Signorina lei ha bisogno d'affetto - Lucia Montesi

130

description

 

Transcript of Signorina lei ha bisogno d'affetto - Lucia Montesi

Ai miei genitori,che sognavano per me un tranquillo

lavoro a chilometri zero, e adesso mi fanno il pienoe mi lasciano andare in capo al mondo

A Patrizio,paziente e saggia cavia per ogni anteprima

di slide, relazioni, opuscoli, libri…per “vedere di nascosto l’effetto che fa”

Ad Amelia,gatta lunatica sempre a un metro di distanza,

che però se mi vede tornare a casa stranami viene a dormire vicino

Lucia

Finito di stampare presso:GL TIPOGRAFIA - Colmuranonel mese di giugno 2013grafica: Serena Natali

Prefazione

Sono davvero onorato di essere stato chiamato a pre-sentare questo volume che raccoglie alcune esperienzedella dottoressa Lucia Montesi nel nostro reparto di On-cologia, esperienze che lasciano doverosamente spazioanche alla voce dei pazienti come “protagonisti” dellaloro malattia.Faccio questo lavoro da più di trent’anni, e se tornassiindietro lo rifarei non una ma cento volte e lo rifarei allostesso modo. Come giovane laureando, come assi-stente, come direttore: rifarei tutto. Questo lavoro hadato un senso alla mia vita, e dalla vita ho ricevuto moltodi più di quanto io abbia dato. Sono soddisfatto e appa-gato di quello che ho vissuto. Grazie a questo lavoro hogoduto di privilegi che non avrei mai immaginato: se miavessero detto che avrei avuto la decima parte di quelloche in effetti ho ricevuto, sarebbe già stato il massimoper me. Ho avuto la possibilità di girare il mondo, di co-noscere città e posti che altrimenti non avrei mai visto.Soprattutto, ho potuto conoscere tante persone che mihanno permesso di crescere, e confrontarmi con grandicolleghi grazie ai quali sono diventato migliore. Mihanno insegnato, e da allora ho sempre sostenuto, checi sono “grandi medici”, ma anche “grandi ammalati”. I“grandi medici” sono clinici capaci, in possesso della loro

3

professionalità e del carisma personale necessari perpoter assumere una posizione rispettosa delle cono-scenze acquisite, ma in essi traspare sempre l’inten-zione a comunicare che viene percepita dal malatocome vicinanza, disponibilità a curare al meglio.I “grandi ammalati” sono capaci di parlare ai loro medicicon una umanità comprensiva e talvolta addiritturaspiazzante; sono capaci di valutare anche le possibiliprospettive negative della loro malattia e di trasmetteregratitudine non solo per l’eventuale guarigione, maanche per l’aiuto ricevuto dal medico.I “grandi medici” e i “grandi ammalati” non sono che gliesempi estremi di un bisogno innato, un’attitudine natu-rale ad incontrarsi, che una cultura molto rigida nell’o-biettivo della cura della malattia ha reso difficile, talvoltaaddirittura impossibile. Una cultura per cui anzi - se vo-gliamo estremizzare - “Guai a farlo!”.Qualcuno ritiene infatti che se vogliamo fare una medi-cina veramente obiettiva (fondamentale per la scienza)non dobbiamo ascoltare il paziente, non dobbiamo avereun rapporto con lui, perché questo ci può influenzare: lacondivisione emotiva ci condizionerebbe e distoglie-rebbe da una corretta diagnosi e terapia (non riesco acurare un mio parente perché sono troppo condizionato).Questo piccolo volume ci racconta di come sia invecepossibile e vitale includere l’idea dell’umanità di tutti i

4

protagonisti (medici, infermieri, psicologi, volontari…)nelle vicende della malattia e della cura.L’apertura a questo spazio umano, a questo mondopieno di emozioni - spesso tenuto nascosto dal malatoe dal medico - rende la relazione di cura ricca, intensa,e rappresenta un’esperienza umana importante, talvoltaindimenticabile. Tutto questo naturalmente vuol direanche “soffrire” con il paziente, gioire con lui, in rapportoalle varie evoluzioni della malattia. NON E’ FACILE! E’molto più facile rimanere oggettivamente distaccati, per-ché questo tipo di rapporto non è esente da sofferenzapropria. Anche a me, come alla dottoressa Montesi ecome ai nostri infermieri, medici, volontari, è capitato dipartecipare ai funerali, o di salutare i parenti in cameramortuaria. Questo esige uno sforzo aggiuntivo, rispettoalla medicina che viene insegnata. E’ il grande passag-gio tra ciò che definiamo “curare un paziente” e “pren-dersi cura del paziente”.Io credo che si debba resistere alla tentazione di unaeccessiva oggettività, che sia importante ritornare a unacondizione di maggior dialogo con i pazienti, soprattuttoin oncologia, dove è sempre più necessario assumereun atteggiamento di profonda umanità e di empatia.Questa presentazione mi permette di ringraziare la dot-toressa Lucia Montesi per come ha saputo interpretareil modo di essere psicologa nel reparto. Un ringrazia-

5

mento da parte mia ma anche di tutti gli altri operatoridel nostro gruppo di lavoro, dei pazienti e dei loro cari.Ho sempre sperato di poter offrire ai nostri pazienti e ailoro familiari una figura di psicologo diversa da molteche mi era capitato di incontrare in passato: una per-sona professionalmente preparata e competente, maanche e soprattutto aperta al dubbio, non arroccatanelle sue certezze o in certi dogmi, disposta a mettersiin discussione, capace di fare proprio l’atteggiamento difondo che anima tutto il reparto e di diventare parte in-tegrante di un gruppo. Confesso che ero inizialmentescettico e dubbioso, perché troppe volte mi sono scon-trato con le posizioni rigide di certi psicologi. Io stessosono rimasto perciò sinceramente e felicemente stupitoper il modo in cui Lucia è riuscita a interpretare il suoruolo nel nostro reparto, ad essere un sostegno per tantinostri pazienti e a farsi amare dalle persone che ha in-contrato.

Luciano Latini

6

Volevo Lavorare In Un Vivaio

“Che lavoro fai?”

“La psicologa.”

“Aaaaaah, bello! E dove lo fai?”

“In ospedale, oncologia.”

Silenzio. Pausa di esitazione/imbarazzo/chia-mata a raccolta di idee. Quindi, commento che ti-picamente rientra nel repertorio seguente:

“Ummmmmmmh”, occhiata che diceoddio che orrore - ma chi te lo fa fare -per carità cambiamo argomento, scon-giuri vari di accompagnamento e re-pentina virata della discussione sultema ‘che tempo fa oggi’

“Bravi, vi ammiro tanto, voi che aveteil coraggio di fare questo lavoro!”

“Eh, lì sì che c’è tanto bisogno di voi!”o indifferentemente “Eh, ma tanto lìuno psicologo a che serve?”

7

“Ah, lavori con quelli che stanno permorire, pesante!”

“Ah, mi sono sempre chiesto unacosa: ma voi come fate a rimanere di-staccati?”

Mai sentito reagire con un “Che bello, vorrei farloanch’io!”. Eppure per me è il lavoro più bello delmondo. Mai lo cambierei con un altro. Ho lavo-rato dappertutto: nelle scuole, in ospedale, nellecase; con i bambini al nido, con i bambini disabili,con i bambini con disturbi d’apprendimento, coni bambini stranieri, con bambini e adolescenti di-sagiati, con adulti disabili, con adulti con malattiamentale, con gli anziani, e con i malati oncologiciper sette anni, nel volontariato. Sempre con en-tusiasmo, sempre con passione. Ma di alzarmi lamattina con la smania di partire per andare a la-vorare, non m’era capitato mai.

Prima di lavorarci, a Macerata c’ero stata unavolta sola. Non avevo neanche idea di come arri-varci. Ora l’auto va da sè. Quando facevo il tiroci-nio durante l’Università, una volta lo psichiatrache mi seguiva come tutor, incontrando mia

8

madre le disse: “Vedrà signora, vedrà, sua figliane farà di strada!”. E infatti: 55 chilometri andata,55 chilometri ritorno, percorso interno più rapidoe panoramico, durata del viaggio imprevedibile inbase a: camion, camion con rimorchio, trattori,trasporti eccezionali, ruspe, guidatori anziani concappello, allagamenti, smottamenti, neve. E poida quando lavoriamo anche a Civitanova Marchee San Severino sto più tempo in macchina chedentro l’ospedale. Ma non importa.Probabilmente in un altro reparto di oncologianon sarebbe così. L’Oncologia di Macerata nonsembra neanche un ospedale, e se non lo vedidi persona è difficile capire. I colori; i quadri; lepiante; i giochi per i bambini; gli acquari; il pia-noforte; il sorriso degli operatori… L’elenco po-trebbe durare una settimana, ma uno ci deveentrare per sentire quant’è diverso. E così per Ci-vitanova e San Severino, anche se, lo ammetto,mi viene sempre da parlare di Macerata perchéè lì che sto da più tempo e perché quello è statoil primo amore…Quando incontro i vecchi colleghi con cui ho la-vorato in passato nei settori più disparati e li invitoa venire in reparto per vedere com’è BELLO, miguardano come una folle da internare. Mi com-

9

patiscono, dicono “Poverina, ma come sei finitalì? Ma quanto stavi meglio da noi!”. Chissà cosaimmaginano, quali fosche fantasie evoca in lorola parola oncologia. Forse hanno sperimentato losquallore di alcune Oncologie. O nel migliore deicasi, l’efficiente asetticità di altre. Di certo comun-que, il termine “bello” associato a “oncologia” glisuona come un binomio impossibile, un obbro-brio contro natura. Invece, quello che colpisce diquesto posto è proprio la bellezza.L’attenzione alla bellezza di un luogo nel costruirloe prepararlo significa attenzione e cura per le per-sone che ci staranno; significa, in definitiva,amore. Scegliere una poltrona pensando a chidovrà passarci molte ore faticose, o un coloredella tenda che possa regalare un po’ di serenità,o un quadro che sia piacevole da guardare nellungo tempo dell’attesa. A me piace pure com-prare dei fazzoletti di carta decorati per le personeche vengono da me. Nella mia stanza capita fre-quentemente di piangere: di tristezza, di paura, dirabbia, di gioia. Le lacrime sono sempre impor-tanti e meritano fazzoletti scelti con cura. A voltela persona che piange interrompe i singhiozzi perqualche attimo per dire “Però che belle questerose” oppure “Oh, un fazzoletto coi gatti, mi piac-

10

ciono tanto!”. Persino nei momenti più dolorosi labellezza delle cose scelte con amore può per unistante alleviare la pena.Molti pazienti dicono che in reparto si sentonocome a casa e come in famiglia. Altri passano perun saluto anche quando non hanno la terapia. Mase uno non vede, non può capire.Così come è difficile per le persone capire che inOncologia non si va a morire! Da oltre la metà deitumori si guarisce completamente, e molti altri sipossono fermare o rallentare per anni. Difficile im-maginarlo come un posto di vita e di speranza, einvece proprio ieri una signora diceva: “Quandomi hanno detto del tumore, ho visto il mio fune-rale. Ma venendo qua ho visto tanti che cel’hanno fatta e ce la fanno, e sento che ce la faròanch’io! E ora, dopo anni di torpore, voglio viveredavvero”.Le prime volte che le persone nuove arrivano inreparto per la terapia restano turbate dal gran nu-mero di malati; spesso si spaventano e scorag-giano. Magari hanno in mente familiari o amicicon storie particolarmente pesanti, o si trovanoloro malgrado ad ascoltare lo sfogo del vicino disedia che alimenta la loro ansia. Con il tempoperò la fiducia si rafforza e consolida. Quanto gli

11

farebbe bene venire in reparto di pomeriggio,quando ci sono le visite di controllo: tutti quelliche la terapia l’hanno fatta e sono guariti, e ven-gono solo per le visite di routine. Una prospettivadiversa e decisamente più incoraggiante.Lo psicologo in oncologia lavora con i problemipiù diversi: dall’ansia all’insonnia, dalla depres-sione alla difficoltà sessuale, dal “come lo dico amio figlio” al dubbio se tentare un’altra chemio,dal conflitto coi familiari al rapporto col medico.E non lavora solo sul “problema”: fa prevenzione,psicologia del benessere, incoraggia le modalitàpiù sane per reagire alla malattia, e fa riabilita-zione: come riappropriarsi della vita dopo il tu-more e tornare a vivere, lavorare, uscire. Certo lavoriamo anche con la morte, con l’ango-scia e il dolore. Eppure resta il luogo che più ditutti ho sentito e sento vitale. Persino più dell’a-silo nido. Lo psicologo che lavora in oncologia è un dona-tore di fiducia. Fiducia e speranza possono ac-compagnare ogni fase della malattia: fiducia nellaguarigione, o nella possibilità di rallentare la ma-lattia o di controllare il dolore, ma anche fiduciadi non essere lasciati soli, di trovare un senso direalizzazione alla propria esistenza, fiducia di ri-

12

trovare un familiare o un amico, di vedere che ifigli sanno cavarsela da soli, o di chiudere deiconti lasciati in sospeso. Fiducia nel perdono, nelsenso più ampio della parola: riappacificarsi conse stessi, con gli altri, con la vita.

Mi ha sempre affascinato l’idea di lavorare in unvivaio, perché mi piace la parola: “vivaio”, dà pro-prio l’idea di stare in mezzo a qualcosa di rigo-glioso che vive, fiorisce, mette foglie, dà frutti, unposto delimitato in cui si coltiva vita in modo in-tensivo. In effetti, qua ho la stessa sensazione:pur essendo un luogo di malattia e sofferenza, sipercepiscono con sorprendente nitidezza laforza del desiderio, la capacità di dare senso eprogettare nonostante tutto, il potere che la fra-gilità umana ha, di creare legami profondi tra lepersone.

13

Nota sullo psiconcologo

Già le persone non hanno le idee troppo chiaresu chi sia lo psicologo. A complicare le cose, pureil nome è strano e pone delle difficoltà di pronun-cia: quando va bene diventa “il pissicologo”, macapita pure “spicologo”, “psicolico”, persino “po-dologo” (che, per la cronaca, è chi si occupa dipiedi).E poi psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista,psichiatra…quanti psico-qualcosa…insomma,ma che differenza c’è? Un comune mortale fa fa-tica ad orientarsi.

Capirai “psiconcologo”. Suona pure male. La pa-rola certo non aiuta: la maggior parte della gentesente “oncologo” alla fine, si perde “psic” all’inizio,e giustamente pensa si tratti di un medico. Forseera meglio onco-psicologo? Ma suona pure peg-gio. Il termine è stato introdotto per indicare unopsicologo che ha una formazione specifica inpsico-oncologia, la disciplina che studia gliaspetti psicologici legati alle malattie tumorali:l’impatto della malattia sul paziente, sui familiarie sugli operatori sanitari, e il ruolo dei fattori psi-cologici nella prevenzione, diagnosi e cura dei tu-

15

mori. Il parolone, diciamolo, fa comunque la suabella figura, e in genere noi psicologi siamo piut-tosto orgogliosi di poterlo aggiungere ai nostri ti-toli, se non altro per la fatica con cui ce lo siamoconquistato; è inoltre utile nelle comunicazioni traaddetti ai lavori, per poter avere un’idea imme-diata del settore di cui ognuno si occupa, tra gliinnumerevoli ambiti della psicologia. Ma per farcicapire e cercare dalla gente…penso che “psico-logo” sia più che sufficiente, più semplice, e facilitile già complicate manovre di avvicinamento delpaziente, che di frequente esita a bussare allanostra porta, trattenuto da un legittimo dubbio:“Ma questo, adesso, COSA MI FARA’?”

