SGRT Notizie Periodico del Centro Italiano di Studi...

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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in A.P. 70% regime libero – ANNO XXIV n° 6 31 marzo 2015 – AUT.DR/CBPA/CENTRO1 – VALIDA DAL 27/04/07 Q uattro colonne SGRT Notizie Periodico del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento di Giornalismo Radiotelevisivo Salvatore riparte dal carcere grazie alla cucina pag. 7 Aldo e Nella, insieme da 75 anni pag. 8 Salvano il dialeo con il teatro pag. 12 Scuola: più rose che spine A Terni si impara con laboratori all’avanguardia Ma lo stato delle struure resta crico

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Quattro colonneSGRT Notizie Periodico del Centro Italiano di Studi Superiori

per la Formazione e l’Aggiornamento di Giornalismo Radiotelevisivo

Salvatore riparte dal carcere grazie alla cucina

pag. 7

Aldo e Nella,insieme da 75 anni

pag. 8

Salvano il dialett ocon il teatro

pag. 12

Scuola:più roseche spine

A Terni si imparacon laboratori

all’avanguardiaMa lo stato

delle strutt ure resta criti co

2 | 31 marzo 2015

Primo piano

È sui banchetti di una scuola ele-mentare che si cominciano a prendere le misure del mondo. Lì

si impara la bellezza, il rispetto, l’ordine e la cura per le cose. Ma non è facile se l’ambiente è quello di un edifi cio angu-sto e trasandato, in cui mancano la pa-lestra per fare sport, un laboratorio per disegnare, e perfi no i bagni suffi cienti a tutti i bambini.

La fotografi a dell’edilizia scolastica italiana è questa, e certo non è un bel-lo spettacolo. Una costante emergenza che riguarda oltre 40 mila edifi ci, di cui sei su dieci sono stati costruiti prima del 1970, cioè prima ancora della nor-mativa antisismica. Nessuna anagrafe completa che consenta al ministero di monitorare la situazione, e investimenti ridotti di anno in anno di riforma in ri-forma. Tutti i governi hanno provato a mettere le mani sulla scuola, ma i mi-glioramenti, per chi la vive quotidiana-mente, insegnanti e studenti, non sono evidenti.

La situazione umbraNella graduatoria nazionale dei ca-

poluoghi di provincia sulla situazione dell’edilizia scolastica e dei servizi of-ferti (“Ecosistema Scuola” stilata da Legambiente per il 2014) l’Umbria si colloca più o meno a metà, sedicesima Terni, trentacinquesima Perugia, su un numero totale di 84 città.

Le scuole umbre, si potrebbe dire, non stanno male, ma nemmeno benis-simo. Solo il 16% rispondono a rigidi criteri antisismici, verosimilmente quel-le su cui si è intervenuti dopo il terre-moto del 1997 e in appena la metà è

stata completata la verifi ca di vulne-rabilità sismica. Per non parlare del rischio ambientale: soprattutto nella zona di Terni tre scuole su dieci si tro-vano in prossimità di zone industriali, quindi in una situazione non ottimale per la salute degli studenti.

Un plesso nuovo per Ponte Pattoli

Un solo wc per 70 bambini: vi si acce-de direttamente dalla classe, senza un corridoio a dividere due ambienti, che per legge - e anche per buon senso - dovrebbero essere separati. Dall’altro piano del plesso per accedere ai servizi i piccoli della scuola elementare di Pon-te Pattoli devono fare un piano di scale. Sette classi per un totale di 140 bambi-ni che per molte ore della loro giornata vivono in un edifi cio dei primi del ‘900, dove l’ultimo intervento di manutenzio-ne risale a dieci anni fa.

Come spesso accade i più deboli su-biscono i danni maggiori: «Abbiamo un numero di bambini portatori di handicap molto sopra la media nazionale e regio-nale, eppure le lezioni individuali, di cui

questi allievi hanno estremo bisogno, si svolgono su un banco e una sedia, in uno spazio di un metro per un metro, sul pianerottolo della scala di emergenza interna». Ne parla la dirigente dell’isti-tuto comprensivo Pg15 (di cui fa parte il plesso di Ponte Pattoli) Nadia Riccini. Il suo uffi cio con la segreteria ammini-strativa si trovano in un appartamento in affi tto posto in un altro palazzo a cen-to metri da quello dove si svolgono le lezioni.

Da oltre un anno i due dirigenti che si sono avvicendati chiedono attenzio-ne sulla situazione della periferia peru-gina, ma le amministrazioni cambiano e con loro la conoscenza delle emer-genze: ogni volta bisogna ricominciare da capo. «Senza contare che il comu-ne paga un affi tto esoso per mantene-re anche la scuola media nella stessa zona della città - continua Riccini - per Ponte Pattoli ci vuole una scuola nuova, che riunisca più plessi di gradi diversi. Stiamo aspettando una risposta dal co-mune, e speriamo almeno di riuscire ad accedere ai fondi europei».

Cantiere Scuola Nel groviglio delle riforme

nadia Riccinipreside dell’ICPG 15

Anche in Umbria ritardi nell’avvio dei lavori Tutto rimandatoa settembre?

di Maria Teresa Santaguida

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Primo piano

A Terni ci pensano i privatiNella città delle acciaierie dove il lavoro stenta a tornare, si prova a puntare sul-la scuola per ripartire.

L’Istituto Tecnico Tecnologico Allevi- Sangallo è una delle scuole storiche della città. Qui i ragazzi vengono pre-parati al mondo del lavoro, imparando a lavorare i metalli per poi accedere alle fab-briche del distretto industriale. I labora-tori sono essenziali dunque, per praticare ciò che si può impara-re solo facendo. Ma i macchinari a disposi-zione prima di qualche tempo fa risali-vano agli anni ‘50 e non erano più fun-zionali all’apprendimento.

Così la scuola ha avviato un proget-to per il rifacimento completo dell’offi-cina metallurgica e l’ha presentato alla confindustria cittadina e alla Fondazio-ne CARIT. Cinzia Fabri, giovane dirigen-te della secondaria superiore, racconta che in pochi mesi i soldi sono arrivati: «Abbiamo ricevuto circa 90 mila euro, che ci sono serviti a comprare nuove apparecchiature a controllo numerico, utili ai corsi di meccanica. Il ministero ha invitato gli istituti a sperimentare la loro autonomia cercando i fondi anche sul territorio, e così abbiamo fatto, ma per una manutenzione sistematica c’è biso-gno di un coordinamento nazionale».

Con la cifra ottenuta, tutto l’ambiente è stato risistemato, anche i pavimenti: «Ad alcuni piccoli interventi abbiamo collabo-rato anche come genitori, ad esempio per ridipingere le pareti e pulire» riferisce Maurizio Valentini, che è responsabile umbro dell’Age (Associazione Genitori) e anche insegnante nello stesso istituto.

Ricorda che grazie a questa sinergia ora la scuola è un’avanguardia nazionale: «Sono venuti anche dalla Germania a vedere come lavoriamo gli oggetti di ot-tone». Invece, dei 300 mila euro che il ministero, tramite la Provincia, aveva as-segnato all’ITTS per risistemare gli infissi

e realizzare altre opere importanti per la sicurezza ancora non si sa nulla: «Stiamo aspettando, i la-vori dovrebbero partire d’estate, quando non ci sono i ragazzi, ma con lo spo-

stamento delle competenze alla Regio-ne, temiamo ritardi».

Todi: per il nuovo polo sbloccati fon-di dal patto di stabilità

Nel decreto legge di giugno 2014 all’Umbria erano stati destinati in tutto otto milioni e mezzo di euro, di cui cir-ca 641 mila per piccoli interventi este-tici sugli edifici sparsi per la regione e sei milioni e mezzo per interventi sulla sicurezza. Un milione e 400 mila circa sono andati al nuovo polo per l’infanzia di Todi: qui i fondi non sono stati erogati direttamente ma tramite lo sblocco del patto di stabilità al comune.

L’assessore all’istruzione Catia Mas-setti spiega che per completare il pro-getto serviranno due milioni e 300 mila euro, ma che quanto meno con questa cifra si potranno avviare i cantieri: «Il sindaco ha risposto direttamente alla lettera inviata l’anno scorso dal premier. Abbiamo scalato una graduatoria per-ché la parte dell’edificio preesistente aveva bisogno del consolidamento si-smico». Il milione e quattro dello svinco-

lo dal patto va speso però entro il 2015 e rendicontato non oltre la fine dell’an-no. Dopo la gara d’appalto un ricorso ha rallentato l’assegnazione, l’augurio è di cominciare i lavori anche qui prima dell’estate o si rischia ancora una volta di rimandare tutto a settembre. I tempi stringono.

