Jules Verne - Il Signor Re Diesis E La Signorina Mi Bemolle

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Racconto

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Jules Verne

IL SIGNOR RE DIESIS E LA SIGNORINA MI BEMOLLE

Titolo originale dell’opera

M.RÉ-DIÈZE ET M.LLE MI-BÉMOL (1893)

Traduzioni integrali dal francese di GIUSEPPE RIGOTTI Prima edizione: 1984

Proprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy © Copyright 1984 U. MURSIA & C.

2668/AC - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29

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Indice PRESENTAZIONE _____________________________________3

IL SIGNOR RE DIESIS E LA SIGNORINA MI BEMOLLE _ 4 I _____________________________________________________4 II_____________________________________________________6 III____________________________________________________8 IV ___________________________________________________11 V____________________________________________________16 VI ___________________________________________________21 VII __________________________________________________23 VIII _________________________________________________29 IX ___________________________________________________34 X____________________________________________________37

PRESENTAZIONE

Pubblicato per la prima volta su « Le Figaro illustre » del dicembre 1893.

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IL SIGNOR RE DIESIS E LA SIGNORINA MI BEMOLLE

I

ERAVAMO una trentina di ragazzi, alla scuola di Kalfermatt: una ventina di maschi dai sei ai dodici anni, una dozzina di femmine dai quattro ai nove. Se desideraste sapere dove esattamente si trova questa borgata, stando al mio libro di Geografia, alla pagina 47, è in uno dei cantoni della Svizzera, non molto lontano dal lago di Costanza, ai piedi delle montagne dell'Appenzell.

— Ehi! dico, voi laggiù, Joseph Müller? — Signor Valrügis?… — risposi. — Che cosa scrivete mentre io faccio la lezione di storia? — Prendo appunti, signor maestro. — Bene. La verità è che io disegnavo un pupazzetto, mentre il maestro ci

spiegava per la millesima volta la storia di Guglielmo Tell e del feroce Gessler. Nessuno la conosceva a fondo come lui. Il solo punto che gli restasse da chiarire era questo: a quale specie, ranetta o calville, appartenesse la storica mela che l'eroe svizzero aveva collocato sulla testa del figlio, mela discussa quanto quella di cui nostra madre Eva spogliò l'albero del bene e del male.

Il villaggio di Kalfermatt è piacevolmente situato in fondo a una di quelle depressioni che si chiamano van, scavata su quella parte della montagna che i raggi del sole non possono raggiungere d'estate. La scuola, ombreggiata da un folto fogliame, all'estremità del villaggio, non ha per nulla l'aspetto severo di un edificio destinato all'istruzione elementare. È allegra, ariosa, con un vasto cortile alberato, una gradinata riparata da una tettoia per la pioggia, e un

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piccolo campanile, dove la campana canta come un uccello fra i rami.

La scuola appartiene in parti eguali al signor Valrügis e a sua sorella Lisbeth, una vecchia zitella più severa di lui. In due bastano all'insegnamento: lettura, scrittura, aritmetica, geografia, storia: storia e geografia della Svizzera, s'intende. Abbiamo lezione tutti i giorni, salvo il giovedì e la domenica. Si arriva a scuola alle otto, ognuno con il proprio paniere e alcuni libri sotto la fibbia della cinghia; nel paniere vi è la colazione per mezzogiorno: pane, carne fredda, formaggio, frutta, con una mezza bottiglia di vino annacquato. Nei libri vi è quanto serve per istruirsi: dettati, numeri, problemi. Alle quattro si riporta a casa il paniere vuoto senza nemmeno una briciola.

— …Signorina Betty Clère?… — Signor Valrügis… — risponde la bambina. — Non avete l'aria di prestare attenzione a quello che sto

spiegando. A che punto siamo rimasti? — Quando… — dice Betty balbettando — quando Guglielmo

rifiuta di salutare il berretto… — Errore!… Non siamo più al berretto, bensì alla mela, di

qualunque specie essa sia! La signorina Betty Clère, tutta confusa, abbassa gli occhi, dopo

avermi rivolto quello sguardo che amavo tanto. — Senza dubbio — riprese ironicamente il signor Valrügis — se

questa storia la si cantasse invece di narrarla, voi ne avreste provato maggior piacere, con il vostro gusto per le canzoni! Ma un musicista non oserà mai mettere in musica un soggetto simile!

Aveva forse ragione il nostro maestro di scuola? Quale compositore poteva far vibrare una simile corda?… E tuttavia, chissà… In avvenire?…1

Ma il signor Valrügis continua la sua spiegazione. Grandi e piccoli, siamo tutto orecchi. Si sarebbe sentita fischiare la freccia di Guglielmo Tell attraverso la classe… una centesima volta dalle ultime vacanze.

1 In realtà, la vicenda di Guglielmo Tell fu messa in musica da Gioacchino

Rossini. La prima rappresentazione dell'opera ebbe luogo nel 1829. (N.d.T.)

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II

È CERTO che il signor Valrügis assegna all'arte della musica un posto di second'ordine. Ha ragione? Eravamo troppo giovani allora per avere un'opinione al riguardo. Pensate un po'; io sono fra i grandi, e non ho ancora compiuto dieci anni. Tuttavia una buona dozzina di noi amava molto le canzoni del paese, i vecchi canti delle veglie, e anche gli inni delle feste accompagnati dal suono delle campane, le antifone e l'antifonario, quando l'organo della chiesa di Kalfermatt fa d'accompagnamento. Allora le vetrate fremono, i fanciulli del coro emettono le loro voci in falsetto, i turiboli dondolano e sembra che i versetti, i mottetti, i responsori s'involino attraverso vapori profumati…

Non voglio vantarmi perché è una cattiva abitudine: per quanto io fossi uno dei primi della classe, non tocca a me dirlo. Ora, se voi mi domandate perché io, Joseph Müller, figlio di Guillaume Müller e di Marguerite Has, attualmente mastro di posta a Kalfermatt, fossi stato nominato Re Diesis,2 e perché Betty Clère, figlia di Jean Clère e di Jenny Rose, albergatori al luogo succitato, portasse il soprannome di Mi Bemolle,3 vi risponderò: « Pazienza, lo saprete fra poco. Non abbiate più premura di quanto convenga, ragazzi miei ». Di certo, le nostre due voci si sposavano mirabilmente, in attesa che ci sposassimo l'uno con l'altra. E io ho già una bella età, ragazzi miei, all'epoca in cui scrivo questa storia e so cose che allora non sapevo… neppure per quanto riguarda la musica.

Sì! Il signor Re Diesis ha sposato la signorina Mi Bemolle e noi siamo felicissimi, e i nostri affari hanno prosperato grazie al lavoro e a un buon comportamento… Se un mastro di posta non sapesse comportarsi come si deve, chi lo saprebbe?…

2 La seconda nota della scala (re) elevata di un semitono cromatico in virtù del

diesis. (N.d.T.) 3 La terza nota della scala (mi) diminuita di un semitono cromatico in virtù del

bemolle. (N.d.T.)

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Dunque, circa quarant'anni fa, noi cantavamo in chiesa, perché bisogna che vi dica che le bambine e i ragazzini appartenevano alla stessa scuola parrocchiale di canto di Kalfermatt. Nessuno trovava sconveniente questa costumanza, e con ragione. Chi si è mai preoccupato di sapere se i serafini discesi dal cielo sono d'un sesso o dell'altro?

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III

IL CORO del nostro villaggio godeva d'una grande reputazione, grazie al suo direttore, l'organista Eglisak. Quale maestro di solfeggio! e quale abilità la sua nel farci fare gli esercizi di vocalizzo! Come c'insegnava la misura, il valore delle note, la tonalità, la modalità, la composizione della gamma musicale! Molto bravo, molto bravo, il degno Eglisak. Si diceva che era un musicista di genio, un contrappuntista4 senza rivali, e che aveva composto una fuga straordinaria, una fuga a quattro parti.

Siccome noi non sapevamo troppo bene che cos'era, un giorno glielo domandammo.

— Una fuga, — rispose, drizzando il capo che sembrava la cassa d'un contrabbasso.