Ah, il fatto che il nostro Direttore detesti il terminee ricordi costantemente a me e al collega Luigiche “Se sento che vi fate chiamare psiconcologi,non vi rinnovo il contratto!”, è chiaramente unacoincidenza del tutto casuale.

16

“Scusi…dov’è il bagno?”

Ho cominciato a lavorare a Macerata il 7 aprile2009. Con la mia valigetta 24 ore, scarpe basseconsone al contesto, animata dai migliori propo-siti ed entusiasta di offrire il mio aiuto all’umanità.

Al termine del primo mese, il bilancio dell’utenzache si era affacciata sull’uscio del mio ambulato-rio (appositamente lasciato aperto per incentivarel’afflusso) ammontava a:

n.12 individui che vagavano alla ri-cerca di un bagno;

n.8 disperati persi nei labirinti dell’o-spedale, che supplicavano indicazioniper raggiungere il reparto x;

n.1 vecchietto evaso dall’attiguo re-parto di Urologia, che caparbiamentesosteneva di dover effettuare da meuna medicazione del pene.

Trent’anni di studi. Quindicimila euro spesi soloper la specializzazione. Sette anni di esperienza

17

in oncologia… Sconforto e frustrazione comincia-vano a minare la mia autostima.

Alla fine, a parte il vecchietto che con non pocafatica convinsi a tornare in Urologia, decisi disvolgere comunque al meglio e con passione ilcompito che mi veniva richiesto. Dato che avevotempo ed energie inutilizzate, piuttosto che limi-tarmi a dire “Signora guardi per il bagno diritto epoi subito a destra dopo la porta a vetri”, ce l’ac-compagnavo pure, e con il mio miglior sorriso etutta la gentilezza che ogni cellula di me potevaesprimere nel tempo di quei quattro metri di cor-ridoio.La signora restava sorpresa come se avessevisto un alieno. Io mi sentivo realizzata. Mi eropure autoconvinta che, tutto sommato, la cosapoteva anche inquadrarsi come “sostegno psico-logico”. La mia autostima era preservata.

Nel tempo, a forza di girare con una certa facciatosta nelle stanze e nei corridoi dispensando sor-risi e una breve presentazione per farmi pubbli-cità, le persone cominciavano a conoscermi e adarrivare con più facilità, non fosse altro che per ilfatto di poter dare un volto familiare a quella

18

brutta parola, “psicologa”, che ai più suona co-munque sospetta.

Psicologa e anche forestiera. Avessi lavorato nelmio paese, sarebbe stato tutto più facile: “Chi seinì, la fiòla de Renzo, la nipote de ‘Medeo? Ah, tu’nonno che brava persona!” ecc. ecc., e da lì, unaparola tira l’altra, più semplice entrare in confi-denza. Invece a Macerata, in terra straniera,niente in comune con nessuno. Per non dire deimisteriosi fenomeni grammaticali dellu dialettumageradese, incomprensibili al mio orecchio pro-veniente dalla lontana area linguistica moscio-lara: la vardascia (la ragazza), lu varre (il bar),issu adè (lui è).

Mi hanno sempre insegnato che tra psicologo epaziente, più si è estranei e meglio è. Che lagente va più facilmente da uno che non conosceaffatto, perché si sente più libera. Che se deveraccontargli roba che scotta, lo sceglie possibil-mente di un’altra provincia. È vero, e mi è capi-tato più volte. Ma credo che qua funzionidiversamente. Perché quando arrivano i pazientinuovi, che vengono a fare la prima chemio,preoccupati e spaesati, e scoprono per caso che

19

in reparto c’è un’infermiera che conoscono - vi-cina di casa, cugina di un amico, amica di un cu-gino - si vede proprio che gli si allargano gli occhie il cuore dal sollievo. E per qualunque cosa,vanno da lei. E confidano a lei le loro ansie. Valeper l’infermiera, per il medico, per la volontaria.Deduco valga anche per lo psicologo.

Anche per questo girare in reparto, scambiaredue chiacchiere nelle stanze, scherzare con le in-fermiere e i pazienti, ha favorito un senso di fa-miliarità che ha fatto avvicinare più facilmente lepersone alla mia porta. Alcune battute che ciscambiavamo io e l’indimenticabile Celso nel cor-ridoio affollato credo abbiano definitivamente de-molito lo stereotipo dell’algido psicologo chiusonel suo studio. Io e Celso abbiamo spesso ani-mato la corsia con il nostro sketch più collaudato:lui, ospite fisso del reparto decisamente pittore-sco, famoso per la parlantina senza peli sulla lin-gua e per certi scherzi passati alla storia, per unagenuina galanteria e soprattutto per i vari salami,lonze e panini con porchetta con cui generosa-mente ci deliziava, usava agguantarmi sottobraccio mentre passavo nel corridoio mormo-rando “Signorina la vedo sciupata, lei ha bisogno

20

d’affetto”, e io rispondevo sempre: “Più che d’af-fetto, Celso, direi d’affettato. Quand’è che portigiù un altro ciaùscolo*?”.

Ma il punto di svolta è stato l’introduzione del col-loquio di accoglienza.

*ciaùscolo: insaccato tipico della regione Marche

21

“Ma perchè dallo psicologo?”

A un certo punto, grazie all’intuizione di Beatrice,la coordinatrice del personale infermieristico, ab-biamo deciso di introdurre come prassi un collo-quio di accoglienza per tutte le persone chevengono in reparto per il primo day hospital. In unprimo momento, un’infermiera raccoglie i dati perla compilazione della cartella clinica e il consensoal trattamento dei dati personali, e può chiarireeventuali interrogativi o dubbi di pertinenza infer-mieristica (“Ho le vene rovinate, come faremo peril prelievo?”, “Quanto dureranno le flebo?”), quindiil colloquio prosegue con lo psicologo.

Perché lo psicologo? Perché se fossi io quellache sta male, o accompagnassi una persona cheamo e che sta male, vorrei trovare qualcuno adaccogliermi, a spiegarmi come funziona questostrano posto, a chiedermi “Come stai?”, uno chepossa ascoltarmi se ho paura, o che mi lasci sfo-gare se sono arrabbiata col mondo intero perchéla chemio non la voglio fare. Vorrei qualcuno chemi chiedesse di cosa ho bisogno, che mi tranquil-lizzasse se sono agitata, che mi facesse sentireche non sono sola.

23

A volte, mentre in studio aspetto che arrivino lepersone nuove, le sento parlottare fuori con l’in-fermiera: “Ma perché devo parlare con la psico-loga? Ma io non ho bisogno! Ma ci devo proprioandare?”. Una volta una vecchietta agguerritis-sima ha ingaggiato una lotta senza esclusione dicolpi con la povera Rita, che alla fine eroica-mente è riuscita a farla entrare. La vispa signoranon aveva idea di cosa facesse uno psicologo enel dubbio, si teneva comprensibilmente allalarga. Alla fine dell’incontro è uscita tutta solle-vata e contenta dopo aver scoperto che “Ah,però, gli psicologi sono simpatici!”.

Il colloquio in realtà è sempre diverso a secondadella persona che arriva, con la massima atten-zione a rispettare il livello di consapevolezza dimalattia e le difese che ciascuno adopera: alcunihanno bisogno di parlare, altri lo evitano accura-tamente. Così a volte, quando capisco che nonè aria, mi limito semplicemente a illustrare conun sorriso la giornata al day hospital e a fornirealcune informazioni essenziali. Più frequente-mente, il colloquio si amplia e approfondisce se-guendo la disponibilità della persona, spingendosifin dove lei lo desidera. Alcuni hanno bisogno di

24

raccontare lunghe peripezie diagnostiche, altri diesprimere l’incredulità che ancora li disorienta.Molti cercano una rassicurazione sugli effetti col-laterali e temono le limitazioni alla propria auto-nomia. Quasi nessuno dorme la notte prima dellachemio, e molti dicono che in effetti è da quandohanno avuto la diagnosi che non passano unanottata decente. Chi ha figli piccoli non sa comedirglielo e come comportarsi. Qualcuno è agitatoe non sa come potrà tollerare tante ore di attesa.

L’introduzione di questo primo incontro, di prassiper tutti, ha agevolato molto il ricorso a noi psi-cologi in momenti successivi, per eventuali diffi-coltà. Intanto è uguale per tutti, e questo è unmessaggio importante di fronte al pregiudizio,purtroppo ancora diffuso, che “Mi mandano dallopsicologo perché sono matto” o “Ecco, hannochiamato pure lo psicologo, allora la situazione ègrave”, o al pensiero “Perché io sì, e gli altri no?”.Poi, se lo psicologo è la persona che ti ha accoltola prima volta cercando di farti sentire a tuo agioin un ambiente inquietante, è più facile sentirlocome un alleato familiare a cui rivolgersi per di-scutere eventuali problemi o dubbi; certamentenon uno strano personaggio che ti giudica, ma

25

un’opportunità da sfruttare per vivere meglio ilperiodo delle cure.

Una nota sui test. Io odio i test, i questionari, lescale di valutazione, tutto quello dove c’è unasfilza di domande e poi alla fine viene fuori un nu-mero. Mi rifiuto di usarli a meno che non sia co-stretta dalle circostanze, e in questi casicomunque è piuttosto palese il mio disappunto,malgrado lo sforzo di occultarlo. So benissimoche il test con il suo numerino è stato studiato eristudiato con tutti i crismi per garantire l’obietti-vità della valutazione al di là della soggettività deltizio che deve valutare, ma io la mia soggettivitàme la voglio tenere e sfruttare fino all’ultimo. Masoprattutto, se io fossi malata e arrivassi per laprima volta in reparto, con tutte le preoccupazionil’agitazione la nottata insonne che ho passato, etu mi proponessi un test con 97 domande - tral’altro parecchie pure uguali per garantire l’affida-bilità del test - io te lo tiro in testa, il questionario.I nostri pazienti non lo fanno quasi mai perchésono educati, ma sono certa che molti vorreb-bero farlo.Se hai fatto 20 punti non sei depresso, puoi an-dare; se hai fatto 21 sei depresso, ti devi curare.

26

Ha senso?? Sto semplificando molto ma la realtànon è troppo lontana. Sono convinta che non esi-sta test ultrastandardizzato che non possa es-sere sostituito da un colloquio ben condotto. E iopreferirei avere una persona che mi parla, miguarda negli occhi, mi ascolta, mi sorride, piutto-sto che un malloppo di fogli da crocettare. Non nego l’utilità dei test in altri contesti della psi-cologia, o la loro necessità quando si debba mi-surare qualcosa nel modo più obiettivo possibile.Resta il fatto che li sento poco rispettosi della sof-ferenza delle persone. Temo anzi che servano anoi operatori proprio per arginare, tenere a badae in definitiva allontanare da noi la sofferenza concui veniamo a contatto.

27

Come basta poco

Voglio dedicargli un paragrafo intero, tutto per lui:il sorriso. Quante volte avremo ripetuto, nei con-vegni sull’umanizzazione in oncologia, l’impor-tanza di accogliere le persone con un sorriso? Lodice l’oncologo, lo ripete l’infermiera, lo invocanole volontarie, ci ritorna lo psicologo: il sorriso ilsorriso il sorriso, milioni di volte, fino alla nausea,non se ne può più. Ho pensato: va be’ dai bastaragazzi, discorso ritrito, retorico, ovvio, non serveche ce lo ripetiamo ancora. Ma poi sarà così im-portante? Ci farà poi così caso a un sorriso, chiviene qua a curarsi, con la mente presa dall’ansiadella malattia? Se ne farà qualcosa del mio sor-riso? Non so. Ben poca cosa da offrire. È veroche i bigliettini che accompagnano i regali che lepersone ci portano in reparto dicono quasi tutti“grazie per il vostro sorriso”, ma alla fine, pen-savo, sarà una frase fatta, un modo come unaltro per ringraziare per la gentilezza. Pensavo.

Poi quando è capitato a me, ho capito. Il sorrisonon è solo gentilezza: è diverso, è di più. Quandovivi la paura totale, la paura per la tua sopravvi-venza, e sei spaesato, tra persone sconosciute,

29

e non sai cosa ti succederà, la mente si restringe,la lucidità si concentra tutta nel cogliere segnaliimpercettibili - un gesto, un’occhiata - e immedia-tamente categorizza: quello è simpatico; quella èstronza; quello è gentile. Quella mi ha sorriso: seho bisogno, vado da lei. Un faro nella nebbia.

Sensazioni ingigantite all’ennesima potenza: inquei momenti, se un infermiere sorridente vienea placarti l’ansia, vorresti portartelo a casa. Losposeresti pure lì su due piedi.

E anche quando non sei tu che stai male ma ac-compagni un familiare, setacci come un segugiol’ambiente per captare l’infermiera più affettuosao il medico più gioviale, sperando siano loro aprendersi cura di tuo marito tua madre tuo figlio,e ricorderai per tutta la vita gesti microscopici(l’infermiera che le raccoglie la maglia caduta, lasegretaria che scherza per alleggerire l’attesa, ilmedico che gli chiede come va la Juventus) chehanno alleviato per un momento ansia, sconforto,stanchezza e che fanno pensare “Ci tiene dav-vero a me”.A volte mi trovo ad ascoltare i pazienti che mi rac-contano come hanno scelto l’oncologo a cui affi-

30

darsi. “Non sapevo da chi andare dopo che lamia dottoressa si è trasferita, per me uno valel’altro, sono tutti bravi. Per caso mi è capitato lui.Mi è venuto incontro sorridente, dicendomi chemi stava aspettando. Mi ha fatto sentire così ac-colta! È bastato questo per non avere dubbi, hoscelto di restare con lui”.

Non credevo esistessero ancora medici o infer-mieri che non ti guardano neanche in faccia dal-l’inizio alla fine dell’interazione. Insomma, contutti i corsi e convegni che si fanno sull’umaniz-zazione delle cure, ero fiduciosa che la specie sifosse estinta. E abituata all’affabilità del perso-nale del nostro reparto, ero ingenuamente fidu-ciosa di ritrovare la stessa premura ovunque. Dapaziente, lo scontro con altre realtà è stato scon-certante. Quant’è diverso cominciare una gior-nata in ospedale con l’infermiera che ti svegliapiano piano con un sorriso prima di farti il pre-lievo, scusandosi perché sono le cinque, piutto-sto che con quell’altra che ti spara le luci negliocchi con un’ irruzione del tipo “giù dalle brande!”e ti infilza senza dire una parola. Nelle giornatelunghe e avvilenti in ospedale, pure i cinque mi-nuti in cui l’ausiliaria ti rifà il letto e dà una pulita

31

alla stanza possono fare la differenza, se ti ri-volge una parola carina e un sorriso piuttosto chespazzare con un muso che arriva per terra. Poimagari quella poveretta col muso quel giornoaveva i suoi problemi. Ma resta il fatto che perchi sta nel letto fa la differenza, e noi operatoridobbiamo ricordarcelo.

Dopo essere stata male, sorrido di più ai pazienti.Lo facevo anche prima, ma adesso con un sensodiverso. E loro ringraziano tanto. Dicono “Guardi,già arrivare ed essere accolti da una personasorridente fa sentire meglio”. Come basta poco.

