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Liceo “Fratelli Testa” Nicosia Shoah e ... genocidi rimossi Anno scolastico 2008/2009 1

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genocidi rimossi

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Liceo “Fratelli Testa” Nicosia

Shoah e ...

genocidi rimossi

Anno scolastico 2008/2009

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I docenti impegnati nel progetto esprimono un sentito e sincero ringraziamento al Dirigente scolastico del Liceo"Fratelli Testa", prof. Giuseppe Chiavetta, solerte promotore del progetto in rete "Shoah e … genocidi rimossi",nonché ai Dirigenti scolastici, proff. Michele Casalotto e Ignazio Furnari degli Istituti Comprensivi "LuigiPirandello" e "Dante Alighieri", per aver stimolato e sostenuto la partecipazione all'iniziativa da parte degli allievidelle terze medie.

Un ulteriore ringraziamento va ai docenti: Anna Maria Di Figlia, Francesca Fascetta, Antonia Lo Presti (I. C."D. Alighieri"), Maria Pugliese, Giuseppa Rizzo, Lella Sottosanti, (I. C. "L. Pirandello").

Un doveroso e grato ringraziamento rivolgono all'amministrazione comunale di Nicosia e, in particolare, al sin-daco Antonello Catania e all' assessore alla Cultura, Sport e Turismo Nabor Potenza per aver acconsentito all'utiliz-zo della Palestra comunale in cui sono state effettuate le proiezioni cinematografiche e per aver appoggiato questainiziativa che ormai da anni portano avanti con convinzione e dedizione.

Desiderano, infine, ringraziare tutti gli allievi che hanno contribuito alla realizzazione del presente lavoro:gli alunni del Liceo Classico "F.lli Testa" con annessi L.S.P.P e L.S.S.

Barberi Gambonello Marilena, Beritelli Sabrina, Billone Sabrina, Bonelli Giovanna, Cacciato Clarissa, CampionePatrizia, Candurra Nicoletta, Casalotto Laura, Carbonaro Beatrice, Catania Anna, Chiovetta Miriam, CocuzzaSamantha, Conticello Irene, Corallo Nadia, D'Amico Ilaria, D'Amico Michela, De Francisci Giusy, Di DioFiamma, Di Narda Maria Pina, Di Pasquale Loredana, Domina Federica, Faro Ilenia, Fascetta Luigi, FascettaVirginia, Fazio Maria, Fiorenza Anna, Gentile Martino, Giaimi Giulia, Greco Federica, Grippali Margherita, LaBlunda Gloria, La Giglia Luca, La Porta Egle, Lembo Annalisa, Leonardi Debora, Li Volsi Grazia, Li Volsi Laura,Lo Faro Flavio, Lo Faro Fulvio, Lo Gioco Marta Maria, Lupica Carmelania, Maggio Giuseppe, Maiuzzo Roberta,Manerchia Giusy, Modica Ilenia, Mongioj Maria Concetta, Montaperto Chiara, Nasello Santi Paride, OcchipintiGiovanni, Pagana Elisa, Passamonte Rosalia, Pescetti Angela, Pettinato Lavinia, Pezzino Cristina, Pidone Enrico,Pirrello Celeste, Pirrello Daria, Pirrone Lavinia, Pitronaci Giusy, Pitronaci Maria Michela, Prestifilippo Roberta,Ricciardo Melisa, Rizzo Lucia, Rotondo Angelica, Rotondo Giusy, Russo Marica, Russo Papo Rosy Maria, SaccoAngelica, Salamone Maria, Sangiuliano Fabiana, Schilirò Anna Maria, Scriffignano Silvia, Spallina Giusi, StansùIrene, Sutera Gabriella, Testa Sebastiano.

gli alunni dell'Istituto Comprensivo "D. Alighieri" di NicosiaBottari Alessia, Calò Alain, D'Amico Maria Michela, Di Gregorio Vincenzo Aleandro, Failla Alessandra, MartelloSilvio, Modica Filippo, Projetto Emanuela.

gli alunni dell'Istituto Comprensivo "L. Pirandello " di NicosiaCacciato Clorinda, Emanuele Rossana, Gaglione Federica, Grasso Loris Antonino, Li Volsi Roberto, Lo SauroSofia, Maira Giorgia, Russo Giulio, Turco Davide.

Cura editoriale ed editing: Salvatore Lo Pinzino

Edizioni NovagrafPiano di Corte, 1894010 - Assoro (EN)

ISBN 978-88-88881-61-4

© 2010: Liceo “F.lli Testa” di NicosiaIn quarta di copertina: foto celebrazione Giornata della Memoria 2008.

Shoah e ... genocidi rimossi . Liceo “Fratelli Testa”, Nicosia, anno scolastico 2008/2009. -[Assoro Novagraf], 20101. Genocidio - Sec. 20364 1510904 CDD-21 SBN Pal02223107

CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

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Presentazione

Giuseppe Chiavetta*

“Shoah e … genocidi rimossi” è uno dei progetti POF, promossi dal Liceo“Fratelli Testa” di Nicosia, per ampliare l’offerta formativa, legato alla celebrazionedella Giornata della Memoria che il Parlamento italiano ha istituito in occasione del55° anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau, campo di sterminio in cuifra il 1940 e il 1945 si è compiuto gran parte del genocidio degli ebrei.

Sin dalla promulgazione della legge n. 211 del 20 luglio 2000, infatti, le scuole,spronate a celebrare il 27 gennaio con cerimonie, iniziative, incontri, narrazione deifatti e momenti di riflessione, si sono impegnate a rendere la comunità scolastica piùattiva e vigile, depositaria di una memoria storica, capace di opporsi, con gli stru-menti democratici, a qualsiasi tipo di discriminazione e persecuzione.

E così, rispettando la data fissata dal Ministero e dedicata alla commemorazionedell’Olocausto degli Ebrei, o meglio della Shoah (come gli Ebrei preferiscono deno-minare il genocidio dei loro fratelli), ogni anno, il nostro istituto ha espresso lavolontà di promuovere iniziative tali da radicare nella memoria collettiva il signifi-cato e il messaggio di questa Giornata: dai cortei, con deposizione di una coronasulla lapide che ricorda i molteplici genocidi perpetrati nel XX secolo, alle mostrefotografiche, alle varie performance create dagli studenti, agli incontri con protago-nisti dei fatti storici, alla pubblicazione del presente lavoro che, dedicando spazio siaalle leggi che portarono allo sterminio degli ebrei europei sia ai fatti storici che con-fluirono nella persecuzione di tante altre minoranze etniche e sociali, vorrebbe esse-re un piccolo ma significativo contributo a una corretta divulgazione storica.

Tenuto conto della rilevanza sia formativa che educativa del progetto, si è ritenu-to opportuno lavorare insieme agli Istituti Comprensivi “Dante Alighieri” e “LuigiPirandello” di Nicosia, pur mantenendo la gestione del progetto, che ormai può con-siderarsi una tradizione per il nostro istituto, che ha sempre individuato nel rispettodell’altro un valore irrinunciabile, prospettandolo ai giovani come priorità educati-va senza mai tralasciare l’occasione di un approccio alla memoria storica attraversocui passa non solo la comprensione delle dinamiche del presente, ma anche, esoprattutto, l’impostazione di una seria cultura della pace, del rispetto, della tolle-ranza, di una pacifica convivenza tra popoli e persone di etnie, culture e religionidiverse.

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* Dirigente scolastico del Liceo “Fratelli Testa” di Nicosia (Indirizzi: Classico, Sociopsicopedagogicoe Scienze Sociali).

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La commemorazione non si è mai ridotta ad un rituale ripetitivo e vuoto di signi-ficato, in quanto è stata sempre accompagnata da spazi di riflessione che hanno con-sentito ai giovani di comprendere che se un fatto grave, come il genocidio degliebrei, è successo, può tornare a succedere e che, se si vuole cambiare in meglio lasocietà, bisogna coltivare la memoria, custodirla, impegnarsi affinché non si ripeta-no gli errori o le nefandezze del passato.

Grazie a questo progetto noi speriamo che possano sedimentare nelle coscienzedei giovani quei valori, quali la libertà, la solidarietà, la giustizia, la tolleranza, ladignità dell’essere umano, che devono essere difesi costantemente e quotidianamen-te, se si vuole costruire un’etica della responsabilità e migliorare il livello della pro-pria umanità.

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Il Dirigente scolastico, i docenti e alcuni alunni che hanno preso parte alla realizzazionedel progetto.

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Ragioni di un impegno

Valeria Fiscella e Luigi Gagliano*

Un autentico interesse per la Shoah, triste pagina della storia occidentale, è scat-tato tra i docenti del nostro Liceo qualche anno prima della promulgazione dellalegge n. 211, quando, in occasione di un viaggio d’istruzione in Germania, abbiamovisitato con un nutrito gruppo di alunni, il lager nazista di Dachau. Sapevamo dellaShoah e di quanto era successo durante il Secondo conflitto mondiale, avevamovisto fotografie e filmati sull’Olocausto, ma solamente quando abbiamo varcato ilcancello di Dachau, quando un testimone di quella tragedia ci ha raccontato convoce visibilmente rotta dall’emozione fatti incredibili, quando abbiamo visitato ilcampo di concentramento e visto i forni crematori, abbiamo avuto piena consapevo-lezza di quella agghiacciante tragedia e avvertito l’esigenza di saperne di più. E così,sin dal 2004, con gli alunni abbiamo iniziato un lavoro di documentazione e avvia-to un approccio interdisciplinare. Allo studio della storia, gli alunni hanno affianca-to la lettura di alcuni romanzi, poesie, canzoni, testimonianze sconvolgenti dell’or-rore dei lager e la visione di qualche film.

I nostri giovani, nell’affrontare la tematica della Shoah, hanno compreso che latragica lezione dell’Olocausto non aveva cancellato il pregiudizio e l’odio etnico,che il virus dei nazionalismi aveva continuato ad allargare il suo contagio in tutto ilmondo e alimentato dolore ed odio, che lo sterminio ebraico poteva essere assimi-lato ad altre eliminazioni di massa compiute da governi, regimi, società intere. Adistanza di mezzo secolo dallo sterminio degli ebrei, il fenomeno, infatti, si erariproposto in Africa (Rwanda e Darfur), nei Balcani (Bosnia), nell’UnioneSovietica, in Cina, in Cambogia, nel Medio Oriente.

Molte, troppe, erano le vittime dei regimi politici e religiosi, i martiri dell’odio edel terrore, coloro che erano stati straziati nel fisico e nell’anima fino a non esserepiù persone, perché si potesse archiviare il passato senza ripensarlo continuamentecome ferita comune. E così dallo studio del genocidio degli ebrei europei, si è pas-sati a quello degli altri genocidi del XX secolo e a quelli recenti, facendo sì chel’evento della Shoah rimanesse un paradigma di tutte le tragedie storiche in cui unindividuo può essere privato della vita per il solo fatto di appartenere a un’etnia, unceto sociale o una religione determinati.

Si è avvertito il bisogno umano di catalogare, paragonare le catastrofi, mettere inrelazione gli eventi, cercando di capire che cosa potesse portare a un genocidio, con

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* Docenti di Italiano-Latino e di Storia-Filosofia del Liceo Classico “Fratelli Testa” di Nicosia.

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quale diritto milioni di abitanti siano stati trasformati in vittime, dopo essere statideportati, massacrati, sterminati. Si è constatato come la violenza sia stata ovunqueparticolarmente efferata, come sia forte il desiderio di cancellare qualsiasi tracciadell’ “altro” in terre in cui i confini cambiano continuamente, si è rilevato l’aspettofratricida di molti degli eccidi, i frenetici tentativi di tracciare linee di confine etni-co attraverso una realtà fatta di intrecci razziali e l’avvicendamento di cicli semprepiù ravvicinati di vendetta.

Nello stesso tempo è maturata l’idea di testimoniare il nostro impegno ad oppor-ci in qualche modo all’oblio della memoria, dedicando una lapide a tutte le vittimedei genocidi del XX secolo e facendoci promotori di manifestazioni pubbliche checoinvolgessero le scuole e rendessero partecipe tutta la cittadinanza, nella convin-zione che solo attraverso la partecipazione attiva di tutti si facilita l’interiorizzazio-ne dei valori connessi con la cultura della pace. E così, nel 2005, il Liceo “FratelliTesta” ed il Comune di Nicosia hanno posto in Piazza Marconi una lapide comme-morativa su cui è stata incisa una celebre frase di Tacito, vissuto durante la tiranni-de di Domiziano “Avremmo perduto anche la memoria, se fosse possibile all’uomodimenticare quanto tacere”. Una frase che sottolinea l’impossibilità per l’uomo didimenticare, anche se si vive sotto un regime politico che mira ad infiacchire lecoscienze portandole al servilismo e che ribadisce l’importanza della memoria, anti-doto che consente di cogliere in anticipo le situazioni politiche in cui si ripropone lalogica dell’annientamento fisico di esseri umani e che fa assumere una responsabi-lità nei confronti del mondo in cui si vive.

Per non dimenticare sono stati allestiti, di anno in anno, dei laboratori, in cui glialunni hanno avuto modo di produrre diversi lavori: dai dossier agli spettacoli musi-cali, dalla pubblicazione di un saggio ai cartelloni contenenti carte geografiche(indispensabili per localizzare i luoghi in cui sono avvenuti i genocidi), didascalieesplicative, brevi ed essenziali notizie storiche e immagini fotografiche. E noi pen-siamo che queste attività, mirate alla conservazione della memoria dei genocidi,abbiano rappresentato un monito importante per i giovani contro l’odio - razziale,etnico e religioso - che ancora insanguina molte parti del mondo e che talora riaffio-ra anche nelle società più evolute.

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La memoria … oltre la barriera dell’indifferenza

Luigi Gagliano

Pare che Adolf Hitler, in un discorso pronunciato pochi giorni prima di invaderela Polonia, al fine di vincere le titubanze dei generali della Wehrmacht relativamen-te ai piani di sterminio, in particolare all’intenzione di uccidere senza compassioneanche le donne e i bambini per guadagnare alla Germania il suo “spazio vitale”,abbia concluso dicendo: “Dopo tutto, chi parla più al giorno d’oggi dello sterminiodegli Armeni?”

La battuta di Hitler vale, per noi, quale monito e persuasivo argomento perchésulle tragedie e sui più efferati massacri del passato non cada quel velo di oblio cheHitler utilizzava per perpetrare altri massacri, altre forme di sterminio. Dicendo ciò,non intendiamo certo pensare che la memoria sia (e nessuno, oggi, si illude che lopossa essere) un antidoto contro il ripetersi di un crimine. D’altra parte, è ovvio chenella memoria non possono trovare posto sentimenti quali l’odio o, a maggior ragio-ne, la vendetta. Se l’uno e l’altra sono sentimenti che mai giovano ai parenti dellevittime, diventerebbero addirittura pedagogicamente devastanti nella formazionedelle nuove generazioni alle quali, in fondo, il dovere della memoria è rivolto e affi-dato.

Perché allora coltivare la memoria? Riteniamo che il dovere del ricordare stia,essenzialmente, in un atto di civiltà umana: quel senso di giustizia e di solidarietàche l’uomo deve avvertire per quanti, suoi simili, indifesi e innocenti, sono morti inun modo tanto feroce quanto gratuito; morti per quella “banalità del male” di cui ciparla la Arendt. Oggi, aggiungiamo, viviamo in una cultura sempre più diffusamen-te basata sul presente e sull’effimero; ciò fa sì che diventi ancor più essenziale ilruolo della scuola nell’educare al valore della memoria, che poi si trasforma, nesiamo convinti, anche in una forma di “educazione sentimentale” contro le ideolo-gie e i tanti comportamenti ispirati (come, purtroppo, ogni giorno ci è dato consta-tare) al sistematico disprezzo per la vita umana.

Per una scuola, per una comunità di alunni, coltivare il dovere della memoriasignifica, più in generale, autoeducarsi all’inderogabile dovere morale di trascende-re il carcere del proprio “io” isolato, di essere interessati, di rivolgere la propriaattenzione, la propria mente e il proprio cuore all’altro, soprattutto ai suoi drammi ealle sue sofferenze, col risultato di squarciare nella coscienza di ognuno, troppospesso appiattita sul proprio “ego”, quello scudo di indifferenza che, probabilmen-te, pur esso è costitutivo della natura dell’uomo. Sull’indifferenza come problemaeducativo, ci ha sempre fatto molto riflettere, nella quotidiana attività di educatori,quell’ “evangelico” pensiero di M. Luther King che dice: “Non mi fa paura la cat-

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tiveria dei malvagi, ma l’indifferenza degli onesti”. Ecco perché riteniamo che peruna scuola, di qualsiasi ordine e grado, istituzionalmente deputata a formare onesticittadini, contribuire in qualche misura a contrastare il tarlo dell’indifferenza nonsia, un obiettivo formativo secondario.

Quanto sin qui detto dovrebbe essere più che sufficiente a far comprendere il per-ché, nel nostro ormai lungo percorso didattico, abbiamo sempre dato ampio spazioa momenti e a progetti nei quali gli alunni sono stati coinvolti in “questioni altre”(dal Darfur alla Cambogia di Pol Pot, dalle Foibe ai Curdi, dalla questione irlande-se a quella tibetana, basca, cipriota…), in particolare giustifica il perché negli ulti-mi anni ci siamo lasciati volentieri coinvolgere in un impegno che il Liceo “ F.lliTesta” ha individuato e percepito come fortemente caratterizzante il nostro istituto:quello di utilizzare il Giorno della memoria per estendere il ricordo dalla Shoah adaltri genocidi meno noti, sui quali i mezzi di informazione - quando ne parlano e, disolito, in occasione dell’anniversario dei fatti - si limitano a qualche trafiletto.

Senza avere la pur minima intenzione di sminuire quella che, giustamente, vienedefinita “unicità della Shoah”, crediamo che gli ebrei siano riusciti negli ultimidecenni a ottenere quella giusta attenzione (nel mondo della cultura, dell’informa-zione e delle stesse istituzioni pubbliche) sulla tragedia patita dal loro popolo moltopiù facilmente di quanto sia avvenuto per altri popoli che hanno subìto - anche se suscala minore - tragedia simile. E non si tratta tanto di numero di vittime, ma pensia-mo piuttosto, e molto semplicemente, che nelle vicende dei popoli e nelle relazionitra di essi valga quello stesso rapporto di forza che si riscontra a livello dei singoliindividui, col risultato che c’è sempre qualcuno più uguale degli altri. Che una scuo-la, laica e non di parte, riporti un minimo di uguaglianza tra diseguali, crediamo siaun fondamentale principio di giustizia e, insieme, un imperativo etico per quanti inessa operano.

Dopo questa pur ovvia considerazione, potrebbe apparire, nel presente lavoro,preconcetta e ideologica la scelta di dare alla trattazione relativa alla Shoah un’im-postazione del tutto diversa rispetto a quella data agli altri genocidi: infatti, mentrequesti ultimi vengono esposti attraverso i fatti e le vicende umane che li hanno carat-terizzati, la “presentazione” della Shoah avviene, sostanzialmente, attraverso l’ana-lisi dell’aspetto giuridico-legislativo che, nella sua evoluzione, ha accompagnato lapratica della politica antiebraica nazi-fascista. La ragione di tale scelta sta, per unverso, nel fatto che di treni carichi di deportati, di scheletri umani ammassati sucamion o gettati in fosse comuni, di corpi ridotti in fumo nei camini dei campi disterminio, e di quanti altri orrori la follia e la barbarie naziste hanno generato, noitutti abbiamo ormai gli occhi e la mente pieni, considerato il numero crescente difilm, documentari televisivi, libri, romanzi e letture varie che parlano della Shoah edei lager. Ma la ragione della scelta sta, anche, nel fatto che il nostro liceo già nel-

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l’anno scolastico 1998-99, in occasione del 60° anniversario dell’emanazione delleleggi razziali, ha realizzato, con un gruppo di alunni, un lavoro di ricerca sugli ebrei;lavoro pubblicato in un libricino di 46 pagine (Gli Ebrei, dall’antisemitismo allostermino programmato) lungo le quali i fatti e le vicende umane della tragedia ebrai-ca, intrise di tutta la loro carica di ferocia ed orrore, hanno trovato ampio spazio.

Anche nella realizzazione del progetto “Shoah ... e genocidi rimossi gli alunni hannoavuto un ruolo centrale, in quanto sono stati i veri protagonisti del proprio apprendi-mento, attivamente impegnati sia sul versante dei processi cognitivi, tesi alla rielabora-zione concettuale, sia nei comporta-menti di tipo operativo, tesi al fare eall’eseguire.

La questione di un apprendimen-to significativo per l’alunno riman-da, in fondo, a quel principio che giàun secolo fa la Montessori enuncia-va in questi termini:”Non c’è acqui-sto di sapere se non è conquista per-sonale”. Tale principio implica cheal momento dell’ ascolto si accom-pagni il momento dell’esperienza, laquale è ben più del semplice vedere,percepire le cose o assistere ai fatti;essa è, piuttosto, un vivere le cosecon “intelligenza” (da intus-legere),cioè comprendendone il senso, pro-blematizzando e ponendo domande,in modo che l’apprendimento sirisolva davvero in un “guardare den-tro” (alle cose), come l’etimologiadel termine suggerisce. Dire che lascuola deve rendere “esperti” glialunni non è un’utopia, ma un con-creto impegno e un senso di responsabilità che chiunque operi in essa, e crede nel suoinsostituibile ruolo formativo, non può non avvertire.

A rafforzamento di quanto detto, vorremmo ricordare che la realizzazione del pro-getto ha previsto che al momento della ricostruzione “cartacea” dei fatti si accompa-gnasse l’esperienza filmica, la quale amplifica enormemente l’impatto emotivo con larealtà oggetto di conoscenza. E quando una conoscenza è “vestita” dall’emozioneanche le sue radici si fanno più forti e profonde.

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Piazza Marconi. Lapide commemorativa posta nel 2005.

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Shoah

Prime disposizioni contro gli ebreiIl 30 gennaio 1933 Hitler - leader del Partito nazista affermatosi come il primo

partito tedesco nelle elezioni del 1932 - è nominato dal presidente Hindenburg can-celliere del Reich; dopo soli due mesi furono promulgate le prime disposizioni con-tro gli ebrei. Quella del 7 aprile, Legge per il rinnovo dell ‘ amministrazione pubbli-

ca, stabiliva il licenziamento di tuttigli impiegati statali ebrei, escluden-done qualsiasi impiego in ruoli alservizio dello Stato; la successiva,del 12 aprile, impediva loro di eser-citare importanti attività professiona-li (medico, avvocato, giornalista,giudice ...), riservate ai tedeschi“ariani”. Da allora gli ebrei dovette-ro lavorare in posizione umile e sot-toposta, comunque, a persone nonebree.

Le leggi di NorimbergaPer i primi due anni la politica nazista si mantenne su toni abbastanza “soft” per

non allarmare 1’ elettorato moderato. Le disposizioni antiebraiche del ‘33, in realtà,non furono scrupolosamente applicate e in ogni caso erano meno devastanti di quel-le successive, le famose leggi di Norimberga.

Nel 1935 contro gli ebrei tedeschi1 si rivolsero le cosiddette Leggi diNorimberga, che tolsero loro la parità dei diritti civili e costituirono la premessa

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1 Gli ebrei presenti in Germania nei primi anni Trenta erano, in realtà, una ristretta minoranza, circacinquecentomila, su una popolazione di oltre sessanta milioni di abitanti. Diversamente, però, da quan-to accadeva nell’Europa orientale, in Germania erano concentrati nelle grandi città e occupavano lafascia medio-alta della scala sociale. Infatti erano, per lo più, commercianti, liberi professionisti, intel-lettuali, artisti; molti avevano posizioni di prestigio nell’industria e nell’alta finanza. La propagandanazista, contro questa minoranza attivamente inserita nella società tedesca, riuscì a risvegliare quei sen-timenti di ostilità che erano largamente diffusi in tutta l’Europa centro-orientale.

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delle persecuzioni sistematiche che si sarebbero dovute concludere con lo sterminioesteso anche agli ebrei non tedeschi2.

Occorre subito dire che i nazisti, del tutto insensibili alla questione religiosa (cheper essi era ininfluente) trattavano gli ebrei non come un popolo dotato di un’ iden-tità, bensì come una “razza” detentrice di caratteristiche proprie, naturalmente infe-riori e degenerate; una razza che costituiva, quindi, un costante pericolo di inquina-mento per i tedeschi “ariani”. Non a caso la prima delle leggi di Norimberga, ema-nata il 15 settembre 1935, fu la Legge per la protezione del sangue e dell’ onoretedeschi. Essa, infatti, stabiliva l’assoluta proibizione di “... matrimoni tra ebrei esoggetti di sangue tedesco o assimilato... I matrimoni contratti in violazione dellapresente legge sono nulli anche se per eludere questa legge venissero contrattiall’estero…” (art. 1). Erano altresì proibiti (art. 2) “i rapporti extraconiugali traebrei e cittadini di sangue tedesco”. E perché non si credesse che le disposizioni inquestione fossero pure enunciazioni di principio, la stessa legge precisava che leinfrazioni sarebbero state punite con condanna “al carcere o ai lavori forzati”.

La seconda legge di Norimberga3 , anch’essa emanata il 15 settembre ‘35, era laLegge sulla cittadinanza del Reich, la quale negava agli ebrei la cittadinanza ger-manica. Gli ebrei non furono più considerati cittadini tedeschi (Reichsburger), bensìReichsangehoriger (letteralmente “sudditi dello Stato”). Questo comportò la perdi-ta di tutti i diritti civili garantiti ai cittadini, in primis il diritto di voto. Infatti : “Soloun cittadino del Reich - recitava l’art. 2 - gode di tutti i diritti politici stabiliti dallaLegge”. E il diritto alla cittadinanza, era precisato poco prima, “viene acquisitoattraverso la concessione di un Certificato di Cittadinanza del Reich”. Con le leggirazziste di Norimberga del settembre `35, gli ebrei non furono più cittadini tedeschi,ma stranieri mal tollerati, da isolare anche fisicamente.

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2 La politica antisemita, bisogna dire, si inseriva nel programma di “difesa della razza” che Hitleraveva posto alla base del suo movimento e che già nel Mein Kamph aveva trovato compiuta espressio-ne. Hitler non solo era un convinto seguace delle più dure tesi antisemite maturate in Europa traOttocento e primi anni del Novecento, ma nutriva anche la più ferma convinzione che la finanza inter-nazionale ebraica, controllata dal sionismo, fosse la principale responsabile della sconfitta tedesca del1918, così come della disoccupazione seguita alla crisi di Wall Street.

3 Sono così denominate perché fu proprio nella città di Norimberga che il 15 settembre, durantel’annuale Congresso del Partito nazional-socialista, esse furono annunciate.

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Altre leggi contro gli ebreiDal 1935 in Germania le norme contro gli ebrei si susseguirono a ritmo impres-

sionante, fino a quando, nel 1941, essi furono costretti a portare come segno di rico-noscimento una stella gialla cucita sugli abiti. Nel corso del 1936 gli ebrei vennerobanditi da tutte le professioni, impedendo efficacemente loro di esercitare una qual-che influenza in politica, nella scuola e nell’industria. Nel 1937-1938 vennero ema-nate nuove leggi che penalizzarono finanziariamente gli ebrei a causa delle loro ori-gini; a partire dal l° marzo 1938 il governo tedesco non stipulò più contratti conaziende appartenenti ad ebrei.

Con Decreto del 7 agosto 1938 veniva emanato dal Ministero dell’Interno l’elen-co dei nomi (quali: Anschel, Baruch, Denny, Ehud, Uria ...per i maschi; Chana,Driesel, Rebekka, Rechel, Jezabel...per le femmine) che gli ebrei di nazionalità tede-sca potevano ricevere. “Dal 1 ° gennaio 1939 - recitava l’art. 2 - gli ebrei aventi unnome non compreso nell’elenco ... dovranno adottare un nome aggiuntivo. Per imaschi quel nome sarà Israel, per le femmine Sara”. A distanza di poco meno di duemesi, i1 5 ottobre 1938, il Ministro dell’Interno emanava la Legge sul passaportodegli ebrei, costituita da tre articoli. Riportiamo i passaggi essenziali dei primi due.

Articolo 1Il passaporto tedesco di tutti gli ebrei ... residenti nel territorio del Reich, non è

più considerato valido.Entro due settimane dalla data in cui la pre-

sente legge entrerà in vigore, i titolari di passa-porto ... hanno l’obbligo di consegnare il docu-mento alle Autorità Tedesche del distretto in cuihanno la propria permanente residenza o dovetemporaneamente soggiornano. [...]

I passaporti non più validi per l’espatrio riac-quisteranno validità quando saranno contrasse-gnati con il marchio stabilito dal Ministrodell’Interno del Reich attestante che il titolare èebreo.

Articolo 2Chiunque, negligentemente o intenzionalmente, non ottemperi agli obblighi pre-

scritti ... sarà punito con il carcere o con un ammenda di 150 Marchi oppure conentrambe le sanzioni.

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Notte dei cristalliNel novembre del ‘38 si compie il passaggio dalla persecuzione legislativa alla

violenza di massa. Il 7 novembre all’ambasciata tedesca di Parigi un ebreo polacco,per vendicare l’espulsione dei suoi genitori dalla Germania,sparò al diplomatico tedesco Ernst Eduard von Rath.Joseph Goebbels (foto a destra), Ministro della propagan-da tedesca, colse l’opportunità di ben figurare con Hitlerordinando una massiccia repressione a Berlino. Durantequella che venne chiamata Kristallnacht, Notte dei cristal-li (tra il 9 e il 10 novembre), squadre di SS compirono raidcontro negozi ebrei della città saccheggiandoli, distruggen-done le vetrate (foto sotto) e devastando abitazioni e impre-se di proprietà ebraica: 815 negozi messi a soqquadro, 171case di abitazione distrutte, 197 sinagoghe incendiate (tracui la Sinagoga di Borneplatz a Francoforte (foto sotto).

Molti cittadini tedeschi inorridirononello scoprire la reale portata dei danni;Hitler, temendo per la propria reputa-zione, diede ordine che ne fosse addos-sata la responsabilità agli ebrei. E cosìessi furono (per giunta!) obbligati a unrisarcimento collettivo di un miliardo diReichsmark; la somma venne raccoltacon la confisca del 20% della proprietàdi ogni ebreo. Nell’evento 70 ebreifurono uccisi o feriti, altri 20.000 ven-nero deportati verso i campi di concen-

tramento che erano stati creati da poco.Iniziava lo sterminio di massa.

Ma l’episodio del diplomatico tede-sco ucciso a Parigi fu solo un pretestoper imprimere un’accelerazione allapersecuzione antisemita e, in particola-re, escludere ulteriormente gli ebreidalla vita economica. Il 12 novembre1938, infatti, il regime emanava unaOrdinanza per l’esclusione degli ebreidall’economia tedesca. Di essa ripor-tiamo i primi tre articoli.

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Articolo 1Dal primo gennaio 1939, è proibito agli Ebrei il libero esercizio della vendita al

dettaglio, della vendita per corrispondenza e dell’artigianato.

A decorrere dalla stessa data, agli Ebrei e altresì proibito promuovere e pubbli-cizzare beni e servizi in qualsiasi mercato, fiera o mostra e accettare ordini di acqui-sto. I negozi giudei che opereranno in violazione di questa ordinanza saranno chiu-si dalla polizia.

Articolo 2A nessuno ebreo è consentito amministrare un’impresa con la qualifica di ammi-

nistratore secondo la definizione che di tale termine dà la legge sul LavoroNazionale del 20 gennaio 1934.

Qualora un ebreo ricopra una carica direttiva all’interno di un’impresa, potràessere licenziato con un preavviso di sei settimane. Al termine di questo periodo tuttii diritti derivanti dal contratto di impiego... saranno considerati nulli.

Articolo 3Nessun ebreo può essere membro di una Società Cooperativa.Dal 21 dicembre 1938, gli ebrei membri di Cooperative perderanno la qualifica

di socio. Non sarà necessaria alcuna notifica.Con tale provvedimento la dura campagna discriminatoria, intrapresa da tempo,

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10 novembre 1938. Deportazione della popolazione ebraica a Dachau

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contro la minoranza ebraica del paese, giungeva al capolinea: decine di migliaia diebrei furono rinchiusi in Lager per spingere gli altri all’emigrazione. Per quantirestavano, la vita diveniva pressoché impossibile: taglieggiati nei loro beni, privatidel lavoro, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove vio-lenze e di nuove misure repressive.

Dall’ aprile 1939 tutte le imprese ebree erano ormai fallite a seguito della pres-sione finanziaria e del calo dei profitti, o erano state persuase a cedere la propria atti-vità al governo nazista.

Il processo di discriminazione e di segregazione, tra il 1938 e il 1939, era proce-duto anche attraverso sfratti e trasferimenti forzati di abitazione, volti a concentraretutta la popolazione ebraica tedesca in determinati edifici o isolati, identificati dalleautorità cittadine e sorvegliati dalla polizia di stato (la Gestapo).

A partire dal 1° settembre 1941 un Decreto di polizia relativo al marchio di iden-tificazione degli ebrei obbligava questi ultimi di età superiore a sei anni, al fine diessere identificati ancora meglio, a portare la stella ebraica a sei punte (la Stella diDavide). Tale simbolo – recitava l’articolo 1 del Decreto – è rappresentato da unastella a sei punte di stoffa gialla bordata di nero, di formato equivalente al palmo diuna mano. In essa deve essere iscritta, a caratteri neri la parola “Jude”. La stelladeve essere cucita sul lato sinistro del petto degli abiti in modo ben visibile.

L’articolo 2 aggiungeva: Agli ebrei è proibito uscire dall’area in cui risiedonosenza un permesso scritto rilasciato dalla Polizia locale.

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Deportazione degli ebrei dopo la “notte dei cristalli”

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Conferenza di WannseeIl 20 gennaio del 1942 la persecuzione antiebraica compiva un salto di qualità:

dalla fase della segregazione civile passava alla fase del vero e proprio genocidio.Nella Conferenza di Wannsee (dal nome del lago nei dintorni di Berlino presso ilquale si tenne l’incontro) alti esponenti delle SS e del governo misero a punto tappee strumenti4 di quella che da qualche tempo era chiamata la Soluzione finale del“problema” ebraico, espressione che nel linguaggio eufemistico del Terzo Reichstava a indicare un progetto ampio, burocraticamente e gerarchicamente strutturato,per la distruzione fisica della comunità ebraica nell’intera Europa, comprese lecomunità dei Paesi - come l’Italia - alleati della Germania. Se per gli ebrei dei ghet-ti si ufficializzava l’eliminazione già in corso, per quelli dei Paesi dell’Europa occi-dentale si decideva l’annientamento attraverso il lavoro coatto. Era proprio in quest’ottica che si collocava Auschwitz (foto sotto), l’esempio più compiuto dell’intrec-cio fra ideologia razzista e calcolo economico, in quanto centro di sterminio e insie-me luogo di schiavitù. Quindi simbolo della Shoah.

Sterminio degli ebrei: olocausto o shoah?Etichettato, durante il processo di Norimberga, col nuovo termine “genocidio”,

poiché sembrava impossibile far rientrare quell’ immane evento nei vecchi schemi con-cettuali, lo sterminio degli ebrei, a partire dagli anni Cinquanta, venne più comunemen-

te denominato “Olocausto”, termineancora oggi molto diffuso.

Tale denominazione, però, è respintadagli ebrei, in quanto il termine olo-causto, di derivazione greco-latina,significa letteralmente “interamentebruciato” e designa, nell’AnticoTestamento, un solenne sacrificio in cuil’animale (un toro, un agnello...) vieneucciso e posto sul rogo rituale, da dovela vittima sacrificale - a seguito dellapropria totale “combustione” - ascende

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4 Il verbale della Conferenza di Wannsee, redatto da Adolf Eichman, principale collaboratore diReinhardt Heydrich, capo della polizia di sicurezza (Gestapo) e responsabile della pianificazione eattuazione della Soluzione finale, verrà reso pubblico per la prima volta nel corso del processo diNorimberga contro i crimini di guerra nazisti, al termine della seconda guerra mondiale.

