’unico testo che affronta l’annoso problema della mancanza di un codice di apprendimento del disegno.

Il libro, a mio avviso, contiene, non solo inadeguatezze

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Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.

pedagogiche, ma anche distorsioni concettuali. Se volessimo vederle in un più ampio spettro, in cui si osserva come agisce la mentalità imperante, si potrebbe intravedere in tali errori concettuali anche delle inesattezze ideologiche.

Considerare che il disegno dipende dalla parte destra del cervello, come viene spiegato nel testo, è una forzatura priva di fondamento. Questa teoria, che vedremo poi in dettaglio, viene utilizzata, credo in assoluta buonafede, per dare una ragione fisiologica all’incapacità che molti incontrano nell’apprendere il disegno. Il metodo afferma che non si impara a disegnare perché non usiamo a sufficienza la parte destra del cervello. Su questo punto cardine ruota il metodo D.C. ed a questo deve la sua fortuna.

Sono totalmente in disaccordo a questo approccio pseudoscientifico del metodo che tira in ballo il cervello diviso in sinistro e destro.

Purtroppo, se pur affascinante questo approccio, tirando in causa le funzioni separate dei de emisferi, può portare ad un neopositivismo. La moderna neurologia e genetica si spingono troppo spesso in questa direzione, in cui si cerca di dare fondamento fisiologico a tutte le difficoltà psico-emotive che incontriamo nella nostra vita. Credo che l’essere umano sia qualcosa di più complesso, e anche se riconosco a tutte le attività umane una base fisiologica, non posso credere che l’inventiva e la creatività del pensiero dipendano, in maniera meccanica o causale, dalla conformazione fisica o biologica. Esse sono frutto di una continua interazione con le componenti più sottili dell’esistenza, in cui entrano in causa la psiche e quella sensibilità acuta che possiamo definire spirituale.

Se si credesse che il disegno dipendesse da una mancata utilizzazione di una parte del cervello, lo stesso ragionamento, per assurdo, ci porterebbe a credere che esso si possa stimolare con un farmaco, con una operazione chirurgica, o qualsiasi intervento chimico o meccanico.

Cosa c’entra dunque il cervello col disegno?

È solo un espediente psicologico. Ma purtroppo nel libro non si illustra in questi termini, facendo cadere il lettore in confusionari equivoci dalla pretesa scientifica.

Mentre invece, le parti del libro sicuramente valide sono quelle che ci pongono di fronte a dei problemi seri e reali, quali:1. l’inadeguatezza del sistema educativo tradizionale2. il pregiudizio castrante che per disegnare ci vuole

talento3. ribadire che disegnare è saper osservare4. la repressione del lato “artistico” delle persone,

mettendo in luce i traumi della nostra infanzia5. il tentativo di creare un percorso graduale di

apprendimento

Ma purtroppo questa metodologia si compromette su alcuni punti fondamentali:1. pone enfasi su un conflitto ed una divisione tra i due

emisferi, che non esiste!!2. non accompagna il candidato alla soluzione di tutti

problemi formali3. “ingolfa” la mente del discente con problematiche

estranee al disegno creando principalmente confusione

Vediamo il primo punto, quello concettualmente più deviante.

Il conflitto tra gli emisferiQuando mi sono incontrato col metodo VE.RA.

DI.® erano già 8 anni che presso la nostra struttura si utilizzava la metodologia Edwards. Questo metodo mi ha permesso di lavorare con discreti risultati e mi ha salvato dal vuoto della tradizione nel quale ero stato educato. Quindi grazie Betty Edwards! La riconoscenza che nutro, per un metodo degli anni ’70, non mi deve però far esimere dal muovere delle critiche che poi il lettore valuterà se accettare o meno.

Torniamo a noi. Fin dalle prime esperienze didattiche col metodo D.C. ho dovuto adattare e modificare alcune lezioni, perché alcuni contenuti creavano problemi più che risolverli. Problematiche che i miei allievi esprimevano regolarmente e cui non riuscivo a dare delle soluzioni. Vediamo quali.