32

Le meravigliedella mente umana

Io di solito viaggio poco. Non sento una partico-lare spinta a preparare, fare valigie, prenderemezzi di trasporto, arrivare lontano per vederemeraviglie della natura o della costruzioneumana, o per conoscere altri modi di pensare.Probabilmente perché ogni giorno, e restandoquasi tutto il tempo seduta su una poltrona, com-pio viaggi imprevedibili dentro le storie e la mentedi altre persone.

Il momento più emozionante è quando una per-sona nuova si affaccia alla porta e non so ancoraniente di lei. Ricordo uno psicoanalista che diceva“Mah…dopo tanti anni di lavoro, e tanti pazientivisti, ormai sai già tutto, sai quale problema ti por-teranno, sai qual è la causa, e ti annoi”. An-noiarsi? Non riesco a immaginarlo. Talmentevasta, sorprendente, imprevedibile è la menteumana, e affascinante la storia di ogni essereumano.

I testi di psiconcologia tentano di incasellare lereazioni alla malattia in alcune tipologie ricorrenti,

33

che in effetti si avvicinano molto alla realtà, maquel margine di imprevedibilità che resta è lazona più misteriosa e sorprendente, il modo unicoin cui ogni persona mette insieme tutti i pezzi, rie-labora, cerca di dare un senso.Penso a Francesca, giovane, operata di mastec-tomia bilaterale, un tumore grosso così, che ha fi-nito la chemioterapia e si appresta a cominciarela radioterapia, che parlando di un altro ragazzogravemente malato, commenta “Io in fondo sonofortunata: IO HO LA SALUTE!”. O penso a Dalila,che non aveva la forza neanche per fiatare, ma atutti i costi si ostinava a ricamarsi a punto crocelunghe frasi di speranza da tenere accanto alletto, per darsi coraggio ogni mattina.Ogni volta riesco a stupirmi di quanto la menteumana sia capace di risollevarsi, di vedere il posi-tivo, di mantenere la fiducia, di continuare a pro-gettare. Mi viene in mente Paola, dodici anni dimalattia e terapie sulle spalle, nonché incidenti dipercorso vari ed eventuali - abbastanza per fiac-care anche una roccia -, che appena può parte invacanza con la moto, e quando arriva inaspetta-tamente una nipotina dice: “Bello fare la nonna…solo che…mi scombina un po’ i piani, avevo tantidi quei progetti per questo periodo!”.

34

A volte, le persone che arrivano al colloquio di ac-coglienza mi confidano un pensiero. Dicono “Sa,dottoressa, io sono solo. Anche se muoio, nonpiangerà nessuno: non so se vale la pena farla,‘sta chemioterapia”. Ma poi basta fermarsi a par-larci anche solo dieci minuti, andare più a fondo,e compare sempre qualcosa: un motivo, unaspinta, un desiderio che riaccende la voglia di cu-rarsi. Le cose più imprevedibili. Non scorderò maila signora cieca (tra l’altro cieca da quando eraragazza perché al mare, casualmente, un ombrel-lone sollevato dal vento la colpì alla testa. Robada diventare avvelenati col mondo per il restodella vita, e invece ne era uscita fuori una signoracosì mite e gentile), anche lei sola, anziana,senza figli ed altri familiari, pochi amici, che a uncerto punto con un sorriso disse “Guardi, sa unacosa, io vivrei anche solo per continuare ad an-dare al cinema!”. Io stecchita sulla sedia. Unacieca che vive per andare al cinema. Non sonostata in grado di proferire parola, ma da allorasono convinta che le risorse della mente umanasono davvero infinite e a volte rintanate negli an-fratti più impensati. Andare a scovarle insieme èun viaggio avventuroso, a volte felicementebreve, altre più lungo e accidentato, ma sempre

35

arricchente, anche per me, perché “Non pos-siamo reggere una torcia per illuminare il cam-mino di un altro, senza illuminare anche il nostro”(B. Sweetland).

Ogni volta poi mi incanto ad ascoltare quelli chedicono di essere cambiati in meglio dopo la ma-lattia. Chi dice di sentirsi come depurata, liberatadi una zavorra che si portava sempre appresso eche le impediva di essere autentica; chi solo conl’alibi della malattia riesce finalmente a dire no allecontinue richieste degli altri; chi si accorge dipoter meritare di più rispetto alla vita misera in cuisi costringeva; chi invece ha trovato vicinanza eaffetto in chi mai avrebbe immaginato. Ognuno lodice quasi scusandosi, come se stesse pronun-ciando parole folli, credendo di essere il solo asentirsi migliore di prima. Invece io, fortunata-mente, l’ho sentito raccontare tante volte. Ed èaccaduto anche a me. E ho capito che non c’èniente da fare: solo viverlo sulla tua pelle ti dà laspinta per cambiare. Non basta vedere un altroche sta male, neanche quando è un figlio, un ma-rito, una moglie, la persona che ami di più. Perquanto doloroso e potente, non è abbastanza perfarti decidere “Basta, la vita è troppo preziosa e

36

imprevedibile, ora voglio viverla come dico io!”. Tideve proprio arrivare addosso.

È bello anche vedere come chi esce dalla malat-tia vuole fare qualcosa per gli altri. Nei modi piùbizzarri e personali. Nel day hospital di Civitanovacon Cinzia, l’arteterapeuta, ci siamo inventate ilLaboratorio Ore Liete, un paio d’ore al mese incui chi vuole può venire a chiacchierare, dipin-gere, prendere un tè coi biscotti, e da poco, anchea cucinare. La signora Fiorella, infatti, ha festeg-giato la fine della chemioterapia cucinando nelmio studio, con tanto di forno portato dietro dacasa, una crostata per gli altri pazienti e familiaridel reparto. Fiorella era un po’ preoccupata del ri-sultato. Avevamo preso anche mille precauzioniper non infastidire con gli odori le persone con lanausea che stavano facendo la chemio, ma ave-vamo comunque timore di dare disturbo. Inveceogni tanto arrivava qualcuno incuriosito e sorri-dente: “Ah, finalmente ho capito da dove venivaquel profumino leggero!”. L’iniziativa ha riscossotanto successo che la settimana prossima Fiorellatornerà a cucinare e stavolta accontenterà gliamanti del salato! Impastando, raccontava cheper lei cucinarsi i cibi da sola con ingredienti sem-

37

plici è stato l’unico modo per tollerare le terapie,e anche un’ ottima distrazione dai pensieri più tri-sti. Le esitazioni e i dubbi del primo esperimentocon la crostata si sono dissolti in un istante tra gliapplausi dei presenti: “Se volete, io torno anchela prossima volta!”.

Ma più di tutto, mi meravigliano ogni volta la gra-titudine e la generosità dei familiari di chi non c’èpiù. Mi dico che sarebbe più logico, soprattuttoper i medici, sentirsi ringraziare da quelli che gua-riscono e stanno bene. Invece i ringraziamenti piùaccorati e sinceri vengono sempre da chi haperso qualcuno che non ce l’ha fatta. Arrivanomoglie e figlia per ringraziarmi per quello che hofatto per il loro marito e padre e mi portano le ta-volette di cioccolata, perché l’ultima volta che c’e-ravamo visti tutti insieme avevamo scherzatosulla comune passione per il cioccolato. Nel pienodel dolore della perdita, hanno il pensiero e la vo-glia di andare a cercare il cioccolato per me. Èincredibile. E l’impegno che mettono nel racco-gliere in qualunque modo fondi per altri, perchéaltri malati possano guarire, mi colpisce ogni sin-gola volta. Nel momento del dolore, pensano anoi e ad incoraggiare il nostro lavoro. Ma anche

38

quando stanno meglio, quando cominciano a ri-prendere la loro vita, continuano a pensare a so-stenere noi e il nostro lavoro. E questo è pure piùsorprendente e bello.

39

Basta chiederlo

“Voglio sapere tutto. Certo, una bruttanotizia lì per lì mi farà deprimere, mala affronterò”

“D’ora in poi non mi dite più niente eparlate solo con mio marito”

“Voglio sapere che cos’ho, ma non di-temi come andrà a finire… me ne ac-corgerò da sola”

“Il medico mi evita, i miei familiari sonovaghi…dottoressa glielo dica anchelei che io voglio sapere”

“Fate quel che dovete fare, ma ditemiil meno possibile, altrimenti mi agito!”

“Dottoressa” - tirandomi per il camicevicino al letto appena il marito escedalla stanza - “non posso parlare per-ché lui non vuole neanche sentirmelodire, ma io lo so che la situazione nonè bella”

41

“Non lo so se voglio sapere o no…vorrei chiedere, ma ho paura”

Da decenni le fazioni contrapposte si scannano:“Meglio non dire ai malati che hanno un tumore,altrimenti si deprimono e non reagiscono!”; “No!Il malato deve sapere, è un suo diritto e può af-frontare meglio la malattia!”; “Diciamoglielo, manon proprio tutto!”; “Deve sapere la verità, anchenuda e cruda!”. I familiari per lo più propendonoper il no: “Mio marito la farebbe finita se sapessela verità”; “Mia madre è anziana, perché darleuna notizia del genere?”.Migliaia di libri, articoli e convegni sull’argo-mento. Discussioni infinite tra studiosi, medici,psicologi. Poi a qualcuno finalmente è venutaun’idea geniale: sarà il caso di chiedere all’inte-ressato?

Le persone hanno desideri e bisogni diversi. E lastessa persona può cambiare idea nel tempo.Qualcuno mi dice: “Sa, ho sempre pensato che,nel caso mi fossi ammalato di un tumore, nonavrei voluto saperlo; ora che mi ci trovo, invece,ho bisogno di sapere tutto, mi aiuta”. E altri di-cono “Sa, prima credevo che avrei voluto sapere

42

tutto, ma ora che sono malato no, ho bisogno ditempo. Una cosa alla volta”.

Se ne può parlare. Bisogna, parlarne. L’obiezione comune è “Ma scusa, nel momentoche glielo chiedi, un sospetto di avere qualcosa digrave gli verrà di certo! E se non lo voleva sa-pere?”. In realtà, il problema non si pone. La grande mag-gioranza delle persone che incontro mi dice che losa già, di avere qualcosa di serio. E apprezza dipoter decidere, d’ora in poi, quanto, come, conquali tempi sapere. Per gli altri, se davvero l’ideadella malattia è così angosciante da non poterlatollerare, sappiamo di poter confidare su un mec-canismo di difesa di collaudata e, a volte, provvi-denziale efficacia: la negazione. La negazione saessere così potente da lasciarsi difficilmente scal-fire, persino da comunicazioni brutali. Ci sono fa-miliari esasperati che urlano nell’orecchio delmalato “Oh, ma hai capito che hai un tumore? Untu-mo-re!”, e lui nonostante il referto chiaro comeil sole sotto gli occhi, continua a dire imperturba-bile: “Ma io penso di no, sarà solo un’infiamma-zione. Per me si sono sbagliati”.Altre volte, arrivano al colloquio di accoglienza

43

persone che non sono state del tutto informatesulla loro condizione di malattia. Sono semprescortate da uno o più familiari che gli fanno qua-drato attorno e che mi temono come la peste.Tentano in ogni modo di evitare il colloquio al ma-lato, o comunque si profondono in segnali, gestio occhiatacce volte a scongiurare il pericolo cheio riveli qualcosa che lui non sa, pensando forseche questo sia il mio compito, o comunque la miaintenzione. Nel comprensibile desiderio di proteg-gere una persona cara, usano tutti i mezzi a di-sposizione per trasmettermi il messaggio “Non tiazzardare!”. In realtà il mio compito non è infor-mare il malato sulla sua malattia, ma dargli unospazio per esprimere i suoi bisogni. Il più dellevolte, la persona che secondo i familiari non sa,mostra invece spontaneamente una notevoleconsapevolezza della sua malattia. A volte dicechiaramente che vorrebbe saperne di più. Altrevolte mostra di gradire il silenzio e l’ambiguità, eanche questo bisogno va rispettato. L’importanteè che non decidano altri al posto suo, quandoquesto non è un suo desiderio.

44

“Guarda!”

Rientrando nella mia stanza, un giorno trovo una si-gnora che non conosco ad aspettarmi sulla porta. “Leiè la psicologa vero? Possiamo parlare un attimo?”.Faccio giusto in tempo a sedermi che lei si è giàspogliata, incurante del fatto che la porta alle suespalle sia rimasta socchiusa. Senza dire niente,neanche il suo nome, resta in piedi a mostrare uncorpo martoriato dagli interventi. Il busto come unmosaico di pezze accostate a caso e cucite senzagrazia. Cicatrici come corde. Poi comincia a rac-contare rabbiosa, sempre in piedi, sempre nuda,come a dire: non raccontiamoci balle, guarda! Deviguardare, dovete guardare che orrore è. “Cosasono diventata…è una donna, questa? Comeposso presentarmi a un uomo? Non ho più nienteche assomigli a una donna”. Eppure, giuro, non ho mai conosciuto una donnapiù femminile di quella signora. Una femminilitàche traboccava dai gesti, dagli sguardi, dal mododi scuotere la testa o muovere una mano, dai di-scorsi che faceva. Dopo una quarto d’ora anche lesue cicatrici erano diventate belle.Il corpo del paziente entra prepotentemente nellamia stanza, molto più che in altri contesti della

45

psicologia. Noi psicologi tendiamo a dimenticarciche i nostri pazienti hanno un corpo, o interpre-tiamo quel che accade al loro corpo come sim-bolo di altro: affetti, conflitti, sensi di colpa, tuttaroba piuttosto impalpabile e astratta. In oncologiac’è molta concretezza, invece: pezzi di corpo chemancano, teste pelate, dolori decisamente pocoastratti…Il corpo irrompe nella relazione terapeu-tica, o comunque la costringe in certe direzioni.

A volte le donne che ho conosciuto al colloquiodi accoglienza tornano con la parrucca e chie-dono con trepidazione: “Mi riconosce così? Al-lora, come sto?”. Altre ogni volta che vengonoall’appuntamento per prima cosa si tolgono laparrucca o la allentano spostandola più su incima alla testa - cosa che gli conferisce un’ariabuffa e tenera. “Le dispiace? Sa, così mi sentopiù libera”, e mi piace pensare che si sentano inuno spazio sicuro in cui possono mostrarsi comesono.

Ci sono vecchiette che fieramente si oppongonoalla chemioterapia, se farà cadere loro i capelli.“Lo so che sono solo quattro peli, ma me li vogliotenere!”. E uomini altrettanto atterriti all’idea di

46

perdere i capelli, che però non possono neanchepermettersi di dirlo. La moglie dice con un sorri-setto “È vanitoso, fosse per lui neanche si cure-rebbe per quanto ci tiene alla capigliatura!”, e luiche tutto rosso le intima di piantarla di dire scioc-chezze. Persino le donne hanno vergogna a direche sono dispiaciute per i capelli, perché temonodi sembrare stupide e superficiali a preoccuparsidi un dettaglio irrilevante rispetto alla guarigione.Figuriamoci un uomo. Invece non è irrilevante perniente. Non avere più i capelli è la cosa che piùdi tutte ricorda a te e agli altri che sei malato; è lapiù visibile; è quella più difficile da nascondere.Non è stupido, è molto doloroso. Poterlo dire ègià un passo per affrontarlo e superarlo meglio.