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a Dio (in ebraico il rito è detto “Olah”, “ciò che sale”, verso il cielo). Per quantodetto, il termine olocausto avvolge il fenomeno dello sterminio degli ebrei di un’au-ra sacro-religiosa che nasconde l’insensatezza e la totale “gratuità” dell’assassinionei forni crematori (foto a destra).Parlare di olocausto, insomma, è comesottintendere che quello sterminio dimassa avesse un qualche valore sacro,che in un certo senso le vittime si votas-sero al sacrificio o comunque si sacrifi-cassero per una causa più alta. In annipiù recenti, sull’onda dell’omonimofilm di Claude Lanzmann del 1985, si èdiffuso ampiamente il termine Shoah,che in ebraico significa “catastrofe”,“distruzione” e che si limita a nominarela letteralità dell’evento, evitando le suggestioni implicite nel termine olocausto.

La legislazione fascista contro gli ebrei“Pochi conoscono bene che cosa ha significato per il nostro Paese la politica

antisemita del fascismo. Alcuni hanno sentito vagamente parlare di leggi razziali. Ipiù identificano tutto ciò che di antiebraico ci fu nel ventennio, con i lager nazisti ecomunque con il periodo 1943-1945, quello cioè del dominio tedesco e della repub-blica di Salò. [ ... ] Si deve sapere prima di tutto che nel nostro Paese dal 1938 al1945 sono stati in vigore leggi liberticide, leggi assassine (gli ebrei deportati neilager furono individuati attraverso gli elenchi previsti dalle leggi italiane), che ave-vano il dichiarato e ben articolato intento di discriminare una piccola minoranza dipersone, di italiani, facendo di questi il capro espiatorio di una stolta, criminalepolitica che stava portando il paese alla rovina e alla distruzione”. (Così scrive UgoCaffaz nell’introduzione al libro Discriminazione e persecuzione degli ebreinell’Italia fascista).

1938: l’anno dell’ignominiaC’è chi stigmatizza in questi termini l’approvazione delle leggi razziali da parte

del Fascismo. In quell’anno Benito Mussolini decideva di fare il grande passo, dilegare completamente l’Italia al Terzo Reich di Adolf Hitler, imitandolo anche nellesue folli utopie razziste. Il fuhrer odiava e perseguitava gli ebrei, il duce, che su que-sto, come su quasi tutto, non aveva opinioni precise, stabilì che anche in Italia gliebrei dovevano essere odiati e perseguitati. Ma quello che colpisce è il fatto che

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l’antisemitismo non apparteneva alla storia del Fascismo. Lo stesso Mussolini, nel1932, nel libro-intervista Colloqui con Mussolini dello scrittore e giornalista tedescoEmil Ludwig (dal duce riveduto e approvato prima della pubblicazione), affermava:“L’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei si sono sempre comportati bene,come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano postielevati nelle Università, nell’Esercito, nelle banche”. A fine marzo 1933 - quandonon era ancora rimorchiato da Hitler - Mussolini, accogliendo la sollecitazione del-l’ambasciatore italiano (Vittorio Cerruti), inviava al suo collega e “allievo” tedescoun messaggio per convincerlo che “la lotta agli ebrei non rafforzerà il nazional-socialismo”. Il 14 luglio 1934, quando in Germania si era prossimi a emanare leleggi di Norimberga per la discriminazione razziale, Mussolini su Il popolo d’Italia,organo del partito nazionale fascista, pubblicava un articolo nel quale, commentan-do favorevolmente le conclusioni antirazziste di un congresso internazionale diantropologi, scriveva: “In tema di razzismo gli scienziati non vanno a quanto sem-bra d’accordo con i politici. Si intende che il dissidio assume forme palesi e docu-mentarie soltanto oltre i confini della Germania nazista”. E, con tono di sprezzan-te superiorità, aggiungeva: “Trenta secoli di storia ci permettono di guardare consovrana pietà talunne dottrine d’oltralpe”. L’ostilità del Fascismo all’antisemitismodi marca nazista si concretizzava nella concessione di asilo agli ebrei tedeschi cheespatriavano per sfuggire alle persecuzioni, nella creazione di una nuova lineamarittima Trieste-Tel Aviv per facilitare l’emigrazione verso la Palestina, e nel-l’apertura di una sezione ebraica nella scuola nautica di Civitavecchia. In definitiva,a differenza del nazismo, che sin dalle origini era essenzialmente razzista, il fasci-smo non era, originariamente, per nulla intrinsecamente razzista.

Il Fascismo diventa razzistaDopo la conquista dell’Etiopia, il Fascismo assumeva connotati “imperiali”, e il

duce cominciava a sentirsi attratto dalle idee dell’ “imbianchino austriaco” che aBerlino stava fondando il “Reich millenario”.

I1 23 ottobre 1936 si compiva il primo passo diavvicinamento con i protocolli Ciano-Ribbentrop(“Asse Roma-Berlino”); con quell’accordo l’Italia siallineava, per la prima volta in maniera esplicita, allapolitica tedesca. Nel settembre 1937 Mussolini (fotoa sinistra) si recava in visita a Berlino, accolto daun’enorme folla acclamante, da manifestazioni e sfi-late che lusingarono adeguatamente la sua vanità, e siconvinse che l’alleanza con Hitler doveva essere tota-le. Quando nel maggio 1938 Adolf Hitler venne a

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Roma per ricambiare la visita del dittatore italiano la svolta razziale dell’Italia fasci-sta era già ben definita. Il 14 luglio Ciano annota nel suo diario: “Il duce mi annun-cia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questionisulla razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi sotto l’egida del Ministero dellaCultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi com-pletamente redatto lui”. In effetti il 15 luglio ilGiornale d’Italia pubblica un “Manifesto del razzismoitaliano”, firmato da dieci titolari di cattedra e assisten-ti; il più noto tra loro risulta essere Nicola Pende (fotoa destra), senatore, direttore dell’istituto di Patologiaspeciale medica dell’Università di Roma. Il Manifesto -un testo programmatico, preludio alle leggi razziali -inizia dichiarando che le razze esistono, per affermareche la popolazione dell’Italia attuale è di origine aria-na e la sua civiltà è ariana, che è tempo che gli italianisi proclamino francamente razzisti, che gli ebrei nonappartengo alla razza italiana. Per concludere: I carat-teri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alteratiin nessun modo.

“Dopo il Manifesto - scrive lo storico della filosofia Eugenio Garin - si capì cheera questione di tempo e di modi”. E infatti il 5 settembre 1938venne emanato un Regio decreto per la difesa della razza nellascuola.5 “Regio” perché l’Italia aveva un re come supremo capodello Stato, ma Vittorio Emanuele non batte ciglio e approva -assieme alle tante altre scelte del Fascismo - tutte le aberrazionirazziali del regime. All’ ufficio di insegnante - recitava l’art. 1 -nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nellescuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale,non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state com-

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5 In realtà, sin dal mese di agosto il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Bottai (foto sopra) aveva dira-mato una serie di circolari dove invitava rettori, provveditori e capi d’Istituto a diffondere la dottrina raz-zista nelle scuole di ogni ordine e grado e a escludere gli ebrei da ogni supplenza o incarico scolastico.L’attenzione dedicata alla scuola come sede privilegiata di una propaganda d’ispirazione razzistica e anti-semita è testimoniata anche da un questionario che completava un manuale di circa 100 pagine pensato perle scuole, come sintesi dell’ideologia fascista. Il questionario (straordinario esempio di mentalità catechi-stica e di ottuso indottrinamento) doveva essere imparato a memoria e ripetuto meccanicamente.

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prese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; né potrannoessere ammesse all’assistentato universitario, né al conseguimento dell’abilitazionealla libera docenza. All’articolo 2 si affermava che: Alle scuole di qualsiasi ordinee grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alun-ni di razza ebraica. Con quel decreto, insomma, che fu la prima delle leggi razzialiche si susseguirono dal ‘38 fino al ‘43, gli ebrei, alunni e insegnanti, furono espulsidalle scuole e dalle università.6 Interessante notare che, relativamente all’esclusionedegli studenti ebrei dalle scuole pubbliche, l’Italia fascista precedette la stessaGermania nazista, la quale solo dopo la sanguinosa “Notte dei cristalli” del 9-10novembre decise di adottare anche per gli studenti un provvedimento di esclusionegeneralizzata.

Il 6 ottobre 1938 si riuniva il Gran Consiglio del Fascismo, che approvava unaCarta della razza. Essa dopo un frettoloso accenno al pericolo di “incroci e imba-stardimenti” si occupava esclusivamente della persecuzione antiebraica e dichiara-va che “le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali pertutti”.

Il Consiglio dei ministri, il successivo 17 novembre, varò il Regio decreto perla difesa della razza italiana: un lungo elenco di ciò che “i cittadini italiani di razzaebraica” possono o non possono fare (non possono, per esempio, “prestar serviziomilitare “, “essere proprietari di terreni che... abbiano un estimo superiore a lirecinquemila “, né “essere proprietari di fabbricati urbani che...abbiano un imponi-bile superiore a lire ventimila”), dei diritti da loro perduti, delle sanzioni previsteper i trasgressori. La difesa della “razza italiana” non poteva non prevedere, ovvia-mente, che “il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appar-tenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto con tale divie-to è nullo” (art. l).

Sulla G. U. del 2 agosto 1939 veniva pubblicato il Regio Decreto-Legge del 29giugno 1939 avente come oggetto la Disciplina dell’esercizio delle professioni daparte dei cittadini di razza ebraica. Costituito da ben 35 articoli, nel primo di essisi affermava: L’esercizio delle professioni di giornalista, medico-chirurgo, farmaci-sta, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercenti ineconomia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geo-metra, perito agrario, perito industriale, è, per i cittadini appartenenti alla razzaebraica, regolato dalle seguenti disposizioni. Il secondo articolo vietava, specifica-

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6 Dal sistema scolastico italiano furono espulsi 96 professori universitari, più di 130 assistenti uni-versitari, 279 presidi e professori di scuola media, oltre 100 maestri elementari, alcune migliaia di stu-denti elementari e medie e alcune centinaia di studenti universitari.

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mente, l’esercizio delle professioni di notaro e di giornalista ai cittadini italiani dirazza ebraica.

Come si è visto, la legislazione persecutoria italiana del 1938-39 colpì esplici-tamente solo i diritti degli ebrei, in particolare quelli all’istruzione e al lavoro, sepa-rando gli ebrei dai non ebrei e stimolando quindi di fatto i primi all’emigrazione. “Ilfine principale - scrive a questo propositoMichele Sarfatti - della persecuzione antie-braica non era quello di mantenere gliebrei nella penisola in condizione di infe-riorità, bensì quello di eliminarli dallapenisola, cioè di farli emigrare.”

Ricollegandoci a quanto si diceva inpremessa, circa la sostanziale estraneitàdell’antisemitismo alla storia dell’Italia edello stesso Mussolini, riportiamo - in con-clusione - il seguente giudizio: «Le leggirazziali del 1938 furono motivo di sgo-mento per gli ebrei e di indignazione per lastragrande maggioranza degli altri italiani.Ne apparve chiara, immediatamente, laestraneità non soltanto alla storia delPaese, ma alla storia stessa del fascismo.Vennero intese come un prodotto di impor-tazione e come il frutto peggiore dell’ade-guamento mussoliniano alla “moda” tede-sca; […] l’idea razzista era stata in Italia,per lungo tempo, il patrimonio di pochi,inascoltati, e per lo più disprezzati profeti,e almeno fino al 1936 Mussolini l’avevarespinta.

Non si vuole affermare, con questo, chemancassero all’antisemitismo radici lonta-ne. Ma era, quello “storico”, un antisemiti-smo di origine religiosa, non razziale.»7

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7 I. Montanelli – M. Cervi, L’Italia dell’Asse, Milano 1981, pp. 233-234

La difesa della razza fu una rivista diretta da TelesioInterlandi che, alla direzione del quotidiano fascistaIl Tevere, si era distinto nelle campagne antisemitedel 1934 e del 1936-37. La rivista vide il suo primonumero il 5 agosto 1938 (in cui venne ripubblicato il“Manifesto del razzismo italiano”) e venne stampa-ta, con cadenza quindicinale, fino al giugno 1943rilanciando l’antisemitismo in termini molto piùespliciti e aggressivi di quanto non fosse mai acca-duto in precedenza.

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Genocidio degli Armeni

Un po’ di storiaStanziato su un territorio comprendente la parte orientale dell’attuale Turchia e

le terre a nord dell’Impero Persiano fino alle cime del Caucaso, il popolo armenoaffonda le proprie radici già nel primo millennio a. C. quando, nel VII secolo, costi-tuì uno stato unitario, anche se la presenza di popolazioni armene è testimoniata dadocumenti storici risalenti al 3000 a. C. All’inizio del IV secolo d. C., poi, la con-versione al cristianesimo fa dell’Armenia il primo stato ad accettare la fede cristia-na come religione ufficiale.

Con il trascorrere degli anni, gli armeni, per via dell’importanza strategica dellaregione anatolica da loro abitata, hanno perso e più volte riconquistato l’indipenden-za, subendo a più riprese invasioni e dominazioni straniere. La dominazione piùlunga fu quella dei Turchi, penetrati nell’area circa nove secoli fa, che instauraronoun regime di pulizia etnica ante litteram con soprusi, conversioni forzate all’Islam ericorrenti massacri. Le persecuzioni aumentarono in intensità e ferocia alla fine

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dell’Ottocento, sotto il regno (1876-1909) del sulta-no Abdul Hamid II (foto a destra): alle richiestedegli armeni di autonomia o, comunque, di riformevolte a tutelare le loro vite e i loro beni, venne rispo-sto con massacri di massa, nel corso dei quali, dal1895 al 1897, furono trucidate 300.000 persone(foto sotto). La repressione turca provocò reazioni indifesa degli armeni da parte di numerosi stati euro-pei, che chiesero al governo turco riforme atte atutelarli, ma che, nel concreto, non riuscirono amutare il corso delle vicende.

Parallelamente al declino dell’ImperoOttomano, sul finire del XIX secolo, una speranzaper l’indipendenza armena, presto disillusa, nacque quando prese sempre più forza

un movimento progressista nazionalistaturco, i cui membri erano detti in Europa“Giovani Turchi”, i quali – dopo averrovesciato con l’appoggio degli stessiarmeni1 e costretto all’esilio il sultanoAbdul Hamid - si impadronirono delpotere nel 1909 con il partito denominato“Ittihad ve Terakki Jemiyeti” (ComitatoUnione e Progresso) e lo esercitaronoper dieci anni, anche se, formalmente, acapo dell’Impero ottomano era il sultanoMaometto V (1909-18), fratello di AbdulHamid. Essi sembravano intenzionati ini-

zialmente ad abbattere il sistema imperiale e avviare un processo di trasformazionedel regime turco in senso parlamentare e costituzionale, per poi creare una federa-zione di tutti i popoli precedentemente inclusi nell’Impero. Tuttavia, nel giro di

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1 Nel 1907 a Parigi era stata stipulata un’alleanza tra armeni e Giovani Turchi con il progetto diriorganizzare l’Impero in modo che tutte le nazionalità potessero vivere pacificamente insieme; allean-za che nel luglio 1908 portò alla rivolta contro il sultano, costretto a concedere la Costituzione e libe-re elezioni. Quando, l’anno seguente, Abdul Hamid tentò di abrogare la Costituzione e di sciogliere ilParlamento, le truppe guidate da Mustafà Kemal, leader dei Giovani Turchi, bloccarono l’iniziativareazionaria liquidando definitivamente l’autocratico sultano.

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pochi anni, e soprattutto dopo il 1913, molti deiGiovani Turchi abbracciarono un’ideologia radical-mente nazionalista, il “turchismo”, la quale, tra l’al-tro, si poneva come obiettivo la trasformazione del-l’eterogeneo Impero ottomano in uno Stato-nazioneomogeneo che ricalcasse il modello occidentaleeuropeo. In definitiva, l’ideologia “panturchista”,che ispirava l’azione di governo dei Giovani turchiper riformare lo stato su base nazionalista, e quindisulla purezza razziale (omogeneità etnica e religio-sa), li portò a considerare l’elemento armeno comeun “pericolo interno” da combattere ed annientare.

A proposito delle motivazioni che stanno dietroal genocidio degli armeni, va detto che esse furono,

sostanzialmente, di tipo politico e religioso insieme, e non di tipo ideologico e raz-zista, quale fu, per esempio, il processo di distruzione degli ebrei d’Europa condot-to dai nazisti. L’obiettivo degli ottomani - inteso a fondare un vasto impero turcoislamico, ricongiungendo le popolazioni turche dell’Anatolia alle popolazioni turchedell’Asia centrale (Kazaki, Uzbeki) - era la cancellazione della comunità armena, direligione cristiana, come soggetto storico, culturale e soprattutto politico, non lacancellazione del popolo armeno in quanto entità biologica.

Il genocidioL’occasione per realizzare il progetto di sterminio si presentò con lo scoppio del

primo conflitto mondiale, quando le potenze europee, impegnate nella guerra, nonavrebbero potuto interferire. Nell’ottobre 1914 il governo turco decise di entrare inguerra a fianco degli Imperi centrali. Seguendo le direttive dell’alleato germanico,l’esercito turco concentrò le sue forze nella lotta contro i Russi sul fronte caucasico.Ma quella campagna militare si risolse per i Turchi in una dura sconfitta: la TerzaArmata turca, impreparata, male equipaggiata, mandata allo sbaraglio in condizioniclimatiche ostili, venne pesantemente sconfitta nel gennaio del 1915 dalle forzesovietiche. I Turchi imputarono la sconfitta subìta all’intera comunità armena (circa2 milioni) che abitava nella regione dove avvenivano gli scontri più violenti di quel-la campagna militare. In realtà, gli armeni, pur senza sottrarsi agli obblighi cui eranosoggetti in quanto sudditi dell’impero ottomano, non contribuirono alla guerra conparticolare impegno e anzi fra di loro si manifestò anche qualche tentativo di sottrar-si al servizio militare. Benché si trattasse di sporadici atti di diserzione, il clima sifece sempre più teso e il Comitato centrale del partito Unione e Progresso decise lasoppressione dell’intero popolo armeno. Il primo passo verso lo sterminio prevede-

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Maometto V, sultano dell’ImperoOttomano

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va la chiamata alle armi per tutti gli armeni maschi validi, che, riuniti per formarespeciali battaglioni, detti tchété, con l’inganno vennero disarmati ed eliminati dinascosto nel marzo del 1915. Poco più tardi l’attenzione fu rivolta alle personalitàpiù in vista: la mattina del 24 aprile, nella città di Costantinopoli, allora capitaledell’Impero ottomano, vennero arrestati 650 notabili armeni; per loro (intellettuali,

sacerdoti, professionisti e dirigenti politici) venneordinato l’immediato arresto, cui seguì una barbaratrucidazione2. Il piano turco, pensato e diretto dalministro dell’Interno Mehmed Talaat - noto comeTalat Pascià (foto a sinistra) - in stretta collaborazio-ne con il ministro della Guerra Ismail Enver (fotosotto), proseguì poi con la già decretata deportazio-ne nei deserti della Siria e della Mesopotamia didonne, vecchi e bambini, ormai uniche forme di vitaumana rimaste nelle città armene: adducendo comepretesto la prossimità alla zona di guerra, il governoturco costrinse tutti i cittadini ad abbandonare leloro abitazioni per trasferirsi - così veniva detto - in

“regioni più sicure”. In realtà la deportazione coinvolse anche le comunità armeneresidenti a centinaia di chilometri dall’area bellica, segnoevidente che l’allontanamento dalle zone di guerra era soloun pretesto per lo sterminio. In questo frangente molti uffi-ciali e sottoufficiali armeni, scampati ai massacri prece-denti, tentarono di organizzare sui monti la resistenza.

Da elogiare è l’impresa degli armeni della città di Vanche, nell’aprile del 1915, riuscirono a disarmare la localeguarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano, doveresistettero alla controffensiva ottomana e turca fino all’ar-rivo, provvidenziale, di una divisione di cavalleria russa,che nel mese di maggio liberò dall’assedio quei disperati.Altri tentativi di resistenza (purtroppo!) non ebbero lamedesima fortuna, in quanto le improvvisate milizie arme-ne dovettero soccombere alle soverchianti forze ottomane, che procedettero con ladeportazione. Lungo la strada le carovane dei deportati, come del resto era possibi-le immaginare, subirono sistematicamente l’assalto di bande di malfattori turchi,

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2 Il 24 aprile è la data in cui gli armeni di tutto il mondo ricordano il genocidio del loro popoloda parte degli Ottomani. Lo chiamano “Metz Yegern”, cioè il Grande Male.

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fatti uscire appositamente dal carcere per costituire la Teshkilati Mahsusa(Organizzazione Speciale), il cui compito era uccidere gli armeni. Nel corso dellechilometriche traversate i prigionieri, lasciati senza cibo, acqua e scorta, morirono amigliaia; per i pochi sopravvissuti la sorte non fu migliore: perirono di stenti neldeserto, bruciati vivi, rinchiusi in caverne, o annegati nel fiume Eufrate e nel MarNero. Riusciranno a sottrarsi a queste atrocità soltanto gli armeni residenti aCostantinopoli (l’attuale Istanbul) e Smirne, poiché troppo vicini alle sedi diploma-tiche straniere, e gli abitanti di alcune province in prossimità del confine con laRussia, che si misero al riparo trovando protezione nell’esercito nemico o fuggendooltre la frontiera.

I mezzi usati per compiere lo sterminio rivelarono un’ inaudita ferocia e un sadi-co accanimento contro le vittime, ma ciò che più di ogni altra cosa riesce ad impres-sionare è il consuntivo numerico di questa prima parte del piano criminale turco: dueterzi della popolazione armena furono soppressi. Ancora più sconvolgente, poi, è ilfatto che tutto questo è avvenuto sotto gli occhi delle grandi potenze europee, chenon riuscirono a prendere alcuna iniziativa in difesa delle popolazioni angariate – unflebile segnale si ebbe solo con l’intervento del Vaticano, tramite il papa BenedettoXV, che purtroppo, però, non produsse alcun effetto, anche in funzione del fatto chei turchi avevano ormai proclamato la guerra santa. Successivamente, approfittando

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Nella foto Mustafà Kemal insieme ad altri Turchi

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degli sconvolgimenti in corso in Russia a causa della rivoluzione, gli armeni sotto ilcontrollo dell’impero zarista si ribellarono e, il 28 maggio del 1918, dichiararono lapropria indipendenza, proclamando la nascita dellaRepubblica Armena. Tuttavia la caduta del regimedei “Giovani Turchi” alla fine della Grande Guerrae la seguente ascesa alla guida del paese di MustafàKemal (nella foto), in seguito ribattezzato Ataturk(“padre dei Turchi”), non cambiò la situazione: tra il1920 ed il 1922, con il Massacro di Smirne e l’attac-co alla Cilicia armena, il nuovo governo portò atotale compimento il genocidio, decimando letteral-mente la popolazione rimasta. Nel 1927 il primocensimento dopo questi ultimi crimini indicò che lapopolazione armena ammontava a sole 123. 602persone.

Le ammissioni di colpevolezzaAl termine di tutte le atrocità, il nuovo governo, sollecitato dalle potenze euro-

pee vincitrici, istituì una corte marziale per giudicare i responsabili dello sterminio.Venne giustiziato un prefetto, ma molti fra i colpevoli, con il compiacente sostegnodelle autorità turche, riuscirono a fuggire o comunque a vivere indisturbati, segnoevidente che reale scopo dei processi intentati ai responsabili del genocidio non eraquello di rendere giustizia al martoriato popolo armeno, ma di addossare le colpedell’accaduto sulle spalle dei Giovani Turchi discolpando, al tempo stesso, la nazio-ne turca in quanto tale. Poco dopo, senza aver terminato i propri lavori, anche lacorte marziale venne sciolta. Conclusa la fase processuale, lo stato turco smise diperseguire i responsabili, incamerò tutti i beni mobili e immobili degli armeni ucci-si e lasciò cadere nel silenzio quanto avvenuto, negandone persino l’esistenza.Alcuni fra i principali organizzatori del genocidio morirono in seguito per mano di“giustizieri” armeni. Il genocidio, però, resta sostanzialmente impunito.

A differenza dell’Olocausto ebraico, riconosciuto e condannato da parte tedesca,quello armeno non è stato mai né riconosciuto né tanto meno condannato da partedell’attuale governo turco. Il governo di Ankara continua a sostenere, come i suoipredecessori, che non è mai esistito un genocidio, anche se riconosce che gli arme-ni vennero trasferiti verso la Siria dalle regioni orientali al confine con la Russia, masostiene che i morti furono vittime di conflitti civili.

Ancora oggi gli stessi storici turchi non ammettono la verità del genocidio, inquanto sostengono non esistono documenti ufficiali che lo comprovino. Nonostantela negazione della Turchia e le sue reticenze, lo sterminio armeno è un dato incon-

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testabile, ampiamente documentato oltre che dalle narrazioni dei superstiti, anche daparte di testimoni stranieri e imparziali, quali l’americano Henry Morgenthau, allo-ra ambasciatore degli Usa a Istanbul, e altri diplomatici statunitensi, il pastore evan-gelico tedesco Lepsius, l’ inglese A. Toynbee (giovane storico che, già nel 1916,denunciò “lo sterminio sistematico e crudele di un intero popolo”), lo scrittore efilantropo tedesco Armin Wegner (testimone oculare del genocidio, del quale lasciòampia documentazione fotografica), il francese Henri Barby, e, non ultimo, il con-sole d’Italia a Trebisonda, Gorrini, per citare alcuni dei più noti. Negli archivi ame-ricani, inglesi, francesi, tedeschi e austriaci è conservata una ricca documentazioneal riguardo. Inoltre vi sono i documenti di diretta provenienza turca, prodotti dallacorte marziale convocata per giudicare i responsabili del genocidio.

Recentemente vi è stata la pubblicazione (gennaio 2009) di un libro, Le carterestanti di Talaat pascià, in cui ledimensioni del genocidio armeno ven-gono quantificate sulla base di datiprovenienti da fonti ottomane. Il libroin questione è stato scritto da MuratBardakci (nella foto), un giornalistache ha potuto leggere i documenticustoditi dalla vedova di MehmedTalaat, dai quali risulta che la popola-zione armena dell’impero turcoammontava, prima del 1915, a1.256.000 persone ed era scesa, due

anni dopo, a 284.157. Il numero di armeni scomparsi, quindi, ammonterebbe a pocomeno di un milione, di cui molti uccisi, altri fortunosamente emigrati.

Se un’appropriata definizione di “genocidio” richiede che il piano di sterminio diun popolo deve essere progettato e gestito dalle autorità statali, non vi è dubbio - siaper le tante testimonianze convergenti che per la consistente ed inequivocabile docu-mentazione - che quello condotto contro il popolo armeno presenta tale requisito, inquanto organizzato e coordinato dal governo turco di allora, il governo dei “Giovaniturchi”.

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Usa e questione armenaFino a poco tempo fa il riconoscimento del genocidio da parte della comunità inter-

nazionale sembrava ben lontano dall’essere una realtà e i timidi tentativi - quali quellodell’Assemblea nazionale francese3 - di dare dignità storica ai fatti avvenuti in queglianni erano stati tutti insabbiati dalle inconsulte reazioni turche e dal vergognoso silen-zio-assenso delle grandi potenze, prima fra tutte gli Usa che hanno sempre privilegiatola logica e le esigenze della realpolitik dando maggiore importanza ai legami politico-militari con la Turchia (essenziale partner nella Nato) e rifiutando di concedere alla stra-ge degli armeni lo status di “genocidio”, proprio per non urtare la loro strategica allea-ta. Nel gennaio 2007 (poco dopo il varo della legge da parte dell’Assemblea nazionalefrancese), un Comitato della Camera dei rappresentanti degli Usa presentò (dopo aver-la lungamente discussa e, infine, approvata) una “risoluzione sul genocidio armeno”,che però non arrivò all’aula del Congresso perché bloccata sia dalla Casa Bianca chedal Dipartimento di Stato, oltre che dalle pressioni del governo turco. La risoluzioneinvitava il presidente a garantire che la politica estera degli Usa riflettesse “una appro-priata comprensione e sensibilità per le questioni concernenti i diritti umani, la puliziaetnica e il genocidio documentate negli archivi americani”, con particolare riferimentoal “genocidio armeno”. Non se ne fece nulla anche perché le resistenze verso l’appro-vazione di quella risoluzione hanno potuto contare sull’appoggio dell’AmministrazioneBush, di numerosi esponenti della vita politica americana e dell’ex presidente democra-tico Jimmy Carter.

Ultimamente molte speranzesono state riposte in BarackObama, il quale nel corso dellacampagna elettorale aveva condan-nato il massacro degli armeni senzamezzi termini “non è un’accusa, unpunto di vista o un’opinione –aveva scritto sul suo blog – ma unfatto documentato da una granmole di prove storiche”. Eletto pre-sidente, però, la questione armenaha assunto, per Obama, una prospettiva diversa. Indubbiamente, come ebbe a direMario Cuomo (governatore dello Stato di New York dal 1983 al 1995), “si fa cam-pagna elettorale con la poesia e si governa con la prosa”. E così Obama (nella fotosopra con il presidente turco Adullah Gul), in occasione della visita in Turchia agli

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3 Tale Assemblea, nell’ottobre del 2006, votò una legge che punisce la negazione del genocidioarmeno.

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inizi dello scorso aprile, ha evitato di pronunciare la parola “genocidio” continuan-do ad usare il termine diaspora, preferito dai Turchi, ed ha aggiunto: “Le mie opinio-ni sono di pubblico dominio, non vi ho rinunciato, ma non voglio interferire in alcunmodo con i negoziati tra Turchia e Ankara, che potrebbero dare risultati molto pre-

sto”. Egli sa bene che l’aiuto diAnkara è essenziale su tutti i princi-pali nodi strategici del MedioOriente, dall’Afghanistan all’Irak,specialmente dopo la chiusura dialcune basi americane nell’Asia cen-trale ex sovietica. Gli Usa hannoassolutamente bisogno di usare il ter-ritorio turco per le linee di riforni-mento alle truppe in Afghanistan, tut-tavia Obama ha addotto come scusaufficiale i progressi in atto verso la

normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Turchia. E, difatti, nello scorso ottobre,(diremmo “per fortuna del presidente americano”), il presidente turco Abdullah Gule il capo di stato armeno Serge Sarkisian (foto sopra) hanno firmato a Zurigo (pre-senti, fra gli altri, il Segretario di Stato Usa, Hilary Clinton, e l’alto rappresentanteper la politica estera dell’Unione europea, Javier Solana) uno storico accordo di nor-malizzazione di rapporti tra i due paesi. L’ accordo, che prevede la ripresa delle rela-zioni diplomatiche e prelude all’apertura del confine turco-armeno, per entrare invigore abbisogna, però, della ratifica da parte dei due parlamenti.

ConclusioniIl riconoscimento del genocidio armeno e la sua condanna non costituiscono un

problema storico riguardante gli armeni soltanto, ma rivestono un carattere politicoed etico molto più generale, che coinvolge diverse altre nazioni. Ieri vittime degliobiettivi territoriali turchi sono stati gli armeni e i greci, oggi sono i curdi. La nega-zione del genocidio armeno, inoltre, costituisce tuttora un pericoloso precedente,che, nel recente passato, è servito da alibi a Hitler nell’organizzare l’Olocausto e, inseguito, agli storici revisionisti per negare l’Olocausto stesso. E’ evidente che, fin-ché il genocidio armeno non verrà ufficialmente condannato, esso costituirà unesempio negativo. Non per nulla, oggi, il Parlamento Europeo ha posto il riconosci-mento del genocidio armeno da parte dello Stato turco quale precondizione perl’adesione della Turchia alla Comunità Europea.

Riconoscere il genocidio armeno non deve essere considerato un atto di ostilitàverso la Turchia, al contrario è un atto carico di valenze positive per il futuro dello

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stato turco nella comunità delle nazioni: è stato proprio in seguito al riconoscimen-to dello sterminio da parte dei parlamenti di vari paesi che in Turchia è iniziato unmovimento di condanna del genocidio da parte di un gruppo sempre più numerosodi intellettuali. Questi ultimi vanno quindi incoraggiati, anche attraverso un atto uffi-ciale di ammissione del crimine commesso da parte del loro governo, affinché spin-gano la Turchia a riconoscersi sempre di più nei valori fondamentali sui quali è basa-ta la Comunità Europea. Il riconoscimento del genocidio può essere uno stimolo eun aiuto per la popolazione e la classe dirigente in Turchia, in quanto sollecita ilpaese a liberarsi di un’eredità pesante e negativa del passato, che potrebbe costitui-re un ostacolo al pieno sviluppo della democrazia e delle libertà civili.

La stessa Armenia, occorre dire, da tempo chiede alla Turchia il riconoscimentodi quel massacro di massa più che una chiara ammissione di responsabilità. Sarebbeun modo per chiudere un capitolo doloroso, che riguarda la storia del paese e noncerto la Turchia di oggi. Dopo tutto, solo le nazioni che sanno affrontare la loro sto-ria riescono a trascenderla e a costruire un presente migliore.

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Due dei cartelloni prodotti nel 2005 dagli alunni del Liceo Classico in occasione della Giornata dellaMemoria.

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Genocidio in Ruanda

Posizione geografica del Ruanda

Il Ruanda (in francese Rwanda) è uno Stato (26.338 km²; 7.954.013 ab.; capita-le Kigali) dell’Africa Orientale, che confina a ovest con la RepubblicaDemocratica del Congo, a nord con l’Uganda, a est con la Tanzania e a sud conil Burundi. Il Ruanda non ha sbocchi sul mare.

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Ruanda: un rapido sguardo alla sua storiaSin dai tempi remoti, il Ruanda fu abitato dai Twa, un’etnia di nomadi che vive-

vano di caccia e raccolta. Successivamente, nel primo millennio d.C., migrò in que-sto territorio una popolazione bantu coltivatrice: i Bahutu (o Hutu). Tra il XIV e ilXV secolo arrivarono anche i Watutsi (o Tutsi), provenienti dal nord dell’altopianoetiopico. I Watutsi, per lo più pastori, erano più alti, avevano la faccia affilata, la loropelle dava nel bruno più che nel nero. Giunti in quella terra presero il potere, impa-rarono la lingua dei Bahutu e si servirono di questi ultimi come servi. Per i secolisuccessivi la storia interna del Ruanda fu una storia di re e principi Watutsi che sifacevano la guerra tra loro.

Nel 1884 la Conferenza di Berlino assegnò il Ruanda (assieme al vicino Burundi)alla Germania. I tedeschi si servirono dei Watutsi, pur costituendo la minoranza delPaese, per amministrare e così il loro potere crebbe. Diventato parte dell’AfricaOrientale Tedesca, il Ruanda sviluppò l’economia grazie al potenziamento delle viedi comunicazione voluto dalla Germania, che governò fino al 1916, quando ilRuanda fu conquistato dal Belgio.4 Nel 1919 con il Trattato di Versailles l’ex colo-nia tedesca del Ruanda-Urundi divenne un protettorato delle Nazioni Unite sottol’amministrazione del Belgio. Questo, come già la Germania, favorì la minoranzadei Tutsi (14%) sulla maggioranza Hutu, consentendo ai primi di godere di privile-gi, di educazione di tipo occidentale e riservando a loro, soprattutto, gli incarichi digoverno. Nel 1926 i Belgi introdussero un sistema di “carte d’identità etniche” chedifferenziava gli Hutu dai Tutsi, dei quali si servirono per consolidare il loro domi-nio. Con l’instaurazione di un rigido sistema coloniale di separazione razziale esfruttamento e la concessione ai Tutsi della supremazia sugli Hutu, i Belgi alimen-tarono un profondo risentimento tra la maggioranza Hutu.2

Nel 1957, mentre il Ruanda è ancora sotto il dominio belga, nasce il Parmehutu,Partito per l’emancipazione degli Hutu. Questi, nel 1959, si ribellarono al poterecoloniale del Belgio e all’oligarchia dei Tutsi: 150 mila Tutsi fuggirono in Burundi.