— È un pezzo di musica? — chiesi io. — Un pezzo di musica trascendentale, ragazzo mio. — Noi lo sentiremmo volentieri, — gridò un piccolo italiano, di

nome Farina, dotato d'una bella voce di contralto, e che saliva, saliva fino al cielo.

— Sì, — aggiunse un piccolo tedesco, Alberto Hoct, la cui voce scendeva, scendeva, fino al fondo della terra.

— Andiamo, signor Eglisak?… — ripeterono gli altri ragazzini e ragazzine.

— No, fanciulli miei. Voi non conoscerete la mia fuga che quando sarà terminata…

— E quando sarà terminata? — domandai. — Mai. Ci guardammo. E lui sorrideva dolcemente.

4 Da «contrappunto», l'arte di soprapporre armonicamente più linee melodiche.

La «fuga», di cui si parla subito sotto, è appunto una composizione musicale di stile contrappuntistico sulla imitazione ed elaborazione di un tema fondamentale. (N.d.T.)

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— Una fuga non è mai terminata, — ci disse. — Vi si possono sempre aggiungere delle parti nuove.

Dunque noi non avremmo mai udito la fuga del profano Eglisak; ma egli aveva messo in musica per noi l'inno di San Giovanni Battista, che è, come sapete, quel salmo in versi dal quale Guido d'Arezzo5 ha preso le prime sillabe per designare le note della scala:

Ut queant laxis Resonare fibris Mira gestorum Famuli tuorum, Solve polluti, Labii reatum,

Sancte Joannes.

Il si non esisteva all'epoca di Guido d'Arezzo. Fu soltanto nel 1026 che un certo Guido completò la scala con l'aggiunta della nota sensibile, e secondo me ha fatto bene.

Veramente, quando noi cantavamo questo salmo, si sarebbe venuti da lontano soltanto per sentirlo. Quanto a quello che potevano significare quelle parole bizzarre, a scuola nessuno lo sapeva, neppure il signor Valrügis. Si credeva che fosse latino, ma non era certo. Tuttavia, sembra che questo salmo sarà cantato al giudizio finale, ed è probabile che lo Spirito Santo, che parla tutte le lingue, lo tradurrà in un linguaggio paradisiaco.

Il signor Eglisak passava dunque per un grande compositore. Ma disgraziatamente, egli era afflitto da un'infermità molto grave, e che aveva la tendenza ad aumentare. Con l'età, egli diventava duro d'orecchi. Noi ce ne accorgevamo, ma lui non avrebbe mai voluto riconoscerlo. D'altronde, allo scopo di non fargli dispiacere, si gridava quando gli si rivolgeva la parola, e le nostre voci in falsetto riuscivano a far vibrare il suo timpano. Ma non era lontana l'ora in cui egli sarebbe diventato completamente sordo.

5 Monaco benedettino (992-1050 circa), teorico della musica italiana, cui si

deve il sistema moderno della notazione musicale sul rigo, con note poste sulle linee e negli spazi. (N.d.T.)

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Questo accadde una domenica, durante i vespri. L'ultimo salmo di Compieta era appena finito, ed Eglisak, seduto all'organo, si abbandonava ai capricci della sua immaginazione. Egli suonava, suonava, e non la finiva mai. Non osavamo uscire per timore di fargli dispiacere. Ma ecco che il tiramantici, non potendone più, si ferma. All'organo manca il fiato… Eglisak non se n'è accorto. Gli accordi, gli arpeggi vengono eseguiti e si svolgono sotto le sue dita. Non un solo suono ne esce, e tuttavia, nella sua anima d'artista, egli si ode sempre… Abbiamo capito: una disgrazia l'ha colpito. Nessuno osa informarlo. E tuttavia il tiramantici è sceso dalla stretta scala della tribuna…

Eglisak non cessa di suonare. E fu così per tutta la sera, e anche tutta la notte, e l'indomani lo stesso: egli faceva scorrere le sue dita sulla tastiera muta. Bisognò trascinarlo via… e il poveretto si rese finalmente conto. Egli era sordo. Ma questo non gli avrebbe impedito di terminare la sua fuga. Egli non l'avrebbe udita, ecco tutto.

Da quel giorno il grande organo non risuonò più nella chiesa di Kalfermatt.

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IV

SEI MESI passarono. Venne novembre, molto freddo. Un manto bianco copriva la montagna e raggiungeva perfino le strade. Arrivavamo a scuola con il naso rosso, le guance livide. Aspettavo Betty alla svolta della piazza. Quanto era graziosa sotto il suo cappellino ripiegato!

— Sei tu, Joseph? — diceva. — Sono io, Betty. Punge, questa mattina. Copriti bene! Abbottona

la tua pelliccia… — Sì, Joseph. Se ci mettessimo a correre? — Già. Dammi i tuoi libri, io te li porterò. Stai attenta a non

prendere freddo. Sarebbe una vera disgrazia se ti raffreddassi e perdessi la tua bella voce…

— E tu la tua, Joseph! Sarebbe stata una disgrazia, infatti. E dopo esserci soffiati sulle

dita, filavamo a gambe levate per riscaldarci. Per fortuna, in classe faceva caldo. La stufa ronfava. Non si risparmiava la legna. Ve n'è tanta, ai piedi della montagna, ed è il vento che s'incarica di abbatterla. C'era solo la fatica di raccoglierla. Come quei rami scoppiettavano allegramente! Ci si ammucchiava intorno. Il signor Valrügis stava in cattedra, col suo berretto foderato di pelliccia calato fin sugli occhi. I crepitii che scoppiavano sembravano accompagnare la storia di Guglielmo Tell. Ed io pensavo che se Gessler non possedeva che un berretto, egli aveva dovuto buscarsi un bel raffreddore, mentre il suo stava in cima alla pertica, se queste cose fossero avvenute d'inverno!

Allora si studiava bene, facendo lettura, scrittura, aritmetica, recitazione a memoria, dettato, e il maestro era contento. Ma la musica restava inattiva. Non s'era trovato nessuno in grado di sostituire il vecchio Eglisak. Certamente noi stavamo per dimenticare tutto quello ch'egli ci aveva insegnato! Che sbaglio non provvedere che a Kalfermatt venisse un altro maestro della corale! Già le ugole

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si arrugginivano, l'organo pure, e tutto questo sarebbe costato riparazioni su riparazioni…

Il signor curato non nascondeva il suo dispiacere. Adesso che l'organo non l'accompagnava più, quanto stonava il poveretto, soprattutto al prefazio della messa! Il tono si abbassava gradualmente, e quando egli arrivava al supplici confessione dicentes, aveva un bel cercare note sotto la sua cotta, non ne trovava più. Ciò eccitava qualcuno al riso… A me, ciò faceva pietà… e anche a Betty. Niente di più lamentevole delle messe di adesso. Per la Festa di Tutti i Santi non si era avuta nessuna bella musica, e Natale si avvicinava con i suoi Gloria, i suoi Adeste Fideles, i suoi Exultet!…6 Il signor curato aveva ben tentato di sostituire l'organo con un serpentone.7 Almeno con un serpentone egli non avrebbe stonato più. La difficoltà non consisteva nel procurarsi questo strumento antidiluviano. Ve n'era uno appeso alla parete della sacrestia, e che vi dormiva da anni. Ma dove trovare il serpentista? Non si poteva utilizzare il tiramantici, adesso senza lavoro?

— Tu hai fiato? — gli disse un giorno il curato. — Sì, — rispose — ma con il mantice, non con la bocca. — Che importa! si può vedere… — Tenterò. Ed egli tentò, soffiò nel serpentone, ma il suono che ne uscì era

abominevole. Proveniva dall'uomo o dalla bestia di legno? Questione insolubile. Bisognò dunque rinunciarvi, ed era probabile che il prossimo Natale sarebbe stato tanto triste quanto la passata festa di Ognissanti. Perché se l'organo mancava per causa d'Eglisak, la Corale non funzionava neppure essa. Nessuno per darci delle lezioni, nessuno per battere la misura; quando, una sera, la borgata fu messa sottosopra.