Il metodo si basa tutto sulla trasposizione nella didattica del disegno, delle scoperte dei primi ricercatori in neurologia Roger W. Sperry e Jerre Levy che avevano notato che le due parti del cervello compivano funzioni differenti. La parte Destra e Sinistra non erano uguali, come lo sono i due reni o le due braccia, ma le loro

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Perché ho rinunciato al disegno

funzioni erano differenziate e complementari. Se ci pensate, è affascinante come già il Taoismo e il dualismo Pitagorico avessero espresso nella loro mistica questa realtà fisiologica. È chiaro che soprattutto negli anni ’60, periodo in cui si effettuavano tali ricerche sul cervello diviso e sulla differenza del lavoro dei due emisferi, ci fosse un particolare entusiasmo di fronte a certe ricerche che davano qualche risposta al come funzioniamo, e quindi si credeva anche di rispondere alla profonda domanda su “chi siamo”. Solo che l’essere umano, non è come una macchina, non possiamo classificarlo in base al volume del suo cervello, come si fa con una automobile in cui la cilindrata del motore è determinante. Eppure, quelle ricerche spingevano diversi ricercatori e appassionati ad andare oltre, a partire dal funzionamento fisiologico azzardavano delle risposte su “chi siamo”, e nel nostro caso sul perché disegniamo. Come se noi fossimo il nostro cervello o il nostro corpo!

Il testo della Edwards, infatti, fondamenta la sua metodologia su queste ricerche fatte con persone non sane fisicamente ma anormali, che avevano subito operazioni ed avevano il cervello diviso in due, dato che il corpo calloso che mette in comunicazione i due emisferi era stato reciso per diversi motivi atti a salvaguardare la salute complessiva dei pazienti. I pazienti analizzati e studiati da Sperry e Levy diedero ad intendere ai ricercatori che l’emisfero destro compiva funzioni cognitivo-spaziali e il sinistro logico-razionali. Quindi, per deduzione, se si lavora con l’emisfero destro anziché il sinistro si dovrebbe disegnare meglio.

Voi penserete che non si possa estendere una constatazione avvenuta in particolari circostanze di laboratorio a tutto il genere umano, ma dobbiamo ammettere che in diverse occasioni l’essere umano è stato affascinato da questo desiderio di comprendere e di controllare gli eventi, illudendosi che i successi ottenuti in un campo gli potessero dare la soluzione a problemi che non rientravano in quello specifico. A volte questo modo di ragionare, di esportare le scoperte di un settore in un’altro, si è verificata una buona strategia per avanzare, ma troppo spesso si è assistito a delle forzature1, e questo mi sembra il caso di questa bizzarra neurologia del disegno.

Questa tesi neurologica, chiaramente, non è mai stata provata scientificamente con soggetti sani, perché altrimenti si sarebbe visto che è sostanzialmente falsa. Questa divisione di funzioni non esiste, e tutti coloro che affermano che la parte destra è sede della

creatività, e viceversa la sinistra della ragione, lo fanno forse perché ancora il loro sistema di credenze considera l’uomo al pari di una macchina, complessa e meravigliosa s’intende, ma non differente da qualsiasi altro fenomeno privo di libera intenzionalità.

Io credo fermamente, anche dalle mie sperimentazioni didattiche, che la situazione sia decisamente più complessa, intrecciata e complicata. Non metto in discussione che avvengano delle specializzazioni funzionali nel cervello, ma voi avete mai provato a disegnare? Vi sembra possibile che il resto del cervello si spenga e dica “ora entri tu, parte Destra, a lavorare perché sei più brava di me?”

Disegnare non è una funzione né biologica né tantomeno meccanica, come si fa a credere che la nostra incapacità derivi dalla supremazia della parte Sinistra del cervello sulla Destra?

Moltissimi allievi mi chiedevano negli anni: “Ma io ho la parte destra sviluppata?”; “Io sono mancino quindi disegno meglio?”.

Vi rendete conto di cosa si andava a creare con questo tipo di approccio? Pensavano ingenuamente che quanto dicesse la Edwards potesse veramente verificarsi.

Questo dualismo è fortemente alimentato nel testo della Edwards, in cui il cervello si divide in D (destro) e S (sinistro) che si parlano, in cui si suggerisce di escludere l’azione del cervello S predominante. Seguendo il testo parrebbe che tutti noi siamo in conflitto perché abbiamo due emisferi che la pensano diversamente e che il Sinistro vuole comandare. Qui sorge il problema dato che il cervello S non va assolutamente bene per disegnare, va tenuto a bada e va fatto lavorare quello giusto il cervello D. Ad ognuno va affidato il suo compito: che il cervello S faccia i calcoli e che il cervello D pensi a disegnare!

