Shirley Jackson - Demoni Amanti (Ita Libro)

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SHIRLEY JACKSON DEMONI AMANTI (The Lottery, 1949) Indice L'ubriaco Le diable amoureux Come la faceva mammà Giudizio per ordalia Greenwich Village La mia vita da Macy La strega Il rinnegato Dopo di te, mio caro Alphonse Charles Pomeriggio tra i lini Il bel giardino fiorito Dorothy, la nonna e i marinai A colloquio Elizabeth Una ditta solida, antica Il pupazzo Sette tipi di ambiguità Danza con me in Irlanda Naturalmente Come una statua di sale Uomini con gli scarponi Il dente Una lettera di Jimmy La lotteria Epilogo L'ubriaco Era soltanto un po' brillo, e conosceva abbastanza la casa da saper trova- re la cucina senza farsi aiutare da nessuno: in apparenza, vi andò per cerca- re il ghiaccio, ma in realtà per farsi passare i fumi del liquore. Non era ab- bastanza amico dei padroni di casa da potersi permettere di addormentarsi

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SHIRLEY JACKSON DEMONI AMANTI (The Lottery, 1949)

Indice

L'ubriaco Le diable amoureux

Come la faceva mammà Giudizio per ordalia Greenwich Village

La mia vita da Macy La strega

Il rinnegato Dopo di te, mio caro Alphonse

Charles Pomeriggio tra i lini Il bel giardino fiorito

Dorothy, la nonna e i marinai A colloquio Elizabeth

Una ditta solida, antica Il pupazzo

Sette tipi di ambiguità Danza con me in Irlanda

Naturalmente Come una statua di sale Uomini con gli scarponi

Il dente Una lettera di Jimmy

La lotteria Epilogo

L'ubriaco

Era soltanto un po' brillo, e conosceva abbastanza la casa da saper trova-

re la cucina senza farsi aiutare da nessuno: in apparenza, vi andò per cerca-re il ghiaccio, ma in realtà per farsi passare i fumi del liquore. Non era ab-bastanza amico dei padroni di casa da potersi permettere di addormentarsi

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sul divano del salotto. Lasciò senza rimpianti il resto degli invitati, raccolti attorno al piano a

cantare Polvere di stelle, e la padrona di casa che discuteva tutta convinta con un giovanotto con un paio di occhialini dalla montatura sottile e una piega sprezzante sulle labbra; passò con attenzione vicino al piccolo grup-po che si era accomodato sulle sedie impagliate e che seguiva, tutto con-centrato, certi astrusi ragionamenti di uno di loro.

La porta della cucina si aprì senza sforzo quando la toccò; si sedette al tavolo di smalto bianco, che era pulito e freddo sotto la sua mano.

Posò il bicchiere su un centrino verde e, quando alzò gli occhi, vide u-n'adolescente che lo osservava con curiosità dall'altra parte del tavolo.

— Salve — le disse. — Tu sei la figlia? — Sono Eileen — rispose lei. All'uomo, la ragazzina sembrava tozza e sproporzionata; colpa della

moda che c'è adesso, pensò vagamente. Aveva le trecce e una faccia gio-vane e fresca, senza trucco; indossava un pullover viola, aveva i capelli ne-ri.

— Mi sembri una brava ragazza, seria — disse, e solo in quell'istante si accorse che non era la giusta cosa da dire a una giovane di quell'età.

— Mi sono preparata una tazza di caffè — rispose Eileen. — Ne vuole una anche lei?

Per poco, l'uomo non scoppiò a ridere, al pensiero che la ragazza lo trat-tava nel classico modo riservato agli ubriachi invadenti.

— Grazie — rispose. — Sì. Si sforzò di mettere a fuoco gli occhi; il caffè era bollente, e quando la

ragazza posò la tazza davanti a lui, dicendo: — Penso che lo preferisca senza latte — lui abbassò la faccia sul vapore e lasciò che gli entrasse negli occhi, nella speranza che gli schiarisse le idee.

— Sembra una bella festa — disse la ragazza, in tono di scarsa convin-zione. — Tutti si divertono.

— Sì, è una bella festa. — L'uomo cominciò a bere il caffè, bollente in modo quasi insopportabile, e si chiese perché la ragazza lo aiutasse. Quan-do si sentì girare meno la testa, le sorrise.

— Mi sento già meglio — disse. — Grazie. — Deve fare molto caldo, là dentro — rispose la ragazza, piano. Lui rise, e la ragazza aggrottò la fronte. Poi, come se volesse scusarlo,

continuò: — Di sopra faceva così caldo che ho preferito scendere qui sot-to, a respirare un poco.

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— Stavi dormendo? — chiese lui. — Ti abbiamo svegliata? — Facevo i compiti. Lui la guardò di nuovo, e la immaginò intenta a scrivere sul quaderno in

bella calligrafia, circondata da libri di testo consumati, in mezzo alle risa allegre dei compagni.

— Sei al liceo? — Ginnasio. — Attese per qualche istante, come se si aspettasse un

commento, poi spiegò: — Ho perso un anno, per la polmonite. A questo punto, l'uomo non seppe più cosa dire (chiederle se ha il ragaz-

zo? se le interessa il campionato?) e perciò finse di tendere l'orecchio alle voci che venivano dalle altre stanze.

— Bella festa — disse, vagamente. — Suppongo che a lei piacciano, le feste — commentò la ragazza. Preso alla sprovvista, lui abbassò gli occhi sulla tazza ormai vuota. Sì, le

feste gli piacevano, probabilmente, ma lei era riuscita a dirlo con il tono che avrebbe usato per chiedergli se gli piacevano le lotte dei gladiatori o se ballava sempre il valzer, da solo, in giardino.

Ho quasi il doppio della tua età, ragazza mia, pensò, ma non è passato molto tempo da quando facevo anch'io i compiti.

— Giochi a pallacanestro? — le chiese. — No — rispose la ragazza. Con irritazione, lui pensò che doveva continuare a fare conversazione

con lei, perché la ragazza era già lì al suo arrivo e perché era la figlia dei padroni di casa.

— E che compito era? — le chiese. — Faccio una ricerca sul futuro del mondo — rispose lei, sorridendo. —

Detto così, sembra una sciocchezza, vero? Ne sono convinta anch'io. — In salotto — commentò lui — si sono messi a discutere dello stesso

argomento. Ecco perché sono venuto via. — Poi, nel vedere che la ragazza lo guardava come per dire che non era il solo motivo, si affrettò ad ag-giungere: — E tu, che cosa dicevi del futuro del mondo?

— Non penso che gli resti molto futuro — rispose lei. — Almeno, per il tipo di vita che facciamo oggi.

— È un buon momento, per viverci — disse lui, come se parlasse con uno degli altri invitati.

— Del resto — proseguì la ragazza — non è che la cosa non fosse pre-vedibile.

Lui la fissò per qualche istante; la ragazza aveva preso a dondolare il

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piede e ne seguiva con lo sguardo il movimento. — C'è davvero da preoccuparsi — disse l'uomo — quando le ragazze di

sedici anni devono pensare a cose di questo genere. — Ai miei tempi, a-vrebbe voluto dirle ironicamente, pensavano a uscire con i ragazzi e ad an-dare alle feste.

— Io ne ho diciassette — replicò lei, alzando lo sguardo e tornando a sorridergli. — C'è molta differenza.

— Ai miei tempi — replicò lui, con una punta di irritazione — le ragaz-ze pensavano solo a uscire con i ragazzi e ad andare alle feste.

— Sì, ed è proprio questo il guaio — rispose lei, seria. — Se la gente, onestamente, si fosse preoccupata un po' di più, quando lei era giovane, oggi non ci troveremmo tanto male.

Lui si irritò più di quanto non volesse ("quando lei era giovane"!) e, sen-za guardarla negli occhi, disse, come si fa con i bambini: — Oh, mi sem-bra di ricordare che ce ne preoccupavamo anche noi. Secondo me, tutti i giovani di sedici... anzi, diciassette... anni sono convinti di doversi al-larmare per il futuro. È un periodo per cui passiamo tutti, come quello in cui ci si innamora degli attori.

— Io continuo a chiedermi come sarà il futuro — disse la ragazza, pia-no, fissando un punto sulla parete. — A volte penso che le prime a essere distrutte saranno le chiese, prima ancora dei grattacieli come l'Empire Sta-te Building. E poi tutti i grandi palazzi sulle rive del fiume scivoleranno pian piano nell'acqua, con tutta la gente dentro. Poi le scuole, magari du-rante la lezione di latino, mentre leggiamo Cesare.

Lo fissò negli occhi e prese a parlare in tono concitato: — Ogni volta che iniziamo un nuovo capitolo di Cesare — disse — mi chiedo se non sa-rà l'ultimo. Forse la mia classe sarà l'ultima a leggere Cesare.

— Questa sarebbe una buona notizia — replicò lui, in tono leggero. — Ricordo che lo odiavo.

— Probabilmente, quando lei era giovane, tutti odiavano Cesare — ri-spose lei, gelida.

Lui lasciò passare qualche istante, prima di dire: — Mi pare sciocco riempirti la testa di tutte queste idee di distruzione del mondo. Prendi una rivista illustrata e leggi quella.

— Oh, potrò prendere tutte le riviste illustrate che desidererò — insistet-te lei. — La metropolitana crollerà, deve sapere, e tutte le edicole delle stazioni verranno sfondate. Si potranno prendere tutte le tavolette di cioc-colata che si vogliono, le riviste, e, dai negozietti da un soldo, i rossetti e i

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fiori artificiali, e le strade saranno coperte degli abiti scagliati fuori dai grandi magazzini. Vestiti e pellicce.

— Allora, mi auguro che si spalanchino anche le porte dei negozi di li-quori — disse lui, che cominciava a essere stanco di quella discussione. — Entrerei a prendermi una cassa di cognac, e poi non mi preoccuperei più di niente.

— Tutti i grandi palazzi commerciali saranno ridotti a immensi mucchi di calcinacci — disse la ragazza, fissandolo a occhi sgranati. — Ah, poter sapere il momento esatto in cui si verificherà!

— Capisco — disse lui. — Ma adesso devo ritornare con gli altri. Capi-sco.

— E, dopo, tutto sarà diverso — continuò lei. — Tutto il mondo che co-nosciamo non ci sarà più. Avremo nuove leggi e nuovi modi di vivere. Forse la legge ci vieterà di abitare in case, perché nessuno possa nascon-dersi agli altri, capisce?

— E ci sarà una legge che obbligherà tutte le ragazze di diciassette anni a imparare il buon senso, a scuola — disse lui, alzandosi.

— Oh, non ci saranno più scuole — rispose lei, seccamente. — Nessuno dovrà più studiare. Per impedire che si torni al punto dove ci troviamo a-desso.

— Be' — disse lui, con una risatina — mi sembra un'idea molto allettan-te. Peccato, non trovarsi laggiù a vederlo.

Quando fu giunto alla porta, si appoggiò per qualche istante allo stipite; cercò di trovare una frase secca ed efficace, da adulto, per mettere a posto la ragazzina, ma aveva paura di rivelarle che era stato ad ascoltarla, di farle capire che lui, alla sua età, non aveva mai avuto di quelle idee.

— Se hai qualche problema con il latino — disse infine — ti posso dare una mano.

Lei rise, inaspettatamente. — Oh, continuo a fare i compiti tutti i giorni — assicurò.

Tornò in salotto, dove la gente andava allegramente avanti e indietro, il gruppo del piano cantava La mia casa sui monti, e la padrona di casa era intenta a conversare con un uomo alto ed elegante vestito di blu. Scorse il padre della ragazza e gli disse: — Ho appena avuto un'interessante conver-sazione con sua figlia.

Il padrone di casa si guardò attorno, rapidamente. — Eileen? Dov'è? — In cucina. Deve fare il latino. — Gallia est omnia divisa in partes tres — disse il padrone di casa, sen-

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za espressione. — Lo so. — Una ragazza davvero straordinaria. Il padre scosse la testa, con aria deprecatoria. — I ragazzi d'oggi — dis-

se. Titolo originale: The Intoxicated (1949)

Le diable amoureaux Non era riuscita a prendere sonno. Dall'una e mezzo (quando Jamie era

uscito e lei era andata senza fretta a dormire) fino alle sette, quando final-mente si era alzata per preparare il caffè, aveva dormito male, agitata, a-prendo di tanto in tanto gli occhi nella penombra e scoprendosi a pensare, e poi ritornando a chiuderli.

Per bere il caffè aveva impiegato quasi un'ora, anche se aveva consuma-to solo quello (ma la vera e propria colazione l'avrebbero fatta durante il viaggio). Tanto, a meno di non vestirsi troppo in anticipo, non aveva nien-te da fare.

Lavò la tazza e si rifece il letto; pensò attentamente al vestito da metter-si; si avvicinò alla finestra, chiedendosi oziosamente se fosse una bella giornata. Si sedette a leggere, e poi decise di scrivere una lettera alla sorel-la; perciò prese a scrivere, con la sua migliore grafia: "Cara Anne, quando leggerai questa lettera, io sarò già sposata. Non ti sembra strano? Io stessa non riesco a crederci, ma quando ti avrò raccontato com'è successo, vedrai che la realtà è ancor più strana..."

Seduta alla scrivania, con la penna in mano, si fermò a pensare a che co-sa dire ancora ad Anne, rilesse le righe che aveva scritto e stracciò la lette-ra.

Si recò alla finestra e vide che era senza dubbio una bella giornata. Pen-sò che forse non le conveniva mettere il vestito azzurro di seta; era troppo lineare, quasi severo, mentre lei voleva essere morbida, femminile.

Con ansia, andò a controllare i vestiti nell'armadio e si soffermò a guar-dare un vestito di cotone stampato che aveva indossato l'estate precedente; era troppo giovanile per lei, e aveva il colletto largo, ed era troppo presto per indossare un vestito di cotone, ma...

Appese all'esterno dell'armadio, l'uno di fianco all'altro, i due vestiti, e aprì le porte a vetri che davano sul cucinino. Accese il fuoco sotto l'acqua del caffè e poi fece ritorno alla finestra; c'era il sole. Quando l'acqua prese

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a bollire, tornò indietro e si versò una tazza di caffè, in una tazza pulita. Mi verrà un mal di testa, pensò, se non mangerò qualcosa di solido: tutto que-sto caffè e queste sigarette, senza fare colazione.

Mal di testa il giorno delle nozze! Andò a prendere nell'armadio del ba-gno il tubetto dell'Aspirina e l'infilò nella borsetta. Era azzurra, e se lei si fosse messa il vestito di cotone stampato avrebbe dovuto prenderne una marrone, ma l'unica che aveva di quel colore era vecchia e frusta.

Senza sapere che decisione prendere, continuò a guardare prima la bor-setta blu e poi il vestito di cotone; poi posò la borsetta, andò a bere un altro caffè e guardò con attenzione i particolari dell'unica stanza che costituiva tutto il suo appartamento.

Avevano deciso di tornare laggiù, quella sera, e ogni cosa doveva essere in ordine. Con un brivido alla schiena si ricordò di non avere cambiato le lenzuola; le avevano appena riportato la biancheria lavata, e lei andò a prendere in cima all'armadio lenzuola e federe, e tolse quelle vecchie, in fretta, cercando di non pensare alle ragioni che la portavano a cambiarle.

Era un divano letto, con una fodera da mettere durante il giorno; quando lei ebbe terminato, nessuno sarebbe riuscito a indovinare che aveva cam-biato le lenzuola. Prese quelle vecchie e le portò in bagno, per poi infilarle nel cestino della biancheria da lavare; poi tolse anche gli asciugamani e li sostituì. Quando tornò in cucina, il caffè era ormai freddo, ma lei lo bevve lo stesso.

Poi l'occhio le cadde sull'orologio; si accorse che erano già passate le nove, e questo la spinse ad affrettarsi. Fece il bagno, e usò uno degli asciu-gamani puliti. Mise anche quello nel cesto della biancheria e lo sostituì con uno asciutto. Si vestì con attenzione, con biancheria pulita e in gran parte nuova; tutto quel che aveva indossato il giorno precedente, compresa la camicia da notte, lo cacciò nel cestino.

Solo al momento della scelta dell'abito ebbe qualche momento di indeci-sione, davanti all'armadio. Naturalmente, quello blu era più adatto, ed era nuovo, e le stava bene, ma Jamie gliel'aveva già visto addosso, e non era niente di speciale per il giorno del matrimonio. Invece, il vestito di cotone era molto grazioso, e Jamie non l'aveva mai visto; ma faceva ancora un po' troppo freddo per metterselo.

Alla fine, pensò: Oggi mi sposo e perciò posso vestirmi come mi pare. Prese il vestito di cotone e se lo infilò. Era fresco e leggero; ma, quando si guardò allo specchio, vide che il colletto le nascondeva troppo la gola e che la gonna svasata sembrava fatta per una ragazzina che volesse correre

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libera, ballare, agitare i fianchi mentre camminava. Guardandosi allo specchio, pensò con irritazione: È come se volessi

sembrare più bella di quello che sono, solo perché c'è lui. Si dirà che vo-glio ringiovanirmi perché ha accettato di sposarmi. Allora si tolse il vestito di cotone, talmente in fretta da strappare una delle cuciture sotto l'ascella.

Nel suo vecchio vestito blu si sentì più comoda, maggiormente a suo a-gio, ma anche un po' più acida. Quel che conta, si disse, decisa, non è il vestito che hai addosso, e tornò con irritazione a cercare nell'armadio.

Ma non c'era niente di adatto a un matrimonio, e per un attimo fu presa dall'idea di correre in un negozio vicino a casa, per comprarsi un vestito nuovo.

Poi si accorse che erano quasi le dieci, e che le rimaneva solo il tempo per pettinarsi e per truccarsi. I capelli le richiesero poco tempo, li raccolse in uno chignon sulla nuca, ma il trucco era qualcosa di più complesso per-ché occorreva raggiungere un delicato equilibrio tra l'avere il migliore a-spetto possibile e il non mostrarsi artefatta.

Non poteva nascondere il pallore della pelle né le borse sotto gli occhi, per non dare l'impressione di averlo fatto solo per il matrimonio, ma non voleva neanche sposarsi con l'aria stanca e affaticata.

Dopotutto, si disse con severità, fissando la propria immagine riflessa sullo specchio del bagno, hai trentaquattro anni. Trenta, comunque, era la cifra che aveva sempre denunciato.

Erano già le dieci e due minuti, e non c'era niente che le andasse a genio: né l'abito, né la faccia, né la casa. Tornò a scaldare il caffè e si sedette ac-canto alla finestra. Pensò: Ormai, non posso più fare niente. È assurdo cer-care di rappezzare tutto all'ultimo momento.

Con un sospiro rassegnato, cercò di pensare a Jamie, e scoprì di non riu-scire a vedere la sua faccia, con l'occhio della mente, né di ricordare il tim-bro della sua voce.

È sempre così, si disse, quando si vuole bene a qualcuno, e cercò di pen-sare al futuro. Jamie avrebbe avuto successo con i suoi libri, e lei avrebbe lasciato l'ufficio per sistemarsi con lui in una villetta in campagna: era il futuro in comune di cui avevano parlato per tutta la settimana.

"Una volta" lei aveva detto a Jamie "io ero un'ottima cuoca. Con un po' di pratica potrei tornare a fare la torta Pane degli Angeli. E il pollo fritto" aveva aggiunto, teneramente, sicura che quelle parole avrebbero fatto breccia nella mente di Jamie "e lo spezzatino."

Le dieci e mezzo. Si alzò e sollevò la cornetta del telefono. Fece il nu-

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mero e sentì la voce metallica: «...al suono del gong saranno esattamente le 10 e 29».

Sovrappensiero, mise indietro l'orologio di un minuto. Le tornarono in mente le sue parole della sera prima, nel salutare Jamie: "Allora, alle dieci e mezzo. Sarò pronta. Ma è proprio vero?"

E Jamie, che, nel corridoio, era scoppiato a ridere. Alle undici, lei aveva terminato di cucire lo strappo sotto l'ascella del

vestito di cotone stampato e aveva riposto nell'armadio il cestino del cuci-to. Poi, con addosso il vestito di cotone, era tornata a sedersi vicino alla fi-nestra e aveva bevuto un'altra tazza di caffè.

Dopotutto, pensò, potevo anche prendermela più comoda, quando mi sono vestita. Ma ormai era tardi, Jamie poteva arrivare da un momento al-l'altro, e lei non osava prendere niente in mano, con il pericolo di dover ri-cominciare tutto da capo.

In casa non c'era niente da mangiare, tranne quel che lei aveva preso per l'inizio della vita in comune: il pacchetto di bacon ancora sigillato, la doz-zina di uova nella scatola, il pane e il burro ancora avvolti nella carta. Pen-sò di scendere al negozio di alimentari sotto casa, lasciando un messaggio sulla porta. Poi decise di aspettare ancora qualche minuto.

Alle undici e mezzo si sentiva girare a tal punto la testa che fu costretta a scendere, per mangiare qualcosa. Se Jamie avesse avuto il telefono, gli a-vrebbe telefonato. Invece, aprì la scrivania e scrisse un biglietto: "Jamie, sono scesa al drugstore. Torno tra cinque minuti".

La penna perdeva, e lei si sporcò le dita d'inchiostro. Andò in bagno a lavarsele, e si servì di un asciugamano pulito. Lo sostituì con un altro.

Attaccò il biglietto alla porta, diede un'occhiata all'appartamento per as-sicurarsi che tutto fosse a posto e chiuse la porta senza girare la chiave, ca-somai Jamie arrivasse durante la sua assenza.

Nel drugstore non trovò niente che l'attirasse, salvo dell'altro caffè, e la-sciò la tazza dopo qualche sorso perché aveva l'impressione che Jamie fos-se arrivato e la aspettasse con impazienza, ansioso di uscire.

Ma in casa non c'era nessuno, e tutto era come lei lo aveva lasciato: il biglietto era ancora appeso alla porta senza che nessuno l'avesse letto, la stanza puzzava di fumo di sigaretta. Lei aprì la finestra e si mise a sedere accanto a essa finché non si accorse che doveva essersi addormentata, e che era già l'una meno venti.

Adesso, tutt'a un tratto, cominciò a preoccuparsi. Nel destarsi all'im-provviso, comprese che tutto era pronto e immobile fin dalle dieci: questo

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la allarmò e la convinse dell'assoluta necessità di fare in fretta. Si alzò di scatto e corse in bagno. Si sciacquò la faccia con l'acqua fred-

da e se l'asciugò con il primo asciugamano che le capitò in mano, senza preoccuparsi di cambiarlo; tanto, più tardi c'era tutto il tempo.

Senza cappello, con ancora il vestito di cotone stampato e un soprabito sulle spalle, con in mano la borsetta di colore sbagliato contenente il tubet-to dell'Aspirina, chiuse a chiave la porta, questa volta senza lasciare mes-saggi, e scese di corsa le scale. All'angolo, fermò un taxi e diede l'indirizzo di Jamie.

Non c'era molta strada; l'avrebbe fatta a piedi, se non si fosse sentita così debole. Una volta montata sul taxi si disse che non era buona educazione scendere dalla vettura davanti alla porta di Jamie, e domandare sfacciata-mente di lui. Perciò chiese all'autista di lasciarla all'angolo dell'isolato pre-cedente, pagò la corsa e poi attese che il taxi si allontanasse, prima di muoversi.

Non era mai stata laggiù; l'edificio aveva un'aria vecchia e dignitosa, e il nome di Jamie non compariva su nessuna delle cassette della posta, giù nell'ingresso, e neppure tra quelli dei campanelli.

Controllò il numero civico; era quello giusto. Alla fine, si decise a suo-nare il pulsante accanto a cui c'era scritto CUSTODE.

Dopo qualche istante, la serratura elettrica scattò; lei entrò e si fermò nel corridoio, senza sapere da che parte andare, finché non si aprì una porta, in fondo, e una figura non le chiese: — Sì?

In quel momento, si accorse di non sapere che cosa domandare. Perciò, per prendere tempo, si diresse verso la figura apparsa sulla soglia della porta e illuminata dalla luce della stanza.

Quando lei le giunse accanto, la figura le chiese di nuovo: — Sì? — Era un uomo in maniche di camicia; dal punto in cui si trovava, non riusciva a vederla.

Lei si fece coraggio e spiegò: — Cercavo una persona che abita qui; fuo-ri, non riuscivo a trovare il suo nome...

— Che nome cerca? — domandò l'uomo, e lei pensò: Ormai, devo ri-spondere.

— James Harris — fece. Per qualche istante, l'uomo non parlò; poi ripeté: — Harris. — Si girò

verso l'interno della stanza e disse: — Margie, vieni qui un attimo. — Che cosa c'è, adesso? — chiese qualcuno; dopo un periodo sufficien-

te ad alzarsi dalla poltrona e ad attraversare la stanza, comparve una don-

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na, che si fermò sulla porta e cercò di guardare nel corridoio. — La signora — spiegò l'uomo — cerca un uomo di nome Harris, dice

che abita qui. C'è qualcuno con quel nome, nell'edificio? — No — rispose la donna. Sembrava divertita. — Qui non c'è nessuno

che si chiama Harris. — Spiacente — disse l'uomo. Fece per chiudere la porta. — Deve avere

sbagliato casa, signora — disse, e aggiunse a voce più bassa: — O sbaglia-to persona. — Lui e la donna risero.

La porta stava quasi per chiudersi; si vedeva solo una sottile fessura di luce. Lei disse: — Eppure, abita qui; ne sono sicura.

— Senta — disse la donna, aprendo un poco la porta. — Non deve pren-dersela, sono cose che succedono tutti i giorni.

— No, non è come crede — ribatté lei, con voce molto ferma, con i suoi trentaquattro anni di orgoglio accumulato. — Temo di non essermi spiega-ta bene.

— Che genere di persona era? — chiese allora la donna. Aveva un tono di voce annoiato, e non aprì la porta.

— Una persona alta, con i capelli biondi. In genere ha un vestito blu. È uno scrittore.

— Non so — rispose la donna, e poi: — Non stava mica al secondo pia-no?

— Non saprei dire... — C'era un tale... — rifletté la donna. — Aveva sempre un vestito blu.

Ha abitato per un certo periodo al secondo piano. I Royster gli hanno la-sciato a disposizione la casa quando sono andati a trovare i genitori della signora, in campagna.

— Potrebbe essere lui; credevo, però... — Aveva un vestito blu, ma non so se era alto come dice lei — continuò

la donna. — È venuto qui un mese fa. — Un mese fa l'ho... — Chieda ai Royster — suggerì la donna. — Sono arrivati stamattina.

Appartamento 3B. La porta si chiuse, senza appello. Il corridoio era buio, e le scale sem-

bravano ancor più buie. Al primo piano, un lucernario, molto in alto, lasciava filtrare un po' di

luce e permetteva di scorgere le porte degli appartamenti, quattro per pia-no, mute e scostanti. Davanti al 2C c'era una bottiglia di latte.

Al secondo piano, lei aspettò per qualche istante, prima di muoversi. Da

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dietro la porta del 3B si sentiva giungere una musica, e si udivano delle voci.

Alla fine, si decise a bussare, prima una volta, poi due. La porta si aprì, la musica della radio si fece più forte: il programma di musica classica del primo pomeriggio.

— Buon giorno — disse educatamente alla donna venuta ad aprire. — La signora Royster?

— Sì, sono io. — La padrona era in vestaglia e aveva la crema da notte sulla faccia.

— Potrei parlarle per un minuto? — Certo — rispose la signora Royster, senza farla entrare. — Si tratta del signor Harris. — Harris chi? — chiese la signora Royster. — James Harris. L'uomo a cui avete prestato l'appartamento. — Oh Dio — esclamò la signora Royster. Parve che si svegliasse solo in

quel momento. — Che cosa ha combinato? — Niente. Cercavo solo di rintracciarlo. — Oh Dio — ripeté la signora Royster. Aprì la porta e disse: — Entri.

— E poi: — Ralph! All'interno dell'appartamento, la musica era ancor più forte, e sul divano,

sulle sedie, sul pavimento c'erano valigie ancora da disfare. Su una tavola, in un angolo, c'erano dei piatti e gli avanzi del pranzo; l'uomo che stava mangiando, e che per un istante assomigliò quasi a Jamie, si alzò e rag-giunse le due donne.

— Che cosa c'è? — chiese. — Signor Royster — disse lei, cercando di farsi sentire in mezzo al

chiasso della musica — il custode mi ha detto che James Harris abitava qui.

— Certo — rispose lui — se si chiamava così. — Pensavo che gli avesse lasciato usare l'appartamento — disse lei, sor-

presa. — Io non so niente di lui — disse il signor Royster. — È un amico di

Dottie. — No — disse la moglie. — Non è un mio amico. Si diresse verso il tavolo, prese il burro di arachidi e lo spalmò su una

fetta di pane. Ne staccò un morso e, mentre masticava, disse, puntando la fetta di pane contro il marito: — Non è amico mio.

— Sei stata tu a trovarlo, a uno di quei maledetti incontri — disse il si-

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gnor Royster. Tolse la valigia da una delle poltrone e si sedette; si chinò a raccogliere

una rivista che era finita sul pavimento e si mise a leggerla. — Gli avrò detto dieci parole in tutto. — Hai detto che potevamo lasciargli la casa — disse la signora Royster,

accingendosi a dare un altro morso. — Non hai mai detto niente contro di lui, comunque.

— Io non parlo mai male dei tuoi amici — disse il signor Royster. — Oh, se fosse stato un mio amico, ne avresti dette tante, sta' tranquillo

— disse la signora Royster, aggrottando la fronte. Diede un morso e disse, rivolta all'ospite: — Oh, ne avrebbe dette tante, sa!

— Adesso, basta — disse il signor Royster, abbassando la rivista. — Chiuso l'argomento.

— Ma certo — esclamò la signora Royster, puntando di nuovo il pezzo di pane contro il marito. — È sempre così, tutte le volte.

Nella stanza scese il silenzio, interrotto soltanto dalla musica della radio vicino al signor Royster. Lei disse, con un tono di voce che rischiava di venire soffocato dalla musica: — Allora, è andato via?

— Chi? — chiese la signora Royster, alzando gli occhi dal vasetto del burro di arachidi.

— Il signor James Harris. — Quello? Sarà andato via stamattina, prima del nostro arrivo. Qui non

c'è traccia di lui. — Se n'è andato? — Tutto era a posto, comunque; perfettamente a posto. Te l'avevo detto

altre volte — fece, rivolta al marito — che non avrebbe rovinato niente. Io le capisco sempre, queste cose.

— Ti è andata bene — commentò il signor Royster. — Non c'era niente fuori posto — disse la signora Royster. Con il suo pezzo di pane, indicò l'intera stanza. — È proprio come l'ab-

biamo lasciata — osservò. — Sa per caso dove sia andato? — chiese lei. — Non ne ho la minima idea — disse allegramente la signora Royster.

— Ma, come dicevo, ha lasciato tutto a posto. Perché? — chiese all'im-provviso. — Lei lo cercava?

— È una cosa molto importante. — Mi spiace che non l'abbia trovato — disse la signora Royster. Educa-

tamente, nel vedere che l'ospite si accingeva a congedarsi, si avviò verso la

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porta. — Può darsi che il custode l'abbia visto uscire — disse il signor Royster,

senza smettere di leggere la rivista. La porta le si chiuse alle spalle e il pianerottolo cadde nuovamente nella

penombra; il rumore della radio si affievolì. Lei stava già scendendo la prima rampa di scale, quando la porta si aprì e la signora Royster si affac-ciò per dire: — Se lo vedo, gli dico che lei lo ha cercato.

Cosa posso fare? si chiese lei, quando fu di nuovo in strada. Impossibile tornare a casa, con Jamie chissà dove, tra lì e casa sua. Rimase ferma sul marciapiede a lungo, talmente a lungo che una donna che era affacciata a una finestra dall'altra parte della strada si girò a chiamare qualcuno che stava all'interno, per fargliela vedere.

Alla fine, d'impulso, entrò nella piccola rosticceria dello stesso gruppo di case, un poco più in giù, in direzione di casa sua. All'interno c'era un uomo di bassa statura, che leggeva il giornale vicino alla porta; quando la vide entrare posò il giornale e andò dietro il banco.

Lei abbassò per un istante lo sguardo sulla vetrina dei salumi e dei for-maggi e disse timidamente: — Sto cercando di rintracciare un uomo che abitava al portone accanto, e mi chiedevo se lei lo conosce.

— Perché non chiede al custode? — chiese l'uomo, studiandola con osti-lità.

È perché non gli ho chiesto di comprare niente, pensò lei, e disse: — Scusi, gliel'ho già chiesto, ma non sa niente. Dice che è partito stamattina.

— Non so che cosa voglia da me — disse l'uomo, tornando al suo gior-nale. — Non sono qui per guardare chi entra ed esce dalla porta accanto.

In fretta, lei aggiunse: — Pensavo che potesse averlo visto, nient'altro. Dev'essere passato qui davanti, un po' prima delle dieci. Un uomo alto, con un vestito blu.

— Sa quanta gente col vestito blu passa qui davanti ogni giorno? — dis-se l'uomo. — Crede che non abbia da fare altro che...

— Mi scusi — disse lei, avviandosi verso la porta, mentre l'uomo mor-morava: — Per l'amor del Cielo...

Uscita dal negozio, lei pensò: Deve essere venuto da questa parte; è la direzione di casa mia, non aveva un altro posto dove andare. Cercò di pen-sare a Jamie: Dove avrà attraversato? Che tipo di persona era, una di quelle che attraversano davanti a casa, in mezzo alla strada, o che attraversano al-l'angolo?

All'angolo c'era un giornalaio; forse aveva visto Jamie. Aspettò che un

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tale finisse di prendere il resto e che una donna chiedesse informazioni. Quando il giornalaio la guardò con aria interrogativa, lei disse: — Scusi, conosce un giovanotto alto, biondo, con il vestito blu, che deve essere pas-sato qui davanti verso le dieci?

L'uomo la guardò con sorpresa, e lei pensò: Crede che sia uno scherzo. Perciò si affrettò a dire: — È una cosa importante, le assicuro. Non la sto prendendo in giro.

— Senta, signora... — cominciò il giornalaio. Ma lei lo interruppe: — È uno scrittore. Penso che venisse qui da lei, a comprare le riviste.

— Perché lo cerca? — chiese l'uomo. La guardò e le sorrise; lei capì che dietro di lei c'era qualcuno che aspettava, e che per quello si era messo a sorridere.

— Non importa — disse, ma il giornalaio riprese: — Senta, mi pare che effettivamente sia passato... La guardò con aria saccente, e poi guardò l'uomo che le stava dietro. Lei, tutt'a un tratto, si vergognò del vestito che indossava, troppo prima-

verile, e si affrettò a chiudersi il soprabito. Il giornalaio disse, pensierosamente: — Non ne sono sicuro al cento per

cento, ma mi pare che una persona come dice lei sia davvero passata, que-sta mattina.

— Verso le dieci? — Verso le dieci — assentì il giornalaio. — Uno alto, con il vestito blu.

Già. — E da che parte è andato? Verso il centro? — chiese lei, ansiosa. — Verso il centro — annuì il giornalaio. — È andato in centro. Esatta-

mente. Si rivolse all'uomo dietro di lei: — Che cosa posso fare per lei, signore? Lei si allontanò, stringendosi nel soprabito. L'uomo venuto dopo di lei si

girò per un istante a guardarla, e poi lui e il giornalaio si scambiarono u-n'occhiata. Lei si chiese per un attimo se fosse il caso di dare qualcosa al giornalaio, ma nel sentire che i due uomini ridacchiavano tra loro, si affret-tò ad attraversare la strada.

È andato verso il centro, pensò, e si avviò in quella direzione, dicendosi: Non aveva più bisogno di attraversare; bastava che facesse sei isolati e che poi girasse nella mia strada.

Dopo avere percorso un isolato, passò davanti a un fioraio; in vetrina c'era un mazzo da sposa, e lei pensò: Oggi è il giorno del mio matrimonio, dopotutto, e può darsi che abbia comprato fiori per me.

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Entrò nel negozio; un attimo dopo, giunse il fioraio, e lei disse immedia-tamente prima che l'altro capisse che non voleva comprare: — Ho assolu-tamente bisogno di trovare un giovanotto che deve avere preso dei fiori da lei, stamattina.

S'interruppe, e il fioraio disse: — Certo. Che fiori erano? — Non so — rispose lei, sorpresa. — Non me ne ha mai... — Tacque, e

aggiunse: — Un giovanotto alto, con il vestito blu. Poco prima delle dieci. — Capisco — disse il fioraio. — Ma vede, mi dispiace... — È molto importante — disse lei. — Credo che avesse fretta — ag-

giunse, a caso. — Be'... — disse il fioraio. Sorrise. — Per una signora — aggiunse. Pre-

se una grossa agenda e cominciò a sfogliarla. — A che indirizzo ha detto di mandarli?

— Be' — disse lei — non credo che li abbia fatti mandare. Vede, veniva lui... ossia, li deve avere portati con sé.

— Signora — disse il fioraio, in tono offeso. — Davvero, deve capire che se non ho nessun elemento...

— Oh, la prego, cerchi di ricordare — supplicò lei. — Un uomo alto, vestito di blu, verso le dieci...

Il fioraio chiuse gli occhi, si portò un dito al labbro, rifletté. Poi scosse la testa. — Non riesco a ricordare...

— Grazie lo stesso — disse lei, delusa, e fece per uscire, ma il fioraio esclamò: — Un momento! Aspetti un momento.

Lei si voltò, e il fioraio tornò a riflettere. Infine, chiese: — Ha preso dei crisantemi? — E la guardò con aria interrogativa.

— Oh, no — disse lei, con un nodo alla gola. Un istante più tardi, ag-giunse: — No, non era proprio l'occasione.

Il fioraio serrò le labbra e distolse lo sguardo. — Naturalmente, non co-noscendo l'occasione... — disse. — Ma sono certo che la persona da lei cercata è venuta questa mattina e ha preso una dozzina di crisantemi. Li ha portati via di persona.

— È sicuro? — chiese lei. — Sicurissimo — rispose il fioraio, con un ampio cenno d'assenso. —

L'uomo era proprio quello. — Sorrise, e lei, sorridendo, lo ringraziò: — Bene, le sono molto grata.

Lui la accompagnò alla porta. — Vuole delle rose? — chiese, ossequio-so. — Gardenie?

— E stato molto gentile ad aiutarmi — disse lei, sulla soglia.

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— Le signore stanno sempre bene con i fiori — disse ancora il fioraio, rivolgendole un piccolo inchino. — Un'orchidea?

— No, grazie — disse lei, e allora lui rispose: — Le auguro di trovare l'uomo che cerca. — Ma lo disse con malizia.

Uscita in strada, lei pensò: Tutti sembrano divertirsi alle mie spalle, e si strinse ancor di più nel soprabito, in modo che si vedesse soltanto l'orlo del vestito a fiori.

All'angolo della strada c'era un poliziotto, e lei pensò: Perché non andare alla polizia? Si va alla polizia, quando si cerca una persona scomparsa.

Ma poi si disse: Farei proprio la figura della stupida. Si immaginò di trovarsi nella stazione di polizia e di dire: "Sì, dovevamo sposarci oggi, ma non si è fatto vedere", e pensò che i poliziotti, tre o quattro, che avrebbero fatto cerchio attorno a lei, l'avrebbero guardata, avrebbero guardato il suo vestito a fiori, il suo trucco troppo allegro e avrebbero sorriso tra loro.

Lei non poteva dire altro, ai poliziotti; non poteva dire: Una vera scioc-chezza, eh? Io tutta in ghingheri che cerco di trovare il giovanotto che ha promesso di sposarmi, ma ci sono tante cose di me, che non conoscete.

Io sono molto più di quel che credete; ho del talento, e un certo umori-smo, e sono una signora, e ho orgoglio e affetto, delicatezza e una visione chiara della vita: tutte cose che potrebbero rendere soddisfatto, e produtti-vo, e felice un uomo. In me c'è molto più di quel che credete.

Chiaramente, era impossibile andare dai poliziotti, senza contare quel che avrebbe pensato Jamie, nel sapere che lei si era rivolta alla polizia e gliel'aveva messa alle calcagna.

— No, no — disse a voce alta, accelerando il passo, e qualcuno, accanto a lei, si fermò a guardarla.

Giunta all'angolo (ormai distava soltanto tre isolati da casa sua) vide il deschetto di un lustrascarpe, con un vecchio semiaddormentato sulla seg-giola. Si fermò davanti a lui ad attendere, e dopo qualche istante l'uomo aprì gli occhi e le sorrise.

— Senta — gli disse, senza pensare alle proprie parole — mi spiace di portarle via del tempo, ma cerco un giovanotto che è passato di qui, alle dieci di stamattina. Lei l'ha visto? — E attaccò con la descrizione: — Alto, con un vestito blu, e un mazzo di fiori in mano?

Prima ancora che finisse, il vecchio stava già facendo segno di sì con la testa. — L'ho visto — disse. — È un suo amico?

— Sì — disse lei, e, senza volerlo, sorrise. Anche il vecchio batté gli occhi e riferì: — Ricordo che mi sono detto:

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"Tu vai a trovare la tua ragazza, eh, giovanotto?" Vanno sempre a trovare la ragazza — aggiunse, con aria tollerante.

— Da che parte è andato? Sempre dritto, lungo la strada? — Giusto — disse il vecchio. — Si è fatto lucidare le scarpe, era tutto

vestito elegante, aveva in mano i fiori e aveva fretta. "Tu hai la ragazza che ti aspetta", ho pensato.

— Grazie — disse lei, frugandosi nelle tasche alla ricerca di qualche monetina.

— E chissà com'è stata contenta di vederlo, la ragazza, da elegante che era — continuò il vecchio.

— Grazie — ripeté lei, e trasse la mano di tasca, vuota. Adesso, per la prima volta, era davvero certa che lui la aspettasse; per-

corse i tre isolati, con l'orlo della gonna che le svolazzava sotto il soprabi-to, e giunse nel suo isolato.

Dall'angolo non riusciva a vedere le sue finestre, non riusciva a vedere Jamie che la aspettava e che guardava in strada, e percorse quasi di corsa gli ultimi metri, ansiosa di raggiungerlo.

Quando si fermò davanti al portone, la chiave le tremava tra le dita; nel posare l'occhio sul drugstore, le tornò in mente il panico di quella mattina, quando era scesa laggiù a bere il caffè, e per poco non scoppiò a ridere.

Davanti alla porta del suo appartamento non riuscì più a trattenersi, ma disse: — Jamie, sono qui, ero così preoccupata! — ancor prima di aprire la porta.

Ad attenderla c'era solo l'appartamento silenzioso e spoglio, con le om-bre del pomeriggio che già si allungavano sotto le finestre. Per un attimo ebbe occhi solo per la tazza del caffè, che era vuota, e pensò: È venuto qui e mi ha aspettato... poi si ricordò che era la sua tazza, dimenticata laggiù quel mattino. Guardò in ogni punto della stanza, nell'armadio, nel bagno.

— Non l'ho visto — riferì il commesso del drugstore. — Lo so, perché avrei notato i fiori. Non è entrato nessuno come lui.

Il vecchio lustrascarpe aprì gli occhi e la vide, ferma davanti al deschet-to.

— Salve di nuovo — disse e sorrise. — Ne è proprio sicuro? — chiese lei. — Ha davvero proseguito lungo la

strada? — L'ho tenuto d'occhio — disse il vecchio, offeso dai suoi dubbi. — Mi

sono detto: "Questo giovanotto ha l'appuntamento con la sua ragazza", e l'ho guardato finché non è entrato in casa.

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— Che casa? — chiese lei, con un filo di voce. — Quella là — disse il vecchio. Si sporse a indicarla con il dito. — L'al-

tro isolato. Con i fiori e le scarpe lucide, e con la sua aria di avere la ragaz-za. Dritto in casa della sua bella.

— Che casa? — ripeté lei. — Laggiù, a metà isolato — disse il vecchio. Poi la guardò con sospetto

e chiese: — Ehi, ma che intenzioni ha? Lei corse via, senza fermarsi a ringraziarlo. Giunta all'isolato dopo, cer-

cò di guardare dalle finestre, per vedere se Jamie era dentro; tese l'orecchio per sentire la sua risata caratteristica.

Davanti a una delle case era seduta una donna nera, che spingeva avanti e indietro un passeggino. Cullato dal movimento, il bambino all'interno dormiva.

Ormai, la domanda le veniva da sola. — Scusi, ha visto un giovanotto entrare in una di queste case, stamattina verso le dieci? Un uomo alto, con un vestito blu e con un mazzo di fiori?

Un ragazzino di una decina di anni si fermò ad ascoltare, e continuò a passare lo sguardo sulle loro facce, e occasionalmente su quella del bam-bino.

— Senta — disse la donna, infastidita — alle dieci, il bambino fa il ba-gno. Le pare che io possa stare a guardare gli uomini?

— Un mazzo di fiori? Grosso? — chiese il ragazzino, tirandola per il cappotto. — Grosso grosso? Sì, l'ho visto, signora.

Lei abbassò lo sguardo, e il ragazzino la fissò con insolenza. — In che portone è entrato? — chiese lei, stancamente. — Signora, vuoi chiedere il divorzio? — chiese il ragazzino, con insi-

stenza. — Queste cose non si domandano — lo redarguì la donna del passeggi-

no. — Senti, signora — disse il ragazzino — io l'ho visto. È entrato lì den-

tro. Indicò il portone più avanti. — Gli sono andato dietro — riprese il ragazzino. — Mi ha dato un quar-

to di dollaro. E, abbassando il tono di voce, aggiunse: — "Oggi è la mia grande gior-

nata, ragazzo", mi ha detto. Mi ha dato un quarto di dollaro. Lei gli diede un biglietto da dollaro. — Dove? — ripeté. — Ultimo piano. L'ho seguito, e lui alla fine me l'ha dato, il quarto di

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dollaro. Fino in cima. — Indietreggiò, e, tenendo ben stretto il biglietto da un dollaro, ripeté: — Gli vuoi chiedere il divorzio?

— Aveva i fiori? — chiese lei. — Sì — disse il ragazzo. Poi, con voce stridula: — Vuoi il divorzio, eh,

signora? L'hai incastrato? — Corse via per la strada, gridando: — L'ha in-castrato, quel poveraccio — e la donna del passeggino rise.

Il portone che le aveva indicato il ragazzino era aperto; nell'androne non c'erano campanelli, e neppure buche delle lettere. Le scale erano strette e sporche; all'ultimo piano c'erano due porte. Quella dell'appartamento che dava sulla strada era la porta giusta: sul pavimento, davanti a essa, c'erano un foglio di carta velina da fioraio, appallottolato, e un nastro di carta, co-me se si trattasse di un indizio: l'indizio conclusivo della caccia al tesoro.

Bussò, e le parve di sentire delle voci all'interno; pensò all'improvviso, con un tuffo al cuore: Che cosa farò, se Jamie è qui dentro, se verrà lui ad aprire la porta?

Le voci si spensero all'improvviso. Bussò di nuovo, ma non udì alcun rumore, salvo forse una risata, molto lontano.

Forse mi ha visto dalla finestra, pensò. L'appartamento si affaccia sulla strada, e il ragazzino ha fatto chiasso. Aspettò qualche minuto, bussò di nuovo, ma tutto rimase silenzioso.

Alla fine, si accostò all'altra porta e provò a bussare. La serratura non era chiusa a chiave, e la porta si aprì senza difficoltà: dava su una soffitta vuo-ta, con le pareti intonacate e il pavimento di assi grezze, non verniciate.

Lei fece un passo avanti, e scorse sacchi di cemento, pile di vecchi gior-nali, un baule rotto. Da un angolo giungeva un debole rumore, e lei com-prese che era un topo; poi lo vide, seduto sulle zampe posteriori, non lon-tano da lei, vicino al muro, con un'espressione attenta sul muso maligno, con gli occhi luccicanti che la fissavano. Indietreggiò in fretta, ansiosa di uscire, e la gonna s'impigliò in un chiodo e si strappò.

Era sicura che ci fosse qualcuno nell'altro appartamento, perché sentiva, di tanto in tanto, qualche voce che sussurrava e qualche risata. Tornò molte volte: la prima settimana, tutti i giorni. Passava da lì mentre andava al la-voro la mattina, e vi passava la sera, quando tornava a casa per cenare da sola, ma per quanto bussasse forte, e a lungo, nessuno venne mai ad aprire.

Titolo originale: The Daemon Lover (1949)

Come la faceva mammà

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David Turner, che si muoveva sempre con piccoli gesti precisi, misurati

e composti, scese dall'autobus e si avviò verso casa. Poi, giunto davanti al negozio di alimentari, si fermò; quella mattina, mentre andava a prendere l'autobus, si era detto qualcosa... Ecco: Non dimenticarti del burro, questa sera, quando torni a casa.

Entrò nel negozio e, mentre aspettava il suo turno, studiò lo scatolame esposto sugli scaffali. C'erano di nuovo il pàté di maiale e il corned beef. L'occhio gli cadde sul cesto dei panini; in quel momento la donna davanti a lui si spostò e il commesso lo guardò.

— Quant'è il burro? — chiese David, senza compromettersi. — Ottantanove — disse il commesso, con l'aria di chi garantisce che è

diminuito. — Ottantanove? — David aggrottò la fronte. — Il prezzo è quello — disse il commesso. Distolse lo sguardo da David

e fissò con aria interrogativa il cliente dietro di lui. — Un quarto di libbra, allora — disse David. — E mezza dozzina di pa-

nini. Nel portare a casa il pacchetto, pensò: Non devo più andare in quel ne-

gozio. Ormai mi conoscono a sufficienza, dovrebbero trattarmi un po' me-glio.

Nella buca c'era una lettera di sua madre. Infilò nel pacchetto anche quella e salì al secondo piano. La luce era ancora spenta nell'appartamento di Marcia, l'unico altro appartamento del piano. David si fermò davanti al-la porta del suo e l'aprì; come mise piede all'interno, si affrettò ad ac-cendere la luce.

Quella sera, come tutte le sere quando tornava a casa, l'appartamento gli parve caldo, amichevole e buono; il piccolo salotto, con il tavolo e le sedie di bella linea, il vaso con le margherite sullo sfondo delle pareti verde chiaro dipinte dallo stesso David; più in là il cucinino, e poi la stanza più grande, dove David leggeva e dormiva, e che gli dava molte preoccupazio-ni a causa del soffitto; l'intonaco si era scrostato, in un angolo, e non si po-teva fare niente per nasconderlo.

Ogni volta, David era costretto a consolarsi con il pensiero che forse, se non avesse preso un appartamento in una vecchia casa padronale, l'intona-co non si sarebbe screpolato; ma in tal caso, per l'affitto che pagava, non avrebbe potuto disporre di un salotto, un cucinino e una grande stanza, in edifici più recenti.

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Posò il sacchetto sul tavolo e infilò il burro in frigo e i panini nella sca-tola del pane. Piegò accuratamente il sacchetto vuoto e l'infilò in un casset-to, nel cucinino. Poi appese il soprabito nell'armadio e si recò nella stanza più grande, che lui chiamava il "soggiorno", e accese la lampadina sulla scrivania.

Quando pensava a quella stanza, mentalmente la definiva "affascinante". Il giallo e il marrone gli erano sempre piaciuti, e lui stesso aveva dipinto la scrivania, le librerie e i comodini, aveva tinteggiato le pareti e aveva cerca-to a lungo, in tutti i negozi della città, le tende, con la loro particolare sfu-matura di marrone.

Era soddisfatto di quella stanza; il tappeto aveva un colore scuro, caldo, che riprendeva quello delle tende, i mobili erano quasi gialli, la coperta del divano e gli abat-jour erano arancioni. I vasi di piante sul davanzale dava-no alla stanza il tocco di verde che le mancava; in quel momento, David cercava ancora qualcosa di decorativo da mettere sul comodino; gli sareb-be piaciuta una certa coppa verde di alabastro, bassa, capace di contenere altre margherite, ma costava troppo, per il momento, adesso che stava già acquistandosi l'argenteria.

Quando entrava in quella stanza, si ripeteva sempre che era la più bella casa in cui avesse abitato; quella sera, come sempre, lasciò correre lo sguardo dal divano alle tende, alle librerie, e immaginò di vedere sul co-modino la coppa d'alabastro. Allora si girò verso la scrivania e sospirò.

Prese la penna dal calamaio, da uno dei cassetti della scrivania prese un foglietto di carta (ce n'era un'intera pila, meticolosamente ordinata) e scris-se: "Cara Marcia, non dimenticare che questa sera sei a cena da me. Ti a-spetto alle sei".

Firmò con una D e prese dal calamaio la chiave dell'alloggio di Marcia. L'aveva perché la ragazza non era mai a casa quando passava la lavandaia o l'uomo del frigorifero, o del telefono o delle tapparelle, e qualcuno dove-va farli entrare, perché il padrone di casa non aveva voglia di salire fino al loro piano con la chiave passe-partout.

Marcia non aveva mai chiesto a David di dargli una chiave di casa sua; lui preferiva avere una sola chiave di casa, e tenerla al sicuro in tasca: gli dava un senso piacevole: piccola e pesante, era l'unico modo per entrare nella sua casa, bella e calda.

Lasciò aperta la porta e si recò nel corridoio buio, fino all'altro apparta-mento. Aprì con la sua chiave e accese la luce. Entrare in quelle stanze non gli dava nessuna soddisfazione; erano identiche alle sue (un salottino, la

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cucina, il soggiorno), e gli facevano venire in mente il giorno del suo arri-vo in quella casa, quando la prospettiva di tutti i lavori che c'erano da fare l'aveva ridotto quasi alla disperazione.

La casa di Marcia era spoglia, e arredata a casaccio; un piano verticale, che un amico le aveva regalato poco tempo prima, era messo di traverso, tra salotto e soggiorno, perché una stanza era troppo piccola e l'altra era troppo ingombra e non rimaneva posto da nessuna parte.

Marcia aveva ancora il letto da fare e sul pavimento c'era una pila di biancheria sporca. La finestra era rimasta aperta per tutto il giorno e dei fogli di carta erano finiti dappertutto.

David chiuse la finestra, si soffermò per un istante sui fogli di carta e poi si affrettò ad allontanarsi. Posò il biglietto sulla tastiera del pianoforte e chiuse la porta dietro di sé.

Tornato nel proprio appartamento, si dedicò allegramente alla prepara-zione della cena. Aveva fatto cuocere un arrosto già la sera prima; l'aveva ancora quasi tutto nel frigorifero. Lo tagliò a fettine e lo mise su un piatto, con prezzemolo tritato.

I piatti del servizio erano di un bell'arancione, quasi della stessa tinta della fodera del divano; con grande soddisfazione preparò l'insalata, dispo-nendo il verde della lattuga e delle fette di cetriolo sull'arancione del piat-to.

Mise il caffè sul fuoco e tagliò le patate per friggerle; poi, con la cena che cuoceva simpaticamente e la finestra aperta per mandare via l'odore del fritto, si dedicò con amore a imbandire la tavola.

Per prima la tovaglia, che era di color verde pallido, naturalmente. E due tovaglioli ben stirati, in tinta. Poi i piatti arancione, uno piano e uno fondo, precisi, a ciascuno dei posti. In centro il piatto del pane, e i barattolini del sale e del pepe, che naturalmente erano di forma diversa e che as-somigliavano a due rane verdi.

Due bicchieri (li aveva presi in uno di quei negozietti a prezzo fisso, do-ve tutto costa cinque cent e dieci cent, ma gli erano piaciuti perché erano decorati in smalto verde: una serie di linee sottili) e alla fine, con molta at-tenzione, le posate d'argento.

Con grande affetto, un pezzo alla volta, David si stava comprando un servizio completo d'argenteria. Era partito modestamente con un servizio per due, e poi, un pezzo dopo l'altro, era giunto a un servizio per quattro e a qualche pezzo scompagnato.

Non era ancora un servizio per sei, perché mancavano le posate da insa-

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lata e il mestolo. Aveva scelto uno stile elegante e senza troppe decorazio-ni, che poteva andare bene con qualsiasi servizio di piatti, e tutte le mattine faceva colazione alla grande, con un luccicante cucchiaino d'argento per il pompelmo, una tozza paletta da burro per i crostini e un altro coltello, pe-sante questo, per rompere il guscio dell'uovo alla coque, e un agile cuc-chiaino d'argento per il caffè. Quanto allo zucchero, lo versava con il cuc-chiaino apposito, che doveva stare sempre nella zuccheriera.

David teneva l'argenteria in una scatola a chiusura ermetica, sullo scaffa-le più alto; la sollevò con cautela e la posò sul tavolo per prendere le posa-te per due.

Una volta messe sulla tovaglia, facevano una figura impressionante: col-telli, forchette, forchettine da insalata e da dolce, un cucchiaio ciascuno, e inoltre le posate per servire: il cucchiaino dello zucchero, i grossi cucchiai per le patate e l'insalata, la forchetta per la carne e quella per il dolce.

Quando sul tavolo ci fu tutta l'argenteria di cui due persone, presumibil-mente, potevano avere bisogno, riportò la scatola sul suo ripiano e si girò di nuovo verso il tavolo, per controllare se tutto era a posto e per ammirare la tavola, così ordinata e luccicante. Poi andò in salotto, per leggere la let-tera di sua madre e per aspettare l'arrivo di Marcia.

Le patate finirono di cuocere prima che la ragazza fosse arrivata, e poi, all'improvviso, qualcuno spalancò la porta, e Marcia fece il suo ingresso, con una ventata d'aria e di disordine. Era una ragazza alta e carina, con la voce sonora, e con addosso un impermeabile con qualche macchia e disse: — Non me n'ero dimenticata, Davie, è che sono in ritardo, come sempre. Che cosa c'è per cena? Non ce l'hai con me, vero?

David si alzò e l'aiutò a togliersi l'impermeabile. — Ti avevo lasciato un biglietto — le disse. — Non l'ho visto — rispose Marcia. — Non sono neppure andata a casa.

Che cos'è questo buon odorino? — Patate fritte — disse David. — È pronto. — Dio. — Marcia si lasciò scivolare su una sedia; allungò le gambe da-

vanti a sé e lasciò penzolare le braccia. — Che stanchezza. Fa un freddo, fuori!

— Già, cominciava a fare freddo, quando sono arrivato — confermò David.

Si mise a fare la spola da lì alla cucina, per portare i piatti: la carne, l'in-salata, le patate fritte (in un piatto fondo). Cercò di non pestare i piedi a Marcia, e per alcuni istanti non disse niente. Poi fece: — Non avevi ancora

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visto la mia argenteria, mi pare. Marcia si girò verso il tavolo e prese in mano un cucchiaio. — È bellissimo — disse, passando il dito sui rilievi del manico. — De-

v'essere un piacere usarli per mangiare. — La cena è pronta — annunciò David. Si mise dietro la sedia di Marcia

e aspettò che lei si sedesse. Marcia aveva sempre fame; si servì di carne, patate e insalata senza am-

mirare le forchette del servizio, e si limitò a dire con entusiasmo: — È bel-lissimo, tutto — e una volta: — È buonissimo, David.

— Mi fa piacere che ti piaccia — disse David. Era bello sentire tra le di-ta il peso della forchetta, e gli piaceva perfino il movimento con cui Mar-cia si portava la forchetta alla bocca.

Marcia fece un gesto largo, con la mano. — Intendo dire tutto — fece. — I mobili, la bella casa che ti sei fatto, e

la cena, e tutto il resto. — Mi piace com'è messa adesso — ammise David. — Lo so — disse Marcia, con una punta di tristezza nella voce. — Una

volta o l'altra, dovresti insegnarmi come si fa. — Be', a casa tua — disse David — dovresti tenere un po' più in ordine.

Per prima cosa dovresti mettere le tende, e tenere chiusa la finestra. — Non me ne ricordo mai — disse lei. — Davie, sei un cuoco fantasti-

co. — Spostò di lato il piatto e sospirò. David arrossì di piacere. — Sono contento che ti sia piaciuto — disse, e

poi rise. — Ieri ho fatto una torta. — Una torta? — Marcia lo guardò per un istante e poi aggiunse: — Di

mele? David scosse la testa, e allora la ragazza chiese: — Ananas? Lui scosse la testa di nuovo, e poi, non riuscendo più a trattenersi, disse:

— Di ciliegie. — Mio Dio! — Marcia si alzò e lo seguì in cucina. Lo osservò da dietro

le spalle mentre lui toglieva con attenzione la torta dalla cassetta del pane. — È la prima volta che fai una torta? — gli chiese. — Ne avevo già fatte due — confessò David — ma questa è venuta me-

glio delle altre. Lei lo guardò sorridendo, mentre David tagliava due grosse fette di torta

e le posava su due piattini color arancione; poi la ragazza prese la sua fetta e la portò sul tavolo, ne assaggiò un pezzo e fece dei silenziosi gesti di ap-prezzamento.

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David assaggiò la propria fetta di torta e disse con aria critica: — È ri-masta un po' acida. Ma avevo finito lo zucchero.

— È perfetta — disse Marcia. — Mi è sempre piaciuta la torta di ciliegie un po' acida. A dire il vero, questa non lo è ancora abbastanza, per me.

David sparecchiò il tavolo e servì il caffè; mentre lui riportava in cucina la caffettiera, Marcia disse: — C'è il mio campanello che suona.

Andò ad aprire la porta dell'ingresso ed entrambi tesero l'orecchio. Dal-l'appartamento di Marcia giungeva distintamente il suono del campanello.

Marcia schiacciò il pulsante per aprire il portone, e dal basso cominciò a giungere il rumore di passi pesanti.

Lasciata aperta la porta, Marcia tornò al suo caffè. — Sarà il padrone di casa — disse. — Non sono ancora andata a pagar-

gli l'affitto. Quando i passi giunsero più vicini, Marcia gridò: — Chi è? — e si spor-

se di lato per guardare chi c'era nel corridoio. Poi disse: — Oh, è il signor Harris.

Si alzò e andò alla porta, tendendo la mano. — Venga, venga — gli disse. — Ho pensato di passare a salutarla — disse il signor Harris. Era un uomo molto alto; passò con curiosità lo sguardo sulle tazze da

caffè e sui piatti vuoti. — Non vorrei interrompere la vostra cena — disse. — Oh, non fa niente — disse Marcia, invitandolo a entrare. — Siamo

solo io e Davie. Davie, ti presento il signor Harris, lavora nel mio ufficio. Il signor Turner.

— Come va? — chiese educatamente David. L'altro lo guardò con attenzione e disse a sua volta: — Come va? — Si accomodi, si accomodi — diceva intanto Marcia, porgendogli una

seggiola. — Davie, perché non offri una tazza di caffè al signor Harris? — Oh, non si preoccupi — si affrettò a dire Harris. — Sono solo di pas-

saggio. Mentre David andava a prendere un'altra tazzina col suo piattino e pre-

levava un cucchiaino dalla scatola ermetica dell'argenteria, Marcia disse: — Le piace la torta fatta in casa?

— Certo — disse il signor Harris, con ammirazione. — Mi sono perfino scordato come sono fatte, le torte alla casalinga.

— Davie — esclamò Marcia, allegramente — che ne dici di portare al signor Harris una fetta di torta?

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Senza rispondere, David tolse dalla scatola anche una forchetta da dolce, prese un piatto arancione e vi posò una fetta di torta. Non aveva fatto piani precisi per il seguito della serata; magari un film, se fuori non faceva trop-po freddo, e una chiacchierata con Marcia su come mettere in ordine la ca-sa.