La manutenzione competeva alle Province, con la loro chiusura si rischia il caos, ma le scuolenon possono aspettare

Esistono poche materie complesse per un governo come l’istruzione. I mi-nistri si sono scontrati con un mondo fatto di insegnanti, genitori e studenti, che vivono quotidianamente problemi e carenze.

La Buona Scuola è il nome del dise-gno di legge in discussione alle Camere: un cambio che va dal reclutamento de-gli insegnanti alla gestione degli appal-ti, fino ai curricula degli allievi.

In materia di edilizia scolastica, in particolare, un anticipo si è avuto già

nel giugno 2014 quando il governo ha varato il decreto legge nr. 66/2014. Un miliardo e mezzo di investimenti ripar-titi in tre sottocategorie: #scuolebelle, #scuolesicure, #scuolenuove.

All’Umbria sono andati in tutto otto milioni e mezzo di euro, di cui 640 mila per piccoli interventi alle strutture, sei milioni e mezzo sono stati destinati alla messa in sicurezza e la restante parte al polo tuderte.

Su scala nazionale sono stati annun-ciati a partire dal prossimo anno tre mi-

liardi e mezzo: investimenti program-mati in piani triennali condivisi con le Regioni, nuove assegnatarie della ma-teria. Gli enti devono presentare entro il 31 marzo 2015 le linee guida dei pro-getti sui loro territori. Anche in questo caso bisogna essere molto ottimisti per pensare che le scadenze saranno ri-spettate.

Da rifinanziare anche l’alternanza scuola-lavoro, che consentirebbe ai ra-gazzi, durante il triennio, di trascorrere fino a 400 ore in un’azienda.

Decreto e disegno di legge: la volta buona?

4 | 31 marzo 2015

Primo piano

L’integrazione prima di tutto: a scuola le nuove frontiere dell’in-segnamento hanno fatto della

diversità una ricchezza e dell’inclusio-ne un obiettivo primario. «Io ho proble-mi con i compiti di italiano – racconta Suman, 15 anni, originaria dell’India – e quello che non capisco me lo fac-cio spiegare dai compagni, che sono anche meglio dei professori». Che gli studenti si aiutino tra di loro non è una novità, ma al Casagrande-Cesi di Ter-ni, istituto scolastico con tre sedi e sei indirizzi (tra cui il tecnico commerciale, l’alberghiero e i servizi socio-sanitari), è la regola: nell’ambito del progetto europeo Peer2peer tutoring, che inco-raggia le lezioni “tra pari”, i tutor che nel doposcuola seguono i ragazzi in difficoltà non hanno ancora raggiunto la maggiore età.

E così un istituto dalla gestione com-plessa, con una percentuale altissima di stranieri (su 1300 studenti, circa il 16%) e di ragazzi con disabilità (una settanti-na), ha realizzato un modello da espor-tare anche fuori dall’Italia: le scuole di Istanbul, che partecipano all’iniziativa europea, ora tentano di riprodurre il si-stema del Casagrande. «Negli anni ab-biamo accolto molti ragazzi portatori di handicap», spiega il dirigente scolastico Giuseppe Metastasio. «La sensibilità degli insegnanti è cresciuta e quando

sono arrivati gli studenti stranieri erava-mo pronti a riceverli. E poi un ragazzo che viene da fuori porta con sé tradizio-ni ed esperienze da condividere con i compagni».

Ma l’aiuto compiti pomeridiano non serve solo a chi prende brutti voti: i tutor, volontari scelti tra i primi della classe, imparano quanto i compagni a cui fan-no lezione. Martina, 16 anni, frequenta il terzo anno di ragioneria e il pomeriggio dà ripetizioni di matematica e inglese: «Il peer tutoring è anche un modo per ripassare: dall’inizio dell’anno mi sono perfezionata, soprattutto nell’esposizio-ne orale».

Gli studenti crescono e i professori gioiscono: i tutor senior, docenti esperti che affiancano i piccoli nelle spiegazio-ni, notano miglioramenti sensibili nel-la gestione delle classi. Come spiega Laura Vismara, vicepreside del Cesi e insegnante di inglese, «i giovani oggi sono bravissimi con la tecnologia e con i social network e riescono così ad aggi-rare il controllo dei genitori. L’emergen-za educativa davanti a cui ci troviamo è una tendenza dei ragazzi a non rispet-tare le regole e ad usare codici tutti loro, incomprensibili per gli adulti». Proprio per questo si punta sugli studenti: l’isti-tuto ternano ha individuato allievi che escono dagli schemi e diventano per gli altri un modello da seguire.

«Tra coetanei – dice Martina, che fa lezione persino ai compagni di classe – si dialoga meglio: i miei amici ascoltano più me che i professori». Il risultato è una drastica riduzione delle bocciature: dal 2010 la percentuale di matricole del Casagrande che non hanno superato l’anno è scesa dal 30 al 18%, con esiti importanti anche sull’abbandono scola-stico. E così di fronte ai tagli alla scuola, che spesso incidono sui corsi di recu-pero, i ragazzi si rimboccano le mani-che. E danno agli adulti una lezione di maturità.

Giulia Presutti

Peer2peer, le lezioni “tra pari” degli studenti ternaniAl Casagrande-Cesi i ragazzi più bravi aiutano nei compiti i coetanei in difficoltà I docenti: «Così evitiamo le bocciature. E si abbattono le barriere della diversità»

Studenti chini sui loro libri all’interno della biblioteca

31 marzo 2015 | 5

Primo piano

Dimenticate quelle foto scolasti-che che ritraggono classi nume-rose, dove chi sta nell’ultima fi la

si intravede solo a metà o per la capi-gliatura particolarmente voluminosa. Il problema è del tutto inesistente se studi in una piccola scuola di montagna, sorta a centinaia di metri dal livello del mare: entri nelle aule e trovi 12, 15 ragazzi. Addirittura, a volte, nei comuni montani si fa fatica a raggiungere quota 10, la soglia di studenti minima prevista dal Dpr 81/2009 per ciascun anno di corso.

Diverso il caso delle pluriclassi, che raggruppano bambini di più età in un’u-nica classe. A Parrano, in provincia di Terni, ad esempio, c’è un’unica pluri-classe che comprende la seconda, la terza e la quarta elementare. «All’e-poca, quando sono arrivata dieci anni fa, c’erano 20 bambini, ora solo otto» – dice la maestra Ester Laura Monta-gnolo, 35 anni di insegnamento alle spalle e oggi di ruolo nelle scuole di Parrano e della vicina Montegabbione. Ma come si fa a svolgere tre program-mi contemporaneamente? Tramite l’in-segnamento per concetti, una buona organizzazione e tanta collaborazione. «Se io spiego gli articoli determinativi ai bambini di prima – prosegue la ma-estra Ester Laura – quelli di seconda e quelli di quarta li ripassano e aiutano i più piccoli. È questo il bello della pluri-classe». E lo studio di gruppo potreb-be essere anche uno stimolo ulteriore all’apprendimento. «Un bambino me-

diamente dotato con la pluriclasse ci guadagna – dice la maestra Giovanna che insegna alle scuole elementari di Sant’Anatolia di Narco, comune mon-tano della Valnerina – Io ho un bambi-no di prima che risponde al posto dei bambini di terza». I genitori però non sempre accettano di mandare i propri fi gli a studiare in una pluriclasse per-ché temono che la preparazione sia di minor livello. Una «mini fuga di cervel-li» che può mettere a rischio l’esisten-za dell’istituto stesso (se non dell’intero paese), come è accaduto alla scuola

media di Vallo di Nera. «Quest’an-no – spiega il primo cittadino Agnese Benedetti – abbiamo dovuto faticare parecchio tutti noi sindaci per cercare di convincere i genitori a farli iscrivere qui piuttosto che mandarli fuori. Se te li portano via, poi ti ritrovi a secco per tre anni».