È sicuro il fatto che la tesi “scientista” e non scientifica della Edwards ha il suo impatto nel lettore ed è stata forse questo approccio a fare la sua grande fortuna editoriale, ma essa non centra niente con l’apprendimento del disegno, tant’è che i risultati ottenuti con la sperimentazione del metodo VE.RA.DI.® sono decisamente più veloci, profondi, estesi ed efficaci.

Quindi dal secondo anno in cui applicavamo il

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Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.

metodo D.C. decidemmo di cambiare subito alcuni presupposti, primo fra tutti che il cervello non è diviso.

La parte D non è specializzata nel disegno più della S, solo grazie alla interezza delle nostre capacità che possiamo disegnare.

È chiaro che senza il ragionamento razionale che si vuole arginare all’emisfero S non esisterebbe il disegno perché nell’arte c’è tanta di quella costruzione logico matematica da far rabbrividire, molta più della componente fantastica, immaginifica ed estemporanea.

Ma lasciare che la magia dell’emisfero D risolva i problemi del disegno quasi da solo, significa non affrontare il problema del disegno fino in fondo cercando, con questo stratagemma, di farlo divenire un vaso di pandora.

Si disegna con tutti e due gli emisferi, sempre e comunque, e non esiste questo conflitto tra le due componenti razionale ed emotiva a livello neurologico, ma solo la si sperimenta per un sistema educativo e repressivo che abbiamo commentato ampiamente nel resto del libro.

Esercitazioni teoriche e poco applicabili

Il metodo Edwards ha sinceramente il merito di aver sollevato il problema del “saper vedere”. Il testo non propone la risoluzione dei problemi legati alle differenti realtà da copiare, che potremo riassumere in natura morta, paesaggio naturale e urbano, e figura umana, come è nel testo VE.RA.DI.®, ma propone, a soluzione di tutte le problematiche del disegno, 4 differenti modi di guardare:1. disegnare senza guardare2. guardare al contrario (solo con le foto che si possono

girare)3. guardare i soli contorni4. guardare tutto ciò che sta attorno all’oggetto

o spazio negativo (pratica quasi impossibile da effettuare!)

Anche se si considerano questi esercizi sul “vedere” come propedeutici all’attività del disegno, essi si discostano dalla pratica reale e fattiva del disegnare.

Quando pratichiamo non possiamo disegnare senza guardare, quindi dopo che si sia compiuto questo esercizio non sapremo come applicarlo nella regola; neppure possiamo capovolgere il mondo per vederlo al contrario come suggerisce il secondo esercizio; vedere solo le sagome delle cose può invece essere un buon mezzo per avanzare; in ultima analisi, riuscire a compiere questo difficilissimo atto mentale di escludere l’oggetto e vedere solo quello che gli sta attorno si è verificata una impresa quasi impossibile!

Dunque cosa rimane? Un affascinante libro che parla del disegno e di

tanti di argomenti letterari o saggistici decisamente interessanti. Argomenti sul disegnare, come noi trattiamo in questo libro, ma che non guidano nella pratica alla risoluzione di tutte le problematiche della copia dal vero.

La maggior parte delle persone che veniva al corso aveva letto il libro, per mia fortuna perché era un mezzo se vogliamo pubblicitario del mio corso. Veniva al CUEA perché non era riuscita a finire la lettura del libro, e tanto meno a fare tutti gli esercizi.

Devo ringraziare oltremodo la Edwards perché ogni anno giungevano molti studenti che affluivano proprio grazie alle promesse non risolte e alla difficoltà del testo.

Il metodo fornisce, inoltre, delle finestrelle trasparenti chiamati “mirini” come se fossero degli schermi di vetro su cui disegnare ciò che si vede, qualcosa di difficilissimo e di improbabile riuscita, tanto che dopo tre anni di prove capimmo che ci complicavano solo la vita, ed abbandonammo la finestra trasparente. Anche in questo caso si ricorreva ad uno stratagemma di dubbia riuscita che non si poteva applicare nella pratica, come quando siamo in viaggio e vogliamo fissare un scorcio di una cittadina sul taccuino che ci portiamo appresso. Nel metodo VE.RA.DI. non ci sono trucchi e stratagemmi propedeutici, che si usano in “laboratorio” e che poi non si possono applicare nella quotidianità.