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4 Ricordiamo che allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il Belgio, neutrale, fu invaso dai tede-schi. In seguito a ciò i Belgi del Congo (regione “regalata” a titolo personale al re dei Belgi LeopoldoII dalle potenze europee nella Conferenza di Berlino; dal 1908 colonia di stato, con il nome di CongoBelga; indipendente dal 1960) fecero la loro guerra ai tedeschi invadendo il Ruanda (e il Burundi), for-malmente governati da due diversi re Tutsi.

2 Non si è lontani dal vero se si dice che l’odio tra le due componenti etniche della popolazione ruan-dese fu, almeno in parte, responsabilità del domino belga, che - come abbiamo accennato - favorì i Tutsi(alti e dai tratti europei) a danno degli Hutu, maggioritari ma dai tratti tipicamente neri. Tutsi e Hutu, infat-ti, da secoli parlavano la stessa lingua, praticavano la stessa religione e, prima dell’arrivo degli Europei,si riconoscevano nella stessa monarchia.

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Nel 1960 gli Hutu vinsero le elezioni organizzate dalgoverno coloniale belga; la situazione si capovolse equando, nel 1962, il Ruanda ottenne l’indipendenzadivenendo uno stato sovrano, o meglio una repubbli-ca, gli Hutu insediarono al governo un nuovo presi-dente, Gregoir Kayibanda (foto in destra), che isti-tuzionalizzò la discriminazione contro i Tutsi, impe-dendo loro l’accesso al potere, sottoponendoli aripetuti massacri e costringendo, pertanto, i supersti-ti a rifugiarsi nei paesi vicini, soprattutto inBurundi,3 dove i Tutsi erano al potere. Nel dicembredel 1963 i Tutsi, che si erano rifugiati in Burundi,tornarono in Ruanda per riprendere il potere, ancheper mezzo di stragi, ma non riuscirono nel loro intento.

Nel 1972 il governo del Burundi sterminò migliaia di Hutu, in seguito ad unarivolta e agli scontri violenti scoppiati tra Tusti e Hutu. L’anno successivo in Ruanda

(dove molto forti erano le tensioni trale due etnie) il generale HutuJuwanal Habyarimana (foto a sini-stra), quando era ministro della dife-sa, depose con un colpo di stato l’al-lora presidente Grégoire Kayibandae assunse la carica di presidente delpaese (5 luglio ’73) e diede inizio adun partito unico che peggiorò la situa-zione tra le etnie, anche a causa del-l’ulteriore restrizione dei poteri Tutsie del rafforzamento del potere esecu-

tivo, mediante una nuova Costituzione approvata il 17 dicembre 1978, che introdu-ceva il regime presidenziale. Habyarimana, riconfermato presidente nel 1983 e nel1988, ottenne un miglioramento della situazione economica e l’autosufficienza ali-mentare.

La situazione precipitò, però, nel 1990 quando le truppe del Fronte patriotticoruandese (Fpr), un movimento di ribellione costituito nel 1988 da guerriglieri Tutsie Hutu moderati, rifugiati in Uganda, invasero il Ruanda per abbattere la dittatura

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3 A seguito della proclamazione (1 luglio 1962) dell’indipendenza, l’ex colonia del Ruanda-Urundisi scisse in due nazioni separate: Ruanda e Burundi.

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Hutu di Habyarimana e riprendere, così, il potere. Il tentativo fallì grazie all’aiutomilitare francese e belga. Intanto, le aperture del presidente verso il pluralismo furo-no ostacolate dalla guerriglia Tutsi e dagli estremisti Hutu. Tuttavia le due parti con-tendenti, con la mediazione delle Nazioni Unite, vennero a patti e, nel 1993, sotto-scrissero gli Accordi di Arusha (Tanzania), secondo i quali avrebbero dovuto avvia-re il paese alle elezioni sulla base di un’equa spartizione del potere tra Tutsi ed Hutu.In questo clima di difficile ricomposizione nazionale, il 6 Aprile del 1994 l’aereo diHabyarimna venne fatto esplodere (colpito da due missili) mentre atterrava nellacapitale ruandese, Kigali. Gli Hutu incolparono naturalmente i Tutsi, che a loro voltaincolparono gli estremisti Hutu.4 Nel Ruanda iniziava l’orrore. La pace di Arusha del’93 segnò, paradossalmente, l’inizio del massacro in Ruanda.

I cento giorni di sangueMezz’ora dopo la notizia dell’attentato al presidente hutu, la radio ( Radio Mille

Colline) lanciava agli hutu la parola d’ordine “Uccidete i tutsi come scarafaggi” e liinvitava a non lasciarne vivo nessuno, nemmeno i bambini, che una volta cresciutiavrebbero potuto vendicarsi. Il 7 aprile a Kigali e nelle zone controllate dal FAR(Forze Armate Ruandesi), con il pretesto della vendetta, iniziarono i massacri e leuccisioni della popolazione tutsi.

Si pensa che autore del progetto di genocidio sia stato l’Akazu, la “casetta”, ovve-ro il clan familiare del presidente Habyarimana. Questa, non accettando limitazionidi potere, cominciò ad organizzarsi: vennero creati (1992) e armati gli interahamwe,milizie estremiste hutu irregolari, alle quali si promettevano denaro, case e potere incambio dei massacri; vennero acquistati dalla Cina attraverso la ditta Chillington diKigali, i machete; vennero redatte liste di esponenti tutsi da uccidere.

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4 Ancora oggi non si conoscono i veri responsabili di quel misterioso attentato aereo (di cui, allo-ra, si accusavano reciprocamente i servizi segreti belgi e francesi) che provocò la morte del presiden-te Habyarimana, insieme al presidente del Burundi. Alcuni lo attribuirono alle frange estremiste delpartito presidenziale, le quali non accettavano le condizioni dell’accordo di Arusha, che concedeva unruolo politico e militare al Fronte patriottico ruandese. Una seconda ipotesi – sostenuta dagli hutu –ritiene che sia stato proprio l’Fpr a compiere l’attentato, convinto che i patti non sarebbero stati rispet-tati. Dell’organizzazione di quell’attentato, successivamente, è stata incriminata la moglie del presiden-te, Agathe Kanziga, che proprio quel giorno, contrariamente alle sue abitudini, decise di prendere unmezzo alternativo all’aereo, forse perché conosceva quale sorte sarebbe toccata al marito.

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Gli ultras dell’Hutu Power, con a capo il colonnello Theoneste Bagosora (nellafoto), cominciarono a diffondere una lista di 1500 persone da uccidere per prime. Entròin azione la milizia civile anti-tutsi, nata nel 1992, degli interahamwe , “quelli che lavo-

rano insieme” che istituirono delle barrie-re stradali: al controllo dei documenti lepersone che avevano sulla carta di identi-tà l’appartenenza all’etnia tutsi venneromassacrate a colpi di machete. Si cerca-vano, soprat-tutto, gli intellettuali e ipolitici di spicco. Tutti gli hutu furonochiamati al genocidio: chi non parteci-pava al “lavoro” era considerato unnemico e quindi andava eliminato. Laradio coordinava le operazioni, davanotizie ed esultava per le azioni più spet-tacolari, ma anche invitava i tutsi a pre-sentarsi alle barriere per essere uccisi.Molti adulti si sacrificavano, nel tentati-vo di proteggere e salvare i bambini. Per

cancellare i tutsi dal Ruanda i miliziani interahamwe, uccidevano coi machete, le asce,le lance, le mazze chiodate (le pallottole erano riservate a chi aveva i soldi e pagavaper morire senza soffrire).

Per i tutsi non esistevano luoghi sicuri: furono massacrati anche nelle vicinanzeo all’interno dei luoghi di culto, incluse le chiese cattoliche, nonostante i cristianicostituissero circa l’80% della popolazione. Moltissime furono le donne stuprate traaprile e luglio del 1994, molte delle quali rimasero infettate e incinte. Oggi questibambini hanno circa quattordici anni e sono indicati con il nome collettivo di “figlidel ricordo”. Sono i figli del genocidio, sono il frutto delle migliaia di stupri, per lopiù collettivi, di cui circa trecentomila donne furono vittime. La peggiore strage fuquella di Gikongoro durante la quale furono uccise 27.000 persone utilizzando comearmi il solito machete e bastoni chiodati.

Quella del Ruanda fu una vera mattanza, per vedere la quale in quegli abomine-voli giorni di aprile del ’94 bastava andare sulle rive del fiume Kagera, lungo il cuicorso d’acqua fiacco e limaccioso i cadaveri venivano giù fiaccamente. Alcuni sigonfiavano oscenamente negli acquitrini prima di riprendere la loro corsa a valle,verso il fiume Nilo. Con i miliziani hutu che, ghignando, dicevano:”Così questi tutsimaledetti tornano alla terra da dove sono venuti e non avrebbero mai dovuto parti-re”. Quando qualcuno di quei cadaveri restava a riva, chi poteva vederli restavaimpietrito davanti alle loro piaghe, al modo selvaggio con cui erano stati uccisi. Nel

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Ruanda - come in ogni genocidio - essere assassini non bastava. Bisognava strazia-re e seviziare. Quello che impressiona è il fatto che un tale massacro fu compiutonon da professionisti del delitto o soldati in preda al panico o ad un odio bestiale,ma da gente comune che - come bravioperai del Male - ha ucciso, scuoiato,martirizzato al di là dell’immaginazionei vicini di casa, i compagni di lavoro odi studio, per coprire di croci, a fineopera, gli elenchi ricevuti.

Il 4 luglio ‘94 Paul Kagame (nellafoto a destra), a capo dell’esercito del Fpr,espressione dell’etnia tutsi, entrava aKigali e rovesciava il governo hutu; il 6luglio la guerra veniva dichiarata ufficial-mente finita. Alla fine dei “100 giorni disangue” furono uccisi da uomini dellaGuardia presidenziale, da miliziani delpartito unico e da giovani hutu, circa 800mila ruandesi. Tra le vittime, quasi tutti civili della minoranza tutsi, ve ne furono - varicordato - anche dell’altra etnia: hutu uccisi perché appartenenti all’opposizione demo-cratica al presidente o perché si rifiutarono di collaborare con i carnefici. Inoltre, quandoa Kigali arrivarono i liberatori del generale Kagame, i tutsi non mancarono l’impegno didiventare a loro volta carnefici: circa 200 mila hutu furono massacrati nelle foreste delloZaire, dove erano fuggiti per il timore di una vendetta tutsi.

L’indifferenza del mondoLa tragedia del Ruanda, costituisce l’ennesimo clamoroso esempio dell’incapacità di

agire da parte delle forze internazionali. Essa, infatti, come quella consumatasi - su scalaminore - nell’ex Jugoslavia è avvenuta nel comple-to silenzio della comunità internazionale.Nonostante la presenza di un contingente dell’Onu,il cui comandante, il generale canadese RomeoDallaire (nella foto a destra), aveva denunciato ilrischio dell’imminente genocidio e chiedeva a granvoce l’invio di rinforzi per intervenire, e le repres-sioni di molte organizzazioni umanitarie, il consi-glio di sicurezza rifiutò di riconoscere che fosse incorso un genocidio, perché in quel caso l’interven-to militare internazionale sarebbe stato inevitabile.

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Alcuni paesi, tra cui soprattutto il Belgio e la Francia, mandarono dei contingen-ti solo per salvare i propri cittadini e quest’ultima fiancheggiò addirittura le milizie

hutu in ritirata dopo l’arrivo del Fpr. Il 22 giugno ’94,infatti, i francesi intervennero con un’azione militareumanitaria, l’operazione “Turquoise”, successivamentericonosciuta dall’Onu: l’intervento venne però utilizzatodai genocidari per proteggere la propria fuga dal paese.Solo a inizi estate, quando ormai si parlava di 500 milaruandesi uccisi, la portavoce del governo americano rico-nobbe l’esistenza di “Atti di genocidio”, ma non di ungenocidio in corso: i massacri continuarono così sotto gliocchi del mondo, inorridito ma incapace di intervenireper porvi fine. Anni dopo, sia il segretario dell’Onu, KofiAnnan ( nella foto ), sia il presidente americano Clinton

chiesero pubblicamente scusa per il loro immobilismo, ma ormai centinaia dimigliaia di ruandesi, forse un milione, erano stati trucidati.

Il Tribunale penale internazionale per il RuandaPer giudicare i responsabili del genocidio ruandese, talvolta protetti dagli stati

occidentali che approfittavano della mancanza di rapporti di estradizione con ilRuanda, l’8 novembre del 1994 fu creato, con risoluzione 955 del Consiglio di sicu-rezza delle Nazioni Unite, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR)5

con sede ad Arusha, nel nord della Tanzania.Il Tribunale di Arusha, nato come struttura gemella ( il “gemello povero”) della

Corte dell’Aja per la ex Jugoslavia (con cui per anni ha diviso lo stesso procura-tore Carla Del Ponte e gli stessi giudici d’appello) non ha avuto un decollo facile.Nei primi dieci anni di vita la Corte aveva arrestato poco più di cinquanta tra exministri militari, giornalisti, religiosi, ed emesso solo dodici verdetti. Lentezza,eccesso di garantismo, corruzione, burocrazia, molti ricercati che circolavano libe-ramente in Congo, in Kenya, in Gabon, in Francia o in Belgio hanno fatto esprime-re ad alcuni osservatori, un bilancio deludente per la giustizia internazionale, fino afar dire: “Arusha, il sogno della Giustizia”. Dagli uffici di Arusha c’è chi ha contro-battuto a tali critiche evidenziando che “operare in un Paese in via di sviluppo nonci ha certo aiutato; superate le inefficienze dei primi anni, niente da invidiareall’Aja nonostante gli staff più bassi”. In quanto all’accusa di eccesso di garantismo,si è replicato sostenendo che “non siamo qui solamente per condannare; la Corte

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5 Dall’inglese International Criminal Tribunal for Rwanda, più comunemente noto come Tribunaledi Arusha.

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può anche emettere assoluzioni”. Ciò premesso, ripercorriamo rapidamente, quellache è stata, sino ad oggi, l’attività del Tribunale Onu per il Ruanda6.

I primi processi per stabilire i responsabili del genocidio furono avviati nel 1997,ma dovettero subire rinvii a causa della mancanza di giudici. Nel frattempo 100 milapersone in attesa di giudizio affollavano le carceri. Un primo processo si conclusenel 1998, con la condanna a morte di 22 persone considerate colpevoli di genocidio.Nel settembre di quell’anno il Tribunale ha condannato all’er-gastolo l’ex premier Jean Kambanda (foto a destra).Direttore dell’Unione delle Banche Popolari di Ruanda dalmaggio 1989 all’aprile ’94, Kambanda era stato vice presi-dente del Movimento Democratico Repubblicano e, soprattut-to, primo ministro “ad interim” dal 9 aprile 1994: un “pescegrosso” che ha riconosciuto le sue colpe. Infatti, arrestato aNairobi il 18 luglio 1997, con l’accusa di partecipazionediretta al genocidio, in quanto non intervenne per fermare ilmassacro, egli confessò di distribuire armi e munizioni alleprefetture di Butare e Gitarma, conoscendo per cosa sarebbe-ro state usate. La sua condanna all’ergastolo “per genocidio”,il 4 settembre del 1998, fu la prima dal 19487.

Naturalmente furono condannati anche i responsabili delleemittenti televisive radiofoniche che avevano incitato il mas-sacro dei Tusti. Nel luglio del 2000 il Tribunale condannava a 12 anni di reclusionel’italo-belga George Ruggiu, ( foto a destra) animatore della Radio libre des MilleCollines. Mentre il 19 Giugno 2003 venivano con-dannati all’ergastolo con l’accusa di aver incitato lapopolazione al genocidio altri tre responsabili digiornali ed emittenti televisive e radiofoniche(Processo “ Media dell’odio”).

Il 14 luglio 2004 l’ICTR emise la condannaall’ergastolo per “genocidio, sterminio ed assassi-nio” ai danni dell’ex ministro delle finanze ruandese

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6 Occorre precisare che il Tribunale, il cui mandato è quello di perseguire i responsabili del geno-cidio e di altre violazioni della legge umanitaria durante il periodo che va dal 1° gennaio al 31 dicem-bre 1994, ha scelto, come sua strategia, di occuparsi soprattutto dei pianificatori delle stragi, fuggitiall’estero, lasciando ai tribunali nazionali ruandesi ( i tribunali Gacaca) competenza sui piccoli calibri.

7 Kambanda ricusò le sue confessioni e presentò ricorso presso la Camera d’Appello dell’ ICTR,che però il 19 settembre 2000 lo respinse.

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Emmanuel Ndindabahizi (prima foto a sinistra), arresta-to il 7 luglio 2001 in Belgio. Il 14 aprile 2006 l’ex sindacodella città di Gikoro, Paul Bisengimana (seconda foto asinistra), fu condannato a 15 anni di prigione, dopo esserestato arrestato in Mali.

Il 18 dicembre 2008, infine, la Corte ha condannatoall’ergastolo tre dei principali imputati politici e militaridel genocidio: Theoneste Bagosora8, capo gabinetto –all’epoca dei fatt i- del Ministero della Difesa ruandese; ilcolonnello Anatole Nsengiyumva (foto sotto a sinistra),capo militare della regione di Gisenyi, nord-ovest delpaese, e il maggiore Aloys Ntabakuze (foto sotto adestra), comandante dei para-militari nella zona dell’ae-reoporto di Kigali. Per altri imputati, politici e militarireclusi, il processo è attualmente in corso.

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8 Bagosora, nato il 16 agosto 1941 in un villaggio del Ruanda settentrionale, comandò una delleunità militatri che portarono Habyarimana al potere con il colpo di stato del 5 luglio 1973 contro il pre-sidente Gregoire Kayibanda. Fuggito da Ruanda nel luglio ’94 di fronte all’avanzata dell’esercito diPaul Kagame (leader Tutsi), fu arrestato in Camerun il 9 marzo 1996 e consegnato, l’anno successivoal Tribunale Onu che, appunto il 18 dicembre 2008, lo ha condannato all’ergastolo per genocidio, insie-me ai sui due principali complici. Ritenuto una delle menti del genocidio, il colonnello Bagosora èstato descritto dal generale canadese Dallaire, ex comandante dei caschi blu in Ruanda durante il geno-cidio, nella sua testimonianza al tribunale di Arusha con le celebri parole: “ Io so che Dio esiste per-ché ho incontrato il Diavolo”.

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Genocidio di Srebrenica

La disgregazione dello Stato jugoslavo

Esempio di “stato artificiale” creato a tavolino dalle diplomazie, quello jugosla-vo nasce alla fine della prima guerra mondiale, costringendo a vivere insieme popo-li diversi per lingua e nazionalità, separati da virulenti odi atavici 5. Sino al 1945 leforti tensioni atonomistiche interne allo Stato furono contrastate da un intransigentepolitica centralistica, a guida ed egemonia serba. Dopo la seconda guerra mondialela convivenza tra le diverse etnie era stata garantita gra-zie al carisma di Tito e alla rigida autorità esercitata dalPartito comunista. Ma dopo la scomparsa (1980) diTito, appena l’impalcatura repressiva del regimecominciò a incrinarsi, i nazionalismi riemersero, peresplodere con la fine del comunismo e la disgregazionedell’Urss. Eltsin, ricordiamo, propugnando il totaleabbandono del socialismo e facendo passare il messag-gio secondo cui la Russia doveva pensare solo a se stes-sa, esprimeva una tendenza nazionalista che trovò imi-tatori in tutti i principali paesi che uscivano dal comu-nismo.

Gli effetti più gravi della dissoluzione del “blocco”sovietico si ebbero nella Jugoslavia, dove nel corso del 1990 le elezioni politichenelle sue diverse repubbliche furono vinte da forze nazionaliste che spingevano perl’indipendenza da Belgrado. Il trionfo dei nazionalismi ebbe in Jugoslavia conse-guenze drammatiche. In Serbia - dove avevano trionfato i neo comunisti del Partitosocialista di Slobodan Milosevic (foto sopra) - ripresero vigore le antiche ambizio-

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5 Sulla disgregazione della Jugoslavia riportiamo un brano di Indro Montanelli tratto da un artico-lo che il grande giornalista scrisse nell’ottobre del 1991: “Lo Stato jugoslavo si disfa perché era un pro-dotto artificiale della diplomazia europea riunita nel ’19 a Versailles per dettare le condizioni dellapace. Si voleva dare un premio alla Serbia che per prima era scesa in armi contro l’Austria-Ungheria,consentendole di unificare sotto lo scettro dei suoi re Karagjorgjevich le province slave della Balcania.Nessuno badò, o volle badare, al fatto che in queste province c’erano tre religioni diverse (la cattolica,la greco-ortodossa e la musulmana), tre alfabeti diversi (il latino, il cirillico e l’arabo), ma soprattuttotre diverse tradizioni storiche: Croazia e Slovenia erano state fin allora province austriache, e quindiad alto livello culturale ed economico; le altre, legate per secoli al carro turco, erano arretrate e pove-re. Sono rimaste insieme finché c’è stato un pugno di ferro (prima quello del re, poi quello di Tito) aimporglielo. Venuto meno il pugno, è venuta meno l’unione”.

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ni egemoniche, rispolverando il sogno o progetto di una ricostruzione della GrandeSerbia del XIV secolo, i cui confini si estendevano dall’Epiro all’Albania allaBosnia. Impaurite dall’ “imperialismo” serbo, Slovenia e Croazia - regioni setten-trionali, più sviluppate dal punto di vista industriale - imboccarono la strada dellasecessione dalle repubbliche del Sud. Il 25 giugno 1991, infatti, le due repubblichedel Nord dichiararono la propria indipendenza dalla federazione jugoslava. Mentrela Slovenia era piuttosto omogenea sotto il profilo etnico, cioè ospitava solo una pic-cola minoranza (quella italiana) entro i propri confini, in Croazia, invece, si trovava(soprattutto nell’enclave della Krajina) una forte minoranza serba, circa il 12% dellapopolazione, che fu quasi subito oggetto di discriminazione. La comunità serba diCroazia, pertanto, si organizzò (appoggiata e sostenuta dall’esercito della Serbia) informazioni armate, per ottenere a sua volta l’indipendenza dalla Croazia. A differen-za di quanto avvenne in Slovenia, dove l’intervento dell’esercito federale serbo fubreve e blando e si concluse con un bilancio di morti relativamente basso, mentre inCroazia il conflitto seppure relativamente breve, fu sanguinoso e molto duro, con gliorrori della pulizia etnica. In sei mesi (luglio 1991-gennaio 1992) la guerra fra Serbi

e Croati causò circa 10 mila vittime,città come Dubrovnik, Mostar eVukovar furono duramente bombar-date, e si concluse con l’occupazio-ne della Krajina da parte dei serbi.

Mentre Slovenia e Croazia veni-vano riconosciute come stati indi-pendenti e sovrani da molti governieuropei, lo sgretolamento dellafederazione jugoslava proseguiva:nel settembre ’91 la Macedonia siera dichiarata indipendente; nelmarzo ’92 anche la Bosnia-Erzegovina, a seguito di un referen-dum, proclamava la propria autono-mia. Il mese successivo Serbia eMontenegro si federavano, dandovita a una nuova RepubblicaFederale di Jugoslavia con il gover-no guidato dal Partito socialistaserbo di Milosevic6.

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6 Ricordiamo che nel 2006, a seguito di un referendum, il Montenegro ha proclamato la sua sepa-razione dalla Serbia e la sua indipendenza.

La Jugoslavia nel 1991. Proprio in quell’anno, la Slovenia ela Croazia, proclamarono la propria indipendenza seguitedalla Macedonia. Gli organi federali e i vertici militari accettarono l’indipen-denza slovena e macedone, ma reagirono duramente a quellacroata dando inizio alla guerra che, dalla primavera del ’92,si sarebbe estesa alla Bosnia.

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Bosnia: guerra di tutti contro tuttiCome accennato, a partire dalla primavera del 1992 il conflitto si sposta in

Bosnia-Erzegovina, in cui si era insediato un governo presieduto dal musulmanonazionalista Alija Izetbegovic (foto a destra). In Bosnia è particolarmente accentua-to l’intreccio etnico proprio dello Stato jugoslavo: su una popolazione di circa quat-tro milioni e mezzo di abitanti, oltre il 40% è di religione musulmana; il 31% è costi-tuita da una comunità serba, di religione ortodossa; lacomunità croata, di religione cattolica, rappresenta il 18%della popolazione (composizione etnica foto sotto).Nell’aprile del 1992 (dopo che il referendum del 1°marzo, boicottato dai serbi bosniaci, aveva sancito ladichiarazione d’indipendenza della Bosnia-Erzegovinadalla Jugoslavia) la comunità serba proclamò laRepubblica serba di Bosnia, nella parte di territorio corri-spondente all’enclave della Krajina. Subito dopo i serbi diBosnia, guidati dal loro presidente Radovan Karadzic eattivamente appoggiati dall’esercito federale serbo, inizia-rono la guerra contro i musulmani e i croati bosniaci, tem-poraneamente schierati dalla stessa parte.

L’ alleanza tra i due gruppi etnici, però, ben presto si rompe e inizia la guerra di tutticontro tutti. Una guerra che assume aspetti disuma-ni: violenze, stupri di massa, torture, tiri al bersagliosu civili, esecuzioni sommarie, fosse comuni, in uncrescendo di efferatezza che richiamava alla mente ipeggiori genocidi del passato. Stragi e deportazionisi abbattono soprattutto sui musulmani, ma anche lealtre etnie subiscono a turno le più crudeli persecu-zioni. I serbi mirano ad attuare la cosiddetta “puliziaetnica” delle zone dove essi sono in maggioranza,scacciandone o sterminandone la minoranze musul-mane. Ma questa pratica - occorre dire - è adottatapure dai croati e dai musulmani, ogni qual volta sene dia la possibilità. In ogni caso, la “pulizia etnica”imponeva alle parti in lotta di distruggere nei territo-ri occupati ogni traccia dell’esistenza del gruppoetnico o religioso avversario3. In altre parole, nella

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3 Già il 18 dicembre 1992 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in riferimento alla guerra diBosnia da poco iniziata, parlava di una “politica esecrabile di pulizia etnica che è una forma di geno-cidio”.

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lunga guerra di Bosnia (durata 43 mesi e costata oltre200 mila morti), serbi, croati e musulmani si trovano adessere tutti e tre al tempo stesso vittima e carnefici.

Ad aggravare il quadro, nell’agosto del 1993 lacomunità croata proclamava a sua volta, nei territorisotto suo controllo, la Repubblica croata di Bosnia,sotto la guida dell’ultranazionalista Franjo Tudjman(nella foto), che nel giugno ’91 aveva proclamatol’indipendenza della Croazia dalla Jugoslavia.

Genocidio di SrebrenicaNel contesto dei fatti, che per grandi linee abbiamo tratteggiato, si staglia, in parti-

colare, un feroce massacro ai danni della inerme popolazione musulmana di Srebrenica.La città di Srebrenica, situata in una zona montuosa nella parte orientale della Bosnia-Erzegovina (nella cartina), fu teatro di una sanguionosa strage già agli inizi della pri-mavere del 1993. Pare, anzi, che gli eccidi di Srebrenica (18 aprile ’93) abbiamo rap-presentato in quel momento - nell’ambito di una guerra alimentata da odi implacabili,più etnici e religiosi che idiologici o politici - il culmine dell’orrore.

Non a caso, il 6 maggio 1993 il Consiglio di sicurezza dell’Onu dichiaravaSrebrenica “zona protetta”(United Nation Safe Area), assieme alla capitale Sarajevo

e ad altre piccole enclavi musulmane dellaBosnia: Gorazde, Bihac , Tuzla e Zepa. La demi-litarizzazione di tali zone, sotto controllodell’Onu, fu voluta dalle forze bosniache a tute-la e difesa della popolazione civile bosniaca,quasi completamente musulmana, costretta afuggire dal circostante territorio, ormai occupatodall’esercito serbo-bosniaco. Nella zona protettadi Srebrenica , in particolar , decine di migliaiadi profughi vi cercarono rifugio. Il Consiglio disicurezza dell’Onu, aggiungiamo, con successi-va risoluzione aveva dichiarato che gli aiutiumanitari e la difesa delle zone protette sarebbe-ro state da garantire all’occorrenza anche con

uso della forza, utilizzando soldati della “Forza di protezione” delle Nazioni Unite,i cosiddetti Caschi blu.

Ciò non solo non impedì che anche per tutto il 1994 continuassero le stragi tra lefazioni, in alcune città si consumarono addirittura guerre fratricide tra musulmani diopposta tendenza, ma le stesse due risoluzioni dell’Onu sopra indicate furono siste-

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maticamente violate: a febbraio i serbi bombardarono la piazza del mercato aSarajevo, provocando 68 morti e circa 200 feriti4; in aprile Gorazde, la piccola encla-ve musulmana della Bosnia orientale, venne investita da una nuova offensiva serbae a novembre fu la volta della “zona protetta” della sacca di Bihac. In quanto, poi, agarantire gli aiuti umanitari, i serbi ne imposero ilblocco per Sarajevo, così come costrinserol’Unprofor, la “forza di protezione” dell’Onu, adannullare la visita nella capitale del papa. Per l’Onu il1994, si può senz’altro dire, fu l’anno della resa: a giu-gno alzò bandiera bianca e venne sostituita nelle trat-tative dal “Gruppo di contatto” (Usa, Gran Bretagna,Francia, Germania e Russia).

Fu in questo scenario di disfatta della diplomazia e diimpotenza dell’Onu, da una parte, e del trionfo, dall’altra,del disegno della formazione di una Grande Serbia (iserbi con la forza si sono già impadroniti del 70% dellaBosnia) che a luglio del 1995, dopo un lungo assedio,Radovan Karadzic (foto a destra) presidente dei serbi diBosnia, ordinò di conquistare l’enclave musulmana di Srebrenica. L’esercito serbo-bosniaco attaccò la “zona protetta” e il territorio circostante e, dopo un’offensiva durata

alcuni giorni, nella notte tra l’11 e il 12 luglioentrò definitivamente a Srebrenica, mentre icaschi blu olandesi si rifugiavano nella vicinabase di Potocari. La popolazione, terrorizza-ta, cercò di trovare una via di fuga: migliaiadi persone scapparono per le montagne (fotoa sinistra), sperando di far perdere le lorotracce attraverso i boschi5, altre si diressero inmassa verso la base olandese, nei pressi del-l’isolato villaggio di Potocari, chiedendo pro-tezione.

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4 La mattina del 5 febbraio ’94 nel centralissimo mercato all’aperto di Sarajevo un proiettile di mor-taio di grosso calibro, sparato dagli assedianti serbi, semina morte tra la folla che si accalca nella stret-ta piazza in cerca di cibo. Le immagini di decine di cadaveri straziati fanno il giro del mondo suscitan-do indignazione. Mentre il leader serbo Karadzic si fa beffa delle sue vittime, spiegando in tv comequei corpi altro non sono che “manichini sporchi di vernice rossa”.

5 Molti di loro vengono uccisi dai cecchini serbi che sparano a vista, altri sono tratti in inganno dalledivise dei caschi blu indossate dai miliziani serbi.

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Ma il giorno dopo l’armata serba disarma i caschi blu e prende possesso dellabase. Davanti alla minaccia e allo spiegamento di forze di Ratko Mladic (nellafoto), i soldati olandesi decidono di collaborare a separare la gente del luogo tra vec-

chi, donne e uomini che, divisi in gruppi di centinaia, ven-gono trasportati a bordo di camion in zone periferiche emassacrati. Così come a Srebrenica, dove i miliziani diMladic, penetrati nella città, separano gli uomini dalledonne con la promessa di trasferirli incolumi nella zonamusulmana di Tuzla. Quindi trasportano tutti i maschi allaperiferia della cittadina dove, a sangue freddo, con ferociae crudeltà, iniziarono le esecuzioni. Nessuna pietà fumostrata dalla soldataglia serba né per giovani né peranziani (foto sotto). I miliziani serbi li massacrarono a raf-fiche di mitraglia gettandoli in decine di fosse comuni sca-vate in fretta dai bulldozer. Le esecuzioni andarono avan-

ti per sette giorni, dall’11 al 17 luglio, durante i quali furono sterminati circa otto-mila musulmani di Bosnia (uomini e ragazzi), sebbene alcune associazioni per gli

scomparsi e le famiglie dellevittime affermino che furonooltre diecimila.

I terribili fatti avvenuti aSrebrenica in quei giorni sonoconsiderati tra i più orribili econtroversi della storia europearecente e diedero una svoltadecisiva al successivo anda-mento della guerra inJugoslavia6.

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6 Ci riferiamo al fatto che quegli eccidi, compiuti dalle truppe di Mladic nei villaggi di Srebrenicanel luglio ’95, costituirono l’episodio che (preceduto, in ordine di tempo, dalla strage alla piazza delmercato a Sarajevo e dalla clamorosa cattura, giugno 1995, di alcune centinaia di caschi blu tenuticome ostaggio dalle milizie serbe) spinse, e fece decidere, la comunità internazionale a mettere in attol’azione militare delle forze Nato. Fu solo allora, infatti, che il presidente americano Clinton decisel’intervento militare degli Stati Uniti, condotto sotto l’egida della Nato con una serie di bombardamen-ti contro le posizioni dei Serbo-Bosniaci; un’iniziativa che a ottobre portò a un “cessate il fuoco” equindi all’accordo di pace di Dayton (Ohio, novembre ’95).

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Il non intervento dell’OnuAbbiamo già accennato, relativamente al 1994, all’impotenza e, più propriamen-

te, alla resa dell’Onu. Quell’anno, infatti, si concluse con le polemiche tra NazioniUnite e Nato per un possibile ritiro dei caschi blu. In realtà fu l’intero bilancio del-l’operato politico e militare dell’Onu ad essere fallimentare. In particolare, durantei fatti di Srebrenica, i caschi blu dell’Onu, le tre compagnie olandesi Dutchbat I, IIe III, non intervennero per impedire, o tentare di impedire, la carneficina. Ciò fu dasubito motivo di polemiche e di pesanti accuse rivolte aisoldati olandesi, ma soprattutto ai responsabili politici emilitari.

La posizione ufficiale è che le truppe Onu fossero scarsa-mente armate e non potessero far fronte da sole alle forze diMladic. Si sostiene, inoltre, che le vie di comunicazione traSrebrenica, Sarajevo e Zagabria non fossero ottimali, causan-do ritardi e intoppi nelle decisioni.

Quando i serbi si avvicinarono all’enclave di Srebrenica, ilcomandante olandese, tenente-colonnello Tom Karremans(foto a destra), responsabile per l’enclave di Srebrenica, diede l’allarme e chiese un inter-vento aereo di supporto il 6 e l’8 luglio 1995, oltre ad altre due volte nel fatidico 11 luglio.

Le prime due volte Cees Nicolaï (foto a sini-stra), il generale olandese alla guida deicaschi blu Onu a Sarajevo, rifiutò di inoltra-re le richieste al generale francese delle trup-pe Onu, Bernard Janvier, nel quartier genera-le a Zagabria,perché esse nonerano conformiagli accordi sullerichieste di inter-vento aereo.Non si trattava

ancora, infatti, di atti di guerra con battaglie a fuoco. L’11 luglio, quando i carri armati serbi erano penetrati

nella città, Nicolai inoltrò la domanda di rinforzi a BernardJanvier (foto a destra), che inizialmente rifiutò.7 La seconda

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7 Pare che Janvier, in realtà si sia disinteressato della tutela dei territori delle enclavi, tra cuiSrebrenica, e che addirittura ai primi di giugno del 1995 abbia confidato segretamente a Mladic chenon avrebbe richiesto l’intervento della Nato contro le milizie serbe.