Anche per questo il Comune compra i libri di testo e mette a disposizione un pullmino per gli spostamenti. La scuola, immersa in una splendida val-le, conta tre classi – una prima, una seconda e una terza media – per 39 studenti. La professoressa Loretta Tor-

di insegna italiano, storia e geografi a. Quando parla delle letture suggerite ai suoi alunni, cita, forse non a caso, Jack London, un autore particolarmen-te sensibile alla bellezza della natura: «Ci sono degli aspetti positivi che ven-gono poco rilevati, come il contatto con la natura che possiamo sfruttare benis-simo. Io, ogni volta che posso, li porto fuori a verifi care sul territorio quello che studiamo a scuola. E loro conoscono le piante, i fi umi, le montagne qui intorno e le attività economiche legate all’agri-coltura: magari in una scuola di Spole-to o di Perugia questo è un aspetto che non c’è».

Ancora una volta, poi, essenziale è l’organizzazione, specie quando il ma-teriale didattico non è immediatamente reperibile. «Se c’è il compito in classe e occorre portare il foglio protocollo, spesso viene fuori qualcuno che dice “Professoressa, non lo posso portare perché papà va domani a Spoleto!”».

E l’istruzione superiore? A Sant’A-natolia di Narco il fi ore all’occhiello è l’Istituto agrario. «Sono piccole realtà, è vero, ma queste piccole realtà mol-te volte aiutano più delle grandi – dice Michela, studentessa dell’ultimo anno, che vorrebbe poi iscriversi a medicina veterinaria – Nella nostra scuola venia-mo seguiti in maniera maggiore, anche perché siamo un numero esiguo».

In fondo, non lo sosteneva anche lo storico architetto Ludwig Mies van der Rohe che «less is more»?

Istruzione ad alta quota

Oltre allo studio,l’obietti vo è far prendere ai ragazzi coscienza del territorio in cui vivono

Pochi alunni, spazi incontaminati, attività sul territorio:ecco come si studia in una scuola di montagna

di Valerio PennaUna classe della scuola media di Vallo di Nera

6 | 31 marzo 2015

Primo piano

Torniamo indietro con il pensiero a vent’anni fa. Di telefoni cellu-lari, in giro, se ne vedevano ben

pochi. A guardarli con gli occhi di oggi, fanno decisamente sorridere: erano ancora pesanti, mas-sicci, costosissimi e quasi esclusivamente utilizzati da manager, agenti di commercio e imprenditori. Un paio di decenni dopo, quasi tutti hanno uno smartphone in tasca, possiedono un computer, o armeggia-no con un tablet. Spesso, tutte e tre le cose. L’ultima frontiera della tecnologia, al momento, resta un po’ meno esplo-rata: i droni non sono ancora troppo dif-fusi a livello domestico. Certo, qualche eccezione c’è.

Per esempio Federico Fiorini, uno studente di diciotto anni. Frequenta l’istituto per geometri di Terni, con l’in-tenzione di iscriversi alla facoltà di In-gegneria elettronica una volta preso il diploma, e possiede un drone. Niente di così comune, come dicevamo, ma ne-anche di così strano. Se non fosse che, quel drone, se l’è costruito da solo.

Tutto è cominciato due anni fa, quan-do Federico frequentava la terza su-periore. Fino a quel momento, aveva costruito solo una macchinina radioco-mandata. Non era del tutto digiuno di

elettronica (amava già «le cose che van-no da sole», come racconta lui) ma non aveva ancora preso in considerazione questo genere di apparecchi. Poi, per puro caso, il suo corso di studi lo porta a

fare uno stage in un’azienda di Terni che si occupa proprio di questo set-tore. Lavora, impara, si ap-passiona alla progettazione

e costruzione di droni. Tanto da volerci provare anche lui.

Per il corpo della macchina è suffi -ciente una visita a qualche negozio di bricolage: servono materiali leggeri, come il compensato e l’alluminio. Poi, le com-ponenti elettroniche e le eliche. Per quelle ci sono le aste online. Qualche pezzo, come il motore, ar-riva persino dalla Cina. Il prototipo, nella sua prima versione, aveva decisa-mente qualche carenza sul piano estetico. «Era brutto. Parecchio», ricor-da Federico. E non era l’u-nico problema: «Calibrare i sensori è stato compli-cato. Quella più diffi cile è

stata la bussola, lo strumento che dà l’orientamento al drone».

Sistemato anche questo, restava da risolvere un’ultima questione: farlo libra-re in aria. «Ho rotto tante eliche», am-mette. Ci sono voluti molti tentativi. Poi, fi nalmente, si è staccato da terra.

Adesso, il drone di Federico funziona perfettamente. Pesa poco meno di due chili, può salire anche a 300-400 metri e atterra da solo al punto di partenza quando la batteria sta per esaurirsi. Ha tutte le caratteristiche dei modelli che si trovano in commercio; ma l’ha assem-blato un ragazzo di diciotto anni, con po-che centinaia di euro e tanta passione. «I parenti e i compaesani dicono che le cose strane le tiro fuori solo io, perché sono matto. Però in senso positivo».

Dronista per casograzie alla scuola

Un drone professionale pronto al decollo(�o�o di Ma�co F�on�ia)

La storia del diciottenne Federico, che dopo uno stage in un’azienda di Terni ha deciso di costruirsi un drone

di Marco Frongia

«Il primo modello?Era brutt o. Parecchio»Ma dopo alcuni tentati vi,ha fi nalmente volato

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Primo piano

«Come stai?» «Qui bene, sempre». Bastano tre pa-role per capire quanto

sia importante il lavoro per Salvatore: «Questa seconda possibilità non voglio lasciarmela scappare».

La sua vita ricomincia da quel «qui»: soltanto tre lettere, questa volta. Sal-vatore Raucci non è un chiacchierone: comunica più con gli occhi, grandi e blu, che con le parole. Ma da tre mesi si esprime anche con piatti e padelle: «È come avere un lavoro e tornare a casa».

Da nove anni, però, la notte dorme in cella. Salvatore è un detenuto: ha 43 anni, è campano e ammette di non aver mai lavorato prima di adesso. Però promette di aver chiuso con «la mala... le cose vecchie». Dopo un’esitazione, la correzione. E la speranza nel futuro, alimentata dalla fiducia che per la prima volta qualcuno ha riposto in lui. A comin-ciare da Bernardina Di Mario, direttrice del carcere Capanne di Perugia.

Dopo aver frequentato un corso di for-mazione in istituto, ha vinto una borsa di lavoro. Dal lunedì al sabato esce la mat-tina alle 6.45 e rientra la sera alle 18.30. Ad attenderlo ci sono una cucina pro-fessionale e specialità napoletane da preparare. Paolo, proprietario del risto-rante Cibus, non ha dubbi: «Con Salva-

tore abbiamo riscoperto le nostre origini partenopee e i suoi piatti sono molto ap-prezzati». Non sono frasi di circostanza, le sue: «Stiamo cercando una soluzione per continuare la collaborazione oltre i sei mesi». A luglio, infatti, il contratto scadrà: è una legge a regolare il lavoro dei detenuti fuori dal carcere.

«Il lavoro, quando è fatto in modo serio, efficiente ed efficace, trasforma il detenuto» assicura Luca Verdolini, coor-dinatore della coope-rativa sociale Frontie-ra Lavoro, «perché lo aiuta a recuperare sti-ma in sé e a collocarsi socialmente».

La vera sfida, infatti, è non sprecare un’occasione riservata a pochi: in Ita-lia soltanto un detenuto su nove svol-ge lavori di pubblica utilità. Attività che servono ai reclusi e che rappresentano un investimento per la sicurezza della comunità. Le misure alternative, come il lavoro all’esterno, abbattono sensibil-mente il tasso di recidiva: dal 50% al 2% secondo Carlo Fiorio, garante umbro dei diritti dei detenuti.

Soprattutto, specifica l’avvocato, «se diamo delle opportunità lavorative a persone che hanno commesso delitti perché queste opportunità non le ave-

vano, tagliamo l’idea stessa del crimine, figuriamoci della recidiva». Salvatore è uno di questi: «Il mio obiettivo è non entrare più in carcere. Lavoro, spero di continuare così: sono nel mondo reale».

Un mondo che negli anni trascorsi in diversi penitenziari ha potuto soltanto immaginare. Il ritorno, come compren-sibile, non è stato privo di difficoltà. Ri-corda il giorno in cui è uscito per la pri-ma volta dal carcere: qualche minuto di vertigini, la sensazione che le macchine andassero a 100 km/h e l’impressione di essere guardato con insistenza. Di-sagi scomparsi una volta indossato il cappello da chef: «Qui mi sento a casa, i datori di lavoro sono napoletani come me e mi hanno accolto come una fami-glia».