Intanto, il signor Harris si era accomodato, e quando David gli servì la torta, guardò il piatto con ammirazione per alcuni istanti, prima di assag-giarla.

— Ehi — disse alla fine — questa torta è davvero buona. — Guardò Marcia. — È buonissima — le confermò.

— Le piace? — chiese Marcia, modesta. Guardò David e gli sorrise, da dietro le spalle del signor Harris. — Finora, ne avevo fatte solo due, al massimo tre — disse.

David alzò la mano per protestare, ma il signor Harris si girò verso di lui e gli chiese: — Ha mai assaggiato una torta buona come questa?

— Oh, non credo che a David sia piaciuta molto — intervenne Marcia, con una punta di perfidia. — Secondo lui, era un po' aspra.

— A me piace la torta di ciliegie aspra — disse il signor Harris. Guardò David con sospetto. — La torta di ciliegie deve essere aspra.

— Sono contenta che le piaccia — disse Marcia. Il signor Harris mandò giù l'ultimo boccone di torta, finì il caffè e si ap-

poggiò alla spalliera della sedia. — Sono davvero contento di essere passa-to — disse a Marcia.

All'inizio, David non vedeva l'ora che il signor Harris si togliesse dai piedi, ma adesso si augurava che si togliessero dai piedi tutt'e due, lui e la ragazza: la sua casetta così bene in ordine, la sua bella argenteria, non era-no fatte per il tipo di schermaglie e di vanterie inutili che quei due si erano messi a scambiarsi. Con poco garbo, tolse dal tavolo la tazza che Marcia aveva quasi fatto cadere a terra quando aveva appoggiato languidamente il braccio sul tavolo, la portò in cucina e stava per portare via anche la tazza del signor Harris quando Marcia disse: — Oh, lascia stare, Davie, davvero. — Lo guardò e tornò a sorridere, come se lei e David fossero due cospira-tori e il signor Harris fosse il loro nemico. — Le metto via domattina, non preoccuparti.

— Certo — disse il signor Harris. — Possono aspettare. Accomodiamo-ci in qualche posto dove si sta più comodi.

Marcia si alzò e lo accompagnò in soggiorno, dove lo fece accomodare sul divano. — Vieni con noi, Davie — disse la ragazza.

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Ma David non riusciva a staccarsi dal suo bel tavolo coperto di piatti sporchi e di mozziconi di sigaretta. Portò in cucina i piatti, le tazze e le po-sate, li mise tutti nell'acquaio e poi, non sopportando l'idea di abbandonare piatti e posate, con lo sporco che si seccava sempre di più, s'infilò un grembiule e cominciò a lavarli.

Di tanto in tanto, mentre li lavava e li asciugava e li rimetteva sui ripiani, Marcia lo chiamava: — David, che cosa stai facendo? — o anche: — Da-vie, lascia stare, vieni qui a sederti.

Una volta disse: — Davie, non voglio che tu lavi tutti quei piatti! Ma il signor Harris intervenne. — Lo lasci fare, contento lui... David prese le tazzine gialle e asciutte e le mise al loro posto: ormai, a

quel punto, la tazzina del signor Harris era irriconoscibile; non si poteva più dire, guardando la fila ordinata di tazze, quale aveva usato lui e quale era stata sporcata sull'orlo dal rossetto di Marcia, o in quale David aveva finito di bere il caffè mentre era in cucina.

Infine, tolta dal suo ripiano la scatola dell'argenteria, David mise via an-che questa. Per prime, le forchette finirono nei piccoli solchi che le tene-vano a due a due (in futuro, quando avesse avuto tutto il servizio, ne a-vrebbero tenute quattro ciascuno) e poi i cucchiai, impilati l'uno sull'altro nei loro posti, e i coltelli tutti in fila nello stesso ordine, tutti dalla stessa parte, infilati nelle apposite listelle, sul coperchio. Quanto alle palette per il burro e ai cucchiai per servire e al coltello da torta, ciascuno aveva il pro-prio posto. Giunto così alla fine, David chiuse il coperchio sulla sua amata argenteria e ripose la scatola sul ripiano. Strizzata la spugnetta da lui usata per lavare i piatti, appeso ad asciugare il canovaccio e toltosi il grembiule, la rigovernatura dei piatti era finita e David si permise finalmente di recar-si in soggiorno. Marcia e il signor Harris sedevano sul divano, l'uno vicino all'altra e conversavano allegramente.

— Sì, anche mio padre si chiamava James — Marcia stava dicendo, con l'aria di chi ha fatto una grande scoperta, quando David fece il suo ingres-so. La ragazza si voltò verso di lui e disse: — Davie, sei stato davvero ca-rino a lavare tutti quei piatti.

— Oh, non è niente — rispose lui, impacciato. Il signor Harris lo guar-dava con irritazione.

— Avrei dovuto darti una mano — disse Marcia. Scese un breve silen-zio e poi la ragazza disse: — Perché non ti siedi anche tu, David?

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Lui riconobbe immediatamente il tono: era quello delle padrone di casa, quando non sanno cosa dire, o quando l'ospite arriva troppo in anticipo o non si decide ad andarsene via. Era il tono che Marcia avrebbe dovuto usa-re con il signor Harris.

— Io e James si stava dicendo che... — cominciò Marcia. Poi s'interruppe e scoppiò a ridere. — Già, che cosa stavamo dicendo? — chiese, voltandosi verso il signor

Harris. — Oh, niente di particolare — disse il signor Harris. Non staccava gli

occhi da David. — Be'... — disse Marcia, senza completare la frase. Si voltò verso David

e gli sorrise, per poi ripetere: — Be'... Il signor Harris prese il portacenere che stava sul tavolino e lo posò sul

divano, tra se stesso e Marcia. Poi prese di tasca un sigaro e disse a Mar-cia: — Ti dà fastidio il sigaro?

Marcia scosse la testa, e allora lui tolse teneramente il cellofane e staccò la punta del sigaro, con un morso.

— Il fumo di sigaro fa bene alle piante — disse, senza togliersi il sigaro di bocca, e lo accese, mentre Marcia rideva.

David si alzò. Per un attimo provò la tentazione di dire qualcosa come: "Signor Harris, mi farà un favore se..." ma l'unica cosa che riuscì a spicci-care, sotto gli occhi di Marcia e del signor Harris che lo fissavano, fu: — Credo di dovermene andare, adesso, Marcia.

Il signor Harris si alzò e disse con riconoscenza: — È stato un vero pia-cere.

Gli tese la mano, e David gliela strinse, senza forza. — Devo proprio andarmene — ripeté a Marcia, che si alzò in piedi e

disse: — Mi spiace, è ancora presto. — Ho un mucchio di lavoro da fare — disse David, con una punta di i-

ronia involontaria, e Marcia gli sorrise di nuovo come se fossero due co-spiratori. Poi si avvicinò alla scrivania e prese la chiave di casa sua, dicen-dogli: — Non dimenticare la chiave.

Sorpreso, David prese la chiave dell'appartamento di Marcia, augurò la buonanotte al signor Harris e si diresse alla porta.

— Buona notte, David, caro — disse ancora Marcia, e David disse: — Grazie della cena, Marcia. È stata davvero fantastica.

Poi si chiuse la porta alle spalle. Fece qualche passo nel corridoio e giunse alla porta di Marcia.

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All'interno, il piano era ancora a sghimbescio, i fogli di carta erano anco-ra per terra, la biancheria era sparsa per tutto il pavimento, il letto era da ri-fare.

David si sedette sul letto e si guardò attorno. Faceva freddo, la stanza era sudicia, e mentre pensava con rimpianto alla propria casa, calda e acco-gliente, sentì giungere dal fondo del corridoio il suono delle risate e il ci-golio di una seggiola che grattava sul pavimento. Poi, piano, il suono della sua radio.

Stancamente, David si chinò a raccogliere da terra un foglio di carta, e poi cominciò a radunare anche gli altri.

Titolo originale: Like Mother Used to Make (1949).

Giudizio per ordalia Quando Emily Johnson tornò a casa, una sera, nella sua camera ammo-

biliata, e trovò che dalla cassettiera mancavano tre dei suoi fazzoletti mi-gliori, capì subito chi li avesse presi, e che cosa le restasse da fare.

Abitava in quella stanza da sei settimane e nell'ultima quindicina di giorni aveva notato, di tanto in tanto, la sparizione di qualche piccolo og-getto. Erano già spariti numerosi fazzoletti e una spilla con le sue iniziali che Emily aveva trovato in un negozietto da dieci cent e che non metteva mai.

E una volta le era sparita una boccetta di profumo, e le mancava uno dei cagnolini di porcellana del gruppo di statuine.

Emily sapeva già da tempo chi le aveva preso tutto, ma solo quella sera aveva deciso di prendere dei provvedimenti. Non aveva voluto dire niente alla padrona di casa perché il valore degli oggetti rubati era molto scarso, e perché sapeva che prima o poi avrebbe trovato il modo giusto di agire.

Fin dall'inizio le era parso logico di sospettare dell'unica pensionante che non usciva mai di casa, e poi, una domenica mattina, scendendo dal terraz-zo dove era andata a prendere il sole, Emily aveva visto una persona uscire dalla sua stanza, e l'aveva riconosciuta.

Quella sera, comunque, era sicura del fatto suo. Si tolse il cappello e il soprabito, posò i pacchetti, e mentre aspettava che sul fornello elettrico si scaldasse un pentolino d'acqua, ripassò mentalmente tutto il discorso.

Dopo avere cenato, chiuse a chiave la porta della sua stanza e scese al piano di sotto. Bussò alla porta della camera sotto la sua e quando sentì

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che qualcuno la invitava a entrare, chiese: — Signora Allen? — e aprì la porta.

La stanza, come Emily poté notare immediatamente, non era molto di-versa dalla sua: lo stesso letto stretto con la coperta marrone, la stessa mo-bilia di legno d'acero: cassettiera e poltrona. L'armadio era accostato con-tro la parete dirimpetto, ma la finestra era allo stesso posto.

La signora Allen sedeva nella poltrona. Era una donna di una sessantina d'anni. Più del doppio dei miei, pensò Emily, mentre entrava, e si atteggia ancora a grande signora.

Ebbe qualche istante di esitazione, durante il quale fissò i capelli bianchi e ben pettinati della signora Allen e la sua vestaglia blu, ben stirata, poi disse: — Signora Allen, sono Emily Johnson.

La signora Allen posò la copia del Woman's Home Companion che stava leggendo e si alzò lentamente dalla poltrona.

— Sono felice di conoscerla — disse con educazione. — Naturalmente, ho già avuto occasione di vederla e mi sono detta: "Davvero graziosa, quella ragazza". È così difficile trovare persone così... — la signora Allen esitò, come per cercare la parola giusta — ...così per bene — proseguì — in un posto come questo.

— Anch'io avrei voluto parlarle già da tempo — disse Emily. La signora Allen indicò la poltrona. — Si sieda, si sieda... — Grazie — disse Emily — ma stia pure lei, sulla poltrona. Io posso se-

dere sul letto. — Sorrise. — Conosco bene questa mobilia. È uguale alla mia.

— È una vergogna — disse la signora Allen, tornando a sedere nella poltrona. — L'ho detto un mucchio di volte alla padrona; la gente non può sentirsi a casa propria, se in tutte le stanze c'è la stessa mobilia. Ma lei dice che questa roba d'acero tiene il pulito e costa poco.

— È meglio che in tante altre pensioni — disse Emily. — E lei è riuscita a dare alla sua stanza un'aria migliore della mia.

— Io sono qui da tre anni — disse la signora Allen. — Lei solamente da un mese, vero?

— Sei settimane — precisò Emily. — La padrona mi ha parlato di lei. Suo marito è militare. — Sì. E io lavoro qui a New York. — Anche mio marito era militare — disse la signora Allen. Indicò alcune fotografie incorniciate, posate sul ripiano della cassettiera.

— Molto tempo fa, naturalmente. È morto da cinque anni.

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Emily si alzò e andò a guardare le foto. In una si vedeva un uomo alto, dall'aspetto severo, nell'uniforme dell'esercito. Le altre erano di bambini.

— Un uomo molto distinto — disse Emily. — E questi sono i suoi figli? — Non ho avuto figli, purtroppo — disse la vecchia signora. — Sono

tutti nipoti di mio marito. Emily girò la schiena alla cassettiera e passò lo sguardo sulla stanza. — Vedo che ha dei fiori — disse. Si avvicinò alla finestra e guardò la fila di vasi. — Mi piacciono tanto i fiori — disse. — Questa sera me ne sono com-

prata un grosso mazzo per rallegrare la stanza, ma appassiscono tanto in fretta!

— Proprio per questo preferisco i vasi — disse la signora Allen. — Ma perché non mette una pastiglia d'Aspirina nell'acqua dei fiori? Durano mol-to di più.

— Temo di non saperne molto, sui fiori — disse Emily. — Per esempio, questa dell'Aspirina nell'acqua mi giunge nuova.

— Io la metto sempre, con i fiori recisi — spiegò la signora Allen. — Secondo me, i fiori danno a una stanza un'aria molto più accogliente.

Emily si soffermò per qualche istante accanto alla finestra, e guardò lo spettacolo quotidiano che si offriva alla signora Allen: la scaletta antincen-dio sulla parete dirimpetto, una fetta diagonale di strada.

Poi trasse un profondo respiro e si girò verso la vecchia. — A dire il vero, però, signora Allen — esordì — ero venuta per un al-

tro motivo. — Non è venuta per fare la mia conoscenza? — chiese la signora Allen,

sorridendo. — È che non so come fare — disse Emily. — E preferisco non dire

niente alla padrona. — La padrona non è di molto aiuto, quando c'è qualche imprevisto —

disse la signora Allen. Emily tornò a sedere sul letto e fissò con franchezza la signora Allen, ma

vide solo il viso di una vecchia e cara signora. — Non è niente d'importante — disse — ma qualcuno entra nella mia

stanza. La signora Allen alzò lo sguardo. — Mi mancano delle cose — proseguì Emily. — Per esempio, fazzoletti

e qualche pezzo di chincaglieria. Niente d'importante. Ma qualcuno viene nella mia stanza e si serve.

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— Oh, mi dispiace davvero — disse la signora Allen. — Vede, non ho intenzione di fare del chiasso — disse Emily. — È solo

che mi dà fastidio quando entrano nella mia stanza. Non mi manca niente di valore.

— Capisco — disse la signora Allen. — Me ne sono accorta qualche giorno fa — disse Emily. — Poi, domenica scorsa, mentre venivo giù dal terrazzo, ho visto una

persona che usciva dalla mia stanza. — E ha qualche idea di chi fosse? — chiese la signora Allen. — Credo proprio di sì — disse Emily. La signora Allen tacque per qualche istante, poi rifletté: — Capisco perché non vuole parlarne con la padrona. — Oh, non ho alcuna intenzione di farlo — disse Emily. — Vorrei solo che la cosa finisse. — Non le do torto — disse la signora Allen. — Vede, quel che è successo significa che qualcuno ha la chiave della

mia porta — disse Emily, in tono irritato. — Oh, la chiave di una porta apre anche tutte le altre — disse la signora

Allen. — Sono serrature vecchie. — La cosa deve finire — disse Emily, ferma. — Altrimenti dovrò pren-

dere qualche provvedimento. — Capisco — disse la signora Allen. — Sono sempre cose antipatiche. Si alzò. — Ma adesso mi deve scusare — proseguì. — Mi stanco facil-

mente e devo andare a letto presto. Sono contenta che sia venuta a trovar-mi.

— Il piacere è mio, di avere fatto finalmente la sua conoscenza — disse Emily. Si diresse verso la porta. — Spero di non avere altri fastidi — dis-se. — Buona notte.

— Buona notte — disse la signora Allen. La sera seguente, quando Emily tornò a casa dal lavoro, era sparito un

paio di orecchini da poco prezzo, oltre a due pacchetti di sigarette che lei aveva messo nella cassettiera.

Quella sera, rimase a lungo a sedere nella sua stanza, e a riflettere. Poi scrisse una lettera al marito e andò a dormire.

L'indomani mattina, si alzò e si vestì e si recò al drugstore all'angolo, per telefonare in ufficio che non stava bene e che sarebbe rimasta a casa. Poi tornò nella propria stanza.

Rimase seduta ad aspettare per quasi un'ora, con la porta leggermente

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aperta, e alla fine sentì che la signora Allen usciva e scendeva lentamente le scale. Quando le parve che la vecchia signora fosse ormai giunta in stra-da, Emily chiuse la porta e, con la chiave in mano, si recò nella stanza del-la signora Allen.

Pensava: Farò finta che sia la mia stanza, e se arriverà qualcuno, dirò che ho sbagliato piano.

Per un attimo, dopo che ebbe aperta la porta, le parve davvero di essere nella propria stanza. Il letto era fatto e le persiane della finestra erano ac-costate.

Emily lasciò la porta aperta e andò ad aprire le persiane. Adesso che la stanza era illuminata, si guardò attorno. Sentì un senso di insopportabile affinità con la signora Allen e pensò: È così che si deve sentire quand'è nella mia stanza.

Tutto era in ordine, accessibile. Per prima cosa guardò nell'armadio, ma c'erano solo la vestaglia della signora Allen e un paio di semplici abiti.

Poi Emily guardò nella cassettiera. Osservò per un istante la foto del de-funto signor Allen e poi aprì il cassetto in alto.

I suoi fazzoletti erano lì, in una piccola pila bene ordinata, e accanto c'e-rano le sigarette e gli orecchini. In un angolo sedeva il cagnolino di porcel-lana.

È tutto qui, pensò Emily; tutto messo via, in ordine. Chiuse il cassetto e aprì gli altri. Erano vuoti.

Tornò ad aprire il primo cassetto. Oltre alle sue cose, c'era un paio di guanti neri di cotone, e sotto i suoi fazzoletti ce n'erano due altri, bianchi, da poco prezzo. Inoltre, una scatola di Kleenex e un tubetto di Aspirina. Per i fiori, pensò Emily.

Era intenta a contare i fazzoletti, quando sentì un rumore e si voltò. La signora Allen era ferma sulla soglia e la guardava senza parlare.

Emily lasciò cadere i fazzoletti che aveva in mano e fece un passo indie-tro. Si sentì arrossire; sentì che le tremavano le mani. Adesso, si disse, a-desso è il momento di dirle tutto.

— Signora Allen... — cominciò, e subito s'interruppe. — Sì? — chiese gentilmente la signora Allen. Emily si trovò davanti agli occhi la faccia del signor Allen. Un uomo

dall'aria così seria, pensò. Devono avere vissuto una vita molto piacevole, insieme, e adesso lei ha unicamente una stanza come la mia, e nel cassetto due soli fazzoletti.

— Sì? — tornò a chiedere la signora Allen.

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Che cosa devo dirle? si chiese Emily. Che cosa sta aspettando che le di-ca, con quella sua aria così da signora?

— Ero scesa... — disse Emily, esitante. Anche il mio tono di voce è da vera signora, pensò.

— Avevo una terribile emicrania e sono scesa a chiederle dell'Aspirina — disse in fretta. — Avevo questo gran mal di testa, e, quando ho visto che lei non c'era, mi sono detta che non le avrebbe dato fastidio, se ne a-vessi preso in prestito qualche pastiglia.

— Oh, mi dispiace — disse la signora Allen. — Ma sono contenta che mi consideri già così sua amica.

— Non mi sarei mai permessa di entrare — disse Emily — se non avessi avuto questo mal di testa.

— Ma certo — concesse la signora Allen. — Non parliamone più. Si avvicinò al mobile e aprì il cassetto. Emily, vicino a lei, vide che la

sua mano passava sui fazzoletti e poi afferrava l'Aspirina. — Ne prenda due, e stia a letto per un'ora — disse la signora Allen. — Grazie. — Emily si avviò verso la porta. — È stata molto gentile. — Se posso fare altro, me lo dica. — Grazie — ripeté Emily, aprendo la porta. Attese qualche istante, poi

si avviò verso la scala per ritornare in camera propria. — Passerò da lei più tardi — disse la signora Allen. — Tanto per vedere

come si sente. Titolo originale: Trial by Combat (1944).

Greenwich Village Miss Clarence si fermò all'angolo tra la Sesta Avenue e l'Ottava Strada e

guardò l'orologio. Le due e un quarto; più presto di quanto pensasse. Entrò da Whelan e si sedette al banco, posando la borsetta e la copia del Villager e quella della Certosa di Parma, che aveva letto con entusiasmo fino a pa-gina 50 e adesso portava con sé per fare effetto sulla gente. Ordinò una cioccolata con panna e mentre il barista gliela preparava si recò alla cassa e si fece dare un pacchetto di Kool. Tornò poi a sedere al banco, aprì il pac-chetto e si accese una sigaretta.

Miss Clarence aveva 35 anni, e da dodici abitava al Greenwich Village. Quando aveva 23 anni, era giunta a New York da una piccola cittadina di quello stesso Stato perché voleva fare la ballerina e perché chi intendeva

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studiare danza o scultura o legatoria andava ad abitare al Village, di solito con l'assegno dei genitori per pagarsi le spese e con il vago programma di lavorare da Macy o in una libreria finché l'attività artistica non comincias-se a rendere.

Miss Clarence, fortunata perché aveva frequentato un corso di stenodat-tilo, era andata a lavorare come dattilografa in una ditta che commerciava in carbone. Adesso, a dodici anni di distanza, era la segretaria del direttore e guadagnava a sufficienza per permettersi un buon appartamento del Vil-lage e per comprarsi vestiti alla moda.

Continuava ad andare a qualche lezione di danza con un'altra ragazza del suo ufficio, e a volte, quando scriveva ai vecchi amici della sua cittadina, parlava di se stessa come di una "irriducibile" del Village. Quando pensava alla propria situazione, si congratulava con se stessa per il buon senso da lei dimostrato nello svolgere con competenza il suo lavoro e nel mantener-si meglio di quanto non le sarebbe stato possibile al paese natio.

Sicura di avere un aspetto elegante con il tailleur grigio di tweed e la spilla di rame martellato acquistata in un negozio del Village, Miss Cla-rence finì la tazza e guardò nuovamente l'orologio.

Pagò e uscì nella Sesta Avenue, e si diresse, camminando in fretta, verso il centro. Aveva visto giusto, la casa da lei cercata era a poca distanza dalla Sesta; si fermò per un attimo davanti all'ingresso, soddisfatta di sé, e para-gonò quell'edificio al suo, molto più presentabile.

Miss Clarence abitava in un edificio moderno, di mattoni e con decora-zioni a stucco; la casa in cui doveva entrare era invece di legno, e vecchia, con solo la porta d'ingresso nuova, di quelle che ingannavano; per capire la sua vera età occorreva guardare i piani più alti, e si scorgeva subito la ca-ratteristica architettura fine Ottocento.

Controllò che il numero civico corrispondesse a quello dell'annuncio sul Villager, poi aprì la porta ed entrò nel piccolo atrio. Trovò il cognome Ro-berts e il numero dell'appartamento, 4B. Con un sospiro, cominciò a salire le scale.

Giunta al pianerottolo del secondo piano, si fermò per qualche istante a riprendere il fiato e accese una sigaretta, per essere sicura di sé al momento di entrare nell'appartamento.

Quando giunse al terzo piano, trovò subito il 4B, e vide un foglietto scritto a macchina, attaccato alla porta con una puntina da disegno.

Staccò la puntina e lesse il biglietto. Diceva: "Miss Clarence, devo usci-re per pochi minuti. Entri e dia un'occhiata. I prezzi sono segnati. Nancy

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Roberts". Miss Clarence provò a spingere la porta, che non era chiusa a chiave.

Senza posare il biglietto, entrò e si chiuse la porta alle spalle. All'interno regnava una grande confusione: il pavimento era coperto di

scatole di cartone, contenenti libri e scartoffie assortite, le persiane erano chiuse e su tutti i mobili c'erano valigie mezzo piene di abiti.

La prima cosa che Miss Clarence fece fu quella di andare alla finestra. Al terzo piano, pensò, forse c'è una bella vista. Ma scorse soltanto tetti sporchi e, lontano a sinistra, un alto edificio con sul tetto un giardino fiori-to. Un giorno andrò a vivere laggiù anch'io, pensò, e fece ritorno nella stanza.

Entrò nella cucina, che era poco più di una nicchia con un fornello a gas a due becchi e il frigo sotto, e un lavandino microscopico di lato. Non de-vono fare molto da mangiare, pensò, e questo gas non lo hanno mai pulito.

Nel frigo c'erano una bottiglia di latte e tre di cocacola, oltre a un vasetto mezzo vuoto di burro di arachidi. Si vede che mangiano sempre fuori, pen-sò Miss Clarence. Aprì la credenza: c'erano solo un bicchiere e un cava-tappi. Si vede che l'altro bicchiere è nel bagno, pensò, e: Non ci sono taz-ze: quella donna non fa neppure il caffè la mattina, si disse scandalizzata.

Da dietro l'anta della credenza spuntavano le zampette di uno scarafag-gio; Miss Clarence si affrettò a chiuderla, con un brivido, e tornò nella stanza più grande.

Aprì la porta del bagno e guardò all'interno: vide una vasca da bagno vecchio stile, con le zampe di leone, e niente doccia. La stanza era sporca, e di sicuro c'erano gli scarafaggi anche lì.

Alla fine, Miss Clarence tornò nella stanza piena di cianfrusaglie. Tolse da una sedia la valigia e la macchina da scrivere, posò cappello e soprabi-to, e si sedette per accendersi un'altra sigaretta.

Aveva già visto che i mobili non le interessavano: le due sedie e il sofà erano di acero, quello che lei chiamava stile "Moderno Village". Il tavolino era grazioso, ma sul ripiano c'era un lungo graffio, e inoltre c'erano varie macchie di liquore.

Il prezzo segnato sul tavolino era di dieci dollari, e Miss Clarence si dis-se che avrebbe potuto trovarne una decina di nuovi, se fosse stata disposta a pagare quei prezzi.

Con una sorta di risentimento nei riguardi della sua ditta di carboni, Miss Clarence aveva arredato il proprio appartamento con mobilia laccata bianca e beige, e l'idea di metterci quel legno lucido, con le venature a vi-

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sta, la spaventava. S'immaginava le scene a cui aveva assistito quella mobilia: giovani leoni

del Village, frequentatori di librerie, che vi si stravaccavano sopra e beve-vano rum e cocacola, e tra un sorso e l'altro posavano il bicchiere dove ca-pitava.

Per qualche momento, Miss Clarence pensò di acquistare qualche libro, ma quelli che vedeva nelle scatole erano in gran parte libri d'arte e mono-grafie. In qualcuno c'era scritto "Arthur Roberts" nelle pagine dei risguar-di, e Miss Clarence pensò: Arthur e Nancy Roberts, una coppia giovane e brillante.

Arthur doveva essere l'artista, e Nancy... Miss Clarence guardò in mezzo ai libri e ne trovò uno con foto di danzatrici moderne; che Nancy, si chiese con un sorriso affettuoso, fosse una ballerina?

Squillò il telefono e Miss Clarence, che era dall'altra parte della stanza, ebbe un istante d'esitazione prima di rispondere. Quando disse: "Pronto", una voce maschile chiese: — Nancy?

— No, mi dispiace, ma non è a casa — disse Miss Clarence. — Chi parla? — chiese l'uomo. — Sto aspettando la signora Roberts — spiegò Miss Clarence. — Be', io sono Artie Roberts, suo marito. Quando torna, le dica di chia-

marmi. Grazie. — Signor Roberts — disse Miss Clarence — forse lei può aiutarmi. So-

no venuta a vedere i mobili. — Come si chiama? — Mi chiamo Clarence. Hilda Clarence. Mi serviva qualche mobile. — Be', Hilda, cosa ne dici? Tutto è perfettamente in ordine. — Ero un po' indecisa — disse Miss Clarence. — Il divano è praticamente come nuovo — continuò Artie Roberts. —

Ho avuto quest'occasione di andare a Parigi, capisci. Ecco perché vendia-mo tutto.

— Ma è meraviglioso! — disse Miss Clarence. — Nancy torna dai genitori a Chicago. Dobbiamo vendere tutto e fare i

bagagli in fretta. — Capisco — disse Miss Clarence. — Un vero peccato. — Be', Hilda — disse Artie Roberts, — parlane con Nancy quando tor-

na, e vedrai che vi metterete d'accordo. Qualsiasi cosa tu prenda, è un affa-re. Posso garantirti che è roba buona.

— Oh, ne sono certa — disse Miss Clarence.

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— E dille di telefonarmi, grazie. — Certo — promise Miss Clarence. Salutò e riappese la cornetta. Poi tornò a sedere e guardò l'ora. Le 3 e 10. Aspetto fino alle tre e mez-

zo, si ripromise Miss Clarence, e poi me ne vado. Prese il libro con le foto di danzatrici e lo sfogliò distrattamente finché il

suo occhio non si soffermò su un'immagine. Non la vedevo da anni, pensò Miss Clarence. Martha Graham. Ripensò a se stessa, quando aveva ven-t'anni, prima di venire a New York, che si allenava a tenere la stessa posi-zione.

Posò a terra il libro e si alzò sulle punte, sollevando le braccia. Una volta mi veniva meglio, pensò; dopo un po', sono le spalle a tradirti.

Continuava a controllare la foto e a cercare di tirare indietro le braccia, quando sentì bussare, e la porta si aprì.

Entrò un giovanotto (l'età di Arthur, pensò Miss Clarence) e si fermò sulla soglia, con l'aria imbarazzata.

— Ho visto che era aperto — disse — e allora sono entrato. — Sì? — chiese Miss Clarence, abbassando le braccia. — Lei è la signora Roberts? — chiese il giovanotto. Miss Clarence si diresse con naturalezza verso la sedia e non rispose. — Venivo per i mobili — spiegò il giovanotto. — Potrebbero interes-

sarmi le sedie. — Certo — disse Miss Clarence. — Il prezzo è scritto sopra. — Mi chiamo Harris. Sono appena arrivato, e volevo arredarmi la casa. — Oggigiorno è difficile trovare quello che ci serve. — Sarò già stato in dieci posti. Mi serve un mobile archivio e una pol-

trona di cuoio. — Allora, temo proprio... — disse Miss Clarence, indicando la stanza. — Lo so — disse Harris. — Oggigiorno, chi ha quel genere di mobili se

li tiene. Io scrivo — aggiunse. — Davvero? — Cioè, voglio fare lo scrittore — disse Harris. Aveva la faccia tonda,

simpatica, e nel dirlo fece un grande sorriso. — Mi trovo un lavoro e scrivo di sera — disse. — Sono certa che ci riuscirà — disse Miss Clarence. — Qualcuno dipinge, qui? — Il signor Roberts — spiegò Miss Clarence. — Fortunato lui — disse Harris. Si avvicinò alla finestra. — Disegnare è più facile che scrivere. Questa casa è molto più bella del-

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la mia — aggiunse all'improvviso, guardando dalla finestra. — Da me, è un buco.

Miss Clarence non sapeva cosa dire, ma il giovanotto si girò verso di lei e le chiese: — Anche lei dipinge?

— No — rispose Miss Clarence. Trasse un respiro. — Danza classica — disse.

Lui tornò a sorridere in quel suo modo simpatico. — Avrei dovuto capir-lo subito — disse. — Quando sono entrato.

Miss Clarence abbassò gli occhi e fece una risatina. — Dev'essere bellissimo — disse lui. — È una vita dura — rispose Miss Clarence. — Ci credo. Ha avuto fortuna, finora? — Non molta — confessò Miss Clarence. — Penso che sia sempre così — disse il giovane. Girò per la stanza e

andò ad aprire la porta del bagno. Quando vide che osservava la vasca, Miss Clarence arrossì. Poi Harris chiuse la porta e andò a vedere la cucina.

Miss Clarence lo seguì e si fermò accanto a lui. Entrambi osservarono la cucina.

— Non faccio mai da mangiare — spiegò lei. — Ha ragione. Con tutti i ristoranti che ci sono. — Chiuse la porta. Miss

Clarence tornò alla sua sedia. — Io, però, non riesco a fare colazione al bar. Non ci sono mai riuscito

— confessò. — Si fa da mangiare lei? — Quel che so fare — disse il giovanotto. — Sono il peggior cuoco del

mondo. Ma è meglio che andare al ristorante. Mi servirebbe una moglie. Sorrise di nuovo, e si diresse alla porta. — Mi spiace per i mobili — aggiunse. — Peccato non aver trovato quel

che mi serve. — Non si preoccupi. — Siete in partenza? — Dobbiamo lasciare la casa — disse Miss Clarence. E poi, dopo un i-

stante di esitazione, disse: — Artie va a Parigi. — Piacerebbe anche a me. — Harris sospirò. — Be', buona fortuna a tut-

t'e due. — Anche a lei — disse Miss Clarence, e, quando l'uomo fu uscito, chiu-

se lentamente la porta. Sentì che scendeva le scale; quando l'uomo fu usci-to, diede un'altra occhiata all'orologio. Le 3 e 25.

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All'improvviso, non riuscì più a resistere. Trovò il biglietto di Nancy Roberts e scrisse nella parte dietro, servendosi di una matita che c'era in gi-ro: "Cara signora Roberts, ho aspettato fino alle tre e mezzo. Temo che i mobili siano troppo belli per le mie tasche. Hilda Clarence". Poi rifletté per un istante e aggiunse: "P.S. Ha telefonato suo marito. Ha detto di richia-marlo".

Prese la borsetta, la Certosa di Parma e il Villager, e chiuse la porta. La puntina c'era ancora, e lei se ne servì per fermare il suo messaggio. Poi si girò e si avviò lungo le scale, per fare ritorno a casa sua. Le spalle le face-vano male.

Titolo originale: The Village (1949).

La mia vita da Macy La prima cosa che fecero fu quella di isolarmi. Mi isolarono dall'unica

persona che conoscevo, anche se per il momento ci eravamo rivolte solo poche parole: si trattava di una ragazza che avevo incontrato nel corridoio e che mi aveva detto: "Hai paura anche tu come me?"

Io le avevo risposto: "Sì", e lei allora mi aveva detto: "Io sono nella biancheria per signora, e tu?"

Io ci avevo pensato per qualche istante, e poi le avevo rifilato un: "Cri-stallo filato", che era la risposta migliore che mi era venuta in mente. Lei aveva risposto: "Ah. Be', tra poco ci rivedremo qui."

Poi si era allontanata, per essere isolata anche lei, e io non l'ho più vista. Continuarono a chiamarmi per nome e io continuai a correre dove mi

chiamavano. Loro mi dicevano ("loro", a questo punto, erano tutte giovani donne, straordinariamente belle, in tailleur e con i capelli corti): — Va' con Miss Cooper. Laggiù. Lei ti dirà cosa devi fare.

Tutte le donne che ho incontrato quel primo giorno si chiamavano Miss Cooper. E Miss Cooper mi chiedeva: — In che settore sei?

Io, a quel punto, avevo imparato a dire: — Libri — e lei allora mi dice-va: — Oh, allora devi andare con Miss Cooper. — E poi chiamava: — Miss Cooper?

A questo punto arrivava un'altra giovane donna, e la prima le diceva: — La 13-3138, qui, è con te.

E la seconda Miss Cooper rispondeva: — Che settore è? La prima Miss Cooper spiegava: — Libri — e io andavo con la seconda

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Miss Cooper e venivo di nuovo isolata. Poi cominciarono a insegnarmi. Alla fine mi isolarono in un'aula e io

rimasi lì dentro da sola, a lungo (questo indica fino a che punto ero isolata) e poi entrarono altre ragazze, tutte in tailleur (io avevo un vestito rosso, di velluto, da pomeriggio) e ci sedemmo e ci venne insegnato.

A ciascuna diedero un grosso album con sopra scritto "R.H. Macy" e con dentro tanti foglietti che dicevano (da sinistra a destra): "Doppia c. per contr. cassa archiviaz. art. ora in. ora usc. N. rep. N. commessa N. scontr. data Sig."

Dopo "Sig." c'era uno spazio dove si doveva mettere "ra" o "na" e il no-me, e poi il foglio riattaccava con: "N. ref. quant. pr. netto tot." e in fondo c'era stampato "originale" e poi "doppia c. per contr. cassa" e "spazio ri-servato per il bollino-sconto".

Io lessi tutto con grande attenzione. Presto arrivò un'altra Miss Cooper, che ci descrisse brevemente i grandi vantaggi di lavorare per Macy, e che ci parlò del registro delle vendite, dei suoi fogli e della sua carta carbone.

Io ascoltai per un po', e quando Miss Cooper ci chiese di scrivere sui fo-glietti, io copiai dalla ragazza che mi stava accanto. Questo fu l'addestra-mento.

Alla fine qualcuna disse che saremmo andate al piano, e dal sedicesimo scendemmo al piano terra. Eravamo in gruppi di sei, seguivamo Miss Co-oper senza chiederci dove andassimo, e portavamo piccoli distintivi che dicevano "inaddestramento". Non ci spiegarono cosa volesse dire.

Miss Cooper disse che dovevo lavorare nel banco delle offerte speciali e mi mostrò un libro chiamato La foca che voleva recitare, dicendo che a-vrei venduto quello. Io ero giunta a metà lettura quando fece ritorno e mi disse che non dovevo lasciare la mia unità.

L'orologio della bollatura mi piacque molto, e per una mezz'oretta mi di-vertii a bollare vari cartoncini che c'erano lì in giro, e poi qualcuno arrivò dicendo che era vietato bollare senza divisa. Perciò me ne dovetti andare, con un piccolo inchino all'orologio e al suo profeta, e trovai il mio numero di armadietto, che era 1773 e il mio numero di scheda, che era 712 e quello di cassa, che era 1336, e quello del mio registro delle vendite, che era 253, nonché quello del cassetto del registro (K), della chiave del cassetto (872) e del dipartimento (13). Li scrissi tutti, e così finì il mio primo giorno.

Il secondo giorno fu meglio. Avevo ormai ufficialmente il mio piano. Stavo all'angolo del banco, con la mano sulla Foca che voleva recitare, e aspettavo i clienti.

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La capo reparto si chiamava 13-2246, e fu molto gentile con me. Mi mandò tre volte a fare colazione, perché mi scambiò per 13-6454 e per 13-3141.

La prima cliente arrivò dopo mangiato. Venne da me e prese una delle mie foche, dicendo: — Quanto fa?

Prima però che aprissi la bocca, proseguì: — Ho un C/C, e il libro deve essere spedito a mia zia nell'Ohio. Pago in parte con un buono-libro da 32 cent, il resto va sul conto. Il libro ha il prezzo fisso?

Più o meno è quanto ricordo delle sue parole. Le sorrisi con sicurezza e dissi: — Certamente. Può aspettare un attimo?

Trovai un foglio nel cassetto: trasversalmente, a lettere grandi, c'era scritto "duplicato/triplicato". Mi feci dare nome e indirizzo della cliente, nome e indirizzo della zia e scrissi con cura sul duplicato/triplicato: "Foca che vol. recit. copie 1". Poi sorrisi alla cliente e dissi con indifferenza: — Sono 75 cent.

Lei disse: — Ma ho il buono e il C/C. Le risposi che per il periodo natalizio buoni e C/C erano sospesi, e allora

lei mi diede 75 cent, che io m'infilai in tasca. Poi battei sul registratore di cassa il pulsante "vendita non effettuata" e stracciai il duplicato/triplicato perché non sapevo cosa farne.

Più tardi arrivò un altro cliente che mi chiese: — Dove posso trovare una copia di Giunse come il tuono, di Ann Rutherford Gwynn?

— Nei libri di medicina, là in fondo — dissi subito, ma arrivò 13-2246 che disse: — Non è filosofia, quello?

Il cliente disse di sì, e 13-2246 disse: — Allora è in fondo al banco, tra i dizionari.

Il cliente si allontanò e io dissi a 13-2246 che la sua ipotesi era né mi-gliore né peggiore della mia. Lei allora mi guardò inarcando le sopracci-glia e mi spiegò che filosofia, sociologia e Bertrand Russell erano tenuti tra i dizionari.

Non sono ancora tornata da Macy per il mio terzo giorno di lavoro, per-ché quella sera, nel lasciare il magazzino, scivolai per le scale e mi strappai le calze. Il portiere mi disse che se fossi andata dalla mia capo reparto, Macy mi avrebbe dato un paio di calze nuove, e io tornai sopra, e vidi Miss Cooper, che mi disse: — Va' dall'ispettore al settimo piano e dagli questo.

Mi diede un foglietto rosa con stampigliato "Doppia c. per contr. cassa archiviaz. art. ora in. ora usc. N. rep. N. commessa N. scontr. data Sig." E

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dopo "Sig.", invece del nome, c'era scritto "13-3138". Io presi il foglietto e lo gettai nel cestino, poi salii al quarto piano e mi

comprai un paio di calze da 69 cent. Infine scesi e uscii dall'entrata clienti. Ho però scritto a Macy una lunga lettera e l'ho firmata con tutti i miei

numeri, sommati insieme e divisi per 11.700, che è il numero di dipendenti di Macy. Mi chiedo se sentano la mia mancanza.

Titolo originale: My Life With R.H. Macy (1949).

La strega La carrozza era quasi vuota, e il bambino aveva mezzo scompartimento

per lui. La madre sedeva dall'altra parte del passaggio e si occupava della figlia più piccola, che aveva un pezzo di galletta in una mano e un sonagli-no nell'altra.

La piccola era legata al seggiolino e poteva guardarsi attorno senza peri-colo, ma a volte scivolava da una parte, e la madre la aiutava a rimettersi dritta. Il bambino guardava fuori del vetro e mangiava un dolce. La madre leggeva un libro e rispondeva al figlio senza sollevare lo sguardo.

— Siamo sul fiume — annunciava il bambino. — C'è il fiume, e noi ci siamo sopra.

— Bene — diceva la madre. — Siamo sul ponte, sopra il fiume — diceva il bambino. I pochi altri viaggiatori erano seduti in fondo alla vettura; quando uno di

loro passava nel corridoio, il bambino si guardava attorno e diceva: — Ciao — e l'uomo rispondeva: — Ciao — e a volte chiedeva al bambino se gli piaceva andare in treno, o gli diceva che era un bravo giovanotto.

I commenti, però, non piacevano al bambino, che, con il broncio, torna-va a guardare dal vetro.

— C'è una mucca — diceva, oppure, con un sospiro: — Quanto manca? — Poco, stiamo per arrivare — rispondeva ogni volta la madre. Una volta la piccola, che era molto tranquilla e che dedicava tutta l'at-

tenzione al sonaglino e al biscotto, che la madre si preoccupava di sostitui-re con regolarità, scivolò troppo di lato e batté la testa. Cominciò a piange-re, e per qualche minuto ci fu una grande agitazione. Il fratello scese dal suo sedile e venne ad accarezzare i piedi della sorellina e a dirle di non piangere, e alla fine la piccola rise e riprese a mangiare il biscotto. Il bam-bino ricevette dalla madre un lecca-lecca e tornò al suo finestrino.

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— Ho visto una strega — disse alla madre, dopo un momento. — C'era una brutta stregaccia cattiva, là fuori.

— Davvero? — fece la madre. — Sì, una brutta stregaccia cattiva. Le ho detto di andarsene, e lei se n'è

andata — proseguì il bambino, come per raccontarsi una favola. — È ve-nuta e ha detto: "Adesso ti mangio", ma io le ho detto: "No", e l'ho cacciata via, quella brutta stregaccia cattiva.

S'interruppe e alzò la testa nel vedere che la porta si apriva ed entrava un uomo. Era un uomo anziano, con i capelli bianchi e la faccia sorridente; il suo vestito blu era solo leggermente stropicciato dal viaggio. Aveva un si-garo, e quando il bambino disse: — Ciao — gli fece un gesto con la mano con cui teneva il sigaro e disse: — Ciao a te, figliolo.

Si fermò accanto al sedile del bambino e lo guardò; il bambino a sua volta dovette allungare il collo per osservarlo.

— Che cosa stai guardando, da quel finestrino? — chiese il vecchio. — Streghe — rispose subito il bambino. — Vecchie streghe cattive. — Capisco — disse l'uomo. — E ne trovi tante? — Mio padre fuma il sigaro — disse il bambino. — Tutti gli uomini lo fumano — ammise il vecchio. — Un giorno lo

fumerai anche tu. — Io sono già un uomo — disse il bambino. — Quanti anni hai? — chiese il vecchio. Il bambino, nel sentirsi rivolgere l'eterna domanda, guardò per un attimo

il vecchio, con sospetto, e poi disse: — Ventisei. Ottocentoquaranta. La madre sollevò la testa dal libro. — Quattro — disse con un sorriso. — Ne hai davvero ventisei? — chiese il vecchio, educatamente, rivol-

gendosi al bambino. Poi indicò con la testa la madre e chiese: — Tua ma-dre?

Il bambino si sporse a controllare e poi disse: — Sì, è lei. — Come ti chiami? — chiese il vecchio. Il bambino tornò a guardarlo con sospetto. — Signor Gesù — disse. — Johnny — spiegò la madre. Fissò il figlio negli occhi e scosse la te-

sta. — Quella è mia sorella. Dodici mesi e mezzo — riferì il bambino. — Vuoi bene alla sorellina? — chiese il vecchio. Il bambino lo fissò a occhi sgranati, e il vecchio si decise a sedersi ac-

canto a lui. — Ascolta — disse. — Vuoi che ti parli della mia sorellina? La madre, che per qualche istante l'aveva guardato con preoccupazione,

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si tranquillizzò e tornò a leggere il libro. — Sì, parlami della tua sorellina. Era una strega? — Può darsi — disse il vecchio. Il bambino rise, tutto eccitato, e il vecchio si appoggiò allo schienale e

trasse una boccata dal sigaro. — Una volta — cominciò — avevo anch'io una sorellina come la tua. Il bambino guardò il vecchio, e mosse la testa, come per rivolgergli un

cenno d'assenso, a ogni sua parola. — La mia sorellina — proseguì il vecchio — era così bella e cara e vo-

levo più bene a lei che a qualsiasi altra cosa al mondo. Vuoi che ti dica che cosa ho fatto?

Il bambino annuì con interesse, e anche la madre abbassò il libro e sorri-se.

— Le ho regalato un cavallo a dondolo e una bambola, e una cassa piena di lecca-lecca come il tuo — disse il vecchio. — Poi l'ho presa per il collo e ho stretto e ho stretto finché è morta.

Il bambino rimase senza fiato, e la madre si girò verso il vecchio. Non sorrideva più; fece per dire qualcosa, ma il vecchio riprese: — Poi l'ho pre-sa e le ho tagliato la testa, e ho preso la testa e...

— L'hai tagliata a pezzetti? — chiese il bambino, eccitatissimo. — Le ho tagliato la testa e le mani e i piedi e i capelli e il naso — disse

il vecchio — e l'ho colpita con un bastone e l'ho uccisa. — Senta un po'... — cominciò la madre, ma, proprio in quel momento,

la piccola scivolò di fianco, e lei dovette rimetterla su. I pochi istanti furo-no sufficienti perché il vecchio riprendesse a parlare.

— E le ho preso la testa e le ho strappato tutti i capelli... — Alla tua sorellina? — chiese il bambino, ansioso. — Alla mia sorellina — confermò il vecchio. — E ho gettato la testa

nella gabbia dell'orso, e lui se l'è mangiata. — Tutta la testa? — chiese il bambino. La madre posò il libro e si alzò. Attraversò il corridoio e si fermò accan-

to al vecchio, per dirgli: — Senta un po', cosa crede di fare? Il vecchio alzò la testa e le sorrise, ma la donna disse: — Vada via. — Perché? Si è spaventata? — chiese il vecchio. Rivolse un'occhiata al

bambino, gli diede un colpo con il gomito, e tutt'e due risero. — Sai, questo signore ha tagliato la testa alla sua sorellina — spiegò il

bambino, rivolto alla madre. — Devo proprio chiamare il controllore? — chiese la donna.

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— Il controllore si mangerà la mia mamma — disse il bambino. — Noi le taglieremo la testa.

— Sì, e anche quella della tua sorellina. — Il vecchio si alzò, e la donna si fece di lato per farlo passare.

— Non torni più in questa carrozza — lo minacciò. — Altrimenti, la mia mamma ti mangia — disse il bambino. Il vecchio rise, e il bambino gli fece eco. Poi il vecchio disse: — Per-

messo — alla madre e uscì dalla carrozza. Quando la porta si chiuse dietro le spalle del vecchio, il bambino disse:

— Quanto dobbiamo rimanere ancora in questo brutto treno? — Siamo quasi arrivati — disse la madre. Fissò il bambino, come se vo-

lesse dirgli qualcosa, e alla fine parlò: — Siediti lì e fa' il bravo. Vuoi un altro lecca-lecca?

Il bambino scese dal sedile e si avvicinò alla madre, che prese un lecca-lecca dalla borsa e glielo diede.

— Come si dice? — gli chiese. — Grazie — disse il bambino. Poi, riflessivo: — Quell'uomo ha proprio

fatto a pezzi la sua sorellina? — L'ha detto per prenderti in giro — disse la madre, e ripeté: — Solo

per prenderti in giro. Il bambino cominciò a leccare il suo dolce e si rimise davanti al finestri-

no. Poi disse, pensieroso: — Si vede che era una strega. Titolo originale: The Witch (1949).

Il rinnegato Erano le 8 e 20. I gemelli cincischiavano i loro fiocchi d'avena, e la si-

gnora Walpole, con un occhio all'orologio e l'altro alla finestra per spiare l'arrivo del bus della scuola che doveva passare entro pochi minuti, sentì l'irragionevole irritazione che ti viene quando sei in ritardo in una mattina-ta scolastica, e ti rendi conto che cercare di far fretta ai bambini è come guadare una palude di melassa.

— Dovrete andare a piedi — li avvertì minacciosamente, per la terza volta. — Il bus non aspetta.

— Faccio più in fretta che posso — disse Judy. Posò l'occhio sul suo bicchiere di latte, e sorrise maliziosamente. — Ne ho già bevuto più di Jack.

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Jack spinse lungo il tavolo il proprio bicchiere e lui e la sorella li misura-rono con cura. — No — disse Jack. — Guarda quanto ne hai, più di me.

— Lascia stare — disse la signora Walpole. — Lascia stare. Jack, man-gia i tuoi fiocchi.

— Ne aveva come me — disse Jack. — Non ne aveva più di me, vero, mamma?

La sveglia non era suonata alle sette come previsto. La signora Walpole sentì il rumore della doccia, al piano di sopra, e calcolò rapidamente il tempo che le rimaneva. Quella mattina, il caffè non si decideva a bollire, le uova sode erano un po' troppo alla coque. In tutto, era riuscita soltanto a versarsi un bicchiere di succo di frutta e non aveva ancora avuto il tempo di berlo. Qualcuno... Judy o Jack, o il signor Walpole... sarebbe arrivato in ritardo.

— Judy — disse meccanicamente la signora Walpole. — Jack. Le trecce di Judy non erano del tutto a posto, Jack sarebbe uscito senza

fazzoletto. Il signor Walpole si sarebbe certamente innervosito. La mole gialla e rossa del bus scolastico comparve nella strada, davanti

alla finestra della cucina, e Judy e Jack corsero alla porta, senza avere fini-to la colazione e molto probabilmente senza avere preso tutti i libri.

La signora Walpole li seguì fino alla porta della cucina e gridò: — Jack, i soldi per il latte; a mezzogiorno, torna subito a casa.

Li guardò salire sul bus e tornò subito in cucina, a sparecchiare e a pre-parare la colazione del signor Walpole. Quanto a lei, avrebbe fatto cola-zione più tardi, nel momento di tregua di cui godeva dopo le nove. Questo significava che sarebbe stata una delle ultime a portare il bucato, e che se quel pomeriggio si fosse messo a piovere, come era probabile, la roba non avrebbe fatto in tempo ad asciugare.

La signora Walpole fece uno sforzo e riuscì a dire: — Buon giorno, caro — quando il marito entrò in cucina.

Lui disse: — 'Giorno — senza alzare gli occhi e la signora Walpole, benché avesse in testa varie frasi che cominciavano con: "Non pensi mai che anche le altre persone possono avere dei sentimenti?", cominciò pa-zientemente a servirgli la colazione.

Le uova poco sode, il pane tostato e il caffè. Il signor Walpole dedicò la propria attenzione al giornale e la signora Walpole, che, disperatamente, avrebbe voluto dire: "Forse non te ne sarai accorto, ma non sono ancora riuscita a fare colazione", posò i piatti sul tavolo senza fare rumore, per non disturbarlo.

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Tutto procedeva per il meglio, anche se con un ritardo sistematico di mezz'ora, quando squillò il telefono. I Walpole avevano il duplex, e la si-gnora Walpole lasciava di solito che il telefono squillasse due volte prima di essere certa che il numero chiamato fosse proprio il suo; quella mattina, prima delle nove, con il marito che non aveva ancora finito di fare colazio-ne, la telefonata era una prevaricazione insopportabile, e la signora Walpo-le rispose con riluttanza.

— Pronto? — disse, in tono scostante. — Signora Walpole — disse la voce, e lei rispose: — Sì? La voce (era una donna) continuò: — Mi spiace di disturbarla, ma so-

no... — e qui un nome incomprensibile. La signora Walpole ripeté: — Sì? Vide che il marito prendeva dal for-

nello la caffettiera e si versava un'altra tazza di caffè. — Lei ha un cane? Un bracco, nero e marrone, una femmina? — conti-

nuò la voce. Alla parola "cane", la signora Walpole, in un solo istante, prima di ri-

spondere "Sì", ricapitolò nella sua mente gli innumerevoli aspetti del fatto di possedere un cane in campagna (i sei dollari dell'operazione, i latrati nel mezzo della notte, la sicurezza data dalla forma scura che dormiva sul tap-peto, nella camera dei gemelli, la necessità di avere un cane per casa, im-portante come la stufa o come il porticato davanti alla porta o l'abbona-mento al quotidiano locale; e tante altre cose, ma soprattutto il cane stesso, che i vicini chiamavano Lady Walpole e che era un membro della famiglia alla stessa stregua di Jack Walpole e di Judy Walpole; un animale silenzio-so, tranquillo, tollerante) ma non trovò nessuna ragione per una telefonata, la mattina presto, e da parte di una persona che, ora comprese, era irritata quanto lei.

— Sì — rispose la signora Walpole, concisa. — Perché? — Nero e marrone? I bei colori di Lady, il suo muso buffo. — Sì — disse la signora Walpo-

le, con una punta di impazienza nella voce. — Sì, dev'essere il mio cane, perché?

— Mi ammazza le galline. — Il tono era soddisfatto, adesso; la signora Walpole era stata messa alle corde.

Per vari secondi, la signora Walpole rimase in silenzio, tanto che la don-na al telefono disse: — Pronto?

— È assurdo — disse la signora Walpole. — Questa mattina — disse la donna, con cupa soddisfazione — il suo

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cane correva dietro alle nostre galline. "Abbiamo sentito il rumore alle otto" proseguì "e mio marito è uscito per

andare a vedere che cosa succedeva. Ha trovato due galline morte, e un grosso cane nero e marrone nel pollaio; allora ha preso un bastone e ha cacciato via il cane, e solo allora ha scoperto due altre galline morte.

"Dice che è stata fortunata" continuò la donna, con voce piatta "che non avesse il fucile, perché altrimenti lei adesso non avrebbe più un cane.

"C'era la più gran confusione che si possa immaginare" continuò la don-na. "Sangue e piume dappertutto."

— Perché dice che è stato il mio cane? — chiese la signora Walpole, senza troppa convinzione.

— Joe White, il suo vicino, passava davanti a noi, e ha visto mio marito che correva dietro il cane. Ha detto che era il suo.

Il vecchio White abitava a due case di distanza dai Walpole. La signora Walpole aveva sempre cercato di trattarlo cortesemente, si informava della sua salute quando lo vedeva seduto davanti a casa, aveva guardato con ri-spetto perfino le foto dei suoi nipoti, che stavano ad Albany.

— Capisco — disse la signora Walpole, che all'improvviso aveva deciso di rinunciare alla difesa. — Be', se lei ne è assolutamente sicura... Ma non l'avrei mai creduto di Lady. Un cane così tranquillo.

La donna si addolcì, nell'accorgersi della preoccupazione della signora Walpole. — È davvero una vergogna — disse. — Dispiace anche a me che sia successa una cosa simile. Ma...

Non continuò la frase. Non ce n'era bisogno. — Naturalmente, le rimborseremo i danni — si affrettò a dire la signora

Walpole. — No, no — disse la donna, in tono di scusa. — Non ci pensi neppure. — Ma, naturalmente... — cominciò la signora Walpole, stupefatta. — Il cane — disse la donna. — Piuttosto, faccia qualcosa per il cane. All'improvviso, la signora Walpole provò un senso di terrore. La matti-

nata era cominciata male, lei non aveva ancora preso il caffè, si trovava a dover affrontare una brutta situazione che le era piombata tra capo e collo, e adesso la donna al telefono, con il suo tono, era riuscita a spaventarla con una parola carica di minaccia come quel "qualcosa".

— E cosa... — chiese infine la signora Walpole. — Voglio dire, che co-sa mi suggerisce di fare?

La donna tacque per qualche istante, poi disse in fretta: — Oh, non lo saprei proprio, signora mia. Ho sempre sentito dire che non c'è niente che

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possa fermare un cane, una volta che ha ammazzato delle galline. Come ho detto, non si può parlare di un danno. Le galline uccise dal cane sono già state spennate e messe in forno.

La signora Walpole sentì un nodo alla gola. Chiuse gli occhi per un i-stante, ma la donna all'altro capo della comunicazione proseguì, inflessibi-le: — Noi le chiediamo solo di pensare al cane. Naturalmente, capirà che non possiamo permettere che un cane ci uccida le galline.

La signora Walpole doveva rispondere qualcosa, e perciò disse: — Cer-to.

— Perciò... — disse la donna. La signora Walpole vide che il marito si era alzato e si dirigeva verso la

porta. Lui le fece un cenno con la mano e lei glielo restituì. Suo marito era già in ritardo. Lei non aveva fatto in tempo a chiedergli di passare in bi-blioteca, e adesso avrebbe dovuto telefonargli.

La signora Walpole disse seccamente al telefono: — Prima di tutto, na-turalmente, devo assicurarmi che sia il mio cane. Se lo è, le prometto che non avrà altri guai.

— È il suo cane, è il suo cane — disse la donna, con il tono privo di in-flessioni della gente di campagna; se la signora Walpole voleva la guerra, quel tono voleva dire, aveva scelto proprio la persona giusta.

— Arrivederci — disse la signora Walpole, convinta però di sbagliare, nell'interrompere con ira il discorso. Avrebbe fatto meglio a continuare a scusarsi, a cercare di riavere la vita del suo cane, che adesso era in mano a quella donna stupida e inflessibile che attribuiva tanta importanza alle sue stupide galline.

La signora Walpole riagganciò il telefono ed entrò nella cucina. Si versò una tazza di caffè e si fece scaldare delle fette di pane.

Non voglio pensarci finché non avrò bevuto il caffè, si disse con severi-tà. Spalmò il burro sulla fetta di pane abbrustolito e cercò di rilassarsi, muovendo la schiena e abbassando le spalle. Quel che ho già alle nove e mezzo di questa mattina, si disse, è un umore da undici e mezzo di sera.

Il sole era meno caldo del previsto; la signora Walpole rinunciò al buca-to e lo rimandò all'indomani. Abitavano da poco tempo in quella cittadina, e la signora Walpole non riteneva ancora che la disgrazia di fare il bucato di martedì fosse un peccato mortale.

Erano gente di città, e probabilmente lo sarebbero rimasti sempre, gente che aveva un cane che ammazzava le galline, gente che faceva il bucato il martedì e che non era capace di difendersi dal mondo ristretto, fatto di ter-

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ra, di cibo e di condizioni climatiche, che la gente di campagna, invece, conosceva perfettamente.

Anche in quella situazione, come in tutte le altre, che andavano dall'eli-minazione della spazzatura alle pulizie di primavera e all'infornare la torta, la signora Walpole era costretta a chiedere aiuto a qualcuno.

In campagna è difficile convincere "un uomo" a fare qualcosa per te, e i Walpole avevano preso l'abitudine, fin dall'inizio, di rivolgersi ai vicini per quelle informazioni che, in città, si chiedono in genere al custode, allo spazzino o all'uomo del contatore del gas.

Poi l'occhio le cadde sulla ciotola con l'acqua di Lady, sotto il lavandino, e solo in quel momento si rese conto di quanto fosse depressa. Allora si al-zò e s'infilò un soprabito, si mise una sciarpa sulla testa e si recò dalla vi-cina.

La signora Nash friggeva le frittelle. Alzò la forchetta in direzione della signora Walpole e indicò la porta.

— Venga dentro, non posso lasciare i fornelli. Nell'entrare nella cucina della signora Nash, la signora Walpole si ricor-

dò con vergogna del proprio acquaio, con ancora i piatti da lavare. La si-gnora Nash indossava un vestito da casa straordinariamente pulito e la sua cucina era perfettamente in ordine; la signora Nash era una di quelle donne che riescono a friggere le frittelle senza neppure uno schizzo di grasso.

— Agli uomini, le frittelle piacciono sempre, a mezzogiorno — disse la signora Nash, senza altri preamboli, che evidentemente non riteneva più necessari, dopo avere rivolto alla signora Walpole l'invito di prima. — Cerco sempre di prepararne a sufficienza, ma non ci riesco mai.

— Mi piacerebbe saper fare le frittelle — disse la signora Walpole. La signora Nash, da buona padrona di casa, le indicò la pila di frittelle

già pronte, e la signora Walpole ne accettò una, pensando: So già che mi resterà sullo stomaco.

— Fanno più in fretta a mangiarle che io a cuocerle — osservò la signo-ra Nash.

Guardò con occhio critico le frittelle che cuocevano e poi, constatato che poteva distogliere lo sguardo per qualche momento, ne prese una e comin-ciò a sbocconcellarla, senza allontanarsi troppo dal gas.

— Che cosa le è successo? — chiese. — La vedo molto giù, stamattina. — È per il nostro cane — disse la signora Walpole. — Una persona ha

telefonato che le ha ammazzato quattro galline. La signora Nash annuì. — Su dagli Harris — disse. — Lo so.

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Naturale, pensò la signora Walpole, che ormai sapesse tutto. — Dicono — la informò la signora Nash, tornando a occuparsi delle sue

frittelle — che non si può fare niente, se un cane uccide le galline. Mio fra-tello aveva un cane che uccideva le pecore, e non so che cosa non hanno provato per fargli perdere il vizio, ma naturalmente non ce l'hanno fatta. Una volta assaggiato il gusto del sangue...

La signora Nash sollevò una frittella ormai indorata e la posò su un pez-zo di carta del pane perché si asciugasse.

— ...gli viene questa smania di uccidere — terminò — e si dimenticano perfino di mangiare quello che hanno ucciso.

— Ma cosa posso fare? — domandò la signora Walpole, con una punta di disperazione. — Non c'è proprio niente?

— Può provare, certo — disse la signora Nash. — La prima cosa è le-garla. Tenerla legata, con una catena robusta. Così non può andare in giro ad ammazzare galline, e lei non ha bisogno di ucciderla.

La signora Walpole si alzò con riluttanza e si rimise la sciarpa. — Farò bene a comprare una catena — disse.

— Va in città? — Devo fare la spesa, prima che tornino i bambini da scuola. — Non compri frittelle, giù in negozio — disse la signora Nash. —

Gliene preparo io, un bel piatto. Per quel cane ci vorrà una catena robusta — ripeté.