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richiesta dell’11 luglio fu onorata, ma gli aerei (F-16), che stavano già circolando da orein attesa dell’ordine di attaccare, avevano nel frattempo ricevuto ordine di tornare alle lorobasi in Italia per potersi rifornire di carburante. Alla fine, solo due F-16 olandesi proce-dettero ad un attacco aereo, praticamente senza alcun effetto. Nel frattempo l’enclave eragià caduta e l’attacco aereo fu cancellato per ordine dell’Onu, su richiesta del ministrodella difesa olandese Voorhoeve, perché i militari serbi minacciavano di massacrare icaschi blu dell’Onu di Dutchbat.

La condanna dell’Onu per il mancato intervento nelle guerre di Jugoslavia e, inparticolare, nel massacro di Srebrenica, è stato pressoché unanime da parte di diver-se personalità politiche e diplomatiche. Nel 2000 Kofi Annan, allora segretariogenerale dell’Onu, ammise che “Srebrenica costituisce un’onta perenne per leNazioni Unite”. Nel 2005, in occasione del 10° anniversario di quel massacro,Richard Holbrooke, il diplomatico americano che negoziò la pace di Dayton, disseche “Srebrenica è il fallimento della Nato, dell’Occidente, delle missioni di pace edelle Nazioni Unite”. Gli fece eco Javier Solana, responsabile della politica estera edi difesa dell’Unione Europea, che dichiarò: “Le vittime si sono fidate della comu-nità internazionale. Ma noi le abbiamo abbandonate. Questo è un colossale, collet-tivo, vergognoso fallimento”. Il ministro degli Esteri inglese Jack Straw sottolineò,invece, che: “Quello che successe è anche colpa della divisione dell’Europa”.

In merito a tali polemiche sulle responsabilità per i fatti di Srebrenica esternatel’ 11 luglio 2005 in occasione della commemorazione del massacro (nel corso dellaquale una grande folla commossa ha ricordato il genocidio dei musulmani bosniacidando sepoltura ai resti di 600 persone ritrovate in fosse comuni), riportiamo quasiinteramente l’intervento di Sergio Romano scritto sul Corriere della sera in rispo-

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Il memoriale di Potocari, dove sono sepolte le vittime del genocidio finorariconosciute (foto di Luca Leone)

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sta a un lettore: «Quanto alle responsabilità, ho l’impressione che le commemora-zioni degli scorsi giorni abbiano reso semplice e lineare una vicenda molto compli-cata. Ho riletto le pagine su Srebrenica del libro di Owen (“Balkan Odissey”),apparso a Londra nell’anno stesso del massacro. La colpa delle milizie serbobo-sniache è evidente, ma gli errori commessi da tutti i maggiori attori internazionalinella fase che precedette la strage formano una matassa maledettamente imbroglia-ta. Ne ho trovato conferma in un articolo di William Montgomery, pubblicatodall’International Herald Tribune del 12 luglio. Montgomery non è un sempliceosservatore. E’stato rappresentante di Clinton per l’attuazione della pace in Bosniadal ’96 al ’97, ambasciatore americano in Croazia dal ’98 al 2000 e ambasciatorein Serbia fino al 2004. Nel suo articolo ricorda che Boutros-Ghali, segretario gene-rale dell’Onu, aveva chiesto, per assicurare la protezione di cinque “aree sicure”,35.000 uomini. Ne ebbe soltanto 4.000. Per Srebrenica, in particolare, aveva chie-sto un contingente di 5.000 caschi blu, ma ebbe soltanto 500 uomini dotati di armileggere. Quando i Serbi cominciarono ad attaccare non esisteva sul terreno unaforza capace di resistere. Era stato promesso che vi sarebbe stato, all’occorrenza,un appoggio aereo. Vi furono, secondo Owen, due azioni dall’aria contro i carriarmati serbi nel pomeriggio del 11 luglio. Ma i raid vennero interrotti non appenail generale Javier, comandante di Unprofor (la forza dell’Onu), e il governodell’Aja, preoccupati per la sorte dei soldati olandesi presi in ostaggio, ne chieserol’interruzione. Secondo Montgomery - continua Sergio Romano- anche le forze musulmane bosniache, in una fase precedente,si erano servite dell’ “area sicura” per lanciare attacchi controi villaggi serbi8; […] è evidente per Montgomery che vi furonocrimini di guerra, uccisioni, maltrattamenti e pulizie etniche.Quegli attacchi, che il battaglione di Unprofor non volle o nonpotè impedire, furono secondo l’osservatore americano “l’equi-valente di un drappo rosso sventolato di fronte a un toro”.

[…] una grande commissione d’inchiesta - concludeRomano - avrebbe potuto restituirci una verità meno parziale diquella che si è imposta alla pubblica opinione nelle commemo-razioni degli scorsi giorni».9

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8 I fatti qui accennati da S. Romano fanno riferimento alle truppe musulmano bosniache sotto il coman-do di Naser Oric (foto sopra), alle quali era stato permesso di tenere le armi all’interno della zona protetta,contrariamente alle condizioni stabilite nel patto col quale si conveniva il “cessate il fuoco”. Oric avrebbeapprofittato della situazione per condurre attacchi notturni contro villaggi serbi nei dintorni. Il caso più cla-moroso fu quello di Kravica, attaccato nella notte del 7 gennaio, il Natale ortodosso. Queste azioni militariprendevano la forma di pulizia etnica e rappresaglie contro i Serbi. Centinaia furono torturati, feriti e brutal-mente uccisi durante questi attacchi. Nel 1994 il governo serbo fece istanza all’Onu, fornendo una lista di 371serbi uccisi nell’area. I media serbi, da allora, hanno riportato numeri molto più alti, fino a 3287. Non è attual-mente chiaro quanti di questi fossero civili.

9 Sergio Romano, Srebrenica 1995: pochi imputati, molti responsabili, “ Corriere della sera” , 18 luglio 2005.

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La sentenza dell’Aja: “fu genocidio”Lunedì 26 febbraio 2007 la Corte di giustizia internazionale dell’Aja si è pro-

nunciata sul ricorso della Bosnia contro la Serbia. Confermando la sentenza diprimo grado del 2 agosto 2001 ha riconosciuto che il massacro della popolazionecivile di Srebrenica, nel luglio ’95, fu genocidio. La Corte ha però precisato e stabi-lito che quello che avvenne a Srebrenica fu un genocidio ad opera di singole perso-ne e che lo Stato serbo non può essere ritenuto direttamente responsabile per geno-cidio e complicità per i fatti accaduti nella guerra civile di Bosnia-Erzegovina dal1992 al 1995, tra i quali rientra la strage di Srebrenica. Il fatto è riconosciuto comegenocidio poiché “l’azione commessa a Srebrenica venne condotta con li’intento didistruggere in parte la comunità bosniaco-musulmana della Bosnia e di conseguen-za si trattò di atti di genocidio commessi dai serbo bosniaci”. La Serbia, però, pre-

cisa la sentenza, non fu responsabile di genocidio perché“non vi sono prove di un ordine inviato esplicitamenteda Belgrado” né di complicità perché non vi sono proveche “l’intenzione di commettere atto di genocidio fossestata portata all’attenzione delle autorità di Belgrado”,anche se viene riconosciuto che Radovan Karad�ic(nella foto)10 e Ratko Mladic dipendessero da Belgrado,che forniva assistenza finanziaria e militare ed esercita-va un’influenza sul leader politico serbo-bosniaco e sulcapo militare. Tuttavia, afferma altresì la sentenza, si puòrimproverare la Serbia “di non aver fatto nulla perrispettare i suoi obblighi di prevenire e punire i respon-sabili” della strage. Insomma, moralmente condannata,

la Serbia, nell’impossibilità di accertare “un suo ordine diretto” è politicamente sal-vata. Una beffa per i familiari delle vittime i quali, in mancanza di un vero colpevo-le, sanno che nessuno potrà risarcirli né chiedere scusa.

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10 Primo dei ricercati nella lista nera del Tribunale penale internazionale dell’Aja, l’ex leader serbo-bosniaco Karad�ic (nato nel 1945) è stato arrestato, dopo 13 anni di latitanza, il 21 luglio 2008. Nellafoto l’immagine di Karad�ic al momento della cattura. Quando lo hanno arrestato, a Belgrado, si chia-mava Dragan David Dabic. Una lunga barba da professore e un’identità di tutto rispetto: specialista inbionergia. Karad�ic il 26 ottobre 2009 avrebbe dovuto comparire alla sbarra del suddetto Tribunale conl’accusa di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il processo, però, è stato rinviatoulteriormente a causa della volontà dell’imputato di non presentarsi di fronte ad un Corte che non rico-nosce.

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Due commenti a margine della sentenza dell’AjaRiportiamo alcuni stralci degli interventi di due commentatori sulla sentenza

della Corte di giustizia dell’Aja. Il primo è di Antonio Cassese11, l’altro del giorna-lista Guido Rampoldi.

«Anche se è positivo - scrive Cassese - che per la prima volta un tribunale inter-nazionale si pronunci sulla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio, la sen-tenza resa dalla Corte internazionale di giustizia su Srebrenica è di quelle chedanno un contentino a tutti e lasciano le cose come stanno […] La Corte, dopo aver“assolto” la Serbia dall’illecito principale, dà però qualche contentino alla Bosnia.Afferma che l’eccidio di Srebrenica ha i caratteri del genocidio.

Niente di nuovo - osserva Cassese - perché l’aveva già detto più volte il Tribunaleper l’ex Jugoslavia12 […] Questa sentenza dà un colpo al cerchio ed uno alla botte.Per farlo, deve avvalersi del formalismo giuridico. Per decidere se Mladic, quandoha pianificato e fatto eseguire il genocidio, agiva di fatto per conto di Belgrado, laCorte ha richiesto che venisse provato che Belgrado gli “inviasse istruzioni” speci-fiche di commettere quel genocidio. E’ ovvio che quelle istruzioni non verranno maitrovate. Non bastava provare che la leadership militare serbo-bosniaca era pagatae finanziata da Belgrado, nonché legata a filo doppio alla dirigenza politico-milita-re della Serbia? Un’altra cosa - prosegue Cassese - lascia poi perplessi: si affermache la Serbia è responsabile di non aver prevenuto il genocidio, perché era al cor-rente del rischio altissimo di atti di genocidio e non ha fatto nulla per impedirli. Poiperò si esclude che Belgrado fosse responsabile di complicità, perché “non è statoprovato” che l’intenzione di commettere atti di genocidio a Srebrenica “fosse stataportata all’attenzione delle autorità di Belgrado”. Quest’affermazione è sorpren-

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11 Docente di diritto internazionale, Cassese ha maturato una lunga esperienza (in qualità di presi-dente, sin dalla sua istituzione) al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella exJugoslavia.

12 Riteniamo utile chiarire che il Tribunale per l’ex Jugoslavia e la Corte di giustizia dell’Onu sonoentrambi organismi del diritto internazionale, ma con profili e compiti den diversi. Il primo è un tribu-nale speciale istituito il 25 maggio 1993, sulla base della risoluzione 872 del Consiglio di sicurezzadelle Nazioni Unite; ha sede all’Aja, in Olanda, e ha il compito di perseguire e giudicare quanti, dopoil primo gennaio 1991, si sono macchiati del reato di genocidio, di crimini di guerra e crimini control’umanità commesi nelle guerre combattute in Croazia (1991-95), in Bosnia-Erzegovina (1992-95)nonché in Kosovo (1998-99). La Corte internazionale di giustizia è, invece, un organo delle NazioniUnite, di cui costituisce il massimo organismo giudiziario. Istituito nel 1946 è composto di quindicigiudici, eletti dall’Assembla generale, ed ha sede all’Aja. A differenza del Tribunale per l’ex Jugoslavia– che accerta la responsabilità penale di specifici individui – la Corte dell'Onu ha il compito soprattut-to di dirimere controversie tra Stati.

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dente […]. Si può pensare che le autorità di Belgrado fossero rimaste all’oscuro,quando la notizia dell’eccidio in corso era su tutti i giornali del mondo? Sembra piùplausibile che Milosevic fosse al corrente di quel che avveniva, così come sembraovvio che l’assistenza militare, finanziaria e politica a Mladic non fosse stata inter-rotta neanche in quei giorni. E comunque- conclude il giurista - si può essere com-plici di un illecito anche se chi si limita a non muovere un dito, quando si ha inve-ce il dovere e il potere di bloccare l’illecito, e invece, attraverso l’inazione, si con-tribuisce in maniera determinante a creare le condizioni perché esso si verifichi”.13

Guido Rampoldi rileva, nella sentenza della Corte dell’Onu, una tesi paradossa-le: la Serbia non è responsabile né complice del massacro, anche se ha aiutato inogni modo (con armi, denaro e l’invio di reparti regolari) i massacratori. “Chi cer-casse la spiegazione di questo paradosso - scrive Rampolli - non la troverà nellevicende occorse in Bosnia durante la guerra, quanto nella composizione della Corteinternazionale di giustizia. […] I suoi quindici giudici sono nominati dal Consigliodi sicurezza e dall’Assemblea delle Nazioni Unite, insomma rappresentano governiche in maggioranza non praticano lo Stato di diritto liberale, oppure, se lo pratica-no, hanno motivi per temere una giustizia planetaria. Inoltre si può immaginare chein camera di consiglio abbiano pesato anche preoccupazioni estranee alla giurisdi-zione. Magari sensate. Stampare con lettera di fuoco la parola “ genocida” sullostemma della Serbia non avrebbe aiutato quella nazione a trovare un suo posto inEuropa.

Soprattutto, Belgrado avrebbe dovuto pagare per decenni risarcimenti iperboli-ci al governo bosniaco… Affogata nei debiti, isolata dalla sua colpa, bollata dall’Onu, condannata la miseria, la Serbia avrebbe ripreso a incubare la sua malattiastorica, un vittimismo omicida. […]

Qualcuno potrebbe ricavarne- osserva il giornalista di Repubblica- che ancorauna volta il più tenace sterminatore del Novecento, che non fu il terrorismo ma loStato, l’ha fatta franca. Di sicuro il maggior massacro compiuto in Europa dopo laseconda guerra mondiale non può essere liquidato come il crimine di una miliziaparamilitare. Semmai fu il risultato di un piano spartitorio che Belgrado e Zagabriaconducevano alla luce del sole. Ma concorsero tanto l’ignavia dei caschi blu quan-to i calcoli di molti europei. Pur potendo impiegare l’aviazione della Nato, l’Onurifiutò di fermare l’avanzata serba su Srebrenica. Questa passività colpevole forsefu il prezzo pagato ai serbi per la liberazione d’un centinaio di caschi blu presi inostaggio; certamente si rispacchiava nella volontà dei governi occidentali, cui pare-

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13Antonio Cassese, Chi non fermò gli eccidi è comunque colpevole, "la Repubblica", 27 febbraio2007.

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va che la caduta di Srebrenica avrebbe facilitato la spartizione del territorio bosnia-co, dunque la fine della guerra (con la vittoria degli aggressori). Non si può dire-conclude Rampoldi- che la sentenza di ieri riscatti l’immagine che l’Onu lasciò disé a Srebrenica”.14

A proposito delle responsabilità dell’Onu, crediamo di poter concludere, forzan-do probabilmente il punto di vista espresso da Sergio Romano, dicendo che aSrebrenica si è assistito, come alcuni sostengono, al collasso collettivo dell’Onu,degli Usa, dell’Europa, dei caschi blu olandesi, del governo bosniaco e degli stessidifensori musulmano-bosniaci della città. Un fatto appare certo: la rapida caduta diSrebrenica rimane uno dei misteri più controversi della guerra di Bosnia.

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14 Guido Rampoldi, Il male casuale, “La Repubblica”, 27 febbraio 2007.

Alunni del Liceo classico che hannopartecipato alla ricostruzione storicadei genocidi.

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Alunni delle Scuole Medie “D. Alighieri” e “L. Pirandello” che hanno prodotto riflessioni sui film.

Il gruppo di alunni che ha prodotto riflessioni sui film.

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Il film come testimonianza

Valeria Fiscella

In occasione della Giornata della memoria, nell’anno scolastico 2008/2009, ilnostro Liceo ha proposto, con il patrocinio del Comune, una serie di film per stimo-lare una riflessione sui principali genocidi, nella consapevolezza che “coltivare lamemoria” sia un atto necessario per sconfiggere l’indifferenza che dalla lontananzaspazio-temporale dei vari eventi può scaturire, per far acquisire ai giovani l’eticadella responsabilità, per cambiare in meglio la società.

Per cercare di avvicinarci il più possibile a questi obiettivi, noi docenti del Liceo“Fratelli Testa” abbiamo puntato non solo su ricerche storiche relative a quattrogenocidi (quello degli ebrei, degli armeni, dei bosniaci e dei ruandesi), ma anchesull’analisi critica di film riguardanti proprio quei massacri, nella convinzione che ilpotere di penetrazione comunicativa e di coinvolgimento emotivo del linguaggiovisivo potesse fornire un approccio innovativo alle informazioni, in quanto più ade-rente alla struttura e alla logica di apprendimento dei giovani, e più adatto a scuote-re e segnare le coscienze individuali, mantenendo ugualmente un forte valore edu-cativo in quanto integra al meglio le conoscenze e i saperi acquisiti sui libri ed offrespunti di riflessione e di approfondimento. Il cinema, infatti, è riuscito a descrivereeventi storici, culture e sentimenti sia attraverso il realismo documentario, sia trami-te il racconto di finzione, conservando una capacità di sintesi adatta all’educazionee all’insegnamento.

Nel nuovo contesto globale, in cui l’evento bellico determina i destini di moltipaesi del mondo, il cinema presenta senz’altro una lettura particolare non solo per

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Il cinema insegna in un lampo e può rappre-sentare un ottimo fattore di documentazionestorica.

D.W. Griffith

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quanto riguarda le guerre odierne, ma anche per ciò che concerne un passato nonancora elaborato del tutto. Grandi registi, infatti, spinti dal desiderio di immediatez-za e di verità, dall’attenzione per la realtà della vita, dall’assenza di rigidi schemiideologici, hanno raccontato - o meglio rivelato, registrato e documentato - in modomagistrale, realistico, verosimigliante, lontano da ogni mistificazione, calligrafismoe artificio, i vari genocidi offrendo una chiave di lettura per questi incomprensibilieventi e portando sul grande schermo i momenti difficili di tanti popoli duramenteprovati dalla crudeltà degli oppressori.

Ma difficilmente i giovani si accostano spontaneamente a film di questo genere,che raccontano le sofferenze dei popoli costretti a sfollare, a sfuggire alla morte; per-tanto un cineforum su questa tematica è stato un’occasione per analizzare diverserealtà geopolitiche del mondo attuale e per comprendere come il genocidio da even-to straordinario sia diventato per molta gente quasi elemento quotidiano della vita.

I film scelti da noi, perché ritenuti più rappresentativi, sono stati: Il diario diAnna Frank, Jona che visse nella balena, Hotel Rwanda e La masseria delle allo-dole. Le prime due proiezioni sono state riservate ai ragazzi delle scuole medie e deibienni, mentre tutte e quattro le proiezioni sono state proposte ai giovani dei trien-ni; tutte sono state precedute da interventi delle professoresse Fiscella Valeria, LiVolsi Maria Luisa e Fiore Vilma, che hanno spiegato sinteticamente ai ragazzi lefinalità dei film in visione e il perché di quelle scelte. I giovani liceali che hannoaderito al progetto hanno svolto un’analisi critica delle opere visionate, preparatoschede tecniche di approfondimento per guidare le discussioni e coinvolgere inincontri-dibattito gli spettatori. Dopo ogni film sono stati somministrati ai ragazzidei questionari per stimolarne la percezione emotiva e la riflessione. E così dall’im-pressione emotiva, che ha permesso durante la proiezione di cogliere la relazione trale immagini e il vissuto, si è passati ad una discussione critica sui contenuti esisten-ziali, sociali, politici e all’analisi del linguaggio usato dal regista. I giovani spettato-ri sono stati, poi, sollecitati a produrre un elaborato personale in varie forme diespressione: dalla recensione all’intervista, dalla poesia al saggio e al disegno.

L’aver organizzato un Cineforum - esteso, di mattina, agli alunni del nostro Liceoe dei due Istituti Comprensivi “Dante Alighieri” e “Luigi Pirandello” e, di pomerig-gio, ai genitori degli allievi e al pubblico - è stato un modo nuovo per andare oltrela contingenza della commemorazione stessa e per fare conoscere questi agghiac-cianti pezzi di storia ad un pubblico più ampio possibile. Agli spettatori è stata datala possibilità di “leggere” più testi visivi, di paragonare i massacri, di mettere in rela-zione gli eventi, cercando di capire che cosa potesse portare a un genocidio, di cri-ticare, di partecipare, di esprimersi.

I film scelti sono stati senz’altro occasione di reazione emotiva, in quanto sonoriusciti a trasmettere messaggi e significati che hanno coinvolto gli studenti in

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maniera totale, favorendo l’identificazione e costringendo a reagire. Hanno, inoltre,suscitato in tutti una riflessione profonda ed hanno condotto gli spettatori a com-prendere le condizioni di vita difficili, le sofferenze e i sacrifici di tanta gente che èstata ed è ancora così lontana dalla libertà e dal benessere.

Sappiamo bene che non è facile coniugare il pathos dei momenti in cui condivi-diamo la sofferenza altrui con l’ethos, perché l’etica va costruita con un pazientelavoro di educazione e formazione delle coscienze individuali, all’interno delle qualidevono sedimentare a poco a poco i valori. Tuttavia noi abbiamo cercato di aprirespazi di riflessione, mettendo i giovani in grado di fare delle comparazioni con altriavvenimenti, di individuare nuove ingiustizie e strani legami tra le persecuzioni pas-sate e i nuovi meccanismi dell’intolleranza, di aprire gli occhi sulla condizioneumana, di stimolare anche la loro sensibilità sulla lezione che queste memorieimpartiscono ad un presente ancora gravido di violenza, pregiudizio e discrimina-zione nei confronti della diversità, della differenza, dei più deboli.

Ad attestare, comunque, la partecipazione affettiva, la condivisione di sentimen-ti, l’identificazione con i protagonisti dei film da parte di tutti gli spettatori, sono leriflessioni, le recensioni, le interviste, le poesie, i commenti, i disegni che hanno, percosì dire, “fotografato” momenti drammatici e unici e che abbiamo voluto conser-vare in questo quaderno.

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Il diario di Anna Frank

Titolo originale: The Diary of Anna FrankSoggetto: Dal libro Anne Frank, The Diary ofYoung GirlSceneggiatura: Francis Goodrich, AlbertHackett (dal loro testo teatrale)Fotografia: William C. Mellor (bianco/nero)Interpreti: Millie Perkins (Anna Frank), JosephSchildkraut (Otto Frank), Shelley Winters(Petronella Van Daan), Richard Beymer (PeterVan Daan), Gusti Huber (Edith Frank), LouJacobi (sig. Van Daane), Diane Baker(MargotFrank), Ed Wynn(sig. Dussel)Produzione: George Stevens per TwentiethCentury FoxDurata: 146’Origine: USA, 1959

TramaAmsterdam, 1948: Otto Frank, un ebreo sopravvissuto (unico della sua famiglia)

al campo di concentramento nazista in cui era internato, ritorna nella città olandese.Arrivato nella soffitta, dove pochi anni prima si era nascosto insieme alle figlie Annae Margot, alla moglie Edith, ai coniugi van Daan con il loro figlio Peter ed al dottorDussel (anch’essi di confessione ebraica), per sfuggire alla deportazione e trovarescampo all’arresto delle SS, ritrova il diario che egli aveva regalato ad Anna nelgiorno del suo compleanno e sul quale la ragazza aveva scritto ogni suo pensiero.

Mentre lo sfoglia, i ricordi di quel periodo si riaffacciano alla sua mente. Alleprime seguenze riguardanti il giorno in cui le due famiglie fuggiasche avevano presopossesso dell’alloggio clandestino, seguono quelle relative ai due anni vissuti fraterrore, stenti, speranze, rallegrati solo dalle visite quotidiane di due amici che liavevano nascosti fino alla sequenza finale in cui le SS fanno irruzione nel nascon-diglio sfondando la porta e deportando tutti gli inquilini della soffitta nei lager nazi-sti, dove tutti, tranne Otto Frank, troveranno la morte.

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CommentoIl diario di Anna Frank è un film che rappresen-

ta una delle più importanti testimonianze delle atro-cità subite per mano dei nazisti dagli ebrei, neldisperato tentativo di sfuggire alle pesanti legginaziste, basate su deliranti pretese di superioritàrazziale. Ecco perché Anna, una ragazzina perse-guitata e deportata in un campo di concentramentonazista, è diventata il simbolo di tutti i perseguitati,i vinti, gli esclusi della Shoah. Il film costituisceuna testimonianza delle privazioni, delle umiliazio-ni, delle sofferenze, dei patimenti che gli Ebreidovettero subire a causa dell’odio razzista dellaGermania hitleriana.

Tra le quattro mura dell’appartamento in cuirimane reclusa, Anna - una ragazza dolce, intelli-gente, innocente e piena di vitalità che ha dovutosospendere gli studi (così come la sorella maggioreMargot e il giovane Peter) - scrive, con considere-vole talento, ogni giorno la cronaca di quella prigio-nia. Attingendo a piene mani dal diario della ragaz-za, il regista ha saputo ricreare la meravigliosaspontaneità di questa adolescente con i suoi difetti,la sua vanità, le sue piccole manie, il suo caratterescontroso, le sue paure causate dal vivere in clande-stinità, i suoi sogni, le sue aspirazioni, gli entusia-smi, i sentimenti per Peter, le incomprensioni con lamadre, il difficile rapporto con la sorella, il suodesiderio di vivere una vita normale.

Emerge il carattere di questa tredicenne, costret-

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ta a confrontarsi ogni giorno con persone di età dif-ferente che la conduce a piccoli grandi conflitti congli altri coinquilini (i litigi per l’utilizzo degli spazicomuni con il dottor Dussell, l’incidente della pellic-cia macchiata della signora Van Daan), a condivide-re timori e fobie di un’imminente fine, a mano amano che il tempo trascorre e si allontana l’ipotesi diuna liberazione, a dividere la propria intimità conaltre sette persone in un luogo di pochi metri quadra-ti. Lo spettatore percepisce chiaramente che la cre-scita di Anna è frustrata, priva com’è di una possibi-lità legittima e coerente di sviluppo: la sua amica delcuore (è il dottor Dussell a comunicarlo) è statadeportata, l’affetto della famiglia è suscettibile ditrasformarsi in apprensione, data la scarsa disponibi-lità di superfici in cui far emergere la propria indivi-dualità. Ma, lentamente, quasi insensibilmente, inquelle lunghe giornate monotone e apparentementesenza storia, mentre gli adulti sono tutti presi dailoro piccoli interessi, dalle loro meschine beghe,Anna comincia a capire. Cessa di essere una bambi-na per divenire una donna in tutti i sensi. Non solonel senso fisiologico del termine - anche se questo“trapasso” è determinante e davvero stupende sonole scene in cui mette in luce la sua trepidazione difronte al fatto nuovo e sconvolgente - ma anche esoprattutto nel significato ben più decisivo di unasua presa di coscienza.

La sua intelligenza senza dubbio eccezionale e lasua anima straordinariamente sensibile, messe difronte alla crudele spaventosa tragedia della realtà,reagiscono nel modo migliore. Grazie alla sua capa-cità di sognare Anna riesce a sconfinare oltre la disa-gevole soffitta, oltre il lucernario infranto dai bom-bardamenti alleati, in mezzo a quelle nuvole candideche può solo osservare da un nascondiglio e nonapprezzare nella pienezza delle sensazioni e delleemozioni.

E così anche l’amore sbocciato per Peter - dopo due anni di coabitazione forza-

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ta - assume i connotati dell’ultimo momento illuso-rio prima della tragica fine, dell’esperienza necessa-ria per completare la propria sensibile formazioneprima di dire addio definitivamente alla vita. Decisaa non lasciarsi sopraffare, a combattere una sua bat-taglia, fiduciosa nella sostanziale bontà degli uomi-ni, la ragazza pensa con fermezza al suo avvenire edesprime il desiderio di inserirsi validamente nellasocietà come scrittrice e di far udire la propria voce.

Tuttavia, se nel romanzo questa presa di coscien-za è esplicita, nel film è relegata in secondo piano,mentre prendono rilievo le macchiette che compon-gono il singolare gruppo che popola l’appartamentoclandestino. Per dare il senso del terribile drammaumano che quella piccola comunità vive nella conti-nua alternativa tra interrogativi e riflessioni, tra ter-rore e speranza, il regista si avvale della “suspense”,come si nota nella scena in cui, mentre un ladro stamuovendosi furtivamente negli uffici sottostanti egli inquilini della soffitta cercano di evitare qualsia-si rumore, il gatto fa cadere un imbuto.

Il film sa dare molte emozioni, e pur essendoprivo di scene di violenza, risulta straziante, perchélo spettatore percepisce che l’ infanzia di Anna èstata piegata dall’odio razzista della Germania hitle-riana e avverte la tragedia che sta per spezzare la vitadi Anna. Non basta a rassicurarlo il rintanarsi illuso-rio di Anna nella speranza che l’odio termini e chegli alleati americani giungano nel cuore dell’Europaprima che in quella angusta soffitta arrivino i nazisti.E quella sensazione si trasforma in realtà nelmomento in cui la Grüne Polizei, in seguito ad unasoffiata di un informatore, irrompe nell’alloggiosegreto dove trovano gli ebrei pronti a seguirli: nonc’è più spavento nei loro occhi, ma solo la speranzadi poter sopravvivere.

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Riflessioni sul film Il diario di Anna Frank

Mi sono rivista nella protagonista del film, perché anch’io, come lei, alternomomenti di gioia e di tristezza, tipici della età adolescenziale, ma, vivendo in unclima assolutamente diverso, che mi consente di vivere le tappe fondamentali dellamia età con serenità e piacevolezza, ho apprezzato di più la mia condizione di crea-tura libera…

A causa dell’angoscia, della tristezza, dell’incertezza, della paura di cadere da unmomento all’altro nelle mani dei Tedeschi, Anna viene privata delle emozioni piùbelle dell’età adolescenziale, non può viverle fino in fondo e con assoluta serenità,è costretta a stare nascosta e segregata in locali piccolissimi, scomodi e molto fred-di, ad affrontare discussioni sul cibo, sull’uso del bagno, a provare noia e tutte quel-le insofferenze che insorgono tra persone costrette a vivere troppo vicine, senza maiallontanarsi dal nascondiglio per trascorrere qualche ora con gli amici, senza maifrequentare luoghi e locali pubblici, senza mai fare una spensierata passeggiata perle vie della città o partecipare ad una festa o godere del successo scolastico.

È triste pensare che una ragazzina come me non abbia potuto vivere appieno la vitache le spettava di diritto, solo perché di razza diversa rispetto a quella tedesca, ma èconfortante pensare che il razzismo della Germania hitleriana, nonostante abbia costret-to una giovane ragazza a rinunciare ad una fondamentale tappa della sua vita, a diven-tare adulta prima del tempo, non sia riuscito a spezzare la gioia di vivere della protago-nista, a piegarla. Anna, infatti, è una ragazza che ama molto leggere e sognare, che èfornita di un’intelligenza penetrante e precoce, di un occhio critico a cui non sfuggenulla (nemmeno se stessa), ha il dono dell’ironia e la facoltà di raccontare le cose nellaloro sostanza, in modo straordinariamente efficace, e che in assenza di libertà, riesce atrovare una compensazione nelle pagine del suo amato diario, in cui racconta le suegioie, i suoi dolori, i suoi dissapori, le sue speranze… senza smettere mai di avere fidu-cia negli uomini. Una fiducia condivisibile, se si considera che questo sentimento costi-tuisce per Anna la forza per poter andare avanti, per alimentare la speranza di riuscirea salvarsi, e se si pensa al fatto che non si può colpevolizzare tutto il genere umano acausa di un solo popolo, quello tedesco, che si è reso responsabile di persecuzioni, atro-cità e orrori nei confronti degli Ebrei.

Sabrina Beritelli (I B Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Il Giorno della Memoria, per noi ragazzi, è un’occasione grazie alla quale pos-

siamo conoscere ciò che è capitato agli ebrei e riflettere sugli errori e sugli orroricompiuti nel passato, per non dimenticarli e per non ripeterli.

La persecuzione razziale (di cui una vittima è stata Anna Frank) e l’eliminazio-

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ne fisica di masse umane sono state frutto di menti distorte, di una cultura malvagiache ha fatto, della distruzione, una bandiera e un obiettivo da raggiungere.Devastare, eliminare, distruggere sono l’inverso esatto di ciò che l’uomo dovrebbefare. Eppure non siamo stati creati per viver come “bruti”, ma “per seguir vertute ecanoscenza”.

Non diamo voce alla bestia che si annida subdola nell’animo umano! Lottiamopiuttosto, perché si possa vivere in un mondo più umano e più retto possibile.

Clorinda Cacciato (III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello”)

***Un verso di una canzone di Fabrizio De Andrè recita “Dai diamanti non nasce

niente, dal letame nascono i fiori” che, pur riferito ad un contesto diverso, può adat-tarsi alle testimonianze di Anna Frank o di Louise Jacobson conservate l’ una nel suodiario e l’altra nelle sue lettere, in quanto, oltre a darci uno spaccato reale della vitadei perseguitati di quel triste periodo, trasmettono sentimenti e speranze di due ado-lescenti fiduciose che nel mondo possa ancora esistere un’umanità pronta a reagireal male. Le loro opere “fiori nati dal letame” alimentano una debole fiammella chealtri, confidando solo nella forza e nella brutalità, cercano di spegnere.

Alain Calò ( III C Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

***Ciò che mi ha colpito nel vedere il film “Il Diario di Anna Frank” è stato il fatto

che la ragazza, pur cosciente di quello che le stava accadendo, ha cercato di crearsiuna vita “normale” all’interno del nascondiglio, mitigando così la dura realtà che eracostretta a vivere. E’ stato sorprendente costatare come una ragazzina, alla qualeavevano tolto tutte le gioie della vita di un’adolescente, pur stando per due anni inuna soffitta senza poter respirare aria fresca e limitandosi di tanto in tanto a guarda-re di nascosto dalla finestra la desolazione causata dalla guerra, sia riuscita lo stes-so a sorridere, ad amare, a sognare, ad affidare le proprie confidenze ad un diario.Molte ragazze della mia età, anche oggi, ricorrono ad un diario per descrivere le loroavventure e tutto quello che sentono dentro: gioie, speranze, paure, dubbi…ma neldiario della protagonista c’è molto di più.

Un abissale divario separa le nostre esperienze e le tristi vicissitudini di Anna,costretta ad abbandonare la scuola, gli amici, il vivere “agiato”, a sacrificare la suagioventù fra gli stenti e le paure e ad essere, infine, privata del naturale bisogno dipoter godere della presenza dei propri genitori e delle persone che amava. Chissàcome si sarà sentita quella povera ragazza, quando, deportata nel campo di concen-tramento, fu strappata dalle braccia dei genitori e da Peter sapendo che non li avreb-be mai più rivisti! E ciò che più mi fa rabbia è il fatto che mancava pochissimo alla

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fine della guerra. Bastavano, infatti, solo alcuni giorni perché Anna fosse definitiva-mente libera.

Patrizia Campione ( I A Liceo Classico “F.lli Testa” )

***Anna, poco prima della scoperta del rifugio, scrive sul suo diario: “ É un gran

miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze…Le conservo ancora,nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo”. Non sache proprio alcuni uomini le faranno perdere ogni speranza, ogni ricordo, ogni pro-getto per il futuro, e la stessa vita. Io non riesco a condividere questo pensiero: lementi folli e cattive esistono e non ci si può aspettare che, da un momento all’altro,da lupi diventeranno agnelli; non si possono e non si devono dimenticare le atroci-tà e il male che l’uomo è capace di fare. Rispetto la vitalità e la positività di Anna,ma, a differenza sua, guardo le cose con occhi più critici e realistici. L’uomo puòessere una creatura intelligente, dotata di ragione, l’essere più perfetto di tutti, ma ilmale di cui è capace è anche il più doloroso di tutti. Il perdono è senz’altro un attogeneroso, ma come si può perdonare uno scempio del genere? Come definire “uomi-ni” proprio quelli che hanno commesso crimini contro l’intera umanità?