Ci sono le ragazze a cui la terapia ha cambiato ilineamenti tanto che gli amici per strada non le ri-conoscono e che devono sentirsi dire dalla nipo-tina “Zia, ma perché non sei più tu?”, macoraggiosamente escono e pazientemente spie-gano a chi guarda stupito e fa domande, o si de-cidono a cambiare la vecchia foto sul profiloFacebook che ormai non coincide più. Altre cheapparentemente non hanno problemi, i capelli alloro posto, la pelle normale, il peso giusto, nes-

47

suno dei consueti segni dei trattamenti più difficilida digerire, solo una cicatrice sulla pancia chetutto sommato potrebbe sembrare trascurabile, einvece piangono sconsolate: “Ma cavoli, era l’u-nica parte bella del mio corpo, l’unica che mi pia-ceva: proprio lì mi doveva colpire?”.Alcuni si allargano, più spesso si restringono.Anche se magari prima erano in sovrappeso, ildimagrimento è sempre vissuto male, come sedi per sé significasse malattia. Guardano con unsobbalzo la foto nella carta d’identità: non si rico-noscono più. I familiari si allarmano, vengono achiedermi con urgenza di intervenire (“Non vedequant’è dimagrito? Lo convinca lei a mangiare dipiù, mi raccomando insista, sia dura!”), oppureportano la sofferenza di non ritrovare più la con-sueta figura dei loro cari: “Mio marito era un ar-madio, due metri di muscoli, ora guardi com’ècambiato, sembra rimpicciolito come un vec-chietto”.

Visiono vene rovinate, ferite degli interventi, ad-domi doloranti, persino radiografie. Anche sesanno che non sono un medico e che non ho lapiù pallida idea di come risolvere il problema, vo-gliono farmi vedere lo stesso, hanno bisogno di

48

essere guardati in quella parte del corpo in cui siconcentra il dolore fisico ma anche mentale. Unavena rovinata non è solo una vena rovinata: vuoldire anche timore di non poter fare la terapia,stanchezza per tutto quello che si è già soppor-tato, rabbia per l’infermiera che non riesce a met-tere l’ago, e dopo, anche senso di colpa peressersela presa con l’infermiera.

I cambiamenti del corpo e verso il corpo accom-pagnano i miei incontri con i pazienti e ne se-gnano l’evoluzione: la prima peluria chericompare dopo la chemio, mostrata pieni d’orgo-glio al mondo intero; la prima volta a comprareuna crema profumata per il piacere di massag-giarsi la pelle, dopo mesi in cui il corpo è statosolo campo di battaglia; la prima volta ad acca-rezzare la cicatrice, non più estranea e crudelema parte di sé e della propria storia; la primavolta a fare di nuovo l’amore. È bello guardarecome ciascuno a suo modo si riappropria del suocorpo, che da nemico traditore capace di covarein sé un male invisibile ritorna ad essere amico ealleato. E chi sta accanto, impara ad amare uncorpo cambiato, a maneggiarlo con cura e atten-zione. Bambini che frenano la naturale irruenza

49

per accarezzare la mamma senza farle male; fi-glie più grandi che si fanno carico di sacche, me-dicazioni, punture, superando il ribrezzo e lapaura di sbagliare. Poi ci sono quei mariti fanta-stici che non hanno bisogno di usare troppe pa-role per dimostrare la loro vicinanza: si rasano azero pure loro quando a lei cominciano a caderei capelli. O quelli che alla moglie che non ha piùil seno dicono: “E allora? Così posso abbracciartimeglio”.

50

“Dottoressa non si preoccupi,io sono forte!”

La parola “forte” mi fa venire l’orticaria. Vorreibandirla dal vocabolario. Perché mi sono accortache incastra le persone invece di aiutarle, almenonell’accezione che loro le danno.

Periodicamente durante il colloquio di acco-glienza mi sento dire “Ah dottoressa non sipreoccupi per me, non credo che avrò bisogno dilei, io sono forte!”. Si tratta sempre di donne: maisentito un solo uomo pronunciare la famigeratafrase riferendosi a se stesso. E si tratta di donnemolto attive, determinate, veri pilastri della fami-glia, abituate a farsi in quattro per tutti, a non es-sere mai di peso agli altri, e soprattutto abituatea un ferreo controllo sulle proprie emozioni.Hanno spesso sopportato grossi stress senzabattere ciglio, senza mai abbattersi o provarepaura o rabbia. Se non sono loro a dirlo, c’è ac-canto un marito o un figlio che dice “Ah dotto-ressa non si preoccupi per lei, questa è unaroccia, sa!”. Sono quelle che il giorno dopo lachemio invece di riposare si mettono a tirare giùle tende, fare il cambio dell’armadio e tutte le fac-

51

cende più sfiancanti che una mente femminilepossa architettare, per dimostrare agli altri masoprattutto a se stesse che stanno bene; perchéfermarsi per loro significa che allora sono dav-vero malate e non si fermano per non sentire enon pensare. Perché prendono la malattia comeuna sfida e giocano al rialzo: ti faccio vedere iodi cosa sono capace anche con la chemio incorpo. Così però rischiano di sprecare energie inun momento in cui la cosa più saggia da fare èconcedere al corpo una pausa per rigenerarsi.

A chiunque dall’esterno verrebbe da dire che nonè umano non provare mai paura, tristezza o rab-bia di fronte alle difficoltà della vita e a maggiorragione, di fronte a una malattia seria come un tu-more. Ma la donna forte e la sua famiglia consi-derano questa la normalità. Sottoporsi a interventichirurgici complessi senza nessuna esitazione,rasarsi a zero e andare a comprare la parruccasenza alcun turbamento: tutto sembra affrontatoe superato senza particolari contraccolpi emotivi.Alla fine dei convegni, dopo che ho concluso lamia relazione, c’è sempre almeno una signorache mi aspetta al varco per dirmi “Guardi che nonè come dice lei sa, per me il tumore è stato una

52

malattia come un’altra, come un’influenza!”.Poi succede che dopo qualche mese, magarialla fine della terapia, quando vengono a gallatutte le emozioni finora tenute sotto controllo gra-zie alla concentrazione sul ritmo serrato di visite,esami, controlli, trattamenti, le stesse persone ri-tornano a chiedere aiuto, spaventate da un’on-data di emozioni sconosciute. “Pensavo diessere tanto forte e di farcela da sola, invece hoceduto”, e lo dicono con un senso di vergogna edi fallimento. Temono di scivolare dentro una de-pressione senza uscita e di perdere il controllosu di sé. Buona parte del nostro lavoro consistenel dare legittimità e spazio ad emozioni naturaliche però sono state a lungo represse, e che nonsono una manifestazione di debolezza, ma la fi-siologica risposta di adattamento dell’individuoalla malattia. Una fase che tocca attraversare,per poi risalire. Per mesi magari non hanno ver-sato una lacrima, non gli veniva proprio, poi d’untratto cominciano a piangere ininterrottamente,senza apparente motivo e nei momenti menoopportuni, come se le lacrime venissero fuori dasole.Anche i familiari sono allarmati da queste rea-zioni: “Che le prende ora? Non la riconosciamo

53

più!”. E quando la persona malata comincia adaccettare le sue emozioni e dare più spazio aipropri bisogni, i familiari spesso “oppongono re-sistenza” e tentano di ricondurla agli abituali ruolied equilibri della famiglia, spaventati dal cambia-mento.

Il cambiamento che si verifica dopo il tumore vageneralmente nel senso di una maggiore accet-tazione della propria umanità e dei propri limiti,una rinuncia ad essere onnipotente ed onnipre-sente per godere anche del piacere di lasciarsiaccudire da un altro. Molte volte coincide con laconsapevolezza dell’impossibilità di bastare a sestessi e del bisogno profondamente umano direlazione e di affetto. Si arriva anche faticosa-mente a sentire che non si possono soddisfaretutti i bisogni degli altri. Ci sono donne che de-vono arrivare alla quarta recidiva per potersi con-cedere di non stirare la montagna di panni deifigli trentenni quando sono stanche, senza ilsenso di colpa di privarli di un aiuto vitale. Rinun-ciare ad essere il punto di riferimento incrollabileper tutti gli altri intorno è una ferita all’orgoglio eall’amor proprio, un faticoso ridimensionamentoche però permette di vivere un’esistenza più

54

piena e appagante, in cui c’è spazio per i bisognidi tutti e per lo scambio reciproco.

A volte ansia, tristezza o rabbia raggiungono li-velli così intensi da diventare un vero e propriodisturbo psicologico che necessita di intervento.Anche quando questi stati d’animo sono moderatie “normali”, comunque, non significa che uno lidebba sopportare senza poter fare niente per al-leviarli. Il fatto che siano emozioni fisiologichenon toglie infatti nulla alla loro sgradevolezza, elavorandoci si possono trovare le modalità pergestirle meglio. Imparare come rilassarsi per te-nere a bada l’agitazione prima di una risonanzamagnetica, o trovare un modo per comunicare almarito il bisogno di averlo vicino durante la che-mio, o ancora liberarsi di pregiudizi che impedi-scono di accettare un farmaco per ridurre ildolore, o valutare la possibilità che uscire con laparrucca non determini per forza compatimentoe pietà da parte degli altri, sono solo alcuniesempi di interventi psicologici che possono per-mettere di vivere più serenamente il periodo dellamalattia e delle cure.

55

Tutt’e due

Nella mia stanza si piange e si ride. Spesso nellastessa seduta, con la stessa persona. Possonoandare a braccetto, la possibilità di liberare il do-lore e la capacità di essere ottimisti e leggeri.

Piangere è la parte più sgradevole, quella di cuiquasi tutti si scusano e si vergognano. Vedosempre una lotta per ricacciare indietro le la-crime prima di concedergli di traboccare.Temiamo il dolore come una sensazione ango-sciosa da cui fuggire, ma affrontarlo e lasciarsiandare attraverso il pianto serve a fare i conticon noi stessi e a crescere. Cerchiamo di con-trollare le emozioni intense perché le crediamopericolose. La tristezza, soprattutto, fa pauraperché temiamo possa sopraffarci. Abbando-narsi al pianto significa invece poter guardare ipropri sentimenti e accettarli, senza tentare dicontrollarli a tutti i costi. Significa accettare larealtà del presente e del passato, percepire lanostra tristezza, quanto siamo stati colpiti e feriti.Piangere può cambiare il mondo esterno, perchéè una visibile richiesta di aiuto che induce gli altria dare supporto e vicinanza. Ma anche quando

57

non riesce a cambiare il mondo esterno, tra-sforma comunque il mondo interiore liberando latensione e il dolore. Dicono addirittura che lapossibilità di esprimere il dolore e la rabbia per-metta a un malato di vivere più a lungo.Ci sono modi diversi per esprimere il dolore e larabbia, ma il pianto è quello più immediato, piùa portata di mano; la natura ci ha equipaggiatodelle lacrime per liberarci di quel che ci intossicae non usarle è rinunciare a uno strumento pre-zioso.

Ci sono persone che non piangono mai. A voltesi tratta di persone sempre positive, allegre, chesembrano non soffrire mai. Si sentono costrettea mantenere questa parte agli occhi degli altri enon riescono a piangere perché temono che, selo facessero, potrebbero deludere gli altri e per-dere il loro amore o la loro approvazione. O cisono quelle che hanno sofferto così tanto chenon riescono più a piangere, hanno dovuto con-gelare le emozioni per andare avanti, dicono “Cicrede che non sento più niente?”. HermannHesse diceva che “le lacrime sono il ghiacciodell’anima che si scioglie”: scongelano uno statodi disagio, di blocco.

58

Le lacrime hanno il potere di suscitare compas-sione, non nel senso di pietà, ma in quello origi-nario e nobile di partecipazione alla sofferenzadell’altro. Molti hanno però difficoltà a rispondereal pianto di un’altra persona, perché quelle la-crime vanno a toccare il dolore e la tristezza chesi sforzano di negare in se stessi. Di solito ci sisente in imbarazzo e si dice “Dai, non piangere”,perché l’altro mette a disagio mostrandosi nellasua fragilità. Il pianto del malato allarma facil-mente i familiari e gli stessi operatori. Di solito èproprio il pianto dei nostri pazienti che induce imedici a inviarli da noi psicologi. Certo il segnalepiù eclatante di una sofferenza, ma anche unostrumento prezioso per affrontarla.

Da noi in reparto si ride pure tanto. L’umorismo el’allegria sono insiti nel modo di essere di molti deinostri operatori e fanno parte di una visione difondo, un atteggiamento mentale che vede nellapositività e nella serenità un ingrediente fonda-mentale della cura. Battute e scherzi fanno ordi-nariamente parte dei protocolli terapeutici. Scherzitra operatori, tra pazienti, tra operatori e pazienti.Naturalmente con quelli che mostrano di gradirel’umorismo. Come quando un nostro oncologo alle

59

prese con una dissenteria resistente ad ogni piùpotente ritrovato della farmacologia, ha fatto infinerecapitare al paziente un limone, infiocchettatocon tanto di pacchetto regalo. O l’infermiera ap-postata dietro le porte che ci tende agguati armatadi spara-disinfettante, per far divertire i bambiniche frequentano il reparto.Anche le slides delle relazioni dei nostri convegnisono spesso particolari, diverse da quelle che disolito si vedono in queste occasioni: serie, pro-fessionali, ma sempre con qualche elemento dileggerezza. Ci sono poi i pazienti particolarmente dotati nel-l’intrattenere i vicini di chemio e a volte dal miostudio sento arrivare esplosioni di risate collettivedalla sala delle terapie. Mi viene voglia di andarea curiosare per vedere che stanno combinando.Tutto sembra, meno che di stare in un reparto diOncologia.E ci sono le occasioni in cui ci si ritrova tutti in-sieme: feste, cene, gite, vacanze, in cui non sicapisce più quali sono i medici e quali i malati edè matematicamente certo che si passerà la mag-gior parte del tempo a ridere.La possibilità di ridere, di distrarsi o di guardarecon leggerezza la malattia sono potenti mezzi per

60

migliorare l’efficienza immunitaria, ormai lo sannotutti. Ci sono milioni di libri sul pensiero positivoe sui suoi effetti benefici sull’organismo. Le no-stre volontarie più allegre sono gettonatissime daquelle persone che sentono il bisogno di unachiacchierata spensierata e di una risata per sop-portare meglio la terapia e dimenticare almenoper un’ora i problemi quotidiani. Alcuni pazientiper lo stesso motivo vogliono essere accompa-gnati solo dai familiari o dagli amici più simpaticie più capaci di sdrammatizzare.

Piangere o ridere. Lasciarsi attraversare dalla tri-stezza o scacciarla con una buona compagnia.Affrontare i pensieri che spaventano o smetteredi rimuginare e convincersi che andrà tutto bene.La gente me lo chiede: ma insomma, che dob-biamo fare? Qua c’è scritto che bisogna pian-gere, là c’è scritto che bisogna essere positivi:decidetevi, chi ha ragione? Hanno ragione tutt’edue. Potersi permettere di sentire anche le emo-zioni negative ed esprimerle, nel modo a cia-scuno più congeniale, senza esserne totalmentedevastati, ed essere capaci di guardare con fidu-cia al futuro, di lasciarsi uno spazio libero dallepreoccupazioni per ricaricarsi, o di usare l’umori-

61

smo per guardare i problemi da una prospettivadiversa, senza con questo negare la realtà dellamalattia, sono entrambi buoni modi di reagire allostress. Uno non esclude l’altro, e anzi la capacitàdi integrarli distingue proprio le persone che sem-brano vivere la malattia con minor disagio.