Salvatore è ottimista sul suo futuro: «Le cose vanno sempre meglio, non avrei potuto chiedere di più». Vorreb-be continuare, perché ama la cucina e impara ogni giorno cose nuove. Esperienze come la sua sono infatti finalizzate a

una crescita anche professionale, che consenta l’inserimento nel mondo del lavoro una volta scontata la pena. In questo senso, le attività assumono una connotazione che Fiorio definisce «pro-spetticamente intelligente». Non é un permesso o un assaggio di libertà, ma un progetto a lungo termine.

Un rammarico: le poche opportunità lavorative su scala nazionale sono an-cor più ridotte in Umbria. Le imprese sono poche e in crisi, ma una norma - la legge Smuraglia - prevede sgravi fiscali e facilitazioni.

Nicola tuPPuti

«La più grande soddisfazione è lavorare ed essere stanco la sera»

Fuori dal carcere,una vita da ricostruireSalvatore da gennaio fa lo chef in un ristorante:scialatielli e calamari ripieni le sue specialità

Salvatore Raucci nella cucina del ristorante Cibus

Il lavoro esterno al carcere è regola-to dall’articolo 21 dell’Ordinamen-to penitenziario. Con l’istruzione e la religione, è uno dei pilastri del trattamento del condannato.Il lavoro per i detenuti consente di attuare l’articolo 27 della Costitu-zione, secondo la quale «le pene non possono consistere in tratta-menti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazio-ne del condannato».Utili anche i corsi professionali: 72 gli iscritti in Umbria nel 2014.

Cosa dice la legge

8 | 31 marzo 2015

Storie epersonaggi

Sul tavolo un giornale e sopra al lavabo una pianta di insalata. Più in là, foglie già selezionate e la-

vate posano in un recipiente di plastica perché l’acqua cada giù. Suono alla loro porta alle cinque di un sabato pomerig-gio e li trovo così, immersi in scene di una quotidianità domestica che repli-cano stoicamente da 75 anni. Tanti ne sono trascorsi dall’8 marzo del 1940 quando, non ancora ventenni, si giura-rono amore eterno.

Mi fanno accomodare in salotto men-tre siedono vicini. Aldo in un angolo del tavolo, con le gambe accavallate, composto. All’altro Nella, avvolta da un cardigan viola coi bottoni dello stesso colore impreziositi da motivi in oro. Più spigliata davanti al registratore e tene-ramente orgogliosa di poter raccontare la storia straordinaria della loro lunga vita insieme, inizia lei a ricomporne i tasselli partendo proprio da quella festa di tanti anni fa da poco celebrata per il traguardo delle nozze di platino. «Ci siamo sposati presto perché – sorrido-no complici – abbiamo fatto un pecca-to di gioventù». C’era la guerra e Aldo

era stato chiamato per servire la Patria. Avrebbe dovuto presentarsi al distretto proprio il giorno che scelsero per spo-sarsi, ma ritardò la partenza come mili-tare perché il matrimonio non si poteva rimandare: Nella aspettava un bam-bino. Dopo tre anni passati a combat-tere lontano da casa, Aldo fu preso in Tunisia e ne trascorsero altrettanti pri-ma che potesse far ritorno dall’America dov’era prigioniero per riabbracciare la

sua famiglia. Per qualche anno fece il muratore, poi tornò al suo impiego alla fabbrica di armi di Terni. La stessa pres-so cui si recava in bicicletta il giorno che per caso, per la prima volta, vide quella ragazza con gli occhi chiari e i capel-li raccolti in lunghe trecce. «Era il tipo

che mi piaceva» chiosa sollecito Aldo, mentre racconta di come fu che se ne innamorò. Soltanto qualche altro incon-tro fortuito, poi il fi danzamento. Quindi ne fece sua moglie. La compagna ac-canto alla quale condividere i momenti di felicità, con il cui sostegno superare quelli più tristi. Per ricostruirne aneddoti e riportarne le date con precisione, del suo inseparabile compagno Nella cer-ca spesso lo sguardo. Ad Aldo chiede conferma, si fa suggerire i nomi che la sua memoria non ha trattenuto in un racconto che compongono all’unisono tra sorrisi e commozione. Con lei che, teneramente, mentre ripercorre capitolo dopo capitolo la loro storia d’amore, gli si avvicina per prendergli la mano.

Il secondogenito messo al mondo prematuro e morto in fasce; la nascita dei gemelli Piero e Paolo; la perdita del primo fi glio, scomparso a soli 31 anni; l’attività di ristorazione; gli interventi chi-rurgici di Nella; la nascita dei nipoti e l’arrivo dei pronipoti, con l’albero gene-alogico i cui rami si infi ttiscono moltipli-candosi di generazione in generazione. «Cresciuti insieme» ed «insieme invec-

La straordinaria storia d’amore La straordinaria storia d’amore di Nella Fenici e Aldo Aldini. di Nella Fenici e Aldo Aldini. Convolati a nozze l’8 marzo 1940, Convolati a nozze l’8 marzo 1940, hanno da poco festeggiatohanno da poco festeggiatole nozze di platinole nozze di platino

di Valentina Russodi Valentina Russo

Oggi come75 anni fa

«Allora c’erala semplicità.Bastava un po’ d’amore, un po’ di tranquillità» ricorda la signora Aldini

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Storie epersonaggi

chiati». Insieme già da 75 anni, insieme ancora. «Fino a quando?» si chiede Nella, alzando speranzosa gli occhi al cielo.

«Allora c’era la semplicità. Bastava un po’ d’amore, un po’ di tranquillità» ricorda la signora Aldini, e suo marito in-calza la narrazione sottolineando quan-to, affinché la loro relazione superasse le complicazioni – che pure negli anni ci sono state – e non si arenasse per via di qualche scaramuccia, fondamentale sia stata la dedizione alla famiglia, i sacrifici fatti per il bene dei figli, in nome di valori cui ancorare un amore che, instanca-bile, da quell’8 marzo 1940 ha saputo reinventarsi nelle piccole cose di tutti i giorni. La spesa, le faccende in casa, le ricette dal dottore. Prendersi cura l’uno dell’altra, riscoprirsi ad amarsi anche nei battibecchi, seppure con difetti e debolezze. Aldo «è un po’ nervoso» lo bacchetta sua moglie, e il signor Aldini risponde dandole, in dialetto ternano, della «petulante». Si prendono in giro, fanno ironia delle loro imperfezioni, ci

scherzano su come chi ormai dell’al-tro non saprebbe fare senza. Finché si trovano perfettamente in accordo nel concludere, ridendo: «Ci siamo soppor-tati!».

Nessun segreto, dunque. Solo tanta «pazienza», come suggerisce Nella. A rendere speciale la ricetta di una così lunga convivenza, a sentirli raccontare, quindi sarebbe appena una manciata di ingredienti la garanzia di una tale me-ravigliosa genuina felicità. E a guardarli sorridersi ancora così dolcemente non viene neanche da stupirsene. Che l’a-more magari esiste davvero anche fuori dai libri di favole. Dopo aver ascolta-to una storia come la loro, d’altronde, possiamo solo che convincercene. È «la conferma che sia possibile», come ciascuno di noi in fondo spera, che l’in-canto di quel misterioso sentimento con la maiuscola si avveri, commenta la giornalista de Il Foglio Annalena Benini, certa che una «alchimia magica» così non sia prerogativa soltanto dei bei tem-pi passati. Ma scatterà ancora.

Quella regalata lo scorso 8 febbraio da Aldo Aldini e Nella Felici in occasione della celebrazione della Festa della promessa alle coppie di fidanzati prossimi al matrimonio presenti nella Basilica di San Valentino di Terni è una testimonianza d’eccezione. Un esempio che gli sposini al 75° anniversario di matrimonio hanno donato alle nuove generazioni di innamorati perché la loro lunga esperienza di vita insieme potesse illuminarne il cammino. Perché i loro legami potessero dall’incontro col signor Aldini e sua moglie uscire rinsaldati, con un percorso da seguire e prendere a modello. Cosicché i sentimenti e i valori che li accomunano siano sempre più forti delle difficoltà che potrebbero incontrare.Nella foto, il giorno della cerimonia. Aldo e Nella sono l’uno accanto all’altra, vicini hanno i gemelli Paolo e Piero, e tutt’intorno l’intera famiglia.