Nicoletta Candurra (I A Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Anche un film, come Il Diario di Anna Frank - testimonianza e simbolo dell’or-

rore nazista - serve a non dimenticare, a non rimuovere con troppa fretta il passato,ad acquisire quella sottile consapevolezza che ci consente di non ripetere gli erroridi chi ci ha preceduto.

D’altronde, visto che apparteniamo tutti alla stessa razza umana, sarebbe cosìdifficile aiutarci l’un l’altro, invece di odiarci e cercare di sopraffarci, spinti solodalla sete di denaro e di potere?

Anna Catania (IV B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”)

***Il messaggio che il film veicola è, credo, l’eccezionale spirito di sopravvivenza

di Anna, la più giovane tra i partecipanti a questo squallido gioco di vita o di morte,che ha trovato il modo di reagire, senza abbandonarsi alla noiosa monotonia di quel-la vita claustrofobica e senza mai smettere di sperare.

Infatti, dopo aver visto il film mi sono detta: “Io al suo posto non ce l’avrei maifatto a vivere così, con la paura di essere scoperta o con il pensiero che ogni giornosarebbe sempre potuto essere l’ultimo. Come avrei potuto trovare il coraggio didimenticare i momenti di terrore, quando con occhi sgranati e pieni di angoscia,

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afferravo le mani del compagno vicino per trasmettere comprensione o finta tran-quillità?” Eppure questo pensiero sfuggiva alla protagonista che, invece, riuscivasempre a ritrovare il coraggio dettato dall’immensa voglia di vivere e di ricostruireuna nuova vita.

Purtroppo noi giovani non riusciremo mai, per nostra colpa o per semplice eincondizionata realtà dei fatti, a identificare pienamente il nostro pensiero con quel-lo di Anna. Per ogni ragazzo risulta difficile trascorrere anche un solo giorno chiu-so in casa, calcolando ogni movimento, calibrando il timbro della voce, non poten-do beneficiare delle fonti primarie di sostentamento, quali cibi, vestiti o altro e ridur-re all’indispensabile o al nulla ogni sorta di diritto. Sarebbe “impossibile” condurreuna vita come quella condotta dalla protagonista, soprattutto oggi che non si fa altroche crogiolarsi nei vizi e negli sfizi derivati dalla sfrenata opulenza e dall’eccessivamancanza di autocontrollo di ciascun individuo.

Dovremmo metterci più spesso nei panni di Anna Frank, per comprendere che siimpara ad apprezzare la vita solo quando ci si rende conto che tutto è relativo alle cir-costanze, tutto è fugace, tutto è precario. E allora sì che capiremmo cosa vuol dire vive-re, sopra ogni cosa, vivere godendo di ogni singolo attimo, vivere trovando forza in unminimo respiro, vivere ringraziando Dio del grande, fantastico, sublime e pur sempresottovalutato dono della vita. Solo così, dunque, un po’ tutti capiremmo cosa significhivivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, senza mai perdere la speranza del cambia-mento, la fiducia nel fratello e la bellezza di perdersi nei sogni per alleviare le sofferen-ze che ci riserva un fato incomprensibile, ma pur sempre ineluttabile.

Irene Conticello (IA Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Io penso che la tragedia di Anna debba essere conosciuta non solo perché ci dà

una testimonianza del periodo nazista, ma anche perché, grazie al suo diario, possia-mo immedesimarci nella condizione di una ragazza come noi che, privata di una vitanormale, piacevole e comoda, è costretta a vivere per due anni nascosta in una sof-fitta per sfuggire alla cattura dei nazisti, dovendosi accontentare di un semplice dia-rio per fermare i pochi ricordi del passato e tutti i suoi pensieri, problemi, desideri esogni. Comprendiamo bene che la sua crescita è stata frustrata e ci stupisce il suoconsiderare la drammatica esperienza addirittura una fortuna perché, grazie ad essa,è riuscita a maturare e a diventare più saggia. Le frasi pronunciate da Anna dovreb-bero portarci a credere che la sua infanzia non è stata spezzata, ma io, ripensando alfilm, faccio fatica a ricordare scene dove lei sia del tutto felice, mentre ricordomeglio quelle scene dove lei si sente soffocata dalla mancanza di libertà, dallamonotonia dei discorsi noiosi degli adulti, dalle incomprensioni con la madre, dallapaura. Non a caso le scene che ricordo meglio sono due: la prima è quella in cui

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Anna e gli altri inquilini del nascondiglio, sentendo rumore e capendo che sotto diloro c’è qualcuno, credono che siano le guardie che li hanno scoperti e stanno in ansiafino al giorno successivo finché non ricevono dai loro benefattori la notizia che si eratrattato solo di un ladro. Di questa scena mi sono rimasti impressi gli occhi atterritidi tutti che, chini sul pavimento per ascoltare, si guardano l’uno con l’altro per darsisicurezza. L’altra scena è quella in cui Anna e gli altri, ormai scoperti e costretti alasciare il loro nascondiglio, raccattano le loro cose guardandosi sgomenti.

A conclusione del film mi sono chiesta come mi sarei sentita se avessi dovutovivere come una carcerata, anzi peggio, e se poi, dopo tante privazioni all’improv-viso qualcuno mi avesse costretto a salire su un treno e a dimenticare di aver vissu-to, diventando così un numero tra milioni di numeri. Di certo so che non avrei avutomai la forza di Anna, ma sarei stata subito assalita da ansia, paura, angoscia, nonsarei mai riuscita a confidarmi con nessuno, neanche con un diario ma, soprattutto,non avrei avuto, al contrario di Anna, fiducia negli uomini e capacità di perdonare.

Nadia Corallo (III B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”)

***Il diario è stato per Anna “un gran sostegno”, per noi è una testimonianza e un

simbolo dell’orrore, ma soprattutto è un invito ad adoperarci affinché tali soprusi,umiliazioni e violenze non si verifichino mai più… Forte è l’impatto psicologico chescaturisce dal testo che fa sì che ogni persona, condizionata dall’esistenza della«testimonianza» resaci da Anna Frank, accetti la verità dell’olocausto come un datodi fatto e soprattutto sia consapevole dei momenti più tragici della storia dell’uma-nità, evitando di ricadere nello stesso ineguagliabile errore. Conoscere la storia è unmodo per diventare più coscienti della propria esistenza, per dare un senso alla vitae per contribuire a costruire un mondo migliore, dove regni l’amore, la solidarietà,l’uguaglianza e la pace.

Ilaria D’Amico (I B Liceo classico “F.lli Testa”)

***Quante emozioni ho provato durante la proiezione di questo film! Mentre tutti

stavano con le orecchie tese, incollati alla radio che dava annunci rassicuranti, hosperato, insieme ad Anna, che tutto finisse presto, che lei potesse tornare a sorride-re e ad uscire per la città in assoluta libertà, che potesse trascorrere, insomma, la nor-male vita di tutti i giorni... Quando tutti gli inquilini della soffitta distesi a terra s’im-ponevano vicendevolmente con gli sguardi di non fiatare, mentre un ladro si muo-veva al piano di sotto, ho tremato di paura; mi sono sentita confortata nel vederemembri della famiglia ospitante che portavano ai rifugiati cibo e notizie; ho gioitocon Anna mentre festeggiava il Natale; ho inseguito con commozione i suoi sogni,

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condiviso le confidenze fatte a Peter ed ho avvertito un colpo al cuore quando i sol-dati tedeschi hanno sfondato la porta… E per la prima volta mi sono sentita infini-tamente fortunata nel rendermi conto, a conclusione del film, che la guerra e le per-secuzioni sono lontane dal mio vissuto di ragazza del duemilanove, libera di uscire,di divertirmi con gli amici, di andare a scuola, di vivere una vita agiata e serena.

Maria Pina Di Narda (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

***È disumano non prestare attenzione a questo avvenimento vissuto da un’adole-

scente, così come da altri milioni di persone. Forse noi giovani non riusciamo acogliere l’importanza di quanto è accaduto, perchè poniamo nel passato quell’even-to, senza considerare che si tratta, invece, di una realtà che continua a ripresentarsinel nostro tempo. Ma proviamo ad immaginare di vivere una vita da rifugiati per dueanni, di essere scoperti dalla polizia, di essere strappati dal proprio presente, dalleproprie abitudini, di dimenticare di aver vissuto per diventare un numero, nonostan-te non si sia commessa alcuna colpa, di non contare più niente. Ci accorgeremo cheè davvero impensabile dover perdere la propria identità…

Loredana Di Pasquale (II B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”)

***Anna, pur apparendo ottimista e piena di vita e non dimostrando la sua angoscia e

tristezza, in effetti incosciamente ha introiettato le ansie e le paure determinate dallarealtà che la circondava, tanto è vero che esse riemergono nel sogno. Una notte, infat-ti, Anna è preda di un incubo che la sconvolge a tal punto da indurla ad urlare.

Quello che mi ha colpito è stata la reazione dei familiari e degli altri inquilinidella soffitta, i quali appaiono meno solleciti nel tranquillizzarla e consolarla e piùpreoccupati che il suo urlo, udito dai vicini o dalle pattuglie di polizia, potesse met-tere a repentaglio la loro sicurezza.

Ilenia Faro (IV B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”)

***Se ripenso al film che ho visto a scuola, proprio sulla storia di Anna Frank, mi

prende una specie di magone e ammetto che non so bene come trattare questo argo-mento, un evento così terribile, lontano da me e dalla mia vita. In realtà, penso che,alla fine, il punto sia solo uno: c’è, da parte mia, l’impossibilità di credere chel’umanità possa avere degli “angoli” così malvagi. E non sto parlando solo deiTedeschi - o, meglio, dei nazisti - ma dell’umanità nella sua figurazione più ampia.Io posso anche capire che ci possa essere una mentalità in base alla quale si ritienela propria cultura superiore alle altre, però, qualunque siano le motivazioni, mi risul-

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ta molto difficile comprendere che ci siano persone pronte a sterminarne altre.Suppongo che i militari al servizio di Hitler fossero convinti dell’ideologia che que-st’uomo folle stava pubblicizzando, ma, anche accettando ciò, non capisco come,davanti ad una madre, ad una nonna, ad un bambino, a un semplice uomo, potesse-ro, con sangue freddo, premere un grilletto. Ecco quale è stato uno dei grandi orro-ri dei nazisti: hanno ucciso metà dei deportati e hanno lasciato che l’altra metà, cheè riuscita a rimanere in vita, provasse costantemente una sensazione di morte.

Mi sorprende che ora ci sia gente che vada a dire che l’olocausto è stata solo unafinzione... Ma come ragioniamo? Come possono dire che una simile catastrofe, cheha causato un genocidio di tali dimensioni, che ha lasciato tanti sopravvissuti consull’avambraccio numeri che suonano come una condanna a morte, siano solo frut-to di una finzione? È già orribile parlare di persone come se fossero dei numeri.

Se ancora ripenso a questo film provo tanta rabbia e disprezzo per coloro che,senza un briciolo di cuore, hanno privato una ragazzina della propria adolescenza,facendole vivere una traumatica esperienza di clausura e terrore proprio negli annipiù importanti e belli dell’esistenza di ciascuno, e che per lei, invece, furono gli ulti-mi. Purtroppo niente ci assicura che un simile orrore non possa ricapitare ancora ....E se ricapitasse? Il mondo sarebbe così stupido da ripetere lo stesso errore duevolte? Penso proprio di sì, anche se spero davvero, con tutto il cuore, che ci possaessere ancora uno spiraglio di bene su questa terra.

Virginia Fascetta (I A Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Sono rimasto colpito da una riflessione di Anna Frank: “Il mondo va alla rove-

scia, le persone rispettabili sono spedite in campi di concentramento, in prigione ein celle isolate, mentre i peggiori governano su ricchi e poveri, giovani e vecchi”.Come possono poche persone decidere del destino di tanti altri uomini, che hannocome unica colpa quella di appartenere ad un’altra razza? Pochi decidono, moltisubiscono; ma purtroppo a decidere sono spesso i peggiori, spinti, nelle loro deter-minazioni, dal senso di onnipotenza, dalla sete di dominio. Non sappiamo cosa ciattende domani. Spero solo che il mondo possa andare avanti nella giusta direzionee non ancora “alla rovescia”.

Loris Grasso (III B Istituto Comprensivo “L. Pirandello)

***Molte sono le scene alle quali lo spettatore si accosta con commossa partecipa-

zione, riuscendo quasi a provare la stessa trepidazione che prova la piccola Franknell’abbandonarsi alle emozioni con compostezza e senza mai cadere in sentimen-talismi. Basti pensare alla scena dell’incontro con Peter, figlio della coppia dei Van

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Daan, che le permette di vivere l’emozione del primo bacio. Quale, se non questa scena, trasmette una nota di struggente tristezza nella con-

sapevolezza che un drammatico destino attende i due giovani? Essa, però, è comeuno squarcio di luce in una realtà dai toni drammatici nella quale la suspence giocaun ruolo importante e diventa quasi ineliminabile nella quotidianità. Molteplicisono, infatti, le scene in cui lo spettatore resta con il fiato sospeso e il cuore galop-pante in gola, sentendosi emotivamente vicino agli avvenimenti che turbano glianimi dei protagonisti, mettendoli spesso in gioco contro un nemico che riesce adessere il più tiranno degli avversari: il destino.

Particolarmente frustranti ed intense sono le scene delle incursioni delle S.S. e ditutti gli stratagemmi a cui i protagonisti devono pensare per superare prove in cui èin gioco la loro stessa vita. Si ritrovano così a contenere ogni minimo movimento, aridurre ad un lieve sibilo ogni singolo respiro, a cercare di frenare anche il battitocardiaco per evitare errori e non mettere a repentaglio se stessi e la sicurezza altrui.

Lo spettatore che assiste a simili scene arriva addirittura ad immedesimarsi neipersonaggi e ad ammirare la loro prudente determinazione e la loro voglia di farce-la, la loro speranza di continuare a rivestire un ruolo nella società. Ma la fortunagioca loro un brutto e definitivo scherzo. Scoperti durante un’incursione inaspettatadelle SS, sono costretti a salire su un treno, augurandosi solo di aver salva la vita,rimpiangendo quegli anni di carcere forzato che perlomeno permetteva loro di con-tinuare a sperare e, anche se in maniera del tutto inusuale, a vivere.

Grazia Li Volsi (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

***Personaggi del film sono otto fuggiaschi, murati vivi in una soffitta e costretti a

vivere in un alloggio segreto in pochissimi metri quadrati. Nel corso di questa “clau-sura” forzata, li vediamo litigare, pregare, imprecare, tremare ai bombardamenti,trasalire ad ogni minimo rumore, sperare e angosciarsi, ma, soprattutto, veniamocaptati dalla vivacità, dall’allegria, dall’ironia e dall’ottimismo di Anna, una ragaz-za più adulta della sua età. Si percepisce che in lei convivono un’esuberante, allegratendenza a prendere tutto alla leggera ed una sensibilità delicata, profonda, chemostra solo a Kitty, il diario in cui racconta le proprie esperienze quotidiane e a cuiconfida le sue gioie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi sentimenti, l’amore perPeter, le incomprensioni con la madre, il rapporto conflittuale con la sorella maggio-re Margot. Intenso è stato il mio coinvolgimento nel corso di tutto il film, ma fortel’emozione nel vedere spezzati i sogni di Anna nel momento in cui gli agenti dellaGrüne Polizei hanno fatto irruzione nell’alloggio segreto e tutti sono stati deportatinei campi di concentramento di Auschwitz e di Bergen-Belsen, dove sappiamo (sindall’inizio del film) che Anna è morta.

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Il film mi ha portato a riflettere sulla crudeltà di un uomo che, arrogandosi ildiritto di scegliere cosa sarà della vita di altri esseri umani, in nome di una presun-ta superiorità della razza ariana, ha privato della libertà, della dignità, dei progetti,della vita stessa, altri esseri umani del tutto simili a lui.

Marta Lo Gioco (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

***Penso che la storia raccontata nel film “Il diario di Anna Frank” debba essere

conosciuta da tutti per interrogarsi sul vero senso della vita, per capire quanto noisiamo fortunati a vivere in questo mondo che, se pure imperfetto, ci permette la tran-quillità, l’agiatezza, ma, soprattutto, la libertà di cui Anna era stata privata. Quelmondo disumano ha spezzato la vita di una ragazza dolce, intelligente, innocente ecolma di spirito vivo, l’ha costretta a nascondersi, a vivere nell’oscurità.

Ma Anna, nonostante tutto, ha saputo affrontare la vita nel migliore dei modi, riu-scendo sempre a sdrammatizzare le situazioni opprimenti che laceravano il suocuore, a trovare la forza di credere nella fondamentale bontà degli uomini. È vera-mente ammirevole come una ragazza che abbia subìto tali limitazioni e atrocità nonriesca a provare odio contro coloro che le hanno spezzato la vita.

La piccola Anna è davvero una ragazzina da prendere come esempio, mi è entra-ta nel cuore e non solo mi ha dato la possibilità di riflettere su come avrei reagito semi fossi trovata al suo posto, ma mi ha fatto provare una profonda vergogna nell’ap-partenere al genere umano, capace anche di attuare crimini spietati come questo. Michiedo come abbiano potuto farlo e non riesco ad accettare che persone come Anna,solo per la loro origine ebrea, siano morte come legna da ardere a causa di uominisenza un briciolo di cuore.

Ilenia Modica (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

***Come adolescente mi rivedo nella protagonista del film, soprattutto nelle incom-

prensioni e nei conflitti con gli adulti, nei sogni, nelle illusioni e nelle emozioni pro-vate in quel delicato periodo della vita. Ammiro Anna per la sua tenacia, per il suocarattere ribelle e anche per la capacità di rendersi conto degli sbagli, ma soprattut-to la ammiro per la sua solarità e la sua forza nell’andare avanti senza abbattersi, nel-l’infondere coraggio agli altri, nell’affrontare i problemi di una ragazzina che crescee che si trasforma. Ma, soprattutto, la ammiro per la fiducia che continua a nutrirenei confronti dell’uomo, nonostante siano stati spezzati i suoi progetti di adolescen-te che si affaccia alla vita.

Cristina Pezzino (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

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***Oggi non sono molti i ragazzi che tengono un diario in cui annotare i grandi ed

i piccoli avvenimenti della propria vita, o le sensazioni e le riflessioni di ogni gior-no, però molti scrivono ai giornali, alle riviste, su internet, esponendo i loro proble-mi. Anna al suo diario affida anche i sogni di adolescente precoce e critica, le suesofferenze per i sistemi educativi dei genitori, i problemi di comunicazione con lamadre, il forte desiderio di essere compresa, nonché la volontà di migliorare ognigiorno. Tutti problemi che mi accomunano a lei e che mi fanno capire che il miomodo - spesso critico - di vedere i miei genitori è un’esperienza frequente, e forseinevitabile, per ogni generazione negli anni dell’adolescenza.

Ma questa ragazza, che non è un’inquieta adolescente di oggi, non ha né agi nésicurezza ed è costretta a “crescere” troppo in fretta tra gli orrori della guerra, dimo-strando la maturità di una donna. Di fronte alle tristezze, ai patimenti, alle sofferen-ze, Anna pensa che il mondo potrebbe essere assai diverso, prospero, pacifico, feli-ce, ed incolpa gli uomini per il loro impulso alla violenza, alla distruzione… masubito dopo, per uno slancio di generosità, per quella speranza nel futuro che nonpuò mai abbandonare i giovani (insegnamento valido per tutte le generazioni), affer-ma che bella è la natura, buona la gente che ha intorno, che la liberazione si avvici-na, che l’isolamento nel rifugio di Amsterdam è solo un’interessante avventura.Anna è animata solo dalla volontà di vivere e dal desiderio di amare. C’è sempre unaparola piccola piccola sulla bocca della nostra eroina: “Poi”. Quanti sogni sono lega-ti a questo “poi ”! Sogni che fanno pensare alla libertà, alla guerra finita, al cessaredell’incubo della paura.

Anche io vivo col “poi”, un “poi” fatto di sogni: una splendida carriera, un belragazzo, dei veri amici, una vita felice e serena. Certo, sogni molto diversi da quel-li della ragazzina chiusa in una soffitta, perché ebrea, ma pur sempre sogni, calatinella mia realtà. Questa speranza, questa fiducia nell’avvenire appaiono a noi, cheben sappiamo quale sarebbe stato il futuro della giovinetta, infondate e prive di pro-spettiva. In tutte le scene del film, purtroppo, noi avvertiamo l’ombra sinistra dellaguerra, l’eco degli avvenimenti in cui gli uomini misurano la loro barbarie, perce-piamo che Anna è un’ anonima vittima di eventi più grandi di lei, che passa in silen-zio sul mondo e che dovrà piegarsi davanti al triste destino.

Il film è la testimonianza di un’epoca buia e terribile ed un tremendo atto di accu-sa contro il nazismo e contro la guerra. Evento che reca, purtroppo, infiniti mali, enon ultimo quello di spegnere anzitempo la giovinezza, di proporre drammatica-mente ai ragazzi problemi che più si adatterebbero ad altra età, ad altro tempo del-l’esistenza.

Lavinia Pirrone (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

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***I canti intonati insieme ad altri ragazzi, i film visionati sul tema dell’olocausto

mi hanno suscitato profondi interrogativi: “Perché l’essere umano, lungo tutta la sto-ria, ha quasi sempre preferito la guerra alla pace, l’aggressione al dialogo, la violen-za alla collaborazione?”

Ho sempre pensato che l’uomo fosse programmato per perseguire il bene. Infatti,con la sua intelligenza, egli è capace di realizzare opere meravigliose, conquistarelo spazio, inventare nuove tecnologie, forse anche fermare il tempo, ma poi finiscecol compiere scelte sbagliate, finalizzate a scopi distruttivi.

Ho sempre pensato che l’uomo fosse generato per amore, quindi, per sua stessanatura, incline a dare e ricevere amore, a tendere la mano all’altro, a perdonare, adialogare, a credere nei suoi simili.

Ma la storia mi ha insegnato che forse sbagliavo. Forse, nell’indole umana con-vivono un impulso a far del bene e un altro, uguale e contrario, tendente al male, allaviolenza, alla guerra, alla strage.

Ma, mi chiedo, qual è la vittoria del male, della sopraffazione e della morte? Davide Turco (III B Istituto Comprensivo “L. Pirandello”)

***Il film Il diario di Anna Frank mette in evidenza le difficili condizioni di vita dei

componenti di due famiglie di ebrei costretti a rifugiarsi in una soffitta per ben dueanni durante le persecuzioni naziste. Nessuno di loro poteva immaginare che loStato di cui erano cittadini come tutti gli altri, potesse privarli di diritti faticosamen-te acquisiti ed inoltre considerarli stranieri da spingere fuori dei confini della patriae nemici da estinguere. Nessuno di loro poteva aspettarsi che il vicino di casa concui tutti i giorni scambiava chiacchiere potesse denunciarlo e magari cercasse dicomperare per un piatto di lenticchie il suo appartamento prima che gli venisserequisito. Eppure questi otto ebrei videro la loro vita progressivamente limitata,sopraffatta, annientata, ed infine videro la loro identità cancellata.

Il film non si sofferma solo sulla superficie di questa dolente pagina della storiatedesca, limitandosi ad una fredda cronaca di quanto accaduto, ma scende in profon-dità tracciando un ritratto vivo di Anna, ragazza coraggiosa e sensibile, e degli altriinquilini della casa, facendo trasparire tutte le loro incertezze, le loro debolezze e leloro preoccupazioni. Commuove ed emoziona questa nostra coetanea che, con la suadisarmante semplicità, il suo sorriso e i suoi sogni riesce a far volare in alto il nostrocuore, a darci il coraggio necessario per superare le paure della nostra età. Ma, sesolo pensiamo a quanti giovani sono state tarpate le ali, a quanti sono stati privatidella loro giovinezza e dei loro sogni, del loro aspetto fisico e dei loro sentimenti espesso della loro vita, ci vengono i brividi e continuiamo a non capire come si possa

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arrivare a fare tutto ciò a delle persone inermi. La visione del film e la messa a confronto della nostra vita con quella della pro-

tagonista, una ragazzina della nostra stessa età ma vissuta al tempo delle persecuzio-ni, hanno avuto come effetto di farci apprezzare di più la nostra condizione basatasulla libertà, sull’ agiatezza, sulla tranquillità, sulla possibilità di respirare all’ariaaperta e di farci capire quanto siamo fortunate. Abbiamo immaginato, per alcuni atti-mi, di vivere nella realtà di quel tempo: andare a scuola, divertirci con gli amici,essere innamorate e, all’ improvviso…, essere costrette da animali con delle divisea salire su un treno e a dimenticare di aver vissuto... diventando solo stupidi nume-ri tra milioni di numeri. Ma come si fa a chiamare uomini individui siffatti che hannospezzato, troncato tante giovani vite?

Giusy Manerchia, Roberta Prestifilippo, Angelica Rotondo, Giusy Rotondo, Fabiana Sangiuliano (I B Liceo S.P.P.“F.lli Testa”)

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Intervista immaginariarivolta ad una famiglia ebrea riuscita a sopravvivere al campo di concentramento diAuschwitz (a cura della classe III A Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

A quel tempo conoscevate il destino che vi sarebbe toccato se foste stati cat-turati dai Tedeschi?

No, sapevamo che eravamo noi ad essere ricercati, però non conoscevamo né ilperché, né quale destino ci sarebbe toccato se fossimo stati catturati.

Perché non avete pensato di andare via?Non volevamo lasciare i nostri affetti, i nostri amici, la terra dove avevamo sem-

pre vissuto e non volevamo costringere i nostri figli a dover lasciare tutto, ad abban-donare la loro scuola, gli amici, la vita che ormai avevano creato. Sapevamo che nonsarebbe stato facile per loro iniziare a vivere in un posto nuovo, che non conosceva-no: con una lingua diversa, con usi diversi e con un modo di pensare diverso.

Come siete riusciti a nascondervi?Avevamo trovato una famiglia tedesca che, non condividendo il pensiero di

Hitler, ci aveva fatto sistemare in un sottotetto e ci portava i pasti. Ma la vita non erapiù la stessa: i nostri figli non potevano andare a scuola, noi non potevamo lavora-re, non potevamo uscire, non potevamo parlare, non potevamo fare rumore, nonpotevamo accendere la luce o la radio in determinate ore della giornata … non pote-vamo vivere. Era una vita infernale, insopportabile. Era come stare in carcere!

Quando siete stati trovati ed arrestati dalle SS?Il 16 ottobre 1943 i soldati entrarono in casa e frugarono dappertutto, finché non

ci trovarono; ci puntarono fucili addosso, fummo costretti ad uscire e a salire su deigrandi camion insieme ad altri ebrei. Non sapevamo dove ci stessero portando equale sarebbe stato il nostro destino.

Quale fu la più dura tortura che siete stati costretti a subire?La tortura peggiore era capire che ormai non eravamo più considerate persone,

ma solo numeri pronti ad essere cancellati per sempre.

Che cosa avete provato quando i Russi hanno aperto i cancelli del campo diconcentramento?

Non è facile spiegare le emozioni che abbiamo provato, sicuramente il momento piùbello è stato tornare a casa; lì un senso di libertà ci ha avvolti e l’unico pensiero eraquello di cominciare una nuova vita, lasciandoci dietro quella terribile esperienza.

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Intervistarivolta agli alunni della classe IV A Ginnasio*

Pensate che la tragedia raccontata da Anna debba essere conosciuta oppureritenete sia un evento che appartiene al passato?

Crediamo che questa sia una domanda retorica perché chiunque possieda uncuore deve custodire nella sua mente ciò che è successo. Non si deve ricordare soloper quel breve arco di tempo chiamato “giorno della memoria”, ma i terribili avve-nimenti accaduti in passato devono rimanere sempre vivi nelle nostre menti, affin-ché non siano più ripetuti gli stessi errori e sia garantito un futuro migliore.

In che senso la crescita di Anna è stata frustrata?

A soli tredici anni dovette nascondersi con la sua famiglia in un piccolo spazio a duepiani, passando le sue giornate con la paura che i nazisti potessero trovare lei e lasua famiglia e condurli in un campo di concentramento. Questa è la realtà che Annavisse, una realtà non facile da capire per noi, ragazzi quindicenni, che viviamo, oggi,condizioni di vita molto differenti. L’adolescenza della piccola Frank si differenziada quella delle sue coetanee perché forzata a evolversi precocemente in una maturi-tà innaturale, a causa della difficoltà di essere in quell’epoca “ebrei”. Anna Frank è divenuta il simbolo della Shoah sia per i suoi diari scritti nel periodoin cui la sua famiglia si nascondeva alla persecuzione nazista, sia per la sua tragicamorte, allorché rinchiusa nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, vi morìall’età di soli sedici anni.

Riesce l’odio razzista della Germania hitleriana a piegare l’infanzia di Anna?Noi crediamo che Anna sia stata una ragazza molto coraggiosa e soprattutto anima-ta da una grande gioia di vivere. L’odio razzista indubbiamente l’ha cambiata, datoche ha dovuto crescere in fretta. Ma siamo quasi sicuri che l’odio razzista non l’hapiegata perché lei ha capito che la vita è troppo bella per poter essere distrutta dastupide idee. Ha scoperto la vita in tutte le sue sfaccettature, ha scoperto forse trop-po presto la cattiveria degli uomini, ma è anche riuscita a trovare la gioia nelle pic-cole cose: l’amore per la natura e per la vita. Senza dubbio la sua vita è stata diffi-cile, ma lei ha tenuto duro con quel forte carattere di cui era dotata.

Riflettendo sul film, dite quali sono le scene che vi sono rimaste particolarmen-te impresse e spiegatene il motivo.

Il diario di Anna Frank è uno dei film che, più di ogni altro, ci ha maggiormente

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* Ciascun allievo ha espresso liberamente le sue idee sul film “Il diario di Anna Frank” e successiva-mente i singoli contributi, o meglio quelli condivisi dalla maggioranza, sono stati sintetizzati e sonoconfluiti in risposte uniche.

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commosso. Le scene che ci sono rimaste particolarmente impresse sono quelle in cuile famiglie scherzano e ridono, pur vivendo con la paura che, prima o poi, sarebbe-ro state scoperte dai nazisti e condotte ad Auschwitz, ma siamo stati colpiti da tuttoil film perché, nonostante le durissime condizioni di vita, la piccola Anna riesce avivere momenti di spensieratezza e a trovare la forza di affidare alle pagine del suodiario i suoi pensieri.

Come adolescenti vi rivedete nella protagonista del film che vive le paure, i con-flitti, le incomprensioni, gli amori, le illusioni, gli entusiasmi tipici della vostraetà?

Nella vita di Anna Frank rivediamo alcuni aspetti di quella che è la nostra adolescen-za, aspetti tipici di questo periodo così conflittuale e delicato: tristezza, gioia, insod-disfazione, voglia di distaccarsi, voglia di spazi propri e ribellione agli schemi fami-liari; ma il contesto è completamente diverso e non paragonabile. Noi, nonostante icontinui litigi sia con i nostri familiari che con nostri amici, conduciamo una vitaserena da tutti i punti di vista, invece Anna è stata costretta a vivere tra paure e sof-ferenze in uno spazio angusto e soffocante. Considerando ciò, riesciamo oggi più diieri a minimizzare i problemi di tutti i giorni e ci rendiamo conto che il nostro con-testo, per quanto a volte problematico e combattuto, è un contesto sereno e affettuo-so che dobbiamo imparare ad apprezzare di più.

Mettendo a confronto la vostra vita con quella di Anna, una ragazzina dellastessa età ma vissuta al tempo delle persecuzioni naziste, come considerate lavostra condizione?

Oggi nel XXI secolo ci troviamo a combattere delle guerre e ad affrontare certesituazioni che ai nostri occhi di quindicenni appaiono insormontabili, ma, nonostan-te tutto, non si tratta delle stesse difficoltà che ha dovuto affrontare Anna. Infatti, noioggi siamo liberi di vivere la nostra vita, guardando la luce del sole, cosa che Annanon ha potuto permettersi, costretta a vivere chiusa in una soffitta per non essere cat-turata dai nazisti. È per questo che consideriamo la nostra condizione più fortunatadi quella di Anna.

Provate ad immaginare di vivere nella realtà di quel tempo.

Immaginare di vivere nella realtà di quel tempo andando a scuola, divertendoci congli amici e, all’improvviso, essere costretti a salire su un treno e dimenticare tutto,crediamo che per noi sia una cosa impossibile. E ancor di più sarebbe per noi inso-stenibile perdere la nostra identità per diventare solamente un numero, essere consi-derati esseri inferiori, subire maltrattamenti, sevizie, massacranti torture.

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Una vita non più tua

Il proprio nome dimenticato,la propria origine annichilita.

Forti spari nell’aria,riportano ad una vita non più tua.

Nel vento gelidol’eco di urla e latrati,

voci e lamentidi uomini annientati.

Bimbi spaventati e infreddoliticercano le dita della mamma,

trovano colpi di frusta.Le lacrime fredde

si mescolano al fango.Nel cuore la nostalgiadella propria famiglia,

della propria casa,della propria vita.

Giorgia Maira(III B Istituto Comprensivo

“Luigi Pirandello”)

La mia tavolozza

La mia tavolozza ha tanti coloriil rosso del mio cuore

e per farlo ci vuole amoreil giallo del grande sole

che gioisce con una canzoneil bianco della candida neveperché anche questa serve

ed alla fine per un tocco da maestrofaccio i contorni tutti di nero.

Che bel quadro può far la mia manocon un tocco qua e un tocco là

e così e tutto fattoe così avrò un quadro perfetto

solo se i colori unisco.

O uomini siate come i coloriunitevi per un quadro

datevi la manoe capolavoro sarà fatto.

Alain Calò(III C Istituto Comprensivo

“D. Alighieri”)

POESIE

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Olocausto

Bimbi innocentitrascinati in una realtà

incomprensibile.Madri

lacerate nel cuore,le cui lacrime

non lavanol’eterno dolore.

Assurdie irrazionali disegni

di pulizia etnica.Sogni bruciati

in un fornoe volati in cieloin una nuvoladi fumo nero.

Sofia Lo Sauro(III B Istituto Comprensivo

“L. Pirandello”)

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Ali spezzate

Fuori dalla storia,fuori da ogni realtà,

ho immaginato di vivere l’incubo,ho trovato il coraggio

di raccontarlo.Non ho occhi per guardare

corpi arsi nei forni,non ho orecchie per udire

il pianto di gente che muore,non ho mani per toccarealtre mani gelide e vuote.

Ma ho la mente per abbatterequel recinto mortale.Chi erano veramente

quei numeri vaganti, senza nomee senza più amore?

Povere vittimesenza voglia di vivere.

Poveri passeri dalle ali spezzate.

Rossana Emanuele(III B Istituto Comprensivo

“L. Pirandello”)

POESIE

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Nen se pò…

di Francesca Fascetta Bonomo*

Nen se pò rrömpö n’ala a n’occeddëttöche d-à pighjè ö volö.

Nen se pò privè na fantinëtta dö› prièsgetöde deventè mama.

Nen se pò privè n vieghjö,de spirè nô sò ddieitö,n pasgiö cö› Signörö.

Omö! Tu nen puoë, pe davera,desiè ste malë cosë, pe tu stissö.

Mieghjö che scömpariscëdâ fazzö dâ Terra,chjötostö de semenèancöra dannë ô möndö möndö.

Non si può …Non si può spezzare un’ala ad un uccellino, / che deve iniziare a volare. / Non si

può privare una giovinetta della gioia / di diventare mamma. / Non si può privare unvecchio / di morire nel suo letto, / in pace con Dio. / Uomo! Tu non puoi, in verità,/ desiderare queste brutte cose / per te stesso.