— Grazie — disse la signora Walpole. Il sole che illuminava la soglia della cucina, il tavolo con i piatti di frit-

telle che asciugavano sulla carta da pane, l'odore gradevole del fritto, erano in un certo modo il simbolo della tranquillità della signora Nash, della sua sicurezza per un modo di vivere che non aveva niente a che vedere con ca-ni che ammazzavano galline, con le paure della gente di città.

Una sicurezza talmente grande e serena, che la signora Nash era disposta a beneficiarne anche i Walpole, portando loro le frittelle e chiudendo di-scretamente un occhio sui loro piatti ancora da lavare.

— Grazie — ripeté la signora Walpole, ma sapeva che le sue parole non sarebbero mai state adeguate.

— Dica a Tom Kittredge che passerò per un arrosto di maiale più tardi — continuò la signora Nash. — Gli dica di tenermelo da parte.

— Certamente. — La signora Walpole si fermò per un istante sulla so-glia, e la signora Nash la salutò con la forchetta.

— Ci vediamo più tardi — le disse.

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Il vecchio White sedeva al sole, sul portico di casa sua. Nel vedere la si-gnora Walpole le rivolse un largo sorriso e le gridò: — Penso che dovrà stare senza cane.

Non devo trattarlo male, pensò la signora Walpole. Non è una spia o un nemico, secondo il metro di misura della campagna; un cane che ammazza le galline, tutti ti direbbero di chi è. Comunque, non vedo perché debba es-sere così soddisfatto, pensò poi, e cercò di non tradire l'irritazione quando gli rivolse la parola e gli disse: — Buon giorno, signor White.

— Gli tira un colpo di schioppo? — s'informò il signor White, alludendo naturalmente al cane. — Suo marito ne ha uno?

— Ero un po' preoccupata per la cosa — disse la signora Walpole. Si fermò davanti al porticato e cercò di non rivelare la sua avversione per quell'uomo.

— Peccato, avere un cane così — disse il signor White. Almeno, non dà la colpa a me, pensò la signora Walpole. — Non ci si può fare niente? — chiese. Il signor White rifletté. — Pensa di riuscire a toglierle il vizio? — disse.

— Prenda una gallina morta e gliela leghi attorno al collo, in modo che il cane non possa togliersela, capito?

— Attorno al collo? — chiese la signora Walpole. Il signor White annuì, e le rivolse un sorriso sdentato. — Capisce, quando vede che non può togliersela, comincia a giocarci.

Ma poi la gallina gli dà fastidio, e il cane si mette a rotolarsi per terra, ma la gallina non viene via. Allora, il cane pensa di non riuscire più a toglier-sela, e prende paura. Comincia a girare con la coda tra le gambe e con quella gallina al collo, e più avanti va la cosa, più diventa peggio.

La signora Walpole si sentì quasi mancare. Dovette appoggiare la mano alla ringhiera del porticato.

— E a questo punto — chiese — che cosa si fa? — Be' — disse il signor White — da come l'hanno detta a me, la gallina

diventa sempre più frolla, e più il cane la vede e sente l'odore, più odia le galline. Non può togliersela, capisce?

— Ma il cane — chiese la signora Walpole — Lady, voglio dire. Per quanto tempo bisogna lasciarle la gallina appesa al collo?

— Be' — disse il signor White, con brio — penso che si deve lasciarla finché va giù da sola. Vede, la testa...

— Ho capito — si affrettò a interromperlo la signora Walpole. — Ma funziona?

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— Non saprei dirlo — rispose il signor White. — Io non l'ho mai fatto. Dal tono di voce pareva volesse dire che non aveva mai avuto un cane

che ammazzava galline, lui. La signora Walpole si affrettò ad andare via. Non riusciva a togliersi di mente che, se non fosse stato per il signor Whi-te, nessuno avrebbe riconosciuto Lady come il cane che ammazzava le gal-line.

Per un istante si chiese se il signor White non avesse fatto il nome di Lady e dei Walpole perché erano gente di città, ma poi si disse: No, im-possibile. Nessuno qui oserebbe recare falsa testimonianza contro un cane.

Quando entrò nell'emporio, il negozio era quasi vuoto. C'erano solo un uomo al banco del vasellame e un altro che parlava con il signor Kittredge, davanti al banco della carne.

Quando il negoziante vide entrare la signora Walpole, le disse, dal fondo del negozio: — Buon giorno, signora Walpole. Bella giornata, vero?

— Già — disse la signora Walpole, e il negoziante commentò: — Pec-cato per il cane.

— Non so proprio cosa fare — confessò la signora Walpole. L'uomo che parlava con il signor Kittredge la studiò per un istante, poi si

girò verso il padrone del negozio e lo guardò con aria interrogativa. — Ha ucciso quattro galline su dagli Harris, questa mattina — spiegò il

negoziante. Il cliente fece un cenno d'assenso, con grande gravità, e disse: — Ah, sì.

Me l'hanno detto. La signora Walpole si fermò davanti al banco della carne e riferì: — La

signora Nash dice di tenerle da parte un arrosto di maiale. Passa più tardi a prenderlo.

— Vado da quella parte — disse l'uomo fermo davanti al banco. — Glielo porto io.

— Bene — disse il negoziante. Poi l'uomo guardò la signora Walpole e disse: — Penso che dovrà am-

mazzarlo, vero? — Speravo di no — disse la signora Walpole, desolata. — Siamo affe-

zionati a quel cane. Il cliente e il negoziante si fissarono per alcuni istanti, e poi il negoziante

disse, in tono ragionevole: — Non si può lasciare in giro un cane che am-mazza le galline, signora Walpole.

— Come qualcuno lo vede — disse il cliente — gli spara una schioppet-tata, e quello non torna più a casa.

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Cliente e negoziante risero. — Ma non c'è un modo per togliergli il vizio? — chiese la signora Wal-

pole. — Certo — disse l'uomo. — Ammazzandolo. — Legargli attorno al collo una gallina morta — suggerì il negoziante.

— Potrebbe servire. — Già, conosco uno che l'ha fatto — disse l'altro. — E la cosa è servita? — chiese con ansia la signora Walpole. L'uomo scosse la testa, lentamente ma con assoluta convinzione. — Be'... — cominciò il negoziante. Si appoggiò al banco per stare più comodo. Quell'uomo era un gran

chiacchierone. — Be' — ripeté — una volta, mio padre aveva un cane che gli mangiava

le uova. Entrava nel pollaio e spaccava le uova, e poi se le leccava. Ci spaccava quasi metà delle uova che avevamo.

— Brutta cosa — annuì il cliente. — Un cane che mangia le uova. — Brutta cosa — confermò il negoziante. Anche la signora Walpole si scoprì ad annuire con la testa. — Alla fine — riprese il negoziante — mio padre non l'ha più sopporta-

to. Metà delle uova, dico, che se ne andava così! Allora ha messo un uovo dietro la stufa, per due o tre giorni, finché quell'uovo è diventato nero, e scottava, e puzzava forte.

"Poi" continuò "e vi dico che a quell'epoca io ero un ragazzino di dodici, tredici anni, ha chiamato il cane, che è arrivato di corsa.

"Io tenevo fermo il cane, e mio padre gli ha aperto la bocca e gli ha cac-ciato dentro l'uovo, caldo e puzzolente com'era, e poi gliel'ha tenuta chiu-sa, e il cane è stato costretto a ingoiare quell'uovo."

Il negoziante rise, e, al ricordo dell'episodio, scosse ancora la testa con meraviglia.

— Scommetto che quel cane non ha più toccato un uovo — disse il cliente.

— Nemmeno più uno — confermò il negoziante, con sicurezza. — Se gli mettevi un uovo davanti al muso, quello scappava via come se avesse visto il diavolo.

— Ma con voi — chiese la signora Walpole — come si è comportato, dopo? Vi veniva ancora vicino?

Sia il negoziante sia l'altro uomo la guardarono. — Cosa intende dire? — chiese il negoziante.

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— Era ancora affezionato a voi? — Be'... — disse il negoziante, e rifletté. — No — disse infine — non mi sembra che lo fosse mai stato. Ma era

un cane che valeva poco, comunque. — C'è una cosa, che lei potrebbe provare — disse all'improvviso l'altro

uomo, rivolto alla signora Walpole. — Se vuole davvero guarire quel cane, c'è una cosa che potrebbe fare.

— Sì? — chiese la signora Walpole. — Prenda il cane — disse l'uomo, gesticolando con la mano — e lo met-

ta in una gabbia, con una chioccia che ha dei pulcini da proteggere. Quan-do la gallina avrà finito, il cane non darà mai più la caccia alle galline.

Il negoziante rise, e la signora Walpole, senza capire, guardò prima lui e poi l'altro uomo, che la fissava senza sorridere, con occhi grandi e gialli come quelli dei gatti.

— Perché, che cosa succede? — chiese la signora Walpole. — Lo becca sugli occhi — disse il negoziante, conciso. — Il cane non è

neppure più in grado di vederla, un'altra gallina! La signora Walpole si sentiva mancare. Con un sorriso, per non sembra-

re maleducata, lasciò il banco della carne e si recò in un'altra parte del ne-gozio.

Il negoziante continuò a parlare con il cliente, e dopo qualche istante la signora Walpole uscì fuori, all'aria aperta. Improvvisamente, sentiva la ne-cessità di tornare a casa e di mettersi a letto fino all'ora di pranzo. Avrebbe fatto la spesa poi, nel pomeriggio.

A casa, però, non si sentì di mettersi sul letto finché non ebbe sparec-chiato e lavato i piatti, e quando ebbe terminato era quasi ora di preparare il pranzo.

Aveva aperto la dispensa e stava pensando a che cosa preparare, quando vide guizzare davanti alla porta una forma scura, e capì che Lady era tor-nata a casa.

Per qualche istante, non riuscì a muoversi e si limitò a fissare il cane. Lady entrò senza abbaiare, come se fosse stata tutta la mattina a giocare sui prati con gli altri cani, ma aveva le zampe sporche di sangue, e bevve con avidità l'acqua.

Il primo impulso della signora Walpole fu quello di sgridare il cane, di tenerlo per la testa e di bastonarlo con la scopa per il fastidio che le aveva dato, per la brutalità assassina che anche un bel cane come Lady sapeva nascondere così bene.

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Poi, guardando Lady che andava tranquillamente a sedere nella sua soli-ta cuccia vicino al forno, scosse la testa con indecisione, prese qualche sca-toletta a caso, dalla dispensa, e la portò sulla tavola.

Lady rimase tranquillamente a cuccia vicino al forno, finché, con il soli-to baccano, non arrivarono i bambini. Allora corse verso di loro, salutan-doli come se fossero degli ospiti, e lei la padrona di casa.

Judy, tirando Lady per le orecchie, disse: — Ehi, mamma, sai che cosa ha fatto Lady? Sei un cane cattivo — disse a Lady — e adesso ti uccidono.

La signora Walpole si sentì di nuovo girare la testa. Si affrettò a mettere un piatto sulla tavola. — Judy Walpole! — redarguì.

— Ma lo è stata davvero, mamma — disse Judy — e devono ammazzar-la.

I bambini non capiscono, pensò la signora Walpole. La morte non è qualcosa di reale, per loro. Cerca di essere ragionevole, si disse.

— Sedetevi a tavola, bambini — disse piano. — Ma, mamma — disse Judy. E Jack intervenne: — È un cane cattivo,

mamma. Si sedettero a tavola, facendo rumore con le sedie, si misero al collo il

tovagliolo e aggredirono il cibo senza guardarlo, ansiosi di raccontare. — Sai cosa ha detto il signor Shepherd, mamma? — chiese Jack, par-

lando con la bocca piena. — Ascolta — disse Judy. — Te lo diciamo noi. Il signor Shepherd era un uomo simpatico che abitava vicino ai Walpole.

Ogni tanto dava ai bambini qualche piccola mancia e li portava a pesca. — Dice che bisogna sparare a Lady — riferì Jack. — Le punte — disse Judy. — Parlale delle punte. — Le punte — ripeté Jack. — Senti, mamma, dice che devi prendere un

collare per Lady... — Un collare grosso — disse Judy. — E dei chiodi lunghi, con la punta, e li pianti nel collare. — Tutt'attorno — disse Judy. — Lascia parlare me, Jack. Pianti quei

chiodi in tutto il collare, perché all'interno devono venire fuori le punte. — Ma il collare dev'essere largo — disse Jack. — Questa parte la rac-

conto io. Il collare è largo, e tu lo metti attorno al collo di Lady... — E... — Judy si portò la mano alla gola ed emise un suono strangolato. — Non ancora — disse Jack. — Aspetta a dirlo, stupida. Prima, devi

prendere una corda lunga lunga. — Sì, una corda lunga lunga lunga — precisò Judy.

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— E la leghi al collare e poi lo metti al collo a Lady — disse Jack. Lady si era accucciata vicino a lui; il bambino si girò verso il cane e gli

disse: — Tra un po', ti mettiamo al collo tutti quei chiodi con la punta. E, così dicendo, si abbassò a baciarle la testa, mentre Lady scodinzolava

e lo guardava affettuosamente. — Poi la portiamo dove ci sono le galline — disse Judy — e gliele fac-

ciamo vedere, e le diciamo di correre. — La facciamo correre dietro le galline — disse Jack. — E poi, quando

sta per arrivare a prenderle, noi tiriamo la corda... — E... — Judy si portò di nuovo la mano alla gola, fingendo che la

strangolassero. — Le punte le tagliano la testa — terminò Jake. Tutt'e due scoppiarono a ridere, e anche Lady, che continuava a guardare

prima l'uno e poi l'altra, prese ad ansimare come se ridesse. La signora Walpole li guardò tutt'e tre: i due bambini con le mani dure e

la faccia abbronzata che ridevano, il cane con le zampe ancora sporche di sangue che rideva con loro.

Poi si avvicinò alla porta per guardare fuori, e posò lo sguardo sulle montagne fresche e verdeggianti, osservò i rami del melo agitati dal venti-cello pomeridiano.

— Ti taglia via la testa — spiegava Jack. Tutto era tranquillo e incantevole, sotto i tiepidi raggi del sole: il cielo

sereno, la linea delicata delle montagne. La signora Walpole chiuse gli oc-chi, e subito sentì le mani dure che la spingevano a terra, le punte acumina-te che le si piantavano in gola.

Titolo originale: The Renegade (1948).

Dopo di te, mio caro Alphonse La signora Wilson stava togliendo la torta dal forno quando sentì che

Johnny, davanti alla porta d'ingresso, parlava con qualcuno. — Johnny — lo chiamò — è tardi. Vieni a pranzo. — Un momento, mamma — rispose Johnny. — Dopo di te, mio caro

Alphonse. — No. Dopo di te, mio caro Alphonse — disse un'altra voce. — Niente affatto. Dopo di te, mio caro Alphonse — disse Johnny. La signora Wilson aprì la porta.

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— Johnny — disse — vieni subito a pranzo. Avrai tutto il tempo di gio-care dopo che avrai mangiato.

Johnny entrò dopo di lei, senza fretta. — Mamma — disse — ho invitato Boyd a mangiare con noi. — Boyd? — rifletté per un istante la signora Wilson. — Non mi sembra

di conoscere il tuo amico Boyd. Allora, digli di entrare, caro, se lo hai invi-tato. È pronto.

— Boyd! — esclamò Johnny. — Boyd, vieni! — Arrivo, arrivo. Devo solo posare questa roba. — Sbrigati, altrimenti mia madre ti sgrida — disse Johnny. — Johnny, parlare così è maleducato nei riguardi del tuo amico, e anche

di tua madre — disse la signora Wilson. — Accomodati, Boyd. Quando si girò per mostrare a Boyd dove si doveva sedere, la signora

Wilson vide che era un bambino nero, un po' più piccolo di Johnny, ma circa della stessa età. Aveva le braccia cariche di pezzi di legna da brucia-re, e chiese:

— Dove la devo mettere, questa roba, Johnny? La signora Wilson si girò verso il figlio. — Johnny — disse — che cosa hai fatto portare a Boyd? Cos'è questa

legna? — Giapponesi morti — disse Johnny. — Li mettiamo in piedi sulla ter-

ra, e poi li schiacciamo con i carri armati. — Come sta, signora Wilson? — chiese Boyd. — Come stai, Boyd? Non dovevi permettere a Johnny di farti portare

tanta legna. Sedetevi, adesso, tutt'e due, e mangiate. — Perché non doveva portare la legna, mamma? È sua. L'abbiamo presa

a casa sua. — Johnny — disse la signora Wilson — mangia. — Certo — disse Johnny. Porse a Boyd il piatto di uova strapazzate. —

Dopo di te, mio caro Alphonse. — No. Dopo di te, mio caro Alphonse — disse Boyd. — Niente affatto. Dopo di te, mio caro Alphonse — ribatté Johnny. Tut-

t'e due cominciarono a ridere. — Hai fame, vero, Boyd? — chiese la signora Wilson. — Sì, signora Wilson. — Be', non dare retta a Johnny. Lui fa sempre delle storie, quando è a

tavola, perciò, cerca di mangiare almeno tu. Ce n'è a sufficienza per un buon pasto, non preoccuparti, mangia tutto quello che vuoi.

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— Grazie, signora Wilson. — Avanti, Alphonse — disse Johnny. Versò metà delle sue uova nel

piatto di Boyd; questi guardò la signora Wilson posare accanto al suo piat-to una porzione di pomodori.

— Boyd non mangia i pomodori. Vero, Boyd? — disse Johnny. — Johnny, solo perché non piacciono a te, non devi dire questo di Boyd.

Boyd mangia di tutto. — No, mamma — disse Johnny, portandosi alla bocca una forchettata di

uova. — Boyd vuole crescere, per diventare forte e fare tanto lavoro — disse

la signora Wilson. — Scommetto che il padre di Boyd mangia i pomodori. — Mio padre mangia le cose che gli piacciono — disse Boyd. — Anche il mio — disse Johnny. — E a volte non mangia niente. Però,

non è molto grande. Non farebbe male a una mosca. — Anche il mio non è molto grande — disse Boyd. — Scommetto che però è molto forte — disse la signora Wilson. E poi,

dopo un attimo di esitazione: — Lui... lavora, vero? — Certo — disse Johnny. — Il padre di Boyd lavora in una fabbrica. — Ecco, vedi? — disse la signora Wilson. — E deve essere forte, per

farlo... deve sollevare e trasportare tanti pesi, nella sua fabbrica. — Il padre di Boyd non ha bisogno di farlo — disse Johnny. — E il ca-

posquadra. La signora Wilson si sentì sconfitta. — E tua madre, Boyd, che cosa fa? — Mia madre? — fece Boyd, sorpreso. — Si occupa di noialtri. — Ah, allora non lavora? — E perché dovrebbe lavorare? — chiese Johnny, mangiando un'altra

forchettata di uova. — Tu non lavori. — Non vuoi i pomodori, Boyd? — No, grazie, signora Wilson — disse Boyd. — No, grazie, signora Wilson, no, grazie, signora Wilson — lo scim-

miottò Johnny. — La sorella di Boyd, però, tra poco andrà a lavorare. Fa l'insegnante.

— È davvero una bella cosa che sia così portata per lo studio, Boyd — disse la signora Wilson, e dovette fare uno sforzo per non dargli una pacca affettuosa sulla testa. — Immagino che siate orgogliosi di lei, vero?

— Penso di sì — disse Boyd. — E tutti gli altri tuoi fratelli e sorelle? Penso che vogliano raggiungere

il livello più alto che possono raggiungere.

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— Ci siamo solo io e mia sorella Jean — disse Boyd. — Io non so anco-ra cosa farò, quando sarò grande.

— Guideremo i carri armati. Io e Boyd — disse Johnny. — Zam! La signora Wilson afferrò istintivamente il bicchiere di latte di Boyd,

mentre l'anello del tovagliolo di Johnny, trasformatosi all'improvviso in un carro armato, partiva rotolando sulla tovaglia.

— Attento, Johnny — disse Boyd. — Questa è una trincea. Ti sto spa-rando addosso.

Con la velocità che nasce dalla lunga esperienza, la signora Wilson prese la torta e la posò tra il carro armato e la trincea.

— Adesso, mangiane quanto vuoi, Boyd — disse la signora Wilson. — Voglio vederti mangiare.

— Boyd mangia tanto — disse Johnny — ma meno di me. Io sono più grande.

— Be', mica tanto — disse Boyd. — A corsa, ti batto sempre. La signora Wilson trasse un profondo respiro. — Boyd — disse. I due ragazzi si voltarono verso di lei. — Boyd, Johnny ha dei vestiti che gli sono diventati stretti, e anche un

soprabito invernale. Non è nuovo, naturalmente, ma si può ancora portare. E io ho dei vestiti che forse possono servire a tua madre e a tua sorella. Tua madre può ripararli, e io sarei lieta di darveli. Prima di andare via, ti farò un pacco, e tu e Johnny lo porterete a tua madre...

S'interruppe nel vedere l'aria sorpresa di Boyd. — Ma io ho un mucchio di vestiti, grazie — disse Boyd. — E non credo

che mia madre sappia cucire molto bene, ma penso che se ci serve qualco-sa possiamo comprarlo. Grazie lo stesso, comunque.

— Non abbiamo tempo di portare in giro quella roba vecchia, mamma — disse Johnny. — Oggi dobbiamo andare a giocare con gli amici.

La signora Wilson portò via il vassoio con la torta mentre Boyd stava per prenderne un'altra fetta.

— Ci sono tanti bambini come te, Boyd — disse — che sarebbero con-tenti di avere dei vestiti, se qualcuno avesse la gentilezza di regalarglieli.

— Se proprio vuoi, Boyd può prenderli — disse Johnny. — Non volevo farla arrabbiare, signora Wilson — disse Boyd. — Oh, non sono arrabbiata, Boyd. Solo, mi hai un po' deluso. Non par-

liamone più.

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Cominciò a sparecchiare la tavola, e Johnny prese Boyd per la mano e lo tirò verso la porta.

— Ciao, mamma — disse Johnny. Boyd rimase immobile per qualche istante, fissando la signora Wilson

che gli girava la schiena. — Dopo di te, mio caro Alphonse — disse Johnny, aprendo la porta. — Tua madre è ancora arrabbiata? — chiese Boyd; la signora Wilson lo

sentì distintamente, anche se aveva parlato a bassa voce. — Oh, non so — rispose Johnny. — A volte è proprio strana. — Anche la mia — disse Boyd. Esitò per qualche istante, poi disse: —

No. Dopo di te, mio caro Alphonse. Titolo originale: After you, My Dear Alphonse (1943).

Charles Il giorno che mio figlio Laurie cominciò a frequentare l'asilo, lasciò de-

finitivamente le tute con le bretelle e si mise per la prima volta i blue jeans con la cintura; la prima mattina, quando lo guardai andare via, insieme con la bambina della porta accanto, che era più vecchia di lui, capii che un'e-poca della mia vita terminava quel giorno, e che il mio piccolino del giar-dino d'infanzia, dalla vocina dolce, era adesso un duro dai calzoni lunghi, che non si fermava neppure all'angolo per salutarmi con la mano.

Tornò a casa allo stesso modo, sbattendo la porta, e gettò a terra il cap-pello per dire con voce roca: — C'è nessuno, qui dentro?

A pranzo rispose al padre, versò il latte della sorellina e poi commentò che la maestra insegnava a non dire il nome di Dio invano.

— Com'è andata la scuola, oggi? — chiesi io, con aria di studiata indif-ferenza.

— Bene. — Cos'hai imparato? — chiese suo padre. Laurie lo squadrò con freddezza. — Niente. — Davvero? — feci io. — La maestra ha sgridato un bambino — disse Laurie, guardando il pa-

ne e burro. — Perché disturbava — aggiunse, con la bocca piena. — Cosa faceva? — chiesi io. — Chi è? Laurie rifletté. — È stato Charles — disse. — Disturbava. L'insegnante lo ha sculaccia-

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to e lo ha messo in castigo. Disturbava tutti. — Che cosa ha fatto? — chiesi di nuovo, ma Laurie si alzò dalla seggio-

la, si cacciò in bocca un biscotto e corse via, mentre suo padre gridava: — Ehi, giovanotto, non si fa così!

L'indomani, a pranzo, Laurie raccontò, come aveva fatto il giorno prima, non appena si fu seduto: — Be', Charles è stato di nuovo cattivo.

Fece un largo sorriso e spiegò: — Oggi Charles ha colpito la maestra. — Santo Cielo — dissi, ricordandomi che non si doveva pronunciare in-

vano il nome di Dio. — Suppongo che si sia preso un'altra sculacciata. — Certo — disse Laurie. — Guarda qua — disse a suo padre. — Come? — chiese suo padre, guardandolo. — Guarda là — disse Laurie. — Guarda il mio dito. Oh, sei proprio uno

scimunito. E scoppiò a ridere come un pazzo. — Perché Charles ha colpito la maestra? — chiesi subito. — Perché voleva farlo disegnare con la matita rossa — disse Laurie. —

Charles voleva disegnare con quella verde, e allora l'ha tirata addosso alla maestra, e lei lo ha sculacciato e ha detto che nessuno doveva giocare con Charles, ma tutti ci hanno giocato lo stesso.

Il terzo giorno, il mercoledì della prima settimana, Charles lanciò l'alta-lena sulla testa di una bambina e la fece sanguinare, e la maestra lo obbligò a stare nella classe per tutto il tempo della refezione. Giovedì Charles do-vette stare nell'angolo mentre raccontavano le fiabe perché continuava a battere i piedi sul pavimento. Venerdì Charles perse il diritto di scrivere al-la lavagna perché lanciava i gessetti.

Quel sabato dissi a mio marito: — Pensi che l'asilo abbia un brutto effet-to su Laurie? Risponde, parla sgrammaticato, e poi c'è quel Charles che gli dà il cattivo esempio.

— Oh, vedrai che tutto andrà a posto — rispose mio marito. — Il mondo è pieno di gente come Charles. Meglio incontrarli subito.

Lunedì, Laurie tornò a casa in ritardo, e con grandi notizie. — Charles — gridò, quando arrivò in vista della casa; io lo aspettavo

sulla soglia. — Charles — Laurie continuò a gridare — Charles è stato di nuovo cat-

tivo. — Vieni dentro — gli dissi, quando arrivò vicino a me. — È pronto. — Sai cosa ha fatto Charles? — chiese, quando entrò. — Charles grida-

va talmente forte che dalla prima è venuto un bambino a dire di farlo stare

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zitto, e la maestra lo ha costretto a rimanere in classe dopo la campanella. Così, anche gli altri bambini sono rimasti a guardarlo.

— Che cosa ha fatto? — chiesi. — Niente. È rimasto lì seduto — disse Laurie, mettendosi a sedere. —

Ehi papà, sei un baccalà. — Charles si è dovuto fermare a scuola dopo l'uscita — spiegai a mio

marito. — Anche gli altri bambini sono rimasti in classe. — Com'è questo Charles? — chiese mio marito, rivolto a Laurie. — Che

cognome ha? — È più grande di me — disse Laurie. — Non ha le scarpe di gomma e

si toglie la giacca. Quel lunedì c'era l'incontro con la maestra, ma non potei partecipare per-

ché la bambina piccola aveva il raffreddore; avrei voluto vedere la madre di Charles. Quel martedì, Laurie disse: — La maestra ha chiamato una per-sona, oggi.

— La mamma di Charles? — domandammo contemporaneamente io e mio marito.

— Macché — rispose Laurie, con aria sprezzante. — Era un uomo, e ci ha fatto fare degli esercizi, dovevamo toccarci la punta dei piedi. Guarda.

Scese dalla seggiola e si accoccolò a terra, poi si prese il piede in mano. — Così — disse. Tornò a sedere, con grande serietà, e disse, riprenden-

do in mano la forchetta: — Charles non li ha fatti, gli esercizi. — Meglio così — dissi, convinta. — Charles non aveva voglia di farli? — No — disse Laurie. — Charles disobbediva, e allora l'uomo non gli

ha permesso di farli. — Disobbediva? — chiesi io. — Gli ha dato un calcio — disse Laurie. — L'uomo ha detto a Charles

toccati la punta dei piedi, come faccio io, e Charles gli ha dato un calcio. — Cosa intendono fare, con questo Charles? — chiese suo padre, rivolto

a Laurie. Lui alzò ostentatamente le spalle. — Lo mandano via dalla scuola, penso

— disse. Mercoledì e giovedì le solite cose: Charles che gridava durante l'ora del-

la favola, e Charles che colpiva un altro bambino allo stomaco e lo faceva piangere. Venerdì Charles dovette fermarsi dopo il suono della campanella e come lui fecero tutti i compagni.

Giunti alla terza settimana di asilo, Charles era già una sorta di istituzio-ne familiare; la bambina faceva la Charles quando piangeva per tutto il

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pomeriggio; Laurie faceva il Charles quando riempiva di terra il carrettino e lo portava in giro per la casa. Anche mio marito, quando inciampò nel fi-lo del telefono e tirò a terra telefono, portacenere e un vaso di fiori, disse, dopo un istante: — Sono stato proprio un Charles.

Nel corso della terza e della quarta settimana avvenne però in Charles una sorta di trasformazione. Laurie riferì tristemente, il giovedì della terza settimana: — Charles è stato così bravo, oggi, che la maestra gli ha dato una mela.

— Come? — feci io, e mio marito disse, circospetto: — Hai proprio det-to Charles?

— Sì, Charles — disse Laurie. — Ha dato le matite ai compagni e poi ha raccolto i quaderni degli altri. La maestra ha detto che era il suo aiutante.

— Ma com'è successo? — chiesi io, incredula. — L'ha aiutata, tutto qui — disse Laurie, e alzò le spalle. — Che sia vero, di Charles? — chiesi a mio marito, quella sera. — Ti

sembra che possa succedere una cosa simile? — Aspettiamo, prima di parlare — rispose lui, cinico. — Quando hai

per le mani un Charles, c'è da sospettare che sia tutto un trucco. Ma, a quanto pare, si sbagliava. Per più di una settimana, Charles fece da

aiutante alla maestra; tutti i giorni distribuì le matite e i giochi ai compa-gni, e poi li ritirò. Nessuno dovette fermarsi dopo la campanella.

— La prossima settimana c'è di nuovo l'incontro con la maestra — dissi una sera a mio marito. — Voglio parlare con la mamma di Charles.

— Chiedile che cosa è successo a Charles — disse mio marito. — Sono curioso di saperlo.

— Sono curiosa anch'io — dissi. Ma il venerdì di quella settimana, parve che le cose fossero ritornate alla

normalità. — Sai cos'ha fatto Charles, oggi? — disse Laurie, a tavola, con voce un

po' esitante. — Ha detto a una bambina di ripetere una parola, e lei l'ha detta, così la maestra le ha fatto lavare la bocca con il sapone e Charles si è messo a ridere.

— Che parola? — chiese suo padre, poco saggiamente, e Laurie rispose: — Devo dirtela all'orecchio, tanto è brutta.

Si alzò e si avvicinò al padre, che piegò la testa verso di lui. Laurie disse una parola e suo padre sgranò gli occhi.

— Charles ha detto a una bambina di ripetere quella parola? — chiese poi, aggrottando la fronte.

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— L'ha ripetuta due volte. Charles le aveva detto di dirla due volte — spiegò Laurie.

— E a Charles, che cosa è successo — chiese mio marito. — Niente — rispose Laurie. — Lui distribuiva le matite. Lunedì mattina Charles rinunciò a servirsi della bambina e disse di per-

sona la parolaccia, tre o quattro volte, e ogni volta la maestra gli fece lava-re la bocca con il sapone. Inoltre tirò i gessetti.

Mio marito mi accompagnò fino alla porta, quella sera, prima di andare all'incontro con la maestra.

— Invitala a prendere il tè, dopo la riunione — mi disse. — Voglio ve-dere che tipo è.

— Augurandoci che ci sia — dissi, poco convinta. — Oh, ci sarà di sicuro — disse mio marito. — Che incontro con i geni-

tori sarebbe, senza la mamma di Charles? Alla riunione, continuai a studiare le facce soddisfatte delle altre madri,

per capire chi di loro nascondesse il segreto di Charles. Nessuna mi parve sufficientemente sospetta. Nessuna prese la parola per scusarsi del com-portamento del figlio. Nessuna fece parola di Charles.

Dopo la riunione andai a parlare con la maestra di Laurie. Lei aveva in una mano un piattino con la tazza del tè e nell'altro un secondo piattino con la torta al cioccolato, io avevo in mano un piattino col tè e un altro con la torta alla crema. Ci spostammo con grande cautela per non rovesciarli, e ci sorridemmo.

— Ero ansiosa di conoscerla — dissi. — Sono la mamma di Laurie. — Laurie interessa a tutte noi — disse. — Be', l'asilo deve piacergli davvero — dissi. — Ne parla continuamen-

te. — Ha avuto qualche problema ad abituarsi, la prima settimana o giù di lì

— disse lei, con severità — ma adesso è un bravo aiutante. Con qualche ricaduta occasionale, naturalmente.

— In genere, Laurie fa in fretta ad abituarsi — dissi. — Suppongo che questa volta sia colpa dell'influenza di Charles.

— Charles? — Sì — dissi, ridendo — lei deve avere il suo daffare, con quel Charles. — Charles? — ripeté lei. — In classe non c'è nessun Charles. Titolo originale: Charles (1948).

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Pomeriggio tra i lini Era una stanza lunga e fresca, bene arredata e ben disposta, con i fiori al-

le finestre e la loro gradevole ombra sul pavimento. Al suo interno, tutti vestivano di lino: la bambina con il vestito di lino

rosa e l'ampia cintura azzurra; la signora Kator con un abito di lino marro-ne e un ampio cappello di lino giallo; la signora Lennon, nonna della bam-bina, con un abito di lino bianco; e il figlio della signora Kator, Howard, che indossava una camicia azzurra di lino e i calzoni corti.

Come in Alice attraverso lo specchio, pensò la bambina, guardando la nonna; nel libro c'era un tale che era vestito di carta bianca. Io sono vestita di carta rosa, invece.

Anche se la signora Lennon e la signora Kator abitavano a pochi portoni di distanza e si vedevano tutti i giorni, quella era una visita in pompa ma-gna, e di conseguenza bevevano il tè.

Howard sedeva al piano, in fondo alla stanza, davanti alla finestra più grande. Suonava Humoresque con un tocco troppo attento, e con un tempo troppo lento. Io la suonavo lo scorso anno, pensò la bambina; è in sol.

La signora Lennon e la signora Kator tenevano in mano le tazze ancora piene, e ascoltavano le note imprecise di Howard e lo guardavano. Di tanto in tanto si scambiavano un'occhiata e sorridevano. Io saprei suonarla me-glio, se ne avessi voglia, pensò la bambina.

Quando ebbe finito, Howard si alzò e si sedette con aria compunta ac-canto alla bambina, in attesa che la madre gli dicesse di suonare un altro pezzo oppure di smettere. È più grande di me, pensò la bambina, ma io so-no più vecchia. Io ho dieci anni. Se mi chiedessero di suonare il piano, di-rei di no.

— Penso che suoni molto bene, Howard — disse la nonna della bambi-na.

Poi, per alcuni istanti, scese un silenzio pesantissimo. Infine, la signora Kator disse: — Howard, la signora Lennon ha parlato con te. Howard mormorò qualcosa e abbassò gli occhi.

— Penso che stia imparando bene — disse la signora Kator, rivolta alla signora Lennon. — Non gli piace fare gli esercizi, ma mi pare che suoni già bene.

— Harriet invece ama esercitarsi — disse la nonna della bambina. — Siede al piano per ore, inventando motivetti e cantandoli.

— Probabilmente ha un vero talento per la musica — disse la signora

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Kator. — Spesso mi chiedo se Howard faccia davvero tutto quello che po-trebbe fare, nel campo musicale.

— Harriet — disse la signora Lennon, rivolta alla bambina — perché non suoni qualcosa per la signora Kator? Suona uno di quei tuoi motivetti.

— Non ne conosco — disse la bambina. — Ma sì, che li conosci, cara — disse la nonna. — Mi piacerebbe sentire uno dei motivetti inventati da te, Harriet —

disse la signora Kator. — Non ne conosco nessuno — disse di nuovo la bambina. La signora Lennon guardò la signora Kator e alzò le spalle. Questa fece

un cenno d'assenso, mormorò: — È timida — e tornò a guardare con orgo-glio Howard.

La nonna della bambina, però, serrò le labbra in un sorriso dolce e tirato. — Harriet cara — disse — anche se non vuoi suonare le tue musiche,

dovresti dire alla signora Kator che la musica non è il tuo forte. Dovresti farle vedere le belle cose che fai in altri campi.

E continuò, rivolgendosi questa volta alla signora Kator: — Harriet ha scritto molte poesie. Voglio chiederle di recitargliele, perché mi pare, an-che se forse sono un po' prevenuta... — a questo punto rise, in tono di scu-sa — ...anzi, anche se probabilmente sono davvero prevenuta, che siano davvero belle.

— Allora, santo Cielo, sì! — disse la signora Kator. Fissò Harriet con a-ria compiaciuta. — Ma come, cara, non mi avevano mai detto che sai fare tante belle cose! Mi piacerebbe immensamente ascoltarle.

— Recita una delle tue poesie alla signora Kator, Harriet. La bambina fissò la nonna, che continuava a sorridere, e la signora Ka-

tor, che si sporgeva verso di lei, e Howard, che sedeva a bocca aperta, con l'aria divertita.

— Non ne so nessuna — disse. — Harriet — disse la nonna — anche se non le sai a memoria, le hai

scritte nei tuoi fogli. Sono certa che alla signora Kator non importa affatto, anche se gliele leggi invece di recitarle a memoria.

Howard, divertito dalla cosa, non riuscì più a resistere e sbottò: — Poe-sie! — Scoppiò a ridere. — Harriet scrive le poesie!

Lo dirà a tutti i ragazzi del quartiere, pensò la bambina. — Ho l'impressione che Howard sia un po' geloso — disse la signora

Kator. — Bah — disse Howard. — Io non scriverei mai una poesia. Scommetti

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che non riusciresti a farmela scrivere, neppure se ci provassi? — Non riuscirebbero neppure a farne scrivere a me — disse la bambina.

— Quella delle poesie è tutta una bugia. Scese un lungo silenzio. Poi la nonna della bambina disse con tristezza:

— Ma come, Harriet! — Dire una cosa simile alla tua cara nonna! — intervenne la signora Ka-

tor. — Penso che dovresti chiedere scusa, Harriet — disse la nonna. E la si-

gnora Kator: — Sarebbe il minimo che potresti fare. — Io non ho fatto niente — mormorò la bambina. — Mi dispiace per

voi. La nonna disse con severità: — Adesso, va' a prendere le poesie e leggi-

le alla signora Kator! — Nonna, non ne ho, davvero — disse la bambina, disperata. — Davve-

ro, non ho nessuna delle poesie che dici tu. — Bene, allora le ho io — disse la nonna. — Portami quel che hai nel

primo cassetto della tua scrivania. La bambina esitò per un istante, studiando l'espressione decisa della

nonna, la sua fronte aggrondata e le labbra strette. — Può andare a prenderle Howard, signora Lennon — propose la signo-

ra Kator. — Certo — disse Howard. Balzò in piedi e corse alla scrivania, aprì il tiretto e chiese: — Dove so-

no? — In una busta — disse la nonna, con ira. — Una busta marrone con

scritto: "Poesie di Harriet". — Trovata! — esclamò Howard. Ne estrasse qualche foglio e prese a

leggerlo. — Toh — disse — le poesie di Harriet... sono sulle stelle! Corse dalla madre, ridendo e dicendo: — Ascolta, mamma, Harriet scri-

ve poesie sulle stelle! — Dàlle alla signora Lennon, caro — disse la madre di Howard. — È

maleducazione aprire le buste degli altri. La signora Lennon prese la busta e i fogli e li mostrò a Harriet. — Leggi tu o devo leggere io? — chiese. Harriet scosse la testa. Con un sospiro, la nonna guardò la signora Kator e prese il primo foglio.

La signora Kator si sporse verso di lei, ansiosa; Howard si sedette per ter-ra, sforzandosi di non ridere.

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Poi la nonna si schiarì la gola, sorrise a Harriet e cominciò a leggere. — La stella della sera — annunciò. Quando la sera discende e il buio sul mondo si stende e il verso del gufo si leva e il vento le fronde solleva, io cerco la prima favilla che spunta nel gran firmamento poi scorgo il suo raggio d'argento ed ecco, una stella già brilla! A quel punto, Howard non riuscì più a trattenersi. — Harriet scrive poesie sulle stelle! — rise. — Ma è incantevole, cara Harriet! — disse la signora Kator. — Ti dico

che è davvero incantevole, onestamente. Non vedo perché devi essere così timida...

— Hai capito, Harriet? — disse la signora Lennon. — La signora Kator dice che la tua poesia è molto bella. Adesso, non ti pare di essere stata una sciocchina a fare tante storie?

Lo andrà a raccontare a tutti i ragazzi del quartiere, pensava Harriet. — Non l'ho scritta io — disse allora. — Ma cosa dici, Harriet! — rise la nonna. — Non devi essere tanto mo-

desta, bambina mia. Tu scrivi poesie bellissime. — Le ho copiate tutte da un libro — disse Harriet. — Le ho trovate su

un libro e le ho copiate, poi le ho fatte leggere alla mia vecchia nonna e le ho detto di averle scritte io.

— Non credo che faresti mai una cosa simile, Harriet — disse la signora Kator, perplessa.

— Ho fatto proprio così — ripeté la bambina, con ostinazione. — Le ho copiate da un libro.

— Harriet, non ci credo — disse la nonna. Harriet guardò Howard, che la fissava con ammirazione. — Le ho copiate da un libro — gli spiegò. — L'ho trovato in biblioteca,

una volta. — Non capisco perché dice cose simili — ripeté la signora Lennon, ri-

volta alla signora Kator, che scosse la testa. — Era un volume intitolato... — Harriet rifletté per qualche istante —

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...intitolato Il libro delle poesie per la famiglia — disse. — Si chiamava proprio così. E ho copiato tutto. Non ne ho scritto neppure una.

— Harriet, è vero? — chiese la nonna. Si voltò verso la signora Kator. — Temo di doverle chiedere scusa da

parte di Harriet, e d'averla tratta in inganno leggendole la poesia. Non pen-savo che la bambina m'ingannasse.

— Oh, a quell'età lo fanno sempre. Vogliono richiamare la nostra atten-zione e ricevere lodi, e per averle sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa. Ma sono certa che Harriet non l'ha fatto... be', con malizia.

— E invece, sì — disse Harriet. — Volevo far credere di averle scritte io. Ve l'ho detto, le ho copiate apposta.

Tolse la busta di mano alla nonna, che non fece resistenza. — E adesso, non le leggerai più neanche tu — terminò, nascondendosi

la busta dietro la schiena, lontano da tutti. Titolo originale: Afternoon in Linen (1943).

Il bel giardino fiorito Dopo essere vissute insieme in una vecchia casa del Vermont per quasi

undici anni, le due signore Winning, suocera e nuora, avevano finito per assomigliarsi, come succede alle donne che vivono insieme e lavorano nel-la stessa cucina e fanno i lavori di casa nella stessa maniera.

Anche se la giovane signora Winning era nata Talbot e aveva corti ca-pelli neri, lei era adesso ufficialmente una Winning, apparteneva alla più antica famiglia della città, e i suoi capelli cominciavano a ingrigirsi dove si erano ingrigiti per primi quelli della suocera, alle tempie.

Entrambe avevano lineamenti fini e affilati e mani comunicative; a volte, quando lavavano i piatti o sgusciavano i piselli o lucidavano insieme l'ar-genteria, le loro mani, che si muovevano in fretta e con gli stessi gesti, comunicavano con maggiore facilità della loro mente.

La giovane signora Winning pensava a volte che, quando sedeva a fare colazione accanto alla suocera e con vicino a lei la figlia sul seggiolone, il loro gruppo assomigliava a qualche vecchia incisione su legno del New England: madre, figlia e nipote, con sullo sfondo lo scoglio di Plymouth o il Concord Bridge.

Quel giorno, come tante altre mattine quando faceva freddo, avevano in-dugiato davanti al caffè, poco desiderose di lasciare la grossa cucina, con

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la sua stufa a carbone e la piacevole atmosfera di cibo e di pulizia, e sede-vano insieme in silenzio, come succedeva a volte anche dopo che la bam-bina aveva finito da tempo la colazione e ormai giocava tranquilla nel suo angolo, dove innumerevoli piccole Winning avevano giocato con gli stessi giocattoli contenuti nella stessa pesante cassa di legno.

— Sembra che la primavera non si decida mai a venire — disse la gio-vane signora Winning. — Sono stanca del freddo.

— Deve fare freddo, per una parte dell'anno — disse la suocera. Si alzò e cominciò a muoversi in fretta, mettendo in pila i piatti, per in-

dicare che il tempo dell'ozio era finito ed era giunto il momento di lavora-re.

La giovane signora Winning, che si alzò immediatamente per aiutarla, pensò per la millesima volta che la suocera non avrebbe mai rinunciato alla posizione di autorità nella propria casa, finché fosse stata capace di muo-versi.

— E mi piacerebbe che qualcuno andasse a stare nel vecchio cottage — aggiunse la giovane signora Winning.

Si fermò accanto alla dispensa, con in mano un tovagliolo, e aggiunse: — Se qualcuno andasse ad abitarci questa primavera...

La giovane signora Winning, molto tempo prima, avrebbe voluto com-prare il cottage, perché suo marito lo sistemasse per loro, ma adesso, abi-tuata alla vecchia e grande casa in cima alla collina, dove la famiglia del marito abitava da generazioni, provava solo un forte affetto nei riguardi del piccolo cottage e desiderava vederci felicemente sistemata qualche giova-ne coppia.

Quando aveva sentito che il cottage era stato venduto, come tante altre vecchie case in quell'epoca in cui non si trovavano case nuove, aveva cer-cato di giorno in giorno le tracce dell'arrivo di qualcuno; tutte le mattine aveva osservato il camino per vedere se usciva del fumo, e tutti i giorni, quando scendeva a fare le compere, aveva cercato qualche segno di movi-mento all'interno del cottage.

Il cottage era stato venduto a gennaio, e adesso, dopo quasi due mesi, anche se sembrava più bello e più nuovo, con la neve che copriva delica-tamente il giardino pieno di erbacce e i ghiaccioli alle finestre, era ancora vuoto, abbandonato fin dal giorno in cui, tanto tempo prima, la signora Winning aveva rinunciato ad abitarvi.

La signora Winning ripose i tovaglioli e si voltò per staccare un foglio dal calendario prima di prendere un canovaccio e di andare ad aiutare la

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suocera a lavare i piatti. — E siamo già a marzo — disse, irritata. — Al negozio, ieri — riferì la suocera — mi hanno detto che questa set-

timana cominciavano a riverniciare il cottage. — Allora, significa che arriva qualcuno! — Non credo che ci mettano più di quindici giorni, a dare la tinta a quel-

la piccola casa — commentò la vecchia signora Winning. Si giunse quasi ad aprile, però, prima che i nuovi proprietari si trasferis-

sero nel cottage. La neve si era quasi sciolta e l'acqua correva lungo le strade in fiumiciat-

toli gelidi. Il terreno era scivoloso e ostacolava il cammino, il cielo era gri-gio. Nel giro di un mese, il primo sorprendente verde sarebbe apparso sugli alberi e sul terreno, ma per gran parte del mese d'aprile avrebbe continuato a piovere, e forse sarebbe anche nevicato.

Il cottage era stato tinteggiato all'interno, ed era stata cambiata la carta da parati. Gli scalini davanti all'ingresso erano stati riparati e i vetri rotti erano stati sostituiti. Nonostante il cielo grigio e le macchie di neve sporca, il cottage sembrava più nuovo e più saldo, e gli imbianchini avrebbero cominciato a lavorare all'esterno non appena il tempo si fosse fatto più bel-lo.

La signora Winning, ferma davanti al cottage, cercò di ricordare come avrebbe voluto sistemarlo lei, anni prima, quando pensava di abitarci.

Aveva pensato di piantare le rose davanti al porticato, e di riempire di fiori il giardino, e questo si poteva ancora fare. Aveva pensato di tinteggia-re l'esterno di bianco, e anche questo si poteva ancora fare.

Da quando il cottage era stato venduto, lei non vi era più entrata, ma ri-cordava le sue piccole stanze, con le finestre affacciate sul giardino che po-tevano essere così allegre con tendine e vasi da fiori, la piccola cucina che lei avrebbe voluto tingere di giallo, le due camere da letto con il soffitto inclinato, sotto il tetto.

La signora Winning guardò il cottage a lungo, ferma sul sentiero coperto di fango; poi si diresse lentamente verso l'emporio.

Le prime notizie dei nuovi proprietari le giunsero dal negoziante, qual-che giorno più tardi.

Mentre legava il pacchetto delle tre libbre di hamburger che la numerosa famiglia Winning avrebbe consumato in un unico pasto, l'uomo le chiese allegramente: — Già visti, i nuovi vicini?

— Perché, è già arrivata? — chiese la signora Winning. — La famiglia

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del cottage? — La signora è venuta da me stamattina — disse il negoziante. — Ci

sono lei e un bambino, mi sembrano ottima gente. Diceva che il marito è morto. Una bella signora.

La signora Winning era nata lì, e il padre dell'attuale padrone del nego-zio le aveva venduto la liquerizia e le caramelle quando l'attuale padrone era ancora studente.

Per qualche tempo, quando lei aveva dodici anni e l'attuale padrone ne aveva venti, la signora Winning aveva segretamente sperato che le chie-desse di sposarlo. Adesso era ingrassato e dimostrava più dei suoi anni, e anche se la chiamava ancora Helen e lei lo chiamava ancora Tom, lei ades-so faceva parte della famiglia Winning, ed era tenuta a protestare, per quanto la cosa fosse sgradevole, quando le dava la carne dura o aumentava il prezzo del burro.

La signora Winning sapeva che Tom, nel definire "signora" la nuova vi-cina, aveva voluto collocarla in una categoria ben precisa, diversa da quel-la di una semplice "donna" o di una dubbia "persona".

Lei sapeva che Tom, quando parlava di lei e di sua suocera con gli altri clienti, le chiamava "signore". Tacque per qualche istante, poi chiese: — Intendono davvero stare qui?

— Per un po', dovrà certamente fermarsi — disse l'uomo, asciutto. — Ha comprato scorte per una settimana,

Quando risalì sulla collinetta con il suo pacchetto della spesa, la signora Winning cercò di trovare qualche segno della presenza dei nuovi inquilini. Arrivata davanti al cottage, rallentò il passo e cercò di guardare senza farsi vedere.

Dal comignolo non usciva ancora il fumo, ma non c'erano mobili in giro, come succede quando il trasloco non è ancora finito, inoltre c'era una mac-china un po' vecchiotta, parcheggiata davanti al cottage, e la signora Win-ning ebbe l'impressione di vedere del movimento dietro le finestre.

Spinta da un impulso irresistibile, si diresse verso l'ingresso, e poi, dopo un attimo di esitazione, salì qualche scalino.

Bussò, senza posare il sacchetto della spesa, e dopo qualche istante la porta si aprì. Abbassando gli occhi, vide un bambino, pressappoco della stessa età, si disse, del suo.

— Ciao — disse la signora Winning. — Ciao — disse il bambino. La guardò con gravità. — C'è la tua mamma? — chiese la signora Winning. — Sono venuta a

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chiederle se potevo darle una mano a traslocare. — Abbiamo già traslocato — disse il bambino. Stava per chiudere la

porta, quando una donna, dall'interno della casa, chiamò: — Davey? A chi stai parlando?

— È la mia mamma — spiegò il bambino. La donna sopraggiunse, spalancò leggermente la porta. — Sì? — chiese. La signora Winning spiegò: — Sono Helen Winning. Abito più avanti, e

ho pensato che forse le serviva una mano. — Grazie — rispose la donna, dubbiosa. È più giovane di me, pensò la signora Winning. Deve avere trent'anni.

Ed è molto graziosa. Per un istante capì perché il negoziante l'avesse defi-nita una signora.

— È bello vedere di nuovo qualcuno nel cottage — disse la signora Winning, leggermente impacciata.

Dietro la padrona di casa vedeva il piccolo corridoio, con in fondo la camera da pranzo e a sinistra la cucina, a destra le scale, con la ringhiera riverniciata di fresco. Il corridoio era stato tinteggiato di verde pallido, e la signora Winning sorrise alla padrona di casa, e pensò: Ha fatto bene; è pro-prio così che deve essere, questa donna sa come fare bella una casa.

Dopo un attimo, l'altra donna le restituì il sorriso e disse: — Prego, vuole entrare? Si fece di lato per farla passare, e la signora Winning, con un improvviso

scrupolo di coscienza, si chiese se non era stata troppo sfacciata, a farsi in-vitare in quel modo.

— Spero di non averle fatto perdere del tempo — disse. — Ma, sa, una volta mi sarebbe piaciuto venire ad abitare qui.

Perché sono andata a dirle una cosa simile? si domandò poi. Era da mol-to tempo che la giovane signora Winning aveva smesso di dire la prima cosa che le passava per la mente.

— Vieni a vedere la mia stanza — disse il bambino, ansioso di farle pia-cere, e la signora Winning gli sorrise.

— Ho un figlio della tua stessa età — disse. — Come ti chiami? — Davey — disse il bambino, avvicinandosi alla madre. — Davey William MacLane. — Mio figlio — disse la signora Winning — si chiama Howard Talbot

Winning. Il bambino guardò la madre, e la signora Winning, che si sentiva un po' a

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disagio, e goffa, in quella casa dove le sarebbe piaciuto abitare, continuò: — Quanti anni hai? Mio figlio ne ha cinque.

— Ne ho cinque — disse il bambino, come se lo avesse capito solo in quel momento. Guardò di nuovo la madre, che disse, cordialmente: — Perché non viene a vedere come ho messo a posto la casa?

La signora Winning posò il sacchetto sul tavolino del corridoio verde e seguì la signora MacLane nella camera da pranzo: la camera a forma di L, con le grandi finestre che la signora Winning avrebbe voluto coprire con allegre tendine e vasi di fiori.

E nell'entrare in quella camera, la signora Winning vide, con un grande, meraviglioso senso di sollievo, che tutto sarebbe andato per il meglio, do-potutto.

Ogni cosa, dal caminetto ai libri sul tavolo, era esattamente come l'a-vrebbe messo la signora Winning se avesse avuto dieci anni di meno; un po' più disinvolto, forse, e probabilmente la giovane signora Winning a-vrebbe scelto mobili di una qualità leggermente migliore, ma ogni cosa era abbastanza ricca, e innegabilmente giusta.

Sul caminetto c'era una foto di Davey, vicino a un'altra foto che doveva essere quella del padre di Davey. Sul tavolino basso c'era un bel vaso az-zurro, e all'angolo della L c'era una fila di piatti di colore arancio, su un ri-piano, e tavolo e sedie di legno lucido.

— È incantevole — disse la signora Winning. Poteva essere casa mia, pensava intanto; e ripeté: — Davvero incantevole.

La signora MacLane si chinò sulla poltrona accanto al caminetto e solle-vò il tessuto leggero, azzurro, che era posato sul bracciolo.

— Stavo cucendo le tende — disse. Indicò il vaso azzurro, e spiegò: — In un modo o nell'altro, cerco sempre di fare in modo che il mio vaso fac-cia da centro alla stanza. Le tende hanno la stessa tinta, e il tappeto... quando arriverà!... avrà la stessa sfumatura nel disegno.

— È il colore degli occhi di Davey — commentò la signora Winning. Poi, quando la signora MacLane tornò a sorridere, vide che era anche il

colore dei suoi. Senza più parole davanti a una simile magia, la signora Winning non seppe resistere e chiese: — E la cucina, l'ha fatta gialla?

— Sì — rispose la signora MacLane, sorpresa. — Venga a vedere. Fece il giro della L, passò davanti ai piatti arancione e giunse nella cuci-

na, illuminata dal sole del tardo mattino e luccicante d'alluminio e di smal-to; la signora Winning notò la caffettiera elettrica, il ferro da stiro a vapore, il tostapane e pensò: Non deve perdere molto tempo a cucinare, visto che

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sono soltanto in due. — Quando avrò il giardino — disse la signora MacLane — voglio poter

vedere fiori da tutte le finestre. Indicò le finestre della cucina, e aggiunse: — Mi piace il giardinaggio.

Penso che passerò tutto il tempo a lavorare in giardino, quando farà più bello.

— Qui è un ottimo posto per un giardino — commentò la signora Win-ning. — Mi dicevano che era uno dei più bei guardini della zona.

— L'avevo pensato anch'io — disse la signora MacLane. — Pianterò fiori in tutt'e quattro i lati della casa. Con un cottage come

questo, si può fare. Oh, lo so anch'io, pensò nostalgicamente la signora Winning, ricordando

il giardino che avrebbe voluto avere, invece dei pochi nasturzi, di fianco alla casa dei Winning, che lei coltivava amorosamente. Ma attorno alla ca-sa dei Winning non crescevano fiori, a causa dei grossi aceri che davano ombra a tutta l'aia e che erano già alti prima che costruissero la casa.

La signora MacLane aveva fatto tinteggiare di giallo anche il bagno del piano di sopra, mentre le due piccole camere sotto il tetto erano dipinte di verde e di rosa.

— Tutti i colori del giardino — spiegò allegramente alla signora Win-ning, che, pensando alle camere austere, scompagnate della casa dei Win-ning, ammise con un sospiro che sarebbe piaciuto anche a lei avere, sotto le finestre, le poltroncine imbottite.

La stanza di Davey era quella verde, e il suo lettino era accanto alla fine-stra.

— Stamattina — la informò con serietà il bambino — ho guardato fuori e ho visto quattro ghiaccioli.

La signora Winning si fermò nel cottage assai più del previsto e, anche se la signora MacLane continuò a comportarsi con la massima cordialità, ebbe l'impressione che la sua visita avesse superato ampiamente il tempo dei convenevoli di buon vicinato e fosse arrivata a quello della curiosità.

Tuttavia, fu solo il senso di colpa per le tre libbre di hamburger e per il pranzo dei Winning a farla andare via. Al momento di andarsene, quando salutò sulla soglia la signora MacLane e Davey, aveva ormai invitato Da-vey a giocare con Howard, la signora MacLane a prendere il tè e tutt'e due a pranzo per uno dei giorni successivi, il tutto senza il permesso della suo-cera.

Con riluttanza, raggiunse la grande casa e passò davanti alla porta prin-

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cipale, che in quel momento era sprangata, per entrare poi in casa da quella sul retro, che veniva usata da tutta la famiglia durante l'inverno.

Quando entrò in cucina, la suocera la guardò con irritazione e disse: — Ho telefonato in negozio, ma Tom mi ha detto che eri già uscita da un'ora.

— Mi sono fermata al cottage — spiegò la signora Winning. Posò sul tavolo il sacchetto dell'emporio e tolse in fretta i pacchetti, per

mettere le frittelle su un piatto e gli hamburgher in padella prima che pas-sasse troppo tempo. Non si tolse neppure il soprabito e la sciarpa, per fare in fretta, e la suocera, che tagliava a fette il pane, la osservò senza dire niente.

Alla fine, la suocera disse: — Togliti il soprabito. Da un minuto all'altro, arriverà tuo marito.

A mezzogiorno, la casa era piena di rumori e il pavimento della cucina era pieno di orme fangose. Il vecchio Howard, suocero della signora Win-ning, arrivò dalla fattoria e, senza parlare, andò ad appendere in entrata cappello e soprabito prima di rivolgere la parola a moglie e nuora; Howard figlio, marito della signora Winning, arrivò dal granaio dopo avere messo al riparo il camion e salutò la moglie e baciò la madre; e l'ultimo Howard, figlio della signora Winning, entrò di corsa in cucina, dopo essere stato al-l'asilo per tutta la mattina, e gridò: — Non è ancora pronto?

Anche la piccola, che aveva fame, batteva sul seggiolone, con il cuc-chiaio d'argento che era appartenuto originariamente alla madre del vec-chio Howard Winning.

La signora Winning e la suocera servirono in fretta le portate. Dopo tanti anni, sapevano esattamente quanto tempo doveva passare tra l'arrivo del-l'ultimo Howard e l'inizio del pasto, e in breve tre generazioni di Winning erano intente a mangiare in silenzio, rapidamente, ansiose di ritornare alle loro occupazioni: la fattoria, la segheria, il trenino elettrico; i piatti, il cuci-to, il sonno.

La signora Winning, mentre dava da mangiare alla piccola e cercava di anticipare gli ordini della suocera, pensò, quel giorno con un'irritazione maggiore del solito, che se non altro aveva dato loro un altro Howard, con gli occhi e le labbra dei Winning, in cambio di vitto e alloggio.

Dopo il pranzo, dopo che gli uomini se ne furono tornati al lavoro e i bambini nella loro stanza, la piccola a dormire e Howard a colorare il libro da disegno, la signora Winning si sedette a cucire a fianco della suocera e cercò di descriverle il cottage.

— È perfetto — disse. — Ogni cosa è graziosissima. Ci ha invitate a ve-

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dere come sarà, una volta che avrà messo le tendine. — Ho parlato con la signora Blake — disse la vecchia signora Winning,

come se fosse d'accordo con lei. — Diceva che il marito è morto in un in-cidente. Lei aveva dei soldi suoi, e penso che abbia deciso di venire ad abi-tare in campagna per il ragazzo. La signora Blake dice che le sembra un po' pallido.

— Quella donna ama i giardini — disse la signora Winning, e per un i-stante rimase immobile, con l'ago in mano. — Vuole un grande giardino, tutt'attorno alla casa.

— Le servirà qualcuno — disse la vecchia, seria. — È un grosso giardi-no, quello.

— Ha un vaso azzurro che è bellissimo. Ti piacerà. È quasi come se fos-se d'argento.

— Probabilmente — disse la vecchia signora Winning, dopo un istante di pausa — i suoi erano di queste parti, ed è per questo che è venuta ad abitarci.

L'indomani la signora Winning, nel passare davanti al cottage, rallentò il passo, e così fece anche il giorno successivo.

Il secondo giorno scorse la signora MacLane alla finestra e la salutò con il braccio, e il terzo giorno scorse Davey in giardino.

— Quando vieni a trovare mio figlio? — gli chiese. E il bambino la guardò con grande serietà e disse: — Domani.

La signora Burton, vicina di casa della signora MacLane, si recò da lei il terzo giorno e le portò una torta di mele, e poi raccontò all'intero vicinato della cucina gialla e dei meravigliosi utensili elettrici.

Un'altra vicina, il cui marito aveva aiutato la signora MacLane a riparare la stufa, spiegò che era vedova da pochi mesi. Quasi ogni giorno, qualcuno andò a trovare la signora MacLane, e spesso la giovane signora Winning, quando passava davanti al cottage, vedeva che in casa c'era qualcuno a da-re una mano alla padrona di casa per misurare le tende o vedeva la signora MacLane chiacchierare con qualcuno davanti all'ingresso.

Dopo una settimana, la signora Winning la incontrò nell'emporio, e fece-ro insieme la strada, e parlarono dell'eventualità di mettere all'asilo anche Davey.

La signora MacLane avrebbe voluto tenerlo a casa il più a lungo possibi-le, e la signora Winning le chiese: — Non si sente terribilmente legata, ad averlo con sé tutto il giorno?