62

“Meglio a me”

“Sono contenta che sia capitato a me. Meglio ame che a un mio familiare, perché allora davveronon reggerei l’ansia”.

“Cinque anni fa ce l’ho avuto io un tumore. Oraaccompagno qua mio marito. Lo sa che era millevolte meglio quando stavo male io? Perché io sa-pevo come stavo, e di cosa avevo bisogno. In-vece ora mi sento impotente. Non so cosa pensa,non so cosa sente. Non so come aiutarlo”.

Mi colpiscono sempre queste parole, anche se leho sentite tante volte. Chi sta peggio, il malato o ilsuo familiare? A volte il malato sbotta: “Che ne sa-pete voi? Non potete capire come sto io. Tanto allafine la malattia ce l’ho io”. Ma ancora più di fre-quente accade il contrario. Il dolore, la paura e lasolitudine del familiare mi arrivano addosso per di-rettissima senza il filtro dei meccanismi di difesache proteggono il malato, e con la violenza delleemozioni a lungo trattenute, perché il familiarequando apre la diga è perché ha davvero oltrepas-sato il limite e finalmente si concede uno sfogo,superando la remora di rubare spazio al malato.

63

E sono i colloqui con i familiari quelli più pesanti,perché la loro paura la ri-conosco subito: ho do-vuto sentire più volte che sapore ha. Quantevolte abbiamo dovuto temere per una personaamata? Lo conosciamo tutti, quel sapore lì. Lapaura del malato mi è più estranea: non risuonain me con la stessa potenza, non trova uguali ri-cordi dolorosi o le stesse ferite ancora aperte.

Eppure anche io un assaggio ne ho provato. Nonè stato un tumore. Anzi, questo è il bello della vita.Passi tutto il tempo a preoccuparti dei tumori, dalmomento che ne vedi a profusione tutti i giorni epensi “Tanto vuoi che non capiti anche a meprima o poi?”; impari che non ci sono solo quelliclassici, i più gettonati che hai sempre temuto, maanche quelli strani che non sapevi neanche esi-stessero, tipo, che so, un timoma ad esempio; afine giornata ti fai un riassunto di tutti i controlliche sarebbe ora di fare (un’eco al seno il minimosindacale; alla tiroide pure, ché c’è quella cisti dacontrollare; la colonscopia no, qualche annoposso ancora aspettare; per il timoma…che si faper il timoma??)…E poi invece la notte di Natale,et voilà, ti becchi una trombosi. Così, caduta dalcielo. In assoluto contropiede.

64

Lavorando in oncologia e facendo quei 2500 chi-lometri al mese, un tumore e un incidente stradalemi viene proprio da metterli in conto. L’apparatocardiovascolare invece non era contemplato neimiei piani. Neanche in quelli del primo medicoche mi ha visitato al pronto soccorso, che infatti,ancora non del tutto riemerso dal sonno dellequattro e mezza, ha sentenziato “Tranquilla: ar-trosi cervicale, torni a casa”. Meno male che nonsono tornata a casa.

Mi sono chiesta molte volte “Come mi sentirò ioquando saprò che sto per morire? Avrò rimpianti,avrò rimorsi, sentirò che la mia vita ha avuto unsenso, sarò serena?”. Nei miei film mentali c’eracomunque sempre una malattia lunga, con uncongruo tempo per riflettere, rimuginare, eventual-mente sistemare e rimediare almeno qualcosa.

Nei minuti tra “Qui c’è un trombo di cinque centi-metri” (il medico del secondo pronto soccorso,fortunatamente meno assonnato dell’altro) e laprima puntura di eparina, mi si è improvvisamenteristretto il campo. Ops, les jieux sont faits! Parteun embolo e niente tempo per pensare, nientetempo per chiarire, niente tempo per recuperare,

65

niente tempo per dire quelle cose che non hai maiavuto il coraggio di dire, niente tempo per chie-dere scusa. E se finisse qui?Mai avuta una lucidità così spietata, una visionecosì limpida sullo sfondo bianco del soffitto delpronto soccorso: a sinistra l’immagine tanto vi-vida da poterla toccare di tutto quello che “Oh,grazie a Dio, questo l’ho vissuto”, a destra l’im-magine altrettanto vivida di tutto quello che “Macome ho potuto sprecarci tante energie?”. E adun sommario bilancio, mi poteva pure stare bene,che finisse lì.

Un tumore può metterci mesi a diventare perico-loso. La cosa mi lascia l’illusione di una possibi-lità di controllo. Prima o poi stando attenta,ascoltando il corpo, facendo gli esami di scree-ning, magari me ne accorgerei in tempo per eli-minarlo. Un trombo ci mette qualche ora aformarsi. Corre a velocità esponenziale. Che vuoicontrollare? Proprio a me doveva capitare, cheho i tempi lunghi, che sono una fondista, un die-sel, che ho sempre bisogno di preparare e con-trollare tutto quel che faccio.All’inizio una paura stordita, o uno stordimentoimpaurito, non so come descrivere meglio.

66

Un’ attesa sospesa: cosa si sente con un’emboliapolmonare? Quant’è il rischio di morire? Non l’hovoluto sapere, non ho chiesto niente per quattrogiorni. Tutta concentrata su ogni minimo segnaledel corpo ad ogni minuto che passava: “Non suc-cede niente. Sono viva. Ok.” Poi la paura retrograda: e se fossi andata a casainvece che in un altro pronto soccorso?Poi la paura anticipatoria: e se accadesse dinuovo? Un dito un po’ gonfio, un lieve formicolioal risveglio, e torna il panico.

Ho provato un assaggio, dicevo. Piccola cosa ri-spetto a chi affronta il tumore, e cosa troppo di-versa per essere messa a confronto. Ma anch’ioho pensato: cento, mille, un milione di volte me-glio a me, che a un mio familiare. Se fosse acca-duto a un altro, so che la preoccupazione miavrebbe attanagliato. Invece per me…qualchefolata gelida di paura, sì, ma per la maggior partedel tempo ho oscillato tra placida rassegnazionee beata inconsapevolezza.Guardavo i genitori della mia compagna distanza con una stretta al cuore, pensando aquale strazio sia per due genitori anziani accudireuna figlia adulta - quando la natura vorrebbe che

67

accadesse il contrario -, con la preoccupazionenegli occhi a malapena nascosta da un’ ostentataallegria, e mai mi ha sfiorato lo stesso pensieroper i miei genitori…Io non stavo mica così male!Sarebbe stato troppo dovermi preoccupareanche della loro paura. Problema risolto: non lavedevo proprio. Davvero una grande invenzionedella mente, questi meccanismi di difesa.

68

“Non me lo sarei maiaspettato”

Dal momento in cui si diffonde la notizia della ma-lattia, generalmente ogni malato assiste alla re-pentina sparizione di un certo numero di personeche fino al giorno prima normalmente telefona-vano, messaggiavano, venivano a casa, e oraimprovvisamente non sanno cosa dire.

Il “non so cosa dire” è un problema che riguardasoprattutto amici, parenti alla lontana, conoscentie vicini di casa, più che i familiari stretti, che co-munque sono costretti a comunicare - bene omale - dalla vicinanza fisica e dalla frequenta-zione quotidiana. È con gli amici che si creano ifraintendimenti più frequenti.Raccolgo spesso lo sfogo rabbioso di chi dopo lamalattia ha visto sparire qualcuno di importante.“Non me lo sarei mai aspettato da lui…neancheuna telefonata, niente. Bella amicizia! E poi, pro-prio lui che ha pure una sorella, col tumore: do-vrebbe capire, no? Non gli importa niente di me.”E a volte, mentre ascolto, da un dettaglio all’im-provviso realizzo che lui è proprio quello che èvenuto da me la settimana prima in preda al tor-

69

mento del senso di colpa: “Ho un peso qui…houn’amica che sta male e io non ce la faccio nean-che a chiamarla. Mi sento una m…. ma non soche dire, come aiutarla. Rivedo mia sorella e miassale l’angoscia”.E più passa il tempo, più lei è ferita e arrabbiata,più lui ha paura e vergogna di avvicinarsi.

Quello che sta male non accetta sconti per l’a-mico che sparisce. Già leggere questo paragrafolo fa infuriare, perché non c’è giustificazione peruno che prima condivideva tutto con te e poiquando stai male ti abbandona. Ma che non gliimporti niente e sparisca per questo, posso direche non è sempre vero. Quando mi è successodi poter ascoltare entrambi - ed è successo percaso, senza che l’uno sapesse dell’altro, e senzache io sapessi, se non dopo un bel pezzo, cheGiovanni era proprio quel Giovanni, e Sara eraproprio quella Sara - ho sentito da tutte e due leparti la stessa intensità. Di qua la rabbia, di là lapaura, ma, a poterla pesare, la stessa identicasofferenza di non riuscire a comunicare.

Il malato a volte rivendica attenzione e maggiorpremura, ma più frequentemente dice “Sono

70

sempre io, trattatemi come sempre, come prima”,“Non dovete dirmi niente di particolare!” o dice“Sì, ho questa malattia, ma sto anche bene, nonè così tragico eh!”. Penso sempre alle parole diIvana, grande donna spiccia, pratica e immensa-mente saggia: “Non li capisco questi che quandosanno che hai un tumore non ti chiamano più,perché ‘non so cosa dirti’...e che me devi dì?Prima del tumore quando mi chiamavi che mi di-cevi? E allora continua come prima, no!”.

A dire il vero, non è proprio così semplice. Le per-sone hanno bisogni diversi e per chi sta intornocapire come comportarsi non è così ovvio. C’èchi ha bisogno di raccontare della malattia adognuno che passa e chi non vuole farne parolaneanche con le persone più vicine. Chi si scocciaquando gli chiedi come sta perché gli tocca ripe-tere tutto per l’ennesima volta e non ne può più,e chi invece si offende perché nessuno glielochiede e crede che a nessuno importi. Quelli chesi chiudono in camera e delegano un “addettostampa” a filtrare le chiamate e gestire la comu-nicazione col pubblico, e quelli che si sforzano diessere disponibili e pazienti con tutti anchequando sono stanchi e non hanno voglia di par-

71

lare. Chi ha bisogno che gli racconti i fatti tuoi emagari i tuoi problemi, perché questo gli fa sen-tire che la vita va avanti e non c’è solo la sua ma-lattia, e chi si imbestialisce pensando “Ma chevuoi che me ne importi se hai litigato col tuo ra-gazzo quando io ho appena saputo di avere untumore?”. Ma pure la stessa persona cambia idea a se-conda dei momenti e si stupisce da sola delle suereazioni: magari aveva deciso di non dire nientea nessuno neanche sotto tortura e poi si ritrovainspiegabilmente a confessarsi a cuore apertoproprio con il tizio che voleva più tenere allalarga, magari la collega pettegola o il vicino im-piccione. Si reagisce in modo imprevedibile: lastessa parola, detta da uno fa venire voglia discappare e detta da un altro apre la strada a unracconto liberatorio. Difficile capire quale sia lavariabile che determina il risultato. E se è difficileper il diretto interessato, ancora peggio per chigli sta intorno. Allora è sempre più utile spiegare,istruire gli altri su quello che in quel momento fasentire meglio, con molta sincerità. Può sem-brare una fatica in più e anche un compito irri-tante, al pensiero che gli altri dovrebbero arrivarcida soli a capire, con un po’ di sensibilità. Ma

72

anche la sensibilità potrebbe non essere suffi-ciente. Dire chiaramente e sinceramente agli altricosa aiuta di più è un modo che paga quasi sem-pre: di solito gli altri sono sufficientemente intelli-genti per capire e adeguarsi, senza sentirsi offesio feriti.

73

Traduzioni

Quando sento bussare alla porta del mio studio,non so chi troverò, che problema porterà, maposso ormai scommettere con ragionevole cer-tezza giocandomi anche lo stipendio, che novevolte su dieci sarà una donna.Le donne arrivano con molta più facilità, chie-dendo aiuto per sé o per altri. Si siedono eaprono la diga: hanno bisogno di raccontare e in-tanto piangono, sorridono, si disperano, ridono,si arrabbiano. Di rado chiedono un consiglio pre-ciso, e ancora più di rado lo mettono in pratica.Molte volte traggono il conforto maggiore dalsemplice fatto di condividere un’emozione e diessere ascoltate, di poter mettere fuori pensiericupi e angosciosi senza essere interrotte da ras-sicurazioni premature. Rimestare nel torbido dipensieri sgradevoli in compagnia di qualcuno chepossa reggerli le fa sentire già meglio.

L’uomo arriva molto meno spesso, ma quando ar-riva di sua iniziativa…bando alle ciance! Quasisempre porta un problema molto preciso, chiedeuna soluzione concreta, prende anche diligente-mente appunti, e a casa fa quello che si è stabilito

75

insieme. Una soddisfazione! Più raro che unuomo soggiorni a lungo dentro emozioni sgrade-voli: in genere dice che non serve a niente par-larne, e che anzi lo fa stare peggio.Di solito gli uomini portano la preoccupazione persentimenti nuovi che non avevano mai provato eche cercano inutilmente di ricacciare indietro. Siritrovano a commuoversi per motivi banali e ap-parentemente inspiegabili, oppure dopo che peruna vita sono stati piacevolmente da soli, si sco-prono a desiderare qualcuno accanto nel letto lanotte. Sentono il peso della solitudine e il bisognodi qualcuno che si prenda cura di loro. Si vergo-gnano di ciò che considerano una improvvisa evigliacca debolezza e che invece può diventarel’inizio di un’esistenza più completa e appagante.Per un uomo non riuscire a trattenere le lacrimeè una vergogna bruciante; ci vuole un lavorolungo e paziente perché si conceda di dare spa-zio e legittimità anche alla parte più delicata di sé.

Di frequente la donna che bussa non viene perse stessa, ma perché è preoccupata per il fami-liare malato (maschio) che “non parla”. Pensache sicuramente possa fargli bene “parlare unpo’” con qualcuno e tenta di trascinarlo nella mia

76

stanza mentre lui recalcitrante cerca di svignar-sela. Quando lui cede per sfinimento e accon-sente a entrare, s’appoggia sulla punta dellasedia pronto allo scatto da centometrista allaprima avvisaglia di fine del colloquio. “Glielo dicaanche lei dottoressa che deve parlare, deve sfo-garsi!”, e lui si schermisce “Ma di che devo par-lare?”, e più lei insiste, più lui fugge. “Dottoressalo vedo che è agitato, che è depresso, ma nonmi dice mai niente, non si confida mai con me!”,e lui “Ma tanto che ti devo dire?”.