Meglio che sparisci / dalla faccia della Terra, / piuttosto che spargere / ancorasofferenze per il mondo.

* Francesca Fascetta nasce a Catania il 29 agosto 1951. Vive a Nicosia, dove insegna Materie let-terarie presso l’Istituto Comprensivo “Dante Alighieri”. Da sempre appassionata di una poesia capacedi rispondere alle più diverse sollecitazioni (dalla natura ai sentimenti; dalle problematiche giovanilialle più tradizionali ricerche sull’esistenza dell’uomo) e profondamente legata alla cultura galloitalica,ha fatto del dialetto lo strumento privilegiato d’espressione anche nella composizione di testi teatrali.Di prossima pubblicazione è la sua prima raccolta di poesie in dialetto galloitalico: “Così, per gioco …”.

Questa poesia e quella della pagina seguente - espressione immediata dei sentimenti della Fascetta,all'indomani delle proiezioni cinematografiche sulla Shoah - sono contrassegnate da un profondopathos. Di fronte all'ingiusta sofferenza che trafigge gli esseri umani, la poetessa non solo dà voce aduna pienezza sentimentale che la porta ad esprimere la sua tenerezza, la sua commozione, il suo sde-gno civile, ma anche coglie lembi di vita mettendo a nudo le azioni buone e cattive, i punti di forza ele debolezze degli uomini, per concludere che nessuno può rinunciare alla pace e alla libertà.

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Rregordando ö 27 Iënnaro …

di Francesca Fascetta Bonomo*

Ricordando il 27 gennaioCi sono stati uomini / che hanno fatto parlare / di loro per azioni buone; / altri,

per cose cattive, / che, ancora, altri uomini, / se potessero, / vorrebbero cancellare /dalla faccia della Terra. / Uomini che hanno affrontato qualsiasi difficoltà / pur di farsopravvivere la famiglia; / uomini che, al contrario, / non hanno dovuto faticare / euomini che devono lavorare duramente, / soltanto per respirare. / Uomini che sonofelici / già quando aprono gli occhi / e uomini che non smettono di piangere / daquando vengono al mondo; / uomini che non conoscono la paura / e altri che, al con-trario, convivono con essa. / Uomini, che come bambini, / vogliono qualcuno che liaiuti a fare i primi passi per non cadere; / uomini che possono tutto e possiedonotutto; / uomini, che non hanno neppure la forza di andare avanti. / Uomini privati delnome e del rispetto; / uomini che perdonano / e uomini, che custodiscono soltantoricordi. / Tanti sono gli uomini in questo mondo, / diversi tra di loro, ma tutti uomi-ni, / che insieme e sempre più d’accordo, / ad una cosa solamente non possonorinunciare: / alla pace e alla libertà.

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Ghj’anö staitö omëch’anö faitö parrède dëë pe cosë böë;autë pe cosë tristë,che, ancöra, autë omë,se podëŸssönö,volëŸssönö cancellèdâ fazzö de sta Terra.

Omë che s’anö daitö “a fazzö ê spinë spinë”pe campè a famighja;omë, che ô cöntrariö,anö trövaitö a tàvöla già cönzadae omë, che d-ana fadighèsölö pe rrespirè.

Omë che rridönö già quandö se rrevëŸghjönöe omë, che nen ddëŸntönö de ciàngiöde quandö nàsciönö;

e autë, che ô contrariö,càmpanö n ta pagöra.

Omë che comö carösgëtë,vuönö na man pe caminèpe nen se sderrupè;omë che tutö puonöe tutö anö;omë che nen anö mancö a balia pe campè.

Omë privaë dö› nomö e dö› rrispettö;omë che perdöŸnönöe omë che cöstödìsciönö rregordë sölamentö.

Tantë sö l omë n ta stö möndö;spairë tra de döë, ma tute omë,che semprö e semprö chjù d’accordö,a na söla cosa nen ponö rrenunziè:a pasgiö e a libertà.

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JONA CHE VISSE NELLA BALENA

Cast: Juliet Aubrey, Luke Petterson, Djoko RosicRegia: Roberto FaenzaSceneggiatura: Roberto Faenza, HughFleetwood, Joelle Mnouchkine, Filippo Ottoni Fotografia: Janos KendeMusiche: Ennio MorriconiMontaggio: Nino BaragliSoggetto: tratto dal romanzo “Anni diinfanzia” di Jona OberskiScenografia: Laszlo Gardonyi, MariaIvanovaData di uscita: 1993 Genere: DrammaticoInterpreti: Jean-Hugues Anglade (Max), JulietAubrey (Hanna), Francesca De Sapio (SignoraDaniel), Jenner Del Vecchio (Jona a 7 anni), Luke Petterson (Jona a 4 anni), DjokoRosic (Signor Daniel)Produzione: Elda Ferri, Jean Vigo International French Production - Focus Film inassociazione con RaiunoOrigine: Francia, ItaliaDurata: 90’

TramaIl film racconta la storia di Jona Oberski, un bambino di 4 anni che vive ad

Amsterdam durante la Seconda guerra mondiale con i genitori ebrei Max e Hanna.Quando la storia comincia, il mondo non è ancora caduto nelle mani dei cattivi: ilpiccolo Jona, adorato dai genitori, cresce tranquillo in una signorile casa diAmsterdam, circondato dalle attenzioni dei genitori. Un giorno il piccolo viene por-tato via dai nazisti insieme alla madre, che tuttavia riesce a farsi liberare, esibendoun visto per la Palestina. La vita riprende tranquilla, interrotta solamente dai com-portamenti discriminatori di alcuni abitanti del quartiere, ma la maggior parte delsuo tempo resta dedicata al gioco spensierato. Poco tempo dopo, a causa dell’occu-pazione nazista della città, le cose volgono al peggio. La speranza di poter emigra-re in Palestina si rivela infondata. Dopo una breve permanenza in un campo di smi-stamento tedesco di Westerbrock, si parte di nuovo, ma invece che in Palestina,

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come tutti pensano, si va a Bergen-Belsen, un campodi transito in Germania, dove gli ebrei vengono rin-chiusi per essere poi scambiati con prigionieri ger-manici. A 7 anni, Jona ha già subíto freddo, fame,paure e sofferenze: sempre insieme per sua fortunaai genitori (in baracche comunque diverse), il bam-bino è obbligato a farsi un mondo suo, subendoanche momenti umilianti e angherie da parte deglialtri ragazzi, abituandosi al filo spinato e alle vociminacciose. Lasciato con la madre, Jona potrà rive-dere il padre solo due volte: in occasione di unincontro furtivo tra i genitori (un medico si lasciacorrompere con una scatola di sigari) e il giornodella sua morte. Poco dopo sopraggiunge la malattiadella madre, che, curata in un ospedale sovietico,viene assistita da una ragazza a cui la donna moren-te affida Jona. Infine, nel 1945, il bambino saràaccolto dalla generosa accoglienza dei Daniel, unamatura coppia abitante ad Amsterdam.

CommentoIl film, diretto da Roberto Faenza e tratto dal

romanzo autobiografico dello scrittore fisico nuclea-re olandese Jona Oberski intitolato “Anni d’infanzia.Un bambino nei lager.”(1977), è un importante filmitaliano sul dramma dell’Olocausto, che ha ottenutonel 1993 il premio David di Donatello per “Migliorregia”, “Migliore musicista”, “Migliore costumista”ed il premio Efebo d’oro di Agrigento.

Tratta il tema dell’antisemitismo e della shoah daun punto di vista molto particolare: quello del suopiccolo protagonista, Jona, che divenuto adultoricorda alcuni momenti della sua infanzia e gli annitrascorsi nel campo di concentramento. I fatti di cin-quant’anni fa diventano cinema attraverso lo sguar-do di Jona, ma questo sguardo, a sua volta, è filtratodalla memoria. Egli ricorda, narra, si sofferma moltospesso su cose minute: il cibo, il sonno, i carcerieri visti sempre all’altezza degli sti-vali, le baracche, la gente pietosa (come l’anziano cuoco di un lager e il medico del-

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l’ambulatorio), qualche rimprovero, qualchemomento di solidarietà. Il personaggio è contraddi-stinto da una visione della realtà che tende alla rimo-zione o alla rielaborazione fantastica degli eventiattraverso l’immaginazione.

Nella prima parte del film, caratterizzato da untono fiabesco che costituisce il filtro attraverso cui ilpersonaggio percepisce gli eventi, emerge la suavisione del mondo: quella di chi è sensibile al dolceincanto di una nevicata. Ha appena quattro anniquando le sirene di allarme si mettono a suonareminacciosamente e i tedeschi irrompono nella suacasa urlando. Jona si rende conto delle apprensionidel padre all’arrivo di strani uomini in divisa, cheparlano una lingua sconosciuta, ma viene protetto erassicurato dal calore della sua famiglia. Jona vede esente, ma non comprende il vero significato deglieventi che si svolgono intorno a lui. Come quandoun ragazzo più grande distrugge i suoi giochi, oquando gli viene cucita sulla giacca un’enorme stel-la di cartone giallo o, ancora, quando la mamma liti-ga col verduriere che non vuole venderle gli ortaggi,perché ebrea. Ma è proprio attraverso questa origina-le percezione che i comportamenti e le azioni discri-minanti e violente nei confronti degli ebrei sonoavvolti in un’atmosfera che li rende ancora piùassurdi e privi di senso. Come nella scena di ingres-so nel campo di Bergen-Belsen, in cui dei signorivestiti tutti allo stesso modo li accolgono manovran-do delle strane macchine (si tratta delle cinepresecon cui i tedeschi riprendono i deportati ebrei, perfornire materiale cinematografico alla propagandainterna). Rinchiuso nel suddetto campo di concen-tramento, strappato al suo mondo di giochi, gettatocon violenza tra i reticolati del lager, Jona vive ilproprio percorso di formazione e compie le sueprime esperienze d’amore, di dolore, di rapportisociali, di capacità di sopravvivere.

Paradossalmente il Lager nazista diventa per lui un ambiente quasi normale, ilsolo mondo che conosce. Per lui è normale pescare di nascosto sul fondo di grosse

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pentole i resti del pasto delle SS; per lui è normaleessere separato dal padre, per lui è normale esserefrustato da una guardiana per un nonnulla. Impara avivere e a guardare con lo sgomento attonito di chi èstato costretto dalla vita a diventare grande troppo infretta. All’età di sette anni deve immaginare che cosastiano facendo la mamma e il papà, delle cui figurevede soltanto una piccola porzione, all’interno del-l’infermeria dove si sono rinchiusi da molto tempoper un incontro amoroso. Oppure deve confrontarsi,con i pochi mezzi d’interpretazione di cui dispone,con la morte del padre che avviene proprio nel lettoaccanto al suo, dopo essersi dimenticato di avvisarela madre della gravità delle condizioni del genitore.Nei giorni successivi a questo evento, dovrà affron-tare una vera e propria prova d’iniziazione. Ècostretto dai suoi amichetti a entrare nel luogo in cuisono ammassati sotto le lenzuola i cadaveri deideportati. Terrorizzato, Jona rompe un vetro e si dàalla fuga, ma il suo coraggio viene apprezzato daicompagni di gioco. Assecondando la curiosità tipicadell’infanzia, ogni angolo del campo diventa per ilpersonaggio un’occasione per realizzare delle sco-perte che stanno a metà tra la stramberia e la mera-viglia.

Sono ammirevoli la delicatezza, la profondità el’attenzione del regista (pure autore della sceneggia-tura insieme con Filippo Ottoni) nel raccontare leesperienze di un bambino al quale viene sottrattal’infanzia, che perde i genitori, che acquista lacognizione del dolore e della morte, ma che non silascia vincere dalla tentazione dell’odio, trovando ilcoraggio di mantenersi ben più in alto delle coseorribili che tuttavia, con dolore, vede e mostra.“Guarda sempre in alto e non odiare mai nessuno”:così dice a Jona la madre. Glielo dice una primavolta, ad Amsterdam, quando intorno a loro il cer-chio dell’odio comincia a stringersi, e glielo ripete quando quel cerchio è stato spez-zato dal crollo del nazismo.

Il campo di concentramento è l’ambiente in cui Jona vive il proprio percorso di

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formazione, diventando, com’è tipico dell’infanzia,il centro dell’universo. In una tale prospettiva, que-sto luogo abitualmente rappresentato come mostruo-so e abnorme, acquista la forma della consuetudine edella normalità. Jona cresce costretto a cercare da séle risposte alle cose strane che si pongono sul pro-prio cammino, come quando comincia a trovaresbarrata la strada che porta all’ospedale dove si trovasua madre. O come quando, affidato a un’anzianacoppia dopo la fine della guerra, deve ricorrereall’immaginazione per ritrovare la voglia di viverenella nuova casa. Nell’incontro fantastico con ilpadre che scrive a macchina, materializzazione di unlontano ricordo, Jona trova lo stimolo per affrontarela sua nuova condizione. Nel finale - del tutto visio-nario - il padre morto riappare al bambino afflitto eprostrato come una presenza dolce e lontana, troppopresto perduta, un fantasma vitale che non condannaJona nella prigione della memoria, ma gli indica lastrada che conduce appunto alla vita. Dallabalena/lager il bimbo rientra nel mondo in cui è natoe diventa scienziato.

Il film mostra, semplicemente, la banalità delmale vista dagli occhi di un bambino innocente enon si dimentica più. Riesce a coinvolgere, specie làdove l’occhio del bambino che, guardando e ricor-dando, ci rappresenta in modo del tutto soggettivoquegli orrori quotidiani cui ha assistito senza arriva-re sempre a considerarli come tali, ma solo comeinciampi di una vita destinata all’inizio al gioco eagli affetti familiari.

Jona che visse nella balena è un film insiemedolcissimo e lancinante, che si segue con pena infi-nita, ma i suoi toni sono sempre contenuti, le sueaccuse sono sempre sussurrate. Non ci sono accuseche non siano implicite, che non nascano dalleimmagini e dall’impatto dello spettatore con esse. Lamacchina da presa non si sofferma sul lato mostruoso della macchina-lager, degliuomini e delle donne che funzionano come ingranaggi. Tuttavia, nonostante la

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vicenda non si svolga in un campo di sterminio, main un luogo in cui i carcerati ebrei, provvisti di unvisto per emigrare in Palestina, attendevano lì la finedel conflitto, pronti, in qualche caso, ad essere scam-biati con dei tedeschi prigionieri degli alleati ed inqualche modo venivano trattati in modo menobestiale, si percepiscono ugualmente i patimenti e glistenti di tutti i prigionieri - donne, uomini e bambi-ni- tenuti segregati, esposti al freddo, alle malattie ealle angherie dei secondini, e deportati senza alcunacolpa. Certo i patimenti erano meno crudeli, nell’in-fermeria potevano esserci lenzuola nei letti, in cuci-na il cuoco poteva permettere ai bambini di raschia-re il cibo rimasto sul fondo delle pentole e i prigio-nieri indossavano i propri abiti e non la divisa riga-ta, ma “meno bestiale”, infatti, non significa “piùumano”.

Pertanto il film parla con pudore e insieme conefficacia dell’Olocausto senza indulgere a voyeuri-smi di sorta, senza soffermarsi su scene di orrore.Eppure, pur non presentando nello sfondo nessunascena cruenta e nessuna camera a gas, lascia un’in-quietudine strana, dolorosa, proprio perché il nostrosguardo consapevole contrasta con quello inconsa-pevole di Jona, che dell’atroce realtà che lo circondacoglie soltanto alcuni particolari. Alla nostra pietànon occorrono SS urlanti e plateali. Essa vive dellosmarrimento di Jona, si alimenta del nostro doloreatterrito di fronte alla sua normalità. Per Jona, illager non è l’irruzione dell’assurdo nella vita: è pro-prio la vita, l’unica che conosca, a parte i primissimi anni lontani, nella bella casa diAmsterdam. Per lui, dunque, la vita e l’assurdo sono la stessa cosa.

Ma questa normalità viene da noi, naturalmente, rifiutata, perché non è normaleper noi la sua infanzia derubata; non è normale la sua familiarità con la morte: unamorte vissuta con spaventosa immediatezza, non ritualizzata, non integrata cultural-mente nella vita; non è normale che i suoi giochi di bambino debbano inventarsiimpossibili spazi nell’orizzonte del filo spinato.

Abbiamo sempre pensato che i Lager fossero mostruosi, aberranti, abnormi:quindi fuori di noi, irripetibili. É questa la cornice culturale in cui sono sempre stati

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inquadrati, anche nella stessa letteratura di Primo Levi: ma oggi basta vedere leimmagini della violenza esercitata sull’infanzia, di quanto è accaduto nell’exJugoslavia, per capire che non è vero, che il mondo dello sterminio non è inumanoma ci appartiene.

Jona che visse nella balena è un film fedele al romanzo, realizzato con grandeintensità e con impeccabile accuratezza e recitato da un protagonista bambino distraordinaria bravura (Jenner Del Vecchio) e da attori ben scelti. La fotografia è bel-lissima in quanto evidenzia la capacità dell’ungherese Janos Kende di condensaresentimenti nelle diverse parti della storia: i toni bruno-dorati e caldi della pitturaolandese, infatti, sono usati per rievocare la magia della prima infanzia felice delprotagonista nella casa di Amsterdam con i giovani genitori; il bianco abbagliantedella neve domina nel campo di concentramento in cui il bambino impara a soffriree a sopravvivere, a beffeggiare i tedeschi, a cercare di farsi accettare dagli altri bam-bini ed in cui vede morire suo padre; i colori misti evocano l’allegria che caratteriz-za il momento dell’uscita dal Lager; mentre colori umbratili prevalgono nelle imma-gini che ritraggono la morte della madre impazzita e i momenti in cui il bambinodisperato rifiuta la vita per poi riprenderla lentamente ed accettarla.

Riflessioni sul film “Jona che visse nella balena”

Il film Jona che visse nella balena è uno dei film più significativi che io abbiamai visto, non tanto per la tematica, che sicuramente non è da sottovalutare, ma perla forza d’animo e il coraggio del piccolo protagonista. Queste sue caratteristichesono sicuramente l’effetto dell’educazione ricevuta da parte dei suoi genitori, inmodo particolare dalla madre, che nei momenti di sconforto e di paura del piccolo,gli cantava una canzone il cui protagonista era il profeta Jonah, uscito dal ventredella balena fortificato e maturato dall’esperienza negativa.

Parimenti al profeta, il piccolo protagonista del film compie il suo percorso for-mativo nella balena, chiara metafora del campo di concentramento, in cui acquisi-sce gli strumenti necessari per affrontare le avversità, i soprusi e, soprattutto, la cat-tiveria altrui. Queste esperienze che potrebbero portare chiunque a covare nell’ani-mo sentimenti di rabbia, di odio e di vendetta, non sortiranno verosimilmente taleeffetto perché riecheggeranno nella mente di Jona le parole della madre: “ Ricordatisempre di guardare il cielo e di non odiare nessuno”. Importante sottolineare che taleinvito ad amare non costituisce un semplice precetto verbale, ma affonda le radicinell’infanzia del bambino, trascorsa in un’atmosfera profondamente intrisa di con-creti esempi di amore.

Sabrina Billone (V A Ginnasio “F.lli Testa”)

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***La balena, cui fa accenno il titolo del film, può considerarsi metafora dell’uma-

nità che non sente la compassione e non prova dolore. Il campo di concentramento,in cui è costretto a vivere il piccolo Jona, è privo di vita, squallido, infìdo, sprege-vole, così come il ventre del pesce è buio, umido, sconosciuto e immenso.

Alessia Bottari (III A Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

Il titolo del film “Jona che visse nella balena” può considerarsi un’ espressionemetaforica per indicare il campo di concentramento in cui avviene la maturazione diun bambino che conosce, ancora inesperto della vita e del dolore, un mondo duro esenza pietà. La crudeltà e la barbarie naziste hanno completamente distrutto l’infan-zia di Jona, colpevole solo di essere un ebreo. Questo odio razzista, che ha fatto sìche si considerassero nemici tutti gli ebrei che si avevano vicino, è stato il peggiormale della società tedesca di allora. Milioni di persone, in particolare bambini, sonostati, con cattiveria immotivata, umiliati, offesi e privati dei più elementari diritti.

Se tutto ciò è senza dubbio abominevole quando la vittima è una persona adul-ta, lo è ancor di più se è un bambino a pagare le conseguenze di questa folle ideolo-gia nazista. In tal caso si tocca veramente il fondo della disumanità, ed è impossibi-le offrire il perdono a persone che si sono macchiate di simili obbrobri.

Beatrice Carbonaro (V A Ginnasio “F.lli Testa”)

***“Jona che visse nella balena” è un film bellissimo, che impregna il cuore di sensi

di colpa. Il film, che si basa su testimonianze, dettagli, frammenti di ricordi, si con-figura come uno scorrere di immagini non cruente che, tuttavia, esprimono ugual-mente la devastazione dei campi di concentramento ed il profondo disagio di chiquell’esperienza l’ha vissuta in prima persona.

La sceneggiatura e l’impeccabile regia di Roberto Faenza narrano la condizioneinaccettabile dei prigionieri dei campi di concentramento e la “nuova esistenza” diJona e dei suoi genitori, privati di tutto, ma soprattutto della dignità di esseri umani.

Maria Michela D’Amico (III D Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

***Il titolo del film ricorda il celebre racconto di Collodi e l’esperienza del profeta

Jonah, entrambi usciti modificati dal ventre della balena. L’esperienza - fantastica eirreale per Pinocchio e Jonah, terribile e assurda per il piccolo Jona - può conside-rarsi per tutti un percorso di crescita necessario per uscire dai momenti difficili.

Giusy De Francisci (I B Liceo Classico “F.lli Testa”)

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*** La prima parte del film ci presenta un bambino felice che trascorre sereno le sue

giornate tra affetti e giochi, mentre la seconda parte è focalizzata sulla vita “dura”di Jona nel lager.

Secondo me, i due momenti potrebbero considerarsi metafora della vita dei bam-bini nel mondo contemporaneo: cioè, da un lato, bambini felici che trascorrono sere-namente la loro infanzia e, dall’altro, bambini infelici, vittime della violenza, dellapedofilia, dello sfruttamento, dell’abbandono, della guerra, dell’ignoranza e delleincomprensibili logiche degli adulti.

Vincenzo Di Gregorio (III B Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

***Dopo la visione del film “Jona che visse nella balena” il vuoto è disceso nel mio

cuore pensando alla solitudine di Jona e a come possa essere distrutta o finire in fret-ta una vita… Un senso di colpa mi è scivolato dentro e penso sia giusto ci rimanga.Il film denuncia, anche se indirettamente, i crimini nazisti e contribuisce senz’altroa sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze di un evento che ha distruttole esistenze di migliaia di persone e che ha lasciato una pesante eredità anche a crea-ture indifese ed innocenti, a cui è stata negata l’infanzia.

Alessandra Failla (III B Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

***Avevo sempre guardato alla stella di Davide come ad un’immagine piacevole,

quasi poetica, una stella a cinque punte, che da piccola avevo imparato a disegnaretra i banchi di scuola, con una tecnica rapida, e mi divertivo a riprodurla, colorarlaed attaccarla sul diario.

Poi ho rivisto, in un film sconvolgente, la stella cucita sulla giacca di Jona edegli altri ebrei, ed ho capito che la mia stella veniva usata come un marchio cherivelava qualcosa di sconosciuto, prima da me ignorato. Ho capito che anche unastella può essere utilizzata come segno di qualcosa d’ignobile, oscuro, che erameglio non mostrare, qualcosa di cui doversi vergognare: l’appartenenza alla pro-pria razza.

Federica Gaglione (III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello)

***Il film “Jona che visse nella balena” racchiude la memoria di un bambino che

ricorda la tragedia dei lager e la follia dei nazisti. Jona, il protagonista, impara avivere e guardare il mondo con sgomento attonito, di chi è stato costretto dalla vitaa diventare grande troppo in fretta; egli infatti viene strappato al mondo dei giochi.La parte più commovente, a mio parere, è stata quella in cui Jona, molto piccolo,

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viene picchiato da un ragazzo tedesco; un’altra scena molto commovente è quella incui il bambino ricorda il padre seduto alla scrivania mentre batte sulla macchina dascrivere il nome del figlio. Questi due episodi mi hanno colpito perché mettono inevidenza l’ingenuità e la voglia di sognare dei bambini, che nella maggior parte deicasi non riescono a capire come va il mondo e quindi lo interpretano come una favo-la in cui esistono i cattivi e i buoni.

Loris Antonino Grasso (III B Istituto Comprensivo “L.Pirandello”)

***Protagonista di questo film documentario è Jona, un bambino ebreo che fu depor-

tato insieme alla sua famiglia in un campo di concentramento. Lì egli dovette affron-tare molte avversità, imparare a lavorare e sopravvivere agli stenti ed ai soprusi per-petrati dai Tedeschi, essere staccato dal padre, rivederlo solo poco prima dellamorte, essere sottoposto dai ragazzi più grandi ad una tremenda prova di coraggio,(entrare nel capannone che ospitava i cadaveri dei deportati, che non avevano rettoalla sofferenza). Tutte esperienze che lo fecero maturare e diventare grande… Ma iomi chiedo: “Come si può diventare grandi a nove anni? Che diritto abbiamo, noi, ditogliere ai bambini il gioco, la spensieratezza, la fanciullezza? Come si può privareun bambino del sostegno di un padre e di una madre?”

Dopo aver visto il film mi è tornata alla mente la poesia Se questo è un uomo diPrimo Levi (che è diventata il simbolo della “Shoah” e dell’orrore della secondaguerra mondiale) in quanto a me pare che le parole rispecchino in qualche modo lefasi di questo film. I primi versi, infatti,

Voi che vivete sicuriNelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a seraIl cibo caldo e i visi amici:

Considerate se questo è un uomo

ricordano l’infanzia felice di Jona che, prima dell’avvento del nazismo, gioca felicecon la sua famiglia nella serenità di quel focolare domestico, che ben presto gli verràsottratto.I versi successivi

Che lavora nel fangoChe non conosce pace

Che lotta per un pezzo di paneChe muore per un si o per un no

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rimandano alla vita dei detenuti nel campo di concentramento, agli espedienti cuiricorrere anche per procurarsi un po’ di cibo e agli stenti patiti che, infine, hannoportato alla morte anche il padre di Jona.I seguenti versi

Considerate se questa è una donnaSenza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il gremboCome una rana d’inverno

fanno ritornare alla mente la scena del film nella quale la madre di Jona, a causa deldolore che ha dovuto sopportare, cade in una devastante pazzia che la conduceall’isolamento e alla morte.

Meditate che questo è stato:Vi comando queste paroleScolpitele nel vostro cuore

Stando in casa, andando per via,Coricandovi, alzandovi;Ripetetele ai vostri figli.

L’ammonimento che Primo Levi rivolge a noi tutti (“Vi comando…”) è l’impe-rativo a tenere viva la memoria di quanto successo nei campi di concentramento,affinché simili orrori non debbano ripetersi più. Ma a me sembra che l’uomo nonabbia imparato a sufficienza dalla storia; basti pensare al genocidio del Ruanda, allosterminio dei Serbi e dei Croati, alla guerra del Golfo, in cui moltissimi furono ibambini trucidati dai colpi di mortaio.

Ancora oggi ci sono altri Jona nel mondo: bambini che soffrono la perdita deicari, la perdita della propria libertà e della propria dignità. Ho letto con commozio-ne la lettera di un bambino curdo, Islam Yuksel, che ora vive in Italia, e mi chiedoquanti altri Jona ci saranno, prima che gli uomini capiscano che l’orrore di una guer-ra lascia per sempre delle cicatrici indelebili nei cuori di un popolo.“Mi chiamo Islam Yuksel. Sono nato nel 1990 in un villaggio dell’ex Kurdistan chia-mato Mardin, ai confini con l’Iraq. Nel mio paese c’è, da tanti anni, la guerra; unacrudele guerra di conquista, con cui la Turchia vuole appropriarsi delle nostreterre. In questa guerra ho perso delle persone della mia famiglia. Poi, la morte dimio padre, la fame, la disperazione ci hanno spinto a fuggire via dai luoghi cheamavamo e a cui sono legati i miei primi giochi. Come ci divertivamo! Giocavamoa nascondino, a conquistare posizioni nei quadrati disegnati col gesso, in cui sca-gliavamo le nostre pietre… Tutto è finito nel momento in cui siamo dovuti fuggire.

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Avevo sette anni. I miei ricordi sono un po’ lontani, ma ancora vivi, nella tristezzadelle immagini che rivedo nella mente. Con mia mamma e il resto della mia fami-glia (due sorelle e un fratello, oltre a me) siamo arrivati, tra tante disavventure, adIstanbul e lì ci siamo imbarcati su un’enorme nave chiamata “Ararat”, come ilfamoso monte dell’Armenia. In questa nave vecchia e scassata, eravamo ammuc-chiati insieme ad altre 800 e più persone; tutte disperate come noi; alla ricercadella speranza per il futuro.

Il viaggio su questa nave è stato un vero incubo. Mi dicevano che era tenuta agalla da uno strato di vestiti sistemati sul fondo dello scafo. Tutti avevano paura egridavano ad ogni suo sussulto. Mia sorella ha avuto tanta paura. Si stringeva a miamadre ogni volta che la navigazione diventava più pericolosa; ogni volta che lanave sembrava dovesse affondare e sparire tra le onde.

Il 17 dicembre 1997, la nave Ararat si è arenata sulla spiaggia di Soverato, inCalabria. A Soverato abbiamo ricevuto i primi soccorsi. Poi siamo stati trasferiti aGagliato. Qui ci hanno accolto bene; ci hanno dato da mangiare; ci hanno dato deivestiti. Io ero scalzo, mi hanno dato le scarpe; sono stati generosi. Hanno fatto cura-re quelli di noi che non stavano bene, tra cui mia sorella, che ha incominciato a sen-tirsi male tre giorni dopo lo sbarco in Calabria; da allora non si è più ripresa. Cihanno spiegato che ha subìto un trauma durante il viaggio su quella maledettanave………

Fa rabbrividire la lettura di questo brano, perché non trovo giusto che delle per-sone, soprattutto bambini, debbano assistere a determinate sofferenze e subirle.L’uomo è una creatura che si distingue dagli animali per la ragione, ma, quando cadenel “sonno della ragione” e commette certe barbarie, è di gran lunga peggiore dellapeggiore specie animale.

Roberto Li Volsi ( III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello”)

***Il titolo del film, che fa riferimento all’esperienza di Jona all’interno di una bale-

na (chiara metafora del campo di concentramento), ha richiamato alla mia memoriaaltri due personaggi che hanno provato anch’essi l’esperienza di vivere nel ventre diuna balena: il profeta Jonah e Pinocchio. Per entrambi, però, la balena rappresentauna prigione usata per punirli della loro ingratitudine, infatti Jonah disubbidendo adun ordine di Dio si era rifiutato di andare a predicare a Ninive (città dell’Assiria) eper questo, durante una terribile tempesta, fu inghiottito dal cetaceo e Pinocchioebbe la stessa sorte per aver disobbedito al padre Geppetto. Ma, a differenza dei duenoti personaggi, nessuna colpa grava sul piccolo Jona.

Tuttavia per tutti e tre l’esperienza nel ventre della balena rappresenta un viag-

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gio iniziatico che li porterà a trasformare la propria coscienza. Il profeta Jonah, dopoaver pianto tanto e chiesto perdono a Dio, va a predicare a Ninive e la converte sco-prendo il significato e le responsabilità che comporta essere uomini; Pinocchioimpara dalle esperienze e dagli errori di valutazione della realtà a comportarsi inmodo più ragionevole e dalla fase di spensieratezza e fantasticheria entra nel mondopieno di responsabilità degli adulti; il piccolo Jona vivrà il triste gioco della vita e,se inizialmente mostrerà uno sguardo innocente e inconsapevole proprio dell’infan-zia, e coglierà dell’atroce realtà che lo circonda soltanto alcuni particolari, nellaseconda parte del film il suo sguardo si fa più adulto ed egli assume pian piano con-sapevolezza del valore della vita.

Roberta Maiuzzo (I B Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Essere amati, avere l’affetto dei genitori, una casa in cui vivere e una scuola in

cui imparare sono alcuni tra i diritti fondamentali che dovrebbero caratterizzare ognisocietà civile, ma che furono negati a Jona, un bambino innocente, vittima dellaideologia antisemita nazista, il quale, dopo essere stato esposto alla paura, all’abban-dono, alla malnutrizione, alla fame, ai soprusi, resta orfano ed assiste a cose terribi-li alle quali nessuno dovrebbe mai assistere. A otto anni avrebbe avuto bisogno digiocare, divertirsi, muoversi, seguendo un percorso formativo che lo facesse gra-dualmente diventare un ragazzo e poi un uomo. Ma la cruda realtà lo fa diventareadulto anzitempo, colmandolo di responsabilità e pressioni. Ogni suo diritto vieneviolato: il diritto alla libertà, il diritto ad avere un’infanzia e una famiglia, il dirittodi fare normali esperienze di apprendimento e socializzazione, esperienze necessa-rie a sviluppare la sua personalità. Ma a me pare che parlare di diritti in una societàcome quella nazista sia stato solo un miraggio così come lo è, purtroppo, ancoraoggi presso tanti popoli del mondo.

Silvio Martello (III D Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

***Di questo film mi è rimasta impressa una scena in cui la madre di Jona regala al

marito, nel giorno del suo compleanno, una patata con un po’ di carne e un sigaro. È un gesto indimenticabile che mi ha commosso perché, pur nella sua semplici-

tà, è pieno di amore e dolcezza.È un gesto umano che va al di là delle parole, il gesto di chi ha sperimentato su

di sé la fame, lo sconforto, l’allontanamento delle persone care, la solitudine, e dichi, condividendo fino in fondo quella terribile esperienza nel campo di concentra-

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mento, è disposto a privarsi anche del cibo necessario per la sua sopravvivenza, purdi lenire quelle sofferenze all’uomo che ama, di fargli dimenticare - anche semomentaneamente - i soprusi e le umiliazioni cui è quotidianamente sottoposto eoffrirgli attimi di felicità e di affetto.

Emanuela Projetto (III C Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

***Jona, un bambino ebreo confinato in un ghetto, imprigionato in uno squallido

campo di concentramento, ha dovuto subire una celere trasformazione, che di sicu-ro non avrebbe mai voluto subìre: non come crisalide, che protetta dal calore di unbozzolo ne esce farfalla gioiosa, ma come essere umano che perde la sua infanzia ediventa adulto attraverso la disperazione e la conoscenza della morte e del dolore.

Giulio Russo (III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello”)

***Per un bambino è fondamentale un abbraccio, un sorriso che, espressione dell’af-

fetto degli adulti, gli danno la gioia e la felicità dello stare insieme con le personeche si amano. Ma l’esperienza di Jona ci fa capire quanto sia traumatico per un bam-bino la preoccupazione di perdere le persone che gli stanno accanto ogni giorno esenza le quali sarebbe impossibile sorridere e continuare a vivere. Ma ancora piùdoloroso è sapere che quelle persone sono vicine a lui, ma che qualcuno gli impedi-sce di vederle, di toccarle o semplicemente di sentire il calore che ogni giorno glidanno con un abbraccio.

Per noi è impossibile capire davvero cosa significhi vivere nella paura, addor-mentarsi senza avere la certezza di risvegliarsi, non mangiare e bere per giorni egiorni o essere picchiato solo perché si lascia cadere inavvertitamente una scarpa.Ma in quel contesto tali esperienze caratterizzavano quotidianamente la sua vita, chetuttavia Jona accettava come “normale”. Quando, però, a tutto questo si aggiunge laperdita definitiva delle persone che più lo amano, non gli bastano le lacrime o legrida per esprimere tutto il dolore che spezza il suo cuore, annulla i suoi sentimentie lo riporta ad una vita che sembra non essere più la sua. La vita di Jona andrà avan-ti, grazie all’ amorevole accoglienza dei Daniel, ma nessuno potrà mai rimpiazzarenel suo cuore la mamma o il papà.