— No, mi piace — rispose la signora MacLane. — Ci teniamo compa-

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gnia. Allora la signora Winning tacque, imbarazzata, ricordando che la signo-

ra MacLane era vedova da poco. Quando cominciò a fare un po' più caldo e sugli alberi e sul terreno

comparvero i primi segni di verde, la signora Winning e la signora Ma-cLane divennero ottime amiche.

S'incontravano tutti i giorni all'emporio e tornavano a casa insieme, e Davey venne alcune volte a giocare con il trenino di Howard, e in un'occa-sione la signora MacLane passò a prenderlo e si fermò a bere una tazza di caffè nella grande cucina, mentre i ragazzi si rincorrevano attorno al tavolo e la suocera della signora Winning era fuori in visita.

— Una casa così antica — disse la signora MacLane, alzando gli occhi verso il soffitto scuro. — Mi piacciono le case antiche; danno un senso di calore e di sicurezza, come se, dopo che tante persone ci sono vissute den-tro, perfettamente soddisfatte, le case stesse sapessero di essere state utili. In una casa nuova non si ha la stessa sensazione.

— A me, mette tristezza — disse la signora Winning. La signora MacLane, con il suo golfino rosa e i capelli biondi, era una

macchia di colore, in quella cucina, che la signora Winning non sarebbe mai riuscita a emulare.

— Io — disse la padrona di casa — darei tutto quel che ho al mondo, per stare in una casa come la sua.

— Mi piace moltissimo — rispose la signora MacLane. — Non credo di essere mai stata così felice. Tutti sono così gentili, qui attorno, e la casa è bella, e ieri ho piantato un mucchio di bulbi.

Rise. — A New York — concluse — seduta in quell'appartamento, piantare

bulbi è sempre stato il mio sogno. La signora Winning osservò i due ragazzi, e notò che Howard era dieci

centimetri più alto, e più robusto, mentre Davey era minuto, debole, e nu-triva per la madre una sconfinata adorazione.

— A Davey — disse — ha già fatto bene. Vedo che ha preso un bel co-lore.

— A Davey piace molto — assentì la signora MacLane. Nell'udire il suo nome, Davey si avvicinò alla madre e le posò la testa

sulle ginocchia. Lei gli accarezzò i capelli, che erano biondi come i suoi. — Adesso, è meglio tornare a casa, Davey — disse. — Forse i nostri fiori sono già cresciuti, da ieri — disse Davey.

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Pian piano, le giornate divennero prodigiosamente lunghe e tiepide, e il giardino della signora MacLane cominciò a mostrare un po' di colore e di ordine: era ancora una creatura giovane e incerta, ma prometteva di diven-tare ricco e brillante alla fine dell'estate, e l'estate successiva, e per decine di altre estati.

— È venuto fin meglio di quanto sperassi — disse la signora MacLane, ferma accanto al cancello. — Qui, tutto cresce molto più in fretta che in ogni altro posto.

Davey e Howard giocarono insieme ogni giorno, dopo che l'asilo chiuse per l'estate e Howard ebbe tutta la giornata libera. A volte Howard rimane-va a casa di Davey a pranzo, e i due bambini coltivavano un'aiola insieme, dietro la casa.

La mattina, la signora Winning si fermava ad aspettare la signora Ma-cLane per andare insieme a fare la spesa, e Davey e Howard correvano da-vanti a loro. Andavano insieme a prendere la posta e la leggevano durante il ritorno, e la signora Winning faceva ritorno a casa più allegra, dopo esse-re stata con la signora MacLane.

Un pomeriggio, la signora Winning caricò la piccola sul carrettino di Howard e tutti andarono a fare una passeggiata.

La signora MacLane raccolse delle felci e le mise nel carrettino dove c'e-ra già la bambina, e i bambini trovarono un serpente e cercarono di farsi dare il permesso di portarlo a casa.

Giunte ai piedi della salita, la signora MacLane aiutò a tirare il carrettino con la bambina e le felci; poi, giunte a metà altezza, le due donne si dovet-tero fermare a prendere fiato.

— Guardi — disse la signora MacLane — da qui si vede il mio giardino. Infatti, quasi in cima alla collina, si scorgeva una macchia di colore. Ri-

masero a guardare lo spettacolo a lungo, e la bambina approfittò della so-sta per gettare via tutte le felci.

La signora MacLane disse: — Quando arrivo qui, mi fermo sempre a guardare. — E poi: — Ma chi è quel bambino così bello?

La signora Winning seguì lo sguardo dell'amica poi rise. — È attraente, vero — disse. — È Billy Jones. Anche lei lo guardò con attenzione, cercando di vederlo con gli occhi

della signora MacLane. Era un ragazzino di circa dodici anni, seduto tran-quillamente sul muretto davanti a loro. Con il mento appoggiato sulle ma-ni, guardava Davey e Howard.

— Sembra una statua — disse la signora MacLane. — Così abbronzato.

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E ha visto che viso? Si diresse verso il bambino per guardarlo meglio, e la signora Winning

la seguì. — Conosco i suoi gen...? — cominciò a chiedere la signora MacLane,

ma la signora Winning si affrettò a spiegare: — I ragazzi di Jones sono mezzi neri. Ma è vero, sono davvero belli. Dovrebbe vedere la sorella. A-bitano un po' fuori città.

In quel momento, Howard cominciò a canzonare: — Negro, negretto. Negro, negretto.

— Negro, negretto — ripeté Davey, ridendo. La signora MacLane rimase a bocca aperta, e poi disse: — Davey — con

un tono di voce che indusse il bambino a girarsi subito verso di lei. La signora Winning non aveva mai sentito l'amica parlare in quel tono, e

anche lei la guardò, incuriosita. — Davey — ripeté la signora MacLane; e Davey si avvicinò lentamente.

— Che cosa hai detto? — Howard — disse la signora Winning — lascia stare Billy. — Va' da quel ragazzo e chiedigli scusa — disse la signora MacLane. —

Va' subito. Davey, con le lacrime agli occhi, guardò la madre e poi fece qualche

passo verso il ragazzo seduto sul muretto e disse, senza attraversare la strada: — Mi dispiace.

Howard e la signora Winning aspettarono, con un leggero imbarazzo, e Billy Jones, dall'altra parte della strada, sollevò la testa e guardò prima Davey e poi, a lungo, la signora MacLane. Infine tornò ad appoggiare il mento sulle mani.

— Giovanotto — disse la signora MacLane — puoi venire qui un atti-mo, per favore?

La signora Winning guardò con sorpresa la signora MacLane; poi, ve-dendo che il ragazzo non si muoveva, disse seccamente: — Billy! Billy Jones! Vieni subito qui!

Il ragazzo sollevò la testa e guardò le due donne. Poi si lasciò scivolare lentamente a terra e attraversò la strada. Quando fu a un paio di metri da loro, si fermò.

— Ciao — disse gentilmente la signora MacLane. — Come ti chiami? Il ragazzo la guardò a lungo, e poi guardò la signora Winning, che disse:

— È Billy Jones. Rispondi, Billy, quando qualcuno ti parla. — Billy — disse la signora MacLane — mi dispiace che mio figlio ti

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abbia preso in giro, ma è molto piccolo e non sa quello che dice. Però, di-spiace anche a lui.

— Okay — disse Billy, senza distogliere gli occhi dalla signora Win-ning. Portava un vecchio paio di blue jeans e una camicia bianca senza bottoni, ed era scalzo. Aveva i capelli e la pelle dello stesso colore, l'oro scuro di una forte abbronzatura, e i capelli leggermente ricciuti. Sembrava quasi una di quelle statue di bronzo che si vedono in qualche giardino.

— Billy — disse la signora MacLane. — Verresti a lavorare da me? Per guadagnare qualcosa?

— Certo — rispose Billy. — Ti piace il giardinaggio? Billy annuì. — Perché — continuò la signora MacLane, tutta soddisfatta — mi serve

qualcuno che mi aiuti in giardino, ed è proprio il lavoro che fa per te. Aspettò un istante e poi aggiunse: — Sai dove abito? — Certo — rispose Billy. Distolse lo sguardo dalla signora Winning e

per qualche istante guardò la signora MacLane, con occhi privi d'espres-sione. Poi tornò a guardare la signora Winning, che osservava Howard, poco lontano.

— Bene — disse la signora MacLane. — Verrai domani? — Certo — disse Billy. Attese per un istante, passando lo sguardo prima

sulla signora MacLane e poi sulla signora Winning, e poi corse via, e sca-valcò con un salto il muretto.

La signora MacLane lo guardò con ammirazione. Poi sorrise alla signora Winning e si avviò lungo la salita.

Erano quasi giunte al cottage, prima che la signora MacLane riprendesse finalmente la parola.

— Non sopporto — disse — di veder offendere qualcuno per una cosa di cui non ha colpa.

— È gente strana, i Jones — disse subito la signora Winning. — Il padre fa dei lavoretti qui e là; può darsi che lei l'abbia già visto. Sa... — abbassò la voce — ...la madre era bianca, una ragazza di qui. Una del paese — ri-peté, per farlo capire a una forestiera. — Ha abbandonato tutta la nidiata quando Billy aveva circa due anni, per scapparsene via con un bianco.

— Poveri bambini — disse la signora MacLane. — Oh, stanno benissimo — disse la signora Winning. — La chiesa si

prende cura di loro, naturalmente, e la gente gli regala tanta roba. La ra-gazza è abbastanza grande per lavorare, ormai. Ha sedici anni, ma...

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— Ma?... — chiese la signora MacLane, vedendo l'esitazione della si-gnora Winning.

— Be', la gente parla molto di lei, sa — spiegò la signora Winning. — Pensi alla madre, in fin dei conti. E c'è ancora un altro ragazzo, che ha due anni più di Billy.

Si fermarono davanti al cottage e la signora MacLane accarezzò i capelli a Davey. — Povero bambino sfortunato — disse.

— I bambini si insultano sempre, tra loro — disse la signora Winning. — Non si può evitarlo.

— Be'... — cominciò la signora MacLane. E poi: — Povero bambino. L'indomani, dopo avere lavato i piatti della cena, e mentre la signora

Winning e sua suocera li mettevano via, la vecchia signora Winning osser-vò in tono indifferente: — Mi ha detto la signora Blake che la tua amica, la signora MacLane, chiedeva in giro come poter trovare il piccolo Jones.

— Cerca qualcuno che l'aiuti in giardino, credo. — Aiuto da quelli? — chiese la vecchia signora Winning. — Gliene hai

parlato? — Pare che le dispiaccia per loro — disse la signora Winning, con la te-

sta infilata nella dispensa. Perse molto tempo a mettere in ordine i piatti, perché voleva chiarirsi le

idee. La signora MacLane non avrebbe dovuto farlo, pensava, ma la sua mente non voleva spiegarle il motivo del suo risentimento. Avrebbe dovu-to chiedere a me, capì alla fine.

L'indomani, la signora Winning si fermò dalla signora MacLane dopo avere fatto la spesa con lei. Sedettero nella cucina gialla e bevvero il caffè della macchinetta elettrica mentre i ragazzi giocavano in cortile.

Mentre parlavano di mettere dei tavolini sotto le piante, qualcuno bussò alla porta della cucina, e quando la signora MacLane andò ad aprire, scorse un uomo. Perciò gli chiese educatamente: — Sì? — e attese che parlasse.

— Buon giorno — disse l'uomo. Si tolse il cappello e rivolse un cenno della testa alla signora MacLane.

— Billy mi ha detto che cercava qualcuno per il giardino — disse. — Be'... — cominciò la signora MacLane, guardando preoccupata la si-

gnora Winning. — Sono il padre di Billy — spiegò l'uomo. Indicò con la testa il cortile, e la signora MacLane vide Billy Jones, se-

duto sotto uno dei meli, con le braccia incrociate e gli occhi fissi sull'erba. — Come sta? — chiese la signora MacLane, colta alla sprovvista.

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— Billy mi ha detto che lei gli ha offerto di venire a lavorare nel suo giardino — disse l'uomo. — Be', forse, come lavoro per l'estate, è un po' troppo impegnativo per un ragazzo della sua età. Se il tempo è bello, è me-glio che stia fuori a giocare. E poi è il tipo di lavoro che faccio io, perciò sono passato a vedere se aveva già trovato un altro.

Era un uomo grande e grosso, e assomigliava molto a Billy, a parte che, mentre i capelli di Billy erano solo un po' ondulati, i suoi erano decisamen-te ricciuti, e schiacciati dove li premeva il cappello, e mentre la pelle di Billy era abbronzato-dorata, quella di suo padre era più scura, più bronzo che oro.

L'uomo si muoveva con la stessa eleganza del figlio, e i suoi occhi ave-vano la stessa insondabile tonalità castana.

— Mi piacerebbe occuparmi di questo giardino — disse il signor Jones, guardandosi attorno. — Potrebbe venire molto bene.

— È stato molto gentile a venire — disse la signora MacLane. — Ho davvero bisogno d'aiuto.

La signora Winning non disse niente, perché non voleva parlare davanti al signor Jones. Pensava: Preferirei che ne avesse parlato con me; la cosa è impossibile... e il signor Jones continuò a rimanere davanti a loro, in silen-zio, con gli occhi scuri fissi sulla signora MacLane che parlava.

— Già, buona parte del lavoro sarebbe troppo dura per Billy — diceva lei. — Molte cose non riuscirei a farle neppure io, e speravo ardentemente che qualcuno mi desse una mano.

— Allora, siamo d'accordo — disse il signor Jones. — Penso di riuscire a fare quasi tutto da solo — terminò, sorridendo.

— Bene — disse la signora MacLane. — Penso che sia tutto a posto, al-lora. Quando pensa di cominciare?

— Perché non adesso? — chiese lui. — Bene — disse la signora MacLane, con entusiasmo, e poi, alla signo-

ra Winning: — Mi scusi un attimo. Dallo scaffale dietro la porta, prese i guanti da giardiniere e l'ampio cap-

pello di paglia. — Non è una bella giornata? — chiese al signor Jones, passando davanti

a lui per uscire. — Va' a casa, adesso, Billy — disse il signor Jones, quando uscì dalla

casa. — Oh, lo lasci rimanere — disse la signora MacLane. La signora Win-

ning le sentì ancora dire, mentre scomparivano dietro il muro: — Può gio-

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care nel giardino, probabilmente gli piacerà... Per un istante, la signora Winning fissò il giardino, l'angolo dove il si-

gnor Jones era scomparso dietro la signora MacLane. Poi comparve Ho-ward, che disse: — Non è ancora ora di mangiare?

— Howard — disse a bassa voce lei, e il bambino si avvicinò. — Adesso corri a casa — continuò la signora Winning. — Io arrivo su-

bito. Howard fece per protestare, ma lei aggiunse: — Devi andare subito. Se

pensi di farcela a portarlo, prendi il sacchetto della spesa. Howard era contento che la madre avesse una così alta idea della sua

forza; si chinò a prendere il sacchetto. Aveva già le spalle larghe, come il padre e il nonno, e riuscì ad alzarlo.

— Sono forte, vero? — chiese, soddisfatto. — Fortissimo — rispose la signora Winning. — Di' alla nonna che arri-

vo subito. Vado solo a salutare la signora MacLane. Howard si allontanò, la signora Winning sentì cigolare sotto i suoi passi

gli scalini dell'ingresso. Si alzò, e dopo qualche istante vide arrivare la si-gnora MacLane.

— Vuole già andare via? — esclamò la signora MacLane, nel vedere che la signora Winning s'infilava il soprabito. — Senza finire il caffè?

— Devo raggiungere Howard — disse la signora Winning. — È corso a casa senza aspettare.

— Mi spiace di averla lasciata sola — disse la signora MacLane. Si fermò sulla soglia, accanto alla signora Winning, e passò lo sguardo

sul giardino. — È davvero meraviglioso! — esclamò, ridendo allegramente. Insieme, attraversarono la casa. Adesso, alle finestre c'erano le tende az-

zurre e sul pavimento c'era il tappeto con il motivo azzurro nel disegno. — Arrivederci — disse la signora Winning, quando fu sugli scalini. La signora MacLane sorrideva, e la signora Winning, seguendo la dire-

zione del suo sguardo, si voltò e vide il signor Jones, che, a torso nudo e con la schiena robusta che luccicava al sole, falciava l'alta erba del prato, sul fianco della casa.

Billy sedeva nelle vicinanze, all'ombra dei cespugli, e giocava con il gat-to.

— Voglio avere il più bel giardino della città — disse con orgoglio la si-gnora MacLane.

— Non lo farà lavorare dopo oggi, vero? — chiese la signora Winning.

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— Naturalmente, non lo farà lavorare ancora? — Ma certo che... — cominciò la signora MacLane, con un sorriso tolle-

rante, e la signora Winning, dopo averla guardata con incredulità per un at-timo, si allontanò in direzione di casa sua, imbarazzata e indignata.

Howard aveva portato a casa il sacchetto, senza danni, e la suocera della signora Winning stava apparecchiando la tavola.

— Howard dice che l'hai mandato a casa mentre eravate dalla MacLane — osservò la suocera, e la signora Winning rispose: — Mi pareva che fos-se tardi.

L'indomani mattina, quando la signora Winning passò davanti al cottage mentre andava a fare la spesa, scorse il signor Jones che falciava con abili-tà l'erba accanto alla casa, e Billy Jones e Davey seduti sugli scalini a guardarlo.

— Buon giorno Davey — lo salutò la signora Winning. — Tua madre è pronta a venire al negozio? — Dov'è Howard? — domandò Davey, senza rispondere. — Oggi è rimasto a casa con la nonna — disse allegramente la signora

Winning. — Tua madre è pronta? — Prepara la limonata per me e per Billy — disse Davey, — Poi la beviamo nel giardino. — Allora, riferiscile — disse rapidamente la signora Winning — che

avevo fretta e che sono dovuta correre. Passerò più tardi. E si avviò lungo la discesa. Nell'emporio trovò la signora Harris, una donna la cui madre aveva lavo-

rato per la vecchia signora Winning più di trent'anni prima. — Helen — disse la signora Harris — cominci ad avere qualche capello

grigio. Devi piantarla di correre avanti e indietro. La signora Winning, che per la prima volta, dopo varie settimane, era nel

negozio senza la signora MacLane, sorrise e disse che forse aveva davvero bisogno di una vacanza.

— Vacanza! — rise la signora Harris. — Fa' fare le faccende di casa a tuo marito, tanto per cambiare. Non ha nient'altro da fare.

Lei rise e scosse la testa. — Nient'altro da fare — disse. — Proprio i Winning! Prima che la signora Winning potesse allontanarsi, la signora Harris,

sempre ridendo, aggiunse, incuriosita: — Dov'è la tua amica l'elegantona? Di solito venite qui insieme, no?

La signora Winning sorrise con cortesia, e la signora Harris aggiunse, tra

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una risata e l'altra: — Non riuscivo a credere che avesse scarpe come quel-le, la prima volta che l'ho vista. Che scarpe!

Mentre la donna riprendeva a ridere, la signora Winning passò al banco della carne e cominciò un'approfondita discussione con il negoziante, sulle potenzialità della spalla di maiale.

La Harris dice sempre quello che pensano tutti, rifletteva la signora Winning; che parlino tutti così della signora MacLane? Che ridano di lei? Quando lei pensava alla signora MacLane, pensava alla casa tranquilla, ai bei colori, a madre e figlio nel giardino.

La signora MacLane aveva un paio di scarpe gialle e verdi, con la suola ortopedica, un po' bizzarre e certo assai lontane dalle tranquille e robuste oxford accollate chiare della signora Winning, ma era inevitabile che la si-gnora MacLane mettesse quel genere di scarpe, con la sua casa e il suo giardino...

La signora Harris le si avvicinò e disse, ridendo: — E adesso cosa ha combinato? Fa lavorare quel Jones?

Quando la signora Winning arrivò a casa, dopo avere tirato dritto davan-ti al cottage (nel cui giardino, in quel momento, non c'era nessuno) la suo-cera la aspettava davanti alla porta.

— Hai fatto in fretta, oggi — commentò la suocera. — Come mai? La MacLane non era in città?

Irritata, la signora Winning rispose solo: — Sono dovuta scappare via dal negozio, con la signora Harris che non la smetteva di dire spiritosaggi-ni.

— Oh, la Harris non ha niente di male; dovrebbe solo cacciare via di ca-sa il marito — disse la vecchia signora Winning.

Insieme, suocera e nuora fecero il giro della casa per raggiungere la por-ta sul retro. La signora Winning, mentre passavano, notò che l'erba sul fianco della casa era cresciuta bene, e che anche i nasturzi erano alti.

— Devo dirti una cosa, Helen — osservò infine la vecchia signora Win-ning.

— Sì? — chiese la nuora. — Sulla MacLane, voglio dire. Tu, che la conosci bene, dovresti parlarle

di quell'uomo di colore che lavora per lei. — L'ho pensato anch'io — rispose la signora Winning. — Sei sicura di averglielo detto? Le hai parlato di quelle persone? — Gliel'ho detto — ripeté la signora Winning. — Quell'uomo è laggiù ogni giorno che Dio manda sulla terra — disse

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la suocera. — E lavora senza neppure una camicia addosso. Entra nella ca-sa.

E quella sera il signor Burton, vicino della signora MacLane, passò a trovare i due Howard Winning perché voleva prendere alla segheria nuove assi per il tetto. Si girò all'improvviso verso la signora Winning, che sede-va a cucire accanto alla suocera, in soggiorno, e alzò leggermente la voce per dire:

— Helen, lei dovrebbe proprio dirlo, alla sua amica la signora MacLane, di tenere lontano il ragazzo dal mio orto.

— Davey? — chiese involontariamente la signora Winning. — No — disse il signor Burton, mentre tutti i Winning si giravano a

guardare Helen. — No, l'altro, quello di colore. Corre come un pazzo nel nostro orto. Mi fa andare in bestia, l'idea che un ragazzo rovini la roba al-trui.

E, rivolgendosi ai due Howard Winning: — Lo sapete anche voi, è una cosa che fa andare in bestia.

Nessuno rispose, e il signor Burton aggiunse, con la voce roca: — Be', penso che sia ora di dare la buonanotte a tutti.

Lo accompagnarono alla porta e poi le donne tornarono al loro lavoro. Devo fare qualcosa, pensò la signora Winning, altrimenti, tra poco, non

verranno più da me, ma manderanno qualcun altro a dirmelo. Alzò la testa, incrociò lo sguardo della suocera, e tutt'e due abbassarono

immediatamente gli occhi. Di conseguenza, la signora Winning andò a fare la spesa prima del soli-

to, l'indomani, e lei e Howard attraversarono prima del cottage e poi pro-seguirono su quel lato della strada.

— Non andiamo da Davey? — chiese una volta Howard, e la signora Winning rispose con indifferenza: — Oggi, no, Howard. Forse tuo padre ti porterà a vedere la segheria, oggi.

Evitò di girarsi verso la casa della signora MacLane, quando le passò davanti, e accelerò il passo per raggiungere Howard.

In seguito, la signora Winning incontrò di tanto in tanto la signora Ma-cLane nel negozio o nell'ufficio postale, e ogni volta si parlarono affabil-mente.

Dopo la prima settimana, quando passava davanti al cottage, la signora Winning non provava più alcun imbarazzo, e un paio di volte lo guardò senza preoccupazioni. Il giardino era sempre più bello; in genere, in mezzo ai cespugli, si scorgeva la larga schiena del signor Jones, e Billy Jones se-

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deva sugli scalini o sull'erba con Davey. Una mattina, mentre scendeva verso il paese, la signora Winning sentì

una conversazione tra Davey MacLane e Billy Jones; si erano nascosti in mezzo ai cespugli e Davey disse, con la sua vocina acuta: — Billy, hai vo-glia di costruire una casa con me?

— Okay — rispose Billy. La signora Winning rallentò il passo per ascoltare. — Costruiamo una grossa casa con i rami — disse Davey, eccitato — e

quando è finita diciamo a mia madre di portarci il pranzo lì dentro. — Non ti bastano i rami, se vuoi costruire una casa — disse Billy. —

Occorre il legno, le tavole. — E i tavoli e i piatti e le sedie — disse Davey. — E i muri. — Chiedi a tua madre se possiamo portare due sedie — disse Billy. —

Poi possiamo fare finta che il giardino sia la nostra casa. — Mi faccio dare anche dei biscotti — disse Davey. — E chiederemo a

mia madre e a tuo padre di venire a trovarci in casa nostra. La signora Winning si allontanò da loro. Devi ammettere, disse poi a se stessa, cercando di mantenere la più stret-

ta obiettività, che quell'uomo ha fatto un mucchio di lavoro nel giardino; è il più bel giardino del quartiere. E Billy si comporta come se fosse casa sua, oltre che di Davey.

Quando giunsero i giorni lunghi e caldi dell'estate, indistinguibili l'uno dall'altro, e divenne difficile ricordare se l'ultimo temporale era scoppiato due giorni prima, oppure tre, i Winning presero l'abitudine di andare a se-dere in giardino, la sera, e nella penombra la signora Winning a volte tro-vava l'occasione di sedersi accanto al marito e di mettergli la mano sul braccio.

Lei non era mai stata capace di insegnare a Howard a correre da lei per posarle la testa sulle ginocchia, o di ispirargli più che l'affetto superficiale dei Winning, ma si consolò pensando che se non altro erano una famiglia, salda e rispettabile.

Il caldo non accennò a cessare, e la signora Winning prese l'abitudine di indugiare nell'emporio, per rimandare quanto più possibile la faticosa camminata sotto il sole.

Si fermava a chiacchierare con il negoziante, con le altre giovani madri della città, con le amiche della suocera, e parlavano del tempo, di come la città non si decidesse a costruire una piscina, del lavoro che occorreva fare prima dell'inizio della scuola, del morbillo, del comitato scolastico.

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Un giorno, trovò la signora Burton, e parlarono dei mariti, del caldo e anche di come i figli occupavano le giornate in quella stagione.

Infine, la signora Burton disse: — Tra l'altro, Johnny compirà sei anni questo sabato, e facciamo una festicciola. Può venire Howard?

— Meraviglioso — rispose la signora Winning, e pensò: I calzoncini bianchi, la camicia blu, la carta per avvolgere il regalo...

— Saranno otto bambini, sì e no — disse la signora Burton, con l'amo-roso pressappochismo delle madri che organizzano le festicciole di com-pleanno.

— Si fermano a cena, naturalmente — proseguì. — Manda Howard ver-so le tre e mezzo.

— Sei davvero gentile — disse la signora Winning. — Sarà felice, quando glielo dirò.

— Pensavo di farli giocare nel giardino — disse la signora Burton. — Tanto, fa caldo. Poi qualche gioco in casa, e la cena. Una cosa semplice... lo sai anche tu.

S'interruppe, a disagio, e passò nervosamente le dita sul coperchio di una lattina di caffè.

— Senti — disse. — Spero che la cosa non ti dia fastidio, se te lo chie-do, ma hai qualcosa in contrario, se non invito il figlio della MacLane?

La signora Winning si sentì girare la testa per un istante, e dovette aspet-tare qualche secondo, prima di riuscire a parlare. Poi disse, tranquillamen-te: — Per me va bene, se va bene per te; perché lo chiedi proprio a me?

La signora Burton rise. — Pensavo che ti desse fastidio, se non veniva. La signora Winning pensò: È successa una cosa antipatica, la gente cre-

de di sapere qualcosa su di me, e si tratta di una cosa che la gente non vuo-le dire. Fanno finta che non sia niente, ma la cosa, finora, non mi era mai successa; io sono una Winning, no?

— Senti — disse, mettendo nelle sue parole tutto il peso dell'antica fa-miglia Winning — perché mai dovrebbe darmi fastidio?

E si chiese: L'ho presa troppo sul serio? Avrei fatto meglio a lasciar per-dere?

La signora Burton era imbarazzata; posò sul banco la scatola di caffè e prese a esaminare minuziosamente gli altri scaffali.

— Mi spiace di averne parlato — disse. Allora, la signora Winning sentì di dover aggiungere qualcosa: una frase

che chiarisse senza equivoci la sua posizione, in modo che la signora Bur-ton non si sognasse mai più di usare quel tono con una Winning, né di in-

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cominciare una frase con: "Spero che la cosa non ti dia fastidio, se te lo chiedo". Perciò disse, valutando attentamente le parole: — Be', dopotutto è come una seconda madre, per Billy.

La signora Burton, che si era girata verso di lei per una conferma, e-sclamò, colpita: — Santo Cielo, Helen!

Lei alzò le spalle e sorrise, e anche la signora Burton sorrise. Poi la si-gnora Winning disse: — Mi spiace per il bambino, però.

La signora Burton disse: — Un bambino così caro. La signora Winning aveva appena terminato di dire: — Lui e Billy sono

sempre insieme, ormai — quando alzò la testa e vide la signora MacLane, che la guardava dal fondo del negozio; impossibile capire se le avesse sen-tite.

Per un istante, la signora Winning restituì l'occhiata alla signora MacLa-ne, e poi disse, con il tono esatto di cordialità che ci si poteva aspettare: — Buon giorno, signora MacLane. Non c'è, questa mattina, suo figlio?

— Buon giorno, signora Winning — disse la MacLane, proseguendo, e la signora Burton diede di gomito alla signora Winning e cercò disperata-mente di frenarsi, ma alla fine le sfuggì una risata, a cui la signora Win-ning si associò.

Pochi giorni dopo, anche se l'erba nel giardino dei Winning, sotto gli a-ceri, rimaneva verde e alta, la signora Winning cominciò a notare che il giardino della signora MacLane pativa il caldo.

I fiori si piegavano sotto il sole, e non erano più ritti e brillanti; l'erba era ingiallita, e le piante di rose che la signora MacLane aveva messo ottimi-sticamente a dimora stavano morendo.

Il signor Jones, impassibile, continuava a lavorare come se niente fosse, a volte chino sulla terra, a volte in piedi per fissare una pergola o per pota-re un albero, ma le tendine azzurre pendevano immobili alle finestre.

La signora MacLane sorrideva sempre alla signora Winning, quando si vedevano in negozio, e un giorno che s'incontrarono davanti al cancello del cottage, la signora MacLane, dopo un attimo d'esitazione, le chiese: — Può venire dentro per qualche istante? Vorrei parlare con lei, se ha tempo.

— Certo — disse cortesemente la signora Winning, e seguì la signora MacLane lungo il vialetto, che era ancora circondato di cespugli fioriti, ma che adesso pareva privo di ogni incantesimo, come se il caldo dell'estate avesse bruciato ogni vivacità da quel terreno.

Nel soggiorno, la signora Winning si sedette su una sedia e, per educa-zione, non si appoggiò alla spalliera, mentre la signora MacLane si sedeva,

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come sempre, in poltrona. — Come sta Davey? — chiese infine la signora Winning, vedendo che

la signora MacLane non sembrava disposta a iniziare la conversazione. — Sta bene — rispose la signora MacLane, sorridendo come faceva

sempre quando parlava di Davey. — Dev'essere qui dietro, con Billy. Scese per qualche istante il silenzio, e infine la signora MacLane riprese,

con lo sguardo fisso sul vaso azzurro che faceva bella mostra di sé sopra il tavolino: — Volevo chiederle, che cos'è che è andato storto?

La signora Winning si teneva già pronta a una domanda del genere, e ri-spose: — Non capisco che cosa intenda dire.

Mi sembra di parlare come mia suocera, pensò, e comprese: La cosa mi diverte, come divertirebbe lei.

Ma, benché si vergognasse di se stessa nel dirlo, non seppe resistere alla tentazione di aggiungere: — Perché, c'è qualcosa che non va?

— Certo — rispose la signora MacLane. Senza staccare gli occhi dal va-so azzurro, disse lentamente: — Quando sono arrivata, tutti erano gentili e sembrava che avessero simpatia per me e per Davey e che volessero aiu-tarci.

Ecco lo sbaglio, pensava la signora Winning, non bisogna mai dire che la gente ha simpatia per noi, è di cattivo gusto.

— E il giardino cresceva così bene — continuò la signora MacLane, di-sperata. — Mentre, adesso, la gente scambia con noi solo poche parole. Una volta, con la signora Burton ci salutavamo e parlavamo del giardino, ma adesso mi dice solo "'Giorno" e poi torna in casa. E nessuno più mi sor-ride.

È orribile, pensò la signora Winning, tutto questo è infantile, tutte queste lamentele. La gente ti tratta come la tratti tu, pensò; avrebbe voluto pren-dere la signora MacLane per la mano e invitarla a essere di nuovo una per-sona dabbene; ma si limitò a rizzare ancor di più la schiena e a dire: — Sono sicura che si sbaglia. Non ho mai sentito dire queste cose.

— Ne è sicura? — La signora MacLane si girò a guardarla. — È sicura che non è colpa del fatto che il signor Jones lavora qui?

La signora Winning sollevò ancor di più il mento e disse: — E perché mai qualcuno dovrebbe trattarla male a causa di Jones?

La signora MacLane la accompagnò poi fino al cancello, ed entrambe parlarono di vedersi un giorno della settimana seguente per andare a nuota-re, o per fare un picnic, e la signora Winning, mentre raggiungeva l'empo-rio pensò: Ha davvero una bella faccia tosta. Dare la colpa ai negri!

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Verso la fine dell'estate scoppiò un forte temporale, che venne a inter-rompere una lunga serie di giorni asciutti. Per tutta la notte, la città fu sfer-zata da un forte vento e dalla pioggia, che colpirono senza pietà gli alberi, abbattendo fiori e cespugli; da una parte della città, un granaio crollò, e dall'altra vennero abbattuti alcuni pali telefonici.

La mattina, quando la signora Winning aprì la porta sul retro, trovò l'aia coperta di rametti degli aceri, l'erba appiattita sul terreno.

La suocera la raggiunse sulla soglia. — Che temporale — disse. — Ti sei svegliata?

— Mi sono svegliata una volta e sono andata a vedere i bambini — disse la signora Winning. — Saranno state le tre.

— Quando mi sono alzata io, era più tardi — disse la suocera. — An-ch'io sono andata a vedere i bambini; dormivano.

Insieme, andarono a preparare la colazione. Più tardi, la signora Winning si recò al negozio, ed era quasi giunta al-

l'altezza del cottage quando vide la signora MacLane ferma nel giardino, accanto al signor Jones. Davey e Billy sedevano sotto il porticato.

Tutti guardavano in silenzio un grande ramo, di uno degli alberi dei Bur-ton, che era caduto in centro al giardino, schiacciando molti cespugli fioriti e distruggendo quella che doveva diventare una ricca aiola di tulipani.

Quando la signora Winning si fermò a guardare, la signora Burton uscì di casa a valutare il danno e la signora MacLane la chiamò: — Buon gior-no, signora Burton. Pare che una parte del suo albero sia finita da noi.

— Pare davvero — rispose la signora Burton, e rientrò in casa, chiuden-dosi la porta alle spalle.

La signora Winning osservò la signora MacLane, che rimase in silenzio per almeno un minuto. La signora MacLane girò speranzosamente gli oc-chi verso il signor Jones, e tutt'e due si guardarono per un lungo istante.

Poi la signora MacLane disse (e la sua voce acuta si udì in modo chiaris-simo, nell'aria resa trasparente dalla pioggia): — Pensa che dovrei forse ri-nunciare, signor Jones? Tornare in città dove non potrò mai più vedere un altro giardino?

Il signor Jones scosse la testa, abbattuto, e la signora MacLane, con le spalle basse, attraversò lentamente il giardino e si andò a sedere sugli sca-lini. Davey si sedette accanto a lei.

Il signor Jones afferrò con ira il grosso tronco e cercò di spostarlo, gon-fiando i muscoli delle braccia e delle spalle, ma il ramo non si mosse dal-l'aiola.

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— Lo lasci stare, signor Jones — disse alla fine la signora MacLane. — Ci penseranno i prossimi proprietari a spostarlo!

Ma il signor Jones continuò a tirare il ramo, e poi, all'improvviso, Davey si alzò per esclamare: — C'è la signora Winning! Salve, signora Winning!

La signora MacLane e il signor Jones si voltarono, e la signora MacLane salutò con il braccio e disse: — Salve!

Ma la signora Winning si girò dall'altra parte, senza parlare, e con gran-de dignità si avviò verso l'antica casa dei Winning.

Titolo originale: Flower Garden (1949).

Dorothy, la nonna e i marinai C'era un momento dell'anno, a San Francisco (alla fine di marzo, penso),

in cui il clima era sereno, soffiava un bel vento teso, e l'aria, in tutta la cit-tà, portava con sé l'odore fresco del mare e della salsedine.

In quel periodo, poco dopo che il vento era iniziato a soffiare, se guarda-vate oltre Market Street e la Van Ness e la Kearney, c'era al largo la flotta.

Questo, naturalmente, succedeva molto tempo fa, e guardando lungo il Golden Gate, che all'epoca era privo di ponte, si vedevano laggiù le navi della marina militare. C'erano portaerei e incrociatori, e una volta mi pare d'avere visto perfino un sommergibile, ma per Dorothy e per me erano na-vi da guerra, e basta. Arrivavano scivolando sull'acqua, silenziose e com-petentemente dipinte di grigio, e la strade si riempivano di marinai, che camminavano con il dondolio delle onde e che rimanevano imbambolati a guardare le vetrine dei negozi.

Non ho mai saputo che cosa venisse a farci, la flotta; la nonna affermava con sicurezza che veniva a fare carbone; ma quando il famoso vento co-minciava ad alzarsi, Dorothy e io cominciavamo a guardarci attorno con circospezione, camminavamo l'una stretta all'altra e abbassavamo la voce.

Anche se c'erano cinquanta chilometri fra noi e la flotta, quando cammi-navamo voltando la schiena all'oceano ci pareva di sentir arrivare le navi; quando guardavamo in direzione dell'oceano, socchiudendo gli occhi, ci pareva di scorgere, a cinquanta chilometri di distanza, la faccia di un ma-rinaio.

Era colpa dei marinai, naturalmente. Mia madre ci parlava del tipo di ra-gazze che correvano dietro ai marinai, e mia nonna ci parlava del tipo di marinai che correvano dietro le ragazze.

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Quando riferivamo alla madre di Dorothy che le navi erano in porto, lei mormorava, preoccupata: — Non avvicinatevi a nessun marinaio, voi due.

Una volta, quando Dorothy e io avevamo circa dodici anni, e la flotta era in porto, mia madre ci fece alzare e ci guardò attentamente per un lungo minuto, e poi si girò verso la nonna e disse: — Non sono d'accordo che le ragazze vadano al cinema da sole, la sera.

E la nonna commentò: — Sciocchezze; quelli non fanno mai così tanta strada lungo la penisola. Io conosco i marinai.

Io e Dorothy avevamo il permesso di andare al cinema una sola volta la settimana, e anche in quell'occasione dovevamo portare con noi il mio fra-tellino di dieci anni.

La prima volta che tutt'e tre partimmo per andare al cinema insieme, mia madre studiò ancora una volta me e Dorothy, e poi fissò con aria dubbiosa mio fratello, che aveva i capelli rossi e ricciuti; infine, fece per dire qual-cosa, si girò verso la nonna, la guardò e cambiò idea.

Abitavamo a Burlingame, che dista abbastanza da San Francisco da ave-re le palme nei giardini, ma che è abbastanza vicina alla città perché io e Dorothy, in primavera, andassimo laggiù ad acquistare i vestiti di mezza stagione.

In genere, la madre di Dorothy dava a lei i soldi per i vestiti, e Dorothy li dava a mia madre, e poi io e Dorothy ci compravamo gli abiti uguali, con mia madre che presiedeva al rito.

Questo perché la madre di Dorothy non stava mai abbastanza bene per andare a fare compere a San Francisco, soprattutto in compagnia mia e di Dorothy. Di conseguenza, ogni anno, quando il vento si alzava e la flotta era in porto, con le calze di seta pesanti che tenevamo appositamente per quella occasione, e ogni volta con una borsetta di cartone che conteneva uno specchietto, una moneta da 10 centesimi come portafortuna, e un faz-zoletto di chiffon che sporgeva dalla chiusura, salivamo sul sedile poste-riore dell'auto di mia madre, mamma e nonna si mettevano davanti, e ci di-rigevamo verso San Francisco e la flotta.

Acquistavamo sempre i vestiti il mattino, poi ci recavamo a pranzo e mentre io e Dorothy finivamo il gelato con nocciole e cioccolata calda, la nonna telefonava allo zio Oliver, che veniva a prenderci all'imbarcatoio della lancia e ci portava sulla nave.

Lo zio Oliver veniva ad accompagnarci sulla nave per prima cosa perché era un uomo, e per seconda perché nell'ultima guerra era addetto radio su una nave da guerra, e poi perché, dato che un altro mio zio, Paul, era uffi-

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ciale di carriera in marina (la nonna diceva che era su una nave chiamata Santa Volita, o Bonita, o forse Carmelita), lo zio Oliver ci veniva comodo per chiedere informazioni sullo zio Paul.

Infatti, non appena saliti sulla lancia, mia nonna diceva, come se la cosa non le fosse mai venuta in mente: — Guarda, quello sembra un ufficiale; Ollie, va' da lui e chiedigli se conosce il nostro Paul.

Oliver, dato che un tempo lo era stato anche lui, non pensava che i mari-nai potessero costituire un pericolo per Dorothy e per me, se stavamo in-sieme con la mamma e la nonna, e le navi gli piacevano, e perciò veniva con noi, ma ci lasciava non appena saliti a bordo; mentre noi mettevamo piede, esitanti, sulla lancia, lo zio Oliver dava un'occhiata carica di nostal-gia allo scafo verniciato di grigio e partiva alla ricerca della radio.

Quando ci incontravamo con lo zio Oliver sul molo, lui ci comprava un cono di gelato; una volta salite sulla lancia, ci mostrava le navi alla fonda e ce ne diceva il nome.

Di solito si metteva a conversare con i marinai, e presto o tardi riusciva a dire, modestamente: — Ero su una nave anch'io, nel '17 — e il marinaio gli rivolgeva, con rispetto, un cenno della testa.

Giungeva poi il momento di lasciare la lancia e di salire la scaletta che portava sulla nave, e allora mia madre bisbigliava a me e a Dorothy: — Attente a non alzare la gonna — e io e Dorothy, per salire, con una mano ci tenevamo alla ringhiera, e con l'altra tenevamo stretta stretta la gonna, sul davanti.

La nonna era sempre la prima a mettere piede sulla nave; poi arrivavamo noi e dopo venivano mia madre e lo zio Oliver. Una volta salite, mia ma-dre prendeva sottobraccio una di noi e la nonna prendeva sottobraccio l'al-tra, e, camminando lentamente, visitavamo la parte di nave che ci lascia-vano vedere, tolti i piani sottocoperta, che impensierivano mia madre.

Guardavamo con gravità le cabine, e la nonna ci spiegava che erano a tribordo; osservavamo le luci, che a detta della mamma erano a poppa. Passavamo davanti ai pezzi (tutti i cannoni erano "pezzi"), e lo zio Oliver, prendendoci bonariamente in giro, assicurava alla nonna che erano sempre carichi. "In caso di ammutinamento", spiegava.

Sulle navi da guerra c'era sempre un grande numero di visitatori, e lo zio amava radunare attorno a sé un capannello di ragazzini e di giovanotti a cui spiegare il funzionamento dell'apparato radio. Quando riferiva di essere stato operatore radio nel '17, qualcuno invariabilmente gli domandava: — E l'ha mai trasmesso un S.O.S.?

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A quel punto, lo zio Oliver annuiva gravemente e diceva: — Sì, e come vedete, sono ancora qui a raccontarvelo.

Una volta, mentre lo zio Oliver parlava del '17 e la nonna e Dorothy si erano appoggiate alla balaustra e guardavano l'oceano, scorsi un vestito come quello di mia madre e lo seguii per un po', nelle profondità della na-ve, prima che quella donna si girasse e che comprendessi che non era af-fatto mia madre e che mi ero perduta.

Memore di quel che mi aveva detto la nonna, che sarei sempre stata al sicuro, se non avessi perso la testa, mi immobilizzai per guardarmi attorno, finché non scorsi un uomo alto in uniforme, con un mucchio di mostrine e decorazioni.

Sarà un comandante, pensai, e certamente si prenderà cura di me. Fu molto gentile. Gli dissi che mi ero persa; che la mamma, la nonna e

la mia amica Dorothy e lo zio Oliver erano da qualche parte sulla nave, ma che non volevo andare a cercarli da sola.

Disse che mi avrebbe aiutato a trovarli, mi prese sottobraccio e mi ac-compagnò.

In breve trovammo la mamma e la nonna che correvano a cercarmi, con Dorothy che veniva dietro di loro con tutta la velocità che le era possibile. Quando la nonna mi vide, corse a prendermi per il braccio, mi staccò dal comandante e mi diede un forte scrollone.

— Ci hai fatto prendere la peggior paura della nostra vita! — mi sgridò. — Si era soltanto perduta, niente di grave — disse il comandante. — Siamo liete di averla trovata in tempo — disse la nonna, riportandomi

con lei da mia madre. Il comandante ci rivolse un inchino e si allontanò; mia madre mi prese

per l'altro braccio e cominciò a scuotermi. — Non ti vergogni di quello che hai fatto? — mi chiese. Dorothy mi fis-

sò con severità, senza parlare. — Ma era un comandante... — piagnucolai io. — Te l'avrà detto lui di essere un comandante — disse la nonna — ma

era un marine. — Un marine! — esclamò mia madre, sporgendosi a vedere se c'era già

la lancia per portarci a casa. — Cerca Oliver e digli che abbiamo visto ab-bastanza.

A causa di quel che era successo quel pomeriggio, fu l'ultima volta in cui ci permisero di vedere la flotta. Lasciammo lo zio Oliver a casa sua, come al solito, e la mamma e la nonna portarono me e Dorothy alla Giostra per

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la cena. Cenavamo sempre a San Francisco dopo avere visto le navi, poi anda-

vamo al cinema e tornavamo a casa, a Burlingame, la sera tardi. Mangia-vamo al Ristorante della Giostra, dove i piatti sfilavano su una piattaforma rotante, e ci si serviva quando passavano davanti.

Andavamo in quel locale perché a me e a Dorothy piaceva moltissimo e perché, tolte le navi, era il posto più pericoloso di San Francisco, in quanto si dovevano sborsare 15 cent per ogni piatto che si prendeva senza poi fi-nirlo, e io e Dorothy dovevamo pagare questi errori con i nostri soldi delle piccole spese.

Quell'ultima sera, a me e Dorothy costò 45 cent, soprattutto a causa di una torta alla crema che, senza che Dorothy lo sapesse, conteneva anche il cocco.

Il cinematografo scelto da me e Dorothy era pieno, anche se la maschera all'esterno della sala assicurò a mia madre che c'era un mucchio di posto. Mia madre si rifiutò di fare la coda per farsi ridare i soldi, e perciò la non-na disse che dovevamo entrare e aspettare che si liberasse qualche poltro-na.

Non appena si liberarono due posti, la nonna spinse avanti me e Do-rothy, e noi due ci sedemmo. Dopo un bel po' di tempo si liberarono anche le due poltrone a fianco di Dorothy. Stavamo cercando mia madre e mia nonna, quando Dorothy si girò all'improvviso e mi prese per il braccio.

— Guarda — disse, con una sorta di gemito; voltai la testa e vidi due marinai che si avvicinavano a noi, dentro la fila.

Arrivarono ai posti liberi proprio mentre mia madre e mia nonna stavano entrando nella fila, dall'altra parte, e mia nonna ebbe appena il tempo di di-re: — Lasciate stare quelle due ragazze.

Ma due posti, a due file di distanza, si liberarono, e loro dovettero seder-si.

Dorothy si schiacciò contro di me e mi si attaccò al braccio. — Che cosa fanno? — le bisbigliai. — Non si muovono — disse Dorothy. — Che cosa dovrei fare, secondo

te? Io sporsi cautamente la testa a dare un'occhiata. — Fa' finta di non vederli — le consigliai. — Forse si decideranno ad

andarsene. — Facile parlare, per te — disse Dorothy, in tono di tragedia. — Non li

hai vicini, tu.

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— Io sono nel posto accanto al tuo — dissi io, ragionevole. — Mi sem-bra abbastanza vicino.

— Che cosa stanno facendo, in questo momento? — chiese Dorothy. Tornai a sporgere la testa. — Guardano lo schermo — riferii. — Non lo sopporto — disse Dorothy. — Voglio andarmene. E, subito, fummo tutt'e due prese dal panico. Per fortuna, la mamma e la

nonna ci videro nel corridoio e ci raggiunsero. — Che cosa vi hanno detto? — chiese la nonna. — Lo dirò alla masche-

ra. Mia madre disse che se Dorothy si fosse calmata, almeno quanto bastava

per spiegarsi, ci avrebbe portato nella sala da tè vicino al ristorante e ci a-vrebbe preso una cioccolata calda.

Quando fummo sedute, tutt'e due assicurammo che adesso stavamo be-ne, e che invece della cioccolata calda avremmo preferito un gelato al cioccolato.

Dorothy aveva appena ripreso un po' di colore, quando la porta del loca-le si spalancò per lasciar entrare due marinai. Con un balzo selvaggio, Do-rothy corse a rifugiarsi dietro la nonna, si attaccò al suo braccio e cercò di nascondersi.

— No, non voglio che mi prendano... — gemette. — Ci hanno seguito — disse mia madre, indignata. La nonna abbracciò Dorothy. — Povera bambina — disse. — Adesso,

con noi, sei al sicuro. Quella notte, Dorothy dovette fermarsi a dormire da noi. Mandammo

mio fratello dalla madre di Dorothy a riferirle che non sarebbe rientrata e che aveva comprato un soprabito grigio, di tweed spigato, comodo e con una bella fodera. Quella stagione, Dorothy lo mise tutti i giorni.

Titolo originale: Dorothy and My Grandmother and the Sailors (1949).

A colloquio Il dottore aveva un'aria seria e competente. La signora Arnold si sentì

vagamente confortata dal suo aspetto; e la sua agitazione diminuì. Vide che il dottore notò il tremito della sua mano, quando lei si sporse ad ac-cendergli la sigaretta; così gli rivolse un sorriso, per scusarsi, ma lui la guardò negli occhi, con serietà.

— Lei mi sembra un po' scossa — disse gravemente.

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— Sono tanto agitata — rispose la signora Arnold. Cercò di parlare len-tamente, con intelligenza. — È uno dei motivi per cui sono venuta da lei invece che andare dal dottor Murphy... il nostro medico abituale.

Il dottore aggrottò leggermente la fronte. — Mio marito — proseguì la signora Arnold. — Non voglio fargli sape-

re che sono preoccupata, e il dottor Murphy riterrebbe necessario dirglielo. Il dottore annuì. Senza compromettersi, notò la signora Arnold. — Quale sarebbe il disturbo? La signora Arnold trasse un profondo respiro. — Dottore — disse — come si fa a capire se si è pazzi? Il medico alzò la testa. — Non lo dicevo per scherzare — continuò la signora Arnold. — È dif-

ficile da spiegare, comunque. — La pazzia è una cosa molto più complessa di quel che si pensa — dis-

se il dottore. — Sì, lo so che è una cosa complicata — disse la signora Arnold. — È

la sola cosa di cui sono davvero sicura. La pazzia è una delle cose di cui sono sicura.

— Scusi? — È proprio questo il guaio, dottore. La signora Arnold si appoggiò alla spalliera della sedia, tolse i guanti da

sotto la borsetta e li mise sopra. Poi li riprese e li mise di nuovo sotto. — Perché non me ne parla? — suggerì il dottore. La signora Arnold sospirò. — Tutti mi danno l'impressione di capire

perfettamente — disse. — E io non capisco. Senta. Si sporse in avanti, e, mentre parlava, gesticolò con una mano. — Non capisco come vive la gente. Una volta, tutto era così semplice.

Quando ero bambina, vivevo in un mondo pieno di tanta altra gente che la pensava come me, e tutti stavamo insieme e le cose andavano avanti senza problemi.

Guardò il dottore, che era tornato ad aggrottare la fronte, e proseguì, con voce leggermente più stridula: — Ascolti. Ieri mattina, mio marito si è fermato dal giornalaio, mentre andava in ufficio, per prendere il giornale. Lui prende sempre il Times, e lo prende sempre dallo stesso giornalaio, ma ieri l'edicola non aveva più il Times, e allora lui, quando è arrivato a casa per cena, ha detto che il pesce era bruciato e che nel dolce c'era troppo zucchero e per tutta la sera ha continuato a brontolare tra sé.

— Avrebbe potuto chiederlo a un altro edicolante — suggerì il dottore.

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— Spesso le edicole del centro avanzano qualche copia. — No — disse la signora Arnold, lentamente, scandendo la parola. — È

meglio che mi spieghi fin dall'inizio — disse. — Quando ero bambina... S'interruppe. — Ascolti — riprese — a quell'epoca esistevano parole come "medicina

psicosomatica"? O "cartelli internazionali"? O "centralizzazione burocrati-ca"?

— Be'... — cominciò il dottore. — Che cosa significano? — insistette la signora Arnold. — In un periodo di crisi internazionale — disse gentilmente il dottore —

quando s'incontrano, per esempio, modelli culturali in rapida disgregazio-ne...

— "Crisi internazionale" — disse la signora Arnold. — "Modelli cultu-rali".

Cominciò a piangere in silenzio. — Ha detto che quell'uomo non aveva il diritto di non tenergli una copia

del Times — disse istericamente, cercando nella borsa un fazzoletto — e ha cominciato a parlare di pianificazione sociale a livello locale e di reddi-to al netto delle sovrattasse e di concetti geopolitici e di inflazione defla-zionaria.

La sua voce salì a un gemito. — Ha proprio detto "inflazione deflazionaria" — ripeté. — Signora Arnold — disse il medico, girando attorno alla scrivania. —

Comportarsi in questo modo non le servirà a niente. — Servire a cosa? — disse la signora Arnold. — Sono davvero tutti

pazzi, tranne me? — Signora Arnold — disse il medico, con voce severa — le chiedo di

controllarsi. In un mondo disorientato come quello odierno, spesso l'alie-nazione dalla realtà...

— Disorientato — disse la signora Arnold. Si alzò in piedi. — Aliena-zione — disse. — Realtà.

Prima che il dottore facesse in tempo a fermarla, arrivò alla porta e l'a-prì.

— La realtà — disse, e se ne andò via. Titolo originale: Colloquy (1944).

Elizabeth

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Poco prima che la sveglia suonasse, Elizabeth era sdraiata in un giardi-

no, al caldo e sotto il sole, ed era circondata da prati verdi che si stendeva-no a perdita d'occhio. Il campanello della sveglia era un fastidio, un avver-timento di cui tenere conto; preoccupata, Elizabeth si scosse nel sole ro-vente e capì di essersi svegliata.

Quando aprì gli occhi e vide che pioveva e scorse il profilo bianco della montagna sullo sfondo del cielo grigio, cercò di voltarsi e di seppellire la faccia nell'erba verde, ma era mattina, e la forza dell'abitudine la sollevava e la trascinava lontano, la portava nella giornata grigia e piovosa.

Erano le otto passate. Lo diceva l'orologio, il termosifone gorgogliava e dalla strada, due piani sotto, veniva lo sgradevole rumore mattutino della folla che si agitava per andare al lavoro.

Con riluttanza, uscì dalle coperte e posò i piedi a terra, per poi sedersi sul bordo del letto. Quando si alzò e s'infilò la vestaglia, la giornata aveva già ripreso la sua normale routine; dopo la prima involontaria ribellione contro la sveglia mattutina, si arrendeva al programma di doccia, trucco, vestito, colazione che la guidava attraverso gli inizi del nuovo giorno per poi consegnarla al mattino, dove lei dimenticava l'erba verde e il sole caldo e cominciava a fare progetti per il pomeriggio e la sera.

Poiché pioveva, e visto che quel giorno non aveva appuntamenti partico-lari, si mise il primo vestito che le capitò sotto mano: un tailleur di lana, grigio, che le stava largo e non aveva più alcuna linea, adesso che era di-magrita, e una camicetta azzurra che non le era mai piaciuta molto.

Conosceva la propria faccia troppo bene per rallegrarsi dell'esame lungo e attento a cui la sottoponeva nel truccarsi; verso le quattro del pomerig-gio, le sue gote pallide e sottili si riempivano e si riscaldavano, e il rosset-to, che sembrava troppo scuro per i suoi capelli neri e i suoi occhi castani, prendeva una tinta più calda, nonostante la camicetta azzurra, ma quel mat-tino lei pensò, come le capitava tutte le mattine, davanti allo specchio, che avrebbe preferito essere bionda, senza capire che lo diceva perché aveva qualche filo grigio tra i capelli.

Poi attraversò in fretta il suo appartamento di una sola stanza, con la cer-tezza che viene dall'abitudine più che dalla convinzione; dopo più di quat-tro anni in quella casa, ne conosceva tutte le possibilità, sapeva come po-tesse sembrare falsamente accogliente e caldo quando le occorreva un po-sto dove nascondersi, come sembrasse caderle addosso quando si svegliava all'improvviso nella notte, come riuscisse a trascurarsi fino a divenire, in

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mattinate come quella, un'antipatica massa di disordine, ansiosa di cacciar-la via e di tornare a dormire.

Il libro da lei letto la sera prima era posato a faccia in giù sul tavolino, il posacenere era pieno di mozziconi, i vestiti di ieri erano posati sulla spal-liera di una seggiola, in attesa di andare in tintoria.

Dopo essersi infilata cappellino e soprabito, Elizabeth si ricordò che do-veva rifare il letto. Lo fece in fretta, tirando la coperta sulle grinze del len-zuolo, ammucchiò sul ripiano dell'armadio la roba da mandare in tintoria, e pensò: Questa sera, al mio ritorno, devo spolverare e spazzare, e magari lavare il bagno; verrò a casa, farò un bagno caldo e mi laverò i capelli e mi farò la manicure.

Chiuse a chiave la porta e si avviò lungo le scale, pensando: Oggi potrei andare in qualche negozio a comprare un tessuto allegro per foderare le poltrone e per mettere le tende. Potrei cucire la sera, e la mia stanza non sembrerebbe così triste, la mattina al risveglio; potrei comprare dei piatti gialli e appenderli alla parete, in fila.

Come in Mademoiselle, pensò poi ironicamente, quando giunse davanti al portone: "La giovane e brillante donna d'affari e il suo appartamento monolocale". Fatto per invitare giovani e brillanti uomini d'affari. Mi ser-virebbe un arredamento pieghevole, che una volta chiuso diventasse una scrivania e una libreria, e una volta aperto un tavolo da pranzo per dodici persone.

Mentre era ferma sulla soglia del portone e si infilava i guanti auguran-dosi che la pioggia cessasse immediatamente, l'uscio dietro di lei si aprì e si affacciò una donna che chiese: — Chi è?

— Sono Elizabeth Style — disse — signora Anderson. La porta si spalancò del tutto e la vecchia uscì. — Pensavo che fosse quel giovanotto che abita sopra di lei — disse. —

Voglio dirgli di non lasciare gli sci fuori della porta. Per poco non mi sono rotta una gamba.

— Preferirei restare a casa. È una così brutta giornata. La vecchia fece qualche passo verso di lei e guardò fuori, stringendosi

nella vestaglia unta. A quella vista, Elizabeth ebbe subito l'impressione che il suo tailleur fosse bello ed elegante.

— È già il secondo giorno che cerco di parlargli — continuò la vecchia. — Ma entra ed esce senza fare rumore.

Rise e guardò con la coda dell'occhio Elizabeth. — L'altra sera stavo quasi per fermare quel suo conoscente — disse. —

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Ma l'ho riconosciuto in tempo. — Rise. — Penso che tutti gli uomini scen-dano le scale senza fare rumore. Avranno paura di qualcosa.

— Be', se voglio arrivare in ufficio, è meglio che mi sbrighi — disse E-lizabeth.

Indugiò ancora per un attimo sulla soglia, per rimandare l'incontro con il giorno, con la pioggia e con la gente. Abitava in una via tranquilla, che più tardi si riempiva di bambini rumorosi e che nelle belle giornate era fre-quentata da un mendicante con l'organetto.

Elizabeth non amava mettere le soprascarpe perché aveva i piedi piccoli ed eleganti; in un giorno come quello, camminava lentamente, attenta a non calpestare le pozzanghere.

Era già tardi. Al banco del drugstore all'angolo c'era solo qualche perso-na seduta. Elizabeth si appoggiò a uno sgabello, ormai rassegnata al ritar-do, e attese pazientemente che il cameriere le portasse il succo d'arancia.

— Salve, Tommy — gli disse, senza calore. — Buon giorno, signorina Style — disse lui. — Brutto tempo, vero? — No — rispose lei — è il tempo migliore per rimanere a casa. — Io sono arrivato stamattina presto — disse Tommy. — Avrei dato un

occhio per rimanere a letto. Dovrebbero fare una legge contro la pioggia. Tommy era basso di statura, brutto come il peccato e attento come una

faina. Guardandolo, Elizabeth pensò: Anche lui si deve alzare per venire al lavoro, come me e come ogni altra persona al mondo. La pioggia è solo una tra le tante cose sgradevoli che si incontrano andando al lavoro.

— La neve non mi dà fastidio — continuava Tommy — e neanche il caldo, ma la pioggia sì.

Poi si affrettò a voltarsi, perché qualcuno l'aveva chiamato, e corse dal-l'altra parte del banco, a salutare il cliente.

— Brutta giornata, vero? — disse. — Non preferirebbe essere in Flori-da?

Elizabeth bevve il succo d'arancia, e ripensò al sogno. Per un attimo, nella mente le riaffiorò l'immagine dei fiori e del sole caldo, ma fu subito cacciata via dal rumore della pioggia che scrosciava all'esterno.

Tommy le portò il caffè e il pane tostato. — Niente di meglio del caffè — disse — per mettere allegria la mattina. — Grazie, Tommy — rispose lei, poco convinta. — A proposito, come

va la tua commedia? Tommy sorrise. — Sa? — fece. — L'ho finita. Mi sono dimenticato di

dirglielo. L'ho finita e l'ho mandata via due giorni fa.

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Che assurdità, pensò lei. Il cameriere del drugstore, che si alza la mattina e viene a servire, e poi scrive una commedia, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se lo facessero tutti, come se lo facessi io. — Bene — disse.

— L'ho mandata a un agente che mi ha consigliato un amico. Dice che è il miglior agente che conosce.

— Tommy — disse lei — perché non l'ha data a me? Tommy ridacchiò e abbassò gli occhi sulla zuccheriera che le stava por-

gendo. — Senta — disse — il mio amico dice che non vi interessano i lavori

come il mio, ma che cercate gente di fuori, che non sa se è capace di scri-vere. Accidenti — aggiunse, con veemenza — io non ho mica bisogno di leggere gli annunci sui giornali!

— Capisco — rispose Elizabeth. Tommy si sporse verso di lei. — Non se la prenda — disse. — Ha capito cosa voglio dire. Lei conosce

il suo lavoro meglio di me. — Non vedo perché dovrei prendermela — rispose lei. Guardò Tommy che correva da un altro cliente, e pensò: Aspetta che lo

dica a Robbie. Sarà contento di sapere che il barista all'angolo lo giudica un imbroglione.

— Senta — le disse Tommy, da un paio di metri di distanza. — Quanto dovrò aspettare per una risposta? Quanto ci mettono, a leggere un copione, gli agenti?

— Un paio di settimane — disse lei. — Magari di più. — Lo pensavo anch'io — rispose lui. — Vuole dell'altro caffè? — No, grazie — disse Elizabeth. Scese dallo sgabello e andò alla cassa a

pagare. Pensò: Probabilmente, qualcuno gli comprerà la commedia, e io andrò a far colazione alla tavola calda qui di fronte.