Si era al 15 dicembre. Faceva un freddo asciutto, uno di quei freddi che portano i venti lontani. Una voce, sulla sommità della montagna, sarebbe giunta fino al villaggio; un colpo di pistola

6 Canti della liturgia natalizia. (N.d.T.) 7 Vecchio strumento musicale a fiato costituito da un tubo in legno ricoperto di

cuoio e ripiegato su se stesso a forma di doppia S. Di qui il suo nome di serpentone. (N.d.T.)

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sparato da Kalfermatt si sarebbe udito a Reischarden, e c'è una buona lega.

Io ero andato a cena dal signor Clère un sabato. Non c'era scuola il giorno dopo. Quando si è lavorato tutta la settimana, è permesso, nevvero, di riposarsi la domenica? Guglielmo Tell ha anche lui il diritto di non lavorare, perché egli deve essere stanco dopo otto giorni passati sullo scanno del signor Valrügis.

La casa dell'albergatore era sulla piccola piazza, all'angolo sinistro, quasi di fronte alla chiesa, della quale si udiva stridere la banderuola in cima al campanile a punta. Vi era una mezza dozzina di avventori da Clère, gente del posto, e quella sera ci eravamo accordati, io e Betty, che avremmo cantato per loro un grazioso notturno di Salviati.

Dunque, finita la cena si sparecchiò la tavola, si allinearono le sedie e noi stavamo per cominciare, quando ai nostri orecchi giunse un suono lontano.

— Che cos'è? — disse l'uno. — Si direbbe che venga dalla chiesa — rispose un altro. — Ma è l'organo!… — Suvvia! L'organo suonerebbe dunque da solo?… Frattanto, i suoni si propagavano distintamente, ora crescendo, ora

diminuendo, talvolta gonfiandosi come se fossero usciti dalle grosse bombarde dello strumento.

Aprimmo la porta dell'albergo, nonostante il freddo. La vecchia chiesa era buia, nessuna luce si proiettava attraverso le vetrate della navata. Era il vento, non c'era dubbio, a fischiare penetrando nelle fessure del muro. Ci eravamo ingannati, e si stava per riprendere la veglia, quando il fenomeno si riprodusse con una tale intensità che l'errore non fu più possibile.

— Ma si suona in chiesa! — esclamò Jean Clère. — Certamente, deve essere il diavolo — aggiunse Jenny. — Il diavolo sa forse suonare l'organo? — replicò l'albergatore. «

E perché no? » pensai io per conto mio. Betty mi prese la mano. — Il diavolo? — disse.

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Frattanto le porte della piazza, a poco a poco, si erano aperte; della gente si mostra alle finestre. Ci s'interroga; qualcuno dell'albergo dice:

— Il signor curato avrà trovato un organista, e l'ha fatto venire. Come mai non avevamo pensato a questa spiegazione così semplice?

Giusto in quel momento il signor curato appare sulla soglia del presbiterio.

— Che cosa succede? — chiede. — Sì suona l'organo, signor curato — gli grida l'albergatore. — Bene! è Eglisak che si è rimesso ai suoi tasti. Infatti l'essere sordi non impedisce di far scorrere le proprie dita

sui tasti, ed è possibile che il vecchio maestro abbia avuto questa fantasia di salire di nuovo in tribuna con il tiramantici. Bisogna andare a vedere. Ma il portico è chiuso.

— Joseph, — mi dice il signor curato — va dunque da Eglisak. Mi precipito, tenendo Betty per mano, perché ella non ha voluto

lasciarmi. Cinque minuti dopo noi siamo di ritorno. — Ebbene? — mi domanda il signor curato. — Il maestro è a casa — dissi trafelato. Era vero. La sua servente mi aveva detto ch'egli dormiva nel suo

letto come un sordo e tutto il frastuono dell'organo non avrebbe potuto svegliarlo.

— Allora chi è mai? — mormora la signora Clère, poco rassicurata. L'organo continuava a farsi sentire. Ne usciva come una tempesta di suoni. I sedicipiedi8 lavoravano a gonfie vele; il grosso nazardo emetteva delle sonorità intense, perfino il trentaduepiedi, quello che possiede la nota più grave, si mescolava a questo assordante concerto. La piazza era come spazzata da una raffica musicale. Si sarebbe detto che la chiesa non fosse più che un'immensa cassa d'organo, con il suo campanile come bordone, che dava dei contro-fa fantastici.

Ho detto che il portico era chiuso, ma facendo il giro, la porticina, precisamente in faccia all'osteria Clère, era semiaperta. Era da questa

8 Relativi alla tastiera a pedale, o pedaliera. Il nazardo e il bordone, citati più

sotto, sono registri che regolano il timbro del suono dell'organo.

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che l'intruso aveva dovuto penetrare. Prima il signor curato, poi il sagrestano che l'aveva raggiunto, entrarono. Passando, immersero le dita nella pila a conchiglia dell'acqua benedetta, per precauzione, e si fecero il segno della croce. Poi, tutto il seguito fece altrettanto.

A un tratto l'organo tacque. Il pezzo suonato dal misterioso organista si fermò su un accordo di quarta e di sesta che si perdette sotto la volta oscura.

Era l'entrata di tutta quella gente che aveva troncato di netto l'ispirazione all'artista? C'era motivo di crederlo. Ma adesso la navata, un momento prima piena d'armonie, era ricaduta nel silenzio. Dico nel silenzio perché eravamo tutti muti, fra le colonne, con una sensazione simile a quella che si prova quando, dopo il brillare d'un lampo, si aspetta il fracasso della folgore.

Ma non durò. Bisognava pur dare una spiegazione al fenomeno. Il sagrestano e due o tre fra i più coraggiosi si diressero verso la scaletta a chiocciola che sale alla tribuna, in fondo alla navata. Essi salirono i gradini, ma arrivati alla galleria non trovarono nessuno. Il coperchio della tastiera era abbassato. Il mantice, ancora gonfio per metà dell'aria che non poteva uscire per mancanza di qualsiasi spiraglio, restava immobile, la leva in alto.

Molto probabilmente, approfittando del tumulto e dell'oscurità, l'intruso aveva potuto discendere la scala a chiocciola, scomparire dalla porticina e fuggirsene attraverso il villaggio.

Pazienza! Il sagrestano pensò che sarebbe forse stato prudente esorcizzare; ma il signor curato si oppose, e ben a ragione.

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V

L'INDOMANI il villaggio di Kalfermatt contava un abitante in più… e magari anche due. Si poté vederli che passeggiavano sulla piazza, che andavano e venivano lungo la via principale, che facevano una puntatina fino alla scuola, e infine ritornavano all'albergo di Clère, dove chiesero una camera a due letti per un tempo indeterminato.

— Può essere per un giorno, una settimana, un mese, un anno, — aveva detto il più importante di quei due personaggi, da quello che mi riportò Betty, quando m'ebbe raggiunto sulla piazza.

— Che sia l'organista di ieri? — domandai. — Diamine! potrebbe anche darsi, Joseph. — Con il suo tiramantici?… — Senza dubbio, quello grosso, — rispose Betty. — E come sono? — Come tutti. Come tutti, è evidente, poiché avevano una testa sulle spalle, delle

braccia immanicate fino ai polsi, dei piedi in capo alle gambe. Ma si può possedere tutto questo senza rassomigliare a nessuno. E fu quanto dovetti riconoscere, quando, verso le undici, vidi quei due forestieri così strani.

Essi camminavano l'uno dietro l'altro. Il primo, dai trentacinque ai quarant'anni, era sfiancato, magro,

una specie di grande airone, imbottito d'un grande pastrano giallastro, le gambe strette da ghette di panno, da dove uscivano due piedi puntuti; in testa un grande cappello con una piuma. Che faccia sottile, glabra! Degli occhi tutti pieghe, ma penetranti, con una brace in fondo alle pupille, dei denti bianchi e aguzzi, un naso affilato, una bocca stretta, un mento a caloscia. E quali mani! Delle dita lunghe, lunghe… di quelle dita che su una tastiera possono prendere un'ottava e mezza!