Mery Salamone (V A Ginnasio “F.lli Testa”)

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LA MASSERIA DELLE ALLODOLE

Regia: Paolo e Vittorio TavianiSoggetto: “La masseria delle allodole” (AntoniaArslan, premio Campiello 2004)Sceneggiatura: Paolo e Vittorio TavianiProduttore: Stefano Dammicco, GianfrancoPierantoniDistribuzione (Italia): 01 DistributionFotografia: Giuseppe LanciMontaggio: Roberto PerpignaniEffetti speciali: Enrico PieraccianiScenografia: Andrea CrisantiCostumi: Lina Nerli TavianiPaese: Italia/Bulgaria/Francia/Regno Unito,SpagnaAnno: 2007Durata: 122’Genere: drammatico

Interpreti e personaggiPaz Vega: NunikMoritz Bleibtreu: FerzanAlessandro Preziosi: EgonÁngela Molina: IsmeneArsinée Khanjian: ArminehMohammed Bakri: NazimTchéky Karyo: Aram

TramaTurchia, 1915. In una piccola città della Turchia la guerra sembra lontana, lonta-

ne le persecuzioni contro la minoranza armena. E armena è la famiglia Avakian, cheapre la sua bella casa per il funerale del suo patriarca. Anche il colonnello Arkan,rappresentante dell’autorità turca, viene a rendere omaggio. «Grazie di questo gestodi pace», gli mormora Aram, a nome della famiglia. È il segno di un rapporto, se nondi amicizia, di tolleranza, di reciproco rispetto tra le due comunità. La morte delpadre fa rinascere in Assadour - il figlio maggiore degli Avakian, trasferitosi in Italiagiovanissimo, che ora esercita a Padova la professione di medico - la voglia di ritor-

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nare a vedere, dopo molti anni, il paese natale. A lui il padre ha lasciato la vecchia“masseria delle allodole”.

Mentre fervono i preparativi per la partenza in Italia, Aram (che è un rinomatofarmacista) sta facendo restaurare la casa antica di famiglia sulle colline, per acco-gliere il fratello nel miglior modo possibile. Tutti questi preparativi risultano peròvani, poiché all’ingresso dell’Italia in guerra le frontiere vengono chiuse e la mac-china del genocidio comincia a muoversi. Poco dopo il funerale, infatti, inizia l’in-cubo per la famiglia Avakian e per tutta la comunità armena. I Giovani Turchi hannogià pronto un piano per creare la Grande Turchia in cui non ci sarà posto per i ric-chi e ‘traditori’ Armeni. Nessuna mediazione si rivela possibile. Egon, un ufficialeturco che fa la corte a Nunik, la sorella di Aram e di Assadour, le propone di sposar-lo e di scappare via insieme, perché sa che qualcosa sta per succedere. Nunik sor-presa, inizialmente si dichiara pronta a seguirlo. In realtà ciò non avverrà, perché lachiacchierata tra Nunik ed Egon non è sfuggita al mendicante Nazim, il quale rac-conta ciò che ha visto al governatore, che a sua volta decide di mandare Egon lon-tano.

E’ ormai il maggio 1915, e l’ora del massacro si avvicina. Un giorno si presentaalla porta degli Avakian il medico di famiglia, che racconta che tutti gli uomini sonoconvocati in prefettura nel pomeriggio, ma non si sa il perché. Memori delle stragidel 1896, Aram e il medico decidono che è più prudente rifugiarsi per una giornataalla Masseria delle Allodole. Mentre in città aumenta il panico, la moglie di Aramdecide di raggiungere il marito insieme a tutta la sua famiglia e ad alcuni amici. Ungruppo di soldati si accorge, però, di questo spostamento e raggiunge la casa di cam-pagna degli Avakian. Sapendo la fine che è prevista per gli armeni e vedendo unacasa così ricca (sperando quindi in un lauto bottino), il gruppo irrompe nella masse-ria e uccide tutti i maschi, compresi i bambini, tranne il piccolo Nubar, che portavaun vestitino da femmina. Avvisato da alcune donne, arriva nella masseria anche ilcolonnello Arkan, amico di Aram, che vedendo il massacro e non sapendo la verafine che è ormai decisa per gli armeni, richiama duramente i soldati assassini. Lafamiglia Avakian viene smembrata e per di più viene deciso che le donne armenerimaste devono andarsene dalla città, per venire accompagnate dai soldati in unposto non meglio precisato. Inizia così un viaggio terribile che porta il gruppo finoad Aleppo, il cui scopo è in realtà ricavare tutta la ricchezza possibile dalle prigio-niere e violentarle o ucciderle. Le sopravvissute, tra cui Armineh e Nunik, e le altredonne conoscono l’umiliazione del tremendo viaggio nel deserto, sottoposte a famee a torture inenarrabili. Ismene, una lamentatrice greca, e il mendicante Nazim, lehanno seguito e cercano un modo per aiutarle. Ad Aleppo i due riescono a trovareun ambasciatore francese amico della famiglia Avakian e, corrompendo alcune guar-die, riescono a portar via Armineh e i suoi tre figli ancora in vita e a nasconderli fino

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a che non potranno essere portati in Italia daAssadour al sicuro. A nulla varrà, per Nunik, l’affet-to che prova per lei Youssuf, un ufficiale turco menocrudele degli altri. La giovane e vitale Nunik si faràda lui uccidere a un passo dalla liberazione, per per-mettere alla cognata e ai suoi nipotini di non esserescoperti mentre vengono fatti scappare.

CommentoPaolo e Vittorio Taviani hanno trasformato una

storia vera, raccontata anche nell’omonimo romanzodi Antonia Arslan, in qualcosa di vivo e coinvolgente.

Il film, che propone la storia molto toccante di ungruppo di armeni, gli Avakian, che vissero inAnatolia (attuale Turchia) e che furono vittime deirastrellamenti organizzati dal governo turco, è natodalla necessità, avvertita fortemente dai fratelliTaviani, di fare conoscere la dimensione di un orro-re avvolto in una sorta di silenzio e favorito dallacontemporaneità della Prima guerra mondiale. Unanebbia, alimentata fra l’altro dalla Turchia che, desi-derosa di entrare nel 2010 con tutti gli onorinell’Unione Europea, continua nella propria operanegazionista.

A questo sterminio di massa avvenuto in nomedella “grande Turchia” la storia, il cinema e la lette-ratura non hanno mai offerto molta attenzione, tantoche i superstiti ed i loro eredi stanno ancora aspet-tando una giustizia ed una riconoscibilità nel ricor-do. Si tratta di un film didascalico che colma unalacuna su un genocidio, quello dei turchi verso oltreun milione di armeni, che può considerarsi una tre-menda prova generale dell’ Olocausto. Il film, infat-ti, richiama lo stesso tipo di intolleranza e pregiudi-zio, simile per qualità se non per quantità a quellache avrebbe decimato il popolo ebraico.

L’eccidio del popolo armeno suscita tante emo-zioni e risulta talora crudo, così come può essere cruda la guerra, ma i registi sonomolto sensibili e attenti nel cogliere gli aspetti più profondi dell’animo umano. Il

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film, nella prima parte, appare brioso, specie quandodescrive la vita quotidiana di questa grande famiglia,che incarna i valori e la cultura del popolo armeno,come l’intraprendenza mercantile, la religiosità tol-lerante, l’ospitalità festosa. Nel momento, infatti, incui si diffonde nella famiglia Avakian la notizia chesta per arrivare il fratello maggiore, un’euforica fre-nesia pervade tutti. Si organizza la festa di benvenu-to, si invitano amici e parenti a prendervi parte, sirimette a nuovo la Masseria, e, per completare l’ope-ra, viene perfino ordinato da Vienna un pianoforte amezza coda. Inoltre lo scorrere quieto dei giorni èvivacizzato dai sogni d’amore di Nunik per l’ufficia-le turco e dalla festosa confusione dei bambini, tantoche lo spettatore non fa fatica a sentirsi ospite all’in-terno di quella meravigliosa famiglia.

L’unica sequenza che sembra anticipare il dram-ma è quella in cui il nonno, il grande patriarca, primadi spirare, trasmette una visione di morte al nipotino:un getto di sangue scarlatto su una porta bianca.Premonizione che il bambino non può comprendere,perché non può sapere a quali atrocità e orrori è statodestinato il suo popolo e la sua famiglia.

Subito dopo, la barbarie, la morte entra all’im-provviso, con prepotenza e senza avviso, nella mas-seria delle allodole: “.. nessun maschio dovrà rima-nere vivo, potrebbe un giorno vendicarsi...” Sceneraccapriccianti si susseguono, specie quando i turchiassaltano la masseria. Aram viene decapitato e la suatesta, mozzata con un colpo di sciabola, cade nelgrembo della moglie. Un bambino nascosto sotto untavolo viene tirato fuori per un piede, e infilzato. Ilmedico viene crudelmente evirato.

Per le donne armene, poi, inizia un’odisseasegnata da marce forzate e campi di prigionia, famee sete, umiliazioni e crudeltà, infatti sono costrette acamminare per giorni e giorni senza cibo e a com-piere un lungo viaggio di morte verso il nulla fatto di stenti e fatica. Madri, figlie esorelle si aggrappano disperatamente all’esistenza e tengono accesa la fiamma della

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speranza, ma le più deboli si accasciano per strada ei soldati le “finiscono”, così come avviene alla ziaottantenne di Nunik, che prima di morire raccoglie leultime forze che le rimangono, si alza e con orgogliomostra il volto fiero e il corpo avvolto dal bel vesti-to.

La seconda parte del film ha momenti di violen-za fortissima, che prendono alla gola. Basti pensarealla scena della soppressione del neonato, che è dabrividi. A una mamma che ha partorito un maschioviene concesso di essere lei a ucciderlo; la donna,dopo averlo messo sulle spalle in un sacchetto, chia-ma un’amica, poi le due donne si stringono dorso adorso e premono sino a soffocare il neonato.Terribile è anche la scena in cui Nunik viene denu-data e ammazzata, per sottrarla alle atroci torture,proprio dal soldato turco che si era innamorato di leie che aveva espresso la sua disillusione e la sua ver-gogna nel far parte di quel popolo che gli aveva asse-gnato un indegno servizio.

Dopo aver visto questo film, ci si sente diversi. Sisa qualcosa di più sulla «banalità del male» di cuiparlò Hannah Arendt a proposito del boia Eichmann;e si conoscono nuovi boia, non nazisti ma altrettan-to feroci.

Si tratta di un film che dà una un senso e unadignità ai tanti caduti e che non lascia indifferenti glianimi sensibili, un film che trasporta lo spettatorenella realtà dell’inizio secolo e che riporta allamemoria racconti ascoltati dai nostri anziani, che,con orgoglio e rassegnazione, ricordavano i loro caricaduti nella “grande guerra”. Interessante è ancheriflettere sul destino dei due fratelli che con le loroscelte differenti hanno forgiato per se stessi e per iloro figli due destini tragicamente opposti, di vita edi morte. Grazie all’avventuroso intervento di amicifedeli, che rifiutano di farsi complice della violenza,per i figli di Aram si apre in extremis una via di fuga e così riusciranno a salvarsi ea raggiungere lo zio in Italia. E sarà lui a garantire per loro un futuro e a custodire

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le “memorie oscure”.Il film, teso come un thriller ed emozionante

come una storia d’amore, fa rivivere in qualchemodo, attraverso immagini atroci e toccanti, la tra-gedia del genocidio che coinvolse l’intera comunitàarmena durante i primi anni del Novecento. La mas-seria delle allodole è un film solidamente basatosulla storia, su una realtà che non ha bisogno dimetafore in quanto continua ad accadere anche oggi,in diverse parti del pianeta. Per questo il racconto diuno dei tanti episodi dell’orrore umano ferisce comenessun horror classico riuscirebbe a fare, coinvolgeemotivamente e tocca nel profondo. La crudezza dicerte scene colpisce e spaventa maggiormenterispetto ad un film horror, forse perché si sa che letrame di tali film non possono accadere nella realtà,mentre il genocidio degli armeni è avvenuto sulserio.

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Riflessioni sul film “La masseria delle allodole”

***Il film “La masseria delle allodole” ha provocato in me un profondo turbamen-

to e una partecipazione emotiva, oltre ad offrirmi significative informazioni circa lepersone, i loro modi di vita e le circostanze sociali. Grazie alle immagini, alla affa-scinante sintesi tra musica e recitazione, è riuscito a trasmettere messaggi e signifi-cati che mi hanno coinvolto in maniera totale, favorendo la mia identificazione conalcuni personaggi e costringendomi a reagire.

Giovanna Bonelli (II A Liceo classico “F.lli Testa”)

***Questa opera cinematografica riporta alla memoria una delle più grandi e vergo-

gnose tragedie del XX secolo: la cancellazione di un popolo da parte di un altro. Ungenocidio di cui si sente parlare, ancora oggi, assai poco. Eppure anch’esso, al paridell’Olocausto ebraico, ha dato luogo a una diaspora, a una cultura da ricostruire, aun’identità da ricercare, dinanzi al quale l’Europa, a lungo, è rimasta sorda e inerte.

Anika Fiorenza (II A Liceo classico “F.lli Testa”)

***Il film “La masseria delle allodole”, che può considerasi un documento della tra-

gedia armena - ancora bruciante e, per certi versi, incomprensibile - è veramenteavvincente, pur indulgendo a momenti di crudo realismo, ha saputo trasmettermiintense emozioni e mi ha fatto riflettere sul senso della vita.

E sinceramente credo che film come questo, contribuendo al sommovimentodelle coscienze, possano non solo far crescere la conoscenza e rafforzare la memo-ria storica, ma anche insegnare all’uomo la strada giusta per evitare gli orrori dellaguerra con il suo prossimo.

Martino Gentile (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Questo film mi ha ricordato il “Giardino dei Finzi Contini”, infatti sia il giardino che

la masseria sono dei luoghi ideali, che portano in sé una fallace forma di sicurezza desti-nata ad essere spazzata via dalla violenza degli uomini, dai massacri degli uomini arme-ni e dalle “marce della morte” riservate alle donne. Quello che è davvero importante èche la “Masseria delle allodole” mi ha portato a conoscere uno degli eventi più dram-matici del Novecento, un crimine in passato “rimosso”, troppo spesso, da considerazio-ni politiche ed ideologiche. Il ricordo di questa “pagina nera” è doveroso e serve acoprire, almeno in parte, un vuoto d’interesse durato praticamente un secolo.

Federica Greco (II A Liceo classico “F.lli Testa”)

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***Come le poesie di Ungaretti e Montale, o i romanzi di Lussu e Rigoni Stern, ci

ricordano il dolore straziante delle due principali guerre mondiali e ci aiutano ariflettere sull’importanza della vita e sulla spesso difficile coesistenza pacifica frauomini, così anche il film “La masseria delle allodole” scardina le invisibili portedelle nostre certezze per riportarci all’incredibile genocidio armeno, inducendoci aribadire l’esigenza del ricordo e dell’insegnamento di fronte ai continui e tragicierrori umani.

Margherita Grippaldi (II A Liceo classico “F.lli Testa”)

***Il film La masseria delle allodole dei fratelli Taviani descrive in maniera vivida e

a tratti cruenta il genocidio degli Armeni avvenuto in Turchia nel 1915. Attraverso levicende della famiglia Avakian vediamo rapporti di amicizia o, quantomeno, di paci-fica convivenza trasformarsi in rapporti tra vittima e carnefice. Il nazionalismo fana-tico dei Giovani Turchi dipinge tutti gli Armeni come “nemici interni” e traditori daeliminare per il bene della “grande Turchia”.

Nonostante ciò nel film vi sono alcuni Turchi che, a causa di rapporti d’amicizia od’amore con alcuni Armeni, non riescono a mettere da parte la loro umanità, pur con-tribuendo alla perpetrazione del genocidio: è il caso di Egon, del colonnello Arkam, diNazim e di Youssouf. Quest’ultimo, alla fine della guerra, decide infatti di denunciarei crimini commessi da lui stesso e dai suoi commilitoni.

Tuttavia quello che più colpisce nel film sono alcune immagini che riescono a ren-dere l’atrocità di questa tragedia: la testa mozzata di Aram, la scena corale delle donnearmene che piangono i loro uomini, l’uccisione del neonato, l’uccisione di Nunik…

Annalisa Lembo (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Ho notato che nella descrizione degli armeni il film trascura quasi del tutto la

dimensione religiosa che caratterizza profondamente quel popolo. Mi ha colpito,però, un gesto dell’attrice Angela Molina che fa un segno di croce prima dell’ucci-sione del bambino, un gesto proprio di chi confida nel perdono di Dio. Inoltre laparola «amore» è l’ultima parola del film pronunciata da Youssuf durante il proces-so, ad indicare il sentimento che provava per Nunik, la persona da lui amata che hadovuto uccidere per non venir meno alla promessa fatta alla donna. La parola«amore», che conclude La masseria delle allodole, può considerarsi il sentimento“vincente” che rende veramente nobile l’animo umano, anche quando l’odio imper-versa, e può rappresentare una speranza che permette di alzare lo sguardo oltre gliorrori della morte, oltre l’odio che abita il cuore dell’uomo.

Giuseppe Maggio (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

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***La masseria delle allodole è un film che turba e inquieta profondamente l’animo

dello spettatore. Le immagini sono forti, sanguinose e strazianti e mettono in lucelati oscuri dell’animo umano, capace di concepire orrori come quello che il film rac-conta. Al centro della vicenda un episodio rimosso della storia recente: il massacrodegli armeni da parte dell’esercito turco, avvenuto nel 1915.

Il film parte lento e stentato per approdare poi ad un indiscutibile impianto tea-trale, per cui da una situazione familiare si giunge ad una dimensione corale - nelsenso della tragedia greca - attraverso le scene del funerale, della festa, della comu-nità armena spaventata, dello strazio delle donne sui corpi dei maschi trucidati, finoal canto nazionalista dei Giovani Turchi contrapposto al canto armeno che le depor-tate non possono intonare.

E’ un film che non si dimentica e non si può, né si deve dimenticare, dinanzi alquale non si può restare impassibili o indifferenti. L’articolarsi delle scene lasciasgomento lo spettatore e trasforma un fatto storico nella sua versione cinematogra-fica in qualcosa di vivo e coinvolgente, in un’emozione personale e collettiva nellostesso tempo. Alla visione di un medico evirato a carne viva, di un neonato soffoca-to, di un bambino infilzato, di una donna nuda trascinata e violentata dinanzi adocchi attoniti non si può restare indifferenti. L’insofferenza e la rabbia aumentano alpensiero che l’odio degli uomini si scaglia con inaudita ferocia verso chi è più debo-le ed indifeso. La ribellione è d’obbligo anche se, purtroppo, non possiamo che assi-stere inorriditi al trionfo della violenza.

L’unica speranza che rimane è che film come questo sensibilizzino gli uomini,affinché non diventino mai più autori di tanta crudeltà. Mi è sembrato che i Tavianiabbiano voluto ricordare tutti gli innocenti perseguitati ed uccisi per motivi inesi-stenti, l’assurdità di qualsiasi persecuzione razziale, che fa sì che persone che intrat-tengono rapporti amichevoli e cordiali, nel giro di poche settimane, possano trasfor-marsi in orribili persecutori ed in straziati perseguitati.

Chiara Montaperto (I B Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Di fronte alla indicibilità del genocidio armeno, ritengo che l’approccio cinema-

tografico, anche se inevitabilmente viziato dalle tecniche soggettive di ripresa e dimontaggio, sia il più adeguato per rappresentare così tanta efferatezza. I fratelliTaviani facendo ricorso a immagini forti, raccapriccianti hanno offerto con “La mas-seria delle allodole” un documento il più possibile fedele alla realtà senza offende-re la memoria delle vittime, anzi si sono impegnati a trasmettere la memoria di queifatti alle generazioni future fornendo una testimonianza filmata, che ha il pregio dipossedere un’incredibile forza emotiva e di scuotere la nostra coscienza.

Santi Paride Nasello (II A Liceo classico “F.lli Testa”)

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***Questo film così forte e straziante racconta, attraverso il dolore e la paura dei pro-

tagonisti, il terrore sconvolgente della guerra e richiama tutte quelle guerre, dalKosovo al Ruanda, dove il fratello uccide l’altro fratello. Guerre dove una madre,per non far uccidere da un soldato il proprio figlio maschio, neonato, è costretta asoffocarlo, dove gli uomini vengono evirati o massacrati e le donne violentate,deportate e lasciate morire, nel deserto, di fame e stenti; guerre che ci ricordano chela cattiveria è in ogni uomo, in ogni popolo, in ogni epoca storica... e che un geno-cidio si può ripetere anche a distanza di decine e di centinaia di anni e che la storiain questo senso non insegna proprio un bel niente ed è molto lontana dall’esseremagistra vitae.

Enrico Pidone (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

***Il cinema, ed in particolare il cinema di finzione, può essere fonte attendibile di

riproduzione storica? Possono le immagini rendere visibile ciò che, di per sé, è uma-namente inimmaginabile? E’ legittimo, senza offendere la memoria di milioni dimorti, rappresentare la storia attraverso un film?

Queste le domande che mi sono posta alla fine della proiezione del film La mas-seria delle allodole che ha rappresentato una tragedia di così grande portata, qualeè stata lo sterminio degli Armeni. Ho cercato di darmi della risposte e mi sono con-vinta che il cinema può essere fonte di testimonianza storica autentica e può farcogliere una chiave di lettura di eventi incomprensibili come questo.

Silvia Scriffignano (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

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La masseria delle allodole

di Graziella Di Salvo Barbera*

Sullo schermo gigante scorronoimmagini di violenze inaudite,armeni trucidati, e violentate donneda turchi imbestialiti dalla guerra. Occhi sbarrati di bimbi impauritisi chiedono il perché di tanto orrore.Sangue versato di fratelli inermibagna la terra e sporca fa la storia.

E in me che guardo senza aver vissutociò che è stata una cruda realtànasce la vergognadi far parte di quella stessa razzache impropriamente chiamiamo umanità.

Abbiamo perso l’impronta originaleper cui Dio ci ha fatti a somiglianza sua,ma nell’atto sublimato dall’amore,lo stesso Dio, fattosi uomo in mezzo a noi, ci salva dall’eterna perdizione.

E da una croce diventata tronoci offre ancora oggi il suo perdono.

* Graziella Di Salvo Barbera nasce a Palermo da genitori mistrettesi e vive la sua giovinezza aMistretta. Dopo il matrimonio si trasferisce a Nicosia, dove attualmente vive insieme ai figli. Autricedi numerose raccolte poetiche (Io, Graziella; Il melograno; Scarpisannu sti strati; A me’ casciaforti)ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti in concorsi di poesia a livello nazionale.

In questi versi la poetessa - che ha partecipato alle proiezioni pomeridiane del cineforum, aperto alpubblico - ha espresso, nella forma che le è più congeniale per esprimere le proprie esperienze ed emo-zioni, il suo punto di vista, il suo giudizio sul genocidio armeno, evidenziando una profonda parteci-pazione e riflessione morale e dimostrando come il film l’abbia fatta entrare in un mondo emozionale,consentendole di percepire la vita di frustrazione e sofferenza del popolo armeno e di ritrovare la pro-pria posizione nei confronti delle ingiustizie e delle violenze che vi sono rappresentate.

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In gioco la vita

di Graziella Di Salvo Barbera

Dalle rovine usciti malconcicon gli occhi gonfi dal pianto,macchiati i vestiti di sangue,vacillanti i ginocchi;umani relitti aggrappati alla vitaper ricominciarecon un mattone sull’altro,il piccone e la vanga fra le mani ferite,vibrando i colpi con rabbiaper gli anni perdutilottando l’uno contro l’altro armati,mentre era in gioco la vita.

E vedere con stupore rifiorire l’orto,le donne curve al telaio cantare,e gli uomini, quelli ritornati dal fronte,asciugarsi il sudore per una fatica immane,prezzo per una fetta di pane,a volte raffermo,rinascita lenta, stentata, sofferta.Ed era sempre in gioco la vita.

Ora tutto sembra cambiato,una patina d’ororicopre le arcate sfiancate,le colonne portanti corrose,le piante maligne nel frattempo allignateche infestano il mondo, dove ora,più che mai, è in gioco la vita.

Inutile stare inerti a guardare,inveire o piangere sul latte versato.Bisogna abbattere muri cadenti,eliminare barriere, spianare dislivelli.E ricostruirecon le sole forze delle mania costo di giocarsi la vita.

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HOTEL RWANDA

Regia: Terry George Produzione: Can/GB/Ita/Rsa - Dramm.Durata: 121’Interpreti: Don Cheadle, Djimon Hounsou,Sophie Okonedo, Nick Nolte, Joaquin Phoenix,Desmond Dube, David O’Hara, Cara Seymour,Roberto CitranSceneggiatura: Keir Pearson - Terry GeorgeFotografia: Robert FraisseScenografia: Johnny Breed- Tony BurroughMontaggio: Naomi GeraghtyCostumi: Ruy Filipe Musiche: Rupert Gregson - Williams

TramaRuanda, 1994. Paul Rusesabagina (Don Cheable) è il direttore del lussuoso Hotel

Mille Collines di Kigali, appartenente alla catena Sabena, che vive come un mana-ger occidentale. Sa navigare nella vita, sa adulare la persona giusta al momento giu-sto e pagare la tangente necessaria per avere le bevande e i cibi migliori da offrirealla clientela internazionale del lussuoso Hotel che dirige, frequentato dai turisti edai papaveri locali. Paul crede nella civiltà: ha studiato in Belgio, conosce le lingue,è vestito in modo inappuntabile e sa essere discreto. Ma, una sera, quando vede alcu-ni suoi vicini di casa indossare delle uniformi, armarsi di pistola ed uccidere altriloro vicini, quando vede gli estremisti dell’etnia hutu aizzati dalla stazione radiofo-nica Rtml, sterminare a colpi di macete non solo i tutsi, ribattezzati “scarafaggi”, maanche gli hutu moderati, il suo mondo di sicurezze va a pezzi. Paul è un Hutu, ma èsposato a una Tutsi (Sophie Onekedo), sicché la moglie e i figli sono in pericolo. E’a questo punto che Paul smette gli abiti del neo-borghese individualista e compilada eroe la propria Schindler’s list e, usando coraggio, astuzia e intelligenza, si ado-pera per dare rifugio non solo alla propria famiglia, ma a migliaia di tutsi che tenta-no di sottrarsi a una morte sicura. Così, mentre in pochi giorni i massacri trasforma-no Kigali in un enorme cimitero a cielo aperto (in soli cento giorni muoiono unmilione di persone), Paul, mostrando un altruismo che gli impedisce di veder mori-re la gente senza far nulla, compra a colpi di dollari i suoi “scarafaggi”, protegge nel

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suo albergo (di proprietà belga), camuffati comeclienti, 1268 persone sfuggite alle pulizie etniche,trasformando l’Hotel in un rifugio per tutti (uomini,donne e bambini, orfani e religiosi), procura loro delcibo e stanze pulite, lotta con i denti per la loro sicu-rezza, minaccia l’esercito hutu, sfrutta la sua rete diconoscenze sviluppate in anni di impeccabile servi-zio - complice qualche bottiglia di ottimo whisky,pregiati sigari cubani da 10 mila franchi e le lautemance lasciate dai facoltosi clienti dell’albergo - pernascondere e proteggere una frotta di disperati daireiterati assalti delle milizie Hutu pronte a fare apezzi “ogni scarafaggio Tutsi” con i machete.Rischia anche la propria vita dimostrando che, avolte, basta davvero un uomo solo per fare la diffe-renza. E così riesce a salvare il salvabile. Lo aiutanoalcune persone di buona volontà, soprattutto bianchisuper-idealisti e qualche nero più corrompibile ealcolizzato, mentre Citran fugge come una lepreabbandonando i suoi fedeli. Un giornalista, Jack(Joaquin Phoenix), violando le direttive della televi-sione per cui lavora, riesce a documentare la strageche insanguina il Rwanda. Gli basta andare pocooltre il muro che circonda l’Hotel, a Kigali, e con lasua telecamera raccoglie le immagini di donne,uomini e bambini tutsi uccisi dai machete della“milizia” hutu. Poi, manda alla sua emittente quelleimmagini e il mondo le vede. Ora può esserne orgo-glioso. Ma quando Paul Rusesabagina tenta di rin-graziarlo, Jack è duro e amaro. “Certo -commenta -gli spettatori saranno inorriditi, e avranno interrottola cena. Ma poi, esaurita la pietà, altrettanto certa-mente saranno tornati al loro piatto, tranquilli”.Nonostante questi sforzi, un milione di Tutsi vienemassacrato senza che la comunità internazionalefaccia nulla, se non lasciare a poche forze dell’Onuil compito di un intervento di scarsa efficacia. Infattile Nazioni Unite riducono il contingente di pace a un manipolo sparuto (da 2.500 a270 soldati) sotto il comando del colonnello Oliver (Nick Nolte) che non ha il per-

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messo di usare le armi. Nel frattempo un migliaio dimilitari si limita a recuperare i propri compatrioti perpoi abbandonare il paese.

CommentoIl regista irlandese Terry George affronta questo

genocidio, prima rimosso e poi dimenticato, in unfilm dal forte impatto emotivo, grazie all’identifica-zione dello spettatore coi personaggi. Il film, infatti,ci coinvolge, ci indigna e ci commuove, riesce a par-lare alla coscienza di noi spettatori, innalzando ilprotagonista a emblema di coraggio e di dignitàumana e dà forza e speranza alla gente insistendo,soprattutto, su quegli avvenimenti che hanno portatoal trionfo di Paul Rusesabagina, il vero protagonistadi questa inquietante storia. Il personaggio è moltosimile a quell’Oskar Schindler che tutti abbiamoimparato a conoscere con il film di Spielberg, unuomo assolutamente normale e tranquillo che,davanti all’eccezionalità dell’orrore, riesce a metterein campo una forza e un coraggio che lui stesso nonsa di possedere, contrapponendo alla tragedia e alcaos le armi della competenza professionale e dellacoscienza. Infatti, come Schindler, utilizza la suaesperienza di uomo d’affari per salvare tante vite e,come lui, scende a patti con persone della sua stessastirpe, in questo caso gli Hutu, che fanno strage del-l’etnia Tutsi a colpi di machete.

La storia di Paul Rusesabagina sarebbe potutaessere quella stessa di Gregoire (Tony Kgoroge), ilportiere del suo Hotel che lo denuncia alla milizia.Entrambi, infatti, sono Hutu ed entrambi vivono unatranquilla normalità. Ma a fare di Gregoire un com-plice dei persecutori e degli assassini e di Paul uneroe è stato l’ atteggiamento nei confronti della vitapropria e degli altri. Gregoire non vede e non sente isingoli uomini e le singole donne che chiama, nelloro insieme, tutsi. Per lui, come per gli altri persecutori, sono tutti scarafaggi. È unmisero uomo, pago della sua tranquilla normalità che rimarrebbe tale se qualcuno, a

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scopo di potere e di guadagno, non lanciasse le paro-le d’ordine dell’etnia scatenando l’odio e facendo sìche la abulica normalità si trasformi in normalitàomicida.

Anche Paul è hutu, anche lui non è un moralistao un idealista, anche attorno a lui l’odio spinge auccidere, ma la sua storia personale va in direzioneopposta a quella di Gregoire e finisce per trasformar-lo in eroe. Egli, guardando gli uomini e le donne chegli chiedono aiuto, li vede come uomini e donne e, difronte alla necessità di decidere se chiudersi nellanormalità e nell’abulia del suo proprio “interesse” oaprirsi alla richiesta d’aiuto e al rischio, non senteneppure il bisogno di porsi la questione. Per lui, sitratta immediatamente e semplicemente di nonlasciar morire e di non lasciar uccidere.

Il film, efficacissimo nel ricostruire come in unthriller la tensione psicologica e il terrore a cui eranosottoposti i rifugiati, non cede mai alla tentazione dimostrare l’orrore del sangue e delle mutilazioni nep-pure nei momenti più truci in cui sarebbe bastato unnulla per cadere nell’eccesso.

Rientra forse nella scelta estetica del registaGeorge il lasciare fuori campo gran parte della vio-lenza, per rimarcare il ruolo di “oasi felice”dell’Hotel e per non cadere nella trappola del repor-tage scioccante che strappa solo qualche “Oh!” frauna forchettata e l’altra dei paesi “sviluppati”. Persuscitare l’indignazione, egli fa con lo spettatore ciòche Rusesabagina, da ingegnoso negoziatore qual è,fa con Reno, l’unico contatto influente della catenabelga di alberghi che gli resta in occidente: lasciarloappeso al “filo” fino a farlo arrossire di vergogna, népiù né meno di quanto è arrossito il protagonista nelmomento in cui, da prototipo dell’acculturato occi-dentale, si rende conto di non essere mai stato consi-derato un pari.

Difatti, tranne un paio di sequenze piuttosto forti ma necessarie (come la traver-sata in jeep fra mucchi di cadaveri che rivela agli occhi del protagonista e degli spet-

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tatori la carneficina, mentre all’alba si alza la neb-bia), il regista si affida ai volti traumatizzati e scon-volti dei protagonisti per trasmettere l’orrore dellevarie situazioni. Il grido d’aiuto delle vittime restastampato nei loro sguardi spaesati in due scene spe-culari: i Tutsi nascosti in casa e gli orfani nella stan-za d’albergo. Le perfette inquadrature non induconoal macabro, ma l’effetto che producono sono qualco-sa di più di un pugno nello stomaco e, combinatecome sono alle fantastiche musiche di AndreaGuerra e Harry Gregson Williams, strappano ilcuore.

Teso, appassionante, avvincente senza un attimodi tregua, il film racconta, senza retorica, senza pate-tismi né particolari ricerche di stile, la paura e la vio-lenza, i compromessi e l’indifferenza internazionaleche permisero le terribili stragi, intrecciando magi-stralmente l’atroce storia con l’amore e il coraggiodella coppia protagonista, che, mentre il massacroinfuria e l’odore del sangue si fa sempre più acre,giunge persino a pianificare, in una palpitante scena,il suicidio.

Candidato a tre Golden Globe e tre Oscar HotelRwanda è il primo film che ha squarciato il velo suun avvenimento poco noto, facendo conoscere alpubblico di tutto il mondo eventi drammatici scono-sciuti o dimenticati, una storia che i nostri mediahanno cancellato, probabilmente perché non sem-brava loro interessante, o perché volevano evitare dievidenziare l’intreccio di complicità e indifferenzache portò a scrivere una pagina violentissima della storia africana.

Il regista, a distanza di dieci anni dal terribile genocidio, sceglie coraggiosamen-te di riproporcelo facendo sì che il film diventi una denuncia, un preciso atto d’ac-cusa senza sconti nei confronti del mondo occidentale, colpevole sia di aver intro-dotto durante il colonialismo la assurda distinzione fra Hutu e Tutsi fra i ruandesi, esia per non essere intervenuti quando l’odio seminato è esploso.

Grazie al film, una storia che si voleva seppellire è tornata a galla e l’attenzionesui problemi dell’Africa è di molto cresciuta. Si è capito che dietro quel genocidiodurato cento giorni (dal 9 aprile al 19 luglio 1994) c’è l’importante problematica del

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colonialismo, che in tutta l’Africa ha fatto dei danni notevoli. Nonostante, infatti, sivoglia liquidare il problema sostenendo che la polveriera sia da rinvenire nell’atavi-co odio etnico, sono stati i coloni belgi, tra il 1918 e il 1962, a creare questa formadi apartheid e a coltivare la contrapposizione fra le “etnie” hutu e tutsi, per gover-nare la loro colonia, sicchè, finita l’occupazione, in Rwanda gli Hutu hanno visto neiTutsi quello che i Belgi avevano voluto che vedessero: un gruppo contrapposto, ungruppo da odiare, e alla fine un gruppo da eliminare.