Quando uscì di nuovo nella pioggia, vide che il suo bus era appena arri-vato alla fermata, dall'altra parte della strada. Corse a prenderlo, attraver-sando col rosso, e s'infilò tra la gente che aspettava di salire.

Era irritata a causa di Tommy e della sua commedia, e si fece largo con la forza, in mezzo alla gente e una donna si girò verso di lei e disse: — Ma cosa crede di spingere?

Allora, vendicativamente, Elizabeth le assestò una gomitata nelle costole e salì prima di lei. Infilò la moneta nella scanalatura e si accomodò sull'ul-timo sedile rimasto libero, mentre la donna, dietro di lei, commentava: —

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Certa gente crede di poter spingere gli altri; è convinta di essere chissà chi. Si guardò attorno, per vedere se qualcuno la guardava. L'uomo accanto a

lei, nel sedile accanto ai finestrini, guardava fisso davanti a sé con l'espres-sione infinitamente stanca dei passeggeri dell'autobus del mattino; le due ragazze davanti a lei guardavano un giovanotto che attraversava la strada, e nel corridoio accanto al sedile di Elizabeth la donna continuava a lamen-tarsi: — Gente che pensa che il suo lavoro sia il più importante che c'è al mondo. Pensa di potersi fare largo a spintoni.

Nessuno l'ascoltava, tutti gli altri passeggeri erano bagnati, irritati, schiacciati dalla calca, ma la donna continuava, monotona: — Secondo certa gente, l'autobus è tutto loro...

Elizabeth si girò verso il finestrino, e non spostò più la testa finché i nuovi passeggeri saliti alle fermate successive non costrinsero la donna ad andare avanti.

Quando arrivò alla sua fermata, Elizabeth esitò per qualche istante, chie-dendosi se fosse il caso di farsi avanti con uno spintone, ma, arrivata alla porta, vide che la donna era ferma lì accanto: la guardava come se non vo-lesse scordarsi il suo volto.

— Zitellaccia inacidita — disse la donna, a voce alta, e la gente attorno a Elizabeth, sull'autobus, scoppiò a ridere.

Elizabeth fece una smorfia sprezzante, posò con attenzione il piede sul marciapiede e, quando sollevò gli occhi e l'autobus le passò davanti, vide che la donna la guardava ancora dal finestrino.

Camminò in mezzo alla pioggia, fino al vecchio palazzo dove aveva l'uf-ficio, e si disse: Quella donna aspettava soltanto l'occasione di sfogarsi con qualcuno. Avrei dovuto risponderle a tono.

— Buon giorno signorina Elizabeth — disse il manovratore dell'ascen-sore.

— Buon giorno — rispose lei. Entrò nella cabina, che era solo una gab-bia di ferro battuto, senza vetri, e si appoggiò in fondo.

— Brutta giornata — disse il manovratore. Attese ancora un istante, poi chiuse la porta. — Giornata fatta per rimanersene a casa — aggiunse.

— Davvero — rispose lei. Avrei dovuto dire qualcosa a quella donna sull'autobus, pensava. Non

avrei dovuto permetterle di passarla liscia, non avrei dovuto cominciare così la giornata, con un incontro sgradevole. Se le avessi risposto a tono, adesso sarei soddisfatta di me stessa. Avrei cominciato bene la giornata.

— Lei è arrivata — disse il manovratore. — Adesso, per un po', non do-

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vrà più uscire sotto la pioggia. — Per fortuna — disse Elizabeth. Uscì dall'ascensore e si diresse lungo

il corridoio, fino al suo ufficio. C'era una luce all'interno, e si vedeva bene la scritta sulla porta a vetri: "Robert Shax, Agenzia Letteraria". Così illu-minata, diventa quasi gradevole, pensò. Robbie deve essere arrivato in an-ticipo.

Elizabeth lavorava per Robert Shax da più di dieci anni. Quando era ar-rivata a New York, aveva vent'anni ed era una ragazza minuta e bruna, con i vestiti ben stirati, i capelli lisci, e una dose non eccessiva di ambizione; teneva con tutt'e due le mani la borsetta, per paura della sotterranea, e, ri-spondendo a un avviso letto per caso, aveva avuto un colloquio con Robert Shax ancor prima di trovarsi una stanza.

Era un avviso che sembrava promettere grandi cose, cercasi assistente in un'agenzia letteraria, e non c'era nessuno a spiegare a Elizabeth Style, che chiedeva timidamente ai passanti dove fosse quell'indirizzo, che non si trattava di un lavoro che valesse la pena.

L'agenzia letteraria era composta di Robert Shax e di un uomo magro e intelligente che aveva subito preso Elizabeth in antipatia, a tal punto che, due anni più tardi, lei si era presa Robert Shax e l'aveva convinto a metter-si in proprio.

Era il nome di Robert Shax a figurare sulla porta e sugli assegni, ed Eli-zabeth Style rimaneva nascosta agli occhi del pubblico, nel suo ufficio, a scrivere le lettere, a tenere l'archivio, e usciva soltanto occasionalmente, per andare a cercare qualcosa nei dossier che aveva lasciato nella stanza di Robert Shax per fargli fare bella figura.

Negli otto anni passati in quell'ufficio avevano tentato molte volte di dargli l'aspetto di un ambiente spartano in cui aveva sede un'attività fioren-te, ma la sua aria era sempre la stessa: un ufficetto miserabile, dove lavo-rava gente troppo occupata per abbellirlo più del minimo indispensabile.

Dalla porta a vetri si accedeva a una piccola stanza d'attesa, dipinta color tabacco l'anno precedente, arredata con due sedie metalliche cromate, di poco prezzo, con il pavimento di linoleum e alla parete una stampa incor-niciata rappresentante un vaso di fiori.

Sotto la stampa c'era la piccola scrivania occupata, cinque pomeriggi la settimana, dalla signorina Wilson, una ragazza scialba che, quando rispon-deva al telefono, tirava su col naso.

Dietro la Wilson c'erano due porte, che non davano affatto l'impressione di una serie infinita di uffici capace di coprire tutto il piano, come avrebbe

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sperato Robert Shax. Sulla porta di quello a sinistra c'era scritto "Robert Shax" e su quella a destra "Elizabeth Style", e dietro le porte di vetro opa-co si vedeva il chiarore della stretta finestra di ciascun ufficio: una finestra così attaccata alla parete divisoria da far capire che i due uffici, messi in-sieme, erano grossi come la sala d'attesa, e da suggerire che l'intimità del signor Shax e della signorina Style fosse protetta unicamente da un diviso-rio di compensato, dipinto in modo da sembrare una parete in muratura.

Tutte le mattine, Elizabeth Style arrivava in ufficio con l'impressione che si potesse ancora fare qualcosa per renderlo rispettabile, con dei pan-nelli o delle veneziane, o con una libreria dall'aria efficiente, contenente i classici e le ultime novità che Robert Shax aveva presumibilmente venduto agli editori con cui era in contatto. O un tavolino su cui posare riviste di lusso.

Alla signorina Wilson sarebbe piaciuto avere una radio, ma Robert Shax aspirava invece a un ufficio lussuoso, con tappeti spessi e scrivanie soli-damente posate sul pavimento e nugoli di segretarie.

Quel giorno l'ufficio sembrava più allegro del solito, probabilmente per-ché fuori continuava a piovere, o perché la luce era accesa e così pure le stufette elettriche.

Elizabeth Style si diresse verso il proprio ufficio e disse, nell'aprirlo: — Ciao, Robbie.

Dato che nell'ufficio non c'era nessuno, era inutile fingere che i divisori di compensato fossero muri spessi.

— Ciao, Liz — disse Robbie. E poi: — Perché non vieni da me? — Mi tolgo solo il soprabito — rispose lei. Nell'angolo del suo ufficio c'era un piccolo attaccapanni, e lei doveva

passare dietro la scrivania per arrivarci. Vide che sulla scrivania c'era la posta: quattro o cinque lettere e una grossa busta che doveva essere un manoscritto.

Allargò le lettere sul ripiano del tavolo per essere certa che non conte-nessero niente di particolarmente interessante, e poi uscì dal suo ufficio ed entrò in quello di Robbie.

Lo vide curvo sulla scrivania, in un atteggiamento che doveva mostrare estrema concentrazione; girava verso di lei la nuca, su cui i capelli comin-ciavano a diradarsi, e le sue spalle larghe e tonde oscuravano tutta la parte inferiore della finestra.

L'ufficio di Robbie era quasi esattamente simile al suo. Oltre alla scriva-nia, c'erano un piccolo mobile archivio e la foto con autografo di uno dei

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pochi scrittori di discreto successo che erano passati per l'agenzia. La fotografia era firmata: "A Bob, con la massima gratitudine, Jim", e

Robert Shax la usava come esempio nelle conversazioni con gli autori an-siosi di essere pubblicati. Dopo avere chiuso la porta, Elizabeth si trovò a un passo dalla sedia degli ospiti, posta accanto alla scrivania; si sedette e tese i piedi davanti a sé.

— Mi sono bagnata fino all'osso, nel venire qui — disse. — Che giornata orrenda — disse Robbie, senza alzare gli occhi. Quando

era solo con Elizabeth, rinunciava al tono deciso che di solito gli compari-va nella voce, e si concedeva di sembrare stanco e preoccupato.

Quel giorno, Robbie indossava il suo completo migliore, di colore gri-gio. Più tardi, in mezzo ad altra gente, avrebbe avuto l'aspetto di un uomo che giocava a golf, di un uomo che mangiava grosse bistecche al sangue e che usciva con belle ragazze.

— Che giornata del cavolo — ripeté Robbie. Guardò Elizabeth. — Liz — disse — quel maledetto pastore è di nuovo in città.

— Ecco perché sei preoccupato — commentò lei. Fino a un momento prima, Elizabeth era pronta a lamentarsi con lui, a raccontargli della donna dell'autobus, a chiedergli di stare su con la schiena, ma adesso, saputa la notizia, non poteva più dire niente.

— Povero Robbie — si limitò a commentare. — C'è qui un suo biglietto — disse Robbie. — Devo andare da lui sta-

mattina. È in quella maledetta pensione. — E cosa pensi di dirgli? — chiese Elizabeth. Robbie si avvicinò alla finestra. Nella stanza c'era appena lo spazio suf-

ficiente per passare; in un altro momento, Elizabeth avrebbe potuto fare qualche commento sul fatto che era ingrassato, ma senza cattiveria.

— Non so che diavolo dirgli — mormorò Robbie. — Gli prometterò qualcosa.

Lo so, pensò Elizabeth. S'immaginava le manovre di Robbie per sfuggire a una situazione imbarazzante: Robbie che stringeva allegramente la mano al vecchio, lo chiamava "signore" e, tenendo dritte le spalle, diceva che le sue poesie erano "belle, signore, davvero magnifiche" e gli prometteva qualsiasi cosa, senza riflettere, solo per liberarsi di lui.

— Ti metterai in qualche guaio — disse lei, sorridendo. Robbie rise allegramente. — Ma almeno, per un po' di tempo, starà tran-

quillo. — Dovresti telefonargli o qualcosa di simile. Mandagli un biglietto —

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suggerì Elizabeth. — Perché? — chiese Robbie. Elizabeth vedeva che l'idea di cacciarsi nei guai, di comportarsi da irre-

sponsabile, lo attraeva. Robbie avrebbe preso la metropolitana per il lungo viaggio fino al centro, e poi, per arrivare alla grande, avrebbe fatto gli ul-timi due isolati in taxi: il tutto per discutere un'ora con il vecchio, ma in quell'ora si sarebbe sentito importante ed efficiente.

Cerchiamo di tirarlo su, pensò. È lui che ne ha bisogno; più di me. — Non dovresti trattare da solo questo genere di affari — disse. — Sei

troppo sciocco. Lui rise e fece il giro del tavolo per darle una pacca sulla testa. — Noi

due andiamo avanti bene, non ti pare? — Ah, benissimo — rispose lei. A quel punto, Robbie cominciò a riflettere; alzò la testa e anche la sua

voce tradì una maggiore sicurezza. — Gli dirò che hanno chiesto una sua poesia per una raccolta. — Sì, ma non dargli nessun anticipo; quell'uomo ha più soldi di noi. Robbie prese dall'attaccapanni il soprabito (si era messo quello bello,

oggi) e se lo mise distrattamente sul braccio. S'infilò il cappello e prese la cartella posata sulla scrivania.

— Ho qui nella borsa tutte le poesie del vecchio — spiegò. — Pensavo di leggergliele a voce alta.

— Buon viaggio — gli augurò lei. Robbie la accarezzò di nuovo sulla nuca, poi aprì la porta. — Ti occupi tu, dell'ufficio? — Cercherò — rispose Elizabeth. Lo accompagnò fino all'uscita, e poi fece per rientrare nella sua stanza.

Un istante dopo, Robbie le disse, senza girarsi: — Liz? — Sì? Lui rifletté un attimo. — Mi sembra che avessi una cosa da dirti — spie-

gò. — Ma non fa niente. — Ti aspetto per pranzo? — Ci sarò alla mezza — promise Robbie. Chiuse la porta; Elizabeth sentì i suoi passi decisi echeggiare nel corri-

doio, fino all'ascensore; i passi di un uomo indaffarato, pensò, nel caso qualcuno stesse ad ascoltare in quell'orribile vecchio palazzo.

Si sedette per qualche minuto alla scrivania, e fumò una sigaretta, pen-sando che avrebbe potuto pitturare le pareti di un bel verde chiaro.

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Se si fosse fermata dopo l'orario d'ufficio, avrebbe potuto farlo lei stessa. Bastava una latta di vernice, pensò con irritazione, per tinteggiare un uffi-cio piccolo come il suo, e con la pittura rimasta si poteva rifare tutta la fac-ciata del palazzo.

Poi spense la sigaretta e pensò: Dopo tanti anni qui dentro, dovrebbe ar-rivarmi un cliente da un milione di dollari, e allora potrei andare in un altro ufficio con le pareti insonorizzate.

La posta del mattino non conteneva niente di buono. Il conto del denti-sta, una lettera di un cliente dell'Oregon, un paio di pubblicità, una lettera di suo padre, e la grossa busta che conteneva quasi certamente un mano-scritto.

Elizabeth cestinò subito le pubblicità e il conto del dentista, che portava il timbro SI PREGA DI PROVVEDERE CON URGENZA, mise da una parte la lettera del cliente e il manoscritto e poi aprì la lettera del padre.

Era nel suo solito stile: cominciava con "Figliola car.ma" e terminava con "Il tuo affez.mo Padre", e le diceva che il negozio incassava poco, che sua sorella in California era di nuovo incinta, che l'altro giorno la vecchia signora Gill aveva chiesto di lei, che lui si sentiva molto solo dopo la mor-te della mamma. E che sperava che lei stesse bene.

Elizabeth le fece fare la fine delle pubblicità e del conto del dentista: nel cestino.

Il cliente dell'Oregon chiedeva informazioni sul manoscritto da lui spe-dito tre mesi prima; la busta grossa conteneva un romanzo scritto a mano, di un giovane di Allentown che chiedeva di piazzarlo subito presso un edi-tore, detraendo dal pagamento della casa editrice la loro tariffa.

Elizabeth prese a sfogliare distrattamente il manoscritto, leggendo qual-che parola qui e là; poi, giunta a metà, lesse un'intera pagina, tornò indietro e lesse qualche altro brano.

Senza staccare gli occhi dal manoscritto, si curvò a frugare nel cassetto inferiore della scrivania, e alla fine trovò quello che cercava: un bloc-notes, con già molte pagine di appunti. Cercò una pagina bianca e copiò un paragrafo del manoscritto, pensando: Posso rovesciare la scena, facendo diventare questo personaggio una donna invece di un uomo; prese perciò un appunto: "Renderla D., qualsiasi nome tolto Helen", che era quello del-la protagonista.

Poi tornò a infilare il notes nel cassetto e mise il manoscritto in un ango-lo della scrivania, per poter alzare il pannello che faceva uscire la macchi-na da scrivere.

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Prese un foglio di carta da lettere con l'intestazione "Agenzia Letteraria Robert Shax, Elizabeth Style, Settore Narrativa" e lo infilò nel rullo. Stava scrivendo il nome del giovane e il suo indirizzo, Fermo Posta, Allentown, quando sentì aprirsi la porta che dava sull'esterno.

— Salve — disse, senza alzare gli occhi. — Buon giorno. Solo adesso, Elizabeth decise di girarsi; la nuova venuta aveva una voce

squillante, giovane. Vide una ragazza alta, bionda, che entrò nella piccola anticamera come se si sentisse in soggezione, qualunque fosse il suo desti-no lì dentro.

— Cercava me? — chiese Elizabeth, senza staccare le dita dalla tastiera. Se Dio ci ha mandato un cliente, pensò, è meglio avere un'aria intellettua-le.

— Cercavo il signor Shax — disse la ragazza, fermandosi sulla soglia dell'ufficio di Elizabeth.

— È dovuto uscire per un affare importantissimo — disse Elizabeth. — Lei ha un appuntamento?

La ragazza ebbe un attimo di esitazione, come se non fosse certa dell'au-torità di Elizabeth.

— Non esattamente — disse infine. — Ma dovrei venire a lavorare qui, credo.

Già, ecco cosa aveva da dirmi Robbie, pensò Elizabeth. Quel codardo. — Capisco — disse alla ragazza. — Venga avanti, si accomodi. La ragazza entrò; era un po' impacciata, ma non sembrava timida. Pensa

che doveva informarmi Robbie, non lei, capì Elizabeth. — Il signor Shax le ha detto di venire a lavorare qui? — Be' — disse la ragazza, che in quei pochi istanti doveva avere deciso

di fidarsi di Elizabeth — lunedì verso le cinque ho fatto un giro per tutti gli uffici del palazzo per chiedere se serviva un'impiegata, e quando sono ve-nuta qui, il signor Shax mi ha mostrato l'ufficio e ha detto che gli sem-bravo la persona adatta.

Poi rifletté su quel che aveva detto, e aggiunse: — Lei non c'era. — Non ci sono mai, a quell'ora — confermò Elizabeth. Robbie lo sa da lunedì, pensò, e io vengo a scoprirlo... cos'è oggi? mer-

coledì?... solo mercoledì, quando la ragazza viene al lavoro. — Non le ho chiesto come si chiama — aggiunse. — Daphne Hill — disse la ragazza, piano. Elizabeth scrisse "Daphne Hill" sull'agenda e osservò a lungo quelle due

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parole, in parte per dare l'impressione di voler giungere a un'importante decisione, in parte per vedere che effetto faceva "Daphne Hill", a leggerlo.

— Ha detto il signor Shax... — cominciò la ragazza, per poi interrom-persi. Aveva un timbro di voce leggermente stridulo, e quando era ansiosa sgranava gli occhi (castani, troppo piccoli) e poi li batteva rapidamente.

A parte i capelli, che erano biondo chiaro e con grossi riccioli appuntati sulla cima della fronte, era una ragazzina impacciata e goffa, vestita in un modo che, secondo lei, doveva fare bella impressione il primo giorno di lavoro.

— Che cosa ha detto il signor Shax? — chiese Elizabeth, vedendo che la ragazza aveva rinunciato a lottare.

— Ha detto che non era contento dell'impiegata che ha adesso, e che do-vevo imparare il suo lavoro per prendere poi il suo posto, e che dovevo presentarmi oggi perché ieri lui l'avrebbe avvertita della mia venuta.

— Bene — disse Elizabeth. — E lei sa dattilografare, allora? — Credo di sì — rispose la ragazza. Elizabeth guardò la lettera infilata nel rullo della sua macchina da scrive-

re e poi disse: — Allora, vada in sala d'attesa e si sieda alla scrivania. Se il telefono

suona, risponda. Legga, o faccia qualcosa. — Sì, signorina Style — disse la ragazza. — E non si dimentichi di chiudere la porta del mio ufficio — disse anco-

ra Elizabeth. Guardò con attenzione la ragazza, mentre questa usciva e chiudeva con

cura la porta. Non disse alla ragazza quello che avrebbe voluto dirle; in parte, comunque, si ripromise di dirlo a Robbie, all'ora di pranzo.

Che cosa significa? si chiese all'improvviso, preoccupata. La Wilson è qui da tanti anni. Che Robbie cerchi di abbellire l'ufficio, alla sua solita maniera da pasticcione?

Farebbe meglio a comperare una libreria; chi insegnerà a questa assurda ragazza a rispondere al telefono e a scrivere le lettere, come fa adesso la Wilson? Toccherà a me, si disse alla fine.

Come sempre, dovrò essere io a salvare Robbie da questo suo ultimo ge-sto impulsivo, da questa conseguenza della sua mania di grandezza. Come sempre. Cosa non mi tocca fare per un miserabile ufficetto e per la possibi-lità di guadagnare qualcosa! Chissà, magari Daphne potrebbe aiutarmi a dipingere le pareti dopo l'orario d'ufficio; forse l'unica cosa di cui si inten-de Daphne è la pittura.

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Tornò a dedicarsi alla lettera: la solita lettera di incoraggiamento a un nuovo cliente. Rientrava in una semplice formula, e lei la scrisse senza esi-tazioni, battendo a macchina in modo un po' dilettantesco, ma in fretta.

"Caro signor Burton" scrisse "abbiamo letto il suo romanzo con molto interesse. La storia è ben congegnata, e ci sembra che il personaggio di..."

Andò a controllare sul manoscritto, aprendolo a caso. Poi continuò: "...Lady Montague, in particolare, abbia qualità particolari, eccezionali.

Naturalmente, trattandosi di un'opera prima, per adeguarlo alle necessità del mercato editoriale più redditizio occorre qualche ritocco da parte di un abile redattore di professione: un servizio decisivo nel facilitare la vendita, che noi siamo comunque in grado di offrire ai nostri autori. Le tariffe..."

— Signorina Style? — chiese Daphne. Nonostante il divisorio in compensato, Elizabeth disse: — Se vuole par-

lare con me, signorina Hill, venga nel mio ufficio. Dopo un istante, la signorina Hill aprì la porta ed entrò. Elizabeth vide

che aveva lasciato la borsetta sulla scrivania dell'ingresso, e che accanto al-la borsetta c'erano il rossetto e lo scatolino del trucco.

— Quando arriva, il signor Shax? — chiese la ragazza. — Probabilmente, non prima del pomeriggio. Aveva un appuntamento

con un cliente importante — spiegò Elizabeth, e aggiunse: — Perché, è venuto qualcuno?

— No. Mi chiedevo... — rispose la signorina Hill. Chiuse la porta e tornò rumorosamente a sedere nell'anticamera. Eliza-

beth diede un'altra occhiata alla lettera che stava scrivendo, e poi girò la sedia, per appoggiare i piedi sulla stufetta, sotto la finestra.

Dopo un poco, aprì l'ultimo cassetto della scrivania e prese la ristampa tascabile di un romanzo giallo. Con i piedi sul calorifero, si mise a leggere.

Perché pioveva, e perché era depressa e irritata, e anche perché Robbie all'una meno un quarto non si era ancora fatto vedere, Elizabeth si fece servire un martini al tavolo, e guardò sfilare davanti al banco tutta una se-rie di persone male in arnese.

Il ristorante era affollato, il pavimento era bagnato dai piedi di coloro che arrivavano dalla pioggia, l'ambiente era buio e squallido.

Elizabeth e Robbie vi si recavano a colazione un paio di volte la setti-mana, fin da quando avevano aperto l'ufficio nel palazzo adiacente.

La prima volta che si erano recati in quel locale, era estate, ed Elizabeth, con un abito scuro, di seta (se ne ricordava ancora; ma adesso le sarebbe diventato piccolo), cappellino e guanti bianchi, era emozionata e felice per

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la nuova, grande carriera che la attendeva. Quel giorno, lei e Robbie si erano tenuti per mano, appoggiando le brac-

cia sul tavolo, e avevano fatto piani entusiastici: contavano di rimanere nel vecchio palazzo per un solo anno, e di guadagnare abbastanza da trasferirsi in centro. Avevano parlato dei buoni clienti che si sarebbero presentati alla nuova agenzia Robert Shax: dovevano essere scrittori onesti e stimati, con sotto il braccio i manoscritti di grandi bestseller; loro sarebbero andati a colazione con i direttori delle case editrici, nei locali eleganti del centro, e l'aperitivo prima di far colazione sarebbe stato una consuetudine, e non un caso eccezionale.

A quell'epoca, la prima risma di carta con l'intestazione "Agenzia Lette-raria Robert Shax, Elizabeth Style, Settore Narrativa" non era ancora arri-vata: avevano discusso quel giorno, a colazione, come intestarla.

Elizabeth si chiese se non fosse il caso di bere un altro martini, e poi vi-de Robbie, che si faceva strada con irritazione in mezzo alle persone ferme nel passaggio.

Anche lui la vide, dal fondo della sala, e la salutò con un ampio gesto della mano, per fare impressione sulla gente che lo stava osservando: in quel momento era un dirigente che arrivava in ritardo a una colazione di lavoro, e il fatto che si trattasse di un ristorantino squallido come quello aveva poca importanza.

Quando arrivò al tavolo, e voltò le spalle alla folla, fece la faccia stanca e abbassò la voce.

— Finalmente ce l'ho fatta — disse. Guardò con aria stupita il bicchiere vuoto del martini. — Io non ho neppure fatto colazione! — protestò.

— Te la sei vista brutta, con il pastore? — chiese Elizabeth. — È stato terribile — rispose lui. — Vuol vedere pubblicato entro l'anno

un suo libro di poesie. — E tu, che cosa gli hai detto? Elizabeth cercò di non lasciar trasparire la preoccupazione. La riserverò

per dopo, pensò, quando si degnerà di rispondere. — Non so — rispose Robbie. — Cosa diavolo vuoi che ricordi quel che

ho detto a quel vecchio idiota? Si sedette pesantemente. — Gli ho detto che avremmo fatto del nostro meglio. Questo significa che ha combinato un pasticcio, pensò Elizabeth. Se a-

vesse combinato qualcosa di buono, me l'avrebbe raccontato nei minimi particolari.

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All'improvviso, si sentì immensamente stanca, lasciò cadere le spalle e sedette come un'allocca, fissando le persone che entravano e uscivano. Come devo parlargli? si chiese. Come posso fare, perché Robbie, final-mente, lo capisca?

— Perché quell'aria così abbattuta? — chiese all'improvviso Robbie. — Non sei stata tu a doverti recare in quell'accidente di centro senza fare co-lazione.

— Ho avuto anch'io una mattinaccia — disse Elizabeth. Robbie alzò lo sguardo, in attesa che lei continuasse. — Ho dovuto insegnare il lavoro a una nuova impiegata. Robbie non disse niente. Arrossì e la guardò, socchiudendo gli occhi;

aspettava di vedere la reazione di Elizabeth, prima di scusarsi, o di perdere la calma, o di minimizzare la cosa fingendo che fosse uno scherzo.

Anche Elizabeth lo osservò. Robbie è fatto così, pensò. So già che cosa farà e che cosa dirà, so la cravatta che metterà ciascun giorno della setti-mana. Conosco queste cose da undici anni, e per tutto questo tempo mi so-no sempre chiesta cosa dirgli per fargli capire le cose, e undici anni fa era-vamo seduti in questo stesso ristorante e ci tenevamo per mano e lui diceva che avremmo fatto fortuna.

— Pensavo al giorno che siamo venuti qui a colazione, quando abbiamo aperto l'agenzia — disse Elizabeth, tranquillamente.

Robbie fece la faccia stupita. — Il giorno che abbiamo aperto l'agenzia — ripeté. — Ti ricordi di Jim

Harris? Robbie annuì, e schiuse leggermente le labbra. — Dovevamo guadagnare un mucchio di soldi perché Jim doveva por-

tarci i suoi amici, e poi tu hai litigato con lui e da quel giorno non l'abbia-mo più rivisto, e nessuno dei suoi amici è venuto da noi, mentre adesso abbiamo per cliente il tuo amico pastore e sulla parete del tuo ufficio c'è una bellissima foto di Jim, firmata.

S'interruppe e poi ripeté: — Firmata "con gratitudine", e se guadagnasse abbastanza, cercheremmo ancor oggi di farci prestare i soldi da lui.

— Elizabeth — mormorò Robbie, confuso. Da un lato, cercava di fare la faccia offesa, dall'altro cercava di capire se qualcuno aveva sentito le paro-le di Elizabeth.

— Lo sa perfino il garzone del drugstore all'angolo — disse Elizabeth, fissandolo poi in silenzio. — Daphne Hill — aggiunse poi. — Mio Dio.

— Capisco — disse Robbie, cercando di tranquillizzarla con un sorriso.

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Si girò verso la cameriera. — Signorina — disse a voce alta, e poi, rivolgendosi a Elizabeth: —

Forse ti occorre un altro martini. Ti metterà un po' di allegria. La cameriera lo guardò con aria interrogativa, e Robbie disse: — Due

martini. Si girò verso Elizabeth, inalberando il suo migliore sorriso, e aggiunse:

— Vuol dire che, invece della prima colazione, berrò qualcosa. Poi le prese la mano. — Ascolta — disse — Liz, se è solo questo che ti

preoccupa, sono stato uno sciocco, pensavo che ce l'avessi con me, per qualche stupidaggine che, secondo te, avrei fatto con il pastore. Senti, Da-phne va benissimo. Semplicemente, mi pareva giusto prendere qualcuno che rallegrasse un po' l'ufficio.

— Potresti ridipingerlo — disse Elizabeth, senza alcun tono particolare. Robbie la guardò senza capire, e lei aggiunse: — Lascia perdere. Robbie continuò, chinandosi verso di lei e parlando con convinzione: —

Ascolta — disse — se Daphne non ti va, mandala pure via. Non mi op-pongo. Siamo soci.

Il suo sguardo si perse nel vuoto; sorrise al ricordo. — Ricordo anch'io quei giorni — proseguì. — Certo. Siamo partiti con

l'intenzione di fare meraviglie. Abbassò la voce e rivolse a Elizabeth un'occhiata estatica. — E possia-

mo ancora farle — aggiunse. Anche se non avrebbe voluto farlo, Elizabeth scoppiò a ridere. — Devi fare meno rumore, quando scendi le scale — disse. — La mo-

glie del mio custode ti ha scambiato per l'inquilino che lascia gli sci nel corridoio. Per poco non si è rotta una gamba.

— Non prendermi in giro — disse Robbie. — Elizabeth, mi stupisco davvero, nel vedere che una cosa senza importanza, come quella Daphne Hill, ti sconvolge così.

— Certo, che mi sconvolge — disse Elizabeth. All'improvviso, le parve che Robbie fosse molto buffo. Dovrei continua-

re a vederlo così, si disse, nonostante la facesse ridere. — Ecco che arriva la tua colazione — disse.

— Signorina — disse Robbie, rivolto alla cameriera — desidereremmo ordinare.

Passò educatamente il menù a Elizabeth e disse: — Crocchette di pollo e patate fritte.

Elizabeth disse: — Anche per me — e restituì il menù alla donna.

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Quando la cameriera si fu allontanata, Robbie prese uno dei martini e lo porse a Elizabeth.

— Ne hai proprio bisogno, ragazza mia. Prese l'altro e fissò Elizabeth, per poi dire a bassa voce, in tono affettuo-

so: — A te, e ai nostri futuri successi. Elizabeth gli sorrise e centellinò il liquore. Vide che Robbie era nell'im-

barazzo: non sapeva se mandarlo giù d'un fiato o berlo a piccoli sorsi come se non ne avesse bisogno.

— Se lo bevi troppo in fretta, poi ti gira la testa, caro — gli disse lei. — Sei a stomaco vuoto.

Robbie si limitò ad assaggiarlo, e poi lo posò. — Adesso — disse — parliamo seriamente di Daphne. — Pensavo che dovesse andarsene — disse Elizabeth. Lui fece la faccia

atterrita. — Naturalmente — disse, rigido — se lo vuoi tu. Ma è una canagliata,

prendere una ragazza e poi licenziarla subito perché tu sei gelosa. — Non sono gelosa — disse Elizabeth. — Non ho mai detto di esserlo. — Se non posso avere in ufficio una ragazza con un aspetto un po' de-

cente... — cominciò Robbie. — Puoi averla benissimo — disse Elizabeth. — Ma voglio che sappia

scrivere a macchina. — Daphne può fare benissimo quel lavoro. — Robbie... — disse Elizabeth, e poi s'interruppe. Mi è già passata la

voglia di ridere, pensò. Perché non posso continuare a vederlo come lo ve-devo pochi minuti fa?

Lo osservò con attenzione. La faccia arrossata e i capelli che diventava-no grigi e radi, le spalle massicce; teneva indietro la testa e tendeva il men-to perché sapeva di essere osservato. Crede di mettermi in soggezione, pensò Elizabeth, lui è un uomo e io devo cedere.

— Allora, che rimanga — disse Elizabeth. — Dopotutto — annuì Robbie, spostandosi per lasciare il posto alla ca-

meriera che lo serviva — dopotutto — riprese quando la cameriera si fu al-lontanata — avrò pure il diritto di assumere una persona per il mio ufficio.

— Questa — disse Elizabeth, stancamente — la conosco già. — Se intendi piantare una grana per ogni cosa di poca importanza che

succede — disse Robbie (ma aveva storto la bocca, e non osava guardare Elizabeth negli occhi) — posso anche andare avanti da solo — terminò.

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— Hai una paura del diavolo che io, un giorno o l'altro, ti pianti — disse Elizabeth. — Su, mangia.

Robbie prese la forchetta. — Naturalmente — rispose — mi dispiacerebbe sciogliere una società

così soddisfacente solo a causa della tua gelosia. — Lascia perdere — disse Elizabeth. — Non ho nessuna intenzione di

lasciarti. — Spero di no — disse Robbie. Per un minuto, si dedicò alacremente al

cibo. — Ti dico cosa facciamo — propose poi, all'improvviso, posando la forchetta. — La teniamo in prova per una settimana, e poi, se non ti pare migliore della Wilson, Daphne Hill fila via.

— Ma io... — stava già cominciando Elizabeth. Poi terminò: — Bene. Così potremo vedere esattamente che cosa sa fare.

— Idea splendida — confermò Robbie. — Adesso mi sento meglio. Tese il braccio al di sopra del tavolo, e batté affettuosamente sulla mano

di Eìizabeth. — La mia cara Liz — disse. — Sai — disse Elizabeth. — Mi sento allegra, in questo momento. Poi si girò a guardare la porta. — Mi pareva di avere visto una faccia no-

ta — disse. Robbie si girò a sua volta verso la porta. — Chi? — chiese. — Non lo conosci — rispose Elizabeth. — Un ragazzo del mio paese.

Ma non era lui. — A New York si ha sempre l'impressione di vedere facce note —

commentò Robbie, tornando a dedicarsi al cibo. Elizabeth pensava: Dev'essere colpa dei due martini e del fatto di avere

parlato con Robbie dei vecchi tempi. Da anni non mi era più tornato in mente Frank.

Rise, e Robbie smise di mangiare per dire: — Che cos'hai? La gente si farà qualche strana idea su di te.

— Stavo pensando... — disse Elizabeth. All'improvviso, le venne voglia di parlare con Robbie, di trattarlo come

qualsiasi altra persona che lei conoscesse bene, come un marito, quasi. — Quel tale — disse — non mi veniva in mente da diversi anni. Mi so-

no ricordata di un milione di cose. — Chi è, un tuo vecchio fidanzato? — chiese Robbie, senza interesse. Elizabeth provò lo stesso senso di orrore che avrebbe provato quindici

anni prima, se qualcuno glielo avesse proposto. — Oh, no — disse. — Una volta, mi ha accompagnato a una festa. Mia

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madre ha telefonato alla sua e gli ha chiesto che mi portasse. — Una coppa al cioccolato con cioccolata calda — Robbie ordinava in-

tanto alla cameriera. — Solo un caffè, per me — disse Elizabeth. — Era un ragazzo molto

educato — spiegò a Robbie, e si chiese: Perché non riesco a fermarmi? Non ci pensavo più, da anni.

— Senti — chiese Robbie — hai detto a Daphne che poteva uscire per andare a pranzo?

— A dire il vero, non le ho detto niente — rispose Elizabeth. — Allora, meglio fare in fretta — disse Robbie. — La povera ragazza

sarà mezza morta di fame. Quell'uomo era certamente Frank, si disse Elizabeth. — Sul serio —

chiese — che cosa hai combinato con il pastore? — Te lo dirò poi — rispose Robbie — quando mi sarò chiarito le idee.

In questo momento, non saprei dire esattamente che cosa abbiamo deciso. Me lo riferirà all'improvviso, pensò Elizabeth, e non mi lascerà il tempo

di pensare; deve avere promesso al pastore di pubblicare le sue poesie a proprie spese; o mi dirà che dovrò occuparmene io; o che il reverendo si-gnor pastore ci farà causa.

Ma Frank, le venne in mente, non verrebbe mai in un posto come que-sto; andrebbe in un posto tranquillo, con belle cameriere che lo chiamano "signore".

— Non importa — disse Elizabeth. — Certo, non importa — rispose Robbie. Comunque, Robbie giudicò necessario aggiungere un tocco finale, per

ribadire la cosa, prima che tornassero da Daphne Hill. — Finché potremo combattere insieme, tutto andrà per il meglio — dis-

se infatti. — Siamo una grande squadra, Liz. Poi si alzò e prese cappello e soprabito. Aveva la giacca stropicciata e

doveva andargli stretta, da come muoveva le spalle a disagio. Elizabeth terminò di bere il caffè. — Diventi sempre più grasso — commentò. Lui la guardò con espressione terrorizzata. — Pensi che dovrei mettermi di nuovo a dieta? — chiese. Salirono insieme in ascensore, ma si misero in due angoli opposti, e cia-

scuno tenne gli occhi fissi su qualche particolare della cancellata in ferro battuto, come se pensassero a qualcosa di riservato e di segreto.

Avevano preso quell'ascensore cinque o sei volte al giorno, da quando

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avevano l'ufficio nel palazzo: a volte erano allegri, a volte irritati l'uno con l'altra, a volte si erano sorrisi, altre volte si erano insultati con qualche fra-se secca; probabilmente, il manovratore dell'ascensore ne sapeva di più, sul loro conto, che la custode della casa di Elizabeth o la giovane coppia che abitava dirimpetto a Robbie, eppure, ogni volta, il manovratore parlava lo-ro con cortesia e voltava loro la schiena, e forse sorrideva senza farsi scor-gere.

Quel giorno, disse: — Continua a piovere? — Peggio di prima — rispose Robbie. Il manovratore concluse: — Dovrebbero fare una legge contro la pioggia

— e si fermò al loro piano. — Mi chiedo cosa pensa di noi, l'uomo dell'ascensore — disse Eliza-

beth, avviandosi lungo il corridoio, dietro Robbie. — Probabilmente, gli piacerebbe lasciare per un po' l'ascensore e sedersi

in un ufficio — disse Robbie. Aprì la porta dell'agenzia e chiese: — Signorina Hill? Daphne Hill sedeva alla scrivania della sala d'attesa e leggeva il giallo

che Elizabeth aveva lasciato in ufficio quando era scesa al ristorante. — Buon giorno, signor Shax — disse. — L'ha preso dalla mia scrivania? — chiese Elizabeth. Per la sorpresa,

parlò senza riflettere. — Perché, non va bene? — chiese Daphne. — Non avevo niente da fare. — Le troveremo molto lavoro da fare, signorina — disse Robbie, con il

suo tono da efficiente uomo d'affari. — Mi spiace di averla fatta aspettare durante l'ora di pranzo.

— Sono uscita a prendermi qualcosa da mangiare — disse Daphne. — Bene — rispose Robbie, guardando di scancio Elizabeth. — In futuro

dovremo accordarci meglio. — D'ora in poi — disse Elizabeth, seccata — lei non entri nel mio uffi-

cio senza permesso. — Certo — disse Daphne, sorpresa. — Vuole indietro il libro? — Se lo tenga — rispose Elizabeth. Entrò nel suo ufficio e chiuse la porta. Sentì che Robbie diceva: — La

signorina Style non vuole che si tocchi la sua roba, signorina Hill. E poi: — Per favore, venga nel mio ufficio. Come se i muri fossero veri, pensò Elizabeth. Sentì che Robbie entrava

in ufficio, rumorosamente seguito da Daphne, e che chiudeva la porta. Con un sospiro, si disse: Farò finta di non sentire, e così Robbie.

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Poi notò un foglio appoggiato alla macchina da scrivere, accanto alla let-tera per il signor Burton ancora da terminare.

Prese il foglio e lo lesse con attenzione, cercando di non badare a Rob-bie, che, nell'altra stanza, parlava con un tono da padrone del vapore.

Era un messaggio della signorina Wilson, e diceva: "Signorina Style, nessuno mi ha detto che sarebbe arrivata un'altra ragazza, e dopo tanti anni che lavoro qui dentro mi aspettavo che lei me lo dicesse. Penso che sia meglio che la nuova ragazza impari il lavoro da sola. Dica al signor Shax di mandarmi a casa quanto mi è dovuto, l'indirizzo è sull'agenda e lui lo conosce. L'ha cercata un certo signor Robert Hunt, dice di chiamarlo al suo albergo, Addison House. Si ricordi di farmi mandare i soldi dal signor Shax, sono due settimane più una di buona uscita. Alice Wilson."

Doveva avere un diavolo per capello, pensò Elizabeth, se non è rimasta ad aspettare i suoi soldi; doveva essere infuriata. Probabilmente, ha saputo tutto da Daphne e ha provato quello che ho provato io; comunque, Robbie non le manderà mai quei soldi.

Dall'altra parte del tramezzo, Robbie diceva: — È un lavoro terribile, il più pericoloso che conosco.

Sta parlando del lavoro di scrittore, pensò Elizabeth. Daphne, probabil-mente, vorrà vendere le sue memorie.

Uscì dal proprio ufficio e andò a bussare a quello di Robbie. Se Robbie mi chiede: "Chi è?" pensò, gli rispondo: "L'uomo dell'ascensore, che è ve-nuto a sedersi qui un momento".

Ma Robbie disse: — Entra, Liz, non fare la sciocca. — Robbie — disse lei, aprendo la porta — è venuta la signorina Wilson

e ha lasciato un biglietto. — Già, mi sono dimenticata di dirlo — lo interruppe Daphne — e poi

non ho più avuto occasione di parlarne. Ha detto di ricordare al signor Shax di mandarle l'assegno.

— Mi spiace di quel che è successo — disse Robbie. — Bisognava che qualcuno l'avvertisse ieri. È stato molto sgradevole venire a saperlo così.

Daphne sedeva sull'unica sedia a disposizione dei clienti. Robbie ebbe qualche istante di esitazione, poi disse: — Siediti qui, Elizabeth.

Lei attese che si alzasse, poi disse: — Non fa niente, Robbie, torno al la-voro.

Robbie lesse con attenzione il biglietto della signorina Wilson. — Signorina Hill — disse — prenda un appunto: inviare alla signorina

Wilson le due settimane di paga e la buona uscita da lei richiesta.

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— Non ho niente per prendere appunti — disse Daphne. Elizabeth prese dalla scrivania di Robbie un taccuino e una matita e li

porse alla ragazza, che, con estrema gravità, scrisse una frase sul primo fo-glio.

— Chi è questo Hunt? — chiese Robbie, rivolto a Elizabeth. — Il tuo vecchio amichetto?

Non avrei dovuto dirgli niente, pensò Elizabeth. Rispose: — Mi pare che sia un amico di mio padre, venuto dal paese.

— Allora, sarà meglio richiamarlo — disse Robbie, consegnandole il foglio della Wilson.

— Certo — disse Elizabeth. — E non pensi che faresti meglio a scrivere una lettera alla signorina Wilson per spiegarle quel che è successo?

Robbie fece una faccia allarmatissima, poi, trovato il modo di salvarsi, sorrise e disse: — Può occuparsene la signorina Hill, più tardi.

Elizabeth, senza guardare Daphne, disse: — Buona idea. Così avrà qual-cosa da fare.

Chiuse silenziosamente la porta dopo essere uscita e chiuse anche la por-ta del proprio ufficio per avere un'illusione di intimità. Sapeva che Robbie avrebbe cercato di ascoltare la sua telefonata; s'immaginò la scena: Robbie e Daphne, seduti alla scrivania di Robbie, che fissavano in silenzio il tra-mezzo e tendevano l'orecchio per origliare la conversazione di Elizabeth con il vecchio amico di famiglia.

Cercò nella guida il numero telefonico dell'albergo, e nel frattempo sentì Robbie che diceva: — Le dica che ci dispiace sinceramente, ma a causa di circostanze indipendenti dalla nostra volontà eccetera eccetera. Si ricordi di dirle che la teniamo presente nel caso dovesse presentarsi qui da noi una nuova possibilità di lavoro.

Elizabeth fece il numero, in attesa dell'improvviso silenzio che sarebbe sceso nell'ufficio di Robbie. Chiese al portiere di poter parlare con il signor Robert Hunt, e quando lui rispose "pronto", abbassò la voce e disse: — Zio Robert? Sono Elizabeth.

Lui rispose con calore: — Elizabeth! Come sono contento di sentire di nuovo la tua voce. Mamma diceva che avevi troppo da fare e che non ci avresti richiamato.

— C'è anche lei? Che bello — disse Elizabeth. — Come state? E come sta papà?

— Tutti benissimo — rispose lui. — E tu, Elizabeth? Lei continuò a parlare sottovoce. — Benissimo, zio Robert, va proprio

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bene. Quando siete arrivati? E quanto vi fermate? Quando possiamo ve-derci?

Lui rise. — Mamma mi parla da una parte e tu mi parli dall'altra — dis-se. — Non riesco a capire niente. Come stai?

— Benissimo — ripeté lei. — Elizabeth — disse lui — siamo ansiosi di vederti. Un mucchio di

messaggi da casa, e tutto il resto. — Ho molto da fare — disse lei — ma avrei proprio voglia di vedervi.

Quanto vi fermate? — Fino a domani — rispose. — Siamo venuti solo per un paio di giorni. Elizabeth cercò di riflettere in fretta sulla situazione. Meccanicamente,

disse: — Oh, no! — In tono desolato. — Ma perché non me l'avete fatto sapere prima? — aggiunse.

— Mamma dice che tutti ti abbracciano — disse lui. — Sono commossa — disse Elizabeth, e il senso di colpa la spinse ad

aggiungere, con veemenza: — Ma non so come fare per venire a trovarvi. Domattina non si potrebbe?

— Be' — disse lui, lentamente — per domani, mamma pensava di anda-re a Long Island a trovare sua sorella, e poi loro ci accompagneranno alla stazione. Pensavamo che potessi venire con noi stasera.

— Oh, Signore! — disse Elizabeth. — Ho un appuntamento che non posso rimandare. Un cliente — disse. — Sai com'è.

— Che peccato — disse lui. — Noi andiamo a teatro; pensavamo che potessi venire con noi. Mamma... — chiamò — ...a che teatro andiamo?

Aspettò un attimo e poi disse: — Non se lo ricorda neppure lei. I bigliet-ti ce li hanno procurati qui all'albergo.

— Oh, come vorrei poter venire — rispose Elizabeth. — Come vorrei poter venire.

Pensò al terzo biglietto che avevano preso per lei, ai due vecchi che ce-navano soli fingendo di festeggiare la loro presenza in un'altra città. Questa notte l'avevano riservata per me, pensò.

— Se si fosse trattato di una qualsiasi altra persona — disse — avrei po-tuto rimandare l'appuntamento, ma questo è uno dei nostri migliori clienti e mi è impossibile rimandare.

— Già, naturalmente... Scese un silenzio talmente lungo, che Elizabeth si affrettò a dire: — E

papà, come sta? — Bene — rispose lui. — Tutti stanno bene. Penso che vorrebbe che tu

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ritornassi a casa. — Immagino che si senta solo — disse Elizabeth, cercando di non dare

alla propria voce alcuna intonazione particolare. Non vedeva l'ora di stac-care la comunicazione, di dissociarsi dagli Hunt e da suo padre e dal sug-gerimento che avrebbe fatto bene a ritornare a casa.

Adesso sto a New York, si disse, mentre il vecchio si lanciava in una noiosa serie di aneddoti su suo padre e altra gente che lei aveva conosciuto molto tempo prima; adesso sto a New York per conto mio e non devo pen-sare a quella gente; allo zio Robert dovrebbe bastare il fatto che gli ho tele-fonato.

— Sono davvero contenta di averti sentito — disse all'improvviso, men-tre l'altro continuava a parlare. — Adesso però devo tornare al lavoro.

— Certo — disse lui, in tono di scusa. — Allora, Elizabeth, scrivi, mi raccomando. Mamma mi dice che ti abbraccia.

Continuano ad appiccicarsi a me; mi fanno da freno, con le loro lettere e i loro "tuo aff.mo" e tutti questi abbracci che vanno avanti e indietro tra me e loro.

— Arrivederci — disse lei. — Torna a trovarci — continuò lui. — Non appena possibile. Arrivederci — disse Elizabeth. Riagganciò sull'"arrivederci" di lui, seguito da un "aspetta, Elizabeth"

perché gli era venuto in mente qualcos'altro. Se avessi continuato ad ascol-tarlo, pensò Elizabeth, l'avrei mandato a quel paese.

Sentì la voce di Robbie, dall'altra parte del tramezzo, che parlava alla ra-gazza: — E credo che lei sappia rispondere al telefono e così via.

— Penso di sì — rispondeva Daphne. Elizabeth tornò alla sua lettera al signor Burton, che ormai si era arroto-

lata irreparabilmente, dopo varie ore di permanenza attorno al rullo, e a-scoltò la lunga conversazione tra Robbie e Daphne Hill, che parlavano dei nomi dei clienti, dell'apparecchio telefonico che c'era in sala d'attesa, con il tastino per passare la linea agli altri apparecchi.

Sono due bambini, pensò, che giocano all'ufficio. Di tanto in tanto senti-va la profonda risata di Robbie, seguita dopo un istante da quella di Da-phne, sorpresa.

Nonostante i suoi tentativi di concentrarsi sulle tariffe delle revisioni per il signor Burton, si accorse che continuava ad ascoltare i rumori di Robbie e Daphne che giravano per l'ufficio.

I due avevano preso a parlare a bassa voce, ma a un certo punto Robbie

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disse, col suo tono da uomo di mondo: — In qualche piccolo ristorante tranquillo...

Poi, quando Robbie abbassò di nuovo la voce e tornò al tono cauto di prima, Elizabeth disse a se stessa: Sì, dove puoi parlare senza essere ascol-tato.

Per non dare l'impressione di voler disturbare apposta, Elizabeth attese che Daphne ritornasse goffamente nell'anticamera e che Robbie si sedesse, poi chiamò: — Robbie?

Dopo qualche istante, lui si alzò ed entrò nell'ufficio di Elizabeth. — Sai che non mi piace, quando gridi — disse Robbie. Elizabeth tacque per alcuni istanti, perché voleva parlare con cordialità. — Ceniamo insieme, questa sera? — chiese. Cenavano insieme quattro o cinque volte la settimana, di solito nel risto-

rante dove avevano pranzato quel giorno, o in qualche altro piccolo locale vicino all'appartamento di Robbie o a quello di Elizabeth. Quando vide la smorfia di Robbie e il suo cenno in direzione dell'altro ufficio, Elizabeth alzò leggermente la voce: — Mi sono liberata di quegli stupidi vecchi, sta-sera — disse. — Ho varie cose da dirti.

— A dire il vero, Liz — rispose Robbie, parlando troppo in fretta e a bassa voce — temo di non essere libero, stasera.

Senza accorgersi di ripetere le parole che, poco prima, aveva sentito dire al telefono da Elizabeth, Robbie continuò, con aria infastidita: — Ho un appuntamento che non posso rimandare, con un cliente.

Quando Elizabeth fece la faccia sorpresa, lui disse: — Il pastore. Stamat-tina gli ho promesso di incontrarmi con lui, questa sera. Non ho avuto il tempo di dirtelo.

— Certo, non puoi rimandarlo — disse Elizabeth, tranquilla. E attese, tenendo d'occhio Robbie, che si era appoggiato al bordo della scrivania e giocava distrattamente con una matita, ansioso di andarsene ma timoroso di allontanarsi troppo in fretta.

Che cosa faccio? pensò all'improvviso Elizabeth. Gioco a nascondino? — Perché non vai al cinema o in qualche altro posto? — chiese. Robbie scosse la testa. — Mi piacerebbe — disse. Elizabeth gli tolse di mano la matita. — Povero Robbie — disse. — Sei agitato. Dovresti uscire, andare da

qualche parte, rilassarti un poco. Robbie aggrottò la fronte, ansioso. — Perché? — chiese. — Non sono nel mio ufficio?

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Elizabeth addolcì il tono. — Dovresti andare via, almeno per qualche o-ra, Robbie. Lo dico seriamente. Altrimenti, questa sera non riuscirai a la-vorare. — Si concesse una battuta sprezzante. — Soprattutto se devi ve-derti con quell'orrore — disse.

Robbie aprì la bocca e poi la richiuse. Infine disse: — Non riesco a pen-sare, quando il tempo è così brutto. La pioggia mi dà ai nervi.

— Lo so — disse Elizabeth. Si alzò. — Infilati il cappello e il soprabito, e lascia qui la borsa — disse a Rob-

bie, spingendolo verso la porta. — Va' al cinema per un paio d'ore, e poi torna: vedrai che quando andrai a parlare con il tuo pastore, ti sentirai un leone.

— Non voglio uscire con la pioggia — disse Robbie. — Va' dal barbiere — disse Elizabeth. Aprì la porta del suo ufficio e vi-

de che Daphne Hill, nell'anticamera, la guardava stupita. — Fatti tagliare i capelli — continuò Elizabeth, toccandogli la nuca. —

Io e la signorina Hill ce la caveremo benissimo. Vero, signorina Hill? — Certo — disse Daphne. Robbie entrò a malincuore nel suo ufficio e ne uscì poco dopo con il

cappello e il soprabito ancora umidi. — Non so perché mi fai uscire — disse. — Non so cosa stai qui a fare — disse Elizabeth, accompagnandolo al-

l'uscita. — Quando ti senti così, non riesci a combinare niente. Aprì la porta; Robbie uscì. — Ci vediamo più tardi. — Più tardi — disse Robbie, avviandosi lungo il corridoio. Elizabeth lo tenne d'occhio finché non lo vide entrare nell'ascensore. Poi

chiuse la porta dietro di sé e si voltò verso Daphne Hill. — Sta scrivendo quella lettera alla signorina Wilson? — chiese. — Ho cominciato adesso — rispose Daphne. — Me la porti a vedere, quando avrà finito. Elizabeth entrò nel suo ufficio e chiuse la porta, poi si sedette alla scri-

vania. No, si disse, non era Frank. Altrimenti sarebbe venuto a salutarmi. Dopotutto, non sono molto cambiata da allora.

D'altra parte, se invece era proprio Frank, perché si trovava da queste parti? E poi: Almanaccarsi non serve a niente, non saprei come rintracciar-lo.

Prese l'elenco telefonico e cercò il nome di Frank; non lo trovò. Poi, continuando a sfogliare le pagine, giunse alla H e fece correre il dito sulla

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colonna, finché non trovò "Harris, James". Prese il telefono e compose il numero, poi aspettò finché non udì una

voce maschile. — È Jim Harris? — chiese. — Sì — rispose lui. — Sono Elizabeth Style. — Ciao — rispose Jim. — Come stai? — Aspettavo sempre che mi telefonassi — disse Elizabeth. — È passato

un bel po' di tempo. — Davvero — rispose lui. — Ma finisce sempre che uno rimanda... — Comunque, avevo anche un altro motivo per telefonarti — disse Eli-

zabeth. — Ti ricordi di Frank Davis? — Certo, mi ricordo di lui — rispose Jim. — Che cosa fa? — È proprio quel che volevo chiederti — spiegò lei. — Oh. Be'... Elizabeth attese qualche istante, poi proseguì: — Uno di questi giorni,

devo sempre ricambiare un tuo vecchio invito a cena. — Piacerebbe anche a me — disse Jim. — Telefoniamoci. Oh, no! pensò lei. — È tanto tempo che non ci vediamo. Ascolta. — Eli-

zabeth lo disse come se l'idea le fosse venuta in quel momento. Una di quelle trovate brillanti che ti vengono all'improvviso. — Perché non ci ve-diamo stasera?

Lui fece per dire qualcosa, ed Elizabeth lo interruppe: — Avrei voglia di vederti.

— Vedi, c'è qui mia sorella minore — disse Jim. — E non può venire anche lei? — chiese Elizabeth. — Be' — rispose lui — penso di sì. — Bene — disse Elizabeth. — Prima, passa da me a bere qualcosa, e

porta tua sorella, e poi possiamo farci una bella chiacchierata sui vecchi tempi.

— Ti richiamo? — chiese Jim. — Adesso esco dall'ufficio — disse Elizabeth. — Per tutto il pomeriggio

sarò fuori. Perciò, facciamo alle sette? — Va bene — disse lui. — Sono contenta di avere combinato per questa sera — disse Elizabeth.

— Allora, ci vediamo più tardi. Dopo avere riagganciato, sedette per qualche istante con la mano sul te-

lefono, e si disse: Il buon vecchio Harris, non è mai stato capace di dire di

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no, se prendi l'iniziativa; ogni truffatore che c'è in città deve averlo inca-strato.

Rise, compiaciuta, e poi s'interruppe bruscamente perché Daphne aveva bussato.

— Venga — disse Elizabeth, e Daphne si affacciò. — Ho finito la lettera, signorina Style — disse. — Me la porti qui — disse Elizabeth, e poi aggiunse: — Per favore. Daphne entrò nel suo ufficio e le porse la lettera, senza avvicinarsi. — Non mi sembra un granché — si scusò — ma è la prima volta che

devo scrivere una lettera da sola. Elizabeth diede un'occhiata al testo. — Non importa — disse poi. — Prego, si accomodi, Daphne. Daphne si sedette, con grande attenzione, sulla punta della seggiola. — Si sieda meglio — disse Elizabeth — è la sola sedia che ho, e non

voglio che me la spacchi. Daphne si sedette più comodamente, e fissò Elizabeth a occhi sgranati. Lentamente, Elizabeth aprì la borsetta e prese un pacchetto di sigarette;

poi cercò un fiammifero. — Un attimo — disse Daphne. — Ne ho io. Corse nell'anticamera e fece ritorno con una bustina di fiammiferi. — Li tenga pure — disse. — Ne ho altri. Elizabeth si accese la sigaretta e posò i fiammiferi sul bordo della scri-

vania. — Allora — disse. Daphne si curvò verso di lei. — Dove lavorava, prima di venire qui? — chiese Elizabeth. — È il mio primo lavoro — disse Daphne. — Sono appena arrivata a

New York. — E da dove viene? — Buffalo — rispose Daphne. — Allora, è venuta a New York a fare fortuna? — chiese Elizabeth.

Pensò, con ironia: È proprio qui, mia cara Daphne, che ho trovato la mia fortuna.

— Non saprei dire — rispose Daphne. — Mio padre ci ha portati qui perché suo fratello aveva bisogno di lui nel negozio. Siamo arrivati due mesi fa.

Se avessi una famiglia a prendersi cura di me, pensò Elizabeth, non la-vorerei certo da Robert Shax.

— Che scuole ha fatto?

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— Ho fatto le medie a Buffalo. Per qualche tempo ho frequentato un corso di ragioneria.

— E vuole fare la scrittrice? — No — rispose Daphne. — Voglio fare l'agente. Come il signor Shax.

E lei — aggiunse. — È un bel lavoro — annuì Elizabeth. — C'è da guadagnare un mucchio

di soldi. — È quel che mi ha detto anche il signor Shax. È stato molto gentile. Daphne cominciava a prendere coraggio. Guardava la sigaretta di Eliza-

beth e aveva accavallato le gambe. Elizabeth, all'improvviso, sentì una profonda stanchezza. Non c'era nien-

te di divertente, in Daphne. — Io e il signor Shax abbiamo discusso la sua situazione, a pranzo —

disse, per porre fine alla cosa. Daphne sorrise. Quando sorrideva, e quando stava seduta, senza esibire

quel suo grosso personale precariamente appoggiato sui piedi troppo pic-coli, era una ragazza attraente. Molto attraente, anzi, nonostante gli occhi castani troppo piccoli e quell'incredibile massa di capelli.

Mentre io sono tanto più magra, pensò Elizabeth, e disse con soddisfa-zione: — Penso che dovrebbe riscrivere la lettera alla signorina Wilson, Daphne.

— Certo — rispose Daphne. — Dicendole — proseguì Elizabeth — di tornare al lavoro non appena

possibile. — Tornare qui? — domandò Daphne, con il primo, leggerissimo senso

di allarme. — Qui — confermò Elizabeth. Sorrise. — Temo che il signor Shax non abbia avuto il coraggio di dirglielo —

spiegò. — Io e il signor Shax, oltre a essere soci in affari — continuò — siamo ottimi amici. E spesso il signor Shax approfitta dell'amicizia per la-sciare a me i compiti più sgradevoli.

— Il signor Shax non mi ha detto niente di tutto questo — mormorò Da-phne.

— L'ho pensato anch'io — disse Elizabeth — quando ho visto che si comportava come se dovesse fermarsi qui.

Daphne era spaventata. È troppo stupida per piangere, pensò Elizabeth, e vorrà farsi spiegare tutto, nei minimi particolari.

— Naturalmente — continuò — non mi piace dovermi prendere questi

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incarichi. Forse, per lei la cosa potrà essere più facile da accettare se le promettessi di cercarle un altro posto.

Daphne annuì. — Una cosa, comunque, può esserle utile — disse Elizabeth — perché il

signor Shax ha detto qualcosa a questo proposito, prima, ed è il tipo di co-se che gli uomini guardano sempre. Il suo aspetto.

Daphne abbassò lo sguardo sull'ampio scollo del suo abito. — Probabilmente — disse Elizabeth — non c'è bisogno che glielo dica

io, e nel fare osservazioni mi sto comportando da maleducata, ma credo che lei farà un'impressione migliore, e che una volta assunta potrà lavorare con maggiore comodità, mettendosi qualcosa di più adatto a un ufficio, in-vece che le camicette di seta. In un certo modo, la fa sembrare appena arri-vata da Buffalo.

— Dovrei mettere un tailleur o qualcosa di simile? — chiese Daphne, lentamente e senza la minima punta di malizia.

— Qualcosa di meno appariscente, comunque — disse Elizabeth. Daphne la squadrò attentamente. — Un completo come il suo? — chiese. — Un completo sarebbe l'ideale — confermò Elizabeth — e cerchi di

non tirarsi i capelli così in alto. Daphne si portò con affetto una mano ai capelli. — In generale, cerchi di essere più ordinata — disse Elizabeth. — Ha

dei bellissimi capelli, Daphne, ma per un ufficio sarebbe più adatta una pettinatura più tradizionale.

— Come la sua? — chiese Daphne, fissando i fili grigi sulle tempie di Elizabeth.

— Come preferisce lei — disse Elizabeth — basta non assomigliare a uno straccio per pavimenti.

Tornò a posare gli occhi sulla sua scrivania, in modo significativo, e do-po qualche istante Daphne si alzò.

— Tenga questa — disse Elizabeth, porgendole la lettera per la signori-na Wilson — e la riscriva come le ho detto.

— Sì, signorina Style — disse Daphne. — Potrà uscire non appena avrà terminato la lettera — disse Elizabeth.

— La lasci sulla scrivania, insieme con il suo indirizzo, e il signor Shax le invierà la paga per il lavoro di oggi.