Per dover di cronaca, nel libro c’erano anche altre due modalità per affrontare la prospettiva e le luci, quindi potremmo dire che in tutto il metodo D.C. si educa a 6 modi di “vedere”. Questi altri due modi per copiare la prospettiva e le ombre erano così difficili che anche io, che disegno da sempre ho faticato moltissimo a capire come si dovevano utilizzare. Dopo la prima sperimentazione li esclusi dal corso.

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Per quanto riguarda il disegno negativo ossia disegnare una forma guardando ciò che la circonda, è il punto che mi ha dato più filo da torcere. È stato un trauma. Ogni anno su 40 allievi lo capivano in tre, e dopo il terzo anno eliminai questa pratica. La mantenni perché in effetti, per chi capiva questo modo di vedere, poteva anche essere un utile approccio, ed anche io quando disegnavo la trovavo una buona modalità di guardare. Ma mentre la mia esperienza di 20 anni di attività mi permetteva di cogliere la “visione in negativo”, per la maggior parte degli allievi alle prime armi, il concetto gli rimbalzava del tutto. Così dovetti rinunciare anche a questo esercizio del metodo D.C.

Insomma quando adottammo VE.RA.DI. presso il nostro centro, del metodo Edwards utilizzavamo solo tre esercizi su sei, mentre, nelle parti più complesse e difficili dell’apprendimento, avevamo attuato nuove strategie, tra l’altro molto vicine al metodo VE.RA.DI.. Evviva! Il nuovo metodo risolveva gli aspetti stimolati dalla Edwards, ma da lei mai risolti.

Ma che confusione!Dobbiamo ringraziare la Edwards perché quando

aprimmo la scuola non esistevano libri di psicopedagogia del disegno ma solamente i classici manuali che ti illustrano i risultati finiti, belli da vedere magari, ma privi di una qualsiasi didattica di apprendimento graduale, metodica e realmente efficace per i neofiti. E così continua ad essere per tutti i manuali di disegno: non insegnano ai non capaci, ma abbagliano con le loro belle copertine e belle illustrazioni.

Sono libri di lettura, in cui un esperto può trovare anche buone indicazioni. Un esperto, ma non un principiante.

Ora, a distanza di anni dalle prime sperimentazioni, il libro Disegnare con la parte destra del cervello, come manuale di disegno, mi risulta farraginoso ed estremamente difficile, soprattutto se paragonato a VE.RA.DI.. Può essere un interessante testo di lettura, anche se pieno di concetti fuorvianti e un forzati, come abbiamo già trattato.

Esperienza VE.RA.DI.Incontrai Giovanni Spinicchia in un bar di Via

Romana, nello storico quartiere di Firenze, Oltrarno, non distante dal suo studio di Via dei Serragli. Distribuivo i volantini della scuola, di cui portavo sempre delle copie appresso e che consegnavo nei luoghi di passaggio.

A quel tempo Giovanni, dopo vari tentativi di far adottare il suo metodo a famose scuole di Firenze, non aveva ancora trovato un luogo dove potesse operare senza causare gelosie ed invidie da parte di altri insegnanti, che si vedevano sempre sorpassati nella loro didattica da quel metodo, che poi chiamammo VE.RA.DI., che tanti risultati aveva dato negli anni.

Non era certamente il mio caso, non avevo nessun ruolo da difendere, ero sempre alla ricerca di innovazioni e di miglioramenti. Dalle sue prime parole capii che quel simpatico individuo mi stava offrendo una grande occasione per crescere ed avanzare.

Di li a qualche giorno, mi invitò al suo studio per farmi vedere le “prove” di quanto egli affermava riguardo alle sue capacità di insegnamento. Rimasi estasiato e sorpreso, non diversamente da tutti i nostri allievi quando gli presentiamo il metodo.

Disegni perfetti, eseguiti con pulizia, esattezza e quella piacevole sensazione di piacere e rilassamento. I suoi allievi mostravano la forza di chi è sicuro in quello che fa. Una fermezza di intenti che ben si mostrava, in quei tratti veloci e sicuri ed in quella sensibilità formale e chiaroscurale che tutti gli allievi parevano aver conquistato, senza quasi nessuna distinzione tecnica tra i diversi risultati.

Un metodo sorprendete! Decisi allora di convocare subito una nuova classe di sperimentazione per misurarmi con questo nuovo codice di apprendimento.