L'altro era tarchiato, tutto spalle, tutto dorso, una grossa testa scarmigliata sotto un feltro grigiastro, una faccia da toro cocciuto, un

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ventre in chiave di fa. È un giovanotto d'una trentina d'anni, tanto forte da poterle suonare ai più vigorosi del comune.

Nessuno conosceva questi due individui. Era la prima volta ch'essi venivano nel paese. Non svizzeri, certamente, ma piuttosto della gente dell'Est, al di là delle montagne, dalla parte dell'Ungheria. E infatti, era proprio così, come sapemmo più tardi.

Dopo aver pagato una settimana d'anticipo all'albergo Clère, avevano fatto colazione con grande appetito, senza risparmiarsi i piatti ghiotti. E adesso, essi facevano un giro, l'uno precedendo l'altro, il grande dondolandosi, adocchiando, gesticolando, cantarellando, le dita sempre in movimento, e, con un gesto singolare, battendosi, a volte, il basso della nuca con la mano, e ripetendo:

— La naturale… la naturale!.-.. Bene! Il grosso ancheggiava, fumando una pipa in forma di sassofono,

da dove sfuggivano torrenti di fumo biancastro. Io lo guardavo con gli occhi dilatati, quando il grande mi fece

segno di avvicinarmi. In fede mia, ebbi un po' paura, ma infine mi arrischiai, ed egli mi

disse con la voce in falsetto come un fanciullo del coro: — La casa del curato, piccolo? — La casa del… il presbiterio? — Sì. Mi ci vuoi condurre?… Pensai che il signor curato mi avrebbe rimproverato se gli avessi

condotto quelle persone, soprattutto l'uomo grande il cui sguardo mi affascinava. Avrei voluto rifiutare. Ma non fu possibile, ed ecco che già filavo verso il presbiterio.

Una cinquantina di passi ci separavano dalla casa. Io indicai la porta e scappai di corsa, mentre il martello batteva tre colpi seguiti da una nota sorda.

Alcuni compagni mi aspettavano in piazza. Il signor Valrugis con loro. M'interrogò e raccontai loro quello ch'era accaduto. Essi mi guardavano… Pensate, dunque! Egli mi aveva parlato!

Ma quello che io potei dire non aggiungeva nulla di più a quello che i due uomini venivano a fare a Kalfermatt. Perché intrattenersi col curato? Qual era stata l'accoglienza di costui? Non gli sarebbe

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capitata qualche disgrazia, e anche alla sua domestica, una vecchia dall'età canonica il cui cervello a volte dava i numeri?

Tutto fu spiegato nel pomeriggio. Quel tipo bizzarro, il più grande, si chiamava Effarane. Era un

ungherese, accordatore e nel medesimo tempo fabbricante d'organi, organista, come si diceva, che s'incaricava delle riparazioni, andando di città in città e guadagnando di che vivere con questo mestiere.

Era lui, evidentemente, che il giorno prima, entrato dalla porta laterale insieme con l'altro, suo aiutante e tiramantici, aveva fatto riecheggiare la vecchia chiesa, scatenando delle tempeste d'armonia. Ma a sentir lui, lo strumento era difettoso in alcune parti, esigeva diverse riparazioni, ed egli offriva di farle a un prezzo molto basso. Certificati in suo possesso accertavano la sua attitudine in questo genere di lavori.

— Fate, fate pure!… — aveva risposto il signor curato, che si era affrettato ad accettare l'offerta. Ed aveva aggiunto: — Il Cielo sia due volte benedetto, che ci manda un intenditore del vostro valore, e tre volte lo sarebbe se ci gratificasse d'un organista…

— Così, quel povero Eglisak?… — chiese mastro Effarane. — Sordo come un muro. Voi lo conoscete? — Eh! Chi non conosce l'uomo della fuga! — Sono ormai sei mesi ch'egli non suona più in chiesa e che non

insegna a scuola. Così abbiamo avuto una Messa senza organo per Ognissanti, ed è probabile che anche a Natale…

— Tranquillizzatevi, signor curato — rispose mastro Effarane. — In quindici giorni le riparazioni possono essere terminate, e se voi volete, a Natale, io suonerò l'organo…

E mentre diceva questo, egli agitava le sue dita interminabili, le faceva schioccare alle falangi, le allungava come delle guaine di gomma.

Il curato ringraziò l'artista con parole educate e gli domandò che cosa pensasse dell'organo di Kalfermatt.

— È buono, — rispose mastro Effarane — ma incompleto. — E che cosa gli manca? Non ha forse ventiquattro registri, senza

dimenticare il registro delle voci umane?

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— Eh! ciò che gli manca, signor curato, è appunto un registro che ho inventato io, e del quale io cercavo di dotare questo strumento.

— Quale? — Il registro delle voci bianche, — replicò il singolare

personaggio, drizzandosi sull'alta persona. — Sì, ho immaginato questo perfezionamento.

Sarà l'ideale, e allora il mio nome supererà i nomi dei Fabri, dei Kleng, degli Erhart Smid, degli André, dei Castendorfer, dei Krebs, dei Müller, degli Agricola, dei Kranz, i nomi degli Antegnani, dei Costanzo, dei Graziadei, dei Serassi, dei Tronci, dei Nanchinini, dei Callido, i nomi dei Sébastien Erard, degli Abbey, dei Cavaillé-Coll…9

Il signor curato, per un attimo, credette che quell'elenco non sarebbe terminato per l'ora dei vespri, ormai vicina.

E l'intenditore d'organi ad aggiungere, scomponendosi la capigliatura:

— E se io riesco con l'organo di Kalfermatt, nessun altro organo potrà essergli paragonato, né quello di Sant'Alessandro di Bergamo, né quello di Saint Paul di Londra, né quello di Friburgo, né quello di Haarlem, né quello di Amsterdam, né quello di Francoforte, né quello di Weingarten, né quello di Notre-Dame di Parigi, della Madeleine, di Saint-Roch, di Saint-Denis, di Beauvais…

Ed egli diceva queste cose con aria ispirata, con gesti che descrivevano curve capricciose. Certamente egli avrebbe fatto paura a qualsiasi altro che non fosse un curato, il quale, con alcune parole latine, può sempre annientare il potere del diavolo.

Per fortuna si fece udire la campana dei vespri, e prendendo il suo cappello, del quale egli arricciò la piuma con un leggero colpo di dito, mastro Effarane salutò profondamente e andò a raggiungere il suo tiramantici in piazza. Questo non impedì alla vecchia servente, non appena egli se ne fu andato, di sentire un puzzo di zolfo.

Ma era semplicemente la stufa che non tirava.

9 Nomi di celebri costruttori di organi. (N.d.T.)

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VI

VA DA SÉ che, da quel giorno, non si parlò d'altro che dell'avvenimento che appassionava l'intero villaggio. Quel grande artista che aveva nome Effarane, che si dichiarava un grande inventore, garantiva di arricchire il nostro organo d'un registro di voci bianche. E allora, al prossimo Natale, dopo i pastori e i Re magi accompagnati da trombette, bordoni e flauti, si sarebbero udite le voci fresche e cristalline degli angeli sfarfallanti intorno al Bambino Gesù e alla sua divina Madre.

I lavori di riparazione erano incominciati il giorno dopo. Mastro Effarane e il suo aiutante si erano messi subito all'opera. Durante la ricreazione, io e alcuni altri della scuola venivamo a guardarli. Ci lasciavano salire nella tribuna a patto di non dar noia. La cassa era aperta e l'organo era ridotto al suo scheletro. Un organo non è che un flauto di Pan, adattato a un somiere, con mantice e registri. Il nostro era d'un grande modello che comportava ventiquattro registri principali, quattro tastiere di cinquantaquattro tasti e una tastiera di pedali per i bassi fondamentali di due ottave. Quanto ci pareva vasta quella foresta di canne di legno o di stagno! Ci si poteva smarrire in quel folto intrico! E che nomi buffi uscivano dalle labbra di mastro Effarane: registri, zufoli, cromorni, bombarde, prestanti, nazardi! Quando penso che vi erano dei sedicipiedi di legno e dei trentaduepiedi di stagno! In quelle canne si sarebbe potuto mettervi tutta la scuola col signor Valrügis per soprammercato!