— Che me la mandi o no, non me ne importa niente — disse Daphne, secca.

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Elizabeth alzò gli occhi e fissò Daphne con severità. — Chi le dà il diritto di criticare le decisioni del signor Shax? — do-

mandò. Per qualche minuto, Elizabeth rimase seduta senza fare niente, curiosa di

vedere le reazioni di Daphne. Dopo avere chiuso la porta ed essersi recata alla scrivania, la ragazza

non fece alcun rumore; si è seduta, pensò Elizabeth, e ripensa a quello che le ho detto.

Poi, dopo un po', si udì lo scatto della borsetta, il fruscio della mano che cercava in mezzo alle carte e alle chiavi.

Ha preso la scatola del trucco, pensò Elizabeth, e adesso si sta guardan-do allo specchio, per controllare se è vero quel che le ho detto del suo a-spetto. Si chiede se Robbie ha fatto davvero dei commenti, e che cosa ab-bia detto veramente, se ho rincarato la dose o se l'ho alleggerita a suo uso e consumo.

Avrei potuto dirle che Robbie l'ha definita una mucca grassa, o la cosa più orrenda da lui vista, e lei non avrebbe capito niente lo stesso. Ma ora cosa fa?

Daphne aveva detto, distintamente: — Accidenti a loro — ed Elizabeth tese l'orecchio, per non perdersi alcun rumore.

Poi sentì battere a macchina: Daphne che scriveva la lettera per la Wil-son. Elizabeth scosse lentamente la testa e sorrise. Si accese una sigaretta con uno dei fiammiferi di Daphne, ancora posati sul bordo della scrivania dove lei li aveva lasciati, e fissò con espressione vacua la lettera per il si-gnor Burton, ferma al punto dove l'aveva interrotta la mattina.

Con un braccio dietro la spalliera della sedia e la sigaretta fra le labbra, Elizabeth batté lentamente, con un dito solo: "Va' al diavolo, Burton", e poi strappò il foglio dal carrello e lo gettò nel cestino.

Ecco tutto il lavoro che ho fatto oggi, disse a se stessa. E la cosa non ha nessunissima importanza, dopo avere visto la faccia di Daphne dopo che le ho parlato.

Abbassò lo sguardo sul ripiano della scrivania: le lettere in attesa di ri-sposta, le critiche di un "redattore di professione" che attendevano di esse-re scritte, le lamentele a cui si doveva rispondere, e pensò: Me ne vado a casa. Faccio un bagno e do una pulita in giro, e intanto prendo qualcosa da offrire a Jim e a sua sorella; aspetto solo che Daphne se ne vada.

— Daphne? — chiamò. Dopo un istante di esitazione: — Sì, signorina Style?

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— Non ha ancora finito? — chiese Elizabeth. Ormai, poteva permettersi di essere gentile. — Per quella lettera alla signorina Wilson, un minuto do-vrebbe essere più che sufficiente.

— Mi stavo preparando per uscire — disse Daphne. — Lasci nome e indirizzo, mi raccomando — le ricordò Elizabeth. — Il signor Shax li conosce — rispose Daphne. Aprì la porta che dava

sull'esterno e disse: — Arrivederci. — Arrivederci — rispose Elizabeth. Elizabeth scese dal taxi all'angolo e, dopo avere pagato la corsa, vide che

le rimanevano un biglietto da dieci dollari e qualche spicciolo. Quella ci-fra, più i venti dollari che aveva nell'appartamento, era tutto il denaro da lei posseduto, finché non se ne fosse fatta dare dell'altro da Robbie.

Con un breve calcolo, decise di prendere dieci dollari dalla riserva di ca-sa per la serata. Il ristorante l'avrebbe pagato Jim Harris; le rimanevano dieci dollari per il taxi e le emergenze; perciò, l'indomani doveva farsi as-solutamente dare dei soldi da Robbie.

Comunque, quel che aveva nella borsetta le bastava per prendere qualco-sa da bere e qualche stuzzichino; si fermò alla bottiglieria sotto casa e pre-se del bourbon, una bottiglia grande, per averne una riserva da offrire a Robbie, la prossima volta che fosse passato da lei.

Poi, con il liquore sotto il braccio, passò in gastronomia e prese una bot-tiglia di analcolico; oltre a quello, decise infine di prendere un sacchetto di patatine, una scatola di cracker e un pàté da spalmarci sopra.

Non era abituata a invitare gente; lei e Robbie, in genere, passavano la sera insieme, senza fare niente di particolare: tutt'al più, vedevano qualche cliente o si recavano a trovare qualche vecchia amicizia.

Dato che non erano sposati, Robbie esitava a portarla in giro, dove la presenza di Elizabeth poteva metterli in imbarazzo. Pranzavano in qualche ristorantino, se avevano voglia di bere un bicchiere andavano a casa o in qualche bar, e non frequentavano i cinema del centro, ma solo quelli vicino a casa.

Quando Elizabeth doveva invitare qualcuno, Robbie non si faceva vede-re; una volta avevano dato una festicciola a casa di Robbie, che aveva l'ap-partamento più grande, per solennizzare qualche particolare occasione, qualche cliente, forse, ma la festa era andata talmente male e l'ospite si era sentito tanto a disagio, che non avevano mai più ripetuto l'esperienza, e a loro volta non erano più stati invitati da nessuno.

Di conseguenza, Elizabeth, anche se aveva parlato allegramente di "pas-

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sare da lei a bere qualcosa", si trovava sempre un po' a disagio, quando la gente accettava l'invito.

Nel salire le scale che portavano al suo appartamento, con i pacchetti in bilico tra le braccia e il mento, ripassò tra sé l'intera sequenza: farsi dare il soprabito, servire il liquore, passare in giro i cracker.

Poi, quando posò gli occhi sulla stanza, le venne un vero e proprio shock; si era dimenticata di essere uscita in fretta, quella mattina, e di ave-re lasciato le cose in giro. Inoltre, era un appartamento fatto a misura delle esigenze di Elizabeth, ossia per la rapida fuga, tutte le mattine, di una don-na infelice, pessimista e priva di grandi capacità di rallegrare il proprio habitat, e per le sgradevoli serate da sola, con un libro e un portacenere, e per le notti trascorse sognando l'erba alta e l'arroventata luce solare.

Non c'era alcuna possibile disposizione dell'arredamento che permettes-se a tre o quattro persone di riunirsi allegramente, di sedere comodi e di bere un drink, di chiacchierare con serenità. Nel primo pomeriggio, con una sola lampada accesa e gli angoli in ombra, la stanza poteva dare u-n'impressione calda e serena, ma bastava sedere sull'unica poltrona o posa-re la mano sul tavolino grigio, verniciato lucido, per accorgersi che era una poltrona scomoda, da quattro soldi, e che la vernice si staccava.

Per un attimo, Elizabeth rimase immobile sulla soglia di casa, con i pac-chetti sul braccio, e cercò di raffigurarsi con l'occhio della mente l'aspetto di quell'appartamento, una volta addolcito dalle attenzioni di una mano af-fezionata.

Ma a un rumore di passi, di qualcuno che scendeva le scale, si affrettò a entrare; e, una volta entrata, la visione sparì irrimediabilmente: il pavimen-to era ruvido e opaco, sulla maniglia campeggiava l'impronta di una mano sudicia. Robbie, pensò Elizabeth.

Aprì le portine di vetro che davano accesso al cucinino e posò i pacchet-ti. Il cucinino era costituito da una rientranza di una parete, con un pensile e, sotto di quello, una piccola cucina economica, fornelli e forno; accanto, c'era il frigorifero sotto il lavandino, e al di sopra il lavandino c'era lo sco-lapiatti con tutto il vasellame della casa: due piatti fondi, due piani, quattro bicchieri.

Inoltre, Elizabeth aveva anche una casseruola, una padella e una caffet-tiera. Le aveva comprate qualche anno prima, in un grande magazzino, con l'intenzione di farsi una piccola, ma completa, batteria da cucina, con cui preparare l'arrostino per Robbie e fare magari i biscotti e la torta, con in-dosso un bel grembiule giallo e, chissà, commettendo anche qualche biz-

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zarro errore, le prime volte. Quando era arrivata a New York, Elizabeth era una cuoca efficiente, ca-

pace di fare le braciole e di friggere le patate, ma negli anni passati dall'ul-tima volta che era stata vicino ai fornelli si era dimenticata tutto, tranne il modo di fare la crema al cioccolato, golosità di cui, di tanto in tanto, le ve-niva la voglia. La cucina, come tutte le altre sue altre qualità, era una cono-scenza rispettabile che avrebbe dovuto fare di lei una donna capace e sod-disfatta ("la via maestra per arrivare al cuore di un uomo", ripeteva sempre sua madre), ma che, come ogni altro aspetto della sua vita quotidiana, si era atrofizzata fino a divenire la miniatura di se stessa, utile solo come no-vità in qualche rara occasione.

Dovette prendere i quattro bicchieri e lavarli: si erano impolverati, dopo essere rimasti per tanto tempo nello scolatoio. Poi controllò in frigorifero. Per qualche tempo, Elizabeth aveva tenuto in frigorifero burro e uova, e nel pensile pane e caffè, ma erano diventati rancidi e ammuffiti prima che lei avesse fatto in tempo a utilizzarli per più di una colazione; Elizabeth era sempre in ritardo e non le piaceva perdere tempo a preparare.

Erano solo le quattro e mezzo; aveva tutto il tempo di mettere in ordine e di fare il bagno.

Per prima cosa, si occupò dei lavori più semplici: spolverò i tavoli e vuotò i portacenere, e nel frattempo rifece il letto e pareggiò la coperta. Per un attimo ebbe la tentazione di prendere i tappetini e di scuoterli, e poi di lavare il pavimento, ma le bastò un'occhiata alla stanza da bagno per cam-biare idea; probabilmente, gli ospiti sarebbero entrati nel bagno e il pavi-mento, la vasca e perfino le mattonelle del muro erano sporchi.

Con lo straccio e l'acqua calda del rubinetto, riuscì con qualche fatica a pulire il pavimento; cambiò gli asciugamani e aprì l'acqua della vasca, poi tornò nel soggiorno per finire di pulirlo.

Dopo quel lavoro non sistematico, comunque, l'aspetto della stanza non era granché diverso: un ambiente grigio e inospitale, in una giornata buia e piovosa. Per qualche momento, Elizabeth si chiese se non fosse il caso di scendere a comprare qualche fiore, ma le bastò un breve calcolo per capire che i soldi non le sarebbero bastati; del resto, gli ospiti non si sarebbero fermati a lungo nella stanza, e qualsiasi stanza diventa accogliente, si dis-se, se c'è da bere e da mangiare.

Terminato il bagno, erano quasi le sei, ed era già buio; Elizabeth accese la lampada sul tavolino. Camminò a piedi nudi nella stanza, e si sentì fre-sca e pulita, compiaciuta della colonia che s'era messa e del fatto che i ca-

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pelli le si fossero leggermente ondulati a causa del vapore. E con la sensa-zione di pulizia scese in lei anche una forte eccitazione: quella sera, ne era sicura, sarebbe stata felice, sarebbe successo qualcosa di nuovo, qualcosa di meraviglioso, che avrebbe cambiato la sua vita.

Con questa eccitazione addosso, scelse nell'armadio un vestito di seta rossa: così giovanile che, se non si guardavano i capelli grigi, le si sarebbe-ro dati vent'anni, anziché i suoi trenta. Scelse una grossa catena d'oro per collana e pensò: Posso mettere il soprabito nero; anche se piove, me lo metterò per sentirmi a posto.

Mentre si vestiva, pensò alla casa. Considerando onestamente la situa-zione, per quell'appartamento non si poteva fare niente: per rallegrarlo non sarebbero bastate né le tende né qualche quadro. Le occorreva un altro ap-partamento, un posto arioso e gradevole, con grandi finestre e mobili chia-ri, immerso per tutto il giorno ai raggi del sole.

Per avere un appartamento nuovo le occorrevano più soldi, le occorreva un altro lavoro, e Jim Harris avrebbe dovuto darle una mano; quella sera sarebbe stata solo la prima di tante altre simpatiche serate, che sarebbero servite a instaurare tra lei e Jim una salda amicizia che le avrebbe procura-to un altro lavoro e un appartamento pieno di sole; e mentre progettava il suo nuovo futuro, Elizabeth si dimenticò di Jim Harris, delle sue guance cascanti e della sua voce acuta. Era uno sconosciuto, un uomo bruno e ar-dito, con occhi pieni di saggezza, che la guardava dall'altra parte della stanza, un uomo che l'amava, un uomo tranquillo che aveva bisogno di so-le, di un giardino accogliente, di prati verdi...

Titolo originale: Elizabeth (1949).

Una ditta solida, antica La signora Concord e la figlia maggiore, Helen, sedevano in soggiorno,

intente a cucire e a chiacchierare e a cercare di tenersi calde. Helen aveva appena finito di rammendare un paio di calze e l'aveva messo via, e si era accostata alle finestre a vetri che davano sul giardino.

— Spero che la primavera si decida ad arrivare anche qui — stava di-cendo, quando suonò il campanello.

— Buon Dio — esclamò la signora Concord — sarà già lei? Il tappeto è pieno di fili.

Senza alzarsi, si chinò a raccogliere i pezzi di tela e le gugliate caduti a

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terra, mentre Helen andava alla porta d'ingresso. Helen aprì la porta e sorrise, mentre la nuova venuta le dava la mano e

cominciava a parlare a raffica. — Lei è Helen? — diceva la donna. — Io sono la signora Friedman.

Spero di non avere disturbato, ad arrivare a quest'ora, ma ero ansiosa di conoscere lei e sua madre.

— Come sta? — chiese Helen. — Ma, la prego, venga avanti. Aprì la porta e fece entrare la signora Friedman. Era una donna minuta e

bruna, con un'elegante pelliccia di leopardo. — Sua madre è in casa? — domandò a Helen, proprio mentre la signora

Concord usciva dal soggiorno. — Sono la signora Concord — disse la madre di Helen. — Sono la signora Friedman — disse la nuova venuta. — La mamma di

Bob Friedman. — Bob Friedman — ripeté la signora Concord. La signora Friedman

sorrise come per scusarsi. — Penso che il suo ragazzo le avrà parlato di Bobby — disse. — Ma certo, che ne ha parlato — la interruppe Helen. — Charlie parla

sempre di lui, mamma. È una cosa che stupisce, di primo acchito — disse alla signora Friedman — perché Charlie ci sembra tanto lontano.

La signora Concord, intanto, lo confermava con la testa. — Certo — disse. — Perché non entra a sedersi? La signora Friedman seguì le due Concord in soggiorno e si accomodò

su una delle poltrone non occupate dalla roba del cucito. La signora Con-cord indicò l'intera stanza, con un ampio gesto della mano.

— Mette un tale disordine — spiegò — ma di tanto in tanto a me e a He-len viene voglia di fare qualcosa. Adesso stiamo facendo le tende nuove per la cucina — aggiunse, raccogliendo il lavoro che aveva lasciato poco prima.

— Sono davvero belle — disse la signora Friedman, educatamente. — Bene, ci parli di suo figlio — proseguì la signora Concord. — Sono

stupita di non avere riconosciuto il nome fin dal primo momento, ma chis-sà perché associavo il nome Bob Friedman all'esercito e a Charlie, e mi pa-reva strano che sua madre abitasse nella nostra stessa città.

La signora Friedman rise. — È la stessa cosa che mi sono detta io — rispose. — Bobby mi ha

scritto che la mamma del suo amico abitava qui, a pochi isolati da noi, e mi ha chiesto: perché non vai a salutarla?

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— Sono davvero contenta che l'abbia fatto — disse la signora Concord. — Penso che ormai conosciamo Bob quasi come lei — disse Helen. —

Charlie ce ne parla sempre. La signora Friedman aprì la borsetta. — Ho perfino una lettera di Char-

lie — disse. — Pensavo che le facesse piacere vederla. — Charles le ha scritto? — domandò la signora Concord. — Poche righe. Gli piace il tabacco da pipa che mando a Bobby, e l'ul-

tima volta che ho mandato un pacco a Bobby ne ho messo anche una sca-tola per lui.

Porse la lettera alla signora Concord e disse a Helen: — Immagino che potrei raccontarvi ogni cosa, di voi. Bobby mi parla tanto di voi tutti.

— Be' — disse Helen — so che Bob le ha regalato per Natale una spada giapponese. Quella, sì che doveva fare un bell'effetto, sotto l'albero! Char-lie lo ha aiutato a comprarla dal giovanotto che l'aveva prima... lo sa anche lei, vero, e sa che per poco non si azzuffavano con quel giovanotto?

— Bobby per poco non si azzuffava — disse la signora Friedman. — Charlie è stato più furbo e se ne è tenuto lontano.

— Oh, noi avevamo sentito che era stato Charlie a mettersi nei guai — disse Helen. Lei e la signora Friedman risero.

— Forse non dovremmo confrontare i loro racconti — disse la signora Friedman. — Quando raccontano le loro avventure, non sempre le raccon-tano uguali.

Si girò verso la signora Concord, che aveva finito di leggere la lettera e la passava a Helen.

— Stavo raccontando a sua figlia — disse — quante belle cose ho senti-to di voi.

— Anche noi abbiamo sentito parlare molto di voi — disse la signora Concord.

— Charlie ha fatto vedere a Bob una foto di lei e delle sue figlie. La più giovane si chiama Nancy, vero?

— Nancy, certo — confermò la signora Concord. — Be', Charlie è molto affezionato alla famiglia — disse la signora

Friedman. — Non è stato davvero gentile a scrivermi? — chiese a Helen. — Quel tabacco deve essere proprio buono — disse Helen. Dopo un attimo di esitazione, restituì la lettera alla signora Friedman,

che la infilò nella borsetta. — Una volta o l'altra, mi piacerebbe vedere Charlie — disse la signora

Friedman. — Mi sembra già di conoscerlo perfettamente.

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— Sono certa che verrà a trovarla, quando tornerà a casa — disse la si-gnora Concord.

— Spero che torni presto — disse la signora Friedman. Tutt'e tre rimasero in silenzio per alcuni istanti, e poi la signora Fried-

man proseguì animatamente: — Mi sembra così strano. Abitiamo nella stessa città, ma, per conoscerci, i nostri ragazzi sono dovuti andare così lontano.

— Oh, in questa città è difficile fare conoscenza — disse la signora Concord.

— Abitate qui da tanto tempo? — chiese la signora Friedman, con un sorriso di scusa. — Naturalmente — aggiunse — so di suo marito. I figli di mia sorella sono al suo liceo, e parlano così bene di lui.

— Davvero? — chiese la signora Concord. — Mio marito è sempre vis-suto in questa città. Io sono venuta qui dall'Ovest quando ci siamo sposati.

— Allora, non avrete incontrato difficoltà a farvi amicizie — disse la si-gnora Friedman.

— Oh, no, mai incontrato difficoltà — disse la signora Concord. — Na-turalmente, gran parte dei nostri amici sono persone che sono state al liceo con mio marito.

— Mi dispiace che Bobby non abbia mai avuto l'occasione di studiare sotto il signor Concord — disse la signora Friedman. — Be'... — Si alzò. — È stato un vero piacere fare finalmente la sua conoscenza.

— E io sono contenta che sia venuta a trovarci — disse la signora Con-cord. — È stato come ricevere una lettera di Charles.

— Eh, so ben io quanto può essere gradito l'arrivo di una lettera, da co-me aspetto quelle di Bobby — disse la signora Friedman.

Lei e la signora Concord si avviarono verso la porta; Helen si alzò e le seguì.

— Mio marito ha molto interesse per Charlie, sa — continuò la signora Friedman. — Da quando ha saputo che Charlie studiava giurisprudenza prima di entrare nell'esercito.

— Suo marito è avvocato? — chiese la signora Concord. — È Friedman della Grunewald, Friedman & White — disse la signora

Friedman. — Quando Charlie sarà pronto per iniziare la professione, forse mio marito potrà trovargli un posto.

— Oh, questo è molto gentile da parte sua. Charlie ne sarà certamente desolato, quando glielo dirò — rispose la signora Concord. — Perché ve-de, si è sempre detto che andrà con Charles Satterthwaite, il più caro amico

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di mio marito. Satterthwaite & Harris. — Penso che il signor Friedman conosca la ditta — disse la signora

Friedman. — Una ditta solida, antica — disse la signora Concord. — Il nonno del

signor Concord era socio. — Saluti Bob da parte nostra, quando gli scrive — disse Helen. — Non mancherò — disse la signora Friedman. — Gli dirò che sono

venuta a trovarvi. Sono stata felice di fare la vostra conoscenza — aggiun-se, tendendo la mano alla signora Concord.

— Il piacere è stato mio — disse la signora Concord. — Dica a Charlie che gli manderò dell'altro tabacco — disse la signora

Friedman, rivolta a Helen. — Glielo dirò certamente — rispose Helen. — Arrivederci, allora — disse la signora Friedman. — Arrivederci — rispose la signora Concord. Titolo originale: A Fine Old Firm (1944).

Il pupazzo Era un ristorante più che rispettabile, con le sedie bene imbottite, con un

ottimo chef e con un gruppo di attrazioni che si attribuivano la qualifica di "show".

I clienti ridevano senza fare rumore e approfittavano il più possibile del-la cucina, in base al principio che il conto era sempre un po' più alto di quel che avrebbero meritato l'ambiente e lo spettacolo.

Comunque, era un buon ristorante, tranquillo, e due donne potevano re-carsi laggiù da sole, senza cavalieri, e senza correre il rischio di essere im-portunate, per fare una cena un po' fuori del solito.

Quando la signora Wilkins e la signora Straw scesero senza far rumore lungo la scaletta moquettata ed entrarono nella sala, nessuno dei camerieri si girò a guardarle più del minimo necessario, quasi nessuno dei clienti ai tavoli si girò.

Solo il capo cameriere accorse per rivolgere loro un inchino, prima di gi-rarsi verso i pochi tavoli liberi, sul fondo della sala.

— Ti dispiace, Alice, se siamo così lontane? — chiese la signora Wil-kins, che quella sera faceva da anfitrione. — Se vuoi, possiamo aspettare che si liberi un tavolo. O vuoi che andiamo da un'altra parte?

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— Ma no, non preoccuparti — disse la signora Straw. Era una donna alquanto imponente, con un enorme cappellino a fiori, e

aveva già adocchiato con piacere i piatti ben ricolmi, serviti agli avventori dei tavoli più vicini.

— Sediamoci pure dove c'è posto, mi pare un locale incantevole — ter-minò.

— Qualsiasi posto, va bene — disse allora la signora Wilkins, rivolta al capo cameriere. — Però, non troppo indietro, se è possibile.

L'uomo la ascoltò con attenzione e le rivolse un cenno d'assenso, e pas-sando agilmente fra i tavoli si fermò davanti a uno molto sul fondo, vicino alla porta da cui entravano e uscivano gli artisti, vicino al tavolo dove se-deva, davanti a un bicchiere di birra, la padrona del ristorante, e vicino an-che alle porte della cucina.

— Non ce ne sarebbero di più vicini? — chiese la signora Wilkins, ag-grottando la fronte.

Il capo cameriere allargò le braccia, e indicò gli altri tavoli liberi. Uno stava dietro una colonna, l'altro era apparecchiato per una comitiva, un al-tro era addossato alla piccola orchestra.

— Oh, questo andrà benissimo, Jen — disse la signora Straw. — Sedia-moci subito.

La signora Wilkins non era del tutto convinta, ma la signora Straw prese la sedia che le stava accanto e si sedette con un profondo sospiro, posò borsa e guanti sulla sedia libera vicino a lei e si slacciò il colletto del tailleur.

— Non posso dire che mi piaccia — disse la signora Wilkins, accomo-dandosi dirimpetto a lei. — Non so se riusciremo a vedere lo spettacolo.

— Ma sì, lo vedremo benissimo — le assicurò la signora Straw. — Da qui si vede quello che fanno, e naturalmente si sente tutto quello che dico-no. Vuoi metterti al mio posto? — terminò, con riluttanza.

— No, naturalmente, Alice — disse la signora Wilkins. Prese il menù che il cameriere le porgeva e lo appoggiò sul tavolo, scor-

rendo rapidamente i piatti. — Qui fanno da mangiare molto bene — disse. — Gamberoni in umido — disse la signora Straw. — Pollo fritto. — So-

spirò. — Mi è venuta una fame! La signora Wilkins ordinò subito, senza chiedere informazioni, e poi

aiutò la signora Straw a scegliere. Quando il cameriere si fu allontanato, la signora Straw si appoggiò alla spalliera della sedia e si guardò attorno.

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— È davvero un bel posto — disse. — C'è dell'ottimo personale — disse la signora Wilkins. — La proprietaria è qui in sala, seduta dietro di te. Mi è sempre sembra-

ta una signora molto a posto, molto rispettabile. — Probabilmente, controllerà di persona che i bicchieri siano ben puliti

— disse la signora Straw. Si girò di nuovo verso il tavolo e andò a frugare nella borsa; ne trasse un

pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi, e li posò sul tavolo. — Mi piace che i ristoranti siano puliti e bene in ordine — disse ancora.

— I proprietari si fanno un mucchio di soldi, con questo locale — disse la signora Wilkins. — Io e Tom ci venivamo anni fa, prima che lo allar-gassero. A quell'epoca era un bel posticino, ma adesso ha una clientela più selezionata.

La signora Straw rimirò con grande soddisfazione il cocktail di granchi che il cameriere le aveva servito. — Hai proprio ragione — disse.

La signora Wilkins prese la forchetta, distrattamente, e continuò a guar-dare la signora Straw.

— Ieri mi è arrivata una lettera da Walter — riferì. — E che cosa diceva? — chiese la signora Straw. — Mi sembra che stia bene — rispose la signora Wilkins. — A quanto pare, c'è un mucchio di cose che lui non ci riferisce. — Oh, Walter è un bravo ragazzo — disse la signora Straw. — Tu ti

preoccupi eccessivamente. All'improvviso, l'orchestra cominciò a suonare fragorosamente e le luci

si abbassarono. Rimase un solo faro, puntato sul palcoscenico. — Non mi piace mangiare al buio — si lamentò la signora Wilkins. — Da quelle porte, dietro di noi, arriva abbastanza luce — disse la si-

gnora Straw. Posò la forchetta e si girò a guardare l'orchestra. — Walter l'hanno fatto capo classe — disse la signora Wilkins. — Vedrai che finirà primo del suo corso — disse la signora Straw. —

Guarda com'è vestita quella ragazza. La signora Wilkins si girò senza farsi notare, e osservò la ragazza che la

signora Straw le aveva indicato con un cenno della testa. Era uscita dalla porta che dava sui camerini degli artisti; era alta e bruna, con folti capelli corvini e spesse sopracciglia, e indossava un abito di satin, verde elettrico, che le lasciava la schiena nuda, e aveva un fiore color arancione, fiamman-te, sulla spalla.

— Non ho mai visto un vestito come il suo — disse la signora Wilkins.

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— Si vede che è una ballerina o qualcosa di simile. — Se la guardi bene, non è poi così bella come sembra — disse la signo-

ra Straw. — E guarda quel tipo che c'è con lei! La signora Wilkins si girò di nuovo, in fretta, e poi sorrise alla signora

Straw. — Sembra una scimmia — disse. — Un omettino da nulla — rispose la signora Straw. — Non mi hanno

mai detto niente, quei biondini piccoli e striminziti. — Una volta avevano un bello spettacolo, qui — disse la signora Wil-

kins. — L'orchestra, i ballerini, e a volte c'era un giovanotto che cantava i pezzi che gli chiedeva il pubblico. Una volta avevano anche un organista, mi pare.

— Arriva lo spettacolo — disse la signora Straw. La musica si era quasi spenta, e il direttore dell'orchestra, che faceva an-

che da presentatore, presentò il primo numero, una coppia di ballerini. Quando si levò l'applauso, un giovanotto alto e una ragazza alta uscirono

dalla porta degli artisti e si diressero verso il palcoscenico. Passando da-vanti alla ragazza vestita di verde e al suo accompagnatore, rivolsero loro un cenno di saluto.

— Come sono graziosi — disse la signora Wilkins, quando la danza eb-be inizio. — Sono sempre così leggeri, questi ballerini.

— Devono fare attenzione a non ingrassare — disse la signora Straw, in tono critico. — Guarda il fisico della ragazza con l'abito verde.

La signora Wilkins si voltò verso di lei. — Spero che non siano dei co-mici.

— In questo momento, non fanno proprio ridere — disse la signora Straw.

Guardò il burro rimasto sul piatto. — Tutte le volte che mangio così bene — disse — penso a Walter e a

quello che ci davano da mangiare a scuola. — Walter scrive che si mangia bene — rispose la signora Wilkins. — È

ingrassato di quasi due chili. La signora Straw inarcò le sopracciglia. — Per l'amor del Cielo, no! — disse. — Che succede? — Dev'essere un ventriloquo — disse la signora Straw. — Ne ho pro-

prio l'impressione. — Vanno di moda, in questo momento — commentò la signora Wilkins.

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— Era da quando ero ragazza, che non ne vedevo uno — disse la signora Straw. — Ha l'omino, il come si chiama, in quella scatola.

Continuò a guardare, a bocca aperta. — Guarda anche tu, Jen. La ragazza vestita di verde e l'uomo si erano seduti a un tavolo vicino al-

la porta. Lei si sporgeva verso il pupazzo, che sedeva sulle ginocchia del-l'uomo.

Il pupazzo era una caricatura del suo padrone: lui aveva i capelli biondi, e il pupazzo li aveva di un esagerato colore giallo, con grandi riccioli e ba-sette di legno; lui era piccolo e brutto, e il pupazzo era ancor più piccolo e brutto, con la stessa bocca larga, gli stessi occhi sporgenti, l'orribile paro-dia del suo abito da sera, fino alle piccole scarpe di vernice.

— Mi chiedo come osino tenere un ventriloquo qui — disse la signora Wilkins.

La ragazza in verde si stava prendendo cura del pupazzo: gli metteva a posto la cravatta, gli allacciava le scarpe, gli lisciava la giacca. Quando tornò a sedere, l'uomo le disse qualcosa, e lei alzò le spalle.

— Non riesco a togliere gli occhi da quel vestito verde — disse la signo-ra Straw.

Poi trasalì quando il cameriere le comparve accanto, senza fare rumore, con il menù dei dessert. L'uomo aspettò che decidessero, e continuò a tene-re gli occhi sul palcoscenico, dove l'orchestra stava terminando un inter-mezzo tra i due numeri.

Quando la signora Straw si decise finalmente per una fetta di torta alla mela con gelato al cioccolato, il presentatore chiamò sulla scena il ventri-loquo: — ...e Marmaduke, un ramo del vecchio ceppo!

— Spero che non la facciano molto lunga — disse la signora Wilkins. — Comunque, per fortuna, da qui non possiamo sentirlo.

Il ventriloquo e il pupazzo si sedettero sul palcoscenico, illuminati da uno spot, e presero a ridere e a parlare rapidamente; la faccia pallida del-l'uomo vicina al ghigno immobile del pupazzo, spalla contro spalla.

Le battute si susseguivano in fretta, e il pubblico rideva più che altro per simpatia, poiché conosceva già le barzellette, prima che il pupazzo finisse di dirle, stava zitto per un attimo e poi tornava a ridere, prima ancora che i due finissero.

— Mi sembra orribile — disse la signora Wilkins, rivolta alla signora Straw, durante uno scoppio generale di risa. — I ventriloqui sono sempre così grevi.

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— Guarda la nostra amica in verde — disse la signora Straw. La ragazza era appoggiata al tavolo, e non si perdeva una parola: era tesa

ed eccitata. Per qualche istante, dal viso le scomparve la profonda tristezza che l'aveva caratterizzata fino ad allora: rise con tutti gli altri, spensierata-mente.

— Si vede che lo trova divertente, lei — commentò la signora Straw. La signora Wilkins finse di rabbrividire. Si dedicò alla sua coppa di ge-

lato. — Mi chiedo sempre — disse, dopo qualche istante — perché questi po-

sti, dove si mangia davvero bene, non diano molto peso ai dessert. Hanno solo il gelato e qualche torta a fette.

— Niente di meglio di un buon gelato — sentenziò la signora Straw. — Dovrebbero tenere qualcosa di pasticceria, o qualche strano tipo di

budino — continuava la signora Wilkins. — Ma non sembrano darsene pensiero.

— Non ho mai visto fare il budino di fichi e datteri come lo fai tu, Jen — disse la signora Straw.

— Walter diceva sempre che era il miglior... — cominciò a dire la si-gnora Wilkins, ma venne interrotta da un'esplosione di musica proveniente dall'orchestra.

Il ventriloquo e il pupazzo si inchinavano al pubblico; il ventriloquo piegava tutta la schiena, ad angolo retto, mentre il pupazzo piegava solo la testa. Poi l'orchestra attaccò un veloce ritmo di danza e uomo e pupazzo si voltarono e si allontanarono rapidamente dal palco.

— Grazie al Cielo — disse la signora Wilkins. — Anch'io non ne vedevo da anni — disse la signora Straw. La ragazza in verde si era alzata, e aspettava che l'uomo e il pupazzo

tornassero al tavolo. L'uomo si sedette pesantemente, si lasciò cadere il pupazzo sulle ginoc-

chia, e la ragazza si sedette sul bordo della sedia, e chiese qualcosa all'uo-mo.

— Perché, tu cosa ne pensi? — chiese lui, a voce alta, senza guardare la ragazza.

Poi fece un cenno a uno dei camerieri, che però rimase fermo al suo po-sto, esitante, e guardò con aria interrogativa la padrona del locale, seduta qualche tavolo dietro di loro.

Dopo qualche istante, il cameriere si avvicinò al tavolo del ventriloquo, e la ragazza disse, a voce abbastanza alta perché la signora Wilkins e la si-

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gnora Straw la sentissero, in mezzo alle note del valzer suonato in quel momento dall'orchestra: — Non bere più, Joey. Andiamo da qualche parte a mangiare.

L'uomo disse qualcosa al cameriere, senza badare alla ragazza, anche se lei gli aveva posato la mano sul braccio.

Poi si voltò verso il pupazzo e gli disse qualcosa, piano. Allora il pupaz-zo, con la sua faccia immobile e il suo largo ghigno, si voltò prima verso la ragazza e poi verso l'uomo.

La ragazza si appoggiò alla spalliera della sedia; lei e la padrona del ri-storante si scambiarono un'occhiata.

— Non so cosa farei, se avessi un marito così — disse la signora Straw. — Non è certo un buon attore — commentò la signora Wilkins. La ragazza si era di nuovo girata verso il ventriloquo, per discutere, e

l'uomo parlava con il pupazzo, e gli faceva muovere la testa dall'alto al basso, come per confermare le sue parole. Quando la ragazza gli posò la mano sulla spalla, l'uomo si scostò. A voce alta, la ragazza ripeté: — Senti, Joey...

— Tra un minuto — disse l'uomo. — Fammi solo bere questo bicchiere. — Ma sì, lascialo stare, non ne sei capace? — chiese il pupazzo. — Non hai assolutamente bisogno di bere, Joey — disse la ragazza. —

Berrai più tardi. — Senti, cara, ho ordinato un drink. Non posso andare via prima che me

lo servano. — Perché non fai star zitta la Tumistufi? — disse il pupazzo, rivolto al-

l'uomo. — Possibile che debba far sempre cagnara, quando vede che uno si diverte? Perché non le dici di stare zitta?

— Non devi parlare così — lo redarguì l'uomo. — Non sta bene. — Io dico quello che voglio — affermò il pupazzo. — Lei non può far

star zitto me, — Joey — disse la ragazza — ti voglio parlare seriamente. Ascoltami,

andiamo da qualche parte, discutiamone. — Ma sta' zitta un momento — disse il pupazzo, girandosi verso la ra-

gazza. — Per l'amor di Dio, te ne vuoi stare zitta? I clienti dei tavoli accanto cominciavano a girarsi verso la coppia, incu-

riositi dalla voce del pupazzo, e qualcuno rideva nel sentirlo parlare. — Per piacere, sta' zitto — disse la ragazza. — Sì, non fare tanto chiasso — disse l'uomo al pupazzo. — Tanto, ne

bevo solo uno, e lei non dice niente.

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— Nessuno ti porterà da bere — disse la ragazza, con irritazione. — Glielo hanno proibito. Nessuno ti darà da bere qui dentro, se continuerai a comportarti così.

— Mi comporto benissimo — disse l'uomo. — No, parlo io — lo interruppe il pupazzo. — Senti, carina, è ora che

qualcuno ti avverta, perché ti metterai nei guai, se continuerai a fare l'im-piastro tutte le volte. Un uomo arriva solo fino a una certa dose di soppor-tazione.

— Sta' zitto — disse la ragazza, guardandosi attorno con ansia. — Qui tutti ci ascoltano.

— E lascia che mi ascoltino — disse il pupazzo. Girò la testa in direzio-ne del pubblico e alzò la voce: — Tutte le volte che un poveretto vuole di-vertirsi, lei diventa dura come un pezzo di ghiaccio.

— Ascolta, Marmaduke — disse l'uomo, rivolto al pupazzo — non devi parlare in questo tono alla tua vecchia mamma.

— Oh, non devo essere io a dare suggerimenti a quella vecchia zampo-gna — disse il pupazzo. — Se così non le va, può sempre tornare sulla strada.

La signora Wilkins rimase a bocca aperta; poi richiuse di scatto le lab-bra. Posò il tovagliolo sul tavolo e si alzò.

Sotto gli occhi della signora Straw, che la guardava senza capire, si av-vicinò all'altro tavolo e diede uno schiaffone al pupazzo.

Quando la signora Wilkins fece ritorno al loro vecchio tavolo, la signora Straw si era già abbottonata la giacca e la aspettava in piedi.

— Ci faremo dare il conto di sopra — disse la signora Wilkins, concisa. Prese il soprabito e si avviò con grande dignità verso la scala Per un momento, l'uomo e la ragazza fissarono il pupazzo, inclinato da

una parte e con la testa storta. Poi la ragazza allungò la mano e raddrizzò affettuosamente la testa di le-

gno. Titolo originale: The Dummy (1949).

Sette tipi di ambiguità La stanza seminterrata della libreria dava l'impressione di essere enor-

me; da entrambi i lati, le lunghe file di libri si stendevano fino a perdersi nell'ombra, con i volumi allineati negli ampi scaffali accanto alle pareti, e

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altri libri accatastati sul pavimento e sui tavoli. Ai piedi della scala a chiocciola che scendeva dalla piccola, ordinata sa-

letta superiore, il proprietario e conduttore della libreria, il signor Harris, aveva una piccola scrivania, ingombra di cataloghi e illuminata da una sola lampada che scendeva dal soffitto.

La stessa lampada serviva a illuminare gli scaffali che si affollavano ponderosamente attorno a lui; poi, più avanti, lungo le file di libri, c'erano altre lampade coperte di polvere, che si accendevano tirando la catenella e che i clienti spegnevano quando erano pronti a fare ritorno alla scrivania del signor Harris, a pagare gli acquisti e a farseli impacchettare.

Il signor Harris, che conosceva la collocazione di ogni autore e di ogni libro di quegli scaffali, aveva un solo cliente, in quel momento: un ragazzo di diciott'anni, che, fermo in fondo alla stanza, sotto una delle lampade, sfogliava uno dei libri.

Faceva freddo nel seminterrato; il signor Harris e il ragazzo tenevano addosso il soprabito. Di tanto in tanto il signor Harris si alzava per andare a versare una palata di carbone in una piccola stufa di ghisa posta accanto alla scala.

A parte i momenti in cui il signor Harris si alzava, o in cui il ragazzo si muoveva per rimettere un libro nello scaffale e per prenderne un altro, la stanza era muta, e tutto rimaneva immobile.

Poi il silenzio venne interrotto dal rumore della porta che si apriva nel negozio al piano di sopra, dove il signor Harris teneva i bestseller e i libri d'arte.

Si udirono alcune voci, e il ragazzo e il signor Harris tesero l'orecchio. Poi la ragazza che si occupava della stanza di sopra disse: — Scenda la scala, il signor Harris la saprà consigliare.

Il signor Harris si alzò e si avvicinò alla scala; nel passare, accese un'al-tra delle lampade, in modo che il cliente vedesse dove metteva i piedi.

Il ragazzo infilò il libro nello scaffale e rimase fermo, con la mano anco-ra sulla costola del volume, e continuò ad ascoltare.

Quando il signor Harris vide che chi scendeva era una donna, si fece e-ducatamente di lato e disse: — Attenzione all'ultimo scalino. Ce n'è ancora uno, dopo che la scala sembra finita.

La donna scese con attenzione dalla scala e si guardò attorno. Pochi i-stanti dopo, anche un uomo comparve sulla scala, con la testa piegata per non battere sul soffitto.

— Attento all'ultimo scalino — disse la donna, con voce chiara e tran-

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quilla. L'uomo giunse in fondo; poi sollevò la testa per guardarsi attorno, come

aveva fatto la donna. — Avete un gran bel mucchio di libri, qui — disse. Il signor Harris gli

sorrise con aria efficiente. — Posso aiutarla? — chiese. La donna guardò l'uomo, che rimase per qualche istante in silenzio, poi

disse: — Vorremmo prendere un po' di libri. Una certa quantità. — Allar-gò significativamente le braccia. — Opere intere.

— Be', se quel che cercate sono libri... — disse il signor Harris, tornando a sorridere. — Forse la signora preferisce sedersi?

Li accompagnò verso la scrivania; la donna lo seguì docilmente, e l'uo-mo passò a disagio tra i tavoli pieni di libri; tenne le mani accanto ai fian-chi come se avesse paura di rompere qualcosa.

Il signor Harris lasciò alla donna la sua sedia e si appoggiò al bordo del-la scrivania, dopo avere spostato una pila di cataloghi.

— Questo posto è molto interessante — disse la donna, con il tono di voce dolce che aveva usato prima. Era di mezza età, ben vestita; gli abiti erano nuovi, ma adatti alla sua età e alla sua aria tranquilla. L'uomo era grande e grosso, e aveva un'aria cordiale; aveva la faccia arrossata dal freddo e in mano teneva, con un certo impaccio, un paio di guanti di lana.

— Vorremmo comprare un po' dei suoi libri — ripeté l'uomo. — Libri buoni.

— Qualche idea in particolare? — chiese il signor Harris. L'uomo rise forte, ma più che altro per l'imbarazzo.

— A dire il vero — spiegò — mi sento un po' sciocco. Non conosco molto i libri.

Nella vasta sala silenziosa, la sua voce parve rimbombare, dopo quella tranquilla della moglie e le poche parole del signor Harris.

— Speravamo che fosse lei a suggerirli — continuò. — Non le porcherie che stampano oggi. — Si schiarì la gola. — Qualcosa come Dickens — spiegò

— Dickens — disse il signor Harris. — Leggevo Dickens quando ero ragazzo — disse l'uomo. — Libri come

quelli; buoni libri. Sollevò lo sguardo per osservare il ragazzo che, lasciati i libri che stava

leggendo, si avvicinava a loro. — Mi piacerebbe rileggere Dickens — disse l'uomo.

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— Signor Harris — disse il ragazzo, piano. Il signor Harris alzò la testa. — Sì, Clark? — chiese. Il ragazzo si avvi-

cinò alla scrivania, come se non volesse interrompere il discorso tra il si-gnor Harris e gli altri clienti.

— Vorrei dare ancora un'occhiata all'Empson — disse. Il signor Harris si girò verso la libreria con le porte a vetri, dietro di lui,

e prese un libro. — Ecco — disse. — Con questa velocità, finirai per leggerlo tutto, pri-

ma di comprarlo. Sorrise all'uomo e a sua moglie. — Un giorno — disse — si deciderà a comprare quel libro, e io, per lo

shock, dovrò chiudere bottega. Il ragazzo si spostò e cominciò a sfogliare il libro, e l'uomo si chinò ver-

so il signor Harris. — Penserei di prendere due grosse collezioni, come Dickens, e altre due

più piccole. — E una copia di Jane Eyre — disse la moglie, con la sua voce dolce.

— Quel libro mi piaceva molto — spiegò al signor Harris. — Potrei darvi una bella edizione delle opere complete delle Brontë —

disse il signor Harris. — Un'ottima rilegatura. — Voglio dei bei libri — disse l'uomo — ma devono essere robusti, per

leggerli. Voglio rileggermi tutto Dickens. Il ragazzo ritornò accanto alla scrivania, e porse il libro al signor Harris. — È sempre un bel libro — disse. — Quando lo vuoi, il libro è qui — disse il signor Harris, rimettendolo

nella libreria. — E piuttosto raro, quel libro. — Penso che rimarrà lì ancora per qualche tempo — disse il ragazzo. — Come si chiama quel libro? — chiese l'uomo, incuriosito. — Sette tipi di ambiguità — disse il ragazzo. — È un libro molto inte-

ressante. — Bel nome, per un libro — disse l'uomo, rivolto al signor Harris. —

Dev'essere un ragazzo molto intelligente, per leggere libri con un nome co-sì.

— È un ottimo libro — ripeté il ragazzo. — Cerco dei libri anch'io — disse l'uomo, questa volta parlando con il

ragazzo. — Voglio trovarne tanti che non ho letto. Dickens, i suoi libri mi sono sempre piaciuti.

— Meredith è bello — disse il ragazzo. — Ha mai letto Meredith?

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— Meredith — disse l'uomo. — Vediamo un po' dei suoi libri — disse al signor Harris. — Magari posso sceglierne qualcuno che mi piace.

— Posso accompagnare il signore? — chiese il ragazzo. — Tanto, devo tornare laggiù perché ho lasciato il cappello.

— Vado con questo giovanotto a guardare i libri, mamma — disse l'uo-mo alla moglie. — Tu, sta' lì, vicino alla stufa.

— Buona idea — disse il signor Harris. — Clark conosce quegli scaffali meglio di me.

Il ragazzo si avviò lungo il passaggio tra i tavoli, e l'uomo lo seguì, camminando con molta attenzione, per non toccare niente.

Passarono davanti alla lampada ancora accesa, dove il ragazzo aveva la-sciato guanti e cappello, e il ragazzo accese un'altra lampada, più avanti.

— Il signor Harris tiene da queste parti le raccolte complete — disse il ragazzo. — Vediamo cosa possiamo trovare.

Piegò le ginocchia per guardare le file più basse, e sfiorò delicatamente i dorsi dei libri.

— Che gliene pare dei prezzi? — chiese. — Be', sono disposto a pagare una cifra ragionevole per i libri che ho in

mente — disse l'uomo. Incuriosito, sfiorò anche lui, con la punta delle dita, un libro dello scaf-

fale. — Fino a centocinquanta, duecento dollari — spiegò. Il ragazzo lo guardò e rise. — Con una cifra così, di bei libri può pren-

derne un mucchio! — disse. — Non ho mai visto tanti libri in vita mia — disse l'uomo. — Non pen-

savo di arrivare al giorno che, semplicemente, entravo in una libreria e compravo tutti i libri che avevo sempre voluto leggere.

— È una sensazione meravigliosa. — Non ho mai avuto la possibilità di leggere molto — disse l'uomo. —

Sono finito immediatamente nell'officina dove lavorava mio padre, quando ero più giovane di te, e da allora ho sempre lavorato. Adesso, tutto all'im-provviso, mi trovo ad avere un po' di soldi extra, e io e mamma abbiamo deciso di comprare un po' delle cose che abbiamo sempre desiderato.

— Sua moglie era interessata alle sorelle Brontë — disse il ragazzo. — Qui ce n'è una bella raccolta.

L'uomo si chinò a osservare i libri che il ragazzo gli indicava. — Non li conosco molto bene — disse. — Mi sembrano tutti belli. Che

cosa sono, questi?

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— Carlyle — disse il ragazzo. — Può lasciarlo stare. Non è il genere di opera da lei cercata. Meredith è ottimo. E Thackeray. Penso che Thackeray le interesserà. È un grande scrittore.

L'uomo prese uno dei libri che il ragazzo gli porgeva e lo aprì con atten-zione, usando solo due dita di una mano e due dell'altra.

— Questo mi sembra buono — disse. — Faccio un elenco — disse il ragazzo. Prese di tasca una matita e un notes. — Le Brontë — disse. — Dickens, Meredith, Thackeray. Nel dire i nomi, passò le dita sulle raccolte di romanzi. L'uomo aggrottò

la fronte. — Dovrei prenderne ancora una raccolta — disse. — Mi resta ancora

spazio nella libreria che mi sono fatto fare. — Allora, Jane Austen — disse il ragazzo. — A sua moglie piacerà. — E tu hai letto tutti questi libri? — chiese l'uomo. — Sì, in gran parte — rispose il ragazzo. L'uomo rimase in silenzio per qualche istante, poi proseguì: — Io non ho

mai potuto leggere niente; sono andato al lavoro molto presto. Devo rifar-mi.

— Avrà da divertirsi — gli assicurò il ragazzo. — Quel libro che guardavi — chiese l'uomo. — Di che cosa si tratta? — Un libro di estetica — spiegò il ragazzo. — Parla di letteratura. È

molto raro. È già un po' di tempo che cerco di comprarlo, ma non sono mai riuscito a mettere da parte i soldi.

— Tu vai all'università? — chiese l'uomo. — Sì. — Qui c'è uno scrittore che vorrei rileggere — disse l'uomo. — Mark

Twain. Ho letto qualche suo libro quando ero ragazzo. Ma penso che per il momento ne ho abbastanza.

Si alzò. Anche il ragazzo si alzò, sorridendo. — Ha un mucchio di roba da leggere — disse. — Mi piace leggere — disse l'uomo. — È la cosa che mi piace di più. Si girò e tornò dal signor Harris. Il ragazzo spense le luci e lo seguì,

fermandosi un attimo a prendere guanti e cappello. Quando raggiunse la scrivania del signor Harris, l'uomo disse alla mo-

glie: — Quel ragazzo è davvero intelligente. Conosce quei libri da cima a fondo.

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— Hai trovato quelli che volevi? — chiese la moglie. — Il ragazzo ha fatto una bella lista per me. Si girò verso il signor Harris e proseguì: — Fa davvero effetto trovare

un ragazzo che ama i libri come lui. Alla sua età, io lavoravo già da quattro o cinque anni.

Li raggiunse il ragazzo, con il foglio in mano. — Questi libri gli basteranno per un po' di tempo — disse al signor Har-

ris. Il libraio guardò l'elenco e annuì. — Quel Thackeray è una bella collezione — disse. Il ragazzo si era infilato il cappello e si era già avviato verso le scale. — Spero che le piacciano — disse all'uomo. E: — Tornerò a dare un'oc-

chiata a quell'Empson, signor Harris. — Cercherò di tenerlo — disse il signor Harris. — Ma non posso tenere

libri da parte, lo sai. — Oh, spero che nessuno lo prenda prima di me — disse il ragazzo. — Grazie — disse l'uomo, mentre il ragazzo saliva la scala. — Grazie

dei consigli. — Il piacere è stato mio — disse il ragazzo. — È un ragazzo proprio intelligente — disse l'uomo al signor Harris. —

Ha avuto una bella fortuna, ad avere una così buona istruzione. — Sì, è un bravo ragazzo — disse il signor Harris — e quel libro gli

piace davvero. — Crede che finirà per comprarlo? — Ne dubito — disse il signor Harris. — Mi lasci nome e indirizzo, e io

intanto farò il conto. Il signor Harris cominciò a trascrivere i prezzi dei libri, copiandoli dalla

precisa lista del ragazzo. Dopo che ebbe scritto nome e indirizzo, l'uomo continuò per qualche i-

stante a tamburellare con le dita sulla scrivania, poi disse: — Posso dare un'occhiata a quel libro?

— L'Empson? — chiese il signor Harris, alzando la testa. — Quello che interessava al ragazzo. Il signor Harris si recò nella libreria dietro di lui e prese il libro. L'uomo lo tenne delicatamente, come aveva già fatto con gli altri libri, e

aggrottò la fronte nel leggere alcune pagine. Poi posò il libro sulla scriva-nia del signor Harris.

— Visto che non lo comprerà, non lo posso mettere nel mio elenco? —

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chiese. Il signor Harris alzò gli occhi dalla lista, e poi aggiunse l'importo alla

somma. Fece rapidamente l'addizione, segnò il totale, e poi mostrò il foglio all'uomo.

Mentre lui controllava le cifre, il signor Harris si girò verso la donna e disse: — Suo marito ha comprato un mucchio di bei libri.

— Sono contenta di saperlo — rispose lei. — Ci ripromettevamo di farlo già da tempo.

L'uomo contò attentamente il denaro, diede le banconote al signor Har-ris, che le infilò nel cassetto della scrivania e disse: — Possiamo farglieli recapitare in settimana. Va bene?

— Benissimo — disse l'uomo. — Sei pronta, mamma? La donna si alzò e l'uomo si spostò per lasciarla passare. Il signor Harris li accompagnò fino alla scala e disse: — Attenzione al-

l'ultimo scalino. Si avviarono sulla scala e il signor Harris rimase a guardarli finché non

li vide sparire dietro la curva della scala. Poi spense la lampada e tornò alla sua scrivania.

Titolo originale: Seven Types of Ambiguity (1948).

Danza con me in Irlanda La giovane signora Archer sedeva sul bordo del letto con Kathy Valen-

tine e con la signora Corn, a giocare con il bambino e a scambiarsi pette-golezzi, quando suonò il campanello esterno.

Esclamando: — Santo Cielo! — la signora Archer andò a premere il pulsante che apriva il portone.

— Proprio al piano terreno dovevamo venire ad abitare — si lamentò con Kathy e la signora Corn. — Tutti suonano sempre al nostro campanel-lo.

Poco più tardi, suonò il campanello interno, e lei andò ad aprire e vide un vecchio, fermo nel corridoio. Il nuovo venuto indossava un lungo pa-strano scuro, senza più forma, e aveva la barba bianca. In mano teneva al-cuni lacci da scarpe.

— Oh — disse la signora Archer. — Oh, mi spiace davvero, ma... — Signora — disse il vecchio — se fosse così gentile. Cinque cent. La signora Archer scosse la testa e fece un passo indietro.

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— Mi dispiace, ma non mi servono — disse. — Grazie lo stesso, signora — disse il vecchio — della sua cortesia. La

prima persona dell'isolato che parla a questo povero vecchio senza insul-tarlo.

Imbarazzata, la signora Archer girò nervosamente la maniglia della por-ta, più volte.

— Mi spiace moltissimo — disse. Poi, mentre già si voltava per chiudere la porta, aggiunse: — Aspetti un

momento — e corse in camera. — C'è un vecchio con delle stringhe — mormorò alle amiche. Aprì il cassetto del mobile, prese la borsa e frugò nel borsellino. — Un

quarto di dollaro? — chiese. — Andrà bene? — Ma certo — disse Kathy. — Probabilmente, è più di quel che ha ra-

cimolato in tutto il giorno. Kathy Valentine aveva l'età della signora Archer, e non era sposata. La

signora Corn era una donna robusta di mezza età. Tutt'e due abitavano nel-lo stesso portone e passavano un mucchio di tempo dalla signora Archer, con la scusa del bambino.

La signora Archer ritornò alla porta. — Tenga — disse, porgendo la moneta al vecchio. — È una vergogna

che tutti la trattino male. Il vecchio fece per porgerle alcuni lacci, ma gli tremò la mano, e tutti i

lacci caddero a terra. Si appoggiò pesantemente alla parete, mentre la si-gnora Archer lo guardava inorridita.

— Buon Dio — disse la donna, e tese la mano. Nel toccare il suo pastrano bisunto, ebbe un attimo di esitazione, ma poi,

serrate le labbra, prese saldamente sottobraccio il mendicante e lo accom-pagnò all'interno.

— Donne! — chiamò. — Venite a darmi una mano. Presto! Kathy arrivò di corsa dalla camera, mormorando: — Hai chiamato, Je-

an? — e poi si fermò, sgranando gli occhi. — Cosa devo fare? — chiese la signora Archer, continuando a tenere per

il braccio il vecchio, che aveva gli occhi chiusi e che pareva appena, appe-na capace, con il suo aiuto, di stare in piedi.

— Per l'amor di Dio — disse la signora Archer. — Prendilo dall'altra parte.

— Mettiamolo su una sedia — disse Kathy. Il corridoio era troppo stretto per passarci in tre. Kathy prese il vecchio

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per l'altro braccio e si diresse verso il soggiorno. — Non la sedia nuova — avvertì la signora Archer. — Quella vecchia,

di cuoio. Fecero sedere l'uomo sulla sedia di cuoio e fecero un passo indietro. — Che cosa facciamo, adesso? — chiese la signora Archer. — Hai del whisky? — chiese Kathy. La signora Archer scosse la testa. — Forse, del vino — disse, senza ec-

cessiva convinzione. Arrivò anche la signora Corn, tenendo in braccio il bambino. — Santo Cielo! — esclamò. — È ubriaco! — Sciocchezze — disse Kathy. — Non avrei permesso a Jean di farlo

entrare, se fosse stato ubriaco. — Attenta al bambino, Blanche — disse la signora Archer. — Naturalmente — rispose la signora Corn. — Torniamo in camera da

letto, piccolo — disse al bambino. — Poi ti metto nella tua bella culla e facciamo tanta nanna.

Il vecchio rabbrividì, poi aprì gli occhi. Cercò di alzarsi. — Non si muova — gli ordinò Kathy. — La signora Archer le porterà

un bicchiere di vino. Lo vuole, penso? Il vecchio alzò gli occhi verso Kathy. — Grazie — disse. La signora Archer si recò in cucina. Dopo un istante di riflessione, prese

il bicchiere che c'era nell'acquaio, lo sciacquò e vi versò due dita di sherry. Tornò in salotto e diede il bicchiere a Kathy.

— Glielo devo tenere o riesce a bere da solo? — chiese Kathy, rivolta al vecchio.

— Lei è troppo gentile — rispose lui, e tese la mano verso il bicchiere. Kathy glielo tenne fermo, mentre il vecchio beveva; infine, l'uomo le sco-stò la mano.

— Basta così, grazie — disse. — Bastava a rimettermi in piedi. Cercò di alzarsi. — Grazie — disse alla signora Archer. — E grazie anche a lei — disse a

Kathy. — È meglio che me ne vada. — No, prima voglio vederla ben saldo sui piedi — disse Kathy. — Non

posso correre rischi, lo sa. Il vecchio sorrise. — Io posso correrne — disse. La signora Corn fece ritorno in soggiorno. — Il bambino è nella culla — riferì — e sta per addormentarsi. Quel-

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l'uomo si sente meglio? Scommetto che era solo ubriaco o affamato, o chissà cosa.

— Certo, che lo era — disse Kathy, messa in agitazione dall'idea. — Aveva fame. Ecco cosa non andava, Jean. Siamo state delle sciocche. Po-vero vecchio! — disse all'uomo. — Ma la signora Archer non la lascerà andare via, senza prima averle messo in corpo un buon pasto.

La signora Archer fece una faccia dubbiosa. — Ho delle uova — disse. — Benissimo! — disse Kathy. — Proprio quello che ci vuole. Si digeri-

scono in fretta — disse al vecchio — e vanno bene se non mangia da... — esitò a dire — ...da qualche tempo.

— Ci va del caffè nero — disse la signora Corn — se volete sapere la mia idea. Guardate come gli tremano le mani.

— È l'esaurimento — disse Kathy, con sicurezza. — Una bella tazza di brodo caldo è quel che gli occorre per rimettersi a posto, e deve berlo pia-no, perché lo stomaco si abitui di nuovo al cibo.

Si girò verso la signora Archer e la signora Corn. — Lo stomaco — spiegò — si rattrappisce, se rimane vuoto per un po'

di tempo. — Non vorrei darle altro disturbo... — disse il vecchio, rivolto alla si-

gnora Archer. — Sciocchezze — disse Kathy. — Dobbiamo assicurarci che abbia in

corpo un bel pasto caldo. Prese per il braccio la signora Archer e si diresse con lei verso la cucina. — Qualche uovo — disse. — Mettine in padella quattro o cinque. Non

credo che tu abbia del bacon. Anzi, fa friggere anche qualche patata. An-che se sono un po' crude, non ha importanza. Quelli come lui mangiano mucchi di patate fritte, uova e...

— Devo avere un pacchetto di fichi avanzato da mezzogiorno — disse la signora Archer. — Mi chiedevo cosa farne.

— Devo andare a controllarlo — disse Kathy. — Potrebbe svenire di nuovo, o chissà cosa. Tu, prepara le uova e le patate. Ti mando Blanche, se vuole darti una mano.

La signora Archer versò una quantità di polvere di caffè sufficiente per due tazze e mise il bricco sul fuoco. Poi cercò la padella.

— Kathy — disse — sono un po' preoccupata. Se è davvero ubriaco, e se Jim lo sapesse, con il bambino e tutto...

— Via, Jean! — disse Kathy. — Dovresti vivere per un po' in campagna. Laggiù, le donne danno sempre da mangiare a chi ha fame. E, poi, perché

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dirlo a Jim? Io e Blanche, naturalmente, non gli diremo nulla. — Be'... — fece la signora Archer. — Sei sicura che non sia solo ubria-

co? — Oh, riconosco immediatamente un uomo che ha fame — disse Kathy.

— Quando un vecchio come quello non riesce a stare in piedi, gli tremano le mani e ha quell'aria, significa che muore di fame. Alla lettera.

— Oh, mio Dio! — esclamò la signora Archer. Corse alla dispensa sotto il lavandino e prese due patate. — Credi che bastino, due patate? Stiamo proprio facendo una buona azione.

Kathy rise. — Sì, la buona azione quotidiana dei boy scout — disse. Fece per uscire dalla cucina, poi si voltò: — Hai della torta? — chiese.

— La torta, la mangiano sempre. — La tenevo per cena, però... — disse la signora Archer. — Oh, dalla a lui — disse Kathy. — Possiamo sempre scendere a pren-

derne un'altra, quando sarà uscito. Mentre le patate friggevano, la signora Archer mise un piattino, un piat-

to piano e una tazza sul tavolo della cucina, poi vi aggiunse forchetta e col-tello. Dopo qualche istante, come se le fosse venuto in mente solo in quel momento, prese dal cassetto un sacchetto vuoto della spesa, lo aprì e lo stese sotto i piatti.

Prese un bicchiere e lo riempì di acqua fresca, presa dalla bottiglia in frigorifero, tagliò tre fette di pane e le mise sul piattino, tagliò un pezzo di burro e lo mise sul piattino accanto al pane.

Poi prese un tovagliolo di carta dal cassetto e lo mise accanto al piatto; dopo un atttimo, lo piegò a triangolo e lo rimise a posto. Alla fine, mise sul tavolo i barattolini del sale e del pepe e tirò fuori le uova.

Si avvicinò alla porta e chiese: — Kathy! Chiedigli come vuole le uova. Dal soggiorno giunse rumore di conversazione, e Kathy rispose: — Al-

l'occhio di bue! La signora Archer prese quattro uova, e dopo un attimo di ripensamento

ne aggiunse un quinto. Uno alla volta, ruppe il guscio e li rovesciò nella padella. Quando si furono rassodati, chiamò: — A posto, ragazze! Portate-lo qui.

La signora Corn entrò in cucina, guardò il piatto di patate e di uova e poi fissò la signora Archer senza parlare.

Poi arrivò Kathy, che accompagnava il vecchio tenendolo per il braccio. Continuò a tenerlo finché non si fu seduto.