Noi donne di fronte alla malattia ci lasciamo coin-volgere dalle emozioni e cerchiamo qualcuno concui confidarci e condividerle. Per noi renderequalcuno partecipe delle nostre preoccupazioniè naturale ed è un segno di amore e fiducia. Nonci vergogniamo di farci vedere in difficoltà esiamo più propense a chiedere aiuto. E quandovediamo un uomo preoccupato, vorremmo che siconfidasse allo stesso modo con noi. Ci aspet-tiamo che lo faccia. E restiamo ferite dal suocomportamento. Perché non mi parla? Perché miallontana? Non mi ama? Non sono importanteper lui? Anch’io soffro, perché mi ignora? Facciamo un’enorme fatica a capire che per un

77

uomo invece è inconcepibile l’idea di turbare unaltro con le sue angosce: piuttosto cerca di risol-verle da solo, ritirandosi e concentrandosi solosul problema finchè non abbia trovato una solu-zione. Diventa silenzioso, oppure cerca di di-strarsi. Più lo rincorriamo per offrirgli aiuto, più locostringiamo a difendersene per mantenere la di-gnità del “posso farcela da solo”. Anzi, di solitoha proprio bisogno di sentire che abbiamo fiducianella sua capacità di cavarsela da solo.Quando invece siamo noi a stare male, ci lamen-tiamo di compagni troppo sbrigativi: “Lui sdram-matizza sempre! La fa facile lui! Mi dice ‘Dai suche andrà tutto bene’ e non mi fa neanche finiredi parlare”. Non è come le nostre amiche, chepossono stare ore ad ascoltare lo stesso di-scorso, partecipando emotivamente con sospiridi solidarietà: lui taglia corto con un incoraggia-mento, oppure offre una soluzione pratica che cifa infuriare perché noi non volevamo la solu-zione, volevamo semplicemente essere ascoltatenel nostro sfogo. E lui non capisce dove ha sba-gliato, e si sente rifiutato. Oppure i nostri sfoghigli arrivano come un’accusa personale e piutto-sto che suscitare sollecitudine e conforto provo-cano in risposta irritazione e aggressività.

78

Spesso nel mio lavoro mi trovo a fare la tradut-trice, a far incontrare a metà strada due linguetanto diverse. Ogni coppia pensa che il problemasia solo suo e non si accorge che c’è una diffe-renza universale tra uomini e donne nel modo diaffrontare un dolore. Il solo fatto di esserne con-sapevoli può renderci più comprensivi verso l’al-tro, aiutarci a vedere anche con i suoi occhi, farcisentire meno feriti.

79

Stare a sentire

Tutti ci preoccupiamo di cosa dire alla personamalata, nella convinzione che ci siano parole piùadatte, più giuste, più intelligenti da dire, e so-prattutto nella convinzione che si debba comun-que dire qualcosa. La prospettiva di limitarci adascoltare la snobbiamo come cosa di poco conto,quando invece quasi tutti gli esseri umani - e nonsolo quando sono malati - desiderano e amanosoprattutto essere ascoltati.Ne sottovalutiamo il potere, ma anche la diffi-coltà. Ci sembra di fare una cosuccia da niente,ad ascoltare. Che ci vuole? Tutti ci riteniamobuoni ascoltatori, ma poi la lamentela più comunea qualsiasi latitudine è “Nessuno mi ascolta!”: c’èevidentemente qualcosa che non quadra.Ascoltare una persona senza interromperla,senza offrire soluzioni premature, senza dire “Ah,anche a me..” o “Ah, invece a me…”, senza es-sere distratti da un nostro problema, è già fati-coso. Ma ascoltare una persona che sta male,che sfoga la sua rabbia, la paura, la tristezza, èestremamente faticoso e anche tanto più dolo-roso, quanto più la amiamo. Sentirla lamentarsiper un dolore che non possiamo alleviare, impre-

81

care per tutto quello che deve sopportare, dire“Basta, sarebbe meglio morire!”, è uno strazioper le persone vicine, tanto da avere voglia discappare. Ci viene da rispondere “Non dire que-ste sciocchezze!”, o ci affrettiamo a sdrammatiz-zare, a cambiare discorso, a strappare un sorrisocon una battuta. I silenzi ci fanno paura, ci affan-niamo a riempirli per sfuggire all’angoscia oanche solo all’imbarazzo.Chi ha avuto la fortuna di sentirsi davvero ascol-tato almeno una volta nella vita, conosce però ilpotere di una presenza silenziosa accanto che tilascia dire, sfogare, piangere e che per il solofatto di esserci dimezza il peso di quello che provianche senza dire una parola, condividendolo. Èuna libertà rara, quella di poter mettere fuori tuttoquello che addolora in compagnia di un altro cheaccoglie senza mettere fretta, senza giudicare.Ancora più raro, essere liberi di stare in silenzionei propri pensieri insieme a un altro che saaspettare, che non si spaventa e non si offende.

Se continuo a vedere in giro tanti corsi di forma-zione all’ascolto, è perché evidentemente si trattadi una faccenda complicata, come semprequando ci sono di mezzo le emozioni. Quelle di

82

chi parla, ma anche quelle di chi ascolta. Quandochi ascolta è una persona molto vicina al malato,è scontato immaginare la potenza e l’interferenzadelle sue stesse paure, speranze, rabbie. Maanche quando si tratta di semplici conoscenti, vi-cini di casa, colleghi, operatori sanitari, le emo-zioni minacciano la possibilità di stare in ascoltodell’altro. La malattia dell’altro ci fa paura, te-miamo il contagio: non del tumore, ma dell’ango-scia. Ci ricorda che è proprio ora di fare quellamammografia che rimandiamo da tanto, o chenoi non avremmo mai il coraggio di uscire conuna parrucca, o che non siamo stati abbastanzavicini a nostro padre quando è toccato a lui. Dob-biamo tagliare corto per evitare, o rassicurare pertranquillizzare noi stessi.Se imparassimo a stare dentro le nostre emo-zioni, a sentirle senza scappare, diventeremmoanche più capaci di ascoltare.

83

“Posso farle vedere una cosa?”

Sono un’amante degli animali in generale (be’,cavallette e ragni diciamo che non li amo pro-prio…ma li stimo moltissimo), con una sconfinatapassione per i gatti. Sognavo un lavoro che po-tesse unire i miei due grandi amori, psicologia eanimali, e stavo cominciando ad entrare nelmondo della Pet-Therapy quando il mio destinoprofessionale ha imboccato svolte impreviste,portandomi all’Oncologia di Macerata e allonta-nandomi da quel percorso. Grande sorpresa edentusiasmo per questo incarico così importante,a cui mi sono subito dedicata totalmente. Eppure,confesso, in un angolino restava una punta dirimpianto per quel sogno insoddisfatto. Sapevoche in reparto era già attivo un progetto di PetTherapy, garantito da un’equipe di operatori adue e quattro zampe, ma io ero comunque desti-nata ad occuparmi di altro.

Mai avrei immaginato quanto cani, gatti & co. sa-rebbero stati presenti, anche se non in carne eossa e pelo, negli incontri coi miei pazienti. Nonso quante persone, in questi quattro anni, mihanno fatto vedere orgogliose la foto del ca-

85

gnetto, prima di quella dei figli. Una volta hoanche “parlato” al telefono con un San Bernardo,perché il proprietario insisteva per presentar-melo.

Nel colloquio di accoglienza, oltre a raccogliere ibisogni della persona diamo anche delle informa-zioni sul reparto. Di solito parlo anche dell’attivitàdi Pet Therapy e, dopo l’iniziale fraintendimentoche a volte si verifica (“Oh, poveri cagnolini, ancheloro vengono a fare la chemio?!”), ho sempre no-tato reazioni positive. Intanto tutti sono piacevol-mente sorpresi dalla particolarità dell’iniziativa.Poi il clima della conversazione immediatamentesi alleggerisce, e spesso partono da lì i raccontisui propri animali: “Ah, dovrei portarci il mio, fa-rebbe divertire tutti!”, o “Posso farle vedere unacosa?”, e cercano sul cellulare l’inquadratura mi-gliore del cagnolone.A volte, gli animali sono il primo aggancio su cuisi costruisce il colloquio, o addirittura l’unica“zona franca” in cui il paziente si sente a suo agio.Ricordo una ragazza arrivata blindatissima al col-loquio di accoglienza, chiaramente decisa a nonproferire parola, finchè non si è lasciata sfuggireche lei stava benissimo perché comunque poi a

86

casa aveva il gatto che le faceva dimenticare tuttii problemi. Capirai…parli a me di gatti? Feelingimmediato. Abbiamo parlato mezzora del gatto,finchè la madre, con aria stupita e un po’ scan-dalizzata, si è sentita in dovere di intervenire: “Mainsomma, non dici alla dottoressa che hai ancheuna figlia?!”.

So di una signora piuttosto provata dalla malattiae dalle terapie, che è come rinata con l’arrivo incasa di una micina vivace e giocosa. Gli aggior-namenti sulle malefatte della gattina sono un ap-puntamento fisso ogni volta che con lei e con ilmarito ci incontriamo in reparto. O ricordo l’altrasignora con un amore sconfinato per le tartaru-ghe, che non vedeva l’ora di finire la chemio pertornare da loro, e che mi ha fatto scoprire tuttoun mondo che non conoscevo, fatto di attenzioniminuziose per la nascita e la cura dei piccoli.Allo stesso tempo, a volte strani fili legano leemozioni che vivo con i miei animali alle storiedei miei pazienti. Una mattina ascoltavo una si-gnora parlare del marito molto malato, della suacompassione per la figura forte di quell’uomo pie-gata dalla malattia e dal dolore, e della sua im-potenza nello stare accanto a lui. Un incontro

87

molto intenso, in cui chissà come siamo finite aparlare anche di gatti e di rose, due passioni incomune. Nel pomeriggio, sotto le rose del miogiardino ho ritrovato la mia gattina scomparsa,ferita e sfinita. Nell’accarezzarla seduta sull’erba,senza sapere se sarebbe arrivata alla sera, pen-savo a come farei io a sopportare il dolore diquella signora, se già per un gatto si prova tantapena. Pensavo a com’è strana la vita, a come in-treccia le storie delle persone, a come a qual-cuno tocchino dolori immensi e ad altripreoccupazioni d’ordinaria amministrazione, acome tanta spietata differenza possa però avvi-cinare, piuttosto che allontanare.

Tutti sorridono, quando parlano dei loro animali.Anche se il colloquio è stato triste, o pesante, èmatematico che il passaggio al tema “animali” su-sciterà almeno un sorriso. Allo stesso tempo, peri propri animali si provano gli stessi sentimentiche per gli umani della famiglia: ricordo il signorein pena perché, per venire a fare la chemio, perla prima volta aveva dovuto lasciare la cagnolina,e ogni tanto telefonava a casa per aggiornamentisullo stato d’animo della pelosa. O la ragazza ri-coverata che si preoccupava del cagnetto parti-

88

colarmente iperattivo: “Lui vorrà giocare quandotorno a casa, ma io sarò stanca, come ci rimarràmale…”. O la signora che desiderava partire perun viaggio che la risollevasse dallo stress dellamalattia, ma non sapeva a chi lasciare le due gal-line…che tra l’altro, aveva chiamato con i nomidelle figlie.Un folto popolo di quattrozampe, bipedi, pennuti,che sullo sfondo silenziosamente resta accanto,e senza neanche saperlo conforta, incoraggia,libera la mente da più tristi pensieri; non fa do-mande inopportune, non insiste quando non è ilcaso; sincero sempre, non mente neanche a findi bene. Ne sono convinta, terapeutico quanto laflebo.

89

Il paziente S.Il familiare S.

Sì, S. sta per “stronzo”. Giuro, ho provato a tro-vare un termine più politicamente corretto. Manon è uguale, non rende l’idea. E comunque iltermine che circola tra noi operatori è quello, c’èpoco da fare. Del resto, è lo stesso che circola trapazienti e familiari per indicare l’operatore sgar-bato, rigido, acido o arrogante, o percepito cometale. Un linguaggio universale, insomma, di im-mediata comprensione.

In tutti i reparti c’è almeno un esemplare di “pa-ziente S.”, che si è meritato l’appellativo in virtùdella sua particolare aggressività, vena polemica,tendenza a contestare l’operatore, lamentosità;effettive, o percepite come tali. Per alcuni il rico-noscimento è unanime: riescono a mettere d’ac-cordo tutti, medici, infermieri, psicologi, ausiliari,segretarie, volontari. Per altri emergono discre-panze: l’oncologo dice “Mamma mia, però, cheS. quello nuovo” e l’infermiera cade dalle nuvole:“Il signor X? Ma no, è tanto simpatico!”.Ancora più diffusa è la figura del “familiare S.”,che non necessariamente è il familiare del “pa-

91

ziente S.”; anzi, in genere si tratta di due fenomeniche si escludono a vicenda. Il familiare rischia par-ticolarmente di conquistare lo sgradevole appel-lativo, perché spesso è proprio lui a farsiportavoce di esigenze che il paziente è troppostanco/stordito/abbattuto per esprimere, perciò,ad esempio, è lui che sbotta perché c’è troppo daaspettare per la visita. Poi ha anche le sue ango-sce, ed è lui che tampina il medico per dirgli, dinascosto, che deve assolutamente convincere lamoglie a provare l’ennesima chemio anche se leinon vuole.Di più, se al paziente aggressivo può essere tal-volta riconosciuta l’attenuante della malattia, alfamiliare sconti non se ne fanno. Spesso verso ilfamiliare non usiamo quelle premure comunica-tive che dedichiamo al paziente e su cui facciamomilioni di corsi di formazione; il familiare vieneesposto a una maggior crudezza (tipicamente, acomunicazioni molto più schiette sulla prognosi),dimenticando che sta soffrendo quanto il malato.

Dobbiamo fare lo sforzo di vedere oltre. Spesso, dietro un atteggiamento aggressivo c’èun bisogno, c’è la paura, soprattutto c’è l’impo-tenza. E il senso di impotenza produce sempre

92

rabbia. Noi psicologi predichiamo sempre che larabbia è una reazione normale alla malattia, unafase che bisogna attraversare, che si tratta di unarabbia contro la malattia proiettata contro tutto etutti e che non bisogna viverla come un attaccopersonale, che bisogna contenerla ed evitare direagire con altrettanta rabbia…salvo poi provareuna certa irritazione quando il casuale bersagliodi quella rabbia siamo noi!Dietro l’arroganza può nascondersi la paura difare pena: meglio passare per S., che esserecompatito. Molte persone hanno il terrore di ve-dere negli occhi degli altri la pietà per la loro ma-lattia: sentono minacciata la propria dignità,temono di essere ridotti a “Oh, quel poverino!”. Oalzano un muro di filo spinato per proteggersi daulteriori ferite, in un momento in cui sentono va-cillare la propria sicurezza.Il familiare “furbo” tenta di aggirare gli orari di vi-sita e di intrufolarsi appena si apre una porta; senon cediamo e lo rimandiamo fuori, di sicuro uno“stronzo” mormorato più o meno a bassa voce,stavolta lo rimediamo noi. E ci arrabbiamo. Manoi, come stiamo quando abbiamo in ospedalenostro figlio, marito, moglie, madre, padre, conuna malattia così grave? E lo vediamo fragile e

93

indifeso, e non ci staccheremmo un minuto da lì?Un malato sta morendo e i familiari si scannano;gli operatori pensano “Ma guarda che S., litiganoinvece di stargli vicino”. Ma proprio dove il doloreè più acuto, scannarsi permette di sentirlo dimeno. Litigare è spesso un modo per scapparedal dolore. Una specie di anestetico.

Certamente esistono persone maleducate e arro-ganti di carattere. Talvolta, anche con tutta la buonavolontà, è arduo riuscire a intravvederci un bisognoche ce le faccia sentire più vicine. Ma capita dirado. Di solito incontriamo persone mediamente di-sponibili, collaboranti, rispettose, simpatiche. Pro-spettiva certamente più gradevole, che però portacon sé un altro più sottile pericolo, spesso misco-nosciuto: l’idealizzazione del paziente. Tendiamo aidealizzare il malato oncologico, vedendolo comeun “poverino” colpito da un duro destino che com-batte eroicamente contro la malattia e che noi dob-biamo “aiutare” - così buono lui, così buoni noi -rischiando paradossalmente di divenire altrettantoirrispettosi della complessità dell’essere umano. Senel “paziente S.” rischiamo di non vedere il bisogno,la fragilità, la richiesta d’aiuto, qua rischiamo di nontener conto della normale, inevitabile aggressività

94

che è in ogni essere umano, nel malato come nel-l’operatore. Negarla non la fa sparire, e ci lasciasprovvisti degli strumenti per gestirla.