Noi guardavamo quell'intrico con una sorta di meraviglia che rasentava lo sbigottimento.

— Henri, — disse Hoct, gettando uno sguardo al di sotto — è come una macchina a vapore…

— No, piuttosto come una batteria di cannoni — diceva Farina — che lanci delle palle musicali!…

Io, da parte mia, non facevo confronti, ma quando pensavo alle burrasche che il doppio mantice poteva scatenare attraverso tutte quelle enormi canne, mi prendeva un fremito che mi scuoteva per delle ore.

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Mastro Effarane lavorava in mezzo a quella confusione, senza il minimo imbarazzo. In realtà, l'organo di Kalfermatt era in buono stato e non aveva bisogno che di riparazioni poco importanti, e soprattutto una buona ripulitura dalla polvere che vi si era posata durante parecchi anni. La cosa che avrebbe presentato maggior difficoltà sarebbe stato l'inserimento del registro delle voci bianche. L'apparecchio era là, dentro una scatola, una serie di flauti di cristallo che dovevano produrre suoni deliziosi. Mastro Effarane, bravo accordatore quanto organista meraviglioso, sperava finalmente di riuscire nell'impresa. Non si stancava di tentare e ritentare prima da un lato e poi dall'altro, e quando la cosa non andava emetteva strani urli, come un pappagallo rabbioso punzecchiato dalla sua padrona.

Brrrr… Questi urli mi facevano fremere in tutte le membra e sentivo i miei capelli drizzarsi sul capo.

Insisto su questo punto, poiché quello che vedevo m'impressionava all'estremo. L'interno della vasta cassa dell'organo, simile a un enorme animale sventrato con le viscere messe in mostra, mi ossessionava. Ne sognavo la notte e, di giorno, il mio pensiero vi ritornava senza posa. Soprattutto la scatola delle voci bianche, che io non avrei mai osato toccare, mi faceva l'effetto d'una gabbia piena di fanciulli, che mastro Effarane allevava per farli cantare sotto le sue dita d'organista.

— Che cos'hai, Joseph? — mi domandava Betty. — Non lo so — rispondevo. — È forse perché tu sali troppo di frequente a vedere l'organo? — Sì, forse… — Non ci andare più, Joseph. — Non ci andrò più, Betty. E ci ritornavo il giorno stesso, mio malgrado. Mi assaliva la

voglia di perdermi in mezzo a quella foresta di canne, di lasciarmi scivolare negli angoli più oscuri, di seguirvi mastro Effarane del quale udivo il martello battere in fondo al mantice. Ma mi guardavo bene di farne cenno in casa; mio padre e mia madre mi avrebbero creduto pazzo.

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VII

OTTO GIORNI prima di Natale, eravamo a scuola prima di mezzogiorno, le ragazze da una parte, i maschi dall'altra. Il signor Valrugis troneggiava in cattedra; la sua vecchia sorella, in un angolo, lavorava a maglia con dei lunghi aghi, dei veri spiedi. E già Guglielmo Teli aveva insultato il cappello di Gessler, quando la porta si aprì.

Entrava il signor curato. Tutti si alzarono in piedi per educazione, ma, dietro il signor

curato, apparve mastro Effarane. Tutti abbassarono gli occhi davanti allo sguardo penetrante

dell'accordatore. Che cosa veniva a fare a scuola, e perché il signor curato l'accompagnava?

Credetti di accorgermi che mi squadrava da capo a piedi in modo particolare. Senza dubbio egli mi riconosceva, ed io mi sentivo a disagio.

Tuttavia, il signor Valrugis, sceso di cattedra, si muoveva incontro a) signor curato.

— A che debbo l'onore?… — Signor maestro, voglio presentarvi mastro Effarane, che

desidera far visita ai vostri scolari. — E perché mai? — Egli mi ha chiesto se vi era una cantoria a Kalfermatt, signor

Valrügis. Gli ho risposto affermativamente. Ho aggiunto che era eccellente, quando la dirigeva il povero Eglisak. Allora mastro Effarane ha manifestato il desiderio di sentirla. Così questa mattina l'ho condotto nella vostra classe pregandovi di scusarlo.

Il signor Valrugis non aspettava scusa alcuna. Tutto quello che faceva il signor curato era ben fatto. Questa volta Guglielmo Teli avrebbe potuto attendere.

E allora, ad un cenno del signor Valrugis, sedemmo. Il signor curato in una poltrona che io andai a prendergli, mastro Effarane

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all'angolo della tavola delle ragazze, ch'erano vivamente indietreggiate per fargli posto.

La più vicina era Betty, e io vidi benissimo che la cara piccola era impressionata dalle lunghe mani e dalle lunghe dita che descrivevano accanto a lei degli arpeggi aerei.

Mastro Effarane prese la parola e, con la sua voce acuta, disse: — Sono questi i ragazzi della cantoria? — Non tutti ne fanno parte, — rispose il signor Valrugis. — Quanti? — Sedici. — Ragazzi e ragazze? — Sì, — disse il curato — ragazzi e ragazze, e siccome a questa

età essi hanno la stessa voce… — Errore, — replicò vivamente mastro Effarane — e l'orecchio

d'un intenditore non potrebbe ingannarsi. Come fummo stupiti da questa risposta! Proprio così, la voce di

Betty e la mia avevano un timbro così simile, che non si poteva distinguere fra lei e me, quando parlavamo; ma in seguito allo sviluppo il timbro di voce si sarebbe differenziato nei due sessi.

In ogni caso non c'era da discutere con un personaggio come mastro Effarane, e ciascuno se lo tenne per inteso.

— Fate venire avanti i ragazzi della cantoria — domandò alzando il braccio come la bacchetta d'un direttore d'orchestra.

Otto ragazzi, dei quali anch'io facevo parte, e otto fanciulle, tra le quali c'era anche Betty, vennero a disporsi su due file, a faccia a faccia. E allora mastro Effarane prese ad esaminarci con una minuziosità che non conoscevamo ai tempi d'Eglisak. Bisognò aprire la bocca, mostrare la lingua, inspirare ed espirare a lungo, mostrargli fino in fondo alla gola le corde vocali ch'egli sembrava voler pizzicare con le sue dita. Io ho creduto ch'egli volesse accordarci come fossimo dei violini o dei violoncelli. In fede mia, noi non eravamo tranquilli, né gli uni né gli altri.

Il signor curato, il signor Valrügis e la sua vecchia sorella erano là, interdetti, non osando pronunciare una parola.

— Attenzione! — gridò mastro Effarane. — La nota di do maggiore, solfeggiando. Ecco il diapason.

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Il diapason? Io m'aspettavo ch'egli estraesse di tasca un oggettino a due rami, simile a quello di quel buon uomo d'un Eglisak, le cui vibrazioni danno il la ufficiale, a Kalfermatt come altrove.

Ma vi fu un'altra sorpresa. Mastro Effarane aveva abbassato la testa, e col suo pollice piegato

a metà, si batté con un colpo secco la base del cranio. Oh, sorpresa! la sua vertebra superiore mandò un suono metallico,

e questo suono era precisamente il la, con le sue ottocentosettanta vibrazioni normali.

Mastro Effarane aveva dentro di sé un diapason naturale! E allora, dandoci il do, una terza minore al di sopra, mentre il suo indice tremolava in capo al suo braccio:

— Attenzione! — ripete. — Per un nonnulla si sbaglia la battuta. Ed eccoci a solfeggiare la nota di do, ascendente prima, discendente poi.

— Male… male! — esclamò mastro Effarane, quando l'ultima nota si fu spenta. — Sento sedici voci differenti e invece dovrei sentirne una sola.

Avevo l'impressione ch'egli si mostrasse troppo esigente, perché noi avevamo l'abitudine di cantare insieme con grande affiatamento, il che ci era valso sempre dei grandi complimenti.

Mastro Effarane scuoteva il capo e lanciava a destra e a sinistra degli sguardi scontenti. Mi sembrava che le sue orecchie, dotate d'una certa mobilità, si tendessero come quelle dei cani, dei gatti e di altri quadrupedi.