— Ecco — gli disse — la signora Archer le ha preparato un bel pranzet-

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to caldo. Il vecchio guardò la signora Archer. — Le sono molto riconoscente — disse. — Come hai preparato bene! — esclamò Kathy, guardando la signora

Archer e rivolgendole un cenno d'assenso. Il vecchio, intanto, studiava il piatto di uova e patate. — Avanti, lo mandi giù — disse Kathy. — E voi, ragazze, sedetevi. Va-

do a prendere la sedia in camera da letto. Il vecchio prese la saliera e la scosse piano sulle uova. — Mi sembrano deliziose — disse alla fine. — Lei, pensi solo a mangiare — disse Kathy, arrivando con la sedia. —

Vogliamo vederla con lo stomaco pieno. Dagli il caffè, Jean. La signora Archer andò a prendere il bricco sul fornello. — Oh, non si preoccupi — disse l'uomo. — Non c'è di che — disse la signora Archer, riempiendo la tazza all'uo-

mo. Poi si sedette a tavola. Il vecchio prese la forchetta e poi la posò di nuovo; prese il tovagliolino

di carta e se lo stese con cura sulle ginocchia. — Come si chiama? — chiese Kathy. — O'Flaherty, signora. John O'Flaherty. — Allora, John — disse Kathy — io sono la signorina Valentine e que-

sta signora è la signora Archer e l'altra è la signora Corn. — Come state? — chiese il vecchio. — Vedo che lei è dell'antica terra — disse Kathy. — Scusi? — chiese il vecchio. — Lei non è irlandese? — chiese Kathy. — Certo, signora. — Il vecchio infilò la forchetta in una delle uova e

guardò il tuorlo che si rovesciava sul piatto. — Conoscevo anche Yeats — disse all'improvviso.

— Davvero? — disse Kathy, piegandosi verso di lui. — Vediamo... era lo scrittore, vero?

— "Vieni per carità, vieni a danzare con me in Irlanda" — citò il vec-chio. Si alzò, e tenendosi alla sedia rivolse un profondo inchino alla signo-ra Archer.

— La ringrazio ancora, signora, della sua generosità. Girò loro la schie-na e si diresse verso l'uscita. Le tre donne si alzarono e lo seguirono.

— Ma non ha finito... — disse la signora Corn. — Lo stomaco — disse il vecchio — come ha osservato questa signora,

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si restringe. Già — disse, riandando ai propri ricordi. — Conoscevo Yeats. Quando arrivò alla porta, si girò e disse alla signora Archer: — Una si-

mile gentilezza deve essere premiata. Indicò i lacci caduti in terra. — Questi — disse — sono per lei. Per la sua gentilezza. Li divida con le

altre signore. — Ma io non... — cominciò la signora Archer. — Insisto — disse il vecchio, aprendo la porta. — Una ben piccola ri-

compensa, ma è tutto quel che ho. Li raccolga lei — aggiunse. Poi si voltò verso la signora Corn e le fece marameo. — Odio le vecchie — disse. — Ma guarda! — disse la signora Corn, con un filo di voce. — Posso avere brindato un po' troppo liberamente — disse l'uomo, ri-

volto alla signora Archer — ma non ho mai servito del pessimo sherry ai miei ospiti. Apparteniamo a due mondi diversi, signora.

— Non ve l'avevo detto? — disse la signora Corn. — Ve l'ho detto fin dal primo momento.

La signora Archer, con gli occhi fissi su Kathy, fece per spingere fuori della porta il vecchio, ma lui si spostò.

— "Danza con me in Irlanda" — ripeté. Appoggiandosi al muro, rag-giunse il portone e lo aprì.

— E il tempo è quasi finito — disse. Titolo originale: Come Dance with Me in Ireland (1943).

Naturalmente La signora Tylor, nel bel mezzo di una mattinata di faccende domesti-

che, era troppo educata per piazzarsi davanti alla porta a guardare, ma non vedeva il motivo di non farlo dalla finestra; quando l'aspirapolvere, o la ri-governatura dei piatti, o anche i letti da rifare, la portavano accanto a una finestra che dava a sud, scostava leggermente la tendina o spostava le per-siane.

Tutto quel che riuscì a vedere, comunque, furono il furgone dei traslochi fermo davanti alla casa e l'andirivieni dei facchini; quanto ai mobili, a quanto poté constatare, erano di buona qualità.

Finiti i letti, la signora Tylor scese a preparare il pranzo, e nel breve tempo che le occorse per scendere dalla camera da letto in cucina, un taxi si fermò davanti alla casa e un bambino ne scese e cominciò a correre a-

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vanti e indietro sul marciapiede. La signora Tylor lo guardò: dimostrava circa quattro anni, a meno che

non fosse un po' piccolo per la sua età; poteva giocare con sua figlia mino-re, si disse.

Poi guardò la donna che usciva dal taxi e si sentì ancor più rassicurata. Un bel completo marrone, un po' stropicciato, forse, e leggermente troppo chiaro per un trasloco, ma di ottimo taglio, e la signora Tylor fece un cen-no d'assenso tra sé e sé, mentre puliva un'altra carota. Brave persone, era ovvio.

Carol, la figlia più piccola della signora Tylor, era appoggiata ai paletti di recinzione, davanti alla casa, e osservava il bambino. Quando smise di correre, gli disse: — Ciao.

Il bambino la guardò, fece un passo indietro e disse: — Ciao. Sua madre osservò Carol, la casa dei Tylor e di nuovo il figlio. Poi disse

a Carol: — Ciao. Nella cucina, la signora Tylor sorrise. Poi, d'impulso, si asciugò le mani

e si tolse il grembiule per recarsi alla porta. — Carol — chiamò, a bassa voce. — Carol. La bambina si girò verso di lei, senza lasciare il paletto. — Cosa c'è? — chiese, poco disposta a muoversi. — Oh, salve — disse la signora Tylor, rivolta alla signora ferma accanto

al bambino. — Ho sentito Carol parlare con qualcuno... — I bambini facevano amicizia — disse l'altra signora, timidamente. La signora Tylor scese gli scalini e si fermò accanto a Carol, vicino alla

palizzata. — È la nostra nuova vicina? — chiese. — Se riuscirò mai a portare tutta la roba — disse lei. — Ah, questi tra-

slochi — aggiunse in tono significativo. — Eh, non me lo dica. Noi siamo la famiglia Tylor — disse la signora

Tylor. Indicò la figlia: — Lei è Carol. — Noi siamo la famiglia Harris — disse la donna. — Lui è James ju-

nior. — Di' ciao a James — disse la signora Tylor. — E tu, di' ciao a Carol — disse la signora Harris. Carol chiuse ostinatamente la bocca, e il piccolo James andò a nascon-

dersi dietro le gonne della madre. Tutt'e due le donne risero. — I bambini! — disse una di loro, e l'altra commentò: — Fanno sempre

così.

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Poi la signora Tylor disse, indicando il furgone e i due uomini che conti-nuavano ad andare avanti e indietro con sedie, tavolini, letti e lampade: — Santo Cielo, non è terribile?

La signora Harris sospirò. — Finirò per impazzire. — Posso fare qualcosa per aiutarla? — chiese la signora Tylor. Sorrise

al bambino. — Forse James potrebbe passare il pomeriggio con noi. — Sarebbe un vero sollievo — ammise la signora Harris. Si girò a guardare il figlio. — Ti piacerebbe giocare con Carol, oggi pomeriggio? James scosse la testa, senza parlare, e allora intervenne la signora Tylor,

che gli disse allegramente: — Carol ha due sorelle più grandi, che potreb-bero, dico potrebbero, eh, accompagnarla al cinema, James. Ti piacerebbe, vero?

— Temo di no — disse la signora Harris, recisa. — James non va al ci-nema.

— Oh, già, naturalmente — disse la signora Tylor — ci sono tante madri che non ci vanno, naturalmente, ma quando ci sono due sorelle...

— No, non si tratta di questo — spiegò la signora Harris. — Noi non andiamo al cinema. Nessuno di noi.

Mentalmente, la signora Tylor ne prese nota: quel "nessuno" significava che esisteva da qualche parte anche un signor Harris. Annotata l'informa-zione, disse, sorridendo: — Non andate al cinema?

— Il signor Harris — spiegò cautamente la signora Harris — ritiene che i film siano intellettualmente nocivi. Noi non andiamo al cinema.

— Naturalmente — rispose la signora Tylor. — Be', sono certa che Ca-rol non avrà niente in contrario a rimanere in casa, oggi. Sarà lieta di gio-care con James. Il signor Harris — aggiunse, con altrettanta cautela — non ha niente in contrario ai giochi con la sabbia?

— Io voglio andare al cinema — disse Carol. La signora Tylor si affrettò a interromperla. — Ascolti — disse — perché lei e James non venite a sedervi un attimo

da noi? Probabilmente, siete stanchi, dopo avere girato per tutta la mattina. La signora Harris esitò ad accettare, guardò cosa facevano i facchini. Poi disse: — Grazie — e, seguita da James, entrò nel cortile della signo-

ra Tylor. Questa suggerì: — Se ci sediamo in giardino, possiamo anche controlla-

re il trasloco. Diede una piccola spinta a Carol.

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— Tesoro — disse, con fermezza — fa' vedere a James la tua vasca del-la sabbia.

Imbronciata, Carol prese per mano James e lo portò fino al suo luogo di gioco.

— Adesso l'hai visto — disse, e tornò accanto alla palizzata, a prendere a calci i pali.

La signora Tylor fece accomodare la signora Harris in una delle sedie e andò a cercare una paletta, per far giocare James con la sabbia.

— Come si sta bene, seduti — disse la signora Harris. Sospirò. — A volte, ho l'impressione che non ci sia niente di peggio che traslocare.

— Siete stati fortunati a trovare quella casa — disse la signora Tylor. La signora Harris annuì. — È bello avere vicini di casa simpatici — continuò la signora Tylor. —

Mi vedrà spesso, le assicuro — terminò con vivacità — a farmi prestare lo zucchero!

— Oh, mi auguro che venga a farselo prestare da me — disse la signora Harris. — Vicino a noi, dove abitavamo prima, abitava gente davvero an-tipatica. Piccoli dispettucci, sa come fa certa gente, e di conseguenza tanto più irritanti.

La signora Tylor sospirò, come per darle ragione, e la signora Harris proseguì: — La radio, per esempio. Accesa tutto il giorno. E forte.

La signora Tylor trattenne per un istante il respiro. — Lei, venga pure a dirmelo — la incoraggiò — se per caso dovessi te-

nerla troppo forte. — Il signor Harris non sopporta la radio — disse la signora Harris. —

Noi non l'abbiamo, naturalmente. — Certo — disse la signora Tylor. — Niente radio. La signora Harris la guardò e poi rise, a disagio. — Penserà che mio marito è pazzo. — Naturalmente, no — disse la signora Tylor. — In fin dei conti, un

mucchio di persone detesta la radio; mio nipote, invece, è proprio il contra-rio...

— Be' — disse la signora Harris — anche i giornali. La signora Tylor riconobbe finalmente il vago senso di allarme che con-

tinuava a provare da qualche minuto; era la sensazione di trovarsi irrevo-cabilmente legata a qualcosa che ti sfuggiva di mano: per esempio, l'auto su una strada ghiacciata, o la volta che le avevano fatto provare i pattini a rotelle...

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La signora Harris stava osservando distrattamente i facchini del trasloco, che entravano e uscivano, e diceva: — Non è che non abbiamo mai visto un giornale, come per i film; il signor Harris semplicemente ritiene che i giornali costituiscano una degradazione di massa del gusto. Non c'è un ve-ro bisogno di leggere il giornale, sa — disse, guardando ansiosa la signora Tylor.

— Io leggo solo le... — Abbiamo preso il New Republic per anni — disse la signora Harris.

— Quando eravamo appena sposati, naturalmente. Prima che nascesse Ja-mes.

— Che lavoro fa, suo marito? — chiese la signora Tylor. La signora Harris sollevò con orgoglio la testa.

— È uno studioso — disse. — Scrive monografie. La signora Tylor aprì la bocca per parlare, ma la signora Harris si sporse

verso di lei e tese la mano per dire: — Certa gente fa davvero fatica a capi-re le esigenze di una vita davvero tranquilla.

— Ma suo marito — s'informò la signora Tylor — che cosa fa nel tempo libero?

— Legge dei drammi — rispose la signora Harris, girandosi ad adoc-chiare con sospetto James. — Pre-elisabettiani, naturalmente.

— Naturalmente — assentì la signora Tylor, e guardò con preoccupa-zione James, che riempiva di sabbia un secchiello.

— La gente sa rendersi davvero sgradevole — disse la signora Harris. — La famiglia che le dicevo, i nostri ex vicini. Non c'era solo la storia del-la radio, vede. Tre volte hanno lasciato intenzionalmente il New York Ti-mes sulla nostra scala. Una volta, il bambino per poco non l'ha visto.

— Buon Dio — disse la signora Tylor. Poi si alzò. — Carol — chiamò — non scappare. È quasi ora di pranzo,

cara. — Be' — disse la signora Harris — adesso devo andare anch'io, a vedere

se i facchini hanno messo le cose al posto giusto. La signora Tylor aveva l'impressione di essere stata un po' maleducata;

perciò chiese: — E il signor Harris, dov'è, adesso? — Da sua madre — spiegò la signora Harris. — Sta sempre da lei,

quando traslochiamo. — Naturalmente — disse la signora Tylor, con l'impressione di non ave-

re detto altro per tutta la mattina. — Quando c'è lui, tengono la radio spenta — soggiunse la signora Har-

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ris. — Naturalmente — commentò la signora Tylor. La signora Harris tese la mano e la signora Tylor gliela strinse. — Spero che saremo buone amiche — disse la signora Harris. — Come

dice lei, è importante andare d'accordo tra vicini. E noi, finora, non abbia-mo avuto molta fortuna, sotto questo aspetto.

— Naturalmente — disse la signora Tylor, e poi, all'improvviso, tornò in sé.

— Forse, una di queste sere, potremmo vederci per una partita a bridge? Ma vide la faccia della signora Harris e disse: — No, eh? Comunque,

una di queste sere dobbiamo vederci. Tutt'e due risero. — Sembra una cosa da ridere, vero? — disse la signora Harris. — Gra-

zie di tutte le gentilezze di stamattina. — Qualsiasi cosa possa fare per lei — disse la signora Tylor. — Se vuo-

le, mandi pure James, questo pomeriggio. — Potrebbe venire, certo, se non disturba. — Naturalmente, nessun disturbo — disse la signora Tylor. — Vieni,

Carol, amore. Con il braccio sulla spalla di Carol, raggiunse la porta e guardò la signo-

ra Harris e James che entravano in casa. Sulla soglia, madre e figlio si gira-rono a salutarle, e Carol e la signora Tylor li salutarono con il braccio.

— Ma oggi non posso andare al cinema? — chiese Carol. — Ti prego, mammina.

— Ti porto io — disse la signora Tylor. Titolo originale: Of Course (1949).

Come una statua di sale Per qualche ragione c'era un motivetto che continuava a ronzarle nella

testa, quando lei e suo marito avevano preso il treno per recarsi dal New Hampshire a New York; mancavano da New York da quasi un anno, ma il motivetto risaliva a molto tempo prima.

Era una canzone di quando lei aveva quindici o sedici anni e non aveva mai visto New York, tranne che al cinema, e la città era fatta, per lei, di at-tici eleganti, abitati dai figurini di Noel Coward; di quando l'altezza e la velocità e il lusso e l'allegria che costituivano una città come New York si

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confondevano inestricabilmente con la noia dei quindici anni, e la bellezza era quella irraggiungibile e lontana dei film.

— Che cos'è, questo motivetto? — chiese al marito, e glielo canticchiò. — Dev'essere di un vecchio film — aggiunse poi. — L'ho già sentito — disse lui, e lo canticchiò a sua volta. — Però, non

ricordo le parole. Si appoggiò allo schienale. Aveva appeso i soprabiti, messo le valigie

sulla reticella, e aveva tirato fuori la rivista da leggere in viaggio. — Prima o poi, mi verrà in mente — le promise. Lei, per un po' di tempo, guardò fuori del finestrino, con una sorta di

piacere segreto, assaporando l'estrema gioia di trovarsi su un treno in mo-vimento, senza altro da fare, per sei ore, che leggere e dormire e andare nella carrozza ristorante, mentre a ogni minuto che passava si allontanava sempre più dai bambini, dal pavimento da spazzare, e anche le montagne sparivano dietro di lei e lasciavano il posto a campi e alberi troppo lontani da casa per essere come quelli di tutti i giorni.

— Adoro i treni — disse, e il marito sorrise e le rivolse un cenno d'as-senso, senza abbassare la rivista.

Due settimane di libertà, due settimane incredibili, con tutto programma-to, niente da combinare, salvo forse scegliere il teatro e il ristorante.

L'amico che abitava a New York e che era partito per un opportuno pe-riodo di vacanza, in banca la cifra sufficiente sia per il viaggio a New York sia per le nuove tute invernali dei bambini. Il piacere, una volta superati i primi ostacoli, di veder cadere le difficoltà, come se niente avesse più osa-to fermarli, una volta presa la decisione.

La tonsillite del bambino era guarita come per magia. L'idraulico era ve-nuto e aveva finito il lavoro in due giorni. Il sarto aveva fatto in tempo le riparazioni; il negozio di ferramenta poteva andare avanti da solo, una vol-ta trovata la scusa di dover andare in città a cercare nuovi prodotti.

New York era ancora in piedi, non era stata messa in quarantena, il loro amico era partito come preventivato, e Brad aveva in tasca le chiavi del-l'appartamento. Avevano lasciato detto a tutti dove cercarli telefonicamen-te, in caso di necessità; avevano un elenco di commedie da vedere as-solutamente e un altro elenco di cose da comprare: garza, passamanerie, scatolette di cibi esotici, scatole ermetiche per l'argenteria. E alla fine il treno che faceva il suo dovere e che, correndo per tutto il pomeriggio, li portava legalmente, decisamente a New York.

Margaret guardò incuriosita il marito, inattivo nel bel mezzo del pome-

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riggio, su un treno, e gli altri fortunati viaggiatori, e la campagna illumina-ta dal sole; li guardò di nuovo tutti per controllare, e poi aprì il libro che si era portata per il viaggio.

Il motivetto le ronzava ancora nella testa; provò a canticchiarlo e sentì che anche il marito, sovrappensiero, lo accennava mentre leggeva la rivi-sta.

Nella carrozza ristorante ordinò roast beef, come avrebbe fatto in un ri-storante della sua città, perché non voleva passare troppo presto ai nuovi, allettanti piatti della vacanza.

Per dessert si fece portare gelato, ma non volle aspettare il caffè perché mancava solo un'ora all'arrivo a New York e lei doveva ancora mettersi soprabito e cappello e voleva gustarsi ogni gesto, e Brad doveva tirare giù le valigie e mettere via le riviste.

Rimasero fermi in piedi, in fondo al vagone, per l'interminabile percorso in galleria, presero varie volte le valigie in mano e poi le posarono dopo pochi istanti, per avvicinarsi un po' di più, un centimetro alla volta, all'u-scita.

La stazione, per un breve periodo, fu un rifugio che li preparò gradual-mente a un mondo di persone e di suoni e di luce, e che poi li tuffò nell'as-sordante realtà della strada.

Lei vide tutto questo, per un attimo, dal marciapiede, e poi si trovò in un taxi che penetrava nel cuore di quella realtà; subito dopo, incredibilmente, si trovarono a farne parte e furono trasportati verso la periferia, e scodellati su un altro marciapiede, mentre Brad pagava l'autista e alzava la testa per guardare il palazzo.

— È proprio questo — disse, come se avesse dubitato della capacità del tassista di trovare un numero civico che gli era stato dato in modo così semplice.

La corsa in ascensore, e poi, come una scoperta, la constatazione che la chiave apriva la serratura. Non avevano mai visto l'appartamento dell'ami-co, ma aveva un aspetto ragionevolmente familiare: un amico che si trasfe-risce dal New Hampshire a New York porta con sé un'immagine di casa che non si può cancellare in pochi anni, e l'appartamento aveva così tanti lati noti che Brad si sedette immediatamente sulla poltrona giusta e Marga-ret provò una fiducia istintiva per i suoi lenzuoli e le sue coperte.

— Per due settimane, questa è casa nostra — disse Brad, e si stirò, sba-digliando. Dopo i primi minuti, entrambi si avvicinarono meccanicamente alla finestra; New York era sotto di loro, come previsto, e dirimpetto c'era-

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no altre infinite case d'appartamenti piene di sconosciuti. — È meraviglioso — disse lei. Giù in strada c'erano le auto, la gente, il

rumore. — Sono così felice — disse, e baciò il marito. Il primo giorno, fecero i turisti. Fecero colazione in un Automat e saliro-

no in cima all'Empire State Building. — Hanno riparato tutto — disse Brad, quando furono su. — Mi chiedo

dove abbia picchiato, quell'aereo. Cercarono di guardare giù da tutt'e quattro i lati, ma si vergognarono a

chiedere. — Dopotutto — disse lei, ragionevolmente, mentre rideva in un angolo

— se si rompesse qualcosa di mio, non mi piacerebbe che la gente venisse a chiedermi di vedere i pezzi.

— Se tu fossi la proprietaria dell'Empire State Building, la cosa non ti darebbe fastidio — rispose Brad.

Per i primi giorni, viaggiarono sempre in taxi, e uno dei taxi aveva la portiera legata con lo spago; si indicarono il particolare e risero silenzio-samente tra loro. Il terzo giorno, al taxi su cui viaggiavano si sgonfiò una gomma mentre erano sulla Broadway; dovettero uscire per cercarne un al-tro.

— Ci restano solo undici giorni — disse una volta Margaret. E poi, dopo che in apparenza erano passati solo pochi minuti: — Siamo qui da sei giorni.

Telefonarono agli amici a cui dovevano telefonare, e furono invitati per il week-end nella loro casa estiva di Long Island.

— Ha un'aria un po' deprimente, in questa stagione — disse loro la pa-drona di casa, al telefono — e tra una settimana ce ne andremo via anche noi, ma non potrei mai perdonarvi, se non veniste almeno una volta a ve-dere la casa, adesso che siete a New York.

Il tempo era bello, ma freddo, con già l'annuncio dell'autunno, e i vestiti nelle vetrine dei grandi magazzini erano di colori scuri e facevano già pen-sare ai velluti e alle pellicce.

Margaret indossava tutti i giorni il soprabito e si metteva il tailleur. I ve-stiti leggeri che si era portata rimanevano appesi in armadio, e lei comin-ciava a pensare che forse le conveniva comprarsi un pullover in uno dei grandi magazzini: un capo poco pratico per il New Hampshire, ma che probabilmente andava bene per Long Island.

— Devo fare delle spese; mi occorrerà almeno un pomeriggio — disse a Brad, che si lasciò sfuggire un lamento.

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— Non chiedermi di portare i pacchetti — disse. — Tu non sei in grado di affrontare una giornata di shopping — gli disse

lei, scherzando — dopo tutta la strada che hai fatto a piedi. Perché non vai al cinema o qualcosa del genere?

— Devo fare qualche compera anch'io — disse lui, con fare misterioso. Forse pensava al regalo che intendeva farle per Natale; aveva pensato

anche lei di comprare i regali a New York; i ragazzi avrebbero apprezzato le novità della metropoli, i giocattoli che non potevano trovare nei negozi della loro cittadina. In qualsiasi caso, disse: — Probabilmente, riuscirai a passare dai tuoi grossisti.

Andarono a trovare un altro amico, che aveva miracolosamente trovato un appartamento e che di conseguenza li avvertì di non badare all'aspetto della casa, della scala e del vicinato.

Tutt'e tre erano pessimi, e le scale erano tre rampe buie e strette, ma in cima c'era un alloggio vivibile. Il loro amico era arrivato a New York solo recentemente, ma ora abitava in due stanze, ed era stato immediatamente contagiato dalla mania tutta newyorkese dei tavolini sottili e delle basse li-brerie che facevano sembrare le sue stanze, in certi punti, troppo grandi ri-spetto alla mobilia, e in altri troppo scomode e ingombre.

— Che posto incantevole — disse lei, quando entrò, e poi provò un certo dispiacere quando il padrone di casa si scusò: — Un giorno questa male-detta crisi degli alloggi finirà e io potrò andare ad abitare in un posto dav-vero decente.

C'erano degli altri invitati, che sedevano a parlare amichevolmente degli stessi argomenti di cui si parlava nel New Hampshire, ma che bevevano più di quanto si beveva a casa, e la cosa, stranamente, pareva non avere ef-fetto su di loro; parlavano a voce più alta e i termini che impiegavano era-no più strani; i loro gesti, viceversa, erano più tranquilli, e muovevano un dito per cose che nel New Hampshire avrebbero portato a muovere un braccio.

Margaret disse molte volte: — Siamo qui solo per un paio di settimane, in vacanza — e disse: — È meraviglioso, così eccitante — e disse: — Ab-biamo avuto una fortuna terribile; il nostro amico è andato fuori città pro-prio mentre noi...

Dopo un po', le parve che la stanza fosse troppo stipata, troppo rumoro-sa; si recò in un angolo, vicino a una finestra per respirare meglio. Per tutta la sera, quella finestra era prima aperta e poi chiusa, a seconda della perso-na che le stava accanto e del fatto che avesse le mani libere o no; adesso

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era chiusa, e fuori si vedeva il cielo senza nuvole. Qualcuno si fermò vicino a lei, e Margaret disse: — Senta che rumore

c'è fuori. Peggio che qui dentro. L'uomo disse: — In un quartiere come questo, c'è sempre gente che si

ammazza. Lei aggrottò la fronte. — Eppure, il rumore mi sembra cambiato. Voglio

dire che ha un tono diverso. — Sono gli ubriachi — disse l'uomo. — Si ubriacano per strada, poi lot-

tano da un marciapiede all'altro. Detto questo, si allontanò, con in mano il suo bicchiere. Margaret aprì la finestra e si sporse all'esterno, e vide che c'era gente, af-

facciata alle finestre dell'edificio di fronte, che gridava, e altra gente, in strada, che guardava in alto e gridava.

— Signora, signora! — udì distintamente, dalla casa dirimpetto, e pensò: Parlano a me. Guardano tutti dalla mia parte.

Si sporse dalla finestra, e riuscì a distinguere quel che gridavano: — Si-gnora, la sua casa brucia, signora, signora!

Chiuse la finestra e si girò verso la gente che c'era nella stanza. Alzando un poco la voce, disse: — Sentite, fuori gridano che la casa brucia!

Aveva paura che ridessero di lei, di fare la figura della sciocca e di ar-rossire davanti a Brad. Disse di nuovo: — La casa brucia — e aggiunse: — Lo gridano fuori — per paura di sembrare troppo agitata.

Le persone vicino a lei si girarono, e qualcuno commentò: — Dice che la casa brucia.

Avrebbe voluto correre da Brad, ma non riuscì a vederlo; non si vedeva neppure il padrone di casa, e la gente attorno a lei le era sconosciuta.

Non mi ascoltano, pensò. È inutile che resti qui. Perciò raggiunse la por-ta e la aprì.

Fuori non c'era fumo, non c'erano fiamme, ma lei continuò a ripetersi: È inutile che io rimanga qui, nessuno mi dà retta. In preda al panico, abban-donò Brad, e corse giù per le scale, senza cappello e senza soprabito, con un bicchiere in una mano e una scatola di fiammiferi nell'altra.

Le scale erano follemente lunghe, ma erano sgombre e sicure, e Marga-ret arrivò al portone e uscì sul marciapiede.

Un uomo la prese per il braccio e chiese: — Sono usciti tutti? E lei rispose: — No, Brad è ancora dentro. Il carro dei pompieri giunse da dietro l'angolo, e la gente si sporse dalle

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finestre per guardarlo. L'uomo che teneva Margaret per il braccio disse: — È laggiù — e la lasciò.

Il fuoco era a due case dalla loro. Dietro le finestre si scorgevano le fiamme, e il fumo s'innalzava sullo sfondo scuro del cielo, ma in dieci mi-nuti fu tutto finito, e i pompieri si allontanarono con un'aria delusa, per a-ver dovuto tirare fuori tutta la loro attrezzatura con il solo risultato di spe-gnere un fuoco da dieci minuti.

Margaret risalì le scale lentamente, imbarazzata, poi trovò Brad e si fece riportare a casa.

— Mi sono tanto spaventata — gli disse poi, quando furono a letto. — Ho perso la testa.

— Avresti dovuto cercare di dare l'allarme — disse Brad. — Non mi davano retta — insistette lei. — Ho continuato a dirlo, e non

mi ascoltavano, e allora ho pensato che potevo essermi sbagliata. Poi ho pensato di scendere a vedere che cosa era successo.

— Fortuna che non era niente di grave — disse Brad, soffocando uno sbadiglio.

— Mi sentivo in trappola — spiegò lei. — In cima a quella vecchia casa, con un incendio; è come un incubo. E, per di più, in una città che non co-nosco.

— Be', adesso è finito — disse Brad. Ma per tutta la giornata seguente Margaret continuò a provare una forte

insicurezza, anche quando andò a fare le spese da sola, e Brad andò a guardare certe nuove attrezzature, come previsto.

Margaret salì su un autobus diretto verso il centro, ma l'autobus era troppo pieno e lei non riuscì a raggiungere l'uscita, quando venne il mo-mento di scendere.

Chiusa in mezzo ad altre persone, disse "permesso" e "devo scendere", ma quando riuscì ad arrivare alla porta, l'autobus stava già ripartendo, e lei dovette scendere la fermata dopo.

Nessuno mi dà retta, disse poi a se stessa. Forse perché sono troppo gen-tile.

Nei negozi, i prezzi erano esageratamente alti, e i pullover, con sua grande delusione, sembravano identici a quelli del New Hampshire.

I giocattoli la riempirono d'orrore, tanto erano fatti a misura dei bambini di New York: orrende piccole caricature della vita degli adulti, registratori di cassa, piccoli carrelli da supermercato con frutta finta, telefoni realmen-te funzionanti (come se a New York non ci fossero abbastanza telefoni

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funzionanti), minuscole bottiglie del latte dentro un cestino per trasportar-le.

— Noi mungiamo ancora il latte dalla mucca — disse Margaret alla commessa. — I miei figli non capirebbero che cosa sono.

Era un po' un'esagerazione, e lei, per qualche istante, provò un senso di colpa, ma in giro non c'era nessuno che potesse smentirla.

Pensò ai bambini della metropoli, vestiti come i loro genitori e attorniati da una civiltà meccanica in miniatura: una serie di registratori giocattolo in scala crescente, sempre più grandi, che li preparavano a quelli veri; milioni di piccole imitazioni di latta che li preparavano ai giocattoli inutili di cui era composto il lavoro dei genitori.

Comprò un paio di racchette per il figlio, che però non erano adatte alla neve del New Hampshire, e uno slittino per la figlia, pur sapendo che Brad ne avrebbe potuto fare uno più bello nel suo laboratorio di falegnameria, in mezz'ora.

Poi girò definitivamente la schiena alle piccole cassette della posta, ai cosmetici per bambine, ai minuscoli fonografi con appositi dischi mignon, uscì dal negozio e tornò a casa.

A quel punto, l'idea di prendere l'autobus le faceva sinceramente paura; si fermò all'incrocio e aspettò che passasse un taxi.

Nell'abbassare gli occhi sul marciapiede, vide per terra una monetina da dieci cent e pensò di raccoglierla, ma non poté chinarsi perché c'era troppa gente, e non osò farsi largo per paura che tutti la guardassero.

Posò il piede sulla monetina e immediatamente vide, a poca distanza, anche un quarto di dollaro e una moneta da cinque cent. Dev'essere caduto il borsellino a qualcuno, pensò, e in fretta posò l'altro piede anche su quelle monete. Poi vide due altri quarti di dollaro e un'altra moneta da cinque cent, nel rigagnolo sotto il marciapiede.

La gente passava in fretta, la urtava, e lei non osava chinarsi a raccoglie-re le monetine. Anche le altre persone che passavano videro quel denaro, ma tirarono avanti, e lei comprese che nessuno l'avrebbe raccolto. O la co-sa li imbarazzava, o andavano troppo di fretta, o la strada era troppo affol-lata.

Poi si fermò un taxi, per far scendere qualcuno, e lei gli fece segno di at-tenderla. Tolse il piede dalle monetine e le lasciò dove stavano.

Il taxi si mise lentamente in moto, con qualche scossone; come Margaret aveva già potuto notare, il disfacimento progressivo non era solo dei taxi. Anche sugli autobus si aprivano fessure nella lamiera, dove c'erano salda-

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ture poco importanti; il cuoio dei sedili era screpolato e macchiato. Gli stessi edifici si stavano lentamente consumando: in uno dei migliori

negozi c'era un grosso buco nel pavimento, e la gente girava attorno alle transenne. Gli angoli dei palazzi si sgretolavano, trasformandosi in una polverina che fioccava lentamente sui marciapiedi, il granito subiva un'e-rosione di cui nessuno si accorgeva. Tutte le finestre che poté osservare nel viaggio di ritorno parevano avere i vetri rotti, forse tutti gli incroci erano spruzzati di una spolverata di monetine.

La gente correva più che mai. Una ragazza dal cappellino rosso compar-ve davanti al finestrino e sparì prima che lei potesse vedere com'era fatto il cappellino, nelle vetrine dei negozi, le luci erano abbaglianti perché si la-sciavano scorgere solo per una frazione di secondo.

La gente sembrava costretta a una condotta frenetica che rendeva le ore di quarantacinque minuti, i giorni di nove ore, gli anni di quattordici gior-ni. I pasti erano elusivi fast food, consumati in una tale fretta che si aveva sempre fame, si era perpetuamente in corsa verso un altro pasto con altre persone.

E, di minuto in minuto, tutto accelerava impercettibilmente. Margaret montò nel taxi da una parte e ne uscì davanti a casa sua dall'altra; nell'a-scensore, schiacciò il pulsante del quarto piano e, subito dopo, stava già scendendo, dopo avere fatto il bagno ed essersi vestita per andare a cena con Brad.

Uscirono a cena e tornarono a casa in pochi attimi, ancora affamati, e corsero a infilarsi nel letto per far arrivare più in fretta il momento della prima colazione e poi del pranzo.

Erano a New York da nove giorni. L'indomani era sabato e si dovevano recare a Long Island, per poi tornare a casa la domenica sera e il mercoledì successivo fare ritorno a casa, ma quella vera.

Margaret aveva fatto appena in tempo a pensarlo che si trovò sul treno per Long Island. Il treno era mezzo sfasciato, aveva i sedili rotti e il pavi-mento sudicio. Una delle porte non si apriva e i finestrini non si chiudeva-no.

Attraversando la periferia della città, lei pensò: È come se tutto viaggias-se talmente in fretta che la roba non resiste, va a pezzi per lo sforzo, le in-telaiature volano via e le finestre cadono. Ma non osò arrivare alla conclu-sione, non osò dirsi che quella velocità da rompicollo era frutto di una scelta volontaria, era una corsa sempre più rapida, per arrivare più in fretta alla distruzione.

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A Long Island la loro ospite abitava in un ennesimo pezzo di New York: una casa piena di mobili newyorkesi, come se fossero attaccati a un elasti-co, e li avessero tirati fin là, e adesso attendessero, tesi e pronti a ritornare di scatto in città, in qualcuno dei suoi appartamenti, non appena aperta la porta e scaduto il contratto d'affitto.

— Abbiamo sempre preso questo alloggio, da un'infinità di tempo — spiegò la padrona di casa. — Altrimenti, quest'anno non saremmo mai riu-sciti ad averlo.

— È un posto bellissimo — disse Brad. — Mi stupisco che non abitiate qui tutto l'anno.

— Be', qualche volta bisogna anche tornare in città — rispose la padrona di casa, ridendo.

— Qui è ben diverso dal New Hampshire — disse Brad. Comincia a sentire la nostalgia di casa, pensò Margaret. Dal giorno del-

l'incendio, lei aveva paura dei gruppi di persone; quando gli amici comin-ciarono ad arrivare, dopo cena, riuscì a resistere per un poco, ripetendosi che erano al piano terreno, e che poteva scappare da una finestra; ma alla fine dovette scusarsi e andare a letto.

Si svegliò molto più tardi, quando Brad venne a dormire e disse con irri-tazione: — Abbiamo giocato agli anagrammi, che idea.

Lei rispose, con voce assonnata: — Hai vinto? — ma si riaddormentò senza ascoltare la risposta.

L'indomani mattina, lei e Brad uscirono a fare una passeggiata mentre i padroni di casa leggevano il giornale.

— Dopo essere usciti — li consigliò la loro ospite — girate a destra e fa-te circa trecento metri. Arriverete alla spiaggia.

— Cosa vuoi che gli importi della spiaggia? — chiese il padrone di casa. — Fa troppo freddo per andarci.

— Possono guardare il mare — rispose la moglie. Perciò, scesero fino alla spiaggia; in quella stagione era spoglia, battuta

dal vento, ma mostrava ancora qualche odiosa traccia del suo sgargiante piumaggio estivo, come se si credesse ancora calda e invitante.

Per esempio, lungo la strada c'erano molti appartamenti vuoti, e un chio-sco solitario era ancora aperto, e reclamizzava coraggiosamente i propri hot dog e la birra analcolica.

L'uomo dietro il banco li guardò passare, con espressione fredda e indif-ferente. Brad e Margaret camminarono ancora a lungo, fino a perdere di vista le case, seguendo una specie di sentiero di ciottoli grigi, tra l'acqua

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grigia del mare da una parte e la sabbia grigia dall'altra. — Immagina di tuffarti adesso — disse Margaret, rabbrividendo alla so-

la idea. Ma la spiaggia le piaceva; aveva qualcosa di familiare e di rassicurante.

Mentre lo pensava, le tornò in mente il famoso motivetto, che per associa-zione le fece riaffiorare due ricordi.

La spiaggia era quella dove lei aveva immaginato di vivere, quando era ragazza e scriveva per se stessa tristi storie di amori delusi, con l'eroina che si allontanava lungo la riva, tra il selvaggio mugghiare dei cavalloni; il motivetto, invece, simboleggiava il mondo dorato in cui si rifugiava per uscire dalla noia del vivere quotidiano: la stessa noia che la spingeva a scrivere quelle storie deprimenti.

Rise forte, e Brad si girò verso di lei e chiese: — Cosa ci trovi da ridere, in questa spiaggia dimenticata da Dio...

— Pensavo a quanto è lontana la città — disse lei, mentendo. Il cielo, il mare e la spiaggia erano così grigi da far credere che si fosse

al crepuscolo, invece che a metà mattina; Margaret cominciava a essere stanca e avrebbe voluto tornare indietro, ma Brad disse all'improvviso: — Guarda!

Lei si voltò e vide una ragaza che correva lungo la sabbia, con in mano il cappello e i capelli al vento.

— È l'unico modo per tenersi caldi in una giornata come questa — commentò Brad.

Ma Margaret disse: — No, ha l'aria impaurita. La ragazza li vide e si diresse verso di loro, rallentando la corsa. Pareva

ansiosa di parlare, ma all'ultimo momento esitò, come se temesse di sem-brare sciocca, e li guardò tutt'e due, a disagio.

— Potete dirmi dove trovare un poliziotto? — chiese poi. Brad si guardò attorno, ma vide solo la spiaggia sassosa. Rispose gra-

vemente: — Qui attorno, non ne ho visto nessuno. Possiamo fare qualcosa per lei?

— Non credo — rispose la ragazza. — Ho proprio bisogno di un poli-ziotto.

Vanno sempre alla polizia, pensò Margaret, anche per un nonnulla. È come se questa gente di New York avesse scelto una parte della popola-zione e l'avesse incaricata di risolvere tutti i problemi.

— Saremmo lieti di aiutarla, se possibile — disse Brad. La ragazza esitò ancora.

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— Be', se volete saperlo — disse infine, con una punta di irritazione — laggiù c'è una gamba.

Attesero educatamente che la ragazza si spiegasse, ma lei si limitò a di-re: — Venite, allora — e fece segno di seguirla.

Li portò tra i bassi avvallamenti di sabbia, fino a un punto dove l'acqua entrava per qualche metro sulla spiaggia.

Sulla battigia, vicino all'acqua, c'era una gamba, e la ragazza la indicò e disse: — Eccola — come se fosse sua, e gli altri gliene avessero chiesto un pezzo.

Si avvicinarono e Brad si chinò con circospezione. — È proprio una gamba — disse. Sembrava staccata da un manichino: una gamba di cera, mortalmente

pallida, tagliata con precisione all'anca e poco sopra la caviglia, piegata comodamente al ginocchio e posata sulla sabbia.

— È proprio vera — disse Brad, con un tono di voce diverso. — Ha ra-gione, ci vuole la polizia.

Tornarono insieme fino al chiosco e l'uomo degli hot dog ascoltò senza alcuna emozione, quando Brad chiamò al telefono la polizia.

All'arrivo della volante, tutti tornarono al punto dove c'era la gamba e Brad fornì ai poliziotti nome e indirizzo, poi disse: — Adesso, possiamo tornare a casa?

— E cosa diavolo volete star qui a fare? — chiese l'agente, con un umo-rismo piuttosto greve. — Aspettare che arrivi il resto?

Tornarono dai loro ospiti, e riferirono del ritrovamento; il loro amico si scusò, come se avesse dato prova di cattivo gusto nel permettere ai suoi invitati di incappare in una gamba umana. La moglie disse con interesse: — A Bensonhurst hanno trovato un braccio; l'ho letto sul giornale.

— Uno dei soliti regolamenti di conti — disse il marito. Quando furono nella loro stanza, Margaret disse all'improvviso: — Suppongo che cominci dalla periferia.

Brad chiese: — Che cosa, cominci? E lei rispose, in tono isterico: — Ad andare in pezzi la gente. Per assicurare ai loro ospiti di non avere dato peso all'incidente della

gamba, si fermarono fino all'ultimo treno del pomeriggio per New York. Quando furono di nuovo nell'appartamento, Margaret ebbe l'impressione

che il marmo dell'ingresso fosse già invecchiato leggermente; in due soli giorni, si vedevano già molte nuove fessure. L'ascensore si era un po' ar-rugginito e un fine velo di polvere si stendeva su tutte le suppellettili, una

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volta entrati nell'appartamento. Nell'andare a letto, non si sentirono affatto a posto; l'indomani mattina,

Margaret disse subito: — Oggi non esco. — Non sei mica sconvolta per ieri? — chiese Brad. — Niente affatto — rispose lei. — Sento solo il bisogno di riposarmi. Dopo qualche discussione, Brad decise di uscire da solo; doveva incon-

trare ancora qualche persona e vedere qualche posto, nei pochi giorni che gli rimanevano.

Dopo avere fatto colazione insieme all'Automat, Margaret tornò da sola nell'appartamento, con un libro giallo che si era comprata per strada. Ap-pese al portamantelli soprabito e cappello e si sedette accanto alla finestra, con il rumore della strada e della gente che saliva dal basso, e il colore gri-gio del cielo dietro le case dirimpetto.

Non devo preoccuparmi, disse a se stessa, è assurdo pensare sempre a cose del genere, rovinarmi la vacanza e rovinarla a Brad. È inutile preoc-cuparsi, sono solo idee mie, senza fondamento.

Il perfido motivetto continuava a ronzarle nel cervello, con il suo carico di dolcezza e di profumi costosi. Le case dall'altra parte della strada erano silenziose e forse vuote, a quell'ora della giornata; Margaret cominciò a muovere gli occhi al ritmo del motivetto, da una finestra all'altra. Scivo-lando in fretta sulle prime due, il motivetto durava esattamente quanto le finestre di un piano; poi uno stacco e un salto al piano successivo. Il nume-ro delle finestre era sempre lo stesso, e il motivetto aveva sempre lo stesso numero di battute. Un piano dopo l'altro...

Dovette fermarsi all'improvviso perché le parve che il davanzale dell'ul-tima finestra su cui aveva passato lo sguardo si fosse improvvisamente sgretolato, trasformandosi in una cascatella di sabbia. Quando tornò a guardarlo, vide che era intatto, ma a distruggersi era stato adesso quello so-pra o quello sotto, e alla fine si trasformò in polvere un angolo del tetto.

È inutile preoccuparsi, si disse, abbassando gli occhi sulla strada. Non devo pensare a cose simili.

Ma, dopo avere guardato a lungo la strada, si sentì girare la testa; perciò tornò nella piccola camera da letto dell'appartamento. Aveva rifatto il letto prima di scendere a colazione, ma ora tolse coperte e lenzuola e lo rifece lentamente, spianando ogni grinza del lenzuolo e dedicando un'attenzione particolare agli angoli.

— Questo è fatto — disse poi, a voce alta, quando ebbe finito, e tornò alla finestra.

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Ma quando guardò la casa di fronte, il motivetto riprese a ronzarle nella testa, e una finestra dopo l'altra vide i davanzali trasformarsi in polvere e cadere sulla strada.

Allora abbassò lo sguardo sul davanzale della sua finestra, cosa che non aveva mai fatto prima, e vide che era parzialmente corroso. Quando toccò il marmo, qualche briciola si staccò e cadde giù.

Erano le undici; Brad era andato a vedere certi saldatori per il negozio e non sarebbe tornato prima dell'una, sempre che tornasse per quell'ora. Margaret pensò di scrivere a casa, ma cambiò idea prima di riuscire a tro-vare carta e penna.

Poi le venne in mente che avrebbe potuto fare un sonnellino, cosa che non aveva mai fatto la mattina, e andò a stendersi sul letto. Non appena si fu sdraiata, però, sentì che il palazzo tremava.

Inutile preoccuparsi, si ripeté, come se fosse una formula magica contro le streghe, poi si alzò e si infilò soprabito e cappello. Vado a prendere le sigarette e una busta di carta da lettere, pensò. Arrivo solo fino all'incrocio.

Il panico la colse mentre scendeva con l'ascensore; era troppo veloce. Quando mise piede nell'androne, solo la presenza di alcune persone che aspettavano di salire le impedì di correre via.

Camminando lesta, uscì dal palazzo e si trovò in strada. Lì si fermò per qualche istante, colta da un'improvvisa ansia di tornare indietro. Le auto-mobili correvano più che mai, la gente andava di fretta come sempre, ma a impedirle di tornare sui suoi passi fu la paura dell'ascensore.

Arrivò all'incrocio e, seguendo la fiumana di persone che andava avanti, attraversò in fretta la strada, con un clacson che le strombazzava sulla testa e qualcuno che gridava dietro di lei e uno stridore di freni. Correndo cie-camente, arrivò sul marciapiede opposto, e laggiù si fermò e si guardò at-torno. Il camion proseguiva e svoltava, la gente le passava accanto, spo-standosi per non urtarla.

Nessuno mi ha visto, si disse, per rassicurarsi. Quelli che mi hanno visto sono già andati avanti. Entrò nel drugstore e chiese le sigarette; adesso, l'appartamento le sembrava più sicuro della strada, una volta capito che, per salire, poteva usare le scale.

Quando uscì dal negozio e s'incamminò verso l'incrocio, si tenne il più possibile accanto al muro, senza spostarsi per lasciar passare la gente che usciva dai portoni. Giunta all'incrocio, guardò con attenzione il semaforo: era verde, ma le parve che mancasse poco al giallo. Meglio aspettare, pen-sò, non voglio finire sotto un altro camion.

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La gente, comunque, le passò davanti senza fare la stessa considerazio-ne, e qualche persona rimase bloccata in mezzo alla strada quando arrivò il rosso. Una donna, più paurosa degli altri, si voltò e tornò di corsa sul mar-ciapiede, ma gli altri rimasero fermi in mezzo alla strada, sporgendosi pri-ma avanti e poi indietro a seconda del traffico che correva nei due sensi. Una persona approfittò di una breve interruzione nella fila di macchine per arrivare di corsa al marciapiede opposto; le altre persero qualche istante prezioso e furono costrette ad aspettare.

Poi tornò il verde, e mentre le auto rallentavano, Margaret scese dal marciapiede per passare, ma un taxi che svoltava a tutta velocità la spaven-tò e la costrinse a ritornare a precipizio sul marciapiede.

Passato il taxi, era ormai troppo tardi per approfittare del verde, e Mar-garet si disse: Ho tutto il tempo che voglio, posso aspettare un altro verde, non vedo perché farmi bloccare in mezzo alla strada.

Un uomo accanto a lei batteva impazientemente il piede per terra, in at-tesa che finisse il rosso; due ragazze s'inoltrarono di qualche passo sulla carreggiata, per indietreggiare poi di un passo quando una macchina sfrec-ciava accanto a loro, e per tutto il tempo non smisero di raccontarsi chissà cosa.

Dovrei stare accanto a loro, pensò lei, ma poi le due ragazze tornarono indietro, ritornò il verde, l'uomo che batteva i piedi si precipitò ad attraver-sare, e le due ragazze aspettarono un momento e poi attraversarono lenta-mente, continuando a parlarsi, e Margaret, che aveva già messo avanti il piede, decise all'improvviso di aspettare.

In un attimo, attorno a lei si formò una piccola folla; erano scesi dall'au-tobus e attraversavano tutti in massa, e Margaret ebbe l'impressione di es-sere presa in mezzo a loro e trascinata via con la forza, quando si mossero all'unisono per passare. Perciò si fece strada disperatamente in mezzo al gruppo, controcorrente, e andò ad appoggiarsi contro il muro e aspettò che quella sensazione le passasse.

Cosa penseranno di me, si chiese, e cercò di rizzare la schiena e di com-portarsi normalmente, come se aspettasse qualcuno.

Guardò l'orologio e aggrottò la fronte per la sorpresa, ma si disse: Devo avere proprio un'aria idiota, chi vuoi che mi abbia visto, sono tutti di corsa. Si avvicinò di nuovo all'incrocio, ma il verde finì proprio in quel momento e lei pensò: Vado nel drugstore e mi faccio dare una coca, cosa ci torno a fare, nell'appartamento?

Il padrone del drugstore la guardò senza riconoscerla; lei si sedette e or-

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dinò una cocacola, ma all'improvviso, mentre beveva, venne di nuovo col-ta dal panico e pensò alla gente che era vicino a lei quando aveva cercato di attraversare la prima volta: gente che adesso era a chissà quanti isolati di distanza, che aveva attraversato dieci incroci a partire dal momento in cui lei era stata presa dall'agitazione. Quella gente aveva già fatto un miglio di strada, solo perché era andata avanti senza preoccupazione mentre lei cer-cava di trovare il coraggio.

Pagò in fretta l'uomo, resistette alla tentazione di dirgli che se aveva la-sciato il bicchiere a metà non era perché la cocacola fosse cattiva, ma per-ché si era accorta di essere in ritardo, e tornò in fretta al suo incrocio.

Appena arriva il verde, si ripromise con fermezza. È assurdo. Ma il ver-de giunse a tradimento, prima che lei fosse pronta, e nell'attimo che le oc-corse per fare mente locale, venne spaventata dalle auto che svoltavano e dovette risalire sul marciapiede.

Guardò con desiderio il negozio di sigari sul marciapiede di fronte, e la sua casa d'appartamenti proprio dietro, e si chiese: Come farà, la gente, ad arrivare laggiù? E capì che avere quella perplessità, ammettere quel dub-bio, era stato sufficiente a perderla.

Venne il verde, e lei guardò il semaforo con odio: un meccanismo cieco, che si spegneva e si accendeva, verde e rosso, privo di volontà e privo di significato.

Guardando timidamente attorno a sé, per vedere se qualcuno la osserva-va, tornò indietro di un passo, di due, finché non fu lontana dall'incrocio. Ritornata nel drugstore, attese un segno di riconoscimento da parte del pa-drone e non ne ravvisò: l'uomo la guardò con la medesima apatia di poco prima. Senza alcuna espressione, le indicò il telefono; non gliene importa, pensò lei, non gli importa niente, che io telefoni o no.

Non ebbe il tempo di sentirsi come una sciocca, perché risposero imme-diatamente al telefono e furono molto gentili e glielo rintracciarono subito. Quando suo marito rispose, leggermente sorpreso, ma non allarmato, lei riuscì solo a dire: — Sono nel drugstore qui all'angolo. Vieni a prendermi.

— Che cos'è successo? — Brad non pareva eccessivamente ansioso di venire.

— Per piacere, vieni qui a prendermi — disse, rivolta alla nera cornetta del telefono, che poteva o non poteva riferirlo poi a lui. — Per piacere, Brad, vieni a prendermi. Per piacere.

Titolo originale: Pillar of Salt (1948).

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Uomini con gli scarponi

Era la prima estate che la giovane signora Hart passava in campagna, ed

era il primo anno che era sposata e che doveva badare a una casa; presto doveva nascere il suo primo figlio, ed era la prima volta che aveva con sé qualcuno che si potesse descrivere, anche se solo lontanamente, come una cameriera.

La giovane signora Hart passava ore tutti i giorni, quando si riposava come le aveva ordinato il dottore, a congratularsi silenziosamente con se stessa. Quando stava sulla sedia a dondolo nel porticato, vedeva davanti a sé la strada silenziosa con alberi, giardini e persone gentili che le sorride-vano nel passare; se invece girava la testa dall'altra parte, poteva vedere, dalle ampie finestre, l'interno della propria casa, il bel soggiorno con le tende di cinz e le fodere accoppiate e i mobili svedesi; poteva sollevare leggermente gli occhi e guardare le mantovane della camera da letto.

Era una vera casa: il lattaio lasciava la bottiglia tutte le mattine; i vasi di fiori, vivacemente colorati, posti sulla ringhiera del porticato, contenevano vere piante che crescevano e richiedevano di essere regolarmente annaffia-te; sul fornello della cucina si poteva far da mangiare e la signora Ander-son si lamentava sempre delle impronte sui pavimenti, come una vera ca-meriera.

— Sono gli uomini che sporcano i pavimenti — diceva la signora An-derson, fissando la strisciata di un tacco. — Le donne, se lei prova a guar-darle, posano il piede delicatamente. Sono gli uomini, con i loro scarponi.

E si metteva a strofinare sulla macchia con lo straccio della polvere. Anche se la signora Hart aveva un irragionevole timore della signora

Anderson, aveva sempre sentito dire che le donne di casa, al giorno d'oggi, erano messe in soggezione dal personale di servizio, e perciò non aveva badato alla cosa; inoltre, la bellicosa autorevolezza della signora Anderson pareva derivare naturalmente dalla sua conoscenza di come si metteva via la verdura e di come si faceva il caramello e di come andava fatta lievitare la pasta.

Quando la signora Anderson, tutta gomiti e faccia rossa, con i capelli or-ribilmente tirati indietro, si era presentata la prima volta alla porta della cucina con la proposta di aiutarla, la signora Hart aveva accettato cieca-mente, perché era stata sorpresa tra le finestre sporche, la polvere e i pac-chi del trasloco da mettere in ordine.

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Poi la signora Anderson aveva cominciato correttamente con la cucina e per prima cosa aveva preparato alla signora Hart una tazza di tè.

— Non può rischiare di stancarsi — aveva detto, lanciando un'occhiata alla circonferenza della signora Hart. — Nelle sue condizioni deve fare at-tenzione.

E quando la signora Hart si era accorta che la signora Anderson non pu-liva mai fino in fondo, e non rimetteva mai perfettamente a posto le cose che spostava, era ormai impossibile tornare indietro.

Su tutte le finestre c'erano le impronte delle dita della signora Anderson e la tazza mattutina di tè della signora Hart era diventata un'istituzione; la signora Hart metteva l'acqua a bollire dopo avere fatto colazione e la si-gnora Anderson serviva a tutt'e due una tazza di tè quando arrivava alle nove.

— Per cominciare bene la giornata occorre una tazza di tè — diceva sor-ridendo tutte le mattine. — Mette a posto lo stomaco per tutta la giornata.

La signora Hart non andava più in là, nel pensare alla signora Anderson, del sentirsi tranquillamente orgogliosa di avere qualcuno che si occupava delle faccende ("un vero tesoro" aveva scritto alle amiche di New York "e si occupa di me come se fossi sua figlia!"). Solo dopo che la signora An-derson era venuta regolarmente tutte le mattine per più di un mese la si-gnora Hart capì con agghiacciante certezza che la sua piccola inquietudine era perfettamente giustificata.

Era una mattinata calda e soleggiata, la prima dopo una settimana di pioggia, e la signora Hart si era messa un abitino da casa particolarmente grazioso (lavato e stirato dalla signora Anderson) e aveva preparato al ma-rito un uovo alla coque per la piccola colazione e poi lo aveva accompa-gnato fino al cancello per salutarlo con la mano finché non lo aveva visto salire sull'autobus che lo portava al lavoro, in una banca della città.

Nel tornare in casa, la signora Hart aveva ammirato l'effetto della luce sulle persiane verdi e aveva scambiato qualche parola con la vicina, che era già intenta a spazzare il porticato.

Presto avrò un bambino che giocherà in cortile nel suo box, pensò la si-gnora Hart, e lasciò aperta la porta perché il sole rallegrasse l'ingresso.

Quando entrò in cucina, la signora Anderson era seduta a tavola e aveva già servito il tè.

— Buon giorno — disse la signora Hart. — Bella giornata, vero? — 'Giorno — disse la signora Anderson. Indicò il tè.

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— Ho visto che era in giardino — disse — e perciò ho preparato tutto. Non può cominciare la giornata senza la sua tazza di tè.

— Cominciavo a temere di non rivedere mai più il sole — disse la si-gnora Hart.

Si sedette e prese la tazza. — È così bello — disse — che ritorni il caldo e che la pioggia sia finita. — Mette lo stomaco a posto, il tè — disse la signora Anderson. — Ho

già messo lo zucchero. Nelle sue condizioni, lo stomaco le dà dei fastidi. — Sa — disse lei, allegramente — un anno fa, lavoravo ancora a New

York e non pensavo che io e Bill ci saremmo sposati. E mi guardi adesso — aggiunse, ridendo.

— Non si sa mai che cosa ci può capitare — disse la signora Anderson. — Quando le cose vanno male, o si muore o migliorano. Una volta avevo una vicina che lo ripeteva sempre. Si alzò, sospirando, e portò la tazza nel lavandino.

— Naturalmente — aggiunse — per alcuni di noi non è mai andata bene. — E poi, in due settimane, è successo tutto — disse la signora Hart. —

Bill ha avuto questo posto di lavoro, qui, e le colleghe ci hanno regalato un ferro a vapore.

— È sul ripiano — disse la signora Anderson. Prese la tazza della signo-ra Hart.

— Lei — disse — stia seduta. Non le capiterà più di potersene stare tranquilla come adesso.

— Non riesco a stare sempre seduta — disse la signora Hart. — Tutto mi sembra troppo bello per essere vero.

— È per il suo bene — disse la signora Anderson. — Io parlo solo per lei.

— Lei è stata molto gentile — rispose la signora Hart, doverosamente. — Venirmi ad aiutare tutte le mattine. E a prendersi cura di me.

— Non voglio ringraziamenti — disse la signora Anderson. — Lei cer-chi solo di stare bene fino alla fine, e io non chiedo altro.

— Ma, le garantisco, non saprei davvero come fare, senza di lei — disse la signora Hart.

Questo doveva essere sufficiente per la giornata, pensò, e rise all'idea di dover passare ogni mattina una dose di gratitudine alla signora Anderson, come se fosse un supplemento sulla sua paga oraria.

Però, è vero, pensò; tutti i giorni devo dirle qualcosa, prima o dopo. — Di che cosa ride? — chiese la signora Anderson, girandosi verso di

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lei, con le braccia rosse nel lavandino. — Ho detto qualcosa che fa ridere? — Pensavo — si affrettò a dire la signora Hart — alle ragazze del mio

ufficio. Sarebbero gelose di me, se potessero vedermi adesso. — Non sanno che fortuna hanno — disse la signora Anderson. La signora Hart tese la mano ad accarezzare la tendina gialla della fine-

stra accanto a lei, e pensò agli appartamenti monolocali di New York e al-l'ufficio buio.

— Piacerebbe anche a me poter ridere — disse la signora Anderson. La signora Hart si affrettò a staccarsi dalla tendina e si voltò verso la si-

gnora Anderson, sorridendole con comprensione. — Lo so — mormorò. — Oh, non sa come possa essere brutta — disse la signora Anderson. Con la testa, indicò la porta della cucina. — Lui l'ha rifatto. Per tutta la notte. Ormai, la signora Hart capiva immediatamente se con quel "lui" inten-

deva il signor Anderson o il signor Hart; quando la signora Anderson ac-cennava con la testa alla cucina e alla direzione da cui veniva tutte le mat-tine, intendeva riferirsi al marito; se invece accennava con la testa alla di-rezione della porta d'ingresso, dove tutte le sere la signora Hart incontrava il marito, intendeva riferirsi al signor Hart.

— Non ho avuto un momento di riposo, io — diceva la signora Ander-son.

— Oh, quanto mi dispiace — disse la signora Hart. Si affrettò a uscire, dicendo:

— Gli strofinacci saranno asciutti, là fuori. — Li prendo io, più tardi — disse la signora Anderson. — Gridava e

imprecava — proseguì — e io mi sono detta che era impazzito. "Perché non te ne vai?" mi fa. Ed è andato a spalancare la porta e si è messo a gri-dare e tutti i vicini lo sentivano. "Perché non te ne vai?" mi fa.

— Terribile — disse la signora Hart, con la mano sulla maniglia. — Dopo trentasette anni — disse la signora Anderson, scuotendo la te-

sta. — E mi dice di andarmene. Guardò la signora Hart che si accendeva una sigaretta e disse: — Lei

dovrebbe smettere. Finirà per pentirsene, se continuerà a fumare così. È per questo che non ho mai voluto avere figli. Cosa facevo, mi sorbivo que-ste scenate con i bambini attorno che ascoltano?

La signora Hart si avvicinò al fornello e guardò nella teiera. — Credo che ne prenderò un'altra tazza — disse. — Ne vuole una anche

lei, signora Anderson?

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— Mi fa venire le palpitazioni — disse la signora Anderson. Prese la tazza dall'acquaio e la riportò sulla tavola.

— L'avevo appena lavata — disse — ma è la sua tazza. E la casa è sua. Penso che può fare cosa vuole.

La signora Hart rise e si avvicinò al tavolo. La signora Anderson la guardò mentre versava il tè e poi portò via la teiera.

— Meglio sciacquarla — disse — prima che lei decida di berne ancora. Abbassò la voce. — Troppi liquidi rovinano i reni. — Ho sempre bevuto molto tè e caffè — disse la signora Hart. La signora Anderson guardò i piatti messi a scolare sul lavandino e poi

prese in ciascuna mano tre bicchieri. — Stamattina — disse — aveva un bel mucchio di bicchieri sporchi. — Ieri sera ero troppo stanca per lavarli — disse la signora Hart. E poi, pensò, pago te, per pulire. — Perciò — disse poi, con un sorriso — ho pensato di lasciarli a lei. — È il mio lavoro, pulire quel che sporcano gli altri — disse la signora

Anderson. — E già, qualcuno deve pur fare i lavori sgradevoli. Ha avuto molta gente?

— Persone che mio marito ha conosciuto in città — disse la signora Hart. — Eravamo in sei.

— Suo marito non dovrebbe invitare gente, con lei nelle sue condizioni — disse la signora Anderson.

La signora Hart pensò alla piacevole chiacchierata sui teatri di New York e sul locale dove volevano andare a ballare, e ai complimenti che le avevano fatto per la casa, e a lei che mostrava il corredino del bambino alle altre due giovani signore e sospirò. Aveva perso il filo del discorso della signora Anderson.