95

“Dottoressa, lei è credente?”

Le prime volte che i pazienti mi facevano questadomanda, il panico: ora come faccio a spiegargliil mio orientamento religioso, non ancora deltutto chiaro neanche a me stessa, frutto di de-cenni di rimuginamento, dubbio e ricerca, finoall’approdo temporaneo a una posizione riassu-mibile grosso modo nella frase di Luciano DeCrescenzo “Non sono un credente. Sono unosperante”? E la mia risposta, che effetto avrà?Incoraggerà quello che la persona stava perdirmi, o lo bloccherà? Le credenze religiose delterapeuta, quanto influiscono nella relazione conil paziente?

Al momento, di fronte alla fatidica domanda “Leiè credente?”, me la cavo egregiamente con un“Più o meno”. Ma potrei rispondere qualunquealtra cosa. Perché poi ho capito che in realtà allapersona che ho di fronte non interessa. Quelloche le interessa, è avere uno spazio in cui poterportare la sua spiritualità, le sue domande sulsenso della vita, della malattia, della morte,quelle che non hanno una risposta esatta, inutileandare a cercare su tutti i libri dell’Università.

97

Nel cassetto della scrivania ho cinque rosari, dueBibbie, tre libretti dei Testimoni di Geova, sei san-tini con frasi di ringraziamento, due bigliettini incui due persone diverse mi hanno scritto un man-tra buddista da recitare. Me li hanno regalati e ioaccetto tutto, ringraziando perché il pensiero chesta dietro al rosario come al mantra è: fa starebene me, te lo dono perché faccia star beneanche te. E accetto tutto perché sono parti dellaloro storia, indizi sui loro punti di forza, da colti-vare o ritrovare.Nello stesso giorno, c’è la signora che mi salutasorridendo perché “Tanto io ho il Signore vicinoa me che mi sostiene e mi dà la forza” , e subitodopo la vecchietta furiosa perché “Ho pregatotanto Dio e non mi ha ascoltata!”; c’è chi parlacon Padre Pio e chi non fa neanche entrare ilprete in camera; chi non si spiega un’improvvisatentazione di bestemmiare, e chi va a Medjugorje“Mica per i miracoli eh, non ci credo a questesciocchezze…e poi quella poveretta della Ma-donna come fa ad aiutarci tutti…ma magari unpo’ di dolore me lo leva!”. Chi si allontana dallafede, chi si avvicina. Prima guardavo con uncerto sospetto chi improvvisamente si rivolge aun dio solo nel momento in cui sta male.

98

Quando sono stata male io, mi è successo dipassare per caso accanto a una chiesa e sco-prirmi a pensare d’impulso “Quasi quasi entro”.Non per chiedere aiuto o per raccomandarmi, maper il bisogno di stare in un luogo in cui pensare“oltre”, riflettere sul senso di quello che ci accade;un posto in cui poter raccogliere la mente su do-mande troppo grandi per affrontarle negli spaziordinari della vita quotidiana.

Il lavoro dello psicologo resta sempre lo stesso:accogliere le emozioni, rilanciare la fiducia, alle-viare il senso di colpa: al di là della fede, delleopinioni, delle credenze. E garantire uno spazioin cui potersi avventurare nelle domande piùgrandi: ma perché questa malattia a me? Qual èil senso? La mia vita ha un senso? E dopo, cosac’è? Nessuno pretende la risposta, ma ha biso-gno di uno spazio protetto in cui poter pronun-ciare la domanda senza che l’altro si spaventi, osi affretti a dare una soluzione, o imponga la suafede, o cambi argomento, per arrivare semmai,e non necessariamente, a una propria, personalerisposta.Questo è forse l’aspetto che più amo del mio la-voro. Essere costretta costantemente ad andare

99

più in là del quotidiano, del materiale, e a “stare”dentro domande da cui spesso scappiamo. “Tulo chiami Dio, io non dò mai nome a cose piùgrandi di me”, dice una canzone di Eugenio Fi-nardi. Ognuno gli dà un nome, o un non-nome,ma la verità è che nessuno sa con certezza. En-trare in cose più grandi di noi, con umiltà, condi-videndo anche l’insicurezza e l’impotenza, pensosia l’espressione più alta della nostra umanità.

100

“Tanto lo so”

Le stavo insegnando come si disegna una chiavedi violino. Ricciolo, poi giù, poi su fino in alto oltreil pentagramma, e per finire giù dritto e un altroricciolo. Lei provava e riprovava, non è facile di-segnare chiavi di violino, ma voleva imparare lamusica e a suonare il piano come me.Quando è squillato il telefono ho tremato perchéaspettavamo la notizia. Mamma ha risposto, conle labbra mute ha articolato “È morta” e subito coldito mi ha fatto segno di non dirlo a lei, che giratadi spalle continuava a tracciare ghirigori sul pen-tagramma.Io avevo dodici anni, mia cugina nove. Zia stavamale da tanto e lei stava spesso a casa nostra,per “distrarsi” e giocare con me. Ma non si par-lava mai della malattia di zia. E anche quandomia cugina non c’era e quindi non ce n’era biso-gno, si continuava lo stesso a parlarne a bassavoce e a denti stretti. Una cappa di silenzio chemi opprimeva.

Dopo la telefonata, lo stomaco annodato. Dovevofingere la normalità ma sentivo i muscoli del visoche non mi seguivano e andavano per conto pro-

101

prio. Speravo che lei non alzasse gli occhi dal fo-glio per non scoprire lo smarrimento, la tristezzae la paura che sentivo sfuggire a ogni controllo. Non so di preciso che ore fossero, ma ricordo ilresto di quella giornata come un tempo intermi-nabile. Anche se mi veniva da vomitare, mi sfor-zavo di sorridere come al solito e sembrarenormale, di giocare a Barbie, come facevamosempre. Mentre tentavo di fingere interesse peri vestiti della Barbie, la guardavo di sottecchi epensavo “Non è giusto, dobbiamo dirglielo, nonè giusto”. Ogni minuto che passava, mi sem-brava un inganno in più verso di lei. Lei non s’eraaccorta di niente, tranquilla come al solito, anzi,forse più del solito. Io mi sentivo un mostro.

La sera andiamo a dormire in camera mia.Mamma viene a salutarci con un bacio e se neva. Vorrei che restasse perché ho paura. Cercodi dormire ma è impossibile. Tendo l’orecchioverso il letto vicino, lei invece sembra aver giàpreso sonno, voltata di là, ignara di tutto. Forsemeglio così.Poi all’improvviso nel buio mi arrivano addosso lesue parole piene di rabbia: “Tanto lo so che muoresai!”. Una rabbia che non le avevo sentito mai -

102

lei sempre così dolce e mite -, come un’accusa.Io, paralizzata. Non ricordo assolutamente cosaho risposto. Se, ho risposto.E poi dopo un po’, altre parole piene di paura edi trepidazione: “Ma secondo te, Dio la vorràmamma in Paradiso?”. Ricordo solo che sonoriuscita a pronunciare “Certo! Certo che Dio lavuole, tua madre è così buona. Stai tranquilla”.Poi più niente. Tutto quello che i miei dodici annihanno potuto fare.

Non si può, non si può lasciare che un bambinonon abbia qualcuno a cui poter dire questo, senon un altro bambino altrettanto smarrito e spa-ventato.Noi pensiamo che i bambini non si accorgano,che non sentano, che non capiscano; li man-diamo lontano pensando di proteggerli dalla sof-ferenza. Ma loro soffrono lo stesso e chiederannoa qualcun altro, spesso proprio alla personameno in grado di aiutarli.Si accorgono che parli sottovoce al telefono, cheprendi strane pasticche, che hai pianto anche segli dici che hai il raffreddore. Anche a un anno, adue anni, sentono che è successo qualcosa espesso se ne prendono la colpa. Noi adulti pen-

103

siamo sì, potrà essere vero per gli altri bambini,ma per il mio no, lo vedo che è sereno, e io sonascondere bene i miei sentimenti. Ma non fun-ziona mai. Anzi, più nascondiamo la verità e leemozioni, più loro cercano di provocare una rea-zione, sfidano per ottenere una risposta, e diven-tano insolitamente aggressivi, o smettono dimangiare.

Fortunatamente, dal tumore si può guarire. Ma-gari poter lasciare i figli ignari per non turbarli inu-tilmente fino a che tutto sarà risolto…ma non èpossibile. Allora bisogna dirglielo che se seistanco e non hai voglia di giocare con lui, è per-ché hai una malattia. Ascoltare le sue domandepure se sono un pugno nello stomaco e se una ri-sposta non c’è. Concedersi anche di piangere in-sieme prima di confortarlo e rassicurarlo, perchénon c’è niente di più naturale, sensato e sano chepiangere, quando uno è triste.E farlo venire in ospedale, a vedere chi è la dot-toressa, a scoprire com’è fatta la flebo, perchétutto quello che può vedere e toccare, e di cui puòparlare, diventa meno spaventoso e più familiare.

Le chiavi di violino mi sono rimaste sullo sto-

104

maco. Se non avessi vissuto questa vicenda,oggi non sarei così tanto convinta della necessitàdi coinvolgere i bambini anche nei momenti piùdolorosi della malattia. Quelli che ci fanno pen-sare “No, questo è troppo, devo risparmiarglielo”e che ci fanno provare una stretta al cuore. Nonpossiamo evitargli di provare dolore, ma se re-stiamo accanto, se li informiamo con sincerità, segli permettiamo di prepararsi, se li ascoltiamo,possiamo aiutarli a non sentirsi soli e ad affron-tarlo meglio.

105

Il giusto distacco

In qualunque libro di psiconcologia, si trova im-mancabilmente la frase “Lo psicologo deve man-tenere il giusto distacco dal paziente”, per nonessere travolto dalla sofferenza con cui viene acontatto. E fino a qui, tutti d’accordo. Lo sa purela gente comune, che infatti ti dice “Eh, che faticaper voi, che dovete mantenere il giusto distaccodai pazienti!”. Chiarissimo a tutti. Praticamenteovvio. Ma questo “giusto”, si può sapere quant’è?Come si misura, a metro, a chilo, come? Questonon c’è scritto mai da nessuna parte. Speri finoalle ultime pagine del libro, pensi magari mi fannopenare per farmela conquistare, ma alla fine cisarà una ricetta, un’indicazione, qualcosa!Niente. Non c’è verso, quant’è il giusto lo deviscoprire da solo, e sulla tua pelle.Il degno completamento di “mantenere il giustodistacco” è “lasciare il lavoro fuori della porta dicasa”. Pure questo, c’è scritto dappertutto. Si puòfare? No. Tutti quelli che fanno un lavoro di assi-stenza e cura alle persone, sanno che è un’im-presa impossibile. Puoi riuscire a controllarequanto ti porti a casa, e imparare a decidere cosafarne, ma che ti porti qualcosa da qualche parte,

107

è fuori discussione. Ascolto una canzone di Ven-ditti e penso a Laura che mi ha regalato tutti i cd,“Così avrai qualcosa di me”; mangio un paninocol salame e penso che però non sarà mai buonocome quelli che ci portava Celso in reparto; pre-paro un dolce e penso a Manuela, che stamattinapiangeva perché è così stanca che non riesceneanche a far da mangiare per i bambini.Pur essendo tanti i momenti felici (la gioia di chiha finito la chemio e festeggia in reparto, l’ab-braccio dopo le buone notizie dalla tac, il ringra-ziamento di chi ha ritrovato la motivazione peraffrontare la malattia), di solito sono quelli menolieti che ti seguono oltre la porta di casa.Tutto questo non solo è inevitabile, ma è anche,aggiungo, BELLO. Bello pure se triste. Triste, manon deprimente. La mia vita è infinitamente piùdensa e ricca grazie all’incontro con tante per-sone che, in un modo o nell’altro, hanno affron-tato la sofferenza, e mi hanno insegnato afermarmi, a riflettere, a sentire con più profondità.

La fatica è piuttosto imparare di continuo dove stail nostro limite, fino a dove tutto questo arricchiscela nostra vita e a quale punto comincia invece atoglierci l’energia, a sopraffarci, o costringerci a

108

scappare e nasconderci dietro la freddezza, per-ché il carico è troppo pesante.Il mio punto limite è diverso dal tuo. Il mio puntolimite si sposta nel tempo, si sposta con le per-sone, segue percorsi imprevedibili, non rispetta leproporzioni: posso tornare a casa serena dopo unfunerale, ma restare turbata per una settimana daun’occhiata di un familiare. Un monitoraggio con-tinuo: dove sono, come sto, come posso lavo-rarci? Serve ascoltare le nostre emozioni, servela formazione, serve il confronto e lo sfogo con icolleghi. A volte mi sento sola a gestire tanta angoscia dimorte, perché alla fine è quella che ti arriva ad-dosso, sempre. Ma in fondo basta poco per staresubito meglio: una telefonata a Luigi (il collegache è sempre in una sede diversa, e infatti i ta-bulati delle telefonate che partono dai nostri studisono di una prevedibilità disarmante: siamo sem-pre noi due che ci chiamiamo da Macerata a Ci-vitanova a San Severino e viceversa) e il peso ègià dimezzato. Ma basta anche meno, un’oc-chiata fugace scambiata con la segretaria o conl’infermiera, un istante di condivisione che dice“Sì, ho presente quello che stai provando”.Nel gruppo ci si capisce e sostiene. In cucina, nei

109

bagni e negli spogliatoi c’è spesso uno di noi incrisi e qualcun altro che lo consola. Quasi sem-pre il pensiero è “Non ho fatto abbastanza” e c’èbisogno di un altro che ti ricordi che anche il solofatto di esserci o di ascoltare è molto più che ab-bastanza.

Mi aiuta anche metterci un’ora per tornare acasa. Quell’ora mi serve tutta per far decantarequello che ho assorbito. La gente spesso mi dice:”Ah, peccato che per lavorare devi arrivare cosìlontano, ti auguro di poterti avvicinare”…Ma ionon mi voglio avvicinare! Quel tempo e quellospazio mi servono. Tutto quello che ho vissuto inuna giornata di lavoro - le storie, le emozioni dellepersone - non lo voglio abbandonare subito, enemmeno me lo posso portare tutto a casa.A Montecassiano ho ancora tutti i visi, le parole,i pezzi di storie che mi girano nella testa; versoFilottrano la mente ha già in buona parte selezio-nato, tenuto da conto o lasciato andare; a Jesi èrimasto il distillato, quello che mi piace portarmidietro; e negli ultimi dieci chilometri sono prontaa riprendere la mia vita. Funziona quasi sempre.

Noi che facciamo questo lavoro sentiamo il peso

110

e la fatica di tutta la sofferenza con cui veniamoa contatto, ma abbiamo l’occasione preziosa diusare quanto ci portiamo dietro per migliorare lanostra vita, per scegliere, decidere, cambiare.Sappiamo che il dolore che abbiamo visto piom-bare su altri può colpire noi, i nostri figli, mariti,mogli, genitori. Questo può inchiodarci nell’ango-scia e nel senso di colpa, o diventare la spinta ariempire di senso ogni giorno.