— Riprendiamo! — gridò. — L'uno dopo l'altro, adesso. Ciascuno di voi deve avere una nota personale, una nota fisiologica, per così dire, e la sola che dovrebbe dare in un insieme.

Una sola nota… fisiologica! Che cosa significava questa parola? Ebbene, avrei voluto sapere quale era la sua, di quell'originale, ed anche quella del signor curato, che ne possedeva una bella collezione, l'una più stonata dell'altra!

Si ricominciò, non senza viva apprensione (quel terribile uomo stava forse per picchiarci?) e non senza qualche curiosità di sapere qual era la nostra nota personale, quella che noi avremmo dovuto coltivare nella nostra gola come una pianta in un vaso da fiori.

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Toccò per primo a Hoct, e dopo ch'egli ebbe provato le diverse note della scala, il sol gli fu riconosciuto fisiologico da mastro Effarane, come la sua nota più giusta, la più vibrante di quelle che la sua laringe poteva emettere.

Dopo Hoct fu la volta di Farina, che si vide condannato al la, naturale! per tutta l'eternità.

Poi gli altri miei compagni subirono quel minuzioso esame, e la loro nota favorita ricevette il marchio ufficiale di mastro Effarane.

Allora mi feci avanti io. — Ah, sei tu, piccolo! — disse l'organista. E prendendomi la testa, la girò e la rigirò da farmi temere ch'egli

finisse con lo svitarmela. — Vediamo la tua nota — riprese. Io feci la scala dal do al do, ascendendo e discendendo. Mastro

Effarane non parve molto soddisfatto. Egli mi ordinò di ricominciare… Ma non andava, non andava… Ero assai mortificato. Io, uno dei migliori della scuola parrocchiale di canto, ero forse sprovvisto d'una nota personale?

— Suvvia! — gridò mastro Effarane — la scala cromatica!… Forse vi scoprirò la tua nota.

E la mia voce, procedendo a intervalli di semitoni, sale l'ottava. — Bene! Bene! — disse allora l'organista. — Ho la tua nota, e tu

mantienila durante tutta la misura! — Ed è? — domandai un po' tremante. — È il re diesis. Ed io filai su questo re diesis d'un sol tratto. Il signor curato e il signor Valrügis non disdegnarono di fare un

cenno di soddisfazione. — Adesso le fanciulle! — ordinò mastro Effarane. E io pensai: « Se Betty potesse avere il re diesis, non mi

meraviglierei affatto, visto che le nostre due voci si sposano così bene ».

Le ragazzine furono esaminate l'una dopo l'altra. Questa ebbe il si naturale, quell'altra il mi naturale. Quando toccò a Betty Clère di cantare ella si pose in piedi, assai intimidita, davanti a mastro Effarane.

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— Avanti, piccola! Ed ella andò con la sua voce così dolce, così gradevolmente

timbrata che si sarebbe detto un canto di cardellini. Ma ecco, accadde a Betty quanto era accaduto al suo amico Joseph Müller. Bisognò ricorrere alla scala cromatica per trovarle la sua nota, e alla fine le venne attribuito il mi bemolle.

Dapprima ne fui addolorato, ma ripensandoci non ebbi che da rallegrarmi. Betty aveva il mi bemolle e io il re diesis. Ebbene, non è forse la stessa cosa?… Così mi misi a battere le mani.

— Che cosa ti piglia? — mi domandò l'organista aggrottando la fronte.

— Mi piglia un sacco di gioia — osai rispondere — perché Betty e io abbiamo la stessa nota…

— La stessa?… — esclamò mastro Effarane. Egli si raddrizzò con un movimento così ampio, che il suo braccio

toccò il soffitto. — La stessa nota! — riprese. — Ah, tu credi che un re diesis e un

mi bemolle siano la stessa cosa, ignorante che sei, orecchie d'asino che ti meriti!… Era il vostro Eglisak che v'insegnava simili stupidaggini? E voi tolleravate questo, signor curato?… E anche voi, signor maestro?… E voi pure, vecchia signorina!…

La sorella del signor Valrügis cercava un calamaio per lanciarglielo in testa. Ma egli continuava abbandonandosi al suo scoppio di collera.

— Piccolo disgraziato, non sai dunque che cos'è un comma, quell'ottavo di tono che differenzia il re diesis dal mi bemolle, il la diesis dal si bemolle, e così via? Eh, già! Qui nessuno è in grado di apprezzare delle ottave di tono! Non vi sono che dei timpani di pergamena, induriti, accartocciati, crepati in tutte quante le orecchie di Kalfermatt?

Nessuno osava muoversi. I vetri delle finestre tremavano alla voce acuta di mastro Effarane. Io ero desolato di aver provocato quella scenata e molto addolorato che tra la voce di Betty e la mia ci fosse quella differenza, fosse pure soltanto di un'ottava di tono. Il signor curato mi faceva gli occhiacci, il signor Valrügis mi gettava certi sguardi…

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Ma l'organista si calmò d'un tratto e disse: — Attenzione! E ciascuno di voi al suo posto nella scala! Noi comprendemmo ciò che questo significava, e ciascuno andò a

mettersi in fila secondo la sua nota personale, Betty al quarto posto nella sua qualità di mi bemolle, e io dopo di lei, immediatamente dopo di lei, in qualità di re diesis. Quanto dire che noi formavamo un flauto di Pan, o meglio le canne d'un organo con la sola nota che ciascuna di esse può emettere.

— La scala cromatica — gridò mastro Effarane — è giusta. Se no… Non ce lo facemmo dire due volte. Il nostro compagno incaricato del do incominciò; gli altri seguirono; Betty emise il suo mi bemolle, poi io il mio re diesis, di cui le orecchie dell'organista, a quel che pareva, apprezzavano la differenza. Risalimmo e discendemmo la scala tre volte di seguito. Mastro Effarane parve assai soddisfatto.

— Bene, ragazzi! — disse. — Arriverò a fare di voi una tastiera vivente.

E poiché il signor curato scuoteva la testa con aria poco convinta: — Perché no? — riprese mastro Effarane. — Si è pure fabbricato

un piano con dei gatti, dei gatti scelti per il miagolio ch'essi emettevano quando si tirava loro la coda! Un piano di gatti, un piano di gatti! — ripeteva.

Noi ci mettemmo a ridere, senza sapere se mastro Effarane parlava o no seriamente. Ma, più tardi, appresi ch'egli aveva detto il vero, parlando di questo piano di gatti che miagolavano quando si tirava loro la coda a mezzo d'un meccanismo! Signore Iddio! Che cosa non inventeranno gli uomini?

Allora, prendendo il suo cappello, mastro Effarane salutò, girò sui tacchi, e usci dicendo:

— Non dimenticate la vostra nota, soprattutto tu, signor Re Diesis, e anche tu, madamigella Mi Bemolle.

E il soprannome ci è rimasto.

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VIII

TALE fu la visita di mastro Effarane alla scuola di Kalfermatt. Io ne ero rimasto vivamente impressionato. Mi sembrava che un re diesis vibrasse di continuo in fondo alla mia gola. Frattanto i lavori dell'organo progredivano. Ancora otto giorni e sarebbe stato Natale. Io passavo tutto il mio tempo libero in tribuna. Era più forte di me. Facevo del mio meglio per essere d'aiuto all'accordatore e al tiramantici, dai quali non si riusciva a trarre una parola. Adesso i registri erano in buono stato, i mantici pronti per funzionare, il soffietto rimesso a nuovo, gli ottoni rilucenti nella penombra della navata. Si, si poteva essere pronti per la festa, salvo forse per quanto concerneva il famoso apparecchio delle voci bianche.

Infatti, era lì che il lavoro andava a rilento. Lo si capiva benissimo dall'indispettirsi di mastro Effarane. Egli tentava, ritentava… Ma le cose non andavano. Non so che cosa mancasse al suo registro, e lui neppure. Di qui il suo disappunto, che si traduceva in violente crisi di collera. Se la pigliava con l'organo, con i mantici, con il tiramantici, con quel povero Re Diesis che non ne aveva nessuna colpa… Alle volte, io credevo che stesse per rompere tutto, e mi mettevo in salvo… E che avrebbe detto il popolino kalfermattese, deluso nella sua speranza, se la più solenne festività dell'anno non fosse stata celebrata con tutta la pompa che comporta?