A quel tempo la mia esperienza di insegnamento del disegno si basava in parte sulla didattica del metodo Edwarsd ed in gran parte da cambiamenti dello stesso che avevo effettuato negli anni con l’obiettivo di raggiungere quella perfezione che presentavano invece gli ex allievi di Giovanni Spinicchia. Ora avevo l’occasione di raggiungere ciò che avevo sempre cercato! Ora, lui, mi offriva in più sensazionale metodo

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che io avessi mai conosciuto, senza chiedere niente in cambio, se non la possibilità di poterlo offrire al mondo e di praticarlo in una scuola.

Tra gli allievi del nuovo corso una buona parte aveva già effettuato un anno di disegno al CUEA. Mi accorsi solo allora quanto quelle persone, che credevo oramai abbastanza esperte, avessero così tante lacune strutturali nel disegno. Loro sapevano copiare benissimo, con chiaroscuro e proporzioni, ma nei loro disegni mancava qualcosa...

Mancava una costruzione intellettiva solida che gli facesse dire: “disegno questa forma, questo braccio o viso, perché ho capito la sua struttura profonda”.

Purtroppo disegnavano ancora molto per mimesi, ossia per imitazione superficiale ed estetica. Questo modo di procedere potrei paragonarlo ad una tipologia di formazione che vidi, diversi anni prima, in TV e che ben si presta come esempio. Si trattava di un video che documentava come in Giappone un orchestra di bambini di sei anni, suonasse alla perfezione musiche di Beethowen.

Strabiliante! Mi dissi. In effetti la cosa mi incuriosì moltissimo, tanto

che feci delle ricerche. Scoprii che questi bambini, che suonavano perfettamente brani musicali, che solitamente si riesce a padroneggiare con anni di studio ed in età decisamente più avanzata, potevano eseguirli solo per imitazione pedissequa senza in realtà sapere come sia la struttura musicale, quindi senza conoscere le note del pentagramma. Un’educazione sonora, e nel caso dei miei allievi visiva, spogliata da ogni ragionamento è quindi più semplice, veloce ed immediata da apprendere ma mostra sempre una certa ripetitività e rigidità. Questa impostazione imitativa non consente, quindi, all’operatore di modificare la struttura ed in fondo di comprenderne la sua plasticità e la sua creativa possibile combinazione. Questa è una tipologia di conoscenza che rimane limitata alle sole nozioni acquisite.

La metodologia VE.RA.DI. al contrario di quella D.C., che potrei definire imitativa, non insegna direttamente a disegnare ma a ragionare, cioè a comprendere quali

siano i comportamenti mentali che sono alla base del disegno di qualsiasi forma, vista in qualsiasi situazione e da qualsiasi punto di vista. Il disegnare è quindi solo una conseguenza di una comprensione basilare, profonda e totale di una attività non solo visiva, ma mentale, visiva e manuale.

Questa conoscenza, così asciutta ed essenziale quanto efficace e diretta al compito da eseguire, ha anche il pregio di rimanere impressa nel tempo perché le operazioni mentali che si eseguono in questo nuovo metodo, sono così affascinati che aprono una finestra su un modo di vedere ordinato e metodico, tanto che ci si può ritrovare ad applicarlo anche in altre sfere del fare e del sapere. È una ginnastica mentale che ordina il pensiero in tutte le sue categorie formali, anche se esse non sono direttamente quelle di copiare un oggetto dal vero, ma solamente quelle della normale percezione quotidiana.

Quando iniziò la classe su VE.RA.DI. avevo qualche dubbio su questa “miracolosa” metodologia, ma se esisteva una tale metodologia era necessario poterla conoscere e divulgare a più persone possibili.

Invitai quindi circa 25 persone tutti ex alunni del CUEA a verificare e sperimentare questo nuovo approccio.

Va detto che il metodo VE.RA.DI. parte da compiti semplici mentre invece con il metodo Edwards si passava dopo poche lezioni a disegnare il volto umano senza approfondire la natura semplice delle forme e delle linee. Per questo motivo mi sorpresi molto nel constatare che i disegni iniziali eseguiti dai miei ex allievi col metodo VE.RA.DI. risultassero così scomposti e privi di logica.

Dopo una decina di lezioni dovemmo sospendere il corso perché eravamo arrivati a Giugno e, quando riprese l’anno a settembre del 2005 stavamo già lavorando alla stesura del libro e all’ordinamento del metodo che decidemmo di chiamare VE.RA.DI. e non rimase del tempo per continuare la sperimentazione.