Foto di Silvano Romanelli, scattata l’8 febbraio 2015

Da qualche tempo alle Invasioni Bar-bariche gli ospiti vengono bendati, la

Bignardi tira fuori una ciotola contenente una polverina e chiede cosa ci sia dentro.

I malcapitati rimangono dapprima inter-detti, annusano l’oggetto misterioso, poi visto che si tratta di materiale commesti-bile lo assaggiano. Niente. Il vuoto più to-tale. Ma cosa c’è nella scodella? Del go-masio, un condimento giapponese a base di sesamo e alghe. Gli ospiti non sanno però che l’esotico mix potrebbe essergli molto utile in futuro.

Lo chiamano ishokudighen, che in giap-ponese significa “il cibo è una medicina”: frutta, verdura, soia, e i suoi derivati, pesce in una dieta integrata dall’alga konbu; ed è il segreto degli abitanti dell’arcipelago di Okinawa, nel tratto di mare tra Giappone e Taiwan. Si tratta dell’area geografica più longeva al mondo: la durata media della vita è di 81,2 anni e i centenari sono circa il 20% della popolazione. Le malattie car-diovascolari sono ridotte dell’80% rispetto all’America, i tumori sono il 40% in meno, perfino l’osteoporosi è inferiore al resto del mondo.

A migliaia di chilometri di distanza, nell’Agro Pontino e più precisamente a Campodimele, paesino di 800 abitanti, è la genetica il segreto della longevità. Lo studio del professor Marcello Arca, dell’u-niversità La Sapienza di Roma, ha sve-lato una mutazione del gene che sinte-tizza la proteina chiamata Angptl3, tra gli abitanti. Questa particolare condizione li protegge dalle malattie ischemiche legate all’aterosclerosi, al diabete e tiene i livelli del colesterolo bassissimi. Anche se tut-to questo interesse mediatico non gli sta portando particolarmente bene: “Lascia-teci in pace. Ogni volta che i giornali si occupano di noi succede qualcosa” dice un signore nella piazzetta.

E infine l’amore, secondo David Weeks, ricercatore al Royal Hospital d’Edimbur-go, in Scozia «fare l’amore almeno tre volte a settimana prolunga la speranza di vita di dieci anni in media». Previene il cancro alla prostata, protegge dal diabe-te, dall’ipertensione e dalle malattie car-dio-vascolari.

Insomma, modificare le abitudini culina-rie è possibile, sulla genetica c’è davvero poco da fare, mentre per quanto riguarda l’amore auguriamo a tutti buona fortuna.

Giacomo Prioreschi

Elisirdi lunga vita

Ritratto di famiglia

10 | 31 marzo 2015

Storie epersonaggi

Tutti, ad Assisi, dicono di vederlo ogni giorno. E c’è da crederci, perché Massimo Coppo non pas-

sa certo inosservato: non sono in molti ad andarsene in giro a piedi nudi, vestiti di un sacco di iuta, a “evangelizzare”. Ma arrivare a parlare con lui, che non usa telefono cellulare e non prende ap-puntamenti, può non esser semplice. Per trovarlo, può rivelarsi necessario chiedere ai passanti, collezionando in-formazioni di bocca in bocca. E la sua fama lo precede.

Tutti lo conoscono ma, come ogni personaggio fuori dalle righe, non a tutti piace. Molti lo guardano con simpatia e ci scambiano ogni giorno una parola, al-tri – tra cui molti frati - dichiarano di non conoscerlo o di non volerne parlare. Il motivo è semplice: Massimo ha avuto rapporti difficili con la Chiesa Cattolica fino a qualche anno fa, ma la sua storia comincia molto tempo prima.

Figlio di una famiglia benestante foli-gnate, l’uomo che oggi cammina scalzo «per diffondere il messaggio di Gesù e di San Francesco» ha studiato agraria, anche negli Stati Uniti, per poi diventa-re insegnante. Un cattolico «superficia-le» come tanti, prima dell’incontro con la Bibbia che a poco a poco cambiò la sua vita. Cominciò ad appassionarsi a quel «libro-guida» frequentando un gruppo di protestanti evangelici fino a quando, a 32 anni, avvenne la svolta cattolica. Fu quando in Via dei Priori, a

Perugia, conobbe Marcello Ciai, da lui definito un “profeta”. Un uomo «a cui il Signore si era rivelato quando non gli importava nulla di religione e pensava solo a soldi, macchine e donne» e che si era ritirato alle pendici del Subasio. Fu un incontro folgorante per Massi-mo, che da lì a poco lasciò tutto per se-guire quella guida spirituale e le sue “profezie”. Rinun-ciò al suo lavoro e alle sue pro-prietà per seguire l’esempio di San Francesco, ab-bracciando una nuova vita fatta di povertà e condivi-sione, che lo por-tò a fondare, con Ciai, la comunità “Famiglie di Bet-lemme”.

È lì, tra le colline di Rocca Sant’An-gelo, che ha luogo ancora oggi, a distanza di 35 anni. Un luogo immerso nel nulla in cui dieci per-sone vivono come le prime comunità cristiane: il frutto del lavoro agricolo e ogni altro guadagno proveniente dalla vendita dei loro prodotti viene messo in comune. Negli anni hanno vissuto lì molte persone: alcuni hanno trovato la loro strada e se ne sono andati, ma

tornano spesso. La famiglia di Mas-simo ci mise anni per «digerire quella scelta», troppo difficile da comprendere dall’esterno, così come quella di Ange-la, signora viennese che per seguire la strada di Marcello Ciai fu diseredata dal padre, pezzo grosso austriaco. Ma in quella vita, al di là di ogni giudizio, Massimo e gli altri hanno trovato la pace. Nel frattempo è arrivata la bolla di eresia da parte della Chiesa - che non riconosce quelle profezie - poi revocata nel 2006. Nonostante questo, Massimo e i suoi sono andati avanti per la loro strada, continuando a predicare quello in cui credono.

E Coppo, con grande autoironia, si definisce un «insaccato», che sale in piedi sui portici di Piazza San Fran-cesco per urlare il messaggio del Po-verello di Assisi, «quell’ex playboy innamorato di Cristo e dei poveri, che ha risanato la Chiesa in rovina», mes-saggio sempre più forte «in un mondo che fugge la povertà come la peste». E poco importa se in occasione dei grandi eventi i Carabinieri lo portano via con loro per non averlo tra i piedi e se molti religiosi lo evitano: «la Chiesa ha un’impostazione un po’ rigida, ma in fondo ad Assisi mi vogliono bene».

Coppo da cinque anni vive intorno alla Basilica di San Francesco notte e

giorno. La mattina percorre in ginoc-chio la “Via Santa”, che da San Pietro porta alla Basilica di San Francesco, in segno di peni-tenza, poi prega, vende i libri che ha scritto sulle profe-zie di Marcello Ciai e la notte rimane a dormire sotto i portici della piaz-za. Sa di essere spesso considera-to un folle, ma non sembra interes-sargli. «Molti mi

guardano prima i piedi e poi gli occhi: si chiedono se “ci sono o ci faccio”, ma io preferisco lasciarli nel dubbio. Un cristiano deve in qualche modo essere pazzo: di Gesù dicevano che era in-demoniato, ai francescani tiravano le pietre. Per me esser preso per pazzo è un onore».

elisa marioNi

A piedi nudi Scalzo e vestito di iuta, predica per le vie di San FrancescoLa storia di Massimo, ex insegnante che ha lasciato tutto

Massimo coppo in preghiera ad assisi

Massimo Coppo

31 marzo 2015 | 11

Storie epersonaggi

La Radicosa non meritava quel trat-tamento. No, Enrico Angelini non poteva lasciare che quel simbolo,

emblema del nazismo, deturpasse le mura dell’edificio che aveva accolto i partigiani folignati della V brigata Gari-baldi nell’autunno del 1943.

Per questo lo scorso 3 marzo è salito sulle montagne tra Foligno e Trevi per andare a cancellare di persona la svasti-ca che imbrattava il luogo simbolo della Resistenza locale.

Non ce l’ha fatta a trattenere le lacrime. «Quando ho saputo che la targa ricordo del luogo era stata trafugata – racconta Enrico – e che avevano inciso quel sim-bolo offensivo, nonostante l’età e gli ac-ciacchi mi sono attrezzato per salire. Mi sono commosso, non me ne vergogno. Mi sono sentito come se fossi stato par-tigiano per la seconda volta, perché ero lì a difendere certi valori come nel ’43».