Da notare che i piccoli cantori non potevano esibirsi quel Natale, poiché la cantoria non era ancora organizzata, e che si sarebbe dovuto ripiegare tutto sull'organo.

In breve, giunse il gran giorno. Durante le ultime ventiquattro ore, mastro Effarane, sempre più indispettito, si era lasciato andare a tali sfuriate da temere per la sua ragione. Avrebbe dunque dovuto rinunciare a quelle voci bianche? Io non sapevo perché egli mi spaventava a tal punto che non osavo più rimettere i piedi nella tribuna, e neppure in chiesa.

La sera di Natale, d'abitudine, si obbligavano i fanciulli a coricarsi non appena faceva buio, ed essi dormivano fino al momento della

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Messa. Questo permetteva loro di restare svegli durante l'ufficio della mezzanotte. Dunque, quella sera, dopo la scuola, io accompagnai fino alla porta di casa la piccola Mi Bemolle. Ero giunto al punto di chiamarla così.

— Non mancherai alla Messa — le dissi. — No, Joseph, e tu non dimenticare il tuo messalino. — Sta' tranquilla! Ritornai a casa dove mi aspettavano. — Vai a coricarti — mi disse mia madre. — Sì — risposi — ma non ho voglia di dormire. — Non importa! — Però… — Fa' quello che ti dice tua madre — replicò mio padre — e noi ti

sveglieremo quando sarà tempo d'alzarti. Obbedii, baciai i miei genitori e salii nella mia cameretta. I miei

abiti della festa erano posati sulla spalliera d'una seggiola, le mie scarpe lucidate presso la porta. Non avrei dovuto far altro che vestirmi, balzando giù dal letto, dopo essermi lavato la faccia e le mani.

In un istante, scivolai sotto il lenzuolo e spensi la candela; ma restava una mezza luce a causa della neve che ricopriva i tetti vicini.

Non è il caso di dire che io non ero più nell'età in cui si mettono le scarpe presso il caminetto con la speranza di trovarvi un regalo di Babbo Natale. E la nostalgia mi colse pensando che quello era stato un tempo felice e che non sarebbe mai più ritornato. L'ultima volta, erano passati tre o quattro anni, la mia cara Mi Bemolle aveva trovato una graziosa croce d'argento nella sua pantofola… Non lo dite, a nessuno ma ero io che ce l'avevo messa!…

Poi quei gioiosi ricordi svanirono dalla mia mente. Io pensavo a mastro Effarane. Lo vedevo seduto accanto a me, nel suo lungo pastrano, con le sue lunghe gambe, le sue lunghe mani, il suo lungo viso… Avevo un bel ficcare la testa sotto il cuscino, lo vedevo sempre, sentivo le sue dita correre lungo il mio letto…

In breve, dopo essermi voltato e rivoltato, riuscii ad addormentarmi.

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Quanto tempo durò il mio sonno? L'ignoro. Ma a un tratto fui bruscamente risvegliato: una mano si era posata sulla mia spalla.

— Andiamo, Re Diesis! — mi disse una voce che subito riconobbi. Era la voce di mastro Effarane.

— Andiamo, dunque, Re Diesis… È l'ora… Vuoi forse mancare alla Messa?

Udivo senza rispondere. — Bisogna dunque che io ti tiri fuori dal letto come si tira fuori il

pane dal forno? Le lenzuola furono bruscamente tirate da parte. Allora aprii gli

occhi che furono abbagliati dalla luce d'un fanale, sorretto da una mano…

Quale fu lo spavento che mi colse!… Era proprio mastro Effarane che mi parlava.

— Suvvia, Re Diesis, vestiti! — Vestirmi?… — A meno che tu non voglia recarti alla Messa in camicia! Non

senti la campana che suona? Infatti la campana suonava a tutto spiano! Inconsciamente, ma in un baleno, mi ritrovai vestito di tutto

punto. È vero, mastro Effarane mi aveva aiutato, e quello ch'egli faceva, lo faceva in fretta.

— Vieni — disse riprendendo in mano la lanterna. — Ma… e mio padre? mia madre? — osservai. — Sono già in chiesa. Mi stupiva ch'essi non mi avessero atteso. Infine scendemmo. La

porta di casa fu aperta, poi richiusa; ed eccoci in strada. Che freddo pungente! La piazza è tutta bianca, il cielo gremito

d'astri. In fondo si profila la chiesa, il suo campanile, la cui punta sembra illuminata da una stella.

Io seguivo mastro Effarane. Ma invece di dirigersi verso la chiesa, ecco ch'egli prende certe strade, di qui e di là. Si ferma davanti a delle case le cui porte si aprono senza che egli abbia bisogno di bussare. I miei compagni ne escono, vestiti dei loro abiti della festa, Hoct, Farina, tutti quelli che facevano parte della cantoria. Poi è la

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volta delle fanciulle, e prima di tutte la mia piccola Mi Bemolle. La prendo per mano.

— Ho paura! — mi dice. Non osavo rispondere: « Anch'io! » per timore di spaventarla di

più. Finalmente siamo al completo. Tutti quelli che hanno la loro nota personale, la scala cromatica tutta intera!

Ma qual è dunque il progetto dell'organista? In mancanza del suo apparecchio di voci bianche, vorrebbe forse formare un registro con le voci dei fanciulli cantori?

Che lo si voglia o no, bisogna obbedire a questo personaggio fantastico, come i musicisti obbediscono al loro direttore d'orchestra, quando la bacchetta gli si agita fra le dita. Eccoci arrivati alla porta laterale della chiesa. La varchiamo a due a due. Nessuno v'è ancora nella navata, che è fredda, tetra, silenziosa. E lui che mi aveva detto che mio padre e mia madre mi aspettavano in chiesa!… Lo interrogo, oso interrogarlo.

— Taci, Re Diesis! — mi risponde — e aiuta la piccola Mi Bemolle a salire.

È quello che faccio. Eccoci tutti sulla stretta scala a chiocciola; arriviamo al ripiano della tribuna, che subito s'illumina. La tastiera dell'organo è aperta, il tiramantici è al suo posto, si direbbe che è lui rigonfio di tutto il vento dei mantici, tanto sembra enorme!

A un segno di mastro Effarane, noi ci allineiamo in ordine. Egli tende il braccio; il soffietto dell'organo si apre, poi si richiude su di noi.

Tutti e sedici siamo chiusi nelle canne del grande registro, ciascuno separatamente, ma vicini gli uni agli altri. Betty si trova nella quarta nella sua qualità di mi bemolle, ed io nella quinta nella mia qualità di re diesis! Avevo dunque indovinato il pensiero di mastro Effarane. Nessun dubbio possibile. Non avendo potuto sistemarvi il suo apparecchio, è con i fanciulli della cantoria ch'egli ha composto il registro delle voci bianche, e quando il soffio ci giungerà attraverso la bocca delle canne, ciascuno emetterà la sua nota! Ma non si tratta di gatti, questa volta: sono io, Betty, i nostri compagni ad essere azionati dai tasti dello strumento.

— Betty, ci sei? — gridai.

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— Sì, Joseph. — Non aver paura, sono vicino a te. — Silenzio! — gridò la voce di mastro Effarane. E si tacque.

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IX

FRATTANTO la chiesa si è a poco a poco riempita. Attraverso la fessura a fischietto della mia canna, io scorgo la folla dei fedeli avanzarsi nella navata, brillantemente illuminata, adesso. E queste famiglie che non sanno che sedici dei loro figli sono imprigionati in quest'organo! Udivo distintamente il rumore dei passi sul pavimento della navata, l'urto delle seggiole, il ticchettio delle scarpe chiodate e anche degli zoccoli, con quella solennità particolare delle chiese. I fedeli prendevano il loro posto per la Messa di mezzanotte, e la campana suonava sempre.