— ...davanti alla moglie — terminò la signora Anderson, e mosse signi-ficativamente la testa verso l'ingresso. — Lui beve tanto?

— No, non tanto — rispose la signora Hart. La signora Anderson annuì. — Capisco cosa intende — disse. — Bevo-

no un bicchiere dopo l'altro, e non si sa come fermarli. Poi qualcosa li fa arrabbiare, e allora la prima cosa che dicono alla moglie è di andarsene di casa.

Annuì di nuovo. — E l'unica cosa che una donna possa fare — concluse — è di avere

sempre un posto dove andare. La signora Hart disse con attenzione: — Via, signora Anderson, non

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credo che tutti i mariti... — Lei è solo un anno che è sposata — disse la signora Anderson, scuo-

tendo la testa — e non ha nessuno a spiegarle queste cose. La signora Hart si accese una seconda sigaretta con il mozzicone della

prima. — Io non sono affatto preoccupata che mio marito beva — disse, in tono

grave. La signora Anderson s'immobilizzò, con in mano una pila di piatti puliti. — Altre donne? — chiese. — Allora, si tratta di questo. — Perché le viene in mente una cosa simile? — chiese la signora Hart.

— Bill non penserebbe mai... — Lei ha bisogno di qualcuno che la guardi, in questo periodo — disse

la signora Anderson. — Non creda che non lo sappia; lei scoppia dalla vo-glia di raccontarlo a qualcuno. Secondo me, tutti gli uomini trattano la mo-glie allo stesso modo, ma alcuni bevono, altri buttano via i soldi giocando d'azzardo, e altri ancora corrono dietro a tutte le ragazze giovani che vedo-no. — Rise, seccamente. — O anche non giovani, se chiede alle mogli — aggiunse. — Se le donne sapessero come diventano i mariti dopo il matri-monio, ben poche si sposerebbero, glielo assicuro.

— Penso che la riuscita del matrimonio sia in gran parte responsabilità della donna — disse la signora Hart.

— La signora Martin, giù al negozio, l'altro giorno mi raccontava quello che faceva il marito, prima di morire — disse la signora Anderson. — Lei non se lo immaginerebbe neppure.

Guardò significativamente la porta della cucina. — Alcuni, comunque, sono peggio degli altri. La signora Martin pensa

che lei sia davvero una cara ragazza, sa? — Molto gentile da parte sua — disse la signora Hart. — Di lui — un'occhiata alla porta d'ingresso — non ho parlato — conti-

nuò la signora Anderson. — Non faccio mai nomi, quando tutti pensano che io conosca le persone.

La signora Hart pensò alla signora Martin, con i suoi occhi acuti, che controllavano tutti gli acquisti ("Due pagnotte integrali, signora Hart? Ha gente, eh, stasera?").

— Mi sembra una brava persona — disse la signora Hart. Avrebbe volu-to aggiungere: Diglielo, che ho detto questo.

— Oh, non dico che non lo sia — mormorò la signora Anderson, cupa. — Ma lei non deve permettere che si faccia delle idee sbagliate.

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— Oh, sono certa che... — cominciò la signora Hart. — Comunque, io gliel'ho detto — continuò la signora Anderson. — Le

ho detto, sono sicura che il signor Hart non si è mai preso quelle libertà, per quel che ne so. E che non beve, diversamente da certi altri. Ho detto che lei è come una figlia, per me, e che non permetto a nessuno di trattarla male.

— Io... — cominciò la signora Hart, attanagliata dai primi timori. Aveva il sospetto che quei vicini così gentili la tenessero d'occhio, con la scusa dell'amicizia, la guardassero senza farsi vedere, da dietro le tende, e sorve-gliassero suo marito.

— Non penso che si debba parlare degli altri — disse, alla disperata. — Intendo dire, non credo che si debbano dire le cose, se non ne siamo sicuri.

La signora Anderson rise e andò ad aprire l'armadietto delle scope. — Non si faccia spaventare — disse. — Non ora, nelle sue condizioni.

Vuole che faccia il soggiorno, stamattina? Potrei mettere fuori i tappeti. È solo che lui — un'occhiata alla porta della cucina — mi ha sconvolto. Glie-l'ho detto.

— Mi dispiace — disse la signora Hart. — È stata proprio una brutta co-sa.

— La signora Martin ha chiesto perché non vengo a stare con voi — dis-se la signora Anderson, frugando violentemente nell'armadietto delle sco-pe. — Ha detto che una sposina come lei, nei primi tempi, ha sempre biso-gno di qualcuno che le dia una mano.

La signora Hart strinse nervosamente la tazza del tè. Ormai è troppo tar-di per tirarmi indietro, pensò; ma posso sempre dire che Bill non vuole.

— Ho visto la signora Martin qualche giorno fa — disse. — Aveva un bel soprabito blu.

Si passò la mano sul vestito da casa e disse con irritazione: — Chissà quando potrò rimettermi anch'io un vestito decente.

— "Perché non te ne vai?" mi ha detto — ripeteva la signora Anderson, uscendo dall'armadietto con uno straccio in una mano e la paletta nell'altra. — Era ubriaco, e gridava che lo hanno sentito tutti i vicini. "Perché non te ne vai?" Sono sicura che lo avete sentito fin qui.

— Oh, sono certa che non parlava sul serio — disse la signora Hart, con il tono di chi considera chiusa la cosa.

— Lei non l'avrebbe sopportato — disse la signora Anderson. Posò straccio e paletta e si sedette davanti alla signora Hart. — La signora Martin ha detto che se lei era d'accordo, potevo stare nella

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stanza vuota. Fare da mangiare per voi. — Sì, certo — disse la signora Hart, sorridendo — ma in quella stanza ci

voglio mettere il bambino. — Il bambino può stare nella vostra stanza — disse la signora Anderson. Rise e diede un colpo sul braccio alla signora Hart. — Non si preoccupi — disse — cercherò di non mettermi in mezzo.

Comunque, se vuole mettere il bambino nella mia stanza, posso alzarmi di notte se ha bisogno di qualcosa. Penso di potermi occupare di un bambino senza difficoltà.

La signora Hart sorrise amichevolmente alla signora Anderson. — Mi piacerebbe — disse. — Una volta o l'altra. Ora come ora, però,

Bill non mi darebbe il permesso. — No di certo — disse la signora Anderson. — Gli uomini non lo danno

mai, vero? Ho detto alla signora Martin, giù in negozio, è la più cara ra-gazza che c'è al mondo, le ho detto, ma suo marito non le permetterebbe di prendersi in casa la donna delle pulizie.

— Oh, signora Anderson — disse la signora Hart, con aria offesa — non deve parlare così di se stessa!

— Una donna con più esperienza, poi — disse la signora Anderson. — Una che le aprirebbe gli occhi.

La signora Hart s'immaginò la scena: la signora Martin dietro il banco ("Ho saputo che ha una nuova inquilina, signora Hart; la signora Anderson si prenderà cura di lei!"). E i suoi vicini, che la guardavano impassibili quando andava alla fermata a prendere Bill; e le sue ex colleghe, che leg-gevano la lettera e la invidiavano ("Una vera perla... viene a stare con noi e a fare tutto il lavoro!").

E nel guardare l'espressione soddisfatta della signora Anderson, capì di essere perduta.

Titolo originale: Men with Their Big Shoes (1949).

Il dente L'autobus aspettava, ansimando pesantemente a fianco del marciapiede,

davanti alla piccola stazione, e la sua mole azzurra e argento scintillava al-la luce della luna. C'erano solo poche persone che aspettavano di salire, e a quell'ora della notte nessuno passava per la strada.

L'unico cinematografo della cittadina aveva terminato le proiezioni un'o-

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ra prima, e tutti gli spettatori erano passati al drugstore a prendere il gelato e poi erano tornati a casa. Adesso il drugstore era chiuso e buio, era solo un'altra porta nella lunga strada della mezzanotte.

Non si vedevano altre luci che quelle dei lampioni e quella della stazione degli autobus, dove la ragazza della cassa, con già addosso il cappello e il soprabito, aspettava solo che partisse l'ultima corsa diretta a New York per poi tornare a casa.

Ferma sul marciapiede, accanto alla porta aperta dell'autobus, Clara Spencer si strinse nervosamente al braccio del marito.

— Mi sento così strana — disse. — Stai bene? — chiese lui. — Vuoi che venga anch'io? — No, non ce n'è bisogno — rispose lei. — Va benissimo. Parlava con difficoltà perché aveva la gengiva gonfia; si premeva un

fazzoletto contro la guancia e con l'altra mano si teneva forte al marito. — Tu, invece — chiese — sei sicuro di cavartela? Al più tardi, arriverò

domani sera. Altrimenti ti telefonerò. — Vedrai che andrà tutto bene — disse lui, per rincuorarla. — Per do-

mani a mezzogiorno, sarà tutto finito. Di' al dentista che, se occorre, io posso venire subito.

— Mi sento così strana — commentò lei. — Ho la testa leggera, e mi gi-ra anche un po'.

— Sono le pastiglie — disse lui. — La codeina, e il whisky. E lo stoma-co vuoto.

Lei rise nervosamente. — Non sono neppure riuscita a pettinarmi. Mi tremava la mano. Per fortuna, adesso è buio.

— Sull'autobus, cerca di dormire — disse lui. — Hai le pillole per dor-mire?

— Sì — rispose lei. Aspettarono che l'autista finisse di bere il caffè, nel piccolo bar della sta-

zione. Lo vedevano dietro il vetro: era seduto al banco e se la prendeva molto comoda.

— Mi sento così strana — ripeté lei. — Sai, Clara — disse lui, con gravità, come se così facendo potesse con-

fortarla meglio — preferisco che tu vada a New York, a farti vedere da Zimmerman. Non me la perdonerei mai, se si trattasse di qualcosa di serio e ti lasciassi andare da questo macellaio che abbiamo qui.

— Oh, è un semplice mal di denti — disse Clara, a disagio. — Non ci può essere niente di grave in un mal di denti.

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— Non so — disse lui. — Potrebbe esserci un ascesso. Sono sicuro che dovrà togliertelo.

— Non me lo dire — fece lei, rabbrividendo. — Be', sembra una cosa abbastanza seria — disse lui, gravemente, come

prima. — Hai la faccia gonfia. Ma non preoccuparti. — Oh, non mi preoccupo — rispose lei. — Solo, non riesco a pensare ad

altro che al dente. L'autista era sceso dallo sgabello e pagava il caffè. Clara fece per salire

sull'autobus e il marito disse: — Non c'è bisogno di correre, hai tutto il tempo. — Mi sento strana — disse Clara. — Senti — disse il marito — quel dente continua a farti male da anni;

da quando ci conosciamo, sono almeno sei o sette volte che ti da fastidio. Era ora di fare qualcosa. Perfino in viaggio di nozze avevi il mal di denti — terminò, in tono d'accusa.

— Davvero? — chiese Clara. — Non me ne ricordo — proseguì, e rise. — Ero così di corsa che non mi sono vestita come volevo. Ho una calza rotta e non ho neppure guardato cosa mettevo nella borsa.

— Sei sicura di avere abbastanza denaro? — chiese lui. — Ho venticinque dollari — disse Clara. — Domani vedrai che sarò a

casa. — Telefona, se hai bisogno di altri soldi — disse lui. L'autista uscì dal bar in quel momento. — Non preoccuparti — aggiunse il marito di Clara. — Ascolta — disse lei — sei sicuro di non avere problemi? La signora

Lang verrà a prepararvi la colazione, e Johnny può stare a casa da scuola, se ci sono dei problemi.

— Lo so — rispose lui. — Ho già telefonato io alla signora Lang — disse lei. — L'elenco della

spesa è sul tavolo della cucina. A mezzogiorno puoi mangiare la lingua, e se io non dovessi tornare in tempo, la signora Lang ti potrebbe preparare la cena. Verso le quattro deve passare l'uomo della tintoria, io non ci sarò an-cora. Dagli il tuo vestito marrone, ma prima togli la roba dalle tasche.

— Se ti servono dei soldi, telefonami — disse lui. — O telegrafa. Io, comunque, domani sarò in casa tutto il giorno.

— La signora Lang si prenderà cura del bambino piccolo — disse Clara. — Telefona — ripeté lui. L'autista attraversò il marciapiede e si fermò accanto alla porta dell'auto-

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bus. — A posto? — chiese. — Arrivederci — disse Clara, rivolta al marito. — Vedrai che domani ti sentirai perfettamente — disse suo marito. — È

solo un mal di denti. — Sto bene — disse Clara. — Non preoccuparti. Salì sull'autobus e poi si fermò sugli scalini, mentre l'autista aspettava

dietro di lei. — Il lattaio — disse al marito. — Lasciagli un biglietto. Digli di portare

le uova. — Certo — promise il marito. — Buon viaggio. — Arrivederci — disse Clara. Salì sull'autobus. Dietro di lei, salì l'autista che si sedette al posto di gui-

da. L'autobus era quasi vuoto, e Clara andò a sedersi in fondo, accanto al fi-

nestrino, e vide il marito, sul marciapiede. — Arrivederci — lo salutò. — Prenditi cura di te. — Arrivederci — la salutò lui, con il braccio. L'autobus tremò, tossì, e si mise in moto. Clara girò la testa per dare un

ultimo addio al marito e poi si appoggiò allo schienale. Buon Dio, pensò, che cosa!

All'esterno, la strada familiare si allontanò da lei, strana, buia, vista dalla straordinaria prospettiva di una persona che andava via in autobus.

Non è la prima volta che vado a New York, si disse Clara; sono il whisky e la codeina, le pillole per dormire e il mal di denti. Controllò nella borsa se aveva preso la codeina; era nel mobile del salotto, vicino all'Aspi-rina e a un bicchiere, ma evidentemente, durante la corsa alla fermata del-l'autobus, lei doveva averla presa, perché adesso l'aveva nella borsa, con i soldi, la scatoletta del trucco, il rossetto e il pettine.

Dal peso del rossetto si accorse di avere preso quello vecchio, che era quasi finito, non quello nuovo che era più scuro e che le era costato due dollari e mezzo. Aveva una smagliatura in una calza e un buco nella punta; finché era in casa, con le scarpe vecchie e comode, non se ne era accorta, ma adesso, con le scarpe da passeggio più belle, il buco era perfettamente avvertibile.

Be', si disse, posso prendere un paio di calze a New York, dopo essermi fatta curare il dente, quando tutto sarà finito. Cautamente, provò a sfiorare con la lingua il dente malato, e come premio ebbe subito una fitta di dolo-

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re. L'autobus si fermò a un semaforo e l'autista si alzò e si avvicinò a lei. — Non le ho preso il biglietto — disse. — Dovevo essere un po' agitata — disse lei. Cercò il biglietto e glielo

porse. — A che ora arriviamo a New York? — chiese. — Cinque e un quarto — rispose l'uomo. — C'è tutto il tempo di fare

colazione. Ha preso la sola andata? — Torno col treno — rispose Clara, senza capire perché glielo dicesse, a

parte il fatto che era notte e che la gente chiusa insieme in qualche strana prigione come un autobus era più amichevole e comunicativa del solito.

— Io, invece, ritorno con l'autobus — disse l'autista, ed entrambi risero, anche se la risata diede a Clara una fitta di dolore, per la gengiva gonfia.

Poi l'autista ritornò al posto di guida e Clara si appoggiò tranquillamente allo schienale. Sentiva l'effetto della pillola per dormire; la dolorosa pulsa-zione del dente si faceva sempre più lontana, e si fondeva con il movimen-to dell'autobus: diventava un battito come quello del cuore. Appoggiò me-glio la testa e si addormentò, senza dare l'ultimo addio alla città.

Quando aprì gli occhi, vide che viaggiavano silenziosamente nel buio. Il dente aveva ripreso a farle male, e lei girò la testa dall'altra parte, con ras-segnazione. Si vedeva solo la fila di luci che pendeva dal tetto dell'autobus, e la sagoma degli altri viaggiatori; in fondo all'autobus, l'autista era una fi-gurina lontana. Clara tornò al suo sonno fantastico.

Più tardi si svegliò perché l'autobus si era fermato, e la fine del movi-mento attraverso l'oscurità era stato per lei come uno shock che l'aveva de-stata in preda allo stupore: dovette passare qualche istante perché le ritor-nasse il dolore del dente. La gente si muoveva nel passaggio dell'autobus e l'autista, girandosi verso i passeggeri, disse: — Un quarto d'ora.

Clara si alzò e seguì gli altri, quasi senza accorgersene. Si erano fermati accanto a un posto di ristoro aperto tutta la notte, isolato

lungo l'autostrada vuota. All'interno era pieno di gente, e Clara si accomo-dò in fondo al banco.

Doveva essersi addormentata, perché non si accorse che qualcuno si era seduto accanto a lei. L'uomo le toccò il braccio e le chiese: — Va molto lontano?

— Sì — rispose Clara. Lo guardò, insonnolita. L'uomo aveva un vestito blu e sembrava molto

alto. — Vuole un caffè? — chiese l'uomo.

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Lei gli rivolse un cenno d'assenso, e l'uomo le indicò il banco, davanti a lei. C'era una tazza di caffè fumante.

— Lo beva in fretta — disse l'uomo. Clara provò a berne un sorso; l'uomo, intanto, continuava a parlare: —

Lontano, oltre Samarcanda — disse. — Dove le onde che s'infrangono sul-la riva echeggiano come campane.

— Si va, ragazzi — disse l'autista, e Clara bevve in fretta un sorso di caffè, quanto bastava per tenerla sveglia fino all'autobus.

Quando Clara si accomodò al suo posto, l'uomo si sedette accanto a lei. L'interno dell'autobus era talmente buio che le luci del posto di ristoro sembravano fari abbaglianti; lei fu costretta a chiudere gli occhi.

— Laggiù il flauto suona tutta la notte — disse l'uomo — e le stelle sono grandi come la luna, e la luna è grande come un lago.

Quando l'autobus ripartì, l'interno dell'autobus piombò nuovamente nel buio, tranne le piccole luci in alto.

L'uomo seduto accanto a Clara disse: — E non c'è altro da fare, tutto il giorno, che riposarsi sotto gli alberi.

Nel buio dell'autobus, Clara aveva l'impressione di non avere più un corpo, di essere solo una molecola di attenzione che correva senza sforzo tra gli alberi e le case.

— Mi chiamo Jim — disse l'uomo. Clara era talmente insonnolita che si limitò a girarsi senza capire. Poi, di nuovo lo shock dell'autobus che si fermava. — Che cos'è succes-

so? — chiese lei, impaurita. — Niente paura — disse l'uomo... Jim. — Venga con me. Lei lo seguì, per poi entrare nello stesso ristorante di prima, a quanto pa-

reva. Ma, quando stava per sedersi al banco, lui la prese per la mano e la portò a un tavolino.

— Vada a sciacquarsi la faccia — le disse. — E poi torni qui. Lei entrò nella toilette delle signore e vi scorse solo una ragazza, che si

incipriava il naso. Senza girarsi, la ragazza disse: — Costa cinque cent. Lasci la porta aperta, così il prossimo non paga.

Nella serratura, qualcuno aveva infilato una mezza bustina di fiammiferi, per impedirle di chiudersi. Lei la lasciò come l'aveva trovata e poi tornò al tavolo dove sedeva Jim.

— Che cosa prende? — chiese Jim, mostrandole il caffè e il sandwich posati sul tavolo. — Coraggio — le disse.

Mentre mangiava il sandwich, Clara sentì la voce dell'uomo, dolce e

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musicale: — E mentre passavamo accanto all'isola, sentimmo una voce chiamarci...

Ritornati sull'autobus, Jim disse: — Appoggi la testa sulla mia spalla, e dorma.

— Sto bene — disse lei. — No — rispose Jim. — Prima, la testa le batteva contro il finestrino. Clara si addormentò di nuovo, e poi l'autobus si fermò come le altre vol-

te e lei si svegliò allarmata, e Jim la portò in un ristorante e le fece bere una tazza di caffè. Il dente prese di nuovo a farle male, e Clara, tenendosi una mano sulla guancia, cercò prima nelle tasche e poi nella borsetta le pa-stiglie di codeina e ne prese due mentre Jim la guardava.

Clara stava terminando di bere il caffè quando sentì avviarsi il motore dell'autobus. Si alzò di scatto e corse a prenderlo, mentre Jim la aiutava te-nendola per il braccio.

Salita sull'autobus, tornò a rifugiarsi sul suo sedile. Erano già partiti, quando Clara si accorse di avere lasciato la codeina sul tavolo del ristoran-te e di non poter più fare nulla per alleviare il dolore. Per un attimo guardò le luci del ristorante allontanarsi, poi appoggiò la testa sulla spalla di Jim e sentì le sue parole, mentre si addormentava: — La sabbia è così bianca che sembra neve, ma è calda, e anche a mezzanotte brucia sotto i piedi.

Poi l'autobus si fermò per l'ultima volta, e Jim la aiutò a scendere. Per un attimo, rimasero insieme a New York, senza parlare. Poi passò una donna, che disse al marito, il quale portava le valigie: — Siamo appena in tempo, sono le cinque e un quarto.

— Devo andare dal dentista — disse Clara, rivolta a Jim. — Lo so — rispose lui. — La aspetterò. Poi andò via, anche se Clara non lo vide allontanarsi. Cercò il suo vesti-

to blu in mezzo alla gente, ma non lo scorse più. Non l'ho neppure ringraziato, si disse stupidamente, e si diresse verso il

ristorante della stazione degli autobus, dove ordinò un altro caffè. L'uomo al banco la guardò con la comprensione di chi ha passato la not-

te a osservare la gente che sale e scende dagli autobus. — Sonno, eh? — chiese. — Sì — rispose lei. Più tardi, vide che la stazione degli autobus era a ridosso di quella delle

ferrovie della Pennsylvania. Perciò si recò in sala d'attesa e trovò posto su una delle panche e lì si addormentò di nuovo.

Poi qualcuno la scosse per la spalla e le chiese: — Che treno prende, si-

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gnora? Sono quasi le sette. Clara rizzò la schiena e vide le proprie mani che tenevano la borsetta, la

punta delle proprie scarpe, il quadrante di un orologio che la fissava. — Grazie — disse, e si alzò e uscì dalla sala d'attesa e si diresse verso la

scala mobile. Qualcuno la seguì e le toccò il braccio; lei si voltò e vide Jim. — L'erba è talmente verde e soffice — disse lui, sorridendo — e l'acqua

del fiume è fresca. Lei lo guardò stancamente. Quando la scala mobile giunse in cima, lei

scese e si diresse verso la strada. Jim le si affiancò e disse: — Il cielo è più azzurro di qualsiasi cielo che

abbiate visto, e i canti... Lei si allontanò, perché le pareva che la gente la guardasse. Poi si fermò

all'incrocio, in attesa che venisse il verde, e Jim le passò vicino, in fretta. — Guardi — le disse, mentre passava, e le mostrò una manciata di perle. Dall'altra parte della strada c'era un ristorante, che stava aprendo proprio

allora. Clara entrò e si sedette a un tavolo. Poi vide una cameriera che la guardava aggrottando la fronte.

— Si era addormentata — disse la cameriera, in tono d'accusa. — Mi scusi — rispose Clara. Era già mattino. — Caffè e due uova —

ordinò. Quando uscì dal ristorante mancava un quarto alle otto, e Clara pensò:

Se prendo un autobus e vado subito in centro, posso sedermi nel drugstore di fronte allo studio del dentista e prendere un caffè in attesa che arrivino le otto e mezzo e che lo studio apra, così potrò passare per prima.

Gli autobus cominciavano a riempirsi; Clara prese il primo che passava e non trovò posto a sedere. Doveva andare nella Ventitreesima Strada, ma trovò un posto a sedere quando erano già alla Ventiseiesima; quando si svegliò era già tanto avanti che le occorse quasi mezz'ora per trovare un al-tro autobus e per raggiungere la Ventitreesima.

All'angolo della Ventitreesima, mentre aspettava il verde, finì in mezzo a un gruppo di persone, e dopo avere attraversato, una delle persone rimase accanto a lei. Per un breve tratto, lei proseguì senza guardare, e poi alzò gli occhi, ma non vide alcun vestito blu in mezzo alla gente che la circondava.

Quando entrò nel palazzo dove il dentista aveva lo studio, era ancora molto presto. Il portiere era sbarbato di fresco e ben pettinato; le tenne a-perta la porta con brio; alle cinque del pomeriggio, invece, si sarebbe mos-so lentamente, e avrebbe avuto i capelli spettinati. Nell'entrare, Clara pro-

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vò una forte soddisfazione: era riuscita felicemente a compiere il tragitto, e lì era la fine del suo viaggio, la sua meta.

L'infermiera vestita di bianco, seduta alla scrivania, vide immediatamen-te la sua faccia gonfia, le sue spalle basse, e disse: — Poverina, dev'essere esausta.

— Mi fa male un dente — disse lei, e l'infermiera sorrise, come se aspet-tasse ancora il giorno in cui qualcuno, entrando, le avrebbe detto: "Mi fa male un piede". Si alzò, molto professionale, e disse: — Venga, venga, non dobbiamo farla aspettare.

Il sole illuminava la sedia del dentista, il piccolo ripiano rotondo, il tra-pano che reclinava la lucida testa di metallo. Il dentista sorrise con la stes-sa tolleranza dell'infermiera; forse tutti gli umani affanni nascevano dai denti, e lui avrebbe potuto risolverli se la gente si fosse recata in tempo nel suo studio.

L'infermiera disse: — Vado a prendere la sua cartella, dottore. Non mi pareva il caso di perdere altro tempo.

Mentre la esaminavano ai raggi X, Clara ebbe l'impressione che niente potesse fermare l'occhio maligno dell'obiettivo, che sulla lastra comparisse tutto quel che c'era dentro di lei.

Poi il dentista scosse la testa e disse: — Estrazione. E l'infermiera: — Sì, dottore, telefono subito. Dopo averla portata laggiù senza errore, il suo dente pareva adesso l'uni-

ca sua parte che contasse. Si faceva fotografare senza di lei, era lui la crea-tura importante da registrare, esaminare, blandire, e lei era solo il suo vei-colo involontario, e contava solo per il dente che portava.

Il dentista le diede una striscia di carta con il disegno di una completa dentatura; il dente malato era contrassegnato con una freccia e sopra c'era scritto: "Molare inferiore; estrazione".

— Prenda questo foglio — disse il dentista — e vada all'indirizzo qui segnato; è un chirurgo dentista. Là si prenderanno cura di lei.

— Cosa faranno? — chiese lei, anche se avrebbe voluto chiedere: Che ne sarà di me? o: È molto lunga, la radice?

— Le toglieranno il dente — rispose lui, girandosi dall'altra parte. — Se lo sarebbe dovuto togliere già da anni.

Sono rimasta qui troppo a lungo, pensò lei. Si è già stancato del mio dente. Si alzò e disse: — Grazie, arrivederci.

— Arrivederci — disse il dentista, e all'ultimo istante le sorrise, mo-strandole una dentatura bianca e perfetta, tutta sotto controllo.

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— Come sta? Le fa male? — chiese l'infermiera. — Sto bene. — Posso darle qualche compressa di codeina — disse l'infermiera. —

Preferiremmo che non prendesse niente, in questo momento, ma se le fa davvero male penso che possa prenderle.

— No — disse lei, pensando alla boccetta di codeina dimenticata sul ta-volo del ristorante. — No, lo sopporto.

— Buona fortuna — disse l'infermiera. Clara scese le scale e passò di nuovo davanti al portiere; nei quindici

minuti trascorsi da quando l'aveva visto, aveva perso un po' del brio ed era leggermente più curvo.

— Le chiamo un taxi? — le chiese, e lei, ricordando di essersi addor-mentata sull'autobus, disse: — Sì, grazie.

E mentre il portiere ritornava vicino a lei e le mostrava il taxi, con l'aria d'averlo creato lui, a Clara parve di scorgere qualcuno che la salutava, dal-l'altra parte della strada.

Lesse l'indirizzo che il dentista le aveva dato, e lo comunicò al condu-cente. Poi sedette senza muoversi, e probabilmente si addormentò di nuo-vo, perché il tassista, nel fermare l'auto e nel dirle che erano arrivati, la guardò in modo strano.

— Vado a farmi togliere un dente — spiegò lei. — Gesù — disse il tassista. Lei pagò, e l'uomo, nel chiudere la portiera,

aggiunse: — Buona fortuna. Il palazzo aveva un'aria strana, e accanto all'ingresso si leggevano molte

targhe di studi medici, scolpite nella pietra; anche il portiere aveva un'aria estremamente professionale, come se fosse in grado di fare lui la diagnosi, se qualcuno non avesse osato salire. Clara gli passò davanti senza guardar-lo e si diresse all'ascensore. Mostrò al manovratore il biglietto del dentista e lui disse: —Settimo piano.

Dovette poi spostarsi per lasciar passare un'infermiera che spingeva una vecchia su una carrozzella. La vecchia era tranquilla e aveva una coperta sulle ginocchia; disse: — Bella giornata — al manovratore e lui rispose: — Finalmente è tornato il sole.

Anche l'infermiera a questo punto commentò: — Non dobbiamo più preoccuparci — e la vecchia fece: — E chi si preoccupa?

Scesero al quarto piano. L'ascensore tornò a salire e alla fine il manovra-tore annunciò: — Settimo — fermò l'ascensore e aprì la porta.

— In fondo al corridoio, a sinistra — disse a Clara.

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Nel corridoio c'erano molte porte chiuse, con varie scritte: "Clinica", "Raggi X", e in una: "Signore". Clara voltò a sinistra e trovò la porta da lei cercata; la aprì ed entrò.

C'era un'infermiera, dietro uno sportello a vetri simile a quello delle ban-che, e negli angoli c'erano dei vasi con delle piante, e inoltre poltrone e ta-volini con riviste nuove.

L'infermiera chiese: — Sì? — come se Clara fosse andata in rosso col conto corrente e fosse in debito di due denti.

Clara le mostrò il foglio e l'infermiera disse: — Molare inferiore, sì. Hanno telefonato. Vuole andare avanti, prego? La porta a sinistra.

Cosa ci sarà dietro quella porta, le cassette di sicurezza? si chiese Clara, ma aprì la porta che le era stata indicata ed entrò. C'era un'altra infermiera che la aspettava e che le sorrise per invitarla a seguirla, come se fosse il suo sacrosanto diritto quello di guidare gli altri.

C'era un'altra macchina dei raggi X, e l'infermiera disse a una collega: — Il molare inferiore — e la collega disse a Clara: — Di qui, prego.

Vari labirinti e passaggi che conducevano nel cuore del palazzo, e Clara venne finalmente condotta in un cubicolo contenente un letto, una sedia e un lavandino.

— Attenda qui — disse l'infermiera. — Si tranquillizzi, se può. — Ho l'impressione che mi addormenterò — disse lei. — Bene — disse l'infermiera. — Non dovrà attendere molto. Probabilmente, dovette attendere per più di un'ora, ma il tempo trascorse

in una sorta di dormiveglia. Di tanto in tanto, l'infermiera si affacciava e diceva: — Non dovrà attendere molto.

Poi, all'improvviso, l'infermiera ritornò e le disse con aria molto profes-sionale: — Venga con me — e la condusse di nuovo nel corridoio.

Subito dopo, lei si trovò seduta su una poltroncina, con un lenzuolo at-torno alla testa e uno sotto il mento, mentre l'infermiera le posava una ma-no sulla spalla.

— Mi farà male? — chiese. — No — disse l'infermiera, sorridendo. — Lo sa anche lei, vero, che

non sentirà alcun dolore? — Sì — rispose lei. Arrivò il dentista, che le sorrise. — Ci siamo — le disse. — Mi farà male? — chiese lei. — Via — disse il dentista, allegramente — dovremmo chiudere bottega,

se facessimo male alla gente!

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Mentre parlava, armeggiava con qualche strumento nascosto sotto il len-zuolo. — Dovremmo chiudere, proprio così — continuò. — L'unica cosa di cui deve preoccuparsi è di non rivelarci qualche suo segreto mentre è addormentata. Bisogna fare attenzione, sa? Molare inferiore, vero? — chiese all'infermiera.

— Sì, dottore — rispose lei. Poi le misero sulla faccia la maschera di gomma e il dottore disse due o

tre volte: — Vero, eh? — mentre lei riusciva ancora a vederlo. L'infermiera disse: — Apra le dita — e dopo qualche tempo lei si accor-

se di aprirle. Poi, tutto si allontanò da lei. Le parve di sentire una musica, veloce, e di

attraversare un corridoio pieno di porte. Alla fine del corridoio c'era Jim, che rideva e che diceva qualcosa, ma lei, in mezzo alla forte musica, non riuscì a capire le parole.

— Non ho paura — disse, e poi qualcuno la prese per il braccio e il mondo tornò ad allargarsi e lei rivide la faccia del dentista, sopra la sua.

— Perché mi avete tirato indietro? — chiese. Si accorse di avere la boc-ca piena di sangue. — Io volevo continuare.

— Non sono stata io... — disse l'infermiera, ma il dentista spiegò: — È ancora sotto l'effetto.

Clara cominciò a piangere, e l'infermiera le asciugò le lacrime con il lenzuolo. Non c'era sangue, tranne che nella sua bocca. Tutto era pulito come prima. Il dentista era sparito all'improvviso, e l'infermiera la aiutò ad alzarsi.

— Ho detto qualcosa? — chiese lei, con ansia. — Ha detto: "Non ho paura" — le riferì l'infermiera. — Proprio mentre

riprendeva i sensi. — No — disse lei — ho detto dove si trovava? — Lei non ha detto niente — spiegò pazientemente l'infermiera. — Il

dottore scherzava. — Dov'è il mio dente? — chiese all'improvviso. L'infermiera sorrise e disse: — Non c'è più. D'ora in poi, non le darà più

fastidio. La riportarono nel cubicolo, e lei si stese sul lettino e pianse. L'infermie-

ra le portò del whisky in un bicchiere di carta e lo lasciò sul lavandino. — Dio mi ha dato il mio sangue da bere — disse lei, e l'infermiera le

spiegò: — Non si sciacqui la bocca, altrimenti non si coagula.

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Dopo un lungo tempo l'infermiera fece ritorno e le disse dalla soglia, sorridendo: — Vedo che si è svegliata.

— Come? — chiese lei. — Dormiva — disse l'infermiera — e ho preferito non svegliarla. Lei si rizzò a sedere; le girava la testa e le pareva di essere in quella

stanzetta da quando era nata. — Adesso, se la sente? — chiese l'infermiera, con gentilezza. Le porse

di nuovo il braccio, e lei vi si appoggiò. Ritornarono nella sala d'aspetto, quella dove c'era un'infermiera dietro lo sportello.

— Fatto tutto? — chiese allegramente la nuova infermiera. — Si sieda un momento, allora.

Le indicò una sedia accanto allo sportello, e scrisse qualcosa su un fo-glio.

— Per due ore, non si sciacqui la bocca — recitò, senza guardarla. — Questa sera prenda un lassativo. Prenda due Aspirine se le fa male. Se poi continua a sentire il dolore o se sanguina troppo, si metta subito in contatto con noi. Va bene? — chiese, e tornò a sorridere.

Le consegnò un nuovo foglio di carta. Su questo c'era scritto: "Estrazio-ne", e sotto: "Non sciacquare. Lassativo. Due Aspirine. In caso di emorra-gia, telefonare".

— Arrivederci — disse l'infermiera, con un sorriso. — Arrivederci — rispose lei. Con il foglio in mano, uscì nel corridoio. Poi, passando davanti alla por-

ta con la scritta "Signore", entrò. All'interno c'erano lavandini, mattonelle lucidissime, specchi, e alcune

sedie di vimini; tre o quattro donne erano intente a pettinarsi o a rifarsi il trucco.

Lei si recò al lavandino più vicino all'ingresso, posò la borsa e il foglio e prese un tovagliolo di carta, lo bagnò nell'acqua fredda e se lo passò sulla faccia.

La cosa la fece sentire meglio; ripeté l'operazione con un altro tovagliolo bagnato.

Accanto a lei, le donne dicevano: — Dove andiamo a pranzo? — E: — Qui sotto, penso. Il vecchio mi ha dato solo mezz'ora. Con un senso di colpa, comprese che dietro di lei c'erano altre donne che

aspettavano, perciò si affrettò ad asciugarsi la faccia e a fare un passo in-dietro. Lo sguardo le cadde sullo specchio, e solo allora si rese conto, con un vago senso d'allarme, di non sapere quale delle facce era la sua.

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Tornò a guardare lo specchio, come se studiasse un gruppo di facce sco-nosciute, ma nessuna parve riconoscerla, nessuna le sorrise. Pensavo che la mia faccia mi riconoscesse, pensò, con un nodo alla gola. C'erano una fac-cia senza mento con i capelli biondi, e una faccia affilata con un cappellino rosso e la veletta, una faccia ansiosa e pallida, con i capelli castani tirati indietro, e una faccia tonda e rosea...

Forse non è affatto uno specchio, pensò, forse è una finestra, e quelle donne si lavano dall'altra parte. Ma poi vide che il gruppo stava dalla sua parte e pensò: Spero di non essere la bionda. Così sollevò la mano e si toc-cò la guancia.

Era quella pallida e ansiosa, con i capelli castani tirati indietro. Quando se ne rese conto, provò una forte indignazione e si allontanò dallo spec-chio, dicendosi: Non è giusto, perché non debbo avere neppure una bricio-la di colore in faccia? C'erano altre facce migliori, perché non ho preso una di quelle?

Non ne ho avuto il tempo, si disse poi, con irritazione; non mi hanno da-to il tempo di pensare, avrei potuto averne una di quelle più carine, perfino la bionda sarebbe stata meglio.

Si sedette su una delle sedie. Non avrebbero dovuto farmi questo, pensò. Sollevò la mano per toccarsi i capelli. Qualcuno si era spostato mentre dormiva, ma era proprio così che li portava: tirati indietro e fissati con una molletta. Come una scolaretta, pensò, ma, aggiunse, ricordando la faccia vista allo specchio, non sono più una ragazzina.

Si sfilò la molletta e la guardò, mentre i capelli le cadevano fin sulle spalle; erano caldi e lunghi. La molletta era d'argento, e portava inciso il nome: "Clara".

— Clara? — disse a voce alta. — Clara? Due delle donne si girarono a guardarla e le sorrisero. Adesso, quasi tut-

te le donne se ne stavano andando, dopo essersi pettinate e messe il rosset-to. In pochi istanti, come uccelli che volavano via da un albero, erano spa-rite e l'avevano lasciata sola.

Gettò la molletta nel portacenere, vicino al lavandino; era di metallo, e fece un bel rumore, quando toccò il fondo.

Con i capelli sciolti sulle spalle, aprì la borsetta e cominciò a esaminarne il contenuto. Un fazzoletto, bianco, normalissimo, senza cifre. La scatola del trucco, di plastica imitazione tartaruga, rettangolare, con la cipria chia-ra e quella rosa; quella rosa era intatta, l'altra era quasi finita. Ecco perché sono così pallida, si disse, e chiuse la scatola.

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Un rossetto chiaro, quasi finito. Un pacchetto di sigarette, già iniziato, e una bustina di fiammiferi, borsellino e portafoglio.

Il borsellino era rosso, di finto cuoio, con una lampo. Lo aprì e contò le monetine. Novantasette cent. Non posso fare molto, con quelli, pensò, e aprì il portafoglio. Non conteneva documenti, solo biglietti di banca; di-ciannove dollari. Con quelli, posso fare qualcosa di più, pensò.

Nella borsa non c'era altro. Niente chiavi (non dovrei averne un mazzo? si chiese) né documenti, né agenda.

Anche la borsa era di finto cuoio, grigia, e abbassando lo sguardo vide che indossava un completo di flanella grigia e una camicetta color rosa salmone, con un colletto arricciato. Aveva scarpe nere e robuste, con i tac-chi non molto alti e le stringhe. Una delle stringhe era slacciata.

Aveva calze di nailon, beige, strappate sul ginocchio destro: la smaglia-tura arrivava fino all'alluce, e lei riusciva a sentire il buco. Sul colletto del-la giacca aveva una spilla di plastica: la guardò e vide che era una lettera C. La sfilò e la gettò nel portacenere, dove andò a urtare, con un suono secco, la molletta di prima. Si guardò le mani: erano piccole e tozze, con le unghie non laccate; l'unico gioiello che portava era la vera alla sinistra.

Seduta nella toilette delle signore, pensò: Il minimo che possa fare è di togliermi queste calze. Dato che non c'era nessuno, si tolse le scarpe e le calze, e provò un senso di sollievo quando riuscì a liberare l'alluce dal bu-co. Nascondile, si disse. Nel cestino dei tovaglioli usati.

Nell'alzarsi si guardò meglio allo specchio, e l'immagine risultò peggiore di quanto non le fosse parso a prima vista. Il completo era insaccato, die-tro, le gambe erano troppo secche e le spalle pendenti.

Sembro una donna di cinquant'anni, pensò; poi, guardando la faccia, vi-de che non poteva averne più di trenta. I capelli le scendevano disordina-tamente sulle spalle; con irritazione, frugò nella borsetta e trovò il rossetto. Disegnò una bocca decisa, rosea, su quella faccia pallida, e nel farlo si ac-corse di non essere molto abile a truccarsi. Ma con il rossetto sulle labbra, la faccia sembrava un po' migliore, così aprì la scatola del trucco e si diede un po' di cipria rosa sulle guance. Le guance erano alquanto ossute, e la bocca rossa un po' troppo appariscente, ma almeno la faccia non era più pallida e ansiosa.

Buttò via le calze e tornò nel corridoio, a piedi nudi, e si diresse all'a-scensore. Il manovratore le chiese se intendeva scendere, e lei scese al pianterreno. Passò davanti all'impassibile portiere e uscì nella strada, dove la gente le passava davanti, si fermò davanti al palazzo e aspettò. Dopo un

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poco, Jim uscì dalla folla e venne a prenderla per mano. In un punto indeterminato del suo tragitto c'era la bottiglia di codeina;

lassù, nella toilette delle signore, aveva lasciato il foglio con la scritta "E-strazione"; adesso, sette piani più in basso, senza badare alla gente che passava sul marciapiede e che di tanto in tanto la guardava incuriosita, la mano nella mano di Jim e i capelli sciolti sulle spalle, prese a correre a piedi nudi sulla sabbia calda.

Titolo originale: The Tooth (1949).

Una lettera di Jimmy A volte, pensò lei, nel mettere sul tavolo i piatti, ho l'impressione che gli

uomini siano pazzi: tutti. Forse è proprio così, e tutte le donne lo sanno, ma mia madre non me l'ha mai detto, le amiche non si sono ricordate di farmelo presente e tutte le altre signore pensano che io lo sappia...

— Oggi mi ha scritto Jimmy — disse lui, prendendo il tovagliolo. Così, ci sei riuscito, pensò lei, Jimmy finalmente si è arreso e ti ha scrit-

to, e adesso tutto tornerà come prima, e sarete di nuovo amici... — E che cosa ti ha detto, nella lettera? — chiese, in tono indifferente. — Non lo so — rispose lui. — Mica l'ho aperta. Mio Dio, pensò lei. Aspettò. — Domani gliela rispedisco, senza aprirla. Dovevo arrivarci da sola, pensò lei. Io, non sarei riuscita a tenerla chiusa

per cinque minuti. Avrei studiato qualche perfidia, come stracciarla a pez-zettini e poi rimandargliela, o farmi scrivere una risposta pungente da qualcuno, ma non sarei riuscita a tenerla chiusa neppure per cinque minuti.

— Oggi sono stato a pranzo con Tom — disse lui, come se l'argomento fosse chiuso e non ci pensasse più. E forse è proprio così, pensò lei. Mio Dio.

— Penso che dovresti aprire la lettera di Jimmy — disse lei, e pensò: Forse tutto si risolverà in modo così semplice; farà proprio così, dirà sì e la aprirà.

— Perché? — chiese lui. Calma, si disse lei. Altrimenti ti verrà un colpo. — Oh, forse perché so-

no curiosa di sapere cosa dice — rispose lei. — Aprila — disse lui. Non ci casco, pensò lei. Me lo impediresti. — Seriamente — disse — mi

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sembra sciocco, prendersela con una lettera. Prendersela con Jimmy, è un conto. Ma è sciocco non leggere una lettera per rabbia.

Oh, Dio, ho detto "sciocco", pensò. È finita. Potrei discutere tutta la sera, e lui non cambierebbe idea.

— E perché dovrei leggerla? — chiese lui. — Qualunque cosa dica, a me non interessa.

— A me, invece, interesserebbe. — Allora, leggila. Dio, pensò lei. Non oserei fare una cosa simile. Mi spezzerebbe il brac-

cio. — Va bene — disse. — Non mi interessa. — Lascia perdere. Cambia

argomento. — Sono stato a pranzo con Tom, oggi — ripeté lui. Mentre andava a prendere i piatti, lei pensò: Forse lo dice sul serio, forse

sarebbe capace di uccidersi prima di leggerla, anche se muore dalla voglia. O forse l'ha vista e ha detto: "Toh, una lettera di Jimmy", l'ha messa nella borsa e se n'è dimenticato. Se è così, pensò, sarei capace di ammazzarlo e di seppellirlo in cantina.

Più tardi, mentre lui beveva il caffè, lei disse: — E a John, gliela fai ve-dere? Anche John, pensò, morirà dalla voglia, come me.

— Vedere che cosa? — chiese lui. — La lettera di Jimmy. — Oh — fece lui. — Già. Subito, lei sentì un senso di trionfo. Allora, vuole farla vedere a John,

vuole mostrare di essere ancora offeso, vuole che John gli dica: "Ehi, sei ancora offeso con Jimmy?" E vuole potergli dire di sì. Allora, ci ha pensa-to per tutto il tempo! E, nel suo senso di trionfo, gli chiese, sovrappensiero: — Pensavo che volessi rimandargliela senza aprirla.

Lui alzò la testa. — Me n'ero dimenticato — disse. — Già. Se fossi stata zitta, pensò lei. Se n'era dimenticato. E il guaio, capì, è che

se n'era dimenticato davvero. Non ci pensava più. Se quella lettera fosse stata un serpente, l'avrebbe morso.

Sì, in cantina, sotto la scala. Spaccargli la testa e poi seppellirlo, a brac-cia incrociate, e ficcargli in mano quella maledetta lettera, e ne varrebbe la pena, Dio, come ne varrebbe la pena.

Titolo originale: Got a Letter from Jimmy (1949).

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La lotteria La mattina del 27 giugno si levò chiara e piena di sole, con il calore di

una bella giornata estiva; i prati erano pieni di fiori e l'erba era già alta. Gli abitanti del villaggio cominciarono a radunarsi nella piazza, tra l'uffico po-stale e la banca, verso le dieci.

In alcune città gli abitanti erano così numerosi che la lotteria durava due giorni e doveva iniziare il 26 giugno, ma in quel villaggio, dove gli abitanti erano solo trecento, l'intera lotteria richiedeva meno di due ore: iniziava al-le dieci del mattino e finiva in tempo per l'ora di pranzo.

I primi ad accorrere, come sempre, furono i bambini. La scuola era fini-ta, e molti ragazzi non si trovavano a proprio agio, in tanta libertà; tende-vano a riunirsi in silenzio per qualche minuto, per poi mettersi a gridare e a parlare di scuola e di insegnanti, di libri e di brutti voti.

Bobby Martin si era già riempito di pietre la tasca, e presto anche gli al-tri ragazzi seguirono il suo esempio, scegliendo le pietre più lisce e roton-de: Bobbie e Harry Jones e Dickie Delacroix finirono poi per ammontic-chiarne una grande pila in un angolo della piazza, e la difesero dalle ru-berie degli altri ragazzi.

Le ragazzine invece si tenevano da una parte, parlavano tra loro e di tan-to in tanto si giravano a guardare i fratelli, mentre i bambini più piccoli giocavano con la terra.

Presto anche gli uomini si radunarono, e mentre tenevano d'occhio i figli parlavano di piante e di pioggia, di tasse e di trattori.

Stavano tutti insieme, e si tenevano lontano dalla pila di pietre ammassa-ta dai ragazzi, scherzavano poco e anche se talvolta sorridevano, non ride-vano mai.

Le donne, con indosso scialli e vecchi vestiti sbiaditi, giunsero dopo i lo-ro uomini. Si salutarono e si scambiarono pettegolezzi, e poi cominciarono a chiamare i figli, che però, in quella giornata, erano troppo eccitati per a-scoltarle; per farli muovere, occorreva chiamarli quattro o cinque volte.

La lotteria era diretta, come la quadriglia, come il club dei teen-ager e come il programma della festa di Ognissanti, dal signor Summers, che a-veva tempo ed energia da dedicare a quelle attività sociali.

Era un uomo allegro e dalla faccia tonda, che commerciava in carbone; la gente lo compativa perché era senza figli e aveva la moglie bisbetica. Quando arrivò in piazza, con la cassetta nera di legno della lotteria, tra gli abitanti del villaggio si levò un mormorio, e lui salutò e disse: — Un po' in

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ritardo, eh? Il direttore dell'ufficio postale, signor Graves, lo seguiva con lo sgabello;

lo posò in centro alla piazza e il signor Summers vi posò la cassetta. La gente si tenne a rispettosa distanza, e quando il signor Summers chie-

se: — Nessuno viene ad aiutarmi? — ci fu un attimo di esitazione. Poi il signor Martin e il suo primogenito, Baxter, si fecero avanti per te-

nere ferma la cassetta mentre il signor Summers mescolava i fogli. L'attrezzatura originale della lotteria era andata persa tanto tempo prima,

e la cassetta era entrata in uso prima ancora che nascesse nonno Warner, l'uomo più vecchio del paese. Talvolta si parlava di una nuova cassetta, ma nessuno voleva rinunciare a quella tradizione: si diceva che la cassetta nera fosse fatta con alcuni pezzi di quella originale, costruita dai primi abitanti del villaggio.

Ogni anno, dopo la lotteria, il signor Summers diceva che era ora di ri-farla, ma poi il discorso veniva lasciato cadere. La cassetta, però, si era un po' rovinata con il passare del tempo: in alcuni punti perdeva già la verni-ce, in altri era scheggiata.

Mentre i due Martin tenevano ferma la cassetta, il signor Summers me-scolò ben bene i foglietti di carta ripiegati. Dato che gran parte del rituale era andata persa col tempo, il signor Summers era riuscito a introdurre l'u-so dei foglietti invece degli originali bastoncini di legno, che andavano be-ne, aveva detto, quando il villaggio era piccolo, ma che adesso erano di-ventati scomodi.

Perciò, la sera prima della lotteria, lui e il signor Graves tagliavano la carta e la piegavano, per poi chiudere il tutto nella cassaforte fino al matti-no. Per tutto il resto dell'anno, la scatola nera veniva messa via, talora da uno talora dall'altro, ma in genere rimaneva sotto il banco dell'ufficio po-stale.

Prima di iniziare la lotteria, occorrevano però alcuni preparativi. Occor-reva compilare gli elenchi dei capifamiglia e dei singoli membri delle varie case, e il signor Summers doveva prestare giuramento nelle mani del si-gnor Graves.

Una volta, ricordavano alcuni, c'era un discorso che veniva ripetuto ogni anno, ma alla fine si era deciso che era solo una perdita di tempo. Inoltre, c'era un saluto rituale che il direttore rivolgeva a ciascuno di coloro che venivano a estrarre, ma anche a questo si era rinunciato, e adesso le ceri-monie si limitavano al giuramento e al breve discorso di accettazione, e il signor Summers era molto bravo in questo, e riusciva a sembrare molto

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importante, quando lo pronunciava. Quando il signor Summers terminò il suo discorso e si rivolse agli abi-

tanti del villaggio, giunse di corsa la signora Hutchinson, che si fermò in fondo alla piazza.

— Mi ero proprio dimenticata di che giorno era — spiegò alla signora Delacroix, ed entrambe risero piano. — Pensavo che mio marito fosse semplicemente uscito per raccogliere la legna, e poi ho guardato dalla fine-stra e non ho visto neppure i ragazzi. Allora mi è venuto in mente che è il ventisette, e sono venuta di corsa.

E la signora Delacroix la rassicurò: — Non preoccuparti, non hanno an-cora finito di parlare, laggiù.

La signora Hutchinson sporse il collo per cercare il marito e i figli, e li vide in prima fila. Salutò la signora Delacroix e cominciò a farsi strada verso di loro, mentre qualcuno diceva: — Hutchinson, arriva tua moglie — e il signor Hutchinson commentava: — Ehi, Tessie, pensavo di dover fare a meno di te.

— Allora — disse il signor Summers — è meglio cominciare, e fare in fretta, così possiamo tornare al lavoro. Manca qualcuno?

— Dunbar — dissero alcune persone. Il signor Summers consultò i suoi elenchi. — Clyde Dunbar — disse. —

Giusto. Ha una gamba rotta. Chi tira per lui? — Io — disse una donna, e il signor Summers si girò a guardarla. — La moglie tira per il marito — disse. — Non hai un figlio maggio-

renne che tiri per te, Janey? Anche se il signor Summers, come del resto tutti, nel villaggio, sapeva

già la risposta, era compito del direttore rivolgere ufficialmente la doman-da.

— Horace ha solo sedici anni — disse la donna. — Temo proprio di do-ver tirare io per il mio vecchio, quest'anno.

— Va bene — disse il signor Summers. Prese un appunto, poi chiese: — Quest'anno, tira il giovane Watson?

Un giovane alto si fece avanti. — Sono qui — disse. — Tiro per me e per mia madre. Dalla folla, qualcuno commentò: — Bravo, Jack. È bello vedere che tua

madre ha finalmente un uomo che tira per lei. — Bene — disse il signor Summers — credo che con questo siamo a

posto. Nonno Warner c'è? — Certo — disse una voce, e il signor Summers annuì. Poi si schiarì la

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gola e guardò l'elenco, e nella piazza scese il silenzio. — Tutti pronti? — chiese. — Allora, iniziamo a leggere i nomi. Per

primi, i capifamiglia, e quando li chiamo vengano a estrarre un foglio. Te-nete in mano il foglio, senza guardarlo, finché tutti non lo hanno preso. Chiaro?

La gente l'aveva già fatto così tante volte che non stava neppure ad a-scoltare. Tutti erano ammutoliti e si leccavano nervosamente le labbra, senza guardarsi attorno. Poi il signor Summers alzò una mano e disse: — Adams.

Un uomo uscì dalla folla e il signor Summers lo salutò. — Ciao, Steve. — Ciao, Joe — disse il signor Adams. Si sorrisero senza alcuna allegria e poi il signor Adams tuffò la mano

nella scatola e ne trasse un biglietto piegato. Abbassò subito la mano e tor-nò con la famiglia, senza guardare il foglio che aveva estratto.

— Allen — continuò il signor Summers. — Anderson. Bentham... La scena si ripeté senza variazioni finché non si arrivò a Graves, il quale,

invece di uscire dalla folla, si chinò sulla cassetta e prese un foglio. — Harburt. Hutchinson. — Tocca a te, Bill — disse la signora Hutchinson, e qualcuno rise. — Jones. — Ho sentito dire — commentò il signor Adams, rivolto a nonno War-

ner che gli stava vicino — che nel villaggio a nord del nostro vogliono so-spendere la lotteria.

Nonno Warner scosse la testa. — Pazzi — disse. — Ascoltano troppo i giovani, non c'è mai niente che gli vada bene. A dare retta a loro, si torne-rebbe a vivere nelle caverne. C'è sempre stata la lotteria, e la lotteria è una cosa seria. È già abbastanza brutto vedere come la organizza il giovane Joe Summers, che scherza con tutti.

— Ma in alcune città non la fanno più da tempo — disse la signora A-dams.

— Pazzi scatenati — brontolò nonno Warner. — Si attirano solo guai. — Martin. Overdyke. Percy. — Perché non si sbrigano? — brontolò la signora Dunbar. — Hanno quasi finito — disse il figlio. — Tu, sta' pronto a correre da tuo padre — gli ricordò la madre. Il signor Summers pronunciò il proprio nome e prese un foglio dalla sca-

tola. Poi chiamò: — Warner. — Sono settantasette anni che partecipo alla lotteria — disse nonno

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Warner, con orgoglio. — Sissignori, settantasette. — Watson. Il ragazzo si fece avanti, impacciato. — Non essere nervoso, Jack — disse qualcuno, e il signor Summers ag-

giunse: — Fa' con comodo, figliolo. — E infine: — Zanini. Dopo l'ultimo nome scese un lungo silenzio, finché il signor Summers

non alzò il suo foglietto e disse: — Va bene, amici. Apriamo. Un istante più tardi, tutti cominciarono ad aprire i biglietti e le donne

presero a chiedere: — Chi è? Chi lo ha trovato? I Dunbar? O i Watson? Poi le voci cominciarono a dire: — È Bill. È Hutchinson. L'ha trovato

Bill Hutchinson. — Va' a dirlo a tuo padre — disse la signora Dunbar al figlio. La gente cominciò a girarsi verso gli Hutchinson. Bill Hutchinson era

immobile, e continuava a fissare il foglio che aveva in mano. All'improv-viso, Tessie Hutchinson gridò al signor Summers: — Non gli hai dato il tempo di scegliere il foglio che voleva. Ti ho visto. Non è giusto!

— Non protestare, Tessie — disse la signora Delacroix. E la signora Graves aggiunse: — Il rischio è uguale per tutti. — Sta' zitta, Tessie — disse Bill Hutchinson. — Finora — disse il signor Summers — abbiamo fatto in fretta; vedia-

mo di terminare altrettanto in fretta. Consultò un altro elenco. — Bill — disse — tu hai estratto per la famiglia Hutchinson. Ci siete so-

lo voi, di Hutchinson? — Ci sono Don ed Eva — gridò la signora Hutchinson. — Anche loro

devono rischiare. — Le figlie tirano con la famiglia del marito, Tessie — disse il signor

Summers. — Lo sai. — Non è giusto — ripeté Tessie, ostinata. — Già — disse Bill Hutchinson. — Comunque, nostra figlia tira con la

famiglia del marito. — Ci sono altre famiglie di Hutchinson? — chiese il signor Summers. — No. C'è solo la nostra. E in famiglia ci siamo solo noi due e i ragazzi. — Quanti sono? — chiese il signor Summers, in tono ufficiale. — Tre — rispose Bill Hutchinson. — Bill junior, Nancy e il piccolo Da-

ve. Oltre a me e Tessie. — Esatto — disse il signor Summers. — Harry, ti sei fatto ridare i bi-

glietti?

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Il signor Graves annuì e mostrò i fogli. — Allora, mettili nella cassetta — disse il signor Summers. — Aggiungi

quello di Bill. — Dobbiamo ricominciare tutto — protestò la signora Hutchinson. —

Non è giusto. Non lo hai lasciato scegliere. L'hanno visto tutti! Il signor Graves aveva infilato i cinque fogli nella cassetta; ora gettò via

gli altri, che vennero trasportati dal vento. — Sentite, tutti... — continuava a protestare la signora Hutchinson, ri-

volta a coloro che le stavano vicino. — Sei pronto, Bill? — chiese il signor Summers, e Bill Hutchinson, pal-

lidissimo, annuì. — Ricordate — riprese il signor Summers — prendete i fogli e teneteli

piegati finché tutti non ne avranno preso uno. Harry, tu aiuta il piccolo Dave.

Il signor Graves prese per mano il bambino, che lo seguì, con orgoglio, fino alla cassetta nera.

— Prendi un foglio, Davy — disse il signor Summers. Davy infilò la mano nella cassetta e rise. — Solo un foglio — disse il signor Summers. — Harry, tienlo tu per lui. Il signor Graves si fece dare dal bambino il foglio; Dave lo guardò senza

capire. — Adesso, Nancy — disse il signor Summers. Nancy aveva dodici anni, e le sue compagne di scuola trattennero il fiato

mentre prendeva un foglio dalla cassetta. — Bill junior — disse il signor Summers, e Billy, rosso in faccia, per

poco non rovesciò la cassetta nel prendere il foglio. — Tessie — disse il signor Summers. La donna rimase immobile per qualche istante, si guardò attorno con aria

di sfida e poi serrò le labbra e prese un foglietto. — Bill — disse il signor Summers, e Bill Hutchinson prese l'ultimo fo-

glio dalla cassetta. La folla taceva. Una ragazzina bisbigliò: — Spero che non sia Nancy —

e tutta la folla prese a mormorare. — Non è più come una volta — si lamentò nonno Warner. — La gente

non è più quella di una volta. — Va bene — disse il signor Summers. — Aprite i fogli. Harry, tu quel-

lo del piccolo Dave. Il signor Graves aprì il foglio e tutta la folla sospirò nel constatare che

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era vuoto. Nancy e Bill junior aprirono contemporaneamente i loro fogli, e infine

sorrisero, sollevandoli al di sopra della testa. — Tessie — disse il signor Summers. Nessuno si mosse, e il signor Summers guardò Bill Hutchinson, che aprì

il suo foglio e lo mostrò. Era vuoto. — È Tessie — disse il signor Summers, a bassa voce. — Prendi il suo

foglio, Bill. Bill Hutchinson si avvicinò alla moglie e le tolse il foglio di mano. C'era

un cerchio nero, il cerchio che il signor Summers aveva tracciato la sera prima nell'ufficio della sua ditta. Bill Hutchinson lo sollevò e per la folla corse un mormorio.

— Va bene — disse il signor Summers. — Finiamo in fretta. Anche se la gente del villaggio aveva dimenticato il rituale e perso la

cassetta originale, sapeva ancora come si usavano le pietre. La pila prepa-rata in precedenza dai ragazzini era pronta, e per terra, oltre ai foglietti tra-scinati dal vento, c'era anche una buona scorta di ciottoli. La signora Dela-croix prese una pietra talmente grande che dovette sollevarla con tutt'e due le mani, poi si girò verso la signora Dunbar.

— Andiamo — disse — sbrighiamoci. La signora Dunbar aveva in mano alcuni ciottoli. Disse, ansimando: —

Non posso correre. Va' avanti tu, io ti raggiungo. I ragazzi avevano già preso le pietre, e qualcuno ne aveva dato una an-

che al piccolo Davy Hutchinson. Tessie Hutchinson era adesso in mezzo a uno spazio vuoto, e tendeva di-

speratamente le braccia mentre la gente del villaggio avanzava verso di lei. — Non è giusto — protestò ancora. Una pietra la colpì sulla tempia. Nonno Warner diceva: — Avanti, avanti tutti. Steve Adams era tra i primi, e accanto a lui c'era la signora Graves. — Non è giusto, non è giusto — gridò ancora la signora Hutchinson, e

poi tutti calarono su di lei. Titolo originale: The Lottery (1948).

Epilogo Lei sulla nave posò il piedino, non vide neanche un marinar,

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ma gli alberi erano d'oro zecchino, di seta le vele per navigar. Non fece una lega una lega una lega, ma giusto tre quando sentì il timore e il cuore le batté. Non fece una lega una lega una lega, ma giusto tre, che vide il suo piede caprino e in pianto si perdé. Non pianger, le disse lui ché il pianto mi confonde. Ti darò i gigli che crescono d'Italia sulle sponde. Che colle è mai quel bel colle che del sole rallegrano i rai? È il colle del Paradiso, fe' lui che mai non conseguirai. Che monte è quel monte, fe' lei di neve e di ghiaccio sì orrendo? È il monte dell'Inferno, rispose, che noi stiamo raggiungendo. Col pugno colpì la mezzana, col piede la straglia toccò. In pezzi andò il bel vascello, e a picco la trascinò.

da James Harris, il diavolo amante

FINE