Nonostante le poche lezioni eseguite al CUEA, vorrei riportare, a testimonianza della efficacia di questo codice di apprendimento, alcuni disegni eseguiti dai miei allievi.

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Perché ho rinunciato al disegno

Disegni eseguiti durante l’applicazione del metodo VE.RA.DI.

Questi 5 disegni sono stati eseguiti da Diego in 10 lezioni. La penna è il primo disegno che ha fatto, il

comò con la lampada l’ultimo. Il resto dei disegni dimostrano la progressione della sua “mente”

nell’affrontare la copia dal vero.

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Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.

ConclusioniNon è stato facile ammettere che gli anni di lavoro con altri metodi e le mie personali scoperte

metodologiche, non avessero in realtà tolto ogni possibilità di errore ai candidati, eppure, per onor di verità e di conoscenza, ho ritenuto molto più intelligente ed interessante comprendere VE.RA.DI. piuttosto che rifiutarlo.

Da questo esperimento al CUEA è nata la collaborazione con Giovanni Spinichhia che ci ha portato, grazie alla sua esperienza e alla mia capacità organizzativa nel documentare il suo metodo, a ordinarlo e riassumerlo in una pubblicazione in modo tale che questa conoscenza potesse essere diffusa e fatta sperimentare a più persone possibili.

Oggi il metodo è accessibile a tutti grazie la pubblicazione del manuale di disegno VE.RA.DI.

1. Il pensiero scientifico, soprattutto in seguito ai grandi successi del XVIII secolo, ha esteso le sue tesi meccanicistiche anche alle scienze sociali e mediche applicando gli stessi parametri di valutazione e di analisi all’essere umano che non è un essere meccanico ma intenzionale, ed in cui la sua libertà di scelta lo differenzia sostanzialmente dai fenomeni fisici e biologici.

Note

Queste altre illustrazioni sono opera di Manuela, eseguite alle ultime lezioni.

SEMINARI VE.RA.DI. AS.PE.DI. ed ES.TE.TRA.

Simone Casu diffonde le proprie conoscenze metodiche attraverso dei seminari di due giorni che si svolgono in tutta Italia. Le sedi sono quattro suddivise in nord, centro e sud Italia e Sicilia.

I seminari si svolgono nei fine settimana presentano tutti lo stesso svolgimento.

Partono con una conferenza gratuita ed aperta a tutti il Venerdì sera, alle ore 21, della durata di un’ora di esposizione dell’argomento, una sorta di lezione che fa parte del seminario, a cui di seguito viene dato ampio spazio alle domande dei convenuti. Il sabato e la domenica si studia e si lavora dalle 9.30 del mattino fino alle 18.30 circa con una pausa autogestita di un’ora per il pranzo.

Per visualizzare le date, i luoghi e le tematiche dei seminari andate sui siti:

www.cuea.itwww.veradi.euwww.estetra.org

Perchè ho rinunciato al disegno

Perché ho rinunciato al disegno!Il libro, si rivolge ad amanti, studenti ed insegnanti d’arte, e a tutte quelle

persone che hanno sempre desiderato disegnare e non hanno mai creduto di poterci riuscire.

Una ressegna di testimonianze, denuncie, anedotti che raccontano la storia mai espressa di milioni di persone che, per la mancanza di un codice di apprendimento per il disegno e per i pregiudizi sociali, hanno rinunciato ad una delle esperienze più belle e appaganti della loro infanzia.

Perchè ho rinunciato al disegno, desidera dare voce e sopratutto speranza a tutti coloro che si riconoscono in quella umanità privata della propria espressività grafica perchè considerata senza talento.

Questo testo intende informare sui metodi di disegno AScoltare PEnsare DIsegnare (AS.PE.DI.) e VEdere RAgionare DIsegnare (VE.RA.DI.) di Giovanni Spinicchia, che da 40 anni permettono a chiunque ad apprendere a disegnare come hanno imparato a leggere, scrivere e fare di conto.

Il libro è nato dalla necessità di divulgare al grande pubblico le motivazioni e le intenzioni che hanno dato origine ai metodi AS.PE.DI. e VE.RA.DI.

È un viaggio nel mondo del disegno visto da chi lo ha sempre insegnato rendendo felici intere generazioni di studenti.

Giovanni Spinicchia e Simone Casu sono autori dei libri sui metodi di disegno per bambini AS.PE.DI. e per adolescenti ed adulti VE.RA.DI. editi dalla stessa casa editrice.