E, dopo aver creato animosità tra i due gruppi, hanno abbandonato il Paese senzatentare alcuna riconciliazione. L’Onu sapeva dei massacri che stavano cancellandoun milione di cittadini dal Ruanda, ma, nonostante le pressanti richieste del genera-le canadese Dallaire (rappresentato nel film di George da Nick Nolte), decise didiminuire il contingente di pace delle Nazioni Unite, limitandosi a far evacuare glieuropei in zona e abbandonando le popolazioni africane al loro destino. L’occidente,dal canto suo, non intervenne sapendo bene, da centinaia di anni, che finanziare earmare mercenari neri (non solo bianchi) è la migliore strategia coloniale e neoco-loniale che si conosca per tenere l’intero continente africano sotto il suo tallone.

La vicenda vera raccontata da Hotel Rwanda, è infatti la prova di quanto le vitedegli africani, di per sé, sullo scacchiere internazionale contino meno di nulla. Arimarcare il disinteresse generale del mondo sono le parole che, nel film, l’ufficialecanadese a capo di un contingente Onu rivolge a Paul Rusesabagina: «Perl’Occidente, per le Nazioni Unite voi siete spazzatura. Non resteremo, non fermere-mo questa carneficina. E tu non sei neanche un negro, sei un africano». Il motivodell’orrore raccontato da Hotel Ruanda sta proprio in questo disinteresse dei gover-ni, che, lasciando mano libera agli assassini, nulla hanno fatto per impedire quelmassacro.

Dopo dieci anni da quel genocidio i politici di tutto il mondo, professandosi indi-gnati difensori della libertà e della democrazia, hanno chiesto scusa, sono corsi inpellegrinaggio in Ruanda per farsi perdonare dai sopravvissuti e hanno ripetuto,come sempre, che una cosa del genere non dovrà più accadere.

Ritorna alla mente quel “Mai più”, che la comunità occidentale si era ripromes-sa dopo la Shoah; purtroppo, però, a dispetto delle promesse dei politici, i genocidi,dalla fine della seconda guerra mondiale, non si sono esauriti continuano a ripropor-si. Le guerre e i massacri mobilitano le prime pagine, le copertine e i servizi di aper-tura dei media nel lasso di tempo che separa una tragedia dall’altra.

Il film, fornendo materia di riflessione sul colonialismo, sulla necessità di unintervento del mondo per dirimere questioni difficili, può a buon diritto considerar-si una interessante lezione di storia. Pertanto se vogliamo che quel “mai più” possadiventare una realtà, non basta commuoversi dinanzi a un film infernale, bisognache i potenti di turno imparino la lezione, cercando di creare un dialogo tra i vinci-

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tori, che oggi hanno in mano il potere, e gli sconfitti, che restano intimiditi, affinchési possa ricostruire insieme una convivenza tra etnie diverse. Compito, poi, deimezzi di informazione deve essere quello di veicolare le notizie che toccano paesidiversi dai propri, offrendo una viva testimonianza di ciò che accade nel mondo per-ché ci si possa sentire vicini ai problemi di popoli che, pur lontani da noi, sonouomini come noi che meritano il nostro aiuto, il nostro rispetto e la nostra solidarie-tà.

Riflessioni sul film “Hotel Rwanda”

L’indifferenza dell’Occidente si affiancava all’inconsapevolezza dei Ruandesi: lostesso Paul Rusesabagina, l’uomo su cui è fondata l’intera vicenda del film, in unaintervista a cura di Alberto Cassani, pronunciò queste parole: “All’inizio mi preoccu-pavo, soprattutto, per la mia famiglia […] Credo di essere stato molto ingenuo per-ché non mi rendevo conto di cosa stesse accadendo. Per lo meno fino alla notte del 7Aprile, quando vidi alcuni dei miei vicini di casa […] uccidere altri nostri vicini.”

Clarissa Cacciato (V B Ginnasio “F.lli Testa”)* * *

Hotel Rwanda non si limita solo a fare un resoconto del genocidio, ma lanciadelle accuse contro l’Occidente, colpevole per ben due volte: prima perché i colonitedeschi e belgi accentuarono la divisione della popolazione tra Tutsi, Hutu e Twa,ritenendo i Tutsi (o Watussi) più intelligenti e adatti a gestire il potere e sottometten-do così gli Hutu e i Twa; la seconda volta quando, durante i “100 giorni di sangue”,aiutarono gli europei a tornare nelle loro patrie, inviando in Rwanda solo un contin-gente di 2500 militari, divenuti poi 270, appartenenti all’Unamir.

Egle La Porta, Clarissa Cacciato (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * * Ho provato una pietà profonda nel vedere le immagini del film e mi sono rattri-

stata nel vedere una bambina di colore tutta sola in mezzo a mucchi di cadaveri. Hopensato così di poterne adottare una a distanza.

Samantha Cocuzza (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * * Dopo la visione del film “Hotel Rwanda” mi sono resa conto che quel massacro

raccapricciante, che costò la vita a quasi un milione di persone - in maggioranzaappartenenti all’etnia Tutsi - e che venne liquidato con la definizione di guerra civi-le, frutto di “un atavico odio etnico”, è stato in realtà fiancheggiato dalla Francia,

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trascurato dalle Nazioni Unite e nascosto nella cassaforte dell’indifferenza da moltiPaesi che avrebbero dovuto avere il dovere di proteggere la “provata” nazione afri-cana. Ma come mai - mi sono chiesta - gli americani, che si sentono i paladini delmondo, che intervengono anche dove sarebbe meglio non intervenire, hanno igno-rato il genocidio ruandese, evitando l’obbligo previsto dal diritto internazionale difermare questo tipo di crimine? Non sarà per caso che ci si preoccupa di portare pacee democrazie solo in paesi che sono “petroliferi” come l’Afghanistan e l’Iraq e nonin quelli privi di rilevanza economica o strategica?

Michela D’Amico (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)* * *

Il film “Hotel Rwanda” racconta non solo una vicenda umana tratta da una sto-ria realmente accaduta, fattore questo che ne fa anche una testimonianza preziosadel secolo scorso, un monito per non dimenticare mai, ma è anche un’aspra criticapolitica al comportamento degli Stati colpevoli, secondo l’opinione pubblica piùattenta e informata, di essersi disinteressati della causa ruandese, rifiutandosi disostenere le ingenti spese necessarie al mantenimento operativo degli squadroni dibombardieri in Ruanda.

Luigi Fascetta (I A Liceo Classico “F.lli Testa”)

* * * Del film “Hotel Rwanda” mi sono rimasti impressi lo sbigottimento del protago-

nista Paul Rusesabagina davanti al distacco che i bianchi dimostravano, la sua incre-dulità di fronte al fuggi-fuggi degli Occidentali, il senso di abbandono dinanzi a tutticoloro che, prima, si rivolgevano a lui come se fosse una persona e, poi, l’hanno trat-tato come un oggetto ormai inutile; infine, mi hanno colpito la sua impotenza edisperazione di fronte a quell’eccidio furibondo. Tutti sentimenti ed emozioni checome spettatore ho provato anch’io nel vedere un massacro così crudo di esseriumani tali e quali a noi, provvisti (ma solo sulla carta), secondo il il diritto interna-zionale, degli stessi diritti inviolabili.

Luca La Giglia (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

Il film estremamente realistico e sconvolgente, con il suo ritmo incalzante e conle sue immagini crude, ha suscitato in me emozioni molto forti: ansia, angoscia maanche rabbia e frustrazione. Inoltre ha mantenuto desta la mia attenzione fino all’ul-timo, costringendomi a pensare a come possa esistere tanta crudeltà al mondo, acome un uomo possa fare del male, in modo così atroce, ad altri simili, senza nes-suna giustificazione. Il messaggio che ho ricevuto è che sarà impossibile fermare laspirale di violenza finché non si smetterà di far parlare le armi invece della ragione.

Deborah Leonardi (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

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* * * Il film “Hotel Rwanda“ evidenzia l’impotenza sia dei Paesi occidentali, sia

dell’ONU, che continuava a “balbettare”, inerte e frustrato dinnanzi a quell’eccidio. Per ripercorrere il tema caldo del genocidio ruandese viene utilizzato un lungo-

metraggio costruito condensando fatti e situazioni realmente accadute senza eccede-re, riuscendo a raggruppare l’intera storia di sopravvivenza e di eroismo in 121minuti che riescono a strappare il cuore allo spettatore. Il film “Hotel Rwanda” èuno dei modi migliori per descrivere e raccontare, a coloro che hanno avuto la pos-sibilità di starne alla larga (per fortuna!), quello che è stato il genocidio ruandese.Cito una massima francese, che si addice all’importanza da attribuire alla pellicola:“Raconter pour ne pas oublier” (Raccontare per non dimenticare).

Il film deve portare ogni uomo che sta comodamente seduto sulla poltrona dicasa propria, a riguardare questo crimine, così atroce, ma così incompreso e masche-rato. La libertà che ognuno possiede deve essere apprezzata ed elogiata e deve esse-re trasmessa ed insegnata a coloro che la vedono solo come un miraggio. Ogni uomonon può tacere o restare inerme dinnanzi a questi crimini, bensì deve cercare dimeditare a riguardo, per poter comprendere quanto sia importante la libertà di ogniessere vivente. Affiora nella mia mente una frase di Ernesto Guevara riguardo lalibertà: “Nessuna persona nell’intero mondo può sentirsi libera se c’è una sola per-sona in catene”.

Giovanni Occhipinti (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * * Durante la proiezione del film “Hotel Rwanda” mi hanno impressionato le urla

rimaste nella gola del popolo massacrato, quasi sterminato, ridotto alla schiavitùfisica e all’annullamento e, soprattutto, quelle dei bambini che la telecamera ripren-deva con tecnica tutta documentaristica fra le macerie, nei villaggi, le mani premu-te sulle orecchie, per non sentire il fragore dei machete, gli occhi spalancati in unaespressione di terrore e impotenza… e mi sono vergognata pensando che quelle urlanon sono state udite… Silenzio è quello che è rimasto intorno ad una tragedia deltutto ignorata, sottovalutata, scomoda.

Elisa Pagana (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

* * * Dicono che “sbagliando s’impara”, che commesso una volta un errore non si

ripeta più. Eppure quello del genocidio, continua a ripetersi. Mi chiedo allora dovesia l’umanità dell’uomo, dove sia la tanto elogiata intelligenza, la tolleranza. Un

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uomo che stermina una stirpe per una diversa caratteristica fisica (occhi, pelle) o cul-turale (religione), non è umano, tanto meno tollerante.

Angela Pescetti (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * * Il film non indugia su scene cruente, bensì esprime il concetto di guerra e di sfrut-

tamento tramite un clima di terrore e confusione. Trovo poi che sia espressione“disgustosa” di razzismo il fatto che gli Hutu definissero “scarafaggi” i Tutsi, per-ché il paragone tradisce un sentimento di profondo disprezzo dell’uomo nei con-fronti di un altro uomo. Il film è stato ideato per far sì che l’uomo possa rendersiconto di ciò che è accaduto poco tempo fa in Rwanda e per ricordare a tutti noi cheanche ai nostri giorni avvengono episodi di questo tipo.

Lavinia Pettinato (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * * Seguendo il film ho provato compassione nel vedere lo sguardo di quei bambini,

uno sguardo reso più acuto dal dolore, dal desiderio di sopravvivere, dallo sgomen-to di fronte a ciò che non riescono a capire.

Il genocidio è stato un orrore che ha coinvolto migliaia di persone e noi non dob-biamo dimenticare tutto quello che è successo, dobbiamo conservare i ricordi, tener-li sempre e ovunque in mente, perché la memoria è la sola, anche se labile, speran-za che possa costituire un antidoto contro i possibili carnefici del futuro.

Maria Michela Pitronaci (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * * Non una parola, non un mormorio durante la proiezione del film “Hotel

Rwanda”, non un applauso, ma neanche fischi quando si riaccendono le luci.Ed è in un silenzio glaciale che mi alzo, attraverso la sala e mi avvio per raggiun-

gere i compagni che hanno organizzato il dibattito che segue alla proiezione. Leprime reazioni sono di stupore, d’incredulità. È impensabile che un popolo civile siaresponsabile di simili orrori!

Lucia Rizzo (I A Liceo Classico “F.lli Testa”)

* * * “Mai più”: questo si era ripromessa la comunità occidentale dopo l’Olocausto;

purtroppo, però, i genocidi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non si sonoesauriti, ed in alcuni casi (come il genocidio in Ruanda del 1994, che ha visto la

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morte di oltre un milione di persone) i potenti hanno chiuso gli occhi proprio nelmomento in cui bisognava aprirli.

A riaprire questa ferita ancora fresca in molte coscienze è Terry George che conil suo “Hotel Rwanda” ci riporta a quei terribili eventi, raccontandoci da vicino lastoria di un grande uomo che in quei giorni accese una speranza: Paul Rusesabagina,il direttore di un albergo a quattro stelle, che rischia la vita per mettere in salvo nonsolo i suoi familiari, ma anche centinaia di rifugiati, aprendo loro le porte del suohotel.

È difficile, per me, dover parlare di un film quando tutto quello che ti rimanedopo la visione è un groppo alla gola per drammi che vanno al di là della duratadello stesso film. Allo stesso modo, è difficile, per un regista rendere il senso di undolore che oltrepassa ogni logica. Terry George, tuttavia, incentrando la sua atten-zione su un massacro dimenticato troppo presto e trascurato anche dalle televisioni(perché, come è noto, se non passano in tv le guerre non esistono), è riuscito ad emo-zionare lo spettatore e a rendere drammaticamente palpabile quel massacro riportan-do alla luce, con coraggio, un’atrocità dimenticata da tutti, anche da quelli che pote-vano fare qualcosa per modificare il corso degli eventi. In Ruanda, infatti, la puliziaetnica avrebbe potuto essere evitata.

Oggi che i potenti sono diventati buoni e fanno le guerre per far sì che nel mondoci sia la democrazia, (anzi, scusate, solo nei paesi in cui c’è il petrolio); oggi che tuttihanno fatto bene a invadere un Paese che non aveva neanche un’ arma per lo ster-minio di massa; oggi che ha vinto la “giustizia”, siamo tutti più felici. Oggi è così,ma undici anni fa, dove stavano questi angelici potenti - o chi per loro - che fannodi tutto per rendere il mondo migliore?

Insomma quello che mi ha impressionato di più è stata la scarsità di reazioni.Faccio fatica a pensare che uno Stato Europeo, quale è il Belgio, Stato tra i paesifondatori dell’Unione Europea, con una tradizione culturale e giuridica importante,possa essere rimasto inerte di fronte a tanto orrore. Faccio fatica a pensarlo, maancor più faccio fatica a comprendere il perché del suo comportamento indifferen-te, direi “assonnato”, se non complice. Non è questione di parte: si può essere didestra o di sinistra, di centro o apolitici, ma non è accettabile che un paese storica-mente sostenitore dei diritti umani possa averli disattesi in maniera così scandalosaed esecrabile.

Non sarà che il vero motivo di questo comportamento si cela dietro la logicacolonialista, che ha fatto danni notevoli in tutta l’Africa? È stato proprio il Belgioche, invece di cercare di amalgamare le due etnie, ha sempre incitato alle rivalità,per poterle manovrare politicamente.

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Comunque anche l’Europa è colpevole per non aver saputo gestire il problema“Africa”, infatti buona parte del benessere del nostro continente deriva dallo sfrut-tamento di quel Paese, operato dai coloni degli ultimi due secoli e non c’è dubbioche il mondo occidentale ha un enorme debito nei confronti dell’Africa.

“Hotel Rwanda” è una sorta di “Schindler africano” poiché il protagonista è unuomo qualunque che, in una situazione di grave emergenza, trova la forza di nonaccettare facili compromessi.

La forza del film sta nell’impatto tra un contesto generale di orrore e di follia euna storia individuale che, da sola, restituisce dignità all’essere umano. È una pagi-na violentissima della storia africana che il regista sceglie di proporci evitando moltidegli aspetti più efferati, se si escludono alcune sequenze forti, ma necessarie, comela traversata in jeep tra i cadaveri. Il film, di grande successo, ha mostrato al mondoeventi drammatici, sconosciuti o dimenticati a cui un occidentale non può non darepeso, se quel “mai più” vuole diventare realtà.

La storia raccontata ha profondamente fatto centro nella mia sensibilità. Nonpotrò mai dimenticare i bellissimi colori dell’Africa e i sorrisi di bambini spensiera-ti e innocenti delle prime scene, a cui subito dopo - senza averne nessuna colpa -vengono infranti i sogni e spenti i sorrisi.

Ciò che distingue noi uomini dagli animali è prima di tutto la razionalità, quindinon capisco come degli uomini degni di questo nome siano potuti arrivare a tanto e,ancor meno, non riesco a concepire con quale coraggio queste tragedie disumanedovrebbero o potrebbero ripetersi.

Rosy Russo Papo (I A Liceo Classico “F.lli Testa”)

* * * Difficile da sostenere è il clima teso che la guerra porta a vivere; a colpirmi è stata

una domanda di una bambina rivolta al padre:- “ Dove andiamo papà?”- “ In un posto sicuro! ”Ma dov’è un posto del genere, dov’è la sicurezza, la certezza, la tranquillità, la

pace, la vita?Niente è dato per certo, né la morte né la vita, il destino dovrà scegliere chi si sal-

verà e chi morirà. Prima o poi tutti dobbiamo morire, ma è completamente ingiustomorire perché si è nati con la pelle più chiara o più scura o perché si è di religionediversa, o più ricchi o di etnia diversa. La diversità distinque un carattere dell’altro, ilcolore dei capelli, degli occhi, della pelle, ma tutti siamo uguali davanti al proprio Dio,davanti alla legge e tutti, soprattutto, abbiamo gli stessi diritti quale la vita e la liber-

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tà, libertà di vita, di pensiero, di stampa. Negare la libertà è ingiusto. “Hotel Rwanda” ha il merito di raccontarci una storia che la nostra coscienza e i

nostri media hanno cancellato, probabilmente perché non sembrava loro interessan-te. Il film, inoltre, ci fa riflettere sui nostri mezzi di informazione che ci bombarda-no di notizie, soprattutto in questo momento e nel nostro Paese, laddove siano coin-volti cittadini europei.

Irene Stansù (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * * Il film s’incentra sul razzismo, particolarmente acceso in Rwanda nel 1994 quan-

do abbastanza forte era l’odio degli Hutu contro i Tutsi che avevano ricevuto bene-fici dai coloni, prima tedeschi e poi belgi. Decenni di servilismo, oppressione,povertà estrema hanno poi fatto il resto, dando origine ad un forte nazionalismo cheè alla base del genocidio avvenuto proprio in quell’anno. Gli Hutu, decisi a vendi-care i torti subiti nel corso delle dominazioni coloniali, fecero ricorso al mezzo piùferoce: lo sterminio dei Tutsi, la razza inferiore, gli “scarafaggi” del Rwanda.

Il mondo attraversava una fase di transizione, infatti era da poco uscito da un cin-quantennio di Guerra Fredda, che lo aveva diviso in due sfere, ed era ancora in attola decolonizzazione, anche se il più era già stato fatto. In quel periodo, dunque, eraquasi azzardato schierarsi dall’una o dall’altra parte in un conflitto che avvenivamolto lontano sia geograficamente, sia dal punto di vista dei rapporti commerciali.Le antiche potenze coloniali, però, avevano lasciato in molte regioni eredità ancoravive della colonizzazione (a volte anche lo stesso esercito), e continuavano ad eser-citare profonde influenze sia nei conflitti nazionali e regionali, sia nelle decisioniinternazionali. Con i francesi alleati degli Hutu e i belgi dei Tutsi, sarebbe risultatoimpossibile il raggiungimento dell’intesa e della pace…

“Hotel Rwanda” è un modo per dar voce a chi non ha voce, per dimostrare che ifatti narrati non debbono mai più divenire realtà, che l’odio genera soltanto altrapovertà e peggiora la situazione, che tutte le persone - anche coloro che ritengono dipoterne fare a meno - hanno un’anima.

Sebastiano Testa (V B Ginnasio “F.lli Testa”)

* * *

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Giornata della Memoria 2008

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CONCLUSIONI

Cous - Cous al Mc Donald

Vilma Fiore*

Una riflessione sul tema della memoria non scade mai in vuota retorica se è veroche nella memoria affondano le radici del nostro presente e gli stimoli per il nostrofuturo, nel quale episodi come quello della shoah non devono più verificarsi.

Riflettere sugli stermini del secolo scorso e sugli eccidi del presente è imperati-vo morale categorico per ciascuno di noi. Infatti, solo attraverso il ricordo di ciò cheè stato possiamo evitare che l’egoismo e l’odio crescano fino a generare sofferenzae morte.

Inevitabilmente il ricordo del passato pone l’accento sul mondo attuale.Nel XIX secolo si affermò a livello ideologico, per approdare poi ai ben noti

risvolti pratici, un nazionalismo esasperato e falso che attecchì facilmente in unclima di rapido mutamento sociale, durante il quale gli ebrei furono spesso accusa-ti di esercitare un’influenza sproporzionata rispetto al loro numero. L’antisemitismosi configura così, già da allora, come un fenomeno più socio-politico ed economicoche religioso o razziale. Nel XX secolo, il nazionalismo tedesco “sfruttò” tali ideecome base pseudo - scientifica che permettesse di distinguere tra le cosiddette razzepure o ariane e quelle presunte inferiori, come quella ebraica.

L’estremismo tedesco, per di più, fu aggravato dagli esiti del I conflitto mondia-le e dalle condizioni umilianti a cui la Germania fu sottoposta dagli stati vincitori.Le spinte nazionalistiche divennero allora una soluzione possibile ai problemi di unPaese che ambiva al riscatto. Una nazione germanica forte e unita, dominata dallarazza pura, quella ariana a cui i tedeschi vantavano di appartenere. Lo Stato nelquale tali posizioni si identificarono negò ogni criterio di bene morale, si arrogòvalori assoluti e decise di sterminare il popolo ebraico. La Shoah è il risultato di unregime moderno ottuso e feroce.

Il ricordo di ciò che è stato pone oggi l’accento su un problema quanto mai attua-le che è quello del razzismo, di ciò che, con un eufemismo dal sapore dotto, chia-miamo xenofobia, dell’emarginazione di chi è diverso da noi e non solo perché,

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* Docente di Italiano e Latino del Liceo Classico “Fratelli Testa” di Nicosia

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come per gli antichi Romani, parla una lingua diversa, barbara appunto, ma perchélontano dal nostro modo di vedere le cose, perché legato a realtà diverse dalla nostra,perché mangia cous-cous tutti i giorni e non il globalizzato Big mec, perché indos-sa lo chador e usa la kefia in testa e non al collo, perché ha il colore della pelle diver-so dal nostro, perché prega Bhudda o Allah con fede sincera e non s’isterilisce informule fittizie, perché vive nelle baraccopoli ai margini delle nostre città consumi-stiche, perché batte i marciapiedi di tangenziali metropolitane, perché offre mercan-zia al suono di vu cumprà, perché vive, sconfitto dalla vita, da clochard sui marcia-piedi affollati da gente che corre...

Il germe che porta a diffidare dello straniero o del “diverso” è sempre esistito nel-l’uomo di ogni tempo, ma é quando esso assume l’aspetto organico di un’ideologia,di un sistema di pensiero codificato, di una leadership che confonde la maggioran-za elettorale con l’assolutismo politico, che il rischio che si corre è davvero impo-nente.

Normalmente, la diffidenza é controbilanciata da altri sentimenti come quellodella fratellanza, del rispetto della dignità, dal concetto di democrazia e di libertà.Ma se tale diffidenza viene esaltata fino alle estreme conseguenze, se di essa se nefa un “ideale” o, peggio ancora, uno strumento politico che fa leva sul sentimento dimolti, allora sì che essa diventa davvero pericolosa e può portare, nel peggiore deicasi, ad un sistema politico fondato sull’intolleranza, sull’esclusione, sulla violenza,sulla paura, sulla repressione di chiunque appare “diverso”. Con ciò non intendo direche la libertà può interferire con il rispetto delle leggi di uno stato. É certo, però, cheesse devono fondarsi su basi e principi democratici.

La nostra storia ha conosciuto episodi terribili non solo sotto i regimi nazista efascista - basti ricordare il massacro degli Armeni, le vittime della guerra serbo-croata e la tragedia dei Balcani, il genocidio degli zingari, le vittime del regimesovietico, cinese, cambogiano - e ancora oggi in un paese democratico come ilnostro si discute di “ronde” speciali che garantiscano l’incolumità dei cittadini, diemarginazione di gay e di trans, di barboni, che nessuno tutela, che prendono fuococome torce. Ci preoccupa uno stato che intende modificare le leggi costituzionali eutilizzare l’immunità parlamentare per impedire alla giustizia di fare il suo corso,che intende far leva sul sentimento di diffidenza collettiva per ottenere consensi, chevuole, in una società in cui la retorica è la disciplina prevalente nella comunicazio-ne di massa, monopolizzare l’informazione per evitare confronti democratici.

Primo Levi, che ci ha lasciato una delle più lucide testimonianze dello sterminionazista, nell’appendice all’edizione di “ Se questo è un uomo” del 1976 scriveva:Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi,ammirati, adorati come dei. Erano capi carismatici, possedevano un segreto poteredi seduzione [...]. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse e in gene-

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rale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati e seguiti finoalla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli non eranoaguzzini nati, non erano, salvo poche eccezioni, dei mostri: erano uomini qualun-que. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sonopiù pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senzadiscutere, come Eichmann, come Hoss comandante di Auschwitz, come i militarifrancesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani ditrent’anni dopo, massacratori in Vietnam”.

Ciò significa che bisogna fare attenzione a chi cerca di convincerci con strumen-ti diversi dalla ragione, a non affidare ad altri la nostra capacità di giudizio e di scel-ta, a diffidare di capi carismatici e di quanti diffondono falsi miti e certezze tout-court. Per questo la scuola ricorda e ammonisce: lo studio, il dialogo, il confronto ela memoria, oggi più che mai, possono evitare tristi epiloghi e il ritorno di ideologieestremiste che, ahimè, sono sempre attuali.

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Verso un mondo migliore …

Maria Luisa Li Volsi*

L’olocausto e altri genocidi hanno ispirato molti film: alcuni tratti da libri cele-bri che hanno per protagonisti gli adolescenti (quali “Il diario di Anna Frank” e “Jona che visse nella balena”) ed altri che raccontano - in chiave realistica (come “Latregua” e “ Il Pianista”), umoristica (“ La vita è bella”) o documentaria (“HotelRwanda” e “La masseria delle allodole”) - l’orrore di cui l’uomo è protagonista.

Perché il ricordo di questi precisi momenti storici non venga solo denunciato edimenticato si è cercato di coinvolgere, con la visione di alcuni film, gli alunni delnostro Istituto e degli Istituti Comprensivi di Nicosia, stimolandoli ad esprimere leloro riflessioni e considerazioni. Da esse è emersa una singolare sensibilità, unacerta maturità e presa di coscienza di quanto accaduto in vari periodi storici. Ma,oltre a questa consapevolezza, alcuni discenti sono andati oltre, con constatazionialquanto amare, affermando che il razzismo e la violenza esistono ancora nelmondo.

In effetti la storia dell’umanità è costellata da un susseguirsi di guerre, di stragi,di estenuanti lotte per il predominio di popoli su altri popoli, di comportamenti pre-potenti e dispotici. Purtroppo gli uomini, così facendo, continuano a ripetere gli stes-si errori, non rispettando, disattendendo e calpestando i diritti fondamentali.Sentiamo ripetere ogni giorno frasi del tipo “L’uomo è un essere libero”, “Tutti gliuomini sono uguali fra loro”, ma spesso questi principi non sono riconosciuti, comeconstatiamo ogni giorno scorrendo le pagine dei giornali, zeppe di fatti di violenzache avvelenano la nostra esistenza.

Certamente, però, ci sono stati e ci sono ancora uomini che pongono la loro vitaal servizio del prossimo, che si prodigano per la pace, per la libertà, per la non vio-lenza nella speranza che il mondo cambi e che diventi migliore. Sono quindi convin-ta che tutti noi, con il nostro lavoro, con il nostro impegno quotidiano a scuola, pos-siamo far crescere questa speranza a dispetto di quanti vorrebbero affossare i valoriuniversali della libertà, della solidarietà e del rispetto reciproco, perché operandobene possiamo essere noi stessi i promotori della nuova storia, di un’era di pace e difratellanza in cui i diritti umani, anziché essere calpestati, vengano esaltati.

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*Docente di Italiano e Latino del Liceo Pedagogico “Fratelli Testa” di Nicosia.

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Genocidi prima e dopo il “Genocidio”

Valeria Fiscella e Luigi Gagliano*

Non è difficile prevedere, né tanto meno ci stupisce, che il lettore, giunto allaconclusione del libro “Shoah e… genocidi rimossi”, ne rilevi l’incompletezza eforse anche l’uso improprio del termine “genocidio”, in quanto – come parte delladottrina suggerisce - alcune situazioni, che ripropongono la logica dell’annienta-mento fisico di esseri umani, non sono etichettabili come genocidi veri e propri, dalmomento che alla loro base non c’è stata la radicalità del progetto di sterminio comenella Shoah, cioè l’intenzione politica di uno Stato di riuscire ad uccidere tutti gliebrei indipendentemente dal luogo in cui si trovassero.

Tuttavia non abbiamo voluto fermarci di fronte alle diverse sfumature dei termi-ni: genocidio, eccidio, pulizia etnica.., riconoscendo che si tratta comunque di cri-mini contro l’umanità, di crimini - sistematici e su larga scala - che vìolano conti-nuamente i diritti umani e in cui è la popolazione civile al centro di una guerra o vit-tima di massacri di proporzioni immani, eseguiti non soltanto con le guerre e le per-secuzioni che sono senz’altro espressione di brutale violenza, ma anche in vari altrimodi, più subdoli e silenziosi ( tortura, arresto e detenzione arbitrarie, esecuzioni,stupro, ghettizzazione della popolazione civile, rimozione forzata, dispersione edeportazione, attacchi militari deliberati…). E sostenuti dall’etimologia del termine“genocidio”, abbiamo scelto di avvalerci di esso per definire ogni forma di violen-za che si indirizza verso un gruppo di persone non per ciò che fa, ma per ciò che è:vale a dire per la sua origine nazionale, per la sua cultura o per la sua religione.

La storia non ha di certo aspettato che fosse coniato il termine (cosa avvenutasolo alla fine della seconda guerra mondiale) perché venissero compiuti massacri dimassa rivolti non solo ai combattenti, ma a tutto un popolo, bambini e donne com-presi, per annientarlo. Anzi, parafrasando una celebre frase di Popper, potremmodire che “la strada della storia è lastricata di genocidi”. Per non andare moltoindietro nel tempo, ricordiamo il genocidio attuato dai conquistatori spagnoli sullepopolazioni indigene americane (i Pellirosse), ed ancora, gli stermini di massa sullepopolazioni dell’Asia e dell’Africa in seguito all’ulteriore espansione colonialeeuropea, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; stermini che, per ilnumero delle vittime e, soprattutto, per le modalità delle uccisioni, assumonoanch’essi le caratteristiche del genocidio. Pensiamo, in particolare, al massacro dei

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*Docenti di Italiano-Latino e di Storia-Filosofia del Liceo Classico “Fratelli Testa” di Nicosia.

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Boeri, in Sudafrica, ad opera degli Inglesi, o a quello degli Herero, gruppo etnicodell’Africa sud-occidentale (attuale Namibia), la cui sistematica distruzione adopera dei Tedeschi negli anni 1904-’05 costituì probabilmente, ancor prima di quel-lo degli Armeni, il primo genocidio del XX secolo.

Nel Novecento, poi, quando la pratica dei massacri di massa si estese all’Europa,si registrò la terribile esperienza della Shoah, con le camere a gas, i forni crematorie i campi di sterminio. E anche se dopo la scoperta degli immani orrori attuati dallaGermania nazista ai danni degli ebrei sia stato dichiarato solennemente: “Mai piùun’altra Auschwitz”, in realtà altri popoli successivamente sono stati perseguitati,deportati e uccisi per la loro nazionalità, la loro religione, la loro cultura. È succes-so nella Russia di Stalin, in Cambogia, in Darfur, nel Biafra, nel Kurdistan, nell’exIugoslavia, in Cecenia e così via.

E allora perché - potrebbe essere la legittima obiezione del lettore - focalizzarel’attenzione solo su tre genocidi “rimossi”? Con una battuta si potrebbe rispondere:“Perché insegnare è scegliere”. Non escludiamo che in un futuro prossimo la nostraattività di educatori preveda interventi didattici mirati a riportare alla luce, conpazienti ricerche e adeguati approfondimenti, altri genocidi della storia recente.

Intanto, a parziale “riparazione” della oggettiva, quanto inevitabile, incompletez-za del nostro lavoro, abbiamo realizzato, in occasione della “Giornata della memo-ria 2009”, un DVD (allegato al presente quaderno) grazie anche alla collaborazionedi tre alunni del 2° anno del Liceo Classico (Deborah Leonardi, Giuseppe Maggio eSanti Paride Nasello), che ne hanno curato la documentazione, il montaggio e l’adat-tamento della colonna sonora.

Si tratta di rapidi flash, relativi ad altri massacri e stermini di massa accaduti nelrecente passato, che integrano il nostro testo con eloquenti e sconvolgenti immagini diguerra e di violenza e che, ci auguriamo, possano costituire utili spunti di riflessione.

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INDICE

Presentazione del Dirigente Scolastico Giuseppe Chiavetta…………......Ragioni di un impegno di Valeria Fiscella e Luigi Gagliano…………....

I PARTE

La memoria…oltre le barriere dell’indifferenza di Luigi Gagliano…...…ShoahPrime disposizioni contro gli ebrei…………………………………….....Le leggi di Norimberga…………………………………………………...Altre leggi contro gli ebrei………………………………………………..Notte dei cristalli ………………………………………………………....Conferenza di Wannsee ………………………………………………......Sterminio degli ebrei o shoah? …………………………………………...La legislazione fascista contro gli ebrei…………………………………..1938: l’anno dell’ignominia ……………………………………………...Il Fascismo diventa razzista ……………………………………………...Genocidio degli ArmeniUn po’ di storia…………………………………………………………...Il genocidio……………………………………………………………….Le ammissioni di colpevolezza …………………………………………..Usa e questione armena ………………………………………………….Conclusioni………………………………………………………………..Genocidio in RuandaPosizione geografica del Ruanda ……………………………………........Ruanda: un rapido sguardo alla storia…………………………………….I cento giorni di sangue …………………………………………………..L’indifferenza del mondo ………………………………………………...Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ………………………...Genocidio di SrebrenicaLa disgregazione dello Stato iugoslavo…………………………………..Bosnia: guerra di tutti contro tutti………………………………………...Genocidio di Srebrenica ……………………………………………….....Il non intervento dell’ONU……………………………………………….La sentenza dell’Aja: “fu genocidio”…………………………………….. Due commenti a margine della sentenza dell’Aja ……………………….

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II PARTE

Il film come testimonianza di Valeria Fiscella ……………...…………..

Il diario di Anna Frank Trama …………………………………………………………………….Commento …..................…………………………………………………Riflessioni degli alunni…………………………………………………...Intervista immaginaria ……………………………………………………Intervista …………………………………………………………………..Poesie …………………………………………………………………….Jona che visse nella balenaTrama …………………………………………………………………….Commento …..................…………………………………………………Riflessioni degli alunni…………………………………………………...La masseria delle allodoleTrama …………………………………………………………………….Commento ……………...................………………………………………Riflessioni degli alunni…………………………………………………...Poesie …………………………………………………………………….Hotel RwandaTrama …………………………………………………………………….Commento ….................………………………………………………….Riflessioni degli alunni……………………………………………………

CONCLUSIONI

Cous-cous al Mc Donald di Vilma Fiore ……………..………………….Verso un mondo migliore di M. Luisa Li Volsi…………………………...Genocidi prima e dopo il “Genocidio” di Valeria Fiscella e Luigi Gagliano

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Finito di stamparenel mese di gennaio 2010

presso

Arti Grafiche NovaGraf s.n.c.C.da Piano di Corte, 18 Assoro (EN)Tel. 0935 667864 - Fax 0935 620507

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