***

Regola numero uno: il paziente non deve cono-scere aspetti personali del terapeuta, perchéquesto ostacolerebbe il processo terapeutico.

Regola numero due: nessuna frequentazione aldi fuori del contesto della seduta.

Regola numero tre: non si va a matrimoni, fune-rali e cerimonie varie, perché “O vai per tutti, onon vai per nessuno”.

Questo avevo imparato all’Università. E ho appli-cato fedelmente per anni senza nessun pro-blema. Finchè sono venuta a lavorare aMacerata, e ho trovato un reparto dove tutta l’e-

111

quipe ha un rapporto estremamente familiare econfidenziale con i pazienti, dove si va tutti amangiare la porchetta a casa di un paziente, o sista insieme, operatori e malati, in barca a vela, osi va insieme in montagna, e si mangia, sischerza, si balla tutti insieme, Direttore com-preso, così come si va anche ai funerali, chi può,chi aveva un rapporto particolarmente stretto…Panico! Non sapevo come adattare le mie quat-tro, ferree certezze, a un contesto così nuovo ediverso, nel terrore di andare al di là del famoso“giusto distacco” scolpito a caratteri cubitali nellamia testa.

Poi ho capito che questo modo non solo non eraun pericolo, ma anzi facilitava ed arricchiva il rap-porto con i pazienti, senza togliere nulla alla suaefficacia terapeutica. Si può accettare un invitoda un paziente? È giusto andare ai matrimoni, oai funerali? E andare alla festa di Mario, ma nona quella di Paola?Nel tempo, provando e rischiando, con tantidubbi in testa e le orecchie sempre tese a cap-tare l’effetto, su di me e sull’altro, di quel che sce-glievo di fare, ho imparato che si può essereamichevoli senza essere amici, che si può es-

112

sere coinvolti senza essere travolti, che una bat-tuta irriverente può essere densa di rispetto e af-fetto.

113

“Signorina lei ha bisognod’affetto”

Lui lo diceva per scherzare, ma come semprequando scherzava, Celso diceva anche cosemolto serie.Ho voluto prenderla come titolo, la sua frase, per-ché ha tanti sensi: un concentrato di quello chemi piace e che per me è importante nel mio la-voro.Mi piace che le persone non mi cerchino come“la dottoressa Montesi”. Alcune colleghe si offen-dono quando al paziente scappa un “signora” o“signorina” piuttosto che “dottoressa”. A me piacesentire da dentro lo studio che alla segretaria Va-nina chiedono semplicemente “C’è Lucia?”,anche quando è la prima volta che ci incon-triamo. Mi piace la familiarità che si respira inogni angolo del nostro reparto, come mi piace l’a-bitudine di scherzare e ridere anche prendendociaffettuosamente in giro.

Affetto. Dal dizionario Garzanti della lingua ita-liana: “sentimento di viva benevolenza verso unapersona o una cosa; più genericamente, ognisentimento profondo dell’animo”.

115

Questo posto è un vivaio d’affetti: a volte li vediproprio spuntare come piantine, come quandonasce un’ amicizia tra pazienti che si incontranoin reparto, e si cercano sempre di più ad ognichemio, e se non si trovano corrono subito achiedere “Avete visto Anna? Come sta?”. Amici-zie che continuano fuori e non si perdono,spesso più salde di quelle nate in circostanzenormali perché costruite su una condivisione in-tima e sull’autenticità dei sentimenti con cui ci simostra all’altro, senza difese.Ho capito che, tra tutte le emozioni, è la pauraquella che avvicina di più. La gioia spesso bastaa se stessa. La tristezza isola. La rabbia allon-tana. La paura invece è quella che ti spinge di piùverso gli altri per chiedere aiuto e che ti fa abban-donare schermi, maschere, scrupoli; ti spoglia ditutte le costruzioni e ti mette a nudo in tutta la tuafragilità. I legami che nascono in queste condi-zioni sono più intensi perché avvengono a di-stanza ravvicinata, senza i consueti filtri con cuiabitualmente ci proteggiamo e che distorcono lanostra natura più vera.Poi c’è l’affetto che le persone dicono di sentireintorno, da parte del personale e specialmente daparte delle infermiere, e che ha tutta l’aria di es-

116

sere terapeutico tanto quanto le flebo. Vale per imalati, vale per i familiari. “Io accompagnavo miomarito e loro, la seconda volta che andavamo, mihanno chiamato per nome. Tra tutta quella folla,si sono ricordate il mio nome…non è incredibile?”,diceva Caterina con gli occhi lucidi.Parlare di affetto da parte degli operatori può ri-sultare stucchevole, retorico e semplicistico. Tut-tavia ho impressa nella memoria una lezioneall’Università di quando studiavo Psicologia. Ilprofessore ci illustrava i fattori terapeutici chenelle diverse forme di psicoterapia permettono difavorire il benessere del paziente. Ci sono decinedi psicoterapie diverse e ognuna usa strategie eorientamenti propri. Ore a descriverle tutte; altreore a passare in rassegna la mole di studi scien-tifici sulla validità di una e dell’altra. Poi lui era untipo preciso: ci insegnava “Teorie e tecniche deitest”, l’apoteosi della misurazione e della oggetti-vità scientifica. Perciò ci lasciò tutti a bocca apertaquando concluse: “Ragazzi, sapete qual è l’unicofattore terapeutico essenziale in qualunque tipodi psicoterapia? L’affetto per il paziente.” Punto.

Gli affetti sono le nostre passioni, i nostri desideri,quello che per noi è importante. Gli affetti riac-

117

cendono la speranza, placano la paura, mobili-tano le energie. Può essere l’amore per un nipo-tino, il desiderio di far pace con quella sorellalontana, l’aver cura delle ottanta tartarughe ingiardino, o la passione di costruire presepi dentrole zucche. Tutti diversi, e non ce n’è uno più no-bile di un altro. È vero che abbiamo tutti bisognodi un affetto: non solo di riceverlo, ma anche - eforse ancora di più - di provarlo, di investire inqualcosa che per noi conta. È questo che ci fasentire vivi: provare amore per qualcosa.

E gli affetti non si possono nascondere. Celso mibeccava sempre quando c’era qualcosa che nonandava: “Te cocca oggi c’hai qualcosa che nonquadra, t’hanno fatto arrabbiare…è sicuramentecolpa di Latini!”. Un’invidia profonda per la suaabilità di cogliere un’ombra di preoccupazione,un sorriso appena meno largo del solito (lui dav-vero sapeva misurare al millimetro, e senza bi-sogno di test), la stanchezza dopo giornatetroppo cariche. Poi ho scoperto che sì, lui era davvero eccezio-nale in questo, ma la capacità di cogliere imme-diatamente i sentimenti dell’altro appartiene atutte le persone che soffrono e che hanno paura.

118

Il malato ha i sensi acutissimi, come un animalein pericolo in stato di emergenza: sente se tuoperatore sei spaventato o no, se credi in quelloche dici o stai barando. Poi magari ti lascia per-dere, ma intanto ha capito perfettamente se seiautentico.Questo è l’aspetto più faticoso ma anche più bellodel lavorare in questo posto: imparare a starenella relazione con le mie emozioni, energie,aspettative e sofferenze, così come fa il malato,e a sostare dentro sentimenti potenti, spesso piùgrandi di noi, senza barare.

119

Qualcosa è cambiato

Quattro anni fa, quando ho cominciato a lavorarea Macerata, ogni volta che sentivo il Direttore direalle persone “Abbiamo una nuova psicologa a vo-stra disposizione, approfittatene per una chiac-chierata” mi veniva un travaso di bile: unachiacchierata? Sacrilegio!!! Sminuire così un in-tervento professionale d’alta specializzazione, ri-durre a chiacchierata un processo complesso edifficile come una seduta di psicoterapia, che civogliono cinque anni per imparare a farla! Dopocerto che la gente ha le idee confuse sulla cate-goria e ci guarda con sospetto, e poi penserà cheparlare con noi è come parlare con l’amico, col vi-cino, col prete, che uno vale l’altro! Un attentatoalla nostra dignità professionale, un insulto aglianni di formazione, aggiornamento, perfeziona-mento…quasi un’offesa.

Adesso il Direttore non lo dice più. Perché lo dicoprima io. Ora viene spontaneo anche a me con-cludere il colloquio di accoglienza dicendo “Seavete voglia di fare una chiacchierata con me ocon Luigi, sapete che siamo qui tutti i giorni,anche senza appuntamento”.

121

Ho cambiato idea, ho capito qual era il senso. Sepuò aiutare le persone a sentirsi più a loro agio,a vivere la consulenza psicologica senza i solitipregiudizi e timori infondati ma profondamenteradicati, ma ben venga la chiacchierata, ma chia-miamola pure come ci pare, che importa. L’im-portante è che le persone arrivino serenamente.Poi ci penso io a farne un intervento professio-nale.

Mi inorridiva la modalità dell’ invio da parte dei col-leghi medici: “Lucia ho qui una signora a cui fa-rebbe bene parlare con te, puoi vederla subitodato che oggi è già qua per la terapia?”.Pensavo “Oh, una seduta psicologica mica la faiperché tanto passavo di lì, già che c’ero! E non èneanche un pronto soccorso!”. Un percorso psi-cologico richiede una motivazione forte e unascelta ponderata, e inoltre il subito con noi nonesiste, anzi il più delle volte cerchiamo proprio dievitarlo per non colludere con le aspettative ma-giche dei pazienti, per ribadire che non c’è unasoluzione istantanea e indolore e che spesso oc-corre un lavoro lungo e faticoso. Ero abituata alavorare come lavora la maggior parte degli psi-cologi, con un paziente che chiede appunta-

122

mento, tu che glielo dai per il giorno x, lui chedeve avvertire in tempo se non viene, e poi siparla dentro una stanza, da soli.

Qua però funziona diversamente. Le personestanno male, e frequentemente abitano lontano.Per diversi giorni della settimana non sono ingran forma, anche quando gli effetti collateralinon sono dei peggiori. Farle tornare dopo qual-che giorno solo per non colludere con le loroaspettative magiche…mi sembra un’inutile cru-deltà. Anche quando prendiamo un appunta-mento, a volte tocca proprio beccare l’attimofuggente, la giornata in cui si sentono meglio,hanno smaltito i postumi della chemio prece-dente prima di ricominciare con la successiva. Avolte c’è giusto un paio di giorni di tregua in cuiquesti poveretti devono incastrare tutte le coseda fare, e non solo la psicologa. Oppure c’è il fa-miliare che ha il malato ricoverato di sopra e rie-sce a scappare da me per un’oretta mentrequalcun altro gli fa compagnia; oppure ha il ma-lato a casa, mille problemi pratici da gestire e po-chissimo tempo per sé.L’urgenza in psicologia non esiste, mi hanno in-segnato. Ma quando ti chiamano perché di sopra

123

una mamma si è improvvisamente aggravata enessuno sa cosa dire alle bambine, l’urgenza inpsicologia esiste.In altri contesti, le sedute saltate possono dipen-dere da una resistenza a venire e il paziente chenon si presenta senza avvertire risulta piuttostoirritante. Qua non è infrequente che il pazienteche non si presenta e non ha avvertito sia… finitoal pronto soccorso. Certo anche qui non man-cano le resistenze psicologiche, come dapper-tutto, ma il dato oggettivo, organico, ha ungrande peso e richiede di adeguare il lavoro psi-cologico ad esigenze particolari.Non sempre si può fare un colloquio faccia a fac-cia da soli, nella privacy della mia stanza. A voltetocca farlo in una camera con altri pazienti, chenel migliore dei casi escono per un po’, ma il piùdelle volte pure loro non possono alzarsi dal letto.Colloqui fatti come se stessi camminando sulleuova, cercando di usare il corpo e la voce per ri-creare un minimo di privacy, ogni parola dosatatenendo a mente che ci sono altri intorno. Devitutelare la persona che ha chiesto il colloquio,certo, ma pure quelle che si trovano lì ad ascol-tare loro malgrado, che non sai mica che effettogli faranno, quelle parole.

124

Mi ci è voluto tempo per capire e adeguarmi, mami ha aiutato osservare gli altri che lavoravanogià qui. Ho imparato da tutti: infermiere, ausiliari,volontarie, medici. Da ognuno ho preso qualcosae ho cercato di farlo anche mio.Sapere poi di fare parte di un gruppo che fun-ziona, in cui ciascuno fa bene la sua parte, mipermette di reggere il carico emotivo del mio la-voro. So che siamo tanti a prenderci cura dellastessa persona, e posso io per prima trasmetterefiducia a un nuovo paziente che incontro perchéso già che l’infermiera che l’accoglierà all’arrivogli strapperà subito un sorriso, dicendogli chesotto il foglio del consenso informato che sta fir-mando c’è la rata del suo mutuo; che ad atten-derlo per il prelievo ci sarà ancora un’infermierasorridente e attenta a farlo sentire a suo agio; chepoi troverà l’oncologo a spiegargli la terapia conquel modo di parlare sereno che ti fa già sentireche andrà tutto bene; che le battute scherzosedella volontaria renderanno la sua prima chemiopiù abbordabile di quanto pensasse.

Grazie al Dr. Luciano Latini, il nostro Direttoreche ha fortemente voluto un reparto così, creden-doci anche quando altri lo osteggiavano, co-

125

struendolo con pazienza e tenacia a costo di tantisacrifici personali, sempre curioso e pronto adentusiasmarsi per ogni idea nuova che possagiovare alle persone malate. E che ha creduto inme, lasciandomi libera di scegliere come lavo-rare, nonostante le sue perplessità sul modo incui molti psicologi si avvicinano all’oncologia. Eche mi ha dato anche l’opportunità di scrivere, in-coraggiandomi anzi a farlo, sapendo quanto que-sto mi appassioni. Che mi ha ricordato storie,episodi, volti incontrati nella quotidianità del re-parto: alcuni tra gli innumerevoli - ognuno impor-tante, ognuno irripetibile -, e che peccato nonpoter raccontare di tutti.

Grazie a tutti i colleghi con cui posso condividereil “prenderci cura”, che mi sostengono nei lavoripiù penosi, mi danno fiducia affidandomi i loro pa-zienti, ascoltano lo sfogo dopo giornate faticose.

Grazie a Luca il poeta e a tutti quelli che dopoaver letto i primi germogli di questo libro hannodetto convinti “Sì, vai avanti!”.

Grazie soprattutto alle persone malate e ai lorofamiliari, che mi permettono di entrare nelle loro

126

vite mettendo a nudo la parte più fragile di sé, dipartecipare al loro dolore e alle loro speranze. Miricordano il valore del tempo che passa, delle pa-role non dette, dei gesti non compiuti. Mi spin-gono ad essere più vera. Mi fanno conoscere lapazienza, la tenacia, la ribellione, l’accettazione.Mi aiutano a catturare attimi di vita e bellezza, aentrarci dentro fin sopra i capelli, a consumarlicon tutti i sensi. A non perdere, nello scorrere abi-tudinario delle incombenze quotidiane, le occa-sioni per emozionarmi. Mi insegnano a fermarela macchina in mezzo alla strada e scendere pergodere di più dell’inaspettato spettacolo, se unimprovviso campo di fiori gialli mi sorprende dopola curva, piuttosto che lasciarlo scivolare via.Anche se non c’è tempo, anche se c’è da fare.

127