Al posto della targa depredata, una rosa rossa: «Perché i ricordi aiutano a vivere – spiega Enrico Angelini – mi ri-portano ai miei 18 anni, ad un periodo storico glorioso, ma molto doloroso».

Il partigiano di Foligno, così è oramai conosciuto in tutta Italia, ha compiuto 90 anni lo scorso 17 marzo. Alle sue spalle un lavoro da ferroviere, quattro figli, otto nipoti e tre pronipoti. E un unico grande

amore, sua moglie Annalisa, morta poco tempo fa.

Un temperamento da vero combatten-te, formatosi proprio lì, sulle colline um-bre, “una vera scuola di uomini severi”.

«Io e tre cari amici – ricorda Angeli-ni mentre osserva delle foto nel salotto della sua casa di Sant’Eraclio – rag-giungemmo la brigata il 23 dicembre del 1943. Prima di quel giorno eravamo spensierati; giunti alla Radicosa, ci scrol-lammo di dosso i vezzi dell’età giovanile e diventammo uo-mini responsabili. Difficoltà, pericoli, e...poi sì, anche la paura. Un periodo indimenticabile».

Mesi che Enrico ricorda con orgo-glio, ma anche con tanti rimpianti. Tra i 24 giovani partigiani che nel-la notte tra il 2 e il 3 febbraio del ‘44 vennero catturati dai nazisti e condotti al campo di stermi-nio di Mauthausen, «c’erano anche i tre amici con cui ero arrivato sulle montagne di Trevi proprio qualche mese prima», racconta con la voce rotta dal pianto.

Enrico Angelini ricorda con dovizia di particolari ogni attimo, ogni secondo della sua esperienza. Una mente lucida, che nutre di libri e trattati storici. Bocca, Biagi e Rodotà i suoi saggisti preferi-ti, ma anche le poesie restano una sua grande passione. Tanto da scriverne una proprio dedicata allo scempio di Radico-sa (vedi box in alto).

Scempio di cui vorrebbe conoscere l’autore. «Vorrei incontrarlo solo per par-largli della mia vita, dell’importanza di

quel luogo per la no-stra storia – dice En-rico – E poi vorrei che lui, o lei, mi parlasse di sé, si confidasse con me. La memoria deve essere trasmes-sa ai giovani».

Centinaia gli at-testati di solidarietà arrivati da tutta Italia. Un gesto, quello di Enrico, tanto sempli-ce quanto toccante. Soprattutto perché ci

ha ricordato che di fronte all’ignoranza non si può mai chinare il capo. Tantome-no se l’oltraggio è perpretato ai danni dei simboli fondanti di un Paese.

simoNe carusoNe

Enrico, partigianooggi come nel 1943A 90 anni, qualche settimana fa ha cancellatouna svastica incisa su uno dei luoghi simbolodella resistenza folignate

Cara mia vecchia Radicosa!!!Ti ricordi? Quanto tempo è

passato?Tanti giovani tu hai ospitatotra le tue mura,ci hai protetto dai pericoli e dalla pauraMa un giorno, un tragico evento

furioso ti ridusse in questo stato pietoso.

Ora sei sola...abbandonata, sei ricoperta di spine e di rovie per compagnia ci sono solo le

querce, ma dai partigiani in zona tu sei

incisa sulla loro pelle...Lo dovete rispettare, oh gente

che passate e ringraziate le pietre sue ferrigne dell’anima ribelle!

La memoria è storia, non è oblio

Mark Storm nel suo studio di registrazione

Enrico Angelini

Il partigiano Angelini mentre cancella la svastica dalle mura della Radicosa

12 | 31 marzo 2015

Cultura

È un giorno come tanti, di tanti anni fa. Un professore e uno studente stanno andando a Mantova per

una conferenza. «Gian Franco, ma sai che c’è uno a Bolzano che parla ma-gionese meglio di noi?» «Non ci cre-do.» «Te lo faccio ascoltare.» Da una cassetta si sente la voce di Ennio Cric-co. Suo padre e sua madre sono di Ma-gione, ma il regime, negli anni Venti, li ha spediti a Nord, per italianizzare le terre irredenti appena riconquistate.

Vorrebbero tornare al paese per sta-re accanto ai parenti nei giorni dopo il parto; Ennio, però, ha fretta di venire al mondo e nasce settimino in un ospedale altoatesino. Il prete, tedesco, lo battezza per sbaglio col nome di “Enio”. Con una n sola, come dicono a Magione.

«Scrive anche Hugo invece che Ugo» sorride Zampetti, quel Gian Franco studente che racconta la storia. Con Ennio Cricco ha avuto a che fare spesso e ogni tanto lo sente ancora; è «un pezzo di archeologia lin-guistica», cresciuto parlando tedesco e dialetto. Da adulto ha «tradotto» la Di-vina Commedia, in prosa, come un’af-

fabulazione: “L’inferno di Dante raccon-tato ai Perugini” mantiene espressioni del 1300, riproducendo strutture care al dialetto del capoluogo umbro. Gian Franco Zampetti legge quei versi ai concittadini; alcune maestre, qualche mese fa, gli hanno chiesto di portarli nelle loro scuole.

È nato così un progetto che ha coin-volto 75 bambini: divisi in tre gruppi hanno allestito uno spettacolo che me-scola il testo di Dante ai passaggi dia-lettali di Cricco. «All’inizio stentavano tutti, ma dovreste sentirli ora: i bimbi sono come carta assorbente». E sono

loro a dare a Gian Franco le maggio-ri soddisfazioni.

Non è la prima volta, infatti, che si trova a lavora-re con gli scolari.

Un anno, a Natale, ha diretto alcuni alunni in un presepe attualizzato, con tanto di assessori di Betlemme, turisti indisciplinati e vigili urbani disperati per il parcheggio selvaggio: «un tentativo di mettere in luce positività e negatività della società, che riesce ancora meglio

se si usa il linguaggio spontaneo del dialetto». Di questo principio Zampetti ha fatto una missione: immerso nel te-atro «a 360 gradi» come attore, regista e autore, da più di 45 anni cerca di co-municare alle nuove generazioni la pas-sione per la cultura e le tradizioni della sua Umbria.

Un amore che gli è stato trasmes-so da Giovanni Moretti, il professore che accompagnava a Mantova, grande esperto di dialettologia. «Chi parla dia-letto è bilingue. E allora perché perde-re l’opportunità di riscoprire la nostra terra?» Una terra che «madre natura ha riempito di paesaggi meravigliosi e che la storia ha fatto grondare di per-sonaggi curiosi». Persino la piccola Ma-gione,«un paese che non ha neanche una piazza», ha dato i natali a tante personalità. Come Giovanni da Pian del Carpine, francescano esploratore, o Danzetta, un geografo del 1700; come Guido Pompilj e sua moglie Vittoria, la grande poetessa, cui promise di ucci-dersi se le fosse sopravvissuto.

«Un patrimonio unico che rischia di sparire. In Italia tutti parlano dialetto, ma in alcune zone, come l’Umbria, la si

La lineadel Doncadi Simona Peluso

Gian Franco Zampetti e le iniziative per proteggere il dialetto perugino

«Chi parla il dialetto è bilingue»

Gian Franco Zampetti e la sua compagnia in “Vacanze Forzate”

31 marzo 2015 | 13

Culturaconsidera una lingua da contadini igno-ranti». E dire invece che la tradizione contadina è una delle maggiori ricchez-ze della regione. Per recuperarla, nel 2006, è nata a Perugia l’accademia del Donca. «Eravamo a Pretola, un gruppo di amici, la serata era saltata perché pioveva che Dio la mandava. Abbiamo pensato di lavorare insieme per proteg-gere la nostra lingua. C’è l’Accademia della Crusca, facciamo l’accademia del tritello (cibo per galline)».

Alla fine, però, hanno optato per un’al-tra parola, quella che gli anziani usava-no per attirare l’attenzione, quando ini-ziavano a parlare. «Si chiamavano tutti i vicini, ci si riuniva nelle stalle per non avere freddo, i vecchietti accendevano la pipa e donca, partiva il racconto». E allo stesso modo Zampetti, Sadro Alle-grini e tanti altri, cominciano a racconta-re l’Umbria, in dialetto.