— Sei sempre lì? — domandai ancora a Betty. — Si, Joseph — mi rispose una vocina tremante. — Non aver paura… non aver paura, Betty!… Noi siamo qui

soltanto per l'ufficio… Dopo ci lasceranno andare. In fondo pensavo che non sarebbe stato così. Giammai mastro

Effarane avrebbe aperto la gabbia a quegli uccelli, e la sua potenza diabolica avrebbe saputo trattenerveli a lungo… Per sempre, forse!…

Infine squilla la campanella del coro. Il signor curato e i suoi due assistenti arrivano davanti ai gradini dell'altare. La cerimonia sta per incominciare.

Ma come mai i nostri genitori non si erano inquietati della nostra assenza? Io vidi mio padre e mia madre al loro posto, tranquilli… Tranquilli anche il signore e la signora Clère… Tranquille le famiglie dei nostri compagni. Era inspiegabile.

Stavo riflettendo a questo quando un turbine passò attraverso il soffietto dell'organo. Tutte le canne fremettero come una foresta sotto una raffica. Il mantice funzionava a pieni polmoni.

Mastro Effarane aveva iniziato in attesa dell'« Introito ». I grandi registri, anche la pedaliera, funzionavano accompagnati da rombi di tuono. Tutto ciò terminò con un formidabile accordo finale, appoggiato sul basso dei bordoni di trentadue piedi. Poi il signor

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curato intonò l'« Introito »: Dominus dixit ad me: Filius meus es tu;10 al « Gloria », nuovo attacco di mastro Effarane con il registro sonoro delle sue trombe.

Io spiavo, spaventato, il momento in cui la burrasca dei mantici si sarebbe introdotta nelle canne; ma l'organista, indubbiamente, ci riservava per la metà dell'ufficio…

Dopo l'Orazione, viene l'Epistola. Dopo l'Epistola, il Graduale, concluso da due superbi Alleluia con accompagnamento dei grandi registri.

Allora l'organo aveva taciuto per un certo lasso di tempo, durante il Vangelo e la Predica, nel corso della quale il signor curato si felicita con l'organista per aver reso alla chiesa di Kalfermatt le sue voci spente…

Ah! se avessi potuto gridare, mandare il mio re diesis attraverso la fessura della canna!…

Si è all'Offertorio. Su queste parole: Lætentur coeli, et exultet terra ante faciem Domini quoniam venit11 c'è l'ammirabile preludio di mastro Effarane, con il registro dei prestanti di flauto sposati ai registri d'organo. Era magnifico, bisogna convenirne. Sotto le sue armonie d'un fascino indescrivibile, i cieli sono in letizia, e sembra che i cori celesti cantino la gloria del fanciullo divino.

Tutto ciò dura cinque minuti, che mi sembrano cinque secoli, perché presentivo che il turno delle voci bianche sarebbe venuto al momento della Elevazione, per il quale i grandi artisti riservano le più sublimi improvvisazioni del loro estro…

In verità, io sono più morto che vivo. Mi sembra che mai una nota potrà uscire dalla mia gola inaridita dall'angoscia dell'attesa. Ma non consideravo il soffio irresistibile che mi avrebbe gonfiato, quando il tasto che mi azionava si sarebbe abbassato sotto il dito dell'organista.

Infine, giunse il momento della tanto temuta Elevazione. La campanella fece sentire i suoi aspri tintinnii. Un gran silenzio, un

10 L'« Introito » è l'antifona con la quale si inizia la messa. La

frase in latino significa: « Il Signore mi disse: Tu sei mio figlio ». 11 « Si rallegrino i cieli ed esulti la terra di fronte al Signore, perché egli viene

».

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raccoglimento generale regnano nella navata. Le fronti si curvano, mentre i due chierici sollevano la pianeta del signor curato…

Ebbene, per quanto io fossi un fanciullo pio, non ero affatto raccolto, in quel momento; pensavo soltanto alla tempesta che stava per scatenarsi sotto i miei piedi! E allora, a mezza voce, per non essere udito che da lei:

— Betty? — dico. — Che vuoi, Joseph? — Stai attenta, tocca a noi adesso! — Ah! Gesummaria! — esclama la povera piccola. Non mi sono ingannato. Echeggia un rumore secco. È il rumore

del regolo mobile che distribuisce l'entrata del vento nel somiere al quale fa capo il registro delle voci bianche. Una melodia dolce e penetrante s'eleva sotto le volte della chiesa, nel momento in cui si compie il divino mistero. Sento il sol di Hoct, il la di Farina; poi c'è il mi bemolle della mia cara vicina, poi un soffio gonfiò il mio petto, un soffio dolcemente predisposto, che spinge il mio re diesis attraverso le mie labbra. Si vorrebbe tacere ma non si può. Io non sono più che uno strumento nella mano dell'organista. Il tasto che egli tocca sulla sua tastiera è come una valvola del cuore che si schiude…

Ah! che strazio! Se continua così dalle nostre labbra non usciranno note musicali, bensì grida, grida di dolore!… E che indicibile tortura io provo, quando mastro Effarane abbatte con una mano terribile un accordo di settima diminuita nel quale io occupavo il secondo posto, do naturale, re diesis, fa diesis, la naturale!…

E come il crudele, implacabile artista prolunga all'infinito l'accordo, una sincope mi coglie, mi sento morire, e perdo conoscenza…

E così questa famosa settima diminuita, non avendo più il suo re diesis, non può essere eseguita secondo le regole dell'armonia…

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— EBBENE, che cos'hai? — mi dice mio padre. — Io… io… — Andiamo, svegliati, è l'ora di andare in chiesa… — L'ora?… — Sì… fuori del letto, o mancherai la Messa, e tu sai, niente

Messa, niente cenino di Natale!… Dov'ero? Che cos'era accaduto? Forse tutto questo non era che un

sogno… L'imprigionamento nelle canne dell'organo, il pezzo dell'Elevazione, il mio cuore che si spezzava, la mia gola che non poteva più emettere il suo re diesis!… Sì, ragazzi miei, dal momento in cui mi ero addormentato fino al momento in cui mio padre mi aveva svegliato, avevo sognato ogni cosa, grazie alla mia immaginazione sovreccitata oltre misura.

— Mastro Effarane? — domandai. — Mastro Effarane sarà in chiesa — rispose mio padre. — Tua

madre vi è di già… Allora, ti vesti sì o no? Mi vestii come se fossi stato ubriaco, udendo sempre quella

settima diminuita, torturante e interminabile… Arrivai in chiesa. Vidi tutti al loro posto abituale, mia madre, il

signor Clère e la sua signora, la mia cara piccola Betty, ben coperta, perché c'era un freddo terribile. La campana faceva udire i suoi ultimi rintocchi.

Il signor curato, rivestito con i paramenti delle feste grandi, giunse davanti all'altare, in attesa che l'organo facesse risuonare una marcia trionfale.

Quale sorpresa! invece di lanciare i maestosi accordi che devono precedere l'« Introito », l'organo taceva. Nulla! Non una sola nota!

Il sacrestano salì fino alla tribuna… Mastro Effarane non c'era. Lo si cercò. Invano. Scomparso l'organista. Scomparso il tiramantici. Senza dubbio mastro Effarane, furioso di non aver potuto installare il suo registro di voci bianche, aveva abbandonato la chiesa, poi il

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villaggio, senza neppure reclamare il dovuto; e, difatti, non lo si vide mai più ricomparire a Kalfermatt.

Non ne fui per nulla contrariato, lo confesso, ragazzi miei, perché in compagnia di quello strano personaggio, lungi dal cavarmela con un semplice sogno, sarei diventato pazzo al punto d'essere internato in un manicomio!

E, se fosse diventato pazzo, il signor Re Diesis non avrebbe potuto, dieci anni dopo, sposare la signorina Mi Bemolle, matrimonio benedetto dal Cielo, se mai ce n'è stato sulla terra. Ciò prova che nonostante la differenza di un'ottava di tono, d'un « comma », come diceva mastro Effarane, si può egualmente essere felici in famiglia.