L’accademia può vantare sette pub-blicazioni enciclopediche e un’ opera di codificazione dialettale realizzata negli anni, lunedì dopo lunedì, alle officine del dialetto, in cui si mettevano per iscritto regole e convenzioni grammaticali. Te-nendo come riferimento scientifico Mo-retti e il suo Vocabolario della lingua di Magione, ispirandosi ai lavori di Spinelli, e Giovagnoni hanno raccolto decine di artisti e appassionati.

Zampetti ha continuato a portare in giro i suoi testi, proprio come faceva ne-gli anni Settanta, a Perugia: agli spetta-coli della domenica «c’erano così tante famiglie che la fila arrivava fin fuori». Oggi invece anche le compagnie ama-toriali tendono a snobbare il dialetto; ci sono poche rassegne e i dilettanti pre-feriscono recitare in lingua. «Un vero peccato, perché il teatro è un linguaggio universale: una volta ci siamo esibiti in perugino al teatro Cristallo di Bolzano e

abbiamo sfiorato il tutto esaurito». La commedia rappresentata è stata ria-dattata anche da alcune compagnie del nord-est.

Così come Gian Fran-co ha riscritto altri spetta-coli dialettali: sulle pareti del suo ufficio spiccano le locandine di ogni tipo: c’è Miseria e Nobiltà di Scarpetta, Stasera pago io di Eduardo de Filippo, persino il Miles Gloriosus di Plauto. Tutto sta a por-tare il racconto su un pia-no vicino al pubblico: «la commedia è ambientata a Viareggio? Noi andia-mo a Fano o Senigallia, dove fanno le vacanze tanti umbri».

Riemergono così sug-gestioni dimenticate: il dialetto del Trasimeno è il più vicino al perugino puro, ma le parole cam-biano da un chilometro all’altro. «Il bambino a Tuoro è un citto e a Ma-gione un frego. Qui al lago parliamo veloce, in città la calata è lemme». Piccole grandi differenze, che arricchiscono una lingua in grado di evolversi. «Nel periodo in cui tanti magionesi emigravano in Francia c’era gente che mischiava francese e dialet-to. Una volta un semplice «mais non» di un signore appena tornato fu scambiato per un menò: nessuno capiva chi voles-se picchiare tra i presenti».

La porta dell’ufficio, intanto, si apre: entrano un paio di giovani attori a ripren-dere alcune cose. «Sono professionisti, loro. Ma anche noi della compagnia ci

divertiamo bene». Quindici o sedici per-sone che «riescono a mantenere l’asso-ciazione con gli incassi delle loro sera-te»: tanto lavoro e porte sempre aperte. Zampetti inizia a prepararsi per la sua, di serata, che ha per tema l’Umbria e il vino. Nelle prossime settimane, invece, leggerà dieci lettere tratte dal C’impan-zi, una rivista studentesca, tutta in dia-letto, che riusciva a fare satira sotto il regime fascista «perché i fascisti non la capivano».

«Anche i giovani, oggi, stanno risco-prendo il dialetto. Il problema è che spesso lo calcano troppo, o lo usano in modo strumentale. Sul web sono nati siti in perugino che puntano a far ride-re con un linguaggio triviale e volgare. Così, però, si rischia di svilire la dignità di una lingua che è capace anche di far piangere, di parlare di argomenti profondi». Per preservarla, per salva-guardarne la purezza, bisogna riparti-re proprio dai bambini. «Una volta, in una scuola, un ragazzino è venuto a cercarmi. Non vedo l’ora di tornare a casa, ha detto, adesso sono sicuro che riuscirò a capire meglio i miei nonni. Mi ha dato una delle gioie più grandi della vita».

Lo spartiacque dei dialetti, in Umbria, è considerato il fiume Tevere, che di-vide la zona dell’antica Etruria da quella che fu del regno Longobardo. Il Pe-rugino, l’Eugubino, i paesi dell’Alto Tevere risentono di progressive influenze toscane. A Città di Castello si sente qualcosa che sembra già affine alle lingue di Cesena, tanto che molti coniderano la zona come un’area di transizione tra i dialetti mediani e quelli galloitalici. Se si scende verso Terni, Todi e Mar-sciano pare di essere già Lazio: un tempo Rieti era la terza provincia dell’Um-bria e qui gli influssi arrivano a sfiorare persino il romanesco. L’Orvietano, invece,ricorda, per molti aspetti, caratteristiche tipiche del Viterbese e della Tuscia. Tra Spoleto, Assisi e Gualdo Tadino il dialetto richiama il marchigiano, con suoni vicini al fabrianese e al maceratese.

La cartina dei dialetti umbri

Gian Franco Zampetti in “Grazie Nonno” di Giovagnoni

14 | 31 marzo 2015

Cultura

Dici Perugia e pensi Festival, in tut-te le salse: dalla gigantesca fiera a cielo aperto di Eurochocolate, al

divertimento sfrenato a suon di musica di Umbria Jazz, fino a uno dei media event più importanti d’Europa: il Festival Inter-nazionale del Giornalismo.

Cinque giorni in cui il capoluogo umbro si mette sulla cartina con ospiti interna-zionali, workshop, presentazioni, docu-mentari ed altri eventi totalmente gratuiti, mirati all’approfondimento sul mondo dei media e delle notizie.

Giunto alla nona edizione, il Festival è stato da subito un evento che ha genera-to riscontri positivi, grazie alla sua acces-sibilità anche ai non addetti ai lavori, e alla grande visibilità e competenza degli ospiti via via coinvolti.

Non sempre rose e fiori però tra la città e l’organizzazione: a ottobre 2013 sembrava ufficiale la rinuncia all’edizio-ne dell’anno sucessivo, o comunque un cambio di sede, a causa della mancanza di finanziamenti. Poi l’idea di affidarsi al crowdfunding, la raccolta fondi online, e in pochi mesi vengono raccolti 115mila euro sui 10mila richiesti.

L’ingresso di partner “di peso” come Google e Amazon (che portano in dote circa 300mila euro) ha fatto il resto, per-mettendo al Festival versione 2014 nu-meri da capogiro.

Non è chiaro se quello di Arianna Cic-cone (ideatrice del Festival) sia stato un monito o una mossa studiata a tavolino per creare attenzione, fatto sta che per il 2015 i “mal di pancia” dell’organizza-zione sono stati immediatamente placa-ti, confermanto Perugia come sede della manifestazione.

Per il 2015 il menu è come al solito cor-poso: politica internazionale, problemi dell’editoria, nuovi modelli di business. Insomma una panoraminca di 360° sul futuro del giornalismo e dei giornalisti.

Tanti gli speaker non strettamente giornalisti, ma comunque collegati al mondo dei media: non possono manca-re rappresentanti di Facebook e Twitter, sempre più additati come i principali an-

tagonisti dei media classici da una par-te, e come il futuro del news reporting dall’altra.

Tra tutti i nomi colpisce però quello di Edward Snowden, whistleblower (lette-ralmente “spifferone”, ma il termine vuole avere un’accezione positiva) americano che nell’estate 2013 avviò lo scandalo Datagate, rivelando una serie di docu-menti che testimoniavano la macchina di sorveglianza globale messa in piedi dagli Stati Uniti.

Per ragioni di sicurezza parlerà via Skype (ad oggi vive in una località se-greta della Russia ed è a rischio estradi-zione) in uno speciale evento su Sorve-glianza e Privacy: senza un equilibrio tra

questi fattori sembra difficile avere una effettiva libertà di stampa.

Proprio su questo si sofferma la Cic-cone, insistendo sul fatto che la libertà di stampa sia «fortemente a rischio anche in Italia, per le leggi che mettono in diffi-coltà soprattutto i freelance perché non hanno le spalle coperte, per le pressione politiche sui media, per le mafie che co-stringono colleghi a vivere sotto scorta».

Se è vero, come dice il motto del Festi-val che “everybody learning from every-body else”, (tutti possono imparare da tutti), allora questa potrebbe essere l’oc-casione per confrontarsi con dei grandi maestri.

FraNcesco mariucci

Aspettando #ijf15Al via la nona edizione del Festival del GiornalismoSi punta a ripetere il successo (tribolato) del 2014

60mila le persone che hanno affollato le sale del festival, sempre esaurite.

250 sono stati gli eventi dell’edizione 2014 che hanno coinvolto oltre 544 relatori.

415mila visualizzazioni su facebook nei giorni del festival, con oltre 6mila tra mi piace, commenti e condivisioni.

50mila tweet sull’hashtag #ijf14, a lungo ta i top trend in Italia.

230mila minuti di visualizzazioni sulla web tv, con oltre 20mila utenti che hanno seguito le dirette web (possibile per la prima volta) degli eventi più importanti.

415mila euro raccolti per salvare l’edizione che fino a pochi mesi prima era stata data per cancellata: salvata da crowdfunding (raccolti 115mila euro) e privati, con Google e Amazon ancora oggi tra i main sponsor della manifestazione.

#ijf14: l’edizione dei record

In primo pianola libertàd’espressione, «fortemente a rischio anche in Italia»

Una panel discussion alla Sala dei Notaridurante l’edizione 2014del Festival del Giornalismo

31 marzo 2015 | 15

Cultura

Sindacalista, poeta e politico. Non bastano queste tre dichiarazioni d’amore più che di professione

per disegnare il ritratto di uno degli uo-mini più importanti del dopoguerra pe-rugino. Claudio Spinelli (1930 – 2002) è stato molto di più e a ricordarlo arriva ora un volume «Claudio. Una vita, tante vite» (Volumnia editrice), curato dal giorna-lista Gianfranco Ricci, che conobbe Spinelli da giovane e si onorò della sua amicizia per più di quarant’anni.

Era il 1960 quando Spinelli, allora semplice impiegato dell’Istituto naziona-le assistenza malattie (INAM) incrociò nei corridoi de “Il Giornale del Mattino” di Firenze un “abusivo” diciannovenne che percorrerà con lui tante tappe della vita, una conoscenza talmente intensa da meritarsi una biografia dove oltre alle sessanta interviste a persone che lo hanno conosciuto da vicino vi sono foto e particolari inediti.

Si parte dalla UIL, la sigla che Spinelli negli anni ’60 e ’70 rappresentò come segretario regionale inaugurando un cli-ma di distensione con gli altri sindacati della “triplice”.

Un clima che non piacque alle Briga-te Rosse che decisero di recapitargli nel 1972 una lettera minatoria accom-pagnata da una pallottola. Un episodio che tenne nascosto anche ai familiari più stretti, tant’è che per difendersi de-cise di prendere il porto d’armi e ac-quistare una pistola. Se ne liberò dopo quattro mesi. Non era uomo di lotta, ma di dialogo.

Un dialogo con gli altri che esplose definitivamente il 12 giugno 1980, il giorno del suo cinquantesimo comple-anno, quando decise di far uscire dai cassetti, le poesie che fino ad allo-ra aveva tenuto solo per sé: in lingua (come un campione inarrivabile del ge-nere, Sandro Penna) e in dialetto. Fu l’inizio di un grande successo: 9 libri,

450 poesie e tanti rac-conti all’insegna di rime in dialetto perugino “di città”. Testi ricchi di ri-ferimenti alla Perugia di ieri, ormai scompar-sa (venne accusato dai critici di passatismo) e alla Perugia di allora, all’insegna dell’esplo-sione urbana e della degenerazione dei co-stumi. Abituato ai palchi sindacali declamò – con successo – i suoi versi davanti al pubblico.

Una Perugia che rac-contava anche in una popolare trasmissione della domenica (come faceva – il sabato – sul secondo canale nazio-nale, un concittadino ce-lebre che lo seguiva da lontano: Enrico Vaime): Radio Testa in onda su Radio Aut dalle 9.45 alle 12.45. In una mattinata

fredda a pochi giorni dal Natale – il cli-ma era all’insegna della bontà – arrivò una chiamata di una signora piuttosto alterata che si lamentò perché nessuno si occupava degli anziani della casa di riposo di Fontenuovo. Spinelli si allon-tanò per quindici minuti e tornò al micro-fono per dedicare una poesia che com-mosse gli ascoltatori che subissarono di telefonate il centralino della radio.

Resta inoltre agli atti della radiofonia umbra una divertente discussione con un assessore, il socialista Giacomo Santucci del PSI. sulla marchesa Ma-rianna Florenzi, amante di Ludovico I di Baviera che ospitò spesso nella villa di campagna “La Colombella”, nei dintorni di Perugia.

Mentre Spinelli elogiava la donna, fi-gura intellettuale di primo piano e dama dei salotti, Santucci si lasciò andare in diretta a un insulto nei confronti della malcapitata.

Repubblicano da sempre come il suo maestro, l’antifascista Guglielmo Milioc-chi, è stato l’interprete umbro del mes-saggio del segretario del PRI, Ugo La Malfa, arrivando nel 1991 alla presiden-za del Consiglio regionale.

Lascia la politica nel 1995 e viene no-minato presidente dell’Accademia delle Belle Arti «Pietro Vannucci».

Laico ma non miscredente, divenne amico del parroco di Montebello don Egidio Giulietti (zio dell’attuale vescovo ausiliario Paolo Giulietti) accettando in punto di morte l’unzione degli infermi. Nel 2012 Perugia gli ha dedicato l’ex via dell’Arco.

rubeN KahluN

Le tante vite di Claudio:poeta, politico, sindacalistaArriva nelle librerie il volume di Gianfranco Riccidedicato a Spinelli, cantore e censore di Perugia

1961: prima Marcia della Pace ideata da Aldo CapitiniSpinelli (al centro, in camicia bianca) è tra i principali

collaboratori del filosofo perugino

Claudio Spinelli in un ritratto di Serena Cavallini

Quattro colonneSGRT Notizie

Periodico del Centro Italiano di Studi Superioriper la Formazione e l’Agg.to di Giornalismo Radiotelevisivo

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Redazione degli allievi della Scuolaa cura di Sandro Petrollini

In redazionePaolo Andreatta, Iacopo Barlotti, Alice Bellincioni, Alessia Benelli, Simone Carusone, Gianluca De Rosa, Davide Denina, Marco Frongia, Davide Giuliani, Ruben Kahlun, Maria Giovanna La Porta, Elisa Marioni, Francesco Mariucci, Giulia Paltrinieri, Simona Peluso, Valerio Penna, Giulia Presutti, Giacomo Prioreschi, Valentina Russo, Alessandro Salveti, Maria Teresa Santaguida, Lorenza Sbroma Tomaro, Nicoletta Soave, Dario Tomassini, Nicola Tupputi

Anno XXIVnumero 6 – 31 marzo 2015

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Sette secoli separano Dante Ali-ghieri da Albert Einstein, e nulla in apparenza accomuna i due

geni: diverse culture, origini e religioni. Eppure la struttura del cosmo defini-ta negli ultimi canti del Paradiso corri-sponde alla figura geometrica elaborata dal fisico tedesco in conclusione della teoria della relatività. Il punto di luce e le sfere angeliche che nella Commedia circondano l’universo e al tempo stesso ne sono circondate, ricalcano l’ipersfe-ra che Einstein teorizzò nel 1917, e che ancora oggi resta compatibile con le più recenti misure cosmologiche.

Delle due culture, scientifica e uma-nistica, e del loro possibile incontro, si

parlerà dal 9 al 12 aprile in una delle se-zioni della Festa di scienza e filosofia, che non a caso fa suo il motto “virtute e canoscenza”. Le altre aree tematiche sono: vero e falso nella comunicazio-ne scientifica, cervello e mente e infine scienza, pace e futuro.

Foligno si prepara ad ospitare per quattro giorni alcuni dei più illustri scien-ziati e filosofi mondiali. Una sezione speciale della kermesse sarà dedicata al tema “Dante e la scienza”, proprio nel-la città in cui, nel 1472, il proto-tipografo Giovanni Numeister diede alla luce la prima edizione a stampa della Divina Commedia. Inoltre quest’anno ricorre il 750° anniversario della nascita del poe-

ta fiorentino. La manifestazione è l’unica in Italia a miscelare scienza e filosofia nello stesso contenitore. Un cocktail che piace, a giudicare dai 25mila spettatori che, nella scorsa edizione, hanno rag-giunto Foligno da tutta Italia per ascolta-re Cacciari, Galimberti, Boncinelli, Batti-ston e molti altri illustri relatori.

Un risultato sorprendente, ottenuto con un costo limitato rispetto ad altre manifestazioni: poco più di 100mila euro. Un successo assicurato non solo dal valore degli ospiti, ma anche dal la-voro di tanti volontari convinti che Fo-ligno non viva solo di Primi d’Italia e Quintana.

Dario tomassiNi

Foligno, da Dante a EinsteinTutto pronto per la Festa di scienza e filosofia, dove le culture si incontrano

Alcuni ragazzi impegnatinell’organizzazione della Festa